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Canto 12

Il canto dodicesimo dell' Inferno di Dante Alighieri si svolge nel primo


girone del settimo cerchio, sul fiume Flegetonte, ove sono puniti
iviolenti contro il prossimo; siamo all'alba del 9 aprile 1300 (Sabato Santo),
o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.

Incipit
« Canto XII, ove tratta del discendimento nel settimo cerchio
d’inferno, e de le pene di quelli che fecero forza in persona de’
tiranni, e qui tratta di Minotauro e del fiume del sangue, e come
per uno centauro furono scorti e guidati sicuri oltre il fiume. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)

La frana e il Minotauro - versi 1-45


Dante e Virgilio si erano fermati un attimo prima di entrare nel fosso del
basso Inferno, giusto il tempo per abituarsi all'afrore e spiegare la
struttura dell'Inferno. All'inizio di questo canto essi riprendono il cammino
e si affacciano su una frana, che a Dante ricorda un'analoga "ruina" che
"l'Adice percosse" nei pressi di Trento, che in genere si indica con iLavini
di Marco, vicino a Rovereto, riprendendo un passo di Alberto Magno (De
meteoris III, 6) che probabilmente fece da ispirazione per Dante,
piuttosto che un'esperienza diretta nei luoghi, improbabile per i primi anni
d'esilio durante i quali venne scritto l'Inferno. Il poeta nota come, per
quanto scosceso, sia possibile scenderlo.
Anticipato qualche verso prima (parafrasando, "venimmo all'orlo di una
frana dove vedemmo qualcosa che nessuno vorrebbe vedere - ch'ogne vista
ne sarebbe schiva" v. 3), il poeta descrive ora "l'infamia di Creta" che sta
sulla punta del precipizio ("la rotta lacca" v. 11) e che fu concepita in una
falsa vacca. Si tratta del leggendario Minotauro, del quale Dante riprende
alcuni tratti della mitologia classica, in particolare attingendo dall'Ars
amatoria di Ovidio: Pasifae, moglie di Minosse, per una maledizione
di Poseidone si era innamorata di un toro e pur di farsi possedere si fece
costruire una giumenta di legno entro la quale essa si nascose concependo il
mostro del Minotauro; rinchiuso nel celebrelabirinto di Cnosso, fu ucciso
da Teseo (Dante lo chiama "Duca d'Atene" in quanto figlio della regina
ateniese), con l'aiuto di Arianna.
Qui il mostro è descritto come macinato dalla sua stessa ira, che lo porta a
mordersi così come facevano gli iracondi nello Stige. Virgilio lo attizza
rivolgendogli parole beffarde: "Che credi che ci sia il Duca d'Atene?
Spostati, che qui non c'entra tua sorella, lui (Dante) viene solo per vedere
le pene" (parafrasi vv. 16-21). La bestia grottescamente si infuria ancora di
più, ma come i tori che saltellano dopo aver ricevuto un colpo mortale, esso
non può che sbandare qua e là senza senso, mentre Virgilio suggerisce di
sgattaiolare via.
Dalla scarna descrizione dantesca e dall'indeterminatezza della sua fonte
(Ovidio) si pensa che Dante lo immaginasse al contrario della figura che
conosciamo, cioè con un corpo bovino sormontato da una testa (o un busto)
umano.
L'episodio della bestialità irrazionale del Minotauro (la sua "matta
bestialitade" citata nel canto precedente) viene messo in contrasto con
quello successivo dell'incontro con i Centauri.
Dante non manca di sottolineare come la sua figura pesante di uomo vivo sia
la sola a spostare sassi e pietruzze che rotolano giù. Virgilio allora racconta
di come questa frana non c'era quando egli scese l'Inferno per la prima
volta. Si riferisce a quanto raccontato nel Canto IX, quando descrisse come
la maga Erichto lo costrinse a andare a richiamare un'anima nel cerchio più
basso dell'Inferno per evocare l'anima di un traditore dal cerchio di Giuda.
L'episodio è maturato da Lucano, ma il coinvolgimento di Virgilio è uno
stratagemma puramente dantesco, per spiegare la conoscenza dell'Inferno
da parte di Virgilio-guida. Se il viaggio immaginario di Virgilio si svolse poco
dopo la sua morte (V c. IX v 25), ossia poco dopo il 19 a.C., egli non poteva
aver visto la frana, rovinata quando ci fu il terremoto che fece tremare
l'inferno dopo la morte di Cristo (33 d.C.). Virgilio dice che lo sentì poco
prima che "colui che la gran preda levò a Dite dal cerchio superno", cioè che
Cristo (mai nominato nell'Inferno) scendesse al Limbo per portare in cielo
i patriarchi dell'Antico Testamento, e che la scossa gli fece pensare che
l'amore universale si ritrasformasse in caos, citando le dottrine filosofiche
di Empedocle.

Il Flegetonte e i Centauri - vv. 46 - 99


Virgilio indica allora a Dante la "riviera di sangue" dove sono bolliti i violenti
verso il prossimo. Dante ha un'esclamazione di rammarico verso come l'ira
e la cupidigia (qui non intese come incontinenze) spingano ad atti di violenza
che vengono così puniti per l'eternità. Descrive poi la fossa del letto del
fiume che occupa tutta la piana e che forma un arco, essendo l'inferno fatto
da cerchi concentrici, e scorge tra la fine della frana e la riva del fiume una
schiera di centauri armati di frecce, che vanno a caccia come erano soliti
farlo nel mondo dei vivi.
I due poeti sono a loro volta visti dai centauri, che si avvicinano ai due, archi
alla mano, e uno di essi (Nesso) intima loro da lontano: "A quale pena venite
voi che scendete il sentiero? Ditelo subito sennò vi colpisco con le frecce!".
Virgilio risponde pronto che vuol parlare sì, ma solo con Chirone, il più savio
dei tre, rimproverando a Nesso l'impulsività ("mal fu la voglia tua sì tosta"
v. 66), alludendo al suo innamorarsi con subitanea violenza di Deianira,
moglie di Ercole, e al suo tentativo di rapirla per cui fu ucciso da
quest'ultimo con una freccia avvelenata.
Mentre i due poeti si appressano a loro, Virgilio spiega a Dante chi sono i
tre centauri che si sono allontanati dalla schiera: Nesso, che morì
per Deianira ma si vendicò da solo (ingannò Deianira a creare una tunica con
la sua pelle avvelenata da dare a Ercole che l'aveva assassinato con frecce
avvelenate, venendo così a sua volta ucciso dal veleno); Chirone, che allevò
("nodrì") Achille; e Folo, che fu così pieno d'ira (si ubriacò alle nozze
tra Ippodamia e Piritoo tentando di rapire la sposa e le altre donne
dei Lapiti). Essi, continua Virgilio, corrono attorno al fosso del fiume e
colpiscono qualsiasi anima esca dal sangue in misura maggiore a quanto
richieda la sua colpa (i diversi livelli di immersione a seconda della colpa
saranno spiegati più avanti).
Intanto i due poeti sono davanti a quelle fiere veloci ("snelle" nell'italiano
antico stava per rapide) e Chirone prima di parlare si scansa la barba lunga
con la cocca di una freccia: un particolare di grande realismo che vivacizza
la poesia. Chirone parla allora e dice ai compagni di notare come Dante sia
vivo perché muove i ciottoli che calpesta. Virgilio, che era già davanti al
centauro, vicino a dove la natura umana e bestiale si uniscono (al ventre),
spiega come Dante sia vivo e lui gli debba mostrare "la valle buia" per
necessità, non per diletto: "Tale" (qui sta per Beatrice) lo incaricò di
accompagnarlo e nessuno dei due è un ladrone (riferendosi ai peccati puniti
in questo cerchio). Ma in nome di quella divinità che gli fece iniziare questo
viaggio, Virgilio chiede a Chirone di concedere loro uno di questi centauri ai
quali sono vicini ("a provo"), perché porti Dante in groppa e faccia guadare
il fiume, poiché egli non è uno spirito che può volare. La preoccupazione di
Virgilio sta nel bisogno di attraversare il sangue bollente senza che Dante
ne venga ferito, e questa volta non sarà usato l'espediente del
traghettatore come con l'Acheronte e lo Stige.
Chirone accetta e li affida a Nesso, che accetta di buon grado il compito,
sebbene non si accenni più al fatto del salire o scendere dalla groppa del
centauro da parte di Dante. L'ubbidienza e la grandezza dei centauri (che
in Dante è spesso sinonimo di grandezza morale) è opposta alla cieca
bestialità del Minotauro incontrato precedentemente.

I violenti contro il prossimo - vv. 100-139


Nesso quindi fa da guida ai due pellegrini che iniziano ad attraversare il
fiume di sangue bollente: una volta tanto Virgilio resta in disparte ("Questi
ti sia or primo, e io secondo", v. 114).
Il grande centauro inizia con l'illustrare delle anime che sono immerse
fino "al ciglio", fino agli occhi, i tiranni che fecero violenza sia contro le
persone che contro i beni delle persone (la distinzione nei due modi di far
violenza al prossimo è alla base della punizione). Qui il centauro indica
Alessandro e Dionisio il vecchio, tiranno di Siracusa, che diede anni dolorosi
alla Sicilia ("Cicilia"). Su chi sia il tiranno Alessandro non c'è chiarezza: si
pensa in genere ad Alessandro di Fere in Tessaglia, citato insieme a Dionisio
anche nel Livre du Tresor di Brunetto Latini, ma alcuni hanno pensato anche
ad Alessandro Magno, sebbene Dante ne parli con onore nel Convivio e
nel De Monarchia, quindi più improbabile.
Successivamente Nesso indica un'anima dai capelli neri, Ezzelino III da
Romano, e una dai capelli biondi, Obizzo II d'Este, il quale "per vero"
(davvero) fu ucciso dal figliastro: qui Dante sembra voler fare una
rivelazione definitiva su voci già all'epoca incerte.
Arrivano poi a quelli sommersi fino alla gola nel bulicame cioè nella sorgente
calda (più avanti questo termine verrà usato come nome proprio di una
sorgente presso Viterbo). Qui Nesso mostra un'ombra sola in un angolo ("da
l'un canto sola"), colui che tagliò in grembo a Dio il cuore che ancora cola (il
testo ha " si cola": sussiste il dubbio interpretativo tra il senso di "gronda
sangue" perché non vendicato e il senso di "si cola" come "si venera",
latinismo dal verbo colere) sul Tamigi. Questa complessa perifrasi
indica Guido di Montfort: nel 1272 per vendicare il padre ucciso dal Re
d'Inghilterra Enrico III, ammazzò con cruenza durante una messa a
Viterbo il cugino del Re, il mite Enrico di Cornovaglia, alla presenza di Filippo
III di Francia e di Carlo d'Angiò. Il delitto rimase impunito (forse per la
complicità dell'Angiò), e destò grande scandalo;Giovanni Villani ricordava
come il cuore di Enrico fosse poi portato in Inghilterra e collocato in
un'urna d'oro su una colonna del Ponte di Londra.
Successivamente Dante vede altri che tengono fuori il busto e altri che
immergono solo i piedi: come spiegato da Virgilio nel canto precedente, essi
sono i predoni e i violenti meno gravi. Non sono puniti qui i ladri, che
derubano con la frode invece che con la violenza: ad essi è dedicata una
malebolgia.
Nesso spiega poi che come in quel punto la profondità del fiume diminuisce,
dall'altra parte poi ridiventa profonda gradualmente, fino ad arrivare dove
sono immersi altri tiranni. Lì si trovano Attila, Pirro (probabilmente Pirro
Neottolemo, più difficilmente Pirro Re dell'Epiro, lodato nel De Monarchia)
e Sesto, probabilmente intendendo Sesto Pompeo.
Inoltre nomina due predoni che "fecero a le strade tanta guerra": Rinieri
da Corneto e Rinieri de' Pazzi di Valdarno. Nel frattempo Nesso ha
terminato la traversata: senza accennare alla salita/discesa di Dante dalla
groppa, si gira e ripassa il guado nella direzione opposta.

Il contrapasso
Il contrappasso è tagliato sugli assassini e si estende per analogia anche a
tutti gli altri peccatori qui puniti: essi che furono desiderosi del sangue
altrui, adesso vi giacciono immersi.

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