Sei sulla pagina 1di 7

Canto 19

Il canto diciannovesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella terza


bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i simoniaci; siamo nel mattino del
9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26
marzo 1300.

Incipit
« Canto XIX, nel quale sgrida contra li simoniachi in persona di
Simone Mago, che fu al tempo di san Pietro e di santo Paulo, e
contra tutti coloro che simonia seguitano, e qui pone le pene che
sono concedute a coloro che seguitano il sopradetto vizio, e
dinomaci entro papa Niccola de li Orsini di Roma perché seguitò
simonia; e pone de la terza bolgia de l’inferno. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)
Vi è una struttura lineare divisa in sequenze. Il canto si svolge in un clima
di sdegno. Nonostante Niccolò III sia sempre presente vede come vero
protagonista Dante. Tema: potere temporale della chiesa. Alla fine tutte
queste idee confluiranno nel De Monarchia. Luogo: pietra livida dove si
aprono pozzi circolari. Qui vi sono i simoniaci a testa in giu'. Da questo pozzo
escono i piedi dell'ultimo dannato i quali sono lambiti dal fuoco. vv. 1-
6:apostrofe vv. 7-30: descrizione terza bolgia e pena vv. 31-87: incontro
con Niccolò III vv. 88-117:invettiva contro Papi simoniaci vv. 118-133: si
parla del passaggio alla bolgia successiva.

I simoniaci - versi 1-30


Il canto inizia con un'apostrofe rivolta a Simon Mago, personaggio
degli Atti degli Apostoli che intendeva acquistare con il denaro la facoltà
di fare prodigi da San Pietro e dal cui nome deriva il termine simonia.
In questo canto Dante mostra infatti la bolgia dove sono puniti i simoniaci,
all'interno dell'ottavo cerchio dell'Inferno, dedicato ai fraudolenti. Questa
bolgia è introdotta in manieranon canonica rispetto alle altre: invece di
descrivere l'aspetto generale del luogo per poi scegliere un peccatore, il
quale a sua volta indichi poi i nomi di altri dannati, qui Dante inizia ex
abrupto con un'invettiva piuttosto solenne che annuncia il carattere del
canto, dove il poeta esporrà le sue idee in merito alla situazione politica
globale, dominata dalle lotte tra papato e impero che erano alla base di
tutti i problemi del mondo allora attuale.
« O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate,


or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state. »
(vv. 1-6)
Il suonare la tromba richiama sia i banditori medievali, che richiamavano
l'attenzione, sia il passo dell'Apocalisse di Giovanni, dove gli angeli suonano
la tromba per annunciare il Giudizio Universale.
Dante inizia solo dopo a parlare di dove si trova: già nella bolgia successiva,
sulla parte dello "scoglio" (il ponticello che scavalca la bolgia) che sta sopra
la mezzeria del fosso ("Già eravamo, a la seguente tomba, montati de lo
scoglio in quella parte ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.", vv. 7-9).
Quindi il poeta, dopo un'invocazione alla sapienza divina che con giustizia
amministra sia il mondo dei vivi che le punizioni nell'Inferno, inizia a
tracciare l'aspetto della nuova fossa: piena di buchi (gli ricordano quelli
del bel San Giovanni a Firenze, dove si battezza e dove Dante ebbe
occasione di scheggiarne uno quando si trattò di salvare un ragazzo che vi
stava affogando) dai quali escono le gambe dei peccatori fino alle cosce (il
"grosso"), con le piante dei piedi accese da fiammelle che sembravano quelle
che lambiscono la superficie ("la buccia") delle cose unte; per il supplizio
questi dannati scalciano furiosamente ("per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe", vv. 26-27, cioè così forte
scuotevano i ginocchi che avrebbero spezzato qualsiasi tipo di corda,
comprese le fortissime "ritorte" di vimini e le "strambe" di fibre vegetali).

Papa Niccolò III - vv. 31-87


Dante è subito attratto da una fossa dove il dannato scalcia più degli altri
ed ha una fiamma più rossa degli altri; Virgilio si offre di accompagnarcelo
subito scendendo con lui nella fossa: si scoprirà presto che quella è la fossa
riservata nientemeno che ai papi. Con precisione Dante ci racconta la sua
risposta e la discesa verso sinistra ("discendemmo a mano stanca / là giù
nel fondo foracchiato e arto", vv. 41-42). Arrivati alla fossa a Dante sembra
che l'uomo pianga "con la zanca", cioè con le gambe ("cianca" è un termine
dialettale ancora in uso).
Dante allora si rivolge gentilmente all'anima capovolta:
« "O qual che se' che 'l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa", comincia' io a dir, "se puoi, fa
motto". »
(vv. 46-47)
Cioè "Oh tale che stai sottosopra, anima triste che stai conficcata come un
palo, se puoi parla." La successiva descrizione ha dei toni surreali: Dante
dice che stava come il frate che confessi un assassino (all'epoca la parola
aveva valore di sicario, e in molte città essi erano condannati a morte
tramite propagginazione, cioè appesi capovolti in una buca che veniva
gradualmente riempita fino al soffocamento), che viene richiamato
dall'assassino stesso per ritardare il momento della morte; sapendo che il
dannato è un papa è piuttosto curioso lo scambio di ruoli tra confessato e
confessore che qui il poeta immagina.
Il peccatore allora inizia a cantilenare con sorpresa "Se' tu già costì ritto,
/ se' tu già costì ritto, Bonifazio?", ripetendo due volte la domanda e
aggiungendo che forse si è sbagliato lo scritto, cioè il libro del futuro che i
dannati possono comprendere, che gli prediceva la sua venuta tra molti anni.
Continua apostrofando che forse egli è già stanco (sazio) di straziare la
bella donna che aveva sposato con l'inganno? Dante a queste parole rimane
di sasso perché non le capisce:
« Tal mi fec'io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch'è lor risposto, quasi scornati, e risponder
non sanno. »
(vv. 58-60)
La spiegazione della situazione viene data solo qualche terzina più tardi,
dopo che Virgilio ha intimato a Dante ammutolito dal dubbio di rispondere
"Non son colui, non son colui che credi", quasi canzonando la ripetizione della
domanda del dannato.
Dante sta parlando con Niccolò III, papa simoniaco che attende la venuta
del suo successore, il tanto odiato Bonifacio VIII. In quella bolgia infatti
vige la regola che stiano in superficie solo gli ultimi arrivati, che poi vengono
fatti sprofondare nelle viscere rocciose dopo l'arrivo di un nuovo dannato.
Con questo stratagemma Dante può collocare all'Inferno anche i papi non
ancora morti, in particolare il tanto odiatoBonifacio VIII che egli vedeva
come uno dei personaggi causa delle disgrazie dei suoi tempi. La bella donna
alla quale allude Niccolò III altro non è che la Chiesa latina, in una metafora
frequente all'epoca del matrimonio tra pontefice e Santa Romana Chiesa.
La nota del"tòrre con inganno" cioè del "prendere" ovvero sposare con
l'inganno si riferisce alla contestata elezione di Bonifacio, il quale fece
prima abdicare il suo predecessore Celestino V, autore del gran
rifiuto (forse citato da Dante in Inf. III, 60).
Inizialmente Niccolò III (del quale non sappiamo ancora l'identità dal
testo) parla presentandosi: (parafrasi) "Se sei così curioso di sapere chi io
sia, tanto che hai anche sceso la "ripa", sappi che io fui un papa (vestito
del gran manto), e fui un Orsini (figlio dell'orsa), che con cupidigia cercai di
far avanzare i miei nipoti (orsatti, cioè orsacchiotti), mettendo lassù averi
in borsa e condannando me, qui giù, a essere imborsato" (vv. 67-72).
Continua poi il papa esponendo il meccanismo del tormento in quella bolgia e
spiegando che il suo successore lo spingerà giù (Bonifacio VIII morirà solo
nel 1303, mentre Dante immagina il viaggio nella primavera del 1300).
Continua profetizzando che il suo seguace non starà a farsi "cuocere i piedi"
quanto c'è stato lui, perché dopo di lui verrà un papa anche peggiore, "di più
laida opra". Questo terzo papa è Clemente V, francese (Dante fa intuire
che verrà da ponente), che farà come quel Giasone (quello
dei Maccabei spiega Dante, non quello mitologico incontrato nel canto
precedente tra i seduttori) che comprò dal suo re (Antioco IV Epifane) la
dignità di sommo sacerdote, così egli farà dal suo Re di Francia (Filippo il
Bello). La citazione al papa che diede di fatto inizio alla cattività
avignonese non giungendo mai a Roma e stanziandosi nel sud della Francia, è
stata ed è tuttora fonte di grandi controversie riguardo alla datazione
dell'Inferno.
La cantica viene generalmente datata come iniziata nel biennio 1304-
1305 o, secondo altre tesi più accreditate, il periodo 1306-1307, con i fatti
citati che non vanno oltre il 1309. La prima citazione pervenutaci di un passo
della Divina Commedia risale al 1317 dal retro di copertina di una registro
bolognese, mentre i manoscritti più antichi che possediamo risalgono tutti
agli anni dopo il 1330, tra l'altro si tratta di copie di Giovanni Boccaccio che
a sua volta le ricopiò non dal manoscritto originale. In questi versi Dante
dimostra di essere a conoscenza del fatto che il successore di Bonifacio
VIII starà al soglio pontificio meno di Bonifacio stesso (che governò la
Chiesa per nove anni). Clemente V regnò fino al 1314 e questa citazione è in
contrasto con tutte le teorie di datazione generalmente accettate (a
quell'epoca si ritiene che Dante stesse già scrivendo il Purgatorio). La
versione attualmente più accreditata è che la citazione riguardo alla durata
del pontificato di Clemente sia un ritocco eseguito dal poeta in epoca
successiva alla stesura della cantica. Non è d'altronde molto accreditato
dai commentatori il fatto che Dante si fosse solo fidato del suo buonsenso
valutando le condizioni di salute del papa in carica. A favore di quest'ultima
ipotesi bisogna però considerare che affinché Bonifacio VIII stesse a farsi
"cuocere i piedi" meno a lungo di Niccolò III, che rimase "imborsato" per
ventitré anni (dalla sua morte nel 1280 a quella di Bonifacio VIII nel 1303),
Clemente V avrebbe dovuto morire prima del 1326, previsione che Dante
poteva ben arrischiare viste le precarie condizioni di salute di Clemente
stesso.

Invettiva contro i papi simoniaci - vv. 88-133


A questo punto Dante si sente di rispondere al Papa. Pur temendo di essere
troppo temerario (folle), avvia un discorso (che poi Virgilio, simbolo della
ragione, benedirà con il suo assenso): (parafrasi)
"Dimmi dunque, quanti soldi chiese Nostro Signore da San Pietro prima che
gli desse le chiavi? Solo un 'Vienimi dietro'; a loro volta né Pietro né gli altri
apostoli chiesero alcun oro o argento a Mattia apostolo quando gli offrirono
il posto dell'anima malvagia (di Giuda Iscariota); Perciò ti sta bene che tu
venga ben punito; per non parlare dei soldi ingiustamente rubati, che ti
misero contro Carlo l'ardito. Se parlo così è per reverenza delle somme
chiavi di pontefice che tenesti in vita, perché dovrei usare parole anche
peggiori; la vostra avarizia (anche qui intesa come avidità) rattrista il
mondo, schiaccia i buoni ed eleva i malvagi. Proprio di voi parlava
profetizzando l'evangelista Giovanni quando nell'Apocalisse citava colei che
siede sopra le acque 'puttaneggiando con i re' (la Chiesa, che siede su tutti
i popoli rappresentati da tutti i fiumi della Terra, anche se nell'Apocalisse
i teologi hanno indicato rappresentare Roma)" (vv. 90-108).
Dante prosegue e passa ad interpretare liberamente le figure
dell'Apocalisse, dove compare un drago rosso con sette testee dieci corna,
identificato dai primi esegeti biblici con Raab o con il Leviatan, ma più
frequentemente con il Diavolo, comandante delle forze del male, con il quale
la donna si fortificò finché piacque al marito, cioè al papa stesso. Grave è
l'accusa della terzina seguente: Dante dice che ora i Papi adorano un Dio
d'oro e d'argento (chiaro è il riferimento all'episodio biblico del Vitello
d'oro), che non è nemmeno uno, ma sono cento, come nel
diabolico paganesimo.
Infine l'orazione si conclude con un'invettiva contro Costantino I:
« "Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote che da te prese il primo ricco
patre! »
(vv. 115-117)
Parafrasando, Dante rimprovera a Costantino non già la sua conversione, ma
la cosiddetta donazione di Costantino, un documento falso (ma la sua non-
autenticità fu dimostrata come tale solo nel XV secolo
dall'umanista Lorenzo Valla, sebbene già nei secoli prima molti dubbi
fossero stati avanzati a tal proposito) che legittimava il potere
temporale del papa. Secondo questo documento, che Dante biasimò
duramente nel De Monarchia, l'imperatore, prima di trasferire la capitale
a Costantinopoli, fece dono a papa Silvestro I della città di Roma, alienando
di fatto un pezzo di Impero a un esponente religioso. Forti di tale
documento i papi, soprattutto nel medioevo, avallarono gli scontri contro
l'Imperatore che erano alla base di gran parte dei problemi politici del
medioevo europeo.
Terminata l'orazione, che il papa dannato ha ascoltato in silenzio
contorcendo talvolta le gambe con maggiore energia per la rabbia o per il
rimorso, Dante è rincuorato dall'espressione accondiscendente di Virgilio,
il quale, come simbolo della Ragione, ha gradito la professione di "verità"
del suo discepolo. Il maestro solleva quindi Dante lo riporta sul sentiero
sopra il fossato. Qui "un altro vallon" viene a mostrarsi al poeta.

Contrapasso
Il contrappasso di questi dannati è abbastanza chiaro: poiché essi
preferirono guardare alle cose terrene piuttosto che a quelle celesti, ora
sono conficcati a testa in giù nel suolo. La santità mancata è sottolineata
anche dai due rimandi che indicano l'uso di tali fosse: per i battesimi e per
punire gli "assassini" (due cose, fra l'altro, collegate la prima alla nascita,
la seconda alla morte). Inoltre, com'essi badarono solo ad 'insaccare'
denaro, nella terra sono ora 'insaccati'.
La presenza di fiammelle sulle piante dei piedi si potrebbe spiegare in
particolare per i papi: al contrario degli apostoli che durante
laPentecoste ricevettero il fuoco dello Spirito Santo sulla testa, essi lo
calpestarono. La pena sarebbe poi stata applicata per analogia anche agli
altri simoniaci, un po' come la pena della pioggia di fuoco ritagliata
sui sodomiti veniva estesa a tutti i violenti contro Dio e natura. La visione
del fuoco e la discesa graduale verso l'abisso sono figure presenti anche in
alcune visioni di religiosi medievali, come Alberico di Settefrati o San Pier
Damiani. Assomiglia sia alla pena degli epicurei (Inf. X: sepolti in tombe
infuocate), sia a quella degli avari in Purgatorio, inchiodati al suolo con la
faccia rivolta verso il basso.

Dante e i papi del suo tempo


Durante la sua vita Dante (1265 - 1321) conobbe 14 pontefici. Il suo giudizio
sugli eredi di Pietro è spesso duro e si riflette nelle scene in cui questi sono
citati nelle sue opere.
1. Papa Clemente IV (1265-1268) citato nel Purgatorio (III, 124-126)
come colui che mise il pastor di Cosenza a caccia di Manfredi.
2. Beato Gregorio X (1271-1276) non citato in alcuna opera
3. Beato Innocenzo V (1276) non citato in alcuna opera (breve
pontificato)
4. Papa Adriano V (1276) citato nel Purgatorio (XIX) tra gli avari, anche
se la sua citazione è dovuta a un equivoco nel quale Dante incorse.
5. Papa Giovanni XXI (1276-1277) citato in Paradiso (XII, 134-135), ma
solo in quanto "Pietro Ispano", cioè come filosofo prima che
diventasse papa (il suo pontificato fu comunque breve).
6. Papa Niccolò III (1277-1280) in questo canto tra i simoniaci
7. Papa Martino IV (1281-1285) citato nel Purgatorio (XXIV, 20-24)
tra i golosi
8. Papa Onorio IV (1285-1287) non citato in alcuna opera (breve
pontificato)
9. Papa Niccolò IV (1288-1292) non citato in alcuna opera
10. San Celestino V (1294) probabilmente citato all'Inferno (III, 60)
tra i pusillanimi come colui che fece "il gran rifiuto".
11. Papa Bonifacio VIII (1294-1303) in questo canto tra i simoniaci (e
qua e là molti altri riferimenti)
12. Beato Benedetto XI (1303-1304) solo un'allusione nelle Epistole (XI,
25)
13. Papa Clemente V (1305-1314) in questo canto tra i simoniaci
14. Papa Giovanni XXII (1316-1334) citato in Paradiso (XVIII, 130-136
e XXVII, 58-60) ma in entrambi i casi in maniera negativa, come colui
che guastava la "vigna" per la quale erano morti Pietro e Paolo.

Potrebbero piacerti anche