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Canto 15

Il canto quindicesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nel terzo


girone del settimo cerchio, ove sono puniti i violenti contro Dio, natura e
arte; siamo all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri
commentatori del 26 marzo 1300.

Incipit
« Canto XV, ove tratta di quello medesimo girone e di quello
medesimo cerchio; e qui sono puniti coloro che fanno forza ne la
deitade, spregiando natura e sua bontade, sì come sono li
soddomiti. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)

I sodomiti - versi 1-21


Dante e Virgilio stanno camminando su uno dei due argini di pietra del
fiume Flegetonte, unica zona del girone a non essere tormentata dalle
fiamme del terzo girone del VII cerchio, quello dei violenti contro Dio e
contro la natura. I vapori che il fiume sprigiona infatti spengono le
fiammelle. Per descrivere gli argini Dante li paragona a quelli
deifiamminghi tra Wissant e Bruges, italianizzati come Guizzante e
Bruggia (non a caso forse due nomi che evocano il concetto di fiamma), e a
quelli che i padovani hanno per difendere le loro città ("ville") e castelli
dalle piene del Brenta quando dalla Carinzia ("Carentana", intesa però come
tutte le Alpi Carniche) si sciolgono le nevi per il caldo; e il poeta sottolinea
che però gli argini infernali non sono grandi.
Dopo aver visto un bestemmiatore nel canto precedente (Capaneo), questo
e il prossimo canto sono dedicati ai sodomiti cioè coloro che ebbero
rapporti "contro natura". Essi corrono nudi senza sosta sul "sabbione"
infuocato e sono i peccatori più numerosi del girone (Inf. XIV, v.25). Essi
però sono anche i meno empi perché Dante dice che il contatto con il suolo
infuocato è la condizione più dolorosa perché corrispondente a colpe più
gravi (dei bestemmiatori e degli usurai, rispettivamente sdraiati e seduti).
La sodomia era proverbialmente diffusa a Firenze (basti pensare che
in tedesco il termine che indica i sodomiti è Florenzen e il verbo zu
florenzen significa "sodomizzare") e in questo girone Dante incontrerà per
due volte dei concittadini con cui avrà un colloquio. In ogni caso il "peccato"
va considerato nella più ampia delle concezioni: non soltanto rapporti
omosessuali, ma anche eterosessuali, e non vi era distinzione tra chi vi
prendeva parte attivamente o passivamente (in questo senso anche una
donna, se accondiscendente, poteva essere accusata di sodomia).
Comunque durante tutti e tre i canti dedicati a questo girone non si fa mai
menzione del peccato di sodomia: per sapere di cosa siano condannati questi
peccatori si deve ritornare all'XI canto dove, durante la generale
spiegazione dell'Inferno, si parla al verso 50 di "Soddoma".
Nel frattempo Dante e Virgilio si sono incamminati sugli argini lasciandosi
indietro la selva dei suicidi (Dante dice che se anche si fosse girato non
l'avrebbe potuta più scorgere, sia per l'aria tenebrosa dell'inferno che per
il "fummo", il denso vapore). Le anime che vanno a schiera guardano i due
poeti, alti sull'argine, come si guarda la luna nuova (questo però non
concorda con i versetti 18-19 "ci riguardava come suol da sera / guardare
uno altro sotto nuova luna;", dove l'oggetto del guardare non è "nuova luna",
ma "altro"), cioè stringendo gli occhi per la poca luce, come anche - seconda
similitudine - fa il vecchio sarto per infilare la cruna dell'ago.
Un'interpretazione più rispettosa del testo parte dall'osservazione che ai
tempi di Dante, quando non esisteva l'illuminazione pubblica, nelle vie delle
città ci si vedeva solo nelle nottate di luna luminosa. Quando invece si era
in fase di novilunio ("sotto nuova luna", v. 19), con la luna che non si scorgeva
affatto o appariva come una sottilissima falce all'orizzonte, per vederci era
necessario aguzzare lo sguardo stringendo le palpebre ("ciglia", v. 20), come
faceva il vecchio sarto presbite per far passare il filo nella cruna
dell'ago: "ci riguardava come suol da sera / guardare uno altro sotto nuova
luna; / e sì ver' noi aguzzavan le ciglia / come 'l vecchio sartor fa ne la
cruna." (vv.18-21).

Brunetto Latini - vv. 22-60


Mentre Dante viene osservato a questo modo, ecco che un dannato lo
riconosce e che con molta familiarità lo prende per un lembo dell'abito e
grida "Qual maraviglia!" (v. 24). Il poeta, nonostante l'aspetto orribilmente
bruciacchiato del dannato, lo riconosce in Brunetto Latini, e gli si rivolge
con la confidenza tipica di chi è in familiarità: "Siete voi qui, ser Brunetto?".
"Ser" è comunque un segno di deferenza, dovuto tra l'altro al fatto che il
Latini era un notaio e che fu per Dante un maestro. Molti hanno sottolineato
come quel "qui" indichi una certa sorpresa di Dante che forse fa finta di
non essere a conoscenza del peccato di Brunetto, ma nasconde anche una
punta di sdegno, indicando un "proprio qui".
Egli, che fu maestro e fonte di sapienza per Dante, gli chiede ora
nell'Inferno se non gli dispiaccia fare insieme un po' di strada, lasciando
per un po' la sua schiera, del che il poeta pellegrino si dice ben felice. "Ven
preco; / e se volete che con voi m'asseggia / faròl, se piace a costui che vo
seco (a Virgilio)". Brunetto però si affretta allora a spiegare che i dannati
come lui non possono mai fermarsi, pena l'immobilità per cento anni sulla
sabbia infuocata, quindi è meglio che i due camminino a fianco, prima che il
Latini si riunisca alla sua schiera "che va piangendo i suoi etterni danni".
Dante allora capisce e procede tenendo il capo chino "com'uom che
reverente vada", guardandosi bene dallo scendere nella landa colpita dalla
pioggia infuocata.
Brunetto inizia chiedendo cosa ci faccia da vivo nel regno dei morti e chi sia
la sua guida. Dante risponde parlando di come si sia smarrito "per una selva
oscura" prima che la sua età fosse piena (parafrasando il famoso "nel mezzo
del cammin di nostra vita", cioè dice prima di compiere i trentacinque anni,
essendo il viaggio immaginario iniziato nel periodo pasquale del 1300 ed
essendo il poeta nato sotto il segno dei Gemelli, tra maggio e giugno), appena
un giorno prima. Lì Virgilio gli apparve e lo condusse in questo viaggio prima
di riportarlo a casa ("a ca").
Brunetto annuisce a Dante e gli dice che se avesse saputo che il suo compito
era così importante, prima di morire lo avrebbe aiutato con i suoi
insegnamenti "dato t'avrei a l'opera mia conforto". In pratica sta lodandolo
come discepolo eccezionale e lo sta esortando a perseverare nella via della
virtù.

Brunetto parla di Firenze e profetizza l'esilio a Dante - vv. 61-99


Brunetto Latini passa poi a parlare di Firenze introducendo la profezia
dell'esilio di Dante, già introdotta nel Canto X con Farinata degli Uberti.
Egli dice che Dante avrà nemica la parte "fiesolana" di Firenze, quella che,
citando la leggenda sull'antica Florentia raccontata da Giovanni Villani, si
mischiò alla "virtudiosa" popolazione romana e che con la sua indole rude e
aspra ("del monte e del macigno") è causa dei continui conflitti interni alla
città.
Brunetto poi inizia a citare una serie di esempi di sapore "proverbiale" che
permeano questo canto e che sono uno degli esempi di come
Dante modificasse lo stile della sua poesia in funzione dei personaggi dei
quali si parla. Brunetto, quale autore di quella sorta di
enciclopedia medioevale del Livre du trésor è qui caratterizzato quindi da
un linguaggio motteggiante e ricco di riferimenti dotti. Un altro esempio
evidentissimo di queste scelte linguistiche si era avuto nel canto di Pier
della Vigna (Inf. XIII), mentre per esempio nelle Malebolge il poeta
sceglierà il linguaggio più basso e popolaresco possibile.
Brunetto dice quindi che non conviene che un dolce fico cresca tra le
aspre sorbe (un frutto molto aspro usato per alimentare animali e
commestibile per gli uomini solo dopo una lunga maturazione) e che questi
fiorentini-fiesolani sono per vecchia fama orbi (ciechi) riferendosi o al
fatto che furono beffati da Totila (che si fece accogliere come amico e che
poi saccheggiò la città) o alla leggenda delle colonne
di porfido del Battistero (donate dai pisani, che si ritenevano miracolose
perché facevano apparire il volto dei traditori, ma a causa della raschiatura
da parte dei pisani divennero inutilizzabili, per cui si diceva "pisani traditori
e fiorentini ciechi"). Essi sono inoltre, parafrasando un'analoga invettiva
di Ciacco (Inf. VI, 74), avari (intesi come "avidi"), invidiosi e superbi, per
cui Brunetto invita Dante a stare alla larga da loro ("dai lor costumi fa che
tu ti forbi"). Inoltre continua profetizzando che per la sua fama entrambe
le parti di Firenze avranno fame di lui: si può intendere che entrambe
vorranno "sbranarlo" o che entrambe lo vorrebbero dalla loro parte (in
genere i critici moderni preferiscono la prima interpretazione, la seconda è
più legata agli antichi commentatori), ma il "caprone" dovrà stare lontano
dall'erba (altra frase a mo' di proverbio).
Le "bestie fiesolane" si mangino tra di loro (Dante usa la parola "strame"
riferita al pasto degli animali) "e non tocchin la pianta, / s'alcuna sorge
ancor in lor letame, / in cui riviva la sementa santa / di que' Roman che vi
rimaser", cioè lascino stare quello che di buone germoglia dal loro letame,
quale frutto della "santa" semenza del popolo Romano che decise di
rimanere dopo che la città era ormai un "nido di malizia".
Dante allora si appresta a dichiarare tutta la sua riconoscenza e il suo
affetto verso Brunetto:
«"Se fosse tutto pieno il mio
dimando",
“ "Se potessi esprimere un desiderio",
rispuos'io lui, "voi non sareste ancora
de l'umana natura posto in bando;
gli risposi, "voi sareste ancora vivo; poiché
nella mia memoria sta impressa - e mi dà
ché 'n la mente m'è fitta, e or
coraggio - la vostra cara e buona immagine
m'accora,
paterna di quando nel mondo dei vivi
la cara e buona imagine paterna
mi insegnavate come l'uomo
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
si rende eterno attraverso la sua opera:
e finché vivo si vedrà certamente
m'insegnavate come l'uom s'etterna:
nelle mie parole future quanto ciò mi sia
e quant'io l'abbia in grado, mentr'io
caro".
vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.
Seguita Dante spiegando che ciò che gli è stato detto e, come gli ha
vaticinato Farinata, sarà Beatrice a spiegarglielo più avanti.
Spiega poi che dell'esilio era già venuto a conoscenza (da Farinata degli
Uberti, nel canto X, appunto) e che accetta quello che la Fortuna ha
previsto per lui, "però (perciò) giri la Fortuna la sua rota / come le piace, e
'l villan la marra" (altra espressione che arieggia come un proverbio,
significante forse, da una passo del Convivio, come può capitare a un
contadino di trovare un tesoro con la sua marra).
Chiude la scena Virgilio, anche lui motteggiante, che sentenzia "Bene
ascolta chi la nota", ovvero, secondo l'interpretazione più accettata, è un
buon ascoltatore chi annota quello che ascolta, cioè chi si ricorda quello che
sente.

Chierici e letterati - vv. 100-124


Dante allora, continuando a camminare accanto a Brunetto, gli chiede di
mostrargli alcuni dei suoi compagni di pena più noti e importanti. Brunetto,
che specifica come non possa dirli tutti per questioni di tempo, dice che si
tratta di letterati e uomini di Chiesa (almeno quelli della sua schiera), tutti
macchiatisi dello stesso "lercio" peccato: Prisciano di Cesarea, grammatico
di Costantinopoli, Francesco d'Accorso, letterato bolognese e colui che fu
trasferito dal "servo dei servi" dall'Arno al Bacchiglione, dove vi morì: un
rebus per indicare il vescovo di Firenze Andrea de' Mozzi, trasferito da
Firenze a Vicenza (vengono citati i fiumi delle due città) da Bonifacio
VIII (che si era dato l'appellativo pontificale di "servo dei servi"). In
questo caso il nome viene taciuto perché probabilmente lo scandalo del
vescovo "snaturato" fu così grande che anche un'allusione del genere doveva
sembrare ben esplicita. Dante ebbe esperienza diretta di questo clamore
in gioventù, e solo verso il vescovo egli usa parole sprezzanti (se hai "tal
tigna brama" di vederlo... "lasciò li mal protesi nervi") rispetto a tutti gli
altri sodomiti.
Brunetto vorrebbe dire di più, ma la sua permanenza e il suo parlare ("'l
venire e 'l sermone") non possono essere più lunghi, perché già arriva
un'altra schiera in corsa che alza fumo sul sabbione, con i quali non deve
mescolarsi. Gli raccomanda il suo Tesoro (il suo libro), "nel qual io vivo
ancora" e niente più chiede. Si gira e scappa via, come quelli che a
Verona corrono per il palio dietro a un drappo verde; e pareva uno di quelli
che vincono, non un lento perdente. Con questa similitudine si chiude il
canto. Nel prossimo Dante incontrerà altri tre fiorentini della schiera che
si sta avvicinando.

Contrapasso
I dannati sono costretti a camminare continuamente, senza alcuna sosta su
sabbia infuocata e a subire sui loro corpi la violenza provocata dalla pioggia
di fuoco che si abbatte su di loro. La legge del contrappasso è in parte per
analogia e in parte per antitesi. Per analogia in quanto loro subiscono
violenza sui loro corpi così come loro hanno fatto in vita contro i loro simili
e contro la natura; questo tipo di violenza ora la subiscono infatti su tutto
il corpo: a cominciare dalla pianta dei piedi (a causa della sabbia infuocata)
fino al capo (a causa della pioggia di fuoco).
Mentre per antitesi possiamo vedere l'ulteriore pena che i dannati
subiscono ogni volta che si fermano; essi devono rimanere sdraiati per cento
anni. Dante mette in relazione questa sosta e la gloria terrena e dimostra
come questa non sia nulla rispetto all'eternità.

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