03
Giuliano Marenco
2
I tre irriducibili del Fuciliere.........................................................................................81
L'anniversario dell'affondamento della Roma .............................................................81
Un nuovo spauracchio: la cessione delle navi alla Russia............................................82
Dall’ottobre 1944 al gennaio 1945...................................................................................83
Marini a Madrid (ottobre 1944)....................................................................................83
Buone notizie................................................................................................................87
Ritorno ai problemi della vita quotidiana: la storia del riso..........................................87
I cavi da ormeggio........................................................................................................88
L’ultimo scontro con Benito.........................................................................................89
Si avvicina la partenza?................................................................................................89
Calo di tensione.............................................................................................................91
La doccia scozzese........................................................................................................91
I viaggi di Marini a Madrid portano fortuna?...............................................................93
Marini a Madrid (dicembre 1944).................................................................................93
La propaganda non conosce tregua a Natale.................................................................95
L’accordo sull’arbitrato.................................................................................................96
Le esitazioni di Mascia.................................................................................................96
Quanto occorre per caricare la nafta?...........................................................................98
Incomprensioni tra diplomatici e marinai.....................................................................98
Febbre di partenza.......................................................................................................100
Slittamento di 24 ore...................................................................................................102
Italiani, non partite!.....................................................................................................102
Il responso dell’eminente giurista...............................................................................103
Si parte........................................................................................................................104
Il maltempo impedisce alla motozattera e al Rama di partire.....................................104
Addio Mahón!.............................................................................................................105
Col senno di poi..............................................................................................................106
Le navi........................................................................................................................106
Mamma Mahón...........................................................................................................107
3
DALLA SPEZIA A MAHÓN
La vigilia dell’armistizio
Da due mesi il Comandante in capo delle Forze Navali da battaglia, ammiraglio di squadra
Carlo Bergamini, stava preparando alla Spezia navi ed equipaggi all'estrema difesa del
territorio nazionale, quando fu convocato per il pomeriggio del 7 settembre ad un'importante
riunione al Ministero dall'ammiraglio Raffaele de Courten, che cumulava le cariche di
Ministro e di Capo di Stato Maggiore della Marina. Giunto a Roma già la mattina del 7,
Bergamini ebbe con de Courten una prima conversazione in cui assicurò il ministro “che
comandanti e ufficiali erano pronti a uscire in mare per combattere nel Tirreno meridionale
riferimento all’imminente sbarco alleato nella zona di Salerno l’ultima battaglia ed erano
decisi ad impegnarsi fino all’estremo delle loro possibilità; gli equipaggi erano sereni e
tranquilli; la preparazione morale soddisfacente”. I due convennero “che, intervenendo ad
operazione di sbarco iniziata e, traendo profitto dell’inevitabile crisi di quella delicata fase,
sarebbe stato possibile infliggere all’avversario gravi danni, pur non nutrendo alcuna
illusione sul risultato finale” 1. Da questo colloquio bilaterale con il ministro – colloquio
paradossale lo qualifica Gianni Rocca2 - Bergamini non poteva quindi minimamente ricavare
che si fosse alla vigilia della proclamazione dell’armistizio.
Lo stesso de Courten, che era tenuto al segreto di quello che sapeva, sapeva poco, malgrado il
suo rango di ministro. Il 3 settembre aveva partecipato al Viminale a una riunione convocata
d’urgenza, in cui Badoglio aveva informato, col vincolo del segreto, i tre ministri militari, alla
presenza del ministro della Real Casa, Acquarone, e del Capo di Stato Maggiore generale,
Vittorio Ambrosio, che il Re aveva iniziato trattative per la conclusione dell’armistizio. In
realtà l’armistizio era stato firmato proprio quel 3 settembre. Il 5 settembre Ambrosio aveva
chiesto a de Courten di mettere a disposizione una nave per condurre degli ufficiali italiani
presso gli Alleati e riportare due alti ufficiali alleati a Gaeta; gli aveva anche chiesto di
designare un ufficiale di Marina, perfettamente al corrente della situazione operativa delle
navi, da aggregare al gruppo da condurre presso gli Alleati; a questo ufficiale de Courten non
doveva dare alcuna direttiva, anzi detto ufficiale non doveva neanche conoscere la meta del
suo viaggio. De Courten aveva designato il capitano di vascello Ernesto Giuriati. Ambrosio
aveva aggiunto che gli avvenimenti sarebbero probabilmente venuti a maturazione tra il 10 e
il 15 settembre e che verosimilmente la flotta si sarebbe dovuta trasferire da La Spezia alla
Maddalena, dove era possibile che confluissero anche la famiglia reale e una parte del
governo. De Courten ne aveva dedotto che le trattative per l’armistizio erano ancora in corso.
Il 6 settembre de Courten aveva poi inopinatamente ricevuto dal Comando supremo un
promemoria, promemoria n. 1, contenente direttive per il caso in cui i Tedeschi prendessero
l’iniziativa di atti armati ostili contro gli organi e le forze armate italiane. Per la diffusione di
queste direttive non si potevano impartire ordini scritti, per cui de Courten aveva organizzato
per l’indomani, 7 settembre, a Roma la riunione cui era stato appunto convocato anche
Bergamini. Dopo aver letto il promemoria, de Courten si era recato da Ambrosio il 6 stesso e
ne aveva ricevuto un altro documento in inglese, di provenienza alleata, il promemoria Dick,
nel quale si dettagliavano quali sarebbero dovuti essere i movimenti della flotta e le loro
1
Le Memorie dell’Ammiraglio de Courten (1943-1946), Ufficio Storico della Marina, Roma, 1993, p. 195.
2
G. Rocca, Fucilate gli ammiragli, Mondadori, 1990, p. 300.
4
modalità3. In particolare, dalla Spezia le navi dovevano raggiungere il largo di Bona (dove
sarebbero state incontrate e avrebbero ricevuto ulteriori istruzioni) passando a ponente della
Corsica e della Sardegna. De Courten era rimasto impietrito e aveva reagito protestando con
Ambrosio e per la mancata partecipazione della Marina alle discussioni e per le modalità
previste. Ma de Courten non aveva ancora capito che l’armistizio era stato già firmato. E non
era facile capirlo, visto che il Comando supremo (cioè Ambrosio) approvava le misure da
prendere per reagire al previsto sbarco alleato nel Tirreno4.
Alla riunione del pomeriggio del 7 settembre, ore 16, presieduta da de Courten, parteciparono
il sottocapo di Stato Maggiore, ammiraglio Sansonetti, il sottocapo di Stato Maggiore
aggiunto, ammiraglio Giartosio, il Segretario Generale, ammiraglio Ferreri, il capo
dell'Ufficio Operazioni, ammiraglio Girosi, e, oltre Bergamini, gli altri comandanti
dipendenti dallo Stato maggiore della Marina, provenienti da ogni parte d’Italia, ammiragli
Somigli, Legnani, Da Zara, comandante l'aliquota di navi dislocata a Taranto, Maraghini,
Casardi, Bruto Brivonesi e Brenta5. De Courten illustrò le istruzioni per il caso di attacco
tedesco, contenute nel promemoria n. 1. A Bergamini veniva peraltro confermato l'ordine di
contrastare lo sbarco degli Alleati nel golfo di Salerno: la Marina doveva impegnarsi fino
all'estremo sacrificio. Già l'indomani la flotta doveva lasciare La Spezia per trovarsi a La
Maddalena il giorno 9.
Le ambiguità non erano finite6. Al termine della riunione, nel pomeriggio avanzato del 77,
Bergamini ebbe un ulteriore colloquio con de Courten. Lasciamo la parola a quest'ultimo:
“Sebbene le restrizioni impostemi non mi consentissero di metterlo esattamente al corrente di
quanto avevo finora saputo circa il problema dell’armistizio, gli manifestai le mie
preoccupazioni per l’evidente evoluzione della situazione nazionale verso una soluzione
definitiva, imposta dalle condizioni generali del Paese, sicché poteva anche attendersi che, a
breve scadenza di tempo, ci si trovasse di fronte a fatti compiuti. Tenni anche a mettergli in
evidenza la mia opinione che, in questa difficile e complessa fase, l’esistenza della flotta, che
era organismo compatto e di forte capacità offensiva, costituisse elemento preminente, in
grado di esercitare un’ influenza proporzionata al suo valore assoluto e relativo. Esaminai
poi con lui l’eventualità che, di fronte ad un’azione offensiva tedesca, le navi della flotta
riuscissero a sottrarsi ad ogni minaccia, uscendo dai porti, ma si trovassero nella situazione
imbarazzante di non saper dove dirigere, per non rimanere in zone controllate dai tedeschi e
per non passare in zone controllate dagli anglo-americani. Passammo in rassegna tutte le
alternative, giungendo alla conclusione che, in questo caso estremo, avrebbe potuto essere
3
Testo originale inglese in Le Memorie...cit., p. 202; traduzione italiana, ibidem, p. 199 e in G. Bernardi, La
Marina, gli armistizi e il trattato di pace, Ufficio Storico della Marina, Roma, 1979, p. 451. Il commodoro Roger
Dick firmava d’ordine del generale Eisenhower.
4
Le Memorie...cit, p. 177-195.
5
Lista dettagliata in Mattesini, L’armistizio dell’8 settembre 1943, Parte 1^, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio
Storico della Marina Militare, giugno 1993, p. 59, e in Pier Paolo Bergamini, Le Forze Navali da Battaglia e
l’armistizio, Supplemento alla Rivista Marittima, gennaio 2002, p. 28.
6
G. Rocca, Fucilate gli ammiragli, cit., p. 301, sottolinea lo sbalordimento degli ammiragli accorsi a Roma, cui
né de Courten, né Sansonetti, tenuti al segreto, fanno cenno a trattative d’armistizio, né, tanto meno, al
promemoria Dick, sicché non c’è da meravigliarsi se, posti davanti a tante reticenze, “non per tutti i partecipanti
le conclusioni sono le stesse”.
7
Secondo Pier Paolo Bergamini, Le Forze navali, cit., p. 29, la riunione terminò alle 19 circa e il nuovo colloquio
tra de Courten e Bergamini ebbe luogo subito dopo.
5
presa in considerazione la decisone di autoaffondare in alti fondali tutte le unità navali,
impiegando per il salvataggio degli equipaggi il naviglio sottile, che poi si sarebbe distrutto
in alto mare od in costa. E, con questa opprimente conclusione, la quale tuttavia non
appariva, sul momento, di urgente attualità, ci accomiatammo”8.
La mattina dell'8 settembre, Bergamini tornò in auto da Roma alla Spezia. Durante questo
spostamento Supermarina, in base alle informazioni ricevute nella notte, era giunta alla
conclusione che lo sbarco alleato nel Tirreno meridionale fosse imminente. De Courten, con
l’assenso del Comando supremo, fece allora trasmettere alle ore 8 l’ordine alla flotta di tenersi
pronta a muovere alle ore 14, ciò che le avrebbe permesso di trovarsi nel Tirreno meridionale
nelle prime ore del giorno 9. Poi si recò, ancora di primo mattino, da Ambrosio nella sede del
Comando supremo a Palazzo Vidoni. Lo trovò “cupo e preoccupato, ancora più chiuso del
solito”. Quando de Courten gli parlò della partenza imminente della flotta per il Tirreno
meridionale, Ambrosio gli disse di attendere sue istruzioni prima di dare il via. Convennero
allora di porre la flotta in stato di approntamento in due ore. De Courten chiarì ad Ambrosio
che questo cambiamento non avrebbe causato ritardi per l’arrivo della flotta sul teatro dello
sbarco alleato, se l’ordine di partenza fosse dato non troppo oltre mezzogiorno. Ma
manifestamente Ambrosio aveva altro per la testa: spiegò a de Courten che gli Anglo-
americani avevano respinto la proposta di riunire la flotta alla Maddalena, ma che lui stava
insistendo con la speranza di ottenere qualcosa. De Courten ne trasse l’impressione che le
trattative d’armistizio fossero in difficoltà e che non fosse escluso il loro fallimento. Tornato a
Santarosa9, si mise ad aspettare ansiosamente il via di Ambrosio alla partenza della flotta per
Salerno...
Nel frattempo, verso la fine di quella mattinata dell'8 settembre, Bergamini aveva ripreso il
suo posto di comando a bordo della corazzata Roma, apprendendo dei due ordini successivi
pervenuti in sua assenza (quello di accensione delle macchine e quello di approntamento in
due ore). Alle 13.30 telefonò a Supermarina per sapere che cosa significassero. Sansonetti gli
confermò che i due ordini erano in relazione con le istruzioni del giorno prima di contrastare
lo sbarco alleato, ma che non poteva escludersi neanche l’ipotesi di autoaffondamento delle
navi.
Invece del via di Ambrosio alla partenza della flotta per Salerno, alle 17.30 de Courten
ricevette una convocazione al Quirinale per le 18. Al Consiglio della Corona udì, prima da
Ambrosio, poi dal Re, che il generale Eisenhower avrebbe annunciato l’armistizio alle 18.30,
diversi giorni prima di quanto era stato apparentemente concordato. De Courten veniva così a
sapere che l’armistizio era stato firmato già il giorno 3. Il Re, dopo aver ascoltato critiche,
recriminazioni e persino, da parte del generale Carboni, la proposta di sconfessare e sostituire
Badoglio, comunicò la sua decisione di dare leale e completa applicazione all’armistizio.
Alla riunione presso il Re ne seguì un’altra, dei Capi di Stato Maggiore, al Comando
Supremo, in cui de Courten apprese il contenuto delle clausole armistiziali, e in particolare di
quella riguardante la Marina: “Trasferimento immediato, in quelle località che saranno
designate dal Comandante in Capo alleato, della Flotta e dell’Aviazione italiane, con i
dettagli di disarmo che saranno da lui prescritti”. All’aspra protesta di De Courten, che aveva
8
Le Memorie...cit, p.197-198. Sull’assenza di riferimenti all’armistizio nel corso della riunione del 7, cfr. la
lettera di Pier Paolo Bergamini, figlio dell’ammiraglio Carlo Bergamini, al direttore della Rivista Marittima nel
numero dell’agosto/settembre 1990 della stessa, p. 125.
9
Santarosa, sulla via Cassia a circa 12 km da Roma, era la sede di Supermarina da quando Roma era stata
dichiarata città aperta.
6
concluso dicendo che avrebbe dato l’ordine di autoaffondamento, Ambrosio gli porse in
silenzio un altro foglio, il cosiddetto documento di Quebec, che conteneva il telegramma
inviato da Roosevelt e Churchill a Eisenhower il 18 agosto 1943, documento che era stato
consegnato il 19 agosto al plenipotenziario italiano per i negoziati di armistizio, generale
Castellano, unitamente al testo dell’armistizio stesso. Le prime parole del documento di
Quebec erano: “Queste condizioni le condizioni d’armistizio non contemplano assistenza
attiva dell’Italia nel combattere i Tedeschi. La misura nella quale queste condizioni saranno
modificate in favore dell’Italia dipenderà dall’entità dell’aiuto che il Governo e il popolo
italiani daranno realmente alle Nazioni Unite contro la Germania durante la rimanente parte
della guerra”10. Queste parole e quelle di Ambrosio, “In ogni modo gli Alleati hanno
assicurato che rispetteranno l’onore della Flotta”, convinsero de Courten a rinunciare
all’autoaffondamento e ad applicare lealmente le clausole armistiziali11.
L'annuncio dell'armistizio
L'annuncio ufficiale fu dato da Eisenhower alle 18.30 12. Seguì il proclama che l'ammiraglio
Cunningham indirizzava alle navi italiane per invitarle a raggiungere immediatamente Malta.
Alle 19.45 Badoglio confermava alla radio:
Scrive Rocca: “Nelle vie di La Spezia si formano presto cortei festanti di civili. E’
un’esplosione spontanea, frammista di gioia e di commozione. ‘La guerra è finita’, gridano
tutti, abbracciandosi. Le finestre si illuminano senza più tener conto degli obblighi
sull’oscuramento, qualche postazione contraerea spara da terra raffiche e colpi in segno di
giubilo13”.
10
Testo dell’armistizio “corto” e del documento di Quebec in Bernardi, cit., p. 447 e 449; nonché in Le
Memorie...cit., p. 240 e 243.
11
Ibidem, p. 207 e ss. Meritano particolarmente lettura le pagine (214 e 215) in cui de Courten descrive la
formazione del suo convincimento. Cfr. G. Bernardi, cit., p. 63 e ss.; G. P. Pagano, La Regia Marina dal 25
luglio 1943 all’armistizio, Bollettino d’Archivio dell’ufficio Storico della Marina Militare, settembre 1993, p.
18.
12
Testo in Bernardi, cit., p. 464-465. Secondo A. Trizzino, Settembre Nero, Longanesi, 1968 (ma il testo si vuole
scritto dodici anni dopo la fine della guerra, cioè nel 1957), già alle 15 dell'8 settembre Radio Algeri aveva dato
notizia che l'Italia si era arresa senza condizioni e la notizia era stata ripresa da Radio Londra e da tutto il mondo
prima dell'annuncio di Eisenhower. Ammesso che queste indicazioni siano corrette, non è probabile che la
notizia fosse pervenuta agli uomini imbarcati a La Spezia. Bernardi, cit., p. 463, ripreso da Pagano, cit., p. 18,
scrive che alle 17.30 l’agenzia Stefani aveva captato un dispaccio Reuter che dava notizia dell’armistizio.
Secondo Pier Paolo Bergamini, Le Forze navali, cit. p. 42, le informazioni conosciute dal Consiglio della Corona
alle 18 dell’8 settembre erano che l’agenzia Reuter aveva già trasmesso delle indiscrezioni in proposito.
13
Fucilate, cit. p. 308-309.
7
Non solo in città, ma anche tra i marinai della squadra vi furono manifestazioni di gioia per un
avvenimento che, nella loro incoscienza, doveva significare la fine della guerra. Dovettero
intervenire gli ufficiali a spiegar loro che le cose erano più complicate14.
Fu dunque attraverso la voce di Badoglio alla radio di bordo che Bergamini apprese quale
fosse la situazione. Telefonò allora a Supermarina e protestò con Sansonetti per non aver
ricevuto comunicazione diretta dell'armistizio. Nel corso della conversazione Sansonetti, suo
compagno di corso e grande amico, gli disse:
“sul trattamento del nostro Paese influirà molto l’atteggiamento della Flotta. La
Flotta è l’ultima carta che ci rimane: può essere giocata bene o male; ma se si
autoaffonda non potrà nemmeno essere giocata...Cosa ti costa di più, portare le navi
al largo e affondarle salvando gli equipaggi, oppure partire per Malta? La via del
dovere è, naturalmente, la più aspra”15.
Tornato al Ministero alle 20, de Courten ebbe, tra le 20.30 e le 21 una conversazione
telefonica con Bergamini. Questi deplorò acerbamente di non essere stato informato il giorno
precedente dell’avvenuta conclusione dell’armistizio e chiese di essere esonerato dal
comando, non avendo intenzione di fare il guardiano di navi in consegna al nemico; concluse
che avrebbe chiamato a rapporto i comandanti ma che personalmente era orientato nel senso
dell’autoaffondamento. Dopo avergli spiegato tutto quello che aveva appreso da Ambrosio, de
Courten gli disse che, poiché l’ora avanzata non permetteva di arrivare in ore diurne nelle
acque di Bona, come previsto dal promemoria Dick, sarebbe dovuto partire non appena
possibile, passando ad occidente della Corsica, per La Maddalena, dove avrebbe ricevuto
dall’ammiraglio Bruno Brivonesi16 il testo esatto dei documenti armistiziali e le istruzioni
ulteriori. Bergamini finì per assimilare il valore delle argomentazioni espostegli prima da
Sansonetti e poi da de Courten e promise a quest’ultimo di richiamarlo per riferirgli sui
risultati della riunione dei comandanti da lui convocata per le 22, assicurandolo che avrebbe
svolto opera di convincimento sulla necessità di attenersi agli ordini del Re.
Già tra le 15.30 e le 16.30, ad armistizio ancora non conosciuto, Bergamini aveva tenuto sulla
Roma un rapporto ai comandanti, nel quale aveva illustrato l’ipotesi di applicazione del
promemoria n. 1, relativo alle reazioni ad eventuali attacchi dei Tedeschi, e quella
dell’autoaffondamento, dando prevalenza alla seconda17. Alle 22, sulla Vittorio Veneto, dove
si era temporaneamente spostato perché dalla Roma, staccatasi dalla banchina, non aveva più
14
Sulle reazioni di giubilo dei marinai e quelle di sconforto degli ufficiali, v. Arturo Catalano Gonzaga di Cirella,
Per l’onore dei Savoia, Mursia, 1996, p. 63 e ss.; Mattesini, L’armistizio dell’8 settembre 1943, Parte 2^,
Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, settembre 1993, p. 93.
15
Citato da Mattesini, op. cit., p. 82. Secondo questa fonte l’iniziativa della telefonata fu di Sansonetti.
16
L’ammiraglio Bruno Brivonesi, Comandante Militare Marittimo Autonomo della Sardegna, convocato da de
Courten , era giunto a Roma in aereo e aveva incontrato de Courten alle 12.30 del giorno 8. De Courten gli aveva
tra l’altro affidato la documentazione da consegnare a Bergamini: Pier Paolo Bergamini, Le Forze Navali cit. p.
36-37.
17
Catalano Gonzaga di Cirella, op. cit., p. 61, ricostruisce tra virgolette il messaggio di Bergamini in
quell’occasione, dando per orario del rapporto le ore 15, orario indicato anche da Bernardi, cit., p.462. Mattesini,
L’armistizio dell’8 settembre 1943, Parte 2^, cit. p. 92, e Pier Paolo Bergamini, Le Forze navali, cit., citano il
rapporto sulla riunione stilato dal comandante Marini. Il senso generale è sempre il medesimo. L’orario è invece
ancora diverso: le 18. Questo orario è dato anche da Rocca, Fucilate, cit. p. 308. Ora Pier Paolo Bergamini
chiarisce che la riunione, fissata per le 15 si tenne in realtà alle 15.30.
8
la possibilità di usare il telefono, Bergamini non parlò dell’eventuale destinazione di Malta.
Dopo aver informato che i militari tedeschi imbarcati sulle navi erano stati ordinatamente
sbarcati, disse di non conoscere esattamente quali ordini sarebbero stati impartiti, se di
dirigere alla Maddalena od altrove, riprendendo poi le istruzioni del pomeriggio per le varie
ipotesi, compresa quella dell’autoaffondamento. Aggiunse che, finito il rapporto, avrebbe
parlato telefonicamente con de Courten, convocato nel frattempo da Badoglio per riceverne
istruzioni, istruzioni che Bergamini avrebbe a sua volta communicato l'indomani.
L’ammiraglio Bergamini raccomandò ai comandanti che non l’avessero già fatto di riunire gli
equipaggi e spiegare il significato dell’armistizio18. Poco prima delle 23 chiamò de Courten e
lo assicurò che poche ore dopo tutta la squadra sarebbe partita per compiere interamente il
proprio dovere. Indi fece ritorno sulla Roma, da dove diede l’ordine di prepararsi alla
partenza19.
Nella notte senza luna, la formazione si diresse verso sud-ovest alla velocità di 24 nodi. Dopo
circa tre ore, passate le 6, la squadra fu raggiunta dall’8^ divisione proveniente da Genova al
comando dell'ammiraglio Luigi Biancheri, composta dagli incrociatori Duca degli Abruzzi,
Garibaldi, Duca d'Aosta e preceduta dalla torpediniera Libra.
Le ventidue navi passarono tra Imperia e Capo Corso e puntarono poi a sud, mantenendosi a
una ventina di chilometri dalle coste occidentali della Corsica, indi piegarono verso est in
direzione delle Bocche di Bonifacio. Tre furono gli allarmi aerei durante questa navigazione,
ed ogni volta le navi si misero a zigzagare.
18
Mattesini, cit., p. 93-95, cita il rapporto sulla riunione stilato dal comandante Marini e il rapporto dell’Eugenio
di Savoia.
19
Le Memorie...cit., p.231-234 e 266-267; cfr. Pagano, cit., p.21.
20
V. Mattesini, cit., p. 102 e Pier Paolo Bergamini, Le Forze navali, cit., p. 58 e ss.
21
Mattesini, cit., p. 117, scrive sei torpediniere, ma avendone in precedenza, p. 102, nominate solo cinque: Libra,
proveniente da Genova, Pegaso, Orsa, Orione, Impetuoso.
9
Tra le 14.30 e le 14.4522, quando la flotta stava per giungere al punto più stretto delle Bocche
di Bonifacio23, l’ammiraglio Bergamini ricevette da Supermarina un messaggio con il quale si
comunicava che La Maddalena era stata occupata dai Tedeschi e gli veniva ordinato di
cambiare rotta e di dirigere su Bona24 in Algeria. Bergamini ordinò di invertire subito la rotta
di 180 gradi e la manovra fu eseguita a velocità elevata. A questo punto l’ordine della linea di
fila si trovò ad essere esattamente l’inverso del precedente, con i cacciatorpediniere in testa e
le torpediniere in coda. Al centro della formazione, quindi l’ordine era il seguente:
Carabiniere, Fuciliere, Mitragliere, Vittorio Veneto, Italia, Roma, Regolo.
L'attacco tedesco
L'attacco della Luftwaffe avvenne intorno alle 15.40.
Un ricognitore tedesco Junker 88 aveva già avvistato la flotta intorno alle 10.50 25 e aveva
segnalato ch’essa faceva rotta per l’Asinara. I Tedeschi avevano poi intercettato tre messaggi
radio di aerei della RAF, di cui il secondo intorno alle 13 e il terzo alle 14.20, che segnalavano
con esattezza i cambiamenti di rotta. Dopo quello delle 13 i Tedeschi si prepararono a
decollare con ventotto bimotori Dornier 217.K2 (di cui undici del II gruppo appena trasferitisi
da Cognac a Istres) in tre ondate successive. La prima decollò poco dopo le 14. Ciacuno dei
cinque aerei portava una bomba di nuovissima concezione, la PC1400X, familiarmente
chiamata Fritz X, del peso di millequattrocento chili, la cui forza di penetrazione era conferita
22
Alle 14.37 secondo Pier Paolo Bergamini, cit., p. 69 (cfr. anche la sua lettera alla Stanza di Montanelli,
Corriere della Sera del 16 maggio 2000). Secondo la ricostruzione di G. Bernardi, cit., allegato 4 (Cronologia
dei principali avvenimenti militari in Italia dal 1° al 9 settembre 1943), p. 472, Supermarina informò Bergamini
subito dopo le 13, il messaggio fu ricevuto alle 14.24 e l'inversione di rotta avvenne alle 14.45. Questo è anche
l’orario che figura nel rapporto di navigazione n. 51 redatto dal comandante Marini il 27 settembre 1943.
Secondo Trizzino, che cita l’ammiraglio Biancheri, invece, l'ordine di inversione di rotta fu ricevuto alle 13.40.
Pagano, cit., p. 23, e Mattesini, cit., p. 118, danno gli stessi orari di Bernardi.
23
Catalano Gonzaga, cit., p. 83, scrive che la prima nave della fila, la torpediniera Pegaso, stava già per entrare
nella rada della Maddalena, quando ricevette dalla stazione semaforica situata all’ingresso della rada il segnale:
“Fermate! I Tedeschi hanno occupato la base!”. Il comandante Imperiali invertì subito la rotta, imitato dalle altre
torpediniere. Il resto della flotta, a 10 miglia di distanza, fece a sua volta la stessa manovra.
24
Le fonti asseriscono che alle 12.30 un precedente messaggio di Supermarina aveva per la prima volta indicato
che le navi di Bergamini dovevano dirigere su Bona. Rocca, Fucilate, cit. p. 313, scrive che “a tutt’oggi si
ignora quando sia giunto in visione a Bergamini e quali reazioni abbia provocato. Di certo si sa solo che le sue
navi proseguirono la rotta verso La Maddalena...Purtroppo le comunicazioni di Supermarina erano ricevute – a
causa di particolari lunghezze d’onda – solo dal comandante della flotta. Sulle altre unità nulla si sapeva.
Nessuno può dire cosa avesse deciso Bergamini”.
25
Trizzino scrive 9.40, Catalano Gonzaga, p. 15, scrive 10.30; il rapporto Marini n.51 segnala l’avvistamento di
aerei tra le 10.49 e le 11.16.
10
dall’alta velocità (mille chilometri all’ora) acquistata durante la caduta, essendo prescritto il
lancio da un’altezza non inferiore ai 5000 metri. Si trattava di una bomba radiocomandata,
munita di un apparecchio ricevente delle onde ultracorte trasmesse dall’aereo, che permetteva
di dirigerla verso il bersaglio. La flotta fu avvistata dopo poco più di un’ora di volo. Gli aerei
avevano l’istruzione di mirare unicamente alle corazzate.
Il fuoco contraereo della flotta non disturba i bombardieri che, volando alla quota di 6500
metri, sono irraggiungibili. I primi aerei falliscono il tiro ma alle 15.45 la corazzata Roma è
colpita una prima volta: la bomba l’attraversa da parte a parte e scoppia sotto lo scafo. Una
seconda bomba cade alle 15.50 sulla prua della nave e produce lo scoppio del deposito
munizioni. Il torrione di comando, abbattutosi in avanti, scompare proiettato in alto a pezzi in
mezzo a due enormi colonne di fumo che si elevano fino a un migliaio di metri26.
Con la Roma scomparve in mare tutto il Comando in capo della squadra, compreso
l’ammiraglio Bergamini28. Il comando passò all’ufficiale superstite più anziano, che era il
comandante la 7^ divisione, ammiraglio Romeo Oliva, imbarcato sull’Eugenio di Savoia.
Questi lasciò sul posto le unità che stavano raccogliendo i naufraghi, ossia i tre
cacciatorpediniere e l’incrociatore Regolo, cui si erano aggiunte le torpediniere Pegaso, Orsa
e Impetuoso, e con il grosso della squadra riprese la rotta verso ponente. Poco dopo
l'affondamento della Roma, gli aerei tedeschi avevano colpito anche la corazzata Italia: dalla
26
Questo è il racconto di Trizzino, cit., integrato e marginalmente corretto con le precisazioni fornite da
Catalano Gonzaga, op. cit., p. 14-18, desunte dal racconto di viva voce fatto a questo autore, superstite della
Roma, dagli aviatori tedeschi nel 1993. Il pilota dell’aereo che colpì definitivamente la Roma era Walter Sumpf.
Mattesini, op. cit., p. 111 e ss. contiene ulteriori dettagli. Gli aviatori tedeschi sapevano bene che cosa dovevano
fare: gli ordini ricevuti erano chiari. L’impreparazione psicologica dei marinai italiani nei confronti di un attacco
tedesco traspare invece dal rapporto Marini di cui alla nota 31, p. 3: “L’attacco aereo della forza navale e
l’affondamento del Roma da parte di aerei tedeschi elimina ogni dubbio nella mia mente. Ignoro però ancora se
trattasi di azioni offensive isolate dovute ad iniziativa di singoli o se è proprio il Comando Centrale tedesco che
ha dato ordine a tutte le sue forze di agire offensivamente contro l’Italia”. Il rapporto citato si trova
nell’incartamento “Internati in Spagna” dell’U.S.M.M. Il capitano di vascello Marini comandava il Mitragliere e
la XII squadriglia cacciatorpediniere.
27
Questi particolari sono tratti dall'articolo intitolato Cerimonia d'addio a Spezia per il vecchio Carabiniere, a
firma di Aldo Santini, Il Telegrafo del 15 gennaio 1965, p. 3. Dal rapporto del comandante Marini di cui alla
nota 31 risulta che effettivamente il Mitragliere invertì la rotta senza aspettare ordini per soccorrere gli uomini
della Roma, mentre Marini suppose che l’arrivo successivo del Carabiniere, del Fuciliere, del Regolo e delle
torpediniere nonché il mancato arrivo del Velite (appartenente alla sua squadriglia) fosse dovuto agli ordini del
comandante superiore in mare. Sul punto cfr. Catalano Gonzaga, p. 100. Catalano Gonzaga, imbarcato sulla
Roma, fu salvato dal Mitragliere, fermatosi a 200 metri dal punto del naufragio, cui egli dà il credito
dell’immediato soccorso. Ivi anche dettagli sull’opera di salvataggio dei naufraghi.
28
Il 28 dicembre 1943, su proposta del ministro de Courten, il Consiglio dei Ministri promosse Bergamini
ammiraglio d’armata per merito di guerra e gli conferì la medaglia d’oro al valor militare alla memoria con la
seguente motivazione: “Comandante in Capo delle Forze Navali da Battaglia, sorprese dall’armistizio in piena
efficienza materiale e morale, trascinò con l’autorità e con l’esempio tutte le sue navi ad affrontare ogni rischio
pur di obbedire, per fedeltà al Re e per il bene della Patria, al più amaro degli ordini. E nell’adempimento del
dovere scomparve in mare con la sua nave ammiraglia, colpita a morte dopo accanita difesa dal nuovo nemico,
scrivendo nella storia della Marina una pagina incancellabile di dedizione e di onore”: Le Memorie...cit., p.393.
11
falla erano penetrate ottocento tonnellate d’acqua, ma la nave, sebbene appesantita, poté
continuare a navigare.
Nell’informare Supermarina della tragedia della Roma e della sua assunzione del comando,
Oliva chiese istruzioni29. Della destinazione della squadra, dopo l’abbandono della
Maddalena, egli aveva infatti solo l’indicazione che aveva tratto dall’intercettazione di un
messaggio destinato al Da Noli, che parlava di Bona. Biancheri, comandante dell’8^
divisione, dal Duca degli Abruzzi gli telegrafò: “Ti propongo raggiungere La Spezia” e Oliva
gli rispose: “Non posso accogliere proposta. Mi atterrò e ti prego attenerti ordini Sua
Maestà”30. Alle 18.40 ricevette la risposta di Supermarina, che ordinava di raggiungere Bona.
Oliva, per disorientare i ricognitori tedeschi, continuò verso ponente fino alle 21, indi accostò
per sud in direzione di Bona31.
12
Il capitano di vascello Marini, comandante del Mitragliere, tenuto conto dei molti feriti gravi
a bordo, richiese allora al Regolo, che inalberava l'insegna dell’ammiraglio comandante i
cacciatorpediniere di squadra, l'autorizzazione a dirigere ad alta velocità verso Livorno 36. Per
tutta risposta il comandante Notarbartolo del Regolo lo informò che il comandante superiore
in mare del gruppo di sette navi era proprio lui, Marini, perché il comandante del gruppo
cacciatorpediniere di squadra, capitano di vascello37 Franco Garofalo, non era a bordo del
Regolo. Era successo che Garofalo era stato autorizzato da Bergamini a imbarcarsi su una
corazzata, ma la sua insegna era rimasta sul Regolo38. Marini era stato fino ad allora nella
convinzione che vi fosse sul Regolo un superiore a conoscenza della destinazione della flotta.
Anzi, piuttosto infastidito dalla presenza dell’ingombrante Regolo durante le operazioni di
salvataggio, egli si dava ragione di quella presenza con la volontà di Oliva di lasciare presso i
cacciatorpediniere un Capo Gruppo al corrente della situazione e in grado di prendere delle
decisioni al termine di quelle operazioni. Ricordava infatti che alla Spezia Bergamini aveva
avuto una riunione a parte con gli ammiragli Oliva e Accorretti e con il comandante Garofalo,
nel corso della quale immaginava che Garofalo avesse ricevuto precise direttive. Per queste
ragioni Marini si era concentrato sulle operazioni di salvataggio senza preoccuparsi di
chiedere direttive e mantenere il collegamento con l’ammiraglio Oliva. Ora invece si trovava
all’improvviso a dover prendere difficilissime decisioni, pur essendo sprovvisto delle
informazioni utili a questo scopo.
Data la minore velocità delle torpediniere, che stavano del resto ancora recuperando le lance,
Marini dette loro libertà di manovra sotto il comando del capitano di fregata Riccardo
Imperiali, e assunse il comando delle altre quattro unità, disponendole in formazione a
triangolo: il Mitragliere al centro, seguito dal Regolo (comandante Marco Notarbartolo), il
Fuciliere (comandante Uguccione Scroffa) a destra e il Carabiniere (comandante Gian Maria
Bongioanni) a sinistra.
13
Eugenio di Savoia che a Supermarina in cui, in gergo navale, comunicava la direzione delle
navi: "Ultimato ricupero naufraghi ore 18.15, Mitragliere, Regolo, Fuciliere, Carabiniere
dirigono rombo 10 vela 22 da posizione approssimata lat. 41°26' N. long. 7°48' E.". Per tutta
risposta verso le 19 ebbe un semplice riscontro della ricezione del telegramma. Ritenendo di
dover insistere, inviò allora agli stessi destinatari un telegramma più chiaro con il verbo
dirigere al condizionale invece che all’indicativo: "Scopo diradamento unità et sbarco feriti
gravi dirigerei Livorno". All'oscuro di quanto stava succedendo in Italia e delle istruzioni
impartite alla flotta39, Marini implorava manifestamente un’approvazione ovvero una
controindicazione40. Nel rapporto speciale, Marini spiega che “il ‘diradamento unità’ si
riferisce al mio apprezzamento di quel momento, in quanto ritenevo che almeno buona parte
della F.N.B. fosse in rotta per La Spezia”. E Mattesini41 aggiunge: “Marini si riferiva
all’opportunità di non congestionare il porto della Spezia con troppe navi”.
14
Supermarina al Pegaso, che confermava il suo ordine44. Colpito poco dopo, verso le 20, da un
attacco aereo tedesco, il Vivaldi, la cui richiesta di soccorso non era stata capita, sarebbe
affondato la mattina del giorno successivo45.
Mentre la costa della Corsica defilava a dritta delle navi alla luce del tramonto, Marini
aspettava sempre una conferma della sua decisione di dirigere su Livorno. Alle 19.45 fu
avvistato un aereo e le navi iniziarono a zigzagare. L'allarme cessò dopo dieci minuti ma lo
zigzagamento continuò fino alle 20.45.
Intanto sia Marini che i comandanti delle unità del suo gruppo dubitavano sempre di più che
Livorno fosse la destinazione migliore. Verso le 21 Marini giunse alla conclusione ch’era
imprudente recarsi a Livorno o anche a Marina di Massa e pensò ch’era meglio portare i
naufraghi a Portoferraio, dove, in base a notizie più aggiornate, avrebbe potuto meglio
decidere sugli ulteriori movimenti. Chiese agli altri comandanti se avessero un parere
contrario e tutti furono d’accordo con lui. In ogni caso Portoferraio non richiedeva
cambiamenti di rotta e le navi continuarono a navigare verso nord. La luna era alta
sull’orizzonte e il cielo era stellato46.
Nell'Italia precipitata nel caos, di quelle navi vaganti nella notte con il loro triste carico di
morti e feriti sembravano essersi tutti dimenticati, sia la flotta che dirigeva verso Malta, sia
Supermarina. In realtà così non era perché l’ammiraglio Oliva alle 21.24 trasmise a
Supermarina un messaggio nel quale oltre a dare notizia dell’affondamento della Roma si
chiedeva se le unità lasciate indietro per il recupero dei naufraghi, di cui supponeva
correttamente che avessero molti feriti a bordo, potessero andare a Bastia o in altro porto della
Corsica e si pregava di dar loro ordini diretti perché non riusciva a collegarsi con loro 47.
Supermarina, come si vedrà, reagì facendo sapere più tardi che una nave ospedale si dirigeva
su Bona e ingiungendo di evitare i porti della Sardegna e della Corsica. Ma per il momento
Marini intercettò solo un telegramma di Supermarina al Pegaso: "Tedeschi stanno entrando
Roma. Stazione S. Paolo occupata. Prevedo eventualità non potere più esercitare comando.
Milano". Milano, città natale di de Courten, era la parola cui Supermarina aveva preso a fare
ricorso per permettere ai destinatari dei suoi messaggi di riconoscere i telegrammi autentici
da quelli che i Tedeschi, nel caso si fossero impossessati di Santarosa, sede di Supermarina,
44
V. Mattesini, cit., p. 137 e ss., per come il comandante del gruppo Pegaso, capitano di fregata Imperiali, dette
seguito all’ordine. Sulla vicenda del Vivaldi e del Da Noli, cfr. Catalano Gonzaga, p. 111-112.
45
V. Pagano, cit., p. 24, che dà l’orario delle 11.30; e Mattesini, cit., p. 126-128, (ove sono indicate
probabilmente per errore le 5.30) e p. 140, in cui si dice che la nave fu abbandonata tra le 7.30 e le 9.30 e
affondò un’ora più tardi. Tre idrovolanti della Luftwaffe con i segni della croce rossa provenienti da Livorno
ammararono vicino agli zatterini e imbarcarono una parte dei naufraghi, ma vennero attaccati da un caccia
americano. Il pilota americano fece cenno ai naufraghi di allontanarsi, poi incendiò gl’idrovolanti, dove
morirono due feriti gravi che non erano potuto uscirne. 47 naufraghi furono salvati da una motovedetta tedesca,
insieme con i piloti degl’idrovolanti, 23 da due idrosoccorso pure tedeschi, due da un idrovolante americano. Il
giorno 12 ne salvò altri, insieme alla quarantina di superstiti del Da Noli, il sommergibile britannico Sportsman.
Sette, infine, furono recuperati dalla motozattera italiana MZ 780, che approdò a Mahón, venendo internata. Al
conteggio finale mancarono 60 uomini. Mattesini, cit., p. 140.
46
Marini, Rapporto speciale, p. 14-15; cfr. Catalano Gonzaga, op. cit., p.113: l’autore, naufrago della Roma, si
era sistemato nella plancia del Mitragliere, accanto al comandante Marini.
47
Pier Paolo Bergamini, cit., p. 77.
15
avrebbero potuto tentare d'inviare a nome suo48. Marini non conosceva il senso della parola
Milano, ma lo apprese da un ufficiale naufrago della Roma49.
Mentre rifletteva alle conclusioni da trarre da quel telegrama, Marini ordinò al gruppo di
ridurre la velocità a 15 nodi, tenuto conto della posizione che sarebbe stata raggiunta all’alba
nei vari casi possibili e, comunque, per non consumare troppa nafta50. Si mise in contatto con i
comandanti per tener conto di ogni elemento di giudizio e di ogni notizia che gli fosse
sfuggita. Si dette ragione in primo luogo del perché né Supermarina né il Comando squadra
rispondevano ai suoi telegrammi: sapendo che i cifrari erano già in mano dei Tedeschi, con
tutta probabilità non volevano svelare né i propri intendimenti né la posizione della flotta. In
secondo luogo, nell’ignoranza delle condizioni d’armistizio, dell’evoluzione delle relazioni
con la Germania e delle intenzioni governative, rimaneva per lui fondamentale quanto aveva
udito dalla viva voce dell’ammiraglio Bergamini il pomeriggio dell’8, cioè che le navi non
andavano consegnate né ai Tedeschi né agl’Inglesi, per cui non doveva, con la scelta di un
porto controllato dagli uni o dagli altri, imbarazzare ulteriormente la posizione dell’Italia.
Giunse così alla conclusione di dirigere per un porto neutrale e scelse Mahón, nell’isola di
Minorca. Mahòn aveva il vantaggio di essere il porto più vicino (importante per i feriti e per
la disponibilità di nafta) e di essere in posizione centrale rispetto a eventuali successivi
spostamenti verso l’Italia, verso Tolone o verso l’A frica settentrionale. Chiese ai comandanti
se avessero qualche motivo in contrario, e ancora una volta essi furono tutti concordi con lui.
Poco prima delle 23, le navi invertirono quindi la rotta di 180°, puntando verso le Baleari e
aumentando la velocità a 28 nodi in modo da trovarsi all’alba nelle vicinanze di Minorca51.
Vi fu un nuovo allarme aereo verso le 23.30 e le navi fecero nebbia con la cloridrina per
cinque minuti. Ancora un allarme all’una e 20 del nuovo giorno, il 10 settembre, e altri dieci
minuti di nebbia. A un dato momento Marini ricevette da Supermarina il messaggio cui si è
già accennato in cui si diceva che una nave ospedale italiana dirigeva su Bona e di non
approdare in porti della Corsica o della Sardegna. Ma il messaggio non era firmato Milano e
Marini, sospettando che fosse apocrifo, non lo prese in considerazione52.
Dopo ore di navigazione, a dritta delle navi l'alba colorò il cielo di colore giallo rosa mentre i
gabbiani volteggiavano irrequieti a poppa. Poco dopo le 6, il Carabiniere ebbe un' avaria alle
macchine, che per fortuna poté essere riparata nel giro di mezz’ora. Contemporaneamente fu
avvistato sulla sinistra un aereo inglese, che seguì le navi per un lungo tratto, sorvolandole
48
Cfr. Le Memorie..., cit., p. 255.
49
Secondo Mattesini, op. cit., p. 103 tutte le navi avevano ricevuto verso le 10 del mattino il messaggio che
avvertiva della parola convenzionale Milano. Possibile? Non c’era il rischio che fosse intercettato dai Tedeschi?
50
Per apprezzare quanto la velocità poteva influire sul consumo di nafta, si tenga presente che il Carabiniere
aveva, a una velocità di 12 nodi, 4100 miglia di autonomia e, a una velocità di 18 nodi, 3050 miglia di
autonomia, mentre alla velocità massima di 37 nodi appena 700 miglia di autonomia. V. documento 11-1938
intestato al Carabiniere, fornito dall'Ufficio Storico della Marina.
51
Cfr. Le Memorie.., cit., p. 275: “Il capitano di vascello Marini, comandante della squadriglia Mitragliere, che
aveva assunto la direzione del Gruppo, si trovò quindi in grave imbarazzo; dopo aver inizialmente pensato di
dirigere a Portoferraio od in altro ancoraggio nazionale, non essendo in grado di giudicare se ed in qual porto
dell’Alto Tirreno fosse ancora possibile approdare, prese la decisione, suggerita anche dalla scarsezza di
combustibile, di fare rotta per le Baleari. E tale decisione deve essere giudicata sagace e ben ispirata, in
armonia del resto alle eminenti doti di pronta intelligenza e di ponderatezza di giudizio, delle quali egli ha dato
numerose attestazioni”.
52
Marini, Rapporto speciale, p. 19; Mattesini, cit., p. 142.
16
poco dopo le 7. Ormai si intravedeva Minorca attraverso la foschia mattutina. L’aereo virò e
scomparve.
L’arrivo a Minorca
Fino ad allora Marini non aveva comunicato alla squadra la sua decisione di dirigere sulle
Baleari, nel timore di essere radiogoniometrato e nel sospetto che i cifrari fossero ormai a
conoscenza dei Tedeschi. Alle 7.10 decise che poteva ormai informare i suoi superiori e
trasmise al comando della 7^ divisione navale: “Gruppo navale Mitragliere entra Porto
Mahón per sbarcare feriti gravi”53. Prima delle 8 le navi gettarono in mare le pubblicazioni
segrete, posero i cannoni per chiglia, scaricarono e disarmarono mitragliere e siluri. Poco
dopo le 8, entrarono nel canale d’accesso a Porto Mahón. Verso le 8 e un quarto salì a bordo
del Mitragliere un pilota spagnolo, titubante e preoccupato, e alle 8 e mezzo, dopo lunghe
manovre, le navi dettero fondo all’ancora nel bel mezzo del porto, con la poppa a 20 metri
dalla banchina, tra le bitte 4 e 5 del porto militare (seno de la Plana). Sui colli intorno si
ergevano gli antichi bastioni, oltre i quali si intravedevano picoli caseggiati bianchissimi tra
macchie di vegetazione di un verde intenso54.
Un ufficiale spagnolo salì a bordo del Mitragliere. La scena che gli si presentò era
impressionante: i cadaveri dei naufraghi che erano morti durante la traversata, i numerosi
feriti gravi, alcuni quasi totalmente ustionati, che gemevano per il dolore, l’insostenibile odore
di carne bruciata. Il comandante Marini formulò la domanda di sbarcare morti, feriti e
naufraghi e quella di rifornirsi di acqua e nafta. Alla richiesta di sbarcare i morti, i feriti e i
naufraghi fu risposto affermativamente. Ma invano si attesero ambulanze, imbarcazioni, un
qualsiasi aiuto, che permettesse di sbarcare nella vicina isoletta (isla del Rey) in cui era
l’ospedale dell’Esercito quel carico dolorante. Così, malgrado il contrario avviso degli
Spagnoli, Marini fece mettere in mare le imbarcazioni delle navi e cominciò a trasportare per
conto proprio, come se fosse a casa sua, i numerosi ustionati e feriti55.
Le autorità spagnole accolsero anche la domanda di rifornimento d'acqua. Per quanto riguarda
la domanda di carburante, invece, risposero che il porto ne era sprovvisto e che ne sarebbe
stato richiesto l'invio da Palma di Maiorca.
53
Marini, Rapporto speciale, p. 19; Mattesini, cit., p. 141 e 143.
54
Ancora una volta i dettagli sono tratti da Catalano Gonzaga, op. cit., p.113 e ss.
55
Marini, rapporto di cui alla nota 58, p. 3.
17
Secondo la XIII Convenzione dell'Aja del 190756, le navi da guerra belligeranti non potevano
restare più di 24 ore nei porti di uno Stato neutrale, salvo avarie o impossibilità dovuta alle
condizioni del mare. D'altra parte le navi belligeranti non potevano rifornirsi nei porti neutri
che per le necessità normali del tempo di pace; trattandosi di combustibile non potevano
rifornirsene che per raggiungere il porto più vicino del proprio paese. Superate le 24 ore, la
potenza neutrale, previa notificazione, aveva il diritto e il dovere di trattenere la nave con il
suo equipaggio per tutta la durata della guerra. Sicché, alla risposta ricevuta dall'autorità del
porto in merito alla richiesta di rifornimento di carburante, il comandante Marini osservò che
il termine di 24 ore decorreva dal momento in cui fosse stato concesso il combustibile. Il
comandante della base assicurò che la domanda sarebbe stata girata all’ammiraglio
comandante delle Baleari, che quel giorno stesso veniva di persona da Palma di Maiorca a
Mahón.
Nel primo pomeriggio – dopoché 133 tra feriti e ustionati erano stati sbarcati e trasportati
all’ospedale, senza che peraltro ciò alleviasse il terribile odore di carne bruciata che rendeva
irrespirabile l’aria nei locali interni delle navi - il comandante Marini riuscì a parlare al
telefono con il comandante Storich, vice-console d’Italia a Palma, e lo pregò di chiedere
urgentemente all'ambasciatore italiano a Madrid notizie sulla situazione politico-militare,
onde potersi opportunamente regolare. Questa sua richiesta egli raddoppiò con un
telegramma inviato a Navitalia Madrid: “Ho informato Consolato Palma dettagli mia
situazione et istruzioni precedentemente ricevute. Pregherei vivamente farmi conoscere nel
tempo stabilito eventuali direttive Regio Ambasciatore in relazione alla situazione”. Alle 18
ricevette il seguente telegramma dall’ambasciata di Madrid: “Ambasciatore comunica:
Riteniamo opportuno unità rifugiate rimanere porto spagnolo. Allo scadere della 24^ ora
richiedere applicazione tredicesima convenzione. Se possibile con questione rifornimenti et
eventualmente si ricorra per qualche unità ad articoli 14 et 17 per sosta avarie”. Marini
allora telefonò subito all’addetto navale a Madrid, capitano di vascello Antonio Muffone, per
dirgli che aveva ricevuto il telegramma ma che non era possibile denunciare avarie; che
avrebbe insistito sulla necessità del rifornimento ma che in ogni caso non avrebbe chiesto
l’internamento e lo avrebbe subito soltanto se imposto. Muffone gli disse che l’ambasciata era
al buio su quanto stava succedendo in Italia e che, essendo tutte le comunicazioni interrotte,
sarebbe stato difficile comunicare notizie o direttive. Marini ribadì comunque che restava in
attesa di notizie sulla situazione e di eventuali nuove direttive.
56
Convention concernant les droits et les devoirs des Puissances neutres en cas de guerre maritime. Le
disposizioni che rilevano ai fini di questa narrazione sono le seguenti: Articolo 12: "…il est interdit aux navires
de guerre des belligérants de demeurer dans les ports et rades ou dans les eaux territoriales de la…Puissance
[neutre] pendant plus de 24 heures…"; Articolo 14: "Un navire de guerre belligérant ne peut prolonger son
séjour dans un port neutre au delà de la durée légale que pour cause d'avaries ou à raison de l'état de la mer. Il
devra partir dès que la cause du retard aura cessé"; Articolo 19: "Les navires de guerre belligérants ne peuvent
se ravitailler dans les ports et rades neutres que pour compléter leur approvisionnement normal du temps de
paix. Ces navires ne peuvent, de même, prendre du combustible que pour gagner le port le plus proche de leur
propre pays… Si, d'après la loi de la Puissance neutre, les navires ne reçoivent du charbon que 24 heures après
leur arrivée, la durée légale de leur séjour est prolongée de 24 heures"; Articolo 24: "Si, malgré la notification
de l'autorité neutre, un navire de guerre belligérant ne quitte pas un port dans lequel il n'a pas le droit de rester,
la Puissance neutre a le droit de prendre les mesures qu'elle pourra juger nécessaires pour rendre le navire
incapable de prendre la mer pendant la durée de la guerre et le commandant du navire doit faciliter l'exécution
de ces mesures. Lorsqu'un navire belligérant est retenu par une Puissance neutre, les officiers et l'equipage sont
également retenus. Les officiers et l'équipage ainsi retenus peuvent être laissés dans le navire ou logés, soit sur
un autre navire, soit à terre, et ils peuvent être assujettis aux mesures restrictives qu'il paraîtrait nécessaire de
leur imposer. Toutefois, on devra toujours laisser sur le navire les hommes nécessaires à son entretien. Les
officiers peuvent être laissés libres en prenant l'engagement sur parole de ne pas quitter le territoire neutre sans
autorisation".
18
Se Marini aveva le idee chiare sulla necessità di obbedire agli ordini e di raggiungere la flotta,
ove che fosse, la confusione regnava negli animi degli equipaggi. Catalano Gonzaga, il
guardiamarina superstite della Roma da cui si sono già desunti numerosi dettagli di questa
narrazione, riferisce che molti ufficiali del Regolo non volevano riprendere il mare per
arrendersi agli Inglesi e pensavano che bisognasse rientrare in Italia, ovvero farsi internare.
Racconta anche come il comandante del Fuciliere, Uguccione Scroffa, avendo sentito alla sua
radio che il re e il principe ereditario avevano abbandonato Roma, lasciandola in balia ai
Tedeschi, sfondasse con un pugno l’apparecchio, gridando “Non è possibile! Non è
possibile!”57.
Alle nove della sera Marini, accompagnato dai comandanti, incontrò l’ammiraglio Garcès de
los Fayos, comandante delle Baleari, venuto da Palma sulla nave Miranda. Gli ribadì la sua
posizione sul diritto ad ottenere 750 tonnellate di nafta prima che cominciassero a decorrere le
24 ore. Quegli rispose che la questione sarebbe stata sottoposta a Madrid e aggiunse che,
qualora le navi fossero ancora in porto il mattino seguente, avrebbero dovuto, per ordine di
Madrid, cambiare d’ormeggio disponendosi in fondo al porto di Mahón. Marini assicurò che
le navi si sarebbero uniformate a tale richiesta, ma senza che ciò pregiudicasse la loro
posizione sull’internamento. Marini chiese poi che gli venisse fornita subito l’acqua, in modo
che, se durante la notte avesse preso la decisione di accendere e uscire dal porto, avrebbe
potuto farlo. L’ammiraglio Garcès pensò che, nel formulare questa ipotesi, Marini avesse in
mente di autoaffondare le navi e lo ammonì di non autoaffondare le navi in porto. Comunque,
su insistenza di Marini, promise l’acqua che venne effettivamente fornita durante la notte.
Di ritorno alle navi, i comandanti diedero ordine di accendere una caldaia per poter al mattino
cambiare d’ormeggio.
Alle due del mattino (11 settembre), dalla sede del vice-consolato d’Italia a Mahón, Marini
richiamò per telefono l’addetto navale italiano a Madrid, informandolo del colloquio con
l’ammiraglio Garcès. Muffone gli confermò le precedenti istruzioni, l’assoluta mancanza di
notizie dall’Italia e la necessità, con tutta probabilità, di assoggettarsi all’internamento.
Un’ora dopo, un telegramma dello stesso Muffone confermava al comandante Marini le
direttive dell’ambasciatore Paolucci de Calboli contenute nel precedente telegramma delle ore
18. Secondo Gallarati Scotti, v’era stata una viva discussione tra Muffone, propenso all’auto-
affondamento di tutte le unità, e l’ambasciatore Paolucci, che aveva fatto prevalere la sua tesi
dell’internamento58.
Dal vice-consolato Marini tornò sul Mitragliere alle 3.30 del mattino. Se sperava di riposarsi
per qualche ora dopo due giorni e due notti drammatiche e in attesa di una giornata decisiva,
dovette ricredersi. Appena giunto a bordo, infatti, fu immediatamente avvisato che sul
Regolo c’era tumulto, quasi un tentativo di rivolta. Nell’attimo seguente sopravvenne il
57
Catalano Gonzaga, op. cit., p.117.
58
L. Gallarati Scotti, L’internamento di navi da guerra italiane nella Spagna neutrale, Milano, Giuffrè, 1948, p.
10. Tutto quello che Marini scrive nei suoi rapporti fa apparire improbabile questo dissidio, forse ricostruito
artificialmente a posteriori sulla base della successiva evoluzione politica di Muffone. Sull’atteggiamento di
Muffone è anche da tener presente la sua lettera del 25 ottobre a un’Eccellenza che deve essere l’ammiraglio de
Courten, nella quale non solo non traspare alcun dubbio ma appaiono le frasi seguenti: “La collaborazione con
gli anglo-americani in ogni ramo dell’attività nostra è già in atto da tempo, con perfetta concordanza e senza
riserva…La prego, anche a nome degli Ufficiali e del personale da me dipendente, di voler accogliere
l’assicurazione della nostra appassionata attiva e devota collaborazione”. D’altra parte Gallarati Scotti, che
pure non cita alcuna fonte in appoggio alla propria affermazione, aveva a sua disposizione documenti provenienti
dal Ministero degli Esteri.
19
comandante del Regolo, Notarbartolo, per informarlo che i rivoltosi avevano prodotte alle
caldaie e alle macchine avarie tali da impedire alla nave di muoversi. Marini si spostò subito
sul Regolo: l’equipaggio s’era quasi tutto alzato dalle brande ed era salito in coperta, ove gli
ufficiali stavano già sforzandosi di sedare l’eccitazione. Marini parlò agli uomini e riuscì a
ristabilire la calma. Ma le avarie non erano riparabili in tempo per il cambio d’ormeggio, da
eseguirsi al sorgere del sole.
Come vedremo, l’inchiesta avviata da Marini avrebbe permesso più tardi di individuare i
sabotatori del Regolo in alcuni elementi fascisti che avevano introdotto nelle turbine della
nave della sabbia presa dai canestri antincendio di bordo. La messa in moto delle turbine
aveva provocato danni gravi, tali da bloccare completamente le macchine59.
Ma intanto gli avvenimenti precipitavano. Alle 14 dello stesso giorno, sabato 11 settembre,
senza che fosse intervenuto il rifornimento di combustibile, il comandante in 2^ della base di
Mahón, capitano di corvetta José Ramirez, salì a bordo del Mitragliere e comunicò al
comandante Marini, senza il preavviso di cui all’articolo 24 della XIII Convenzione dell’Aja,
che il governo di Madrid aveva ordinato, con decorrenza dalle 8 (sei ore prima),
l'internamento delle navi per non aver esse lasciato il porto nel termine prescritto.
All'osservazione che l'internamento non era legittimo perché non era stato fornito il
combustibile richiesto, fu risposto che gli ordini ricevuti erano precisi.
Ai comandanti non restava che far registrare il loro dissenso, ciò che fu fatto inserendo nel
verbale d'internamento la seguente formulazione: "I comandanti si sottomettono alla
decisione [anziché accettano, come nel progetto]…pur manifestando il loro disaccordo sulla
decisione di internamento, ritenendo essi che si debba applicare alle loro navi il disposto
dell'art. 19 (della XIII Convenzione dell'Aja) circa la proroga del periodo di permanenza".
Il comandante Ramirez chiese una dichiarazione firmata da tutti gli ufficiali delle navi
italiane, da allegare all’atto d’internamento, con cui essi dessero la loro parola d’onore al fine
di godere di una certa libertà personale e permettere agli equipaggi di recarsi in franchigia.
59
Cfr. Catalano Gonzaga, op. cit., p. 117 e 138-139. Secondo Catalano Gonzaga, lo scopo dei sabotatori era di
impedire sia all’incrociatore, sia ai cacciatorpediniere (dato che l’incrociatore ostruiva l’uscita dal porto) di
guadagnare il mare aperto prima dello scadere delle 24 ore. In realtà, i cacciatorpediniere non rimasero bloccati,
ché, anzi, fecero cambiare ormeggio allo stesso Regolo, prendendolo a rimorchio. Più in generale, risulta dai
rapporti Marini che lo scadere del termine e l’internamento non furono una conseguenza del sabotaggio. Ciò non
esclude naturalmente che lo scopo del sabotaggio fosse di provocare l’internamento.
20
Marini, probabilmente per sottolineare che da parte italiana non si riconosceva la legittimità
dell’internamento, disse che, visto che questa non era un’imposizione da parte spagnola, ma
una mera richiesta, la risposta era negativa: gli ufficiali rinunciavano a recarsi in città e
sarebbero rimasti sempre a bordo. E l’atto d’internamento fu firmato a mezzogiorno del
giorno 12 presso il Comando della Base Navale di Mahón (il documento porta la data dell’11,
forse perché il progetto era stato preparato il giorno prima e ci si era dimenticati di adattarlo).
Ma era vero che le navi non avevano nafta sufficiente per riprendere il mare e raggiungere un
porto nazionale o alleato? In realtà, il Mitragliere, il Carabiniere e il Fuciliere, che in totale
avevano un residuo di 310 tonnellate, con un minimo di travaso di nafta fra loro, avevano
ancora la possibilità di raggiungere La Maddalena, Tolone o Bona. Più al limite era la
situazione del Regolo, che aveva a bordo solo 90 tonnellate di nafta, ma che aveva peraltro
subito le avarie di macchina e caldaia cui è stato accennato.
La vera ragione per cui il comandante Marini non partì entro le 24 ore, almeno con i tre
cacciatorpediniere, cercando invece di prendere tempo con la questione della nafta, è che non
sapeva dove andare perché non era riuscito ad acquisire elementi di giudizio che gli dessero
la possibilità di apprezzare la situazione e stabilire quale fosse la rotta giusta da seguire.
In conclusione, Marini non aveva alcuna intenzione di farsi internare e, da soldato leale al
governo legittimo, aspirava semplicemente a raggiungere il resto della flotta. Ma non aveva
idea di dove fosse andata la flotta. Ormeggiatosi a Mahón, contava, in particolare attraverso i
contatti con i diplomatici italiani in Spagna, di saperne di più. La richiesta di nafta non era
gratuita ed era particolarmente giustificata per il Regolo, ma serviva anche e soprattutto a
prendere tempo per vedervi più chiaro. Siccome l’ammiraglio Garcès aveva detto che avrebbe
sottoposto la questione alle sue autorità a Madrid, Marini si aspettava una risposta positiva o
negativa, prima di dover decidere se farsi internare o partire. Le 24 ore dall’arrivo erano
scadute alle 8 dell’11 settembre, senza reazioni spagnole. Poi alle 14 giunse inaspettato
l’ordine d’internamento con decorrenza retroattiva alle 8. A questo punto non aveva più scelta
e dovette sentirsi intrappolato. La diplomazia italiana, premendo per l’internamento, non lo
aveva aiutato. Ma l’atteggiamento politico della Spagna, a quell’epoca ancora favorevole alla
Germania e probabilmente influenzata dalle pressioni tedesche tendenti a evitare che le navi
italiane si unissero al nemico, si era tradotto in un comportamento in mala fede che non gli
aveva lasciato via d’uscita.
21
combattimento. Dopodiché invitò l’ufficiale spagnolo a ritirarsi dicendogli che riceveva ordini
solo dalle autorità diplomatiche o consolari italiane.
Gli Spagnoli chiamarono d’urgenza il capitano di vascello Lallemand, capo di stato maggiore
del Comando navale delle Baleari, e il Console italiano a Palma, dott. Alfredo Trinchieri.
Questi rispose che si sarebbe recato a Pollenza per convincere il comandante dell’Orsa a
lasciare internare la nave solo per evitare gravi incidenti e purché si mettessero a verbale le
riserve relative al mancato rifornimento, le avarie e quant’altro il comandante ritenesse
opportuno. Poi, dopo aver ottenuto il benestare di Muffone, partì per Pollenza insieme col
vice-console Storich. A bordo della nave venne redatto il verbale, nel quale Del Pin fece
puntigliosamente registrare che
appena giunto nella baia di Pollenza il 10 alle 10.45 aveva chiesto rifornimento
d’acqua e nafta senza ottenere soddisfazione;
visto che il rifornimento presentava difficoltà logistiche, s’era offerto d’andare con la
nave a Palma, ma che l’ammiraglio comandante delle Baleari gli aveva risposto
d’andare piuttosto a Mahòn;
in procinto di salpare per Mahòn un contrordine gli aveva ingiunto di attendere
ulteriori istruzioni;
che tra l’arrivo e l’ultima comunicazione erano trascorse sei ore e quindici minuti
durante le quali era stato costretto a tenere le macchine accese con spreco di nafta
facendo seguire le più ampie riserve60.
60
Sulle tormentate decisioni prese dai comandanti delle torpediniere Orsa, Pegaso e Impetuoso, v. Mattesini, op.
cit., p. 143–148; Catalano Gonzaga, op. cit., p. 118; sul comportamento di Del Pin v. la lettera del dott. Trinchieri
all’ambasciata di Madrid del 3 ottobre 1943. In questa lettera si trovano anche vari dettagli sulla sistemazione,
molto frazionata e di difficile gestione, dell’Orsa e dei naufraghi di Palma, nonché il seguente commento valido
sia per Mahòn che per Palma: “E’ mio gradito dovere informare che tutti i nostri Comandanti e ufficiali, con il
loro contegno riservato e dignitoso ed il loro immediato adattamento ad ogni circostanza e disagio hanno
provocato l’ammirato rispetto dei comandanti e degli ufficiali spagnoli. Gli equipaggi sono stati anch’essi
all’altezza delle circostanze mostrando un vivo senso di comprensione e di adattamento, nonché facendosi
apprezzare per il loro contegno e disciplina”. Sempre da questa lettera si apprende che l’Impetuoso e l’Orsa
avevano a bordo ciascuno tre artiglieri tedeschi, separati allo sbarco per essere restituiti alla Germania. Essi
avevano ovviamente vissuto i violentissimi attacchi degli aerei germanici. Uno di loro aveva preso congedo dal
comandante Del Pin ringraziandolo per il trattamento ricevuto.
61
Il racconto del periodo d’internamento è pedissequamente fondato sul rapporto del comandante Giuseppe
Marini intitolato 16 mesi di permanenza in Spagna (riassunto di fine missione), marzo 1945, 174 pagine più
52 annessi, depositato presso l’USMM, incartamento “Internati in Spagna”. Da questo rapporto, salvo diversa
indicazione, sono state tratte informazioni, impressioni, valutazioni e financo, in larghissima misura, le parole
stesse utilizzate per esprimerle. Nelle note in calce si fa riferimento a questo rapporto semplicemente come
”Marini”. La presentazione degli avvenimenti che se ne è data in questa sede ha inteso privilegiare l’ordine
cronologico. Salvo contraria indicazione, i passaggi in corsivo tra virgolette sono citazioni letterali di Marini. Ma
anche il resto del racconto ne rispecchia fedelmente il contenuto e lo stile, talché il vero autore è lui.
22
I primi giorni
Dar sepoltura ai caduti62
Tra i naufraghi della Roma, 13, terribilmente ustionati, erano morti durante la traversata. La
loro sepoltura era una delle cose più urgenti cui pensare e Marini ne parlò subito alle autorità
spagnole. Con sua grande sorpresa si sentì chiedere se i defunti erano cattolici. Marini rispose
che, certo, gl’Italiani erano cattolici. La sua meraviglia era visibile e gli fu allora spiegato che
anche gli Spagnoli erano cattolici ma che, allo scoppiare della guerra civile, proprio i marinai
avevano fatto professione di ateismo e avevano barbaramente ucciso i propri ufficiali. C'erano
degli atei anche fra i marinai italiani?
I 13 naufraghi furono seppelliti all'indomani dell’arrivo, l'11 settembre. Le salme erano state
deposte su un camion che si avviò al cimitero seguito da un mesto corteo di marinai italiani.
Sul passaggio una folla era in attesa, muta, rispettosa, riverente, che partecipava al dolore di
quei militari stranieri. Molte mamme piangevano. Molti uomini e donne nascondevano i loro
occhi sotto il fazzoletto. La brava gente del popolo di Mahón dava prova di umana simpatia,
spontanea, sincera, semplice. Era l'anima nobile della Spagna.
Assistere i feriti63
I 13364 feriti erano stati ricoverati nell’ospedale militare situato in un isolotto nel centro della
rada, in mezzo ad abbondante vegetazione, che creava un’atmosfera di serenità. Erano
raggruppati in uno dei piccoli fabbricati a un piano con pavimento di terra battuta, che
circondavano il fabbricato principale a tre piani. Tutti gravemente ustionati, erano stati fasciati
con bende di garza che li proteggevano a mala pena da piccolissime mosche irrequiete. Le
mani bruciate, quasi violacee, erano racchiuse in una rudimentale scatola di cartone.
Gl’infermieri con indosso camici bianchi macchiati di sangue giravano tra i letti con degli
urinatoi, mentre due suore inumidivano le labbra tumefatte degli ustionati più gravi con della
garza intrisa d’acqua. La minuscola équipe medica (un ufficiale medico, due suore e sei
soldati di sanità) aveva fatto miracoli, ma era necessario far curare gli ustionati in centri
specializzati. Catalano Gonzaga, in quel momento unico ufficiale di vascello incolume tra i
superstiti della Roma, informò il tenente di vascello Franco Marenco – ufficiale di
collegamento fra i superstiti e il comando delle navi internate - della situazione, affinché il
comandante Marini si rivolgesse a tal scopo alle autorità spagnole. Si riuscì ad ottenere che
sette naufraghi, ustionati e fratturati in gravi condizioni, venissero portati a Madrid
nell’ospedale militare di Carabanchel.
I sanitari dell'ospedale, coadiuvati da quelli delle navi e dai medici di Mahón, si prodigarono
oltre ogni misura e stanchezza nell'accudire gli ustionati sistemati nelle corsie mal costruite
del vecchio ospedale, che aveva l'aria di essere stato fino ad allora abbandonato. Essi svolsero
un'opera altamente meritevole, facendo tutto quanto umanamente possibile, malgrado i pochi
mezzi e lo scarso spazio, di giorno e di notte, senza badare ad alcun sacrificio personale.
Toccante era l'assistenza delle suore, dirette dalla superiora, suor Emilia.
62
Marini, p. 7 e 9.
63
Catalano Gonzaga, op. cit., p. 133 e ss.; Marini, p. 8.
64
Catalano Gonzaga, op. cit., p. 134, menziona la cifra di 151 ricoverati in ospedale. Quella di 133 figura invece
in Marini, Rapporto speciale, p. 20, accanto alle cifre di 13 morti a bordo e 374 naufraghi, i quali vengono
ripartiti equamente tra le quattro unità in attesa dello sbarco, per un totale di 520 naufraghi. La precisione di tali
cifre fa propendere per questa fonte.
23
Più tardi gli ufficiali medici dell'Esercito spagnolo (non le buonissime suore, rimaste sempre
immuni dal contagio) avrebbero fatto dell'Ospedale uno dei centri più infetti della propaganda
politica, ma nei soccorsi agli ustionati della Roma il loro comportamento fu esemplare.
Vestire gl’ignudi65
Si ricorderà che gli Spagnoli avevano acconsentito allo sbarco dei naufraghi. Tuttavia fino alla
sera del 13 settembre, dopo quattro giorni dall'arrivo, i naufraghi incolumi erano ancora
ammucchiati a bordo. Non si può negare che la loro sistemazione senza alcun preavviso
presentava difficoltà non lievi, anche se erano disponibili alla Base numerosi e ampi
capannoni. Vi era tuttavia da parte spagnola anche la preoccupazione di tenere i naufraghi
(presumibilmente rossi e atei) lontani dai marinai spagnoli. Aggiungasi la lentezza di
decisione delle autorità spagnole e la necessità di richiedere per ogni dettaglio istruzioni e
ordini dall'alto - dall'ammiraglio di Palma o addirittura da Madrid - di cui era difficile
discernere quanto discendessero dalla mentalità del maňana o da reconditi secondi fini.
Fino al 25 settembre, 105 naufraghi erano ancora senza coperta e dormivano su sferzi di
bordo (coperture di tela usate per proteggere materiali in coperta) stesi sul nudo pavimento; i
lettini degli ufficiali e sottufficiali erano senza biancheria; e mancavano del tutto scarpe e
maglie mentre si annunziavano i primi rigori dell'inverno. La Marina spagnola tentava
onestamente di risolvere questi problemi, ciò che sarebbe stato più facile e rapido se si fosse
potuto e voluto ricorrere ai mezzi dell'Esercito. Ma il Comandante di Minorca, il generale
dell’Esercito don Joacquin Gual Villalonga, era poco cortese e mal disposto verso i marinai
italiani. E il comandante della Base, ufficiale di Marina, era in urto col generale66.
Come tutta risposta alla nota verbale, cioè in stile diplomatico una nota scritta, presentata il 10
ottobre da Marini per dare maggior peso alle sue osservazioni sull'insufficienza della
sistemazione dei naufraghi, Marini fu invitato il 15 ottobre a studiare la possibilità di
sistemare i naufraghi a bordo! Neppure le successive lettere ufficiali piuttosto violente
riuscivano a scuotere l'inerzia burocratica o la malevolenza del sistema.
Fatto sta che nel gennaio 1944, quando lasciarono Mahón, i naufraghi dormivano ancora per
terra su miseri pagliericci di lana, compresi i convalescenti che, dato l'affollamento
dell'ospedale, venivano rimandati quando avevano ancora bisogno di cure.
65
Marini, p. 10 e ss. e annesso 4; Catalano Gonzaga, op. cit., p. 132-136.
66
Gallarati Scotti, op. cit., p. 14, nota 2, dà un’informazione di cui non c’è traccia in Marini: l’equipaggio del
Regolo sarebbe stato sbarcato e accasermato alla Base, suscitando una protesta dell’ambasciatore d’Italia,
secondo cui il carattere provvisorio dell’internamento – provvisorio grazie alle riserve appostevi – richiedeva che
le navi si trovassero nella possibilità di salpare nell’eventualità di un lodo arbitrale favorevole. Nei primi giorni
d’ottobre ne sarebbe stato ottenuto il reimbarco. L’informazione è almeno parzialmente confermata dalla lettera
del dott. Trinchieri all’ambasciata di Madrid del 3 ottobre 1943
24
Dar da mangiare agli affamati67
Minorca è chiamata "pietre e vento", vi è appena qualche capo di bestiame indigeno, ché
quello importato non potrebbe assuefarsi al pascolo secco disponibile tra roccia e roccia, e
qualche piccolo orto negli esigui tratti piani. Tutto deve perciò essere importato ma le
comunicazioni col continente erano in quell'epoca precarie data la scarsezza di combustibile
di cui soffriva la Spagna. L'inverno, poi, il vecchio piroscafetto bisettimanale in provenienza
da Barcellona, spesso non arrivava. Erano tempi peraltro in cui tutta la Spagna era povera e il
cibo razionato. A Mahón la razione di pane per la popolazione civile era di 100 grammi al
giorno. La razione militare di cui disponevano i militari italiani era di 260 grammi.
Per i primi cinque giorni gli equipaggi soffrirono letteralmente la fame. Allo scopo di evitare
qualsiasi inaccettabile differenza fondata sul grado, Marini mise allora fine alle mense
sottufficiali e ufficiali, che ripresero a funzionare solo qualche mese dopo quando fu raggiunto
un grado sufficiente di nutrizione della gente.
Nel pomeriggio del 14 arrivò un idrovolante Ro43 dell’aviazione imbarcata. Esso faceva
sapere che un altro di tali aerei era stato costretto ad ammarare a circa 50 miglia da Minorca.
Marini contattava subito il comandante della Base di Mahón perché gli venisse offerto
soccorso. Ma la Base era sprovvista di mezzi di salvataggio, sicché il comandante spagnolo
acconsentì che uscisse in soccorso il Rama 1021 giunto il giorno prima, insistendo però che
inalberasse la bandiera spagnola. Marini si oppose. Il Rama uscì con equipaggio e bandiera
italiani e raccolse nella notte fra il 14 e il 15 i due naufraghi del secondo Ro43, uno dei quali
era il Capitano R.A. Scarpetta, capo del reparto aviazione imbarcata della Roma.
Nel pomeriggio del 16 giungeva infine a Mahón la Motozattera 780 al comando dell’aspirante
guardiamarina Alfonso Fappiano. Proveniente da Caprera, la motozattera aveva 15 uomini
d’equipaggio e due ufficiali di passaggio e, nel corso della traversata, aveva raccolto sette
naufraghi del Vivaldi69.
Per una settimana il Ro43 restò mal ormeggiato nella rada di Mahón, esposto a forti venti, con
rischio di andare a picco, malgrado le continue insistenze per inviarlo a Maiorca o tirarlo in
secco. Risolse involontariamente la situazione un tenente dell’aeronautica spagnola, il quale,
secondo gli Spagnoli di propria iniziativa ne andò molto scorrettamente a visitare di nascosto
ogni meccanismo e particolare, cosa peraltro puerile perché altri aerei di quel tipo erano già a
Maiorca in capannoni spagnoli affidati alla vigilanza spagnola. A questo punto gli Spagnoli
consentirono a che il 21 settembre il Ro43 si trasferisse in volo a Maiorca per riunirsi agli altri
aerei della R. Aeronautica là accentrati.
67
Marini, p. 14 e 16.
68
Marini, p. 1-3.
69
Mattesini (v. nota 42) e Catalano Gonzaga, cit., p. 135.
25
Per un quadro completo, si aggiunga che a Barcellona arrivarono due motozattere, MZ. 778 e
800, che rimasero alle dirette dipendenze di Navitalia Madrid per tutto il periodo di
permanenza in Spagna, ma che lasceranno la Spagna insieme alle altre unità nel gennaio
1945.
L’indomani mattina, botto finale della visita di Muffone: all’appuntamento fissato la sera
prima con l’ammiraglio Garcès egli arrivò con mezzora di ritardo. Garcès, indispettito, lo
trattò rudemente e alla fine della conversazione gli comunicò che aveva dato ordine alla
cannoniera Dato di attivare i fuochi: che si tenesse quindi pronto a partire tra breve. La
severità dell’ammiraglio Garcès nei confronti del comandante Muffone fu attribuita da Marini
a un errore di percezione da parte spagnola: secondo Marini, Garcès pensava che Muffone
fosse venuto a Mahón per indurre le navi a sottomettersi senza indugio al governo del Re
come se Marini fosse stato d’avviso contrario. Tenuto conto che Muffone sarebbe passato più
tardi alla dissidenza, Garcès avrebbe, sempre secondo Marini, equivocato e invertito le
posizioni. Parlandone con il comandante Benito, in una chiaccherata a due, molto tempo
dopo, quando Muffone era già passato alla dissidenza, Marini gli espresse appunto questo
pensiero. Senza contraddirlo, Benito lasciò però capire che forse Garcès pensava che Muffone
volesse istigare i marinai italiani ad autoaffondare le navi.
Il Dato con Trinchieri, Storich e Muffone partì alle tre del pomeriggio del 14 settembre.
Marini non aveva potuto parlare con Muffone che a tratti, in mezzo ad altre persone, tra tante
orecchie cui non riteneva opportuno far conoscere i propri pensieri. Purtroppo l’elemento
sentimentale aveva sopraffatto in Muffone ogni altra facoltà. Qualche settimana dopo Marini,
parlando con gli addetti navali inglese e americano a Madrid, si rese conto, dalla loro sorpresa
e soddisfazione nel sentirne parlare, ch’essi non erano a conoscenza della riserva apposta al
verbale d’internamento e si chiese come Muffone avesse potuto non annettere a quella riserva
alcuna importanza, al punto da non menzionarla ai due colleghi. Quanto alle percezioni
spagnole, in realtà in quei giorni Muffone, all’oscuro degli avvenimenti italiani, non aveva
nulla di preciso in mente. E’ certo che non tentò di influenzare Marini in nessun senso e intese
solo dimostrare solidarietà e simpatia.
70
Marini, p. 36-38.
26
Non si vive di solo pane71
Si ricorderà che al momento di firmare l’atto d’internamento Marini aveva rifiutato l’invito
rivolto a tutti gli ufficiali delle navi italiane di dare la loro parola d’onore al fine di godere di
una certa libertà personale e permettere agli equipaggi di recarsi in franchigia. Marini pensava
forse in quel momento che l’internamento fosse uno scherzo spiacevole ma di breve durata.
Catalano Gonzaga racconta di tre ufficiali, tra i naufraghi, i quali, appena ebbero la possibilità
di vestirsi, ne approfittarono per recarsi nella cittadina di Mahón, ma che, al loro ritorno alla
base, furono arrestati all’alba da una ronda militare spagnola. Dovette intervenire il
comandante Marini perché venissero rimessi in libertà.
Ma, quasi per far perdere a Marini l’illusione della breve durata, l’ammiraglio Garcès gli fece
sapere qualche giorno più tardi che, senza più richiedere la parola d’onore degli ufficiali,
veniva concessa agli uomini la stessa libertà, come se quella parola fosse stata data. Di quella
libertà Marini sentiva che sarebbero discesi molti inconvenienti, ma, sia pure con riluttanza,
non poté resistere alla naturale pressione degli equipaggi. E la franchigia cominciò il 20
settembre. Divenne presto un’abitudine e una naturale valvola di sfogo.
Gl’Italiani ebbero la cattiva sorpresa che nessuno in città accettava le loro lire. Ciò
nondimeno, scrive Catalano Gonzaga, “Avevamo preso l’abitudine, quando eravamo liberi
dal servizio di guardia in caserma, di uscire dalla base navale tutti i giorni, per poi
raggiungere a piedi il centro di Mahón, dove ormai conoscevamo a memoria tutte le strade,
tutte le botteghe e ogni caffè. I cittadini locali, dopo un primo giustificato periodo di naturale
diffidenza, si erano abituati alla nostra presenza e sempre più spesso ci manifestavano
comprensione ed amicizia”.
Il vice-console Storich73
Una volta partito Muffone, malgrado lo scarso aiuto da lui offerto, Marini si era sentito di
nuovo solo, mentre gli cresceva di giorno in giorno la necessità di disporre di una persona di
fiducia. Il vice-console italiano a Mahón, dott. Tommasi, era un brav’uomo, ma era divenuto
console d’un tratto senza preparazione; dopo qualche mese, anche per ragioni di salute,
sarebbe stato rimpatriato e sostituito. Il segretario del consolato era un sottufficiale di marina
del SIS (Servizio Informazioni Speciali? – doveva trattarsi comunque del servizio di
spionaggio), utile per piccole beghe e informazioni locali, ma che, in Spagna da troppo tempo,
era uomo di relazioni italo-spagnole di altro tipo, legato a vecchie amicizie personali verso
Spagnoli ormai poco ben disposti nei riguardi dei marinai internati, tanto che Marini lo
avrebbe fatto qualche mese dopo allontanare da Mahón. A Marini occorreva invece poter
71
Marini, Rapporto speciale, p. 27-28; Marini, p. 22-23; Catalano Gonzaga, op. cit., p. 136-137.
72
Marini, p.27 e 29.
73
Marini, p. 38-39.
27
contare su qualcuno capace di mantenere il segreto sui suoi propositi e sulle sue attività per
evitare da una parte grane con gli Spagnoli e dall’altra pericolose ripercussioni sulle navi in
un momento in cui gli animi erano esposti a sbandamenti vari, in primo luogo di carattere
politico.
In attesa della sostituzione di Muffone con il capitano di fregata Tucci, tale aiuto Marini ebbe
pienamente dal vice-console di Palma, capitano di fregata Edgardo Storich, che il 22
settembre ritornò a Mahón e con cui Marini fissò i primi dettagli per comunicare
scambievolmente in cifra, servizio poi migliorato con un cifrario vero e proprio. Certo la Base
Navale non permise mai che Marini comunicasse in cifra, ma non poté impedire che ciò
avesse luogo tramite e sotto il nome del consolato. Iniziò così una collaborazione senza
riserva mentale sommamente utile a Marini per i necessari contatti segreti con Madrid.
L’Isola Plana74
Il lettore si sarà ormai reso conto del tipo d’internamento scelto dagli Spagnoli. In mancanza
di un’organizzazione adeguata, avevano rinunciato a sbarcare gli equipaggi e porre tutti,
ufficiali e marinai, sotto la loro diretta autorità, salvo di tanto in tanto, in momenti di crisi,
minacciare appunto tale sbarco degli equipaggi. Avevano invece optato per lasciare gli uomini
sulle navi sotto inquadramento italiano, il che implicava di permettere al comando italiano di
ricorrere a sanzioni disciplinari. Al comandante Marini gli Spagnoli avevano riconosciuto
infatti la possibilità di inviare gl'indisciplinati all'Isola Plana. L'Isola Plana era un'isoletta della
rada di Mahón, con un edificio mezzo diroccato, che fungeva da prigione sotto vigilanza
spagnola. Era un luogo di cura proprio adatto per i disorientati e gli indisciplinati. La
principale attività degli ospiti consisteva infatti nel trovarsi da sé il modo di ripararsi dal caldo
o dal freddo, secondo la stagione. Il vitto era gestito dagli Spagnoli, il che implicava una certa
differenza rispetto alla gestione italiana. Recalcitranti e dubbiosi vi capivano il significato del
passaggio dalla “dispotica” autorità italiana alle allettanti lusinghe spagnole.
Ora, i sabotaggi e incidenti del Regolo, occorsi la notte stessa dell’arrivo a Mahón,
richiedevano precisamente una reazione disciplinare. Sarebbe stato molto rischioso passarci
sopra, anche se si correva il pericolo di innescare nuovi attentati. Era stata subito aperta
un’inchiesta, affidata a uno dei comandanti sottordini, che venne svolta rapidamente e,
terminatasi il 25 settembre, condusse all’invio immediato all’Isola Plana di due ufficiali, 5
sottufficiali, 11 sottocapi e comuni, nonché a un rimprovero per il comandante della nave, a
un severo rimprovero al comandante in seconda ed al Capo Servizio G.N. e a un rimprovero
solenne ad un ufficiale sottordine di macchina. Chiusa l’inchiesta disciplinare, Marini dispose
il giorno successivo, 26 settembre, l’apertura di una regolare istruzione preliminare a carattere
penale, affidata al direttore di tiro del Regolo, tenente di vascello Mario Ducci.
Badoglio o Mussolini?75
Mussolini, liberato dai Tedeschi il 12 settembre dall’albergo in cui era tenuto prigioniero sul
Gran Sasso, aveva costituito una decina di giorni dopo un governo fascista repubblicano
nell’Italia del Nord sotto stretta protezione germanica. C’erano ormai due Italie. Che sarebbe
accaduto agl’internati se la Spagna avesse riconosciuto il governo di Mussolini? E che
atteggiamento avrebbe preso l’ambasciata italiana a Madrid? I comandanti italiani
trattenevano il respiro. Infine il 27 settembre con telegramma del consolato di Palma giunse
74
Marini, p. 14 e 25-26.
75
Marini, p. 39.
28
notizia a Marini che l’Ambasciata di Madrid continuava a funzionare a nome del governo del
Re, che il governo spagnolo continuava a riconoscerla e che il governo italiano aveva
comunicato che era in atto la collaborazione con i governi inglese e americano.
Come la quasi totalità dei diplomatici italiani all’estero, l’ambasciatore in Spagna, marchese
Paolucci de Calboli, che era stato capo di gabinetto di Mussolini al Ministero degli Esteri, si
era dunque schierato nel senso della continuità della rappresentanza del governo Badoglio. Si
dissipavano finalmente i dubbi di Marini sull’orientamento dell’Ambasciata. Un paio di
settimane più tardi, il 13 ottobre, sarebbe toccato proprio a Paolucci de Calboli lo scomodo
compito di notificare al suo collega tedesco a Madrid la dichiarazione di guerra dell’Italia alla
Germania.
Ma per il resto del nostro racconto altrettanto importante è la seconda notizia contenuta nel
telegramma di Palma: ad onta delle sue simpatie fasciste, la Spagna franchista, giuridicamente
neutrale, non riconosceva il governo di Mussolini ma manteneva il riconoscimento al governo
del Re.
Il 23 settembre fu la volta del comandante della Base navale delle Baleari, ammiraglio
Manuel Garcès de los Fayos, che rispondeva a una lettera di Marini che lo ringraziava di
quanto aveva fatto per loro in occasione della sua visita. Anche l’antipatico ammiraglio di
Palma si dimostrava estremamente premuroso e affettuoso.
Così, se la presenza nella piccola Mahón di ben 1765 uomini - di cui 520 naufraghi eccedenti
l’organico delle navi, privi di qualsiasi oggetto personale - creava alla Marina spagnola
enormi difficoltà, Marini poté avere, alla fine di quel fatidico settembre 1943, nel terminare il
suo rapporto sull’arrivo alle Baleari, l’impressione che tanto l’ammiraglio Garcès quanto il
capitano di vascello Francisco Benito, comandante della Base Navale di Mahón,
momentaneamente assente all’arrivo delle navi italiane ma sopraggiunto in volo due giorni
dopo, fossero divenuti, passate le iniziali incomprensioni, degli affettuosi camerati, decisi a
fare tutto il possibile per superarle. E Marini osservava che anche i nostri marinai tenevano un
contegno esemplare rispettando una rigorosa disciplina.
Le difficoltà dovevano ancora venire. Certo non immaginava un solo istante che il periodo di
soggiorno coatto in Spagna sarebbe durato un anno e quattro mesi.
I dubbi di de Courten
A Taranto, che era ora la sede del ministro de Courten, già s’erano chiesti come avesse potuto
Marini non intercettare uno dei tanti radiomessaggi che indicavano Bona come destinazione
della flotta.
Adesso il Ministro era un po’ deluso che le navi non tornassero in Italia sfuggendo alla
sorveglianza spagnola. In una lettera a Muffone verosimilmente del 15 ottobre, che risponde a
76
Marini, p. 4, 65 e annessi 10 e 11; Marini, Rapporto speciale, p. 28.
29
una lettera di Muffone del 6 ottobre 1943, de Courten scriveva: “Ho sempre sperato che
Regolo e C.T. riuscissero a sfilarsi da Mahòn, e l’Orsa da Pollenza, come in passato sono
riusciti a fare parecchi sommergibili. Questo non è avvenuto, probabilmente per impossibilità
materiale. Ma è indispensabile che queste unità riescano a raggiungere porti del Nord Africa
e dell’Italia meridionale, perché la nostra flotta, che da parecchi giorni ha ripreso la sua
attività, ha necessità di unità sottili”.
Muffone replicava il 25 ottobre che “…per ragioni, vorrei dire, topografiche dell’ancoraggio
e per ripercussioni politiche di portata non precisabile, non era possibile pensare a un loro
sfilamento di forza da Mahòn. Questa azione avrebbe provocato, in ogni caso, una recisa,
violenta reazione da parte della Spagna il cui Governo aveva subito preso, probabilmente
anche sotto la pressione tedesca, ogni misura per impedire una fuga”.
La permanenza si protrae
Diplomazia al lavoro77
Le riserve apposte dai comandanti nei verbali d’internamento aprivano uno spiraglio che
toccava ai diplomatici tentare di sfruttare. Per prime si mossero le rappresentanze
diplomatiche americana e inglese a Madrid, in realtà ancora ignare, stando a Marini, di dette
riserve. Le note verbali del 13 settembre 1943 dell’ambasciatore americano Carlton Hayes e
del 15 settembre 1943 dell’ambasciatore britannico, Samuel Hoare (Lord Templewood), cui
era accreditato il merito di aver tenuto la Spagna fuori della guerra, indirizzate al Ministro
degli Esteri spagnolo, sottolineavano che le navi da guerra italiane erano entrate nei porti
spagnoli mentre si dirigevano verso le basi alleate a norma dell’armistizio, non per cercarvi
rifugio, ma per sbarcare feriti e naufraghi e rifornirsi di combustibile. Si chiedeva quindi al
governo spagnolo di permettere alle navi di proseguire il loro viaggio. Gl’Inglesi offrivano di
fornire loro stessi il combustibile. La tesi, un po’ ingenua date le circostanze, è dunque che
non v’è più motivo, una volta intervenuto l’armistizio, di applicare le norme sulla neutralità:
Italiani, Inglesi e Americani non sono più tra loro belligeranti.
Alle tre ambasciate gli Spagnoli rispondevano il 6 ottobre che l’armistizio, semplice
cessazione delle ostilità, non era la pace e non modificava i diritti e i doveri della neutralità.
Quanto alla fornitura di carburante, secondo la convenzione dell’Aja essa era facoltativa a
condizione di trattare i belligeranti in modo eguale.
Il 12 ottobre gli Stati Uniti tornarono alla carica. L’ambasciatore Hayes scrisse al Ministero
degli Esteri spagnolo che le navi avevano il diritto di rifornirsi del combustibile necessario a
raggiungere il più vicino porto nazionale e che, nel caso in cui il combustibile non fosse
disponibile, non era equo opporre la regola delle 24 ore. Il 9 novembre anche gli Stati Uniti
offrivano di fornire il carburante. E il 17 gennaio Hayes faceva presente che, trattenendo
ulteriormente le navi senza validi motivi, la Spagna incorreva in gravi responsabilità.
Gl’Italiani replicavano a loro volta il 20 ottobre, sostenendo l’obbligo del paese neutrale di
assicurare il rifornimento e ricordando che gli Spagnoli, durante il corso della guerra, avevano
77
Gallarati Scotti, op. cit., p. 29 e ss.
30
già consentito il rifornimento a navi belligeranti. Il termine di 24 ore non decorreva prima che
avesse inizio il rifornimento. Oltre tutto le autorità spagnole, non facendo sapere alle navi di
non considerarsi tenute a fornire il combustibile, non avevano permesso loro di allontanarsi
prima della scadenza delle 24 ore.
Mahón78
Così, se forse all’inizio pensavano che, appena appianata qualche difficoltà burocratica, la
sosta a Mahón avvrebbe avuto termine, pian piano i nostri marinai dovettero assuefarsi
all’idea di una permanenza prolungata.
Nello scegliere di ormeggiare a Mahón, Marini aveva tenuto presente l’esistenza di una Base
Navale, che sarebbe potuta venire incontro alle esigenze delle navi. Ma la Base Navale era
tale solo di nome perché in ogni campo le sue attrezzature erano scarse. Il comandante della
Base, Benito, era un uomo dinamico, energico e svelto, ma il suo dinamismo esuberante era
anche superficiale: Marini lo chiamava poesia. Il comandante in seconda, capitano di corvetta
José Ramirez, era una persona colta e articolata ma da troppo tempo abituata a non assumersi
responsabilità e a non prendere iniziative. La mentalità dell’inoperosa guarnigione e delle
autorità di Mahón era tranquilla, pacifica, per non dire apatica e oziosa. Non c’era solo la
Marina: s’è già visto che l’ospedale sito nell’isola della rada apparteneva all’Esercito,
impersonato da quel generale don Joacquin Gual Villalonga, Comandante di Minorca, che
verso i marinai italiani mostrava solo ostilità. Gli stessi sentimenti nutriva l’Aeronautica, che
vi aveva un campo d’aviazione.
La cittadina di Mahón, di fronte alla Base, dall’altra parte della rada, contava 18.000 abitanti.
I marinai italiani così sopraggiunti all’improvviso erano circa 1800, il 10% della popolazione.
Siccome la Base gli aveva indicato di presentarsi solo alle autorità militari, Marini incontrò
solo più tardi – vedremo in quali circostanze – il Governatore civile di Minorca, da cui
dipendeva almeno in via teorica la Policia Armada. Oltre a un vice-consolato italiano, del cui
personale sappiamo già che Marini non pensava un gran che, a Mahón c’erano anche un
console inglese e un console tedesco.
L’unica Italiana abitante a Mahón era la Signora Fortuna Novella, vedova Riudavetz. Nata nel
1880 a Carloforte, nell’isola sarda di S. Pietro, aveva sposato nel 1902 Antonio Riudavetz, un
confettiere di Mahón, dove era rimasta anche dopo la morte del marito. Sempre devotamente
78
Marini, p. 4, 170 e passim. V. Notiziario della Marina del marzo 2001, p. 45 e il sito
www.carloforte.net/mammaMahón.
31
attaccata alla patria d’origine, tuttora padrona della lingua italiana, dal giorno dell’arrivo delle
navi italiane si era prodigata in tutti i modi per assistere i suoi compatrioti, procurando loro
cibo, abiti e medicine e deponendo fiori sulle tombe dei marinai sepolti. Ella aprì la sua casa
ai marinai, che vi trovavano il sapore della vita domestica e il calore dell’italianità, aiutandoli
a superare i momenti difficili. La Signora Fortuna fu la Mamma affettuosa di tutti gli
equipaggi, e particolarmente dei naufraghi del Roma, cui regalò generosamente biancheria,
dolciumi, oggetti, ogni cosa di cui nella sua modesta agiatezza poteva disporre. Ed anche
dopo la partenza dei naufraghi, per tutto il periodo della permanenza delle navi a Mahón, la
sua casetta fu sempre la casa degli Italiani dove tutti, dai comandanti (di tanto in tanto) ai
marinai (giornalmente), si recavano volentieri perché il suo affetto, i suoi buoni consigli, la
sua bontà, le sue piccole attenzioni, ricordavano tante mamme lontane.
L’ambiente spagnolo79
La guerra civile, sanguinosa e traumatica, era terminata pochi anni prima con la vittoria del
generale Franco e della falange, che avevano instaurato un regime dittatoriale analogo, e in
ogni caso amico, dei regimi fascista e nazista. Se la Spagna era formalemente neutrale nella
guerra scatenata in Europa dalla Germania, seguita dall'Italia, le autorità e i militari spagnoli
erano fanaticamente "antibolscevici"; e bolscevici o rojos (rossi) erano indistantemente tutti
coloro che non si identificavano con Franco, con la falange, con il fascismo o con il nazismo.
Rojos e traditori erano perciò anche questi marinai italiani che avevano ricevuto dal loro re
l'ordine di abbandonare le ostilità a fianco della Germania. La diffidenza spagnola nei loro
confronti non era dovuta al rischio che la presenza delle navi italiane in acque spagnole
mettesse la Spagna in difficoltà nei confronti delle opposte parti belligeranti, non era cioè una
diffidenza di origine meramente diplomatica, no, era una diffidenza viscerale: questi italiani
erano traditori del fascismo, dunque anarchici, rivoluzionari, dei rossi degni del peggior
disprezzo.
“Essi non hanno saputo vedere in noi degli Italiani, dei poveri marinai, della brava gente
solo pensosa del bene del proprio paese; nella loro terra dei pronunciamentos e del
settarismo delle fazioni avrebbero voluto vedere in noi degli scalmanati politici, ovviamente
orientati secondo il loro orientamento, e saremmo allora stati innalzati alle glorie del più
tambureggiato eroismo”.
Se gli ufficiali della Marina spagnola capirono abbastanza presto che quegli Italiani erano
uomini rispettabili, disciplinati e amanti dell'ordine, gli elementi della falange non solo
mantennero sempre il loro atteggiamento ostile, ma anzi lo andarono acuendo perché il
contegno esemplare dei marinai italiani forniva la sgradita prova che anche al di fuori del
falangismo e affini potevano esistere persone onorabilissime. Lo spirito falangista era
incarnato dall'Esercito, meglio ancora che dalla falange. Pur combattendosi, falange e Esercito
erano i pilastri di una dittatura feroce e già avviata verso la corruzione. Una barzelletta su
Franco raccontata agli amici da uno Spagnolo per bene era costata a questi sette anni di
galera. Il soldato scalzo e malnutrito che faceva ordinatamente presente le sue necessità
scompariva per tre mesi di carcere duro. Gran parte dei soldati sotto le armi poteva restare a
casa purché non chiedesse la paga e la razione di viveri e tabacco, incamerate dai superiori.
Questi, visto il bassissimo stipendio, sostenevano di non aver alternativa e che dovevano
vendere al mercato nero quanto riusciva loro di procurarsi. Ai cittadini disgustati da questa
situazione si oppponeva, quando la Germania era ai Pirenei, lo spauracchio del
coinvolgimento della Spagna nella guerra (gli Spagnoli tutto potevano accettare fuorché la
79
Marini, p. 4-8, 167, 171-172.
32
guerra), e, allontanatosi il pericolo di coinvolgimento nella guerra, quello che, senza Franco, il
paese tornasse ad esser teatro della guerra civile (un incubo, dopo la sanguinarietà e la
brutalità di quella appena finita).
Un motivo più contingente di frizione tra Italiani e Spagnoli era il rischio che i primi
facessero accenno all'aiuto fornito durante la guerra civile. L'orgoglio spagnolo poteva tutt'al
più permettere che nell'intimo di una conversazione a tu per tu lo Spagnolo dicesse all'Italiano
la sua gratitudine per quell'aiuto, quale che fosse la parte della barricata in cui si fossero
trovati insieme. Mai però l'avrebbe riconosciuto in pubblico e, se fosse stato l'Italiano a
menzionarlo, l'Italiano poteva esser sicuro di farsi un nemico.
Il risultato di queste diffidenze è che gli Spagnoli, anche gli ufficiali di Marina, anche
professionisti tranquilli e apolitici, mettevano cura di stare alla larga degli Italiani, mentre da
parte dei fanatici della falange e dell'Esercito si faceva di tutto per portare lo scompiglio sulle
navi, disorientare gli equipaggi con menzognera propaganda e false lusinghe, osteggiando i
compatrioti che dimostrassero umana simpatia per gli Italiani. Ma in definitiva questa
simpatia crebbe sempre; crebbe per merito dei marinai, il cui contegno, nella grandissima
maggioranza, fu sempre impeccabile e ammirevole. Lungi dall'influenzare la falange e
l'Esercito, questi se ne sentivano discreditati e diventavano ancora più ostili. Le autorità -
comprese quelle di Marina - dovevano barcamenarsi tra la falange e la loro coscienza.
Tra gli Spagnoli amici v’erano i bravi signori Delàs. A parte la loro affettuosa, signorile
ospitalità verso tutti i comandanti ed ufficiali che a casa loro gustarono la paella, a parte che
la loro villa in campagna, Sant’Antonio o Villa di Nelson, fu sempre accogliente e piena di
ogni attenzione, materiale e morale, per tutti, i signori Delàs nutrivano stima ed affetto per
l’Italia come Italia, senza colori politici. Essi tennero sempre duro contro i vari generali Gual
e simile gente e mai, nei loro rapporti con gli Italiani, tradirono e vennero meno alle antiche
tradizioni spagnole. Nei Delàs si impersonava la Spagna colta, dabbene, amante del lavoro e
fatta ancora di gentiluomini.
Per questo Marini fece sempre in modo di non farsi cogliere in fallo con palesi atteggiamenti
politici, dei quali il Comando spagnolo avrebbe approfittato in senso lesivo della sua autorità.
Se dei militari non gli ubbidivano per disorientamento politico, doveva essere chiaro che la
punizione riguardava la disubbidienza in sé e non la sua motivazione politica.
33
Spagna, con interminabili e giornaliere cerimonie in cui dominava un inappuntabile rigore di
forma accompagnato dalla più visibile disattenzione dello spirito, ma con una fede semplice e
spontanea dimostrata con la cura amorosa con cui artigiani improvvisati ma bravissimi
composero in occasione dei due Natali d'esilio dei bellissimi presepi che, dopo l'esposizione a
bordo, furono regalati alle istituzioni religiose e benefiche della città, o con cui furono tenute
le tombe dei 26 morti. Nessuna tomba del cimitero era così bella, nella sua semplicità, e così
amorevolmente e spontaneamente accudita ogni giorno come quelle: “…bravi marinai di
Mahón, voi che avete costruito le croci, spianato amorosamente il terreno, apposte le targhe;
voi che giorno dopo giorno avete reso più bella la loro dimora e l’avete adornata di ancorotti
e catene, ricordo del mare, e di fiori e di piante; voi che avete tratto dal ferro battuto la
lampada che ancor oggi arde per loro; voi tutti che, non mesti ma seri, vi avviavate tanto
spesso al limite della città, quasi a passeggio, per andare a tener loro un po’ di
compagnia…”.
Allora gli Spagnoli compresero d'essersi sbagliati sul conto degli Italiani e cessarono di
meravigliarsi del mancato inginocchiamento dei marinai durante la Messa, in contrasto con le
abitudini della Marina spagnola. Se gli Spagnoli miravano a modificare qualche abitudine
italiana sullo svolgimento della Messa, come se in Italia non si rendessero onori sufficienti a
Dio, Marini fece capire che non intendeva imporre cambiamenti. E la Messa fu sempre
celebrata, come in Italia, in piedi e col rituale "Viva il Re", malgrado l'ingiunzione
continuamente ricordata dalle autorità spagnole di non fare a bordo alcuna manifestazione
politica per l'una o per l'altra parte in conflitto in Italia.
Ma nei riguardi del clero spagnolo e del suo atteggiamento comprensivo, benevolente e
ammirativo verso i marinai italiani Marini non ebbe che lodi. Coltivò ottime e assidue
relazioni con
il Vescovo di Minorca, dott. Marroig, residente a Ciudadela, che gli fece anche l’onore
di una visita a bordo, conservando poi in posto d’onore una fotografia del Regolo in
cui era ben in vista la bandiera pontificia alzata in suo onore in occasione della visita;
e
con l’Arciprete di Mahón, Don Antonio Tutzò Garcia de la Parra, che si dimostrò
ottimo amico e aiuto prezioso per superare, nei momenti di attrito, gli urti con le
autorità locali, meritandosi riconoscenza e affetto.
Il vitto82
Per i naufraghi della Roma, sistemati a terra, la Marina spagnola provvedeva direttamente al
vitto. Per gli equipaggi invece gli Spagnoli davano, come assegni di mensa, 16 pesetas per gli
ufficiali superiori, 12 per gli ufficiali subalterni, 8 per i sottufficiali, 4 pesetas per sottocapi e
comuni. Questo denaro poteva essere speso solo in piccola parte direttamente presso la
sussistenza della Base navale di Mahón a prezzo calmierato, mentre il grosso degli acquisti
avveniva sul mercato libero a prezzo forte. E, dato che, a partire dal dicembre 1943, per un
complessso di ragioni stagionali e contingenti, i prezzi a Mahón erano saliti a un livello
eccessivamente elevato, si rese sempre più difficile sopperire alle esigenze alimentari.
Questa situazione diede luogo i primi mesi a una preoccupata corrispondenza tra il Comando
navi e l'Ambasciata italiana a Madrid, finché questa decise, nel gennaio o febbraio 1944, di
assegnare un supplemento vitto di 2 pesetas a marinaio. Da parte sua, il consolato italiano a
Palma di Maiorca si adoperò presso le autorità spagnole per alleviare le difficoltà di
approvvigionamento, ottenendo dal Governatore Civile delle Baleari l'assegnazione
82
Marini, p. 16-19.
34
straordinaria di 15.000 chili di legumi secchi, acquistati a Maiorca e spediti a Mahón, e, più
tardi, di una seconda assegnazione straordinaria di 10.000 chili di riso. Contemporaneamente
anche il Comando navi si organizzava per rifornirsi direttamente dal continente. Per far ciò
aveva l'autorizzazione del Ministero della Marina spagnolo, ma bisognava agire di nascosto
dalla Base locale, la quale, non potendo ammettere che gl’Italiani mangiassero meglio degli
Spagnoli, avrebbe potuto far sospendere in tutto o in parte l'assegnazione della razione
spagnola (le 4 pesetas) se avesse appreso che le navi disponevano di fondi per il vitto (le 2
pesetas dell'Ambasciata). Vi era poi la lentezza delle pratiche burocratiche per l'assegnazione
dei permessi di cessione e dei permessi di trasporto. Al momento della partenza per l'Italia
un'ordinazione di pasta per 50 tonnellate di farina fatta quattro mesi prima non era ancora
arrivata!
Le decisioni di spesa erano prese dalla Commissione generale viveri, istituita sin dall'inizio e
presieduta e puntigliosamente seguita nei dettagli giornalieri da uno dei comandanti
sottordine, con la partecipazione di ufficiali di tutte le navi. La Commissione poteva, viste le
lungaggini di cui s'è detto, prevedere che il supplemento vitto di 2 pesetas fosse utilizzato in
altra forma che contribuisse ugualmente alla salute e al benessere degli uomini. La
partecipazione di rappresentanti di tutte le navi alla Commissione viveri serviva a prevenire
tra l'altro le sciocche lamentele tra nave e nave rese possibili dall'ormeggio con navi
affiancate. Uno dei mille inconvenienti della promiscuità che derivava da tale ormeggio era
infatti che il tale aveva visto nel rancio dell'altra nave patate anziché ceci, o altre simili
minuzie dovute all'impossibilità di trovare quantitativi sufficienti di un determinato genere per
l'insieme degli equipaggi, che, riferiti a Mahón, rappresentavano una massa non indifferente.
Le preoccupazioni in merito al vitto non erano un lusso. Numerose e gravi malattie insorsero
specie nei primi mesi. Vi furono in particolare 27 casi di tubercolosi di cui uno mortale e altri
sette così gravi che i malati non poterono tornare in Italia con le navi. Forse quei casi erano
anche dovuti alle fatiche della guerra, ma vi contribuirono certamente la scarsezza iniziale di
nutrimento e anche il clima di Mahón. Quello di Mahón, infatti, non è il clima celebrato e
bellissimo di Maiorca, ma del tutto diverso a causa della configurazione orografica: il vento
soffia impetuoso, l'umidità regna sovrana, gli sbalzi di temperatura sono continui. I
tubercolotici cominciarono ad avere sbocchi di sangue a bordo e si rese necessario sottoporli a
cure specialistiche. Non potendo essere curati localmente, proprio per le ragioni climatiche
menzionate, diciassette marinai, colpiti da forme di tubercolosi polmonare, furono - con
difficoltà e ritardi dovuti alla lentezza e all'indecisione delle autorità spagnole - trasferiti a
Madrid e ricoverati in un modesto, ma ottimo, sanatorio situato sull’altipiano. Dopo solo 15
giorni di permanenza in quella sistemazione ne ritrassero già un discreto beneficio.
83
Marini, p. 12-15, 20-24.
35
A proposito di radio, nei primi giorni di permanenza in Spagna Marini e i comandanti
avevano deciso di lasciare libero ascolto di tutte le radio. Le accuse di ogni genere che si
sentivano crearono un’atmosfera di malcontento e di disgusto che fino a un certo punto poteva
essere educativa, ma che talora assumeva forme pericolose, espresse da frasi come “ma allora
noi a chi dovremmo dare queste navi?” oppure “tanto valeva affondarle, o affondarle
adesso”. In definitiva la più efficace propaganda anti-RSI fu quella delle radio fasciste. Presto
tutti si disinteressarono della radio, salvo per le notizie sull’andamento della guerra. Il
riassunto che si pubblicava a bordo, e nel quale i vari argomenti erano opportunamente messi
in rilievo e i contrasti resi più evidenti, fu il punto di riferimento cui tutti ricorrevano per
tenersi al corrente degli avvenimenti e della situazione politica e generale.
La sensazione che tutto era perduto, provata da uomini che pure avevano fino allora offerto la
loro vita, correndo pericoli non dimenticati per una causa che avevano ritenuto meritevole,
poneva il dubbio che non vi fosse più ormai una causa giusta, che ciascuno dovesse ormai
provvedere a se stesso, badando solo ai più gretti interessi personali. Su 1800 uomini
inevitabilmente, soprattutto tra i più giovani e i meno preparati spiritualmente e culturalmente,
alcuni dovevano cedere alle forme più strane di disorientamento. Si tenga conto poi di tutte le
forme di latente amoralità che in tempi normali, per amore o per forza, rimangono represse. Si
aggiunga che sul disorientamento soffiava la propaganda ambientale, falangista e fascista, e,
infine che, in condizioni generali di scoramento e sgomento, i perversi riescono ad esercitare
sull'animo dei deboli, anche buoni, la loro funesta influenza.
Si spiega così che, per procacciarsi qualche peseta, vi fosse chi cercava di vendere a terra
orologi, binocoli, rivoltelle. Il comando dovette intervenire rapidamente e energicamente per
impedire questa deriva. Parimenti dovette intervenire per stroncare rigorosamente le incipienti
amoralità in fatto di donne, le truffe con pesetas fuori corso del periodo repubblicano, le
resistenze all'obbedienza, i piccoli furti di uva passa od altri generi sottratti alle ceste
incustodite di qualche bottega, i piccoli trucchi per procacciarsi qualche guadagno dalle
compere giornaliere delle mense.
Certo, alla base di questi reati v'erano la mancanza di qualsiasi disponibilità di moneta e la
fame. Marini aveva temuto, se non esattamente previsto, questi inconvenienti e per questo
aveva ritardato al massimo l'inizio della franchigia. A ritardare l'inizio della franchigia
giocava anche la preoccupazione della più intensa propaganda cui i marinai sarebbero andati
incontro a terra, nonché quella d'invadere il piccolo paese con una massa di marinai che
poteva non essere gradita alla popolazione, specie perché rendeva più critica la situazione
alimentare della città, in cui l'arrivo delle navi aveva già provocato un sensibile rialzo dei
prezzi.
La preoccupazione per i franchi che andavano a terra senza un soldo in tasca condusse alla
decisione di distribuire l’economia realizzata con l’unificazione delle mense. L’eccedenza
sulle 4 pesetas concessa a sottufficiali e ufficiali fu utilizzata per dare ai franchi un acconto
36
che era di 5 pesetas per la gente, di 10 per i sottufficiali e 15 per gli ufficiali, cifre irrisorie
ma che pur servirono a qualcosa. Nel contempo Marini interessava l’Ambasciata perché fosse
in qualche modo provveduto, dati gl’inconvenienti che avrebbero potuto verificarsi mandando
la gente in franchigia senza soldi.
E, per distrarre gli uomini, Marini aveva prima pensato ad organizzare passeggiate militari
nell'isola. Ma il Comandante di Minorca, l'inetto generale don Joacquin Gual Villalonga, vi si
oppose per motivi di segreto militare assolutamente puerili. Era poi ricorso alle partite di
calcio ma, alla prima partita tra Italiani e Spagnoli, gli Spagnoli si produssero in un vistoso
saluto falangista, cui gl'Italiani risposero con un'impeccabile posizione d'attenti. Ne seguì un
freddo glaciale e non ci furono altre partite. A questo punto Marini si trovava di fronte a un
dilemma: o dare alla gente un po' di svago con la franchigia o trattenerla sempre a bordo. Ma
le navi erano sovraccariche di personale perché giunte a Mahón con i complementi di guerra
al completo; le condizioni sanitarie vi erano precarie; gli equipaggi, malgrado gli esercizi e le
manutenzioni sempre eseguite pur con gli scarsi materiali a disposizione, restavano
largamente inoperosi. S’è visto che alla fine il 20 settembre Marini si era deciso a iniziare
gradualmente la franchigia. I primi giorni lasciò scendere a terra solo una decina di persone
per nave, poi aumentò il numero progressivamente nelle successive settimane, fino a
raggiungere la franchigia normale dopo poco più di un mese. La popolazione cominciò a
conoscere e apprezzare i marinai italiani; la simpatia, la stima e l'ammirazione li circondarono
fino al momento della partenza. Anzi la popolazione di Mahón divenne l'unica arma effettiva
nelle mani del comandante Marini nei confronti delle autorità locali. Quando a terra i soldati
spagnoli provocavano incidenti e a nulla valevano le proteste di Marini di fronte alla
debolezza, l'indecisione e la partigianeria delle autorità locali, Marini sospendeva la franchigia
ed era la popolazione che attraverso mille vie faceva conoscere il suo malcontento alle
autorità locali e protestava per le ingiustizie commesse. Allora le autorità locali andavano da
Marini per chiedergli perché i marinai non andavano più a terra, per pregarlo di far riprendere
la franchigia, ammettendo implicitamente - dall'orgoglio spagnolo non si poteva pretendere di
più - di essere dispiaciuti per l'accaduto.
Sui cacciatorpediniere, i cui equipaggi avevano diviso con il comandante e gli ufficiali le
ansie e i pericoli della guerra, il senso della disciplina e la solidarietà con i superiori erano
saldi. Dei tre il più fragile era il Fuciliere. Sul Regolo invece, che era uscito affrettatamente da
un lungo e incompiuto periodo di lavori nell'arsenale della Spezia, il cui equipaggio era quindi
di nuova composizione, mancava lo spirito di corpo. L'episodio del sabotaggio del Regolo era
stato superato senza scosse sui cacciatorpeniere, mentre il Regolo continuava a creare
problemi, generando una pericolosa ostilità fra gli equipaggi delle varie navi.
Contribuiva alle tensioni il fatto che, come sappiamo, le navi erano state costrette dagli
Spagnoli il mattino dell'11 settembre ad affiancarsi l'una all'altra in mezzo al mare in fondo
alla rada di Mahón. A distanza di parabordo, e anche meno perché non ce n'era a sufficienza,
le navi avevano così perso la loro, come dire, intimità o autonomia. Ci si poteva parlare da
una nave all'altra e ognuno sapeva tutto di tutti. Era una situazione che permetteva
interferenze e ripercuoteva sulle altre i problemi di ciascuna unità. Ma Marini si guardò bene
dal costituire un gruppo unico perché non intendeva trasformare le navi in un casermone,
bensì mantenerle nella loro unità materiale e spirituale, lasciando pieni ai comandanti e agli
ufficiali il prestigio e la responsabilità che loro competeva.
Tutti i comandanti e la maggior parte degli ufficiali svolsero un'opera meritoria per orientare
gli equipaggi sul contegno che dovevano mantenere per non incorrere da parte della Spagna in
37
sanzioni che avrebbero compromesso la possibilità di riportare le navi in Italia, sulla necessità
di stabilire al più presto la fratellanza più sincera fra i vari equipaggi, sulla necessità di
astenersi da qualsiasi manifestazione e discussione politica a bordo e a terra. E i marinai
furono bravissimi e intelligentissimi. Quando cominciarono ad andare in franchigia e furono
assoggettati a ogni sorta di insinuazioni, lusinghe e minacce, e veniva loro chiesto
insistentemente se erano per Badoglio o per Mussolini, onde innescare discussioni violente e
pericolose, risposero sempre in grandissima maggioranza: "siamo Italiani, ubbidiamo al
nostro comandante". I marinai ubbidirono sempre con la massima comprensione. A quei bravi
ragazzi in grande maggioranza si dovette il buon esito finale della missione. Anche gli
incidenti più gravi servivano a cementare sempre più l'unione degli equipaggi con i loro
comandanti e ufficiali. Ovviamente il comando doveva mantenersi nel giusto mezzo perché
risultasse sì che il torto era da parte spagnola, ma senza che gl'Italiani si ringalluzzissero
troppo. L'urto con i militari spagnoli avveniva infatti non solo per il loro irrepressibile spirito
di fazione, ma soprattutto perché soldati e ufficiali dopo l'arrivo degl'Italiani si sentivano
sempre più trascurati dalle signorine locali. Non era solo merito della prestanza, della
gentilezza e buona educazione degl'Italiani, ma anche demerito degli Spagnoli che
accusavano troppo, nel modo di trattare le donne, i sette secoli di dominazione mora. E
siccome dall'astio personale breve è il passo verso l'insulto, cui si poteva poi attribuire colore
politico, occorreva raccomandare la massima moderazione nel risolvere le situazioni tese e i
numerosi alterchi. La serietà dei marinai permise di limitare le conseguenze. Poi, quando la
simpatia dell'ambiente lo permise, Marini si azzardò a consigliare la reazione fisica più
violenta ed immediata, metodo sempre e ovunque efficacissimo.
Disciplina84
I sobillatori venivano smascherati e puniti. Se si correggevano bene, altrimenti venivano
definitivamente stroncati. Occorreva la massima vigilanza e soprattutto un immediato
intervento per prevenire, seguire e reprimere ogni ripercussione, controagendo ogni giorno nel
modo più appropriato. Marini ritenne di di dover agire in ogni campo secondo la propria
coscienza e di propria iniziativa, senza richiedere e attendere istruzioni che, anche nell'ultimo
periodo di permanenza, avrebbero tardato mesi prima di giungere. E trovò incoraggiamento
nella prontezza e nella comprensione con cui le autorità superiori italiane l'appoggiarono
approvandone l'operato e le poche proposte che gli fu possibile e necessario prospettare.
L'efficacia dell'Isola Plana trovava il suo limite quando i custodi spagnoli si facevano
abbindolare dalla professione filofascista dei puniti. Così in alcuni periodi, specie negli ultimi
mesi di permanenza, anche l'Isola Plana divenne uno strumento inefficiente per il
mantenimento della disciplina. Con le pesetas della paga mensile, gli Italiani segregati
gozzovigliavano insieme con la guardia spagnola e andavano a terra nel vicino paesetto di
Villa Carlos dove non mancavano neppure le compagnie muliebri. Il Comando italiano
protestava contro questo sconcio e le proteste ottenevano un certo risultato, ma solo per
84
Marini, p. 24-28.
38
qualche settimana. Finché decise di ricorrere a un mezzo più efficace: per i puniti all'Isola
Plana era soppresso ogni anticipo in pesetas. Tale severità salvò molti individui che, in
momenti di disorientamento generale e di perfida propaganda spagnola, si lasciavano
scioccamente trascinare sulla strada sbagliata. Rari furono i casi di militari che furono ospiti
dell'Isola Plana per una seconda volta, e di questi nessuno fece ritorno in Italia. Quelli che vi
andarono una sola volta ne conservavano probabilmente una riconoscente memoria. Al ritorno
sulle navi, che furono ben liete di riaccoglierli a bordo, dettero sempre prova di essere ottimi
elementi.
Per i casi gravi l’Isola Plana non era sufficiente. Il comandante Marini dispose istruzioni
preliminari e rinvii a giudizio, pur sapendo che gl’inevitabili vizi di forma avrebbero reso
necessario al ritorno in Italia di ricominciare le procedure, anche perché non era ben definita
la posizione giuridica delle navi e dei naufraghi accasermati nella Base spagnola. Per
mantenere la disciplina e l’efficienza delle navi, occorreva senza indugi individuare i
delinquenti, toglierli di mezzo nei limiti in cui fosse possibile superare l’ostilità spagnola,
ammonendo soprattutto in tal modo la massa degli equipaggi con l’attirare la loro attenzione
sulle gravi e immediate conseguenze cui andavano incontro i devianti. I provvedimenti
adottati si dimostrarono efficaci. Solo dopo qualche tempo il comando, ritenendo di dover
ricorrere a una sanzione definitiva sul posto che fosse possibile applicare eludendo l’ostilità
spagnola, procedette, con l’autorizzazione di Maripers, alla degradazione di un sottufficiale.
Marini aveva naturalmente previsto che coloro che sapevano di non poter sfuggire una volta
tornati in Italia al regolare corso della giustizia avrebbero cercato di creare scompiglio sulle
navi onde procurarsi compagni con cui dividere la loro responsabilità, ovvero, ultima ratio,
avrebbero al momento opportuno disertato.
Per quanto riguarda i sabotaggi e incidenti del Regolo occorsi la notte stessa dell’arrivo, s’è
visto che, chiusa l’inchiesta disciplinare, Marini aveva disposto il 26 settembre l’apertura di
una regolare istruzione preliminare a carattere penale, affidata al direttore di tiro del Regolo
tenente di vascello Mario Ducci. Questa istruzione si presentava laboriosa e complessa;
sarebbe stato necessario poter separare tutti gl’incolpati e gl’indiziati dal resto dell’equipaggio
e l’uno dall’altro ma, non essendo ciò possibile, andava crescendo ogni giorno il numero delle
reciproche accuse e discolpe; per procedere all’accertamento quanto più completo e veritiero
dei fatti sarebbe occorso un tempo lunghissimo. Minacciava di crearsi intanto un senso di
diffidenza e d’incertezza che avrebbe nuovamente compromesso la compagine della nave.
Bisognava allontanare dal bordo la maggior parte del personale di macchina, mentre non era
da escludere che si potesse presentare all’improvviso la possibilità di partire. Marini
riesaminò allora i risultati dell’istruzione disciplinare, sentì il comandante del Regolo che
intanto era riuscito a farsi un’idea più precisa su chi erano i deboli e chi erano i colpevoli, e
dispose che alcuni di quelli che erano stati inviati all’Isola Plana rientrassero a bordo, che altri
di bordo andassero all’Isola Plana e diede all’Ufficiale istruttore, Ducci, la direttiva di
continuare le indagini in modo tale da non pregiudicare l’armonia che i provvedimenti presi
cominciavano a far nascere sul Regolo.
Ormai erano stati individuati gli elementi che costituivano un pericolo per l’avvenire, nel
mentre cominciavano le prime violente manifestazioni politiche di dissidenza. Ne veniva
travolto lo stesso ufficiale istruttore, tenente di vascello Ducci, che, come si vedrà, nel
gennaio 1944 avrebbe disertato. La situazione del Regolo finì per normalizzarsi solo col
definitivo allontanamento da bordo degli elementi pericolosi (il 15 marzo 1944) . Non era
opportuno rischiare di rompere di nuovo l’equilibrio raggiunto: Marini decise di lasciare
l’istruzione preliminare aperta ma sospesa, in attesa degli eventi e di nuovi elementi di
39
giudizio. Per tutto il resto della permanenza in Spagna e al rimpatrio il personale del Regolo si
dimostrò esemplare in tutto.
La posta85
Il non ricevere posta da casa era fonte di profondo disagio. Sull’argomento Marini inviò il 20
novembre 1943 un promemoria a Navitalia Madrid. Per la corrispondenza in partenza “molto
è stato già fatto e può forse nutrirsi la speranza che almeno qualcuna di tali comunicazioni
pervenga alle famiglie”. Ma più importante era la corrispondenza in arrivo dall’Italia “sia
perché tranquillizza i singoli ed attraverso il contatto familiare mantiene in tutti vivo il senso
morale ed il desiderio del ritorno, sia perché in tal modo si ha più netta la sensazione del
buon ordine che si è man mano stabilito nel nostro paese. Purtroppo però dopo 70 giorni,
non è ancora arrivato un sol rigo dall’Italia, eccezion fatta par casi particolarissimi di
ufficiali che hanno potuto beneficiare di speciali conoscenze”. Basandosi sulla possibilità
prospettata dalle autorità centrali della Marina di centralizzare la posta destinata agl’internati
presso il Ministero della Marina a Taranto, Marini suggeriva che le famiglie dei militari
residenti nell’Italia meridionale fossero informate di questa possibilità con un annuncio per
radio. Da Taranto i sacchi sarebbero stati fatti pervenire all’addetto navale a Madrid e quindi
smistati verso le varie destinazioni (Mahón, Palma e Cartagena). Per le famiglie residenti
nell’Italia settentrionale, invece, grazie all’interessamento del Nunzio Apostolico in Madrid,
la centralizzazione si sarebbe fatta presso la Segreteria di Stato del Vaticano, l’annuncio
sarebbe stato fatto dalla radio vaticana e i sacchi sarebbero stati trasportati dal Vaticano alla
Nunziatura Apostolica a Madrid. Aggiungeva Marini che la maggiore prontezza del servizio
in provenienza dell’Italia meridionale sarebbe stato un fattore d’immagine per l’Italia
monarchica.
Questi suggerimenti furono ripresi dall’ambasciata d’Italia a Madrid che li girò alle autorità
italiane (6 dicembre 1943) e al Nunzio Apostolico. Nel marzo 1944 a Mahón arrivò dal
Ministero della Marina una prima spedizione di corrispondenza privata partita in gennaio,
ammontante a una settantina fra lettere e cartoline. Questa era la posta proveniente dalla parte
meridionale d'Italia, che si trovava sotto controllo militare alleato. Considerato che gli uomini
erano 2500, si trattava di una quantità esigua di corrispondenza. Il comandante Marini cercava
di spiegare quali erano le difficoltà del servizio postale sia all'interno dell'Italia che per
l'inoltro da e per l'Italia. Ma il malumore rimaneva tanto più vivo che il servizio postale con il
Nord procedeva relativamente bene.
Organizzazione amministrativa86
L’ufficiale di Marina, anche il comandante, non esercita mai alcuna funzione amministrativo-
finanziaria, disconosce il valore dei soldi. La situazione spagnola richiese invece di sopperire
all’assenza completa di questa preparazione.
Di prezioso aiuto fu il Contabile del Gruppo, 2° capo furiere Gennaro Climaco, il cui grado
gerarchico non elevato non deve celare l’apporto al felice esito della missione. Grazie alla
competenza sicura che gli derivava da una lunga pratica di amministrazione e da
un’intelligenza pronta, versatile e attenta, egli dette il suo contributo all’immediata
85
Marini, p. 58 e annesso 8; telespresso datato “Salerno, 20 maggio 1944” del Segretario Generale del Ministero
degli Esteri, Prunas, al Ministero della Marina a Taranto, con cui, nel trasmettere il rapporto del 12 marzo 1944
dell’addetto navale Tucci, si riporta quanto riferito, nel trasmetterlo, dall’Ambasciatore in Spagna il 14 aprile
1944.
86
Marini, p. 32-35, 159, 161.
40
realizzazione di ogni idea, alla perfetta esecuzione di ogni progetto, con consigli apprezzati
ogniqualvolta era necessario integrare l’azione di comando con dettagli tecnici, con l’aiuto
continuo, paziente ed efficace che dette a tutte le navi, a tutti i contabili delle navi, a tutti i
segretari delle navi. Né è da dimenticare che disimpegnò contemporaneamente nel modo più
lodevole l’incarico di contabile agli assegni del Comando Gruppo e del Mitragliere e nel
modo più perfetto e riservato l’incarico di segretario del Mitragliere e del Comando Gruppo.
Pur restando ciascuna nave autonoma per l’organizzazione interna, fu costituita un’unica
cassa presso il Comando Gruppo. Furono cioè azzerati i vecchi fondi scorta delle unità
custodendone il residuo nella cassa del Gruppo e l’amministrazione in pesetas sorse come
amministrazione unica presso il Gruppo, cui i singoli Comandi si rivolgevano per richiedere
di volta in volta le somme necessarie. Marini si rese conto che per comandare, per limitare le
spese e amministrare secondo i propri criteri, nulla si prestava meglio della custodia diretta
del denaro: circolari, raccomandazioni, direttive, preventive approvazioni o sanzioni si
sviluppano attraverso l’apposizione di una o più firme che si ottengono molto più
agevolmente di quanto non si superi lo scoglio dell’amministratore tirato che vede diminuire
mano a mano il denaro della sua cassa. In questo modo fu lasciata a ciascun comandante la
sua autorità e autonomia, pur realizzando la più completa uniformità di indirizzo e di
trattamento per gli equipaggi. All’accentramento dei conti presso il Gruppo fece peraltro da
contrappeso l’istituzione di apposite commissioni:
la Commissione di revisione dei conti provvide mensilmente a redigere i verbali
d’esame della documentazione di tutte le spese;
un’altra Commissione controllò quanto si riferiva ai viveri, ai materiali e ad altre
prestazioni fornite dalla Marina spagnola in conto sospeso;
la Commissione acquisto materiali;
la Commissione acquisto vestiario.
Queste commissioni erano ciascuna presieduta da un comandante di una delle navi ed erano
composte da ufficiali di tutte le navi. I verbali delle quattro commissioni erano ogni mese
inviati alle autorità competenti in Italia sia a titolo informativo, sia per ricavarne suggerimenti,
istruzioni, direttive.
41
dettagli, attraverso una Commissione generale unica, la complessa gestione di tutte le
mense delle varie unità.
A parte questi compiti specifici, svolti sempre con l’attenzione più scrupolosa, dai tre
comandanti sottordine Marini ebbe sempre un aiuto prezioso, il sostegno più valido, offerto
con sincera e profonda lealtà. Secondo Marini mai collaborazione e unione di spiriti fu più
perfetta ed efficace, mai prese alcuna decisione senza prima avvantaggiarsi del ponderato e
coscienzioso parere dei tre comandanti: non che vi fosse subito un sì unanime e concorde, ma
dalla discussione serena, o anche aspra, sorgeva sempre nelle più varie contingenze la
decisione migliore. Così il muro maestro dei quattro comandanti si presentò sempre compatto,
impossibile da incrinare, esempio per tutti; grazie a tale compattezza ogni situazione critica fu
sempre felicemente superata.
In effetti era una situazione che presentava inconvenienti vari: condizioni sanitarie precarie e
difficoltà di comunicazione con la terra, dovendosi contare esclusivamente sulle insufficienti
imbarcazioni italiane per far scendere gli uomini in franchigia, per procurarsi i viveri e in
genere per tutte le comunicazioni con la Base e con l’ospedale. Ma il problema più grave era
quello dell’energia elettrica, che bisognava produrre con i motori di bordo, motori affaticati
già prima dell’arrivo a Mahón e che ora avevano urgente bisogno di manutenzione.
All’energia elettrica era oltre tutto legata la panificazione che si effettuava a bordo del Regolo.
Per Marini il rimedio era ormeggiare alla banchina e attingere l’elettricità da terra. Invece per
Benito, ancora una volta facile ai progetti fantasiosi (Marini parlava di vena poetica), e che
per di più era di formazione ingegnere elettricista, la soluzione era il collegamento con la terra
a distanza. Fece fare studi e calcoli e fece perdere tempo a tutti. Ma non se ne fece nulla
perché non c’erano né cavi sottomarini né pontoncini per manternere i cavi fuor d’acqua
Anche il progetto di distendere una linea aerea fallì. Ma il più bello era che non aveva preso in
considerazione che la centrale di Mahón non aveva energia a sufficienza nemmeno per la
città, che spesso rimaneva a secco per mancanza di combustibili o avarie ai motori; le case di
Mahón, in fatto di luce, erano una vera pena.
Insomma si tirò avanti con i motori di bordo, non senza continue, reiterate, pressanti preghiere
per avere periodicamente in tempo la motorina necessaria. E anche quando, nel giugno 1944,
le navi si spostarono finalmente alle banchine della Base, il Regolo dovette continuare a
tenere in moto i propri motori. Non c’era da star tranquilli perché già il 22 settembre – come
s’è già detto - uno dei motori del Regolo aveva cessato di funzionare per la rottura dell’asse a
manovella dovuta a difetto del materiale e l’asse, inviato a Barcellona, non tornò riparato che
sei mesi dopo. E si deve ai motoristi delle navi, guidati con grande competenza dal capitano
D.M. Grasso del Carabiniere se i motori continuarono a funzionare regolarmente. Se non
fosse stato possibile in questo modo produrre elettricità, sarebbe stato impossibile evitare di
87
Marini, p. 28-31.
42
sbarcare una parte del personale, con la conseguenza di compromettere la situazione di
“sempre pronti a muovere”. Quando la Spagna lasciò partire le navi, concesse 24 ore di tempo
per tutti i rifornimenti, prove, approntamento, e non un minuto di più.
Nel frattempo Marini non poteva scoraggiare Benito dal suo progetto della fattoria agricola.
L’elenco del personale che doveva restare a bordo fu compilato, anche se non giunse mai
l’occasione di presentarlo. E Marini mostrava il massimo interessamento al progetto, facendo
finta di non capire che Benito, come altri in Spagna, nutriva il pensiero che in un modo o
nell’altro le navi italiane sarebbero finite per rimanere alla Spagna. A lui, come si è già detto,
interessava dimostrare che la vita a bordo delle quattro navi affiancate era impossibile allo
scopo di farle attraccare alla Base, ciò che chiese sin dal mese dell’arrivo e che riuscì a
ottenere nel giugno 1944. Quanto a sbarcare il personale, aveva capito che con gli Spagnoli
bastava non aiutarli perché tutto risultasse impossibile. Il trasferimento alla Base era invece
indispensabile come preparativo alla partenza nel caso in cui fosse stato concesso di nuovo
alle navi il termine di 24 ore, ma, nel frattempo, anche per eliminare il senso di oppressione
che incuteva l’ormeggio a quattro. Riferendosi a questo senso di oppressione, Marini usava la
parola mandracchio, termine del gergo marinaresco che deriva da mandra e descrive una
piccola darsena destinata ai galleggianti minori. Per Marini l’eliminazione del senso di
mandracchio era necessaria per ristabilire l’anima di navi da guerra e debellare l’impressione
generale di disorientamento.
Anche altre preoccupazioni motivavano il “sempre pronti a muovere”, non solo l’eventualità
di dover rispettare un nuovo termine di 24 ore. Quando gli Anglo-americani decisero di
applicare alla Spagna l’embargo sui petroli e il grano, si ebbe il timore che la Spagna potesse
indursi ad entrare in guerra. E non una volta sola si ebbe l’impressione che il malcontento
interno spagnolo fosse tale da far ritenere imminente lo scoppio di una nuova guerra civile.
Anche per questi timori Marini intendeva a qualunque costo mantenere le navi pronte e col
personale al completo, sicché non si sentì tranquillo finché non si spostarono alla Base, da cui
avrebbero potuto, se necessario, accendere e uscire. Per gli stessi motivi occultò sulle navi il
residuo di nafta di cui disponevano. Quando gli Spagnoli, in seguito alle pressanti richieste di
Marini di avere nafta per le cucine, vennero a controllare i depositi, non trovarono nulla.
Marini non intendeva ridursi a zero ed era pronto a lasciare, se necessario, gli equipaggi senza
vitto caldo, ma gli Spagnoli finirono col dare la nafta per le cucine. Per lo stesso timore di
eventualità impreviste, e malgrado la fame dei primi giorni e gli stenti dei primi mesi, ordinò
l’integrale conservazione dei viveri che erano a bordo al momento dell’arrivo, provvedendo
solo alle necessarie sostituzioni per i generi deperibili. Tali viveri, non essendosi verificate
eventualità impreviste, furono riportati in Italia e riconsegnati .
43
Dall’ottobre 1943 all’aprile 1944
I naufraghi fanno lo sciopero della fame 88
Dopo queste osservazioni generali che hanno inevitabilmente anticipato qua e là sugli
avvenimenti, riprendiamo adesso, per quanto possibile, l’esposizione cronologica che
avevamo lasciato a fine settembre 1943, quando Marini si sentiva tutto sommato confortato
dalla comprensione e amicizia di Benito e Garcès. Siamo ai primi d’ottobre 1943.
Quello che i naufraghi del Roma ricevevano da mangiare due volte al giorno direttamente
dalle cucine spagnole della Base era nettamente insufficiente. Scrive Catalano Gonzaga:
“normalmente era un minestrone, o meglio una brodaglia, che certe volte risultava fatta di
componenti indefinibili, in aggiunta a una razione di pane scuro, spesso vecchio e duro. Il 6
ottobre, erano le 12.30, i miei marinai rifiutarono di versare nelle gamelle il minestrone, che
in quell’occasione sembrava fatto di pochi ceci e fagioli che galleggiavano in una brodaglia
acquosa. Naturalmente ero di servizio perché, godendo di una certa simpatia tra i miei
uomini, essi avevano prescelto proprio quel giorno per scioperare. Provai a farli ragionare
sull’inopportunità del loro gesto essendo ‘ospiti’ di una Marina straniera, che dopo tutto ci
aveva accolto fraternamente, ci aveva vestiti, ci aveva dato un tetto e ci dava, benché poco,
anche da mangiare. Non ottenendo nulla, chiesi l’intervento del tenente di vascello Megna, il
quale, nella sua veste di ufficiale più anziano tra tutti noi superstiti i primi giorni Megna li
aveva passati in ospedale, da cui era ora uscito, a sua volta cercò, con acconce parole, di
tranquillizzare i più facinorosi, ma senza riuscirci. Era uno sciopero in piena regola, diciamo
della fame, che stava decisamente uscendo dal nostro controllo. Alla fine arrivarono il
comandante Scroffa di nave Fuciliere, su ordine del comandante Marini, e l’autorità navale
della base spagnola con un gruppo di fanteria di marina armato di lunghi fucili. Il tutto finì
per degenerare in una lunga serie di schiamazzi e di urla che, con il passare del tempo, si
andò esaurendo nel nulla. Le conseguenze del gesto furono in un certo qual modo positive,
escludendo quelle disciplinari, perché le autorità spagnole si resero conto che la quantità di
viveri stanziata per i superstiti delle navi Roma e Vivaldi era esattamente la metà in rapporto
al loro reale numero di oltre cinquecento persone. Il comandante Marini prese poi, dal lato
disciplinare, l’iniziativa di ‘consegnare’ per un’intera settimana tutti quelli che avevano
partecipato alla sommossa e di infliggere all’ufficiale responsabile del servizio di quel giorno
una punizione di 10 giorni di ‘fortezza’. Fu così che l’8 ottobre mi ritrovai racchiuso in una
cella della ‘prigione di rigore’ della fortezza spagnola dell’isola Plana, nella rada di Porto
Mahón”.
Secondo Marini a sera il movimento prese forma con il rifiuto del cibo, che venne in gran
parte gettato in mare. Se le forme assunte dal malcontento erano inaccettabili, i marinai non
avevano torto. I sobillatori furono individuati e puniti, ma il Comando spagnolo si rese infine
conto che la situazione del vitto andava modificata. E pregò anche che una commissione
italiana sorvegliasse le compere e la confezione dei cibi. Il successo di quest'azione fu tale da
creare un nuovo problema. La mensa della Base era unica per i marinai spagnoli e italiani e
ora i marinai spagnoli si misero a lodare quelli italiani: "bene gli Italiani, bravi gl'Italiani,
meno male che ci siete voi perché noi non possiamo parlare!". Un eccesso di queste lodi non
poteva che acuire le diffidenze nei confronti del presunto sovversivismo dei "badogliani".
Bisognò quindi adoperarsi per tacitarle.
Catalano Gonzaga, punito – come s’è visto - con dieci giorni di fortezza, si trovò a convivere
nell’isola Plana con i sabotatori delle macchine del Regolo. Avendo energicamente protestato
88
Catalano Gonzaga, op. cit., p. 138-141; Marini, p. 11-12.
44
con il tenente di vascello Megna, suo superiore diretto, per questa indesiderabile compagnia,
Marini ne aveva parlato alle autorità spagnole le quali, come alternativa, imbarcarono
Catalano Gonzaga agli arresti di rigore sul cacciatorpediniere spagnolo Churruca, che
svolgeva il compito di unità addetta alla vigilanza sulle navi italiane. Sul Churruca, il
comandante spagnolo, Carlo Parvo, aveva scoperto chi era il suo prigioniero: “Tu sei il figlio
del mio grande amico Gaetano! Era il comandante dell’esploratore Da Verrazzano qui con
me in Spagna durante la guerra civile! Abbiamo combattuto per mare, l’uno a fianco
dell’altro, per mesi e mesi contro i comunisti!” E, dopo una pausa: “Tu non sei mio
prigioniero, tu puoi solo essere un mio gradito ospite per i dieci giorni che dovrai trascorrere
a bordo della mia nave!”. E gli aveva messo a disposizione giornali spagnoli ed esteri.
Alla lettura dei giornali Catalano Gonzaga venne a conoscenza delle notizie riguardanti
l’Italia e apprese le umilianti condizioni del Paese e, in particolare della Marina: “La sera nel
mio camerino riflettevo, con profonda ammirazione, su quanto fosse difficile per il
comandante Marini il dover trattare con le autorità spagnole in queste condizioni di
inferiorità e quanto fosse per lui problematico il riuscire ad ottenere cibo, vestiario ed
assistenza per i suoi equipaggi e soprattutto per noi, senza avere dietro alle spalle la
protezione di una Nazione, ma solo un popolo di vinti ed alla mercé del vincitore”.
Ai due telegrammi di Muffone Marini rispose: “Prospetto assoluta necessità che questioni del
genere molto complesse siano trattate a voce”. E a questa risposta, con sua sorpresa, non vi fu
alcun seguito: quel che era stato richiesto con urgenza non serviva più a nulla!
89
Marini, p. 40-42.
45
In quei giorni veniva richiesto a tutti i rappresentanti dell’Italia all’estero se mantenevano la
loro fedeltà al governo del Re o meno. Il console d’Italia a Palma, Alfredo Trinchieri, di
passaggio per Mahón e diretto a Madrid, voleva, per ordine di Madrid, chiedere al personale
del Rama, appartenente alla Regia Aeronautica, se era fedele al Re oppure no. Marini lo
scoraggiò decisamente dal farlo con l’argomento che quei ragazzi erano dei militari e
ubbidivano a lui, ciò che bastava a rendere inutile ogni pronunciamento politico. Il console
comprese subito e si adeguò. Marini si chiese se il console avesse inizialmente inteso fare la
stessa domanda anche ai marinai e, in caso positivo, se, da parte di Madrid, quello fosse un
segno di malafede o di leggerezza: come non comprendere che porre quella domanda ai
marinai delle navi era un delitto contro le navi stesse?
Dail comandante Storich, venuto a Mahón intorno al 13 ottobre, Marini apprese che
l’ambasciatore aveva ritenuto opportuno trattare delle navi direttamente con lui anziché per il
tramite del comandante Muffone e che gli aveva mostrato le istruzioni autografe del
maresciallo Badoglio con l’ordine di partenza delle navi per Palermo non appena ottenuta
l’autorizzazione spagnola, mentre rifornimenti e istruzioni di dettaglio si dovevano concertare
con le autorità navali alleate.
Perché Marini potesse recarsi a Madrid occorreva l’accordo delle autorità spagnole. E’ infatti
dal Comando Base che Marini apprese che, d’ordine del Ministro della Marina spagnolo,
doveva recarsi a Madrid. Il suo animo si riempì di gioia e di speranza, anche se la Base, quasi
a smorzargli ogni illusione, iniziò contemporaneamente la messa a posto di boe a 400 m a
poppavia delle navi per collegarle poi con un cavo d’acciaio, onde rendere più complesse le
operazioni d’uscita.
Tentativi di fuga91
Sin dai primi d’ottobre erano cominciati i tentativi di fuga, destinati a fallire perché non era
facile fuggire da Minorca. Il 17 ottobre fuggirono cinque ospiti delle prigioni della Base.
Molti furono gli allarmi di tentato uso di barche di pescatori, sicché anche il Comando
spagnolo fu severo contro i fuggiaschi. Da parte italiana occorreva evitare lo spopolamento
delle navi: il tentativo di fuga comportava qualche mesetto di cura all’Isola Plana.
90
Marini, p. 42-43.
91
Marini, p. 63.
46
Ma quando la fuga era aureolata dalla motivazione politica, come avvenne per la spedizione
male organizzata con una delle due preziose motolance da un tenente di vascello del
Carabiniere, la punizione si scontava alla Base e si riduceva in burletta.
Subito dopo prese contatto con l’Ambasciatore e sulla cresta dell’euforia e della speranza
telegrafò ai comandanti di Mahón: “Ancora nulla di positivo. Intanto sto cercando differire
sbarco munizionamento et sistemazione reti. Comunicate urgenza se sono in corso aut di
prossima attuazione altri provvedimenti restrittivi cercando intanto dilazionarli quanto più
possibile”.
Dall’ammiraglio Moreno, Ministro della Marina, Marini fu ricevuto nella forma più
accogliente e affettuosa, in presenza del comandante Benito. Moreno convenne che
l’interpretazione del diritto internazionale era, quanto meno nel caso di specie, piuttosto
elastica e poteva dar luogo alle più svariate soluzioni. Egli spiegò d’avere d’urgenza chiamato
Marini a Madrid perché era venuto a sapere che una squadra inglese si sarebbe presentata
davanti a Mahón per imporre l’uscita delle navi. (Più tardi l’addetto navale inglese, Scott,
confermò tale voce a Marini con un sorriso: forse era stata diffusa dagli stessi Inglesi per
sondare le reazioni spagnole). Certo, il ministro trovava comica l’idea di una battaglia navale
alla fonda, ma voleva forse assicurarsi che Marini condividesse la sua incredulità. E Marini si
mostrò convinto dell’assurdità dell’ipotesi, palesandosi cosciente dell’impossibilità per le navi
di percorrere per intero il lungo e stretto budello della rada di Mahón senza esporsi a una
sicura distruzione o almeno a irreparabili avarie, ciò che, aggiunse, non era affatto nei suoi
desideri perché se si erano recati a Mahón era per salvare le navi e restituirle all’Italia.
Una volta soddisfatto il Ministro, Marini cercò di ottenere qualcosa per sé. Vista l’elasticità
del diritto internazionale – argomentò - forse un giorno la Spagna stessa avrebbe potuto
desiderare la partenza delle navi. In quell’occasione sarebbe stato interesse della Spagna che
l’operazione venisse eseguita nel massimo segreto e nel minimo tempo. A tal scopo era
sommamente opportuno che le navi si spostassero alla Base. Marini appoggiò questa richiesta
con l’argomento subordinato – ma cui un cuore di marinaio, egli pensava, non poteva essere
92
Marini, p. 43-49.
47
insensibile – relativo alle difficoltà insite nell’ormeggio a quattro navi affiancate. E il
comandante Benito confermò su questo punto il dire di Marini. Marini non si aspettava
probabilmente di raggiungere seduta stante il suo obiettivo, ma il Ministro riconobbe
pienamente la logica del suo ragionamento e diede ordine a Benito di provvedere allo
spostamento d’ormeggio. E quando Benito obiettò che in tal modo la Base non avrebbe più
avuto alcuna banchina disponibile per il caso di eventuale approdo di unità spagnole, il
Ministro lo rassicurò: “Stia tranquillo. Non prevedo alcun invio di nostre navi a Mahón.
Metta pure le navi italiane alla Base”. Marini non credeva alle sue orecchie e non capì che
l’essenziale doveva ancora venire.
Il comandante Giuriati era giunto a Madrid dopo Marini, che prese contatto anche con lui.
Giuriati, Muffone e Marini esaminarono la possibilità che Marini aggiungesse alle proprie
responsabilità anche quelle dell’Orsa e dei naufraghi di Palma, ma conclusero in senso
negativo, in considerazione dell’impossibilità di seguire a distanza la situazione giorno per
giorno e di tenersi pronto a parare immediatamente le ripercussioni d’ogni genere, in
mancanza oltre tutto di libero movimento fra Mahón e Palma.
Insieme con gli addetti inglese e americano i tre fissarono poi i vari accordi di dettaglio
nell’eventualità della partenza delle navi. Con Muffone, Giuriati e Camicia, anch’egli presente
in quel momento a Madrid, furono poi discussi gli emolumenti da pagare alla gente per i
piccoli bisogni personali durante la franchigia. Muffone disponeva, per le necessità urgenti
delle navi e dei naufraghi nonché per le paghe ed arretrati degli equipaggi dei piroscafi, di un
milione e mezzo di pesetas accordategli in prestito dagli Alleati e aveva approntato una nota
degli assegni da pagare che andavano da 2000 pesetas per i comandanti a 75 per un comune.
Pur trattandosi di cifre modeste che sarebbero servite giusto per permettere a ciascuno
d’integrare il vitto insufficiente, Marini vi si oppose proponendo degli anticipi ridotti di 400
pesetas per gli ufficiali superiori fino a 50 per sottocapi e comuni. Da una parte Marini
pensava infatti che la partenza avrebbe avuto luogo a breve scadenza, dall’altra non voleva
che gli animi si adagiassero come se in fin dei conti la permanenza in Spagna non fosse poi un
gran sacrificio. Voleva invece che crescesse in tutti l’impazienza per la partenza, concedendo
il minimo indispensabile a combattere inconvenienti già manifestatisi, quali furti, vendita di
oggetti, amoralità in fatto di donne, ecc. I suoi interlocutori compresero e accettarono la sua
proposta di ridurre gli assegni ad un minimo insufficiente. Quello che Marini non aveva
anticipato è che la proposta iniziale di Muffone e la sua controproposta venissero conosciuti
prima a Palma e poco dopo anche a Mahón, esponendolo a ogni sorta di acredine, tanto più
48
che nessuno ignorava quali fossero le retribuzioni dei molti funzionari più o meno inoperosi
alle dipendenze dell’Ambasciata e persino dei sottufficiali di Marina che facevano servizio nei
consolati, come Mahón e Palma.
Il ritorno a Mahón si annunciava dunque caldo. Marini tornava con buone speranze di poter
salpare e qualche voce era già trapelata che la partenza potesse essere imminente e però, certo,
tra i 1800 uomini non sarebbero mancati i dissenzienti.
Una riunione separata Marini tenne coi comandanti, comandanti in 2° e direttori di macchina.
Sapendo che nell’uditorio c’era l’ufficiale segnalatogli dal telegramma di Scroffa, il direttore
di macchina del Fuciliere, capitano G.N. Alberto Fedele, Marini spiegò che non era più il
tempo delle avarie e sabotaggi al Regolo. Ora ognuno avrebbe immediatamente e
integralmente risposto a norma del codice penale di guerra di qualsiasi disordine o sabotaggio
che fosse avvenuto a bordo, anche ad opera dei propri dipendenti. Chi doveva capire capì,
anche se contro di loro Marini non poteva, come avrebbe desiderato, prendere provvedimenti
radicali, perché in terra di Spagna correva il rischio di nuocere all’incolumità delle navi e al
buon ordine degli equipaggi. Intanto i comandanti, Scroffa in particolare, dovevano
sorvegliare attentamente i comportamenti in attesa di poter tagliare definitivamente la testa al
toro.
93
Marini, p. 49-50.
94
Marini, p. 50-52.
49
gli permettevano di recarvisi solo la settimana seguente, sempreché la situazione a Mahón gli
consentisse di allontanarsi. Con riferimento alla partenza per l’Italia, che evidentemente
Marini credeva prossima, aggiungeva: “Ripeto opportunità risolvere problema Orsa in
secondo tempo riferendosi necessità lavori. Fate in ogni caso attenzione che nessuna
decisione per partenza navi sia presa da governo spagnolo durante la mia assenza da
Mahón”. Ma un nuovo telegramma da Madrid insisteva che “visita at Palma est molto
urgente. Essa dovrà avere carattere di chiarificazione et orientamento per ufficiali et
personale in quella sede (e cioè Orsa, oltre i naufraghi del Roma, Pegaso et Impetuoso.
Problema Orsa sarà risolto indipendentemente dal vostro”.
Nei giorni seguenti il 23 ottobre Marini dovette scambiare molti telegrammi con gli Spagnoli
per ottenenerne il permesso di recarsi a Palma.
Negli stessi giorni Muffone gli chiedeva di comunicargli d’urgenza se fra ufficiali e
sottufficiali richiamati presenti a Mahón esistessero marittimi disposti a imbarcarsi sui
piroscafi. La risposta di Marini fu: “a mio giudizio se vogliamo risolvere tutti i problemi
insieme li comprometteremo tutti”. Comunque dai successivi accertamenti risultò che non
v’era alcun elemento adatto allo scopo, né era possibile cedere ufficiali di macchina di cui
Marini prevedeva correttamente che si sarebbe trovato in gravissima deficienza.
Primi di novembre95
Per i giorni 1° e 2 novembre 1943, fu organizzata una guardia d'onore alle tombe dei caduti
della Roma. Il pomeriggio del 1° novembre nel corso di una breve cerimonia, cui intervenne il
Console d'Italia a Palma di Maiorca, Trinchieri, furono deposte delle corone e l’Arciprete di
Mahón, Don Antonio Tutzò Garcia de la Parra, impartì la benedizione. I superstiti della Roma
vi erano guidati dal tenente di vascello Giuseppe Megna. Ecco quanto ne ricorda Catalano
Gonzaga: “Il mese di novembre iniziò con una cerimonia funebre nel cimitero di Porto
Mahón in suffragio dei nostri ufficiali, sottufficiali e marinai tumulati in quel quadrato di
terreno, racchiuso da una catena d’ancora tesa tra quattro proiettili da 120 mm e con un
ancorotto per ogni lato. Al centro di quel quadrato c’erano una ventina di croci di legno
grezzo con sopra riportato, quando era stato possibile, nome, cognome e data della morte.
Erano i nominativi degli ufficiali, dei sottufficiali e dei marinai che erano giunti morti a
Porto Mahón a bordo delle navi, tra cui anche quelle cinque salme ‘ignote’ che non ero
riuscito a identificare in quella tragica notte del nostro arrivo. Tutti gli altri si erano spenti
lentamente, tra atroci sofferenze per le carni dilaniate dal fuoco, nell’ospedale lazzaretto
spagnolo. Poche corone di fiori furono depositate solennemente tra le croci nel silenzio
commosso della schiera dei nostri marinai. Intorno a noi c’erano anche molti cittadini di
Porto Mahón intervenuti alla cerimonia forse più per curiosità che non per partecipazione al
nostro dolore. Venne celebrata la messa dei morti; il sacerdote, su mia preghiera, al ‘riposino
in pace’ aggiunse anche i nomi dei miei compagni del corso ‘Squali’ che riposano negli abissi
con la corazzata Roma...”. I naufraghi seppelliti a Mahón erano 25, di cui quattro senza
nome: ai 13 morti durante la navigazione se n’erano aggiunti 12 deceduti all’ospedale di
Mahón. (Una ventiseiesima tomba ospita un sottocapo cannoniere del Fuciliere, morto
all’ospedale di Mahón per tubercolosi).
I comandanti e Marini ebbero in quei giorni molti colloqui a tu per tu con ufficiali e personale
disorientato. Nessuno sforzo fu risparmiato per tentare di prevenire sbandate.
95
Catalano Gonzaga, op. cit., p. 149-150; Marini, p. 64-65 e annesso 7; Istruzioni del comandante Marini del
31.10.1943, documento del Mitragliere.
50
Sempre ai primi di novembre, attraverso una finestra aperta di un magazzino di viveri della
Base alcuni naufraghi del Roma, sempre affamati, si dettero alla pesca, sottraendo dei generi
alimentari. Era una ragazzata ma Marini fu costretto a ricorrere all’Isola Plana.
A Mahón la sera del 7 novembre nel locale notturno Trocadero degli ufficiali spagnoli
provocarono degli ufficiali italiani e i due gruppi, dopo aver scambiato male parole, vennero a
vie di fatto. Gli Italiani nei giorni seguenti insistettero per ottenere soddisfazione e finirono
per ottenerla. Già all’indomani al mattino un tenente spagnolo che non volle dire il suo nome
si recò dal vice-console Tommasi e rilasciò la seguente dichiarazione: “Vengo a nome dei miei
colleghi a porgere le loro scuse e il loro rincrescimento per quanto è accaduto ieri sera nel
locale notturno Trocadero e, nello stesso tempo, vi prego di non rendere di pubblica ragione i
deplorevoli fatti occorsi, in considerazione del fatto che coloro che li hanno provocati hanno
riconosciuto il loro torto ed il loro comportamento poco dignitoso e poco militare nei
riguardi dei vostri ufficiali”. Anche il generale Gual, Governatore militare di Minorca, si
decise infine a redigere una lettera con cui si dava piena soddisfazione agli ufficiali italiani. Il
suo orgoglio però non gli permetteva di inviarla a Marini e il destinatario ne fu… il
comandante della Base, il quale ne diede comunicazione orale a Marini.
Il Teruel era la nave militare spagnola cui fu, per la maggior parte del tempo, affidata la
guardia alle navi italiane di Mahón. Curiosamente si trattava di una nave originariamente
italiana, l’Alessandro Poerio, che era stata ceduta agli Spagnoli nel 1938: varata nel 1914
(aveva dunque 30 anni) era stata tra le prime siluranti o conduttori di flottiglia italiani97.
Quel giorno, da Mahón a Palma viaggiava insieme al Teruel anche il Torpedero 17. Ora,
durante la traversata, a causa del maltempo e della vetustà, il Torpedero 17 fece avaria.
Occorreva prenderlo a rimorchio, ma l’operazione era delicata, tanto che gli Spagnoli
pensarono bene di affidarla… all’ospite italiano!
Giunti finalmente a Palma, dopo tre ore, nel corso della notte, quando quasi tutti erano scesi a
terra, il Teruel, ormai stanco, aveva cominciato a sbandare paurosamente fino a 25° dalla
verticale. Furono i meccanici dell’Orsa, subito accorsi, che lo raddrizzarono.
96
Marini, p. 52.
97
Marini scrive che il Teruel era il vecchio Poerio. Dall’Almanacco Storico delle navi militari italiane, 1996, p.
317 e 354-355, risulta che il Poerio e il gemello Pepe furono nel 1938 ceduti alla Marina spagnola dove
assunsero i nomi di Huesca e Teruel. Sembrerebbe dunque che il Teruel fosse piuttosto il vecchio Pepe.
51
Marini a Palma (8-16 novembre)98
A Palma Marini fece visita all’ammiraglio Garcès, cui illustrò anzitutto il colloquio che aveva
avuto col Ministro Moreno. Si ricorderà che a quel colloquio aveva presenziato il comandante
Benito e non invece il suo superiore, appunto l’ammiraglio Garcès, pur vertendo su questioni
che, riferendosi alle Baleari, riguardavano direttamente quest’ultimo. Quando, di ritorno a
Mahón, Marini aveva insistito con Benito per lo spostamento di ormeggio alla Base, come
consentito dal Ministro, Benito aveva opposto la contrarietà di Garcès, risentitosi della propria
esclusione a quel colloquio. Marini si preoccupò dunque di presentare le cose in modo da
attutire, o almeno da non rinfocolare, quel risentimento. Fu perciò sorpreso del fatto che di
tale risentimento Garcès non gli desse alcun segno. Solo in prosieguo di tempo doveva capire
che il palleggiamento delle decisioni tra Mahón, Palma e Madrid costituiva un metodo per
non mantenere quello che era stato promesso o per rimandare alle calende greche le sue
richieste, qualora l’impossibilità di confutarne il buon senso o la semplice logica consigliava
di non rispondere con un puro e semplice “no”, che avrebbe fatto passare chi lo avesse
pronunciato da ignorante o prepotente.
Per lo stesso motivo per cui aveva richiesto (e, per quanto gli risultava, anche ottenuto!) il
cambio d’ormeggio a Mahón, ossia la necessità di poter partire rapidamente una volta
autorizzata la partenza, Marini chiese a Garcès che fossero ridate all’Orsa le porte delle
caldaie e le trasmissioni delle manovre di allagamento dei depositi. Garcès mostrò molta
comprensione ma senza concludere nulla. Lo stesso risultato si ebbe quando Marini insisté
che le autorità di Maiorca ponessero un freno all’intensa propaganda cui erano soggetti i
marinai italiani di Palma, non solo da parte spagnola, ma anche di emissari degli “agenti
italiani del nord”, inviati appositamente a Maiorca in appoggio al rappresentante locale,
agevolato in ogni sua attività dagli Spagnoli.
Garcès si profondeva invece in lodi per le navi italiane, in particolare per il Regolo, insistendo
che la Spagna avrebbe tenuto molto a disporre di una nave di quel tipo. Ricordando che al
comandante dell’Orsa era stato chiesto senza scrupoli il prezzo dell’ecogoniometro di bordo,
Marini ebbe l’impressione che Garcès stesse per offrirgli una cifra per il Regolo. Si affrettò
pertanto a dire che l’Italia sarebbe stata lieta di costruirne anche quattro o cinque per conto
della Spagna, ma che il Regolo non gli apparteneva e non poteva cederglielo.
Senza dipartirsi dalla massima cortesia, Garcès concesse a Marini di inviare dalle navi di
Mahón all’Orsa alcuni mattoni refrattari di cui questa aveva bisogno e promise, per i
naufraghi, sia il vestiario che il trasferimento da Mahón sul continente. Ma sulla questione
principale Marini cominciava a capire che la Spagna non aveva cambiato idea e rimaneva
ostile alla partenza.
Ne ebbe presto conferma a Palma stessa, quando si recò dal console inglese, Lake. Questi
aveva appena ricevuto dalla propria ambasciata un telegramma che informava che a Madrid
non appariva più probabile una pronta soluzione del problema delle navi italiane. Lake, che
conosceva l’impazienza di Marini, gli espresse il suo più vivo rammarico. La visita al console
inglese di Palma aveva anche lo scopo di spegargli perché Marini non si era e non si sarebbe
fatto vivo con il console inglese di Mahón, che dipendeva da Lake. Gli era che Marini faceva
la voce grossa con gli Spagnoli affinché impedissero ai suoi uomini di recarsi dal console
tedesco; per mantenere l’equidistanza, ed essendo continuamente sorvegliato, doveva
astenersi lui stesso da rapporti con quello inglese.
98
Marini, p. 52-57.
52
Anche da Navitalia Madrid giungeva un telegramma sconfortante che faceva perdere qualsiasi
illusione di una prossima partenza: “Malgrado tutte pratiche svolte fino ad ora questione
partenza non ha fatto ulteriori progressi da epoca vostra missione Madrid. Dovete quindi
prevedere vi sarà probabile lunga permanenza in attuali condizioni et prendere in
conseguenza ogni opportuno provvedimento in campi disciplinare amministrativo
psicologico. Tenete presente che come già ripetutamente comunicato disponibilità valuta est
sempre aleatoria et comunque limitata. Con telegramma odierno in chiaro specifico dettagli
questione amministrativa sottolineando che bassa forza est relativamente favorita nella
proporzione degli anticipi corrisposti. Spero poter inviare tra qualche giorno ulteriore
anticipo competenze commisurato alla somma degli ultimi due corrisposti”. Su quest’ultimo
argomento venivano dunque a mancare le premesse degli assegni minimi insufficienti,
suggeriti da Marini.
Lo scopo primo della visita di Marini a Palma era naturalmente quello di portare una parola
chiarificatrice agli uomini dell’Orsa e ai naufraghi del Roma, del Vivaldi e delle due
torpediniere autoaffondatesi. Lo stesso Marini non capiva bene a priori il problema che gli
toccava risolvere: disorientamento? situazione difficile e critica? Prese contatto con i tre
comandanti (Imperiali, Cigala Fulgosi, Del Pin), visitò i vari raggruppamenti di marinai e
l’Orsa. La causa del problema erano una volta di più gli Spagnoli. La propaganda ostile e le
false notizie sull’Italia e sulla flotta provenivano persino dagli ufficiali di marina dello Stato
Maggiore dell’ammiraglio Garcès. Si ripeteva la situazione di Mahón, aggravata dal fatto che
Palma era una grande città, con intenso movimento di persone, sicché i propagandisti
venivano espressamente dal continente. In città gl’incidenti si erano moltiplicati.
Cominciavano sempre con le solite insinuazioni: “siete per Badoglio o per Mussolini?”. Il
comando italiano aveva finito per prescrivere che ufficiali e sottufficiali andassero a terra
sempre in borghese e che per i marinai la franchigia si limitasse a pochissime ore diurne
corrispondenti al periodo di riposo e stasi delle attività locali. Le lusinghe e i tentativi di
corruzione con migliaia di pesetas alla mano erano molto più frequenti e agevoli che a
Mahón. A Palma era regolarmente insediato l’”agente locale del governo di Mussolini”, ad
onta del fatto che il governo spagnolo riconosceva ufficialmente solo la Regia Ambasciata.
Anzi, mentre gli uffici dipendenti dall’Ambasciata venivano sistematicamente ostacolati,
all’”agente del governo di Mussolini” (ex-regio console Morreale) e ai suoi accoliti erano
concesse tutte le facilitazioni, potendosi per esempio spostare da una città all’altra senza
preventivo permesso e usando la targa CD.
In una situazione così difficile i tre comandanti, pienamente adiuvati dal console Trinchieri,
avevano avuto il merito di mantenere la disciplina e la compagine più perfetta degli
equipaggi. V’era sì del disorientamento, ma soprattutto rabbia, perché nessuno era andato a
comunicar loro le notizie sull’Italia e sulla situazione generale. Avevano atteso la visita di
Giuriati, ma, come sappiamo, le autorità spagnole non l’avevano autorizzata. Aspettavano
Marini e quegli aveva ritardato e rinviato. Quando arrivò, egli ebbe l’impressione che ufficiali
e marinai avessero un solo pensiero: servire la patria. La visita dell’Orsa gli diede poi la
misura dell’efficienza dell’unità e della compattezza dell’equipaggio dietro al suo comandante
e di questo informò subito telefonicamente l’addetto navale.
53
succintamente informato per telefono. Sul Regolo e sul Carabiniere non ci fu scandalo
pubblico: si ebbe solo indizio che uno degli ufficiali (uno per nave) nutrisse sentimenti
antimonarchici. Sul Fuciliere vi fu un episodio più grave: l’ufficiale in 2^, secondo Marini
privo di qualsiasi intelligenza, informava il comandante che la sua presenza in quadrato alla
colazione dell’11 novembre avrebbe potuto creare seri incidenti perché qualche ufficiale si
sarebbe rifiutato di bere alla salute del Re. Lo stesso avviso veniva dato al comandante da
Padre Bisio, sacerdote disorientato e propagandista fascista, che Muffone aveva mandato, con
lettera di raccomandazione del famigerato console Marino, per l’assistenza spirituale alle navi
e ai naufraghi del Roma (si ricorderà che Marino era il vice-console di San Sebastian che
Muffone si era portato con sé nella sua visita a Mahón come interprete e persona di particolare
fiducia).
Marini aveva avuto una lunga conversazione con Padre Bisio il giorno del suo arrivo e aveva
subito capito di che pasta fosse. Malgrado le raccomandazioni fattegli da Marini, e pur
sentendosi attentamente sorvegliato, molto contribuì ai disordini sul Fuciliere: poco
intelligente, fascista sfegatato e subdolo, fu fattore di disordine sulle navi e tra i naufraghi,
come lo era stato nel suo convento spagnolo, dal quale era tenuto più lontano possibile.
Marini fu ben felice quando gli riuscì di farlo partire definitivamente da Mahón. Ma a questo
scopo dovette agire con prudenza, senza precipitare gli eventi, anche per il rispetto dovuto
all’abito talare ch’egli indossava e per l’importanza della religione e ancor più del clero in
Spagna.
A seguito dell’immediata inchiesta che fu effettuata, due ufficiali del Fuciliere, dichiaratisi
antimonarchici, furono subito segregati in cabina in attesa del procedimento a loro riguardo.
Ma, trattandosi di un reato a carattere politico, gli Spagnoli proibirono a Marini d’intervenire.
Marini sfogò verbalmente con il comandante Benito la sua indignazione per la menomazione
che ne derivava alla sua autorità. Alla fine ottenne di poter sanzionare l’aspetto di grave
indisciplina del comportamento dei due ufficiali mediante la loro segregazione all’Isola Plana.
Ma anche questa concessione venne praticamente neutralizzata dall’ammiraglio Garcès con
l’ordine di scontare la punizione alla Base. Alla Base, infatti, i due ufficiali furono gli ospiti
d’onore degli ufficiali della fanteria di marina spagnola, che li trattarono da eroi nelle loro
frequenti e copiose libazioni, incoraggiandoli vieppiù a proclamare la propria fede fascista.
Non basta, furono anche autorizzati ad andare regolarmente in franchigia diventando eroi
anche tra le ragazzuole del paese. Questa burletta di punizione era, oltre tutto, perfettamente
visibile agli altri militari italiani in quanto alla Base si trovavano i naufraghi del Roma e vi si
recavano di continuo ufficiali e marinai delle navi per la manutenzione delle armi. Fu questo
atteggiamento degli Spagnoli che incoraggiò altri Italiani, pochi, a traviare, come più tardi
Benito riconobbe nei confronti di Marini.
E’ da notare che la Spagna si comportava in modo incoerente per un paese che riconosceva il
governo del Re d’Italia. In occasione di solennità italiane generiche, come Santa Barbara, le
unità spagnole si associavano al pavese alzato dalle unità italiane. Invece per solennità come
l’11 novembre e il 4 giugno (ricorrenza dello statuto) le navi italiane alzavano il pavese ma
quelle spagnole no. Anzi il 4 giugno 1944 in un primo tempo le navi spagnole di Mahón
alzarono il pavese dietro avviso italiano, poi a mezzogiorno, su ordine di Palma, lo
ammainarono.
A prescindere dai due ufficiali infedeli, la situazione del Fuciliere era profondamente
pericolosa perché l’ufficiale in 2^ era solo una marionetta del direttore di macchina. Era
questi, capitano del genio navale Alberto Fedele, l’anima nera che si teneva nel buio
54
sobillando e mandando avanti gli altri. Intelligente ed energico, aveva in pugno tutto il suo
reparto, sicché il pericolo di sabotaggio era sempre presente.
Per cominciare a sanare la situazione, Marini si risolse a una mossa energica, che implicava
anche un suo personale sacrificio. Dispose che il suo assistente di squadriglia, capitano di
corvetta Enrico Laj, assumesse le funzioni di comandante in 2^ del Fuciliere e “la marionetta”
lo sostituisse come assistente di squadriglia. In questo ruolo Marini lo avrebbe tenuto sotto
stretta sorveglianza e si sarebbe ridotta la sua capacità di nuocere. Il bravo Laj invece avrebbe
potuto, come in effetti avvenne, validamente coadiuvare il comandante Scroffa nel ristabilire
l’ordine sulla nave. A questo punto l’anima nera commise un errore. Suggerì alla “marionetta”
di evitare il nuovo incarico esibendo un certificato medico compilato dal medico del
Fuciliere, facente parte anche lui della cricca dei dissenzienti, certificato che attestava un
esaurimento nervoso. Marini si ritrovò così in mano un motivo obiettivo e non politico per
sbarcarlo. E “la marionetta” che la mattina, a colloquio con il comandante Benito aveva
sostenuto di essere assolutamente malato, provò il pomeriggio, quando si rese conto che
Marini lo sbarcava, ad affermare che stava benissimo. Ormai anche gli Spagnoli
cominciavano a capire che uomo era. Per qualche mese ancora, vittima della sua stupidaggine
fu Benito, finché nel marzo venne trasferito anche lui a Cartagena. E là, dove era il più
anziano di grado, anche i fascisti repubblicani lo misero da parte nominando capo gruppo il
secondo in anzianità.
100
Marini, p. 132-133.
55
Tumulto sul Mitragliere101
Gli strascichi degl’incidenti dell’11 novembre ci hanno portato fino a dicembre inoltrato. Ma
ora dobbiamo rivenire al ritorno di Marini da Palma. Si ricorderà che prima di recarsi a Palma
Marini era d’avviso che la partenza delle navi di Mahón non doveva essere legata a quella
dell’Orsa, di cui diffidava. La visita gli aveva fatto cambiare opinione e al suo ritorno si
premurò di farlo sapere a Madrid con un telegramma inviato intorno al 23 novembre, da cui si
apprende anche che un tumulto di protesta contro l’esiguità delle 25 pesetas corrisposte ai
comuni era scoppiato proprio sul suo fedele Mitragliere: “Confermo comunicazione
telefonica. Partenza Orsa può aver luogo in collegamento e nello stesso giorno delle altre
unità. Occorre però darmi sufficiente preavviso per predisporre ogni cosa at Mahón et
Palma. Già fissati con Orsa dettagli carattere operativo. Date comunicazione di quanto sopra
a Giuriati et vostri colleghi costì (addetti navali inglese e americano). Ogni ritardo può dar
luogo però nuova situazione et probabile notevole sbarco personale da navi Mahón perché
situazione disciplinare et propaganda sovversiva sono in sensibile peggioramento. Ieri sera si
ebbe tentativo di tumulto su Mitragliere per esiguità cifra 25 pesetas assegnata at comuni et
sproporzione tra bassa forza et ufficiali. Prego fissare assegni mensili et accreditarmi
urgenza somma corrispondente stipendi corrente mese. Tentativo tumulto sedato
consegnando 15 militari at autorità militare spagnola”.
Lo stesso giorno Marini inviava a Navitalia Madrid un promemoria sul morale degli uomini di
cui ecco le parole chiave:
70 giorni di assoluta inattività anche per mancanza di materiali per la manutenzione
mangiare insufficiente, tutti rientrano dalla franchigia con provviste
non manca la propaganda comunista (sic) a terra
maledettissimo cattivo tempo che c’è sempre a Mahón: niente passeggiate
tarlo delle ideologie
molto guardingo nel reprimere
l’indisciplina degli ufficiali conduce all’indisciplina della gente
il pensiero delle famiglie crea un senso di sconforto
ritiene di poter dominare la situazione, ma deve essere aiutato con la risoluzione di tre
problemi: posta, materiali per la manutenzione delle navi, paghe
su quest’ultimo punto, le paghe, occorre che siano definitivamente fissati e
regolarmente pagati gli assegni mensili.
Per Marini la soluzione definitiva del problema delle remunerazioni (assegni individuali e
aiuto finanziario alle famiglie attraverso la delega per pagamenti alle medesime sul credito
rappresentato dal residuo averi da riscuotere all’atto del rimpatrio) doveva dare la sensazione
che tutto continuava in ordine e regolatamente, in Italia e quindi a bordo, onde sradicare ogni
incipiente pessimismo, mantenere in tutti, malgrado la propaganda ostile, la piena fiducia che
nulla era crollato, che gerarchia, autorità e giustizia erano concetti che mantenevano pieno il
loro significato, che famiglia, avvenire personale, tranquillità dei propri cari erano tuttora
affidati all’onestà, all’operosità, alla fedeltà dei singoli, che la famiglia, l’Italia e la Marina
esistevano sempre e attendevano che ognuno compisse il proprio dovere di figlio come esse si
ricordavano di ciascuno e ne avevano cura, considerandolo figlio. D’altra parte un eccesso in
altro senso, troppi soldi, troppo mangiare, vita facile, avrebbero prodotto forme di
degradazione. Di qui la continua ricerca del giusto mezzo per paga, vitto, vestiario, punizioni
pecuniarie.
101
Marini, p. 57 e annesso 7.
56
Grazie all’interessamento del Ministro della Marina il problema del trattamento economico fu
risolto, in maniera pienamente soddisfacente per gli equipaggi, nei primi mesi del 1944.
La defezione di Muffone102
Il 6 dicembre Muffone inviò per conoscenza a Marini un suo promemoria all’ambasciatore in
cui prospettava che, se le navi fossero dovute rimanere a Mahón per un tempo imprecisabile,
si sarebbe dovuto procedere allo sbarco quasi totale degli equipaggi e al loro internamento in
un campo regolare e attrezzato in cui, sotto una disciplina imposta da terzi, venissero eliminati
dissensi e manifestazioni di ribellione.
Il 15 dicembre Marini protestò per iscritto con Muffone riguardo alla prospettiva di sbarcare
gli equipaggi, ribadendo di ritenere, con l’aiuto da parte sua per la posta, le paghe e i materiali
di manutenzione, di poter dominare la situazione: lo sbarco avrebbe significato la perdita delle
navi e oltre tutto, per ragioni pratiche, gli Spagnoli preferivano la situazione corrente.
Poi nei giorni seguenti, in relazione con una seconda visita di Giuriati a Madrid, anche Marini
fu invitato dall’ambasciata a recarsi a Madrid. Ebbe così la possibilità di riaffermare gli
argomenti contro lo sbarco degli equipaggi presso l’ambasciatore, il quale invero ne era già
convinto, tanto che aveva subito fermato l’addetto navale.
Proprio in quei giorni Muffone passava palesemente alla dissidenza e veniva sostituito nelle
funzioni di addetto navale dal capitano di fregata Tucci, fino ad allora addetto navale
aggiunto. Marini discusse con Giuriati e con Tucci le numerose questioni pendenti a Mahón e
a Palma, fissando la linea d’azione da seguire nei confronti dell’atteggiamento ostile della
Spagna. Vide anche gli addetti navali inglese e americano, che purtroppo non poterono dargli
alcuna nuova speranza, e rese visita al Nunzio Apostolico. Nell’accomiatarsi
dall’ambasciatore, lo ringraziò vivamente dei bellissimi pacchi dono che erano in
preparazione per ciascun componente gli equipaggi e per i naufraghi. Quindi si affrettò a
ritornare per trovarsi coi suoi marinai nel giorno di Natale.
Quanto a Muffone, divenuto agente del governo di Mussolini in Spagna, egli si mise a
partecipare all’opera disgregatrice degli emissari della Repubblica sociale. Questi riuscivano a
prendere contatto con i marinai e a distribuire clandestinamente materiale stampato con la
collaborazione dei consoli tedeschi e di elementi falangisti. La loro propaganda era attiva e
persistente. Le promesse d’immediato rimpatrio nell’Italia del nord, di denaro e di lungo
congedo produssero alcune diserzioni. Muffone tra l’altro scrisse a un ufficiale per chiarire il
suo atteggiamento e chiedere l’adesione alla dissidenza.
102
Marini, p. 66-67 e annesso 12; Catalano Gonzaga, op. cit., p. 152; Le Memorie...cit., p. 411 e ss.; telespresso
datato “Salerno, 20 maggio 1944” del Segretario Generale del Ministero degli Esteri, Prunas, al Ministero della
Marina a Taranto, con cui, nel trasmettere il rapporto del 12 marzo 1944 dell’addetto navale Tucci, si riporta
quanto riferito, nel trasmetterlo, dall’Ambasciatore in Spagna il 14 aprile 1944.
103
Marini, p. 67-68.
57
più, facendoli beneficiare di un po’ dell’affetto che non potevano esternare ai loro cari. Il
Natale fu trascorso in un’atmosfera di calda e affettuosa fratellanza.
L’ultimo dell’anno fu accompagnato dal freddo e da un vento impetuoso. Si ruppe una catena
distesa dal Regolo a terra, mettendo in grave pericolo l’incolumità delle navi che rischiavano
di andare tutt’e quattro contro terra in un’unica poltiglia. Maledetto ormeggio, che pure era
stato migliorato e rinforzato in tutti i modi ad onta delle rassicurazioni della Base e del pilota
locale! Per un’intera giornata di ansia e preoccupazione si lavorò a porre rimedio mediante un
cavo d’acciaio da rimorchio del Regolo. Da allora si poteva essere più tranquilli. Ma l’animo
sospeso con cui anche gli Spagnoli chiusero l’anno 1943 poteva servire a far avanzare il
chiodo fisso di Marini: spostare le navi alla Base.
Nella prima decade del gennaio 1944 maturò, senza che gl’Italiani ne fossero informati in
anticipo, la decisione spagnola di trasferire questi naufraghi, milleventicinque (attenzione:
597 + 250 + 90 non fa 1025) persone in tutto, negli alberghi della stazione termale di Caldas
de Malavella, vicino a Gerona e non lontano dal confine con la Francia. Del trasferimento
degli uomini sul continente fu incaricata la nave trasporto truppe Tarife che fece la prima
tappa a Palma.
A Palma l’imbarco avvenne in condizioni penose e spiacevoli che provocarono una protesta
del console Trinchieri presso l’ammiraglio Garcès. Gli Spagnoli condussero infatti
comandanti e ufficiali italiani alla caserma della fanteria di Marina e ve li tennero per
lunghissime ore senza vitto come se fossero in stato d’arresto, separati dal resto
dell’equipaggio. Al momento dell’imbarco sul Tarife la fanteria di Marina spagnola con un
grande spiegamento formò due ali dalla vicina caserma alla banchina. Poi gli ufficiali furono
tenuti confinati in cabine separate e sorvegliati mentre la gente rimaneva chiusa nelle stive, e
ciò fino all’arrivo a Barcellona. Madrid temeva che i naufraghi s’impossessassero del Tarife
per condurlo chissà dove e aveva raccomandato di fare attenzione; Palma aveva rinforzato la
dose. Certo, anche il comandante del Tarife si rendeva conto dell’assurdità di un tal timore,
ma in queste occasioni cosa non si fa per mettersi al riparo da ogni responsabilità?
Alle ore 20 dell’8 gennaio, mentre il Tarife, proveniente da Palma, entrava in porto a Mahón e
attraccava alla banchina, Marini fu chiamato alla Base per comunicazioni. Seppe così solo
allora che anche ai naufraghi di Mahón era stato concesso il trasferimento a Caldas de
Malavella e che si sarebbe dovuto iniziare l’imbarco subito, perché il Tarife ripartiva alle 24.
Gli fu raccomandato di fare in modo da evitare che si producessero incidenti durante la
navigazione, particolarmente per la distribuzione del vitto. Per tutta risposta Marini presentò
al comandante del Tarife il signor Megna che, in quanto ufficiale superstite più anziano, aveva
funto da comandante del campo naufraghi per tutto il periodo della permanenza a Mahón e
aveva svolto sempre ottimamente quel non facile incarico senza badare ad alcun sacrificio
personale. Ed assicurò al comandante spagnolo che tutto si sarebbe svolto regolarmente
104
Marini, p. 69-71; Catalano Gonzaga, op. cit., p. 153-155; Le Memorie...cit., p. 377; telespresso di cui alla nota
97.
58
affidandosi agli ufficiali italiani, che avrebbero opportunamente inquadrato e guidato la gente.
Il comandante del Tarife obiettò che, per ordine tassativo dell’ammiraglio Garcès, gli ufficiali
italiani non avrebbero potuto prendere contatto con i marinai. Allora Marini rispose tranquillo
che declinava qualsiasi responsabilità per incidenti, confusioni o disservizi che avrebbero
potuto aver luogo sul Tarife. A Mahón per fortuna, sebbene fosse assente, come del resto
molto spesso, il comandante Benito, si poteva ragionare meglio che a Palma. Non vi furono
vistosi apparati di forza e furono opportunamente temperati gli ordini draconiani di Garcès.
Prima dell’imbarco, il comandante Marini radunò i naufraghi del Roma nel grande piazzale
antistante la loro caserma e con voce forte, ma velatamente commossa, dette loro il suo saluto
ed il suo augurio unito a quello di tutti gli equipaggi delle quattro navi che restavano a
Mahón. Sulla banchina per salutarli c’erano tutti i comandanti delle navi, Marini, Scroffa,
Bongioanni, Notarbartolo e tanti altri ufficiali. Il Tarife salpò da Mahón alle ore 4.00 del
mattino del 9 gennaio. La navigazione ed ogni servizio si svolsero con tutta tranquillità sotto
la guida degli ufficiali italiani. Il mare era calmo e nel primo pomeriggio la costa catalana era
già visibile ad occhio nudo.
Dalla partenza troppo affrettata dei naufraghi derivarono vertenze per perdite di materiali,
strapuntini e simili, di cui beneficiarono i contabili della Base. Qualcuno avrà poi ereditato
l’ottima verdura dovuta alla bonifica e coltivazione di piccoli appezzati di terreno pietroso,
realizzata dai superstiti della Roma. Per il Comando italiano di Mahón la loro partenza fu uno
sgravio non lieve, data una così gran massa di gente molto male accasermata che era stato così
difficile intrattenere con conferenze, lezioni e appunto l’orticoltura. Ma la mancanza di
informazione e di cooperazione da parte degli Spagnoli fu, per Marini, un avvertimento
quanto alle condizioni in cui un giorno sarebbero potute decorrere le 24 ore per partire con le
navi.
La propaganda fascista non trascurò Caldas de Malavella. Ivi si recò il disertore della Regia
Marina Rodolfo Mostardi per svolgere clandestinamente un’attivissima propaganda, con
copiosa distribuzione di materiale fra cui un Appello della X Flottiglia. A voce il Mostardi
dichiarava a numerosi sottufficiali provenienti dal Nord che, ove fossero partiti per l’Italia del
Sud, sarebbero state prese immediate rappresaglie a carico delle loro famiglie. Il Console
generale italiano in Barcellona protestò energicamente presso l’ufficio del Capitano Generale
della Catalogna per il fatto che il Mostardi fosse potuto giungere a Caldas e ottenne così che a
Caldas avessero libero accesso solo i funzionari del Consolato italiano.
105
Le Memorie...cit., cit., p. 377. Maggiori dettagli in Catalano Gonzaga, op. cit., p. 193-199: da Caldas de
Malavella gl’internati raggiunsero in treno Algesiras, da dove salparono il 12 luglio per Taranto a bordo
dell’incrociatore Duca d’Aosta. Sul Duca d’Aosta era imbarcato il guardiamarina Pier Paolo Bergamini, figlio
dell’ammiraglio Carlo Bergamini, un simbolo dell’avvicendamento delle generazioni nel riscatto dell’Italia.
106
Marini, p. 72-73.
59
avvenuti la notte sull’11 settembre. Serio, taciturno, costantemente accigliato, non aveva mai
fatto opera di propaganda e di sobillazione, salvo quella che, una volta trapelato il suo
orientamento politico, derivava automaticamente dal suo mutismo e dalla sua faccia sempre
abbuiata. Con ciascuno dei due, proprio perché erano molto intelligenti e avevano un passato
degno di lode, Marini aveva avuto colloqui frequenti ma senza frutto. Testardi ed esaltati,
rimanevano sordi a ogni ragionamento e ad ogni richiamo. D’altra parte, l’atteggiamento
spagnolo impediva a Marini di colpirli preventivamente con durezza per motivazioni
politiche. E appigli non politici per il loro allontanamento non ne davano. Ma nel frattempo la
loro presenza a bordo diventava realmente pericolosa, specie per quanto riguarda Fedele.
Quando in gennaio chiesero un permesso di venti giorni per Madrid, i loro comandanti
avvisarono Marini: “bada che non torneranno”, ma Marini fu lieto di accordarlo, pensando
che o si sarebbero resi meglio conto della realtà e che comunque sarebbero stati per tre
settimane lontani dalle navi oppure si sarebbero tolti dai piedi per sempre. Non tornarono e a
loro onore si dovette riconoscere che non avevano infierito direttamente contro le navi:
“quelle lamiere che ci circondano hanno un’anima e una vita che fa parte della nostra vita.
Così il cane idrofobo, per non morderlo, fugge il suo padrone”.
A Madrid i due disertori si misero in contatto con l'ex addetto navale Muffone e raggiunsero
l'Italia del nord.
La sera del 7 febbraio 1944 – in assenza di Marini che si trovava a Madrid - non tornarono
dalla franchigia dieci militari del Regolo. Siccome quella notte sparì anche il Gaspar 2°, un
motoveliero da pesca spagnolo di 14 tonnellate con motore inutilizzato e velatura incompleta,
fu facile collegare le due circostanze e ritenere che i dieci avesse rubato il motopeschereccio
per attuare un loro progetto di fuga. Quella notte e nei giorni successivi il tempo fu burrascoso
con vento da nord e mare agitatissimo, sicché si ritenne che i fuggiaschi fossero miseramente
naufragati (l’eventualità che fossero finiti sulle coste africane fu formulata in via del tutto
ipotetica) . L'episodio lasciò un'impressione dolorosa in tutti, e in particolare nei compagni di
bordo. I comandanti approfittarono dell’episodio per dissuadere ancora una volta tutti gli altri
da imprese del genere e da allora, invero, non vi fu più alcun tentativo di fuga.
I dieci fuggiaschi avevano tutti le famiglie al nord ed è probabile che al nord si volessero
dirigere. Ma non sembra che fossero guidati da un orientamento politico. I compagni
riferirono che tra di loro alcuni soffrivano particolarmente di nostalgia ed avevano talvolta
espresso il proposito di voler in qualche modo sottrarsi all’esilio. Ma Marini venne a sapere
che le sentinelle e i posti di guardia avevano notato con sospetto la strana uscita dalla rada del
motoveliero con velatura in disordine e in condizioni del tutto anormali e strane. Che vi fosse
stata complicità di ufficiali della Base, che in altre occasioni si erano espressi apertamente nel
senso di favorire coloro che volessero andare al nord?
107
Marini, p. 73-78.
60
Sicuramente, comunque, il comandante Benito era in buona fede. Benito, un ufficiale onesto
che faceva il possibile per curare il benessere dei suoi marinai, aveva preso sotto la sua
protezione anche gl’indigenti pescatori di Mahón migliorandone realmente le condizioni. Di
quei pescatori, a suo dire, il proprietario del Gaspar 2° era il più bravo, il più onesto e il meno
meritevole di trovarsi tutt’a un tratto sul lastrico.
Marini sosteneva che tutta la colpa dell’accaduto era spagnola. Tuttavia, per tenersi amico il
comandante della Base per il giorno e gl’incerti della partenza, volle mostrarglisi cooperativo.
Escludendo l’idea di un diretto risarcimento in contanti, da parte italiana, dei danni subiti dal
suo povero pescatore, immaginò che la Marina spagnola avrebbe risarcito il proprietario del
Gaspar 2° contro cessione da parte italiana del motoscafo di salvataggio Rama. I dati della
questione erano complessi. Per cominciare il Rama non era della Marina ma della Regia
Aeronautica. Tanto Marini che Benito sapevano inoltre che in quel momento l’addetto
aeronautico italiano a Madrid era in trattative con l’Aeronautica spagnola per la sua vendita.
Ma Marini, cui non sfuggiva il deperimento che per la lunga attività aveva già subito il
delicatissimo scafo del motoscafo, conosceva l’entusiasmo con cui Benito avrebbe voluto
provvedere alla piena efficienza della sua Base, che non possedeva alcun mezzo per il
salvataggio dei numerosi aerei che frequentemente cadevano intorno alle Baleari. Così Marini
e Benito trattarono per più d’un mese per la cessione del Rama alla Marina piuttosto che
all’Aeronautica spagnola, che Benito e gli ufficiali di marina in genere consideravano come
un’intrusa prepotente. Per Marini, poi, dato il sensibile maggior valore del Rama rispetto al
Gaspar 2°, l’acquisizione del primo da parte della Marina spagnola doveva avere come
contropartita, oltre a una cifra in contanti, la cessione di materiali di manutenzione per le navi,
di cui Marini sentiva un bisogno sempre più impellente.
Il 21 marzo Marini informava Navitalia Madrid di queste trattative e nel frattempo intascava
già qualche beneficio dalle aspettative fatte sorgere nell’animo del comandante Benito: riuscì
infatti a mandare in bacino non solo il Rama, che ne aveva gran bisogno, ma anche la
motozattera 780, che era giunta a Mahón con una falla a prora. Il pagamento dei lavori di
bacino era a conto sospeso. Certo, quando gli Spagnoli si resero conto che l’affare del Rama
non andava avanti, pretesero il saldo delle spese, ma per Marini quel che contava era l’essere
riuscito a far effettuare i lavori. Quanto ai materiali per le manutenzioni delle navi, le solite
lungaggini burocratiche fecero sì che gli Spagnoli si rendessero conto in tempo che sulla
conclusione dell’affare Rama non c’era da contare troppo. Si provvide allora con rifornimenti
diretti da Barcellona dove il console De Minerbi e il comandante Pierleoni seppero superare
lodevolmente le numerose difficoltà, non solo per i materiali di manutenzione ma anche per i
problemi di vestiario.
61
L’espulsione dei dissidenti108
Il 9 febbraio – due giorni dopo la fuga dei dieci del Regolo - sul Fuciliere alcuni membri
dell'equipaggio, i cui nomi erano in gran parte noti, prestarono, in una cerimonia segreta,
giuramento di fedeltà alla Repubblica sociale italiana. Il giorno coincideva con quello del
giuramento fatto prestare alle forze della Repubblica nell'Italia del nord. Era un fatto
gravissimo.
Marini cominciò subito col parlarne al comandante Benito. Con lui non poteva certo
affrontare il problema sotto l'aspetto politico. Gli prospettò invece gl'imminenti pericoli di
sabotaggio che minacciavano le navi. Su questo punto gli Spagnoli erano sensibilissimi,
perché di un eventuale sabotaggio alle navi avrebbero dovuto rispondere non solo al governo
italiano, ma anche ai governi alleati, che potevano accusare la Spagna di profittare di un già
dubbio internamento per rendersi complici del danneggiamento di navi in senso favorevole
alla Germania. Era in gioco la neutralità. Per questo gli Spagnoli avevano, e avrebbero anche
in seguito, fatto di tutto per impedire che da terra fosse fatta la minima propaganda in favore
del sabotaggio. Marini doveva peraltro fare attenzione, anche parlando di sabotaggi, al rischio
dell'abituale reazione spagnola, quella di minacciare lo sbarco del munizionamento o
addirittura degli equipaggi.
Dopo alcuni giorni era già a buon punto nelle sue discussioni con Benito. Questi, prevedendo
l'opposizione dell'ammiraglio Garcès, aveva stabilito con Marini che gli uomini da sbarcare
sarebbero stati accasermati a Ciudadela, sempre a Minorca, cioè in zona di sua giurisdizione,
in modo da rendere più facilmente accettabile la soluzione proposta.
108
Marini, p. 79-85 e 132.
62
Non restava a Marini che scrivere subito a Navitalia accusando apertamente la Spagna di
fomentare il massimo disordine a bordo delle navi e pregando l'ambasciata di mettere il
governo spagnolo di fronte a tale precisa responsabilità. Marini mostrò la bozza di questa
lettera al buon Benito: visto che questi, da collega ufficiale di marina e da responsabile sul
posto, aveva ben compreso le sue ragioni, si poteva forse contare su di lui perché facesse
pressione dalla periferia sulle proprie autorità. Ma, come non è difficile immaginarsi, la
conversazione fu burrascosa perché il povero Benito si sentì attaccato personalmente: come si
poteva accusarlo di voler far nascere la rivoluzione sulle navi, lui che aveva aiutato il
comando italiano in tante occasioni nella misura delle sue possibilità? Marini avrebbe dovuto
anzi dargli atto della sua cooperazione. E in effetti Marini, dovendo convenire della buona
fede di Benito, nel testo definitivo della lettera, datata 23 febbraio, faceva chiaramente
intendere che il comandante della Base non era personalmente in questione.
Mentre aveva luogo questa trattativa, s'era installata sulle navi una cupa atmosfera di
nervosismo, di attesa e di dubbio. Il comando italiano viveva nell'ansia e nel timore dei
sabotaggi. Ma, da parte sua, il comandante Benito fece di tutto per mantenere il massimo
segreto sulle misure che si andavano preparando e nulla avvenne che potesse compromettere
la futura mobilità delle navi. E finalmente, dopo 22 lunghissimi giorni dall'invio della lettera,
il 15 marzo giunse a Mahón la cannoniera Canovas del Castillo, che doveva prelevare
gl’insubordinati per condurli all’arsenale di Cartagena. Per evitare l’allarme degli interessati e
eventuali gesti inconsulti che avrebbero potuto mettere in pericolo l’incolumità delle navi, i
militari da allontanare furono chiamati a poppa uno ad uno e fatti scendere nell’imbarcazione
per il trasbordo sul Canovas del Castillo. Marini spiegò loro, anche per guidarli nel contegno
che avrebbero dovuto tenere a Cartagena senza lasciarsi ancor più traviare da falsa
propaganda, che il gruppo comprendeva:
disorientati politici,
militari colpevoli di atti di sabotaggio o rivolta (Regolo),
“attendisti”, la cui propaganda deleteria tra gli equipaggi avrebbe provocato situazioni
insostenibili,
incorreggibili di vario genere.
Ognuno di loro comprese di qual gruppo faceva parte e nessuno di loro si fece avanti per
chiedere che la sua situazione fosse riesaminata. I comandanti, pur impossibilitati a svolgere
inchieste esaurienti, avevano con la loro diuturna attenzione, con la loro continua vigilanza,
saputo individuare gli elementi ribelli. Ogni situazione personale era stata poi attentamente
esaminata insieme con Marini.
Lo sbarco ebbe luogo senza gli incidenti che, anche a causa dell’atteggiamento spagnolo che
aveva a lungo contribuito ad acuire la situazione, si temevano. Su un totale di 1211 uomini,
gli espulsi erano 58, di cui ben 11 ufficiali: 27 appartenevano al Fuciliere, 29 al Regolo, e uno
solo a ciascuna delle altre due navi, cioè il Mitragliere e il Carabiniere.
63
Ma Marini era appena tornato dal Canovas del Castillo a bordo del Mitragliere, dopo la
traumatica separazione dagli insubordinati, quando tre militari del Fuciliere (Boccalaro,
Franchina, Esposito) si presentarono in coperta dichiarando di essere fascisti, di non essere
disposti ad ubbidire al comando italiano e esprimendo il desiderio di unirsi ai compagni che si
recavano a Cartagena sotto la giurisdizione e protezione dell’autorità spagnola. Essi furono
subito condotti a terra nella speranza di poterli aggregare al carico del Canovas del Castillo,
ma siccome l’elenco presentato in precedenza non li includeva, non ci fu nulla da fare: gli
ordini dell’ammiraglio di Palma erano ordini. Per fortuna Benito seppe prendersi la
responsabilità di mandarli intanto all’Isola Plana.
La più grave crisi interna delle navi di Mahón era così superata. Il provvedimento fu efficace,
permettendo un rapido miglioramento della situazione morale dell’equipaggio delle due navi
particolarmente colpite dalla dissidenza. Da Cartagena gli espulsi non mancarono, con lettere
e inviti in cui descrivevano in maniera idillica la loro attività e la loro vita, di tentare di
provocare ancora disorientamenti a bordo, ma nessuno prestò loro fede. Scrivendo il 10 aprile
1944 all’ambasciata di Madrid, il console di Palma, Trinchieri, poteva riferire che,
interrogando uno dei comandanti sullo spirito della sua gente, quegli aveva risposto che i suoi
marinai erano più o meno giunti al punto di saturazione e che anelavano di riprendere il mare
ed anche il combattimento.
Il Fuciliere ne usciva però privato ormai di molti ufficiali. Il Mitragliere, che gli aveva già
ceduto il comandante Laj, era ora costretto a cedergli il capo servizio G.N. e altri due ufficiali,
i migliori di cui disponeva. Grazie anche a questo sangue nuovo, il Fuciliere sarebbe risorto in
breve a nuova vita.
Sia detto qui per inciso, Marini conservò sempre durante il periodo spagnolo il comando del
Mitragliere, anche per motivi sentimentali, ma, poiché la sua attività di comandante superiore
era varia ed estesa, in realtà chi faceva e provvedeva a tutto a bordo era l’ufficiale in seconda,
il tenente di vascello Oscar Costa. E il Mitragliere, con l’equipaggio che Marini aveva già
comandato in guerra, fu sempre il bastone sicuro e fedele su cui poteva con piena fiducia
appoggiarsi.
La dichiarazione di Roosevelt109
Nel corso di una conferenza stampa il presidente Roosevelt dichiarava il 2 marzo 1944 che era
imminente il trasferimento alla Russia di un terzo della flotta italiana. Nella stessa occasione
disse anche che la questione delle navi italiane riparate nelle isole Baleari era di competenza
del Governo spagnolo.
La cessione di navi alla Russia era cosa inaudita. Il maresciallo Badoglio fece sapere agli
Alleati che, se la comunicazione della Reuter corrispondeva a verità, il suo governo si sarebbe
dimesso e il Re non ne avrebbe costituito un altro.
109
G. Bernardi, op. cit., 148-163; Le Memorie...cit., p. 411 e ss.
64
In realtà Roosevelt, male informato della questione e pressato dalle domande dei giornalisti,
aveva dato un’immagine errata della questione. I Russi avevano sì preteso delle navi italiane
per le operazioni di guerra, ma per il momento era previsto che ricevessero in prestito delle
navi inglesi e americane. Nella conferenza stampa della settimana successiva il presidente
americano faceva una parziale marcia indietro.
Per la nostra storia, l’episodio ha una doppia rilevanza. La cessione delle navi italiane alla
Russia fu un tema molto sfruttato dai fascisti nella propaganda verso gli internati. Marini
riuscirà invece a trarne argomento per tentare di convincere gli Spagnoli a liberare le navi
Con l'arrivo di Cignolini, Marini riuscì a far allontanare da Mahón il vecchio segretario del
consolato, il troppo ispanofilo giovane sottufficiale di Marina del SIS. Con questi se ne
andarono anche le valigette che contenevano i pezzi di una radio clandestina, già smontata in
attesa di farla sparire. Nei primissimi tempi Marini aveva trovato molto utile servirsi di detta
radio (che, si deve presumere, faceva opera di propaganda per il Re). Poi però gli Spagnoli
s'erano messi alla sua ricerca ed erano più volte a questo scopo saliti sulle navi, rinnovando i
sigilli agli apparechi radio di bordo. Se l'avessero trovata al consolato, sarebbe stato un grave
guaio. Solo una volta spedita quella radio a Madrid, Marini poté cominciare a lamentarsi con
gli Spagnoli delle radio clandestine dell'altra sponda esistenti a Mahón.
El dia de la victoria111
Il 1° aprile era in Spagna il dia de la victoria, ricorrenza solennemente celebrata con la
benedizione delle bandiere dei nuovi reggimenti, con riviste militari e con un ricevimento
dato dalla più alta autorità militare del luogo.
Il comandante Marini offrì alla Base Navale di Mahón di partecipare, nella forma ritenuta più
conveniente, alla rivista militare, ma gli fu risposto, dopo aver sollecitato ordini superiori, che
le celebrazioni rivestivano carattere intimo, per cui l’offerta doveva essere declinata. Marini
espresse ufficialmente alla Base Navale la sua spiacevole sorpresa.
65
aprile il risentimento falangista era stato forse acuito dalla presenza di due aviatori tedeschi
caduti in mare non lontano e portati in salvo a Mahón. Non era comunque scoraggiato dalle
autorità spagnole (eccettuate quelle della Marina) che, astenendosi da energiche repressioni e
evitando ogni cordialità o accordo con gl’Italiani, autorizzavano la tracotanza degli estremisti.
E’ in quest’atmosfera che si produsse un grave incidente.
Il 9 aprile v'erano già stati scontri tra Italiani e Spagnoli. Il 10 un sottufficiale italiano si rese
responsabile della loro ripresa col chiedere a un borghese di voler conferire con lui a
proposito degli avvenimenti della vigilia. Ne seguì una zuffa generale al campo di pattinaggio.
Due agenti della Policia Armada, intervenuta, ingiungevano al sottufficiale italiano di
seguirli. Un nucleo di marinai italiani si metteva allora prima a rumoreggiare, incoraggiando il
sottufficiale a non ottemperare all'ordine, quindi si accodava agli agenti che lo conducevano al
posto di polizia dell'Esplanada. Una volta che i poliziotti con il sottufficiale vi furono entrati,
essi rimasero assembrati all'esterno. A questo punto la Policia Armada perdeva la testa e un
agente di polizia sparava contro i marinai italiani, ferendo gravemente… un proprio collega
con due proiettili nel torace penetrati dalla schiena. Poi la polizia tratteneva, senza plausibile
motivo, tre militari italiani e, dopo averli ammanettati, li conduceva dal posto di polizia
dell'Esplanada a quello sito nell'edificio del Governo civile, passando attraverso le vie più
frequentate della città. Quando quattro sottufficiali italiani si avvicinarono in atteggiamento
pacifico al posto di polizia del Governo civile, la polizia reagì malamente e ne trattenne uno.
Il sottufficiale che era stato all'origine dei disordini fu duramente bastonato durante
l'interrogatorio al posto di polizia per indurlo a dichiarare che aveva visto altri Italiani sparare,
mentre in realtà nessun Italiano era armato e la polizia sapeva pertinentemente che l'arma
usata era sua. Intanto si spargeva per la città la voce che i colpi d’arma da fuoco fossero partiti
da un marinaio italiano, e anche quella che i militari italiani avessero tentato di assaltare
l’edificio del locale Governo civile. Tre sottufficiali e due marinai italiani rimanevano
trattenuti e nell'interrogarli la polizia sconfinava sul terreno politico, chiedendo loro se
parteggiavano per Mussolini o se erano comunisti.
Marini chiedeva immediatamente il trasferimento dei fermati alla Base navale e sospendeva
ogni franchigia. Degl'incidenti informava il giorno stesso l'ambasciata, poi, mentre le acque
s'imbrogliavano sempre più e non riusciva nemmeno a sapere chi, come e quando conduceva
l'inchiesta, scrisse il 13 aprile al Comando della Base mettendo in chiaro i punti inconfutabili
da cui risultavano i falsi della polizia. Verbalmente chiese allo stesso Comando Base che fosse
svolta una severissima inchiesta e fossero presi i conseguenti provvedimenti a carico di tutti i
colpevoli, italiani e spagnoli. La stessa richiesta verbale fu fatta anche dal console al
Governatore Civile. A questo punto la tendenza delle autorità spagnole fu di mettere ogni cosa
a tacere, di minimizzare la gravità dei disordini, di risolvere la cosa in ambito locale. Anche il
comandante Benito, tornato allora da uno dei soliti frequenti permessi a Madrid, pur
deplorando con parole severissime il comportamento dei suoi compatrioti, cercò di persuadere
Marini a mostrarsi comprensivo nei confronti di quei poliziotti ignoranti: "in fondo è la prima
volta che accade un fatto del genere, son cose che succedono", e il ferito era ormai fuori
pericolo.
66
forse voluto che il regime facesse le cose diversamente, ma esercitava le sue funzioni per
evitare il peggio. Anch'egli deplorò l'accaduto.
Questi inglesi, ormai da tempo lontani dalle cose di mare, sembravano non rendersi conto
dell'assurdità di un'azione di forza, come pure il loro addetto navale aveva convenuto con
Marini al loro primo incontro nell'ottobre 1943. Ma, se la ritenevano veramente possibile,
c'era il pericolo che interpretassero il rifiuto italiano come un indizio di scarsa voglia di
liberare le navi.
Marini riunì i comandanti. Scroffa rassicurò i presenti che aveva spiegato agli interlocutori
inglesi l'impossibilità dell'operazione Carmen e che non bisognava dare eccessivo peso alle
loro proposte, forse dettate dal desiderio di mostrare il loro interesse per la questione delle
navi italiane internate. Ma Marini rimaneva preoccupato perché in fondo erano i diplomatici a
fare il bello e il cattivo tempo e in quella situazione egli aveva soprattutto bisogno del loro
appoggio. Decise quindi di far conoscere a Madrid il progetto dell'operazione Tago, da lui
predisposta e che era già pronto, relativa all'organizzazione della partenza nelle 24 ore, per il
caso in cui riprendesse a correre il termine pevisto dalla Convenzione dell'Aja.
113
Marini, p. 87-89.
67
Dal maggio al settembre 1944
L’accordo tra la Spagna e gli Alleati114
Il 29 aprile 1944 gli Alleati erano pervenuti a un accordo con la Spagna. Da parte loro si
metteva fine all’embargo di petrolio, mentre gli Spagnoli s’impegnavano a limitare
l’esportazione di volframio in Germania a 20 tonnellate mensili in maggio e giugno e 40
tonnellate mensili a partire da luglio. L’accordo prevedeva anche la liberazione delle navi
mercantili italiane, la chiusura del consolato tedesco a Tangeri e l’espulsione dalla Spagna di
spie e sabotatori tedeschi. Quanto alle navi da guerra italiane, la questione era (attraverso un
successivo scambio di lettere del 2 maggio) rimessa all’arbitrato, senza però che si precisasse
come andava scelto l’arbitro, il quesito da porgli e i tempi: gli Spagnoli non avevano così
alcun incentivo a concludere.
L’ambasciata d’Italia presentava in maggio alle due ambasciate alleate a Madrid uno schema
di formula d’arbitrato da sottoporre ai rispettivi governi prima di presentarlo alla Spagna.
L’arbitrato sarebbe stato affidato a un collegio composto di rappresentanti di Stati neutrali in
Portogallo, e il quesito principale verteva sull’obbligo delle autorità del paese neutrale di
rifornire le navi di carburante. Ma lo stesso Ministero degli Esteri italiano, che aveva ricevuto
copia del progetto, ritenne che gli arbitri non dovessero essere chiamati a risolvere una
questione di principio, bensì limitarsi a valutare il caso concreto. Quanto al collegio arbitrale,
proponeva che fosse composto da due capi di missione diplomatica accreditati a Lisbona e da
un giurista. Non si conoscono invece le reazioni degl’Inglesi e degli Americani, che
manifestamente non davano in quel momento priorità al problema.
Sull'ormeggio alla Base si ricorderà che il Ministro Moreno l'aveva già concesso a Marini
nell'ottobre 1943. Ma tutti gli sforzi per tradurre quella concessione in realtà erano stati vani e
il 17 marzo 1944 il Ministero della Marina spagnolo aveva chiuso l'argomento comunicando
all'addetto navale italiano che "l'attuale ormeggio delle navi da guerra italiane internate a
Mahón è quello che lo Stato Maggiore, tenuto conto delle nostre necessità, ha giudicato come
il più conveniente". Avendo Marini continuato a far pressione, il Ministro gli aveva fatto
rispondere tramite Benito che la questione era connessa a fattori di carattere politico e quindi
di competenza del Ministro degli Esteri, con un palleggiamento di responsabilità in diretta
contraddizione con il messaggio precedente. Bisognava ora mettere gli Spagnoli davanti alla
loro responsabilità per la sicurezza delle navi, dato il rischio di colpi di mano con i mezzi
d'assalto. Già l'ambasciata italiana, per conto anche di quella inglese, aveva informato Marini,
quando era ancora a Mahón, che "sarebbero in preparazione colpi di mano tedeschi contro
nostre navi rifugiate in Spagna per sabotaggi aut per impadronirsene scopo partenza nord.
Regio ambasciatore prega darne comunicazione ai soli Comandanti compresa Orsa a Palma".
114
L. Gallarati Scotti, op. cit., p. 20-21 e 45-49.
115
Marini, p. 89-91 e annesso 19.
68
Il pericolo dei mezzi d'assalto prendeva poi una prospettiva precisa nella misura in cui s'era
saputo che la famosa anima nera del Fuciliere, Fedele, che aveva disertato all’inizio
dell’anno, era scappato nell'Italia del nord e faceva ora parte della X flottiglia Mas alla Spezia.
A lui erano perfettamente noti tutti i dettagli della rada e dell'ormeggio.
Avendo Marini abbordato l'argomento con gli addetti navali inglese e americano a Madrid, fu
convenuto che ciascuna delle due rappresentanze diplomatiche alleate avrebbe presentato al
Governo spagnolo una nota verbale, a sostegno di una nota italiana. Marini preparò, per gli
addetti alleati, una traccia scritta degli elementi che le note verbali dovevano sottoporre
all'attenzione spagnola al fine di concludere che era necessario provvedere immediatamente
all'ormeggio alla Base, mantenere il massimo segreto sullo svolgimento dell'arbitrato, nonché
sul suo risultato, e predisporre la nafta per la partenza. La nota verbale inviata dalla R.
Ambasciata al Ministero degli Affari Esteri spagnolo, con data del 5 giugno 1944 e presentata
l’indomani, fu così appoggiata dalle note delle ambasciate inglesi e americana. Nella nota
italiana si faceva tra l'altro presente
che il pericolo di attentati alla sicurezza delle navi "aumenterà man mano che procedono
le trattative per l'arbitrato raggiungendo il suo massimo quando la decisione sarà presa,
se tale decisione sia favorevole alla partenza";
che il corrente ancoraggio in un unico gruppo avrebbe ampliato gli effetti di un eventuale
attentato; che il cambio d'ormeggio andava effettuato sin d'ora "poiché più tardi
costituirebbe un indizio di misure connesse con la partenza";
la necessità del "segreto sul futuro andamento delle discussioni e delle decisioni
arbitrali".
Il 12 giugno i tre cacciatorpediniere si spostarono con le proprie macchine alla Base. Prima di
spostare il Regolo, gl'Italiani effettuarono gli scandagli, che non erano conosciuti alla Base.
Poi, il 28 giugno, anche il Regolo si spostò con le proprie macchine. La possibilità di muovere
con le proprie macchine era stata concessa in via del tutto amichevole e segreta da Benito su
insistenza di Marini, che voleva, dopo dieci mesi d’immobilità, approfittare dell’occasione per
accendere e assicurarsi che tutto funzionasse come si deve. La prova fu positiva e si poterono
anche considerare superati il sabotaggio (effettivo) del Regolo e quello (temuto) del Fuciliere.
116
Marini, p. 91-92 e annesso 20.
69
presenza a Mahón di tale Osvaldo Francioli, ex-sottufficiale della Marina italiana che aveva
fatto parte del servizio segreto italiano e agente provocatore.
Dovendosi adesso sistemare intorno alle navi le reti di protezione contro i mezzi speciali,
Marini non ebbe difficoltà a convincere Benito che esse non servivano a nulla, quindi
occorreva disporle soprattutto in modo da non creare alcun intralcio alla partenza.
Convennero pertanto di ormeggiare le navi ai tre pontili della Base con la prora in fuori, senza
nessuna boa o cilindro galleggiante che fosse d’ostacolo alla libera e rapida manovra delle
navi; le reti andavano appese tra le prore delle unità avendo cura di far passare le catene di
sospensione al di sotto delle catene d’ormeggio delle navi; bastava quindi sparare i ganci a
scocco perché catene di sospensione e reti andassero a finire sul fondo profondo più di 10
metri. Benito era entusiasta della trovata perché questo sistema lo metteva a posto per quanto
si riferiva alla sua responsabilità in caso di attacchi dei mezzi speciali. E d’altra parte la vista
delle reti – diceva a Marini – avrebbe calmato un po’ quell’impossibile console tedesco.
Questi aveva chiesto a Benito d’informarlo in tempo se c’era qualche previsione di partenza
delle navi e Benito s’era sentito obbligato a dargliene assicurazione. Ma era furibondo (forse
anche con se stesso) considerando che quella richiesta era un’offesa alla Marina spagnola e a
lui personalmente, perché “va bene la politica – diceva a Marini – ma questo vorrebbe dire
tradirvi alle spalle”. E in cuor suo – disse a Marini che non aveva alcun dubbio sulla sua
buona fede – avrebbe voluto rispondergli con due schiaffi, che si riprometteva comunque di
dargli non appena le reciproche situazioni fossero cambiate. Benito era anche al corrente che
il console tedesco disponeva di spie tra il personale stesso della Base e intendeva, non appena
si fossero iniziati i preparativi per il rifornimento e la partenza delle navi, agguantarle e
rinchiuderle alla Base. Ma per il momento si poteva sperare che il console tedesco,
incompetente di cose di mare, si calmasse un po’ e rimanesse soddisfatto nel vedere le navi
ingabbiate tra catene e reti!
117
Marini, p. 2.
118
Marini, p. 93-95.
70
Speranze di partenza: Marini fa leva sul problema della nafta 119
Trasferite le navi alla Base e realizzato il trucco delle reti con la pronta adesione di Benito,
cresceva, tra giugno e luglio, la speranza in una prossima partenza. Tutto sembrava puntare in
quella direzione. Per cominciare si era avuta notizia che i naufraghi concentrati a Caldas de
Malavella venivano rimpatriati. Quando Marini chiese poi a Benito di imbarcare i siluri
facendo presente che farlo all’ultimo momento avrebbe richiesto troppo tempo, quegli
accondiscese subito e i siluri furono reimbarcati lasciando nel magazzino solo le teste cariche.
Infine, sempre su richiesta di Marini, furono costruiti e consegnati i raccordi, necessari per il
rifornimento della nafta, per collegare le manichette delle navi alle tubolature della Base. E
tutto sembrava indicare che si poteva contare sulla favorevole conclusione dell’arbitrato.
Perché allora Madrid taceva?
Per cercare di smuovere le acque, Marini puntò questa volta sul problema della nafta. Era il
momento buono per sollevare la questione, perché nel frattempo aveva fatto fare alle navi
tutte le prove di macchina durante il cambio d’ormeggio, consumando un bel po’ di
carburante. Se avesse cominciato a far calcoli sulla nafta prima del cambio d’ormeggio,
Benito non gli avrebbe consentito di farlo con le proprie macchine. Adesso, in data 1° luglio,
due giorni dopo lo spostamento alla Base del Regolo, scrisse a Navitalia Madrid, invitando
l’ambasciata italiana a cercare di persuadere le autorità spagnole della necessità che le navi
partissero al più tardi il 15 luglio, necessità derivante da un semplice calcolo della nafta
occorrente. Ecco la tesi:
alla Base di Mahón v’erano 500 tonnellate di nafta, corrispondenti al minimo che le navi
nel loro insieme avrebbero dovuto avere a bordo per le necessità di navigazione al
momento della partenza;
al ritmo di 30 tonnellate mensili corrispondenti al controllatissimo consumo per cucine e
calderine (necessarie per la doccia calda), la nafta rimasta a bordo sarebbe finita il 15
luglio;
ergo le navi dovevano partire al più tardi a questa data, altrimenti sarebbe stato necessario
far arrivare a Mahón una petroliera, cosa che tutti volevano evitare, quale indizio
pericoloso, e preventivo avviso, della prossima partenza delle navi.
Questa tesi Marini aveva già cominciato a illustrare a Benito, il quale, nel sentir sciorinare le
cifre della nafta, s’era pentito amaramente di aver consentito allo spostamento delle navi con
le proprie macchine. Ciò detto, aveva dimostrato comprensione per la preoccupazione di
Marini e, d’altra parte, non vedeva l’ora che la partenza delle navi mettesse fine allo stato di
tensione che, tra console tedesco, propagandisti e equipaggi, agitava in quelle settimane
l’atmosfera solitamente tranquilla di Mahón. In questa prospettiva egli giudicava
assolutamente imprudente sollevare lui stesso la questione della nafta, perché la pratica
sarebbe passata dall’ammiraglio di Palma, che aveva sempre opposto intralci alle navi
italiane. Occorreva anche evitare che uscisse fuori il fatto della nafta consumata per il cambio
d’ormeggio. Condividendo questo giudizio, Marini chiedeva a Navitalia che la questione
fosse trattata a Madrid. E insisteva, visto che nella questione dell’ormeggio il governo di
Madrid aveva rapidamente reagito all’argomento della sua responsabilità in una situazione
europea in evoluzione, che si continuasse a battere sul tasto della responsabilità della Spagna
nei riguardi di navi estere che aveva internate e disarmate in violazione del diritto
internazionale. Marini chiedeva però una risposta in tempo per sapere se doveva fare in loco
una richiesta di nafta a partire dal 15 luglio.
119
Marini, p. 94-96 e annessi 21 e 22.
71
Nel suo promemoria del 1° luglio a Navitalia, Marini accusava anche ricevuta della “bozza
della proposta di modalità relativa all’arbitrato” “ancora in corso di studio”. E si lamentava di
come la cosa andasse a rilento, visto che due mesi erano già trascorsi dall’accordo anglo-
spagnolo, aggiungendo che a suo parere non si sarebbe mai arrivati a una conclusione per
quella via. Bisognava arrivare al rilascio puro e semplice delle navi sulla base degli elementi
giuridici (da Marini non conosciuti) che l’ambasciata americana aveva dichiarato di
possedere.
Ma concediamoci la pausa goduta anche a Mahón in occasione della festa della Marina
spagnola.
Marini scrisse a Benito una cordialissima lettera di auguri per la Marina spagnola,
accompagnandola con un’offerta di 500 pesetas a beneficio dei vecchi marinai pensionati e
Benito gli rispose con una lettera altrettanto cordiale e affettuosa: “ogni marinaio sa che il
mare non separa le nostre nazioni, bensì le unisce”. A Benito personalmente Marini offrì in
dono il binocolo che aveva sempre usato in guerra. Benito esitò, infine disse di poterlo
accettare solo in ragione di questo aspetto personale. Non poteva negare Marini il volersi, con
questo dono, ingraziare Benito alla vigilia della partenza di questi per Madrid, ove avrebbe
discusso delle questioni che gli stavano a cuore. Ma è anche vero che l’intesa umana tra i due
capitani di vascello era più che buona. Marini riconosceva che Benito era un onest’uomo e
che, malgrado fosse per Franco e per il regime totalitario (ma non per la falange), si
dimostrava nei confronti degl’Italiani un camerata affettuoso e premuroso; se talvolta agiva in
modo poco simpatico, era per obbedire a ordini superiori; la sua situazione, tra gl’Italiani,
l’ammiraglio di Palma, il generale Gual, i consoli stranieri e la falange, era tutt’altro che
facile; se gli fosse stato ordinato di fare uscire le navi, ne sarebbe stato felice, tanto più che
doveva avere la sensazione che, qualsiasi cosa fosse accaduta, avrebbe pagato lui. E, da parte
sua, Benito comprendeva che Marini non parteggiava per un partito politico piuttosto che per
un altro, ma per l’Italia, e che il suo scopo era di difendere le navi per riportarle in Italia.
E gl’Italiani si associarono alle festività della Madonna del Carmelo. Le quattro navi, lustre e
ordinate, con gli equipaggi impeccabilmente schierati alla banda, furono, soprattutto nel
confronto con il povero Teruel - in disordine, senza equipaggio, negletto - particolare oggetto
di ammirazione ovvero, a seconda degli occhi, d’invidia e gelosia. La processione a mare fu
tutta seguita dalle due lance a remi e dalle due motolance italiane, brillantissime, che
destarono l’ammirazione generale. Al ritorno del corteo, gli equipaggi, di nuovo schierati in
parata a bordo, nel semibuio del tardo tramonto, con poche luci saggiamente postate per far
risaltare le belle linee delle navi, costituivano uno spettacolo suggestivo.
120
Marini, p. 96-98 e annesso 23.
72
L’avaria del Ciudad de Mahón121
Il giorno seguente infatti Benito si recava a Madrid e Marini sperava che questo viaggio
avrebbe affrettato una conclusione che per tanti indizi sembrava imminente. Benito aveva in
mano una lettera di Marini, datata 8 luglio, nella quale questi ricordava che nei 10 mesi di
permanenza le navi non avevano ricevuto alcun quantitativo di nafta, dichiarava che della
nafta di cui le navi disponevano all’atto dell’arrivo a Mahón rimanevano, il 2 luglio, 31
tonnellate, corrispondenti al consumo mensile per cucine e calderine, osservava che già si
verificavano inconvenienti nell’aspirazione dei residui a causa delle impurità della nafta,
riteneva che non bisognava attendere che la nafta fosse completamente finita e che era quindi
opportuno averne sempre globalmente sulle quattro navi almeno una trentina di tonnellate,
anche per essere in grado, in caso di emergenza, di accendere una caldaia, e chiedeva in
conclusione d’imbarcare subito 30 tonnellate e di ricevere un rifornimento di 30 tonnellate al
principio di ogni mese. Nell’inviare per conoscenza questa lettera a Navitalia Madrid, Marini
aveva aggiunto che, poiché le 500 tonnellate presenti alla Base di Mahón andavano tutte
imbarcate per permettere la partenza delle navi, era necessario, per il caso in cui gli Spagnoli
avessero provveduto ai rifornimenti mensili a partire da quel quantitativo, assicurarsi che la
nafta così fornita venisse immediatamente rimpiazzata.
Benito doveva imbarcarsi sulla motonave Ciudad de Mahón, in partenza per Barcellona. Ma,
al momento di partire, si constatò un’avaria apparentemente irreparabile: perduta la chiavetta
e il controdado, l’elica si era sfilata dall’asse, rimanendo per fortuna incastrata contro la spalla
del timone. Secondo il palombaro locale, mezzo ingegnere, rimettere l’elica al suo posto era
impossibile. Il rappresentante della compagnia di navigazione, pensando ai pericoli che
avrebbero corso i passeggeri e preoccupato che nessun’assicurazione avrebbe risarcito i danni
che fossero conseguiti a una riparazione di fortuna, insisteva per desistere da ogni tentativo.
Ma Benito doveva partire e chiese l’intervento di Marini, sempre pronto questi, da parte sua, a
dimostrare l’utilità e la competenza dei suoi uomini. Parteggiavano naturalmente per la
riparazione i passeggeri, tra cui numerosissimi soldati che andavano in licenza.
Allorché il lavoro fu portato felicemente a termine, si levò l’urlo di gioia dei passeggeri che
per tutta la notte, al bivacco, si erano aggirati sulla banchina curiosi, ansiosi, fiduciosi,
attendendo il segno del buon esito dell’impresa. Quell’urlo fu la migliore ricompensa per
l’opera prestata. Il comandante della motonave esitava comprensibilmente a partire perché
non voleva mettersi in mare con un bastimento che non poteva far macchina indietro, ma
infine il Ciudad de Mahón partì e giunse felicemente a Barcellona.
La notizia della bravura e serietà degli Italiani si diffuse per tutta Mahón e le azioni italiane
alla borsa della stima locale, già in rialzo dopo la festa della Madonna del Carmelo, salirono
ancor più. Poi, grazie alle ricompense che Benito volle promuovere a beneficio degl’Italiani,
alle lettere di ringraziamento della Compagnia di navigazione da Barcellona e da Madrid, la
notizia pervenne anche in quelle città. Giunse persino in Italia, da cui venne un gradito
riconoscimento. Da allora i comandanti italiani, che fino ad allora per avvicinarsi ai piroscafi
121
Marini, p. 100-102.
73
in partenza dovevano presentare una ridda di documenti, poterono indisturbatamente salire a
bordo e salutare qualche partente tra i segni di rispetto della polizia e del personale di bordo.
Marini sospese subito la franchigia e ancora una volta la popolazione insorse a difesa degli
Italiani. Una volta appurato che la colpa dell’incidente era da attribuirsi al milite della Policia
Armada e non al sottufficiale italiano, il 22 luglio dispose la ripresa della normale franchigia,
chiedendo al contempo alla Base di prendere provvedimenti per evitare il ripetersi di tali
incidenti e mostrandosi a tal scopo disposto a collaborare con le autorità locali.
Crisi a Palma?123
Già il 21 luglio il comandante Tucci, addetto navale a Madrid, aveva telegrafato a Marini e
per conoscenza al comandante dell’Orsa, Del Pin, di essere stato informato dall’ambasciata
inglese che il “noto Terracciano”, agente della Repubblica Sociale Italiana, aveva frequenti
colloqui con militari dell’Orsa, compresi alcuni ufficiali, al caffè Magin. L’ambasciata inglese
ne traeva la conclusione che fosse opportuno intensificare al massimo le precauzioni contro i
sabotaggi.
Ma il 24 lo stesso Tucci riveniva alla carica con Marini, questa volta senza copia a Del Pin,
con toni ben più allarmanti. L’addetto inglese gli aveva riferito quella mattina stessa di aver
ricevuto un rapporto preoccupante circa la situazione dell’Orsa. Non solo vi sarebbero stati
elementi intenzionati a impedire la partenza della nave, quando ne fosse giunto il momento,
ma inoltre la situazione sarebbe stata aggravata dall’impopolarità del comandante Del Pin
presso una parte dell’equipaggio. L’addetto inglese riteneva necessario provvedere allo sbarco
immediato degli elementi in contatto con Terracciano e prospettava anche niente meno che
l’allontanamento di Del Pin. E ne suggeriva persino gli sconcertanti dettagli: nell’imminenza
della partenza Del Pin sarebbe stato chiamato a Madrid, dopodiché non gli sarebbero stati
forniti i mezzi per tornare a Palma prima della partenza della nave, che sarebbe rimasta al
comando dell’ufficiale in seconda. Tucci pregava Marini di dargli istruzioni.
122
Marini, p. 102 e annesso 24.
123
Marini, p. 102-104 e annesso 25.
74
Marini sapeva che l’ambiente di Palma era ipereccitabile e conosceva le difficoltà di un
comandante; aveva piena fiducia in Del Pin e, anche per non sminuirne l’autorità, non volle
recarsi a Palma. Per mostrargli il proprio appoggio preferì dopo qualche tempo fare venire lui
a Mahón, traendone la conclusione di aver visto giusto. Ed infatti l’Orsa si comportò in
maniera esemplare; quando venne a Mahón, ne poté ammirare l’ordine perfetto, la
compattezza disciplinata della gente, la stima e l’affetto di cui godeva il comandante da parte
del suo equipaggio; durante la permanenza a Mahón e alla partenza non dette alcun pensiero.
E il merito era di Del Pin. Naturalmente Marini fu tranquillo solo quando il console inglese gli
fece sapere qualche tempo dopo che nessuno pensava più agli scenari catastrofici che erano
stati immaginati.
Nella lettera a Benito, in data 10 agosto, diceva di passare sull’argomento dall’orale allo
scritto perché era ora in grado di fornire i nomi di cittadini spagnoli che avevano, fra l’altro,
tentato di imporre a militari italiani di presentarsi al console tedesco di Mahón, nonché i nomi
dei detti militari e degli spagnoli in grado di testimoniare. E aggiungeva: “Ignoro quale
scandalo ed inconvenienti di carattere internazionale possano nascere dalle rivelazioni che
potranno venire alla luce a seguito di un’inchiesta rigorosa in merito…E’ noto che il
passaggio dalla propaganda politica al sabotaggio può essere immediato e diretto”.
Nel discorso ai suoi uomini (13 agosto) Marini li mise in guardia. I propagandisti
avvicinavano le loro vittime non solo con discorsi politici ma anche con piccoli favori in
forma di sigarette o qualche bicchiere di vino. Dopo giorni o settimane di questi incontri,
facendo mostra di aver fiducia nell’interlocutore, cominciavano a chiedere qualche piccola
informazione, poi una lista di persone, finché la vittima si rendeva conto che gli si chiedevano
delle cose più gravi, non escluso il sabotaggio delle navi. Sfuggire all’ingranaggio però
comportava dei rischi per il malcapitato, non solo quello di vedersi rinfacciare di non essere
all'altezza della fiducia in lui riposta, ma anche di prendere un fracco di legnate, o peggio.
Un plebiscito gli Spagnoli avevano già fatto fare il 10 giugno, nella prospettiva del rimpatrio,
ai naufraghi radunati a Caldas de Malavella. Ecco quanto ne scrive Catalano Gonzaga di
Cirella: “Eravamo chiamati a scegliere tra Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, e la Repubblica
124
Marini, p. 104 e annessi 26 e 27.
125
Marini, p. 104-106; Catalano Gonzaga, op. cit., p. 190.
75
Sociale di Benito Mussolini. Le votazioni durarono l’intera giornata e si protrassero fino a
tarda notte sotto lo sguardo vigile ed attento di numerose guardie civili spagnole, ma tutto si
svolse nella massima calma e disciplina. Il nostro plebiscito si risolse con una schiacciante
maggioranza di firme per il Re d’Italia. Furono solo 19 [su 1025] le firme degli aderenti alla
Repubblica Sociale di Mussolini”. Dal fatto che Catalano parli di firme, sembra doversi
dedurre che si trattava di conoscere la volontà di ciascuno, identificato con nome e cognome.
Egli non precisa però se, quando un mese dopo i naufraghi di Caldas de Malavella furono
rimpatriati a bordo del Duca d’Aosta che li riportò a Taranto, i 19 che avevano votato per la
Repubblica Sociale furono autorizzati a non partire.
Sull'argomento del plebiscito Marini preparò una bozza di lettera indirizzata alla Base. La
bozza affermava
in primo luogo che il plebiscito era illegale perché, avendo un significato solo nella
prospettiva di un lodo arbitrale favorevole alla partenza delle navi, presupponeva
l'illegalità dell'internamento. Ora, nell’ipotesi di un internamento illegale, nessuna
intromissione esterna poteva essere consentita. Né si poteva sostenere che il plebiscito
fosse indipendente dall'esito favorevole dell'arbitrato, perché in tale ipotesi non
avrebbe avuto senso o avrebbe tutt'al più avuto lo scopo di creare disordine.
In secondo luogo la risposta al plebiscito non sarebbe servita a nulla. A un internato
isolato si poteva chiedere dove intendeva andare per autorizzarlo a prendere un treno
piuttosto che un altro, ma la rotta di una nave è solo quella che la porta fuori dalle
acque territoriali. Né al comandante poteva chiedersi quali fossero le sue intenzioni,
che egli non avrebbe potuto svelare, soprattutto a stranieri, per ragioni di sicurezza,
tenuto conto delle attività belliche in corso, ma anche perché egli avrebbe deciso in
funzione degli interessi del suo paese solo al momento opportuno. Siccome un
comandante non dichiarerà mai dove va, il plebiscito può solo chiedere: chi vuole
seguire il comandante? E chi invece vuol disertare? Questo non sarebbe un plebiscito,
ma un'istigazione alla diserzione (se la partenza è immediata) o all'insubordinazione
(se la partenza non è ancora in vista).
I comandanti italiani avevano già provveduto a chiedere l’allontanamento
degl’insubordinati. Altri elementi della stessa categoria avevano dichiarato di loro
iniziativa di non voler ubbidire ai propri comandanti e si trovavano ora a disposizione
dell’autorità spagnola. Siccome i comandanti italiani non disponevano di alcun mezzo
di coercizione, non potevano impedire ai propri dipendenti di presentarsi all’autorità
spagnola e dichiarare di non voler più ubbidire ai propri comandanti. Nonostante
queste circostanze, la grande massa dei militari attualmente a bordo delle navi prestava
una perfetta e volontaria obbedienza. Questo spontaneo spirito di disciplina faceva sì
che gli equipaggi dessero un’ammirevole prova di serietà, correttezza, ottimo
comportamento, ordine, dignità, fedeltà assoluta alla propria nave e al proprio
comandante in circostanze tragiche come quelle che viveva l’Italia. Ora, in questo
organismo si pensava di iniettare il veleno del dubbio chiedendo chi voleva e chi non
voleva seguire il proprio comandante? Una simile domanda non si poteva fare in un
organismo militare. Essendo il plebiscito per il nord o per il sud senza significato, esso
si sarebbe tradotto in realtà, come già detto, in un’istigazione alla diserzione o
all’insubordinazione.
Inducendo degli onesti poveri marinai, che non erano in grado di valutare situazioni
così difficili, a dissociarsi dai propri comandanti, si faceva opera antiumanitaria.
Infine, il plebiscito avrebbe dato l’avviso della prossima partenza delle navi, mettendo
a repentaglio la loro sicurezza.
76
Perché fosse chiaro che la responsabilità morale e materiale delle conseguenze del plebiscito
ricadeva sull’autorità che ne avesse dato l’ordine e non sul comando italiano, Marini
concludeva dichiarando, nella forma più netta e decisa, che, pur disarmato, sarebbe stato suo
dovere opporsi e che si sarebbe opposto con tutte le sue forze all’esecuzione del plebiscito,
aggiungendo che tale sicurezza gli derivava dalla coscienza di aver sempre lealmente
obbedito agli ordini dell’autorità spagnola, di aver mantenuto i suoi impegni d’onore e aver
servito gl’interessi dell’Italia e della Spagna.
Marini si limitò a mostrare questa bozza a Benito (e più tardi al suo successore) a scopo
intimidatorio, ciò che ebbe il suo effetto se è vero che all’epoca dell’effettiva partenza il
plebiscito fu ordinato da Palma ma il comandante della Base di Mahón non gli diede corso.
Ne inviò pure una copia ai comandanti sottordine, compreso Del Pin, che avevano richiesto
istruzioni, con l’avvertenza peraltro che la sola fondamentale istruzione era quella di riportare
le navi in Italia e che bisognava quindi agire a seconda delle circostanze.
Anche successivamente gl'Inglesi non si dettero più pena per le navi italiane: ormai avevano
la certezza che le navi non sarebbero andate perdute e sapevano che per il rilascio delle navi
gli Spagnoli avrebbero chiesto qualche contropartita. Nella seconda metà della permanenza a
Mahón fu soprattuto l'ambasciatore americano Hayes, coadiuvato dall'addetto navale,
capitano di vascello Lusk, che mise il suo impegno personale nella soluzione della questione.
Da parte sua, Marini continuava a prendere le iniziative che poteva, esercitando pressioni in
Spagna, chiedendo aiuto in Italia, prospettando nuovi pericoli agli Anglo-Americani. Ma, per
cominciare, doveva difendersi da iniziative che rimettevano in questione tutta la linea da lui
perseguita.
77
trattasse di opinioni personali, bensì di un orientamento, sia pure ancora embrionale, delle
superiori autorità militari o politiche. Nel dare queste notizie a Marini, Tucci suggeriva che,
attraverso il console inglese a Mahón, Marini facesse pervenire la sua reazione all'ambasciata
inglese.
Marini rispondeva a Tucci il 5 agosto equiparando la proposta inglese alla perdita delle navi e
aggiungendo che in quella prospettiva i sabotaggi non potevano escludersi neppure da parte di
personale fedele al Re, in ragione dei dubbi che potevano nascere sulla sorte delle navi.
Riteneva necessario informare Giuriati e de Courten. Lo stesso giorno espresse in modo
deciso la sua opinione al console inglese, facendo intendere che, se avessero dovuto
abbandonare le navi per abbandonarle a chi sa quale destino, le avrebbero prima affondate. Il
console promise d'informarne l'ambasciata. E della cosa non si parlò più.
Un telegramma a de Courten127
In quei giorni (29 agosto) Marini diede espressione a una certa sua disperazione col chiedere a
Navitalia Madrid di trasmettere un suo telegramma urgente all'ammiraglio de Courten, ancora
Ministro della Marina nel governo Bonomi, in cui in sostanza si diceva: le navi sono pronte a
partire, non ci sarà mai momento più favorevole, occorre che dall'Italia si prema sugli Alleati
perché costringano la Spagna al rilascio, eventualmente anche senza arbitrato.
Sembra di capire che quel telegramma non ebbe risposta e che Marini avesse poi qualche
ripensamento sull'opportunità di coinvolgere il Ministro nei problemi di Minorca.
Arriva la nafta128
Lo stesso giorno arrivava finalmente la petroliera spagnola Pluton che sbarcava, tra
l'eccitazione e la gioia generale, il suo prezioso carico di nafta nei depositi della Base.
Marini telegrafava a Madrid: "Tutto è pronto per la partenza. Prego effettuare tutte
sollecitazioni possibili per partenza chiedendo anche telegraficamente in Italia diretto
interessamento nostro governo".
127
Marini, p. 106-107.
128
Marini, p. 107.
129
Marini, p. 108 e annesso 32.
78
chiarissima nella sostanza, al rischio che dei danni eventualmente subiti dagli scafi a causa
della mancata manutenzione, potesse essere chiamata a rispondere la Spagna nel caso in cui il
lodo arbitrale avesse considerato arbitrario l’internamento. Per questa ragione, si aggiungeva,
copia della nota era inviata all’ambasciata e Benito era pregato di darne a sua volta
conoscenza alle proprie autorità.
Il tono della nota dovette impensierire Benito, con cui seguirono delle conversazioni che si
concentrarono sul problema del Regolo. Benito finì per fare una di quelle proposte che Marini
qualificava di poetiche: fare il bacino al Regolo in due tempi, immettendolo per metà alla
volta, prima la prora e poi la poppa, nel bacino galleggiante di Mahón (che non era nemmeno
di larghezza sufficiente!), lasciando che l’altra metà della nave, fuori bacino fosse sostenuta
dalla spinta dell’acqua. A questo punto le note scambiate fra Marini e Benito presero un tono
decisamente comico. Il 19 settembre Marini scriveva allegando i disegni del Regolo, che
Benito aveva richiesto verbalmente, ma ribadendo l’opinione che l’operazione non era
possibile. E accumulava le difficoltà: se il comando Base non faceva sue le obiezioni di
carattere tecnico, che consultasse gli organi tecnici spagnoli; la cattiva stagione era alle porte;
il Regolo era una costruzione particolarmente leggera e con largo impiego di saldature; per di
più aveva perduto la prora per effetto di un siluramentoe da quando gli era stata applicata una
nuova prora130 aveva navigato solo in mare calmo; se davvero la Marina spagnola aveva
l’intenzione di mettere in pratica un progetto così rischioso, era opportuno sentire il parere del
Comitato Progetto Navi del Ministero italiano. Ma tanto tempo sarebbe allora passato che,
tenuto conto del rischio di danni, era bene che Benito informasse il Ministero degli Esteri di
Madrid, ché lui intanto informava l’ambasciata. E all’ambasciata Marini aggiungeva che gli
argomenti della costruzione leggera o della prora applicata successivamente dovevano servire
a mandare a monte senza offesa un progetto così strampalato, che gli ufficiali ingegneri di
bordo qualificavano di semplice pazzia.
Benito, punto sul vivo, rispondeva il giorno stesso, considerando prematura la comunicazione
all’ambasciata, perché non v’era ancora alcuna intenzione definitiva: la questione era sotto
studio per venire incontro al massimo alla richiesta di bacino. Assicurava che non si sarebbe
fatto niente senza un’assoluta sicurezza e l’accordo dello stesso Marini. Intanto però si
potevano cambiare gli zinchi, misura facile ed efficace che anzi si sarebbe dovuta prendere
prima, essendo la causa principale delle corrosioni. Il 21 settembre Marini replicava che nella
Marina italiana gli zinchi erano sempre cambiati e messi a posto presso un arsenale, sicché le
navi ne erano sprovviste; dava nuovi dettagli tecnici che forse spiegavano perché per le unità
tipo Regolo era tassativamente prescritta in Italia l’immissione in bacino ogni sei mesi. E il
tono diveniva quasi canzonatorio: “…sono grato del rimprovero fattomi da codesto
Comando…Prego infine scusarmi se, preoccupato dal pensiero costante di fare tutto quanto
nella mia coscienza mi sembra doveroso per il bene delle navi e del mio paese, ho dato
l’impressione di voler addossare ad altri responsabilità che ovviamente e nel campo pratico
sono mie in ogni caso… E prego in questa occasione voler prendere atto che se talvolta non
misuro adeguatamente queste mie parole e le pronunzio apertamente dimenticando di
trovarmi in terra non italiana, è proprio perché in V.S. e nella Marina spagnola ho trovato
sempre tanto appoggio morale, tecnico e in ogni campo…”.
130
E’ vero che il Regolo aveva perduto la prora per effetto di un siluramento? La storia sembra ispirata a quella
del Carabiniere, di cui il tenente di vascello Marenco, assistente di squadriglia di Marini, era ben informato per
averla personalmente vissuta. Il Carabiniere era stato colpito il 16 febbraio 1942 presso Capo dell’Armi da un
siluro del sommergibile inglese P 36 che gli aveva tagliato di netto la prora. Gli era stata in seguito applicata la
prora del Carrista in costruzione a Livorno.
79
La questione del bacino alle navi mise in croce a lungo gli Spagnoli di Mahón, di Palma e di
Madrid. Lo scopo era di creare una sufficiente insofferenza per la prolungata permanenza di
quei benedetti Italiani e aggiungere un granellino di più ai mille motivi a favore di una loro
definitiva partenza.
Come se ciò non bastasse, a fine agosto Garcès, l’ammiraglio di Palma, diede ordine che i tre
reintegrassero le navi. Il 31 di quel mese fecero ritorno a bordo del Fuciliere, dove subito
rinnovarono la loro dichiarazione di non riconoscere l’autorità del comando italiano. Allora
Marini li portò al comando Base, dove, in presenza di Benito, Marini, Scroffa e Laj, essi
dissero di riconoscere solo l’autorità spagnola e chiesero di rimanere sotto la protezione di
quella. Ciò sarebbe dovuto bastare perché gli Spagnoli rinunciassero al loro proposito: come
si poteva chiedere al comando italiano, così privato dello strumento disciplinare, di inquadrare
degli uomini contro il loro volere? Invece gli ordini erano ordini. Marini era furibondo, pur
rendendosi conto che Benito eseguiva istruzioni superiori. Quando Benito ordinò loro di
tornare a bordo e di obbedire senza riserve al comando italiano, i tre chiesero di poter prima
parlare al console tedesco. Benito rifiutò e minacciò di farli condurre a bordo legati e sotto
guardia armata spagnola. Sotto questa minaccia i tre acconsentirono ad andare a bordo con le
proprie gambe. Ad aggravare la situazione, Garcès pretese da allora di conoscere i minimi
dettagli su coloro che Marini intendeva punire con l’ Isola Plana.
Solo più tardi gli Spagnoli vollero rendersi conto dell'assurdità della situazione e fu possibile
sbarcare e inviare i tre alla destinazione da loro desiderata, cioè Cartagena.
131
Marini, p. 108-109 e annesso 33.
132
Marini, p. 109 e annesso 34.
80
Un nuovo spauracchio: la cessione delle navi alla Russia 133
Chi pensasse che in fin dei conti quei lunghi mesi d'internamento in Spagna offrissero
l'occasione per vivere senza pensieri si sbaglierebbe di grosso, almeno per quanto riguarda il
comandante Marini. Basterebbe, per convincersene, leggere le note inviate da Marini tra l'11 e
il 13 settembre al comandante Tucci, addetto navale a Madrid. La nota dell'11 tratta sei
diverse questioni, di cui la prima è l'apprezzamento della situazione delle navi. Segue una
nota del 13 in cui si chiariscono alcuni argomenti svolti su questa questione nella nota
precedente e una terza nota dello stesso giorno in cui si ritorna sul tema, ristrutturandolo,
ampliandolo, sviscerandolo. Il problema è sempre lo stesso, come accelerare la partenza delle
navi, che riviene con insistenza quasi ossessiva. E manifesta è la diffidenza del militare per
l'ambiente diplomatico, cui appartiene anche il collega addetto navale, ambiente sospettato di
leggerezza ed ignavia per il fatto di non condividere quell'ossessione: "Tale circostanza viene
giornalmente prospettata al Ministero Marina con la stessa costanza, perversità e
inesorabilità con cui io giornalmente insisto a Mahón? Ne è stato parlato agli alleati?"; "…il
nessun progresso in merito [all'arbitrato] è diventato veramente una burla".
La nuova pista che Marini vuole perseguire è quella del pericolo che le navi di Mahón siano
cedute alla Russia ("è noto come mesi fa la Russia abbia tentato il colpo di farsi consegnare
un terzo della Marina Italiana"). Quando giornali e radio avevano diffuso la notizia che parte
della flotta italiana avrebbe dovuto essere consegnata alla Russia, grande scalpore ne era
conseguito tra i militari italiani e negli ambienti spagnoli: "Nella Spagna ufficiale,
accanitamente anticomunista, nulla faceva saltare il sangue al viso come il pensiero e
l'eventualità che l'URSS si insediasse presto in Mediterraneo con sue navi da guerra". E
allora Marini sviluppò la tesi che le navi ferme a Mahón corressero, proprio per questo,
maggior pericolo, per sventare il quale bisognava lasciarle partire. Il maggior pericolo
derivava dal fatto che quelle navi avevano cessato di combattere l'8 settembre, ovverossia
avevano combattuto solo contro Inghilterra, Stati Uniti e Russia, e non avevano cobelligerato
con queste. Se poteva essere difficile per la Russia ottenere la consegna di navi cobelligeranti,
più facile le sarebbe stato puntare il dito sulle unità che quel merito non si erano acquisite.
Su questo tema Marini, per cominciare, inviò un promemoria a Benito. Poi, nel parlargliene a
viva voce, si rese conto che l'argomento faceva viva impressione sul comandante della Base,
al punto che questi ne aveva subito scritto a Palma e a Madrid. E, d'altra parte, Benito aveva
potuto ormai rendersi conto che quei marinai erano elementi d'ordine e non i marinai di
Leningrado, più utili dunque in Italia che inattivi in Spagna. Una volta ricevute queste
reazioni favorevoli, Marini espose la tesi a Madrid con la profusione di note cui s'è accennato.
133
Marini, p. 109-111 e annessi 35 e 36.
81
Ma Marini era un vero combattente, ne dedusse che doveva correre a Madrid: “eravamo stati
troppo scottati da tali ‘connessioni’ ai tempi dell’accordo anglo-spagnolo del maggio 1944
(arbitrato) e dei successivi ritardi”.
Sulla via di Madrid aveva avuto un lungo colloquio a Barcellona col console generale inglese,
Farguart, che, in assenza dell’ambasciatore Lord Templewood, fungeva da numero uno in
Spagna. A lui aveva anticipato i punti che contava presentare all’addetto navale inglese,
capitano di fregata Scott.
Il viaggio ferroviario da Barcellona a Madrid implicava una ricerca affannosa del posto al
mercato nero. Il treno partiva abbastanza in orario da Barcellona ma giungeva a destinazione
quando a Dio piaceva. “Giunsi a Madrid con la ferma decisione di osare l’inosabile e dovetti
manovrare, col prezioso aiuto del C.F. Tucci, addetto navale, tra le difficoltà delle capitali, in
modo da evitare dannose suscettibilità; sapevo infatti perfettamente che non si lascia
volentieri a un soldato di trattare questioni che hanno anche una pur lontana affinità con
problemi di carattere politico”.
Prese subito contatto il 2 ottobre con gli addetti inglese e americano, comandanti Scott e Lusk,
cui consegnò e illustrò il promemoria in inglese.
Vi si diceva che
l’efficienza delle navi e la compagine degli equipaggi, fino ad allora preservate al
meglio, non potevano che cominciare a degenerare in ragione dell’inattività e
dell’ambiente ostile;
il crescente disorientamento degli equipaggi derivava dal divario fra il mancato
rimpatrio da una parte e, dall’altra, le dichiarazioni degli ufficiali sul leale
atteggiamento degli Alleati nei riguardi dell’Italia e sulla cooperazione attiva della
Marina, nonché la recente dichiarazione del sottosegretario agli Esteri italiano sulla
partecipazione dell’Italia alla guerra contro il Giappone, che aveva rinnovato negli
equipaggi la speranza che sarebbero stati chiamati a prender parte attiva alla
ricostruzione del proprio paese. E, “scottati da 22 anni di parole e di discorsi senza
base”, derivava altresì dalla morbosa attività cerebrale che sorge dall’ozio forzato e
che cominciava a guastare la loro mentalità:
o alcuni perdevano fiducia nella parola dei comandanti,
o altri perdevano speranza che gli Alleati vollessero aiutarli, quale che fosse il
contributo italiano all’opera comune,
o altri infine si lasciavano attrarre dai successi della Russia, nell’illusione che
solo la rivoluzione potesse risolvere a un tempo i problemi della povera gente
e della patria.
134
Marini, p. 111-116 e annessi 37-39.
82
Ancora oggi questi equipaggi avrebbero dato magnifica prova di sé, domani poteva
essere troppo tardi;
tra gli ufficiali si pensava che i Russi potevano avanzare speciali pretese sulle navi non
cobelligeranti; la Marina italiana “sa che l’Italia dovrà subire il castigo per la sua
politica degli ultimi 20 anni e per la sconfitta; ma nessun ufficiale di Marina italiano
difenderebbe mai più la sua nave se questa minacciasse di divenire bolscevica o
sostenere interessi bolscevichi”;
per poter fare la guerra al Giappone le navi avevano bisogno di un periodo di lavori e
di addestramento;
il desidero di rivedere patria e famiglia era reale, ma sarebbe stato un errore credere
che questo fosse il movente del desiderio di rimpatrio;
dato lo stato della disfatta tedesca, la Spagna avrebbe compreso lo spirito
antibolscevico alla luce del qualei bisognava presentarle la soluzione del rilascio delle
navi senza arbitrato; poteva anche influire il timore d’incorrere in responsabilità per
danni in caso di lodo arbitrale a lei sfavorevole.
Dall’addetto navale inglese, Scott, Marini ebbe il piacere di sentire che neppure lui riteneva
opportuno risolvere il problema attraverso l’arbitrato: gli Spagnoli dovevano unilateralmente
dichiarare di aver riesaminato l’aspetto giuridico della questione ed essere giunti alla
conclusione che le navi potevano partire.
Con entrambi gli addetti alleati si giunse alla conclusione comune che occorresse, da parte
italiana, inviare al governo spagnolo una nota verbale fondata su elementi tecnici per
rimettere il problema delle navi sul tappeto. Questo avrebbe dato modo alle due ambasciate
alleate di tornare alla carica col nuovo Ministro degli Esteri spagnolo, José Félix de Lequerica
y Erquiza, che aveva preso il posto del conte Jordana, morto in agosto.
Si capisce meglio ora cosa intendesse Marini per “osare l’inosabile”. Questi passi avevano
manifestamente un carattere fortemente politico, mentre egli faceva credere all’ambasciatore
Paolucci che andava esponendo idee generali con riferimento soprattutto al lato tecnico delle
varie questioni.
Ma quando, dopo questi colloqui, andò a vedere l’ambasciatore, lo stesso 2 ottobre, e gli
suggerì d’inviare al governo spagnolo la nota verbale concordata con gli addetti inglese e
americano, la sua audacia e il suo entusiasmo ricevettero ancora una volta una doccia fredda.
L’ambasciatore lo fermò per spiegargli che qualche giorno prima si era recato dal Ministro
Lequerica per la sua visita di congedo (Marini apprese così che quella sera stessa Paolucci de
Calboli lasciava le sue funzioni al nuovo incaricato d’affari Luciano Mascia). Nel corso di
quella visita, l’ambasciatore aveva chiesto che si riprendesse in esame il problema delle navi
italiane e il Ministro aveva promesso di farlo: non era pertanto possibile inviargli una nota
verbale senza attendere la sua risposta. Poi, per dimostrargli il suo personale interessamento
nonché lo spirito amichevole nei confronti delle navi da parte del Ministro Lequerica,
Paolucci confidò a Marini che lui e Lequerica erano legati da una vecchia amicizia personale
sin dai tempi della gioventù e che, approfittando di questa amicizia, egli aveva persino
suggerito al Ministro di agggirare ogni scoglio politico lasciando fuggire le navi; e Lequerica
aveva accolto favorevolmente il suggerimento, promettendo di pensarci su.
83
Ministero della Marina spagnola avrebbe dato il suo assenso a questa soluzione. Mentre infatti
la partenza di un sommergibile o di un mezzo minore poteva avvenire di nascosto e era quindi
possibile farla apparire come tale, ben diverso era il caso di quattro navi i cui preparativi di
partenza sarebbero stati chiaramente percepibili dalla stessa città di Mahón, grazie al fumo dai
fumaioli e il rumore dei ventilatori, già cinque ore prima che, una ad una, iniziassero la
manovra di disormeggio. Inoltre la nafta che le navi avrebbero dovuto prelevare rappresentava
un quantitativo 100 volte superiore al rifornimento periodico quindicinale (800 tonnellate
invece di 8). Infine, per il ritiro delle armi e materiali dai vari magazzini della Base, non si
poteva fare a meno di mettere al corrente un gran numero di militari spagnoli. Insomma la
Marina spagnola avrebbe dovuto addossarsi una taccia di inefficienza assolutamente
inaccettabile. In pratica poi nessuno avrebbe prestato la benché minima fede, in tali
circostanze, a una dichiarazione di fuga con successiva protesta. Alla Spagna sarebbe derivata
una perdita di prestigio certamente maggiore di quella risultante da un arbitrato combinato o
dalla pura e semplice dichiarazione unilaterale nel senso che, dopo un esame giuridico, le navi
potevano partire. Marini si disse convinto che gli Spagnoli trattavano ancora solo sotto la
minaccia di embargo su petroli, grano e simili. All’ambasciatore Paolucci de Calboli espresse
peraltro tutta la sua gratitudine per quanto nel corso di lunghi mesi aveva fatto per i marinai
italiani e…prese contatto con Mascia.
Benché il nuovo incaricato d’affari, arrivato a Madrid solo da due giorni, avesse trovato
moltissimi problemi pendenti tra Italia e Spagna, Marini scoprì con grande gioia che
considerava il problema delle navi come prioritario. In effetti la perspicacia, il buon senso,
l’abilità, l’attività e la tenacia da lui in seguito dimostrate si sarebbero rivelarti decisivi per la
felice soluzione di tale problema.
Marini lo mise subito al corrente della situazione e gli fece parte dei suoi apprezzamenti e dei
suoi punti di vista. Lo mise in guardia contro Dussinaghe, direttore generale degli affari
politici, l’anima nera per le navi italiane al Ministero degli Esteri spagnolo. Infine, per non
abusare del suo tempo, gli promise un riassunto dettagliato dell’attività che aveva svolto a
Madrid, da cui egli avrebbe potuto con calma ricavare tutti gli elementi tecnici del caso per
l’opera da svolgere.
Il giorno seguente (3 ottobre) Marini ebbe al Ministero della Marina un colloquio col
comandante Mendizabal, che mostrò la massima comprensione per le questioni di
manutenzione delle navi e di morale degli equipaggi, promettendo di parlarne al Ministro
Moreno. Marini si rese conto in quest’occasione che Benito aveva fedelmente tenuto il
Ministero al corrente delle varie questioni e anche delle sue (di Marini) opinioni e tesi,
informandolo inoltre del magnifico contegno degli equipaggi italiani. Marini lasciò al
comandante Mendizabal, per consegna al Ministro, il promemoria in spagnolo. Questo
rispetto a quello in inglese, presentava alcune varianti:
era evidentemente evitata qualsiasi menzione dell’ambiente ostile;
non si parlava più della cooperazione con gli alleati o dell’eventale guerra al
Giappone; si esaltava invece la difesa dell’ordine e la fedeltà alle tradizioni della
civiltà cattolica nonché l’aiuto che la Spagna avrebbe dato all’Italia sul fronte
anticomunista;
l’opinione di taluni sulla desiderabilità della rivoluzione non era più una mera
illusione ma una forma d’incoscienza;
la parte finale sull’atteggiamento spagnolo era sviluppata e adattata all’interlocutore,
che veniva incoraggiato, invece di correre i rischi dell’arbitrato, a prendere
generosamente l’iniziativa di una soluzione favorevole unilaterale.
84
Marini fece visita anche al Nunzio Apostolico, monsignor Cicognani, sapendolo
influentissimo presso Franco e il governo spagnolo. Il Nunzio dimostrò la massima
comprensione per la situazione dei marinai e promise a Marini nel modo più sincero che
avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarlo. A lui Marini lasciò copia del promemoria in
spagnolo.
Il 5 ottobre l’incaricato d’affari Mascia ricevette il rapporto scritto di Marini, che riprendeva
in maniera sistematica tutti gli elementi fattuali, psicologici e strategici già noti, ma anche
qualche elemento nuovo. Vi si apprende infatti che non solo il Regolo, troppo grande, ma
neppure i cacciatorpediniere avevano ancora fatto il bacino, perché gli Spagnoli esigevano il
pagamento di 90.000 pesetas in contanti. Era giunta poi alle orecchie di Marini la domanda,
proveniente dai suoi equipaggi, se non era meglio autoaffondare le navi, come era accaduto
per il Pegaso e l’Impetuoso, domanda che alcuni si ponevano in reazione alle discussioni che
avevano luogo in Italia sul mantenimento o meno della monarchia, e altri considerando che gli
equipaggi del Pegaso e dell’Impetuoso erano già tornati in Italia, mentre loro no.
Mascia ne rimase impressionato e, ricevuto nuovamente Marini prima che questi lasciasse
Madrid la domenica 8 ottobre per prendere il primo piroscafo da Barcellona, gli chiese se la
situazione delle navi e degli equipaggi era veramente così grave come descritta, al punto da
non potersi più differire la partenza:
E Mascia si mise al lavoro in modo brillante, tanto che, prima ancora della partenza di Marini,
aveva già parlato col 1° consigliere dell’ambasciata degli Stati Uniti: “Non posso sbottonarmi
di più – disse a Marini – Lei è sempre pessimista, lo so, ma può partire tranquillo perché la
cosa è ben avviata, anzi benissimo”.
Generiche assicurazioni nello stesso senso Marini ricevette anche dagli addetti navali. Sicché,
pensando alla spasmodica attesa di chi era rimasto a Mahón, non resistette ad inviare il
seguente telegramma: “Personale per Comandanti. Svolta offensiva su tutti i fronti.
Naturalmente necessita maturazione. Non conviene illudersi ma sono molto più tranquillo.
Giungerò Mahón martedi 10. Marini”.
Buone notizie135
La cautela era giustificata da tante precedenti delusioni, ma cinque giorni dopo il ritorno (15
ottobre) altre buone notizie erano contenute in un telegramma dell’addetto navale: “Spedito
ieri lettera dettagliata circa situazione navi. Sola importante novità est passo fatto giovedì da
ambasciatore americano Hayes richiedente urgente riesame situazione navi per loro
conseguente pronto rilascio su base caso analogo precedente risolto favorevolmente in
arbitraggio. Ambasciatore americano invitato governo spagnolo non attendere arbitraggio
che sarebbe sfavorevole Spagna con conseguenti danni. Ministero Esteri promesso studiare
135
Marini, p. 115-116 e annesso 40.
85
favorevolmente richiesta. Seguo et premo continuamente. Domani mattina andrò Ministero
Marina et telefonerò Calleri. Tucci”. Calleri era l’auditore del Nunzio Apostolico.
Il clima di attivismo a Madrid era confermato da una lettera che lo stesso Tucci aveva spedito
prima del telegramma, il 14 ottobre, ma che era naturalmente giunta dopo. Tucci vi scriveva
che “insisterò con Mascia e con Lusk perché possa essere quanto prima possibile richiesto al
Ministero Esteri quanto deciso dai suoi organi giuridici”. Marini gli rispose a giro di posta,
ringraziandolo ma anche incalzandolo: “per dirti piena la mia gratitudine attenderò di
conoscere che tali insistenze sono state fatte e che abbiano provocato i passi desiderati da
parte di Mascia e di Lusk e che realmente al Ministero degli Esteri si solleciti la risposta…
Attendo con ansia le notizie telegrafiche che mi hai promesso circa l’incontro Mascia-
Dussinaghe; nonché notizia circa il tuo colloquio al Ministero Marina e con Calleri”. Non
basta: Marini chiedeva ancora se gl’Inglesi fossero al corrente di quanto avevano fatto gli
Americani e se non fosse il caso di creare tra gli uni e gli altri una sana concorrenza. Poi un
nuovo telegramma di Tucci, ricevuto il 19 ottobre, di cui non conosciamo il contenuto, dava a
Marini “di nuovo tanta speranza: bravi, bravi, e non mollate, insistete ancora e sempre”.
Quanto alla concorrenza tra Inglesi e Americani, l’iniziativa fu da quel momento in realtà solo
americana, anche perché Samuel Hoare, che comunque non sembrava particolarmente
interessato al rilascio delle navi italiane, lasciò il suo incarico nella seconda metà d’ottobre,
senza venire sostituito per alcuni mesi e lasciando l’ambasciata nelle mani dell’incaricato
d’affari James Bowker.
Benito non poteva consentire che i marinai italiani mangiassero meglio dei suoi: poiché lui
non poteva spendere più di quattro pesetas al giorno per marinaio, agli Italiani poteva
permettere solo un quantitativo di viveri per quattro pesetas. Non teneva conto peraltro che la
Base era una vera e propria fattoria e poi le quattro pesetas erano percepite dagli Spagnoli
anche per chi era in licenza e i marinai locali andavano a casa propria dal sabato al lunedì. In
pratica i marinai italiani con le quattro più due pesetas supplementari mangiavano su per giù
come gli Spagnoli, cioè insufficientemente. Il comando Base non sapeva delle due pesetas
supplementari, ché altrimenti avrebbe fornito viveri per due e non più per quattro pesetas.
Perché non lo scoprisse, bisognava comprare di nascosto e quindi sul mercato nero, pagando a
caro prezzo. Ora dunque Benito, sostenendo di avere l’ordine di non far imbarcare viveri
superiori al fabbisogno di cinque giorni, pretendeva che le 20 tonnellate di riso fossero
depositate alla Base, che le avrebbe comprate fornendone alle navi 20/30 grammi giornalieri a
testa.
Per evitare questa formula, Marini tentò di fargli credere che buona parte del riso era destinata
all’Italia, dove c’era la fame, ma Benito rispose che la Base avrebbe conservato il riso
destinato all’Italia per l’imbarco al momento della partenza. Nel frattempo l’addetto navale,
136
Marini, p.116-117 e annesso 41.
86
che aveva procurato il riso, si spazientiva e allora Marini propose a Benito che, all’arrivo del
riso, le navi ne imbarcassero 13 tonnellate e la Base ne tenesse 7, cioè in proporzione delle
rispettive forze, facendogli credere che se l’ambasciata italiana non avesse avuto
l’assicurazione che almeno una buona parte del riso sarebbe stata imbarcata, non ne avrebbe
fatto niente.
Dopo aver studiato le soluzioni più incredibili, dopo aver litigato con Benito, la soluzione
trovata fu di aspettare il prossimo permesso di Benito per Madrid. La questione fu allora
trattata con molto maggior buon senso con il suo secondo, Nuñez, già destinato a sostituire
Benito a brevissima scadenza. Solo allora fu fatto venire il riso.
Questa storia del riso, particolarmente complicata, era emblematica di una situazione
generale. Ogniqualvolta si compravano quantità vistose di fagioli, ceci o patate, le si doveva
consegnare alla Base, con discussioni sul prezzo e altre spese accessorie.
I cavi da ormeggio137
Un altro problema fu quello dei cavi da ormeggio, di cui le navi erano ormai sprovviste,
dopoché i pochissimi che le navi avevano a bordo all’arrivo a Mahón si erano completamente
logorati nell’ormeggio al mandracchio di ben nove mesi. La situazione era preoccupante. Già
il 6 ottobre uno dei soliti temporali derivanti dalle “lionate” del golfo del Leone aveva
prodotto lo strappamento di un cannone dei pennelli della banchina e poco era mancato che il
Regolo non perdesse un’elica. Ma ben più violento e pericoloso fu il temporale scatenatosi nel
pomeriggio del 25 ottobre e durato per tutta la notte sul 26. Per la seconda volta tutto rimase
affidato a quel cavo d’acciaio che aveva già salvato la situazione alla fine del 1943. La sua
rottura avrebbe portato il Regolo a sbattere contro le banchine della città, di fronte alla Base,
trascinando con sé nella rovina il Mitragliere e il Carabiniere. In quella stessa notte il
Fuciliere schiodò completamente a dritta e a sinistra i due bittoni di poppa, che furono piegati
in due come se fossero di latta. Marini passò la notte in piedi.
Ora che la cattiva stagione avanzava, non era più possibile mantenere il Regolo e il Fuciliere
con la prora in fuori a prendere in pieno tutta la violenza delle raffiche. Da tempo Marini
aveva chiesto che fosse provveduto ma, in attesa del permesso di Palma e di Madrid, tutto
rimaneva fermo. Solo il pericolo immediato mosse gli Spagnoli. Finalmente Regolo e
Fuciliere furono ormeggiati con la prora verso terra, ben dentro fra i pontili fino ad incagliare,
ormeggiati con le proprie solide catene. Dopo i mesi perduti nella vana attesa dei cavi
promessi dalla Marina spagnola, altri quattro ne occorsero per acquistarli dagl’Inglesi che li
fecero venire da Gibilterra per 15.000 pesetas contro le 120.000 del prezzo a Barcellona.
Quanto alle reti, fu un continuo metterle, toglierle e ripescarle dal fondo perché sotto la
violenza delle raffiche bisognava sparare i ganci a scocco e liberarsene per evitare che il
Regolo lavorasse con la sua mole sugli ormeggi dei cacciatorpediniere. Le insistenze di
Marini per toglierle definitivamente furono vane; venivano rintuzzate con la minaccia di
mettere, intorno e al di fuori delle navi ormeggiate, le boe ed ormeggi necessari per applicare
le reti a dei cilindri galleggianti. Finalmente, dietro al rilascio di una dichiarazione scritta di
Marini in cui assumeva la responsabilità nel caso di attacchi di mezzi speciali o d’assalto,
giunse il 19 novembre il permesso di fare a meno delle reti.
137
Marini, p. 117-119.
87
L’ultimo scontro con Benito138
Per la riparazione delle avarie del Fuciliere, la Base dette invece con la massima prontezza
ogni aiuto, assicurandone rapidamente di nuovo la piena efficienza, tanto che il 29 ottobre
Marini ne approfittò per profondersi una volta tanto in ringraziamenti scritti presso Benito,
visto che negli ultimi tempi i due tendevano a scontrarsi.
L’ultimo scontro avvenne ai primi di dicembre quando Benito, tornato da Madrid da uno dei
suoi soliti permessi, comunicò a Marini che il Ministero l’aveva autorizzato a dargli le 15
tonnellate di nafta mensili che da tempo Marini richiedeva per il funzionamento dei
termosifoni. Marini ringraziò e chiese di imbarcarle. Ma, poco dopo Benito si rese
tardivamente conto che, attraverso gli statini mensili, l’ammiraglio di Palma se ne sarebbe
accorto, mentre lui l’aveva cortocircuito prendendo direttamente contatto con il Ministero. E,
poiché stava per lasciare l'incarico, l’ammiraglio di Palma doveva prossimamente compilare
su di lui il rapporto informativo. Allora cominciò a proporre le sue alternative “poetiche”:
“Organizziamo delle stufe a legna, da mettere nei vari locali; quante ne occorrono?”.
Si avvicina la partenza?139
Nuñez si era riferito con naturalezza, parlando della nafta, all’occasione della partenza. Era
anche arrivato il permesso di mandare degli uomini delle navi a Barcellona per completare gli
equipaggi delle due motozattere, dove erano rimaste solo otto persone. Il 7 novembre Marini
avava inviato a questo scopo 15 ottimi elementi, non senza timore che nella babilonia di
Barcellona si fuorviassero, per cui avvisò l’addetto navale, da cui dipendevano le motozattere,
di rimandargli subito indietro, per trattamento all’Isola Plana, chi mostrasse segni di
disorientamento. Ne mancò poi solo uno, disertore in gennaio alla partenza.
Si ricorderà che il 15 ottobre l’ambasciatore americano aveva fatto un passo energico per
rilanciare la questione del rilascio delle navi italiane. Un mese dopo Marini telegrafava a
Madrid: “Da Mahón a Navitalia. Anche con piroscafo odierno nessuna notizia. Siamo già al
15 novembre; quale esito ha avuto passo ambasciatore americano? Dal 31 ottobre non mi
mandate più nessuna notizia mentre urge decidersi e decidere su diverse questioni se
partenza non ha luogo subito. Prego quindi tenermi al corrente anche solamente per sapere
che a Madrid di nuovo tutto dorme e regolarmi in conseguenza. Marini”. E il giorno stesso
riceveva la deludente risposta: “Purtroppo Spagna non ha ancora preso decisione per
138
Marini, p. 119-121.
139
Marini, p. 121, 124-126.
88
partenza navi. Ambasciatore americano ed Incaricato affari inglese hanno parlato con
Ministro Esteri che seguita promettere che questione è considerata favorevolmente ma è
tuttora allo studio…Azione ambasciatori ed addetti navali è con Spagnoli come lottare contro
mulini a vento. Alleati sono indignati perché nonostante intervista Caudillo [Franco aveva
con i giornali americani esaltato la democrazia della Spagna che col fascismo e il nazismo non
aveva mai avuto a che fare] cose rimangono solo allo stato di parole ed anche problema
agenti tedeschi non è tuttora completamente risolto”.
Uno o due giorni dopo, venerdì o sabato, Tucci telegrafava ancora: “Stamane parlato con
Mendizabal. Ministero Marina non ancora informato decisione da Ministero Esteri. Ho
insistito fermamente che dato che decisione è stata presa, partenza deve avvenire al più
presto, specie per evitare possibili sabotaggi. Ho ricordato che è loro interesse e
responsabilità fare presente a Ministero Esteri che ogni ora ritardo può essere pericolosa e
che pertanto organi giuridici Ministero Esteri non devono dormire né prendere cosa con
eccessiva calma. Analoga pressione con stesso argomento ho fatto ad addetti alleati i quali
rafforzeranno mie richieste. Ambasciatore americano vedrà Ministro Esteri lunedì
pomeriggio per conoscere modalità esecutive conseguenti a loro decisione. Addetto navale
americano [sic, ma probabilmente inglese] farà fare da suo ambasciatore stesse pressioni
massima urgenza. Tucci”. Ma il colloquio tra l’ambasciatore americano e il ministro
Lequerica non ebbe luogo lunedì 20 novembre. Fu prima rinviato al 21 o al 22, ma il 23 non
aveva ancora avuto luogo, forse per l’assenza del Ministro della Marina, rientrato a Madrid il
24.
Proprio in quei giorni sembrava che il comandante dell’Orsa, Del Pin, dovesse sottoporsi a un
imminente intervento d’appendicite. Il comandante del Carabiniere, Bongioanni, era piuttosto
a terra con un principio di diabete. Altri ufficiali avevano superato il limite di resistenza e si
diffondevano gli esaurimenti nervosi. In un altro ordine di idee, l’addetto navale aveva
ordinato per le navi 10 tonnellate di bronzo e 50 di pasta, in provenienza da Barcellona, e
voleva giustamente che giungessero in tempo (in realtà non erano arrivate nemmeno due mesi
dopo la partenza effettiva). Ecco perché il telegramma di Marini all’addetto navale incita
quest’ultimo a non risparmiare alcuno sforzo per la partenza immediata, specificando che:
“Nessuna causa particolare, ad esempio salute comandanti od invio di materiali o di pasta
alimentare o ritorno convalescenti deve per nessun motivo ritardare una sola ora, per nostro
suggerimento o colpa, emanazione ed immediata esecuzione ordine partenza; ogni ora
perduta può rappresentare pericolo nuovi intralci”. Quanto al ritorno a Mahón dei
tubercolotici convalescenti, l’addetto navale aveva comunicato che li avrebbe inviati al più
presto ma non erano ancora partiti da Madrid. Fecero poi più che in tempo, anzi in tempo per
avere nuove ricadute a bordo, con sbocchi di sangue tra la gente.
89
Calo di tensione140
Insospettito dai continui rinvii e preoccupato della situazione a Mahón, Marini telegrafò a
Madrid il 29 novembre: “Frase ‘concesso partenza’ di cui vostro telegramma corrente 16
significa quello che dice oppure parole successive ‘soluzione giuridica’ annullano
praticamente tutto? Prego chiarire anche alla Spagna tramite alleati che numerose questioni
circa lavori ed ordinazione materiali e nafta e disciplina e salute impongono portare a mia
conoscenza data limite in base alla quale possa regolarmi circa questioni da risolvere subito
rimandando le altre; non appena raggiunta detta data dovremo perdere illusione che Spagna
intende sinceramente corrispondere a buona fede e lealtà degli alleati. Prego assicurare tutti
che non trattasi di nostra impazienza bensì di evitare danni o spese che attuale indecisione
rende inevitabili; per tali motivi occorre che Spagna fissi data limite su dati di fatto perché
prendere largo respiro implica notevoli imminenti spese ed intralci alla partenza per lavori e
bacino cui risulterebbe necessario dar corso. Marini”.
Dalla risposta di Tucci Marini apprese che già prima del 16 novembre altre trattative erano
andate in fumo, che il Ministero degli Esteri spagnolo – nel colloquio che aveva finalmente
avuto luogo, dopo vari rinvii, il 26 novembre – aveva chiesto all’ambasciatore americano,
quale contropartita per la partenza delle navi italiane senza arbitrato, l’immediata fornitura di
materiali da guerra alla Spagna, che in seguito all’indignata reazione dell’ambasciatore
americano Lequerica si era contentato della promessa di ricevere le forniture al termine delle
ostilità, che le trattative dovevano essere approvate dai governi americano e inglese, insomma
le calende greche: alla fine di novembre il Ministero della Marina spagnolo era all’oscuro di
tutto!
La doccia scozzese141
Il 5 dicembre nuovo telegramma di Tucci: “Ministro Esteri nel confermare ad ambasciatore
americano quanto ho precedentemente comunicato a V.S. gli ha fatto noto che, per salvare le
apparenze, soluzione giuridica che consenta partenza può essere risolta con specie di
arbitraggio pro forma che verrebbe affidato ad ambasciatore portoghese Pereira noto amico
alleati. Materiale esame sarebbe approntato da due giuristi Ministero Esteri spagnolo
appositamente istruiti da Lequerica in senso favorevole. Tale procedura potrebbe essere
sufficientemente rapida. Ambasciatori alleati hanno trasmesso suggerimento Ministro Esteri
a loro governi. Dato che questa procedura non sarebbe da considerare come vero e proprio
arbitraggio ma solo come soluzione giuridica per salvare apparenze, e qualora da parte
Spagna permangano buona fede e favorevoli intenzioni, procedimento dovrebbe nel tal caso
essere giudicato come il migliore. Non sarebbe quindi per il momento fondato il dubbio che
Spagna cerchi una nuova scusa e un nuovo procedimento per dilazionare sine limite
soluzione problema partenza. Non si può pertanto ancora determinare data limite di cui al
vostro telegramma 29 ma ritengo che nei prossimi giorni ed in base risposte governi alleati si
potrà vedere chiaramente situazione presente o futura. Tucci”.
140
Marini, p. 126-128.
141
Marini, p. 121-122 e 128-130; L. Gallarati Scotti, op. cit., p. 24-25.
90
che teneva dal 1910. In quell’occasione Lequerica gli aveva promesso che avrebbe fatto di
tutto perché la liberazione delle navi italiane fosse l’ultimo dei suoi successi diplomatici.
Ma nel ricevere il telegramma di Tucci del 5 dicembre Marini si lasciò prendere dalla
disperazione e dall’ira. Non si capacitava che a Madrid non comprendessero che un
arbitraggio pro forma era destinato all’insuccesso e trovava che il telegramma sembrasse
compilato da un diplomatico piuttosto che da un marinaio. Rispose il 6 dicembre:
“Comprendo perfettamente che Spagna ha ingannato e seguiterà ingannare tutti quanti per
guadagnare molti mesi ancora. Apprezzamento addetto navale inglese al principio ottobre
circa volontà e possibilità superare ogni difficoltà in meno di due mesi nonché ottimismo dei
vostri precedenti telegrammi sono risultati errati. Prego comunicare a R. Incaricato Affari
che Comandanti faranno ugualmente tutto possibile per attenuare disastrose conseguenze già
segnalate e che oggi ovviamente presentano grado gravità ancora maggiore; nel caso poi che
maledetto ritardo nella partenza già concessa il 16 novembre et concomitanti nuove
incertezze della situazione interna italiana [riferimento alla lunga crisi per la formazione del
nuovo governo] abbiano potuto far rinascere nella Spagna speranza già palesemente nota di
poter approfittare in futuro di favorevoli situazioni internazionali per venire in possesso in
qualche modo delle navi italiane, prospetto opportunità farle capire che tali illusioni non si
realizzeranno mai in nessun caso perché sono e mantengo in atto tutte predisposizioni per
fare saltare ed affondare navi a mio cenno, anche da lontano. Marini”. Nel rapporto
compilato dopo il rimpatrio Marini scrisse: “Ero sfiduciato, di tutto e di tutti, scoraggiato;
sentivo che stavamo lottando contro elementi – spagnoli e non spagnoli – che stavano in una
sfera ben più in alto delle nostre possibilità. Che cosa dovevamo ancor fare perché l’attimo
fuggente non venisse proprio a sfuggirci dalle mani anche questa volta?” Quest’impressione
di attimo fuggente fu accresciuta dall'apprendere dai giornali che l’ambasciatore americano
Hayes avrebbe presto lasciato l’incarico. Era proprio personalmente nei suoi riguardi che il
Ministro degli Esteri spagnolo si era impegnato: si tentava di dilazionare fino alla sua
partenza?
91
puntate a Madrid o sue o di Giuriati. Marini resisteva temendo di non essere in grado di far
avanzare la situazione e di dover tornare con un pugno di mosche, ma anche Benito ora
spingeva, sostenendo l’utilità di un incontro col Ministro Moreno, sicché alla fine, per
scrupolo di coscienza, chiese il permesso.
Che pensare? Nuovo mutamento di rotta, nuova proposta (sia pure questa corrispondesse a
quanto da Marini sempre propugnato, di evitare di far ricorso ad ambasciatori portoghesi),
Lequerica che deve parlare con Franco: nuovo tranello dilatorio, proprio mentre
l’ambasciatore americano sta per lasciare la Spagna? La sera del 19 dicembre i comandanti
accompagnarono fin sulla banchina Marini che partiva, e lo salutarono seguendolo ansiosi con
le loro speranze.
Il Ministro era perfettamente informato e si mostrò consapevole che la situazione, sia dal
punto di vista del morale degli equipaggi, sia da quello del deterioramento delle navi, non
poteva durare. E da buono e vero marinaio ne era sinceramente addolorato. Rassicurò pertanto
Marini che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarlo e che avrebbe esercitato tutta la sua
influenza sul Ministro degli Esteri, Lequerica, per ottenere…che gli equipaggi fossero a turno
per piccole aliquote inviati in licenza in Italia e le navi mandate in bacino, compreso il Regolo
che sarebbe stato all’uopo trasferito a Cartagena! Marini indignato interruppe il Ministro ma
quello si schermiva dicendo che per la parte politica egli non poteva interferire con la
competenza del Ministro degli Esteri. Allora con calore Marini gli ricordò che, in qualità di
Ministro della Marina, egli non era solo marinaio ma anche uomo politico e di governo e che,
in seno al Governo, era il solo ad avere un quadro completo della questione e delle
conseguenze di una prolungata permanenza a Mahón. Gli chiedeva quindi il suo aiuto,
contava e sperava in lui, solo in lui. Moreno promise di riparlarne col Ministro Lequerica in
occasione dell’incontro già programmato quello stesso pomeriggio.
143
Marini, p. 134-138.
92
Nel corso del colloquio il Ministro fu estremamente franco, al limite dell’ingenuità: “Le navi
italiane, dato specialmente il loro numero, costituiscono un’arma, un’arma potentissima nelle
mani del Ministro degli Esteri per i negoziati politico-diplomatici ch’egli deve condurre.
Questo è il nocciolo della questione, che esula pertanto dalla mia competenza di Ministro
della Marina”. E non mostrò alcun dubbio sul fatto che la questione giuridica non rivestisse
assolutamente alcuna importanza, trattandosi di norme elastiche suscettibili
dell’interpretazione che meglio conveniva.
Consapevole delle possibili responsabilità spagnole per il deterioramento delle navi, insisté
che la Marina spagnola stava facendo del suo meglio per la buona conservazione delle navi,
ma che spettava a lui, Marini, chiedere il trasferimento del Regolo a Cartagena e ogni altra
misura necessaria per il mantenimento dell’ordine a bordo e dell’efficienza degli scafi. Marini
lo ringraziò di tutto l’aiuto tecnico e materiale ricevuto dalla Marina spagnola e si riservò di
chiedere il bacino per tutte le navi in funzione dell’apprezzamento che potesse farsi durante la
corrente visita a Madrid quanto alla probabilità di una prossima partenza. Nel congedarlo,
Moreno gli disse che l’avrebbe volentieri ricevuto di nuovo prima del ritorno a Mahón.
Più tardi, una volta tornato in Italia, Marini continuava a ritenere che il Ministro fosse stato
per loro soprattutto marinaio, e non politico, non straniero. “In lui l’anima del marinaio fu
necessariamente sottoposta alle necessità o piuttosto all’orientamento della politica del suo
paese; se avesse dovuto e potuto decidere lui dando solo ascolto alla voce della sua coscienza
noi saremmo partiti per l’Italia ben molti mesi prima di quanto ciò avvenne; fedele al suo
posto di soldato per un verso, non interferì mai d’altro canto a nostro danno nelle varie
alchimie politiche del Ministero degli Esteri e della falange; le difficoltà nelle quali siamo
vissuti non furono certo frutto dell’indirizzo da lui dato al nostro problema, ma inevitabili
conseguenze di una generale situazione politica interna che anch’egli probabilmente deve
subire, senza poter fare altro che prestare il suo aiuto come tecnico nell’ambito della Marina,
per il bene della Spagna, e non di un partito politico. Il Ministro Moreno, a mio giudizio,
merita la nostra gratitudine, merita la nostra stima, affetto, ammirazione”.
Per il momento Marini informò l’Incaricato d’affari Mascia del suo aperto colloquio col
Ministro, concludendo che a suo parere il Governo spagnolo voleva prendere tempo fino alla
partenza dell’ambasciatore americano, Hayes, che più di tutti insisteva per una soluzione del
problema. Dopodiché, avrebbe facilmente guadagnato altro tempo. Per illustrare le indecisioni
spagnole, Marini, nel suo resoconto a Mascia, raccontava che “ingenuamente al Ministero
della Marina mi è stata mostrata una pratica ufficiale nella quale, a proposito del rilascio di
un’imbarcazione italiana di salvataggio (R.A.M.A.), il Ministero Marina segnala a quello
degli Esteri di tenere ben conto delle reazioni che se ne avrebbero avute da parte della
Germania; questo a metà novembre 1944! E per un’imbarcazione di salvataggio!”.
Marini parlò anche con gli addetti navali americano e inglese: che ne era del regalo di Natale
promesso da Lequerica a Hayes? A tutti precisò che dopo il 15 gennaio non avrebbe più
assunto alcuna responsabilità degli eventi.
Poi tutte le autorità fuggirono Madrid per passare il Natale in campagna e il 26 dicembre
Marini fece inviare da Tucci al Ministero della Marina spagnola la sua richiesta di bacino a
partire dal 15 gennaio con relativo trasferimento del Regolo a Cartagena. Tutte cose che, si
sapeva, avrebbero causato incubi agli Spagnoli.
93
Ma, una volta trascorse tristemente le festività natalizie, Marini cominciò ad avere qualche
nuovo motivo di speranza. Da Mascia, pur con molte reticenze, seppe che subito dopo Natale
un alto funzionario del Ministero degli Esteri si era recato all’ambasciata degli Stati Uniti per
richiedere una lettera da cui risultasse che il rilascio delle navi italiane era considerato come
un gesto di particolare amicizia della Spagna verso gli Stati Uniti d’America. Hayes aveva
seduta stante vergato di suo pugno la lettera, facendola consegnare immediatamente al
funzionario spagnolo. Mascia, e così anche l’addetto americano, assicurava che presto le navi
sarebbero potute uscire. “Presto. Quanti diversi significati assume questa parola tra nazione e
nazione, tra mestiere e mestiere, tra persona e persona! In particolare mi preoccupava il
pensiero della diversa mentalità che giustamente esiste tra diplomatici e marinai; il
diplomatico è abituato, ed in massima deve trattare le sue questioni con calma, prudente
attesa, abile sfruttamento di circostanze favorevoli non sempre alla mano, evitando la fretta
che talvolta attraverso le contropartite viene a costare troppo cara”.
Ma, ad onta di questo pessimismo, com’era cambiato il Ministro Moreno quando ricevette di
nuovo Marini nel suo ufficio alle dieci di sera del giorno 27! Non disse nulla di preciso, ma
non parlò più di licenze in Italia, né di bacino, né di Cartagena e al momento del congedo lo
abbracciò. Poi Marini, con i bei pacchi natalizi che Mascia inviava a tutti di bordo, riprese
l’aereo per Barcellona e di lì il solito piroscafetto per Mahón. Anche con i comandanti Marini
nascose le sue speranze, illudendosi che i molti anni di vita vissuta gli permettessero di celare
nei suoi occhi il libro aperto dei propri sentimenti.
Marini scrisse il 1° gennaio 1945 al comando Base chiedendo un'inchiesta, visto che c'era un
pericolo di sabotaggio e che il complotto avveniva su terreno spagnolo.
L’accordo sull’arbitrato145
Intanto, all’insaputa di Marini, le cose a Madrid precipitavano. Occorre innanzi tutto spiegare
il senso di quella lettera sollecitata dagli Spagnoli all’ambasciatore americano e che questi
aveva immediatamente redatta e firmata, lettera che qualificava il rilascio delle navi italiane
come un gesto di particolare amicizia della Spagna nei riguardi degli Stati Uniti. S'è visto che
in precedenza Lequerica, in contropartita del rilascio delle navi, aveva cercato di ottenere
dagli Stati Uniti delle forniture belliche. Di fronte alla risposta recisamente negativa di Hayes,
Lequerica aveva quindi pensato di ottenere almeno una ricognizione di debito morale. E,
come si è visto, Hayes, che lasciava la Spagna il 17 gennaio 1945 e teneva a risolvere prima
144
Marini, p. 133-134 e annesso 43.
145
Lettera del 30 dicembre 1944 di Mascia al Ministro degli Esteri Alcide De Gasperi, Ufficio Storico della
Marina; Bernardi, op. cit, p. 163-169; Gallarati Scotti, op. cit., p. 25-26, che riproduce l’accordo in appendice 8.
94
il problema delle navi italiane, non aveva esitato a dargliela. Non restava più che renderla
effettiva146.
Does the content of Article 19 of Hague Convention XIII of 1907 contain the
obligation of the neutral State to lend active collaboration in order to make possible
the supplying of fuel to belligerent war vessels anchored in its waters, or, on the
contrary, does the supplying of fuel constitute a power of said vessels which, if they
cannot exercise it opportunely, does not exclude the strict application of the 24-hour
rule?147
L'accordo menzionava anche la necessaria adesione dell’ambasciata britannica a nome del suo
governo e l'acquiescenza dell’ambasciata italiana Probabilmente per errore, non si ripeteva
quanto precisato nel caso britannico, cioè che l’ambasciata italiana doveva esprimersi a nome
del proprio governo: un errore che si rivelerà utile.
148
V. lettera di cui alla nota 140.
95
partenza delle navi, a rinunciare a ogni indennizzo purché quello spagnolo facesse altrettanto.
Hayes espresse l’opinione che il Governo spagnolo non si sarebbe contentato di un tale
scambio di lettere, ma, sia pure di malavoglia, accettò di tentare (lo scambio di lettere fu
effettuato il 2 gennaio 1945).
Hayes aveva avuto una lunga conversazione con il professor Yanguas Messias e un
colloquio con l’esperto giuridico del Ministero degli Esteri spagnolo, che avevano
finito di rassicurarlo,
che lo stesso Hayes non aveva solo la parola del ministro Lequerica, ma anche una sua
lettera (che non gli aveva menzionato nella discussione del mattino), nella quale, sia
pure senza un impegno preciso, dava assicurazioni circa il rilascio delle navi,
che quella mattina, ad una colazione, Lequerica aveva “garantito” che le navi
sarebbero partite prima della partenza dell’ambasciatore Hayes.
A questo punto Mascia prese la penna e scrisse al suo Ministro una lettera, con data di quello
stesso 30 dicembre, in cui, dopo aver raccontato tutto quello che precede, svolse con vigore
gli argomenti a favore dell’accettazione dell’arbitrato, del cui buon esito ci si doveva fidare.
E' interessante la concisa, ma chiara, descrizione dell’evoluzione degli interessi spagnoli:
Spiegato perché a suo avviso bisognava accettare l’arbitrato negoziato da Hayes, Mascia
descrisse quale sarebbe stata la sua linea di condotta. Egli avrebbe fatto il possibile per fare
ammettere dagli Spagnoli lo scambio di lettere tra lui e Hayes, in luogo dell’accettazione del
Governo italiano; in mancanza, avrebbe tentato di far accettare il consenso dell’Ambasciata,
condizionato alla conferma del Governo, da darsi prima della partenza delle navi; se neanche
questo fosse bastato, e se nel frattempo il governo britannico avesse aderito all’accordo
(sicché tutto riposasse solo sulla parte italiana), avrebbe dato il suo assenso. Pregava infine il
Ministro di comunicargli la sua approvazione, e soprattutto le sue eventuali istruzioni
contrarie, entro l’8 gennaio, che era la data prevista per la comunicazione del lodo arbitrale.
96
mise subito sull’avviso: visto che la Base era sprovvista di ogni sistemazione per il
preriscaldamento della nafta, quanto tempo era necessario per rifornire le navi? Dalla reazione
di Nuñez, che gli concesse subito di far costruire segretamente alla Base altri due raccordi per
manichetta nafta in modo da permettere a due unità di rifornirsi alla stessa banchina, Marini
dedusse che il Ministero della Marina doveva aver comunicato qualcosa alla Base. Ma
bastavano i due nuovi raccordi? Fino allora Marini aveva contato tranquillamente su 90
tonnellate all’ora, risultanti sia dalle assicurazioni di Benito sia dalle indiscrezioni estorte al
personale meccanico della Base. Ora, dopo l’insuccesso della petroliera, il problema si
presentava più arduo. Invano chiese a Nuñez una prova. Che cosa sarebbe avvenuto se, al
momento del rilascio, le navi non fossero riuscite a rifornirsi in 24 ore?
Marini vedeva che Nuñez era preoccupato per gli stessi motivi ma era riluttante ad agire a
causa degli ordini dell’ammiraglio di Palma, proprio colui sul cui buon senso non si poteva
contare. L’8 gennaio telegrafò allora a Madrid: “Sistemazioni della Base Navale fanno
prevedere estrema lentezza nei rifornimenti nafta e necessità preventivo cambio ormeggio due
unità. Ne consegue che allarme circa partenza potrebbe essere dato a nemico circa 24 ore
prima della partenza. Per fare le cose nel miglior modo possibile occorrerebbe, con scusa
cucine e riscaldamento, potere già ora imbarcare un certo quantitativo di nafta.
Indipendentemente da ciò ritengo assolutamente necessario escludere il tramite di Palma tra
Ministero e Mahón. Prego parlarne a mio nome ad Eccellenza Moreno che dovrebbe
tempestivamente ordinare a Comandante Base Mahón provvedere direttamente a suo tempo a
disposizioni del caso in accordo con Marini e mantenendo per ogni eventualità contatti diretti
con Ministero Marina senza alcun tramite. Marini”.
Prima di prenderne conoscenza, il lettore deve sapere, ma Marini non lo sapeva, all’oscuro
com’era della formula d’arbitrato concordata fra Hayes e Lequerica il 29 dicembre,
che il 6 gennaio tale formula era stata approvata dagl’Inglesi,
che il 9 gennaio il sottosegretario agli Esteri spagnolo aveva fatto sapere al consigliere
dell’ambasciata americana Butterworth che gli Spagnoli non accettavano né lo
scambio di lettere Hayes-Mascia del 2 gennaio, né l’accettazione condizionata
pervenuta da Roma il 7 gennaio, secondo cui, in caso di verdetto negativo, si sarebbe
potuto ricorrere a un tribunale di comune gradimento,
che, nel pomeriggio dello stesso giorno 9 gennaio, Butterworth s’era recato da Mascia
per informarlo di questa posizione spagnola e sottoporgli, per la firma, un’accettazione
incondizionata. Davanti all’esitazione di Mascia, Butterworth gli aveva mostrato il
consenso dato dall’incaricato d’affari inglese senza attendere istruzioni da Londra: era
giunto il momento di assumersi le proprie responsabilità, pena il definitivo
internamento delle navi fino alla fine della guerra,
che Mascia aveva allora firmato, incoraggiato forse dal fatto che l’accordo non
richiedeva un’acquiescenza a nome del governo,
che il responso del professor Yanguas Messia, che avrebbe dovuto essere comunicato
all’ambasciatore Hayes l’8 gennaio, era ancora sconosciuto in attesa dell’accordo
italiano.
151
Marini, p. 140-142; Gallarati Scotti, op. cit., p. 51 e ss.
97
Ed ecco il telegramma di Mascia a Marini del 10 gennaio: “Avverto V.S. che partenza navi è
imminente, ripeto imminente. Occorre quindi che V.S. incominci sino da ora preparativi senza
tuttavia dare negli occhi. Governo spagnolo notificherà alla S.V. inizio ore 24 previste dalla
convenzione Aja; è assolutamente indispensabile che entro tale periodo navi abbiano lasciato
Mahón. Si chiederà che notifica venga fatta prime ore mattino per darle tempo effettuare
preparativi partenza (imbarcare nafta, munizioni, eccetera) durante la giornata e salpare
tramonto. Tenga presente che Governo spagnolo, non firmatario convenzione Aja, nelle ore
24 include tempo necessario per rifornimento combustibile. Questa Ambasciata americana
mi ha assicurato non essere necessaria copertura aerea. Secondo convenzione Aja, navi
debbono partire con stesso equipaggio con il quale sono arrivate. Ponesi quindi problema
equipaggio Rama attualmente Palma di Mallorca. Questo addetto aeronautico farà passi
necessari per ottenere autorizzazione trasferimento Mahón. Qualora ciò non fosse possibile
occorrerà rimorchiare Rama oltre limite acque territoriali e armarlo equipaggio in alto mare.
Bertuzzi mi assicura che motorista motoscafo si trova a bordo; mi avverte che Rama brucia
benzina avio e che questa può trovarsi campo aviazione Mahón prelevandola eventualmente
in conto compensazione ‘ala italiana’. Avverto per sua riservata personale conoscenza che
Governo spagnolo ha chiesto ad Ambasciata americana reintegro combustibile che sarà
fornito navi: Ambasciata ha aderito tale richiesta. Ambasciata USA mi ha infine vivamente
pregato racccomandarle massima segretezza preparativi ed ordine partenza, tenendo
presente che nelle Baleari certamente vi sono agenti tedeschi e probabilmente tra stessi nostri
equipaggi potrebbero esservi agenti governo repubblicano fascista. Comandante Tucci viene
informato di quanto sopra a Barcellona e provvederà allestimento motozattere. Mascia”.
Si ricorderà che il 10 maggio 1944 l’equipaggio del Rama era stato sconsideratamente
trasferito a Palma, da dove era tornato indietro a Mahón solo, e volontariamente, uno dei
motoristi, Piccardo. Poi del Rama, appartenente alla R. Aeronautica, si erano disinteressati
tutti, tanto che Marini credeva che la sua liberazione sarebbe stata trattata a parte.
E il mattino dell’11 gennaio – il giorno in cui il generale Franco approvava gli accordi
Lequerica-Hayes acquiescendo quindi alla partenza delle navi - Marini telegrafò a Madrid:
“Prego richiamare urgenza a Madrid Addetto Navale perché in base al mio telegramma
dell’8 corrente e spiegazioni verbali dategli possa evitare che esame superficiale delle varie
esigenze possa compromettere operazione. A tale scopo egli prenderà subito contatto con
98
Ministero Marina. Qui nulla può essere fatto finché Comando Base non ha ordini. Per questo
ed in relazione condizioni atmosferiche nell’attuale stagione occorre che Ministro Marina
comunichi decisione partenza al Comandante Base il quale deve avere libertà di giudicare
localmente in quale momento possano avere inizio le 24 ore. Non si deve attendere
approntamento motozattere Barcellona e per segretezza è necessario soprassedere invio
equipaggio Rama. Marini”.
Febbre di partenza152
La risposta di Tucci, compilata nella notte, gli pervenne l’indomani, 12 gennaio: “Presi ordini
da Incaricato d’affari comunico quanto segue. Avrò colloqui con Ministro Marina domani
venerdì mattina. Esposto Incaricato d’affari e Addetto Navale americano tutte considerazioni
e richieste V.S.. Ambasciata americana, dato stato molto delicato rapporti America Spagna e
latente tensione creatasi ultimi giorni per gravi divergenze altro genere, ritiene molto
pericoloso richiedere Governo Spagnolo modifiche quanto concesso da Spagna e comunicato
V.S. con telegramma cifrato giorno 10 c.m.. Ambasciatore americano ritiene necessario
portare a termine sicuramente partenza navi maggiori senza comprometterla con
nessun’altra richiesta. Questa sera Ambasciatore americano presentava richiesta
combustibili che però per nafta è limitata secondo parere suo Addetto Navale a 600
tonnellate ritenute più che sufficienti per giungere noto porto. Ambasciatore americano
richiederà inoltre che notifica, nel giorno che sarà, venga fatta da Comandante Base Navale
at V.S. alle ore 20. Ambasciatore americano ritiene pregiudizievole per ragioni sopraindicate
subordinare partenza a condizioni tempo a meno che questo non sia proibitivo. In caso che
tempo sia maneggevole per partenza navi maggiori ma non per motozattere e Rama, queste
rimanderanno partenza e il loro caso sarà riesaminato separatamente. In accordo con
Addetto Navale inglese ed americano domani mattina richiederò comunque a Ministro
Marina che sia consentito anticipato imbarco aliquota combustibile. Prego confermare
quando possibile portata pompe e tempo rifornimento tutte unità 600 tonnellate concesse. Ad
ultima ora si apprende che notifica inizio ore 24 sarà fatta da Comando Base Navale con
tutta probabilità ore 20 domani venerdì 12 c.m.; da predetta ora base navale dovrà fornire
ogni assistenza per imbarcare combustibili e materiali; prego telegrafare a che ora sarà stata
presentata notifica e da che ora saranno cominciati preparativi imbarco, particolarmente
combustibile; prego telegrafare altresì urgentissimo qualora sorgessero intoppi nei
preparativi, sia per cause tecniche, sia per cattiva volontà autorità locale, sia per sabotaggi
interni od esterni. Tucci”.
Dunque le 24 ore potevano cominciare a decorrere da quella stessa sera! Marini pensò che per
la nafta rimanevano i dubbi, ma che per la motozattera e il Rama si sarebbe regolato secondo
le circostanze, pur di partire con le unità maggiori. Alla richiesta di Tucci rispose pertanto
semplicemente: “Dati circa portata pompe nafta sono ignoti alla Base Navale. Marini”. Poi si
trattenne con Nuñez fino al pomeriggio inoltrato, temendo che non l’informasse subito appena
pervenuto l’ordine di notificargli alle 20 la liberazione delle navi. Ma Nuñez continuava a
non prestare alcuna attenzione alle parole di Marini che cercava di persuaderlo a dargli subito
la nafta per cucine e riscaldamento, visto che l’ordine di partenza poteva arrivare da un
momento all’altro.
Nella notte dal 12 al 13 gennaio giunse invece un altro telegramma da Navitalia: “Presi ordini
dall’Incaricato d’affari comunico quanto segue. Ambasciata americana ha comunicato
stamane che Governo Spagnolo ha definitivamente deciso effettuare notifica domani 13
corrente mese ore 20 sia a Madrid che a Mahón. Prego quindi volere domani nelle prime ore
152
Marini, p. 141-145.
99
pomeriggio recarsi Comando Navale per preavvisare che V.S. è a conoscenza di quanto sopra
e che ad ore 20 anche V.S. farà richiesta ufficiale di immediato inizio operazioni. Incaricato
d’affari la prega telegrafare urgenza dopo eseguite 2 predette comunicazioni, la seconda
delle quali dovrà essere fatta anche se Comando Base Navale non avrà ancora ricevuto
istruzioni da sue autorità per procedere notifica et conseguenti operazioni. Governo spagnolo
avrebbe inoltre deciso inviare Mahón entro domani altra petroliera che dovrebbe eseguire
rifornimento diretto navi. Governo spagnolo ha ufficialmente dichiarato che ciò era
necessario per portare a codesta Base Navale gasoil e benzina costà non esistenti. Si ritiene
che tale misura sia stata invece determinata da sfiducia personale e impianti base navale o
timore possibili sabotaggi od ulteriore misura precauzionale per assicurare rifornimento
entro tempo stabilito. Ambasciata USA ha aderito tale procedura perché costituiva una
maggiore garanzia svolgimento operazione rifornimento. E’ possibile che rifornimento possa
cominciare immediatamente dopo arrivo petroliera anche prima della notifica, come pure che
si adoperino entrambi i mezzi per un più sollecito rifornimento. Incaricato d’affari la prega
tenerlo costantemente informato ogni novità. Tucci”.
Marini finalmente respirò. Fattosi giorno (era il 13 gennaio), di buon’ora prese contatto con
Nuñez. Questi, manifestamente, aveva infine ricevuto degli ordini ed era ora preso dalla
smania di far presto in modo che non si potesse dare alcuna colpa alla Base per eventuali
ritardi. Tanto che durante la notte aveva iniziato lo spostamento del materiale delle navi dai
magazzini verso una zona più a portata di mano ed in parte su bettolina. Per fortuna Marini
fece in tempo a fermarlo per quel che riguardava il materiale più delicato, come gli otturatori
dei cannoni e le mitragliere, assicurandolo che avrebbero fatto benissimo in tempo loro ad
imbarcare il tutto e che era molto meglio lasciare tutto dove si trovava, suddiviso in ordine per
nave, e non correre invece il pericolo di fare confusione tra materiale e armi delle varie navi.
Ciascuna di esse sapeva esattamente dove si trovava il proprio materiale e tutto sarebbe
sarebbe stato imbarcato in 3 o 4 ore, come infatti avvenne.
Marini era invece preoccupato della questione della nafta e questa volta lo era anche Nuñez,
tanto più ch’egli non sapeva che ogni nave ne aveva occultato un certo quantitativo per poter
accendere allo scoccare delle ore 20. Accettò così finalmente di iniziare il rifornimento “per
cucine e riscaldamento” sotto la sua responsabilità e contrariamente agli ordini secondo cui
nulla si doveva fare prima delle 20. E la sorpresa fu amara: l’erogazione non superava le 10
tonnellate orarie!
Slittamento di 24 ore153
Cosicché, quando verso mezzogiorno del 13 Nuñez sottopose a Marini la bozza del verbale di
liberazione che tutti i comandanti avrebbero dovuto firmare alle ore 20 e che stipulava “A
partire da questo momento si incomincia a fornire le navi di combustibile; le navi possono
liberamente prendere il mare, prima delle ore 20 [dell’indomani]; qualora non lo facciano,
torneranno a rimanere internate”, Marini rispose che tutto andava benissimo ma che loro
avrebbero aggiunto la riserva “purché la Base Navale sia in grado di rifornirci di nafta entro
le 24 ore”. Nuñez replicò che stava per arrivare una petroliera che avrebbe sicuramente
garantito il rifornimento e Marini ribatté di essere al corrente della venuta della petroliera ma
che finché non l’avesse vista e non avesse constatato la possibilità d’innesto dei raccordi e
ogni altro dettaglio, i comandanti non avrebbero potuto firmare senza la riserva; che dunque
Nuñez pensasse in tempo alle decisioni da prendere e ne informasse chi di dovere.
153
Marini, p. 145-147
100
Fu solo in quel momento che Marini ottenne di poter mandare del personale delle navi a
bordo del Rama per approntarlo alla partenza. Ebbe allora la fortuna di disporre d'un ottimo
ufficiale e marinaio, il guardiamarina Perez, del Carabiniere, che, insieme ad altro personale
delle navi, si trasferì sul Rama. L'eccellente equipaggio improvvisato si diede
immediatamente da fare, ma uno dei due motori del Rama non si metteva in moto. La tenacia
e la volontà di quegli uomini, che rischiavano di veder partire le proprie navi e di rimanere
internati, la ebbero infine vinta solo alle 6 del giorno 15.
Intanto maturavano le decisioni spagnole sulla nafta: nel tardo pomeriggio Nuñez,
evidentemente istruito dall'alto in questo senso, informò Marini che, se la petroliera non fosse
arrivata prima delle 20, tutta l'operazione sarebbe slittata di 24 ore. E, nel frattempo, Nuñez
acconsentì, per precauzione, a continuare il lentissimo rifornimento in atto. Un telegramma di
Marini informava Navitalia della situazione e s'incrociava con un telegramma di Navitalia che
confermava l'ipotesi di rinvio di 24 ore. Ora si aspettava la petroliera. Alle 20 la petroliera non
era arrivata. E così i diplomatici riuniti a Madrid alle ore 20 del 13 gennaio per firmare
l'accordo di liberazione delle navi furono rimandati a casa con preghiera di ritornare
l'indomani alle 20.
In attesa della temuta rivoluzione sulle navi, quel pomeriggio di sabato 13 gennaio, quando la
partenza sembrava imminente, i marinai e la fanteria di Marina spagnola rimasero consegnati
alla Base, mentre gl'Italiani, in omaggio alla finzione secondo cui tutto era segreto fino alle
20, se ne andarono tranquillamente in franchigia ad eccezione dei comandanti, i comandanti
in seconda e i Capi Servizio G.N.. Anche Nuñez fu preso dal tambureggiare della propaganda
e mise in guardia Marini. Gli disse che almeno un centinaio di persone non sarebbero
certamente partite. Aveva in mano una lista di nomi che però non volle mostrargli. Benché si
sentisse piuttosto sicuro dei suoi uomini, Marini ebbe un momento di preoccupazione in cui
stilò una bozza di violenta lettera alla Base per accusarla di aver fatto conoscere ai sette venti
le notizie che dovevano rimanere segrete, attraverso il traffico di materiali fatto nella notte fra
il 12 e il 13 e la mancata franchigia delle sue truppe. Quando però si ritrovò tra la gente, e
negli occhi di tutti lesse la gioia e l'impazienza, l'entusiasmo, la felicità, ebbe una volta di più
la misura esatta della realtà; si sentì circondato da più di mille persone fedeli, tutte pronte a
neutralizzare i possibili sparutissimi sconsigliati; e stracciò la lettera.
Alcuni sconsigliati c'erano effettivamente, come provava l'invito di Natale all'Hotel Sevilla:
chi ancora esaltato dal fascismo, chi preoccupato dei conti da rendere alla giustizia italiana,
chi impaniato in relazioni sentimentali, chi impaurito dalla propaganda spagnola sui pericoli
della partenza. Alcuni di essi si dileguarono fino alla partenza delle navi, alcuni accorsero
subito dal comandante della Base per mettersi sotto la sua protezione. Furono 22 coloro che,
al momento della partenza, non risposero all'appello. Nuñez mostrò a Marini il telegramma
con cui da Palma gli si ordinava di dar corso a un plebiscito, ma quando si rese conto di aver
154
Marini, p. 147-149.
101
prestato fede a una montatura falangista, non volle fare una nuova cattiva figura e non fece
alcun plebiscito.
Nel bellissimo salone Goya dell’ambasciata degli Stati Uniti a Madrid, si riunirono alle ore 20
il sottosegretario agli Esteri, gl’incaricati d’affari inglese e italiano, il consigliere americano
Butterworth e il professor Yanguas Messia. Questi presentò il suo responso, la cui conclusione
era che da quel momento decorrevano di nuovo le 24 ore entro le quali le navi potevano
rifornirsi e partire.
L’eminente giurista aveva rispettato gli impegni. Il suo parere era perfettamente conforme alla
linea anticipata all’ambasciatore Hayes: la Spagna aveva in linea di massima ragione
nell’interpretare le norme internazionali nel senso che il termine di 24 ore decorreva subito, al
momento dell’arrivo delle navi nel porto, e non dal momento della fornitura del combustibile.
Dato però che, in quel caso particolare, la possibilità per le navi di fornirsi di carburante
dipendeva dall’autorità governativa, non essendoci un regime di libero mercato, la decorrenza
del termine di 24 ore era condizionato alla fornitura. Il termine poteva quindi riprendere a
decorrere e le navi potevano ripartire nelle ventiquattro ore dalla notifica del lodo.
Si parte156
In contemporanea con la cerimonia di Madrid, un'altra se ne svolgeva a Mahón. Alle 20 in
punto si aprirono le valvole e si misero in funzione le pompe, mentre il comandante della
155
Marini, p. 149; Gallarati Scotti, op. cit., p. 55; la relazione del prof. Yanguas Messia è riprodotta in Gallarati
Scotti, op. cit., appendice 1.
156
Marini, p. 149-150
102
Base, in un' atmosfera ufficiale che Marini trovò un po' ridicola, in presenza di testimoni,
guardando bene l'orologio, dette comunicazione ai cinque comandanti che il Governo
spagnolo aveva consentito al rilascio delle navi e che da quell'istante iniziavano le 24 ore
entro le quali dovevano partire, pena il definitivo internamento, secondo gli accordi che si
firmavano in quello stesso momento a Madrid. Poi Nuñez e i cinque comandanti italiani
apposero la firma sull'atto di liberazione dall'internamento.
Ci fu uno scambio di telegrammi tra Tucci e Marini. Il primo scrisse: "Ministro Esteri
spagnolo ha informato che navi alle ore 20 di domani lunedì dovranno essere già fuori delle
acque territoriali" e il secondo rispose: "Riferimento operazione Tago domani lunedì 15 è
giorno X".
Le cappe che rivestivano i fumaioli delle navi erano sparite e le navi già fumavano. Gli
equipaggi avevano provveduto rapidamente a riprendere a bordo materiali e armi, ma la gente,
eccitata, andò a dormire malvolentieri. Rimasero in piedi meccanici e fochisti per provare,
accomodare, mettere a punto tutto ciò che per mesi e mesi era stato diligentemente
manutenuto, ma cui era mancato il soffio di vita del vapore.
Il mattino di lunedì 15 gennaio sorse sotto auspici non buoni: lo scirocco andava sempre più
rafforzandosi. Alle 10.30 Marini fece uscire la motozattera, più per consentirle una prova
esauriente dei motori che per andare a constatare che lo stato del mare non le consentiva la
partenza. Ma solo lui e il comandante della motozattera, l'esuberante e ottimo aspirante
Fappiano, sapevano che si trattava di un'uscita fittizia. Quando la motozattera, sulla via del
ritorno, stava ancora percorrendo il lungo budello tortuoso della rada di Mahón, Nuñez,
avvisato dai posti di vedetta, preoccupato che a bordo vi fossero stati disordini e i marinai
avessero costretto il comandante a rientrare, accorse da Marini. Così, appena la motozattera
ebbe riattraccato, sentì dalla viva voce di Fappiano che il mare fuori era molto grosso e che
sarebbe stata una follia avventurarsi con quel tempo. Nello stesso tempo poté vedere le facce
sconsolate dei marinai. Allora si provò a precisare che se la motozattera non partiva per le 20,
era obbligato a internarla definitivamente. Marini lo interruppe dicendogli che tra cinque
minuti avrebbe ricevuto una lettera in proposito, non solo per la motozattera ma anche per il
Rama, anch'esso palesemente impossibilitato a affrontare quel mare. Due furono di fatto le
lettere inviate alle 12.30, una per ciascuna imbarcazione. Vi si dice dell’impossibilità di
prendere il mare a causa delle condizioni del mare e si fa riferimento all’articolo 14 della XIII
convenzione dell’Aja. Del Rama si ricorda inoltre che aveva effettuato un’operazione di
salvataggio con bandiera italiana il 14 settembre 1943 e che non era mai stato internato (per
quest’ultima affermazione Marini si basava probabilmente sul fatto che per le motozattere e il
Rama non erano stati compilati gli atti d’internamento 158, ciò che è forse diverso dal dire che
non erano stati internati).
157
Marini, p. 150-152
158
Gallarati Scotti, op. cit., p.12.
103
Nel pomeriggio Nuñez tornò alla carica per dire che aveva informato Palma delle due lettere,
ricevendone l’istruzione di avvisare che chiunque non fosse partito sarebbe stato
definitivamente internato. Marini rispose che tale questione non potevano deciderla né loro
due, né Palma; che inoltrasse le sue lettere a Madrid dove i diplomatici avrebbero risolto la
vertenza e avesse ben cura di conservare i bollettini metereologici delle sue stazioni di
vedetta, dei quali anche lui aveva avuto cura di prendere appunto. Ai due bravi comandanti
delle unità minori, Perez e Fappiano, spiegò come, una volta rimasti soli a Mahón, dovevano
comportarsi per sollecitare la partenza, lasciando loro delle istruzioni scritte nonché un
modello di lettera per segnalare all’autorità spagnola l’eventuale perdurare della situazione di
maltempo. A questo colloquio assistette il Console, che Marini aveva sin dal mattino fatto
venire a bordo per assistere tra l’altro alla chiusura di tutti i conti e di ogni pendenza
amministrativa con il comando Base. Fino all’ultimo Marini e gli uomini delle due
imbarcazioni rimasero a spiare il tempo, ma bisognò arrendersi all’evidenza.
Addio Mahón!159
Marini passò in rivista una guardia d’onore spagnola in corretta forma militare. Corretto fu
anche il contegno della truppa, delle sentinelle e dei pochi ufficiali spagnoli venuti sulla
banchina. Ma nel complesso il commiato con Nuñez fu freddo, non tanto per mancanza da
parte sua di simpatia umana, quanto perché sia lui che gli ufficiali e marinai schierati erano
tuttora preoccupati dei disordini e tumulti che avrebbero dovuto fronteggiare al momento del
distacco delle navi dalla banchina. E forse l’orgoglio spagnolo, che aveva assistito a ben altro
nella sua Marina, era ferito dalla prova di ordine, di disciplina e di fedeltà che le navi italiane
davano in momenti non meno tragici per l’Italia di quelli che aveva vissuto la Spagna.
Invece la popolazione di Mahón accorse in gran numero sugli spalti della città di fronte alla
Base per dare il suo ultimo segno d’addio, affettuoso e ammirato. Il primo a mollare gli
ormeggi fu il Fuciliere alle ore 16, poi seguirono nell’ordine il Regolo, il Mitragliere, il
Carabiniere e l’Orsa. Anche il Rama fece in quel momento la sua uscita fittizia per la prova
dei motori, di cui uno, s’è visto, s’era messo in moto solo 10 ore prima. In attesa della notte le
navi diedero fondo lungo il budello della rada di Mahón. Quando i cittadini videro con
sorpresa che le navi attendevano ancora, le circondarono con le barche sfidando il vento
molesto. Sopravvenuto il buio, le navi salparono e uscirono, silenziose e oscurate.
Dopo 16 mesi e 5 giorni le attendeva la burrasca; le bussole non andavano; mano a mano
venivano segnalate numerose avarie; ma erano libere e sospinte da una sola volontà, quella di
1300 uomini che chiedevano di riprendere il loro posto per servire l’Italia.
159
Marini, p. 152-154; Le Memorie...cit., p. 378. Secondo Gallarati Scotti, op. cit., p. 27, il 15 gennaio Marini
telegrafò all’ambasciatore Hayes: “Nel momento di lasciare la Spagna con le navi della Marina italiana, mi
permetto di inviare a Sua Eccellenzza il segno della mia profonda e sincera gratitudine per l’ammirevole e
tenace sforzo rivolto ad ottenere la restituzione all’Italia di queste navi e di questi uomini: navi e uomini che
sono oggi pronti a combattere per la causa comune”.
160
La navigazione fu funestata dalla scomparsa in mare dell’infermiere volontario Salvatore Totaro, del Regolo.
104
Ad Algeri le nove unità attesero il Sirio che doveva guidarle fino a Taranto. Quivi arrivarono
il mattino del 23 gennaio 1945.
Le navi161
Il lettore avrà avvertito come fosse forte per il comandante Marini l’imperativo di riportare in
Italia le navi a lui affidate e come paventasse che gli Spagnoli mirassero a approfittare della
debolezza dell’Italia per impadronirsene almeno in parte. E’ con legittimo orgoglio che poté
scrivere nel rapporto finale: “In Spagna non era rimasto nemmeno un bullone delle navi
italiane”.
Ma quale fu la sorte di quelle navi? Solo il Carabiniere e l’Orsa rimasero alla Marina italiana.
A norma del trattato di pace, il Mitragliere, la nave di Marini, e il Regolo andarono alla
Francia dove presero rispettivamente il nome di Jurien de la Gravière e Château-Renault,
mentre il Fuciliere fu ceduto alla Russia.
Mamma Mahón162
Nel suo rapporto finale Marini aveva scritto: “Come ha dovuto esser triste, per la Signora
Fortuna, quel giorno di gennaio in cui improvvisamente tutti, tutti i ‘suoi’ marinai l’hanno
lasciata, di nuovo sola nella sua triste vecchiezza che per 16 mesi aveva conosciuto ancora
una volta la gioia e l’illusione di una rinnovata parvenza di gioventù. La signora Fortuna, ne
son certo, riverserà ora il suo affetto nella cura delle tombe dei nostri morti che là riposano,
cura affidatale, come alla persona più degna, dalla R. Ambasciata dal momento che il R.
Consolato di Mahón è stato soppresso.
Certamente, lo so bene, sarà un nuovo scoppio di pianto se ricevesse una qualche carta
intestata con due righe affettuose, non nostre soltanto; ma quanto bene farebbe al suo cuore
di donna italiana! Ed anche il comandante italiano che per primo si recherà a Mahón abbia
in lettura queste nostre brevi parole e ben ricordi, lo prego, di portar subito alla signora
Fortuna il saluto di noi tutti, pieno di affetto”.
Fortuna Novella continuò a curare le tombe dei marinai sepolti finché, nel 1950, la Marina
decise di onorare i caduti della Roma, componendo le salme in un monumento di marmo
dovuto allo scultore Armando D’Abrusco. Alla cerimonia d’inaugurazione, il 29 settembre di
quell’anno, gli ufficiali italiani venuti ad assistervi conobbero la piccola donna di cui avevano
sentito parlare. Nel suo discorso l’ammiraglio Ferrante Capponi si riferì a lei con queste
parole: “Vi è una persona in Mahón alla quale noi dobbiamo molta gratitudine: la signora
Fortuna Novella. Essa ha svolto in passato una preziosa opera di assistenza ai nostri
equipaggi e dimostra tuttora verso i caduti che sono qui sepolti una cura pia ed amorevole
della quale è soltanto capace un’anima nobile e generosa mossa da amor patrio e carità
cristiana”.
161
Almanacco Storico delle navi militari italiane, 1996; Bernardi, op. cit. 384, 399, 400, 401, 409.
162
Marini, p. 171 e sito www.carloforte.net/mammaMahón.
105
Dopo molti inviti, finalmente il 20 settembre 1952 Fortuna Novella si decise a volare da
Barcellona a Roma, ospite della Marina. Fu accolta con tutti gli onori. Gli alti ufficiali della
Marina le resero omaggio, due marinai le baciarono galantemente la mano. Fu ricevuta da Pio
XII e incontrò i parenti dei caduti. L’anno successivo tornò in Italia per ricevere dal Presidente
Einaudi l’alta onorificenza della Stella della solidarietà italiana di prima classe. Poi si recò in
Sardegna, a Cagliari e a Carloforte, da dove mancava dal 1923. A Portovesme, dove giunse su
un’auto della Marina, l’attendeva una nave del comando militare. A Carloforte migliaia di
persone l’aspettavano sul molo. Le barche erano pavesate a festa; v’era la banda musicale e
tutte le autorità per renderle omaggio.
Morì a Mahón nel 1969. Carloforte le ha dedicato nel 2001 la nuova banchina del porto
destinata alla nautica da diporto, battezzata Calata Fortuna Novella.
106