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Canto 22

Il canto ventiduesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nella quinta


bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti imalversatori; siamo nel mattino
del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26
marzo 1300.
È strettamente legato al precedente, del quale costituisce il "secondo atto"
della commedia dei diavoli della bolgia dei barattieri.

Incipit
« Canto XXII, nel quale abomina quelli di Sardigna e tratta alcuna
cosa de la sagacitade de’ barattieri in persona d’uno navarrese, e
de’ barattieri medesimi questo canta. »
(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)

Diavoli e barattieri - versi 1-30


Il canto inizia riallacciandosi direttamente al precedente e spiega con
un'amplissima similitudine il suono del cul del diavolo fatto
"trombetta". Dante vi richiama con dovizia di dettagli le proprie vicende
biografiche, nelle quali ha avuto modo di vedere operazioni militari d'ogni
tipo e tutti i segnali che le caratterizzano (la marcia, l'assalto, la rassegna,
la ritirata, le sortite a cavallo, i tornei a squadra e in singolo mossi da suoni
di trombe, campane, tamburi, segnali visivi dai castelli, cose all'italiana e
cosa alla straniera, né pedoni, né navi che seguissero segnali di terra o le
stelle), ma mai uno così strano come questo con cui i diavoli si mettono in
marcia (cioè la scoreggia del loro comandante). Questa parentesi, dove
Dante finge di essere un po' stupefatto e un po' saccente, è un chiaro
esempio dello stile comico del brano dei barattieri: egli usa parole marziali
e magniloquenti per metter su un divertissement basato sulla parodia.
Notevole è anche, all'inizio del canto, l'accumulazione di riferimenti militari
che si riferiscono ad episodi autobiografici: Dante menziona la battaglia di
Campaldino, che fu seguita dall'assedio di Caprona citato nel canto
precedente; questa spedizione fiorentina del 1289 si tratta dell'unica
esperienza militare che Dante ebbe (a quanto si sa).
Dante e Virgilio dunque stanno camminando in compagnia dei dieci demoni
("i Malebranche") lungo l'argine della bolgia, ma il pellegrino non è
spaventato o inorridito (come per esempio sulla schiena di Gerione), anzi
non gli viene in mente altro che un proverbio "ne la chiesa coi santi, e in
taverna coi ghiottoni (cioè i furfanti)" (vv. 14-15), come a voler dire che a
ogni luogo si conface una compagnia "in tema" e che essendo all'Inferno si
deve rassegnare a passeggiare con i diavoli.
Come detto dal loro capo Malacoda, i demoni devono pattuggliare la pece
bollente, per controllare che nessun dannato ne esca. Anche Dante
guardando la pece vede i dannati che escono con la schiena, come i delfini,
o con la faccia, come le ranocchie (da notare il continuo riferimento
a similitudini animalesche, indice della bestialità di questi dannati - Dante
era infatti particolarmente avverso ai peccati che riguardavano il denaro -
e dello stile comico), le quali si affacciano dall'acqua sugli stagni, ma appena
vedono un serpente si rituffano tutte. Così facevano i dannati, sempre
pronti a beffarsi dei diavoli in un continuo gioco di astuzie e furberie
contrapposte, diametralmente opposto, per esempio, all'episodio
dei centauri (Canto XII), dove nessun dannato pare sognarsi minimamente
l'idea di uscire dal sangue bollente del Flegetonte.

Ciampolo di Navarra - vv. 31-90


I barattieri quindi appena vedono l'ombra dei diavoli si rituffano, ma uno di
essi (e Dante nel ripensarci mentre scrive se ne raccapriccia ancora),
sempre come talvolta fanno le rane, è troppo lento a re-immergersi e viene
afferrato da Graffiacane, il diavolo più vicino, che lo prende per i
capelli impegolati con l'uncino (con un gesto che oggi potrebbe ricordare
quello deglispaghetti con la forchetta) e, tirandolo su come
una lontra (nero, lucido per la pece sgrondante) si appresta a scuoiarlo.
Dante, nella sua estrema precisione, premette che dei diavoli si ricorda già
tutti i nomi per averli sentiti chiamare a uno a uno e per averli sentiti
discorrere nella marcia fin lì. I diavoli stanno gridando "O Rubicante, fa che
tu li metti li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!", ma Virgilio, su richiesta di
Dante, chiede che prima il dannato dica chi sia presentandosi.
Egli risponde che è nativo della Navarra e che sua madre lo mise al servizio
di un Signore, essendo suo padre già morto per aver distrutto sé e le sue
cose (suicida e scialacquatore quindi); entrò poi nella famiglia (intesa qui
come insieme dei servi) del re Tebaldo (Thibaut II di Navarra o Thibaut V
di Champagne) presso di cui compie il peccato di baratteria per il quale è
punito. I commentatori antichi diedero a questa figura il nome di Ciampòlo
di Navarra (forse una contrazione di Giampaolo o del francese Jean Paul),
ma le notizie storiche su di esso sono limitate al solo testo dantesco.
Ciriatto allora, il diavolo che somiglia a un porco nel nome e di fatto, fece
sentire al dannato come una delle sue zanne, che gli uscivano ai due lati della
bocca, ferisse, strusciandola però solamente ("sdruscia"). Dante non è
impaurito, ma forse incuriosito da questo sorco finito tra male
gatte. Barbariccia, che è il "sergente" di questa truppa, allora "il chiuse con
le braccia": chi? Ciriatto o Ciampolo? Sembra più probabile il dannato; e qual
è il gesto esattamente? Se dalla scena successiva sembra improbabile che
lo tenesse abbracciato (egli infatti si divincolerà) forse allora si potrebbe
intendere come egli si sia solo interposto tra i due per contenere i diavoli,
magari allargando le braccia, essendo il verbo "chiudere" anche sinonimo di
"recintare". Sempre Barbariccia dice poi"State in là, mentr'io lo 'nforco"
cioè vorrebbe escludere gli altri diavoli dal piacere della tortura del
dannato, anche se qualcuno ci ha letto "inforcare" quale "montare a cavallo"
(inforcar li arcioni, come in Pd. VI, 99).
Dante e Virgilio sembrano però tifare una volta tanto per il dannato (una
concessione del tutto straordinaria all'ineluttabilità del giudizio divino che
commistiona le pene giuste ai dannati, in linea però con l'atipicità di questo
brano), quindi gli rivolgono un'altra domanda ritardando il supplizio: "de li
altri rii / conosci tu alcun che sia latino (qui sinonimo di italiano)/ sotto la
pece?". Il dannato risponde che lì accanto a lui c'era fino a poco fa un
"vicino" dell'Italia, un sardo, e che tanto vorrebbe tornare accanto a lui
sotto la pece senza paura né di unghia né di uncino.
Nel ritmo incalzante dell'episodio, il discorso di Ciampòlo è di nuovo
interrotto dai diavoli. Libicocco, che freme di impazienza per usare l'uncino
profferisce laconicamente "Troppo avem sofferto!" e gli stacca un pezzo di
braccio con l'arpione. Draghignazzo allora alla vista del sangue si esalta e si
avventa sulle gambe del poveretto, ma basta un'occhiataccia del loro capo
(il decurio) per fermarli. Le ferite però non sono orride e non danno dolore
al malcapitato (si pensi per esempio il raccapriccio di Dante in altre
occasioni come con gli scialacquatori o i seminatori di discordie per
sottolineare anche qui il tono scanzonato e grottesco), il quale le guarda, ma
riprende subito a parlare, spronato da Virgilio.
Il dannato di cui parlava poco fa è Frate Gomita, gallurese, ricettacolo
(vasel) di ogni frode, che trattò i nemici del suo signore (suo donno,
ricalcato sul sardo che usa come articolo determinativo "su") in maniera che
ognuno ne ebbe profitto (lui e loro, intende: prese i soldi e li lasciò liberi;
ma anche negli altri offici fu un barattiere, "non picciol, ma sovrano"). Con
lui c'è Michele Zanche del Logudoro, e le loro due lingue non si stancano mai
di parlare della Sardegna.

Inganno di Ciampolo e zuffa dei diavoli - vv. 91-151


Al vedere i diavoli minacciarlo sempre più da vicino, Ciampolo si
zittisce. Farfarello sta "stralunando" gli occhi e il gran proposto (un altro
modo di indicare ancora Barbariccia, che è stato appunto proposto come
capo dagli altri diavoli) lo scaccia: "Fatti 'n costà, malvagio uccello!".
Ciampolo allora propone un patto di scambio: se essi (Dante e Virgilio)
vogliono vedere altri loro compaesani Toscani e Lombardi, lui li può
richiamare se i Malebranche staranno un poco in ritirata (in cesso), così che
essi non temano le loro ombre; basterà che egli "suffoli" un segnale
convenuto e parecchi (sette con valore indeterminato) usciranno fuori.
Al che Cagnazzo leva il muso e lo accusa di volerli ingannare per tornare
nella pece, ma Ciampolo risponde di compiere l'inganno a danno degli altri
dannati, adescando i diavoli. Alichino allora, in contrasto con gli altri diavoli,
accetta per primo la sua proposta, minacciandolo di riafferrarlo se solo
tenta di ributtarsi nella pece ("non ti verrò dietro di galoppo, / ma batterò
sopra la pece l'ali" cioè con le mie ali sarò più veloce che un cavallo al
galoppo). I diavoli allora convinti da Alichino arretrano appena dietro la riva,
coperti anche dalla leggera pendenza delle Malebolge ed il primo a farlo è
proprio Cagnazzo, quello che aveva manifestato perplessità, come a
intendere il suo spazientimento per il gioco o l'ardimento dopo essere stato
convinto: in ogni caso è un realistico particolare psicologico.
Tutti stanno a guardare, ma il Navarrese, studiato il momento giusto, si
acquatta e poi spicca il tuffo nella pece beffando tutti. Alichino spicca il
salto per acciuffarlo, ma deve fare come il falcone che risale quando
l'anatra si nasconde sotto l'acqua: "l'ali al sospetto non potero avanzar"
cioè più rapida delle ali fu la paura. Tutti sono presi dai rimorsi, ma più di
tutti Alichino e dopo di lui Calcabrina, che aveva seguito il volo sperando
che il dannato fuggisse per potersi azzuffare; infatti appena il barattiere
sparisce egli rivolge i suoi artigli al compagno, che a sua volta risponde con
artigliate da sparvier grifagno. Nella zuffa entrambi però rotolano nella
pece bollente. Il caldo si rivela meraviglioso pacificatore perché i due si
separano subito, ma non riescono a rialzarsi in volo con le ali tutte
invischiate di pece, e devono essere afferrati dai compagni, pur
essendo "già cotti dentro la crosta".
Approfittando della confusione, Dante e Virgilio se ne vanno.

Lo stile comico
Il canto, ancor più del precedente, assume una forma drammatica (in senso
tecnico = teatrale), accentuando l'aspetto di "commedia": e infatti Dante la
definisce ludo, che in latino medievale indica una "rappresentazione
drammatica" (in francese antico jeu = "gioco" si usa per designare drammi
sacri e profani, come nel Jeu d'Adam "Dramma di Adamo"). Tema di questo
"spettacolo" è una gara di astuzia fra diavoli e barattiere, entrambi
fraudolenti per definizione, ma che entrambi finiscono sconfitti: i diavoli
perché perdono la preda, il barattiere perché non guadagna altro che la sua
pena, tornando nella pece dalla quale era uscito all'inizio per trovare un po'
di refrigerio. L'azione scenica è ben rappresentata dal vivace dialogo a più
voci, in cui si alternano Dante e Virgilio che parlano con il dannato da una
parte, e i diavoli dall'altra, o dal mimo finale. Il registro è comico anche nel
linguaggio, nell'assenza di riferimenti alle fonti classiche, così presenti nel
resto della Commedia, nelle somiglianze dei peccatori con gli animali (delfini,
rane, e poi lontra, ratto, anatra): l'episodio è d'altronde paragonato,
nel canto successivo, alla favola esopica della rana e del topo.

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