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Enrico Caldari

Q LIFE – LIBERI DAL SISTEMA


La Guida per Cambiare il Mondo Partendo da Sé

ISBN 9788890966590

© 2014 Q Institute

Prima edizione: Dicembre 2014

Tutti i diritti sono riservati

Coordinamento editoriale: Enrico Caldari


Editing: Silla Gambardella
Fotografia in quarta di copertina: Martine Gallo
Progetto grafico: Tatticadv.it
Impaginazione e realizzazione editoriale: EDI.MAT sas, Bologna
Stampa: Pointer srl, Dogana (RSM)

Q Institute
Cambiare il mondo, partendo da sé
via Rivo Fontanelle 64 – 47892 Acquaviva (RSM)
www.qinstitute.sm

Liberi dal Sistema®, RQI®, Metodo RQI®, Auto-Star-Bene®, Acqua Informazionale®,


Alimentazione Vibrazionale®, Biotecnologie Olistiche® sono marchi depositati ad
utilizzo esclusivo di Q Institute. È vietata ogni forma di utilizzo o sfruttamento com-
merciale non autorizzata.
indice

PREMESSA xi

INTRODUZIONE
Il significato della «Q» 1

Capitolo 1 – COS’È IL DENARO? 7


Parte prima – Le origini del nostro sistema monetario 14
Ricchi premi per poveri 15
L’alchimia del denaro 16
Riserva e riservatezza 21
Attenzione alle scimmie rosse 25
III
Teorie del complotto 27
Carte di grande valore 32
Quando la banca sbanca 34
La chiusura della finestra d’oro 38
Dorata ignoranza 41
Valore intrinseco e valore simbolico 44
Parte seconda – Denaro e crisi 48
Chi decide i dati 51
PIL, droga, contrabbando e prostituzione 53
Fabbriche di debiti 54
La rivelazione della Bank of England 57
Lotte e paradossi 58
Divide et impera 60
Distruzione monetaria 62

Capitolo 2 – CAMBIARE DENARO PER CAMBIARE IL


MONDO 70
Alieni nella manica 69
Attività produttive vs. attività speculative 74
La regola per cambiare il sistema 77
Proposte, non proteste 79
Misurare la felicità 84
Meritarsi la ricchezza 87

Capitolo 3 – COME RENDERSI LIBERI 91


I cinque ambiti di Indipendenza 93
Il Test di Indipendenza dal Sistema 96
Compila il Q test 98
E tu, sei una scimmia rossa? 99

Capitolo 4 – AUTO-STAR-BENE 103


Parte prima – L’industria della salute 106
Fabbriche di malati 113
Curare o ammalare? 119
Multe salate 122
Buone cure e buoni affari 123
Tutta colpa dei virus 126
Se lo conosci lo eviti 130
IV
Rischio pandemia 134
I 4 magnati 136
Parte seconda – Il Metodo RQI® 140
Le basi del metodo 146
Impara ad Auto-Star-Bene 153

Capitolo 5 – INDIPENDENZA ALIMENTARE 156


La rivoluzione verde 157
Biodiversità sacrificata 159
Controllare la terra 162
Il mercato dei semi 165
Dalla guerra alla terra 167
Il vento sparge i semi 167
Il riso italiano 168
Affari in tavola 169
Ritornare alla terra 174
Cibo e buoi dei paesi tuoi 176
Semi, un progetto artistico 177
Come ti procuri il cibo? 181

Capitolo 6 – INDIPENDENZA ENERGETICA 185


Picchi indolori? 188
Attaccati al gas 190
Energia gratuita e pulita 193
Dare il buon esempio 197
Il più grande genio del ventesimo secolo 198
Fatti per durare 200
Il compleanno di una lampadina 203
Auto elettriche vecchie 100 anni 204
L’auto più ecologica 209
L’energia orgasmica 211
Brevetti di interesse nazionale 216
Cialtroni e ciarlatani 217
Stelle in barattolo 221
11 settembre e free energy 224
Sei attaccato al gas? 231
V
Capitolo 7 – INDIPENDENZA FINANZIARIA 235
Tutti inquadrati 247
La piramide lemuriana 250
Imprese illuminate 254
Attivi e passivi 258
Liberi dallo Stato 263
Quanto sei libero dal denaro? 268

CONCLUSIONI 273
La lotta tra il bene e il male 273
Come cambiare il mondo 275
Il miglior investimento 277

Appendice – IL PERCORSO Q LIFE 280


I corsi avranno presto ingresso libero 288

RISORSE UTILI 291


A Giulia, Margherita, Edoardo e Gabriele,
che mi ricordano ogni giorno che ne vale la pena.
Un giorno ci fu un incendio nella foresta.
Tutti gli animali, dal più piccolo al più grande, cominciarono
a fuggire.
Persino il leone si mise in fuga, e mentre fuggiva incrociò un
colibrì, con una goccia d’acqua nel becco, che volava nella
direzione opposta.
Il leone chiamò il piccolo volatile a gran voce: «Colibrì, coli-
brì, non vedi l’incendio? Scappa anche tu! Cosa credi di fare
con quella goccia d’acqua nel becco?».
Ma il colibrì, continuando a volare verso le fiamme, lo guar-
dò e rispose serio:
«Non so voi, ma io faccio la mia parte».
PreMESSA

Mettetevi comodi. Sedetevi sulla vostra poltrona preferita.


Rilassatevi e dimenticate quello che ha portato la vostra at-
tenzione sul titolo di questo libro e che vi ha spinto a iniziarne
la lettura.
Sappiate però che, una volta che lo avrete letto, non torne-
rete più indietro. Una volta che avrete imparato tutto quello XI
che c’è da sapere in queste pagine, non potrete più fare finta
di niente.
La nostra società ha smesso da tempo di funzionare come
dovrebbe. E ogni giorno ci chiediamo se sia possibile fare
qualcosa per cambiarla, e come. Il problema è che noi igno-
riamo come la società sia arrivata a diventare quella che è,
perché ne ignoriamo il vero funzionamento.
Lo scopo di questa guida è quello di portarci a comprendere
quali meccanismi muovono il Sistema in cui viviamo, nei suoi
diversi ambiti (l’economia, la finanza, il sistema sanitario e
l’industria farmaceutica, la produzione e la distribuzione del
cibo, l’approvvigionamento di energia...).
Una volta che lo comprenderete, non potrete più stare a guar-
dare o fare finta di niente. Dovrete prendere una decisione:
continuare così come avete sempre fatto, o cambiare.
Comprenderete che il Sistema non potrà cambiare dall’al-
to, perché è proprio grazie a ciò che sta «in alto» che esso
continua a funzionare così come sta facendo ora, ma dovrà
cambiare dal basso, dal suo tessuto connettivo, da tutti noi,
singoli individui: da me e da voi che leggete. Ognuno deve
fare la sua parte e – parafrasando Gandhi – essere il cambia-
mento che vorrebbe vedere nel mondo.

Ora, restando comodi lì dove siete, seguitemi in questa prima


riflessione: pensate al vostro nucleo abitativo, alle persone
del condominio in cui vivete (se vivete in un condominio), a
quelle del quartiere, del paese e della città in cui risiedete.
Quanti uomini e quante donne ci sono?
Quanti bambini, quanti adulti in età lavorativa e quanti già
pensionati?
XII Quanti hanno una laurea? Quanti un diploma professiona-
le? Quanti hanno assolto solo la scuola dell’obbligo e quanti
nemmeno quella?
Quanti sono originari di quel posto, quanti vi sono immigrati
negli ultimi dieci anni? Quanti appartengono alla stessa razza
e quanti ad etnie diverse?
Chi di voi è ateo? Chi è cattolico? E chi musulmano?
Quanti sono di centro-destra? Quanti di centro-sinistra?
Quanti si disinteressano di politica?

Come potete constatare, le diversità sono molte. Tante quan-


te le mie domande.
E se provassimo a cambiare le domande?
Ad esempio: quante di queste persone sono esseri umani?
Quante vivono sul pianeta Terra?
Quante desiderano una vita felice?
Quante amano i propri cari?
Quante vorrebbero lasciare ai propri figli e nipoti un mondo
migliore?
Vedete che, cambiando le domande, non siamo poi così di-
versi…

Nel mondo, purtroppo, ci sono persone che si stanno facen-


do la guerra, proprio ora, semplicemente perché si stanno
ponendo le domande sbagliate. Perché tutti loro sono esseri
umani, abitano il pianeta Terra, vorrebbero essere felici, vor-
rebbero che i propri cari fossero felici e vorrebbero lasciare
un mondo migliore ai propri figli e nipoti. Ma, facendosi le
domande sbagliate, sono stati indotti a farsi la guerra tra loro,
pensando di avere interessi diversi.

Questo libro nasce dalla necessità di farci le domande giuste. XIII


E di darci le risposte efficaci per cambiare il mondo in cui
viviamo, partendo da noi stessi, per trasformare la Terra nel
Paradiso che ogni bambino si merita.

Compreso quello che è in ognuno di noi.

Buona lettura!

Enrico Caldari
«Avete letto i giornali oggi? Persone in tutto il mondo si
impegnano a stare al gioco, vittime della società moderna.
Le circostanze ci hanno portato qui. L’Armageddon ci sta ar-
rivando vicino, molto vicino. La lungimiranza è l’unica chiave
per salvare il destino dei nostri bambini. Le conseguenze so-
no serie, molto serie, ora. Gli ipocriti, noi siamo loro schiavi.
Quindi amici, per fermare la fine, dobbiamo contare gli uni
sugli altri. […] Fermiamo quello che sta succedendo. Dobbia-
mo svegliare il mondo dal suo sonno. […] Uomini avidi hanno
ucciso tutta la vita che c’è sempre stata. È meglio compor-
tarsi secondo natura, o la natura ci porterà via tutto. Non
provate a dirmi che ne sappiamo più di lei, sul distinguere
tra il bene e il male. […] Dobbiamo svegliare questo mondo
dal torpore. Gente, fermate quello che sta succedendo. […]
Io vi sto chiedendo: quando impararete a fermare quello che
sta succedendo?»
Jamiroquai (When You Gonna Learn, 1993)
INTRODUZIONE

«Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa in


che porto è diretto.»
Seneca

«Non preoccuparti di cosa chiunque altro stia facendo.


Il miglior modo per prevedere il futuro è crearlo.»
Alan Kay
1

«Qual è il tuo obiettivo nella vita?»


Quante volte vi siete sentiti fare questa domanda? E cosa ave-
te risposto? Se come ho iniziato a fare io qualche tempo fa,
con ironia e spirito di provocazione, iniziaste a rispondere «il
mio obiettivo è cambiare il mondo», vi divertireste anche voi
a vedere le reazioni che questa affermazione può suscitare. La
cosa più stimolante è che in queste reazioni è sempre possibi-
le trovare l’apprezzamento di chi comprende che quella che
sembra una battuta in realtà dovrebbe non esserlo.
Ognuno di noi è consapevole di essere un ospite tempora-
neo su questo pianeta, e che prima o poi dovrà lasciare po-
sto a chi lo seguirà. Un ospite educato sa che la casa che lo
accoglie andrà lasciata come o meglio di come l’ha trovata.
Eppure è difficile ricordarselo e farne una priorità, presi come
siamo ad armeggiare con la quotidianità, le tasse, l’affitto o
il mutuo da pagare. Io stesso l’avevo dimenticato. È stato il
piccolo grande miracolo di una nascita – quella dei miei primi
nipoti, due vivaci gemellini – a risvegliare in me l’esigenza
di riportare in alto questa priorità: cambiare il mondo per
renderlo un posto migliore, per loro e per chiunque altro.
Avendo acquisito una certa consapevolezza dei problemi che
lo affliggono, leggendo negli anni centinaia di libri e articoli
che li descrivono, il primo vero passo è stato comprendere
che per cambiare il mondo occorre prima di tutto cambiare
se stessi. La nostra mente e la nostra coscienza sono il nostro
spazio vitale, ancor prima del nostro corpo e del pianeta che
ci ospita, e cambiarli è il primo passo per cambiare il mondo
che ci circonda.
Dopo aver vissuto per dieci anni dividendomi tra lavoro, viaggi
2 e mille altri impegni, alcuni anni fa ho deciso di «prendere del
tempo per me stesso», allontanandomi anche fisicamente dal-
la mia routine quotidiana, trasferendomi all’estero per alcuni
mesi. «Che lavoro fai?» è una domanda ancora più comune,
che ci si sente fare spesso, soprattutto quando si incontrano
persone nuove, magari dall’altra parte del pianeta. Con altret-
tanta ironia e spirito di provocazione la mia risposta in quel pe-
riodo è iniziata a essere: «Lavoro su me stesso!». E lo è tuttora.
Oltre che grazie allo studio e al confronto con gli altri, è stato
attraverso il lavoro su me stesso che sono arrivato a conqui-
stare quella preziosa consapevolezza che ho poi condiviso con
migliaia di persone attraverso la mia attività divulgativa. Una
preziosa consapevolezza che mi accingo a condividere an-
che nelle pagine di questo libro: la soluzione ai problemi del
mondo esiste ed è estremamente semplice da comprendere.
Raggiungere la consapevolezza che una soluzione semplice
esiste è il primo passo. Questo libro vuole aiutare voi e tutte
le persone a cui lo consiglierete o lo regalerete a fare questo
primo passo, innanzitutto dandovi gli strumenti per compren-
dere come funziona la nostra società nei suoi vari ambiti, a
ciascuno dei quali ho dedicato uno specifico capitolo: denaro,
salute, alimentazione, energia ed economia.
Acquistare fiducia nella nostra capacità di cambiare il mondo
sarà il secondo passo da fare. E sarà questa fiducia a creare
le condizioni per applicare le diverse soluzioni descritte in
queste pagine. Questo libro vuole essere anche un manuale
pratico e darvi strumenti concreti. Acquistare una tale fiducia
in noi stessi e creare le condizioni per applicare un cambia-
mento radicale nelle nostre vite non sarà sicuramente facile
(dire che una soluzione semplice esiste non vuol dire che sia
facile applicarla), ma è un percorso possibile.
Come ho già scritto nella Premessa, in un percorso di con- 3
sapevolezza e di cambiamento (sia interiore che esteriore) è
fondamentale farsi le domande giuste. Uno degli strumenti
che vi aiuterà a farvi le domande giuste è il «Q Test», il test di
indipendenza dal Sistema, che raccoglie anni di ricerca e ha lo
scopo di aiutarvi a comprendere in modo consapevole quali
sono gli ambiti della vostra vita nei quali siete ancora «dipen-
denti dal Sistema» e sui quali dovrete lavorare per rendervi
indipendenti e per cominciare a dare valore al vostro tempo
e ai vostri sogni.

IL SIGNIFICATO DELLA «Q»


Il Q Institute, che ho co-fondato a San Marino, è il primo
istituto al mondo nato per diffondere conoscenze e tecni-
che per stare bene e rendersi indipendenti e felici.
Q Life è il Percorso che mira a rendere chiunque Libero
dal Sistema.
Q Test è il Test di Indipendenza dal Sistema.
Cosa c’entra la Q?
I suoi significati sono molteplici.
La «Q» ricorda il suono Qi, Chi o Ki, che nella filosofia orien-
tale simboleggia la nostra energia vitale.«Q» è anche la
trascrizione occidentale del suono «Ku», che in sanscrito
significa «Uno», ma anche «Terra». L’intento di Q Institute
è quello di riportare l’Unità nel mondo «duale» nel quale
viviamo (e che presto è destinato a cambiare). Possiamo
farlo ricordandoci ad esempio che siamo abitanti di questa
Terra, che dobbiamo rispettarla e preservarne le risorse. La
«Q», inoltre, sempre in sanscrito rappresenta il «Divino» che
è dentro di noi. Se cominciamo a cercare risposte dentro di
4
noi anziché all’esterno, arriveremo davvero alla nostra vera
essenza e saremo davvero consapevoli di chi siamo e di
quello che è il nostro compito come esseri viventi. Proprio
per questo la «Q» è per noi anche simbolo di «Coerenza»:
quella Coerenza tra le proprie idee e le proprie azioni che
è indispensabile per realizzarci come persone.
Inoltre, «Q» significa «base della piramide», così come vie-
ne definita in geometria analitica.
La piramide è metafora della nostra società. Spesso ci aspet-
tiamo che i cambiamenti sociali arrivino dall’alto, dai ver-
tici: dai nostri governanti o dai nostri politici. Purtroppo
raramente è così. Le grandi rivoluzioni (intese come cam-
biamenti positivi atti a migliorare il Sistema) sono partite
sempre dal basso, dall’iniziativa di singole persone «Coe-
renti». E infatti l’augurio proposto dal Q Institute attraverso
il Percorso Q Life è quello di cominciare prima di tutto a
cambiare noi stessi, singoli individui alla base della pirami-
de, per cambiare poi la società intorno a noi.
Cambiare il Sistema dalla base vuol dire ricordare la nostra
responsabilità individuale. Lamentarsi e stare a guardare
serve solo a giustificare il Sistema in cui viviamo. Q In-
stitute mira a offrire a tutti gli strumenti per essere più
consapevoli delle scelte che si fanno ogni giorno, renden-
dosi liberi nel sapere e nella cultura, nel gestire la propria
salute fisica ed emotiva, nell’alimentazione e nell’approv-
vigionamento di energia, nel lavoro e nell’impresa, fino ad
essere davvero indipendenti, anche dal denaro.
Perciò «Q» vuol dire «Indipendenza», e «Q Life» è la vita
vera, una vita Liberi dal Sistema.

n Uno 5
n Terra
Q
n Divino
(dal sanscrito, KU)
n Coerenza
n Indipendenza

Siete già convinti anche voi di poter cambiare il mondo, oppu-


re credete che i problemi dell’umanità all’inizio del terzo mil-
lennio siano davvero insormontabili? Se noi stessi pensiamo di
non poterla vincere, allora la battaglia è già persa in partenza.
Se e quando invece la maggior parte di noi sarà convinta di
poter cambiare il mondo, allora troveremo il modo di farlo, il
modo di trasformare questo Pianeta in un vero Paradiso, per
noi e per chi ci seguirà.
È una questione di fiducia e di coraggio.
Ora prendiamoci per mano e cominciamo.
1 COS’È il denaro?

«Io credo che le istituzioni bancarie siano più pericolose per la


nostra libertà di quanto non lo siano gli eserciti permanenti.»
Thomas Jefferson

È da alcuni anni, precisamente dal 2005, che mi occupo di


sistemi monetari e di sostenibilità. Prima di questo – e tutto- 7
ra oltre a questo – anch’io mi sono sempre dato da fare per
«sbarcare il lunario» e «guadagnarmi da vivere», lavorando e
investendo i soldi che ho guadagnato, cercando come tutti
un modo per «fare qualche soldo in più» e «togliermi qualche
sfizio». Ho messo volutamente tra virgolette questi modi di
dire comuni che tutti usiamo spesso quando si parla di soldi.
Proprio perché passiamo la maggior parte della nostra vita
adulta indaffarati a cercare di portarne a casa di più – o per-
lomeno abbastanza – credo valga la pena per ognuno di noi
sapere davvero cos’è il denaro. È questo il titolo che ho scelto
per le conferenze che negli scorsi anni ho portato in giro per
l’Italia, e non solo, cui migliaia di persone hanno assistito di
persona o via Internet: «Cos’è il denaro?». È una domanda
che pochi si fanno, spesso dandola per scontata, a cui trove-
rete la vera risposta continuando a leggere.
Poco prima che il crollo della Lehman Brothers stroncasse sul
nascere le mie aspirazioni a lavaorare per una investment bank
di Londra, oltre sei anni fa, decisi di affrontare questo fonda-
mentale quanto sottovalutato quesito – «Cos’è il denaro?»
– interrogandomi non più sulla quantità di denaro che stavo
guadagnando col mio lavoro o coi miei investimenti, ma sulla
sua natura e sulle sue qualità, quindi sulle vere caratteristiche
di quei «soldi» che tutti noi usiamo per vivere.
Come faccio durante le mie conferenze, vorrei iniziare col
porre qualche domanda a voi che stringete in mano questo
libro, domande su cui potrete soffermarvi per qualche istante
prima di proseguire. La prima domanda è la seguente: quanti
di voi lavorano o hanno lavorato per una banca? Qualcuno
sicuramente. Volendo allargare il quesito: quanti di voi cono-
scono qualcuno che lavora o che ha lavorato per una banca
8 (come io stesso aspiravo a fare anni fa)? Un parente, un amico,
un vicino di casa? Soffermatevi un attimo e memorizzate la
risposta che vi siete dati, perché vi porrò ancora questa do-
manda nel corso della lettura.
La seconda domanda che vorrei porvi – un po’ più «filoso-
fica» – è la seguente: secondo voi, il denaro è un mezzo
o un fine? Chiedetevelo e siate sinceri nella risposta. Forse
che qualcuno di voi vive per accumulare pile di banconote
colorate o monete luccicanti, e magari per nuotarci dentro
nel suo deposito, ispirato fin dall’infanzia da un noto papero
dei fumetti? Se così fosse si tratterebbe di una curiosa psicosi,
meritevole dell’interessamento di un buon analista, una forma
di feticismo peraltro difficile da realizzare letteralmente, oggi
che la maggior parte dei nostri soldi sono «conservati» come
byte nella memoria digitale di supercomputer, e che recenti
«restrizioni» ne vietano addirittura il passaggio fisico «di mano
in mano» per cifre superiori a 999 euro (decreto legge n° 201
del 6 dicembre 2011, approvato dal governo Monti). Non do-
vremmo avere dubbi sul fatto che il denaro è un mezzo, uno
strumento utile per «agevolare» alcune fondamentali attività
e aspetti della nostra vita, non certo un fine in se stesso.
Per questo la terza importante domanda che vi pongo, più
«pratica» e meno «filosofica» della precedente, è: a cosa ser-
ve il denaro? Tutti dovreste essere in grado di rispondere e
di riassumere in un paio di frasi le sue funzioni fondamentali.
Provate a farlo. Qual è la prima funzione del denaro che vi
viene in mente? Cosa fate principalmente coi soldi che avete
in tasca? Sicuramente li spendete, per acquistare beni e ser-
vizi. Agevolare lo scambio e la misura del valore, e quindi il
commercio di beni e servizi, è proprio la sua prima funzione. È
molto più semplice scambiarsi beni utilizzando un mezzo stan-
dardizzato e oggettivo di misura del valore, piuttosto che col 9
semplice baratto. Lavoro e beni possono essere scambiati in
maniera molto più agevole se vengono prima convertiti in una
quantità di denaro definita. Così, se foste un contadino degli
inizi del ventesimo secolo potreste vendere un uovo prodotto
dal vostro pollaio e col ricavato, ad esempio una lira, comprare
un chilo di farina o un quartino di vino, senza essere costretti
a girare per negozi e osterie con le tasche piene di fragili
embrioni (o, peggio ancora, con qualche gallina al seguito).
Ma c’è una seconda funzione altrettanto importante cui assolve
il denaro. Cosa fate col denaro ogni qualvolta non lo spendete?
Lo conservate. O perlomeno di questi tempi ci provate.
La seconda funzione fondamentale del denaro è proprio quel-
la di mantenere nel tempo, per un utilizzo futuro, il valore che
non «spendete» ora. Tornando al contadino degli inizi del
ventesimo secolo, non c’è dubbio che gli sarà più comodo
conservare una moneta o una banconota piuttosto che un
uovo appena deposto da una sua gallina, per farne ciò che
vorrà nei mesi a venire.
Agevolare lo scambio e la misura del valore (commercio) e
fungere da riserva di valore (risparmio) sono le due principali
funzioni della moneta che trovate descritte in qualsiasi testo
di economia. Riflettendo su queste due funzioni di base e
osservando il mondo che ci circonda emergono però alcune
anomalie nel denaro che usiamo oggi, o meglio alcune ano-
malie nel modo in cui il denaro di oggi svolge queste funzioni
fondamentali per cui è stato pensato in origine.
Riguardo alla prima funzione del denaro – scambio e misura
del valore – ci basta alzare gli occhi dalla nostra realtà locale
per renderci conto che, se il nostro spazio d’azione non è so-
lo il mercato di quartiere dove compriamo frutta e verdura il
10 giovedì mattina, oggi questa prima funzione è in realtà svolta
in modo piuttosto inefficace. Osservando, ad esempio, l’an-
damento del cambio euro-dollaro, possiamo renderci conto
che è piuttosto comune avere una fluttuazione nel rapporto
di cambio tra una valuta e l’altra anche del 10% in pochi mesi.
Per chi compra merci in dollari e le rivende in euro una flut-
tuazione del genere si traduce in una perdita proporzionale
di valore della merce acquistata, in pochi mesi e in maniera
non prevedibile. Questa fluttuazione del cambio si somma alla
normale variazione di valore delle merci, e non facilita il lavo-
ro di un commerciante o di un’impresa, in particolare di un
piccolo commerciante o di una piccola impresa, che non ab-
biano a disposizione sofisticati strumenti di «diversificazione
del rischio» (assicurazioni, swap o «derivati») che sono invece
tipicamente adottati dalle grandi multinazionali su consiglio
di preparatissimi consulenti finanziari.
Ma è proprio impossibile pensare di avere un rapporto di
cambio fisso tra valute di paesi diversi? O meglio, è davvero
sempre stato impossibile?
Forse non tutti sanno (o hanno dimenticato) che, nel secondo 11
dopoguerra, a seguito dei famosi accordi di Bretton Woods le
principali valute del mondo occidentale erano tra loro legate
da un rapporto di cambio fisso. Dollari, franchi, marchi, lire
e sterline, ad esempio, potevano essere scambiati tra loro a
tassi fissi, permettendo anche a un piccolo commerciante di
scambiare merci e denaro in maniera efficiente e senza va-
riazioni repentine di valore, annullando il «rischio di cambio»
pur lavorando tra paesi con valute diverse. Ciò garantiva quel
genere di stabilità che i governanti dei paesi occidentali deci-
sero di costruire, trovandosi a ridefinire insieme i regolamenti
e gli equilibri monetari internazionali dopo la seconda guerra
mondiale. Per quanto chi come me, nato dopo la seconda
metà degli anni 1970, non ne abbia ovviamente alcuna me-
moria diretta, è esistito un tempo in cui i giornali europei non
riportavano quotidianamente un aggiornamento sul cambio
dollaro/sterlina o lira/marco, perché quel rapporto di cambio
era ogni giorno lo stesso. E così quello tra la maggior parte
delle valute occidentali.

Se il denaro di oggi non assolve in maniera efficace la funzio-


ne di scambio e misura del valore in una prospettiva interna-
zionale – come invece riuscì a fare fino ai primi anni 1970 –
anche pensando alla sua seconda funzione, quella di «riserva»
di valore, è facile rilevare un’altra evidente anomalia.
Guardando i dati riportati dall’Ufficio del Lavoro statunitense,
che misurano il calo di valore del dollaro applicando il tasso
ufficiale di inflazione (cioè, la percentuale annua di perdita
di valore di acquisto del dollaro nei confronti di beni reali),
quello di cui ci rendiamo conto è a dir poco spiazzante. Per
comprare quello che un secolo fa, nel 1913, si poteva compra-
12 re con meno di 44 dollari (ad esempio, un bel completo di alta
sartoria) oggi ci vorrebbero almeno 1000 dollari. Detta in altri
termini il dollaro, la principale valuta occidentale, utilizzata
tuttora come «riserva» dalle banche centrali di tutto il mondo,
ha perso in un secolo circa il 96% del suo valore.
Nonostante questo meccanismo non sia così chiaro alla mag-
gior parte di noi, è evidente che il denaro di oggi è tutt’altro
che efficace come strumento di riserva di valore. Potremmo
dire che conservarlo sotto il materasso sia una scelta quanto
mai anacronistica e certo non ottimale. Agli attuali tassi di in-
flazione ufficiale il denaro che usiamo perde valore abbastan-
za velocemente. Se poi al posto del «paniere» Istat – secondo
cui, nonostante benzina e materie prime aumentino anche
del 20% l’anno, l’inflazione ufficiale non è mai più di qualche
punto percentuale – consideraste la vostra percezione per-
sonale del potere d’acquisto, allora forse vi rendereste conto
del fatto che negli ultimi 10 anni l’euro ha perso valore molto, 13
molto velocemente.
Questa fondamentale inefficacia del denaro che usiamo og-
gi nell’assolvere pienamente alle sue due funzioni principali
(commercio e risparmio), così come definite intuitivamente da
ogni persona di senso pratico e come descritte in ogni libro
di economia, mi ha spinto a mettere insieme una serie di ar-
gomentazioni che sono frutto di un lavoro di semplificazione
e sintesi partito dalla lettura di decine di testi sul tema, alcuni
dei quali anche molto tecnici e complessi. Per comprendere
l’evidente idiosincrasia tra la natura attuale del denaro e le
sue finalità «dichiarate», partirò col descrivere le origini del
sistema monetario occidentale.
E lo farò nelle prossime pagine in una modalità che nessuno
ha mai utilizzato prima: immaginando di rivolgermi a un bam-
bino di otto anni.
Se per comprendere il denaro che utilizziamo oggi occorre pri-
ma capire com’è nato e come il nostro sistema ha avuto origine,
sono ancora più convinto che debbano capirlo davvero tutti.
Finché ci saranno persone (uomini comuni, politici, giorna-
listi o tecnici) convinti di non poter capire il denaro e la sua
origine, per via di una sua non meglio precisata «complessità
di funzionamento», allora ci sarà sempre qualcuno capace di
convincerci che è meglio che sia qualcun altro a occuparsene.
Ad esempio un governo di «esperti», professori di econo-
mia monetaria ed ex banchieri, oppure una banca centrale o
un organismo internazionale privo di controllo popolare, con
piena autonomia e una sorta di delega cieca e incosciente da
parte dei singoli Stati e dei singoli cittadini.
Occorre spiegare il denaro in maniera semplice, in un modo
che tutti possano comprendere. Ciò permetterà di dimostra-
14 re a qualunque lettore, sia esso un raffinato economista o
un «cittadino qualunque», che la comprensione di quello che
ancora oggi pare un argomento da professori universitari o
analisti finanziari – cioè, le origini e il funzionamento del no-
stro sistema monetario e il suo legame con la crisi che stiamo
vivendo – in realtà sia un tema alla portata di tutti, perfino di
un bambino di otto anni.

PARTE PRIMA – LE ORIGINI DEL NOSTRO SISTEMA


MONETARIO

Avete idea di quanto pesi il lingotto rappresentato nella foto?


Per darvi un’idea sappiate che misura circa 24 x 8 x 4 cm, cioè
è lungo più o meno come una scarpa da donna, numero 37
e mezzo.
Pesa un chilo? Tre chili? Cinque chili?
Pesa molto di più, cioè quanto una confezione da sei bottiglie
d’acqua da due litri: oltre dodici chili. L’oro è più «denso» del 15
piombo e maneggiare un oggetto del genere implicherebbe
un notevole sforzo fisico.
Ora, quanto vale oggi un lingotto come quello?
10 000 euro? 50 000 euro? 100 000 euro? Chi offre di più?
Ve lo dico io: quel lingotto vale almeno quanto una graziosa
villetta sui colli, cioè circa 400 000 euro.
È impossibile capire il nostro attuale sistema monetario senza
comprendere il suo legame con l’utilizzo che da secoli, addirit-
tura da millenni, l’uomo ha fatto dell’oro (e dell’argento) come
«valore monetario». Nei romanzi per ragazzi i forzieri dei pirati
contengono sempre monete d’oro. Questo metallo prezio-
so rappresenta il «valore monetario» per eccellenza nell’im-
maginario collettivo. Il suffisso gold viene ancora utilizzato a
profusione nella comunicazione commerciale, arricchendo il
nome di servizi finanziari e prodotti di lusso, per trasmettere
ai potenziali clienti una sensazione di esclusività e di sicurez-
za. Mio nonno ricorda tuttora di aver utilizzato da giovane
monete d’argento da cinque lire, che custodiva gelosamente
raccolte in piccoli cilindri fasciati, prima che le ben più como-
de banconote ne prendessero il posto nel suo portafogli.

RICCHI PREMI PER POVERI


Fino a pochissimo tempo fa persino nei giochi a quiz si vin-
cevano ancora come premio i cosiddetti «gettoni d’oro».
La televisione commerciale pare abbia una certa vocazione
a utilizzare simboli monetari del passato. Così mi è capita-
to di notare di recente che in uno dei tanti quiz condotti
dal solito Gerry Scotti i gettoni d’oro sono stati sostituiti
da pacchi di banconote in quantità talmente inverosimili
da poter immaginare solo nelle mani di mafiosi o spaccia-
16
tori internazionali. Come già ricordato in precedenza, in
Italia è infatti oggi vietato per legge maneggiare più di
999 euro in contanti alla volta, negli scambi commerciali,
per lo meno all’uomo comune. Ma non gli è certo vietato
sognare di farlo, vedendone pacchi enormi in un quiz te-
levisivo, o disegnati su un «gratta e vinci» che promette
rendite milionarie, seppure con probabilità paragonabili a
quelle che un meteorite vi colpisca sulla testa esattamente
in questo momento.

L’ALCHIMIA DEL DENARO

Per poter comprendere le origini del nostro sistema moneta-


rio iniziamo col catapultarci indietro nel tempo, nell’Inghilter-
ra del diciassettesimo secolo, immaginando di impersonare
alcuni dei protagonisti di un «gioco di ruolo», che sarà utile
per chiarire un argomento altrimenti estremamente tecnico.
Il primo personaggio sulla scena si chiama James e possiede
un lingotto come quello descritto sopra. Andare in giro a ca-
vallo cercando di infilarlo nelle tasche dei pantaloni attillati di
moda all’epoca non dev’essere stata un’impresa semplice. E
anche ipotizzando di poterlo infilare in una sacca robusta, por-
tarselo in giro tenderebbe ad attrarre l’attenzione di briganti
e malintenzionati, che potrebbero mirare a impossessarsi di
quell’oggetto che vale quanto una bella villa sui colli, senza
badare troppo alla salute fisica del suo proprietario.
James potrebbe allora valutare di rivolgersi a Henry (che sono
io a impersonare durante le mie conferenze), proprietario di
un omonimo banco metalli – The Henry Bank – che offre ai
privati la possibilità di conservare i lingotti in una cassaforte
sicura. Il gestore di un banco metalli è infatti abituato per 17
mestiere a maneggiare oggetti preziosi e a mantenerli in si-
curezza in una struttura adeguata. Insomma, un utile servizio
di deposito che viene offerto a James per un piccolissimo
costo annuo, convincendolo facilmente a lasciare in custodia
il suo lingotto. A James poco importa se l’unico oro che si
trova nella cassaforte del banco metalli in questo momento
è proprio il suo. In cambio del lingotto depositato gli viene
rilasciata un’apposita ricevuta, bollata in ceralacca, timbrata
e firmata, con sopra scritto:

«Io sottoscritto Henry, proprietario dell’omonimo banco me-


talli, dichiaro che riconsegnerò al portatore di codesta nota
un lingotto di oro puro.»

James potrà quindi trasportare la ricevuta al posto del lin-


gotto, infilandosela in tasca senza dare troppo nell’occhio e
limitando perciò il rischio dovuto alla detenzione e al traspor-
to di oro fisico.

Il secondo personaggio che entra ora in scena è Thomas, un


imprenditore edile che ha costruito e messo in vendita un paio
di belle villette sui colli, una delle quali è proprio quella che
James sogna da tempo. Domanda e offerta si incontrano e
si conclude un bell’affare: Thomas vende una villetta a James
per l’esatto valore di un lingotto d’oro. Per pagare l’importo
dovuto a Thomas, James ha ora due possibilità: recarsi di nuo-
vo presso il banco metalli, scambiare la ricevuta con il lingotto
e cavalcare da Thomas col lingotto in tasca (con tutti i rischi
connessi) oppure – ci siete già arrivati – consegnare a Thomas
la ricevuta del banco metalli, altrimenti detta «nota di banco»,
18 o più semplicemente «banco-nota». Pagare con una banco-
nota è sicuramente molto più comodo che armeggiare con
il corrispondente valore in oro: è una questione di praticità.
Proprio per questo James, che è un ragazzo sveglio, decide di
adottare la seconda opzione, e Thomas, il quale ben conosce
il banco metalli, che ha una bella sede in pieno centro città,
decide di accettare la banconota e consegnare in cambio le
chiavi della villetta.
A questo punto entra in gioco Elizabeth, quarto e ultimo
personaggio sulla scena. Elizabeth ha appena ereditato uno
splendido vigneto sui colli, che produce dell’ottimo vino che
può essere rivenduto ogni anno al mercato con ottimi profitti.
Anche lei, come James, aspira a possedere una bella villetta
sui colli, proprio vicino alle sue vigne. Ma a differenza di Ja-
mes non possiede ancora un intero lingotto per comprarla.
Il lingotto depositato da James è sempre rimasto fermo nella
cassaforte del banco metalli, mentre la ricevuta passava di
mano durante la prima compravendita immobiliare. Henry,
il proprietario del banco metalli, ha un’idea che potrebbe
agevolare Elizabeth e «far girare un po’ l’economia»: offrir-
le il lingotto in prestito, guadagnandoci un interesse annuo.
Elizabeth si impegnerà quindi a restituirlo a rate, e prima di
ottenerlo dovrà sottoscrivere un apposito contratto:

«Io sottoscritta Elizabeth mi impegno a restituire il valore di


un lingotto d’oro puro, più interessi, al banco metalli di Hen-
ry. In caso non rispettassi l’impegno preso, autorizzo Henry a
prendere possesso della mia vigna, che viene quindi posta a
garanzia del prestito.»

Timbro, firma e bollo in ceralacca, e anche questo documen-


to finirà nella cassaforte del banco metalli. Ora Elizabeth
può ottenere il lingotto con cui procedere all’acquisto della 19
villa. Per questo Henry tira fuori il lingotto dalla cassaforte
del banco metalli e lo mostra a Elizabeth, giallo e luccicante.
Prima di consegnarglielo, però, si ferma un attimo: Elizabeth
non correrebbe forse gli stessi rischi di James a maneggiare
il lingotto e a trasportarlo con sé prima di spenderlo? Bri-
ganti e malintenzionati non sono forse ancora in giro per le
strade, in cerca di facili prede per le proprie scorribande?
Non potrebbe forse anche Elizabeth beneficiare della prati-
cità della banconota e trasportare quella per pagare la villa,
anziché il lingotto? Tra l’altro il costruttore conosce già il
banco metalli, e ha già venduto l’altra villetta accettando una
banconota in cambio. Quello che Henry suggerisce a Eliza-
beth, come suo creditore e proprietario del banco metalli,
sarà di lasciare il lingotto in cassaforte e accettare anche lei
una ricevuta identica a quella consegnata a James, con su
scritto:
«Io sottoscritto Henry, proprietario dell’omonimo banco me-
talli, dichiaro che consegnerò al portatore di questa nota un
lingotto di oro puro.»

Anche questa ricevuta sarà opportunamente timbrata, firmata


e bollata in ceralacca. Elizabeth potrà quindi utilizzare la ban-
conota e concludere l’acquisto della villa da Thomas, contri-
buendo a comporre un felice quadretto. Ci troviamo infatti ad
avere in scena quattro personaggi estremamente soddisfatti:
– Thomas, un imprenditore realizzato, che ha appena venduto
entrambe le villette costruite in precedenza per il valore di
due lingotti d’oro;
– James, un giovane benestante, ora proprietario della villetta
dei propri sogni;
– Elizabeth, una giovane ereditiera proprietaria di una vigna
20 sui colli, la quale ora possiede anch’essa la villetta dei propri
sogni, che potrà ripagare con calma nei prossimi anni venden-
do il vino che produrrà;
– infine Henry, proprietario del banco metalli, il più soddisfat-
to dei quattro…

Prima di proseguire è giunto il momento di porci un paio


di domande «di verifica». La prima è molto semplice, tanto
semplice che probabilmente spiazzerà alcuni lettori: quanti
lingotti si trovano ora nella cassaforte del banco metalli? Non
sempre la risposta è stata univoca durante le mie conferenze,
ma un bambino di otto anni non avrebbe dubbi nel consta-
tare che fin dall’inizio della scena in cassaforte c’è stato ed
è sempre rimasto un solo lingotto d’oro: quello depositato
da James.
La seconda domanda è forse meno semplice della prima e
ci permetterà di iniziare a comprendere qualcosa di più di
quanto è successo: il valore di quanti lingotti è «circolato nel
mercato» durante la scena che vi ho descritto? Per rispon-
dere pensate al fatto che due villette sono state vendute da
Thomas, che ha quindi incassato ben due ricevute, ciascuna
corrispondente a un lingotto d’oro. A questo punto vi chiedo:
che differenza c’è tra quelle due ricevute? Ebbene, avrete
già capito che la risposta è: nessuna! Sono chiaramente due
pezzi di carta identici con la stessa identica scritta, gli stessi
timbri e la stessa firma: due banconote identiche, entrambe
rappresentanti il valore di un lingotto. Quindi, nonostante in
cassaforte ne sia sempre rimasto uno solo, nel mercato è
circolato il valore di due lingotti d’oro.

Ora torniamo al nostro gioco di ruolo, e ipotizziamo che Tho-


mas, l’imprenditore edile che ha venduto le due villette, in 21
preda a un folle e repentino innamoramento per una giovane
e bellissima ragazza indiana decida di seguirla per trasferirsi
nel lontano oriente. Per farlo dovrà raccogliere tutti i propri
averi, reclutare un paio di cavalieri come scorta armata e or-
ganizzare una carovana con cui affrontare il lungo viaggio.
Sicuramente tra i beni più preziosi che avrà l’esigenza di por-
tare con sé ci saranno anche i due lingotti d’oro. Nella lontana
India sarà difficile per Thomas trovare qualcuno che accetti
la ricevuta di un banco metalli inglese per acquistare beni
di pari valore. Il giovane innamorato si presenterà dunque
al banco metalli con le sue due ricevute e chiederà indietro
due lingotti, provocando in Henry un certo imbarazzo. «Pos-
so consegnarle intanto un lingotto e contattare un collega in
India per farle trovare là il secondo lingotto...». A quel punto
Thomas, indispettito, valuta seriamente di fare appendere il
«banco-metallaro» a un albero dai cavalieri della sua scorta
armata. Non è certo tollerabile che un noto e serio banco
metalli si scopra sguarnito dell’oro che dovrebbe custodire
per i propri clienti. Eppure così è. In cassaforte c’è un solo
lingotto e il banco (o banca) non può far fede a quanto scritto
su entrambe le banconote.
Ora vi chiedo: come definireste la situazione in cui si trova
il banco metalli? Sicuramente si tratta di una sorta di «col-
lasso finanziario» (o «default», come è ora più di moda di-
re), oltre che di una irreparabile perdita di credibilità. Ma
c’è una parola che sicuramente avete sentito spesso e di cui
ora comprenderete finalmente la probabile origine: questa
situazione si chiama «bancarotta». Quale gesto potrebbe fare
Thomas udendo la risposta «Mi spiace, ma non ho due lingotti
da restituirle»? Non sbatterebbe forse con violenza le mani sul
22 «banco» – o magari la spada – mandandolo in frantumi e pro-
vocandone quindi la «rottura»? Insomma, ci troveremmo si-
curamente con un banco rotto (o, meglio, una banca-rotta)…

RISERVA E RISERVATEZZA

La scena che ho descritto fin qui in maniera semplice e ironica,


con l’intento dichiarato di renderla comprensibile anche a un
bambino di otto anni, non è altro che la fedele rappresenta-
zione dell’origine dell’attuale sistema monetario occidenta-
le, come peraltro descritta in maniera più seria e completa
nel capitolo 12 del libro New Paradigm in Macroeconomics,
pubblicato nel 2005 dall’economista e monetarista britannico
Richard A. Werner.
Volendo quindi ricapitolare le origini del sistema monetario
occidentale, esse risalgono all’Inghilterra del diciassettesimo
secolo, quando gli orafi offrivano servizi di «stoccaggio in si-
curezza» ai proprietari di metalli preziosi. Le ricevute rilasciate
dagli orafi (o banchi metalli), le cosiddette «note di banco»
o banconote, iniziarono a circolare come «moneta cartacea»,
priva di valore intrinseco.
Il fatto che i lingotti venissero ritirati raramente dalle casseforti
da parte dei clienti permise ai banchi metalli di iniziare a con-
cederli in prestito: a prestare cioè l’oro depositato dai clienti
ad altri clienti che ne avevano bisogno, e di farlo applicando
un interesse. Il tasso di interesse andava a costituire un profitto
puro su un’operazione che di fatto interessava un valore (i lin-
gotti d’oro) ufficialmente di proprietà di qualcun altro (i clienti
che li avevano depositati). Era inoltre possibile erogare questi
prestiti evitando di far circolare i lingotti stessi, ma stampando
al loro posto «banconote» di valore corrispondente, semplici
pezzi di carta dal puro valore simbolico, e facendolo più volte 23
per ogni lingotto. Venne statisticamente rilevato che era possi-
bile stampare fino a dieci banconote per ogni lingotto (e decu-
plicarne quindi il valore sul mercato) senza correre il rischio che
un cliente tornasse a richiederne due contemporaneamente,
mandando il banco in bancarotta. Quest’ultimo meccanismo
è anche definito «riserva frazionaria». Rappresenta infatti la
possibilità per il banco di detenere fisicamente in cassaforte
solo una frazione del valore circolante sul mercato, detenendo
cioè solo un lingotto in cassaforte per ogni dieci che circolano
nel mercato sotto forma di banconote.
Il prestito a interessi, oltre a garantire un profitto puro ed
essere esercitato senza muovere alcun lingotto, stampando
fino a dieci banconote per lingotto, viene inoltre realizzato
chiedendo ai debitori di garantire il prestito stesso con pro-
prietà di valore sufficiente. Quindi di fatto quest’attività viene
svolta senza alcun rischio. Se un prestito non viene restituito,
può essere infatti requisita e rivenduta la proprietà che era
stata posta a garanzia, con la firma dell’apposito contratto
tra debitore e creditore (quella che nel linguaggio tecnico è
definita «ipoteca»).
Ora capite perché ho intitolato il paragrafo precedente «L’al-
chimia del denaro». In fondo si tratta di una vera e propria
magia, un miracolo simile alla moltiplicazione dei pani e dei
pesci, o un prodigio paragonabile alla scoperta della celebre
pietra filosofale, che trasforma il piombo in oro. Per il ban-
co è possibile addirittura trasformare la carta in oro: nuovo
potere d’acquisto viene creato (tanto da permettere – nel
nostro gioco di ruolo – a due persone di comprare un totale
di due villette, ciascuna del valore di un lingotto, nonostante
in cassaforte il lingotto sia sempre uno solo) con un profitto
24 puro (l’interesse) e senza alcun rischio per il banco (che può
sempre far valere l’ipoteca sul vigneto in caso di mancata
restituzione del prestito). Ecco perché Henry era il più soddi-
sfatto dei quattro!

Per il funzionamento del «Sistema» devono essere però garan-


tite due condizioni fondamentali: la prima è la fiducia da parte
dei clienti; la seconda è la riservatezza sul suo funzionamento.
E queste due condizioni sono strettamente connesse. È fonda-
mentale che i clienti (sia quelli che depositano, sia quelli che
prendono in prestito, che quelli che accettano le banconote
in cambio di beni o servizi) non sappiano come funziona vera-
mente il «gioco». Se ogni cliente si rendesse conto di trovarsi
a scambiare o a possedere un numero di ricevute superiore
al numero di lingotti davvero conservati nella cassaforte del
banco, sicuramente quest’ultimo non potrebbe proseguire a
lungo la propria attività di «prestito a interesse»… Trovarsi
ad aver venduto due villette e incassato due note di banco,
convinto che fossero entrambe coperte da un lingotto d’oro,
e scoprire invece che solo una di queste lo è veramente, non
ha certo rallegrato la partenza di Thomas per l’India.
Il fatto che il business bancario – l’attività di prestito a in-
teresse svolta dai banchi metalli poi divenuti «banche» – si
basi sulla fiducia di chi non ne capisce il funzionamento e
sulla massima riservatezza mantenuta tra chi ha dato origine
al «gioco» e lavora al suo interno, spiega abbastanza effica-
cemente perché in 400 anni questo tema non sia mai stato
chiarito in maniera diffusa, e venga spesso trattato in maniera
«nebulosa», incompleta e fuorviante nella maggior parte dei
testi di economia divulgativa, che vengono utilizzati per spie-
gare «alle masse» il nostro sistema monetario.
Se pensate poi al peso che le fondazioni bancarie e le banche 25
stesse hanno assunto nel tempo, a partire dal mondo anglo-
sassone e poi in tutto l’occidente – come sostenitrici della
ricerca universitaria, come inserzioniste sui media e come fi-
nanziatrici delle campagne elettorali dei partiti – vi renderete
conto del motivo per cui professori, giornalisti e politici non
affrontano praticamente mai il tema monetario. Perché an-
drebbero a «scoprire gli altarini» di quelle «istituzioni» il cui
contributo pesa maggiormente nella loro raccolta di sovven-
zioni e sponsorizzazioni, e quindi sulla loro stessa sopravviven-
za (e sulle loro buste paga). Se ci pensate bene, questo vale
per qualsiasi altro ente pubblico o azienda, grande o piccolo
che sia, che necessiti di soldi o meglio ancora di prestiti per
mantenere o far crescere la propria attività. Se avete davvero
bisogno di un prestito bancario non andate certo a mettervi
contro la vostra banca!
ATTENZIONE ALLE SCIMMIE ROSSE

Per capire meglio il meccanismo di condizionamento socia-


le che il Sistema ci ha costruito intorno, immaginate di fare
un esperimento con alcune scimmie (con tutto il rispetto per
questi simpatici animali): chiudete cinque di esse in una stan-
za con una scala, e sopra quella scala ponete una banana.
Quando una delle scimmie sale sulla scala per prendere la
banana, inondate le altre di acqua gelida. Non appena que-
ste collegano la salita della scimmia sulla scala con la doccia
fredda, inizieranno a impedire a questa di salirvi, strillando,
strattonandola e minacciandola. Ora sostituite una scimmia
alla volta nella stanza, con delle scimmie rosse, dandole il tem-
po di «ambientarsi». Ogni nuova scimmia si troverà in una
situazione per cui, se una scimmia tenta di salire sulla scala, le
26 altre strillano e la minacciano. Per puro spirito di allineamento
al gruppo anche questa comincerà ad adottare lo stesso com-
portamento e a unirsi alle altre nelle urla contro l’eventuale
scimmia «deviante». Badate bene: l’ultima scimmia rossa lo
farà senza neanche comprenderne il motivo originale (dato
che, al contrario delle altre, non ha mai sentito sulla propria
pelle il getto d’acqua gelata). Dopo che avrete sostituito tutte
le scimmie nella gabbia con delle scimmie rosse, queste conti-
nueranno a impedirsi l’una all’altra di salire sulla scala, senza
saperne il motivo originale. Questo meccanismo di imitazione
e allineamento al gruppo spesso si riproduce nelle istituzioni
umane, soprattutto in quelle più complesse, che col susse-
guirsi delle «generazioni» impongono al proprio interno una
serie di regole per la propria autoconservazione (quella delle
istituzioni stesse e non dei singoli individui che ne fanno par-
te), regole la cui origine e i cui effetti non sono spesso chiari
dopo qualche «generazione» nemmeno ai dirigenti.
Un esperimento simile può essere realizzato in un campus uni-
versitario chiedendo a una parte dei ragazzi di osannare me-
todicamente con complimenti ben mirati tutte le ragazze che
indossino un abito o un accessorio di colore rosso. Nel giro di
qualche settimana praticamente ogni ragazza del campus in-
dosserà qualcosa di rosso, ad eccezione di quelle cui non piace
farsi influenzare, che verranno accusate di essere «fuori moda»,
o peggio ancora «antisociali» o «paranoiche». Immaginate di
fare lo stesso esperimento sostituendo i semplici complimenti
con degli «assegni di ricerca», da mille, diecimila o centomila
dollari, e vi renderete conto di quanto facile possa essere in-
fluenzare un intero campus universitario ad allinearsi a un com-
portamento o a un «filone di pensiero». Lo stesso metodo può
essere applicato per influenzare praticamente ogni situazione
sociale: aziende, partiti, scuole, associazioni, gruppi religiosi...
Osservando quindi il mondo che ci circonda, pare che dopo 27
qualche generazione di «condizionamento forzato» questa
remora a parlare del funzionamento del Sistema, e persino a
farsi delle domande sul suo funzionamento, ormai si trasmetta
automaticamente nel DNA di professori, giornalisti, politici,
imprenditori e perfino dirigenti di banca.
Vi invito a verificarlo personalmente. Quanti professori (per-
sino di economia) conoscono quello che vi ho illustrato nelle
pagine precedenti? Quanti giornalisti, opinionisti o analisti
ne parlerebbero con cognizione di causa? Quanti politici e
dirigenti pubblici comprendono l’importanza di questo tema
nell’organizzazione della vita di uno Stato? Quanti imprendi-
tori sanno davvero qual è l’origine di quei «simboli» che sono
tanto impegnati a guadagnare sul mercato? Quanti dirigenti
di banca hanno idea delle origine storiche del proprio busi-
ness? Prendete il primo che incontrate e chiedeteglielo.
Nonostante la maggior parte di noi passi buona parte della
propria vita a confrontarsi col denaro, arrovellandosi su come
guadagnarlo, spenderlo, raccoglierlo o distribuirlo, si senti-
rebbe oggi incredibilmente giustificato nell’affermare che
comprendere l’origine del denaro che tutti noi usiamo è un
argomento «da esperti», «non certo alla portata di tutti»; o,
peggio ancora, accuserebbe chi lo spiega come ho fatto io
di «fanatismo» o «complottismo». Invece a mio parere può
diventare un argomento alla portata di tutti, a patto che ven-
gano fornite le informazioni giuste nel modo giusto, come ho
cercato di fare nelle pagine precedenti. E proprio queste in-
formazioni ci libereranno dai falsi condizionamenti del Sistema.

TEORIE DEL COMPLOTTO


Arthur Schopenhauer, filosofo che in molti come me ri-
cordano per averlo studiato al liceo, ha scritto: «Tutte le
28
verità passano attraverso tre fasi. Primo, vengono ridicoliz-
zate. Secondo, vengono violentemente contrastate. Terzo,
vengono accettette come evidenti», ossia, come se fos-
sero sempre state chiare a tutti. Io l’ho visto accadere di
persona a tante delle «verità» che sono andato a scovare
attraverso anni di ricerca – molte delle quali condividerò
con voi in questo e nei prossimi capitoli – e che, dopo
aver portato faticosamente alla luce, ho visto prima ridi-
colizzate, poi osteggiate e poi… accettate come se «l’a-
vessimo sempre saputo». Ho imparato quindi a non farmi
scoraggiare da chi spesso adotta questi atteggiamenti,
in primis dalle persone che ho intorno. Familiari, amici,
colleghi, vicini di casa sono stati i primi grandi «ridico-
lizzatori» e «osteggiatori» delle mie più sconvolgenti – e
interessanti – scoperte, e ormai ho sviluppato dei potenti
«anticorpi» verso questi atteggiamenti (e anche la capacità
di aspettare il momento giusto perché le «verità» vengano
a galla…).
Uno studio scientifico pubblicato nel 2013, elaborato da
Michael J. Wood e Karen M. Douglas, due psicologi e
ricercatori dell’Università di Kent (Regno Unito), sugge-
risce che lo stereotipo negativo del «complottista» – un
fanatico ostile che sostiene con piglio ideologico le ver-
sioni ipotizzate dalla propria «setta» di appartenenza – in
realtà descriva accuratamente le persone che difendono
le versioni ufficiali, non quelle che le contestano. Lo stu-
dio intitolato What about building 7? A social psychologi-
cal study of online discussion of 9/11 conspiracy theories
(«Cosa ne pensate dell’edificio 7? Uno studio psicologico
sociale sulle discussioni online riguardo le teorie del com-
29
plotto sull’11 settembre»), condotto su migliaia di com-
menti raccolti online dai due ricercatori, pare dimostrare
che siano i soggetti che supportano la versione ufficiale
dei fatti dell’11 settembre 2001 – e non i cosiddetti «com-
plottisti» – a esprimersi generalmente in modo più ostile,
nel tentativo di persuadere chi la pensa in modo diverso
da loro. E sono invece gli altri – i «complottisti» – ad avere
un atteggiamento più sano e aperto, più razionale, non
«paranoico» né «manipolabile», in merito ai fatti discussi.
E sono anche molto più numerosi: coloro che non credono
alle versioni ufficiali di eventi come l’11 settembre e l’omi-
cidio del presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy
sono risultati essere più del doppio rispetto a quelli che
credono alle versioni ufficiali. Il che significa che si è ormai
invertito il rapporto, e che la saggezza popolare oggi è
espressa proprio dai cosiddetti «complottisti», mentre le
persone che non credono alle «cospirazioni» stanno diven-
tando una sparuta minoranza. Altri recenti sondaggi con-
fermano che più dell’80% della popolazione statunitense
non crede alla versione ufficiale sull’11 settembre! E a tutti
questi non piace affatto essere definiti «complottisti». È
ormai noto infatti che le espressioni «complottista» e «teo-
ria del complotto» furono create proprio con «l’obiettivo
di rendere chi non credesse alle versioni ufficiali oggetto
di scherno e ostilità da parte del resto della collettività, e
bisogna ammettere – purtroppo – che si sia rivelata una
delle iniziative di propaganda di maggior successo di tutti
i tempi», sono le parole del professor Lance DeHaven-
Smith nel suo libro Conspiracy Theory in America («Teorie
del complotto in America»). Ma da chi vennero coniate
30
quelle espressioni? Il politologo americano ci dice che fu-
rono coniate e ampiamente diffuse dalla CIA – i servizi

John Fitzgerald Kennedy Martin Luther King


segreti statunitensi – per diffamare coloro i quali solleva-
vano dubbi sulla versione ufficiale dell’assassinio di JFK.
Ed evidentemente sono poi tornate loro spesso utili…
Tanto per fare un altro esempio, è stato confermato che i
servizi segreti statunitensi sono stati complici anche dell’o-
micidio di Martin Luther King, con una sentenza unanime
del dicembre 1999 (dopo 4 settimane di dibattimento e
oltre 70 testi ascoltati), ben 32 anni dopo la morte del
leader nero. La moglie Coretta Scott King ha dichiarato:
«Abbiamo fatto tutto quello che era in nostro potere per
portare alla luce la verità, e ora anche i media e i membri
della comunità politica dovrebbero fare la loro parte per
diffondere queste rivelazioni al più largo pubblico». Il suo
appello cadde nel vuoto e oggi trovate ben poche tracce
di notizie su quella sentenza.
31

Tornando alle «scimmie rosse», se state davvero attenti ne


troverete tante nascoste dietro quanti cercano di proteggere
le convinzioni dettate dal Sistema, senza avere una vera co-
gnizione della loro origine, e magari accusando altri di essere
«complottisti», «paranoici» o «facilmente influenzabili», senza
accorgersi di essere loro i primi a esserlo. Alcuni sono incon-
sapevoli del proprio ruolo di «scimmie rosse», e nella migliore
delle ipotesi sono pronti a un confronto aperto e a rivedere le
proprie idee. Ma esistono anche veri e propri professionisti in
questa attività di «dissuasione», attivi soprattutto online, ma-
gari protetti dall’anonimato, da pseudonimi e account fasulli.
Alcuni non hanno nemmeno il coraggio di mostrarsi a viso
aperto perché sono consapevoli di non poter reggere il con-
fronto con una persona «coerente», e preferiscono mandare
avanti altri al posto loro, dopo averli «influenzati» a dovere. E
a volte diffamano e sviano l’attenzione con abili stratagemmi
retorici (in gergo sono anche detti «troll»).
Uno dei più comuni stratagemmi è quello di criticare un’ipo-
tesi «alternativa» in maniera sommaria, basandosi su pregiu-
dizi e ipotesi «ufficiali», senza aver verificato in prima persona
ciò che viene criticato. L’attenzione viene poi di solito deviata
sulla «persona» che sostiene quell’ipotesi più che sul «conte-
nuto», con commenti quali «non è credibile», «ha fatto que-
sto errore o questa imprecisione», «non mi piace il suo stile»,
«sicuramente ci guadagna dei soldi», «è un truffatore», «si è
messo le dita nel naso», «l’ho incontrato anni fa in uno strip
club», o cose del genere. E ovviamente chiunque in buona
fede si opponga loro o dia credito all’ipotesi in oggetto viene
accusato di essere un «ingenuo», un «ignorante» o peggio
32 ancora reso oggetto di scherno, stalking e atteggiamenti vi-
olenti...
Attenzione, quindi, perché le «scimmie rosse» proveranno a
dissuadere anche voi dal cammino verso l’indipendenza, e
metteranno spesso alla prova la vostra «coerenza», facendo
leva in particolare sulle vostre paure. La paura di essere ri-
dicolizzati o di perdere la vostra credibilità professionale, la
paura di perdere i vostri soldi o il vostro lavoro. La paura è la
leva che il Sistema usa ogni giorno per controllarci e anche le
«scimmie rosse» spesso la utilizzano.
Come disse Bob Kennedy, un grande politico che citerò an-
cora in questo capitolo, «Pochi uomini sono disposti ad af-
frontare la disapprovazione dei loro compagni, la censura dei
loro colleghi, l’ira della loro società. Il coraggio morale è una
merce più rara del coraggio in battaglia o di una grande intel-
ligenza. Eppure è una imprescindibile, vitale qualità per coloro
che cercano di cambiare un mondo che merita di cambiare».
Anche Gandhi la pensava allo stesso modo: «Molte persone,
specialmente quelle che la ignorano, ti vorranno punire per
aver detto la verità, per essere stato coerente e per essere
te stesso. Non scusarti mai per essere stato coerente o per
essere anni avanti al tuo tempo. Se sei nel giusto e se lo senti,
parla liberamente. Dì quello che pensi. Anche se sei l’unico
rappresentante di una minoranza, la verità è comunque la
verità». Quindi siate coraggiosi e non affidatevi ai giudizi al-
trui, a maggior ragione se sono quelli più diffusi e comuni, e
ancora meno se sono vuote accuse di «complottismo», «cial-
troneria» o «ciarlataneria» (queste a volte sono addirittura un
buon segno!).
Giudicate sempre con la vostra testa – e con il vostro cuore
– perché il «tesoro» spesso si trova proprio dove in pochi 33
hanno avuto il coraggio di cercare.

CARTE DI GRANDE VALORE

Tornando a parlare di «banconote», oggetti del cui nome


avete ormai compreso l’origine etimologica, vorrei proseguire
illustrandovene alcuni esempi storici che potete facilmente
trovare anche con una ricerca su Internet. Quella che tro-
vate nella figura sottostante è una banconota statunitense
del 1779 su cui in sintesi è scritto: «Il portatore è intitolato
a ricevere 55 dollari spagnoli o una uguale somma in oro o
argento». Si tratta quindi di una ricevuta che poteva essere
scambiata con una quantità corrispondente e fissata di un
metallo prezioso.
Allo stesso modo l’esempio seguente mostra una banconota
di taglio inferiore, stampata nel diciannovesimo secolo da una
banca privata statunitense, la Kalamazoo Railroad Bank, il cui
fondatore è ritratto al centro.
34
Nonostante la scritta non sia così chiara – forse proprio per evi-
tare che qualcuno si accorga che c’è – è possibile leggere «I will
pay to the bearer on demand five dollars», cioè «Restituirò al
portatore che lo richieda cinque dollari», intesi all’epoca come
una quantità fissa di valore, o meglio di peso, in oro o argento
che la banca stessa doveva custodire nella propria cassaforte.
O perlomeno un decimo di tale valore, per evitare il «rischio
bancarotta» (operando in regime di «riserva frazionaria»)…
QUANDO LA BANCA SBANCA
Negli Stati Uniti del diciannovesimo secolo circolavano
banconote emesse da una miriade di banche private,
ognuna delle quali offriva i propri servizi di «deposito»
(cioè di custodia di denaro e metalli preziosi) e ognuna
delle quali emetteva banconote come «ricevute» dell’oro
o argento depositati, ed erogava «prestiti» ai clienti che
lo richiedevano. Una tale istituzione operava quindi sulla
scia degli orafi inglesi del diciassettesimo secolo, ma con
ben due secoli di esperienza in più alle spalle. La richiesta
di ottenere monete d’oro o argento dalle banche a fronte
della riconsegna di banconote da loro emesse era ovvia-
mente una pratica fortemente disincentivata e potenzial-
mente pericolosa per la «stabilità del sistema bancario».
Se una banca falliva – e succedeva spesso – le banconote
35
emesse da questa perdevano immediatamente valore,
lasciando i loro possessori con un pezzo di carta inutile
in mano. Molte delle scene che siamo abituati a vedere
nei film western, in cui uomini armati entrano in banca
chiedendo di consegnare «tutto l’oro che c’è in cassafor-
te», probabilmente si sono verificate anche avendo come
protagonisti dei semplici clienti, impegnati a riottenere in-
dietro l’oro che doveva essere custodito a copertura delle
banconote in loro possesso. Gli uomini armati avrebbero
in quel caso urlato ai cassieri: «Ridatemi il mio oro!». E
i cassieri, in risposta: «No, tieniti la carta!». E il cliente,
sempre più arrabbiato: «No, rivoglio il mio oro!». E così
via fino all’arrivo dello sceriffo a sventare l’omicidio degli
sfortunati cassieri (peraltro ignari dipendenti, che proba-
bilmente neanche allora avevano ben chiaro il meccanismo
di funzionamento della banca).
Il fallimento di banche private non è un evento così raro
nella storia. Migliaia di banche sono fallite nel corso dei
secoli a causa dell’eccessiva «esposizione» ai prestiti in
cui si sono trovate, oppure per improvvise perdite di «fi-
ducia» da parte del «mercato», cioè dei loro clienti, che
hanno causato repentini svuotamenti delle loro «casse-
forti» o azzeramenti di valore delle loro «banconote».
Per evitare questo rischio e limitare il pericolo che l’i-
niziativa di banchieri troppo «coraggiosi» nell’emettere
prestiti destabilizzasse la fiducia nel Sistema, il mondo
bancario occidentale si è organizzato per autolimitarsi
e autoregolamentarsi. L’intento è ovviamente quello di
poter mantenere il controllo del «business del denaro»
evitando collassi finanziari che spingano professori, gior-
nalisti e politici a farsi qualche domanda di troppo sul
36
suo funzionamento. A ben osservare il mondo di oggi, ci
ritroviamo infatti ad avere istituzioni indipendenti e au-
toregolamentate (le banche centrali), che, senza rispon-
dere direttamente del proprio operato ad alcun organo
politico o rappresentativo, fungono sostanzialmente da
«guida» e da «regolatori» del mondo bancario privato,
nonché da «prestatori di ultima istanza», cioè da «para-
caduti finali» in caso di pericolosi sbilanciamenti del siste-
ma bancario privato. Addirittura sono proprio politici e
giornalisti – consciamente o inconsciamente allineati agli
interessi del mondo bancario – che chiedono a gran voce
alla BCE o alla FED di intervenire per mettere le banche
private in condizione di «prestare più soldi» e «rilanciare
l’economia e i consumi».
Proseguendo con gli esempi quella che trovate di seguito è
una banconota da una sterlina, emessa questa volta da una
banca «nazionale» (ma pur sempre una banca), denominata
Banca d’Inghilterra, che riporta anch’essa la scritta I promise
to pay the bearer on demand the sum of one pound.
Il pound sterling era proprio una misura fissa del peso adot-
tata anche per i metalli preziosi, e in particolare una moneta
da un pound («libbra») in origine era «una moneta d’argento
da una libbra», poi sostituita dalle banconote, esattamente
come descritto in precedenza per il «dollaro». Anche que-
sta banconota poteva essere – in teoria – riconvertita in una
quantità fissa di oro o argento presentandola agli sportelli
della Bank of England.
Avendo personalmente visitato il museo della Banca d’Inghil-
terra nella City di Londra, ho visto coi miei occhi quanto in
effetti la pratica di «convertire le banconote in oro» venisse 37
disincentivata e addirittura pubblicamente condannata in pas-
sato. Durante la prima guerra mondiale, ad esempio, lo Stato
inglese fu costretto a indebitarsi fortemente per finanziare
le costose attività belliche, mettendo a rischio la credibilità
dei conti pubblici e la fiducia nella propria economia e quin-
di nella propria moneta. In quel periodo la Bank of England
promosse una vera e propria «campagna d’opinione» (in stile
«Pubblicità Progresso») attraverso manifesti e pagine pub-
blicitarie sui quotidiani, in cui il messaggio che veniva dato
era: chi converte le banconote in oro non è un patriota, e va
biasimato per questo.
Per quanto la banconota da una sterlina che vedete nell’im-
magine non sia più in circolazione (oggi i tagli da 1 e 2 sterline
sono monete), la stessa scritta che ricorda la convertibilità della
sterlina è tuttora presente sulle banconote da 5, 10 e 20 pound
ancora in circolazione, anche su quelle di recente emissione.
Come sulle banconote viste finora, anche sulle care vecchie
lire era presente un’analoga scritta: «Pagabili a vista al porta-
tore». Ancora bambino, dopo aver chiesto chiarimenti a mia
38 madre, la risposta che ottenni fu: «Quella scritta vuol dire che
se vai dal panettiere puoi avere in cambio quello che ti serve».
Mia madre si sbagliava. In realtà l’origine di quella frase è la
stessa che per le banconote viste sopra. «Pagabili» vuol dire
«convertibili». Ma convertibili in cosa?
LA CHIUSURA DELLA FINESTRA D’ORO

Volendo adottare una consapevole semplificazione a fini di-


vulgativi, potremmo dire che «ufficialmente» fino al 1947,
prima della sigla dei già citati accordi di Bretton Woods, le
valute ufficiali del mondo occidentale erano convertibili in
oro. È possibile trovare tuttora in giro persone convinte che
ancora lo siano.
In realtà, come avete capito ciò sarebbe comunque stato pos-
sibile solo in parte (per via del regime di «riserva frazionaria»
applicato anche dalle cosiddette «banche centrali», non solo
da quelle private). Inoltre la conversione era in realtà possi-
bile solo per particolari soggetti e in particolari condizioni.
Nel corso della prima metà del ventesimo secolo la pratica
che la Bank of England cercò di disincentivare per mezzo di
una massiccia campagna mediatica durante la prima guerra 39
mondiale venne infatti vietata all’uomo comune nella maggior
parte dei paesi occidentali. Venne cioè vietata ai cittadini di
molti Stati la possibilità di convertire le proprie banconote in
oro, mentre era in genere possibile farlo per cittadini stranieri
e istituzioni estere.
È interessante notare come, nella storia del sistema moneta-
rio e bancario occidentale, si ripetano periodicamente mec-
canismi simili. Ad esempio, così come nella prima metà del
ventesimo secolo venne vietata ai cittadini di parecchi Stati
la riconversione delle banconote in oro, ora viene vietato agli
stessi di fare movimentazioni in contanti per valori superiori
a certi limiti, oppure, entro gli stessi limiti, di ritirare denaro
contante dai propri conti correnti. Il limite delle movimenta-
zioni in contanti è calato velocemente negli ultimi anni (scen-
dendo, ad esempio in Italia, da 12 500 a 1000 euro) proprio
in corrispondenza della cosiddetta «crisi finanziaria» e di una
possibile veloce perdita di fiducia nel Sistema.
Negli Stati Uniti per un certo periodo tra la prima e la secon-
da guerra mondiale fu addirittura vietata ai cittadini comuni
la detenzione di oro fisico, e tutto l’oro fu «confiscato». Ai
cittadini fu quindi chiesto di riconsegnare il proprio oro allo
Stato in cambio di un certo numero di dollari all’oncia. L’oro
venne poi rivalutato di circa il 50%, da un giorno all’altro,
causando una immediata svalutazione dei dollari circolanti
nei confronti del metallo giallo, il cui cambio in dollari era
fissato dallo Stato ed era invariato da anni. Gli unici a salvarsi
da questo «scherzetto» furono i più lungimiranti e abbienti,
che conservavano l’oro all’estero, i quali da un giorno all’al-
tro se lo ritrovarono con un valore in dollari molto più alto
(«rivalutato»), scoprendosi quindi ancora più ricchi di quanto
40 probabilmente già erano.

Tornando al tema della «convertibilità», la sigla degli accordi


di Bretton Woods nel 1947 mise il dollaro, la valuta statuniten-
se, al centro del sistema monetario occidentale, conservando
solo per il dollaro la convertibilità in oro, e legandogli tutte
le altre monete con un rapporto di cambio fisso. Quindi do-
po il 1947 le lire non potevano più essere convertite in oro
(nemmeno dalle banche centrali di altri paesi), ma potevano
essere convertite in dollari e solo questi poi in oro. Il legame
con l’oro impose al mondo intero il ruolo strategico del dolla-
ro e degli Stati Uniti nel sistema monetario occidentale, quale
riconoscimento per la loro vittoria nella seconda guerra mon-
diale e testimonianza del loro ruolo di superpotenza globale.
Il giorno di ferragosto del 1971 segna però la fine della con-
vertibilità del dollaro in oro e la fine di ogni legame delle
monete occidentali con una qualche «copertura» fisica. Quel
giorno Richard Nixon, con una mossa repentina e a sorpresa,
annunciò misure molto severe per «limitare gli attacchi valutari
al dollaro da parte di nazioni straniere» e chiuse «temporanea-
mente» la cosiddetta gold window, la finestra di convertibilità
del dollaro in oro. Inutile dire che quella finestra non venne mai
più riaperta e da quel momento non solo il dollaro, ma anche
tutte le monete occidentali legate a esso come valuta di riserva
persero ogni legame con la copertura in oro. Nonostante alcu-
ne banche centrali possiedano ancora riserve d’oro, esse non
hanno più alcun legame con la quantità di moneta circolante e
non possono certo essere chieste in cambio di alcuna banco-
nota (neanche di quelle, come le sterline, che ancora riportano
la scritta ormai priva di senso «pagabili al portatore»).

DORATA IGNORANZA 41

A volte nemmeno tecnici e professori hanno piena con-


sapevolezza del funzionamento del nostro sistema mo-
netario. Mi permetto una piccola digressione sul tema.
Qualche anno fa, quando iniziai a occuparmi di sistemi
monetari ebbi la divertente (e sconcertante) esperienza
di sottoporre un professore universitario italiano che in-
segnava negli Stati Uniti alla verifica di questa erronea
convinzione che ancora rimane in molti. Stava tenendo
una conferenza divulgativa su tematiche filosofiche, che
affrontavano il «futuro dell’umanità», in una sala gremita
di persone. Al termine dell’intervento, in cui il professore
aveva posto l’accento sul tema della «fiducia» e sui suoi
legami con l’evoluzione della situazione sociopolitica glo-
bale, non appena diede la possibilità al pubblico di fare
domande, presi la parola. Lo interrogai in merito a quanto
secondo lui il tema della «fiducia» fosse importante in re-
lazione a quello del «denaro», dato che tutte le monete
occidentali, dopo la chiusura della «finestra dell’oro», non
sono più coperte da alcun valore concreto, ma unicamente
dalla fiducia di chi le utilizza. Il professore, indispettito, di-
chiarò davanti a oltre trecento persone che quanto dicevo
a lui non risultava, e che tutta la moneta circolante doveva
per forza essere coperta dall’oro, per i dollari dall’oro di
Fort Knox. «Altrimenti come potrebbe funzionare il Siste-
ma e come potrebbe avere valore il denaro?», mi rispose
con scherno.

Alcuni avvenimenti portarono Nixon alla sua scelta. Il ruolo


42 privilegiato degli Stati Uniti alimentò i sospetti e le invidie
di alcune nazioni straniere (tra cui la Francia di De Gaulle):
gli Stati Uniti vennero accusati di approfittarsi della propria
posizione e di aver emesso molti più dollari di quelli effetti-
vamente coperti dall’oro di Fort Knox. Per dimostrarlo, alcuni
paesi stranieri iniziarono a premere sui mercati valutari per far
saltare la conversione «a cambio fisso» tra le valute, giudicata
troppo favorevole al dollaro. Ci riuscirono alla fine degli anni
1960, periodo in cui le valute si staccarono dal cambio fisso
e iniziarono a variare di valore reciprocamente, com’è ancora
oggi. Alcune nazioni – sempre la Francia in primis – iniziaro-
no inoltre a richiedere la massiccia riconversione in oro delle
proprie riserve di dollari. Veniva implicitamente messa in di-
scussione l’effettiva copertura e solidità del dollaro, sul quale
circolava il timore fondato di un eccessivo «sbilanciamento»
tra riserve auree e banconote emesse. In quegli anni venne
istituita una task force (denominata London Gold Pool) ope-
rante sul mercato dell’oro con l’obiettivo dichiarato di mante-
nere basso il prezzo dell’oro (che era convertibile a un prezzo
fisso col dollaro) e quindi alto il valore del dollaro. Dopo aver
«svenduto» tonnellate di oro e ridotto pesantemente le ri-
serve disponibili nei forzieri statunitensi, la task force dovette
cedere alle pressioni del mercato e rinunciare a operare. Pa-
rallelamente, Nixon fece una cosa che spiazzò tutti: anziché
dichiarare un default del dollaro – cioè, scoprire le carte e
riconoscere di aver emesso troppi dollari in relazione all’oro
che doveva esserne a copertura – la mossa a sorpresa fu di
sospenderne la convertibilità, interrompendo «d’imperio» il
legame con l’oro per tutte le valute occidentali.
Dal 1971, quindi, nessuna banconota circolante nel sistema
monetario occidentale è più convertibile in oro. Di fatto nes-
suna banconota è più convertibile in nulla. È puramente un
pezzo di carta con un valore simbolico. 43
A dimostrazione di questo sugli euro, che sono una delle più
recenti valute mondiali e la cui banconota è stata disegnata
ex novo alla fine del ventesimo secolo, non è riportata alcuna
scritta («pagabili al portatore», «convertibili», o simili). Riman-
gono su di essa solo un po’ di numeri, ologrammi e timbri
colorati, e pare che nemmeno i numeri di serie stampati su di
essa siano progressivi, ma unicamente dei «codici», ognuno
dei quali potrebbe essere stampato anche su più di una ban-
conota. Per farla breve, dato che quella scritta riguardo alla
convertibilità della banconota non aveva più senso da ormai
trent’anni (nonostante fosse ancora presente sulla maggior
parte delle banconote circolanti), i fautori della moneta unica
europea hanno ben pensato di toglierla dagli euro. Tanto per
levare ogni dubbio anche ai più nostalgici.

Ricapitolando, la scelta degli Stati Uniti del 1971 di sospen-


dere la convertibilità del dollaro in oro fu una «prova di resi-
stenza», cui il sistema monetario occidentale parve reggere,
contro i pronostici di molti, forse anche grazie alla mancanza
di consapevolezza sul tema da parte della «gente comune»,
per la quale poco cambiava nella vita di tutti i giorni. Fino a
quel momento tutti usavano pezzi di carta colorata per gli
scambi commerciali, e anche dopo continuarono a farlo. Pro-
babilmente, la maggior parte delle persone non si rese conto
che da quel momento tutte le valute occidentali persero la lo-
ro convertibilità in oro, e che oggi il loro valore si basa unica-
mente sulla fiducia, la nostra fiducia, la fiducia di chi continua
a utilizzarle. Da allora il denaro che noi tutti utilizziamo non ha
più alcun legame con beni o valori reali, ed è puramente un
simbolo cui noi stessi diamo valore accettandolo. La sedia su
cui siamo seduti o una moneta d’oro hanno un valore «intrin-
44 seco», dovuto ai materiali con cui sono fabbricati e all’uso che
possiamo farne (sulla sedia possiamo sederci, la moneta pos-
siamo fonderla per farne un’otturazione dentale o un anello).
Una banconota ha invece un valore «simbolico», di 50 euro
ad esempio, e un valore «intrinseco» che è unicamente quello
della carta e dell’inchiostro di cui è fatta. Per convincervi di
questo provate a scrivere «sedia» su un foglia di carta, e poi
provate a sedervici sopra per vedere se vi regge…
Una scritta su un computer che quantifica il nostro conto in
banca ha ugualmente un valore simbolico e nessun valore in-
trinseco, e non possiamo nemmeno bruciarla nel camino per
scaldarci come potremmo fare con una banconota.

VALORE INTRINSECO E VALORE SIMBOLICO

Nelle mie conferenze utilizzo un semplice gioco per intera-


gire col pubblico e porre l’attenzione sulla fondamentale dif-
ferenza tra valore intrinseco e valore simbolico, e su come
sia sostanzialmente un sistema di regole e null’altro a dare
valore al denaro che usiamo: si tratta del «gioco delle coppie».
Mostro al pubblico una serie di oggetti: una banconota del
Monopoli (il noto gioco da tavolo cui tutti abbiamo giocato
almeno qualche volta nella nostra infanzia), una moneta d’oro
da un’oncia, delle fiches di un casinò, un buono benzina, una
nota di banco da me «riprodotta», e una banconota da 50
euro. Quello che chiedo al pubblico è quindi di accoppiare
gli oggetti più «simili» formando delle coppie. Le risposte che
ottengo sono le più svariate, ogni volta diverse e più fantasio-
se. La cosa divertente è che solo pochi riescono a guardare
davvero quegli oggetti come farebbe un bambino di 8 anni,
osservando davvero quello che sono. Un bambino direbbe, ad
esempio, che le fiches e la moneta d’oro sono simili, perché
sono tonde. E che la banconota da 50 euro, quella del Mono- 45
poli e i buoni benzina sono simili, perché sono dei rettangoli
di carta colorata. Altra cosa è quando si osservano con gli
occhi degli adulti, abituati da una vita a considerare il valore
«monetario» come un valore «oggettivo» e incapaci per lo più
di distinguere tra il valore «simbolico» e il valore «intrinseco»
di un oggetto. Come già accennato sopra, tra questi oggetti
solo la moneta d’oro ha un valore intrinseco, che dipende
dalla possibilità di utilizzare l’oro in sé per fare qualcosa (una
collana o un’otturazione dentale). Tutti gli altri oggetti hanno
un valore intrinseco molto basso (quello della carta o della pla-
stica nel caso delle fiches) e un valore simbolico che dipende
da un sistema di regole. Un buono benzina da 10 euro mi per-
mette di ottenere un pari valore in benzina dai distributori che
lo accettano (che aderiscono al «sistema di regole»), ma non
mi permetterebbe di comprare 10 euro di pane dal fornaio.
Le fiches mi permettono di giocare dentro un casinò e poi di
essere riconvertite in banconote (euro o dollari, ad esempio)
che possono essere spese al di fuori del casinò (ma non potrei
certo presentarmi al supermercato con una fiches e pagarci
la spesa). E questo vale anche per gli euro. Posso spenderli
solo in un contesto in cui un sistema di regole sia accettato,
altrimenti non avrebbero alcun valore.
Per far capire bene questo concetto vado quindi ad analizzare
nel dettaglio le caratteristiche della banconota del Monopoli.
È un pezzo di carta colorata senza valore intrinseco, se non
quello della carta e dell’inchiostro.
È valida solo in un «contesto definito», quello del gioco del
Monopoli, in cui siamo noi e i nostri compagni di tavolo ad
accettarla.
Non è convertibile in qualcosa di spendibile al di fuori del
gioco, non può cioè essere cambiata in nulla al di fuori dal
46 gioco, e non può essere spesa o accettata in cambio di beni
o servizi al di fuori del contesto del Monopoli.
Le regole del «gioco» le ha scritte qualcun altro, e chi si è
seduto a giocare le accetta.
Chi non rispetta le regole viene «espulso» dal gioco.
Andiamo quindi a sostituire la banconota del Monopoli con
quella da 50 euro e a rivedere tutte e cinque le caratteristiche
individuate:

1. È un pezzo di carta colorata senza valore intrinseco? Sì!


Anche l’euro è un pezzo di carta con un puro valore sim-
bolico, impreziosito da un ologramma e qualche filigrana
di maggior qualità.

2. È valida solo in un «contesto definito»? Sì! È quello del


nostro sistema monetario e dei territori dove l’euro viene
accettato. Esistono paesi in cui è necessario cambiare gli
euro con la valuta locale, e se non avete sotto mano un
«ufficio cambi» rischiate di non poterci fare granché.

3. Non è convertibile al di fuori del «gioco»? Abbiamo spie-


gato bene che nessuna banconota è più convertibile con
una prefissata quantità di oro o altri metalli o beni reali.
Certo potete comprarci quello che volete dove l’euro è ac-
cettato (in base alle quotazioni «di mercato», e in genere in
quantità sempre minori ogni anno, per via dell’inflazione),
ma se aveste 50 euro in tasca, vi trovaste su un’isola de-
serta, vi chiamaste Robinson Crusoe e vedeste Venerdì con
una delle poche banane disponibili su tutta l’isola, credete
che accetterebbe 50 euro in cambio della sua banana?
Forse Venerdì accetterebbe qualche oggetto con un valore
intrinseco in cambio della banana, ma certo non un pezzo
di carta colorata per usare la quale dovrebbe viaggiare
47
migliaia di chilometri in posti a lui sconosciuti.

4. Le regole del «gioco» le ha scritte qualcun altro? Sì, anche


nel caso dell’euro c’è una certa «distanza» tra noi e chi
ha definito le regole di questa moneta. Lo hanno fatto
delle commissioni tecniche che hanno ricevuto il compito
di creare un’istituzione apposita per gestire le politiche
monetarie: la Banca Centrale Europea. Ora è la BCE, con
la massima indipendenza e autonomia, a dettare le regole
del gioco senza dover di fatto rispondere più nemmeno al
Parlamento europeo, e tanto meno ai singoli Stati e ai loro
cittadini.

5. Chi non le rispetta viene «espulso» dal gioco? Non c’è


dubbio che, anche nel caso dell’euro, il rispetto di rego-
le inerenti l’equilibrio di bilancio e il rapporto deficit/PIL
(solo per citarne alcune) è alla base della possibilità per
i vari Stati aderenti di poter far parte del gioco. Perciò
ad esempio la Grecia, incapace di rispettare i parametri
dettati dalla BCE e dal Fondo Monetario Internazionale, si
è dovuta sacrificare ai dettami della trojka per non essere
«espulsa». E così il Portogallo e l’Italia.

In conclusione, è quindi chiaro che le dinamiche che regolano


il denaro sono quelle di un «gioco» basato sul rispetto delle
regole e sulla fiducia di chi le ha accettate, dato che il dena-
ro in sé è solo un simbolo e non ha alcun valore oggettivo.
Il funzionamento del mondo di oggi si basa sul denaro, che
a sua volta si basa sulla fiducia, la nostra fiducia. Questo è il
messaggio che ho voluto dare scegliendo il primo logo per
le mie conferenze, che è costituito proprio dal Pianeta Terra,
il mondo, poggiato su una moneta da un penny, su cui ho la-
48 sciato visibile solo la scritta «we trust», «ci fidiamo». Il mondo
degli uomini è basato sul denaro e il denaro è basato sulla
fiducia. La nostra.
PARTE SECONDA – DENARO E CRISI

Ho appena citato il caso della Grecia, e allora vediamo di


ripercorrerlo insieme e, successivamente, di capirne le cause.
Nel 2009 l’economia greca palesò una fragilità tale da met-
tere in dubbio la solidità finanziaria di tutta l’Europa, la cui
economia rischiò di essere trascinata a sua volta verso il bas-
so. Per la prima volta dal 1993, infatti, in Grecia si registrò un
anno di recessione: il PIL, il prodotto interno lordo, cominciò
a diminuire.
Alla fine del 2009 il primo ministro George Papandreou di-
chiarò il rischio di fallimento, e per evitare ciò il governo fu
costretto a varare, all’inizio di marzo del 2010, una serie di
misure volte a sanare i conti pubblici, quali il blocco degli sti-
pendi dei dipendenti pubblici e una riforma del sistema pen-
sionistico. Ma la crisi greca non si risolse e il 2010 fu un anno 49
ancora più «nero».
Poiché volli studiare bene il caso, mi documentai approfon-
ditamente. Quando giornali, televisione e media presentano
i dati relativi ai bilanci statali, spesso ci presentano numeri
incompleti e fuorvianti, che non permettono un’analisi chiara
della reale situazione economica del paese in causa.
Analizzando con attenzione i dati ho trovato che nel dicembre
del 2010 il deficit annuale dello Stato greco toccò il 26%: in
sostanza, il governo greco incassava 100 e spendeva 126. La
situazione fu tale che l’agenzia di rating Moody’s tagliò ulte-
riormente il rating della Grecia, portandolo alla valutazione
CCC–, da ultima della classe.
Era ovvio: con un bilancio pubblico del genere, quale altra
valutazione avrebbero potuto ottenere?
A quel punto, mi dissi: «Guardiamo anche i primi della classe.
Ovvero gli Stati Uniti. Visto che tutti parlano male della Gre-
cia, andiamo a vedere come stanno quelli che invece sono
additati come il buon esempio dell’economia».
Sempre nel 2010, gli Stati Uniti e i loro titoli di Stato avevano
un rating AAA+. Ma qual era il loro deficit?
Ebbene, il loro deficit statale era del 59%, addirittura più di
due volte quello greco.
A parte il fatto che diventa difficile comprendere come si pos-
sa dare un rating massimo a un paese che ha un deficit dop-
pio della Grecia, un dato così pesante indica che il debito per
lo Stato è un problema di tipo strutturale, non dipende cioè
da una singola annata andata male, ma è il frutto di un’eco-
nomia statale che perpetua la difficoltà a superare con le sue
entrate quelle che sono le sue spese reali.
Infatti solo un paio di volte, negli anni 1980, durante la presi-
50 denza di Ronald Regan, il bilancio statale statunitense è riu-
scito ad andare in pareggio. In tutti gli altri anni, per tutto
il ventesimo secolo fino a oggi le spese sono state sempre
maggiori delle entrate. E i debiti totali sono andati via via
crescendo.
E notate bene che non è solo lo Stato negli Stati Uniti a es-
sere sempre più in debito, ma anche tutte le imprese private
e i cittadini. Infatti, per quanto riguarda il dato del 2010, se
si somma il debito del governo statunitense a quello delle
famiglie e delle imprese statunitensi, si arriva all’esorbitante
cifra di 55 000 miliardi di dollari. Per darvi un’idea, nel 1955
quello stesso dato era di «appena» un undicesimo: 5000 mi-
liardi di dollari.
È quindi chiaro che il debito di governi, famiglie e imprese
(non solo statunitensi, ma di tutta l’economia dei paesi occi-
dentali) non fa altro che salire. E a ritmi vertiginosi.
51

CHI DECIDE I DATI


Ho ricavato i dati relativi ai deficit di Grecia e Stati Uniti da
Wikipedia. Non è stato così banale, dato che gli ordini di
grandezza e le modalità con cui vengono presentati sem-
brano variare spesso ed essere stranamente «disordinate»
e fuorvianti. Wikipedia riporta a sua volta come fonte il
World Economic Fact Book («Il libro dei fatti dell’econo-
mia»), un volume redatto e diffuso tutti gli anni (non indo-
vinereste mai da chi…) dalla CIA, cioè dai servizi segreti
statunitensi. È la CIA a dettare i parametri secondo i quali
i dati vanno calcolati e il modo in cui essi debbano essere
divulgati. Evidentemente l’intelligence statunitense reputa
i dati sull’economia statale una «questione di sicurezza
nazionale» e fa di tutto per presentarli – o dovremmo dire
«manipolarli» – in modo da essere sempre meno chiari a
chi li legge e sempre più difficili da collegare all’econo-
mia reale. Sarebbero altrimenti troppo impressionanti e
alimenterebbero chiari dubbi sulla solidità del Sistema.

In Italia non siamo messi meglio. Nel 2010 il nostro PIL era di
2000 miliardi di dollari. Ciò vuol dire che quell’anno tutta la
nostra economia ha mosso quella ricchezza. Nello stesso anno
il nostro debito pubblico era pari a 2400 miliardi di dollari;
corrispondeva cioè al 120% del PIL. Abbiamo sentito spesso
questo dato alla radio, sui giornali o in televisione.
Inoltre, sempre in quell’anno lo Stato italiano sostenne una
52 spesa pubblica di 1070 miliardi di dollari. Ciò significa che più
del 50% del nostro PIL è stato generato dalla spesa pubblica,
cioè dall’erogazione di quei servizi e dal mercato di quelle
attività che sono finanziate dallo Stato.
E tutti quelli – politici ed economisti – che sostengono che
per rilanciare l’economia bisogna tagliare la spesa pubblica?
Se noi abbassassimo la spesa pubblica, che costituisce più
del 50% del nostro PIL, come possiamo pretendere di alzare
il PIL? Non vi sembra un controsenso? Significa che spesso
nemmeno i politici e i giornalisti hanno ben chiare le grandez-
ze messe in gioco nell’economia e come esse interagiscano
tra loro.
In effetti, attraverso le entrate pubbliche (IVA, accise, tasse...)
nel 2010 lo Stato Italiano ha ricavato qualcosa come 960 mi-
liardi di dollari. Gli altri 110 miliardi di dollari sono andati a
costituire il deficit del bilancio statale, e sono stati finanziati
con nuovi debiti. I nuovi debiti sono andati a sommarsi ai
vecchi debiti, accumulati negli anni precedenti. È qualcosa
che succede fin dall’inizio del ventesimo secolo, tutti gli anni,
governo dopo governo.
E aumentando il debito, aumentano anche gli interessi da
pagare su quel debito. È un circolo vizioso, destinato a non
avere alcuna inversione di tendenza.

La crisi finanziaria di questi anni è dovuta a una serie di eccessi


cui è stato portato il Sistema, ed è una reazione che condurrà
a un riassestamento delle dinamiche di funzionamento della
nostra società, sia di quelle monetarie che di quelle di consu-
mo e di impatto ambientale. Una crisi è come la febbre alta
in un corpo infettato da un virus: serve a uccidere il virus e a
permettere al corpo di rimettersi in salute. Nella medicina oli-
stica e orientale la febbre è una reazione utile, e va fatta «sfo- 53
gare». Nella medicina occidentale invece la si «abbassa» con i
farmaci per evitare il fastidio fisico derivante, allungando però
la durata della malattia o rendendo meno chiara o efficace
l’autoguarigione. Il sistema monetario occidentale è ormai da
anni sotto «cortisone», per abbassare e ritardare gli effetti di
un virus che ne ha ormai minato gravemente la salute. Questo
virus si chiama debito, e solo ora, dopo decenni in cui la sua
crescita ha alimentato il nostro benessere, ci rendiamo conto
di quanto è letale e di quanto ci abbia incatenati.

PIL, DROGA, CONTRABBANDO E PROSTITUZIONE


La notizia ha dell’incredibile, ma è vera. In Italia, come nel
resto dei paesi europei, le «attività illegali» quali i traffici
legati alla droga, alla prostituzione e al contrabbando di
sigarette o alcool sono entrate a tutti gli effetti nella misu-
ra del PIL, «in ottemperanza del principio secondo il quale
le stime devono essere esaustive, cioè comprendere tut-
te le attività che producono reddito, indipendentemente
dal loro status giuridico». Parola dell’Istat, che a partire
dall’autunno 2014 si è allineata alle indicazioni europee.
Il sistema UE, infatti, prevede l’inserimento delle attività
illegali nel prodotto interno lordo per tutti i paesi europei.
Cosa comporta tutto questo? Per darvi un’idea, il sommer-
so (il lavoro «in nero», per intenderci), che era già da anni
inglobato nel paniere del PIL, secondo la stima dell’Istat
relativa al 2008 valeva da solo 255-275 miliardi di euro.
D’altra parte il «nero» si distingue dall’illegalità, coprendo
solo ciò che sfugge allo Stato attraverso l’evasione fisca-
le. Ora si è andati oltre, aggiungendo il valore di scambi
54
illegali: commercio di sostanze stupefacenti, prostituzione
e contrabbando.
Certo, ammette l’Istat, «la misura di tali attività è molto
difficile». Ovvio: i dati relativi alle attività illegali sono dati
difficili da stimare. Perciò facili da manipolare.

FABBRICHE DI DEBITI

Se voi avete un debito nei miei confronti, che cosa ho io nei


vostri confronti? Un credito, ovviamente. Poiché abbiamo
parlato di debito, se c’è un debitore significa che c’è anche
un creditore. Qual è quindi l’origine di questo «virus» che
affligge la nostra società? Per trovare la risposta dobbiamo
risolvere prima un altro quesito: chi crea il denaro?
Chi tra voi pensa ancora che siano le banche centrali a crearlo,
purtroppo si sbaglia. È vero che sulle banconote che usiamo
quotidianamente c’è scritto «Banca Centrale Europea», ma
quelle banconote non rappresentano che una minima parte
della totalità delle transazioni di denaro che possiamo uti-
lizzare nel nostro Sistema. Pensateci bene: per fare i vostri
acquisti, usate solo contanti? Ovvio che no. Anche perché,
per legge, come abbiamo già visto, non è più possibile farlo
per cifre superiori a 999 euro. Oltre i 1000 euro dobbiamo
usare assegni o bancomat o carte di credito o bonifici. Ma
non contanti.
Ebbene: tutte queste forme di pagamento sono semplici nu-
meri che si spostano da un conto corrente all’altro. Non esiste
più una cassaforte che contenga tutti quei soldi, come invece
ci farebbe ancora credere lo stereotipo rappresentato da un
famoso papero di Walt Disney.
Quindi, chi genera quei «numeri» che si spostano da un conto 55
corrente a un altro attraverso l’uso di un computer?
Nel recente libro Where does money come from?, scritto da
Josh Ryan-Collins, Tony Greenham, Richard A. Werner e An-
drew Jackson, viene analizzata la situazione del mondo an-
glosassone. Stando alla loro ricerca, nel Regno Unito solo
il 5% del denaro circolante è creato dalla banca centrale. Il
restante 95% è creato dalle banche commerciali attraverso il
meccanismo del credito, cioè attraverso l’emissione di prestiti.
Questo dato si riferisce al mondo anglosassone, ma in Europa
possiamo dire che la situazione è pressoché identica.
Dire che il denaro è creato da qualcuno che lo emette come
credito significa affermare che quello stesso denaro sarà un
debito per qualcun altro, ovvero per chi quel denaro lo uti-
lizzerà.
Nello stesso modo in cui, come abbiamo visto nel nostro pre-
cedente «gioco di ruolo», Elizabeth ha chiesto in prestito un
lingotto per comprare il villino dei suoi sogni, similarmente noi
oggi possiamo chiedere in prestito 100 000 euro per comprare
un appartamento. Così, se oggi chiediamo 100 000 euro come
credito, a quel credito corrisponde un debito che potremo
ripagare in vent’anni. Quanto ci costerà l’intera operazione?
Con i tassi d’interesse attuali, si può arrivare anche al doppio
del valore di partenza.
Quindi, se al 95% della base monetaria corrisponde un debi-
to, che dovrà essere ripagato con gli interessi, che sono ulte-
riori soldi (che addirittura nemmeno esistono), questo significa
che all’aumentare della base monetaria aumenteranno (e di
più, perché ci sono anche gli interessi da ripagare!) anche i
debiti.
Quindi, oltre al fatto che i soldi che utilizziamo tutti i giorni
56 corrispondono a debiti, ora sappiamo anche che l’unico modo
che abbiamo per ripagare tali debiti, nel sistema attuale, è
richiedere altri soldi in prestito, e quindi fare altri debiti.
Com’è possibile? E perché nessuno ce lo dice? In realtà, qual-
cuno che lo dice c’è. Vediamo cosa ci rivelano alcune fonti
autorevoli.
Martin Wolf, caporeadattore del Financial Times, nel 2011
scriveva: «L’essenza del sistema monetario contemporaneo è
la creazione di denaro dal nulla, da parte delle banche private,
attraverso prestiti, spesso sregolati».
Se provaste a farlo leggere alla vostra vicina di casa, fedele
consumatrice di telegiornali e che diffida sempre di chiunque
e di qualunque cosa, potrebbe rispondervi: «Figuriamoci se
i giornalisti scrivono la verità! Sarà la solita bufala per inven-
tarsi uno scoop inesistente e vendere più copie del proprio
giornale!».
E allora cerchiamo un’altra fonte. Il bollettino ufficiale della
Bank of England, nel numero 3 del 2007, riporta: «Il ruolo di
gran lunga più grande nel creare moneta circolante è rico-
perto dal settore bancario. Quando le banche fanno prestiti,
creano depositi aggiuntivi per chi si indebita».
La vostra vicina potrebbe ancora obiettare: «Ma quella è l’e-
conomia inglese, sarà un caso particolare. Si sa che gli isolani
fanno tutto il contrario degli altri… guidano pure a sinistra! E
poi l’economia mondiale si basa da sempre sul dollaro».
E allora verifichiamo la situazione del dollaro statunitense. Un
documento della Federal Reserve Bank di Chicago intitola-
to Modern Money Mechanics e datato 1961, ristampato nel
1992 e tutt’oggi considerato valido, spiega: «L’attuale pro-
cesso di creazione del denaro avviene primariamente nelle
banche private».
La vicina potrebbe rinfacciarvi ancora una volta: «Ma quelli 57
sono americani, figurati se è così anche da noi in Italia, noi
abbiamo l’euro!».
E allora vediamo cosa succede in Europa, con l’euro. Nel
2009 la Bundesbank, nel testo Geld und Geldpolitik («Dena-
ro e politica monetaria»), sottolineava: «Nell’eurosistema, la
moneta è creata primariamente attraverso l’estensione del
credito bancario. (…) Le banche commerciali possono esse
stesse creare denaro».
A questo punto, anche alla vostra vicina credo non serva al-
tro per capire che ci troviamo in un Sistema in cui la maggior
parte della moneta che utilizziamo è un debito emesso dalle
banche private – compresa quella qui sotto all’angolo – da
ripagare con gli interessi. E per ripagare quel debito dobbia-
mo fare altri debiti, altrimenti dove troveremmo i soldi per
ripagare anche gli interessi?
LA RIVELAZIONE DELLA BANK OF ENGLAND
Anche nel 2014 la Bank of England ha pubblicato un re-
port e un video disponibili su Internet che spiegano esat-
tamente come è creato il denaro. Il report è apparso per la
prima volta sul numero 1 del Quarterly Bulletin 2014 con il
titolo Money creation in the modern economy ed è stato
scritto da Michael McLeay, Amar Radia e Ryland Thomas
del Bank’s Monetary Analysis Directorate. Ecco alcuni dei
punti fondamentali del report: «La creazione monetaria in
realtà differisce da alcune errate convinzioni comuni. Le
banche non agiscono solo come intermediari, prestando
i depositi dei risparmiatori. E nemmeno operano limitan-
dosi a ”moltiplicare“ il denaro stampato dalle banche cen-
trali». Esse creano denaro. Anche questo articolo spiega
come la maggior parte del denaro nell’economia moderna
58
è creato dalle banche private, facendo prestiti.

Ecco perché l’economia deve continuare a crescere: perché


se noi non produciamo profitto, chi paga quei debiti? Chi fa
nuovi debiti e si indebita di nuovo per pagare i vecchi debiti?
Questo sistema è pensato per andare avanti «a suon di debi-
ti», con una crescita continua: prima ci si indebita, poi si fanno
altri debiti per pagare quelli vecchi, e ancora e ancora, in un
crescendo di prestiti e indebitamento continuo ed esponen-
ziale. Un sistema del genere può andare avanti solo se con-
cepito in una realtà di crescita infinita. Ma la nostra economia
è inserita in un mondo dalle risorse limitate, ed è altrettanto
destinata ad avere un limite, prima o poi. Il sistema del debito
che utilizziamo oggi non considera affatto i limiti strutturali del
mondo in cui viviamo, in relazione alle persone che lo abitano.
È un’utopia vivere in un sistema che si basa su un’ipotesi di
crescita infinita, ma che è posizionato in un contesto finito e
limitato: il pianeta Terra.

LOTTE E PARADOSSI
Nella lotta sul controllo dell’emissione del denaro, fino alla
metà del secolo scorso il ruolo delle banche private è stato
«controllato» e «limitato» da un sistema di regole e dalla
possibilità per lo Stato di intervenire direttamente con la
creazione monetaria. Uno Stato, in quanto detentore del
potere legislativo, può creare le regole del proprio sistema
monetario e scegliere come effettuare nuovi investimenti
senza alzare le imposte: indebitandosi o stampando nuova
moneta. Nella seconda metà del ventesimo secolo la se-
conda opzione è stata sempre più relegata a «eccezione»,
59
grazie a un enorme lavoro di lobbying da parte del mondo
bancario privato, volto a evidenziare a livello accademico
soprattutto i lati negativi della creazione monetaria pubbli-
ca (in particolare il rischio «inflazione») e ad alimentare una
globalizzazione che è stata prima di tutto monetaria. Con
l’euro e la nascita della BCE il sistema bancario privato in
Europa ha ottenuto l’egemonia sulla creazione monetaria,
dando alla BCE il ruolo di controllore e garante di questa
egemonia. Così ora uno Stato europeo può alimentare la
spesa solo con le tasse o con il debito, e non può più emet-
tere nuova moneta. In apparente contraddizione, è stato di
recente imposto il pareggio di bilancio statale per ridurre
l’impatto del debito ormai irredimibile. Poco importa se il
deficit statale è una componente strutturale. Gli Stati Uniti,
ad esempio, hanno un deficit statale di oltre il 50% annuo
(cioè, lo stato spende il 50% in più di quanto incassa) e
non potrebbero mai sostenere il pareggio di bilancio e ri-
nunciare al ruolo della FED come «compratore/prestatore»
di ultima istanza. L’Italia è invece ora costretta per legge
al pareggio del bilancio statale: poco importa se non l’ha
mai raggiunto da quando è nata. Oggi più del 90% del
denaro circolante nel mondo occidentale – siano dollari,
euro, sterline o yen – non è stato emesso da banche centrali
come molti credono, ma è stato emesso «digitalmente» dal
sistema bancario privato, come prestiti, dal nulla, creando
nuovi debiti. Se con la vittoria del sistema bancario privato i
debiti sono rimasti l’unico modo per alimentare la «crescita
monetaria», in un mondo che cresce i debiti possono solo
crescere. Ma vivendo comunque in un pianeta «finito» e
non «infinito», se l’indebitamento ha raggiunto un livello
60
insostenibile, per evitare il rischio di un «default» a catena
e il crollo del sistema stesso, il mondo bancario ha deci-
so di «autolimitarsi» nell’unico modo possibile: riducendo
l’erogazione di prestiti. Ed è per questo che ad esempio
in Italia la crescita si è bloccata, il PIL è iniziato a calare e
siamo entrati in «recessione». Non è più possibile curare il
debito con nuovo debito e la recessione ne è la conseguen-
za inevitabile. Un vero paradosso.

DIVIDE ET IMPERA

Cosa succede se la moneta circolante, invece di aumentare,


comincia a calare? La moneta è il sangue dell’economia. Se
anziché circolare si ferma, succede che la crescita economica
si blocca. Questa è esattamente la situazione che viviamo
noi oggi. La crescita monetaria si è bloccata, di conseguenza
sono calati la crescita economica e il PIL, e ora ci troviamo in
recessione.
Ora: se vi trovate in un contesto economico di recessione e
siete un padre di famiglia, cosa fate? Per prima cosa, cercate
di risparmiare soldi, sprecando un po’ meno. Non è così?
E se avete anche dei debiti da ripagare? Primo, cercate di non
farne di nuovi, e secondo cercate di ripagare quelli che già
avete. Altrimenti, verrebbero a pignorarvi i beni che avete e
che sono a garanzia del credito ricevuto dalla banca (il vigneto
di Elizabeth nel caso del nostro «gioco di ruolo»).
Ricapitolando, in caso di crisi:
a) si cerca di risparmiare soldi e di sprecarli un po’ meno n
ma così si riduce la circolazione monetaria;
b) si cerca di non fare nuovi debiti n in tal caso, si riduce la
creazione monetaria; 61
c) si cerca di ripagare i debiti che già si hanno n quindi, se
tutto il denaro è debito, ripagando un debito se ne farà spa-
rire un po’ («distruzione monetaria»).

Ma, così facendo, non vi accorgete che state proprio alimen-


tando la recessione, poiché il nostro è un sistema che si ali-
menta attraverso i debiti. Il sistema si inceppa proprio perché
qualcuno smette di fare debiti, o si limita a ripagarli senza
farne di nuovi. Oppure, perché ci sono così tanti debiti non
assolti che qualcuno ha smesso di concederne di nuovi.
Quindi, paradossalmente, viviamo in un mondo in cui il buon
padre di famiglia, che risparmia, paga i debiti e non ne fa di
nuovi, in realtà sta contribuendo ad alimentare la crisi.
E allora vi pongo di nuovo la domanda di prima: chi di noi
lavora per una banca? La risposta è: TUTTI. Poiché tutti noi
siamo in ugual misura soggiogati dai debiti, direttamente o
indirettamente.
Volendo definire il nostro sistema con una metafora visiva, ho
scelto quella che vedete di seguito: un somaro (noi!) che va
avanti grazie alla «carotina» davanti agli occhi. Sopra di noi ci
sono le banche, che ci dicono: «Ripagate un po’ il debito». E
lavoriamo, lavoriamo, lavoriamo... ma noi quella carota non la
raggiungeremo mai, e ci tocca sgobbare senza sosta. Finché
un giorno il sistema collasserà.

62

DISTRUZIONE MONETARIA
Secondo gli studiosi ufficiali del sistema monetario ogni
debito ripagato dovrebbe implicare la «distruzione»
del denaro prestato per quel credito. La cifra di denaro
prestata, una volta tornata alla banca, dovrebbe quindi
essere ritirata dalla circolazione monetaria dalla banca
stessa. In realtà, alcuni ricercatori indipendenti (tra cui
l’italiano Marco Saba) sostengono che ripagando un de-
bito non si distrugge la quantità di denaro restituita, ma
questa rimane a disposizione della banca, fuori bilancio
(in «nero»). Lo stesso Saba, basandosi sulle indagini del
giornalista francese Denis Robert (autore del libro Reve-
lations), sostiene che le cosiddette società di «clearing»
interbancario abbiano la fondamentale funzione di mo-
vimentare questa circolazione monetaria «fuori bilancio»
(«off shore»)…

Secondo voi, questo è un sistema sostenibile? È un sistema


etico? Moralmente sano?
Eppure, sono decenni che siamo dominati da questa situazio-
ne, e ora siamo come scimmie rosse che non capiscono né
l’origine né il perché del Sistema, né il modo in cui scardinar-
lo. Ci affidiamo ciecamente ai tecnici e ai politici in giacca e
cravatta, che occupano i posti di potere e che ci governano 63
sottostando alle regole del gioco, e usandoci come pedine.
E come fa il Sistema a mantenerci nell’ignoranza?
Innanzitutto, controllando e condizionando i media, con la
diffusione di notizie fuorvianti e di falsi ideali.
Sapete, ad esempio, qual era il motto che circolava in Inghil-
terra durante la prima guerra mondiale, quando il governo
aveva paura che la gente si recasse in banca per cambiare le
sterline in oro? Keep calm and carry on. Mantenete la calma
e andate avanti così. Sì, perché altrimenti qui falliamo tutti,
salta il Sistema (ma questo non lo si poteva far sapere, ovvia-
mente!).
E qual è invece il motto di chi ha creato il Sistema? Io direi
questo: Divide et impera.
«Dividiamoli e comandiamoli. Continuiamo a tenerli discor-
danti e separati, che pensino a tanti problemini e questioni,
che non trovino accordo tra loro, e intanto noi continuiamo a
portare avanti i nostri interessi».
Già, perché, sentendoci separati, dobbiamo discutere, sentirci
diversi ed entrare in conflitto gli uni con gli altri, dimentican-
doci che siamo tutti uguali e che sono molte più le cose che
ci accomunano, a livello umano, delle cose che ci dividono,
nella società.
Così i media ci offrono ripetutamente argomenti di discussio-
ne e di distrazione, mentre il Sistema continua a portare avanti
i propri interessi per autoconservarsi.
E finché saremo separati, saremo come quelle scimmie rosse
che nemmeno si domandano «perché» funziona così, nem-
meno verificano la possibilità che il Sistema possa cambiare,
perché dubitano che lo si possa cambiare.
A conferma di ciò, vorrei riportare una citazione che circola su
64 Internet e su centinaia di fonti indipendenti. Si dice che que-
sta citazione sia stata presa da un numero dello USA Banker’s
Magazine del 1924, la rivista ufficiale dei banchieri. Ebbene,
nel 1924 il periodico avrebbe scritto:

«Il potere finanziario deve essere protetto in ogni modo pos-


sibile, con alleanze e leggi. I debiti devono essere riscossi, le
obbligazioni e i contratti ipotecari devono essere ripagati e
il più rapidamente possibile. Quando, mediante cause legali,
le persone comuni perderanno le proprie case, diventeranno
sempre più docili e saranno tenute a freno con più facilità
attraverso il braccio forte del governo al potere, manipola-
te dalla forza della ricchezza della finanza. Questa verità è
ben conosciuta tra i nostri uomini di spicco, ora impegnati a
costruire un imperialismo finanziario che governi il mondo.
Dividendo gli elettori attraverso il sistema dei partiti politici,
possiamo far spendere le loro energie per lottare su questioni
insignificanti. Di conseguenza, con un’azione prudente, ab-
biamo la possibilità di mantenere in essere quello che è stato
pianificato e portato a termine con così grande successo.»

«Divide et impera»: questo è il messaggio che traspare. E i


partiti politici sono un ottimo terreno per attuare le divisioni
e gestire il potere.
Voglio qui riportare un esempio eclatante relativo alla realtà
italiana.
Il 28 gennaio 2014 la Rai, durante il notiziario della giornata,
mandò in onda un servizio dal titolo: «Abolizione IMU, ba-
garre alla Camera». Nel servizio il giornalista raccontava degli
scontri che si erano verificati alla Camera tra la maggioran-
za, che proponeva il decreto legge, e l’opposizione, che era
fortemente contraria. Tuttavia, quello che non traspariva dal 65
servizio era il reale contenuto del decreto legge che i nostri
politici stavano votando.
In realtà, quel decreto si chiamava «Decreto IMU-Bankitalia».
Si discuteva sì dell’IMU, l’odiata tassa sulla casa, ma non solo.
C’era qualcosa in più, e di molto più importante, che la televi-
sione di Stato italiana aveva omesso. Non si stava discutendo
soltanto di quei pochi euro che saremmo andati a pagare o
a risparmiare sulle case di nostra proprietà. Si stavano anche
decidendo le sorti del nostro sistema bancario.
Ma quello che aveva capito mia madre, che come tanti italiani
si informa prevalentemente ascoltando i notiziari alla televi-
sione, era che «Vogliono abolire l’IMU, ma ci sono quelli del
partito 5 Stelle che non vogliono». «No mamma, c’è di più».
Vediamo di ripercorre insieme cosa stava succedendo in Italia
in quel periodo.
Alla fine del 2013 la BCE aveva richiamato le banche com-
merciali private di tutta Europa, rimproverandole circa la loro
condotta che negli ultimi anni è stata sempre più sregolata.
A tal proposito, bisogna ricordare che già nel 2009 alcune
banche statunitensi erano arrivate a prestare fino a 300 volte
il valore degli asset realmente presenti nelle loro «casseforti».
E in Europa non erano state da meno.
Quindi, la BCE intervenne: «Rispettabili banche commerciali,
siamo messi male. Quanti asset avete, realmente, nelle vostre
casseforti? Li avete due o tre «lingotti»? Se non li avete, vi
occorre rimediare. Perché se la gente viene a ritirare i propri
soldi, dobbiamo darglieli, non possiamo dire che non li ab-
biamo. Quindi, cercate di trovare le coperture che servono
il prima possibile, perché a marzo 2014 vi manderemo un
controllo per verificare la vostra situazione».
66 Banche come Unicredit, Intesa-San Paolo e altre rinomate
banche commerciali italiane avrebbero dovuto subire il con-
trollo da parte della BCE e mostrare a essa se avessero ef-
fettivamente qualche «lingotto» reale in cassaforte, e che i
loro asset realmente disponibili corrispondessero in quantità
sufficiente ai prestiti emessi. E siccome le banche commerciali
quegli asset non li avevano, dovettero procurarseli. Come?
Con un manovra che fu decisa e poi votata nel decreto IMU-
Bankitalia.
Direte voi: cosa centrano le banche commerciali con la Banca
d’Italia?
Devo darvi una brutta notizia: la Banca d’Italia non è dello
Stato, come molti ancora pensano. Essa è per il 95% di pro-
prietà di banche private e aziende private, che ne detengono
ciascuna una quota in percentuale.
Secondo lo statuto originale della nostra banca nazionale,
essa avrebbe dovuto rimanere pubblica, ma le banche com-
merciali, anno dopo anno, governo dopo governo, ne hanno
sempre detenuto la quasi totalità. Poiché, come già detto,
secondo lo statuto originario non era inizialmente lecito che
le banche private possedessero quote della Banca d’Italia,
nel 2001 fu cambiato tale statuto, in modo che ora le banche
commerciali possono mantenere le loro quote legalmente.
Ma il valore a bilancio delle quote possedute dalle banche
commerciali era rimasto lo stesso che la Banca d’Italia aveva
80 anni prima, negli anni 1920 e 1930, per intenderci. Nes-
suno aveva mai rivalutato il valore del capitale sociale della
nostra banca nazionale.
Qual era dunque quel valore nel 2013, al momento dell’avviso
da parte della BCE?
Era di soli 156 000 euro (che negli anni 1920 equivalevano 67
a 300 milioni di lire). Ma Bankitalia possiede la riserva aurea
italiana, che è la terza al mondo dopo quella americana e
quella tedesca, oltre a titoli e altri asset che valgono miliardi
di euro.
I banchieri pensarono dunque di rivalutare quelle quote.
«Facciamo una stima. Quanto valore possiamo dare alle no-
stre quote?»
«Facciamo che le rivalutiamo a 1 milione di euro!»
«Ma no, facciamo di più. Diciamo 100 milioni di euro!»
«No, è troppo poco. Alziamo ancora. Tanto, chi mai ci dirà
nulla?»
Ebbene, sapete a quanto sono state rivalutate quelle quote?
Sono state rivalutate a 7,5 miliardi di euro.
Nel decreto IMU-Bankitalia era contenuta proprio l’approva-
zione dell’aggiornamento di valore del capitale di Bankitalia
da 156 000 a 7,5 miliardi di euro.
Ma non è tutto. Perché a quel punto c’era la necessità di ven-
dere tutte quelle quote e di incassare realmente una parte di
quei 7,5 miliardi di euro. Infatti i nostri banchieri sapevano che
a Mario Draghi, presidente della BCE, non sarebbe bastata la
rivalutazione delle quote in loro possesso. Avrebbero dovu-
to venderle per mettere realmente «denaro» in cassaforte. Il
problema è che in pochi avrebbero trovato appetibili le quote
della Banca d’Italia.
«E allora, cosa facciamo?»
«Facciamo che noi le mettiamo in vendita, e se proprio nes-
suno le compra, facciamo che qualcuno sia obbligato a com-
prarle lo stesso.»
«E chi ha i soldi per comprarsi miliardi di euro di quote di
68 Bankitalia senza dare troppo nell’occhio?»
«Ho un’idea. Secondo me, l’unica che ha soldi per comprarsi
miliardi di euro di quote della Banca d’Italia e farlo senza
dare troppo nell’occhio è... la Banca d’Italia! Obblighiamo
noi stessi a vendere le quote, e poi obblighiamo Bankitalia a
ricomprarsele!»
«Ma sei un genio! Però qualcuno se ne accorgerà... come fac-
ciamo a far passare il provvedimento inosservato? Dobbiamo
deviare in qualche modo l’attenzione...»
«Io ho un’altra idea. Proprio in questi giorni in parlamento si
sta discutendo dell’abolizione dell’IMU, la tassa tanto odiata
dagli italiani. Facciamo in modo di inserire nello stesso de-
creto legge entrambe le questioni: IMU e Bankitalia. Così, se
qualcuno in parlamento proprio se ne accorge e vi si oppone,
noi diciamo che si sta opponendo all’abolizione dell’IMU. E
il gioco è fatto.»
E fecero proprio così.
Qualche giorno prima di Natale 2013, in tutta fretta, la Banca
Centrale Italiana mandò comunicazione a Mario Draghi, pre-
sidente della Banca Centrale Europea, della decisione presa
circa la rivalutazione del valore di Bankitalia, e gli diedero tre
giorni di tempo per approvarla. Draghi non ebbe nemmeno il
tempo di valutare la proposta di decreto. Quando si accorse
di quello che stava accadendo era già troppo tardi, e bac-
chettò Bankitalia per aver esagerato e per non avergli dato il
tempo sufficiente a valutare il decreto legge.
Dopo Natale il decreto andò in Parlamento, ci fu il dibattito e
l’opposizione da parte del partito 5 Stelle. E cosa successe?
Nel servizio del telegiornale della rete nazionale i giornalisti
titolarono: «Abolizione IMU, bagarre alla Camera».
Ma sì, Grillo e quel suo movimento... le parolone che volano
tra i politici di fazione opposta... proprio non si capisce mai 69
chi abbia ragione e chi abbia torto... ma quel giorno qualcuno
è riuscito zitto zitto a farsi approvare un decreto che era un
vero «paracadute» per un sistema bancario in «caduta libera».
2 CAMBIARE DENARO PER CAMBIARE IL
MONDO

Torniamo ora alla questione del legame tra il sistema mone-


tario che utilizziamo e la crisi che stiamo vivendo.
Ora che abbiamo analizzato e capito qualcosa in più sulle sue
origini e sul suo funzionamento, come potremmo chiamare il
sistema economico in cui viviamo? Economia di mercato? Ca-
70 pitalismo? Libero mercato? Io lo chiamerei «Economia basata
sul debito». Infatti il nostro mondo si basa sui soldi, e i soldi
sono emessi come debiti. La nostra è quindi un’economia
basata sul debito.
Questo Sistema non farà certo una bella fine. E allora: voglia-
mo farci seppellire da lui, oppure decidere noi di seppellirlo
e di costruirne uno nuovo?

ALIENI NELLA MANICA

Dopo avervi dato molte informazioni sconvolgenti, ve ne do


una buona: uscire dalla crisi è possibile. Ce l’ha spiegato il
premio Nobel Paul Krugman, il quale, intervistato da una tv
statunitense nel 2012, ha affermato che gli Stati Uniti po-
trebbero rilanciare la propria economia se il governo iniziasse
a spendere denaro in vista di una possibile invasione aliena
della Terra. E non importa che questa sia vera o falsa. E vi as-
sicuro che non stava scherzando. Speriamo qualche agenzia
governativa statunitense non lo prenda alla lettera....

Paul Krugman 71

Ma a parte le geniali intuizioni di Krugman, qualcuno – sul


pianeta Terra – ha avuto un’idea migliore in passato.
C’è stato infatti chi ha capito oltre un secolo e mezzo fa che il
sistema monetario occidentale funziona su un requisito fonda-
mentale: la fiducia. La fiducia di chi usa il denaro e si fida del
valore simbolico che è stato attribuito a esso. Se due persone
si scambiano una banconota, l’uno per comprare un bene
dall’altro, l’altro per riceverne il giusto compenso, significa
che entrambi si fidano del valore di quel pezzo di carta. Ebbe-
ne, in passato c’è stato chi ha capito che non importa a chi sia
data tale fiducia, se alla banca che produce quella banconota
o a un ente statale. L’importante è che ci sia la fiducia che
quel denaro serva per un interesse collettivo.
Quello che voglio ora analizzare insieme a voi è l’esempio
dell’Isola di Guernsey, un piccolo pezzo di terra in mezzo allo
stretto della Manica, tra la Francia e l’Inghilterra, popolato
prevalentemente da pescatori (e non da alieni…).
Nella prima metà del diciannovesimo secolo, quando le guer-
re napoleoniche erano ormai finite e di navi per quei ma-
ri ne passavano meno, l’economia dell’isola subì un arresto
improvviso. L’Isola di Guernsey era uno stato autonomo che
però utilizzava come moneta la sterlina inglese, e cominciò
ad avere dei problemi di bilancio.
Le sue entrate, tra tasse e ricavi vari, ammontavano a circa
3000 sterline all’anno, davvero poco rispetto alle 20 000 ster-
line di debito che il piccolo stato aveva accumulato nei con-
fronti delle banche inglesi. Inoltre, su quelle 20 000 sterline di
debiti l’Isola di Guernsey pagava qualcosa come 2400 sterline
72 di interessi annuali. Insomma, le entrate di un anno bastavano
a mala pena a ripagare gli interessi sul credito avuto, figuria-
moci se ci sarebbe stata la possibilità di fare investimenti!
L’isola stava rischiando il collasso economico: il porto, ormai
vecchio, veniva eroso dal mare, e quindi stava rischiando di
diventare inagibile; il mercato cadeva a pezzi, e quindi anche
le poche attività economiche locali non riuscivano a sostenersi
più; le strade erano sempre rovinate, rallentando ogni comu-
nicazione via terra; la disoccupazione aumentava e la moneta
circolava sempre meno.
I pescatori dell’Isola di Guernsey dovevano inventarsi qual-
cosa. L’unico vantaggio che essi avevano in più rispetto a
noi oggi è che mangiavano tanto pesce (di un mare ancora
per nulla inquinato), e se è vero che il pesce contiene tanto
fosforo e il fosforo fa bene al cervello, i pescatori di Guernsey
ebbero il vantaggio di farsi venire una buona idea…
L’idea che ebbero nella prima metà del diciannovesimo secolo
fu quella di prendere dei pezzi di carta e di stamparci sopra la
scritta «one pound», oltre a «Governo dell’Isola di Guernsey».
Quei pezzi di carta divennero, in sostanza, la nuova moneta
alla quale fu riconosciuta «fiducia» da parte di tutti i cittadini
dell’isola.
Infatti, l’intento del Governo fu quello di utilizzare la moneta
da esso stampata per pagare coloro che erano disoccupati
sull’isola, assumendoli per fare tutti quei lavori di cui l’isola
aveva bisogno: rinnovare il porto, restaurare il mercato, ri-
modellare le strade. Per fare in modo che la nuova moneta
funzionasse, il governo si premurò che le nuove banconote
emesse venissero riconosciute dai cittadini. Esse furono quin-
di dichiarate valide per pagare le tasse e per ogni scambio
commerciale all’interno dell’isola. A quel punto, a che scopo i
pescatori di Guernsey avrebbero dovuto continuare a dare la
fiducia alle sterline emesse da una banca inglese, quando ave- 73
vano delle banconote emesse dal proprio Stato, che tra l’altro
li tutelava garantendogli lavoro? E queste banconote avevano
anche il vantaggio di non rappresentare alcun debito.
Con questo meccanismo, negli anni seguenti furono stam-
pate 10 000, 20 000, 30 000... 40 000 sterline, un anno dopo
l’altro. E l’economia dell’isola è così ripartita. C’erano operai
che ricostruivano il porto, il mercato era ritornato finalmente
agibile e le strade erano nuovamente percorribili. Ma la co-
sa più interessante è che questo provvedimento di rilancio
dell’economia adottato dal governo non ebbe alcun impatto
sull’aumento dei prezzi e pertanto non vi fu inflazione (vedre-
mo in seguito come fu possibile).
L’economia dell’Isola di Guernsey arrivò a essere così florida
che gli abitanti dell’Isola di Jersey, l’isolotto vicino a Guernsey,
cominciarono a guardare insospettiti i loro colleghi pescatori.
«Da dove vengono quei soldi? Come fanno ad averne così
tanti da rilanciare ogni attività produttiva dell’isola?». Così
gli abitanti di Jersey avvisarono Londra di ciò che stava ac-
cadendo, e la Bank of England non tardò a mandare un suo
ispettore per verificare realmente l’accaduto.
Gli emissari arrivati a Guernsey capirono cosa stava accaden-
do e, realizzando che la strategia monetaria dell’isola avrebbe
destabilizzato anche il sistema bancario britannico, corsero
ai ripari: «Cosa state facendo qui? Vi siete messi a stampare
soldi da soli? Se smettete di fare ciò che state facendo, ci
possiamo accordare...».
«Voi da dove venite? Da Londra? Non ci interessa alcun accor-
do, grazie. Noi siamo pescatori, peschiamo e ci stampiamo la
nostra moneta. Non abbiamo bisogno di altro. Tornate pure a
Londra, grazie». Questo devono aver detto loro.
Gli emissari tornarono a Londra, ma non per archiviare il caso.
74 Infatti poco dopo sull’Isola di Guernsey fu aperta una banca,
la prima dell’isola. Quella banca cominciò a emettere prestiti
sregolati, e in poco tempo ci fu un crollo inflazionistico.
Oggi, nei verbali conservati dell’Isola di Guernsey, mancano
quelli in cui si racconta come il consiglio dell’isola decise di
smettere di emettere la propria moneta. Chissà perché...
Tutte le informazioni relative alla storia dell’Isola di Guernsey
sono comunque conservate in alcuni documenti, che ho per-
sonalmente ritrovato sul web e acquistato da un antiquario
inglese, e nei quali viene spiegato nel dettaglio come fu pos-
sibile per gli abitanti dell’Isola di Guernsey «creare la propria
moneta senza costi per i contribuenti e stabilendo una co-
munità prospera e libera dai debiti». Nei suddetti documen-
ti, il caso dell’Isola di Guernsey viene ricordato come «The
Guernsey House Market Scheme», ovvero il meccanismo con
il quale è stato ricostruito il mercato.
Purtroppo, però, poco tempo dopo l’avvento della prima
banca sul territorio dell’isola, il consiglio di Guernsey smise
di emettere la propria moneta. Forse qualcosa non aveva fun-
zionato? Non direi. Più probabilmente, qualcuno aveva minac-
ciato e proposto qualcosa in cambio, affinché l’isola ritornasse
a dipendere dalla moneta inglese.
Probabilmente fu proposto all’isola di diventare il luogo in cui
poter collocare un po’ delle risorse monetarie «off shore» del
sistema bancario inglese.
E infatti, cosa sono oggi l’Isola di Guernsey e la sua vicina
Isola di Jersey? Sono due paradisi fiscali, con una raccolta di
risparmi pari a quella di tutte le banche inglesi…

ATTIVITÀ PRODUTTIVE VS. ATTIVITÀ SPECULATIVE

Quello che avevano perfettamente capito sull’Isola di Guern-


sey era anche la terza delle tre funzioni del denaro, quella che 75
di solito non è mai spiegata nei libri di testo di economia, ma
che in realtà riveste l’importanza maggiore.
La prima, come abbiamo già visto, è agevolare gli scambi e
fungere da misura del valore. C’è una divertente vignetta in
merito. Un contadino chiede il conto in un bar e poi mette
una mucca sul banco: «Avete da cambiare?». Chiaramente è
più comodo pagare in denaro che «in natura».
La seconda funzione è quella di fungere da riserva del valore.
Se sono un pescatore e devo barattare il mio pesce con altra
merce, dovrò premurarmi di barattarlo tutto prima che comin-
ci a puzzare e che non si possa più mangiare.
La terza funzione, invece, è quella di rappresentare uno sti-
molo alla crescita della società. Infatti, dalla prima e dalla
seconda funzione del denaro si evince che esso è il sangue
dell’economia, perciò più ce n’è (entro certi limiti, che poi
analizzeremo insieme), più l’economia crescerà. Quindi, la cre-
scita del denaro in circolazione nell’economia di una società è
il più importante stimolo alla crescita di quella società.
È questo quello che avevano capito benissimo sull’Isola di
Guernsey (e che noi anche «in tempi di crisi» ancora stentiamo
a capire).
Se non c’è denaro, come fai a produrre? A comprare? A scam-
biare? A progredire? A innovare?
E i pescatori dell’Isola di Guernsey avevano capito un’altra co-
sa: non è importante chi emetta il nuovo denaro, l’importante
è che qualcuno lo faccia.
Se vogliamo rilanciare l’economia, ci deve essere del denaro
in più che circola. Che poi lo stampi una banca privata, una
banca pubblica o un ente parastatale, non fa differenza. Basta
che qualcuno emetta nuovo denaro in circolo.
E qui bisogna che soffermiamo la nostra attenzione su un altro
76 punto. Come avevano utilizzato il nuovo denaro in circolo gli
abitanti dell’Isola di Guernsey?
Avevano rifatto il porto, ristrutturato il mercato e rese nuo-
vamente agibili le strade. Cose utili per la società. Avevano
creato valore vero. Lo avevano impiegato nella sua totalità in
quelle che noi oggi definiamo «attività produttive».
Mettiamo che qualcuno del Consiglio, con il nuovo denaro
emesso, fosse andato invece al mercato di Guernsey e avesse
comprato tutto il riso disponibile.
«Quanto costa un sacco di riso?»
«Una sterlina.»
«Bene, mi venda tutti i sacchi che ha. Glieli pago con queste
banconote, appena emesse dal Consiglio dell’Isola.»
Poi, qualche giorno dopo, le persone sarebbero tornate al
mercato in cerca di riso da acquistare. Ma poiché tutto il riso
era stato acquistato il giorno prima da un unico acquirente, il
cereale sarebbe diventato un alimento introvabile.
«Mi spiace, di riso non ce n’è più, è finito ieri», avrebbe detto
il mercante al cliente.
«Ma come? Io dovrei fare i supplì! Quanto costava?»
«Costava una sterlina al sacco.»
«Io gliene offro una e mezza, se mi trova un sacco di riso.»
«Ma le dico che di riso non ne ho più!»
«Gliene offro due, di sterline!»
«Ma è introvabile!»
«Davvero? Nemmeno se le offro tre, quattro... cinque sterline
al sacco?»
Ed ecco che, chi aveva acquistato il riso il giorno prima, avreb-
be potuto rivenderlo a un prezzo inflazionato rispetto a quello
iniziale.
Come si chiama questo genere di attività? Si chiamano «attivi-
tà speculative». In questo modo, secondo voi, il denaro riesce
a mantenere un valore stabile nel tempo o no? 77
Certo che no! Perché i prezzi aumentano spinti dalla specula-
zione fatta col nuovo denaro.
E, secondo voi, qual è la percentuale di denaro sul totale
prestato (cioè creato) dalle banche che viene destinata a fi-
nanziare attività speculative?
Ve lo dico io: solo l’8% del denaro prestato dalle banche è
destinato ad attività produttive. Il restante 92% è destinato ad
attività speculative o di pura compravendita. Il dato si riferisce
al mercato britannico del 2012, ed è emerso da uno studio
condotto dal movimento Positive Money, un’associazione non
profit che ha lo scopo di sensibilizzare le persone sulla natura
del denaro e il cui fondatore, Ben Dyson, ho avuto l’onore
e il piacere di conoscere a Londra durante alcune delle sue
conferenze.
A proposito dei prestiti concessi dalle banche private, c’è chi
sostiene, dicendola con un eufemismo, che non sia proprio
un modello ottimale. Ad esempio, nel 2010 l’ex governatore
della Bank of England Mervyn King, negli stessi mesi in cui
stava per rassegnare le proprie dimissioni, affermò: «Dei molti
modi in cui organizzare il sistema bancario, il peggiore è quel-
lo che abbiamo oggi».

LA REGOLA PER CAMBIARE IL SISTEMA

E allora, poiché il Sistema non è così efficiente come noi tutti


ci auspicavamo che fosse, cosa dovremmo fare per cambiarlo?
Il primo passo che dovremmo fare è interrompere il mecca-
nismo per il quale, ogni volta che creiamo nuova moneta,
creiamo un debito che occorre ripagare con gli interessi.
Seconda cosa, una volta che avremo una moneta che non pro-
duce debito, dovremmo cercare di utilizzarla non per attività
78 speculative, ma per attività produttive, che producano valore
e cose utili per la società. Il massimo sarebbe utilizzare la mo-
neta per ridurre l’impatto ambientale, cioè prevedere, ogni
qualvolta si debba effettuare un investimento economico, che
tale investimento abbia come scopo quello di produrre qual-
cosa che migliorerà il nostro impatto sull’ambiente: costruire
pannelli solari, progettare vetture elettriche, sostituire tecno-
logie obsolete, investire in cultura... e via dicendo.
Ma devo fare tutto questo senza indebitarmi!
E per fare ciò, non servono miniere d’oro. Basterebbe cam-
biare una delle regole sulle quali si basa il sistema monetario.
Piccola parentesi: oggi non sono più la Commissione Euro-
pea o i governi a gestire la regolamentazione del sistema
monetario dell’Unione, ma la Banca Centrale Europea, che è
stata delegata a questo compito proprio dalla Commissione
Europea, a sua volta delegata dagli Stati nazionali.
Quindi, se volessimo cambiare il Sistema, basterebbe presen-
tarci alla Banca Centrale Europea e proporre la nostra idea:
«Guardate, per quanto riguarda l’emissione monetaria... da
domani facciamo così: il denaro vecchio rimane in circolazione,
e va bene così. Per tutto ciò che riguarda l’emissione di nuovo
denaro, decidiamo di metterlo in circolo senza debito e di uti-
lizzarlo per attività produttive, che abbiano un’utilità anche per
ridurre l’impatto ambientale delle attività umane. Per stampare
la nuova moneta, ci vorrà sempre qualcuno che la stampi, ma
questo qualcuno deve essere un ente pubblico, che abbia a
cuore gli interessi di tutti e non solo di una lobby di banchieri».
Vi sembra una proposta strana?
A parte che tutti noi credevamo che la banca centrale facesse
proprio questo, e che fosse un ente pubblico… Ma ora che
abbiamo capito che non è così, se dovessimo andare alla BCE
a fare la nostra proposta, dove dovremmo andare? A Berlino?
A Bruxelles? Molti di noi nemmeno lo sanno, dove si trovi la 79
BCE! Sappiate che si trova a Francoforte.
In realtà, alcuni studi sul tema hanno già cominciato a circo-
lare. Ad esempio, nel 2012 è uscito uno studio titolato The
Chicago Plan Revisited a opera di Jaromir Benes e Michael
Kumhof, due ricercatori interni del Fondo Monetario Inter-
nazionale, i quali spiegano nero su bianco come basterebbe
cambiare il sistema di emissione monetaria per risolvere la
stragrande maggioranza dei problemi che affliggono oggi la
nostra economia.
Il loro studio simula la rimozione delle funzioni di creazione
monetaria da parte del sistema bancario e ipotizza una riserva
al 100% per i prestiti (eliminando così la riserva frazionaria: si
presta solo quello che c’è in cassaforte).
In questo modo i vantaggi sarebbero evidenti:
– maggior controllo dei cicli economici e della disponibilità
di credito;
– eliminazione del rischio di fallimenti bancari;
– drastica riduzione del debito pubblico;
– drastica riduzione del debito privato.
Grazie a una simulazione sull’attuale economia degli Stati
Uniti, si è trovato riscontro positivo a tutte e quattro le affer-
mazioni.

PROPOSTE, NON PROTESTE


Quello che serve per cambiare il Sistema sono movimenti
di «proposta», non di semplice «protesta». Scendere in
piazza per protestare è il primo utile passo, ma deve es-
sere accompagnato da una proposta seria, possibilmente
semplice e chiara. A differenza nostra, gli amici britannici
sono più fortunati, perché se devono rivolgersi a qualcuno
sanno dove andare, e soprattutto quel qualcuno è vicino
80
a loro: Westminster (il parlamento), la City di Londra (le
banche) e la Bank of England (la banca centrale) sono tut-
ti nel raggio di qualche miglio l’uno dall’altro. Il miglior
esempio internazionale è infatti quello di Positive Money,
a Londra, dove in un anno e mezzo di lavoro Ben Dyson e
i suoi supporter, con l’aiuto di ricercatori come Josh-Ryan
Collins (NEF – New Economics Foundation) e Richard A.
Werner (Southampton University), hanno messo insieme
informazioni inconfutabili sul «problema» e una proposta
di legge per una riforma monetaria, che riporti l’emissione
monetaria in mano pubblica (tutto raccolto anche nel libro
Modernizing Money). Questo disegno di legge bi-partisan
è ora appoggiato da parlamentari di entrambi gli schie-
ramenti (Michael Meacher, laburista, e Steve Baker, con-
servatore), che ho visto parlare insieme a una conferenza
a Londra. In Italia, come potete capire, siamo un po’ più
indietro. Ma dopo aver conosciuto personalmente Ben,
Josh e il loro lavoro, so che qualcosa si può fare davvero.
Ci vogliono gli argomenti giusti e bisogna partire dal bas-
so. «Think global, act local» è anche il mio motto. Non a
caso, dopo aver studiato e raccolto documentazione in
giro per il mondo, ho iniziato a parlare di questi temi con
associazioni ed enti locali, partendo dal territorio in cui
vivo, e a rendermi disponibile a farlo ovunque mi invitino,
in Italia e all’estero. Ognuno di noi deve fare la sua parte,
senza aspettare che arrivino i politici di turno o gli extra-
terrestri a risolvere i nostri problemi…
Esistono decine di esperienze nel mondo di sistemi locali
alternativi al denaro/debito: monete locali (come il Totnes
Pound e il Brixton Pound) e monete complementari (come
81
lo SCEC), LETS (sistemi di scambio locale che superano il
vecchio concetto di baratto), Banche del Tempo e circuiti
di «Barter» (baratto), come lo svizzero VIR, l’italiano Bexb
e il sardo Sardex. Sono tutti esempi concreti che vanno
studiati e applicati nella propria comunità locale. Essi pos-
sono creare un’utile alternativa e integrare il sistema mo-
netario attuale, soprattutto nel malaugurato caso in cui
un bel giorno questo vada «inaspettatamente» a gambe
all’aria… Ma soprattutto essi rappresentano un modo per
«rieducare» il cittadino comune a pensare al denaro come
a un mezzo, e non un fine (compresi il nostro vicino di ca-
sa, il macellaio all’angolo e l’anziana signora cui paghiamo
l’affitto), dimostrando loro che il denaro/debito è solo uno
dei modi per organizzare le nostre vite e i nostri «scambi»,
e non certo il migliore.
Tuttavia, una riforma limitata a ripensare il modo in cui emet-
tere il denaro non è sufficiente. Ci sono altri aspetti da consi-
derare, primo tra tutti quello culturale.
Ipotizziamo che il Consiglio dell’Isola di Guernsey, una volta
stampato il proprio denaro, lo avesse distribuito ai suoi citta-
dini senza chiedere a essi di svolgere alcun lavoro in cambio.
In fondo, l’obiettivo per cui il denaro veniva stampato era
quello di ridare «linfa vitale» all’economia. Ipotizziamo quindi
che ogni pescatore o mercante dell’isola avesse ricevuto una
buona quantità di moneta da utilizzare per il proprio benes-
sere, a proprio piacimento. Come li avrebbe spesi?
Fate finta di essere voi uno di quei pescatori o mercanti, e
ambientiamo l’esempio ai giorni nostri. Se vi dessero 10 000
euro al mese, da spendere liberamente, cosa ne fareste?
10 000 euro al mese sono una bella cifra, ci si può anche con-
82 cedere qualche lusso e magari sognare di essere un po’ più
felici. Cosa fareste?
Un viaggio? Buona idea.
Oppure? Una vacanza in un centro benessere? Ma sì. Guar-
date che con 10 000 euro vi potete concedere l’uno e l’altra.
E se al posto di darvene 10 000 ve ne dessero 100 000?
100 000 euro al mese, per tutti i mesi. Con quella cifra vi co-
struite voi la vostra Spa, così ci andate quando volete. Ci met-
tete una finta cascata, di quelle che emulano l’effetto pioggia,
e poi la sauna, l’idromassaggio e due o tre massaggiatori
personali.
Oppure, se al posto del centro benessere preferite viaggiare
il mondo, vi potete comprare una bella barca a motore da 15
metri e solcare il Mediterraneo in lungo e in largo. Dall’Italia
potreste andare in Grecia via mare, invece che prendere l’ae-
reo. Sarebbe molto più interessante.
Ma non basta. Proviamo a esagerare. Se vi dessero un milione
di euro al mese? Tanto abbiamo deciso di emettere denaro
senza debiti, basta stampare qualche banconota in più o, me-
glio ancora, entrare nel software della vostra banca e digitare
dei numeri sul computer.
Un milione di euro: che cosa ci fareste con una cifra del genere?
Altro che un viaggio! Prima vi fate qualche vacanza nei luo-
ghi che avete sempre sognato, poi, se ne trovate uno che vi
aggrada più degli altri, ritornate lì e vi comprate una villona,
da poterci soggiornare quando volete, senza dover prenotare
l’albergo. Ipotizziamo che vi innamoriate dell’Egitto. Sapete
che fatica andare tutte le volte in Egitto via mare, in crociera?
Meglio comprarsi un bell’appartamento a Il Cairo. Poi con un
milione di euro si può anche corrompere le autorità locali e
chiedere qualche permesso per costruire un attico con vista
sulle piramidi. E poi, se a un certo punto vi stancaste dell’E- 83
gitto, potreste decidere di comprarvi un isolotto intero, per-
ché no? Come ha fatto Angelina Jolie per il suo compagno
Brad Pitt a Natale 2013: un regalino da 12 milioni di dollari.
E per arrivare sull’isolotto di vostra proprietà vi serve costruire
un porto adeguato, dove fare attraccare lo yacht che aveva-
te già comprato quando avevate 100 000 euro al mese. Dite
che lo yacht è piccolo? Che problema c’è? Con tutti i soldi
che avete sul vostro conto, vi potete comprare una barca da
80 metri, e il problema è risolto. E se un giorno vi annoiaste
di raggiungere il vostro isolotto via mare, è sufficiente che
costruiate una piattaforma d’atterraggio per l’elicottero che
nel frattempo vi siete fatti costruire ad hoc. Stipendiate alle
vostre dipendenze un po’ di «servitù», il giardiniere che vi
curi il giardino, i responsabili del centro benessere, la cuoca
personale, un paio di domestiche, il pilota dell’elicottero.
Morale: vi rendete conto di cosa succederebbe se tutti aves-
sero facilmente accesso alla ricchezza? Succederebbe che
tutti vorrebbero il proprio isolotto personale con il centro
benessere, il porto privato e una squadra di dipendenti al
proprio servizio.
Ora: quanti siamo sul pianeta Terra? Sette miliardi. Immagi-
nate sette miliardi di isolotti con sette miliardi di centri be-
nessere, sette miliardi di porti e sette miliardi di barche da 80
metri e almeno 70 miliardi di servitori. Vi pare plausibile uno
scenario del genere?
Se l’esempio dell’isolotto vi sembra surreale o esagerato,
proviamo a ridimensionarlo con qualcosa di molto più vicino
al nostro vivere quotidiano. Se a tutti i sette miliardi di indivi-
dui che vivono oggi sulla Terra dessimo un iPhone, un SUV e
una villetta, che fine farebbe il nostro pianeta, dopo il primo
84 mese di erogazione di fondi gratuiti a tutti gli esseri umani?
Finirebbe e basta. Game over. Risorse finite. Le materie pri-
me, gli ecosistemi, gli equilibri ambientali del nostro pianeta
sarebbero compromessi in pochissimo tempo. Probabilmente
dopo pochi mesi non ci sarebbe più nemmeno il materiale per
produrre i microchip dei telefonini.
Quindi c’è un serio motivo per cui nessuno a fine mese
intende erogare a tutti un milione di euro da spendere per il
proprio benessere. E qual è il motivo? Che ci faremmo solo
dei danni. In troppo pochi ancora stanno cominciando a
capire che bisogna usare con attenzione le risorse del pianeta,
mentre i più non ci pensano: usano le risorse in base alla
propria disponibilità di denaro, senza porsi il problema che
la disponibilità di risorse non sarà sempre tale, a prescindere
dai soldi per poterle comprare.
La questione, dunque, non è creare denaro per fare qualcosa
di buono, il problema è capire cosa sia buono fare con quel
denaro, perché la maggior parte di noi, se avesse due soldi
in più, li spenderebbe davvero male.
E allora, se riflettete attentamente, è un bene che gli isolotti
se li possa comprare solo qualche star di Hollywood.

MISURARE LA FELICITÀ

Il problema del Sistema attuale non è nel «come», «quan-


do» e «quanto» denaro emettere, semmai è nel «perché». Il
problema è nel come misuriamo la nostra felicità. Che cosa
intendiamo con la parola «benessere»? Intendiamo il possesso
dell’ultima tecnologia disponibile sul mercato? Delle mag-
giori comodità possibili, sempre e comunque? Oppure c’è
qualcos’altro di cui ci siamo dimenticati?
Forse è giunto il momento di accorgerci che dobbiamo cam- 85
biare l’unità di misura del nostro progresso.
Vi faccio un esempio. Se prendo un bimbo e mi impegno
a farlo crescere, gli darò cibo a sufficienza perché sia ben
alimentato secondo tutti i parametri nutrizionali: proteine,
carboidrati, grassi, minerali e vitamine. Più mangerà e più
crescerà. Ma quando il bimbo sarà cresciuto e, compiuti i 18
anni, sarà diventato adulto, non potrò insistere nel riempirlo
di cibo. Altrimenti anziché crescere in altezza inizierà a cresce-
re in larghezza, e anziché essere in buona salute si ammalerà.
Perciò quando un bambino cresce devo cambiare il modo in
cui nutrirlo. Magari, al posto di dargli solo un piatto di pasta,
gli proporrò un libro da leggere, e lo farò crescere intellettual-
mente. E così la mia unità di misura della «crescita», anziché
essere legata all’aspetto fisico, sarà legata all’aspetto interiore
dell’essere umano.
L’economia funziona allo stesso modo. Il mondo occidentale
ha raggiunto livelli di consumo tali per cui non può crescere
oltre, non può più basarsi sul consumo materiale esasperato
che non tiene in considerazione anche dell’ambiente in cui
viviamo, e di cui siamo ospiti per la durata della nostra breve
esistenza.
In proposito, vorrei citare il discorso di colui che considero
uno degli ultimi veri politici che hanno solcato questa Terra:
Robert Kennedy, detto Bob, fratello di John F. Kennedy.
Ecco ciò che disse nel 1968 (appena tre mesi prima che qual-
cuno gli sparasse nel retro dell’hotel «Ambassador» di Los
Angeles, poco dopo aver annunciato la sua candidatura alla
presidenza degli Stati Uniti):

«Con troppa insistenza e troppo a lungo, sembra che abbiamo


86 rinunciato alla eccellenza personale e ai valori della comunità,
in favore del mero accumulo di beni materiali. Il nostro PIL ha
superato gli 800 miliardi di dollari all’anno, ma quel PIL – se
giudichiamo gli Stati Uniti in base a esso – comprende anche
l’inquinamento dell’aria, la pubblicità per le sigarette e le am-
bulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine
dei fine settimana. Il PIL mette nel conto le serrature speciali
per le nostre porte di casa e le prigioni per coloro che cerca-
no di forzarle. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di
Speck, e i programmi televisivi che esaltano la violenza al fine
di vendere giocattoli ai nostri bambini. Cresce con la produzio-
ne di napalm, missili e testate nucleari e non fa che aumentare
quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Comprende le auto blindate della polizia per fronteggiare le
rivolte urbane. Ma il PIL non tiene conto della salute delle no-
stre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia
dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della
nostra poesia, la solidità dei valori famigliari o l’intelligenza del
nostro dibattere. Il PIL non misura né la nostra arguzia, né il
nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscen-
za, né la nostra compassione, né la devozione al nostro Paese.
Misura tutto, in poche parole, eccetto ciò che rende la vita
veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America
ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.»

87

Robert Kennedy

MERITARSI LA RICCHEZZA

Dunque, ricapitolando: come abbiamo capito in queste pa-


gine, il nostro sistema monetario ci dimostra che il denaro
è puramente un simbolo legato a un sistema di regole, e
che potrebbe essere creato – senza «limiti» – per costruire
il mondo che vogliamo. Ma anche qualora ci mettessimo a
stampare tutti i soldi che vogliamo per aumentare il benes-
sere sociale, dobbiamo comprendere prima dove e perché
vadano investiti.
Perché se ci mettessimo a regalare telefonini, SUV e villet-
te a tutti rischieremmo di non migliorare affatto il mondo in
cui viviamo. Pensate se un politico andasse in parlamento
e proponesse l’idea di migliorare l’immagine del suo paese
cominciando a lastricare d’oro tutti i guard-rail delle nostre
autostrade. Magari pensa che in quel modo offrirebbe alle
persone che vengono dall’estero un’immagine del proprio
paese ricca e prosperosa. Oppure lo farebbe solo perché suo
cugino fa il lastricatore di guard-rail (perché è così che funzio-
na la politica, più o meno...). Ma siamo davvero sicuri che quei
guard-rail dorati contribuirebbero al benessere dei cittadini
di quello Stato?
L’esempio è paradossale, ma purtroppo non distante dal mon-
88 do reale.
Quindi, ci serve qualcos’altro per rendere il Sistema intrinse-
camente immune agli errori e agli abusi dei singoli. Ma cosa?
La mia idea è quella di collegare l’emissione monetaria alla ri-
duzione del nostro impatto ambientale sull’ecosistema e sulle
risorse del nostro pianeta.
Cosa significa? Significa che dovremmo emettere soldi solo
per finanziare attività che producano un benefit al nostro am-
biente, all’ecologia della Terra, che riducano il nostro utilizzo
di risorse o perlomeno non ne consumino ancora.
Non possiamo più permetterci di emettere soldi e investirli
in attività che riducono le risorse del pianeta. Che mondo
lasceremo ai nostri nipoti?
Noi siamo ospiti di questa Terra. Eppure spesso e troppo fa-
cilmente ce lo dimentichiamo. Nasciamo, consumiamo, spre-
chiamo, inquiniamo e poi ce ne andiamo. Lasciando il mondo
più sporco e inquinato di come l’abbiamo trovato. Cosa sa-
rebbe se andassimo in vacanza, ospiti nella casa di un amico,
e durante la nostra villeggiatura consumassimo tutto ciò che
il nostro amico ci ha lasciato in frigorifero, gli sporcassimo ca-
sa e rompessimo anche qualche mobile o elettrodomestico?
Anche i miei nipotini sanno che non ci si comporta così.
Eppure noi «adulti» stiamo facendo questo, sul nostro pia-
neta.
Ora c’è bisogno di una maggiore consapevolezza. Ecco per-
ché sostengo che lo sforzo che facciamo per ridurre il nostro
impatto ambientale debba fungere da unico vincolo alla cre-
scita monetaria.
Ecco perché c’è bisogno di legare l’emissione monetaria al
finanziamento di attività che riducano o quanto meno non
aumentino l’inquinamento della nostra società.
Nei capitoli successivi, questo libro propone alcune soluzioni 89
«sostenibili», sia per quanto riguarda la nostra capacità di
prenderci cura della nostra salute in modo autonomo e in-
dipendente dai farmaci, sia per ciò che concerne l’approv-
vigionamento di cibo, la produzione di energia e i mezzi di
trasporto che utilizziamo quotidianamente.
Potremmo sbagliare, potremmo cominciare a utilizzare tecno-
logie che poi scopriremo essere non totalmente performanti,
e quindi correggerci in corso d’opera. Potremmo investire
in pannelli fotovoltaici, ad esempio, e poi scoprire che esi-
ste una tecnologia migliore di quella, e rifare tutto daccapo.
Ma almeno dobbiamo provarci. E avremo sempre le risorse
monetarie da investire per sistemare gli errori del passato, e
senza fare nuovi debiti.
Ciò che sta iniziando a crescere e deve continuare a crescere
è la volontà di costruire un mondo sano e sostenibile, e non di
«consumarlo». Prima di manifestarsi a livello globale, questa
volontà deve manifestarsi a livello individuale e locale. Ognu-
no di noi deve acquisire consapevolezza del potere che ha,
che esercita ogni giorno dando fiducia al denaro e al sistema,
e di come lo vuole usare. Allora si potrà scegliere se usarlo
per mantenere in piedi «mezze verità» e «bisogni fasulli», o
per costruire un mondo sostenibile basato sul rispetto e sull’e-
quilibrio, pensando ora al futuro e al bene comune, col corag-
gio di rinunciare ad alcuni dei vantaggi cui ci siamo abituati
negli ultimi decenni. Se questo cambio di consapevolezza non
avverrà, anziché farci protagonisti di questo cambiamento e
viverlo come una scelta consapevole, continueremo a «subire»
il potere del denaro e la riduzione dei consumi e degli sprechi
come un obbligo derivante da misure di austerity e di crisi.
Un mondo basato su prosperità, benessere e sostenibilità,
90 vicino all’idea di «Paradiso» che potremmo avere in mente, è
possibile davvero.
Il denaro può diventare uno strumento per creare il nostro
Paradiso sulla Terra, orientando una crescita che non sia più
materiale ed economica, ma culturale e spirituale, e può es-
serne creato tutto quello che serve per farlo, con un semplice
«atto di volontà pubblica». Ma prima di poterlo fare occorre
essere preparati a meritarselo, oltre che essere preparati a
farne a meno. Questa è la sfida evolutiva che combatteremo
nei prossimi anni.
E nell’attesa che qualche economista più blasonato accolga
seriamente i miei spunti, non possiamo stare certo con le mani
in mano ad aspettare. Inizierò quindi dalle pagine del prossi-
mo capitolo a darvi qualche strumento pratico per cambiare
le cose, ognuno a partire da sè.
3 COME RENDERSI LIBERI

«I pensieri, per quanto buoni, sono solo false perle finché


non diventano azioni.
Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.»
Mahatma Gandhi

«Solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter 91


cambiare il mondo lo cambiano davvero.»
Steve Jobs

Ora che abbiamo visto come funziona il Sistema, la domanda


è: come facciamo a cambiarlo?
Non posso sperare di organizzare conferenze in giro per il
mondo, scrivere libri sul tema e parlare a tutti del problema
strutturale della nostra moneta, e poi aspettare che qualcuno
dall’alto faccia la riforma tanto desiderata.
Perché il Sistema non è qualcosa che arriva dall’alto, il Siste-
ma siamo anche noi. Siamo noi che ogni giorno sottostiamo
ai patti definiti da qualcuno che ci governa e ci rappresenta
(o quantomeno dovrebbe rappresentarci), e quindi siamo noi
che dobbiamo cominciare a fare qualcosa. Sono io, Enrico
Caldari, che mi devo dare da fare per primo.
Il Sistema non potrà mai cambiare finché ci saranno scimmie
rosse che ne bloccano il cambiamento. Quindi, il primo pas-
so è capire che finora NOI siamo stati le scimmie rosse: ci è
sempre andato bene quello che ci hanno fatto credere, senza
preoccuparci di verificare quello che ci veniva fatto credere.
Questo libro ha lo scopo di diffondere verità che ci sono spes-
so state nascoste. Queste verità ci porteranno a capire che
il vecchio mondo è già morto, poiché non è più sostenibile
(non solo a livello economico, ma anche a livello ambientale,
e lo vedremo nei prossimi capitoli). Tuttavia, il vecchio mon-
do non potrà mai finire finché non ci sarà un mondo nuovo,
pronto a sostituirlo. Questo Sistema è così perché noi siamo
ancora così. E allora siamo noi che dobbiamo cambiare, per
poi cambiare il Sistema.
E allora ecco che ritorno con il mio motto: Think Global, Act
92 Local. Ovvero: ragioniamo in termini globali, ma agiamo lo-
calmente. Studiamo, comprendiamo quello che succede nel
mondo, e poi diamoci da fare in prima persona, partendo dal
nostro nucleo familiare, dalle nostre mura di casa, e comin-
ciamo a cambiare qualcosa intorno a noi. Questo è il primo
passo: partire da noi.
Gandhi, un altro pensatore e personaggio capace di muovere
le masse, diceva: «I pensieri, per quanto buoni, sono solo false
perle finché non diventano azioni. Sii il cambiamento che vuoi
vedere nel mondo».
E allora: quali sono le prime azioni che devo fare per cambiare
un Sistema dal quale dipendo ogni giorno della mia vita per
vivere?
Come faccio a rinunciare ai soldi, così come sono concepiti,
se senza di essi non posso pagarmi da mangiare, la benzina
della macchina e le bollette di luce e gas?
C’è un’unica risposta: devo rendermi Libero dal Sistema. Devo
rendermi indipendente in tutti quegli aspetti della mia vita
per soddisfare i quali, finora, ho avuto bisogno del Sistema,
poiché da esso dipendo per tutti quei servizi che mi servono
per vivere.

I CINQUE AMBITI DI INDIPENDENZA

E allora, come faccio a rendermi Libero dal Sistema?


Per prima cosa, devo cominciare a capire come funziona dav-
vero. Sapere fino in fondo, senza delegare a qualcuno la cer-
nita di informazioni da passarmi. Bisogna conoscere la situa-
zione attuale, bisogna capire perché funziona così, e bisogna
comprendere se e come si può cambiare. Questo è il primo
passo. E questo primo passo implica la consapevolezza che
non dobbiamo aspettare qualcun altro che studi il Sistema per 93
noi e che cerchi soluzioni alternative a esso. Il primo passo
implica la consapevolezza che siamo noi i primi a dover cer-
care le giuste fonti presso cui informarci. Il primo passo verso
l’indipendenza è quindi il SAPERE, l’indipendenza culturale.

Il secondo ambito, che in realtà è il primo cambiamento con-


creto e pratico, visto che il SAPERE lo è solo a livello teorico,
è la SALUTE.
Ve lo ha sempre detto la mamma, fin da piccoli: «Prima di
tutto, viene la salute».
Come faccio a rendermi indipendente e mettere in pratica
cambiamenti concreti nella mia vita se non sto bene e devo
dipendere dal medico che mi prescrive un rimedio farmaco-
logico al più banale problema fisico? Come faccio a sentirmi
libero se sono ogni giorno costantemente pressato a livello
psicologico dall’idea che se non prendo una pastiglia, o se
non seguo una terapia, o se non prevengo una malattia con
un vaccino domani potrei rischiare di ammalarmi e di morire?
Perché è questo quello che ci ha inculcato la medicina occi-
dentale, basata sui rimedi chimici venduti dalle multinazionali
farmaceutiche. La salute è diventato uno dei più grandi busi-
ness dal quale trarre profitto, a spese della nostra ignoranza.
Quindi, il secondo ambito su cui dobbiamo lavorare è la no-
stra salute: dobbiamo trovare un modo per essere capaci di
mantenere in modo autonomo il nostro benessere fisico e
mentale, senza più dipendere da farmaci e terapie.
Per anni mi sono dimenticato di questo aspetto, nella mia
vita. Lavoravo come direttore commerciale per un’azienda
e la mia carriera professionale mi assorbiva così tanto tem-
po ed energie che non mi ponevo la questione del come e
94 cosa mangiare per mantenermi in buona salute. Mangiavo
sempre di corsa: un panino, un pasto fugace, una sosta in
autogrill. Alla fine il mio stomaco si era fatto sentire, e a
un controllo medico il dottore mi disse: «Guardi che se lei
continua così non farà altro che intossicarsi sempre più… si
dia una regolata».
«Si dia una regolata». Facevo il «manager», cioè gestivo im-
portanti affari aziendali per conto di altri, ma mi ero dimen-
ticato di gestire la mia salute. C’era stato bisogno dell’in-
tervento di qualcun altro per «ricordarmi» che dovevo fare
attenzione a quello che mangiavo.
Quell’episodio mi fece riflettere parecchio, e mi fece cambiare
rapidamente le mie abitudini alimentari.
Ed ecco che arriviamo al terzo aspetto che riguarda la nostra
indipendenza: l’ALIMENTAZIONE.
È ovvio: ogni giorno abbiamo bisogno di cibo!
E allora, fate questo esercizio. Pensate a casa vostra. Immagi-
nate di entrare in cucina, e visualizzate il vostro frigo. Apritelo
e guardateci dentro. Per quanto tempo potete sopravvivere,
con gli alimenti che avete in casa?
Quanti giorni di autonomia ha la vostra dispensa, se da do-
mani tutti i supermercati fossero chiusi? Tre giorni? Quattro
giorni?
Quindi, se per assurdo il Sistema fosse impossibilitato a di-
stribuire qualche tonnellata di petrolio per far viaggiare tutti
quei camion che ogni mattina consegnano la merce al super-
mercato sotto casa vostra, e il supermercato esaurisse così
in pochissimi giorni tutti i suoi prodotti, voi mi state dicendo
che avreste meno di una settimana di autonomia alimentare?
Per non parlare dell’acqua in bottiglia che consumiamo per
dissetarci!
Se vogliamo renderci Liberi dal Sistema, uno dei punti fonda- 95
mentali che dobbiamo considerare è il nostro sostentamento
alimentare. Come ci nutriamo? Come possiamo procurarci il
cibo in altro modo, o addirittura produrlo in modo autonomo?
Facciamo ora un’altra ipotesi. Ci troviamo in inverno, fa fred-
do. All’improvviso si interrompono tutte le forniture di gas
che servono al riscaldamento della vostra casa. Come fate a
riscaldarvi? Avete almeno un camino? Potete bruciare qualche
mobile di casa? (Non ve lo consiglio.) Tutto questo per porre
la vostra attenzione al quarto aspetto da considerare per la
nostra indipendenza: l’ENERGIA.
L’energia non è solo quella di casa (luce, gas, riscaldamento),
ma è anche quella che vi serve per muovervi quotidianamen-
te: lo sapete che tra meno di cinquant’anni (secondo le più
ottimistiche delle previsioni) avremo esaurito tutte le riserve
di petrolio del pianeta Terra? Come faremo senza benzina o
diesel per le nostre automobili? È quindi ovvio che dobbiamo
pensare fin da ora a fonti di energia alternative, e dobbiamo
cercare di procurarcele in modo da non dipendere più dal
Sistema.
Solo quando avremo soddisfatto questi quattro ambiti della
nostra vita (Sapere, Salute, Alimentazione, Energia), allora po-
tremo pensare di cambiare definitivamente il Sistema anche
dal punto di vista economico. Il quinto e ultimo aspetto è
quindi legato all’indipendenza finanziaria, ed è quello che ci
permetterà di staccarci anche dal DENARO (o di ripensarlo in
altri termini rispetto a quelli attuali), senza la paura che qual-
cuno ce lo tolga e ci stacchi luce, acqua, gas e viveri.

I CINQUE AMBITI DI INDIPENDENZA


1. SAPERE – Indipendenza Culturale
96
2. SALUTE – Auto-Star-Bene
3. ALIMENTAZIONE – Indipendenza Alimentare
4. ENERGIA – Indipendenza Energetica
5. DENARO – Indipendenza Finanziaria

IL TEST DI INDIPENDENZA DAL SISTEMA

Bene. Allora, da dove partiamo?


Prima di tutto, dobbiamo capire dove ci troviamo ora. Quan-
to siamo «dipendenti» dal Sistema attuale? Dei cinque ambiti
sopra elencati, quali sono quelli nei quali siamo più vincolati?
E quelli dove invece riusciamo già a cavarcela da soli, o per lo
meno che riusciamo in parte a soddisfare in modo da non dover
dipendere totalmente da terzi? Dove dobbiamo darci da fare
per liberarci dai vincoli di una società che non è più sostenibile?
Insomma, dobbiamo fare il punto della situazione. Per ve-
nirvi incontro ho ideato un test, che è il frutto di dieci anni
di lavoro (non solo teorico, ma anche pratico), e che è stato
appositamente pensato per analizzare nel dettaglio ciascuno
dei cinque ambiti di Indipendenza. Si chiama «Q Test», test di
Indipendenza dal Sistema. Lo potete compilare sul sito www.
liberidalsistema.com e vi servirà come strumento di «viaggio»
durante la lettura di questo libro.
Già da ora, prima di proseguire nella lettura del prossimo ca-
pitolo, vi invito a collegarvi al sito e a compilarlo. Ci vorranno
10/15 minuti e sarà tempo ben speso, ve lo garantisco.
Vedrete che ciascuna domanda del test offre più opzioni di
risposta. Vedrete inoltre che le domande sono raggruppate
in cinque sezioni, che corrispondono alle nostre cinque aree
tematiche: sapere, auto-star-bene, indipendenza alimentare,
indipendenza energetica, indipendenza finanziaria. 97
Mano a mano che leggerete i prossimi capitoli vi inviterò a
ripensare alla sezione del test relativa all’argomento che trat-
terò in quel determinato capitolo.
In base alle risposte che darete, otterrete un punteggio per
ciascuna risposta, e il valore totale delle vostre risposte cor-
risponderà al valore attuale del vostro indice «Q» (o «Q In-
dex»): l’indice di Indipendenza dal Sistema. In questo modo,
potrete capire su quali aree vi convenga lavorare di più, e vi
accorgerete allo stesso tempo di quanti aspetti della vostra
vita potreste cambiare o riconsiderare.
Quando vi renderete conto di certe cose, non tornerete più
indietro. Non avrete più alibi. Non potrete più dire: «Non lo
sapevo». Oppure: «Mi va bene così, continuo a vivere come
ho sempre fatto e faccio finta di niente». No. Quando diven-
terete consapevoli del funzionamento del Sistema e di quanto
ne siete dipendenti, non potrete più fare la scimmia rossa, ma
vi accorgerete della necessità di riprendere piena padronanza
della vostra vita. Questo è il mio augurio più sincero.

COMPILA IL Q TEST
Compila ora il Test di Indipendenza dal Sistema. Per farlo,
vai su www.liberidalsistema.com, clicca su «Q Test» e lascia
i tuoi dati. Oltre a ricevere i risultati del test direttamente
nella tua casella email, riceverai anche alcuni video gratuiti
con degli estratti dai Corsi Q Institute.

I risultati che potrai ottenere per te e i tuoi cari sono così


suddivisi:
– Da 0 a 25: Siete completamente dipendenti dal Siste-
ma! Non è una buona notizia. Dovete lavorare insieme per
98 prendere consapevolezza di come funziona il Sistema, per
liberarvi dai suoi condizionamenti e per muovere i primi
passi per cambiare la vostra vita. Per fortuna, anche gra-
zie a questo libro e ai corsi Q Institute esistono strumenti
accessibili per farlo fin da subito.
– Da 26 a 50: Siete ancora dipendenti dal Sistema, ma
avete iniziato a prenderne consapevolezza! Siete tra i
tanti che si stanno rendendo conto che «qualcosa non va»
e sentono l’esigenza di cambiare. Continuate su questa
strada, i primi risultati sono vicini.
– Da 51 a 75: Avete cominciato a liberarvi dal Sistema!
In alcuni degli aspetti importanti della vita siete riusciti a
rendervi Liberi o avete già mosso i primi passi per cambia-
re in diversi ambiti. Siete tra quelli che stanno già facendo
qualcosa di concreto e non vorrete certo fermarvi ora!
– Da 76 a 100: Siete praticamente Liberi dal Sistema
in vari aspetti della vostra vita! Complimenti, potete di-
ventare un esempio per tutti quelli che vogliono cambiare
se stessi, per cambiare il mondo. Con la vostra goccia nel
becco state contribuendo fieramente a spegnere l’incen-
dio, e siete probabilmente tra quelli che sentono anche
l’esigenza di aiutare altri a farlo! Benvenuti tra i «folli» che
cambieranno il mondo!

Per sapere dove vi trovate tu e i tuoi cari, compila il test,


prima di proseguire nella lettura (e non barare!). Grazie ai
risultati ottenuti riceverai via email dei consigli personalizza-
ti, divisi per ciascuno degli ambiti di Indipendenza, e saprai
su cosa focalizzare la tua attenzione d’ora in avanti. Prenditi
qualche minuto, collegati su www.liberidalsistema.com e
buona compilazione!
99

E TU, SEI UNA SCIMMIA ROSSA?

Se hai già compilato il Q Test hai verificato se anche tu corri il


rischio di diventare una «scimmia rossa». Ripensa alle risposte
che hai dato nella sezione del test contrassegnata dall’indica-
zione «SAPERE».
Tu e i tuoi cari siete indipendenti culturalmente? Quanto tem-
po passate davanti alla tv o sui social network? Come vi infor-
mate su quanto succede nel mondo? Quanto investite nella
vostra formazione, per accrescere le vostre conoscenze e la
vostra consapevolezza?
Oltre che con l’educazione promossa nelle scuole dell’obbli-
go e nelle università, ognuno di noi è quotidianamente «in-
fluenzato» dal Sistema attraverso i media. Televisione, radio e
quotidiani sono spesso i principali divulgatori delle «versioni
ufficiali» dei fatti che avvengono nel mondo. Per chi fa il gior-
nalista è sempre più difficile esercitare con professionalità e
dedizione, liberi da condizionamenti e restrizioni sulla «verità
da comunicare». Anch’io ho fatto questo mestiere per un paio
d’anni e ho visto da dentro come lavora una redazione gior-
nalistica. La maggior parte di chi scrive sui media è ridotto a
essere un «rielaboratore di notizie», basate perlopiù su con-
tenuti diffusi da agenzie, governi, enti pubblici e aziende. Le
agenzie stampa offrono versioni preconfezionate delle notizie
che vengono divulgate con minime modifiche e «senza farsi
troppe domande», ottenendo spesso una totale «uniformità»
nelle notizie date da tutte le fonti. E spesso sono le stesse
aziende, acquistando spazi pubblicitari sui media, a condi-
zionare i media stessi. Queste dinamiche si stanno replicando
anche su Internet, seppure in maniera più subdola e a volte
100 meno tracciabile, per via dei rilanci infiniti che una notizia
può avere, per cui a volte se ne perde addirittura la fonte, e
delle raffinate possibilità offerte dai software che monitorano
costantemente le scelte dei «navigatori».
La pubblicità è inserita senza che ci facciamo più neanche
caso, in ogni angolo disponibile e in ogni ambito della vita
umana oltre che sui media, fino a rendersi parte della nostra
quotidianità, sia nel mondo reale che in quello virtuale. Sa-
rà capitato a tutti noi di essere letteralmente «inseguiti» da
pubblicità che si basano ormai quasi sui nostri pensieri, tanto
sono efficaci nell’analizzare e prevedere le nostre scelte. Que-
sto avviene grazie a potenti software che elaborano le nostre
attività, i nostri gusti e i nostri interessi, e che grazie a com-
puter e smartphone costantemente connessi in rete possono
sapere esattamente cosa leggiamo, cosa facciamo e dove ci
troviamo, in ogni momento della nostra giornata.
Nessuno di noi è immune da questo potente condizionamen-
to, soprattutto se affida passivamente la propria percezione
del mondo solo al flusso di informazioni che ci vengono «pro-
poste» (o «imposte») su media e social media.
Anche per i più attenti la confusione è tanta, perché su ogni
fatto sono disponibili pareri a favore e pareri contrari, in base
alla fonte da cui proviene il commento. E i social media ad-
dirittura preselezionano per noi i contenuti più in linea con le
nostre idee e preferenze, alimentando la nostra sensazione di
diversità e separazione dagli altri, che a loro volta vengono
«foraggiati» per mantenersi isolati e diversi da noi (ricordate:
divide et impera…).
L’unica strada per liberarsi è quindi quella di allontanarsi il più
possibile dal rumore continuo dei media e dei social media.
Occorre in primis buttare via la tv (o quantomeno staccare
del tutto antenna e abbonamenti vari) e dosare con attenzio- 101
ne il tempo che passiamo a «perdere tempo» in rete.
Serve poi concentrarci nel cercare contenuti e pareri di qua-
lità, offerti da persone di cui ci fidiamo. È possibile farlo
selezionando contenuti più «solidi» e duraturi, frutto quan-
tomeno di analisi più «oculate» e meno superficiali di quelle
proposte quotidianamente sui media. Sono quindi da pre-
ferire libri, documentari e conferenze di persone esperte,
realmente informate e credibili, o meglio ancora corsi di for-
mazione durante i quali sia possibile apprendere concreta-
mente da queste persone qualcosa da applicare nella propria
vita, magari insieme ad altri che come noi lo vogliono fare
e insieme ai quali ci ritroviamo quindi a «imparare» e a fare
nuove esperienze.
Il primo e più importante investimento che si possa fare oggi
per rendersi liberi e per migliorare il proprio mondo è prima
di tutto «culturale». E fare un’esperienza dal vivo, magari gui-
data da persone esperte, è molto più efficace che leggere
solo un libro o guardare video gratuiti in rete.
Non a caso i contenuti di questo libro sono stati sviluppati an-
che nel Corso «Q Life – Liberi dal Sistema», organizzato da Q
Institute, la cui prima edizione, durata 3 giorni, è stata da me
tenuta personalmente a San Marino con oltre 300 persone tra
il pubblico. È stato interamente registrato diventando anche
un Corso multimediale, di cui trovi maggiori informazioni in
Appendice.
Se nella sezione SAPERE il risultato ottenuto nel Q Test è
stato basso, ti consiglio vivamente di visionare anche il Corso
«Q Life – Liberi dal Sistema» insieme ai tuoi cari, per poter
compiere insieme i primi passi importanti per rendervi indi-
pendenti.
102
4 AUTO-STAR-BENE

«I problemi non possono essere risolti con lo stesso


approccio di pensiero che li ha creati.»
Albert Einstein

Cominciamo ora a parlare di salute, e cerchiamo di capire co-


me possiamo stare bene da soli, liberandoci dalla dipendenza 103
dai farmaci e dalle multinazionali farmaceutiche.
«Auto-Star-Bene» è un neologismo inventato dal mio colle-
ga e ricercatore Marco Fincati, ideatore del Metodo RQI®, al
quale dedicherò la seconda parte di questo capitolo, ma sul
quale devo spendere fin da ora qualche parola.
Il Metodo RQI® è un insieme di tecniche volte a trovare le
vere cause delle nostre malattie o dei nostri problemi e le
giuste soluzioni per risolverli. Questo metodo si basa sulla
comunicazione con il nostro inconscio, e per questo possiamo
essere sicuri che le risposte e le soluzioni che deriveranno
dalla sua applicazione saranno non solo corrette, ma anche le
più appropriate per la NOSTRA situazione personale. Questo
metodo è rivoluzionario rispetto alla prassi medica tradiziona-
le proprio perché non prevede una cura univoca a una stessa
malattia (curare i sintomi, dimenticandosi delle cause), ma
risolve i nostri disagi fisici e psicologici partendo proprio dalla
cause che li hanno generati.
Quando sentii per la prima volta il termine «Auto-Star-Bene»
pensai: «Non vuol dire nulla!».
Poi, però, è stata proprio la forza del Metodo RQI® e le con-
tinue testimonianze delle persone che lo stanno applicando
con risultati positivi (e a volte sorprendenti!) che hanno fatto
in modo che, piano piano, questo termine entrasse a fare
parte della coscienza collettiva. Tant’è che ora «Auto-Star-
Bene» è anche nel titolo del libro in cui Marco Fincati spiega
il suo metodo, RQI – Il Segreto dell’Auto-Star-Bene, anch’esso
pubblicato da Q Institute.
Ma cosa significa davvero Auto-Star-Bene?
Significa sapersi prendere cura di se stessi a 360 gradi, oc-
cupandosi non solo della propria salute fisica, che è solo un
104 pezzo della nostra vita, ma del nostro equilibrio a tutti i livelli:
fisico, mentale, energetico e spirituale.
L’obiettivo finale di un percorso individuale e anche sociale
legato alla salute e all’Auto-Star-Bene non dovrebbe essere
semplicemente quello a cui tutti puntiamo, cioè avere un cor-
po che non ci dolga, ma quello di alzarci ogni mattina sereni
e contenti perché abbiamo un corpo che ci permette di fare
quello che vogliamo.
Se nell’immaginario collettivo il termine «salute» significa «Ho
un acciacco, vado dal medico e mi faccio dare una cura per
sistemarmi... Ho la pressione alta, vado dal medico che mi
darà una pastiglia dalla quale dipendere per il resto dei miei
giorni...», francamente mi sembra che il concetto di «salute»
sia stato un po’ minimizzato e frainteso, e proprio per questo
non l’ho usato come titolo di questo capitolo, preferendo
utilizzare un neologismo.
Purtroppo il Sistema ci ha abituato a dipendere da «qualcu-
no» che si prenda cura della nostra salute, qualcuno che ha
studiato al nostro posto, ma che, per quanto possa avere
lauree specialistiche e una passione filantropica per i propri
pazienti, difficilmente potrà conoscere le vere cause dei pro-
blemi e la vita di ciascuna persona che si rivolga a lui. Anche
perché questo «qualcuno», come presto vedremo, è stato
formato e preparato professionalmente in un Sistema (e deve
rispettare i «protocolli» di un Sistema) che non prevede la
possibilità per l’individuo di cavarsela da solo, ma che, al con-
trario, è strutturato in modo tale per cui l’individuo dipenda il
più possibile dal Sistema.
Per capire bene quello che intendo dobbiamo cominciare un
lavoro di decostruzione di una serie di credenze, miti e con-
vinzioni che tutti noi abbiamo su molte cose che tutti i giorni
vediamo e facciamo. 105
Partirò citando il «Giuramento di Ippocrate», un testo che ha
origini antiche e che proviene dalla cultura ellenica del IV se-
colo a.C. Esso si è tramandato da tempi così lontani ai giorni
nostri e oggi serve a ricordare a ogni medico, nel momento
in cui avvia ufficialmente la sua professione, quello che effet-
tivamente dovrebbe fare e lo spirito con cui dovrebbe farlo.
Riporto qui alcuni passi:

«Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che


compio e dell’impegno che assumo, giuro:
di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio
e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizio-
namento;
di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e
psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò
con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e
sociale, ogni mio atto professionale;
di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente
la morte di una persona;
di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico;
di promuovere l’alleanza terapeutica con il paziente fondata
sulla fiducia e sulla reciproca informazione, nel rispetto e con-
divisione dei principi a cui si ispira l’arte medica;
di affidare la mia reputazione professionale esclusivamente
alla mia competenza e alle mie doti morali;
di rispettare i colleghi anche in caso di contrasto di opinioni;
di rispettare e facilitare il diritto alla libera scelta del medico;
(...)»

Ogni volta che leggo questo testo il primo sentimento che


106 provo è quello di stima nei confronti di chi esercita la profes-
sione medica. Questo giuramento non è uno scherzo. Fare
i medici significa prendersi delle responsabilità importanti,
c’è in gioco il benessere o addirittura la vita delle persone.
Quello del medico è un ruolo che necessita di forza, volontà,
etica e impegno.
Tuttavia, essere medico oggi e applicare allo stesso tempo i
principi del Giuramento di Ippocrate non è sempre facile. A
volte non è nemmeno possibile. Scopriamo ora perché.

PARTE PRIMA – L’INDUSTRIA DELLA SALUTE

Il sistema medico-sanitario dei paesi industrializzati si basa


oggi prevalentemente sulla somministrazione di rimedi far-
macologici e chimici. Questa è di fatto l’unica opzione che
ci viene suggerita in via ufficiale, sebbene poi ce ne siano
molte altre (medicina omeopatica, medicina olistica, medicina
informazionale...).
Ma siamo davvero sicuri che la medicina «ufficiale» sia dav-
vero la più efficace?
Questa è una credenza che dobbiamo rivedere. Tanto per
farvi un esempio, la medicina tradizionale cinese ha oltre 5000
anni di storia, mentre la farmacologia occidentale ha poco più
di un secolo, e le sue origini coincidono con quelle dell’età
industriale.
Inoltre, c’è da capire perché la medicina «ufficiale» oggi ci
viene suggerita sempre per più patologie, anche per disagi
che, fino a pochi anni fa, non erano nemmeno considerati
patologie. Oggi i farmaci stanno diventando la proposta di
cura e di rimedio alla nostra salute a qualsiasi livello, fisico
come psicologico.
E allora ripeto la domanda: siamo davvero sicuri che le soluzio- 107
ni chimiche farmacologiche siano sempre la cura più adatta?
C’è chi sostiene di no.
Ad esempio, il professor Silvio Garattini, fondatore e diret-
tore dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri (un
istituto di ricerca italiano che si occupa proprio di ricerche va-
lutative sui farmaci) in un’intervista con Il Messaggero (2005)
dichiarò: «Su 8500 farmaci disponibili sul mercato italiano,
solo qualche decina è realmente efficace».
Il professor Garattini è stato intervistato anche da Marco Piz-
zuti, autore del libro I mercanti della salute, nel quale ven-
gono spiegati nei dettagli più reconditi e minuti la storia e il
funzionamento del nostro sistema medico-sanitario. Eccovi un
estratto dell’intervista.

Pizzuti: «Durante l’intervista del 2005 lei ha dichiarato che i


farmaci veramente utili non sono più di qualche decina. Con-
siderando però che la lista dei farmaci in Italia comprende or-
mai quasi 10 000 prodotti (2012), non è chiaro perché il costo
di molti di essi vada a finire sul conto della spesa pubblica.
Qual è la sua opinione a riguardo?»
Garattini: «Si tratta spesso di scelte dettate da interessi com-
merciali che hanno la predominanza sulle esigenze mediche.»

Cosa vuol dire? Vuol dire forse che nel nostro Sistema gli
interessi commerciali di chi produce e vende farmaci hanno
maggiore influenza del Giuramento di Ippocrate che tutti i
medici che noi abbiamo delegato a guarirci dovrebbero sot-
toscrivere?
Nel 2005 c’erano circa 8500 farmaci in commercio. Sette anni
più tardi, nel 2012, il loro numero era salito a oltre 10 000.
108 Questo significa che le industrie farmaceutiche hanno conti-
nuato a produrre nuovi farmaci, e molti.
Ma se di quegli 8500 farmaci (dato del 2005) soltanto una
decina funzionava, perché hanno continuato a mantenerli sul
mercato fino al 2012? E soprattutto: siamo sicuri che i farmaci
immessi nel mercato più di recente siano veramente nuovi (e
non «riciclati»), che curino patologie nuove (patologie reali) e
che siano più efficaci di quelli che c’erano prima?
In realtà, spesso i nuovi farmaci non sono altro che una revisio-
ne estetica e di proposta commerciale dei farmaci già esistenti.
Mettetevi nei panni di una multinazionale farmaceutica. Avete
brevettato una molecola per la cura di una patologia, e ne
avete fatto una pillola, un farmaco. Dopo qualche anno, quel
brevetto è destinato a scadere. E allora, voi che fate? Lasciate
che il vostro farmaco perda mercato? Eh no! Ci avete investito
soldi e anni di ricerca! Cosa fate, allora?
Beh, potreste cambiare il colore alla pillola, la sua scatola e
il nome del farmaco. E poi investite su un’altra ricerca che vi
confermi che quella pillola può essere utilizzata anche per una
nuova patologia. E la ribrevettate.
Pensate stia esagerando? Allora analizziamo i dati di uno stu-
dio americano, sempre citato da Pizzuti: «Tra il 1998 e il 2002,
dei 415 nuovi farmaci approvati per la vendita sul mercato
americano, il 14% presentava qualche effettiva novità rispetto
ai già esistenti e il 9% era costituito da farmaci vecchi ai quali
erano stati apportati dei miglioramenti significativi».
Ok. 14% + 9% = 23%. E il restante 77%? Sono nuovi o non so-
no nuovi? E soprattutto: presentano qualche miglioramento o
vantaggio rispetto a quelli già precedentemente in commercio?
Forse non tutti lo sanno, ma non esiste alcuna norma che co-
stringa l’industria farmaceutica a effettuare comparazioni tra
un nuovo farmaco e un farmaco già esistente. 109
In altre parole, chi produce farmaci non deve dimostrare che
quel nuovo farmaco debba funzionare meglio di uno già esi-
stente. Gli basta dimostrare che funzioni meglio di... niente!
Cosa significa «meglio di niente»? Letteralmente: meglio di
niente. Avete mai sentito parlare dell’effetto placebo?
Le pillole, oramai, le prendiamo per qualsiasi cosa. Tant’è che
anche i disturbi psicologici vengono trattati con i farmaci. Bi-
sognerebbe ora chiedersi come può un farmaco che agisce a
livello chimico risolvere un problema che nella maggior parte
dei casi ha origine a livello emotivo.
E allora analizziamo un esempio concreto, e parliamo di uno
dei tanti farmaci antipsicotici presenti attualmente sul merca-
to, di cui non citerò il nome (ma per i più curiosi lo nomino
senza censure all’interno del corso multimediale «Q-Life, Li-
beri dal Sistema»).
Questo farmaco è stato testato attraverso una ricerca per
dimostrarne l’efficacia terapeutica. Tale ricerca (i cui dati sono
pubblicati sul sito Internet «Pharmamedix» da una società di
consulenza del mondo farmaceutico) ha evidenziato che: «Ha
un’azione bilanciata su ansia, depressione, attacchi di panico
e disturbi ossessivo-compulsivi».
Un farmaco risolve tutto questo? Un vero toccasana, sem-
brerebbe.
Per introdurlo sul mercato, la ricerca si è anche premurata di
fornire dei dati oggettivi, espressi in percentuale, sull’efficacia
del nuovo farmaco. L’efficacia è quindi stata pari al 47,8% nei
casi di depressione; 30,5% per chi era affetto da fobia sociale;
63% per chi soffriva di attacchi di panico; 55,1% per chi pre-
sentava disturbi ossessivo-compulsivi. Non viene specificata
la percentuale di efficacia nei casi di ansia generalizzata, ma
110 a questo punto sembrerebbe anche superfluo chiedere un
ulteriore dato, dopo averne accertato l’efficacia nei confronti
di così tanti sintomi. Diamogli fiducia, e crediamo che vada
bene anche per l’ansia generalizzata!
La ricerca su questo farmaco ha inoltre riferito un dato che ho
dovuto studiarmi con calma, perché all’inizio non l’avevo capi-
to bene. Il dato afferma che, nel 63,8% dei casi, dopo 12 mesi
dal trattamento il paziente si trova in uno stato di «eutimia».
Che cos’è l’eutimia? È uno stato d’animo di serenità e neu-
tralità. Dopo un anno dal trattamento... il soggetto che ha
usato il farmaco è tranquillo, sereno e rilassato, in quasi due
casi su tre.
Bene. Ora permettetemi una domanda: questi dati, per essere
ritenuti soddisfacenti, con i dati di quale altra terapia sono
stati confrontati?
Ve lo ripeto: con i dati di una terapia a base di... niente! A
un gruppo di persone è stato dato il farmaco, e a un altro
gruppo è stata somministrata una pillola che non conteneva
assolutamente niente: un «placebo».
Insomma: dare «niente» a qualcuno, dicendogli che gli si sta
dando un farmaco che funziona per risolvere la sua proble-
matica, è l’unico paragone di controllo che viene fatto per
monitorare i nuovi farmaci che vengono messi in commercio.
E allora mi sono chiesto: che risultati di guarigione si sono ot-
tenuti dalla somministrazione di placebo al gruppo di control-
lo? I dati sono sempre consultabili sul sito precedentemente
citato, e sono i seguenti: 14,5% nei casi di fobia sociale (contro
il 30,5% col farmaco); 32,6% nei casi di depressione (47,8%
col farmaco); 35,4% nei casi di disturbi ossessivo-compulsivi
(55,1% col farmaco); 59% nei casi di attacchi di panico (63% col
farmaco). E per finire, il dato più interessante: dopo un anno
dal trattamento con «niente», ben il 69,6% dei soggetti si ri-
trova in uno stato di eutimia, sereno e neutrale. Erano il 63,8% 111
quelli che stavano bene dopo un anno dall’uso del farmaco.
Cosa significa tutto ciò? Che prendere «niente» è quasi me-
glio di prendere un farmaco. Se diamo «niente» a persone
affette da un qualsiasi disturbo psichico, dopo un anno sem-
bra più probabile che stiano meglio rispetto alle persone che
avevano assunto un farmaco (e qui bisognerebbe aprire un
altro capitolo e considerare anche gli eventuali effetti colla-
terali del farmaco, ma mi fermo qui...).
Quindi, tutti noi viviamo in un mondo in cui il sistema farma-
ceutico studia nuovi farmaci e li verifica paragonandoli alla
somministrazione di «niente», e comunque arriva ogni volta
alla conclusione che gli effetti prodotti da «niente» sono simili
(a volte addirittura migliori) di quelli di un farmaco.
A questo punto mi chiedo: non avrebbe più senso promuo-
vere una ricerca sui benefici terapeutici dell’effetto placebo,
piuttosto che su quelli dei farmaci? Cosa ha più effetti colla-
terali, secondo voi: l’effetto placebo o un qualsiasi farmaco
sul mercato?
E allora, se anche l’effetto placebo aiuta a guarire (e con ri-
sultati che a volte non si discostano così tanto da quelli delle
varie pillole o terapie), perché nessun ricercatore lo studia
nel dettaglio?
Ce l’ha detto prima il professor Garattini: l’effetto placebo è
gratis, nessuno lo può vendere! Non è vantaggioso per chi ha
fatto dei farmaci il proprio business!
Che la suggestione e quindi anche il pensiero, inteso anche
come atteggiamento mentale nei confronti della malattia e
della guarigione, sia determinante per la nostra salute, lo dice
anche un altro illustre professore, il dottor Enzo Soresi.
Il dottor Soresi è un pluripremiato medico chirurgo, specializza-
to in malattie polmonari e oncologia clinica, che ha pubblicato
112 oltre 150 lavori scientifici su riviste nazionali e internazionali. Nel
2005 ha scritto un libro intitolato Il cervello anarchico, nel quale
sostiene che la nostra mente ha più potere di quanto pensiamo
nel farci ammalare o guarire. Più che le cause esterne, sostiene
Soresi, è il nostro pensiero, è qualcosa dentro di noi, che può
fare davvero la differenza tra lo stare bene e il non stare bene.
Il pensiero focalizzato negativo produce una patologia fisica. Il
pensiero focalizzato positivo produce benessere fisico.
Ci sono infatti tanti istituti di ricerca che portano avanti studi
sugli effetti psicosomatici degli stati d’animo negativi. Studia-
no gli effetti negativi del pensiero.
Lo stesso Soresi in un’intervista a Il Giornale ha confermato:
«L’effetto placebo arriva a rispondere fino al 60% nel far
scomparire un sintomo».
Ma perché allora non studiare seriamente anche gli effetti
positivi del pensiero, al posto di quelli dei farmaci?
È lo stesso Soresi a chiarircelo: «Noi medici non possiamo
sfruttarlo [l’effetto placebo, N.d.A.], altrimenti diventerebbe
un inganno».
Non credevo ai miei occhi quando lessi questa sua dichia-
razione e mi interrogai profondamente sul significato di
questa frase. Egli di fatto chiarisce l’effetto di anni e anni di
«programmazione culturale» svolta dal Sistema sui medici.
E chiarisce la realtà sul nostro Sistema sanitario basato sulla
somministrazione di farmaci. Secondo Soresi ogni qualvol-
ta si ottiene un risultato positivo con l’effetto placebo (cioè,
«suggestionando» un paziente in modo che focalizzi la pro-
pria «attenzione» e la propria «intenzione» sulla guarigione,
anziché sulla malattia) e non con un farmaco o con una terapia
medica, il Sistema «diventerebbe un inganno». Forse perché
il Sistema è in molti casi un inganno. E l’effetto placebo lo
dimostra platealmente, ogni giorno.
Per fortuna qualcuno che studia gli effetti positivi del pensiero 113
e del lavoro «interiore» sulla salute esiste già. Uno di questi è
il Q Institute, l’istituto che ho fondato a San Marino insieme a
Marco Fincati, il cui motto è «Cambiare il mondo, partendo da
Sé» e il cui scopo è proprio quello di diffondere conoscenze e
tecniche per stare bene e rendersi indipendenti e felici, senza
dipendere da altri (e tantomeno dai farmaci).

FABBRICHE DI MALATI

Ora, visto che abbiamo parlato del business legato ai farmaci,


cerchiamo di comprendere come funziona il mercato dell’in-
dustria farmaceutica.
Funziona esattamente come tutti gli altri mercati. C’è un rap-
presentante, con la sua valigetta ventiquattrore e il suo campio-
nario di farmaci da proporre, che fa visita ai diversi studi medici,
con l’obiettivo di motivare gli stessi medici alla prescrizione dei
suoi prodotti. Come fa a essere abbastanza convincente? Beh,
magari oltre a dare informazioni sugli effetti benefici dei farma-
ci dell’azienda che rappresenta (si chiamano infatti «informatori
scientifici», non certo «venditori») offre al medico in questione
qualche benefit: un regalino, un viaggio, una conferenza ai Ca-
raibi, una crociera... magari con l’amante, perché no?
E se il medico, dall’animo deontologicamente inamovibile sui
principi del Giuramento di Ippocrate, si rifiutasse? O, peggio
ancora, se il medico in questione addirittura denunciasse l’o-
perato del rappresentante?
Si ritroverebbe presto in causa per diffamazione con una del-
le più grandi aziende farmaceutiche del mondo, che ha uno
studio legale di centinaia di persone che lavora solo per di-
fenderla da quel tipo di denunce.
Qualcuno ha indagato sulla questione dei «regali» ai medici.
114 Lo ha fatto il Wall Street Journal, che nel 2010 pubblicò un’in-
chiesta in cui raccontava di casi eclatanti di tentata corruzione
di medici in diversi paesi (Cina, Brasile, Germania... un po’
ovunque, per il mondo, e ovviamente anche in Italia) da parte
di grandi aziende del settore: Glaxo-Smith Kline, AstraZeneca,
Merck. Cosa facevano queste aziende? Semplice: «regali» per
convincere i medici a prescrivere e proporre i loro prodotti.
Ora, entriamo più nello specifico. Immaginate di entrare nella
mente del direttore marketing di una grande azienda farma-
ceutica. Ecco ora qualche suo pensiero:
«Non mi basta corrompere i medici affinché vendano i miei
prodotti. Devo anche assicurarmi che ogni anno il fatturato
della mia azienda sia in crescita. Sono pressato dagli azionisti,
che mi chiedono di espandere il mio mercato di almeno un
10-12% l’anno. Una bella percentuale. Ho bisogno di nuove
idee dato che i farmaci con vecchio brevetto li ho già ribre-
vettati e mantenuti in vita sul mercato, i medici ce li siamo già
lavorati bene tutti... ora dovremmo ampliare ulteriormente
il numero dei potenziali clienti. Come posso fare? Beh, se i
miei prodotti servono a curare malattie... potremmo inventare
qualche nuova malattia!»
«Certo, non possiamo mettere in giro apposta dei virus per
infettare il mondo (quella è un’idea che ci teniamo buona per
l’anno prossimo...), però possiamo convincere delle persone
che oggi sono sane che potrebbero essere malate. Facendo
un po’ di lobbying sull’Associazione dei Medici, potremmo far
cambiare i parametri con cui vengono definite le malattie. Ad
esempio, se oggi con un valore inferiore, poniamo, a 100 di
un determinato parametro nel proprio corpo una persona è
ancora ritenuta in buona salute, si potrebbe chiedere all’As-
sociazione dei Medici di abbassare quel valore, in modo tale
che il valore limite di quel parametro sia 80. In tal modo, ab-
biamo fatto «ammalare» tutti coloro che hanno un parametro 115
compreso tra 80 e 100: prima erano ritenuti sani, ma ora sono
già oltre il valore di soglia, e quindi è bene che si curino con
i nostri farmaci!»
È proprio così che funziona! Volete un paio di esempi?
Primo esempio: l’ipertensione arteriosa. La pressione alta è uno
dei problemi più comuni nelle persone di una certa età. Fino al
2003 i parametri di valutazione dell’ipertensione erano tali per
cui una persona veniva ritenuta «a rischio» se i suoi valori erano
superiori a 140 mmHg di sistolica e 90 mmHg di diastolica.
Cosa hanno fatto quindi? Case farmaceutiche e associazioni
mediche si sono inventate un’altra «fascia di rischio» e l’hanno
chiamata «pre-ipertensione». L’hanno inserita nelle valutazioni
di tutte le cartelle cliniche con valori superiori a 120 mmHg
per la sistolica e a 80 mmHg per la diastolica. Così, da quel
momento in poi, tutti coloro che rientravano nella fascia di
«pre-ipertensione» e che fino a un momento prima erano ri-
tenuti essere soggetti sani hanno cominciato a essere messi
in preallarme: «Attenzione, sei in fascia di rischio! Hai anche
una certa età, hai già un piede nella fossa... meglio che corri
ai ripari subito e cominci a curarti come si deve!».
Geniale! Con questo accorgimento, sono riusciti ad aumenta-
re il mercato in modo impressionante, tanto che oggi si con-
tano 15 milioni di persone pre-ipertese in Italia e 45 milioni di
persone pre-ipertese negli Stati Uniti.
Ma voi, che siete sempre immedesimati nel direttore marke-
ting di una multinazionale farmaceutica, sapete bene che non
vi basta la sola «pre-ipertensione» per aumentare il vostro
fatturato del 10-12%. E allora dovete inventarvi qualcos’altro.
«Facciamo la stessa cosa su un’altra patologia molto diffusa:
il colesterolo. Il target è sempre quello delle persone anziane,
con un piede nella fossa, che hanno una gran paura di morire
116 e che crederebbero a tutto pur di allungarsi di qualche anno
la vita».
Ebbene, fino al 2001 era consigliato andare dal medico se si
aveva nel sangue un valore di colesterolo superiore a 280 mg
per decilitro di sangue. Con tale parametro, negli Stati Uniti
si contavano 13 milioni di persone alle quali veniva consigliato
di assumere le statine (farmaci anticolesterolo).
Dal 2001 la soglia è stata abbassata a un valore di 240 mg/dl.
E nel 2004 il parametro è stato rivisto e abbassato ulterior-
mente fino al valore di 200 mg/dl. Così, i soggetti a rischio
di infarto a causa del colesterolo alto sono diventati ben 40
milioni: tre volte quelli di tre anni prima. In Italia, i parametri
sono gli stessi e vengono dettati dallo stesso istituto che li
impone negli Stati Uniti.
«E così abbiamo ampliato alla grande il mercato dei farmaci
per le persone anziane. E con i soggetti più giovani, come
facciamo? Ci vuole un’altra idea. I soggetti giovani sono ge-
neralmente attivi, hanno una vita lavorativa impegnata, e ogni
giorno devono relazionarsi con tante altre persone. Anche se
hanno un fisico forte e sano, magari potrebbero avvertire più
di altri qualche disturbo di tipo psicologico, dovuto allo stress
con il capo, con i colleghi o nella vita di coppia. Dobbiamo
convincerli che anche questo tipo di disturbi va curato con i
farmaci, e in tal modo aprire un nuovo mercato!»
Negli Stati Uniti un nuovo disturbo è stato isolato e denomi-
nato social anxiety disorder («fobia sociale», «sociofobia» o
«disturbo da ansia sociale»). Esso viene definito da Wikipedia
come:

«La paura intensa e pervasiva di trovarsi in una particolare


situazione sociale, o di eseguire un tipo di prestazione, che
non siano, a chi ne è affetto, familiari, e da cui possa derivare
la possibilità di subire un giudizio altrui.» 117

Ipotizziamo che io vada in discoteca con la mia ragazza, che


lei sia una bravissima ballerina, e che mi dica: «Dai, ballia-
mo!». Ma io mi vergogno, mi vergogno del giudizio degli altri.
Io non so ballare, sono timido e non ho mai ballato. Forse
anch’io soffro di fobia sociale?
Perché secondo questa definizione io sono malato!
Leggiamo ancora Wikipedia e la descrizione approfondita del
disturbo:

«Si tratta di un particolare stato ansioso nel quale il contatto


con gli altri è segnato dalla paura di essere malgiudicati e
dalla paura di comportarsi in maniera imbarazzante e umi-
liante. Le persone affette da questa fobia evitano situazioni
spiacevoli, o se sono costrette ad affrontarle sono molto a
disagio con loro stesse.»
Sì, ora ne ho la conferma: io mi vergogno a ballare e mi ver-
gogno delle persone che mi guardano! Sono malato! Non mi
fate ballare, datemi un farmaco, per piacere!

Sfido chiunque di voi che abbia a che fare con un adolescente


a dirmi se quell’adolescente, almeno qualche volta, non abbia
provato queste sensazioni. Quindi, tutti sarebbero affetti da
fobia sociale, secondo questa definizione.

Negli Stati Uniti girava anche uno spot pubblicitario televi-


sivo che promuoveva un farmaco commercializzato da una
multinazionale per la cura della fobia sociale. In questo spot
venivano mostrate diverse situazioni di persone a disagio: chi
soffriva di ansia al lavoro, chi faceva fatica a relazionarsi agli
altri, e così via. Poi una voce fuori campo chiedeva: «Ti è mai
118 capitato di provare preoccupazione, insonnia, affaticamento?
Potresti essere affetto da disturbo da ansia sociale! C’è un
farmaco, chiedilo al tuo medico». E subito dopo una postilla
avvisava: «Vi ricordiamo che gli effetti collaterali sono inson-
nia, inappetenza, diarrea…». Però alla fine ritrovate il vostro
piacere di vivere! Evvai!
Il direttore di produzione di quel farmaco, riscontrando il suc-
cesso del suo nuovo prodotto sul mercato statunitense, affer-
mava soddisfatto: «Il sogno di chiunque venda e promuova
prodotti è scoprire un mercato sconosciuto e indefinito da
sviluppare. Questo è ciò che siamo riusciti a fare con il distur-
bo da ansia sociale».
Questa dichiarazione è uscita su alcuni giornali proprio nei
giorni in cui la sua società promuoveva il farmaco utilizzando
le foto degli attacchi alle Torri Gemelle: «Il terrorismo ti spa-
venta? Compra la mia pillola!».
CURARE O AMMALARE?

So che quello che state leggendo è abbastanza sconvolgente,


ma ve l’avevo detto all’inizio del libro: una volta che scoprirete
il «dietro le quinte» del nostro Sistema, non sarà più possibile
continuare a fare la «scimmia rossa».
Continuiamo quindi ad analizzare l’ambito legato alla salute,
e facciamo ora un altro esempio eclatante. Voglio riportarvi
un estratto dal bugiardino di una sostanza che viene descritta
come «molto pericolosa» da maneggiare:

«Può causare il cancro. Può causare danni genetici ereditari.


Possibile rischio di effetti irreversibili. Nocivo per inalazione,
per ingestione e al contatto con la pelle. Possibile rischio di
danni ai bambini ancora non nati. Tutti gli articoli usati per
la somministrazione (guanti, maschere, etc.) dovranno essere 119
posti in appositi sacchi per rifiuti speciali ad alto rischio, e
inceneriti a 1000 gradi.»
Ora vi chiedo. Di quale prodotto sono queste avvertenze?
Sono le avvertenze di un farmaco che si chiama Doxorubicina.
Che cos’è? Andiamo su Wikipedia e proviamo a vedere:

«La doxorubicina (conosciuta anche con il nome di adriami-


cina) è un antibiotico antineoplastico della famiglia delle an-
tracicline (...).»

Ok, fermiamoci un attimo, perché magari non tutti sappiamo


cosa sono le antracicline. E allora documentiamoci, sempre
prendendo come fonte Wikipedia:

«Le antracilcine sono considerate tra i più efficaci farmaci an-


titumorali mai sviluppati. La doxorubicina e la daunorubicina
(DNR) sono antibiotici ad azione antitumorale, isolati per la
120 prima volta nel 1960 nei laboratori di Farmitalia, e sono stati
le prime molecole di questa classe di farmaci a essere state
scoperte.»

E sono tuttora in uso. Ma vediamo cosa dice ancora Wikipedia


a proposito degli effetti di tali farmaci:

«Tossicità: nel topo, la DL50 è di 21,1 mg/kg per endovena.»

Cosa significa? Significa che, secondo i test e gli esperimenti


in laboratorio effettuati sui topi, a una dose pari a 21,1 mg per
chilo di peso la metà dei topi moriva (DL sta per «dose letale»).
Parentesi: vi pare attendibile condurre uno studio sui topi
per un farmaco che poi sarà somministrato a delle persone?
Siamo proprio sicuri che l’uomo abbia la stessa resistenza agli
agenti tossici dei roditori (alcuni dei quali siamo abituati a
vedere vivere senza problemi addirittura nelle fogne delle
nostre città)? Non ragioniamoci oltre…
Comunque una sostanza che risulta letale al 50% dei topi ai
quali ne vengano somministrati anche solo pochi grammi è
oggi impiegata nella terapia antitumorale. Infatti Wikipedia
prosegue:

«La doxorubicina è impiegata spesso in associazione con altri


agenti antitumorali nel trattamento di leucemia linfoblastica
acuta, leucemia monoblastica acuta, linfoma di Hodgkin e
non, sarcomi ossei e dei tessuti molli, neuroblastoma, tumori
alla vescica, alla mammella, al polmone, all’ovaia (...).»

Si usa per curare i tumori! E quali sono gli effetti collaterali


nell’essere umano?
121
«Le antracicline sono risultate agenti cancerogeni (...).»

Davvero?

«(…) agenti cancerogeni mutageni, teratogeni e genotossici


nei ratti e nell’uomo, pur essendo utilizzate nella chemiote-
rapia.»

Capite? Farmaci per curare una malattia, che in realtà su sog-


getti sani la procurano. Ma nessuno potrà dire che un pazien-
te è morto a causa della terapia contro il cancro, se il cancro
lo aveva già prima. «La terapia ha lavorato», diranno i medici
in assoluta buona fede, «ma purtroppo la malattia è stata
più forte». Vi sembra che stia esagerando? Proseguite nella
lettura, prima di trarre le vostre conclusioni.
MULTE SALATE

Il Vioxx era un farmaco antidolorifico e antinfiammatorio pa-


ragonabile a tanti altri e promosso dall’azienda che lo produ-
ceva, la Merck, come l’«aspirina gentile».
Gentile in realtà non lo era mica tanto, visto che nel 2000, po-
co tempo dopo che il farmaco era stato introdotto sul merca-
to, una ricerca comprovò che chi assumeva il Vioxx aumentava
di cinque volte il rischio di infarto cardiaco. Quel farmaco,
insomma, risolveva sì i problemi infiammatori, ma magari ti
faceva schiattare di crepacuore! Che accadde, allora?
I rappresentanti della Merck, nonostante gli avvertimenti dei
ricercatori che avevano accertato i rischiosi effetti collaterali
del farmaco (i loro risultati furono pubblicati in uno studio
chiamato Studio Vigor), continuarono a proporre il prodotto
122 ai medici statunitensi. Le direttive dell’azienda erano state
chiare: sul brevetto di quel principio attivo erano stati inve-
stiti parecchi soldi, pertanto il farmaco doveva rimanere sul
mercato e produrre ricavi.
Contemporaneamente, la Merck cercò in tutti i modi di di-
mostrare la scarsa attendibilità dello Studio Vigor, ma invano:
il Vioxx era chiaramente un farmaco pericoloso e pertanto
dovette essere ritirato dal mercato.
Secondo voi, dopo quanto tempo avvenne il suo ritiro?
Dopo cinque anni. Cinque anni! Nonostante ci fossero tutte
le prove sulla sua dannosità per la salute, qualcuno continuò
a guadagnarci per un lustro. In quel lasso di tempo, le stime
fatte da analisti indipendenti parlano di oltre 27 000 persone
decedute per infarto a causa dell’assunzione di Vioxx.
E cosa hanno potuto fare i parenti delle vittime?
Nei casi più eclatanti, succede che le case farmaceutiche ven-
gano obbligate per vie legali a risarcire le vittime o i loro cari,
ma il risarcimento ricevuto vale la vita di una persona?
Le multe sono parte del rischio che le case farmaceutiche si
assumono per fare affari. Alcuni esempi: nel 2001 la Glaxo-
Smith-Kline dovette pagare 3 miliardi di dollari di multa per
pratiche di marketing illegali e concorrenza sleale; sempre
per marketing illegale, nel 2009 la Pfizer pagò 2,3 miliardi di
dollari di multa; 500 milioni di dollari è la multa che Shering-
Plough risarcì nel 2003 per «turbativa di mercato», avendo
fatto un accordo con i produttori dei farmaci generici affinché
ne ritardassero l’uscita sul mercato per vendere i propri (ovvia-
mente molto più costosi dei generici); nel periodo 2000-2002,
aziende come Bayer, AstraZeneca, Tap e Abbott pagarono in
totale 2,2 miliardi di dollari di multe per reati civili e penali.
Sembrano numeri enormi, ma se li paragoniamo ai loro fattu-
rati, che saranno mai? 123

BUONE CURE E BUONI AFFARI

Dopo avervi spaventato un po’ su quelli che sono i meccani-


smi del mercato dei farmaci, voglio mostrarvi anche il rovescio
della medaglia e darvi qualche informazione positiva: la natura
ha delle ottime soluzioni per prendersi cura della nostra salu-
te. Alcune di esse sono sottovalutate o addirittura ignorate.
Ad esempio: lo sapete qual è la sostanza che ha più effetti
benefici per l’uomo e che può essere impiegata in molteplici
situazioni?
Vi do qualche indizio: è naturale, è economica, non è venduta
in farmacia né monopolizzata dalle multinazionali e può essere
usata come: digestivo, antiacido, basificante, emolliente per
bagni e pediluvi, decongestionante per le vie respiratorie,
antiprurito, anti-irritazione per le punture di insetti... e alcune
ricerche confermano che ha una potente azione antitumorale.
Qual è la sostanza?
Ha le sembianze di una polvere bianca e leggera, ma non
è uno stupefacente da inalare per naso. È una sostanza che
molti di voi conservano in cucina: il bicarbonato di sodio.
Il bicarbonato è un basificante naturale. Gli egizi lo conosce-
vano bene, e lo usavano addirittura nel processo di mummi-
ficazione, per conservare il corpo dei defunti. Il bicarbonato
ha moltissimi utilizzi nel campo del benessere, ma perché
nessuno ve lo spiega?
Semplice: costa 50 centesimi al chilo, e non è brevettabile.
Che guadagno ci sarebbe?
A proposito degli utilizzi del bicarbonato, è stato pubblicato
un articolo nel 2010 sul quotidiano La Repubblica dal titolo
124 «Una molecola disorienta il cancro». Nell’articolo si parla di
terapie basate sugli antiacidi, in quanto la basicità cellulare è
uno degli aspetti più importanti per permettere all’organismo
di autorigenerarsi e detossinarsi, mentre l’acidità è il primo
nemico delle cellule e una delle concause più importanti di
tumore. Nell’articolo in questione si legge:

«Sul fronte della ricerca farmacologica dell’Istituto Superiore


di Sanità arriva una notizia. I farmaci antiacidità e persino il
bicarbonato potrebbero sostituire la chemioterapia.»

Incredibile! A confermare la ricerca c’è la testimonianza del


dottor Stefano Fais, direttore del reparto farmaci antitumorali
del Dipartimento del farmaco dell’Istituto Superiore di Sanità,
che viene citato da La Repubblica. In particolare, nell’articolo
si legge una dichiarazione del medico ricercatore che dice:
«Questi farmaci, a differenza dei chemioterapici, non han-
no effetti collaterali e hanno costi molto, molto bassi. Basti
pensare che i farmaci usati con la target therapy [la terapia
standard, N.d.A.], che provocano tossicità e resistenza nel
paziente, costano 50-60 000 euro l’anno a malato. Con questa
terapia invece il costo annuale sarebbe di circa 600 euro con
il generico, e di 1200 con quelli di marca.»

E usare il bicarbonato quanto costerebbe ? Forse 20 euro


all’anno? E senza effetti collaterali.
Sempre il dottor Fais conclude però:

«Le industrie farmaceutiche al momento non sono interessate


a questo tipo di approccio.»

Certo che no! Che ricavi potrebbero avere dal somministrare 125
bicarbonato ai pazienti?

Sapete quanto vale un paziente oncologico ospedalizzato?


Non si tratta solo dell’esorbitante costo dei chemioterapici,
ma anche di tutto il personale medico che lo segue, del suo
letto in ospedale, del trasporto in ambulanza, dei soldi spesi
dalle famiglie... insomma, c’è tanto PIL da generare. E sa-
pete quanto? Ve lo dico io: le stime parlano di 200 000 euro
all’anno. E considerate che in Italia, ogni anno, ci sono quasi
300 000 nuovi casi di pazienti oncologici. Moltiplicate 200 000
euro per 300 000 pazienti, e arriverete alla cifra di circa 60
miliardi di euro di PIL generati dalle malattie oncologiche.
Vi pare quindi che ci sia davvero interesse a trovare una cura
veloce contro il cancro da parte delle lobby del settore? Forse
non tanto…
Ed è anche quello che sostengono due giornalisti d’inchiesta
che nel lontano 1980 pubblicarono una ricerca riguardante il
settore della ricerca oncologica per la cura del cancro. All’e-
poca scrivevano:

«Una soluzione al cancro azzererebbe i fondi destinati alle


associazioni non profit per la ricerca sul cancro, minaccerebbe
le istituzioni cliniche, renderebbe obsolete chirurgia, radiolo-
gia e terapie chemioterapiche, nelle quali così tanto denaro,
training e apparecchiature sono stati investiti. Tale paura [cioè,
che qualcuno trovi una cura per il cancro alternativa a basso
costo, N.d.A.] può causare resistenze e ostilità ad approc-
ci alternativi, proporzionalmente al fatto che essi sembrino
promettenti.»

126 I due giornalisti concludevano il loro report così:

«La nuova terapia deve essere ridicolizzata, negata, scorag-


giata e non riconosciuta, a tutti i costi, indipendentemente
dai risultati dei test, preferibilmente senza neanche un test.»

TUTTA COLPA DEI VIRUS

Andiamo avanti nel nostro viaggio dietro le quinte dell’indu-


stria farmaceutica e analizziamo insieme un altro caso eclatan-
te che coinvolse l’azienda svizzera Ciba-Geigy, oggi confluita
in Novartis.
La malattia di cui vorrei parlarvi ora è la Smom, conosciuta
anche come «neuropatia subacuta mielotica». È una malattia
del sistema nervoso centrale che, partendo dai sintomi di una
semplice diarrea, porta a paralisi, cecità e, in taluni casi, anche
alla morte.
Il primo caso di Smom scoppiò nel 1955 in Giappone, e fu
una vera e propria epidemia. Molti, a partire da una banale
diarrea, si ritrovarono presto a combattere con problemi neu-
rologici più gravi, e alcuni persero anche la vita.
Nel 1964, nove anni dopo il primo caso di Smom, il virologo
Masahisa Shingu dichiarò di avere scoperto il virus responsa-
bile dell’epidemia andando ad analizzare le feci dei pazienti. Il
ricercatore giapponese pubblicò tutto su una rivista scientifica.
Nel 1968, quattro anni dopo lo studio di Shingu, altri due
studi sostennero di aver scoperto anche loro il virus respon-
sabile della Smom. Peccato che si trattava di due virus diversi
da quello ipotizzato da Shingu. Chi dei tre aveva ragione?
Forse nessuno dei tre. Infatti, fino a quel momento, si crede-
va che la causa della malattia fosse un virus, ma nel 1969 un
altro studioso, il neurologo Tadao Tsubaki, evidenziò che il
96% delle persone che manifestava la Smom aveva assunto 127
in precedenza un farmaco antidiarrea che si chiamava Clioqui-
nol. Tsubaki affermava quindi che la patologia era indotta da
quello stesso farmaco: una persona con problemi di diarrea
andava dal medico, il medico gli prescriveva il Clioquinol, e la
persona poco dopo sviluppava la Smom con disturbi neurolo-
gici, cecità, paralisi e, nel peggiore dei casi, decesso.
Nel 1970 in Giappone venne finalmente vietata la vendita di
Clioquinol e nel 1973 la Smom fu dichiarata ufficialmente scom-
parsa: da allora, in Giappone nessuno ne è stato più affetto.
Una storia a lieto fine?
Non ancora, perché nel 1974 la rivista americana Reviews in
Medical Microbiology riprese la tesi del virus. Un medico,
finanziato nelle sue ricerche da chissà quale multinazionale
farmaceutica, dichiarò che lui stesso aveva ricontrollato le fe-
ci dei pazienti morti dieci anni prima (attività molto ambita,
evidentemente…) e che in esse aveva trovato la presenza
inequivocabile di un virus (tra l’altro, diverso dai precedenti
tre trovati tra il 1964 e il 1968).
Nel 1975 fu un’altra rivista, The Lancet, a smentire per la se-
conda volta la tesi virale e a riconfermare la veridicità delle ri-
cerche del dottor Tsubaki circa la responsabilità del Clioquinol.
Insomma, il dibattito proseguì ancora. E questo a tutto van-
taggio di chi non voleva che si sapesse la verità. Vi ricordate il
motto del Sistema? «Divide et impera». Basta che ci tengano
separati, che ci facciano discutere l’uno contro l’altro, e c’è chi
intanto può mandare avanti i propri interessi: anche venderci
un farmaco letale.
Tuttavia, contro i disastri della Smom qualcuno cercò di unirsi.
Alcuni dei parenti delle vittime fecero causa al produttore del
farmaco e durante il procedimento cominciarono a emergere
diverse verità.
128 La prima: L’FDA, l’ente che controlla i farmaci negli Stati Uniti,
aveva vietato il Clioquinol già nel 1965. Che quel farmaco fos-
se letale era in sostanza già stato accertato da tempo. Perché
allora fu mantenuto sul mercato giapponese?
La seconda: anche in Giappone molti medici avevano segna-
lato che la somministrazione del Clioquinol aveva procurato
effetti collaterali piuttosto rilevanti ai propri pazienti. Possibile
che nessuno avesse considerato le segnalazioni di quei medici?
La terza: Ciba-Geiby, l’azienda che produceva e commercia-
lizzava il Clioquinol, aveva contattato quegli stessi medici e
li aveva invitati a interrompere le loro segnalazioni, magari
in cambio di alcuni «benefit»: la crociera, il regalino, il conto
off-shore... o peggio ancora minacciandoli.
La quarta: nessuno dei medici che aveva precedentemente
segnalato gli effetti collaterali del Clioquinol si presentò poi
al processo per testimoniare.
Cosa successe a questo punto? Un quinto degli oltre quat-
tromila querelanti cambiò avvocati per dubbi sul loro cor-
retto operato, a causa di sospette lentezze. Sorse il dubbio
che Ciba-Geiby avesse corrotto addirittura gli avvocati delle
vittime.
Morale: solo nel 1978 la Corte distrettuale di Tokyo sancì che
il Clioquinol era stato effettivamente la causa della Smom, e
costrinse l’azienda Ciba-Geiby a dichiarare pubblicamente: «I
nostri prodotti farmaceutici sono stati responsabili dell’appa-
rizione della Smom in Giappone. Porgiamo le nostre scuse e
risarciamo le vittime».
Dunque, fine del Clioquinol sul mercato? Ebbene no! Infatti
negli anni 1980, quando il farmaco era ormai stato definiti-
vamente ritirato dal mercato nipponico, il Clioquinol venne
approvato per la vendita in Canada, Australia, Danimarca e
altri paesi del mondo. Anni dopo il Clioquinol rimase in studio 129
come possibile cura per l’Alzheimer, la malattia di Huntington
(che è un disturbo neurodegenerativo) e altre patologie.
Quale pare essere in certi casi la tattica adottata quando vie-
ne scoperto che una molecola brevettata presenta degli ef-
fetti collaterali? Semplice: confezionare quella molecola in un
prodotto destinato a curare quegli stessi effetti collaterali. E
così farmaci che sono potenzialmente cancerogeni vengono
somministrati a chi ha già una forma tumorale, e farmaci che
inducono problemi neurologici vengono dati a chi già soffre
di disturbi simili... In questo modo, nessuno potrà attribuire
la malattia al farmaco. Al contrario, se magari per l’effetto
placebo un paziente guarisse dalla sua malattia, tutti i meriti
andrebbero indiscutibilmente al farmaco… ma se la malattia
non passa o addirittura peggiora, la colpa non può essere del
farmaco, dato che il paziente già l’aveva.
SE LO CONOSCI LO EVITI

Ora ripercorriamo insieme la storia di un’altra sindrome molto


più nota: l’AIDS, la sindrome da immunodeficienza acquisita.
Anch’essa ci dicono che sia dovuta a un particolare virus, un
subdolo «retrovirus», chiamato HIV.
Nel 1980 il ricercatore Michael Gottlieb studiò i primi casi
della malattia in una città degli Stati Uniti. L’anno seguente
il ricercatore David Durack segnalò sul New England Journal
of Medicine che c’era un legame molto evidente tra la com-
parsa di tale malattia (che, come è noto, consiste nella per-
dita dell’efficienza del sistema immunitario e nel drastico
aumento del rischio di contrarre infezioni o malattie, anche
le più banali e apparentemente innocue) e l’uso di droghe
«afrodisiache».
130 La teoria di Durack venne presto confermata da decine di
ricercatori, molti dei quali di fama mondiale, che ribadirono
a più riprese la tesi per cui erano proprio determinati tipi di
droghe e comportamenti sessuali ad abbassare drasticamente
la funzionalità del sistema immunitario.
Ma a questo punto intervenne il Centro Malattie Veneree di
Atlanta, che pubblicò un bollettino epidemiologico e creò
una task force per verificare l’ipotesi secondo la quale l’AIDS
poteva essere dovuto a un virus. Una storia già vista.
I media rilanciarono la notizia e subito si diffuse il panico: «Sa-
rà un virus contagioso? Siamo a rischio pandemia?».
E intanto scienziati, medici e ricercatori si misero all’opera
per cercare di svelare le vere cause della malattia. Nel 1983
il virologo francese Luc Montagnier affermò per primo di
aver scoperto il «famoso» virus dell’HIV. Prima di avvisare
i media e la stampa, però, ebbe lo scrupolo di consultarsi
con un collega statunitense, il dottor Robert Gallo, al quale
mandò tutto il materiale della sua ricerca in attesa di una
verifica incrociata.
Gallo, invece di offrire il suo feedback a Montagnier, indisse
una conferenza stampa a insaputa del virologo francese nel
corso della quale annunciò ai media di tutto il mondo di esse-
re stato lui ad avere scoperto il virus. Lo fece prima ancora di
pubblicare materiale scientifico sulle riviste di settore, come
vorrebbe la prassi: di solito, prima di pubblicare la propria
tesi, l’entourage professionale la legge e la valuta, e poi – se
ritenuta valida – si può indire una conferenza stampa e con-
dividere i risultati con il pubblico.
La diatriba tra Montagnier e Gallo si accese a tal punto che
scoppiò un vero e proprio caso diplomatico tra Francia e Stati
Uniti, con il presidente Reagan che dovette incontrarsi con
l’allora presidente del Consiglio francese Mitterand per accor-
darsi su quale dei due scienziati avesse il diritto a rivendicare 131
la paternità della scoperta: di mezzo c’era l’assegnazione di
un premio Nobel (che poi fu dato al francese Luc Montagnier).
E intanto i media di tutto il mondo continuarono a parlare
moltissimo della questione «AIDS»: si parlava di una malattia,
di una potenziale epidemia, di un virus trasmissibile attraver-
so la saliva e il sesso (o il sangue? O entrambi?), si parlava di
uso di droghe, di rapporti omosessuali... insomma, c’erano
tanti argomenti per stimolare i giornali a farne una notizia e
vendere più copie!
E mentre sulle televisioni di tutto il mondo spopolavano le
pubblicità progresso per consapevolizzare le persone sui ri-
schi della malattia e istruirle sulle precauzioni da prendere,
nel 1990 una legge sancì addirittura di devolvere contributi
internazionali per ogni nuovo caso di AIDS segnalato. La cosa
assurda fu che, nei paesi del Terzo Mondo, la diagnosi di AIDS
veniva fatta sui sintomi, e non su degli esami del sangue accu-
rati che evidenziassero la reale presenza del sospetto virus. Se
nell’Africa centrale una persona locale moriva di dissenteria o
tubercolosi o polmonite, spesso veniva detto che era morta a
causa dell’AIDS.
E intanto venivano messi sul mercato i farmaci contro la ma-
lattia. La Glaxo per prima cominciò a vendere un farmaco
chiamato «Azt», un antineoplastico immunodepressore. Sì,
avete letto bene: un farmaco che abbassa le difese immuni-
tarie sarebbe servito per curare una malattia i cui sintomi so-
no proprio un abbassamento delle difese immunitarie. Come
sparare sulla Croce Rossa.
Pensate a tutti quei bambini, o addirittura neonati, figli di ma-
dri che avevano avuto problemi con la droga, ai quali veniva
prescritto l’Azt come trattamento «preventivo», talora già a
sei mesi di vita, se scoperti positivi all’HIV.
132 Vi invito in merito – se non l’avete già fatto – a vedere lo
spledido film Dallas Buyers Club, uscito nel 2013 e tratto dalla
storia vera di Ron Woodroof, un uomo malato di AIDS in-
terpretato da Matthew McConaughey (che per questo ruolo
ha vinto l’Oscar come miglior attore) che per curarsi traffica
illegalmente farmaci con minori effetti collaterali dell’Azt, ma
non approvati negli Stati Uniti.

Dallas Buyers Club


Come se tutto ciò non bastasse, nel 1993 intervenne anche il
fisico nucleare Eleni Papadopulos Eleopulos, affermando che
i test HIV fatti negli anni 1990 producevano un 90% di «falsi»
positivi. Infatti il test HIV era un test creato per essere fatto
in laboratorio, ma veniva applicato in realtà molto diverse da
quelle di un ospedale: immaginatevi un medico che si recava
in un villaggio sperduto nella savana africana e, trovandosi
di fronte a ripetuti casi di tubercolosi o infezioni, cercava di
sottoporre la popolazione al test dell’HIV.
E così negli anni 1990 sempre più scienziati dissidenti si schie-
rarono contro l’ipotesi del collegamento tra HIV e AIDS.
Tra questi anche il dottor Robert Wilner, che in ben due occa-
sioni (nel 1993 e nel 1994), nel corso di due sue conferenze,
al fine di dimostrare al mondo che l’ipotesi del virus era una
montatura delle case farmaceutiche si iniettò in vena sangue
preso in diretta da un paziente sieropositivo, affermando che 133
quel sangue non gli avrebbe trasmesso l’AIDS.
Dagli anni 1980 a oggi il «falso mito» del virus ha permesso a
molte industrie del settore di arricchirsi grazie a un’informa-
zione contraddittoria e fuorviante, fatta su larga scala.
Uno degli studi che ha messo in dubbio il legame HIV-AIDS
è quello condotto tra il 1987 e il 1997 su un campione di 442
coppie miste, composte cioè da un soggetto sieropositivo e
da un soggetto sano. Dopo dieci anni di osservazione si evinse
che nessuno dei soggetti sani, pur avendo avuto regolarmente
rapporti sessuali non protetti con il proprio partner, contrasse
l’AIDS. In proposito c’è anche un film documentario spagnolo
disponibile in rete dal titolo La ciencia del pànico.
Forse la dichiarazione che meglio di tutte può descrivere quel-
lo che è avvenuto con l’AIDS è quella dell’oncologo tedesco
Klaus Koehnlein che, nel 1995, in una lettera al direttore di
Science scriveva:
«Come medico ospedaliero mi trovo quotidianamente alle
prese con i disastri provocati da Gallo e colleghi. Ogni volta
che vedo un paziente con la tubercolosi, l’herpes o un’infezio-
ne, non posso scacciare il pensiero che se fosse sieropositivo
[positivo al virus HIV, N.d.A.] gli si dovrebbe somministrare
una terapia Azt. Nel trattare il paziente, gli provoco la malattia
stessa. Questo vuol dire far morire il paziente. A causa dell’i-
potesi virale per l’AIDS, il trattamento stesso della malattia
produce la sua prognosi infausta.»

RISCHIO PANDEMIA

Altro caso storico di falsa informazione su un virus: l’influen-


za suina. Molti di voi se la ricorderanno. Nell’aprile 2009, in
Messico vi furono alcuni focolai di influenza sospetta, e subito
134 partì l’allarme per il «rischio pandemia».
Tutti i media riportarono la notizia e il messaggio era chiaro:
«Vaccinatevi, vaccinatevi, vaccinatevi».
Per fortuna si vaccinarono in pochi, perché anche quella fu
praticamente una messa in scena creata ad hoc per l’industria
farmaceutica.
A scoprirlo e denunciarlo pubblicamente fu la giornalista Jane
Burgermeister, collaboratrice per diverse riviste scientifiche e
quotidiani, che in uno dei suoi articoli affermò che una casa
farmaceutica – la Baxter – aveva «accidentalmente» contami-
nato con l’influenza aviaria 75 chili di vaccino antiinfluenzale
stagionale, per poter poi vendere l’altro suo vaccino antiavia-
ria, il Tamiflu, di brevetto esclusivo.
La fonte della giornalista fu un tecnico esterno della Baxter
che, compreso ciò che stava succedendo, denunciò la cosa
alla giornalista.
Secondo la Burgermeister, siccome a quel punto l’operazione
della Baxter non era riuscita, l’azienda decise di dirottare il
proprio mercato su un’altra patologia: l’influenza suina. Anche
in questo caso tutto partì da uno stato di psicosi collettivo
generato dalle notizie diffuse dai media.
Nel 2009 l’Organizzazione Mondiale della Sanità portò lo sta-
to di allerta per l’influenza suina al livello 6, il massimo gra-
do. Per la cronaca, il livello 6 equivale al rischio di pandemia
mondiale. Nel settembre dello stesso anno la denuncia della
Burgermeister venne archiviata e da quel momento in poi la
giornalista non scrisse più per alcuna rivista scientifica.
Eppure a ottobre ci fu un altro colpo di scena; l’OMS dichia-
rò di avere pochi dati certi sull’influenza suina: «Sono stati
eseguiti poco più di 10 000 test in tutto il mondo. Il test è
ritenuto poco sensibile nel diagnosticare il virus ed è stato
sospeso». 135

A novembre il ministro della Salute polacco Ewa Kopacz de-


finì il vaccino «una vera e propria truffa» ai danni degli Stati e
delle popolazioni a cui era stato proposto (e spesso venduto).
In Italia fu rilevato che la suina aveva provocato la morte nello
0,0038% dei casi, contro lo 0,2% dell’influenza stagionale.
Aveva un centesimo di pericolosità rispetto alla comunissima
influenza invernale!
Nel giugno del 2010 il deputato inglese Paul Flynn presentò
un rapporto nel quale concludeva affermando: «L’allarme pan-
demia dell’influenza suina è stato fabbricato dall’OMS e dalle
compagnie farmaceutiche per ragioni di profitto».
Per chi non lo sapesse, la commissione dell’OMS che valuta
la pericolosità delle malattie infettive e che determina l’allerta
internazionale in caso di gravi rischi è composta da ricercatori
e medici che lavorano anche per l’industria farmaceutica. Un
bel conflitto di interessi!
Nel 2010, comunque, la campagna pro-vaccinazione fu so-
spesa, ma intanto in Italia erano già state acquistate – a spese
dello Stato – 24 milioni di dosi di vaccino antisuina, la maggior
parte delle quali rimase inutilizzata. A livello globale furono
spesi 10 miliardi di euro in inutili vaccini.

Un’altra «emergenza sanitaria» si sta imponendo all’attenzio-


ne dei media occidentali proprio nei giorni in cui sto ultiman-
do la stesura di questo libro: il virus Ebola. La cosa da notare
è che le modalità con le quali l’attenzione sulla diffusione di
questo virus ha avuto un’escalation in questi ultimi mesi – ol-
tre al livello di psicosi che la sta accompagnando – sono molto
simili a quelle viste nel caso dell’influenza suina. Sarà inte-
136 ressante vederne gli sviluppi. Le premesse sembrano essere
le stesse, supportate anche dalle dichiarazioni delle autorità
sanitarie statunitensi – rilanciate dai media occidentali a otto-
bre del 2014 – secondo le quali «Ebola è la sfida sanitaria più
grande dopo la comparsa dell’AIDS». Dopo quello che avete
letto proprio in merito ad AIDS e influenza suina, lascio a voi
le valutazioni del caso…

I 4 MAGNATI

Quando è iniziata la storia dell’industria farmaceutica? Visto


che abbiamo appena capito insieme che molte delle dinami-
che legate al mondo della salute sono manipolate in base agli
interessi della multinazionali del settore, sarebbe ora oppor-
tuno scoprire insieme quando, come e perché tutto questo
è iniziato.
La storia dice che tutto nacque agli inizi del ventesimo secolo
dall’idea di quattro grandi imprenditori statunitensi, ciascuno
dei quali investiva in uno specifico settore: Andrew Carnagie
era un imprenditore nel settore dell’acciaio; J. D. Rockefeller
era un petroliere; Jay Gould era impegnato nell’industria dei
trasporti (ferrovie e strade); J. P. Morgan, infine, era un magna-
te della finanza (che ritroveremo anche nei prossimi capitoli).

137

Andrew Carnagie J. D. Rockefeller

Jay Gould J. P. Morgan


Questi quattro signori ebbero la brillante idea di diversificare
ulteriormente il proprio business e di cercarne e occuparne
uno nuovo, che potesse aprirsi a un più vasto numero di po-
tenziali clienti consumatori. E quale fu questo business? Quel-
lo legato alla salute, ovviamente. Un business che non esclu-
deva nessuno, perché tutti abbiamo bisogno di stare bene.
Quindi, si misero a costruire fabbriche che cominciarono a
produrre farmaci per curare con rimedi chimici costruiti in
laboratorio le più disparate patologie, brevettando ciascuna
molecola e principio attivo prodotti e immessi sul mercato.
Prima che venisse creato questo nuovo business, la gente
si curava in modo più diversificato e naturale, seguendo gli
accorgimenti che ogni medico poteva dare agendo secondo
i principi del Giuramento di Ippocrate. Fu quindi palese che
era necessario convincere le persone a scegliere il rimedio
138 farmacologico al posto delle cure (fino a quel momento) con-
venzionali. Come fare?
Nel 1908 i quattro magnati (con la Carnagie Foundation di
Andrew Carnagie in testa) commissionarono e finanziarono
una ricerca condotta da un certo Flexner, già amico di Ro-
ckefeller, con lo scopo di screditare tutte le terapie naturali,
a basso costo, a basso impatto, a basso effetto collaterale,
evidenziandone la poca efficacia terapeutica.
Il Rapporto Flexner (questo è il nome che fu poi dato allo stu-
dio) concludeva promuovendo i farmaci dell’industria farma-
ceutica come la migliore soluzione per ogni disagio e malattia,
poiché i loro prodotti erano il frutto di ricerche e di studi
condotti da equipe di medici e ricercatori. Era ovvio che i loro
prodotti sarebbero stati di gran lunga migliori dei consigli dati
dal singolo medico sulla base della sua esperienza personale.
Tuttavia, c’era chi dai medici «naturali» andava ancora. Come
Arturo Toscanini, il famoso direttore d’orchestra che proprio
negli anni 1920 era molto conosciuto anche negli Stati Uniti
(tra il 1926 e il 1934 diresse la New York Philarmonic Orche-
stra). Quando si trattava di curarsi, Toscanini preferiva ritirarsi
nelle campagne toscane e farsi visitare dal dottor Alberto
Rinaldi, un medico omeopata che viveva in provincia di Siena
e che, pur esercitando la professione in modo appartato, sta-
va cominciando a farsi conoscere per il fatto che le sue cure
naturali erano davvero efficaci, e molti personaggi famosi ne
iniziavano a parlare bene.
La fama di Rinaldi arrivò anche in America, e le industrie far-
maceutiche cominciarono ad avere il timore che la medicina
omeopatica potesse avere ancora una chance, e ostacolare
così lo sviluppo del mercato farmacologico.
Nel 1935 Rinaldi venne ammazzato a bastonate dal suo vicino
di casa, che scontò una pena di due anni in carcere e poi sparì 139
in Sud America, acquistando un concessionario di automobili
Fiat, non si sa con quali soldi.
Un altro esempio di vittima sacrificale fu il russo George
Lakhovsky, uno dei padri della medicina vibrazionale. Lakhov-
sky fu tra i primi a teorizzare che il corpo si potesse curare non
solo a livello chimico, attraverso l’assunzione di una molecola,
di un principio attivo o di un farmaco, ma anche a livello bio-
fisico, attraverso apparecchiature che riproducessero onde
vibrazionali simili a quelle che caratterizzano il corretto flusso
energetico del corpo umano, nei suoi vari organi e distretti.
Lakhovsky mise a punto diverse apparecchiature atte a ripro-
durre tali frequenze, e molte di queste furono presto utilizzate
negli ospedali in Sud America, in Francia, in Italia. Erano gli
anni 1930. Finché in un giorno del 1942, mentre Lakhovsky
si trovava in viaggio a New York, fu investito da una limou-
sine che lo uccise all’istante. Da allora, la medicina ufficiale
sospese (o quasi) ogni tipo di ricerca legata alla medicina vi-
brazionale, e le apparecchiature di Lakhovsky sparirono dagli
ospedali. Completamente dimenticate.
Quale epilogo dobbiamo aspettarci dall’eredità che ci ha la-
sciato lo scorso secolo? Personalmente credo sia arrivato il
momento di evolvere. Ora cerchiamo di capire come, perché
le soluzioni le abbiamo già.

PARTE SECONDA – IL METODO RQI®

Ho conosciuto Marco Fincati a Rimini. Era tra il pubblico di


una conferenza che un’associazione locale mi aveva invita-
to a tenere. All’epoca lavoravo come consulente per varie
aziende in diversi settori ed ero socio fondatore e investitore
140 in altrettante altre, con risultati a volte brillanti e a volte me-
no. Inoltre portavo avanti da alcuni anni l’attività non profit
di divulgatore su temi a me cari (sostenibilità ambientale e
riforma del sistema monetario), mosso dal nobile intento di
voler contribuire in qualche modo a «cambiare il mondo» che
lascerò ai miei nipoti.
Negli anni immediatamente precedenti il mio incontro con
Marco mi ero confrontato con lo stress, finendo un paio di
volte all’ospedale per problemi fisici a esso correlati. E proprio
perchè non ho mai sopportato gli ospedali mi ero già avvici-
nato alle cosiddette «terapie olistiche», ottenendo stimoli e
risultati interessanti. Avevo inoltre già in parte risolto attra–
verso scelte «alternative» i miei problemi con l’alimentazione,
dopo che mi era stato diagnosticato quell’insieme di disturbi
e intolleranze che ho poi definito ironicamente «sindrome da
stazione di servizio autostradale», e cioè l’insieme dei distur-
bi digestivi, intestinali e metabolici causati dall’abitudine di
mangiare troppo spesso in autogrill.
Pur sentendomi fortunato da ogni punto di vista – fisico, eco–
nomico, sentimentale e familiare – non ero ancora pienamente
soddisfatto della mia vita. Mi trovavo periodicamente in balia
di «alti e bassi», periodi di ispirazione e motivazione seguiti
da periodi di depressione e spossatezza, messo a dura prova,
come tutti, dagli eventi della mia vita personale e dalla «crisi»
che mi circondava. Prima di apprendere le tecniche insegnate
da Marco, gli spunti più interessanti mi erano arrivati da al-
cuni autori e discipline che mi avevano introdotto al «lavoro
su di sé» e a un concetto di «spiritualità» molto più pratico e
concreto di quello che mi avevano insegnato al catechismo.
Ma non ero ancora riuscito a portare nella mia vita risultati
tangibili. E non mi sentivo felice.
141

Marco Fincati
Quando Marco mi chiese di partecipare come co-relatore
a un corso che avrebbe tenuto a Rimini, accettai per un so-
lo motivo. Le sue grandi suggestioni razionalmente non mi
convincevano, il suo modo di esporle era lontanissimo dal
mio stile, e lui e le persone che collaboravano all’epoca alla
diffusione del suo lavoro erano quanto di più eccentrico, cu-
rioso e disorganizzato potessi immaginare. Ma le sue tecni-
che funzionavano. L’avevo provato sulla mia pelle. Dopo solo
una seduta guidata da Marco, senza che io sapessi nulla del
Metodo RQI®, applicando semplici procedure e tecniche che
non avevo mai visto prima, blocchi interiori che mi portavo
dietro da anni erano svaniti nel nulla. Serenità, appagamen-
to e leggerezza, che avevo ormai dimenticato, sembravano
aver trovato un modo semplice per rientrare nella mia vita
quotidiana.
142 Mi resi conto che le tecniche di Marco potevano mettere let-
teralmente il «turbo» alla mia crescita personale e alla mia
realizzazione su questa terra, e fare lo stesso per chiunque le
avesse applicate, in qualunque ambito della vita umana. Non
solo Salute e Benessere fisico, ma anche Autostima, Relazioni,
Lavoro e Benessere economico. Non ci sono limiti ai risultati
che si possono ottenere applicandole correttamente. E so-
prattutto sono semplici e alla portata di tutti.
Quando mi chiese di aiutarlo professionalmente a diffondere
il Metodo RQI®, ancora non la reputavo una scelta fattibile.
Troppe incognite e troppi rischi, in un settore che non cono-
scevo e con tante altre attività già avviate che avrei dovuto
mettere da parte. Ma decisi di affidarmi alle tecniche che
Marco mi aveva insegnato per fare quella scelta importante,
dato che le avevo già iniziate a sperimentare con successo
non solo sulla mia salute fisica ed emotiva, ma anche in ambi-
to professionale. E infatti la risposta fu diversa da quella che la
mia mente si aspettava. Il mio cuore diceva che dovevo farlo,
dovevo mollare il resto e collaborare con lui.
Ora, guardandomi indietro, so che quella scelta è stata giu-
sta, come tutte quelle prese applicando correttamente il
Metodo RQI ®. Guardando i risultati raggiunti con Marco
grazie a ciò che ora insegniamo insieme, mi rendo conto
che visti da fuori sembrerebbero incredibili. Oggi migliaia di
persone in Italia conoscono il Metodo RQI®, lo applicano e
ne hanno testimoniato l’efficacia in ogni ambito della loro vi-
ta, per sé e per i propri cari. Per diffonderlo abbiamo creato
Q Institute, il primo istituto al mondo nato per promuovere
conoscenze e strumenti pratici per rendersi indipendenti e
felici. «Cambiare il mondo, partendo da sé» è diventato il
nostro motto ufficiale. I corsi in aula organizzati finora sono 143
andati costantemente sold out, arrivando a riempire sale
con centinaia di partecipanti, da tutta Italia e addirittura
dall’estero, e convincendoci a registrarli e renderli disponibili
anche a distanza, sotto forma di corsi multimediali online.
Ci siamo dati obiettivi importanti, tra cui la diffusione inter-
nazionale del Metodo RQI® e il Q Project (il nostro progetto
per «Cambiare il Mondo»), e abbiamo già iniziato a realiz-
zarli, partendo ogni giorno dal lavoro su noi stessi. L’unica
condizione che chiesi a Marco di rispettare per collaborare
con lui è stata infatti questa: partire ogni giorno dall’appli-
cazione del Metodo RQI® su noi stessi e su ciò che facciamo
insieme. Oggi siamo come fratelli, continuiamo ad applicarlo
ogni giorno ed è questo il segreto dei risultati che stiamo
ottenendo.
L’RQI® è una grande opportunità che spero tanti potranno
cogliere. Serve solo abbandonare per un attimo i dubbi che
144 la mente razionale e le vecchie credenze ci fanno sorgere di
fronte a ciò che ancora non conosciamo, come anch’io ho do-
vuto fare all’inizio, e lasciarci guidare dal cuore prima ancora
di comprendere come sia facile farlo, applicando proprio il
Metodo RQI®.
Esso rappresenta un passo fondamentale per capire ciò che
è possibile fare della nostra vita scoprendo come funziona
davvero il nostro inconscio, come comunicare con esso, come
rimetterci in contatto con ciò che abbiamo dentro, con l’ener-
gia che pervade ogni parte di noi, le persone che abbiamo
intorno e l’intero universo che ci circonda, attingendo alla
quale non ci sono limiti a ciò che possiamo realizzare.

Quello che posso dire dalla mia esperienza personale è che


solo grazie all’RQI® ho iniziato a sperimentare tangibilmente
alcuni aspetti della mia vita dei quali prima non avevo mai
avuto esperienza. Una delle cose più interessanti che ho sco-
perto grazie all’RQI® è cosa significhi davvero la parola «si-
lenzio».
Il silenzio non è «l’assenza di rumore intorno a noi». Il vero
silenzio è «l’assenza di rumore DENTRO di noi». È una sen-
sazione di lucidità e di coerenza della nostra mente, tale per
cui non ci sono più disturbi né interferenze esterne capaci di
distrarre la nostra attenzione. Perciò diveniamo pienamente
consapevoli di quella che è la nostra vera natura. Il silenzio
che intendo io e che ho scoperto grazie all’RQI® è quel pro-
cesso per cui sono riuscito a collegare la mente al mio cuore
e a sentire davvero ciò di cui avevo bisogno.
«Va’ dove ti porta il cuore»... «Non si vede bene che col cuo-
re»... quante frasi la letteratura e la poesia ci hanno regalato
sull’importanza di ascoltare il nostro cuore!
Sì, ma – mi dicevo – io a fine mese devo guadagnare per vi- 145
vere! Ho bisogno di sviluppare competenze pratiche, non di
romanticismi letterari!
Eppure, ciò che mi mancava per riuscire a fare anche le cose
pratiche era proprio quel silenzio, quella serenità interiore,
quella focalizzazione che solo la connessione cuore-mente è
capace di dare. E con l’RQI® ho scoperto un insieme di tecni-
che per ottenere questo silenzio tutti i giorni.
Come già accennato, l’RQI® lavora mettendoci in comunica-
zione con il nostro inconscio e dandoci accesso a tutto quel-
lo che è dentro di noi. Il Metodo RQI® è capace di risalire
alle cause nascoste dei nostri problemi e a scoprire tutto il
rumore che c’è dentro di noi, frutto della programmazione
di tonnellate e tonnellate di credenze-immondizia che la so-
cietà ci inculca quotidianamente. Se vogliamo liberarci dal
ruolo di «scimmie rosse» dobbiamo innanzitutto «ripulirci»
interiormente. Questo è il primo vero passo. E poiché mente
e corpo sono collegati, e dalla salute della mente dipende la
salute del corpo (mens sana in corpore sano), allora è chiaro
che l’RQI® è ciò che ci serve per renderci indipendenti sul
piano della salute.
Potete immaginare la soddisfazione che si prova nel non pren-
dere più farmaci, nel non dipendere completamente da altre
persone che vi dicono che pillola dovete prendere o quale
terapia dovete seguire per guarire, ma essere capaci di risa-
lire alle vere cause dei vostri disturbi e problemi «guardando
dentro di voi», ed essere allo stesso tempo capaci di trovare
anche le migliori soluzioni?

LE BASI DEL METODO

146 Il Metodo RQI® trae origine da diverse conoscenze e teo-


rie, tra cui quelle della medicina informazionale, le psicologie
quantistiche e la medicina tradizionale cinese.
Partiamo dalla prima.
L’uomo è formato da 75 miliardi di cellule. Ogni cellula è for-
mata da miliardi di atomi. In media si può presumere che una
persona di circa 70 chilogrammi sia composta da 15 miliardi di
miliardi di miliardi di atomi. E cosa sono questi atomi? Secon-
do la fisica newtoniana, sono aggregati di particelle ancora
più piccole: neutroni, elettroni e protoni. I neutroni e i protoni
formano il nucleo dell’atomo, intorno al quale ruota un de-
terminato numero di elettroni. In base al numero di protoni
ed elettroni, avremo uno dei 118 diversi atomi della Tavola
degli Elementi.
L’atomo di idrogeno, ad esempio, è il più elementare, perché
è formato da un solo elettrone che gira intorno a un nucleo
formato da un protone e un neutrone. L’atomo di ossigeno,
invece, ha 8 elettroni. L’acqua è una molecola formata da due
atomi di idrogeno e uno di ossigeno, e tale molecola costitui-
sce il 75% delle molecole del nostro corpo. (Mentre gli atomi
di idrogeno e ossigeno costituiscono ben il 98% degli atomi
del nostro corpo.)
Fin qui tutto chiaro. Ma sappiamo oggi che c’è qualcosa di
più. Grazie ad Albert Einstein e alla sua famosa equazione
E = mc 2 sappiamo che energia e materia sono la stessa cosa.
Sappiamo che la massa (m) dipende dall’energia (E) con la
quale gli elettroni girano intorno al nucleo dei loro atomi (c è
una costante e rappresenta la velocità della luce, qui elevata
al quadrato).
In sostanza, Einstein aveva scoperto che era possibile cam-
biare lo stato della materia agendo sulla sua configurazione
energetica. 147
Un esempio pratico? Prendiamo la nostra già citata molecola
di acqua.
A una temperatura di 20 °C, ad esempio, essa appare allo
stato liquido. Se però la mettessimo a scaldare su un fuoco
(ovvero se le fornissimo un surplus di energia sotto forma
di calore), raggiunti i 100 °C l’acqua comincerebbe a bollire
e oltre tale temperatura diventerebbe vapore, cambiando il
proprio stato da liquido a gassoso. Se invece la ponessimo in
una baccinella all’interno del congelatore di casa (sottraen-
dole quindi energia), una volta arrivata alla temperatura di 0
°C l’acqua solidificherebbe, diventando ghiaccio.
Questo esempio banale ci spiega ciò su cui si basa la medicina
energetica-informazionale: essa non agisce a livello chimico,
attraverso un farmaco, un principio attivo in grado di inne-
scare determinate funzioni nel corpo (e con tutta una serie
di effetti collaterali: pensate agli antibiotici, ad esempio), ma
invece sul piano biofisico, ristabilendo i corretti flussi di ener-
gia all’interno del nostro corpo o la corretta configurazione
energetica di una specifica parte del nostro corpo.
In particolare, il Metodo RQI® riesce a lavorare sul piano ener-
getico attraverso diverse tecniche o approcci, ciascuno dei
quali può lavorare su uno dei tre «livelli» dei quali siamo co-
stituiti: corpo, mente e «anima» (che nel Metodo RQI® corri-
spondono anche a Materia, Energia e Spirito).
Nel libro di Marco Fincati RQI – Il Segreto dell’Auto-Star-Bene
e nei corsi organizzati dal Q Institute ogni tecnica è spiegata
nel dettaglio.
Vi farò qui un paio di esempi.
Come ci insegna Ippocrate, il cibo è la nostra miglior medicina.
Quello che oggi sappiamo (anche alla luce della riscoperta e
148 rivalorizzazione della medicina tradizionale cinese) è che ogni
cibo presenta una determinata configurazione energetica. In
linea di massima tale configurazione (o «frequenza») corrispon-
de anche al suo colore. Ad esempio, le fragole sono rosse,
perciò hanno una configurazione energetica simile a quella del
colore rosso. Sapere poi che l’energia sprigionata dal colore
rosso corrisponde a un determinato sentimento ci fa intuire che
con il cibo possiamo non solo riequilibrare carenze nutrizionali,
ma anche lavorare sul piano psicologico e psicosomatico.
Ora però rimane un problema: come facciamo a capire di
quali frequenze abbiamo bisogno? E qui entriamo nel vivo
del Metodo RQI®. Tutto il metodo si basa infatti sulla comu-
nicazione con il nostro inconscio, attraverso un test ideato
e affinato da Marco Fincati sulla base di migliaia di persone
testate e anni di studi e miglioramenti.
Il nostro corpo reagisce agli stimoli esterni in base alla per-
cezione che ha di essi. Per esempio, di fronte a uno stimolo
considerato negativo il nostro corpo registrerà all’istante un
calo di energia; mentre di fronte a uno stimolo positivo il no-
stro corpo manterrà invariato il proprio potenziale. Quindi, il
test si premura di interrogare il nostro inconscio circa un de-
terminato problema, e immediatamente verificare se lo stato
energetico del nostro corpo sarà «forte» o «debole». Se il test
darà come risultato «forte», significa che quello stimolo non
è un problema; se risulterà «debole», significa che quello sti-
molo rappresenta un problema, ed è magari proprio la causa
di un nostro disagio fisico.
In questo modo possiamo essere sicuri di aver trovato le vere
cause dei nostri problemi, proprio perché stiamo interrogan-
do l’inconscio, quella parte della nostra mente che ha il vero
controllo della nostra vita.
Bisogna infatti sapere che abbiamo in realtà due menti: la 149
mente conscia e la mente inconscia (sarebbero addirittura
tre, considerando anche il superconscio, ma per ora ci basti
analizzare le prime due).
La mente conscia è quella di cui noi siamo consapevoli, ma
governa solo dall’1% al 5% della nostra vita. Il restante 95%
(e oltre) è governato dalla mente inconscia, una sorta di «re-
gistratore» di ciò che la mente conscia elabora.
Ad esempio, mettiamo il caso di un adolescente che a scuola
si imbatte in un professore con la cravatta rossa che lo rim-
provera sempre, prendendolo di mira e svilendolo davanti
ai compagni. La sua mente conscia sicuramente percepirà il
professore come una causa di stress. La sua mente inconscia
registrerà tale sensazione e (per rendere più forte il ricordo)
la legherà ad alcuni elementi tipici della situazione, come la
«cravatta rossa» del professore. Quando l’adolescente diventa
adulto, a distanza di anni potrebbe avere ancora la percezione
di vivere una situazione negativa ogni volta che si trova da-
vanti a qualcuno che indossa una cravatta rossa. Lui è ignaro
che la sua sensazione negativa è legata a quella cravatta! Ma
il suo inconscio lo sa benissimo.
Lo sapevate, ad esempio, che le intolleranze alimentari sono
spesso legate a un rapporto di conflittualità con una perso-
na? La nostra mente inconscia lega un determinato alimento
a una determinata persona o luogo, e se siamo in conflitto
con quella persona o luogo verosimilmente potremmo essere
allergici o intolleranti a quel determinato cibo. Finché siamo
inconsapevoli di ciò, dovremmo rassegnarci a «evitare» quel
determinato cibo. Ma se avessimo gli strumenti per capire
qual è la persona o il luogo che ci creano il conflitto, e allo
stesso tempo potessimo risolvere questo conflitto, eliminando
150 così la nostra intolleranza o allergia?
Il Metodo RQI® fa esattamente questo.
Infatti, grazie alla comunicazione con l’inconscio, possiamo
risalire alle vere cause e lavorare su di esse, non sui sintomi.
Direte voi: com’è possibile risolvere QUALSIASI disturbo con
questo metodo?
La risposta è semplice: come ha evidenziato uno studio della
American Psychological Association, che ha intervistato mi-
gliaia di medici di base, dal 75% al 90% dei nostri problemi
di salute sono legati allo stress. Ricercatori illustri come Bruce
Lipton (le cui scoperte sull’epigenetica hanno influenzato il
Metodo RQI®) sono ancora più decisi circa il ruolo dello stress
e affermano che esso sia la SOLA causa di malattia. In pratica,
il corpo umano è una macchina perfetta, che smette di funzio-
nare solo quando si trova di fronte a una situazione di disagio,
di stress appunto. Ma se potessimo scoprire qual è il tipo di
stress che ci ha creato una determinata malattia, e riuscissimo
a eliminarlo, allora il corpo guarirebbe da solo, perché ha
già in sé tutte le informazioni per funzionare correttamente e
autorigenerarsi. Ecco perché parliamo di «Auto-Star-Bene».
Abbiamo bisogno di capire cosa ci fa male e cosa ci fa bene,
cosa ci fornisce frequenze positive e cosa ci fornisce frequen-
ze negative.
Alla luce delle sue esperienze sul campo, Marco ha catalogato
lo stress dividendolo in tre tipologie:
– stress fisico (ad esempio, causato da un eccesso di lavoro
muscolare, ma anche da una cattiva alimentazione, da un ec-
cesso di tossine, metalli pesanti e veleni che il corpo fatica a
eliminare);
– stress da elettrosmog o «energetico» (dovuto alle apparec-
chiature quali i cellulari, le onde elettromagnetiche, i blueto-
oth, il wifi...); 151
– stress emotivo (i pensieri negativi della nostra mente, spesso
condizionata anche dalle credenze che la società ci inculca per
spaventarci, tenerci divisi e comandarci).
E che ci crediato o no, è proprio lo stress emotivo (cioè,
quell’insieme di paure, blocchi e turbamenti interiori causati
da qualcosa o qualcuno intorno a noi… o meglio dal modo in
cui reagiamo a qualcosa o qualcuno intorno a noi) ad essere
più spesso la vera causa dei nostri disagi fisici.

Cosa succede quando siamo «sotto stress»?


Succede che il corpo attiva una delle sue due modalità: quella
di difesa, detta «Lotta o fuggi», cioè il cosiddetto sistema
«simpatico» (di nome, ma non di fatto). L’altra modalità del
corpo umano è il sistema «parasimpatico», che è la modalità
di crescita e di scambio con l’ambiente. In sostanza, il nostro
corpo funziona come un sistema binario: 0 o 1, spento o ac-
ceso, in protezione o in amore.
Non ha altre modalità. Di fronte a uno stimolo, o lo riconosce
come «amico» (ad esempio, di fronte a un cibo, a un nutrien-
te, le cellule ne permettono l’ingresso al loro interno) o lo
riconosce come un «nemico» (ad esempio, in presenza di una
tossina: in questo caso le cellule si attivano per proteggersi o
per espellerla il prima possibile).
Alcuni ricercatori affermano che se potessimo vivere tutta la
nostra vita in modalità di crescita («parasimpatico»), cioè sen-
za stress, vivremmo tranquillamente fino a 140 anni e oltre. Ed
esistono casi reali di popolazioni che arrivano tranquillamente
a tale età, come il popolo degli Hunza, ai piedi dell’Himala-
ya: andatevi a studiare le loro abitudini se vi interessa capire
come mai…
152
Quindi per guarire da qualsiasi tipo di malattia dobbiamo in-
nanzitutto capire qual è la causa di stress ed eliminarne le sue
frequenze distruttive, e poi ripristinare le frequenze positive
per aiutare il nostro corpo a tornare in modalità «parasimpati-
ca». A quel punto, eliminato lo stress, il nostro corpo è pronto
per «Auto-Star-Bene».
Avete capito ora perché spesso una vacanza è più rigeneran-
te di una terapia medica? Comprendete come è più difficile
guarire tanto più si pensa al problema, focalizzandosi sulle sue
frequenze negative?
Purtroppo la medicina tradizionale non sempre ci aiuta, per-
ché nasce dalla pretesa (sbagliata) di curarci sopprimendo
i sintomi delle malattie, e quasi mai risalendone alle cause.
E lo fa con un rimedio chimico che, se da una parte riesce
a riattivare un processo di guarigione, dall’altra porta in sé
una serie di effetti collaterali che si faranno sempre sentire.
Agendo bene sulla rimozione dello stress, non ci sono effetti
collaterali. E spesso la guarigione è più rapida (a volte anche
immediata!).

IMPARA AD AUTO-STAR-BENE

Siamo giunti alla conclusione della parte dedicata all’Auto-


Star-Bene e se hai compilato il «Q Test» online sai già se tu
e i tuoi cari siete o meno a rischio di essere strumentalizzati
dall’industria farmaceutica. Ti invito pertanto ora a ripensare
alle risposte che hai dato quando hai compilato la parte del
«Q Test» relativa alla voce AUTO-STAR-BENE. Se non l’hai
ancora fatto, collegati su www.liberidalsistema.com e compila
ora il test (ci vorranno pochi minuti e sarà tempo ben speso,
prima di proseguire nella lettura). 153

Quanto tu e le persone con cui vivi dipendete da farmaci e


integratori? Quanto spesso avete bisogno del medico? Riu-
scite ad ascoltare e a capire i bisogni e i segnali del corpo
in modo autonomo? Quanto tempo investite in attività che
possono mantenere il vostro apparato psico-fisico in «equi-
librio»? E soprattutto: quanto tempo passate nell’arco della
vostra giornata in una condizione di serenità e pienezza, di
«felicità» (nel senso che per ognuno di noi può avere questo
termine), senza essere in preda a pensieri o preoccupazioni,
paure o dolori, quindi senza lamentarvi di problemi fisici o di
altro genere, vostri o delle persone che avete intorno?
Molte persone nel mondo di oggi non si rendono neanche
più conto di passare la maggior parte del loro tempo in una
condizione di «stress», impegnati a pensare a preoccupazioni
o problemi, o a lamentarsi per qualcosa o qualcuno. Ma voi e i
vostri cari sapete invece cosa significa dedicare il nostro tem-
po a fare davvero ciò che ci piace, in uno stato di presenza,
pienezza e felicità? E sapete cosa vi piace davvero «fare» sen-
za che qualcun altro vi chieda di farlo, cosa vi piace davvero
«essere» senza che sia qualcun altro a chiedervi di «esserlo»?
Affidare il proprio «benessere», cioè la propria capacità di
«stare bene», a farmaci, integratori o persone esterne finisce
per renderci schiavi e incapaci di prenderci cura di noi stessi,
e quindi di «star bene».
Fortunatamente esistono oggi delle «tecnologie interiori»,
come io stesso amo definirle, per capire velocemente le vere
cause dei nostri «stress» e individuare le migliori soluzioni per
risolverli. Esse sono utili anche per capire ciò che davvero «ci
piace» e ciò di cui abbiamo veramente bisogno per stare be-
154 ne, e quindi ciò che «sentiamo» davvero. Questo può mettere
il «turbo» alla nostra realizzazione su questa Terra e avvicinarci
davvero alla felicità.
Le più efficaci «tecnologie interiori» che ho applicato nella mia
vita sono state raccolte proprio dal lavoro di Marco Fincati
col Metodo RQI® e non a caso ho deciso personalmente di
impegnarmi nel promuoverle a tutti, offrendole attraverso i
corsi organizzati dal Q Institute, l’istituto che ho creato con
Marco a San Marino. Sono ormai migliaia le persone che già
le applicano e le hanno apprese grazie a noi.
Per approfondire in dettaglio le basi teoriche e pratiche del
Metodo RQI® ti invito a leggere il già citato libro di Marco
Fincati RQI – Il Segreto dell’Auto-Star-Bene, pubblicato da
Q Institute.
Ma se pensiamo al nostro corpo come a un’auto con la quale
la nostra «anima» se ne va in giro per il mondo, pensate che
per imparare a «guidarlo» verso il benessere basti davvero
solo leggere un libro? Conoscete qualcuno che abbia impa-
rato a guidare leggendo solo un manuale? Sicuramente no!
Occorre fare almeno un po’ di pratica ed essere affiancati
nell’apprendimento da qualcuno con più esperienza di noi,
anche per evitare di fare «incidenti» nel muovere i primi passi.
Certo con il Metodo RQI® è praticamente impossibile fare
«danni», data la totale assenza di possibili effetti collaterali
nella sua applicazione, ma è evidente che per imparare dav-
vero a usarlo è vivamente consigliato frequentare almeno un
corso, magari insieme ai propri cari, anche da casa in versio-
ne multimediale: il Corso Base «Metodo RQI® – Autotest e
Comunicazione con l’Inconscio».
Esso è la base per imparare davvero ad «Auto-Star-Bene»,
e raccoglie le conoscenze che ogni essere umano dovrebbe
avere per «guidare il proprio apparato psicofisico» in questa 155
bellissima esperienza che è la vita sulla Terra.
I corsi predisposti da Marco Fincati insieme al Q Institute in-
segnano l’RQI® in modo coinvolgente e interattivo, dando
gli stimoli giusti che servono davvero per cambiare la propria
vita in maniera pratica in relazione alla Salute, imparando così
da subito a riconoscere le vere cause dei nostri problemi e le
migliori soluzioni per risolverli.
Oltre alla possibilità di fruirne anche via Internet comodamen-
te da casa, con i corsi è sempre offerta l’assistenza di Facilita-
tori esperti, che grazie alle nuove tecnologie e al web riescono
a seguirvi anche a distanza, in qualsiasi parte del mondo.
Questa è un’incredibile opportunità che nell’era dell’informa-
zione finalmente tutti possono cogliere. Cosa chiedere di più?
Per maggiori informazioni sui corsi Q Institute consulta l’Ap-
pendice al termine del libro.
5 INDIPENDENZA ALIMENTARE

«Lasciateci dire che la chiave per la pace si trova


vicino alla terra.»
Masanobu Fukuoka

Ogni giorno la Terra, inteso come il pianeta che ci ospita,


156 produce il cibo che ci serve da nutrimento e che ci permette
di vivere.
Peccato che quando sentiamo i telegiornali parlare della Ter-
ra, le uniche cose che richiamano la nostra attenzione sono
cataclismi, cambiamenti climatici, alluvioni, tornado, tempeste
di vento... sembra che l’unica cosa che sappia fare il nostro
pianeta sia quella di infastidirci a livello climatico e meteoro-
logico. Ma non è così.
Invece di focalizzarci ogni giorno su quanti gradi di escursione
termica ci sono stati rispetto a ieri, dovremmo innanzitutto
porre la nostra attenzione sul fatto che anche oggi la Terra ci
ha dato da mangiare. Quindi: «GRAZIE, Pianeta Terra!».
Poi possiamo anche parlare dei cambiamenti climatici, magari
chiedendoci se non dipendono in parte anche da noi… ma
prima dobbiamo mostrare riconoscenza verso la natura che
ogni giorno si prende cura di noi.
In questo capitolo cercheremo di capire come avviene oggi
l’approvvigionamento di cibo nella società industrializzata at-
tuale e se può essere considerato un meccanismo rispettoso
dell’ambiente. Il Sistema ci permette di avere ogni giorno sul-
le nostre tavole varietà di cibi che arrivano anche dalla parte
opposta del globo. Ma come funziona il Sistema?

LA RIVOLUZIONE VERDE

Il più grande avanzamento tecnologico dal punto di vista della


coltivazione della terra è avvenuto nella seconda metà del
secolo scorso ed è stato chiamato «Rivoluzione Verde».
Il nome sembrerebbe alludere a una rivoluzione «ecologica».
In realtà il termine «verde» è fuorviante.
Con Rivoluzione Verde si intende infatti un approccio innovati-
vo alla produzione agricola che, attraverso l’impiego di varietà 157

vegetali geneticamente selezionate, fertilizzanti, fitofarmaci e


altri investimenti di capitale per quanto concerne nuovi mezzi
tecnici, ha consentito un incremento significativo delle produ-
zioni agricole in gran parte del mondo nei decenni che vanno
dal 1940 al 1970.
Si parla, in sostanza, dell’applicazione dei sistemi industriali
più spinti al mondo dell’agricoltura: produzione su larga scala,
impiego di tecnologia chimica e macchinari tecnologici... con
lo scopo di produrre più cibo. Perché – questo era il pensiero
dominante – se la popolazione nel mondo sta aumentando
vertiginosamente, c’è bisogno di produrre più cibo per sfa-
mare tutti.
La Rivoluzione Verde si basa su due capisaldi.
Il primo è il sistema delle monocolture intensive. Ci sono
aziende che coltivano una distesa infinita di terreno piantan-
do un unico tipo di seme, in modo da produrre in maniera
intensiva un solo tipo di pianta. Per evitare che animali o pa-
rassiti possano rovinare il raccolto, ci sono aerei che sorvolano
i campi e spargono dall’alto fertilizzanti, concimi, pesticidi e
fitofarmaci.
Il secondo caposaldo dell’agricoltura moderna è il sistema dei
trasporti: una volta ottimizzata la quantità di cibo prodotta,
bisogna permettere che questo determinato cibo, coltivato in
una sola parte del mondo, possa essere esportato ovunque,
anche dalla parte opposta del globo, per finire in tutti i su-
permercati: le banane coltivate in Brasile vengono mangiate
in Europa, i pomodori coltivati in Spagna vengono esportati
in Australia, e così via.
La modalità di coltivazione della Rivoluzione Verde ha effet-
tivamente aumentato la produzione di cibo. Ma a che costi?
158
Per produrre una caloria alimentare di cui ci cibiamo ven-
gono investite circa 7,3 calorie, che vengono spese nei vari
passaggi del sistema produttivo agroalimentare, dal momento
della semina fino al trasporto nel punto vendita (fonte: Life
Cycle-Based Sustainability Indicators for Assessment of the
U.S. Food System, University of Michigan).
Solo il lavoro dell’industria agroalimentare consuma già più
calorie di quelle che produce: 1,6 kcal.
Poi vanno aggiunte 2,3 kcal, spese per la preparazione del
cibo e la sua conservazione.
Altra mezza caloria è spesa dal servizio commerciale all’in-
grosso e 0,3 calorie sono spese dal punto di rivendita al det-
taglio. Inoltre, mezza caloria è spesa per l’imballaggio, 1,2
calorie per la lavorazione e un’altra caloria per il trasporto.
Insomma, il nostro sistema è un sistema dispendioso. E non so-
lo. L’utilizzo di prodotti chimici e tecnologie particolari produce
anche effetti inquinanti da non sottovalutare. Tant’è che le zo-
ne più inquinate del nostro pianeta sono quelle in cui si trovano
grandi conglomerati industriali, ma anche quelle in cui si coltiva
in modo intensivo. La Pianura Padana ne è un esempio.

BIODIVERSITÀ SACRIFICATA

Tra gli effetti negativi dell’agricoltura intensiva e dell’annesso


sistema di distribuzione non vi è solo l’inquinamento. Vi è
anche un calo drammatico della varietà e della qualità del
cibo prodotto.
Perché in nome dell’abbondanza, per ottimizzare al massimo
la produzione, la monocoltura si concentra ovviamente sulla
coltivazione di poche varietà di semi selezionati e genetica-
mente modificati, al fine di renderli più resistenti ai parassiti e
alle intemperie. Non interessa se i frutti e le verdure saranno 159
buoni e salutari. È più importante che siano tanti, e resistenti.
La necessità è quella di arrivare sulle tavole di tutti, di vendere
il più possibile, e ai costi di produzione più bassi possibili. È
una vera e propria industria, quella alimentare.
Questo ha portato a perdere molta della biodiversità che i
nostri nonni ci avevano lasciato.
Qualche numero? Dati del 1903 parlano di 3879 varietà di
tipologie di ortaggi «censiti». Nel 1983 le varietà erano già
scese a 307: un dodicesimo (fonte: National Storage Seed
Laboratory). Prendiamo il caso dei cetrioli. Nel 1903 c’erano
ben 285 tipi di cetrioli. Nel 1983 il loro numero si era ridotto
a sole 16 varietà.
Non conosco i dati aggiornati a oggi, ma possiamo ragio-
nevolmente dedurre che la situazione non è migliorata… Se
pensate alle mele ad esempio, al supermercato ormai ne tro-
vate solo 3 tipi (gialle, verdi e rosse).
Direte voi: va bene, è stata sacrificata la biodiversità, ma alme-
no oggi c’è cibo per tutti. Tutti possono avere sulla propria ta-
vola i prodotti della terra, anche quelli di paesi lontani. Se fosse
vero, vi darei ragione. Purtroppo è vero l’opposto: ancora og-
gi, una persona su sette al mondo fatica ogni giorno ad avere
qualcosa da mangiare nel piatto, e risulta quindi denutrita.
Abbiamo messo a rischio l’ambiente, inquinato l’aria, modi-
ficato geneticamente i semi, ridotto le varietà vegetali... ep-
pure qualcuno starà ancora pensando: «Forse non abbiamo
spinto abbastanza la produzione. Se una persona su sette
muore ancora di fame o comunque fa fatica ad avere accesso
al cibo, si vede che non stiamo producendo abbastanza. Do-
vremmo spingere ancora la produzione, magari esasperare
ulteriormente le monoculture... dobbiamo inventarci un modo
per aumentare ancora la quantità».
160 Eppure c’è chi dice esattamente il contrario. Come l’econo-
mista indiano Amartya Sen, premio Nobel per la Pace, che
sostiene fermamente che il problema non sia legato alla quan-
tità, ma al modo in cui il cibo viene reso accessibile, a come
viene distribuito.

«Se continueremo a guardare alla fame solo in termini di


quantità di produzione alimentare – ha dichiarato Sen – non
riusciremo a risolvere il problema. Il mondo produce già cibo
a sufficienza. Il problema è l’accesso al cibo».

Niente di più vero, se solo pensiamo a quanto cibo viene


sprecato nelle società occidentali. Cibi scaduti o invenduti su-
gli scaffali dei supermercati, cibi avanzati al ristorante o anche
nelle nostre case. Mentre dalla parte opposta del mondo c’è
gente che il cibo non ce l’ha.
Ma perché il Sistema mantiene queste inefficienze e disparità?
Che ci crediate o meno, il cibo è uno degli strumenti di con-
trollo più potenti del Sistema, a livello economico e politico.
C’è quindi qualcuno che ha interesse a decidere «se», «come»
e «quanto» cibo farci arrivare.
È attraverso la scarsità di una risorsa che è possibile controlla-
re chi quella risorsa fa fatica a procurarsela. E così il nostro si-
stema si basa sulla scarsità. Scarsità di denaro, scarsità di cibo.
Il controllo della società attraverso la scarsità è un modello
socio-economico-politico teorizzato da Henry Kissinger, ex
consigliere del Consiglio di Sicurezza degli Stati Uniti (carica
che ha ricoperto dal 1969 al 1977) e premio Nobel per la Pace
nel 1973 (e bisognerebbe aprire una parentesi sui legami tra
le commissioni per i premi Nobel e il Sistema stesso, dato 161
che oltre a Kissinger, anche Obama pare ne abbia vinto uno
sempre per la pace…).
Una delle frasi più celebri di Kissinger è: «Control oil, and you
control nations».
Controlla il petrolio e controllerai le nazioni.
Vi dice nulla questa frase, alla luce della politica estera adot-
tata dagli Stati Uniti?
Ma c’è una frase meno celebre, ma ancora più scioccante del-
lo stesso Kissinger, che dice: «Control food, and you control
the people».
Controlla il cibo, e controllerai le persone.
E come si può controllare il cibo? La risposta è duplice: con-
trollando la terra e controllando i semi. Vediamo come.
Henry Kissinger

162 CONTROLLARE LA TERRA

Land Grabbing è il titolo di un libro scritto dal giornalista


d’inchiesta Stefano Liberti che espone uno dei fenomeni più
recenti della nostra economia: l’accaparramento di terre. Cosa
significa accaparrarsi le terre? Vuol dire impossessarsi fisica-
mente di un’estensione più o meno grande di terreno, al fine
di sfruttarlo per la coltivazione. Questo mercato ha cominciato
a svilupparsi e crescere in modo impressionante negli ultimi
anni, proprio quando il mercato finanziario stava subendo un
momento di crisi e aveva bisogno di nuovi business. Il «land-
grabbing» sta coinvolgendo molti investitori privati (le banche
in primis!) ma anche istituzionali, tra cui addirittura alcuni Stati
che hanno insufficienti terre coltivabili all’interno dei propri
confini nazionali per garantire approvvigionamento alimentare
a tutta la propria popolazione.
Quali terre sono soggette all’accaparramento? Di certo non
quelle europee né quelle degli altri paesi già industrializzati.
Le terre oggetto di questo fenomeno sono quelle dei paesi
del Terzo Mondo, come quelli africani. Lì è pieno di campi
da coltivare, magari attualmente occupati da qualche tribù
di contadini che non hanno nemmeno un atto di proprietà
per rivendicarne il possesso o il diritto a occuparli. E allora
per il rappresentante istituzionale di uno stato occidentale
che si presenta in giacca e cravatta diventa facile stringere
un accordo commerciale con i politici dello stato africano in
questione: con cifre irrisorie e in poco tempo ci si accaparra
letteralmente l’esclusiva di sfruttamento di un terreno per la
durata di decenni.
Volete qualche esempio?
I paesi arabi, consci di non avere molti terreni fertili, hanno
cominciato da tempo a cercare nuove aree coltivabili in Africa. 163
E così ha fatto la Cina. Lo stato asiatico ha fatto una stima del
boom demografico di cui sarà protagonista nei prossimi anni e
una stima di quelli che saranno i fabbisogni alimentari della sua
popolazione. «Quanti saremo? Quanto mangeremo? Ok, le
terre coltivabili che abbiamo adesso in patria non ci basteran-
no più. Andiamo a comprarne di nuove in Africa», si sono detti.
Oltre agli stati, ci sono anche altri tipi di istituzioni che stanno
facendo questo tipo di operazione, e si tratta prevalentemen-
te di multinazionali e di società del mondo finanziario. Nel
loro caso, l’investimento è dettato da ragioni di natura com-
merciale: si sono resi conto che il mercato del futuro, quando
la popolazione crescerà ancora più di quanto sia già cresciuta
finora, si orienterà in gran parte sul settore alimentare. Se la
popolazione aumenterà e la terra è sempre quella, significa
che il cibo disponibile per ciascuno di noi sarà sempre meno,
si andrà sempre più verso la scarsità e, quindi, verso l’aumen-
to dei prezzi.
Goldman Sachs, Deutsche Bank e tante altre banche e mul-
tinazionali hanno spostato parte del proprio portafoglio di
investimento speculativo su qualcosa di più sicuro e tranquillo
e che – secondo le loro stime – darà loro una rendita molto
alta nei prossimi anni: la terra.
Guardiamo il caso della Daewoo. La Daewoo è una multina-
zionale coreana impegnata in attività di diverso genere, tra
le quali, ad esempio, la produzione di automobili e di navi
e la realizzazione di prodotti elettronici e di precisione per
l’industria. Nel 2008 l’azienda coreana firmò un accordo con
il governo del Madagascar secondo il quale la stessa Daewoo
avrebbe acquisito l’esclusiva di sfruttamento di 1,3 milioni
di ettari di terra presenti nell’isola africana per i successivi
164 99 anni. Considerando che in Madagascar il totale delle ter-
re coltivabili ammonta a 2,5 milioni di ettari, significa che la
Daewoo si era aggiudicata la gestione di più della metà della
terra coltivabile sull’isola!
E come avrebbe dovuto utilizzare quelle terre, la Daewoo?
Secondo l’accordo siglato dalle due parti, quelle terre sa-
rebbero dovute diventare monocolture intensive di cibo e di
biocarburante.
«A quale prezzo?», vi chiederete voi ora.
A meno di 3 dollari all’ettaro all’anno. Per un periodo di 99
anni!
E con quali garanzie? Solo una: quella di costruirvi anche del-
le infrastrutture che contribuissero al progresso tecnologico
dell’isola: costruzione di porti, autostrade, impianti di irriga-
zione, linee elettriche, scuole, ospedali (oltre a quella di for-
nire chissà quali vantaggi o favori ai politici locali...).
Questo fatto ha scatenato la curiosità del Financial Times,
che nel 2008, in concomitanza con la chiusura dell’accordo,
avviò un’inchiesta sul caso Daewoo. Quando la popolazione
malgascia – che fino a quel momento era ignara di ciò che
stava accadendo alla propria terra – ne divenne consapevole,
scoppiò un movimento di protesta violenta contro il governo,
che fu destituito. Le proteste continuarono per quasi due me-
si, con dimostrazioni e disordini vari, finché un colpo di stato
militare mise fine a tutto, assumendo la guida dello Stato.
Questo non è il solo caso di accaparramento di terre. Come
la Daewoo, anche diverse banche italiane stanno orientando
parte del proprio business e dei propri investimenti in questa
direzione.

IL MERCATO DEI SEMI


165
C’è poi un secondo modo per controllare la produzione di
cibo.
Infatti, se io non posso acquistare la terra di un contadino, co-
me posso fare per controllarlo ugualmente? Controllo quello
che lui coltiva!
Ogni anno il contadino deve piantare le sementi da cui far
crescere cereali, verdure e ortaggi. Nell’immaginario comune,
quando le sue piante avranno dato i propri frutti, l’agricoltore
conserverà alcuni dei semi per poterli ripiantare l’anno suc-
cessivo.
Ma come funziona oggi il mercato dei semi?
Rispecchia ancora questo schema naturale vecchio di millen-
ni? Non più.
Oggi le aziende produttrici di sementi hanno creato piante
in grado di fruttificare una sola volta. Tali piantine daranno sì
frutti o verdure buone, ma i cui semi non sono fertili, perciò
inutilizzabili ai fini di una nuova semina. L’anno successivo,
perciò, il contadino che aveva acquistato quella determinata
pianta sarà costretto a ritornare a comprare altre piantine.
E se al posto della piantina il contadino comprasse semi, la
situazione sarebbe sempre di dipendenza. Quei semi produr-
ranno per un solo anno, e poi saranno sterili.
Oggi il mercato dei semi a livello mondiale è dominato da tre
società, che insieme detengono il 53% del totale del merca-
to: Monsanto (che da sola detiene circa il 27% del mercato),
Dupont e Syngenta (quest’ultima è uno spin-off di Novartis,
la multinazionale svizzera produttrice di farmaci...).
Ma da dove nasce tutto questo? Come hanno fatto queste
aziende ad affermarsi e a imporre il loro mercato di semi bre-
vettati e sterili?
166 Nel 1994, durante un incontro del WTO, l’Organizzazione
Mondiale del Commercio, su pressione degli Stati Uniti ven-
ne fatta approvare una norma per la quale si sarebbero potuti
brevettare anche gli organismi viventi. Cosa significa? Significa
che, da quella data in poi, le aziende avrebbero potuto creare
semi ibridi o geneticamente modificati e poi brevettarli: i loro
semi, coperti da brevetto, non si sarebbero più potuti piantare
senza l’autorizzazione della stessa azienda proprietaria del se-
me. Da quel momento, quindi, i contadini sono stati costretti
a comprare annualmente i semi da piantare. Ma c’è di più.
Per ogni seme brevettato, le aziende vendono in abbinamen-
to i propri fertilizzanti o pesticidi, senza l’uso dei quali i loro
semi difficilmente potranno essere produttivi. Per intenderci,
un agricoltore che decide di piantare un seme Monsanto non
può usare un fertilizzante Dupont: rischia di uccidere il seme.
Dovrà usare il fertilizzante Monsanto, e per farlo deve firmare
un contratto assai vincolante, che lo sottopone a diversi con-
trolli e lo obbliga a ricomprare i semi di anno in anno.

DALLA GUERRA ALLA TERRA


L’idea di abbinare i fertilizzanti e i pesticidi ai semi bre-
vettati trae origine dall’azienda Monsanto. Prima degli
anni 1970 la multinazionale statunitense faceva tutt’altro
che sementi: produceva prodotti chimici, tra cui il famoso
Agente Arancio che, durante la guerra in Vietnam, serviva
a distruggere tutta la vegetazione dietro la quale i viet-
cong si mimetizzavano per infliggere dolorose imboscate
all’esercito statunitense. Quando poi la guerra in Vietnam
giunse al termine, con la delusione di tutto il popolo sta-
tunitense per le grandi energie impiegate e le perdite
subite, la Monsanto capì che il mercato bellico si era di
molto ridimensionato e dovette cercarsi un altro settore 167

per creare un nuovo business. Lo trovò nel mercato agri-


colo, dapprima con i fertilizzanti, e successivamente con
le sementi ibride e geneticamente modificate.

IL VENTO SPARGE I SEMI

I semi si spargono per via aerea: così la natura funziona da


sempre. E se voi avete deciso di coltivare biologico, ma di
fianco al vostro campo c’è il campo di un contadino che colti-
va con i semi Monsanto, può succedere che un giorno, a cau-
sa del vento, vi ritroviate delle piante «brevettate» crescere
nel vostro terreno affianco alle vostre. E cosa succede se un
ispettore della Monsanto le trova? Succede che vi denuncia,
e vi obbliga a pagare una penale.
Successe, ad esempio, a Percy Schmeiser, agricoltore cana-
dese che nel 1997 fu accusato dalla Monsanto di aver pian-
tato i propri semi brevettati di colza senza autorizzazione. In
realtà, Schmeiser i semi se li era sempre rifatti da solo, ma chi
fece le ispezioni nel suo campo disse di aver trovato il 60%
di piante di colza OGM della Monsanto. Quella pianta era
effettivamente coltivata nel terreno che confinava con quel-
lo dell’agricoltore canadese. Schmeiser finì in tribunale e la
Monsanto vinse la causa.
Un caso più recente è quello che ha coinvolto l’agricoltore
americano Vernon Hugh Bowman, dello stato dell’Indiana,
che nel 2014 ha dovuto pagare a Monsanto la cifra di 84 000
dollari come risarcimento, dopo che anche nel suo campo
furono trovate alcune piante coperte dal brevetto dell’azienda
statunitense. E questi due casi non sono certo isolati, trattan-
168 dosi di una prassi standard per le multinazionali delle sementi.
Proprio a questo servono i brevetti.
Anche in Italia la situazione è simile. Chi firma un accordo
per utilizzare sementi brevettate deve garantire di vender-
le esclusivamente ai rivenditori autorizzati, di non ripiantarle
utilizzando i semi (perché sono brevettati!) e di permettere
ispezioni del proprio campo, dei magazzini e della filiera di
stoccaggio dei raccolti, anche fino a tre anni dopo la semina
della semente brevettata.

IL RISO ITALIANO
Con oltre 220 000 ettari di risaie, l’Italia è il maggior pro-
duttore di riso in Europa. Varietà come il Carnaroli, l’Arbo-
rio o il Roma fanno dei nostri risi i più ricercati e apprezzati
sul mercato. Tuttavia, da qualche anno nelle risaie italiane
è apparsa una nuova varietà, chiamata Clearfield. Non è
un vero e proprio tipo di riso, ma un insieme di varietà di
riso che contengono un gene che rende il riso resisten-
te all’erbicida Beyond. Il Beyond è prodotto dalla BASF,
un’azienda americana che si appoggia all’Università della
Louisiania per le sue ricerche, i cui frutti sfociano spesso
in nuovi brevetti. Come quello del riso Clearfield e del suo
erbicida, per l’appunto.
Il riso Clearfield è arrivato anche in Italia grazie al prezzo
vantaggioso dei suoi semi, inferiore a quello di altre va-
rietà, ed è stato coltivato su circa 80 000 ettari di terreno
italiano, che equivalgono a più di un terzo di tutte le col-
tivazioni di riso nostrane. Anche in questo caso, gli agri-
coltori che hanno iniziato a utilizzare la varietà Clearfield
hanno dovuto firmare un contratto di utilizzazione della
169
tecnologia pagando una royalty per ogni ettaro coltiva-
to, con il divieto di rifarsi da sé il seme. Ma se durante
il primo anno di semina e di coltivazione con il Beyond
moriva tutto, dopo due o tre anni la natura ha cominciato
ad adattarsi all’erbicida, e così piante infestanti come il
Giavone ora riescono a sopravvivere al diserbante. Ma i
contratti rimangono validi.

AFFARI IN TAVOLA

Ora che sappiamo tutto ciò, potremmo almeno sperare che,


nonostate tutto, almeno quello che mangiamo sia nutriente e
sano… Vi invito in merito a vedere un documentario, disponi-
bile anche in rete, dal titolo Food Inc., che racconta di come
l’industria dell’alimentazione sia drasticamente cambiata negli
ultimi cinquant’anni, mostrandoci senza troppi veli alcuni dei
metodi di coltivazione e di allevamento che poco rispettano i
ritmi naturali delle piante o le esigenze degli animali.
Pensateci bene: ormai al supermercato le stagioni non esi-
stono più ed è possibile trovare ampia scelta tutto l’anno e
magari acquistare frutta e ortaggi che arrivano da paesi lon-
tani. I pomodori che dall’Europa giungono in America, ad
esempio, vengono raccolti ancora acerbi dall’altra parte del
globo e fatti maturare con l’etilene durante il trasporto. Han-
no l’aspetto del pomodoro, ma ne sono solo l’apparenza. Ne
rappresentano l’idea.
Ecco un estratto di ciò che viene raccontato nel documen-
tario:

«È stato calato deliberatamente un sipario tra noi e il luogo di


170 provenienza del cibo. Le industrie non vogliono che si sappia
la verità. Se il consumatore la conoscesse, non comprerebbe.
Seguendo a ritroso la filiera produttiva di queste fette di
carne, non troveremmo di certo una fattoria, ma una fabbrica.
La realtà è ben diversa da ciò che si crede. La carne viene
lavorata da grandi multinazionali che hanno poco a che fare
con tenute agricole e allevatori. Oggi il cibo proviene da lun-
ghe catene di montaggio. Gli animali e i lavoratori vengono
maltrattati e sfruttati. Gli alimenti sono diventati pericolosi, e
ciò ci viene intenzionalmente nascosto.
Esiste un ristretto gruppo di multinazionali che controlla l’inte-
ra produzione alimentare dal seme al supermercato e che sta
assumendo un crescente potere. Non è solo una questione di
cibo, sono a rischio anche la libertà di espressione e il diritto
all’informazione. Non è solo la nostra salute a essere in peri-
colo. Le multinazionali non vogliono che gli allevatori parlino
e che queste cose si sappiano.»

Il documentario accompagna queste parole mostrando alcu-


ne immagini di «moderne» stie, dove polli e galline vivono
ammassati in gabbia, con uno spazio vitale esiguo, costretti a
produrre uova come se fossero operai in una catena di mon-
taggio. E ancora più macabre sono le immagini di un’industria
di carne, dove cadaveri di mucche scorrono su un lungo na-
stro che trasformerà l’animale morto in una bistecca confe-
zionata e pronta da vendere al supermercato.
Food Inc. è riuscito a portarci filmati inediti e addirittura proi-
biti dalla legge statunitense. Uno dei giornalisti che ha con-
tribuito alla produzione del documentario, infatti, ci fa sapere
che negli Stati Uniti, attraverso un’azione di lobbying da parte
delle più grandi aziende della filiera alimentare, si è riuscito 171
a far vietare ai media, alla stampa e a chiunque produca in-
formazione la pubblicazione di foto e di filmati che mostrino
come avviene la produzione di cibo. Perché secondo voi?
Perché se sapessimo davvero come gli animali e le piante ven-
gono trattati e quali processi di lavorazione e conservazione
ci sono dietro a ogni alimento che arriva sulle nostre tavole,
probabilmente smetteremmo di recarci nei grandi supermer-
cati e torneremmo tutti a mangiare naturale. Capiremmo che
per l’industria alimentare anche noi siamo come quei polli
in gabbia: siamo soggetti sfruttati per produrre profitto. La
pubblicità ci mostra spesso immagini ingannevoli illudendoci
di venderci prodotti sani, ma che di naturale hanno ormai ben
poco. Ma noi non lo sappiamo, perché tra chi produce e chi
acquista c’è una distanza. «Divide et impera».
Pensiamo, ad esempio, alla nostra esperienza di acquisto al
supermercato.
172 Ho la dispensa vuota, devo andare a fare la spesa. Cosa man-
gio stasera? Stasera... ho voglia di fragole israeliane! Al super-
mercato sotto casa mia le fragole le trovo tutto l’anno! Poi mi
mancano i biscotti per la prima colazione e la carta igienica.
Faccio la lista dei tre articoli da comprare e mi reco al super-
mercato. Entro e ascolto il solito jingle che mi ricorda il nome
del supermercato, intervallato dalla musica della radio che ha
lo scopo di rilassare e mettere a proprio agio i clienti. Così
comincio a distrarmi tra un articolo e l’altro. «Che cos’è quel
prodotto colorato laggiù in fondo? Ma guarda! È un nuovo
cibo dietetico. Ma sì, lo provo!», e lo infilo nel carrello. Poi
riprendo a cercare ciò che mi serve, anche se nel frattempo
mi distraggo più e più volte tra i vari scaffali. Alla fine arrivo
alla cassa con il triplo dei prodotti che avevo scritto sul mio
promemoria nel carrello. Mentre aspetto in coda il mio turno
(davanti a me c’è una dozzina di persone, ciascuna delle quali
pensa ai fatti suoi) scorgo il pacchetto di chewing-gum che mi
piacciono tanto, e infilo anche quello nel carrello. Ma mentre
sto compiendo questa operazione, il tipo dietro di me mi su-
pera. Maleducato! Gliene dico quattro su come bisognerebbe
comportarsi, e mi impadronisco nuovamente del posto che
mi spetta. Finalmente arriva il mio turno. La cassiera passa
uno a uno gli articoli del mio carrello senza alzare gli occhi dal
nastro scorrevole e dal monitor digitale e mi congeda con un
freddo «Arrivederci».
Io controllo lo scontrino: ero entrato per comprare tre articoli
e invece ho speso 47 euro… Ho preso i biscotti, la carta igie-
nica e... mannaggia, mi sono dimenticato le fragole!

173

Funziona così il marketing. Riesce a distrarci e a dividerci fi-


no al punto da farci comprare quello che vogliono altri. Non
sappiamo nulla riguardo alla provenienza dei prodotti, a come
vengano allevati gli animali o cresciuti i frutti e gli ortaggi che
troviamo sugli scaffali. Non sappiano nulla dei metodi di lavo-
razione, stoccaggio, distribuzione dei vari alimenti, nulla della
provenienza dei cibi, né degli attori della filiera produttiva.
Non sappiamo nulla nemmeno dei nostri simili che, come noi,
fanno la spesa nello stesso supermercato. La nostra esperien-
za di acquisto è quella di una persona che entra in un posto
per comprare qualcosa e che ne esce acquistando dell’altro,
sentendosi completamente separata da tutti gli altri: prodotti,
produttori, clienti, commessi.
Il principio è sempre lo stesso: «Divide et impera». Siamo se-
parati dal capire cosa c’è nel nostro piatto, come ci arriva, se è
buono o no. E siamo separati dalle altre persone che hanno le
nostre stesse abitudini. E se, invece di insultarci per difendere
una posizione in coda alla cassa, cominciassimo a salutarci gli
uni gli altri e ad andare al supermercato anche per gli altri?
Perché non fare la spesa per due? Ognuno compra ciò che
c’è scritto sulla lista della spesa dell’altro. Così eviteremmo
di farci sedurre da tutto il resto e comprare cose superflue (o
174 quantomeno sapremmo con chi prendercela riguardo l’acqui-
sto di prodotti inutili...).

RITORNARE ALLA TERRA

La soluzione di fare la spesa per altri è ovviamente una provo-


cazione, che risolverebbe solo in parte i problemi di una filiera
alimentare che ormai porta sulle nostre tavole alimenti che han-
no perso gran parte dei loro valori nutrizionali, dei loro sapori e
dei loro odori, e che sono contaminati da additivi, conservanti,
prodotti chimici o addirittura modificati geneticamente.
Una soluzione più concreta e più profonda dovrebbe essere
orientata a fare in modo di rimpossessarci di quella «distanza»
che è stata messa tra noi e la terra che produce il nostro cibo.
Oggi l’espressione «Sei un contadino» si usa con un’accezione
dispregiativa: chi coltiva la terra è relegato al di fuori della
società «moderna», quella del settore terziario, delle banche,
della finanza, dei servizi o della moda. In realtà, il contadino
è colui che meglio di tutti noi conosce la natura e i suoi ritmi.
Dobbiamo perciò recuperare il senso e il valore di quello che
è l’atto del coltivare. Dobbiamo noi stessi, per primi, provare
a mettere le mani nella terra. E magari uscirne fieramente con
le dita sporche e il terriccio sotto le unghie.
Masanobu Fukuoka, botanico e filosofo giapponese, pioniere
dell’agricoltura sinergica, diceva: «Dopo Dio, viene il conta-
dino. Lasciateci dire che la chiave per la pace si trova vicino
alla terra».
Perché nella terra è presente il miracolo della vita, e dobbia-
mo capire che se siamo qui, su questo pianeta, come esseri
umani, il nostro compito è anche quello di preservarla.
Ricordate le domande con cui ho aperto questo libro? Quelle
le cui risposte possono unirci o dividerci? Ebbene, ritornare a 175
coltivare la terra è uno dei modi che può aiutarci a capire che
ciò che ci unisce – come esseri umani, come esseri viventi,
come abitanti del pianeta Terra – è molto più profondo di
quello che potrebbe apparentemente dividerci. Ritornare alla
terra significa riscopire il mistero meraviglioso della natura e
di tutte le sue forme di vita.
Come possiamo coltivare la terra, oggi, se viviamo in una città
o in un agglomerato urbano?
Ci sono tanti modi. Per coltivare un piccolo appezzamento di
terra non bisogna necessariamente vivere in campagna. Esi-
stono orti anche alle periferie delle città, orti urbani concessi
in comodato d’uso dagli enti locali dietro domanda. E per chi
ha un giardino, un balcone o un terrazzo, sono sufficienti due
metri quadrati di terra per cominciare a produrre ortaggi per
il fabbisogno di un paio di persone.
Nei corsi «RQI® Ambiente» promossi dal Q Institute sono spie-
gate diverse tecniche per aiutare a coltivare il proprio orto,
piccolo o grande che sia, attraverso metodi naturali che per-
mettono di eliminare in toto fertilizzanti e pesticidi. Infatti, al
pari delle tecniche che il Metodo RQI® propone come soluzio-
ne per ripristinare le corrette biofrequenze del corpo umano,
Q Institute è riuscito a creare delle Biotecnologie Olistiche®
pensate per le piccole coltivazioni locali e per l’autoprodu-
zione, in grado di dare le giuste informazioni a semi e piante
(per promuoverne lo sviluppo), al terreno (per incoraggiarne
la fertilità) e anche ai parassiti (per farli «desistere» dall’attac-
care le nostre colture senza l’uso di pesticidi). I risultati sono
quelli di un raccolto sano e abbondante salvaguardando le
piante, l’ecosistema e la biodiversità (oltre alla nostra salute).

176 CIBO E BUOI DEI PAESI TUOI

Riavvicinarci alla terra ci ricorderà che non è possibile man-


giare le fragole a gennaio, e quindi nemmeno un frutto pro-
veniente dalla parte opposta del globo.
Proprio perché ormai al supermercato troviamo tutti i frutti
del mondo in tutti i periodi dell’anno, la maggior parte di noi
ignora quale sia la stagione di un determinato frutto, o quale
sia il microclima in cui quel frutto cresce. Ecco allora che un
altro modo per curare la nostra alimentazione e rispettare
l’ambiente è quindi imparare a consumare cibi prodotti «qui
e ora». Meno strada fa il cibo, e meglio è. Sia per il cibo (che
mantiene le sue proprietà nutritive), sia per noi (che mangia-
mo più saporito), sia per l’ambiente (che non subisce l’inqui-
namento e i costi generati dal trasporto della merce).
Dove comprare, quindi?
Nei mercati ortofrutticoli locali, ad esempio, possiamo trova-
re la bancarella di frutta e verdura gestita direttamente dal
contadino che ha seminato, piantato e raccolto con le sue
mani ciò che vi vende. Lì possiamo davvero colmare la «di-
visione» che ci tiene lontani dalla filiera produttiva. Sarà lo
stesso contadino a spiegarci cosa ci vende, di che varietà si
tratta, come l’ha coltivata. I cosiddetti GAS (acronimo per
«gruppo di acquisto solidale») sono piccole organizzazioni
locali autogestite in cui i consumatori si riuniscono per ac-
quistare prodotti direttamente dai produttori locali, a miglior
prezzo, doppo averne verificato la qualità e la bontà. E avete
mai sentito parlare dello scambio dei semi? Se vi dilettate
nell’autoproduzione e avete una buona quantità di semi di
una determinata pianta, li potete scambiare con chi quei semi
non li ha, in cambio di un’altra varietà di semi, senza l’uso di
denaro. Su entrambe queste tipologie di iniziative si trovano 177
numerose informazioni in rete.

SEMI, UN PROGETTO ARTISTICO


C’è anche chi ha creato un progetto artistico intitolato
proprio «Semi», per sensibilizzare la gente all’importanza
di riappropiarsi del contatto con la terra, per rieducarci
al rispetto della natura e per sensibilizzarci al problema
dell’industria agroalimentare. Maria Giulia Terenzi, artista,
pittrice, restauratrice e appassionata di permacultura e
agricoltura naturale, ha fatto di questo il suo obiettivo,
lavorando con adulti e bambini, e utilizzando a questo sco-
po dipinti realizzati su materiale riciclato, video, istallazioni
e performance interattive, in cui i partecipanti sono invitati
letteralmente a «piantare il loro seme», con un gesto sim-
bolico carico di significati.
Ecco un estratto del messaggio che Giulia ci vuole lan-
ciare:
«Semi di gratitudine, di innovazione e cambiamento, semi
gettati su un terreno fertile da cui nasceranno frutti ina-
spettati. È ciò che ci lasciano le persone che incontriamo,
che conosciamo direttamente o indirettamente, e che in
una maniera logica e bellissima sono in grado di deposi-
tare dentro di noi quel germe di vita, quella scintilla che
ci porta a fare cose “grandi”.
“Semi” vuole essere un ringraziamento a tutte le creature
che ci hanno ispirato e che continuano a ispirarci nel per-
correre il personale cammino di crescita. Lasciamo dunque
178
il cuore aperto alla contaminazione per far sì che i semi
portati dal vento crescano in noi, portandoci a evolvere,
a scegliere percorsi inaspettati e imprevedibili. La natura
segue il suo corso, e così anche l’uomo, che è solo una
piccola parte di essa.
Il seme germoglia, la pianta cresce e si allontana dalla
terra, ma non dimentica mai le sue radici: antica saggezza
da riscoprire e ritmi naturali a cui ritornare, recupero di
materiali, scambio e condivisione, contrapposti alla cultura
del consumo e dell’usa e getta. Vecchi e nuovi saperi da
tramandare, sperimentazione e gioco in un nuovo ritorno
alla natura. Arte e orto: in una mostra che va condivisa
e partecipata, coltivata e innaffiata con cura, pazienza e
amore.»
«Lasciateci dire che la chiave per la pace si trova vicino alla
terra», 2013, tecnica mista su cartone riciclato.

Ed ecco un estratto dal documentario Seeds of Freedom


(2012) di Jess Phillimore, citato nel progetto artistico, che
179
ci chiarisce ancora di più l’importanza dei semi nella nostra
società:
«Il mondo dell’agricoltura è cambiato più nell’arco degli
ultimi 30 anni che nei precedenti 10 000 anni. Molti conflit-
ti di interesse sono emersi, e in nessun campo questi con-
flitti sono così evidenti come nella storia dei semi. I semi
sono passati da sacro elemento portatore di vita a potente
strumento per monopolizzare la produzione mondiale di
cibo. Un conflitto tra agricoltura e profitto, tra conoscen-
za e controllo, tra verità e propaganda, si combatte ogni
giorno con la scelta dei semi.
Grandi corporation premono per sostituire i semi locali,
selezionati e conservati per generazioni dai contadini del
luogo, con semi ibridi, geneticamente modificati e sterili,
che devono essere riacquistati ogni anno, e richiedono
l’uso di fertilizzanti chimici e pesticidi. L’uso di semi ibridi
e OGM è stato promosso non solo in occidente, ma anche
nelle aree più povere del mondo. Come effetto di questa
propaganda, decine di migliaia di agricoltori solo in India,
caduti in una spirale di debiti per sostenere l’acquisto di
semi ibridi, fertilizzanti e pesticidi, si sono tolti la vita per
protesta.»

180

«Navdanya, nove semi (ritratto di Vandana Shiva)», 2013,


tecnica mista su cartone riciclato.

Afferma la professoressa Vandana Shiva, direttrice dell’As-


sociazione Navdanya International: «Tutte le culture tradi-
zionali sono basate sulla consapevolezza che il motivo più
importante per cui siamo sulla terra è fare la nostra parte
per mantenere la vita nella sua diversità. Poiché i semi con-
tengono la vita, i semi sono stati centrali per riprodurre la
cultura della vita. Se si osservano i rituali in India, in Africa,
in America Latina, i semi sono al centro di essi.
In Rwanda, ad esempio, si piantano semi per dare il ben-
venuto a ogni neonato. Quando un ragazzo diventa uomo,
viene cosparso di semi. E quando una persona muore,
vengono piantati semi sulla sua tomba.
Anche per le tribù del Kenya i semi non servono solo per
produrre cibo, ma hanno anche un significato spirituale, e
vengono usati anche come strumento di preghiera.»
Per maggiori informazioni sul progetto “Semi” potete
consultare il sito www.mariagiuliaterenzi.com.

COME TI PROCURI IL CIBO?

Siamo giunti alla conclusione della parte dedicata all’INDI-


PENDENZA ALIMENTARE. Se hai già compilato il «Q Test»,
hai scoperto quanto tu e i tuoi cari dipendete dall’industria 181
alimentare. Ripensa alle risposte che hai dato quando hai
compilato la parte del test relativa (se non l’hai ancora fatto,
compilalo ora su www.liberidalsistema.com, ci vorranno pochi
minuti ed è fondamentale prima di proseguire).

Quanto spesso tu e chi vive con te andate a fare la spesa


al supermercato? Quanto invece da commercianti locali o
attraverso gruppi d’acquisto? Da dove proviene il cibo che
consumate? Come lo scegliete? Siete consapevoli di chi lo
produce e di come lo coltiva? Cucinate a casa o vi affidate a
fast food e ristorazione industriale? Consumate prodotti locali
e conoscete i produttori? Quanta carne mangiate? Avete un
orto?
L’alimentazione è una parte fondamentale della nostra vita e
della nostra quotidianità, e non solo perché da questa dipen-
diamo per sopravvivere o perché spesso a tavola passiamo
del tempo piacevole e facciamo i discorsi più interessanti…
La modalità con cui il cibo ci arriva sulla tavola è una delle vie
attraverso cui il Sistema ci rende più legati a esso, e mette più
concretamente a rischio il nostro benessere e il nostro futuro.
La scelta del cibo che mangiamo e la consapevolezza della
sua qualità e provenienza sono oggi più che mai importanti,
perché attraverso di esse possiamo controllare non solo il
nostro «peso» e la nostra «forma fisica», ma anche la nostra
salute e la nostra dipendenza dal Sistema, e offrire o meno il
nostro contributo a migliorare il mondo intorno a noi.
Riconoscere il cibo che mangiamo per la sua qualità e pro-
venienza, per chi lo ha prodotto e come lo ha lavorato, è la
cosa più importante per la nostra salute e quella del pianeta.
La lavorazione industriale e la distribuzione globale del ci-
182 bo non ci permettono di farlo, allontanandoci, isolandoci e
obbligandoci a ignorare la strada che il nostro cibo compie
(divide et impera…). Pensate alla lotta delle lobby alimentari
statunitensi per evitare l’obbligo di indicare sulle etichette la
provenienza dei cibi e l’uso di OGM…
Che senso ha rinunciare al consumo di carne e derivati, magari
per scelte giuste legate alla salute, al rispetto degli animali e
a quello dell’ambiente – ricordiamo che la produzione di pro-
teine animali causa un consumo di risorse molto maggiore di
quelle vegetali – se non abbiamo comunque idea neanche di
come vengano prodotti gli ortaggi e la frutta che mangiamo?
E ha più senso (ed è più salutare) consumare ortaggi maturati
su un nastro trasportatore oppure uova prodotte da una gallina
allevata con rispetto nell’aia di una tenuta di campagna?
Il cibo che ingeriamo ogni giorno è il nostro legame più im-
portante con la «Terra», in tutti i sensi. Oggi per produrlo e
farcelo arrivare sul piatto il Sistema sta completamente di-
menticando il rispetto per la natura e la sostenibilità, e an-
zi addirittura sacrifica spesso la qualità e la biodiversità dei
cibi sull’altare del «profitto» e del «consumo». Che risultato
stiamo producendo sulla nostra salute e che esempio stiamo
dando ai nostri figli e ai miliardi di persone cui facciamo da
modello dall’altra parte del mondo?
E se qualcosa andasse storto a livello globale e il Sistema
non potesse più farci arrivare il cibo attraverso la complessa
filiera industriale attuale direttamente sugli scaffali dei nostri
supermercati? Ci troveremmo in pochi giorni senza nulla da
mangiare e senza altri modi per procurarcelo.
È quindi fondamentale riscoprire non solo a livello educativo,
ma anche più concreto e produttivo, le conoscenze che ser-
vono a «farci un orto» e a produrci qualcosa da soli. È inoltre
importante sviluppare la capacità di coordinarci con altri (fami- 183
liari, amici, vicini, gruppi d’acquisto) per bypassare il Sistema
nel procurarci il cibo, e di intrattenere rapporti diretti, quindi
di vera fiducia, con produttori locali anche piccoli, dando loro
sostegno e quindi maggiori risorse per non sottostare alle
regole «snaturate» del Sistema.
Il cibo ha un ruolo fondamentale per la nostra sopravvivenza e
il nostro benessere, ed è quindi importantissimo occuparsene
direttamente, sotto vari aspetti, ogni giorno. Con il Q Institute
abbiamo fatto del nostro meglio per raccogliere e offrire a
chiunque lo voglia tutte le conoscenze che servono prima di
tutto per apprendere come scegliere i cibi che mangiamo in
base all’effetto che possono avere sulla nostra Salute. Questo
è possibile imparando ad applicare su di sé e sui propri cari il
Metodo RQI®, con il Corso Base «Metodo RQI® – Autotest
e Comunicazione con l’Inconscio», nel quale è chiarito come
«testare» inequivocabilmente se un cibo ci rafforza o ci inde-
bolisce, quindi se ci serve o meno, se ci crea stress oppure
migliora il nostro benessere interiore (e questo cambia da
persona a persona e in base ai momenti della nostra vita e
della nostra giornata).
È inoltre possibile apprendere come migliorare la qualità e le
proprietà benefiche di acqua e cibi, e come allungare la du-
rata e migliorare la conservazione dei cibi freschi, attraverso
«frequenze benefiche» che possono essere loro rilasciate con
apposite tecniche. Questi sono tra i temi del Corso Avan-
zato «RQI® Materia ed Energia – Acqua Informazionale®,
Alimentazione Vibrazionale® e Biotecnologie Olistiche®»,
nel quale viene insegnato anche come utilizzare acqua e cibi
per migliorare il proprio stato di benessere, e addirittura per
risolvere problemi specifici.
184 Nel Corso Avanzato «RQI® Ambiente – Agricoltura Informa-
zionale e Biotecnologie Olistiche Ambientali» si apprende
invece come avvicinarsi all’autoproduzione alimentare, miglio-
rando la salute e la produttività di piante da frutto, ortaggi
e animali, risolvendo in maniera non chimica e non invasiva
qualsiasi loro problema, anche in relazione a malattie, batteri
e insetti nocivi. Grazie alle tecniche insegnate da Marco Fin-
cati si impara addirittura a «comunicare» con piante e animali
(per la precisione con il loro «campo morfogenetico», con-
cetto che riprenderemo nel prossimo capitolo)… e intendo a
farlo letteralmente, ottenendo da loro chiare risposte! E anche
riguardo tutte queste conoscenze, sono tantissime le persone
che già le applicano e ci hanno lasciato impressionanti testi-
monianze della loro efficacia.
Proseguiamo affrontando ora il tema dell’Indipendenza Ener-
getica.
6 INDIPENDENZA ENERGETICA

«La scienza non è nient’altro che una perversione se non ha


come suo fine ultimo il miglioramento delle
condizioni dell’umanità.»
Nikola Tesla

Quanti siamo sulla Terra? A quanto ammonta la popolazione


185
del nostro pianeta?
Il grafico ci viene incontro e ci dice che oggi siamo arrivati a
essere 7 miliardi di persone. Non solo. Ci dà un dato ancora
più importante. Ci dice che dall’anno Zero fino alla prima me-
tà del diciottesimo secolo (1750) la popolazione è cresciuta
pochissimo, e solo negli ultimi due secoli e mezzo è esplosa,
fino ad arrivare al numero che è oggi e che, molto probabil-
mente, è destinato ancora a crescere.
Quali sono le conseguenze di tutto ciò?
La conseguenza più ovvia è che più siamo, più abbiamo bi-
sogno di risorse per soddisfare i nostri bisogni: cibo, acqua
ed energia.
E dei 7 miliardi di persone che siamo, non tutti hanno oggi
accesso alle risorse. I paesi più industrializzati hanno raggiun-
to ormai consumi esorbitanti, a causa della qualità della vita a
cui si sono abituati. Dall’altra parte del mondo, invece, ci sono
i paesi in via di sviluppo che si stanno ammodernando solo
ora, orientandosi verso una società altrettanto consumista, e
guardano ai paesi occidentali con il desiderio di imitarli e di
avere anch’essi accesso alle stesse comodità. Quindi siamo
noi – abitanti dei paesi «sviluppati» – i loro esempi di vita,
come spesso i genitori lo sono per i figli. Capite che è una
grande responsabilità che ognuno di noi non può far finta di
186 ignorare.
Il secondo grafico ci mostra infatti che, al pari della crescita
demografica, dal 1800 a oggi è cresciuto in modo esponen-
ziale anche l’utilizzo di tutte le fonti di energia. Il grafico ci
mostra nel dettaglio la ripartizione tra le diverse fonti: petro-
lio, carbone, legna (biomasse), energia idroelettrica, energia
geotermica, energia nucleare... e così via.
Insieme a tutti questi consumi sono aumentati chiaramente
anche gli effetti collaterali legati alla produzione di energia,
che nella maggior parte dei casi è basata sul bruciare com-
bustibili fossili. Bruciare combustibili produce gas di scarico,
anidride carbonica, fumi, polveri sottili, e questi rimangono
nell’aria, inquinando l’ambiente. E in questo terzo grafico ab-
biamo la verifica della crescita verticale delle particelle inqui-
nanti all’interno dell’atmosfera, a partire dal 1900.

187
PICCHI INDOLORI?

Al di là delle conseguenze sull’ambiente, che tutti noi cono-


sciamo e alle quali dovremmo essere sensibili, c’è un altro
problema, che molti di noi ancora ignorano: il fatto che le ri-
sorse che oggi stiamo sfruttando per creare energia si stanno
esaurendo. Si tratta di fonti di energia non rinnovabili, come il
petrolio o il gas naturale, il cui processo di formazione, sotto-
terra, richiede migliaia di anni. Perciò, una volta che li avremo
estratti tutti, rimarremo a secco.
Oggi è curioso notare che le notizie sui giornali o in televi-
sione si soffermano più sui dati economici legati al consumo
di tali risorse e, ad esempio, ci informano quotidianamente
sull’oscillare del prezzo di un barile di petrolio. Al contrario,
non ci parlano praticamente mai di quanto petrolio o gas sia
188 ancora disponibile. Perché se lo sapessimo, molto probabil-
mente cominceremmo a preoccuparci.
Per fortuna c’è chi questi dati li studia, e si prefigge il compito
di divulgarli, col fine di sensibilizzare le persone sulla necessità
di invertire la marcia e trovare nuove fonti di energia fin da
ora, sia per un maggiore rispetto dell’ambiente, sia perché
altrimenti ne rimarremmo ben presto senza.
ASPO (Association for the Study of Peak Oil), ad esempio, è
un’associazione scientifica il cui scopo principale è lo studio del
consumo del petrolio, delle sue gravi conseguenze sui sistemi
ecologici, economici e sociali, e la mitigazione di questi effet-
ti. I dati da loro raccolti ci dicono che abbiamo già da tempo
superato il «picco» di produzione di petrolio (e anche di gas).
Ma che cos’è il picco? Il «picco del petrolio» è il momento
in cui la produzione petrolifera di una regione, di una nazio-
ne o del mondo raggiunge il proprio massimo. Dopo questo
punto, essa declina inesorabilmente, con conseguenze sulla
disponibilità di energia. Una prova fondamentale della cor-
rettezza di questa teoria fu fornita da Martin King Hubbert,
rinomato geofisico statunitense, che nel 1956 predisse corret-
tamente che il picco della produzione petrolifera degli Stati
Uniti sarebbe avvenuto intorno al 1970. Quello mondiale è
stato raggiunto intorno al 2010.
Infatti le scoperte di nuovi giacimenti hanno raggiunto il loro
massimo storico verso la metà degli anni 1960, e da allora
sono in declino. È dal 1985 che si consuma più petrolio di
quanto non se ne scopra. E nei prossimi 30 anni la produzio-
ne calerà almeno del 50%. Ciò significa che siamo prossimi
al suo esaurimento. E se consideriamo che oggi il 90% dei
trasporti è alimentato a petrolio, allora non siamo messi bene.
Tra l’altro, i dati che emergono da chi lavora o ha lavorato nel
settore petrolifero sono ancora meno ottimisti di quelli delle
varie associazioni scientifiche. 189
Ci troviamo quindi a un punto di svolta. O meglio: lo abbiamo
già passato.
Non ci resta dunque molto tempo per capire come andrà.
ATTACCATI AL GAS

Purtroppo, per ora non sono tanti quelli che si sono posti il
problema. Gli stessi stati nazionali forse non si sono posti con
sufficiente convinzione l’interrogativo di come fare a trovare
nuove forme di energia, o a produrne di rinnovabili in modo
autonomo e il più possibile ecologico. L’Italia, ad esempio,
utilizza risorse che arrivano dall’estero, comprandole da altri
paesi. Che si tratti di petrolio libico o di gas russo, stiamo certi
che dalla Pianura Padana non estraiamo più nulla. Il metano
che avevamo è finito da tempo. Ora abbiamo solo buchi vuo-
ti, che al massimo utilizziamo per stoccare un po’ di gas per
le situazioni di emergenza, facendolo arrivare dalla Russia.
Quanto dipendiamo dagli altri? Fino al 2010, l’85% dell’e-
nergia che l’Italia utilizzava proveniva dall’estero. Poi furono
190 promossi finanziamenti al settore delle energie rinnovabili, e
abbiamo aumentato di qualche punto la nostra percentuale
di «autosufficienza», ma ancora oggi siamo largamente dipen-
denti dalle risorse straniere. E dipendendo dal punto di vista
energetico da altri, è ben difficile mirare alla propria indipen-
denza economica o alimentare. Basta un minimo imprevisto,
basta che l’energia dall’estero non ci arrivi più anche solo per
pochi giorni, per creare il blocco totale del paese.
Un esempio concreto? Il gas.
Il gas che utilizziamo tutte le mattine per preparare il caffè,
bollire l’acqua o fare una doccia calda, prima di arrivare nelle
nostre abitazioni compie un lungo viaggio di almeno 10 000
chilometri. Parte dai giacimenti nella Russia settentrionale,
attraversa tutta l’Europa dell’Est, passando prevalentemente
per l’Ucraina e l’Austria, fino poi ad arrivare in Italia setten-
trionale ed essere distribuito in tutto il paese.
Ma cosa succederebbe, ad esempio, se Ucraina e Russia en-
trassero in conflitto? Sta succedendo, ed è già successo in
passato, poiché tra i due paesi prevalgono tensioni politiche
fin dalla caduta dell’Impero Sovietico. E spesso il gas è utiliz-
zato dall’Ucraina come arma di ricatto e di trattativa.
Nel 2006, ad esempio, l’Ucraina chiese di avere gratuitamente
dalla Russia parte del gas che attraversava il suo territorio per
giungere fino in Europa, dove poi veniva commercializzato.
La Russia invece pretendeva che l’Ucraina pagasse il gas al
pari delle altre nazioni europee. La situazione giunse al culmi-
ne della tensione finché l’Ucraina decise di interrompere per
quache giorno le condutture di gas verso l’Europa.
Cosa successe in Italia? Per garantire la disponibilità di gas a
tutte le famiglie nelle loro case, il governo deliberò di sospen-
dere la fornitura di gas a tutto il settore industriale. Era il mese
di febbraio. Immaginatevi se la situazione si fosse protratta a
lungo e se anche le case fossero rimaste senza riscaldamento. 191
Per fortuna, la crisi si risolse dopo pochi giorni, e il gas tornò
disponibile. Ma dal 2006 a oggi gli episodi di tensione politica
tra Ucraina e Russia si sono susseguiti a più riprese. L’ultima
volta che l’Ucraina interruppe il gas fu nel 2012. Anche quella
volta ci trovavamo in inverno.
In quei giorni si leggevano sui giornali le dichiarazioni dell’al-
lora amministratore dell’Eni, Paolo Scaroni, che affermava:
«Dalla Russia sono diminuiti i flussi. Siamo in emergenza ma
abbiamo reagito aumentando le importazioni di gas dall’Al-
geria e attraverso la Svizzera. Quindi non avremo problemi
(…) fino a mercoledì». Era lunedì!
Questo significa che se ci tagliassero il gas dalla Russia, in Ita-
lia avremmo solo un paio di giorni di autonomia, ricorrendo a
tutti i nostri approvvigionamenti interni e a tutte le altre fonti
estere vicine.
Come fare, allora? La tecnologia ha fatto passi da gigante, al
CERN di Ginevra ci sono cervelloni di scienziati al lavoro tutti
i giorni... ci saranno pure delle alternative!
Qualcuno ci ha fatto credere per anni che l’alternativa miglio-
re fosse l’energia nucleare.
Basta costruire qualche centrale ben protetta e alimentarla
con barre di uranio per ottenere energia a sufficienza per
un’intera nazione. E poi, se nel peggiore dei casi ci fosse
qualche problemino.... beh, sono cose che succedono, gli
imprevisti capitano sempre e ovunque. Intanto le scorie pro-
dotte le sotterriamo in qualche miniera in Germania a 800
metri di profondità. E così almeno riduciamo la dipendenza
dal petrolio.
Non è questo che ci hanno sempre detto e insegnato?
Eppure i fatti ci dicono che non sia la soluzione migliore. Di
tanto in tanto, qualcuno «dall’alto» ci lancia un avvertimento
192 per ricordarci che il rischio delle centrali nucleari per l’intera
umanità è molto alto, come alto è il prezzo da pagare in caso
di guasti o malfunzionamenti.
Molti di noi hanno ancora vivo il ricordo di Cernobyl. Per anni
il terreno è rimasto contaminato e gli effetti si sono sentiti in
tutta Europa. Ma dieci anni dopo, chissà perché, nel Vecchio
Continente si sono ricominciate a costruire nuove centrali nu-
cleari. Ha iniziato la Germania e dietro di lei, a ruota, tanti
altri paesi.
Nel 2011 Madre Natura ci mandò un altro avvertimento, che
stavolta coinvolse l’altra parte del mondo: Fukushima, Giap-
pone. Al momento del guasto alla centrale, i 50 000 abitanti
della città nipponica ebbero 15 minuti di tempo per raccoglie-
re i propri averi e abbandonare definitivamente l’area, per non
tornarci mai più. Ancora oggi Fukushima continua a essere un
caso complicato. Sui giornali non ne leggiamo più nulla, ma la
zona è ancora altamente inquinata, e lo resterà sicuramente
per lungo tempo. E dire che prima del disastro di Fukushima
si stava pensando di costruire altre centrali nucleari anche in
Italia. Pensate se un disastro di quella portata fossa accaduto
a una centrale a L’Aquila. Cosa ne sarebbe stato?

ENERGIA GRATUITA E PULITA

E allora, possibile che non ci siano altre soluzioni, oltre al nu-


cleare, in sostituzione al petrolio e al gas naturale che sono
in via di esaurimento? Una c’è, e viene da colui che dà luce,
energia e nutrimento a ciascuna forma di vita sul nostro pia-
neta. Il Sole.
Il Sole irradia gratuitamente e quotidianamente sulla Terra
un’enorma quantità di energia, pari a un miliardo di miliardi 193
di kW all’anno. Questa quantità di energia è quella che riceve
il solo pianeta Terra, senza quindi considerare l’energia che il
Sole irradia nel resto dell’universo.
Ma quanto vale, in termini di resa energetica, un miliardo di
miliardi di kW all’anno di energia?
Vale 10 000 volte il fabbisogno totale dell’intera umanità, ogni
anno.
Ma oggi cosa ci facciamo col Sole?
Al massimo ci esponiamo ai suoi raggi per abbronzarci! O vi
lasciamo esposti i panni del bucato ad asciugare! Fino all’av-
vento dei primi pannelli solari, che sono piuttosto recenti, non
lo abbiamo sfruttato molto di più. Eppure il Sole è energia
pulita, gratuita, abbondante, disponibile ogni giorno. Bisogna
solo capire come sfruttarla.
194 In Umbria, ad esempio, qualcuno l’ha già capito. Nel Parco
dell’Energia Rinnovabile (PeR) hanno costruito una piccola
unità abitativa di circa 30 metri quadrati, completamente au-
tonoma e indipendente, che si trova nell’area antistante la
struttura ricettiva del parco.
L’unità abitativa è dotata di pannelli fotovoltaici, che conver-
tono la luce del Sole in energia elettrica e la accumulano in al-
cune batterie. Ci si può illuminare le stanze la sera, ricaricare il
telefono o il computer e attaccare la linea Internet. Insomma,
si è autonomi al 100%. Qualora l’energia del Sole non bastas-
se, c’è anche un piccolo impianto eolico, che produce energia
anche quando non c’è il sole. In quella zona dell’Umbria il
vento non manca. Inoltre la casetta sfrutta il solare termico,
con dei pannelli che ingabbiano la luce del sole per scaldare
l’acqua (al posto di usare il gas che proviene dalla Russia...).
Per regolare la temperatura interna all’abitazione sono state
previste diverse modalità. La prima è una veranda che racco-
glie la luce del sole e crea una specie di effetto serra. Da lì c’è
uno scambiatore d’aria che fa circolare l’aria stessa in tutta la
casa. Quindi: di giorno si raccoglie il calore del sole e la sera
ci si scalda la casa. Può aiutare.
La seconda modalità è un sistema refrigerante creato per
la stagione estiva. È semplicissimo. Si tratta di un tubo di
plastica leggero che dalle pareti di casa attraversa parte del
terreno adiacente l’abitazione e sbuca nel sottobosco. Come
funziona? Nel sottobosco, all’ombra delle piante, l’aria è più
fresca. Se in casa la temperatura si alza, il tubo, collegando
due ambienti con un differenziale di temperatura, fa in modo
che la temperatura si bilanci. E così in casa avremo un po’
di fresco dal sottobosco, come se ci trovassimo all’ombra di
qualche pianta.
Sul fianco della casa è posizionato anche un serbatoio per
l’acqua piovana, con un filtro. Quando piove, l’acqua è rac- 195
colta dal tetto nel serbatoio, filtrata e incanalata nei tubi del
bagno e della cucina: la si può utilizzare per lavarsi, fare la
doccia, lavare i piatti o i panni sporchi. Non si spreca così l’ac-
qua potabile, cosa che invece facciamo tutti noi scaricandola
«nel cesso», senza il benché minimo rispetto per chi dall’altra
parte del mondo non ha nemmeno acqua per dissetarsi.

Ricapitolando, possiamo sfruttare il Sole ad esempio in due


modi: attraverso il fotovoltaico e attraverso il solare termico.
Un impianto fotovoltaico sfrutta la luce solare incidente sui
pannelli per produrre energia elettrica. Circa un 20/25% dei
kW irradiati dal sole su un metro quadrato di pannelli foto-
voltaici riescono a essere trasformati in corrente elettrica. Un
impianto solare termico è invece un dispositivo che cattura
sempre la luce solare, ma per immagazzinarla e usarla princi-
palmente ai fini del riscaldamento dell’acqua, in sostituzione
o a integrazione delle caldaie a gas. Il solare termico può
arrivare a sfruttare più dell’80% dei kW irradiati dal sole per
trasformarli in calore ed è quinti molto efficiente, nonostante
sia una tecnologia più vecchia, più semplice e meno costosa.
Entrambe le tipologie di pannelli sono realizzate con materiali
semplicissimi (vetro e alluminio) e facilmente riciclabili. Il foto-
voltaico utilizza anche del silicio e del rame, che vengono trat-
tatati in modo tale da poter raccogliere la luce e trasformarla
in elettricità. Qualcuno ha lamentato il fatto che il silicio sia
inquinante, ma in realtà lo è solo in alcune fasi del processo di
lavorazione dei pannelli (non certo dopo che sono stati istallati
a casa vostra). Il silicio è un materiale abbondantemente pre-
sente in natura: ne sono costituite per la maggior parte rocce e
sabbia. Ed è quindi molto meno inquinante di quanto lo siano
tanti dei materiali che già abbiamo in casa. C’è chi si preoc-
196 cupa del fatto che tra trent’anni non sapremo come riciclare il
silicio – sebbene sia semplicemente una lastra di pietra trattata
che manterrà per sempre le sue caratteristiche e il suo valore –
e invece ignora completamente la difficoltà che già abbiamo di
smaltire le tecnologie che utilizziamo ora. Per esempio sapete
quanto inquinano le automobili, non solo quelle circolanti, ma
anche quelle rottamate o quelle invendute?
Tornando ai nostri impianti fotovoltaico e solare termico, en-
trambi necessitano di tecnici specializzati per essere installati:
l’elettricista per il fotovoltaico e l’idraulico per il solare termi-
co. Per darvi un’idea, vi basterebbero solo un paio di pannelli
di solare termico per garantire l’acqua calda a un’abitazione
in cui vive una famiglia di 4 persone.
«Ma quanto costeranno?», vi starete chiedendo. Costano me-
no che installare una pari superficie di finestre (infissi e vetri)
di casa. E visto che quando comprate una casa nuova la prima
cosa che fate è controllare i serramenti, sarebbe bene che
valutaste anche la possibilità di installarvi un impianto foto-
voltaico e solare termico. Il risparmio che avrete in futuro sarà
gratificante, oltre al fatto che fin da subito contribuirete a in-
quinare meno e sarete meno soggetti alle conseguenze delle
controversie politiche tra Ucraina e Russia (o chi per esse…).

DARE IL BUON ESEMPIO


L’utilizzo di energia da fonti rinnovabili come primo passo
verso una società più sostenibile è diventato per la prima
volta fonte di discussione concreta l’11 dicembre 1997
durante la «Conferenza COP3» di Kyoto, alla quale hanno
partecipato tutti i paesi delle Nazioni Unite e che ha por-
tato alla redazione di un accordo (il Protocollo di Kyoto),
siglato da 191 nazioni di tutto Pianeta. Esso impone una 197
serie di target legati alla riduzione del consumo energeti-
co e dell’inquinamento. È stato il primo tentativo serio a
livello mondiale. Il target si può riassumere con il numero
20-20-20: una riduzione del 20% dell’inquinamento, un in-
cremento del 20% della produzione di energia rinnovabile
e un aumento del 20% dell’efficienza energetica da con-
seguire entro il 2020. Ma la cosa da non credere è che gli
Stati Uniti (che da soli consumano il 25% delle risorse del
pianeta) non hanno siglato l’accordo. Probabilmente trop-
pi interessi economici legati al petrolio e ad altre fonti di
energia non rinnovabili sono entrati in gioco. E il Canada,
che inizialmente aveva siglato l’accordo, è stato poi con-
vinto da «pressioni esterne» – facile indovinare da parte di
chi – a revocare in un secondo momento la propria ade-
sione al Protocollo. Se questo è dare il buon esempio…
IL PIÙ GRANDE GENIO DEL ventesimo SECOLO

Lo scienziato e fisico serbo Nikola Tesla, nonostante sia poco


noto «alle masse» (o comunque meno noto di altri), è stato si-
curamente una delle più grandi menti del secolo scorso, come
testimoniano le decine di scoperte che ancora oggi utilizziamo
grazie a lui (e alle centinaia di brevetti che ha depositato). Alla
fine del diciannovesimo secolo Tesla emigrò negli Stati Uniti
e si confrontò con alcuni dei magnati dell’industria dell’ener-
gia elettrica, tra cui Thomas Edison e il suo finanziatore, J. P.
Morgan (di cui avevamo già sentito parlare nel capitolo sulla
salute…). Il fisico serbo cercava sostegno a una sua idea circa
una nuova tecnologia per la distribuzione dell’energia elettrica.
Tesla aveva scoperto la corrente alternata, quella che noi tutti
oggi utilizziamo comunemente nelle nostre case, grazie alla
198 quale non si sarebbe più dovuto costruire una centrale elettrica
a carbone ogni pochi chilometri (cosa che stava accadendo
negli Stati Uniti alla fine del diciannovesimo secolo). Tesla ebbe
l’opportunità di essere presentato a Thomas Edison (l’invento-
re della lampadina, come ce lo tramanda la storia), che all’epo-
ca era il più grande imprenditore nel campo energetico nonché
detentore di brevetti utilizzati a livello internazionale. Il fisico
serbo propose ai colleghi statunitensi di costruire una grande,
unica centrale elettrica a energia pulita (che non «bruciasse» o
«inquinasse» nulla) sulle cascate del Niagara, che convertisse
l’enorme flusso d’acqua in corrente alternata, da distribuire in
tutta l’America. Thomas Edison, intuendo che tutto ciò avreb-
be ribaltato il suo «impero» fondato sulla più antiquata energia
a corrente continua, il cui sfruttamento era suo appannaggio
personale, rifiutò di collaborare con il fisico serbo.
Tesla tuttavia non si perse d’animo e propose la sua idea diret-
tamente a J. P. Morgan. Il banchiere statunitense fiutò l’affare,
e così finanziò e realizzò la centrale sul Niagara che è tutt’oggi
funzionante e che per prima ha generato energia a corrente
alternata. Oggi la corrente alternata è diventata il nostro stan-
dard, ma ai tempi si fece di tutto per escluderla dal mercato.
Lo stesso Edison organizzò una conferenza stampa nel corso
della quale dimostrò a giornalisti delle più importanti testate
statunitensi che la corrente alternata poteva uccidere. Fece
sedere una scimmia su una sedia elettrica, e la fece morire a
causa delle scariche di corrente.

199

Nikola Tesla Thomas Edison

Ma, nonostante la «gogna mediatica», la tecnologia di Tesla


ebbe la meglio. Egli era un genio inarrivabile, e presto ebbe
un’altra grande intuizione, che avrebbe reso obsoleto anche
il sistema di distribuzione dell’energia basato sulla corren-
te alternata. Lo scienzato serbo elaborò una teoria dinamica
della gravità, secondo la quale la materia e ogni forma di
energia derivano da un’unica matrice universale, l’energia del
vuoto, che egli considerava come un serbatoio inesauribile di
forza lavoro, pronta per essere utilizzata per ogni necessità
umana. Tesla affermò di avere scoperto il modo di imbrigliare
tale energia durante uno dei suoi esperimenti con le scariche
elettriche dei condensatori (cosa che invece per Einstein e gli
scienziati a lui contemporanei era impossibile). Da qui, sempre
grazie ai finanziamenti di J. P. Morgan, nel 1901 Tesla comin-
ciò a costruire il primo grande impianto per la trasmissione
di energia senza fili, basato su una rivoluzionaria tecnologia
a energia pulsata e onde stazionarie terrestri. Il suo sogno,
però, svanì appena due anni dopo, quando lo stesso J. P.
Morgan si accorse che quel metodo di diffusione dell’ener-
gia avrebbe eliminato ogni sua forma di ricavo dal settore
energetico: se la gente avesse potuto avere libero accesso
all’energia semplicemente utilizzando un’antenna in casa,
200 nessuno avrebbe più usufruito delle sue forniture di energia
a corrente alternata. E così il magnate statunitense bloccò
immediatamente i finanziamenti allo scienziato, e con lui tutta
l’elite finanziaria e le sue catene di giornali accusarono Tesla
di essere diventato improvvisamente folle. Lo scienziato fu
coperto di ridicolo e dimenticato. Qualche anno più tardi,
Tesla venne trovato morto in una stanza d’albergo e gli agenti
dell’FBI sequestrarono un TIR di materiale su cui venne ap-
posto il segreto di Stato. Il capo della polizia federale, John
Edgar Hoover, impose il silenzio sulla tecnologia di Tesla per
motivi di sicurezza nazionale (o forse di interesse finanziario...).

FATTE PER DURARE

Cosa ci dimostra l’esempio di Tesla? Ci dimostra che già da


un secolo avremmo le conoscenze per accedere a fonti di
energia gratuite ed ecologiche, ma questo si scontra con gli
interessi di chi con la vendita di servizi (quali appunto la for-
nitura energetica) guadagna e ci controlla. Ed è la sete di
guadagno e il desiderio di controllo che ci porta a parlare del
prossimo argomento.
In un Sistema che, come ci ricordano i media ogni giorno,
fa della «crescita dei consumi» (cioè, del «consumismo») il
motore della propria sopravvivenza, il cliente deve essere por-
tato a comprare non una volta, ma dieci, venti, cento volte.
Per questo l’intero processo industriale è basato sul principio
dell’obsolescenza programmata: sebbene sia possibile realiz-
zare beni e oggetti praticamente indistruttibili, i produttori si
autoimpongono standard per i quali un determinato oggetto
non deve (ripeto: non deve) durare più di un certo periodo
di tempo.
Vi sembra assurdo? 201
Il documentario spagnolo Comprar, Tirar, Comprar («compra-
re, buttare, comprare»), mandato in onda qualche anno fa da
Televisiò de Catalunya, ci racconta come, dagli anni 1920, i
fabbricanti cominciarono ad accorciare la vita dei propri pro-
dotti per aumentare le vendite. I produttori stessi formarono
corporazioni, e si consultavano per decidere il tempo massi-
mo di durata di molti prodotti. Chi avrebbe commercializzato
un prodotto più longevo del tempo stabilito avrebbe dovuto
pagare una multa. Disegnatori e ingegneri si videro costretti
ad adottare nuovi valori e obiettivi, con lo scopo di creare
oggetti che avessero un «punto debole» e una durata definita.

Uno degli esempi citati dal documentario è quello delle lam-


padine, la cui vita utile fu volutamente limitata a un massimo
di 1000 ore (sebbene fosse possibile già allora produrne di
più longeve). È lo stesso documentario a raccontarci la storia
di quello che accadde:

«Il giorno di Natale del 1924 fu un giorno speciale: a Ginevra


alcuni signori in giacca si riunirono e con un piano segreto cre-
arono il primo cartello mondiale per controllare la produzione
di lampadine e spartirsi il mercato mondiale. Il cartello prese il
nome di Phoebus. Phoebus includeva i principali fabbricanti di
lampadine d’Europa e degli Stati Uniti, incluse lontane colonie
in Asia e in Africa. L’obiettivo era scambiare brevetti, control-
lare la produzione, e soprattutto controllare il consumatore.
Volevano che la gente comprasse le lampadine con regolarità,
e se le lampadine duravano molto era uno svantaggio eco-
nomico. All’inizio lo scopo dei fabbricanti era garantire una
lunga vita alle proprie lampadine. Il 21 ottobre 1871 numerosi
202 esperimenti hanno dato come risultato una piccola lampada
di enorme resistenza con un filamento di gran stabilità. Nel
1881 Edison mise in vendita la sua prima lampadina: durava
1500 ore. Nel 1924, quando si fondò il cartello Phoebus, si
annunciavano con orgoglio 2500 ore di vita utili e i fabbricanti
enfatizzavano la longevità delle proprie lampadine. Ma con
Phoebus decisero di limitare la vita delle lampadine.
Nel 1925 si creò il “Cartello delle 1000 ore”, per ridurre tec-
nicamente la vita utile delle lampadine. Più di 80 anni dopo
Helmut Hoge, uno storico di Berlino, scoprì prove dell’attività
del cartello. Imprese come Philips in Olanda, Osram in Ger-
mania e Laparas Zeta in Spagna ne facevano parte. Un docu-
mento del cartello imponeva: “La vita media delle lampadine
di illuminazione generica non deve essere garantita o offerta
per altro valore che non sia 1000 ore”.
Messi sotto pressione dal cartello, i fabbricanti realizzarono
esperimenti per creare una lampadina più fragile che rispon-
desse alle nuove norme. La fabbricazione era rigorosamente
controllata per assicurarsi che si rispettasse la regola. Si mon-
tarono supporti con molti portalampade nei quali si avvitava-
no campionari di ciascuna serie prodotta. Compagnie come
Osram registravano meticolosamente la durata di quelle lam-
padine. Phoebus creò una burocrazia complessa per imporre
le sue regole. I fabbricanti venivano multati severamente se si
allontanavano dagli obiettivi stabiliti. Fu ritrovata anche una
tavola di multe, del 1929, che mostrava quanti franchi svizzeri
dovevano pagare i membri del cartello se le loro lampadine
duravano, ad esempio, più di 1500 ore. Man mano che l’obso-
lescenza programmata [così si chiama questo stratagemma,
N.d.A.] si impose, la vita utile iniziò a diminuire. In soli due
anni passò da 2500 ore a meno di 1500 ore. Negli anni 1940
il cartello aveva già raggiunto il suo obiettivo: una lampadina 203
standard durava 1000 ore.
Nei decenni seguenti si brevettarono dozzine di nuove lampa-
dine, anche una che durava 100 000 ore, però nessuna arrivò
a commercializzarsi. Ufficialmente Phoebus non è mai esistito,
però le sue tracce non sono mai scomparse. La sua strategia
era continuare a cambiare nome. Si chiamò “Cartello Inter-
nazionale di Elettricità”, poi continuarono a cambiarlo. Ma
quel che conta è che quell’idea come istituzione continuò a
esistere.»

IL COMPLEANNO DI UNA LAMPADINA


Eppure costruire lampadine di durata pressoché «infinita»
è possibile. A Livermore, in California, c’è la lampadina
più longeva del mondo. Fu installata nella sede dei Vigili
del Fuoco nel 1901 e da quella data ha funzionato senza
interruzione. Nel 2001, quando la lampadina compì un
secolo di vita, fu organizzata una vera e propria festa di
compleanno all’interno della caserma dei Vigili, con mu-
sica e danza. Oltre 800 persone cantarono «Tanti Auguri
A Te» alla lampadina! La leggenda narra che fu prodotta
in una fabbrica di Shelby, Ohio, nel 1895, e che fu mon-
tata da alcuni operai sotto la supervisione degli azionisti
della compagnia. Il filamento fu un’invenzione di Adolphe
Chaillet. Come fu possibile inventare un filamento così
longevo? Ma soprattutto: perché oggi non se ne produ-
cono più?

AUTO ELETTRICHE VECCHIE 100 ANNI


204
Passiamo ora a parlare di un altro tema che ha a che fare
con l’energia, che è quello dei trasporti. Che auto guidate
oggi? Che tecnologia sfrutta la vostra auto, oggi? È un’auto
a motore?
Che sia a benzina o diesel, sappiate che quella tecnologia sta
durando da oltre cent’anni. Il primo spot video (trasmesso nei
primi cinema) relativo a un’automobile con motore a scoppio
è quello della Ford T, datato 1912, ed è tuttora visibile in rete.
Eppure negli ultimi anni qualcosa sta cambiando e i produttori
di automobili stanno, a poco a poco, molto timidamente lan-
ciando sul mercato le «prime» auto elettriche (o quanto meno
ibride), le cui prestazioni sono ancora inferiori a quelle delle
loro cugine con motore a scoppio, ma delle quali si apprez-
za l’onorevole tentativo di prendersi a cuore dell’ambiente e
cercare di limitare i danni dovuti all’inquinamento. Tuttavia,
quello che il Sistema oggi vuole farvi credere è che la tecno-
logia del motore elettrico è ancora molto indietro rispetto al
motore a scoppio. Perciò, fintanto che ci sarà l’ultima goccia
di petrolio da sfruttare e da vendere, le auto elettriche saran-
no sempre promosse e pubblicizzate faticosamente. Eppure
anche questa è una grande bugia.
Lo sapevate, ad esempio, che la Tesla Motors ha già realizza-
to una macchina elettrica le cui prestazioni in pista sono addi-
rittura migliori della più rinomata Porsche 911 Turbo? L’auto
in questione si chiama Tesla Roadster e anche in questo caso
è presente un video in Internet che mostra le due auto, fianco
a fianco, mentre si sfidano in pista durante un’accelerazione
da 0 a 100 km/h. Volete sapere chi la spunta? La Tesla Ro-
adster, in appena 3 secondi. La vettura ha un’autonomia di
circa 280 chilometri di percorrenza totale con una ricarica
delle batterie. 205
Tesla Motors nasce da un’idea di Elon Musk, l’inventore di
PayPal, il sistema di pagamento e accredito online che ormai
tutti conosciamo e magari utilizziamo per i nostri acquisti su
Internet. Ebbene, sensibile alla causa ambientale e lungimi-
rante circa quello che sarà il business del futuro, Elon Musk ha
deciso di investire i soldi che ha guadagnato dalla cessione di
PayPal ad Amazon per finanziare una piccola casa produttrice
di automobili elettriche, Tesla Motors, il cui nome è un chiaro
omaggio allo scienziato che per primo ebbe il sogno di creare
energia gratuita e rinnovabile per tutta l’umanità. L’intento
di Tesla Motors è quello di competere decisamente con l’in-
dustria automobilistica tradizionale, pertanto ecco che tra i
modelli proposti dalla casa statunitense ci sono anche i SUV
(come la Model X), in perfetto accordo con quelli che sono i
gusti – non sempre «buoni» – degli automobilisti statunitensi.
Le automobili prodotte da Tesla Motors funzionano con bat-
terie al litio che sono facilmente ricaricabili presso apposite
colonnine.
E sulla scia di Elon Musk si sono mossi i più grandi costrutto-
ri di autoveicoli. BMW, ad esempio, ha lanciato la serie «i»,
vetture con motore elettrico, supportato anche da un secon-
do e più piccolo motore a benzina, ottimizzato per produrre
corrente elettrica. In sostanza, se mentre state viaggiando
dovessero scaricarsi le batterie che alimentano il motore elet-
trico, a quel punto entrerà in funzione il motore a benzina, il
cui funzionamento produrrà corrente elettrica per ricaricare
le batterie. E così potrete nuovamente tornare a utilizzare il
motore elettrico, anche se non ci sono colonnine di ricarica
nei paraggi.
Fantascienza? Direi proprio di no. Anzi, sapete a quando
206 risale la prima auto elettrica? Se vi dicessi che la prima auto
elettrica ha pressapoco la stessa età di quella con motore a
scoppio, mi credereste? A confermare la mia affermazione
c’è un servizio realizzato da Jay Leno, forse il più grande
collezionista statunitense di auto d’epoca, nonché autore di
una rinomata trasmissione, Jay Leno Garage. Ebbene, nel
garage di Jay Leno c’è un’auto elettrica datata 1909. È lo
stesso collezionista a mostrarcene il funzionamento nel corso
di una trasmissione. All’epoca si chiamava horseless carriage
(«carrozza senza cavalli») e non era rifinita per niente ma-
le: parafanghi, sospensioni a balestra, copertoni in gomma.
All’interno era come una carrozza. C’era una sorta di timone
e i fanali erano già elettrici. Si accendeva tramite un pulsante,
perciò anche le signore potevano guidarla senza fare la fatica
di «girare la manovella» (come nel caso delle rumorose e
puzzolenti vetture «a scoppio»). Aveva un’autonomia di quasi
100 miglia, pari a circa 160 chilometri: da fare invidia anche
alle auto elettriche attuali. Era silenziosissima e viaggiava fino
ai 50 km/h: l’ideale per un uso cittadino.
Nei primi anni del ventesimo secolo New York era piena di
queste vetture. Ma il dato più sconvolgente che ci riferisce
Jay Leno è quello relativo alle stazioni di ricarica: Leno ci dice
che a New York erano state installate ovunque e ci parla di
una colonnina ogni dieci isolati. Che fine hanno fatto?
Perché le auto a combustione vinsero sulle auto elettriche?
Probabilmente eravamo nell’epoca del futurismo, della velo-
cità, della voglia di correre e di fare, e perciò la silenziosa ed
ecologica auto elettrica perse la sfida con la più performante
e veloce auto a benzina. Agli inizi del ventesimo secolo il car-
burante era ancora economico e non eravamo così tanti ad
avere la macchina. E così, dagli anni 1920 in avanti, le auto
elettriche scemarono sempre più di numero, a vantaggio delle 207
auto con motore a combustione, dotate della nuova accen-
sione elettrica (non più «a manovella»…).
Solo in tempi più recenti si è quindi ritornati a sviluppare l’i-
dea di un motore elettrico le cui prestazioni potessero com-
petere con quello a combustione, e risolvere così il problema
dell’inquinamento e della scarsità di petrolio. Uno dei tentati-
vo meglio riusciti fu quello avviato dalla General Motors negli
anni 1990. La casa statunitense produsse un’auto chiamata
EV1. Fu un’auto che guadagnò presto i consensi del vasto
pubblico e che divenne addirittura uno status symbol, al pun-
to che anche alcuni attori di Hollywood – come Tom Hanks e
Danny De Vito – la comprarono e la usarono, andandone fieri.
La EV1 prometteva davvero prestazioni da favola: 100 miglia,
pari a 160 chilometri con una ricarica (la stessa autonomia del-
le prime horseless carriage: non è che esiste da qualche parte
208 anche un cartello delle 100 miglia?) e velocità pari a quella di
un motore a combustione. E sull’onda di questa nuova tecno-
logia, nel 1996 lo Stato della California promulgò una legge
per la quale almeno il 10% delle auto vendute nello Stato da
quel momento in poi avrebbero dovuto essere elettriche. La
stessa legge imponeva che dal 2017 (cioè, entro i successivi
20 anni) tutte le auto circolanti in California avrebbero dovuto
essere elettriche.
Tuttavia, di punto in bianco, la divisione GM che spingeva il
progetto ne interruppe lo sviluppo e terminò la scelta tec-
nologica innovativa, ritirando addirittura le auto vendute dal
mercato. Infatti, chiunque aveva acquistato la EV1 non era
proprietario delle batterie della vettura (che rimanevano a
noleggio del proprietario). E così, nonostante una serie di pro-
teste e malumori da parte dei già soddisfatti utilizzatori della
EV1, la General Motors, talvolta coadiuvata dalla polizia lo-
cale, ritirò tutte le auto elettriche circolanti, che ora riposano
in qualche discarica a cielo aperto in un deserto americano.
Cosa dettò tale mossa? In General Motors dissero che il ritiro
del modello fu una scelta industriale dovuta agli alti costi di
sviluppo. Ma la tesi è debole e non regge. È molto più rea-
listica la tesi per la quale quella vettura aveva cominciato ad
attaccare e a mettere a rischio gli interessi di una lobby più
grande. A ricordo dell’eperienza della EV1 fu girato anche un
interessante documentario dal titolo Who Killed the Electric
Car?.

209

L’AUTO PIÙ ECOLOGICA

Ora che abbiamo visto più da vicino le dinamiche dell’indu-


stria automobilistica, vi faccio una domanda: qual è la miglior
auto per voi, oggi, per ridurre al massimo l’impiego di risorse
del pianeta?
Sostituireste la vostra auto a combustione con un’auto elet-
trica? O a idrogeno? O con una alimentata ad aria compressa
o che impieghi pannelli solari? O con magari una vettura che
utilizzi uno sperimentale motore magnetico?
Nessuna di tutte queste soluzioni è quella corretta. L’auto più
ecologica… è quella che già avete! Almeno per il momento.
Infatti, sappiate che per produrre una macchina si consumano
più risorse di quelle che quella stessa macchina consumereb-
be in carburante nel suo intero ciclo di vita (stimato in circa 20
anni di servizio). Per tale motivo, fintanto che possedete già
la vostra auto a benzina o diesel, tenetevi quella. Non andate
a comprarne una nuova solo perché pensate che una nuova
auto elettrica possa salvaguardare il pianeta (o peggio ancora
perché qualche seducente «testimonial» vi convince a farlo
dalle pagine di una rivista…).
210 E se invece l’auto non l’avete ancora e dovete proprio com-
prarla?
Allora la scelta migliore è quella di acquistare un’auto usata.
Si sono già spese tante risorse per costruirla… se ancora fun-
ziona perfettamente perché buttarla?
Q Institute, ad esempio, si è dotato di due vetture – acquista-
te rigorosamente usate – entrambe il più ecologiche possibile:
una con motore 100% elettrico e una con motore ibrido (che
funziona sia in elettrico che a scoppio).
L’elettrica, per intenderci, ha un’autonomia di circa 160 chi-
lometri (anche lei rispetta il cartello delle 100 miglia...) e una
velocità di punta di 140 km/h. Le sue batterie si ricaricano
a casa in 7-8 ore grazie a una comune presa da 16 Ampère.
E grazie alle Biotecnologie Olistiche® sviluppate da Marco
Fincati, che ci crediate o no, l’autonomia è migliorata fino
al 15%!
L’ENERGIA ORGASMICA

Dopo la storia di Tesla, vorrei ora ricordare quella di un al-


tro ricercatore poco noto, che scoprì un’altra forma di ener-
gia gratuita e sempre disponibile e trovò anche il modo di
utilizzarla per fini terapeutici. Il personaggio in questione è
Willhelm Reich, ricercatore austriaco nato alla fine del dician-
novesimo secolo e allievo di Sigmund Freud.
Reich iniziò la sua carriera professionale interessandosi in mo-
do particolare alla sfera sessuale. Scrisse saggi per spiegare
come, nella società contemporanea, la sfera sessuale fosse
stata repressa dai sistemi di potere dittatoriali o di controllo,
e come tale repressione abbia avuto dei risvolti concreti nel
nostro vivere quotidiano.
Tuttavia, mentre era impegnato in tali «scomode» ricerche,
Reich fu costretto a emigrare negli Stati Uniti. E nel Nuovo 211
Continente lo psicologo cominciò a sviluppare altri interessi,
legati al mondo dell’energia. Infatti scoprì che esiste una
sorta di energia che pervade tutto l’universo e che non viene
in alcun modo considerata dalle teorie della Fisica studiate
fino ad allora (in accordo con le teorie di Tesla, ad esempio,
anch’esse in contraddizione con quelle accettate in ambito
accademico).
Reich si spinse oltre: dopo aver sviluppato dei macchinari ap-
propriati, riuscì a dimostrare che tale energia poteva essere
accumulata, raccolta e utilizzata per diversi fini. Desideroso
di mostrare al mondo la sua scoperta, Reich invitò Albert Ein-
stein nel suo studio per mostrargli quello che nel frattempo
aveva costruito: una specie di scatola realizzata con materiali
relativamente poveri (lana di vetro, isolanti, metallo, legno)
dentro alla quale era possibile fare salire la temperatura am-
bientale e dimostrare allo stesso tempo una sensibile varia-
zione dello stato delle condizioni interne al macchinario, il
che dimostrava l’esistenza di una forma di energia accumulata
proprio all’interno della scatola.
Einstein, stupito della scoperta, sul momento ne confermò
la veridicità, salvo poi cambiare idea qualche tempo più tar-
di: probabilmente lo scienziato tedesco non volle esporsi in
prima persona a tutte le conseguenze che una scoperta del
genere avrebbe portato.
Ma Reich non si perse d’animo: era così convinto dei benefici
della sua scoperta che scrisse vari saggi e condusse diversi
esperimenti.
«Accumulatore orgonico» fu il nome che Reich diede alla
scatola da lui inventata, all’interno della quale riusciva ad
accumulare l’energia dell’universo. Quella stessa energia
212 fu ribattezzata dal ricercatore con il termine «Orgone» o
«Energia Orgonica». Il nome era un omaggio e un’allusione
all’orgasmo, che per Reich rappresentava il momento mas-
simo di energia, di piacere e di significato nella vita di ogni
essere vivente. Si dice che inizialmente Reich avrebbe voluto
utilizzare addirittura il termine «Energia Orgasmica» e anche
Woody Allen ci scherzò su, in un film del 1973 intitolato Sle-
eper («Il dormiglione»), ispirandosi alle invenzioni di Reich
per il suo «Orgasmatron», una cabina simile all’accumulatore
orgonico.
Reich cominciò a utilizzare l’energia orgonica per fini tera-
peutici. Faceva sedere i suoi pazienti all’interno della «ca-
bina», li esponeva a una dose di questa leggera energia e il
loro organismo ne traeva subito benefici. Reich riuscì così a
guarire in modo non invasivo anche malattie difficili, sempli-
cemente accumulando energia dall’universo. La sua fama si
sparse ben presto, fino a infastidire qualche lobby più forte.
E così dal 1947 in avanti cominciarono a uscire articoli sulla
stampa statunitense con lo scopo di ridicolizzare, accusare
e screditare il ricercatore. Una delle maggiori accuse rivolte
all’ex psicologo fu quella di utilizzare il macchinario per dei
«giochi sessuali» con i suoi pazienti (oltre ad altre infondate
accuse quali quella di gestire un giro di prostituzione).
Diversi di questi articoli furono portati alla Food and Drug
Administration, l’ente governativo statunitense che si occupa
della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici
e che dipende direttamente dal Dipartimento della Salute
degli Stati Uniti. L’FDA promosse quindi un’indagine, per
accertarsi di ciò che stava accadendo. Gli ispettori dell’ente
ispezionarono lo studio di Reich, ma non vi trovarono nulla
di compromettente. Le indagini presero quindi una piega
diversa: fallito il tentativo di screditare Reich sul piano pro- 213
fessionale, cercarono di negare l’effettiva efficacia delle sue
tecniche di guarigione, nonostante le numerose testimonian-
ze dei suoi pazienti. L’FDA era infatti in stretto contatto con
le aziende farmarceutiche statunitensi, il cui interesse era
tutt’altro che trovare una cura semplice e «non farmacologi-
ca» alle malattie.
Secondo James DeMeo, autore del libro Il manuale dell’ac-
cumulatore orgonico, la FDA spese qualcosa come 10 milioni
di dollari pubblici (che aggiornati al valore attuale sarebbero
molti di più) per screditare le tecniche di Reich. DeMeo ci-
ta anche una lettera che ricevette personalmente dal figlio
del fisico Kurt Lion, che ai tempi lavorava all’interno del MIT
(Massachusetts Institute of Technology), il quale, nella stessa
lettera, affermava che a suo padre fu chiesto dall’FDA di «di-
mostrare che la scatola [orgonica] era solo una scatola e che il
dottor Reich era un truffatore». Questa era una richiesta ben
diversa dal chiedere di «investigare in modo onesto su quale
fosse la vera funzione dell’accumulatore orgonico».
Alla fine l’FDA riuscì a far dimostrare ciò che voleva che si
dimostrasse: che Reich era un ciarlatano, e pertanto andava
denuciato e processato. Il ricercatore si rifiutò di presentarsi
al processo, offeso e convinto della veridicità delle proprie
scoperte. E come finì la storia? L’FDA ottenne l’approvazione
da parte del tribunale distrettuale di Portland di un’ordinanza,
datata 19 marzo 1954, nella quale si legge: «Divieto di vendita
di tutti i materiali pubblicitari dell’energia orgonica e ordine
che vengano distrutti».
E infatti tutti i libri di Reich sull’energia orgonica, così come
tutti quelli scritti da altri scienziati che, nel frattempo, ne ave-
vano parlato, vennero mandati al rogo, intesi come «materiale
214 pubblicitario». Era il 1956 (non il Medioevo). Ben 6 tonnellate
di materiale scientifico frutto di una vita di studi e di ricerche
vennero gettate tra le fiamme dell’inceneritore di Gansevoort,
a New York. Libri, macchinari, invenzioni, articoli di giornale,
appunti e fotografie degli esperimenti di laboratorio vennero
fatti sparire per sempre.
Ma com’era andata davvero? Dopo il primo processo, Reich
si ritirò a vita privata, ma intanto continuò a portare avanti le
sue ricerche in ambito energetico. Cominciò a lavorare sui
fenomeni atmosferici e fece nuovi esperimenti sulla climato-
logia. Creò un macchinario che poteva attrarre o respingere le
nuvole e far piovere o far splendere il sole a suo piacimento.
Siamo nel 1951. In quello stesso anno, però, un suo assistente
fece qualcosa che non avrebbe dovuto fare: dopo aver salva-
to alcune copie del libro del suo maestro, che descrivevano
i principi e le applicazioni dell’accumulatore orgonico, provò
a spedirle in Europa in modo clandestino. Purtroppo le copie
furono intercettate appena varcato il confine dello Stato del
Maine, e così Reich venne citato in un secondo processo e fu
condannato al carcere. Qualche anno dopo, nel 1956, poco
prima della sua scarcerazione, il dottor Reich morì improvvi-
samente e inspiegabilmente. Il suo assistente, che era stato
incarcerato con lui, in preda alla depressione e a (comprensi-
bili) manie di persecuzione, si suicidò non appena apprese la
notizia. E l’accumulatore orgonico venne dimenticato per anni.
Curioso che, anziché la comunità scientifica, fu una cantan-
tautrice britannica, Kate Bush, a rendere omaggio a Reich nel
1985 con il brano Cloudbusting («acchiappare le nuvole»),
nel cui videoclip è Donald Sutherland a interpretare lo scien-
ziato intento a sperimentare il macchinario per controllare
la pioggia, prima che gli «uomini in nero» facciano irruzione
nel suo laboratorio per arrestarlo… Cercatelo in rete, è uno 215
splendido video.
Evidentemente il Sistema non ha alcuna intenzione di pro-

Wilhelm Reich
muovere ogni tipo di innovazione che potrebbe rendere più
indipendente il singolo cittadino. E così, tra le pagine de Il
manuale dell’accumulatore orgonico, si legge: «La scoper-
ta dell’orgone è molto più al sicuro nelle mani del cittadino
medio che nelle mani di politici, accademie delle scienze o
organizzazioni mediche di svariato genere. […] Come la lu-
ce del Sole, l’aria e l’acqua, l’energia orgonica è parte della
natura che esiste ovunque e deve essere disponibile a tutti,
libera dal controllo e da regolamentazioni restrittive, non è
brevettabile e non può essere controllata da alcun individuo
singolo o corporazione».

BREVETTI DI INTERESSE NAZIONALE


Lo spunto ce lo ha dato Wilhelm Reich, rifiutandosi di bre-
vettare il suo accumulatore orgonico. La scelta, per quanto
216
potrebbe sembrare controcorrente, è in realtà sensata.
Perché? Perchè l’ufficio brevetti funziona in modo tale
che, una volta presentato un progetto e chiesto che ne
sia approvata la paternità, il primo soggetto che ha diritto
a studiarlo è l’esercito, prima ancora dell’ufficio brevetti.
Se l’esercito ritiene che il vostro progetto sia di interesse
nazionale, se ne appropria e vi contatta in privato per at-
tuarne lo sviluppo (o per chissà cos’altro…). Se invece il
progetto non viene ritenuto di interesse nazionale e quindi
non è potenzialmente un «pericolo di scompiglio» per il
Sistema, allora passa al vaglio non ufficiale delle multina-
zionali, che hanno spesso loro infiltrati negli uffici brevetti,
il cui compito è proprio quello di intercettare e copiare
eventuali innovazioni, per poi affermare di essere state le
prime a brevettarle…
CIALTRONI E CIARLATANI

Quante scoperte che avrebbero rivoluzionato, semplificato o


migliorato il nostro stile di vita sono state affossate? Quanti
scienziati sono stati dimenticati e di quanti non è stato valo-
rizzato il lavoro? Quanti sono stati accusati di «cialtroneria» o
«ciarlataneria», attaccati per il loro stile, il loro abbigliamento,
la loro igiene personale, o chissà cos’altro, piuttosto che seria-
mente considerati per le loro idee? O peggio ancora messi «al
rogo» o fatti sparire per sempre, insieme alle loro scoperte?
Ecco qualche esempio.
C. Louis Kervran, scienziato francese, ha dimostrato che le
galline, se private completamente di calcio nella dieta, erano
comunque in grado di produrre uova compiendo una vera e
propria trasmutazione «alchemica» della materia, ovvero ge-
nerando calcio a partire da altri elementi chimici (così come si 217
è sempre cercato di trasmutare il piombo in oro), una reazione
inspiegabile per la fisica ufficiale… per la quale ovviamente il
ricercatore ha preso una grossa svista.
Dayton Miller, fisico e astronomo americano nato nella se-
conda metà del diciannovesimo secolo, fece oltre 200 000
(duecentomila!) misurazioni in trent’anni per dimostrare che
esiste un’energia nell’etere, smentendo così il famoso espe-
rimento di Michelson-Morley (che, al contrario, aveva nega-
to nel modo più assoluto l’esistenza di energia nel vuoto).
Nonostante un numero così impressionante di esperimenti,
nessuno gli diede credito. Ancora oggi, di tanto in tanto, c’è
qualche scienziato che conferma l’esistenza di «qualcosa» che
pervade ogni luogo dell’universo. Ciascuno l’ha chiamata con
un nome diverso (energia del vuoto, etere, orgone, spirito,
dio…), ma si tratta fondamentalmente dello stesso concetto,
che per la scienza accademica (cioè quella che ha investito
miliardi per cercare il bosone di Higgs) rimane solo una «cre-
denza pseudo-scientifica»…
Ettore Majorana, giovane ordinario di fisica teorica all’Uni-
versità di Napoli negli anni 1930, partendo da intuizioni teo-
riche molto geniali, aveva messo a punto un macchinario in
grado di estrarre energia dal «ribollire del vuoto». In pratica,
era riuscito a ingabbiare e rendere disponibile quell’energia
dell’etere scoperta e confermata dagli esperimenti di Dayton
Miller. Majorana scomparve misteriosamente nel 1938…

218

C. Louis Kervran Dayton Miller

Ettore Majorana
Rupert Sheldrake, biologo e saggista britannico, autore del
libro «Sette esperimenti per cambiare il mondo», tuttora in vi-
ta, è il teorizzatore del «campo morfogenetico», o «risonanza
morfica», che implica un universo non meccanicistico, gover-
nato da leggi che sono esse stesse influenzabili e soggette
a cambiamenti. Secondo le sue teorie, ogni membro della
specie attinge alla «memoria collettiva» (o «campo morfoge-
netico»), e si sintonizza con tutti gli altri membri della specie,
contribuendo a sua volta all’ulteriore sviluppo della specie
stessa e a «modificare» le sue leggi e la sua evoluzione. Le
sue teorie spiegano anche fenomeni «paranormali» e spiega-
no come meccanismi tipici della fisica quantistica (come ad
esempio l’entanglement) possano riprodursi anche nel mondo
umano. Quando Sheldrake parlò per la prima volta di «cam-
po morfogenetico» la rivista New Scientist lo definì come «il
miglior candidato al rogo» (dopo Reich). Di recente un suo 219
intervento offerto in occasione di TED (una serie di confe-
renze organizzate per diffondere «nuove idee»), in cui con
leggerezza e humor inglese Sheldrake smontava uno a uno
molti dei paradigmi più diffusi della «Scienza» ufficiale, è stato
«bannato», cioè «censurato» e rimosso dal sito. Forse perché
le sue idee sono ancora «troppo nuove» per essere diffuse…

Rupert Sheldrake
Mentre Reich sperimentava macchinari per modificare il clima,
anche in Italia c’era qualcuno che faceva qualcosa di simile.
Sto parlando di Pierluigi Ighina. Allievo di Guglielmo Marco-
ni, da giovane si interessò allo studio della natura, delle forze
motrici e dell’elettromagnetismo. Le sue ricerche lo porta-
rono a delineare il concetto di ritmo magnetico Sole/Terra e
alla scoperta di quello che lo stesso Ighina chiamava «atomo
magnetico». Secondo Ighina, al centro del sole vi sarebbe un
cuore magnetico che pulsa al ritmo del cuore umano. Ighi-
na riteneva che, tramite l’applicazione della «filosofia della
spirale», si sarebbe potuta migliorare la vita dell’uomo attra-
verso la costruzione di «artefatti elettromagnetici». E difatti
egli stesso presentò diverse invenzioni, per mezzo delle quali
sarebbe stato possibile rigenerare cellule morte, allontanare
i terremoti (progettò una «valvola antisismica») e allontanare
220 o avvicinare le nuvole (come faceva Reich).
Molti testimoni riportano che Ighina, vivendo vicino a Imola ed
essendo infastidito dal rombo dei motori delle Formula Uno,

Pierluigi Ighina
durante il Gran Premio attivava di proposito il suo macchinario
per procurare precipitazioni atmosferiche. E così, dopo pochi
giri dal via, i piloti erano costretti a fermarsi ai box e a sostituire
le gomme, a danno dello spettacolo e della gara. Altri ricorda-
no anche di un terremoto che coinvolse le zone del modenese,
ma che non investì la vicinissima città di Imola, dove Ighina
viveva e dove aveva installato la sua «valvola antisismica».
Ighina, però, a differenza di Tesla, cercò sempre di evitare il
clamore della stampa, portando avanti i suoi esperimenti e le
sue ricerche in modo appartato, e non brevettò mai le sue ap-
parecchiature, né tentò di ricavarne un profitto. Forse fu que-
sto il motivo per cui riuscì a vivere oltre i novant’anni e a morire
di vecchiaia. Ma anche le sue scoperte vennero dimenticate.

STELLE IN BARATTOLO
221
Non riuscì a morire di vecchiaia, invece, lo scienziato Eugene
Mallove, la cui indagine scientifica circa il tema della «fusione
fredda» toccò interessi troppo al di fuori della sua portata.
Ma andiamo con ordine, e cerchiamo di ricostruire i fatti an-
che stavolta.
Tutto partì quando, nel 1989, due professori universitari di
elettrochimica, Martin Fleischmann e Stanley Pons, annun-
ciarono al mondo la scoperta della fusione «a freddo» in una
conferenza stampa. Spiegarono che era possibile produrre
energia pulita a costi irrisori mediante un semplice procedi-
mento elettrochimico, capace di innescare reazioni di fusio-
ne nucleare a bassa temperatura. Questa nuova tecnologia
avrebbe garantito energia pulita per tutti e posto fine a gravi
squilibri economici che avvantaggiavano esclusivamente lob-
by occidentali.
Furono forse quelle lobby a mettere fine alla carriera dei due
scienziati che, poco dopo il loro clamoroso annuncio, furono
costretti a ritirarsi a vita privata. Ma poiché la notizia della
possibile realizzazione di energia dalla fusione a freddo era
ormai di dominio pubblico, era necessario screditare tutte le
ricerche di Fleischmann e Pons. Le prime obiezioni del mondo
accademico all’eccezionale scoperta giunsero dalla conferen-
za della Società Americana di Fisica (APS), che smentì tutti
gli effetti misurati dai due scienziati. Arrivò poi una seconda
smentita dai ricercatori del laboratorio di Oxford, e una ter-
za da uno speciale gruppo di ricercatori incaricati dal Dipar-
timento dell’Energia Statunitense (DOE). Poco dopo arrivò
anche una quarta e più autoritaria smentita da parte del MIT
(che negli Stati Uniti è considerato il «tribunale della scienza»),
il quale definì la fusione fredda come «mera spazzatura».
In sostanza, si trattò di una serie di «scomuniche scientifiche»
222 che infangò per sempre l’autorevolezza dei due scienziati.
Ma fu proprio allora che Eugene Mallove, un autorevole ri-
cercatore che ai tempi lavorava proprio al MIT in veste di ca-
poredattore scientifico dell’ufficio stampa, fece una scoperta
che riaprì il caso. Rimettendo mano ai documenti dello stesso
MIT, Mallove si accorse che la relazione decisiva sulla fusione
fredda era stata inspiegabilmente manipolata. I risultati posi-
tivi dei test erano stati tenuti nascosti falsificando i documenti.
Mallove fu talmente indignato dall’accaduto che, per prote-
sta, non esitò a dimettersi dal MIT, a rischio di compromet-
tere la propria brillante carriera. Nel 1991 pubblicò un libro
inchiesta intitolato Fire from Ice, in cui denunciò la deliberata
soppressione dei risultati sulla fusione fredda ottenuti dal MIT
e da altri laboratori in tutto il mondo da parte dei gruppi
di potere accademici. «Non c’è alcun dubbio che la fusione
fredda non sia un errore», scrive Mallove. «Credere che cen-
tinaia di scienziati in tutto il mondo abbiano commesso si-
stematicamente errori riguardo le anomalie nucleari misurate
significa distorcere il significato di “prova scientifica” fino a un
assurdo limite. (...) Continuare a ignorare la fusione fredda è
patologico». Patologico, cioè frutto di un Sistema «malato».
Mallove non fece una bella fine. Perse la vita a 57 anni di mor-
te violenta. Alcuni sconosciuti lo massacrarono a bastonate
nella notte del 14 maggio 2004 e gli inquirenti archiviarono il
caso come tentativo di rapina.

223

Eugene Mallove

In Esperimenti scientifici non autorizzati di Marco Pizzuti


(il cui lavoro è una delle mie fonti privilegiate) è descritto
il procedimento per costruire una cella a fusione nucleare
fredda «fai-da-te». Serve davvero poco: un trasformatore con
voltaggio regolabile, un portafusibili cilindrico, un fusibile a
bussolotto, due morsetti a coccodrillo, un paio di guanti iso-
lanti, quattro morsetti, una piastra metallica, due cavi elettrici,
due elettrodi, un barattolo di vetro, una tavoletta di legno,
cinque cucchiai di bicarbonato di sodio (un altro dei 1000 usi
di questa sostanza…), un contenitore trasparente, un foglio
di piombo e acqua distillata. Sono tutti materiali facilmente
reperibili e relativamente economici. Con un po’ di pazienza
e competenze (mi raccomando, se non le avete «don’t try
this at home!») lo si può costruire da soli. Quando la reazione
si innescherà, all’interno del barattolo si creerà una piccola
stella. La fusione nucleare è proprio il meccanismo per cui si
originano le stelle.

11 SETTEMBRE E FREE ENERGY


224
L’11 settembre è una data importante per me. Prima di tutto
perché è il mio compleanno, la data in cui ho sempre festeg-
giato spensieratamente la fine dell’estate e l’incedere degli
anni insieme ai miei cari. Almeno fino al 2001.
Quell’anno lavoravo da pochi mesi per un’azienda che si occu-
pa di web monitoring (monitoraggio di media online) e stavo
scartando dei pasticcini da offrire ai colleghi, quando uno dei
net clipper della redazione (letteralmente: «ritagliatori di ar-
ticoli online») corse da noi trafelato, ripetendo ad alta voce:
«È giù il sito della CNN! È giù il sito della CNN! Dev’essere
successo qualcosa di grosso…». Solo qualche minuto dopo
capimmo che i server del sito della più importante news tv del
mondo erano stati mandati in tilt da milioni di utenti collegati
insieme, per seguire in diretta quanto stava accadendo: un ae-
reo aveva colpito una delle due torri gemelle del World Trade
Center di New York. Noi tutti corremmo al bar più vicino – in
ufficio non c’erano tv – per seguire quell’incredibile evento,
col fiato sospeso. Qualche minuto dopo un secondo aereo
colpì la seconda torre, e tutti noi, insieme a milioni di persone
in tutto il mondo, ne fummo testimoni oculari.
Tutte le tv del mondo stavano trasmettendo esattamente lo
stesso video, con la stessa inquadratura, nello stesso momen-
to. Le torri e gli edifici limitrofi (tutti quelli facenti parte del
complesso denominato «WTC», sette edifici in totale) collas-
sarono su se stessi di lì a breve. L’ultimo di essi, il WTC7, crollò
nel pomeriggio inoltrato, diverse ore dopo il primo crash.
Notizie giunsero anche in merito a un terzo Boeing dirottato
dai terroristi che avrebbe colpito la facciata del Pentagono,
il centro nevralgico dell’Intelligence statunitense nella città
di Washington, senza che neanche in quel caso la potente
contraerea degli Stati Uniti fosse riuscita a far nulla. Tra gli 225
effetti di tutto ciò, oltre a un crollo tremendo di tutte le borse
e dei mercati, ci fu un’escalation di paura e controlli in tutto il
mondo, con l’adozione di misure straordinarie antiterrorismo,
incluse nuove leggi – alcune delle quali in aperta violazione
della privacy e dei diritti umani dei cittadini – per la preven-
zione di futuri «attacchi».
Un anziano e barbuto latitante fu accusato fin da subito di
avere architettato e coordinato il più terribile attentato terro-
ristico della storia dell’umanità da una lontana caverna dell’Af-
ghanistan.
Da allora molti anni sono passati e tanti dubbi sono emersi
su quegli eventi. Centinaia di libri e documentari sono stati
prodotti, molti dei quali mettono in discussione la versione
«ufficiale» su quanto sia successo quel giorno. Su vari fronti,
esperti indipendenti si sono schierati apertamente contro la
commissione ufficiale che tentò di «spiegare» il crollo delle
due torri (e degli edifici limitrofi).
Richard Gage, fondatore e presidente dell’associazione «Ar-
chitetti e ingegneri per la verità sull’11 settembre», è stato in-
vitato di recente da una importante trasmissione televisiva sta-
tunitense per sostenere quanto lui e oltre 2000 professionisti
indipendenti in tutto il mondo hanno sottoscritto: non è possi-
bile che un aereo faccia crollare una torre costruita proprio per
resistere a incendi e terremoti, e anche a disastri aerei di quel
genere. E poi che possa farlo allo stesso modo un secondo
aereo pochi minuti dopo. E tantomeno questo possa causare
il collasso «selettivo» di edifici limitrofi (cioè il crollo circostan-
ziato di alcuni edifici vicini e non di altri), addirittura molte ore
dopo il primo impatto, come nel caso del WTC7. E che questo
sia avvenuto con «collassi» durati solo pochi secondi (meno di
226 10 secondi), che sfidano le leggi della gravità e di caduta dei
gravi. Ne va della professionalità e credibilità di un’intera cate-
goria (quella degli architetti e degli ingegneri civili, appunto),
offesa dalle valutazioni lacunose della commissione.

Richard Gage
La Pancakes Theory, utilizzata dalla commissione ufficiale per
spiegare il crollo delle due torri, viene quindi duramente cri-
ticata: il kerosene contenuto in un Boeing non sarebbe stato
sufficiente a creare il calore necessario a «sciogliere» le strut-
ture in acciaio dell’edificio, e non è possibile che il crollo di un
piano sull’altro (uno dopo l’altro, come una pila di pancakes,
appunto) sia avvenuto in così pochi secondi, come se l’ultimo
piano arrivasse a terra «cadendo nel vuoto», senza subire al-
cun rallentamento dall’impatto coi piani sottostanti. Qualche
altra tecnologia dev’essere stata utilizzata per far crollare così
rapidamente le due torri e gli edifici limitrofi, in quelle che – a
detta degli esperti indipendenti – sembrano più «demolizioni
controllate» che crolli dovuti all’impatto di uno o più aerei, o
agli incendi conseguenti.
Alla luce di quanto sopra, e a prescindere dal fatto che il
mandante di queste «demolizioni controllate» possa essere 227
stato veramente un terrorista afghano, certo occorre farsi più
domande di quelle che si sono posti i giornalisti che hanno ri-
portato l’evento sui media di tutto il mondo, imbeccati in me-
rito dalle «versioni ufficiali». Alcuni analisti indipendenti hanno
addirittura messo in dubbio l’autenticità dei video presentati
durante la diretta (in particolare uno stesso video trasmesso
identico da tutte le tv) in cui il secondo crash aereo sembre-
rebbe un montaggio, frutto di una sovrimpressione prepara-
ta ad hoc, come dimostrato da alcune imperfezioni che un
esperto di video-editing avrebbe facilmente individuato.
Ma non è finita qui.
La più incredibile scoperta in merito all’11 settembre che mi
sia capitato di fare – stimolato nella ricerca da questo mio
legame «di nascita» coi tragici eventi segnati da questa data
– è stata una «pesante» e approfondita indagine investiga-
tiva, supportata da centinaia di prove, video, foto, grafici e
rilevazioni scientifiche, raccolte in un volume di oltre 500 pa-
gine intitolato Where Did the Towers Go? Evidence of Direct
Free-Energy Technology on 9/11 («Dove sono finite le torri?
Prove dell’utilizzo di Free-Energy Direzionale sull’11/9»). Il te-
sto è frutto di un’indagine forense condotta dalla dottoressa
Judy Wood, ricercatrice universitaria Ph.D., che ne ha anche
fatto oggetto di una denuncia legale allo Stato di New York.
Riguardo alle proprie competenze in materia, Wood scrive:
«L’oggetto principale delle mie ricerche è sempre stato nel
campo della “fotomeccanica”, che prevede l’uso di immagini
per determinare le caratteristiche dei materiali […]. Per questo
è assolutamente naturale per me vedere anomalie nel com-
portamento dei materiali guardandone immagini fotografiche
[…]. Mi è capitato a volte di incontrare fenomeni inaspettati
228 che si sono presentati a me come rompicapo. E risolverli mi
ha fornito un’ampia esperienza sulle caratteristiche anomale
dei materiali e sull’interferenza dei campi elettromagnetici.»
Le anomalie riscontrate da Wood nell’analisi dei video, delle
immagini e dei dati riguardanti il crollo degli edifici del World
Trade Center formano una lista abbastanza impressionante,
che neanche una demolizione controllata (con esplosivi militari
o con piccoli ordigni nucleari) potrebbe spiegare.
Scioglimento di travi d’acciaio e strani fuochi senza alcuna
emissione di calore; ribaltamento e strani danneggiamenti di
oggetti pesanti (incluse auto «tostate» nei parcheggi limitrofi
al WTC); incredibile assenza di detriti in corrispondenza degli
edifici crollati (da cui la domanda «Dove sono finite le torri?»)
e invece presenza di enormi nubi di polvere finissima, durate
per settimane (da cui il termine «polverizzazione», usato al
posto di «crollo»); nessun rumore tipico di crolli del gene-
re percepito dai testimoni sul luogo; dati sismici della zona
che non riportano scosse sufficientemente forti o lunghe in
corrispondenza dei crolli; centinaia di inspiegabili «jumpers»,
persone saltate nel vuoto dagli edifici, anche dai piani più alti
e non incendiati, senza alcun motivo apparente; mancanza di
danni rilevanti ai piani sotterranei e alla «vasca» che contiene
il WTC e lo protegge dalle acque dell’Hudson River; man-
canza di danni alle linee della metro che passavano proprio
sotto le due torri; mancanza di danni agli edifici «al di là della
strada» rispetto a quelli crollati; presenza incredibile di so-
pravvissuti in aree isolate ai piani più bassi delle due torri, che
sarebbero dovuti rimanere schiacciati dal crollo di 110 piani
sopra le loro teste… e così via.
La lista è davvero lunga e supportata da dati e prove scien-
tifiche. Secondo Wood una qualche forma di energia diversa
da quelle «convenzionali» è stata utilizzata per la demolizione
degli edifici del WTC, una forma di energia «direzionale», una 229
sorta di «campo di forza concentrato», capace di sciogliere
e polverizzare in maniera localizzata quanto presente in una
determinata area (cemento, acciaio, persone) e lasciare com-
pletamente intatto tutto quanto era nelle immediate vicinanze
e al di sotto degli «obiettivi».
Si tratterebbe quindi di una «Nuova Hiroshima», in cui sareb-
be stata dimostrata al mondo intero la capacità di controllare
una nuova forma di energia a scopi «terroristici» (o «militari»).
Come durante la seconda guerra mondiale era accaduto con
la fissione nucleare – poi utilizzata anche a scopi civili per la
produzione di energia elettrica – ora una nuova forma di ener-
gia sarebbe stata svelata al mondo intero. E secondo Wood
essa potrebbe avere a che vedere con gli studi più avanzati
di Nikola Tesla – bloccati da J. P. Morgan per i motivi che ab-
biamo visto – probabilmente portati avanti in segreto da altri
dopo la sua morte (e sappiamo che lo stesso Tesla collaborò
coi militari prima di morire, non avendo altre forme di sosten-
tamento, convinto da essi a sfruttare il suo genio proprio per
ideare il cosiddetto «raggio della morte»).
È indubbio che tanti scienziati indipendenti si siano misurati
finora con le cosiddette tecnologie «Free Energy», ed esisto-
no serie possibilità che – tra le migliaia di fallimenti e bufale
circolanti – qualcuno di essi sia davvero riuscito a ottenere
energia pulita e libera da fonti innovative, a basso impatto e
a basso costo (fusione fredda, energia del vuoto, elettroma-
gnetismo, motori magnetici o gravitazionali, o chissà cos’al-
tro), capaci di risolvere la dipendenza dell’umanità dalle fonti
fossili, come anche di essere trasformate in potenti armi di
distruzione. Come già accennato in precedenza, la scelta di
chi dovesse ottenere questo grande risultato sembrerebbe
oggi ristretta a due possibilità: brevettare la propria scoperta
230 per metterla sul mercato (rischiando di essere «convocato»
dai militari, «comprato» dalle lobby del settore, o fatto «spa-
rire», come successo ad esempio a Tesla, Reich, Majorana e
Mallove); oppure tenerla ben nascosta nel «garage di casa»,
evitando di sfruttarla commercialmente e di esporsi trop-
po per non subirne le conseguenze. Come hanno fatto ad
esempio Ighina, il quale non brevettò mai le sue scoperte,
morendo quindi tranquillo e ignorato nella sua casa di Imola,
e l’eccentrico ricercatore canadese John Hutchison, tirato in
ballo da Wood insieme a Tesla per spiegare alcune anomalie
riscontrate l’11 settembre, e che pare sopravviva vendendo
su Internet strani oggetti «fusi» durante i suoi esperimenti…

Forse mi sarò dilungato a rincorrere bizzarre «teorie del com-


plotto» (così definite dalle solite scimmie rosse, storicamente
imbeccate dalla CIA…), ma ciò che credo con fermezza è che,
Judy Wood John Hutchison

grazie alle scoperte scientifiche che sono sul punto di emerge-


re nell’ambito dell’energia e del suo sfruttamento, è certo che
l’umanità si trovi a un punto di svolta, in cui – usando le parole
di Wood al termine della sua indagine – «controllare l’energia, 231
in base al tipo di energia, può distruggere o salvare il pianeta.
Ora abbiamo una scelta. E la scelta è reale. Possiamo vivere
felicemente nella prosperità, oppure distruggere il pianeta e
morire, insieme a ogni essere vivente che lo abita.»
Per questo oggi più che mai è fondamentale che ognuno di
noi, a partire dalla propria vita quotidiana, faccia scelte con-
sapevoli anche in merito all’energia che utilizza.

SEI ATTACCATO AL GAS?

Tornando con i piedi per terra, siamo giunti alla conclusione


della parte dedicata all’Energia. Ti invito a ripensare, come
alla fine degli altri capitoli, alle risposte che hai dato com-
pilando la sezione del «Q Test» relativa all’INDIPENDENZA
ENERGETICA (terzo appello: se non l’hai ancora fatto, fallo
ora collegandoti su www.liberidalsistema.com, riceverai i ri-
sultati via email e anche alcuni video gratuiti, tratti dai corsi
Q Life e RQI®!).
Da dove proviene l’energia che utilizzate quotidianamente a
casa? Utilizzate impianti ottimizzati con tecnologie recenti e a
maggiore efficienza? Utilizzate anche fonti rinnovabili? Quali
mezzi di trasporto usate? In base a quali valutazioni li avete
scelti o acquistati? Risiedete in città o in campagna? In un
condominio o in un’abitazione indipendente?
Le case in cui viviamo e le auto che guidiamo sono letteral-
mente i luoghi in cui passiamo la maggior parte del nostro
tempo e sono frutto di tecnologie e scelte costruttive sulle
quali siamo abituati a non interrogarci, dando per scontato
che l’industria delle costruzioni e quella petrolifera, dell’ener-
gia e delle utilities, operino nel nostro interesse per offrirci
232 davvero il meglio. Ma oggi ha ancora senso riscaldarsi con
combustibili fossili destinati a esaurirsi? E guidare auto mos-
se da una tecnologia vecchia di un secolo? E vivere in case
a schiera ciascuna delle quali possiede impianti inefficienti e
replicati identici uno di fianco all’altro (una caldaia, un con-
tatore, un’antenna, e così via)? E ha senso utilizzare oggetti
tecnologici programmati per rompersi e produrre più consu-
mo e più vendite fin dal momento in cui vengono progettati?
Quando si pensa alla casa o all’auto oggi molti si sentono
ancora giustificati nell’affermare che fare scelte alternative
«costa di più» o addirittura che tecnologie alternative semplici
come il solare termico e il fotovoltaico (solo per citarne alcu-
ne) siano meno affidabili e più inquinanti di quelle obsolete
ancora in uso.
E magari si fanno sedurre ad acquistare una nuova auto con
tanti begli accessori e lucine colorate, senza rendersi conto
che tenendosi la propria e investendo gli stessi soldi in un
impianto per la produzione di energia rinnovabile si potreb-
be fare un passo importante per rendersi più indipendenti e
diminuire il proprio impatto sull’ambiente, oltre che ridurre
sensibilmente i consumi.
Certo non si fa bella figura a girare in centro con un pannello
solare piuttosto che con l’ultimo modello di SUV… ma questo
è solo un argomento in più in tema di Indipendenza Culturale,
che abbiamo in parte già affrontato.
Se anche tu sei ancora «attaccato al gas» (sì, quello che viene
dalla Russia…) e vuoi prendere maggiore consapevolezza su
come alleggerire questa dipendenza, un buon aiuto potreb-
be essere frequentare insieme ai tuoi cari, anche da casa via
web, il Corso «Q Life – Liberi dal Sistema», che può darvi
in maniera divertente e coinvolgente gli stimoli per iniziare
a cambiare, anche nell’ambito dell’Energia e dei trasporti. 233
Attraverso il Corso Avanzato «RQI Ambiente – Agricoltura
®

Informazionale e Biotecnologie Olistiche Ambientali» po-


trete apprendere come utilizzare le più innovative tecnologie
interiori per ottimizzare i consumi di energia elettrica, gas,
carburanti, e migliorare anche la qualità dell’acqua di casa
(e scusate se è poco!). In quest’ultimo corso vengono inoltre
illustrate, con esempi pratici ed «esperimenti dal vivo», tutte
le novità sulle ricerche che il Q Institute sta conducendo in
tema di Energie alternative e Free Energy, confrontandosi
concretamente con le più recenti scoperte della scienza di
frontiera (quella cui Tesla ha aperto le porte) e misurandosi
con progetti e applicazioni pratiche con l’aiuto di «geni ribel-
li» (di cui siamo costantemente alla ricerca!) che non vogliono
farsi imbrigliare dalle regole del Sistema. Grazie a queste ri-
cerche siamo già riusciti a dimostrare la possibilità di produrre
piccole quantità di «energia dal vuoto», senza alcuna forma
di alimentazione, grazie a piccoli circuiti realizzati con pochi
euro di materiali sulla base di ricerche che però sono durate
dei mesi. Il funzionamento di questi piccoli oggetti, mostrato
dal vivo durante il Corso, sfida le leggi della fisica classica e ci
pone sempre più vicini al traguardo dell’energia libera!
Ma passiamo ora ad affrontare la nostra dipendenza dal De-
naro.

234
7 INDIPENDENZA FINANZIARIA

«Se al capire qual è la tua passione, non dedichi nem-


meno un minuto, è chiaro che non lo capirai mai. C’è
una corrispondenza diretta tra quantità di tempo, sforzi,
energia, intelligenza che metti in una cosa,
e quello che ne ottieni.»
Simone Perotti (scrittore e navigatore) 235

Quanto tempo dedicate ogni giorno ai vostri sogni?


Siete consapevoli che la possibilità di vederli realizzati è diret-
tamente proporzionale al tempo che spendete per cercare di
diventare chi vorreste essere attraverso di essi?
Simone Perotti lo sa bene. Ex dirigente aziendale, ha impie-
gato 12 anni per pianificare e trasformare in realtà quotidiana
le sue due grandi passioni: scrivere e navigare. Oggi Simone è
un uomo «Libero dal Sistema», che sta vivendo il suo sogno:
«Progetto Mediterranea» è una spedizione in barca a vela che
dal maggio 2014 lo sta portando, da qui per i prossimi 5 anni
di navigazione, a compiere il periplo del Mar Mediterraneo e
realizzare quella che lo stesso scrittore e navigatore genovese
descrive come «Una spedizione nautica, culturale, scientifica
e di relazione tra i popoli», sostenuta anche dal Q Institute.
Tra i suoi libri più famosi, citiamo Adesso Basta (oltre 100 000
copie vendute) e Ufficio di scollocamento. In tanti, poi, lo co-
noscono per aver dato vita al movimento degli «scollocati»,
che promuove il cosiddetto down-shifting.

Simone Perotti
236

Perotti è l’emblema di quelle persone, sempre più numerose,


che sono riuscite a liberarsi dagli stereotipi e dalle costrizioni
«innaturali» della società e a diventare realmente ciò che vo-
levano essere. Stanco dei limiti imposti dal suo ruolo profes-
sionale e inappagato dal potere sterile dei soldi e di una pur
onorevole carriera, ha deciso di cambiare vita, che per lui ha
significato «voltare pagina» e «invertire la rotta».
Ho avuto la possibilità di conoscere e intervistare personal-
mente Simone Perotti, e qui di seguito voglio riportare un
estratto di quello che è stato il nostro incontro:

Enrico: Simone, qual è stata la tua storia personale prima di


fare questa tua scelta di cambiamento, per cui sei diventato
ormai noto al grande pubblico, in Italia e non solo?
Simone: È una storia molto semplice, nella normalità. Io so-
no stato un precario, poi un impiegato, poi ho fatto anche
un po’ di carriera, sono diventato un quadro, un dirigente
d’azienda, ma come ce ne sono moltissimi. Ho lavorato nelle
comunicazioni, nel marketing, nelle relazioni esterne, negli
affari istituzionali, in aziende di vario tipo, straniere e italiane.
Una carriera effettivamente discreta, buona, nella media di
quello che è avvenuto a tante persone.
Ho fatto un percorso che è abbastanza in linea con quello che
veniva chiesto: studiare, laurearsi possibilmente con il massi-
mo dei voti, fare uno studio post universitario, specializzarsi,
entrare nel mondo del lavoro a tutti i costi, tutto devoluto
all’obiettivo di fare carriera, di diventare qualcuno, per avere
una scrivania, un biglietto da visita, avere un minimo di potere
da gestire.
In realtà, durante tutto questo mio percorso, non mi sono mai 237
fatto nessuna domanda su cosa dovessi fare. Ho applicato
quelli che erano gli stilemi dell’epoca.

Enrico: Dopo aver raggiunto questi obiettivi a livello profes-


sionale, e quindi esserti inquadrato in quello che la società e
il Sistema ti avevano chiesto di fare, come è scattata questa
molla di cambiamento che ti ha portato poi a cambiare com-
pletamente strada?

Simone: La molla è scattata in maniera molto semplice, per-


ché la molla è semplice. Il problema è che se uno non la vuole
vedere, guarda caso non la vede.
Ma basta tirare una riga in fondo a ogni giornata. Com’è stata
la giornata? La giornata è stata in linea con il desiderio di vita
che io ho, il desiderio di qualità, di autenticità che io ho? E
anche se non lo è stata, è servita a compiere un percorso che
mi ci porterà, quindi ho dovuto stringere i denti, ma per un
buon fine? Insomma, il bilancio della giornata, qual è stato?
Sono stato il più simile possibile all’idea che ho di me? Cioè
quell’uomo che io non sono ancora, che sento di poter diven-
tare, e che se lavoro nella giusta direzione diventerò? Questa
è l’autenticità.
E nella mia condizione, come nella condizione di tanti, fare
il bilancio di ogni giornata era facilissimo. Tirare quella riga
sotto era una pena. Perché io avevo impiegato 9, 10, 11 ore
al giorno, per l’ennesima volta, per fare una sola cosa. Cioè
quello che serviva per produrre denaro. Persino la carriera
è solo questo. Anche se il potere è un concetto diverso dal
denaro, ma sono simili.
Quel denaro avrebbe dovuto rendermi felice, se fosse stato
238 giusto fare tutta quella fatica per ottenerlo. Tanto o poco che
fosse. Nel mio caso, era comunque inutile. Perché il denaro
non rappresentava la mia idea di felicità. Le cose che mi piac-
ciono, a cui aspiro, non sono in vendita. Sono costruibili con
tanto impegno e hanno tante variabili, tante incognite, ma
non sono disponibili in un grande magazzino.
E invece io accumulavo soldi... non che fossero tanti... li depo-
sitavo in banca, ogni mese, ed era una contropartita davvero
piccola rispetto a quello che mi era costato produrli. Perché
quelle 9, 10 ore al giorno significavano tutta la mia vita diurna.
Quindi tutta la mia vita di veglia. E non restava che dormire
per prepararsi a una nuova giornata.
È stato molto semplice il click. E constatare che avevo 32 anni,
36 anni, 38 anni, 40 anni... e stavo andando in una direzione
che sempre più palesemente non era quella verso cui volevo
dirigermi.
Io volevo fare due cose, lo sapevo fin da piccolo: scrivere e
navigare. E queste due cose erano relegate negli interstizi di
una stanza enorme in cui al centro c’era tutt’altro.
Ad esempio, la scrittura: scrivevo dalle 6 alle 9 della matti-
na, perché poi alle 9 bisognava lavorare. Scrivevo durante la
pausa pranzo, di notte, negli aeroporti... togliendo tempo alle
persone care... Però comunque io non potevo non scrivere,
perché per me quella era ciò che Jack London chiama «la
linea di minore resistenza», cioè dove sarebbe andata la mia
pallina, sul piano sfalsato, se l’avessi lasciata andare libera da
impedimenti. È una bellissima immagine. Ognuno di noi ne
ha una.
A tutti quelli che adesso stanno pensando: «Beh, vedi che
fortuna... lui già lo sapeva che voleva scrivere... ma io non ce
l’ho questa passione, a cui dedicarmi...», io dico: un uomo
che non ha una passione, è un uomo malato, di una malat- 239
tia grave, ma curabile.
Il problema è un altro: quanto tempo dedichi ogni giorno a
ciò che ti piace fare, ai tuoi sogni? Se al coltivare le nostre
passioni, la nostra «linea di minore resistenza», non dedichia-
mo nemmeno un minuto, è chiaro che quella passione, quel
sogno, non si svilupperà mai. C’è una corrispondenza diretta
tra quantità di tempo, sforzi, energia, intelligenza che metti
in una cosa e quello che ne ottieni.
Io lo sapevo già, perché nel corso del tempo mi era sem-
pre sembrato chiaro. Io ero nato per scrivere, indipenden-
temente dal fatto che io scriva bene o male o che i miei libri
vincano o no premi: è una cosa che riguarda me. E naviga-
re, perché sono figlio di naviganti, gente che ha solcato gli
oceani per amore, da sempre. Peccato che lo facevo due
settimane l’anno, o durante le vacanze, o nei week-end...
facendo tra l’altro un ulteriore sforzo di ansia, in una vita già
piena di altri impegni.
La mia era una vita in cui ciò che doveva stare al centro era ai
margini: una vita da cambiare. Il problema è che ai tempi non
avevo un piano B.

Enrico: Dopo aver maturato questa consapevolezza, aver sen-


tito quello che nella tua vita non andava e quello che invece
avresti voluto veramente fare, qual è stato il cambiamento
concreto che hai portato nella tua vita e quali difficoltà ti ha
spinto a dover affrontare?

Simone: Intanto mi sono reso subito conto che bisognava


andare via senza essere stati sconfitti. Ho capito che mi sareb-
be servito del tempo per fare il percorso che stavo facendo
240 portando a casa un minimo di risultato, che fosse in grado di
dirmi che l’avevo saputo fare. Perché andare via pensando
che andavo via perché non avevo saputo fare quello che do-
vevo fare in quel momento, cioè quel tipo di vita, non sarebbe
stato un buon viatico. In quello credo di essere stato lungimi-
rante, o l’ho capito per caso, ma è stato importante. Così mi
sono immediatamente bloccato sulla fretta, che sarebbe stata
la peggiore consigliera del mondo.
«Andiamo via domani!», o alla prima riunione andata male,
alla prima non-promozione, così come la si attendeva. È un
attimo dire: «Ok, mollo tutto!».
Serviva essere molto cauti. Primo perché il piano B non ce
l’avevo. E quindi se non avessi fatto quello che facevo ogni
giorno, non avrei saputo cos’altro fare. Vuoi perché serviva
molta esperienza ancora per scrivere in maniera professionale,
e vuoi perché per navigare bisogna saperlo fare... quindi nel
corso del tempo ho capito che dovevo specializzarmi e fare
esperienza.
E così ho investito, in queste due cose. Ho investito tempo e
risorse, anche in corsi di formazione, in modo da utilizzare al
meglio il tempo che mancava al grande salto, preparandomi
tecnicamente, con le cose che mi servivano e che erano im-
portanti per me.
E poi ho capito che c’erano tanti aspetti che mi avrebbero
messo in difficoltà ed erano tutti interiori, psicologici.
Io, ad esempio, ero un uomo che sapeva stare pochissimo da
solo. E ho intuito che le scelte di cambiamento mi avrebbe
portato in una «no man’s land» dove non ci sarebbe stato nes-
suno, perché effettivamente erano tutti di qua, a fare quello
che facevo io... e di là c’era il vuoto pneumatico, e mi sarei
trovato da solo. Come avrei reagito a questa solitudine?
Poi c’era il discorso organizzativo: dove avrei vissuto, dove 241
sarei andato, come avrei risolto le questioni quotidiane, che
costo avrebbe avuto questa vita se avessi smesso di avere uno
stipendio... e quindi come avrei potuto sviluppare un progetto
ampio, come lo si fa ogni giorno per lavoro.
Questo è bizzarro: ognuno di noi fa dei progetti per il suo la-
voro, ed è molto professionale nel farlo. Magari fa anche delle
presentazioni con PowerPoint... ed è così bravo che quando
le espone, tutti lo applaudono... peccato che poi, per la sua
vita, di progetti così ben dettagliati e studiati non ne faccia.
Io ho avuto la buona voglia di pianificare il mio progetto di
«nuova vita» in modo professionale. Cosa ho? Cosa non ho?
Cosa mi manca? Volevo utilizzare tutte le risorse che avevo,
anche quello che avevo studiato per condurre l’esperienza
lavorativa fino a quel momento, per preparare il miglior pro-
getto che potevo.
«Se sono così bravo a fare dei progetti, facciamone uno serio
per me», mi dissi. E così mi sono messo a farlo. E mi sono
accorto che serviva ancora tanto tempo, che non potevo cam-
biare la mia vita in un istante. Alla fine ci ho messo 12 anni a
vincere determinate paure, a dirmi tante volte: «Ma sì, faccia-
molo!», senza sentirmi uno stupido che buttava a mare tutto
quello che aveva costruito fino a quel momento.
Il tempo non mi è servito per risolvere il problema econo-
mico, perché ho capito che il vero problema non era come
guadagnare più soldi lavorando meno, ma come spenderne
meno per avere più tempo libero. Ogni costo non era denaro:
era tempo che avrei speso per recuperare quel denaro. Que-
sto non era bene. Se io mi trovavo da fare 50 lavori, invece
che uno, per essere retribuito, con la scusa di aver lasciato
il lavoro tradizionale, sarebbe stata una sconfitta. E quindi
242 bisognava trovare una soluzione su questo. La sobrietà, la
decrescita, l’autoproduzione, il riuso, il riclico, l’autonomia...
bisogna saper fare le cose con le mani se vuoi spendere poco.
Se vuoi farti ristrutturare casa da un’impresa, servono tanti
soldi. Se te la ristrutturi da te, visto che hai tempo, devi però
saperlo fare. O almeno devi avere capito che se non lo sai
fare, ci devi comunque provare.

Enrico: Quando hai mollato la tua vecchia vita, quali sono


state le tue soddisfazioni più grandi?

Simone: Io non pensavo che sarebbe stato così bello. Mi im-


maginavo una cosa meravigliosa, ma non così tanto meravi-
gliosa. Ma è stato un bene, altrimenti mi sarei mosso prima,
spinto dall’ansia di dover vivere una cosa così bella. È stato un
bene che non sapessi, così non ho avuto troppa fretta.
La libertà è un’esperienza che nessuno conosce. Fin da bam-
bini siamo sotto qualche autorità, qualche condizionamento,
siamo sempre costretti nei tempi, negli spazi, nei modi, nelle
tipologie, negli stili, nei pensieri... e non abbiamo esperienza
della libertà. Farne qualche esperienza, come sto facendo io,
è inebriante.
E poi non sono morto di fame. All’inizio, nel fare la mia scel-
ta, ero quasi certo che sarei morto di fame. Perché è questo
quello che ci dicono: «Se non porti a casa lo stipendio tutti
i mesi, se non fai carriera, se non stai nei ranghi, muori di
fame».
Questa è la paura più ancestrale.
Ma a me risulta che non muore più nessuno di fame nel Nord
Ovest del pianeta, compresa l’Oceania. Inoltre, c’è tantissimo
lavoro da fare. Io non ho mai avuto tante proposte di lavoro
(di lavori molto umili) fino a quel momento. Tutti mi offrivano 243
da lavorare, perché io dicevo: «Tu dammi un preventivo, e io
te lo faccio alla metà». Giusto o sbagliato che fosse il prezzo,
per me era irrilevante. Bastava che arrivassero dei soldi che mi
servivano per campare. Campare implica l’alimentazione. Se
sai cucinare da solo, costa 4-5 euro al giorno. Sapevo i prezzi
dei supermercati a memoria.
Un esempio su come trovavo lavoro? Se per lavare una barca
il mercato chiede 90 euro, io mi offro di lavarla a 50 euro,
perché voglio avere più opportunità e non morire di fame. È
giusto o sbagliato lavarla per 50 euro? È irrilevante, perché
io ci mangio per 10 giorni con quella cifra. E ho comunque
risolto il problema del mangiare. Vista così, è più semplice
da capire.
Quelli che prima mi sembravano spiccioli, adesso mi sembra-
vano tantissimi.
E così ho avuto la soddisfazione di vedere che non morivo di
fame, oltre a cominciare a fare la cosa per cui sono nato.
Una sensazione di raggiunta identità, una sincronia tra desi-
derio e realtà, che è il contrario dell’alienazione, ovvero dello
staccamento. La coincidenza tra tempo, spazio, azione: fare
quello per cui sei nato, che produca tanto o poco... mettiamo
che non produca niente... ma tu stai facendo quella cosa per
cui sei nato e che dovresti fare. E questo già ti fa sentire me-
glio. E quando stai meglio, tutto il mondo gioca a tuo favore,
perché tutti ti vedono allegro, simpatico e rilassato; tutto è
più favorevole e si innescano circoli virtuosi di situazioni fa-
vorevoli.
Tuttora a volte mi sveglio pensando: «Sto finendo i soldi, non
arrivo a fine mese». Questo rimane, perché abbiamo dentro
di noi un problema ancestrale, culturale.
244 E poi perché il problema c’è.
Insomma, i problemi continuano, ma si possono risolvere. E
tra l’altro sono una parte dell’occupazione quotidiana. Non
sono un eremita.
Ho cominciato a coltivare l’orto. Prima di allora, non avevo
mai avuto esperienze con la terra, ma poi ho scoperto che è
molto più facile di quello che sembra. E ora ho una piccola
serra.
I problemi continuano, ma continuano anche le esperienze,
le opportunità. E ora ho tempo di realizzare un sogno che ho
sempre avuto: il Giro del Mediterraneo in barca a vela.
Se io muoio e non faccio una cosa che ho sempre pensato, la
mia vita è un fallimento. Se io muoio e ho fallito nel tentare
una cosa che ho sempre pensato, la mia vita non è un falli-
mento. Tentare e fallire ci sta. Non tentare non è dignitoso.
Il punto non è riuscire. Un uomo non lo giudichi da dove arri-
va, ma da dove è partito, da quanta strada ha fatto.
Non c’è nulla che arrivi per caso, tutto è frutto di un lavoro
enorme.
Tolti i fulmini e le malattie fulminanti per cui non c’è nulla da
fare, siamo il risultato di quello che facciamo e che con pa-
zienza, un’ora al giorno, giorno dopo giorno, ci prepariamo
a fare. È molto difficile che un uomo che tenta non riesca
almeno in parte. Io non ho mai visto un uomo che fallisce al
100%. Tentare si chiama «vita».

Enrico: Forse tu sei stato agevolato nel fare una scelta di cam-
biamento: avevi soldi da parte e una cultura manageriale per
gestire il denaro che avevi, lavorando molto meno. Oppure
tutti possono fare quello che hai fatto?

Simone: Noi tutti siamo esperti nella produzione di alibi.


Quando uno evade dal carcere, è una brutta giornata per il 245
direttore del carcere, ma una pessima giornata per gli altri
carcerati. Perché se uno è evaso, significa che avrebbero po-
tuto farlo tutti.
Da adesso in avanti, chi rimane in carcere deve sapere che o
ci prova, perché ha a cuore la libertà, o non ci prova, perché
non ha a cuore la libertà.
Gli alibi servono a toglierci dall’imbarazzo di sapere che sof-
friamo e pure per colpa nostra. Un conto è soffrire, un conto
è soffrire sapendo che è anche colpa nostra.
Gli alibi più gettonati sono: non hai figli; hai fatto il manager
e hai un sacco di soldi; hai una formazione che io non ho.
È vero che a migliori condizioni corrispondono maggiori op-
portunità, ma sono solo alibi.

Enrico: Visto che non ci sono alibi e che ognuno di noi po-
trebbe fare una scelta di cambiamento per uscire dal Sistema
e conquistare la sua libertà, cosa non deve mancare nel ba-
gaglio di conoscenze e competenze che ogni persona si deve
portare prima di fare questo salto?

Simone: Il cambiamento è una decisione che si prende in


maniera calda, con il sentimento, la passione, ma anche in
maniera fredda, con la riflessione, la programmazione, la vo-
lontà, la razionalità.
Il cambiamento è un’opzione che non può esserci senza im-
pegno, senza una disintossicazione da quello che fino a quel
momento ci aveva trattenuto e da una rieducazione a quello
che ci libererà. In questo percorso c’è per forza tanto da fare
e c’è bisogno di acquisire tanti strumenti.
Tutti noi siamo di passaggio, su questa Terra. Tutti noi un
giorno moriremo. Nessuno arriva in fondo e vince o perde. Se
246 non c’è nulla da perdere, perché alla fine tutti moriamo, non
vedo dove sia la paura. Non perdete tempo mentre la sabbia
nella vostra clessidra si assottiglia.

Questo era Simone Perotti. E voi? Avete un lavoro, un im-


piego?
Se sì, è un impiego utile? Vi soddisfa, vi appaga?
Oggi il primo obiettivo di ogni persona è trovare un lavoro,
e quello di un buon governo è ragginugere la piena occupa-
zione dei suoi cittadini. Ma a me piacerebbe andare contro-
corrente e pensare, in modo un po’ provocatorio, alla «piena
disoccupazione». Pensare cioé a un mondo in cui ciascuno di
noi abbia organizzato la propria sfera finanziaria in modo tale
da assicurarsi tutte le entrate di cui ha bisogno per vivere e,
allo stesso tempo, avere tutto il tempo libero che necessita
per dedicarsi a quello in cui crede.
Proprio come ha fatto Simone Perotti.
Ma come è possibile?
Simone non è un caso isolato; la sua potrebbe essere conside-
rata una delle tante case-history di persone che sono riuscite
a rendersi libere finanziariamente per poi avere il tempo e
le risorse per realizzare i propri sogni. E a proposito di indi-
pendenza finanziaria (perché è questo il tema del capitolo),
c’è chi ne ha fatta una materia di studio, al punto da scrivere
libri o divulgare teorie sul come raggiungerla. Uno dei più
celebri è l’autore statunitense Robert T. Kiyosaki, che con il
suo saggio-manuale I quadranti del cash-flow si prefigge di
offrire ai suoi lettori una guida pratica per la libertà finanziaria.
Questo lavoro di Kiyosaki si può riassumere con un paio di
grafici, che spiegherò proprio ora.

Tutti inquadrati 247


Osservate i quadranti. Le lettere D, A, T e I definiscono quat-
tro tipologie di lavoratori differenti.
D sono i Dipendenti. Ad esempio: gli impiegati, gli operai,
i commessi. Sono coloro che dipendono da un datore di la-
voro e che portano a casa uno stipendio fisso alla fine del
mese. Per loro la parola chiave è «sicurezza». Sono persone
che odiano la sensazione di paura che deriva dall’incertezza
economica, e così si affidano a qualcuno che «rischia» per
loro, e svolgono lavoro per lui.
A sono i Lavoratori Autonomi. Sono coloro che il lavoro se
lo creano da soli: liberi professionisti, negozianti, artigiani,
consulenti. Per loro la parola chiave è «autonomia». Non
vogliono sottostare a orari rigidi o ai vincoli di un’azienda,
ma essere i capi di se stessi. Ai lavoratori autonomi non
piace l’idea che la quantità di denaro che guadagnano sia
248 decisa a priori da un altro (il «capo»), ma pensano che più
lavorano sodo, più svolgono lavoro di qualità, e più possono
guadagnare.
Qual è lo svantaggio dei Dipendenti e degli Autonomi, cioè di
coloro che lavorano nei quadranti di sinistra? Entrambi hanno
bisogno di lavorare in prima persona per essere pagati. Nel
caso del lavoratore autonomo, puoi anche guadagnare qual-
cosa in più, ma se ti ammali non hai chi ti paga. E se ti sloghi
una caviglia e per la tua professione hai bisogno di guidare
l’automobile, finisce che per ogni giorno di slogatura perdi
anche un giorno di lavoro.
Nei quadranti della parte di destra, invece, abbiamo altre due
categorie.
T sono i Titolari d’Impresa. Sono coloro che hanno avuto l’i-
dea di sviluppare un determinato prodotto o servizio, ma non
sono soli a lavorare. Hanno creato un’azienda e hanno scelto
gente competente, ciascuna con una determinata qualifica,
che lavora con loro. La frase che Kyosaki usa per definire la
filosofia del Titolare d’Impresa è: «Perché lavorare da soli se si
possono assumere altri che lo fanno per te e meglio di te?». Il
buon Titolare d’Impresa, infatti, si dimostra un ottimo leader
nel momento in cui riesce a tirare fuori il meglio dagli altri, ad
attrarli e a motivarli.
Il vantaggio di questa categoria di lavoratori è che, una volta
avviato il lavoro, possono anche assentarsi dall’azienda ed
essere sicuri che il lavoro sarà portato avanti dai propri di-
pendenti.
Infine, l’ultima categoria è quella definita con la lettera I: sono
gli Investitori, ovvero coloro che fanno lavorare i soldi per
loro. Sono coloro che leggono le esigenze del mercato, la
domanda della gente, e investono i propri patrimoni in quel 249
determinato settore. Non aprono aziende, ma semplicemen-
te mettono soldi nel posto giusto: nel settore immobiliare,
nel settore informatico, nel settore delle comunicazioni o in
quello alimentare. E i soldi lavorano per loro. Qui il denaro
si converte in ricchezza. Bisogna essere bravi, per capire le
esigenze del mercato. E anche coraggiosi, per saper rischiare
un investimento senza troppe remore.
Come è facilmente intuibile, il rendimento di chi lavora nei
quadranti della parte destra non è proporzionale al tempo
che viene dedicato al lavoro (come invece accade per gli at-
tori dei quadranti di sinistra), ma dipende da abilità impren-
ditoriali, dalla capacità di capire il mercato e le sue esigenze,
di sapersi adattare alle situazioni presenti e di saper intuire o
leggere gli sviluppi futuri.
LA PIRAMIDE LEMURIANA

Kyosaki è geniale nel mondo in cui, con semplicità, riesce a


schematizzare i quattro modi in cui ci si guadagna da vivere.
Ma c’è qualcosa di più che si può dedurre dal lavoro del for-
matore statunitense. L’ho intuito rileggendo e reinterpretan-
dolo alla luce di quello che con Marco Fincati spieghiamo nei
corsi avanzati RQI®, in particolare nel Master RQI®. Il concet-
to è profondo e richiederebbe parecchio approfondimento,
quindi qui cercherò di semplificarlo più che posso.
Nel momento in cui ciascuno di noi si rapporta al mondo,
nella sua quotidianità, può farlo secondo quattro approcci
diversi. Questi quattro atteggiamenti vanno a definire quattro
livelli di consapevolezza. I livelli sono descritti secondo un
ordine che va dal più «superficiale» al più «profondo». È la
250 cosiddetta Piramide Lemuriana (una piramide ribaltata verso
il basso).
Al primo «piano» della Piramide c’è il livello di consapevolezza
per il quale ogni avvenimento che ci accade «dipende dagli
Altri». «C’è la crisi, non riesco a guadagnare uno stipendio
come si deve, è colpa dei politici, del capo che mi sfrutta,
della moneta, del Sistema».
Cosa vi ricorda questo atteggiamento? Chiaramente quello
del Dipendente, che «dipende» da qualcun altro (il suo datore
di lavoro) per mantenersi.
Poi c’è il secondo livello di consapevolezza. È quello per cui
«tutto dipende da Me». La legge dell’Attrazione, il potere
dell’intenzione, la forza del pensiero positivo... ci sono deci-
ne e decine di libri che spiegano il funzionamento di questa
consapevolezza e che insegnano come affinarla, al fine di rag-
giungere i propri obiettivi autonomamente.
A chi può essere paragonato un soggetto che crede che tutto
dipenda da sé? Al lavoratore Autonomo ovviamente! 251
Poi c’è il terzo livello di consapevolezza, ed è quello per cui
tutto dipende da «Noi». C’è una compartecipazione tra gli
attori di una determinata situazione nel deciderne le sorti
future. Proprio come avviene in un’azienda, dove il Titolare
d’Impresa si circonda di una squadra, di un team, per svolgere
il proprio lavoro: egli crea condivisione, motivazione, passio-
ne, unisce gli interessi e li focalizza su un obiettivo.
E infine, il quarto livello di consapevolezza, quello rappresen-
tato dalla «Q». Ricordate il suo primo significato in sanscrito?
Significa «Uno», cioè l’assenza della distinzione tra «me» e
«te». Non siamo più nemmeno un «noi» inteso come singoli
individui che fanno «squadra», ma siamo un unico grande
soggetto che agisce su un solo palcoscenico: il mondo. E «Q»
significa anche «divino», il divino che è in noi.
A chi può essere paragonato il quarto livello di consapevolez-
za? A quello dell’imprenditore «illuminato», capace di sapere
quale attività sviluppare «sentendo» dentro di sé che quello
è ciò di cui il mondo ha bisogno, utilizzando la sua profonda
«sensibilità» che è paragonabile a una dote «divinatoria». Lui
sa dove il mondo sta andando. O ha la forza di far andare il
mondo nella direzione in cui lui crede debba andare. Il risul-
tato sarà lo stesso: la sua impresa avrà successo. E il quarto
livello di consapevolezza corrisponde anche a quello dell’in-
vestitore illuminato, che non si preoccupa più di specializzarsi
in un determinato lavoro, perché è anch’egli in grado di «pre-
sagire» gli umori del mercato e le tendenze dei consumatori,
e magari anticiparne le esigenze, le domande e i gusti.
L’imprenditore e l’investitore «illuminati» accedono alla «per-
fezione» del mondo – al «campo morfogenetico» come direb-
be Sheldrake – e sanno dove posizionare il proprio tempo, le
252 proprie risorse e i propri investimenti, per farli davvero frut-
tare. Ma ciò che fanno nella vita non è «guadagnare soldi»,
ma qualcosa di molto più importante. Essi hanno una chiara
«missione». Sanno dove stanno andando e sanno trovare le
risorse per farlo. E l’universo pare essere pronto a sostenerli
nella misura in cui la loro missione è chiara e il loro Cuore e
tutto ciò che hanno dentro (e non fuori) è in pace e in «coe-
renza» con loro stessi, nella misura in cui sono liberi da paure
e condizionamenti interiori. Cioè, nella misura in cui sanno
essere «ricchi» dentro, prima di manifestare ricchezza anche
fuori.
E allora, cosa possiamo evincere dal parallelismo tra le quattro
categorie e la Piramide Lemuriana?
Possiamo dedurre che se stiamo ancora svolgendo un lavoro
da «dipendenti», se ancora non siamo in grado di creare qual-
cosa di nostro o di fare lavorare anche altri per noi (persone
o «capitali»), è perché non abbiamo ancora avuto accesso a
un più profondo livello di consapevolezza, quello che ci farà
davvero fare la differenza nel modo in cui vedremo il mondo e
interagiremo con esso. Diventare «autonomi», «imprenditori»
o «investitori» non significa solo «cambiare mestiere» o inve-
stire i propri soldi in «affari». Si diventa tali solo attraverso un
percorso interiore, cioè prima di tutto aumentando la propria
consapevolezza.
La vita è un percorso iniziatico, e le dinamiche del denaro e
della ricchezza spesso ne sono un’efficace metafora.

Tornando a osservare la piramide lemuriana, essa ci torna utile


anche per comprendere un altro concetto: questo percorso
interiore non è altro che il percorso che divide la nostra men-
te dal nostro cuore. Nella mente tutto è diviso, tutto viene
separato e analizzato, per tutto c’è una spiegazione o una 253
colpa altrui. Nel cuore invece tutto è uno, non c’è separa-
zione o conflitto, e tutto è parte di noi, ed è manifestazione
perfetta di ciò che deve essere. E cosa succede a chi riesce a
«scendere» dentro di sé fino a farsi guidare dal cuore? Suc-
cede che il tempo che serve per raggiungere un obiettivo
nella propria vita si riduce proporzionalmente. Se «t0» è il mio
punto di partenza e «t1» è il mio obiettivo raggiunto, come
vedete nella figura, più riesco ad avvicinarmi alla «Q» e più la
distanza tra loro si riduce, fino ad annullarsi. Fino a ottenere
subito ciò che «sento» e ciò che «serve» (che non necessa-
riamente è anche ciò che «voglio» con la mente…). Quante
paure, blocchi, traumi o condizionamenti ci dividono dalla
nostra consapevolezza più profonda e dalla nostra capacità
di «sentire col cuore» (più che di «ragionare con la testa»), e
quindi anche dal raggiungere i nostri veri obiettivi nella vita?
Quindi quanto più investirete oggi per accrescere le vo-
stre conoscenze e il vostro livello di consapevolezza e per
eliminare paure e condizionamenti, tanto più velocemente
domani raggiungerete i vostri obiettivi, in ogni ambito della
vostra vita, non solo nel lavoro.

Per nostra fortuna, esistono tecniche che possono aiutarci a


compiere questo percorso in modo rapido, mettendo insieme
elementi già esistenti per farli funzionare in modo nuovo. Esse
sono spiegate bene nei corsi avanzati RQI®, tenuti da me e
Marco Fincati, e in particolare nel Master RQI® e nel Corso
Avanzato RQI® Business, l’ultimo del Percorso «Q Life», che
abbiamo sviluppato proprio per chi voglia innalzare il proprio
livello di consapevolezza in relazione a denaro, lavoro, carrie-
ra, impresa e investimenti. Ma non aspettatevi dissertazioni su
254 forex, azioni, commodities o immobili … Come avete capito
non è di questo che si parla, ma di qualcosa di altrettanto
pratico, anche se molto più «profondo».

IMPRESE ILLUMINATE
Alcuni di voi si aspetteranno ora esempi altisonanti: Ap-
ple, Google, Facebook, Tesla Motors, o magari SpaceX,
l’altra azienda di Elon Musk, nata per portare l’umanità su
Marte… Invece vorrei accennarvi a un progetto italiano,
che rappresenta un esempio di come principi nuovi, che
ribaltano il funzionamento del Sistema e contribuiscono a
cambiarlo «dal basso», possano anche essere buone idee
per guadagnarsi da vivere, portando ogni giorno la pro-
pria goccia nel becco, oltre che «a casa la pagnotta».
Vorrei quindi parlarvi di Mammamamma, il primo net-
work in franchising per il Noleggio di Articoli per Bimbi.
L’idea è molto semplice: se per 7 miliardi di noi che vivia-
mo sul pianeta ogni mamma avesse comprato una carroz-
zina nuova… il mondo sarebbe invaso di oggetti utilizzati
solo per pochi mesi e poi dimenticati in un garage. Molti
degli articoli usati nella prima infanzia sono spesso com-
prati nuovi per poi finire dopo poco inutilizzati a prendere
polvere in soffitta o in garage. Chiunque di voi abbia figli
ha fatto quest’esperienza. Per non parlare dei miliardi di
pannolini usa-e-getta utilizzati ogni anno…
Si legge sul sito: «Da noi puoi trovare i consigli giusti per
evitare sprechi ed errori che l’inesperienza può farti fare.
Le giovani mamme spesso si fanno regalare o comprano
oggetti che finiscono in garage quasi nuovi… Ci siamo
passati anche noi! Ogni articolo ha diversi periodi di uti-
255
lizzo: alcuni li userai solo pochi giorni, altri pochi mesi e
altri per qualche anno. Per questo da noi puoi scegliere
i migliori prodotti e decidere per quanto utilizzarli, con
un sicuro risparmio e la possibilità di scegliere la migliore
qualità per il tuo bimbo. Tutti gli articoli sono controllati e
igienizzati prima di ogni noleggio. E se non sei soddisfat-
ta potrai cambiarli in ogni momento! Gli articoli Condivisi
vengono ricondizionati, controllati e igienizzati con atten-
zione, pensando ai bimbi che li utilizzeranno. In alcuni casi
non ti accorgerai nemmeno che li ha già utilizzati un’altra
mamma…».
E ci sono tanti altri aspetti dell’essere «mamma» che han-
no un forte impatto sull’ambiente:
«Ogni anno solo in Europa vengono prodotti oltre 20 mi-
liardi di pannolini monouso non biodegradabili, che fini-
ranno ammucchiati in una discarica o bruciati in un ince-
neritore.
Ogni bimbo ne usa in media 5000 nei primi 3 anni di vita,
con costi anche superiori ai 1500 euro.
Ma fortunatamente esistono delle valide alternative, per
un sicuro risparmio per l’Ambiente e per il Portafogli. Per
questo da noi trovi un’ampia scelta e i migliori consigli di
utilizzo di pannolini lavabili multiuso e pannolini biode-
gradabili. E se questo è possibile per i pannolini del tuo
bimbo… ti sei mai chiesta se esistono altrettanto valide
alternative agli assorbenti usa-e-getta che ogni donna
utilizza? Certamente sì! E da noi puoi trovare un’ampia
scelta di coppette mestruali multiuso e tutti i consigli e le
rassicurazioni che cerchi. Migliaia di donne le usano già
con soddisfazione!».
256
E pensando invece all’igiene dei bimbi? Anche su questo,
Mammamamma ha da dire la sua:
«Dovremmo fare molta attenzione ai detergenti che usia-
mo in casa, per lavare superfici, piatti e vestiti che usano i
nostri bimbi. Additivi chimici e sostanze non naturali ne fan-
no un veicolo di intossicazione e inquinamento. Una dose
di un normale detersivo può inquinare fino a 300 000 litri di
acqua potabile. L’utilizzo di detersivi biologici può ridurre
questo impatto e le possibili reazioni causate da un eccesso
di esposizione ai prodotti chimici nei nostri bambini.
Inoltre, perché riciclare i flaconi ogni volta che finiscono,
gettandoli nella differenziata per essere fusi e ristampati,
per poi essere di nuovo riempiti e tornare al supermerca-
to, facendo chissà quanta altra strada? È possibile riempirli
semplicemente utilizzando detergenti «alla Spina», saltan-
do tutti quei costosi passaggi. Da noi trovi una scelta di
Detergenti Bio e alla Spina pensati per la massima sicurez-
za dei tuoi bimbi, e per un minor impatto sull’Ambiente
in cui vivono.»
Sintetizzando, qual è la mission di Mammamamma?
«Favorire la solidarietà tra mamme e la sostenibilità, at-
traverso la promozione del risparmio e del riuso. In un
mondo che non può permettersi più sprechi, abbiamo
deciso di dare un contributo alla riduzione dei consumi e
alla sostenibilità ambientale, pensando alle persone più
importanti del mondo: le mamme e i loro bimbi. Le nostre
parole chiave sono: Risparmio, Riuso e Rispetto. Per noi
sono già diventate un imperativo, e crediamo che presto
lo saranno per tutti. Il nostro motto è Qualità da Mamma
a Mamma e vogliamo portarlo in ogni città italiana, anche
257
grazie al nostro franchising.»
Ma da chi è arrivata questa idea innovativa?
«Mammamamma è un’idea ispirata da due vivaci gemel-
lini, nati nel 2009 e abituati da subito a condividere ogni
cosa. Accudirli è stato un lavoro serio per mamma Silvia
e babbo Andrea, che ha permesso loro di diventare veri
esperti di articoli per l’infanzia e di come utilizzarli al me-
glio. Lo zio Enrico, esperto di marketing, comunicazione e
sostenibilità, li ha convinti a condividere la loro esperienza
con altri genitori, creando insieme il primo franchising eu-
ropeo per il noleggio di articoli per bimbi!»
Ebbene lo zio Enrico sono proprio io. Dopo parecchio la-
voro di «ripulitura interiore» e «focalizzazione» sulla mia
vera missione… il risultato è stato l’idea giusta.
E a esser sinceri anche il modello per «Babbobabbo»
sarebbe già pronto anche se non ho ancora trovato il tem-
po per realizzarlo!
Oggi Mammamamma conta decine di «PuntiMamma» in
tutta Italia, dando da lavorare a tante mamme come ha
fatto per prima con mia sorella. Con grande sopresa di chi
ancora sogna il «posto fisso» Silvia si è potuta licenziare
dal suo precedente lavoro (era impiegata in una banca
locale…) e dedicarsi a quello in cui crede veramente! Ora
è lei ad avere la responsabilità di gestire il network, con la
mia supervisione, ma posso dire fieramente che Mamma-
mamma sta già «camminando con le sue gambe».
Per maggiori informazioni – scusatemi, ma non posso esi-
mermi dal fare un po’ di promozione! – consultate il sito
www.mammamamma.it.

258

ATTIVI E PASSIVI

Le quattro tipologie descritte in precedenza rappresentano


bene il mondo del lavoro di oggi, ma c’è qualcosa di più. L’o-
biettivo di chi punta a rendersi indipendente finanziariamente
è quello di smettere di lavorare per altri, avendo sempre en-
trate sufficienti a vivere con il proprio tenore di vita attuale. È
proprio questa la domanda da cui dobbiamo partire: se oggi
voi smetteste di lavorare, per quanto tempo avreste autono-
mia economica per affrontare tutte le spese della società in
cui vivete e soddisfare il vostro attuale tenore di vita?
Chi prima e chi dopo, se non siamo stati in grado di pianifi-
care in modo corretto la nostra indipendenza finanziaria, tutti
finiremmo i nostri soldi. Ci viene incontro un secondo sche-
ma, in cui la distinzione fondamentale è quella tra «attivi» e
«passivi» (anche se parliamo sempre di soldi, non di rapporti
sessuali tra uomini…).

259

Non si tratta più di analizzare una determinata tipologia di la-


voro, ma si tratta di considerare il flusso di denaro in entrata e
in uscita, e la presenza di «attivi» e «passivi» nel proprio «stato
patrimoniale». Anche se non avete studiato ragioneria, è fon-
damentale che capiate quello di cui stiamo parlando (prima
di farvi convincere ad attivare l’ennesima carta «revolving»…
che non a caso suona più o meno come «revolver»).
Un Titolare d’Impresa potrebbe arrivare a guadagnare molto
bene, ma ciò non significherà che sarà «libero» dal lavorare,
perché la sua «ricchezza» sarà basata su quanto genera con
la sua attività, ma anche e soprattutto da quanto spende ogni
mese per vivere.
In proposito è interessante la definizione che Kiyosaki dà di
«ricchezza»: essa non misura la quantità di soldi che si hanno a
disposizione, ma la quantità di tempo che quella determinata
quantità di soldi permette di vivere soddisfacendo i propri
bisogni e le proprie necessità senza lavorare. Ad esempio, se
per vivere spendeste normalmente 1000 euro al mese e ave-
ste 3000 euro di risparmi, la vostra ricchezza è calcolabile in 3
mesi di... «libertà» finanziaria. Quindi: la ricchezza va misurata
in termini di tempo e di libertà, non di soldi. Potete già notare
che riducendo le spese (diciamo a 750 euro al mese) potreste
aumentare la durata della vostra «libertà» (in questo caso,
rifacendo i conti, fino a 4 mesi!). A leggerlo bene Kiyosaki –
260 senza saperlo – è stato tra i primi promotori del down-shifting,
prima ancora di Simone Perotti.
Per potersi dire realmente indipendenti a livello finanziario,
occorre riuscire a convertire il flusso di denaro proveniente dal
nostro lavoro (le entrate) in «attivi» (cioè in qualcosa che pro-
duca altre rendite costanti, o rendite «automatiche»). Fino a
quando le «rendite» diventino maggiori delle spese e consen-
tano di mantenere la ricchezza posseduta, cioè gli eventuali
risparmi o investimenti, senza lavorare!
Guardate la figura: è divisa in due quadranti, ciascuno dei quali
è suddiviso a sua volta in due sezioni. Nel primo quadrante ab-
biamo le entrate (reddito) derivate dal nostro lavoro e le uscite
(spese) dovute al nostro tenore di vita. Qui calcoliamo gli «uti-
li» o le «perdite» generati ogni mese (entrate meno uscite).
Ovviamente, a meno che io non sia talmente incosciente da
vivere costantemente in passivo – cioè oltre le mie possibili-
tà – e quindi sia destinato inesorabilmente al «fallimento», le
entrate dovranno essere di norma maggiori delle uscite. I soldi
risparmiati mano a mano andranno a costituire il nostro stato
patrimoniale, rappresentato dal secondo quadrante.
Lo stato patrimoniale si suddivide a sua volta in «attivi» e
«passivi». Vediamo la differenza.
Cosa fate con i soldi che avete risparmiato (che non sono
già finiti quindi nelle «uscite» quotidiane)? Spesso li spende-
te anch’essi per comprarvi altre cose e levarvi qualche sfizio
(sempre «spese»), ma a volte finite addiritture per trasformarli
in «passivi». Un’auto nuova comprata con un finanziamento «a
tasso zero» e che richiederà bollo e assicurazione più alti da
pagare, un nuovo frigorifero comprato anch’esso a «piccole
rate mensili», o addirittura una bella casetta per le vacanze al
mare, acquistata con sacrificio ipotecando di nuovo la vostra,
su cui dovrete pagare nuove tasse e bollette... Consideran- 261
do che spesso le spese più onerose (una casa, una macchina
nuova o l’ultimo aggeggio tecnologico) ci costringono a un
pagamento rateizzato e a dei costi di gestione e mantenimen-
to (quindi rate, bolli, bollette, carburante, tasse, e così via),
esse diventeranno dei «passivi», producendo ogni mese nuove
«uscite» nel quadrante di sinistra. Questo è quello che solita-
mente fa il comune cittadino nella società moderna. E questo
meccanismo lo porta sempre più a dipendere dal proprio lavo-
ro, poiché esso continua a costituire l’unico mezzo attraverso
il quale può guadagnare ogni mese i soldi che gli servono per
fare fronte a tutte le uscite (comprese le nuove rate da pagare).
Ma cosa succederebbe se, invece di spendere tutti i nostri
risparmi in acquisti che generano passivi, ne destinassimo al-
meno una parte in investimenti che generino altri soldi, e che
quindi vadano a diventare «attivi»?
Ad esempio: se al posto di acquistare una seconda casa al
mare per trascorrervi le vacanze un mese all’anno lasciandola
disabitata per i restanti undici mesi, pensassi di comprarla e
poi di affittarla, in modo da ricavarne un’entrata mensile? In
tal modo, la casa non sarebbe più un passivo, ma un attivo.
Oppure potrei comprare azioni, titoli o obbligazioni che mi
diano un rendimento annuo.
Tornando all’esempio di prima, se riuscissi a garantirmi un’en-
trata mensile pari a 1000 euro al mese grazie a una seconda
casa affittata (una volta pagato interamente il mutuo…) o al
rendimento dei miei investimenti finanziari (sempre che non
abbia scelto obbligazioni della Parmalat…), mi basterebbe
ridurre le mie spese mensili alla stessa cifra di 1000 euro per
potermi dire «libero» finanziariamente. A quel punto, quindi,
qualora gli «attivi» mi garantissero entrate tali da coprirmi
262 tutte le uscite, potrei anche decidere di smettere di lavorare.
E magari dedicare la mia intera giornata alla mia passione
(proprio come ha fatto Simone Perotti), sviluppando la quale
potrei generare anche una nuova attività.
Ecco quindi raggiunta la mia indipendenza finanziaria: come
ho già spiegato, essa non è misurabile in termini di denaro
(quanti soldi ho a disposizione), ma in termini di autonomia
(quanto tempo posso stare senza lavorare).
Concludo il capitolo con una domanda: una volta raggiunta la
vostra indipendenza finanziaria (e non è stato certo facile…),
pensate di potervi definire Liberi dal Sistema? La risposta,
ovviamente, è no. Questo è il grande abbaglio che stanno
prendendo in tanti che la rincorrono con tanta foga.
Se avrete sempre soldi a sufficienza, avrete sicuramente la
possibilità di fare più cose di chi quei soldi non li ha. Ma i
soldi non valgono sempre e ovunque e in qualsiasi situazione.
Vi ricordate l’esempio già citato nel capitolo 1 riguardo a Ve-
nerdì sull’isola sperduta di Robinson Crusoe? In tempi di crisi
o nel momento in cui cambiassero gli equilibri economici e
– per assurdo – la moneta ora circolante perdesse valore o
potere d’acquisto, lui si terrebbe le sue banane e io, con i
miei 50 euro, morirei di fame. Tenete conto che nel Sistema
occidentale un reset del valore delle monete cartacee (cioè
una loro pesante svalutazione «improvvisa») non è un evento
così raro: in passato è avvenuto ogni 30-40 anni.
Ecco perché l’indipendenza finanziaria è effimera se non è ac-
compagnata anche da un’indipendenza da tutti gli altri aspetti
che ci fanno dipendere ancora dalla società, e che ho già
trattato in questa mia guida: salute, alimentazione, energia.
Ho iniziato questo mio libro da un tema economico, spiegan-
do «Cos’è il denaro», perché il denaro è ciò a cui il Sistema
dà potere, e senza il quale saremmo esclusi dal «gioco». Ma 263
il vero cambiamento che ciascuno di noi deve intraprendere
per rendersi «Libero dal Sistema» deve partire da sé, perché
è su di sé che ognuno di noi baserà la propria vita, coi soldi
o meno…

LIBERI DALLO STATO


Stanno sempre più emergendo in rete singoli divulgatori
e movimenti d’opinione i quali sostengono che il Sistema
in sé, in particolare gli Stati nazionali e il nostro esserne
«cittadini» (e «sudditi») in senso legale e materiale, siano
frutto di un «artificio». Una sorta di raggiro che avrebbe
origine nel rapporto tra potere spirituale e potere materia-
le, tra Chiesa e Re prima, tra Chiesa e Stato poi, in cui chi
ci comanda sarebbe autorizzato a prendere «proprietà» di
noi al momento della nascita.
Ma ognuno di noi – almeno per chi ci «crede» – prima
di essere un cittadino o un suddito è innanzitutto un’a-
nima incarnata in un corpo. Il corpo di fatto non è «pro-
prietario» dell’anima, destinata a lasciarlo dopo la morte,
e tantomeno lo sono il Re o lo Stato, anche dopo aver
«imbrigliato» il corpo attraverso l’iscrizione a un’anagrafe
e averlo «identificato» attraverso l’emissione di un docu-
mento d’identità e di una tessera sanitaria. Ognuno di noi
sarebbe quindi «proprietà» dello Stato, come un bene di
proprietà di un’azienda, solo in virtù di una consuetudi-
ne (o «raggiro») che saremmo stati abituati ad accettare,
senza metterlo mai in dubbio, e che non saremmo più
abituati a riconoscere, proprio come scimmie addestrate
264
a non salire sulla scala.
Per liberarsi da questo brutto «incantesimo» basterebbe
padroneggiare stratagemmi comunicativi e «legali» coi
quali svincolarsi dal Sistema e rendersi «Sovrani individua-
li», per riconquistare quindi la «proprietà» di se stessi e
liberarsi di vincoli e obblighi (inclusi quelli di pagare debiti
e tasse…).
Ma è davvero così semplice? Può davvero bastare una
comunicazione «legale» a renderci «Liberi dal Sistema»?
Come già chiarito in questa guida, il percorso per rendersi
davvero indipendenti passa per una serie di «tappe» e
deve affrontare tutti gli aspetti della vita umana: Sapere,
Auto-Star-Bene, Alimentazione, Energia e Denaro. Nessu-
no può dirsi davvero libero se non è in grado di far fron-
te alla vita in maniera totalmente autonoma in ciascuno
di questi ambiti, a maggior ragione se intende staccarsi
«formalmente» dal Sistema, ad esempio rinunciando al
proprio status di «cittadino» e «contribuente».
Con quale coraggio potrei fronteggiare il Sistema se non
fossi già tranquillo del fatto di poterne fare davvero a me-
no, in ogni aspetto della mia vita, per me e per i miei cari?
Una domanda su tutte: potrei davvero rinunciare a essere
un «cittadino» se non sono in grado di rinunciare comple-
tamente al Sistema sanitario, che si prende cura della mia
salute e di quella dei miei cari? Sono davvero pronto a met-
tere a rischio letteralmente la mia vita nel Sistema, rinun-
ciando a dialogare con esso in ogni aspetto della mia vita
e della mia salute? Potrei davvero affrontare senza alcuna
paura le ripercussioni che questa scelta porterebbe con sé
(incluse visite a casa di gente armata in divisa…)? E con che
265
dignità potrei smettere di farmi «sfruttare» dal Sistema per
alcuni degli aspetti che non voglio accettare, e continuare
a sfruttarlo per altri che invece mi fanno comodo?
Fermo restando che non può trattarsi di una comoda scor-
ciatoia e che il cambiamento deve sempre passare per un
percorso di lavoro su di sé, di presa di consapevolezza e
di lavoro pratico per rendersi indipendenti in ogni ambito
della propria vita, esiste un caso davvero interessante di
applicazione concreta delle teorie sulla «Sovranità indivi-
duale», il primo al mondo da quello che mi risulta, ed è
quello di una bambina abruzzese.
La notizia non è passata così inosservata, dato che è ap-
parso qualche articolo sui quotidiani locali italiani. Una
coppia abruzzese ha deciso di non «sottomettere» la pro-
pria figlia allo Stato italiano attraverso una complessa pro-
cedura alternativa di iscrizione all’anagrafe, basata sull’uti-
lizzo di un «trust», un’entità giuridica tipicamente utilizzata
per la protezione di patrimoni nel mondo anglosassone. Il
15 agosto 2014 i genitori, coadiuvati dai legali di un’asso-
ciazione per la tutela dei consumatori, hanno concluso il
loro iter burocratico, e pertanto la bimba (come riportato
sul sito dell’associazione):

1) Non è stata ceduta con finzione giuridica occulta e d’uf-


ficio allo Stato italiano;
2) Non è stata codificata, ovvero i genitori hanno restituito
ufficialmente il codice fiscale attribuito d’ufficio alla picco-
la, evitando che venisse marchiata come un prodotto da
supermercato con codice a barre senza concordare con
i genitori l’uso che di detto codice lo Stato intende fare;
266 3) Non è stata vaccinata con i programmi delle vaccina-
zioni obbligatorie imposte ai neonati senza prova dell’ef-
fettiva necessità, ma solo per programmarli al consumo
di medicinali […];
4) È stata blindata in un Trust contro ogni possibile aggres-
sione personale giuridico-patrimoniale presente e futura
da creditori che non siano annessi al Trust;
5) Non è stata sottoposta ad alcuna pratica civile o reli-
giosa che ne preordini o condizioni la volontà futura da
maggiorenne ritenendo, i genitori, che ogni scelta civile
e religiosa debba essere frutto del libero esercizio della
volontà di ogni essere umano, dopo il compimento della
maggiore età, secondo il principio di «scelte libere in un
mondo libero, nel rispetto delle regole universali che
disciplinano l’equilibrata convivenza umana».
Certo è che saranno quindi i genitori della piccola «So-
vrana» a doversene prendere cura fino alla maggiore età,
dandole tutto ciò che serve, e confrontandosi ancora –
loro, come genitori – con il Sistema, e sapendo di non
poter chiedere per la loro figlia nulla al Sistema stesso, se
non «cedendo» parte della loro Sovranità. Come gesti-
ranno la sua salute senza potersi appoggiare al Sistema
sanitario, o la sua educazione senza poterla mandare alle
scuole pubbliche? E come gestiranno le sue esigenze di
muoversi e di viaggiare senza avere «documenti regola-
ri»? Sicuramente per farlo dovranno essersi già resi Liberi
dal Sistema e aver fatto quindi quel profondo percorso
interiore – come quello che anche il Q Institute promuove
– che porta a essere «Re del proprio Regno», sia in senso
spirituale e che in senso materiale.
267
Confrontarsi per primi con queste domande è una scel-
ta davvero coraggiosa e ammirevole di questi genitori,
destinata a fare storia, che ha già attratto l’attenzione
di migliaia di persone, e che potrebbe aprire la strada a
un’alternativa concreta con cui il Sistema dovrà prima o
poi confrontarsi, rinunciando al suo ruolo di «monopo-
lista».
Quale sarà infatti la scelta della piccola Sovrana al com-
pimento della maggiore età? Diventerà volontariamente
una «cittadina» e «contribuente» dello Stato italiano, o
sceglierà altre alternative, tra quelle che si saranno rese
possibili nel frattempo? Starà a tutti noi contribuire perché
lei e tutti i piccoli «Sovrani» (legalmente o meno ricono-
sciuti) possano fare in futuro questa scelta.
QUANTO SEI LIBERO DAL DENARO?

Abbiamo concluso anche la parte dedicata all’INDIPENDEN-


ZA FINANZIARIA, che si ricollega idealmente al primo capi-
tolo, intitolato «Cos’è il denaro?». Il denaro è l’aspetto più
importante della nostra vita nel Sistema, col quale ci confron-
tiamo ogni giorno, ognuno con più o meno successo e con
più o meno stress. Ma non c’è davvero modo di evitarlo, nel
mondo di oggi.

Ti invito ora a ripensare alle risposte che hai dato quando hai
compilato l’ultima parte del «Q Test», proprio in riferimento
all’indipendenza finanziaria (se non l’hai ancora fatto, sei sem-
pre in tempo per collegarti ora su www.liberidalsistema.com).

268 Quale posizione lavorativa stai ricoprendo attualmente? In


quale parte del «quadrante» potresti collocarti? Se smettessi
di lavorare domani, per quanto tempo tu e i tuoi cari potreste
pagare tutte le spese e mantenere il vostro attuale tenore di
vita, con i risparmi messi da parte finora? Sempre pensando
alle vostre uscite, quante sono destinate al pagamento di rate
o mutui per l’acquisto di beni? E pensando alle vostre entrate:
provengono solo dal lavoro o anche da altre rendite?
E infine, la domanda più importante di tutte: state lavorando
solo «per il denaro», o state investendo il tempo prezioso del-
la vostra vita per coltivare e costruire qualcosa in cui credete
veramente?
Solo rispondendo con sincerità e attenzione a queste doman-
de puoi capire quanto siete liberi dal denaro o quanto inve-
ce dipendete (e quanto rischiate di essere strumentalizzati e
«sfruttati») dal Sistema, dall’industria del debito e dallo Stato.
Banche, finanziarie, carte di credito, grandi magazzini, ven-
ditori di case, di auto e di ogni altro bene di consumo sono
costantemente impegnati nel convincerci a contrarre nuovi
debiti, a comprare nuovi oggetti (molti dei quali inefficienti,
inutili e programmati per durare poco) pagandoli «in piccole
rate mensili».
E a questi si aggiunge lo Stato, impegnato anch’esso a spre-
merci adeguatamente per far fede ai suoi impegni di «ripaga-
re il debito pubblico», tenendoci tanto «vivi» da non smettere
di sostenerlo, ma anche abbastanza «imbrigliati» da non pen-
sare di liberarcene o di cambiarlo. Sapete benissimo il per-
ché di tutto questo, se avete letto con attenzione il capitolo
«Cos’è il denaro?» (e se ancora non vi è chiaro, rileggetelo…).
Molti di noi sono nauseati, frustrati e traumatizzati dalle di-
namiche del denaro, tanto da farne oggetto di litigi e lotte
quotidiane, pensando che sia solo «la legge del più furbo» a 269
regolarne la distribuzione nel Sistema, e arrivando al punto
di allontanarlo da sé come qualcosa di sporco, come se fosse
un vero strumento del demonio.
Ma non è così. Il denaro in sé è solo un pezzo di carta con un
valore simbolico che noi gli diamo per scelta, ed è di per sé
un mezzo «neutro». Marco Fincati lo definisce efficacemente
come «amore puro allo stato grezzo», mettendo in evidenza
come il denaro abbia una sua forza pura, che viene plasmata
ogni volta da «chi» lo usa, e in base a «come» lo usa.
Sono i fini con cui è utilizzato a renderlo «buono» o «cattivo»,
a trasformare l’energia che porta con sé in odio per chi lo
ha utilizzato e per «come lo ha fatto», o invece in amore e in
qualcosa di buono e utile per la realizzazione di sé e per gli
altri.
Le dinamiche del denaro nella vita di ognuno di noi rappre-
sentano un’efficace metafora del percorso che ci divide dal
raggiungimento dei nostri scopi. Percorrendolo si impara ad
esempio che le cose non arrivano per caso, ma solo quando
ce le si merita. E non arrivano solo per quello che facciamo,
ma prima di tutto per quello che «siamo».
Anche il denaro non arriva per caso nella vita di ognuno, e
non arriva solo in base a quanto siamo stati bravi a scuola e
a quanto abbiamo fatto bella figura col capo. E ancora meno
sperando di essere fortunati con lotterie e «gratta e vinci».
E mai per caso il denaro si allontana da noi.
Il denaro «vero» arriva e rimane (senza produrre «effetti col-
laterali») solo a chi ha la forza di ripulire dentro di sé tutto ciò
che glielo tiene lontano, e di focalizzare i propri obiettivi su
qualcosa che porti davvero beneficio a se stesso e agli altri,
come singole persone e come abitanti del pianeta Terra. Cioè
270 arriva solo a chi sente nel profondo di meritarselo davvero.
E siccome nessuno di noi può capacitarsi del fatto che un gio-
vanotto imberbe possa guadagnare miliardi di dollari con un si-
to Internet, non vuol dire che questo non valga anche per lui…
Quindi per tutti quelli che sono arrivati a confrontarsi col Si-
stema e a pensare di volerlo abbandonare perché nella loro
vita coi soldi «sono sempre stati un disastro» e si sono trovati
a pronunciare frasi del tipo «non ho più nulla da perdere»…
Ebbene io dico: chiedetevi cosa vi è mancato di capire sul de-
naro, perché avete combinato solo disastri e perché è sempre
stato lontano da voi. Credete davvero di meritarlo?
Solo risolvendo prima in noi stessi questi dilemmi interiori è
possibile uscire vincenti nel nostro confronto col Sistema, per
poi rendercene indipendenti e sperare di cambiarlo. Altrimen-
ti saremo solo dei perdenti che abbandonano il gioco quando
non hanno più carte da giocare, e finiremo per diventare dei
perdenti anche nella nuova vita che intraprenderemo.
E se proprio col denaro non volete avere nulla a che fare…
ricordatevi allora che dovete rimboccarvi le maniche e lavora-
re concretamente sugli altri aspetti dell’indipendenza, quelli
già trattati nei capitoli precedenti. Dovete imparare a «fare»
e dimostrare davvero agli altri che «sapete fare».
Fortunatamente le persone non sono mosse solo dal denaro.
La fiducia e la generosità sono alla base dei rapporti con i
nostri cari, e proprio a loro sono sicuro che ognuno di noi
darebbe una parte di quello che ha se fossero davvero in
difficoltà, senza pensarci due volte, a prescindere da quello
che potrebbero pagare in cambio.
Ebbene sono proprio loro, i vostri cari, le persone cui siete
legati da un rapporto di fiducia e generosità, sono loro quelli
che divideranno con voi i loro soldi quando vi troverete ad 271
averne bisogno. Creando relazioni forti intorno a sé, rapporti
leali, sinceri e profondi, non serve essere indipendenti in tut-
to, ma solo condividere i propri talenti con gli altri, trovando
un sufficiente equilibrio e una efficace complementarietà.
A essere sincero io ad esempio non so affatto coltivare l’orto
(direi che in questo sarei un vero disastro…), attività in cui
invece sono bravissimi mio padre e anche la mia compagna.
Io me la cavo meglio con altro e sono certo che se mai aves-
si bisogno di cibo perché il supermercato è vuoto a causa
di una «improvvisa» crisi petrolifera, loro sicuramente mi so-
sterranno, come io sosterrò loro se lo Stato non gli pagasse
«improvvisamente» lo stipendio o la pensione.
Quante persone intorno a voi sosterreste in caso di necessità,
e quante sosterrebbero voi?
Quando la risposta a entrambe le domande sarà «TUTTI», il
Sistema sarà definitivamente cambiato!
Per arrivare a questo risultato il mio consiglio è di nuovo quel-
lo di investire sulla propria consapevolezza e sulla parte più
importante del lavoro per raggiungere l’indipendenza vera,
che è il Lavoro su di Sé: è quindi fondamentale prendere con-
sapevolezza dei propri problemi, stress e traumi, in particolare
legati al denaro, imparando anche a individuarne le vere cause
e le migliori soluzioni. E per far questo come già sapete è utile
il Corso Base «Metodo RQI® – Autotest e Comunicazione
con l’Inconscio». Per rimuovere invece direttamente traumi
e paure, blocchi interiori e credenze «sabotanti», quello che
può essere d’aiuto è frequentare il Corso Avanzato «RQI®
Spirito – Inconscio e Consapevolezza», che raccoglie alcu-
ne delle più potenti tecniche tra quelle insegnate da Marco
272 Fincati, che più mi sono state utili nel mio personale percorso
verso la serenità interiore, e come a me a tanti altri. Queste
tecniche vengono ulteriormente sviluppate e potenziate nel
«Master RQI® – Maestri dell’Auto-Star-Bene», dove si arriva
a poter analizzare e risolvere qualsiasi genere di blocco o
trauma interiore, anche di altri, analizzando inoltre i rispettivi
livelli di consapevolezza e scegliendo come lavorare di volta
in volta (da soli o insieme). Con Marco abbiamo infine creato
anche il Corso Avanzato «RQI® Business – Metodo RQI® ap-
plicato a Denaro, Lavoro e Impresa», per insegnare come
utilizzare le più innovative tecnologie interiori per risolvere
conflitti legati al denaro, alla carriera, agli investimenti e al
lavoro in generale, con strumenti pratici di analisi e di lavoro
su di sé, utili a rendersi davvero capaci (e quindi meritarci
davvero) di raggiungere qualsiasi obiettivo nella vita, anche i
più ambiziosi, come quelli che anche noi stiamo perseguendo!
8 CONCLUSIONI

«Il Paradiso è l’insieme dei nostri Cuori.»


The Psychedelic Furs (da Heaven, 1984)

LA LOTTA TRA IL BENE E IL MALE

Chi di voi non conosce il romanzo di J. R. R. Tolkien Il Signore 273


degli Anelli ?
È un racconto fantasy che narra una storia di lotta tra due
fazioni: quella del male, guidata da Sauron, capo degli
«orchi», e quella del bene, guidata da Gandalf, il mago buono
che guida la missione per salvare i Popoli Liberi della Terra
di Mezzo (un luogo immaginario, paradiso di pace, dove è
ambientato il racconto).
Il romanzo di Tolkien apparve per la prima volta nel 1954,
ma ancora oggi seduce milioni di lettori di ogni età e cultura,
anche grazie alla fortunata trasposizione cinematografica di
Peter Jackson. Ma perché, cosa avrà mai di così speciale? Per-
ché sicuramente il Signore degli Anelli è una metafora della
nostra società, in cui tutti ci riconosciamo.
Così come Gandalf e Sauron – Bene e Male – si fronteggia-
no nel romanzo, anche la nostra società oggi si trova in un
momento di conflittualità tra fazioni e ideologie opposte, tra
lobby di potere che dettano le proprie condizioni e cittadini
che reclamano i propri diritti calpestati. E così anche noi sia-
mo chiamati a intraprendere la nostra lotta per riaffermare il
bene comune ed evitare che lo sfruttamento, le ingiustizie
e gli interessi di una minoranza abbiano la meglio sui diritti
umani. Dobbiamo cominciare a rimboccarci le maniche e a
dare qualche calcio negli stinchi ai cattivoni. E per farlo c’è
bisogno di armi concrete.
E qual è lo strumento più importante che oggi possiamo uti-
lizzare nella nostra società e che gioca un ruolo fondamentale
nel conflitto tra il bene e il male?
La Compagnia dell’Anello combatteva con archi, frecce e ma-
gia. E noi, cosa abbiamo a nostra disposizione, oggi? Una, tra
tutte, è l’arma più potente: il denaro! Pensateci un attimo:
274 quanti morti e feriti ha provocato nella storia, e chi di noi non
ne è stato traumatizzato in qualche modo, proprio come fosse
stato usato come un’arma contro di noi. Eppure il denaro in sé
è uno strumento neutro, non è buono o cattivo. Ciò dipende
da come viene utilizzato.
I soldi sono il mezzo più efficace, perché smuovono le situa-
zioni, originano progetti e iniziative e determinano le possi-
bilità di un qualche accadimento.
Quindi il primo passo che possiamo fare per iniziare la nostra
battaglia per la conquista di un mondo migliore è ricordarci
che, ogni volta che utilizziamo dei soldi per acquistare un
prodotto o un servizio, stiamo dando potere, stiamo dando
un’arma in più, a colui che stiamo pagando. Perciò, ogni volta
che fate un acquisto, domandatevi prima chi state finanzian-
do con i vostri soldi e cosa ci farà quella persona, quell’ente,
quell’azienda. Quale fazione state sostenendo? Quella dei
buoni o quella dei cattivi?
State mantenendo una scimmia rossa, un sostenitore del Si-
stema, o qualcuno che il Sistema lo vuole cambiare, rinnovare,
migliorare?
Per ogni euro che spendete, chiedetevi a chi lo state dando
e dove andrà a finire. State sostenendo Gandalf o Sauron? O
nemmeno lo sapete?
E fate attenzione anche a un’altra cosa: quei soldi in vostro
possesso, che qualcuno vi ha dato in cambio di un certo ser-
vizio, ve li siete guadagnati perché avete fatto qualcosa di
buono per la società, per il bene comune, oppure sono frutto
di un lavoro che alimenta il Sistema e i suoi meccanismi?
Se lavorate per una banca o una multinazionale farmaceutica,
se è Sauron a pagarvi lo stipendio, non è sufficiente adottare un
bimbo africano a distanza per farvi sentire la coscienza a posto.
Dobbiamo innanzitutto acquisire consapevolezza di quello
che facciamo. Quando farete questa scelta, prima perderete 275
molte delle nostre false sicurezze, ma poi sarete sicuri che
ogni vostra azione andrà nella direzione giusta.

COME CAMBIARE IL MONDO

In questo libro l’ho scritto più volte, quindi so che ora an-
che voi lo avrete ben chiaro: se vogliamo cambiare il mondo,
dobbiamo partire da noi. «Cambiare il mondo, partendo da
sé» è il motto del Q Institute. Utopico? Idealista? Arrogante?
Non a patto che si sappia la strada da percorrere, dal «sé» al
«mondo».
Quando un’azienda fa un business plan ha ben chiara la posi-
zione che riveste in quel momento, il punto di partenza, le sue
possibilità e gli obiettivi che vuole raggiungere, cioè il punto
di arrivo, e così dobbiamo fare noi.
Qual è il nostro punto di partenza? Dove vogliamo arrivare,
qual è il nostro scopo? Che tappe intermedie ci sono tra noi
(la situazione che viviamo ora) e il nostro obiettivo (la situazio-
ne che vogliamo raggiungere)? Come possiamo arrivare alla
meta, passo dopo passo? Come possiamo arrivare a cambiare
il mondo partendo da noi?
Sono domande come queste che fanno la differenza tra chi
rimane idealista e chi invece si rimbocca le maniche e si dà
da fare.
A riguardo io, Marco Fincati e il Q Institute abbiamo il nostro
progetto (che abbiamo chiamato Q Project: la «Q» e tutto
ciò che rappresenta non potevano certo mancare). E siamo
consapevoli degli «step» da superare.
Prima c’è l’individuo. Il primo passo è cambiare me stesso, la
mia consapevolezza e il mio atteggiamento verso il mondo.
Solo cominciando a cambiare me stesso potrò influenzare
276 in maniera positiva le persone intorno a me, partendo dal-
la mia famiglia, dal nucleo in cui vivo, per poi espandere il
mio esempio e la mia consapevolezza anche oltre le mura
domestiche: nell’ambiente di lavoro, nel condominio in cui
vivo, nel quartiere in cui abito, quindi aiutando altri a farlo.
Pensate, ad esempio, se qualcuno che abita nel vostro pa-
lazzo cominciasse per primo a farvi notare come sia possibile
risparmiare denaro e rispettare l’ambiente semplicemente
utilizzando fonti di energia rinnovabili per l’illuminazione e
il riscaldamento della propria abitazione. Non avreste anche
voi il desiderio di imitarlo? Io me ne rendo conto ogni gior-
no, sfrecciando nella mia auto elettrica. In tanti mi osservano
ammirati. Quello di cui hanno bisogno è un esempio, per
prendere coraggio e «crederci» in prima persona. E io glielo
sto dando. Il buon esempio è contagioso, e ognuno di noi
può essere il primo a darlo.
Me n Famiglia n Comunità n Città n Nazione nMondo

Dall’individuo, alla famiglia, alla comunità locale, il passo non


è così lungo. È giunto il momento di provare a organizzarci
in nuove modalità, per ricreare relazioni più sane e più pro-
fonde tra noi, sperimentando nuove forme di convivenza e
di organizzazione locale (dai gruppi di acquisto solidali, agli
orti condivisi, a forme di co-housing, fino a veri e propri eco-
villaggi autosufficienti). Senza dimenticare che, per costruire
il «Paradiso» intorno a noi, dobbiamo avere gli strumenti di
lavoro interiore per costruirlo prima «dentro di noi», per «sta-
re bene», non solo fisicamente, e per essere in pace con noi
stessi, prima che con gli altri.
Poi sarà naturale estendere il cambiamento da una piccola
comunità a una comunità più grande, a una intera città, fino
ad arrivare a uno stato e quindi a un’intera nazione. E una
277
nazione potrà poi dare l’esempio al resto del mondo. Da sé
al mondo, questo è il percorso.
Anche il Q Institute sta facendo la sua parte. Ha infatti posto la
sua sede a San Marino, un piccolo stato autonomo, col suo par-
lamento, i suoi diplomatici internazionali, il suo territorio e le
sue leggi, che vanta di essere la prima repubblica indipendente
del mondo, nonché «antica terra della libertà»… e conta meno
di 30 000 abitanti, cioè come una città di medie dimensioni. Ma
è pur sempre una nazione! Io e Fincati siamo tipi impazienti, e
abbiamo pensato così di accorciare un po’ le tappe…

IL MIGLIOR INVESTIMENTO

Essendo in prima persona un imprenditore e occupandomi


di formazione e di denaro, la domanda che mi viene spes-
so posta è: qual è il miglior investimento di questi tempi,
per rendersi indipendenti il prima possibile? Immobili, azioni,
aziende, terreni, oro, diamanti?
Ebbene la risposta più sincera e profonda che mi sento di dare
a questa domanda probabilmente non è quella che vi aspet-
tate. In un momento di «crisi», e cioè di grandi opportunità di
cambiamento, come quello in cui stiamo vivendo, ciò in cui
vale davvero la pena investire non è confinabile in un deter-
minato settore «finanziario» o d’affari. Ciò su cui vale la pena
investire oggi è prima di tutto se stessi. Non è una battuta.
Investire su se stessi vuol dire investire sulla propria consapevo-
lezza, sulla propria salute e sulla qualità delle proprie convinzio-
ni e delle proprie conoscenze, e quindi sulla propria autonomia
e sulla propria libertà di giudizio e di pensiero. Quindi sulla pro-
pria indipendenza, come avete fatto voi leggendo questo libro.
278 E anche sulla qualità delle relazioni con le persone da cui sie-
te circondati e da cui dipendete per vivere e per procurarvi
tutto ciò che vi manca per essere indipendenti. Ricordatevi
che prima ancora che vicini di casa, commercianti, impiegati
o funzionari, quelli con cui avete a che fare sono prima di
tutto persone. E le persone sono ancora capaci di ricevere e
donare fiducia, dimostrandolo con gesti concreti, quando il
rapporto che si instaura con loro è sincero e profondo, al di
là del valore del denaro e dei vincoli del Sistema.
E come altro è possibile investire su di Sé?
La risposta per me è davvero semplice: investendo sulla pro-
pria formazione. Perché solo chi l’ha già fatta prima di voi può
indicarvi la strada migliore per raggiungere un determinato
obiettivo.
E ci sono solo due modi per convincere chi ha già raggiunto
una meta a condividere il suo tempo prezioso con voi:
– il primo è offrirgli qualcosa in cambio (ad esempio, ricono-
scendo il valore delle sue conoscenze o fornendogli in cambio
altro di suo interesse);
– il secondo è costruire una relazione di fiducia con lui (mi-
gliorando così la qualità delle persone con cui passate il
vostro tempo).
Nella mia esperienza personale la migliore modalità con cui
acquisire conoscenze specifiche e di qualità, e conoscere per-
sone con cui instaurare dei rapporti di fiducia, è stata la parte-
cipazione a corsi ed eventi di formazione sulle tematiche più
diverse, e il tempo speso in soggiorni di studio e di ricerca
nelle più svariate parti del mondo.
Certo questo non è sempre facile e alla portata di tutti (viag-
giare e spostarsi per partecipare a corsi di formazione o per
fare viaggi di studio). Proprio per questo, e per togliere un
alibi anche ai più pigri e ai meno pronti a «muoversi», insieme 279

a Marco Fincati e al Q Institute abbiamo ideato il Percorso Q


Life, di cui trovi tutte le informazioni in Appendice, che può
essere affrontato in aula o attraverso comodi Corsi Multime-
diali, quindi anche da casa, e che rappresenta il frutto più
maturo del nostro percorso di ricerca, di condivisione e di
formazione, che abbiamo deciso di proporre a tutti.
E che sia proprio questo il Percorso che sceglierai per Cam-
biare il Mondo Partendo da Te, o ugualmente se sceglierai
altre strade, ciò che conta è averti fornito uno stimolo con-
creto ad agire, a fare la tua parte, a prendere la tua goccia nel
becco, e a essere tra quelli che i nostri nipoti ringrazieranno
per aver fatto la scelta giusta.

Grazie di Cuore.
9 APPENDICE
IL PERCORSO Q LIFE

«There is no freedom for free,


No liberation without labour.»
[«Non c’è libertà che si ottenga gratuitamente,
né liberazione senza che ci si lavori sodo.»]
Yogi Bhajan
280
Caro lettore,
di nuovo grazie per essere arrivato fin qui. Se hai letto tut-
to il libro, significa che lo hai ritenuto interessante e spero
che queste nozioni possano tornarti utili fin da ora, nella tua
quotidianità. E se ti è piaciuto questo libro ti chiedo di non
lasciarlo a prendere polvere su uno scaffale, regalalo o pre-
stalo a quante più persone, perché anche loro lo leggano e
lo sfruttino fino a consumarlo!
Se sei arrivato fin qui, significa inoltre che anche tu hai il de-
siderio di cambiare il mondo.
Da dove partire? Da te stesso, certo. Ma da quale aspetto
della tua vita? Da quello della salute o da quello alimentare?
Dall’aspetto economico o da quello energetico? Il Q Test ti
ha aiutato a capirlo, ma non c’è dubbio che è prima di tutto
importante imparare a «stare bene con se stessi», perché sen-
za questa capacità ogni altro obiettivo raggiunto sarà inutile
per renderci felici.
Dopo che per anni ci siamo occupati separatamente di ricerca
e di divulgazione in ambiti diversi, ora è il Q Institute, l’istituto
che ho fondato insieme a Marco Fincati, ad occuparsi di rac-
cogliere e organizzare le conoscenze, tecniche e tecnologie
indispensabili a renderci Liberi dal Sistema, rendendole frui-
bili a tutti in un percorso logico e graduale. Il nostro lavoro è
quello di offrire a ognuno tutto – e dico davvero tutto – ciò
che serve per stare bene, con se stesso e coi propri cari, e
per affrontare il cambiamento in ogni aspetto della vita, fino
a cambiarla completamente e in meglio, come ho fatto io per
primo negli ultimi anni, per poi poter estendere questo cam-
biamento al mondo intero. E senza doverci mettere 12 anni
a testa – il tempo che ci ha messo Perotti a realizzare il suo
cambio di rotta – ma con tempi ridotti anche di dieci volte… 281
Tutte le conoscenze e gli strumenti che proponiamo sono
frutto di anni di ricerca personale e applicazioni «sul campo»,
oltre che dell’esperienza già fatta con migliaia di corsisti, pro-
venienti da tutto il mondo, che hanno ottenuto risultati strabi-
lianti nelle loro vite grazie alle conoscenze acquisite coi Corsi.
Non a caso la diffusione di ciò che facciamo, e in particolare
del Metodo RQI®, è stata incredibilmente veloce in Italia, e
sta ora iniziando anche all’estero, proprio perché offriamo
strumenti pratici e alla portata di tutti, che permettono a
chiunque di migliorare e di rendersi più indipendente e felice.
Il Percorso di formazione che proponiamo è in costante evolu-
zione e aggiornamento. Esso parte dal Corso «Q Life – Liberi
dal Sistema» e dal Corso Base «Metodo RQI® – Autotest e
Comunicazione con l’Inconscio», che a nostro parere rappre-
sentano gli strumenti di base che ogni abitante del pianeta
Terra dovrebbe avere. Poi si sviluppa – per chi ne sentirà l’e-
sigenza – in una serie di Corsi Avanzati che riguardano in pri-
mis l’Auto-Star-Bene (RQI® Materia, Energia, Spirito e Master
RQI®), poi l’alimentazione e l’energia (RQI® Ambiente) e infine
il denaro (RQI® Business).
Non è uno scherzo se vi dico che in questi corsi insegnia-
mo letteralmente a fare «magie» in tutti gli ambiti della vita
umana (come testimoniato ormai da migliaia di persone che
li hanno già frequentati): ma solo a chi è pronto a «crederci»,
provando in prima persona, senza pregiudizi, e senza farsi
dissuadere dalle solite scimmie rosse, impegnate a far passare
anche me e Marco per i soliti «ciarlatani»!
Ora ecco una sintesi dei contenuti dei corsi, che – ci tengo a
ricordare – sono tutti coperti dalla garanzia «100% soddisfatti o
rimborsati» (per non lasciare «alibi» neanche ai più diffidenti…).
282
IL PERCORSO Q-LIFE

1) SAPERE (Indipendenza Culturale):


– Corso «Q Life – Liberi dal Sistema®»

2) AUTO-STAR-BENE (Indipendenza nella Salute):


– Corso Base «Metodo RQI®»
– Corsi Avanzati «RQI® Materia, Energia, Spirito»
– Master RQI®

3) INDIPENDENZA ALIMENTARE e 4) INDIPENDENZA


ENERGETICA:
– Corso Avanzato «RQI® Ambiente»

5) INDIPENDENZA FINANZIARIA:
– Corso Avanzato «RQI® Business»
1) SAPERE

Corso «Q Life – Liberi dal Sistema®»


Il Corso di 3 giorni tenuto da me e Marco Fincati raccoglie
oltre 13 ore di contenuti, disponibili anche in versione Mul-
timediale, che riprendono e ampliano i contenuti di questo
libro. Ecco un estratto dei temi trattati:
n Indipendenza Culturale
Capirai come il Sistema ci controlla e quali conoscenze posso-
no renderci subito veramente liberi e indipendenti. Avrai tutte
le informazioni per cambiare profondamente le convinzioni
che la gran parte dei cittadini ha ricavato da anni di «program-
mazione culturale».
n «Cos’è il Denaro?»
Assisterai alla spiegazione più semplice e completa mai realiz-
zata dei segreti del funzionamento del Denaro e del Sistema 283
Bancario, e capirai come cambiarlo per renderci da subito
indipendenti e felici, per superare le disparità e i problemi
economici, e per riportare prosperità e sostenibilità nella no-
stra intera Società.
n Auto-Star-Bene
Avrai le prove concrete che il nostro Sistema sanitario non
è sempre al servizio della Salute, ma a chi risponde davvero
e perché. Avrai esempi concreti di tecniche e scoperte che
possono risolvere da subito ogni problema di salute e di come
sia possibile con semplici tecniche ottenere autoguarigioni
«miracolose» per ogni genere di malattia o disturbo.
n Indipendenza Alimentare
Capirai come il Sistema ci «nutre» ogni giorno e cosa è
fondamentale cambiare nelle nostre abitudini per cambiare
noi stessi ed evitare i gravi effetti collaterali che sta produ-
cendo.
n Indipendenza Energetica
Scoprirai la verità sul mondo dell’Energia e sulla nostra di-
pendenza da essa. Conoscerai la storia segreta delle auto
elettriche e della Free Energy (energia infinita gratuita) e di
altre scoperte scientifiche nascoste, frutto di anni di ricerca
e analisi. Avrai finalmente chiarezza sull’immensa quantità di
informazioni fuorvianti e inaffidabili presenti sulla Rete.
n Indipendenza Finanziaria
Capirai come e perché sono diventate vecchie e superate le
modalità di guadagno e di raggiungimento dell’indipenden-
za proposte dai più grandi formatori italiani e internazionali,
e scoprirai quali sono le tecniche da adottare nel terzo mil-
lennio.
284
2) AUTO-STAR-BENE

Corso Base «Metodo RQI® – Autotest e Comunicazione con


l’Inconscio»
Il Corso Base Metodo RQI® si svolge in due giorni di aula, con
oltre 10 ore di contenuti disponibili anche in versione Multi-
mediale. I contenuti del corso sono così strutturati:
» Introduzione teorica al Metodo RQI® e al Q Project.
» Primo Passo: individua le vere vause dei problemi.
» Secondo Passo: chiedi al tuo inconscio le migliori soluzioni
per risolverli.
» Introduzione alle 3 Soluzioni: RQI® Materia, Energia e Spirito.
Abbinati al Corso Base sono disponibili Bonus di grande va-
lore.
Corsi Avanzati Metodo RQI®
Successivamente al Corso Base, i Corsi Avanzati RQI® Materia,
Energia e Spirito, permettono di approfondire l’applicazione
su di sé e sugli altri delle 3 Soluzioni. I Corsi sono disponibili
in Aula o in versione Multimediale da fruire da casa, e so-
no in costante aggiornamento grazie alla continua pratica e
sperimentazione del Metodo da parte del Q Institute e degli
stessi corsisti.
Anche abbinati ai Corsi Avanzati vengono offerti Bonus di
grande valore, tra cui i kit completi con tutte le tecnologie e
gli accessori necessari ad applicare le tecniche apprese, su di
sé, sui propri cari o nella propria attività professionale.
Ecco i Corsi Avanzati disponibili:

Corso Avanzato «RQI ® Materia ed Energia – Acqua Infor-


mazionale ®, Alimentazione Vibrazionale ® e Biotecnologie 285
Olistiche »
®

» Per apprendere come applicare il Metodo RQI ® all’acqua e


all’alimentazione, conoscere le più innovative biotecnologie
olistiche e come applicarle efficacemente a sé e agli altri.
» Per applicare il Metodo RQI ® ai 5 Elementi della Medicina
Tradizionale Cinese, individuare i meridiani squilibrati comu-
nicando direttamente con la mente inconscia e riequilibrarli
in maniera efficace ed efficiente, per raggiungere il perfetto
equilibrio.

Corso Avanzato «RQI ® Spirito – Inconscio e Consapevolezza»


» Per individuare in brevissimo tempo le credenze inconsce
autosabotanti e i pensieri ansiogeni.
» Per ripulire (deprogrammare) in maniera efficace e perma-
nente tutte le credenze e i pensieri ansiogeni (le vere cause
di stress), attraverso il Metodo RQI® applicato all’inconscio.
» Per imparare a «spegnere i pensieri» e a utilizzare la vera
consapevolezza che ne consegue per favorire l’autoguarigio-
ne di sé e degli altri.
» Per applicare il Metodo RQI® alla Legge di Attrazione.

Master RQI ® – Maestri dell’Auto-Star-Bene


» Per apprendere le tecniche più potenti del Metodo RQI®, per
diventare veri «Maestri di Sé» (e quindi «Re del proprio Re-
gno») ed essere di esempio e di aiuto per gli altri. È un’espe-
rienza unica in cui i partecipanti avranno l’occasione di scoprire
e praticare il Metodo insieme e di vivere esperienze comuni.

3) INDIPENDENZA ALIMENTARE e 4) INDIPENDENZA


286 ENERGETICA

Corso Avanzato «RQI® Ambiente – Agricoltura Vibrazionale


e Biotecnologie Olistiche Ambientali»
» Per applicare il Metodo RQI® all’autoproduzione alimentare
e al risparmio energetico.
» Per apprendere come risolvere efficaciemente i problemi di
piante e animali, comunicando direttamente con il loro campo
morfogenetico.
» Per apprendere come applicare le più innovative tecniche
e Biotecnologie Olistiche® per ottimizzare i consumi di casa e
auto, per purificare l’ambiente e l’acqua, e per migliorare l’au-
toproduzione alimentare (orti, orti urbani e orti sul terrazzo).
» Per apprendere come migliorare la germinazione dei semi
e come ridurre l’uso di fertilizzanti e pesticidi con le Biotec-
nologie Olistiche®.
5) INDIPENDENZA FINANZIARIA

Corso Avanzato «RQI® Business – Denaro, Lavoro e Impresa»


» Per applicare il Metodo RQI® alla crescita professionale, al
benessere economico, all’indipendenza finanziaria, alla carrie-
ra, alle attività autonome, imprenditoriali, di team e di network.
» Per rimuovere blocchi, paure e credenze limitanti legate a
lavoro, denaro e ricchezza.
» Per sapere cosa ci guiderà a una «nuova ricchezza» e dove
investire davvero per attrarre denaro e prosperità nella pro-
pria vita.
» Per scoprire come applicare i segreti dei grandi maestri
interiori al Lavoro, al Denaro e alla Ricchezza.

I Corsi Avanzati RQI® sono disponibili in aula o in versione


multimediale, visionabile su computer o tablet, per permet- 287
tere a tutti di conoscere e imparare anche qualora sia im-
possibile frequentare un corso in aula. I kit e gli accessori
necessari per applicare le soluzioni vengono in questo caso
spediti direttamente a casa.
Per maggiori informazioni vai su www.metodorqi.com e clicca
su «CORSI» o su «CALENDARIO».

I CORSI AVRANNO PRESTO INGRESSO LIBERO


Ogni giorno si spendono – o meglio si «sprecano» – miliar-
di di euro in oggetti programmati per essere buttati via,
in prodotti nati unicamente per soddisfare falsi bisogni,
in servizi pensati per renderci dipendenti (per non dire
«schiavi»), che consumano e inquinano il Pianeta, conti-
nuando a donare inconsapevolmente risorse alle già po-
tenti armate di Sauron…
Eppure in molti – più che altro in Italia – mi continuano
a chiedere: perché tu e Marco non offrite liberamente le
vostre conoscenze a tutti?
A parte che chi fa questa domanda dimostra che di quelle
conoscenze avrebbe proprio bisogno… Se foste voi stessi
ad aver lavorato anni per selezionare e organizzare con
fatica e impegno le conoscenze capaci davvero di per-
mettere a chiunque di stare bene e di rendersi libero, non
la giudichereste una domanda fatta con troppa «legge-
rezza»? O quantomeno frutto di una scarsa conoscenza
del lavoro duro che serve fare su di sé per raggiungere la
consapevolezza che porta ad ottenere certi risultati.
Avere qualcosa «gratuitamente» non facilita certo il per-
288
corso. Anzi per certi versi lo complica, perché richiede
ancora più sensibilità nel comprendere il vero valore di
quello che ci viene offerto. Pensate alla quantità di conte-
nuti oggi presente su Internet, all’immenso «rumore» che
producono e alla difficoltà di selezionare le conoscenze
che davvero ci servono.
Chi non vuole prendersi il rischio – nel caso dei corsi Q
Institute coperti dalla garanzia «100% soddisfatti o rim-
borsati» – di investire una parte del suo tempo e delle
sue risorse per acquisire le conoscenze che servono per
cambiare la propria vita, forse non è ancora pronto o non
è davvero interessato a farlo. E avendole «gratuitamente»
non saprebbe apprezzarle, o addirittura ne farebbe un
cattivo uso.
Inoltre riflettete un attimo: il libro che state leggendo non
vale forse il prezzo che avete pagato? Se non lo vale…
chiedete subito i soldi indietro! In realtà spero valga molto
di più… Ma per fare anni di ricerca, organizzare e scrivere
tutto questo, e poi distribuire il libro e promuoverlo… so-
no servite molte risorse. E lo stesso vale per i Corsi in aula
e i contenuti online, che vorremmo siano fruiti da quante
più persone possibile, investendo in promozione almeno
quanto possono permettersi di fare i «cattivi» delle schiere
di Sauron.
E dove è più giusto cercare queste risorse? Facendo una
colletta tra gli amici o chiedendo soldi a papà? O magari
cercando sovvenzioni pubbliche, chiedendo aiuto proprio
al Sistema? O con il sostegno di qualche fondazione crea-
ta dai magnati dell’industria? O peggio ancora chiedendo
un finanziamento in banca? Credo abbia più senso che sia
289
direttamente chi beneficia di queste conoscenze a soste-
nerne il costo (soddisfatti o rimborsati…).
E perché non dare libero accesso ai contenuti e chiedere
un’offerta libera (altra domanda che mi viene fatta spes-
so)? Perché per farlo occorrerebbe essere certi che tutti
quelli a cui ci si rivolge abbiano una consapevolezza tale
da poter riconoscere il vero valore di quello che gli viene
dato. Altrimenti sarebbe come dare loro un milione di eu-
ro stampando nuova moneta e aspettarsi che lo spendano
esattamente dove serve al pianeta…
Purtroppo è una scommessa ancora rischiosa, anche se
per chi fa il mio lavoro (cioè «cambiare il mondo») sarebbe
molto bello non doversi più preoccupare di raccogliere
risorse… Sarebbe davvero il massimo vedersele donare da
chi ha già raggiunto un’indipendenza tale da non sentirsi
legato ai suoi risparmi più che alla voglia di cambiare il
mondo!
Mi auguro di cuore che succeda molto presto, e quindi
di poter offrire tutti i corsi e i contenuti Q Life senza do-
ver chiedere prima denaro. Perché vorrebbe dire che io
e i miei cari avremo già raggiunto la piena indipendenza,
ma soprattutto che tutti vogliono davvero cambiare, sono
pronti a riconoscere il valore delle conoscenze che servo-
no… e quindi se le meritano davvero!

290
RISORSE UTILI

Per compilare il Q Test – Test di Indipendenza dal Sistema vai su:


www.liberidalsistema.com
(riceverai anche interessanti video gratuiti, tratti dai Corsi Q Institute)

Per informazioni sull’offerta completa Q Institute:


www.qinstitute.sm

Per acquistare il libro di Marco Fincati, RQI – Il Segreto dell’Auto-


Star-Bene:
www.metodorqi.com/libro

Per maggiori informazioni sul Metodo RQI®, sui Corsi in Aula e sui 291

Corsi Multimediali:
www.metodorqi.com

Canale YouTube Ufficiale:


www.youtube.com/metodorqi

Pagina Facebook Ufficiale:


www.facebook.com/riequilibrioquanticointegrato

Blog ufficiale:
www.metodorqi.blogspot.it

Codice Sconto di 13 Euro


Gentile lettore, per premiare il tuo interesse Q Institute ti offre
un codice sconto del valore di 13 euro, da utilizzare per l’acqui-
sto di uno qualsiasi tra i nostri Corsi Multimediali o Corsi in Aula.
Sarà sufficiente inserirlo al momento del pagamento.
Codice: 0222BOOK2

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