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© 2009 Fandango Libri s.r.l.

Viale Gorizia 19
00198 Roma

Tutti i diritti riservati

ISBN 978-88-6044-122-5

Copertina:
disegno di Gianluigi Toccafondo
progetto grafico Studio Jellici

www.fandango.it

Stampato su Editor 2, carta ecologica riciclata naturale, prodotta con il 100% di maceri e senza l’uso di
cloro o imbiancanti ottici.
Giuliano Foschini
Quindici passi
Secondo l’Inventario nazionale delle emissioni in atmosfera
di Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca
ambientale, nel 2006 in Italia l’industria ha emesso il 95%
del totale dell’arsenico scaricato in atmosfera da tutte le fonti,
il 90% del cromo, l’87% dei Pcb, l’83% del piombo, il 75%
del mercurio, il 72% di diossine e furani, il 61% di cadmio.
Sono state emesse in atmosfera poco più di 173mila tonnella-
te di polveri sottili (PM10); per il 28% del totale dalle atti-
vità industriali e per il 27 dai trasporti stradali e oltre 1
milione di tonnellate di ossidi di azoto (NOx), il 44% dei
quali derivanti dal traffico stradale, mentre il 25 è dovuto
all’industria. Nelle classifiche di emissioni per questo tipo di
elementi tossici, Taranto è nettamente al primo posto.
Il Vulcano

Crateri di cemento, magma e cassa integrazione, Taranto è


un vulcano. Attivo.

Erano le 8.35 dell’11 dicembre 2008. Il momento era


anonimo, eppure mi veniva da ripetere a bassa voce quel-
la data e quell’orario, lo fissavo nella mente come servisse
alla storia. Per la prima volta nella mia vita pensai intensa-
mente agli acronimi, le parole formate con le lettere o le
sillabe iniziali di altre parole. A Taranto quel giorno c’era
un bel sole d’inverno, di quelli che conosce soltanto chi ha
la fortuna di essere nato nel sud del Mediterraneo. Dalla
mia sedia si riusciva persino a vedere il mare. Ero all’ospe-
dale Testa, ma non ero malato. Ero in quella stanza per
ascoltare una conferenza organizzata dall’Arpa. Parlavano
di veleni e malattie, parlavano di industria e quindi parla-
vano anche della gente. Parlavano con termini difficili,
astrusi, a tratti odiosi, spesso in inglese. Non parlavano
tanto di questa città, Taranto, e nemmeno di questa regio-
ne. Discutevano di malati e di morti e per farlo usavano
gli acronimi. Arpa, per esempio, è un acronimo. Sta per
Agenzia regionale per la protezione ambientale: Arpa,
come lo strumento musicale che è segno di eleganza, di
musica dolce. Ma questo c’entra poco. Anzi nulla. Arpa è

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un acronimo gentile. Forse l’unico. Gli altri che mi vengo-
no in mente, forse perché sono quelli che sentii ripetere per
una giornata intera in quella dannata stanza, sono Pcb, Bat,
Bot, Nox, Cox, Aia, Ipa, Pm10 e non sono gentili per nien-
te. Prima di andare a Taranto quella mattina avevo studia-
to. Sapevo già che questo miscuglio disordinato di lettere
che intimoriscono come una lezione di chimica, a Taranto,
significano tante cose ma spesso una cosa soltanto. E non è
buona per nessuno. Perché gli acronimi non stanno soltan-
to nelle parole degli scienziati o dei politici. Non sono sui
giornali e nelle riviste tecniche. Gli acronimi si trovano
anche nell’aria e per questo colpiscono tutti senza distin-
zione di sesso, razza, religione e ceto. Gli acronimi sono
democratici. A volte credo che gli acronimi non abbiano
una funzione grammaticale né tantomeno sintattica. Piut-
tosto hanno una funzione sociale: sono stati inventati per
non far capire il reale significato di quello che rappresenta-
no. Per non far spaventare, allarmare, intimorire la gente.
Per permettere loro di andare a lavorare e poi gustarsi la
televisione, un libro, una canna senza troppi pensieri per la
testa. Si vive più tranquilli senza sapere cosa è l’Ipa.

La massiccia presenza di Idrocarburi Policiclici Aromatici nell’a-


ria rappresentano la vera, grande emergenza sanitaria di Taranto.
Giorgio Assennato, Arpa Puglia

Non sono di Taranto, ma Taranto è una bella città. Ha


uno dei più affascinanti ma sgarrupati, fatiscenti, centri
storici che io conosca. Ha un lungomare elegante, pano-
ramico. L’unico che ricordi più bello, forse perché ancora
più inatteso, è quello di Reggio Calabria. Poi certo c’è il

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ponte girevole e da un anno ha riaperto il Museo Nazio-
nale Archeologico, una meraviglia anche per i profani. C’è
poi una Taranto che è tre volte Taranto. Si chiama Ilva, ma
fino a 15 anni fa, quando era pubblica, si chiamava Italsi-
der. Si tratta dell’acciaieria più grande d’Europa, una fab-
brica che contiene al suo interno 250 chilometri di ferro-
via, altiforni di decine di metri, una produzione in tempi
di crisi di 24.200 tonnellate di ghisa liquida al giorno e
16.700 di acciaio liquido. L’Ilva produce tanto, più di ogni
altra fabbrica nel continente. Sostengono gli acronimi che
inquini anche molto. Il proprietario di questa fabbrica è
Emilio Riva, un distinto ed elegante signore ormai ottan-
tenne che nel 1957 aprì un forno elettrico per la produ-
zione dell’acciaio a Milano. Nel 1995 con una firma sol-
tanto comprò dall’Iri tutte le acciaierie pubbliche, com-
presa quella di Taranto, diventando così il massimo
imprenditore siderurgico europeo. C’era il governo Dini,
all’epoca, e questo distinto signore bresciano staccò per lo
stabilimento tarantino un assegno da 1.460 miliardi di
lire. Troppo poco, ha poi detto qualcuno. Ma questo non
conta. Certo l’investimento ha poi dato i suoi frutti. Negli
ultimi quattro anni il gruppo ha prodotto utili per 2,5
miliardi (non milioni) di euro. Riva quindi è un uomo
ricco, molto ricco, ricchissimo. Così tanto da essere entra-
to nella cordata di imprenditori che ha salvato Alitalia,
mantenendo l’italianità della compagnia di bandiera. Per
questo tutta l’Italia deve dirgli grazie.

Dovremo sempre essere grati a questi capitani coraggiosi.


Silvio Berlusconi, 18 agosto 2008

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Nella sala conferenze si discuteva di Ilva e di Taranto. Si
parlava di aria. In realtà non si parlava soltanto di Ilva ma
anche della raffineria Agip e di tutte le aziende dell’indot-
to, perché a Taranto non si fanno mancare nulla: c’è la raf-
fineria Agip del gruppo Eni, il cementificio Cementir del
gruppo Caltagirone, le due centrali elettriche della società
Edison Spa, le cave della società Italcave, gli impianti della
società Italcave, gli impianti della società Enel, un impor-
tante conglomerato di parecchie decine di piccole e medie
imprese collocate nell’area del consorzio industriale Sisri,
due inceneritori e un impianto pubblico di smaltimento,
nonché l’arsenale e il porto militare, i cantieri navali ex
Tosi e l’ex industria Belleli. A Taranto c’è tutta questa
roba, tutta quanta insieme. Una roba che è fatta di fumo,
di polvere, di fiamme. Attorno alla città rimesta un gigan-
tesco polo industriale, per molti aspetti il più impressio-
nante del Mediterraneo.
Quella mattina la sala dell’ospedale era piena, la gente
silenziosa e ordinata. In platea c’era qualche cittadino ma
soprattutto c’erano molti tecnici e tanti politici. Era faci-
le distinguerli: i politici parlavano senza le slide alle loro
spalle, per lo più a braccio, qualcuno, i più noiosi a dire
la verità, leggendo un foglietto che qualcuno aveva messo
loro tra le mani. I tecnici, invece, formavano una sorta di
ologramma con il Power Point, il corpo mischiato con le
slide, tanto che i più raffinati avevano persino scelto la
cravatta in tinta con il colore delle diapositive. Finezze.

In questo momento la vera emergenza ambientale italiana si chia-


ma Taranto. È la città più inquinata d’Italia, probabilmente
d’Europa.
Giorgio Assennato, Arpa Puglia

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Giorgio Assennato è il direttore generale dell’Arpa, un
uomo canuto con l’aria da studioso. Durante il suo inter-
vento la platea ascolta in silenzio e non perde una parola.
È un professore universitario, un medico del lavoro, anzi
un “epidemiologo occupazionale” come mi disse una
volta, con la passione per la storia locale: è barese e di Bari
colleziona antiche mappe e vecchie cartoline. Giorgio
Assennato è un uomo di battaglie, nella sua vita ne ha fatte
tante: quando era al Policlinico di Bari ha combattuto
(senza troppa fortuna) con i baroni universitari, quelli che
scambiano i reparti per cosa loro, non per cosa nostra. Da
medico del lavoro è stato invece uno dei primi a occupar-
si dei dipendenti della Fibronit di Bari, la fabbrica dell’a-
mianto: decine, centinaia di operai si sono prima amma-
lati e poi sono morti. La stessa fine è toccata ai molti
inquilini delle abitazioni che confinavano con la fabbrica.
Anche grazie al lavoro e agli studi del professor Assen-
nato è stata provata la correlazione tra quelle malattie e
l’industria: oggi il sito è stato messo in sicurezza, non è più
pericoloso per nessuno, ed entro i prossimi quattro anni
diventerà un parco. Un parco vero, al posto dei capanno-
ni di amianto ci saranno le siepi, gli alberi e magari qual-
che monumento in memoria dei caduti dell’aria. “A tutti
coloro che nella loro vita sono stati colpevoli soltanto di
lavorare. O di respirare”, potrebbero scrivere sulla targa. A
pensarci bene prima o poi Taranto potrebbe diventare un
enorme monumento.

Gli effetti sanitari del disastro ambientale cominciano negli anni


scorsi e continuano ancora oggi ma noi dobbiamo ancora conoscer-
li. Soltanto nei prossimi anni gli studi epidemiologici potranno
dirci esattamente cosa hanno significato per la salute della gente

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tutte queste emissioni dannose. Oggi i dati ci segnalano la presen-
za anomala, rispetto al resto della provincia e della regione, di una
serie di malattie neoplastiche riconducibili all’inquinamento
ambientale. Ma è ancora troppo presto per tirare le somme. Per
capire a cosa andiamo incontro bisognerà ancora aspettare del
tempo. Serviranno anni per capire quanti morti, quanti ammala-
ti ha fatto questa guerra.
Giorgio Assennato, Arpa Puglia

Taranto è una bella città. Me lo ripeto sempre. Forse cerco


di convincermene, ma il suo fascino è innato, sotterraneo.
Non piace solamente a me. Piace molto anche a Vittorio;
nemmeno lui è tarantino e fa l’avvocato. Sembra un ragaz-
zo, ma non lo è, ha passato i quaranta, è segaligno, alto
con la barba rossiccia e gli occhi azzurri. È un tecnico, uno
che conosce le leggi, sa interpretarle, le scrive anche.
Tempo fa mi parlò del progetto di una legge regionale per
mettere un limite alle emissioni di diossina. È un pazzo,
quindi, ma dal primo giorno che l’ho conosciuto mi ha
sempre dato informazioni preziose. Vittorio parla soltanto
delle cose che conosce. Potrebbe sembrare una banalità,
invece è una rarità. Vittorio ha la passione dei panorami e
delle foto scattate con il telefonino: “Non è un discorso di
qualità ma di istanti, momenti, attimi”. Sostiene che
quando si fotografano con il telefonino le persone e anche
i panorami, non hanno il tempo o la voglia di mettersi in
posa, come invece fanno con le macchine fotografiche tra-
dizionali. Al piccolo obiettivo di un cellulare si offrono
naturali. “Quindi sono più belli.” Sinceramente mi sem-
bra una stronzata, affascinante, ma pur sempre una stron-
zata. Vittorio ama però ripeterlo sempre, per vezzo. Devo
ammettere però che le sue foto non sono mai in posa.

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Sono sempre molto belle, leggere, come fossero ritoccate
con i colori a matita più che con il Photoshop. In una
pausa della conferenza, anzi in un coffee break così come da
brochure della giornata, Vittorio mi tirò per il maglione, a
momenti mi faceva precipitare il pasticcino che avevo in
mano, per portarmi sul terrazzo dell’ospedale Testa. Mi
disse che aveva voglia di fotografare le strutture portuali
dell’area industriale: “Dal lastrico si riescono a dominare
come forse in nessun altro posto di Taranto”. Incantevole,
il terrazzo dell’ospedale Testa. In realtà bello anche l’ospe-
dale, squadrato come sanno essere soltanto gli uffici pub-
blici ma comunque pulito, ben tenuto, ordinato. Rassicu-
rante. In realtà l’ospedale non è un ospedale, ristrutturato
come nuovo, la costruzione è da qualche anno disabitata
su disposizione dell’Autorità sanitaria. “Troppo vicina alle
raffinerie che rendono impossibile ogni attività, assisten-
ziale e non”, mi spiegò Vittorio come un fonogramma,
mentre salivamo le scale. In sostanza ero di fronte a un
paradosso: il luogo della cura che diventa il luogo del
rischio. Devono essere questo tipo di cortocircuiti ad azio-
nare i vulcani. A Taranto quella mattina c’era il cielo a
macchie. Nel porto era fermo un mercantile e lungo la
linea dell’orizzonte si intersecavano molte altre cose anco-
ra. “Giganti”, “Mostri” ripeteva Vittorio. A me, invece,
per uno strano gioco geometrico di prospettiva, quelle gru
e quei container in mezzo a un groviglio di ciminiere
erano sembrati quasi dei mulini a vento. Era proprio così.
Oggi ci sono le foto che mi danno ragione e poi forse quel-
l’immagine è anche qualcosa in più. Una metafora. Sarà
che ho sempre sognato di chiamarmi de Cervantes Saave-
dra. Vittorio aveva finito di fotografare, nel frattempo la
conferenza era ripresa. Al mio posto mi aspettava un
fogliettino di Legambiente, un pezzo di carta che distri-

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buivano all’ingresso e con il quale avevo giocato per tutta
la mattinata. Ma come diavolo si fanno le barchette?

Lo stabilimento siderurgico Ilva vince su tutte le altre aziende ita-


liane per aver emesso in atmosfera 32 tonnellate di Ipa (pari al
95% del totale nazionale delle emissioni industriali censite dall’I-
nes), 92 grammi di diossine e furani (pari al 92% del totale), 74
tonnellate di piombo (78%), 1,4 tonnellate di mercurio (57%),
231 tonnellate di benzene (42%), 366 kg di cadmio (42%), 4
tonnellate di cromo (31%). Tre classifiche invece riguardano i
macroinquinanti: le emissioni da primato nazionale dell’Ilva sono
le 540mila tonnellate di monossido di carbonio (pari all’80% del
totale nazionale delle emissioni industriali censite dall’Ines), le
43mila tonnellate di SOx (15%) e le 30mila tonnellate di NOx
(11%).
Legambiente

Ero dentro il vulcano più grande d’Italia.


Un vulcano senza magma ma ribollente di acronimi.

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Scusi mi fa accendere

Vittorio me l’aveva domandato con il sorriso, quando era-


vamo in cima al terrazzo: “Hai da accendere?”. E quel sor-
riso non l’avevo capito: io non fumo, Vittorio nemmeno.
Avevo però intuito che si trattava di un’allusione, che là
dietro c’era qualcosa e che quel qualcosa fosse in qualche
maniera legato alla città, al colore del cielo, al porto, alle
ciminiere. In sostanza al Vulcano.
Cosa volesse dire Vittorio lo capii dopo, qualche ora più
tardi. Era un’ironia amara la sua, l’avrei compresa grazie a
un ragazzino bizzarro, ma simpatico; le scarpe bianche e
verdi che portava ai piedi, bianche con i quadrifogli verdi,
sembravano un gadget della Prealpi. La sala delle confe-
renze era piena zeppa, e non soltanto di studiosi. Accanto
a quelli con la cartellina e con il Power Point, insieme a
giornalisti e medici, politici e portaborse vestiti tutti ugua-
li modello Blues Brothers, c’era anche gente normale. Era
la gente del Vulcano.
Il ragazzino per esempio si chiamava Luca e aveva 14
anni. Non era la prima volta che lo vedevo al Testa. In real-
tà lo avevo già incontrato qualche giorno prima in una sala
di ospedale. Un ospedale vero. Luca è un tipo strano e alla
definizione non contribuisce né il colore delle scarpe né
quella giungla di capelli neri e ricci perennemente sporchi.

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Luca è una specie di scugnizzo con i congiuntivi al posto
giusto, un talento con il pallone e sui banchi di scuola. La
mattina stessa che ci incontrammo, Luca mi raccontò la
sua storia, quella di un tarantino doc cresciuto con due
grandi passioni: la geometria e Andrea De Florio.
Luca sosteneva che tra le due cose, in fondo, non ci fos-
sero grandi differenze. Entrambe sono composte da linee
perfette, le prime tracciate su un foglio di carta in più
dimensioni (“li sai fare i parallepipedi, tu? Io ne disegno in
continuazione”), le altre attraversano un campo di pallo-
ne. A lungo, e in più occasioni, ha provato a spiegarmi una
teoria geometrica da lui recentemente scoperta, ma ho
fatto sinceramente molta fatica a comprenderla. Più age-
vole, grazie anche a un gol contro la Juve Stabia visibile su
Youtube, comprendere la storia di Andrea De Florio, un
centravanti passato per Taranto fatto di velocità e tecnica
applicata alla serie C, uno di quelli che se il pallone non
gli arriva preferiscono andarselo a prendere a centrocam-
po, e poi lanciare il terzino per far vedere a tutta quanta la
squadra come si fa. Una delle prime cose che mi ha rac-
contato Luca, quando eravamo ancora nello studio del
medico nell’ospedale, è che lui ha un poster di De Florio
in camera e che un giorno gli piacerebbe essere come lui:
“Menare e segnare”, mi disse proprio così tracciando due
infiniti calcistici che sono una meraviglia. La seconda cosa
che Luca mi raccontò, appena conosciuti, era che lui si
trovava in ospedale non per caso. Non passava di lì né tan-
tomeno era andato a trovare un parente. Luca mi raccon-
tò che era lì perché portava nelle tasche sempre un accen-
dino. Eppure non fumava. A Luca, così come a un altro
ragazzino che poi era finito anche sui giornali, avevano
diagnosticato due anni prima un carcinoma della rinofa-
ringe. Il cancro caratteristico del fumatore incallito.

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Un bambino che vive a ridosso dell’area industriale inala in media
2 sigarette al giorno cioè 780 all’anno.

Comunicato stampa dell’Associazione italiana contro le leuce-


mie, PeaceLink

Non sarà un acronimo, ma accendino è una parola molto


importante a Taranto. Forse la più importante. L’accendi-
no è infatti l’oggetto più diffuso in città, un simbolo senza
distinzioni di età, classe o sesso. Ce l’hanno in tasca anche
i vecchi, quelli che bevono la Birra Raffo, la birra che viene
venduta solo in questa città e che è una sorta di simbolo,
anzi qualcuno dice che la Duff di Springfield nei Simpson
sia ispirata alla birra tarantina. “Ma che Duff, quella è a’
Raff.” E poi un vero tarantino apre i tappi delle bottiglie
di birra con l’accendino, un gesto simbolico che unisce le
due passioni di questa città.
L’accendino ce l’aveva in tasca anche Maria che ho
incontrato quasi per caso la prima volta che sono stato a
Taranto. Stamattina sarei andato volentieri a trovarla. Ma
non posso: Maria, che aveva un delizioso negozio di profu-
mi giù in centro, tre mesi fa è morta. Aveva 49 anni, due
figli, e un cancro al pancreas. I bene informati assicurano
che anche il marito di Maria continui a portare l’accendino.
Luca nei suoi primi quattordici anni di vita, suo malgra-
do, non si è mai disfatto di quell’accendino. Ci è affeziona-
to come fosse la sua coperta di Linus, lo porta con sé ovun-
que, persino quando corre sul campo di calcio accanto alle
panchine, su tutte le fasce destre di terra battuta dei campi
di provincia che abitualmente frequenta insieme con la
squadra giovanile della quale è capitano e numero 7. Gli
accendini sono ovunque a Taranto, uno in ogni tasca, uno
in ogni borsa, se ne stanno nascosti nelle giacche di visone

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e in quelle di acrilico, anche solo come portafortuna. Deve
esserci qualcosa di strano, in questa città. Qualcosa tipo l’in-
chiostro magico, non puoi vedere nulla finché non avvicini
al foglio bianco la luce.

A Taranto i pacchetti da dieci non si vendono.


Tabaccaio del centro storico

La cosa è di difficile comprensione. Per questo forse è


meglio abbandonare i racconti geometrici di Luca e affi-
darsi a un professore di liceo, una persona seria e appunti-
ta, di quelli preparati, pignoli e per questo infastiditi dalla
cialtroneria giornalistica. Il professore si chiama Alessan-
dro Marescotti. Alessandro è tarantino. Non è uno scien-
ziato, ma lo è diventato. È professore di italiano, storia e
geografia ed è il presidente di un’associazione ambientali-
sta che si chiama PeaceLink quella che, forse, meglio di
tutti può raccontare e spiegare lo strano caso del vulcano
Taranto. Forte dell’esperienza accumulata in questi anni,
Alessandro è in grado di dare corpo alla freddezza degli
acronimi. “I dati”, mi aveva raccontato una volta, “sia
quelli dell’Arpa, sia quelli dell’Ispra, ci dicono senza dub-
bio che Taranto è la città più inquinata d’Italia e probabil-
mente d’Europa. Per questo motivo la gente si ammala e
si continuerà ad ammalare. Riconosco però che è difficile
comprendere dati espressi con terminologia specialistica e
unità di misura che esulano dall’esperienza quotidiana: in
sostanza noi parliamo di nanogrammi (miliardesimi di
grammo) e la gente cosa capisce?” Poco, ci capisce poco.
Per questo l’associazione di Alessandro, con la collabora-
zione del direttore del servizio di Chimica ambientale
dell’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro di Genova

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(la lunghezza delle cariche scientifiche ne determina spes-
so l’importanza), il dottor Franco Valerio, ha cercato di
trasformare le informazioni scientifiche in “conoscenze
divulgabili e facilmente comprensibili”. In sostanza
hanno provato a sciogliere gli acronimi e a raccontarci la
strana storia degli accendini di Taranto. “Uno dei proble-
mi principali di Taranto”, diceva Alessandro, “sono gli
Ipa, ossia gli Idrocarburi Policiclici Aromatici. Fra i più
pericolosi per l’uomo, perché assai cancerogeno, è il ben-
zoapirene, sostanza contenuta anche nelle sigarette. In
sostanza nell’aria di Taranto ci sono le sigarette.” Il sillo-
gismo in questo caso non è soltanto un gioco di logica.
Ha sicuramente una tendenza alla semplificazione, ma fa
tossire lo stesso. Luca pare tossisca anche in campo, di
questo l’allenatore non è affatto contento. “Per fare la
proporzione”, raccontava Marescotti sempre con lo stesso
tono, come stesse spiegando le guerre puniche, “abbiamo
valutato la quantità di aria respirata da ciascuna persona,
a seconda dell’attività che svolge e a seconda dell’età che
ha, e poi abbiamo quantificato il benzoapirene che c’è in
una sigaretta. A questo punto abbiamo individuato la
quantità di benzoapirene presente giornalmente in un
metro cubo d’aria in alcuni quartieri di Taranto e abbia-
mo calcolato i metri cubi respirati giornalmente da un
bambino, a seconda del suo tipico stile di vita, tenendo
presente le ore di sonno, quelle di gioco, più una serie di
altri fattori. Una volta ottenuto il totale dei nanogrammi
di benzoapirene inalati in un giorno, abbiamo diviso tale
valore per il benzoapirene mediamente contenuto nel
fumo di una sigaretta, lo stesso fumo che inala il fumato-
re. In questo modo è stato ottenuto l’equivalente in siga-
rette.” Io non ci avevo capito niente. Per questo, come mi
ha insegnato la maestra Annunziata Pisa alle scuole ele-

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mentari, ogni volta che penso alle parole di Alessandro
ripeto sempre la pappardella, a bassa voce per non sem-
brare troppo cretino: hanno calcolato la quantità di vele-
no che c’è nell’aria di Taranto, hanno calcolato quanto
veleno misto ad aria, in media, uno respira in una gior-
nata e poi alla fine lo hanno paragonato al veleno conte-
nuto nelle sigarette. Dovrebbe essere più o meno così. Più
o meno.

Il benzo[a]pirene è una delle prime sostanze di cui si è accertata la


cancerogenicità.
Voci correlate: cancro.
Wikipedia

Nessun tarantino potrà mai dire, quindi, di non aver


fumato una sigaretta in vita sua. Nessuno potrà mai dire
di non aver conosciuto il vizio. Questo mi aveva racconta-
to Alessandro: “Dalle nostre analisi è venuto fuori che
quando i venti soffiano dall’area industriale verso la città,
tutta la gente, bambini compresi, è come se fumasse due,
tre sigarette al giorno. In condizioni di assenza di vento le
sigarette inalate sono una, due”. Alessandro snocciola i
numeri come fossero la roba più normale al mondo, senza
un minimo di rabbia o stupore. Non penso sia rassegna-
zione. Con quello stesso tono, in un’altra delle nostre
chiacchierate, mi raccontò, quei tre giorni d’inferno,
quando (e non era un film di Almodovar) il vento era
tanto e soffiava forte e allora a Taranto fumarono tanto e
tutti. Era il 2 marzo del 2004 e i venti provenivano da
nord-ovest e così i quartieri più vicini alla zona industria-
le, quelli dove vivono gli operai, si trovavano ancora più a

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ridosso della zona industriale, più esposti ai veleni dell’a-
ria. Come hanno dimostrato alcune rilevazioni dell’epoca
tenute secretate fino a settembre del 2008, in quei giorni
nell’aria di Taranto erano presenti quasi 67 nanogrammi
per metro cubo di diossina. “Significa che quel giorno
tutti, bambini compresi, hanno fumato 128 sigarette.” Sei
pacchetti e spiccioli in tre giorni, due al giorno.

A Seveso fuoriuscirono circa 3 kg di diossine in un giorno mentre


a Taranto il doppio in 40 anni.
Maurizio Portaluri, oncologo

Luca, così come racconta la sua cartella medica, ha la sin-


drome del fumatore incallito. Significa che ha un accendi-
no sempre in tasca eppure non sa come si aspira. Anzi a lui
le sigarette fanno proprio schifo: gli fa schifo il sapore in
bocca, come metallico, che ha sentito per la prima volta
l’estate scorsa a Ginosa quando ha baciato una ragazzina.
Gli fa impressione quel giallino che rimane sulla porcella-
na del lavandino e del gabinetto quando sua madre appog-
gia le sigarette. E poi esce, ma quello schifo rimane là.
Luca ha scoperto di essere malato quattro anni fa. Quan-
do il medico, Patrizio Mazza, ha visto quegli esami, ha
controllato e ricontrollato quei vetrini, si è messo le mani
nei capelli, ricci anche i suoi come quelli di Luca. Come
poteva essere fumatore un bambino? Come era possibile
che una giovane ala destra fosse diventata un tabagista?
Come un ragazzino delle scuole medie si era trasformato
in un operaio della cokeria? A proposito, la cokeria. L’im-
pianto serve alla produzione di coke metallurgico, indi-
spensabile per l’alimentazione degli altiforni. Nell’indu-

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stria siderurgica dagli operai è considerato una sorta di
girone privilegiato dell’inferno. Ogni tanto, come fosse un
qualsiasi rubinetto di casa, una delle cockerie perde. Non
acqua, ma veleno. Per questo dai tecnici, dai giudici e dagli
ambientalisti è considerata una delle cause principi del-
l’inquinamento atmosferico. “Non a caso”, mi aveva spie-
gato sempre Marescotti, “l’esposizione al benzoapirene da
parte di un lavoratore della cokeria è particolarmente alta.
Oggi va molto meglio, perché la tecnologia si sta evolven-
do. Ma quando l’Ilva era ancora Italsider gli operai della
cokeria hanno inalato tra le 6500 alle 65.000 sigarette.”
Luca della cokeria sa poco e non sa niente. Sa tutto inve-
ce della sua malattia, ormai sconfitta. Gliel’hanno diagno-
sticata che aveva dieci anni. Gli hanno detto subito che
sarebbe stata lunga ma sicuramente ce l’avrebbe fatta.
Luca non ha mai avuto alcun dubbio: “Io ho il destino
segnato, tracciato, per me non ci sono grandi scelte: o fac-
cio il matematico e divento famoso con il mio teorema
oppure faccio De Florio. E sono cazzi”.

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Quindici passi

Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci,
undici, dodici, tredici, quattordici, quindici. Uno, due,
tre… non avrei mai smesso di contare. Di contare e di pas-
seggiare, a passi piccoli un po’ come fanno i vecchi nei
supermercati non per colpa degli scaffali pieni zeppi di
roba ma dell’Alzheimer. Piccoli passi come quelli dei ten-
nisti quando corrono la linea di fondo campo, in quell’i-
stante prima di colpire una pallina, in quel movimento
che è una fotografia. Uno, due, tre, quattro, un conto
minuscolo e veloce fino a quindici. È tutta qui che si è
svolta la vita di un uomo, è in questo minuscolo spazio
che il vulcano ha mirato, ha colpito e ha affondato. Quin-
dici passi sono la distanza dalle prime case del quartiere a
ridosso dell’Ilva, quindici passi dura il tragitto tra l’Ilva e
le cappelle del cimitero di San Brunone.

L’Ilva è la cosa più bella del mondo.


Operaio Ilva ad Alessandro Sortino, Rosso Malpelo, La7

I cazzotti più dolorosi arrivano per caso. Ti prendono alle

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spalle, sono vigliacchi e infami, anche per questo fanno
più male. Eravamo al secondo coffe break della mattinata
e mi frullava ancora per la mente il doppio passo che mi
aveva raccontato Luca, l’ala-fumatore-geometra, il ragazzi-
no con le scarpe Prealpi. Mimavo con i piedi come fossi
un ballerino di tip tap, probabilmente sorridevo quando
ho notato quella ragazza che si avvicinava a Vittorio e al
professor Assennato. Si chiamava Marina, aveva i capelli
ricci, gonfi, le orbite scavate. Parlò così, per cinque minu-
ti senza un sospiro o un’interruzione sola. Un monologo
da teatro, lacerante. Lo registrai nel cuore.

Piacere dottori, sono Marina L. Chiedo scusa se vi importuno, ma


mi piacerebbe avere cinque minuti soltanto del vostro tempo. Io
non sono una tecnica, non sono un chimico né tantomeno un poli-
tico, ho deciso di venire qui oggi soltanto per ascoltare. Ho 27 anni
e nella vita faccio l’ostetrica. Anzi la farò: ho preso la laurea da sei
mesi, ho fatto la pratica qui a Taranto, ma purtroppo non c’è una
prospettiva di lavoro per me. Non ho voglia di avere un lavoro pre-
cario, mi sto per trasferire a Rimini dove mi danno il posto fisso.
Lì c’è la cultura del parto, hanno bisogno di noi. Dottori io vi di-
sturbo perché vorrei avere il piacere di raccontarvi la mia storia, vi
rubo soltanto qualche minuto ma penso che possa essere importan-
te: per me che non l’ho mai raccontata a nessuno, e poi spero anche
per voi. Quando si fanno le cose, probabilmente uno non ha ben
presente quanto siano importanti. Pensa che certe azioni si fanno
per le idee, per i principi, forse per l’orgoglio dei vostri figli e dei
vostri nipoti. Invece no. Voi queste cose le fate per le persone. Gli
studi, il tempo che lei professor Assennato ha speso per studiare le
cose che oggi ci ha raccontato, quel tempo lei lo ha dedicato a me.
Io Marina L. vivo dal primo giorno in cui sono nata al quartiere
Tamburi di Taranto. Sono figlia unica, i miei genitori non hanno

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niente a che fare con l’Ilva né tantomeno con le aziende dell’in-
dotto. Io non sono una figlia dell’acciaio e non sono nemmeno una
figlia della fabbrica. Mia madre è segretaria in una scuola ele-
mentare, mio padre lavora come tuttofare nello studio di un notaio
qui a Taranto. Sono una borghese di secondo livello, nella vita non
mi è mai mancato niente né grazie né per colpa dell’Ilva o delle
altre industrie. Da cinque anni nella mia vita è mancata soltanto
una cosa. Mio zio Vincenzo. Ed è per lui che ora voi state spen-
dendo il vostro tempo. Mio zio Vincenzo è stato mio padre, anzi è
stato più di mio padre. È stato mio padre e mia madre messi insie-
me, anche se ripeto io li ho avuti tutte e due, e sono felicissima, ci
mancherebbe. Mio zio Vincenzo è stato mio fratello e mia sorella,
è stato mio zio chiaramente, non è mai stato mio amico perché la
differenza di età era troppa. Mio zio Vincenzo era nato nel 1939
e non si è mai sposato. Non ha mai avuto figli e che io sapessi mai
nemmeno una fidanzata. In realtà non l’ho mai chiesto né a lui né
ai miei genitori. Per una questione di pudore e forse di apparte-
nenza, perché zio Vincenzo era il mio. Punta e basta. Da quando
io sono nata, lui ha vissuto con noi. Appartamento accanto, stesso
pianerottolo. Tutto quello che io sono, non me ne vogliano i miei
genitori, lo devo a lui. Mi spiego meglio: tutto quello che ho impa-
rato, dalle targhe delle macchine a come si fanno i lacci alle scar-
pe, che in realtà non sono ancora capace, è perché un giorno zio
Vincenzo si è messo al tavolino e me l’ha spiegato. Io non gli ho mai
detto che gli volevo bene, e sono una stronza. Lui me l’ha detto più
volte, un sacco di volte. Zio Vincenzo lavorava da sempre allo sta-
bilimento dell’Ilva, non mi chiedete in quale reparto, in quale
struttura, di cosa si occupasse perché proprio non me lo ricordo. So
soltanto che era un operaio semplice e guadagnava un milione e
mezzo al mese. La casa era di proprietà, per lui spendeva poco e
niente. Il resto era tutto quanto per me. L’unica cosa che so dell’Il-
va è che in quello stabilimento non c’è niente di piccolo. Zio Vin-
cenzo lo ripeteva sempre: “Lì dentro è tutto enorme, un cavo elet-

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trico, una vite, tutto è grandissimo”. Dell’Ilva io so soltanto questo.
Niente di più. Anzi so anche che non ci lavorano le donne, o forse
non è vero, ma questa è l’idea che mi sono fatto sin da quando era
bambina perché zio aveva soltanto colleghi maschi. Solo uomini.
D’accordo, questo non importa. Così come voi sicuramente vi sta-
rete chiedendo il perché io vi stia raccontando queste cose, mi avre-
te presa per matta ma vi posso assicurare che non sono matta. O
almeno così credo. Vi voglio raccontare questa cosa semplicemente
per spiegarvi perché parlare, lavorare, battere il caso Taranto è
importante. Non per i giornali, ma per la vita e le storie della
gente. Io per colpa di Taranto sono arrabbiata con la vita: io mi
sono appena sposata, non ve l’ho detto, e mio zio Vincenzo non è
potuto essere il testimone delle mie nozze. E questo è ingiusto. Da
quando sono nata, uno dei due testimoni doveva essere zio Vin-
cenzo, anzi, mi sono sempre scervellata per immaginare come pote-
vo farmi accompagnare da zio e da mio padre all’altare. Uno da
una parte e uno dall’altro. Come avrete capito, zio Vincenzo è
morto, nemmeno due mesi dopo essere andato in pensione. Aveva
fatto una festa per il suo addio, a casa perché lui è una persona di-
screta. Ha invitato i suoi colleghi di lavoro, qualche amico del Cral
dove lui andava a giocare a tennis, io anche gioco a tennis e sono
stata da quando avevo sette anni, più forte di lui, ma questo non
c’entra dicevamo della festa e lui era contento e io anche, perché ero
diventata grande e lui vecchio. Toccava a me prendermi cura di
lui. Zio Vincenzo, che io ricordassi, non era mai stato male nella
sua vita, mai un raffreddore, mai un’influenza. Io invece sì che ero
stata male, soffrivo di tonsilliti frequenti e allora il medico mi pre-
scriveva le iniezioni di antibiotico per fare abbassare la febbre, e
allora le iniezioni le faceva zio Vincenzo. Lui e soltanto lui. Se-
nonché dopo quella festa cominciò a lamentarsi in silenzio, perché
era diventato fotofobico, mai che qualcuno potesse accendere una
luce su di lui. Fuggiva. Evidentemente però il fastidio doveva esse-
re serio perché per tre giorni consecutivi continuava a parlarmi di

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questo mal di pancia, di un senso di nausea perenne, un po’ di feb-
bre. Insomma un’influenza ma per uno che nella vita è stato sem-
pre bene, insomma potete immaginare. Io non ero preoccupata. In
realtà ci fu soltanto un piccolo allarme, una mattina mi chiese di
andargli a comprare giù il giornale, mio zio leggeva Il Tempo pur
non essendo un democristiano ma nemmeno un comunista, gli
dicevo sempre che era un cristiano sociale e lui abbozzava per
accontentarmi, ma in realtà glielo dicevo soltanto perché mi piace-
va il nome del vecchio leader, Donat Cattin. Sì, insomma, quel
giorno mi chiese di scendere al giornalaio e non era mai successo in
20 anni, così pensai che forse qualcosa di serio c’era. Lui se ne
accorse, ero spaventata, tanto che per tutta la giornata non fece
altro che chiedermi cosa avessi, mi propose persino una partita di
Burraco che non facevamo da quando io avevo 12 anni: giochi
interrotti per manifesta superiorità, la mia, anche perché contavo
puntualmente a doppio le pinelle. Secondo me non se n’era mai
accorto, non era esattamente un furbacchione. Dicevo, tanto si
accorse che io… insomma… che il giorno dopo scese lui al giorna-
laio. Non so perché però sentivo qualcosa nello stomaco, non so se
vi è capitato mai, non era un presentimento, no, era forse la paura
che faceva a pugni con la razionalità, io non lo so che cos’era ma
qualcosa c’era. Era il 23 dicembre e decisi, da sola, che doveva fare
degli esami. Un’ecografia, una Tac, qualcosa. Per fortuna ho un
amico che lavora all’ospedale nord, quello vicino al Tamburi: un
tecnico, era di turno il 24 pomeriggio. Prendemmo un appunta-
mento, alle 17 se non sbaglio. Uscimmo senza dire niente a
mamma mentre gli amici che solitamente vengono a casa per le
feste erano già arrivati a casa. Erano giorni di panzerotti. Quel
giorno guidai io ed era una sorpresa: zio non voleva, io sono una
donna. La mia Yaris, un suo regalo, camminava da sola, quel viag-
gio, chissà perché, è stato il più strano della mia vita. Era come se
sapessi tutto, era come se partendo da casa con un’influenza, forse
con delle coliche intestinali, in realtà fossi completamente coscien-

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te di quello che da lì a poco mi avrebbero detto. La faccia di Luca,
l’amico tecnico della radiologia: “È un cancro al polmone. Pur-
troppo però ci sono metastasi ovunque, non ha più il fegato”. Mio
zio non aveva mai fumato nella sua vita, beveva soltanto l’Amaro
Lucano. Non si è suicidato, qualcuno l’ha ucciso. Zio Vincenzo è
morto nemmeno tre settimane dopo. Non ha sofferto. Lui no. Non
ero mai andata a trovarlo al cimitero, è una strana cosa la morte.
L’ho fatto qualche giorno fa, quando mi hanno detto di Rimini.
Non so perché la Yaris si è fermata da sola. Ho pensato che quella
era la più grande ingiustizia, che chiunque sia stato non ha fatto
del male a lui, ma a me. Che sono andata all’altare accompagna-
ta a un braccio solo, che mi sono laureata senza di lui in mezzo
alla gente, che i miei figli non lo sapranno mai chi era, come par-
lava, come stava zitto, come metteva prima i tris e non le scale per
terra, al Burraco. Io spero che qualcuno, non so se voi, se la gente,
i politici, io non lo so chi faccia tutto il possibile perché questa città
non uccida più le centinaia di zio Vincenzo, non privi più la sua
gente non di supereroi ma di normali storie d’amore. Io voglio e
spero che nessuno più debba vivere da casa alla fabbrica e dalla
fabbrica al cimitero, tanto è tutto vicino, tutto nel quartiere. Nes-
suno deve più vivere come zio Vincenzo la sua vita in quindici
passi. Gli unici che possono fare qualcosa siete voi. Avete la forza e
il coraggio. Io invece sono codarda, ho paura che possa succedere di
nuovo e per questo me ne vado.
Scusate tanto se vi ho annoiato, buon lavoro.

Per un po’ non ebbi il coraggio di parlare. E nemmeno il


coraggio di ascoltare. Con tutto il rispetto per la signorina
che in quel momento era sul palco, una brava ricercatrice
dell’università La Sapienza di Roma che si concentrava
sugli Ipa, in quel momento ebbi soltanto il coraggio del
silenzio. Non era il pancreas di zio Vincenzo e nemmeno

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la rinofaringe di Luca. Non erano gli acronimi e nemme-
no tutti quei numeri. Non stavo capendo nulla di tutta
quanta quella roba. E quando non capisco, comincio ad
avere paura.
C’è da avere paura del Vulcano?

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Sognando nuvole bianche

I bambini sono incoscienti e hanno il baricentro basso.


Basta vederli sulle piste di neve come scappano, dribblano,
cadono e si rialzano senza avere paura. Basta vederli come
ridono quando tu, che sei molto più grosso di loro, inciam-
pi nello spazzaneve e lentamente, mentre stai per dire addio
all’equilibro, maledici chi ha inventato gli attacchi degli sci,
lo scarpone e anche le montagne. I bambini hanno paure
diverse. Paure più vere. Non hanno paura di se stessi.

Ho impiegato una vita per imparare a dipingere come un bambino.


Pablo Picasso

Nella sala c’erano molti bambini. Erano accalcati nelle


ultime file, portavano magliette colorate per distinguere
tra loro le scuole e le classi, un adesivo sulla t-shirt come
nelle crociere e per tutto il tempo non hanno fiatato.
Hanno dimostrato di non essere sedati, come si fa con i
leoni negli zoo, soltanto quando alla prima pausa si sono
messi in fila al buffet e hanno ritirato il succo d’arancia e
due biscotti con il cioccolato a testa. Poi si sono rimessi a
sedere. Non erano in quella stanza per rappresentanza o

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per buon costume. Non erano in rappresentanza dei
buoni propositi e nemmeno per appagare l’esibizionismo
delle loro maestre. Si trovavano al Testa per fare sentire la
loro voce, mi spiegò educatamente Matteo della quarta A,
indicandomi un pannello lì in fondo dove sono appesi una
serie di disegni. Poi mi mise un libro bianco per le mani,
“Puoi tenerlo, è gratis”. Il libro si chiama Sognando nuvole
bianche, il sottotitolo è “I bambini di Taranto contro l’in-
quinamento della città”. È una magnifica dimostrazione
di orrore e speranza. È un melting pot di colori e parole,
metafore e “ha” senza acca. È il Vulcano. Con il passare del
tempo, alcune maestre hanno notato che i bambini taran-
tini avevano un tratto comune nei loro disegni. Facevano
un cielo sempre pieno di nuvole, e queste nuvole erano
sempre nere. Da questa storia è nata la mostra e il libro che
raccoglie alcuni di questi disegni e qualche testimonianza.

Sono una bambina di 8 anni e mi chiamo Alessia e mi piace molto


la mia città. Però, signor governatore, ti faccio una richiesta. Per
favore toglici gli scarichi industriali dai mari affinché siano puli-
ti, togli l’Ilva che ci sta uccidendo con il suo gas. Onorevole gover-
natore aiuta la mia città a ricrescere!! Saluti cordiali.
Alessia

In quel volume ci sono un centinaio di lettere. E altret-


tanti disegni. L’idea è di Nichi Vendola, il presidente della
Regione Puglia, il presidente con la testa tra le nuvole
(bianche, nere e rosse) che le ha raccolte e le ha stampate.
I mittenti sono i bambini, il destinatario è il governatore
ma soprattutto il presidente della Repubblica, Giorgio
Napolitano. È a lui che hanno scritto, e per lui che hanno

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colorato i bambini di Taranto.

Potrebbe essere che la mia città è l’anticamera dell’inferno?


Anonimo

Marta è una di quelle con le idee più chiare. Ha sette anni,


un jeans e un giubbotto rosso in similpelle. “Io non voglio
morire. La mamma di Chiara è morta, due anni fa.” Die-
tro di lei c’è un disegno con una barca e quattro ciminie-
re. I colori sono grigio, blu scuro per il mare, rosso, nero,
matita sullo sfondo per il colore del cielo. Lo ha fatto Pas-
quale e sotto ci ha scritto: “Visione di questo problema”.

Caro presidente, il mio papà mi ha detto che l’Ilva inquina l’aria


e noi bambini ci ammaliamo. Io non voglio ammalarmi. Ti prego
devi dire all’Ilva di non inquinare l’aria di Taranto.
Rebecca

Questi bambini sono tutti colpevoli, nessuno escluso.


Hanno già tutti commesso un reato, tutti, e uno su cinque
ne pagherà le conseguenze. Hanno commesso il reato di
cittadinanza, di essere nati in questi quartieri, davanti a
questo mare. Così per lo meno mi spiegò Patrizio Mazza,
primario ematologo del secondo ospedale di Taranto.
“Rispetto a quelli che dovrebbero essere i valori normali
registriamo un incremento delle leucemie e di tutte le
malattie tumorali del 20, 30% superiore alla media. Nei
bambini soprattutto.” Patrizio è un omone bolognese, un

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medico che da quindici anni vive, lavora e lotta a Taranto.
Lavora all’ultimo piano dell’ospedale, vista ciminiere, in
una stanza grande come una cella, incasinata come le scri-
vanie dei giornalisti. Anche lui era alla conferenza, in
fondo a un angolo. Ascoltava, a volte sorrideva, sarcastico.
Patrizio Mazza lo conoscevo da un po’. La prima volta l’ho
incontrato nella sua stanza, in quel settimo piano, e anche
quella era una giornata di sole. L’appuntamento era alle
15,15. Per colpa di un cameriere troppo celere, alle 15 ero
già lì. La sua stanza era ancora chiusa, il corridoio di fron-
te – inibito al pubblico come da cartello ben esposto –
aveva la porta socchiusa. Mi affacciai. Nella prima stanza
di sinistra c’era un signore girato di spalle, feci attenzione
perché non mi vedesse. Non aveva i capelli, portava un
camice bianco e la voce era sottile, come effeminata, otti-
ma dizione. Aveva vetrini in mano e vetrini sulla scrivania,
ogni tre minuti ripeteva pedissequamente la stessa opera-
zione, così preciso da poter rimetterci l’orologio: afferrava
il vetrino con la punta delle dita ma non prestai attenzio-
ne se portasse i guanti. Alzava poi il vetrino verso l’alto,
mettendolo in controluce, come fosse una radiografia.
Rimaneva in quella posa plastica per qualche secondo,
osservando il vetro con l’occhio sinistro chiuso quasi
volesse bloccare l’immagine e scattare in quel momento
una bella Polaroid con il suo cervello. Dopodiché prende-
va quel vetrino e lo posizionava sotto la lente del micro-
scopio. Sollevava il sedere dalla sedia e saliva sulla macchi-
na, come per possederla. Ne vidi una ventina di quelle
operazioni e al massimo rimase al microscopio per trenta
secondi. Dopodiché prendeva il registratore che teneva
poggiato sulla scrivania e raccontava quello che vedeva:
“Situazione cellulare anomala”, “anomalia destra” e cose
del genere. Per quanto mi riguardava avrebbe potuto in

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quel momento ordinare il sushi, il tono era come quello
che si usa al supermercato per un etto di crudo nazionale,
la sensazione però è che in quelle frasi apparentemente
senza senso si nascondessero in realtà delle condanne a
morte. Dall’altra parte del corridoio sentii l’inconfondibi-
le accento bolognese di Mazza. Scappai verso la voce. Mai
avrei dato un volto a quel registratore, mai avrei conosciu-
to la faccia del dottor Vetrino.

Io mi chiamo Stefano e abito a Taranto da quando sono nato e mi


raccontano i miei nonni che Taranto era un gioiello; però un
mostro la sta facendo diventare inquinata, sporca e brutta.
Onorevoli saluti.
Stefano

Il dottor Mazza sembra un uomo burbero, forse non lo è.


Piuttosto ha il disincanto di chi conosce la malattia, di chi
la abita, la governa, uno di quelli capace nella vita di vin-
cere e di perdere. Su quella sedia di plastica davanti alla sua
scrivania, in mezzo alle biro lasciate dagli informatori delle
case farmaceutiche, centinaia di persone hanno partecipa-
to loro malgrado alla roulette russa della leucemia, alla di-
sgraziata conta dei globuli bianchi. “Ne vedo, ne ho visti e
purtroppo ne vedrò sempre tanti. I dati in possesso del
reparto parlano di un incremento costante di malati di
questo tipo del 15-20%, un dato assolutamente anomalo
rispetto a quello che invece dovrebbe essere questo territo-
rio. Quando io sono arrivato in questa città, quindici anni
fa e più, questo reparto era sempre pieno. Venivano perso-
ne da tutta la provincia, ma anche da Brindisi, Lecce, que-
sto era l’unico reparto di tutto il Salento. Ora qui intorno

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hanno aperto tre ematologie, siamo praticamente un
reparto cittadino, io cerco di tenere i pazienti il minor
tempo possibile qui in ospedale. Abbiamo venti posti
letto, e sono tutti quanti pieni. Prima di lei – mi disse un
giorno – su quella sedia era seduto un farmacista. Un
signore di 40 anni. Aveva la leucemia e probabilmente gli
restavano pochi mesi di vita. Non fumava, non beveva, e
nonostante il mestiere, nella sua vita non era mai stato
esposto a fonti particolarmente pericolose o cancerogene.
Era una persona sana e invece si è ammalato per colpa di
qualcosa, forse per colpa di qualcuno, e come lui centi-
naia, migliaia di persone di questo posto. Di chi è la colpa
dovrebbero dircelo i giudici, ma fino a oggi mai nessuna
sentenza, nessuna indagine ha accusato qualcuno delle
malattie, della disperazione delle persone. Come uscire da
questa merda dovrebbero dircelo i politici che hanno il
compito di mediare tra le varie posizioni e poi decidere,
prendere una posizione, scegliere una strada. Io faccio
solamente il medico. Io devo curare gli ammalati.”

Caro presidente, noi vorremmo che la nostra città sia più pulita,
perché è così sporca e il cielo è pieno di fumi: infatti Dio vorrebbe
aiutarci ma non può perché se si affaccia sta male anche lui.
Luam

Quella mattina avrei voluto salutare il dottor Mazza. Più


volte lo cercai con lo sguardo ma non rispose. Forse non
mi vide. Forse non aveva voglia di convenevoli. Ascoltava
con attenzione maniacale un giovane epidemiologo, pren-
deva appunti, a volte parlava tra sé. Chissà che fine ha
fatto il suo amico farmacista. E chissà dove sta quella

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ragazza, cazzo quella ragazza!, l’avevo dimenticata. Quel
pomeriggio entrò da Mazza subito dopo di me e mi sorri-
se forse per compassione, così da ricambiare le attenzioni
silenziose che le avevo prestato prima in sala d’aspetto.
L’avevo fissata ai limiti della molestia, per fortuna che il
mio turno non arrivò poi così tardi. Non era bella, era
diversamente bella. Spigolosa nel viso come un uomo,
truccata come una parrucchiera, era fasciata in un jeans
nero attillatissimo, stretto ancora di più alle caviglie da
uno scarponcino dal tacco alto, con una maglietta verde
militare che sfiorava morbida una cinta con le borchie,
lasciandole la pancia scoperta. Chi era quella ragazza? Che
lavoro faceva? Quanti anni aveva? Lì in sala, per inganna-
re l’attesa ascoltava musica con un telefonino. Aveva le
unghie delle mani laccate di fucsia, lo smalto mangiato
alle punte. Un orecchino soltanto che scendeva lungo
sulla spalla sinistra, i capelli neri, pochi e sottili. Feci sci-
volare per terra la penna che avevo in tasca, le diedi un
calcio, mi serviva una scusa per avvicinarmi a lei. Mi inte-
ressava raccogliere più informazioni possibili nel minor
tempo possibile, volevo sentire l’odore, guardarle meglio
la faccia per capire cosa nascondesse quel trucco. Volevo
scoprire cosa stesse ascoltando in quelle cuffie. Non sentii
quasi nulla. Ma erano i Depeche Mode. A pain that I’m
used to. Cantai il ritornello, scendendo giù nell’ascensore.
Di certo in quel momento anche lei stava facendo lo stes-
so, seduta sulla sedia dello studio di Mazza, un referto
medico in mano e i globuli bianchi come una pistola,
puntati alla testa.

Non so perché quando guardo il cielo vedo le nuvole scure e chiedo


a mio padre come mai le nostre nuvole sono così dense e scure? E

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mio padre mi risponde, caro figlio sono ricche di una sostanza dan-
nosa e velenosa… Io chiedo a mio padre come si chiama questa
sostanza e lui mi risponde figlio non è il caso che io ti risponda è
cosa da adulti. Ed io adesso mi chiedo come mai questi adulti non
sono ancora riusciti a risolvere questo problema? E come mai siamo
stati chiamati noi bambini che di queste cose non dovremmo saper-
ne niente?
Francesco

Vittorio continuava a scattare fotografie con il telefonino,


è una fissazione. Nel momento in cui posai gli occhi su di
lui era concentrato sulla moquette rossa e su uno di quei
fogli che distribuivano all’ingresso. Era caduto per terra, e
dalla sua posizione si leggeva soltanto la parola “leucemia”
e la parola “Taranto”. È una questione di prospettive, un
caso, o forse no. I bambini continuavano a non fiatare.
Sembravano telecomandati, nemmeno un bisbiglio, a trat-
ti qualcuno annuiva, eppure difficilmente saprà mai qual-
cosa sulle capacità inibitorie dei policiclici, qualcosa rac-
contata nella slide proiettata sul muro. Non capivano
eppure conoscevano e riconoscevano perfettamente la
sacralità del momento. Stavano zitti e composti come si fa
in chiesa. Anche lì d’altronde capiscono molto poco e
anche questo, in fondo, è un funerale.

Per incominciare vorrei parlarle dell’inquinamento, che provoca l’in-


dustria siderurgica nella mia città a Taranto. Questa causa morte
con i loro gas tossici. Noi cerchiamo di eliminare questo grande difet-
to per vivere una vita tranquilla e senza inquinamento. Quando da
quell’industria esce il fumo, noi respiriamo anidride carbonica ma
per fortuna ci sono alcuni alberi che ci restituiscono ossigeno.

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Per finire questa lettera vorrei ricordarle che se non provvediamo
subito moriranno molti bambini, piante e animali
Valeria Saponaro

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I bambini mai nati

I bambini di Taranto non disegnano soltanto. I bambini


di Taranto si ammalano anche. E spesso muoiono. Pino
Merico è un pediatra che prima ha visto ammalarsi e
morire decine di suoi pazienti e poi ha deciso di fondare
un’associazione, si chiama “Bambini contro l’inquina-
mento”. Non è un’associazione qualsiasi, per i bambini è
una via di mezzo tra il catechismo e il boy-scout: impara-
no e poi provano a reagire. Cercano di capire il Vulcano
e poi di sovvertirlo, magari un giorno riusciranno anche a
spegnerlo. “Questa non è una scommessa sul futuro, ma
piuttosto una scommessa con il futuro”, mi disse quando
lo incontrai, quasi un ghigno, un solco amaro, “dopo aver
visto tanti pazienti ammalarsi, dopo aver visto tanti amici
piangere per i loro bambini, ho deciso che non era più
soltanto il momento di curare. Ma anche quello di com-
battere. La guerra che più dà fastidio è quella dell’infor-
mazione. La gente deve essere consapevole. Tutti a Taran-
to devono sapere che rischi ci sono, tutti a partire da
loro.” Il dottor Merico mosse un dito di una mano
magra, affilata. Indicava le file ordinate delle scolaresche,
a pochi passi attaccati sui muri c’erano i disegni e i pen-
sierini. “Quei lavori non sono nati per caso: abbiamo cer-
cato di spiegare ai bambini, possibilmente con parole

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semplici, possibilmente evitando le sovrastrutture solite
del linguaggio degli adulti, perché il cielo di Taranto è
spesso grigio. E quali sono i rischi per loro del rischio di
quel cielo.” Pino Merico mi sembrò subito un tipo parti-
colare. Ne ebbi conferma in quella chiacchierata breve,
cinque minuti nemmeno. Era un medico, ma parlava più
come un militante. Si affidava alla scienza, ma credeva
anche alla coscienza civile. Ecco, la coscienza civile: attor-
no a tutti gli scienziati o agli addetti ai lavori, la stanza era
piena di gente qualunque, di persone che per stare lì ave-
vano magari preso un giorno di ferie al lavoro, che aveva-
no rinviato impegni, perso appuntamenti, forse anche
rinunciato a del denaro. Era “la società civile”, che non è
un acronimo ma un luogo comune. Eppure quel luogo
comune era l’unico strumento per cambiare le cose sul
Vulcano, mi assicurò il dottor Merico. “La gente comin-
cia ad avere paura perché sa. La conoscenza permette di
fare rivoluzioni, è l’unica cosa in grado di far cambiare
davvero idea alle persone, di portare loro a fare rinunce.
La gente di Taranto comincia a conoscere e secondo me
qualcosa può cambiare.”

Le industrie ci stanno dando la possibilità di vivere. E morire.


Operaio dell’Ilva, ammalato di tumore, Rosso Malpelo, La7

La diossina non era soltanto nell’aria. O magari nella


carne delle pecore o nei formaggi. La diossina era arriva-
ta sin dentro le tette delle tarantine. Sì, le tette. “Abbia-
mo riscontrato”, mi spiegò Merico, “alte concentrazioni
di diossina anche nel latte materno. I nostri bambini
appena nati già cominciano a bere latte e veleno.” Spes-

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so, in realtà, lo fanno anche prima di nascere. Perché a
Taranto i bambini disegnano. Muoiono. Ma spesso non
nascono neanche. Sono tante le malformazioni fetali
riscontrate, tante da spingere donne anche giovanissime
ad abortire. Tante da far gridare qualcuno dalla paura.
“La verità”, mi spiegò però Merico, “è che in questo la
letteratura scientifica è ancora debole, debolissima. Non
possiamo dire nemmeno quante sono esattamente le
malformazioni fetali. Possiamo dire sicuramente, però,
che sono una delle conseguenze sanitarie provocate dal-
l’inalazione delle diossine.” I bambini muoiono a Taran-
to. L’associazione di Pino Merico, “Bambini contro l’in-
quinamento”, è dedicata a tre pazienti, morti in anni ed
età diverse a Taranto. Questa è la storia del più piccolo di
loro, aveva 8 mesi: per caso, per puro caso, i genitori ave-
vano cominciato a raccontarla sul maxi schermo monta-
to in fondo alla sala. Erano due signori distinti, parlava-
no un italiano perfetto, avevano soltanto la faccia scava-
ta. In sala trasmettevano la puntata di Rosso Malpelo, un
programma andato in onda su La7 a cura di Alessandro
Sortino, un ragazzone dai capelli rossi, un bravissimo
giornalista noto per le sue inchieste nella trasmissione le
Iene.

Il nostro bimbo aveva 7 mesi, un bel giorno si è addormentato e


dopo diverse ore ancora non si svegliava. Non capimmo cosa fosse
successo. Lo portammo subito in ospedale, la diagnosi lasciò poco
spazio ai dubbi: tumore esteso al cervello, lo operarono d’urgenza.
La malignità di questo tumore l’abbiamo capita solo a distanza di
due mesi dal primo intervento, quello più importante: dalla riso-
nanza magnetica si sono accorti purtroppo che il tumore era cre-
sciuto il doppio. Non era normale per un bambino un tumore così

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esteso e così attivo. Sono stati tre mesi di sofferenze e chemio, si è
tentato di tutto per poterlo salvare.
Finalmente, poi, è volato in cielo e ha smesso di soffrire.
Mamma e papà

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Agnello di dio (ssina)

Angelo Fornaro è un allevatore, è vecchio, ma forse dimo-


stra più anni di quelli che ha, ha l’aria di un uomo per
bene. Feci fatica a riconoscerlo al Testa con la cravatta
stretta sotto una giacca di vellutino marrone, le bretelle.
Non sembrava affatto lo stesso uomo della mattina in cui
lo conobbi. Era il 16 gennaio 2008, l’alba, faceva freddo,
Angelo portava gli scarponi da lavoro sotto una tuta di
acetato verde acqua. Sopra aveva una giacca a vento azzur-
ra. C’era un bel cielo, ma non fu il giorno dei colori. Piut-
tosto, quello degli odori. La terra umida, la merda di peco-
ra, e poi l’alito di Angelo quando mi ha urlato forte in fac-
cia che “facevamo tutti schifo noi giornalisti” mentre
attorno tutte le telecamere lo assediavano come all’uscita
della casa del Grande Fratello. Ad ogni passo che faceva
Angelo era seguito da un enorme microfono con l’asta,
modello cinematografo, appena aggraziato da un piumino
come quelli che si usano per spolverare, montato sulla
punta. Lo portava un ragazzo di Roma alto due metri che
mi assicurò che mi avrebbe spaccato il culo, una volta
fuori di lì. Gli avevo chiesto di lasciare un po’ in pace quel
poveraccio e lui mi ordinò di farmi i cazzi miei altrimenti
ci saremmo dovuti vedere dopo. Le avrei prese di brutto,
forse anche per quello non fiatai. In realtà il ragazzo non

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c’entrava niente, però. A dettare i suoi spostamenti era un
giovane giornalista di un rotocalco Rai che aveva preso
evidentemente quella mattinata di lavoro come una parti-
ta di calcio a sette, lui difensore e Angelo centravanti di
furbizia, alla Inzaghi. Non lo lasciava un attimo, mai una
di-strazione, sempre lì appiccicato, ad aspettare, attendere
la debolezza. “Come va?”, attaccava, e poi, “certo che que-
sto è un bel posto”, (certo, a parte il fumo nero e quelle
fiammate che escono lì in fondo dalle fabbriche), “Ma è
buono il formaggio che producete?”, (sa un po’ di diossi-
na ma è buonissimo), ancora: “Certo che si vive bene qui
al Sud”, (già, una meraviglia). Dunque, l’affondo, teleca-
mera accesa, microfono e piumino posizionati a rigore di
inquadratura: “Signor Angelo, cosa prova in questo
momento? Lei ha lavorato una vita per vedere uccise le sue
bestie, ci racconti e non trattenga le sue emozioni”. Pian-
gi Angelo, gli voleva dire la merda. Piangi in favore di tele-
camera perché così mi sale lo share. Angelo Fornaro, “lo
stronzo che ha risolto tutti i problemi di Taranto”, quel
giorno pianse. Ma non per le telecamere. Dimenticavo: di
quel giorno non dimenticherò mai una cosa soltanto. La
puzza cruda del sangue.

Taranto, abbattute settecento pecore alla diossina.


la Repubblica, 17 gennaio 2008

Angelo Fornaro è un pastore vero. Nel senso che è un


pastore perché vive in campagna e campa grazie al bestia-
me: il latte delle pecore, i formaggi, gli agnelli quando è
Pasqua. Non gliel’ho chiesto, ma secondo me in casa non
ha la televisione. Insieme con i figli Vincenzo e Vittorio, e

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aiutati da due pastori albanesi, gestisce l’azienda agricola di
famiglia. Quella masseria è così da cento anni. Un giorno,
tanti anni fa, gli hanno costruito davanti l’azienda siderur-
gica più grande d’Europa. L’area agricola è diventata zona
industriale, hanno acceso gli altiforni e il cielo è diventato
nero. Nonostante tutto, però, Fornaro e le sue pecore sono
rimasti lì. Lì sono cresciuti i suoi figli, lì sono nati i suoi
nipoti. Fino a quando è arrivato un giorno di settembre ed
è cambiato tutto. Sasha, il pastore albanese che non apre
bocca nemmeno se glielo chiedi per favore, quel giorno si
era spinto un po’ oltre i normali confini del pascolo. Aveva
preso una strada diversa ed era finito sotto il Vulcano. Pro-
babilmente, anzi sicuramente, non era la prima volta che
accadeva. Quel giorno però successe qualcosa. Da quelle
parti passava – ardita sarebbe la ricostruzione di un appo-
stamento voluto – un signore con una spiccata coscienza
ambientalista e un telefonino dotato di una buona mac-
china fotografica. Non era Vittorio. Immortalò quell’istan-
te, le pecore e le ciminiere, il fumo e la lana, il bianco e il
grigio forse semplicemente per raccontare e raccontarsi un
pezzo della sua città. Una volta trasferita sul computer
quella fotografia, una volta vista in grande quella immagi-
ne, salì però una domanda: “Ma non è che in questa foto
si nasconde qualcosa di pericoloso? Questi sono animali da
allevamento: vivono per produrre latte, per essere macella-
ti e per essere mangiati. Il latte di queste pecore, il formag-
gio, la loro carne non saranno mica contaminati da qual-
che veleno?”. La domanda, apparentemente catastrofista,
era comunque legittima, forse doverosa. È per questo che il
fotografo-ambientalista ha sentito il dovere di girarla alla
redazione di un giornale locale, Taranto Sera, la bibbia della
cronaca cittadina un piccolo quotidiano fatto di notizie,
fatti e foto segnaletiche di spacciatori, rapinatori e aspiran-

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ti killer. Un giornale tanto arrembante da potersi permet-
tere ai tempi di Internet una distribuzione con gli strilloni,
un giornale che dice la verità e per questo non ha paura dei
colossi dell’industria. A Taranto Sera lavorano un gruppo di
giornalisti, alcuni molto bravi, tutti agguerriti. Tra loro
spicca Mario Diliberto, un mio amico, un giornalista raro
perché raro è un giornalista senza enfasi. Mario quando
parla dell’Ilva ha in mente le parole di suo padre che ha
passato una vita nell’acciaieria ma non si fa mai prendere
dall’enfasi né dalla retorica. Racconta secco, quasi cinico. È
un cecchino infallibile, implacabile davanti a una notizia. E
le fotografie di quelle pecore al pascolo per lui, e per tutti i
suoi colleghi, erano il migliore degli assist: le foto arrivaro-
no in tarda mattinata, l’edizione che va per strada alle 17
aveva in prima pagina le sequenze del bestiame sotto le
ciminiere e un pezzo d’accompagnamento che più di
denuncia suonava di paura. “C’è da stare tranquilli?”, si
chiedeva Taranto Sera. Letto il giornale si pose la stessa
domanda anche l’allora procuratore aggiunto del tribunale
di Taranto, Franco Sebastio, oggi capo della Procura, che
sulla base di quell’articolo aprì un fascicolo. Quella che si
chiama un’indagine conoscitiva. Angelo Fornaro probabil-
mente non l’ha mai saputo, ma è esattamente in quel
momento che è cominciato a essere “quello stronzo che con
le sue pecore ha risolto tutti i problemi di Taranto”.

Da settimane sento parlare di diossina e dei danni che fa sulle per-


sone. Vorrei sentire un giorno al telegiornale che c’è un sistema per
farla sparire così non avrò più paura di vivere nella mia città e
potrò tornare a bere il latte senza paura di avvelenarmi.
Luca

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Ci volle poco tempo per le analisi. Abbastanza però perché
la gente si fosse dimenticata di quella strana storia delle
pecore sotto le ciminiere. Non se ne ricordava quasi nes-
suno quando arrivò, nelle redazioni dei giornali, un pome-
riggio, era il 20 marzo del 2008, una telefonata del pro-
fessor Giorgio Assennato, lo scienziato, il direttore del-
l’Arpa. Disse che sul suo tavolo erano arrivati i risultati del
latte e del formaggio prelevati in alcuni degli allevamenti
attorno alla zona industriale di Taranto, compreso quello
dei Fornaro. E che le analisi parlavano chiaro: erano stati
riscontrati valori anche dieci volte maggiori rispetto a
quelli consentiti dalla legge di diossina e Pcb, ancora una
volta il solito acronimo. Significava che quella roba era
portatrice sana di cancro. Per ammalarsi non serviva sol-
tanto respirare. Bastava anche mangiare. Questo significa-
va che il “germe” era entrato nella catena alimentare e
dunque non soltanto l’aria, ma anche il cibo, il latte che
sarebbe potuto finire sui banchi frigo non soltanto di
Taranto e provincia, ma anche di tutto il mezzogiorno e
chissà, di tutta Italia.

Io so che tanta gente si sta ammalando e sono preoccupato non solo


per me, ma anche per la mia famiglia. Ci dicono sempre che i
bambini sono la felicità, che amano giocare spensierati, ma forse
stiamo diventando tristi come le nuvole grigie della mia città.
Mirko

In vicende come queste la linea d’ombra tra l’allarme sani-


tario e la psicosi, tra la verità e il verosimile, è assai labile.
E i giornali lungo quella linea di confine ci sguazzano.
Allarmare fa vendere copie, la gente ha bisogno di spaven-
tarsi, ha una necessità quasi carnale di conoscere una cosa
per la quale temere, per cui arrabbiarsi, per poter dimen-

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ticare le proprie miserie, i guai personali. Come è succes-
so per l’influenza aviaria, così accadde anche il 21 marzo e
come al solito a pagare la psicosi furono i più deboli: i pro-
prietari dei caseifici della zona videro crollare le vendite.
Persino le multinazionali del latte che hanno dei depositi
vicino Taranto, per qualche giorno furono costretti a con-
trollare il prodotto goccia per goccia. La Regione e la Asl
corsero ai ripari, avviarono in tutta fretta i protocolli d’ur-
genza, applicarono immediatamente tavoli tecnici e map-
pature, organizzarono riunioni su riunioni, misero insie-
me esperti su esperti, prepararono relazioni su relazioni.
Ogni emergenza ha i suoi riti mediatici, anche quella della
diossina nel latte di Taranto ebbe la sua. Complessiva-
mente furono controllati circa 200 allevamenti, fu un
inferno per funzionari e veterinari, batterono a tappeto
stalle e alberi di ulivo perché qualcuno fece notare che la
diossina poteva esserci anche nei grassi degli oli, e quindi
via con le verifiche. Insomma fu un lavoraccio. Non durò
a lungo. Due giorni, e dell’emergenza diossina non gliene
fregò più niente a nessuno. Il caseificio riprese a vendere,
la multinazionale a imbottigliare, “i rischi sulla tavola
degli italiani” dei quali parlavano tutti i giornali, in quei
giorni scomparvero e a occuparsi della vicenda rimasero i
soliti ambientalisti volenterosi, qualche sito Internet e poi
i tecnici, questi ultimi per conto dei vari enti. Della vicen-
da fu però costretto a occuparsi il signor Angelo Fornaro,
suo malgrado.

Il primo alimento che ho conosciuto è stato il latte, prima quello


della mamma e poi quello della mucca. Ma adesso mi proibiscono
di berlo perché adesso c’è la diossina.
Rebecca

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Il 7 aprile, infatti, l’ufficiale della Asl bussò alla porta
della sua masseria e a quella di altre quattro nella zona per
notificare loro una carta giudiziaria. Non era una multa e
nemmeno un avviso di garanzia. Era un divieto. Un divie-
to di pascolo. Da quel momento in poi Sasha non avreb-
be più potuto portare a spasso il bestiame, niente più
pecore, niente più passeggiate sotto i camini delle fabbri-
che. Nella carta c’era scritto infatti che non si poteva più
pascolare a otto chilometri da Statte, un piccolo centro
alle porte di Taranto, la città più vicina agli allevamenti:
complessivamente erano inibiti centosessanta ettari di
campagna, compresi tra la strada provinciale 48 e l’area
industriale. Non era però finito. Dietro quel foglio ce
n’era un altro e poi un altro ancora. A firmarlo era la Asl
di Taranto e, se possibile, era ancora peggio. C’era scritto
in un incomprensibile italiano, burocratese, che cento
anni e più di storia di quella masseria erano stati cancel-
lati. E che tutte le pecore e gli agnellini della tenuta For-
naro erano in fermo sanitario. Significa cioè che non
avrebbero potuto e dovuto né produrre latte né men che
mai essere destinate alla macellazione. Non c’era scritto
ma Enzo Fornaro lo capì immediatamente: quella carta
era una condanna a morte. Qualcuno e qualcosa aveva
avvelenato i suoi animali. Le bestie erano tutte infette,
dentro la loro carne era nascosta la diossina e i soliti Pcb,
nei muscoli covavano tumori da esportazione pronti a
finire sulle tavole dei tarantini, dei pugliesi, degli italiani.
Le capre erano untrici. Il Vulcano, la bestia degli acroni-
mi, non aveva risparmiato nemmeno gli agnelli. Si era
detto fosse democratico questo Vulcano, in realtà sembra
un bastardo.

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Oggi l’abbattimento delle pecore contaminate.
la Repubblica, 10 dicembre 2008

Dalla notifica al giorno della mattanza passò qualche set-


timana. Come Angelo aveva immaginato, pochi giorni
dopo l’ufficiale giudiziario, bussò alla porta della masseria
l’ufficiale sanitario per comunicare che tutti gli animali,
cinquecento all’incirca, sarebbero dovuto essere ammazza
ti. Dovevano morire anche gli agnellini appena nati, infat-
ti si attese fino all’ultimo parto. Assicurò il dirigente sani-
tario che le spese dell’abbattimento, ci mancherebbe,
erano tutte a carico della Regione, gli allevatori avrebbero
avuto diritto a un rimborso per gli animali morti, ma
doveva essere chiaro a tutti sin dall’inizio che quel rim-
borso sarebbe stato soltanto simbolico, per la precisione
133,3 euro lordi a capo abbattuto. Inutile farsi illusioni.
Una volta tornato in ufficio il medico dell’Asl raccontò,
con stupore, come Fornaro non avesse battuto ciglio a
quella notizia. Aveva chiesto soltanto: “Dov’è che devo fir-
mare?”. Angelo se lo aspettava e quella notizia non lo
sconvolse. Perché non poteva sconvolgerlo. Le pecore
erano arrivate seconde. Prima di loro, per colpa dell’aria e
con la notifica di un certificato medico, “da questa masse-
ria se n’è andata mia madre e io, a trent’anni, ci ho rimes-
so un rene”, mi disse quella mattina della mattanza Vin-
cenzo, uno dei figli di Angelo, con un sussurro e senza una
lacrima come fosse la cosa più naturale del mondo. Sono
gente fiera i Fornaro, gente per bene, gente senza nemme-
no una macchia. Per questo quella mattina andarono fuori
di testa. Era il 10 dicembre, appunto, e la sera prima le
associazioni di animalisti erano andati a piazzare qualche
striscione attorno alla fattoria. “Leoni per agnelli” c’era

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scritto in uno e poi qualcosa del genere. Angelo mi confi-
dò che nemmeno li aveva letti quei cartelli, “Cos’è che
vogliono?”.
La procedura, come da protocollo burocratico, preve-
deva che in masseria arrivassero dei camion inviati dalla
ditta che gestisce il mattatoio di Conversano, la società che
si era aggiudicata la gara per l’abbattimento dei capi di
bestiame bandita dalla Regione. I camion avrebbero dovu-
to caricare le bestie per poi trasportarle nel centro di
macellazione. La procedura era assai complessa: l’azienda
vincitrice dell’appalto doveva assicurare che la carne infet-
ta mai e poi mai sarebbe stata messa in commercio e che
le carcasse degli animali sarebbero state poi smaltite in di-
scarica con le procedure previste dalla legge. Trattate cioè
come rifiuti speciali pericolosi. La procedura prevedeva
poi al carico delle bestie la presenza dei veterinari della Asl
e dei proprietari degli animali per verificare che tutto fosse
fatto in regola, che i conteggi fossero giusti in modo tale
da garantirsi per lo meno i 133,3 euro lordi di rimborso.
Nel protocollo i lampeggianti però non erano previsti.
Eppure quella mattina c’erano e per i Fornaro furono
troppi. Prima dei camion nella masseria arrivarono forze
di polizia in tenuta da sommossa. Erano state mandate
dalla Questura per tenere a bada possibili manifestazioni
di forza di associazioni animaliste che nei giorni preceden-
ti sui giornali avevano denunciato l’“inutile strage” e altri
annunci di questo genere. Di attivisti nello spiazzo ce n’e-
rano tre, con i loro striscioni. Non erano di più. C’erano
invece una cinquantina di giornalisti, fotografi di quoti-
diani, troupe di programmi di approfondimento e pure
quelli di Uno Mattina. Le camionette, i lampeggianti forse
erano stati mandati anche per quello. Angelo però non
capì e allora si arrabbiò, disse che lo stavano trattando da

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delinquente lui che era un galantuomo, ricordò “che io a
voi vi ho sempre trattato come ospiti di lusso”, il commis-
sario qualche giorno prima per esempio aveva assaggiato
durante un sopralluogo una fetta di formaggio. Angelo
disse che non era arrivato a 70 anni di vita di lavoratore
per vedersi trattare come un delinquente. Insomma disse
che non era giusto.
E poi si mise a piangere.

Eccoli, i criminali, gli assassini siamo noi, arrestatelo questo stron-


zo che ha cresciuto le pecore.
Angelo Fornaro

Dieci minuti dopo arrivarono i camion. Erano due, molto


grandi, entrambi a due piani, tutti rossi ma nonostante
questo non assomigliavano per niente agli autobus inglesi.
Gli operai del mattatoio erano persone gentili, si presenta-
rono appena scesi dai mezzi e poi si misero una lunga
mantella rossa, che era l’abito da lavoro, pensare che i boia
me li ero sempre immaginati vestiti di nero, come i bec-
chini. Non erano in grado però di fare tutto da soli, cin-
quecento animali da caricare non sono pochi. Stavano per
chiamare Conversano per chiedere rinforzi ma non fu
necessario. Aiutarono i Fornaro e i loro pastori, “Voi siete
qui per lavorare come noi, qui abbiamo lavorato per una
vita. Siamo tutti lavoratori, vi aiutiamo”, disse Angelo. Le
pecore parlavano albanese, o almeno penso che albanese
dovesse essere la lingua nella quale Sasha si rivolgeva loro
nelle stalle. Ero a un metro di distanza, i piedi nella merda.
L’odore però lo sentivo appena, mi affascinava la fila ordi-
nata con la quale quelle bestie uscivano dalle stalle, poi si

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fermavano sotto un porticato e poi a una a una salivano
sul camion rosso che intanto aveva parcheggiato accanto al
cancello d’ingresso. C’era come un ordine funebre, un
rituale da campo di concentramento in quelle linee trac-
ciate dal gregge e in quegli ordini impartiti in albanese.
Eppure quelli non erano uomini, in fila c’erano bestie
nate con il destino già scritto: dovevano finire in un
macello, dovevano essere ammazzate e poi mangiate. Non
sono mai stato un animalista, ho paura dei cani, adoro la
carne, eppure in quella fila puzzolente di pecore lessi per
la prima volta chiaramente il senso del vocabolo “tristez-
za”, avvertii netta la sensazione dell’ingiustizia. Perché
Angelo doveva assistere a tutto questo? Lui assisteva e a
favore di telecamere gli venne un’espressione sarcastica,
come se quel sarcasmo fosse un gradino oltre il dolore
personale.

Taranto è salva, grazie al sacrificio di queste pecore. L’hanno detto


i potenti. D’altre parole, l’ho salvata io Taranto.
Angelo Fornaro

Finirono in fretta, i camion furono caricati in meno di due


ore. E in fretta uno dei boia con la mantella bianca ci spie-
gò cosa sarebbe successo dopo: “Una volta arrivate al
macello, mettiamo due sensori alle tempie delle bestie e
viene data una scossa elettrica per stordirle. Dopodiché
vengono messe in fila una dopo l’altra e una macchina,
dall’alto, infila con un uncino la carotide. Rimangono
appese in aria per un po’ in modo tale che il sangue scoli
e poi le carcasse vengono smaltite”. Avrei dovuto assistere,
ma non ce la feci. Seguimmo io, Antonella ed Enzo – due

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amici che avrebbero dovuto raccontare la giornata con le
immagini in un documentario per il sito di Repubblica – il
camion fino a Conversano. Vedemmo il primo agnellino
scendere e uno degli operai prenderlo, tirarlo per le due
zampe e, come un gioco, farlo camminare per qualche
metro in modo tale che gli altri animali scendessero senza
troppi problemi dal camion. Scesero. Dall’alto comincia-
rono a girare gli uncini. Ce ne andammo. Erano le 12.10
del mattino quando il telefono squillò per la prima volta.

Dalla redazione mi chiedevano cosa stesse accadendo,


come fosse andata la giornata, se c’erano state novità,
imprevisti, insomma qual era la notizia: l’unica cosa che
mi venne in mente fu il belato degli agnellini, identico al
pianto di un bambino. Non dissi niente e attaccai il tele-
fono come fosse caduta la linea. Rimasi in silenzio anche
quella mattina, nella sala. Scansai lo sguardo di Angelo
Fornaro, facendo finta di non averlo riconosciuto. Niente
strette di mano, tanto sicuramente non si ricordava di me.
Poi scesi giù, per una passeggiata. Sarà perché si era a
Taranto, ma certe volte mi piacerebbe avere il vizio del
fumo. Per accendermi una sigaretta.

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Il lampadario e le scope

Mi alzai e dietro di me si alzò anche Vittorio. Il professor


Assennato ci seguì ma fui subito sicuro che si trattò sol-
tanto di un caso. Come per caso ci fermammo nell’andro-
ne delle scale, e speravo che così avrebbe fatto Assennato.
Non lo avrei bloccato, ma non ce ne fu bisogno. Si fermò
anche lui. Per fortuna ebbi l’opportunità di parlare, chie-
dere. Sentivo il bisogno di sapere, conoscere. La giornata
era stata lunga, confusionaria, troppe informazioni, trop-
pe emozioni, troppe facce e soprattutto troppe storie. Il
Vulcano cominciava a spaventarmi, ma avevo capito anco-
ra troppo poco per comprendere l’esatta dimensione della
paura. “Professore, quanto può far male?”
Assennato si strinse nelle braccia, lui era uomo di
numeri e non di giudizi. Ma era abituato a spiegare, e allo-
ra fece anche con me. Per un quarto d’ora più o meno,
ininterrottamente. Da bravo giornalista, presi appunti. O
almeno ci provai.
Come avevo già più o meno intuito, e come era ripor-
tato in quel fogliettino di Legambiente che mi avevano
dato all’ingresso all’inizio della giornata, esiste un registro,
il registro Ines, che certifica le emissioni nell’aria e nell’ac-
qua di inquinanti specifici. Sulla base di questi dati viene
chiaramente fuori che Taranto è la città più inquinata d’I-

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talia, probabilmente anche d’Europa. Prendiamo per
esempio i famosi Ipa, gli Idrocarburi policiclici aromatici.
Nel 2006, in tutta Italia, le industrie hanno emesso nell’a-
ria 33.707 chilogrammi di Ipa. Soltanto a Taranto l’Ilva ne
ha prodotte 32.240, cioè il 96%. Nell’acqua l’azienda
siderurgica ha scaricato invece 3241 chili di Ipa, contro i
3562 italiani. Sono il 91%. La questione non cambia se si
analizzano le diossine e i furani: in Italia sono stati caccia-
ti 95,2 grammi in un anno. A Taranto 91,5, il 96%.
Oppure il cianuro, che solo a ripeterlo mi fa paura: il 72
% di quelli scaricati nelle acque italiane, arrivano dall’Ilva.
I tarantini non lo sanno. Ma hanno la più grande società
di export di Europa. Si muovono nel campo della chimica.

In ogni caso, fin qui è tutto chiaro. Oppure forse no. L’Il-
va sostiene infatti che non è colpa loro tutto quel disastro,
e nemmeno di tutte le altre aziende della zona. Come
l’Eni, ad esempio, che recentemente ha chiesto di aumen-
tare del 40% l’emissione di alcuni veleni: Nox (ossidi di
azoto), Sox (ossidi di zolfo) e schifezze simili. Secondo l’Il-
va in fondo è colpa dei tarantini che sono degli sporcac-
cioni. Non è un modo di dire, ma hanno scritto proprio
così su un documento ufficiale, una difesa depositata dai
loro legali al Tar di Lecce in un giudizio amministrativo
contro la Regione.

La società Ilva è proprietaria dello stabilimento industriale di


Taranto nel quale esercita attività siderurgica. Lo stabilimento si
estende su di un’area di oltre 15 milioni di metri quadrati a desti-
nazione urbanistica industriale e occupa direttamente oltre
13.630 dipendenti. Gran parte delle aree del complesso produttivo
(circa 10 milioni e 200 mila metri quadrati) sono inserite nel sito

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di interesse nazionale di Taranto che, come delimitato con decreti
del ministro dell’Ambiente 10 gennaio del 2000, si estende per
114,9 km quadrati e ricomprende aree dei comuni di Taranto,
Statte, Montemesola, Crispiano e San Giorgio Jonico. Il complesso
produttivo di Ilva si colloca nell’ambito di un’ancor più vasta area
produttiva in cui, oltre all’insediamento, operano altre importanti
realtà produttive. Nell’area del sito ambientale di interesse nazio-
nale di Taranto numerose cave dismesse in discariche abusive di
rifiuti urbani porzioni del Mar Piccolo e del Mar Grande inqui-
nate per decenni dagli insediamenti portuali e dall’arsenale, oltre
che decine di pozzi “a perdere” e di collettori “a mare” provenienti
dai limitrofi insediamenti umani, la Salina Grande e le numero-
se aree in cui da decenni sono presenti “siti di discarica di rifiuti
urbani non adeguatamente conterminati e numerosi siti di smal-
timento abusivo di rifiuti di varia provenienza… e fenomeni di
degrado e di dissesto”. “La situazione ambientale presenta, quindi,
elementi di criticità riconducibili a un pregresso e generale stato di
degrado e dissesto del territorio provocato, per lo più, dalla tolle-
ranza di discariche abusive, da scarichi incontrollati nei corsi d’ac-
qua superficiali, dalla mancanza di un moderno ed efficiente siste-
ma fognario per gli insediamenti urbani, dall’assenza di impianti
pubblici effettivamente in grado di assicurare lo smaltimento dei
rifiuti e la depurazione dei reflui prodotti sul territorio.”
Difesa Ilva davanti al Tar di Lecce, 18 dicembre 2008

Le discariche. L’Ilva dice che è tutta colpa delle discariche


abusive.

Quando citai la posizione dell’azienda al professor Assen-


nato, egli sorrise. Non commentò. Poi si mise di nuovo a
raccontare.

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Tutta quella roba che le fabbriche di Taranto, e l’Ilva in
particolare, buttano per aria poi finisce da qualche altra
parte. E cioè dentro i nostri corpi. Dei tarantini, e non
solo. Una parte degli inquinanti viene assorbita per inala-
zione diretta. Ma parliamo di una piccola parte. Tutto il
resto viene assunto, invece, tramite l’alimentazione. Le
diossine emesse dalla combustione dei processi industriali
finiscono infatti per contaminare il suolo e l’acqua e quin-
di per contaminare gli alimenti. La carne, ma anche i deri-
vati del latte, i pesci e i crostacei marini. Quando ci sedia-
mo a tavola, insomma, è come se fossimo a una lezione di
chimica. Ma gli effetti della presenza di tutta quanta quel-
la roba non sono soltanto didattici. Ci sono anche quelli
medici. Gli acronimi non passano inosservati. Qualcuno
si accorge della loro presenza. A Taranto purtroppo in
tanti se ne sono accorti, tanti altri ancora per molto tempo
se ne accorgeranno ancora. La maggior parte di quegli
inquinanti hanno infatti effetti sulla salute dell’uomo. Par-
lava di “effetti”, il professor Assennato, ma in realtà avreb-
be potuto benissimo utilizzare il singolare. Effetto, perché
l’effetto alla fine è soltanto uno ed è sempre lo stesso: il
cancro. Per esempio, prendiamo sempre i soliti Ipa. Si è
detto che l’Ilva produce il 96% degli Idrocarburi Policicli-
ci Aromatici immessi in Italia nell’aria e il 91 nell’acqua.
Per la letteratura scientifica gli Ipa sono un inquinante
cancerogeno al 100%. E guarda caso a Taranto città ci si
ammala di tumore il 31% in più che nel resto della pro-
vincia. Di tumori e non di tumori qualsiasi, ma di quelle
tipologie di cancro che hanno una relazione specifica con
l’inquinamento ambientale. Per esempio: i maschi taranti-
ni hanno il 35% in più di tumori al polmone, e mentre
prendevo appunti mi vennero in mente gli accendini di
Luca e addirittura il 55% di tumori alla vescica, figli que-

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sti ultimi molto probabilmente proprio dei famigerati Ipa.
Ma non solo: Vittorio mi aveva raccontato di un suo col-
lega che all’improvviso si era ammalato di prostata. Capi-
tano, pensai, i tumori alla prostata. Ma a Taranto capitano
ancora di più: il 44% in più che nel resto della provincia,
e la causa è molto probabilmente il cadmio, un metallo
che chiaramente da queste parti è di casa. La metà di tutto
quello prodotto dalle fabbriche italiane arriva dall’Ilva.

Il linfoma non-Hodgkin è una malattia che io avevo già


sentito qualche volta. Il male che aveva avuto Nanni
Moretti e che poi aveva raccontato in Caro Diario, il mio
film preferito, il film che mi ha cambiato la vita. Moretti
guarisce e, raccontano i medici, guariscono la maggior
parte dei pazienti che si ammalano di quella malattia. Il
problema è che a Taranto si ammalano in troppi e la colpa
è delle diossine e dei furani. La stessa terribile coppia di
inquinanti che causa più del 43% di sarcomi dei tessuti
molli, mentre è dei policorobifenili la colpa dei 44 punti
in più di ammalati a Taranto rispetto al resto della provin-
cia di tumori epatobiliari.

Dietro ognuno di questi numeri c’è una malattia, una sof-


ferenza, una storia, milioni di lacrime, lutti e gioie, quan-
do si guarisce. Mi venne in mente zio Vincenzo, subito.
A Taranto ci si ammala di geografia, basta essere nati a
Manduria, trenta chilometri più là, per essere un fortu-
nato. A Taranto ci si ammala e non si sa per colpa di chi.
Ma soltanto per colpa di cosa. Al momento, mi spiegò
sempre il professor Assennato insieme con Vittorio, da un
punto di vista medico-scientifico e quindi anche legale è
impossibile fare una correlazione esatta tra le malattie dei
tarantini. È impossibile dire che sia tutta quanta colpa del

59
Vulcano. È impossibile fare uno studio epidemiologico, è
così che si dice, che metta in correlazione certa le emis-
sioni industriali con le malattie dei tarantini. C’è sempre
la possibilità delle discariche abusive o magari del traffico
cittadino. Per poter essere certi che sia tutta colpa delle
fabbriche bisognerà aspettare ancora, studiare e poi corre-
lare. Bisognerà ancora ammalarsi e forse anche morire per
avere giustizia.

Sono un ragazzo di 10 anni e mi chiamo Renato. Sono orfano di


padre e per colpa di un tumore ho perso da poco il nonno. Qui a
Taranto, dove vivo, per colpa dell’Ilva ogni anno muoiono di
tumore moltissime persone, sugli oggetti c’è una polvere argentea e
il mare è inquinato e si sente puzza di smog: so anche che molte
famiglie sono alimentate dall’Ilva, ma rimango fermo sulle mie
idee, perché è immondo che siamo la città con il più alto tasso di
tumori! Perciò chiedo aiuto.
Renato Ninfale

Scesi dalle scale del retro, in modo tale da ripassare di


nuovo davanti alla mostra dei bambini. Questa volta ci
persi più tempo. La guardai a lungo, lessi e rilessi uno a
uno quelle centinaia di pensierini scritti al Presidente della
Repubblica dai bambini della città. Quelle righe semi
sgrammaticate dovrebbero leggerle tutti i cittadini italiani,
sono un’opera d’arte, un atto di accusa alla politica e all’in-
dustria, ai giornali, sono un bisturi senza anestesia, non si
potrebbe raccontare niente e poi niente meglio di come lo
fanno loro, i bambini. Senza retorica, senza contaminazio-
ni politiche, senza filtri. Solo puzza, timore, ingenuità e
cartoni animati per raccontare la vita nel Vulcano. Per

60
esempio: ma Holly potrebbe mai scattare sulla fascia e poi
bloccarsi per uno spasmo causato dai Pcb che si trovano
nell’aria? Hello Spank avrebbe il pelo bianco se fosse nato
a Taranto o anche quello, come le lenzuola stese, sarebbe
diventato grigio? Insomma è normale che i sogni dei bam-
bini cambino colore?

Il verde non è verde, il blu è malato, gli animali sono pochi, l’uo-
mo sta morendo a causa di tante malattie legate all’inquinamen-
to. Noi bambini vogliamo un futuro più bello e più colorato. È un
nostro diritto.
Domenico Basile

Ho ammirato il profilo delle maestre, vorrei stringere le


mani una ad una, a tutte, perché hanno fatto benissimo il
loro mestiere, sono rimaste dietro le quinte, arginando
quel protagonismo solito dal quale sono affette molte inse-
gnanti. Sarebbe stata l’occasione perfetta, la mostra, il
pubblico; sarebbero sicuramente salite su quel palco con la
messa in piega appena fatta per raccogliere applausi, sen-
tirsi dire quanto sono state brave, fare una decina di rin-
graziamenti alla dirigente scolastica, la vicaria, a tutte le
insegnanti del progetto e poi stringere la mano al sindaco
e magari anche al presidente della regione. Hanno fatto il
loro lavoro, hanno spiegato, motivato, lanciato l’input e
poi sono state a guardare. È nato così il libro. Tra tutti, i
miei preferiti sono Stefano e Fabiola, ho letto i loro pen-
sierini e non ho resistito alla tentazione di riscriverli su un
foglio di carta e conservarli per sempre con me.

61
Anche io voglio nella mia città nuvole bianche come quelle dei car-
toni animati. Tanto sono certo che prima o poi sarà così. La prego
di fare che accada.
Stefano

Io sono una bambina di nove anni che vive in una delle città più
inquinate d’Italia, Taranto. Il cielo della nostra città è quasi sem-
pre grigio mi sembra di vedere un lampadario spento. Ti prego, se
puoi accendi la luce sulla nostra città.
Fabiola

Alla fine scesi. Per poi però fermarmi dopo nemmeno una
rampa di scale. Era bagnato per terra, era ormai pomerig-
gio e nel vecchio ospedale avevano cominciato a fare le
pulizie. Tutto splendeva, lo avevo già notato, non c’era un
filo di polvere all’interno delle finestre. Chi si occupava
della cosa, evidentemente, doveva essere una persona
attenta. Quella persona mi spuntò all’improvviso lì davan-
ti, una signora di 60 anni all’incirca con i capelli ramati e
ordinati, accucciata con le ginocchia a terra per battere al
meglio il battiscopa del secondo piano. Sollevò lo sguardo,
mi vide lì impalato sulla rampa, e mi fece segno di scen-
dere con la mano. Affrontai i quattro scalini che rimane-
vano con l’esterno dei piedi, sperando di lasciare meno
impronte possibili. “Non si preoccupi, venga pure, tanto
dopo devo ripassare lo straccio.” Saltai gli ultimi due con
un balzo, a momenti cadevo all’indietro. La signora mi
guardò e sorrise, poi afferrò al volo l’occasione, “Scusi
signore, un attimo, soltanto una parola”, disse e in un
baleno scattò in piedi e si mise tra me e l’altra rampa,
impedendomi di scendere. Per fortuna. Tina aveva 51 anni

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solamente e viveva al quartiere Tamburi di Taranto, quel-
lo più vicino all’Ilva. Era una bidella, da qualche anno
lavorava come interinale in una società che assicurava il
servizio di pulizia e sorveglianza nella maggior parte degli
ospedali e delle strutture pubbliche della Puglia. Ma in
realtà anche del Lazio, della Lombardia, insomma vince-
vano sempre loro. Tina viveva al Tamburi e aveva un pro-
blema. In realtà ne aveva più di uno, ma di quello nello
specifico aveva bisogno di parlarmi. “Giovane, sei un gior-
nalista, vero?”, mi chiese toccandomi con una mano il pass
che portavo al collo da inizio giornata. “Lavori al Corriere
del Giorno? La Gazzetta? Senti, l’importante è che scrivi
questa cosa perché io tengo un problema.” Ero pronto ad
ascoltare la storia della sua mancata stabilizzazione nella
società oppure della classifica per le case popolari tarocca-
ta o in alternativa c’è sempre un marciapiede rotto sotto
casa di qualcuno e un giornalista che deve denunciare la
cosa nella speranza che lo aggiustino, visto che le decine di
telefonate al centralino dei vigili urbani non sono servite a
nulla. Tina, invece, non disse nulla di tutto questo. Ma mi
parlò delle sue scope, di suo figlio pittore e della sabbia del
Vulcano.
Tina era una delle signore del Tamburi, appunto. Vive-
va in una di quelle case con la vista sulle ciminiere, a pochi
passi dai famosi parchi minerali dell’Ilva. Mi raccontò che
tutti i giorni, da quando abita là dentro, lei è costretta a
scopare il balcone almeno tre volte e quando c’è il vento
non ne parliamo, deve stare sempre lì fuori a scopare, chi-
narsi, raccogliere e buttare. Il ballo del minerale, stavo per
dirle, ridendo. Per fortuna rimasi zitto. “Non pensare che
sia una cosa così, guarda che è una schiavitù, una cosa
brutta assai non riuscire a tenere una casa pulita, essere
costretta a stendere sempre le robe dentro casa perché

63
altrimenti diventano tutte quante nere oppure come una
specie di rosa. Qua a Tamburi tutto è rosa. Pure le cappel-
le del cimitero.” Il cimitero è quello di Brunone, quindici
passi dalla fabbrica e quindici dalle case. “Ora le cappelle
le pittano già di rosa, perché tanto diventano di quel colo-
re dopo qualche giorno e a questo punto meglio farlo
subito, si risparmia tempo e una brutta figura: almeno i
nostri morti, almeno loro, non sembrano sporchi.”

Avrei voluto interromperla un attimo. Taranto, il paese del


cimitero rosa, era una figura retorica, un ossimoro sì, ma
forse anche una metafora. Avrei voluto interromperla un
attimo Tina, per sdrammatizzare e sono sicuro che lei
avrebbe capito, era una donna di spirito. Le avrei voluto
citare una delle migliaia di cose che mi aveva detto qual-
che minuto prima il professor Giorgio Assennato e che mi
aveva colpito particolarmente.
Tina doveva essere orgogliosa della sua Taranto, meglio
ancora doveva essere orgogliosissima del suo quartiere, il
Tamburi. In una speciale classifica superava Padova, Firen-
ze, Venezia, Milano, Roma, Bologna. E poi ancora di più:
meglio di Taiwan, Chicago, Hong Kong, Santiago, San
Paolo, Houston, Brisbane, Atene. Taranto meglio di tutte
queste città e di altre mille ancora. Ecco, in realtà la clas-
sifica lusinghiera non veniva da uno di quegli elementi che
graduatoria del Sole 24 Ore sulla vivibilità delle città defi-
nirebbe “qualificante”. Il confronto era contenuto in uno
studio su “I microinquinanti” della facoltà di Chimica del-
l’Università di Bari alla quale avevano lavorato cinque pro-
fessori universitari (Amodio, Caselli, De Gennaro, Placen-
tino e Tutino). Dopo aver analizzato migliaia e migliaia di
tabelle, gli scienziati avevano preso a campione una serie
di giornate che andavano dal 2 aprile 2003 al 27 febbraio

64
2006, per poi fare il confronto tra la qualità dell’aria che
si respira al Tamburi e quella delle più grandi città italia-
ne, europee e addirittura mondiali. La centralina che regi-
stra i valori del benzoapirene è proprio a due passi da casa
di Tina, in via Orsini. Per esempio: Tina si ricorda dov’e-
ra il 4 aprile 2003? Spero di sì, perché quello è stato un
giorno davvero speciale. Il benzoapirene, uno degli inqui-
nanti cancerogeni più tremendi che possano esistere, quel-
lo che viene fuori dai tubi di scappamento delle automo-
bili ma anche dai camini delle industrie, era presente dieci
volte di più rispetto alla norma, sette volte di più che a
Chicago e San Paolo, quasi il doppio che a Los Angeles.
Oppure il 16 gennaio 2005: quel giorno l’aria che ha
respirato Tina al Tamburi era identica a quella di Harrison
Ford a Los Angeles. Stessa quantità di benzoapirene, disse
la scienza. Sostenne il professor Assennato, tradito da un
sorriso, che evidentemente in via Orsini devono circolare
lo stesso numero di automobili che sulla Hollywood Bou-
levard. O forse no.

Avrei voluto interromperla Tina, ma non ci riuscii. Con


addosso quel grembiule azzurro che le scendeva informe
sui fianchi, le ciabatte con un poco di tacco, continuava a
parlare come una macchinetta, senza respirare per un
secondo. Continuava a ripetere di quella sabbia, voleva
giustizia su quella dannata polvere, l’avversario della sua
vita, l’attentato alla sua pulizia, della sua ontologia di casa-
linga. Tina era una donna determinata, lo capisci da come
si muove, dalla fermezza dell’espressione, dal modo in cui
gesticola. Mi raccontò che qualche anno fa, esasperata,
cominciò a raccogliere quella polvere e portarla alla Asl, ai
Carabinieri, alla Polizia, e che poi aveva anche cominciato
a mandare quei sacchetti alla magistratura, che all’epoca si

65
chiamava Pretura, e allora e soltanto allora qualcosa era
successo. Tina mi raccontò una storia meravigliosa. Mi
parlò della giustizia, ai tempi del Vulcano.

66
La polvere

L’Ilva produce acciaio. L’acciaio non è un elemento natu-


rale ma si realizza mettendo insieme il ferro e la polvere di
carbone. Anche la polvere di carbone però non esiste. Si
realizza cuocendo il carbone in stabilimenti che si chiama-
no cokerie. Le cokerie altro non sono che dei forni. Per
realizzare l’acciaio è necessario avere materie prime. E que-
ste materie prime a Taranto non esistono. L’Ilva le compra
da altri paesi stranieri e arrivano a Taranto via mare. Dal
porto vengono poi trasportate in azienda attraverso dei
nastri trasportatori. Tina, mi disse, di essere molto arrab-
biata con questi nastri trasportatori. Sostiene che la polve-
re che trova sul balcone sia colpa proprio di questi nastri.
Tina vive al Tamburi, il quartiere che si trova a pochi passi
dall’Ilva. Quando fu costruita l’Italsider, quel quartiere già
esisteva. Ma perché allora fu costruita comunque l’azienda
siderurgica? Perché non la realizzarono in un’altra zona di
Taranto? Nessuno immaginò che saloni, camere da pran-
zo e altiforni non potessero stare troppo vicini? “Quella
fabbrica”, mi disse Tina brandendo il dito come fosse una
bacchetta, “l’hanno costruita alla rovescia. La zona dell’Il-
va che non dà fastidio l’hanno fatta lontanissima mentre
quella più pericolosa l’hanno fatta qui, accanto ai palazzi.
Non è che non ci hanno pensato. Lo hanno fatto apposta:

67
da questa parte è più vicino al porto e così hanno rispar-
miato sui nastri trasportatori. Hai capito che casino questi
nastri?” Non avevo capito. E soprattutto non avevo capito
questa roba della polvere. Da dove arrivava? Perché arriva-
va? Che cos’era? Provai timidamente a farglielo notare.
“Tu sei scemo”, mi disse. E poi mi mise in mano un mal-
loppo di carte. “Leggi”, disse. “Così forse capisci.” Quelle
carte che Tina conservava in un cassetto di una vecchia
cattedra, uguale a quelle dei bidelli a scuola, erano le moti-
vazioni di alcune sentenze penali. Qualche centinaio di
pagine ciascuna. Le sfogliai, lì seduto sul gradino delle
scale.

Sulla base di tale considerazione di fondo, il principale colpevole è


Emilio Riva.
Martino Rosati, giudice, pag.24 sentenza n.408/07

La lettura fu utile. Per esempio, scoprii che il Vulcano ha


anche i suoi parchi. Senza ironia, li chiamano proprio
così, parchi. Non sono verdi e non sono fatti di erba.
Sono grigi, neri, a volte rossastri. E sono fatti di minera-
li. La definizione non era mia. Ma di Lucia De Palo. La
signora è un giudice, e così scriveva in una sua sentenza
di primo grado, depositata il 15 luglio del 2002. “L’area
dei parchi minerali si estende per circa 660mila metri
quadrati ed è destinata a deposito di materiale di vario
tipo, (…) si tratta sostanzialmente di minerali e fossili.
Hanno dimensioni notevoli: una lunghezza di centinaia
di metri e un’altezza di circa dieci.” Cento per dieci, più
che di parco si tratta di colline. Vengono infatti accumu-
late piccole montagne di minerali, enormi cunette di pol-

68
veri, pronte per essere trasformate in acciaio. In quasi
tutti gli altri stabilimenti siderurgici del mondo, persino
a Taiwan, queste colline sono coperte. Ma a Taranto no.
In realtà quando l’Ilva ha acquistato il bene aveva pro-
messo una serie di interventi per mettere in sicurezza
quell’area, ma a credere al panorama e ai giudici penali è
stato fatto ben poco. “Un’abile opera di maquillage”, è
definita in una sentenza di corte d’Appello, “verosimil-
mente dettata dall’intento di lanciare un segnale per
allentare la pressione sociale e della autorità locale e
ambientale: gli interventi fatti non possono essere consi-
derati però il massimo che si poteva fare”.
Il parco si trova al di là del muro di cinta dell’azienda
a poche decine di metri dalle case del Tamburi. Basta sali-
re su un qualsiasi balcone del quartiere per vederlo, in
lontananza. Ma perché i minerali si muovono? “Il mate-
riale accumulato allo stato grezzo”, scriveva sempre il giu-
dice, “una volta movimentato, a causa della stessa attività
produttiva ma anche a seconda delle condizioni meteocli-
matiche, si sgretola con conseguente formarsi di polvere
di colore nero, rossastra e lucente.” Che bello, che deve
essere: la notte, magari, e quella polvere nera, rossastra e
pure lucente. Come la polverina di Trilli campanellino.

Le polveri sono rossastre... visto da dove lavoro io, io lavoro al San


Giuseppe Moscati, l’azienda Ospedale Santissima Annunziata, dal
settimo piano, vedo quasi sempre sopra la zona del rione Tamburi,
quindi di lato dell’Ospedale Nord, vedo proprio dal settimo piano
una cappa di colore rossastra, ma non rosso fuoco, un rosso che sicu-
ramente è legato a cause credo... Senta io siccome stavo lavorando,
non è che mi sono messo a guardare, io le posso dire di quei brevi
momenti che alzavamo la testa perché insieme ad altri colleghi,

69
loro erano di un paese della provincia, e dicevano: “Ma come
fate a vivere, guarda là”.
Infesta Gianfranco, teste

In prossimità di casa per tanti anni ho giocato in un campo di cal-


cio che è il comunale vecchio, dove c’è un cumulo di polvere, guar-
date, è impressionante, io non so come diano ancora l’autorizza-
zione a giocare su questo campetto, dove la scarpetta di calcio va al
di sotto, cioè veniva coperta del tutto dallo strato di polvere... Lo
dico a prova di quello che è la verità, io ho dei parenti che vanno
settimanalmente, quelle persone che vanno col secchio, l’acqua e lo
scopettino tutte le domeniche e tutte le domeniche se ne ritornano
con le pezze nere. Cioè ormai si sono talmente attrezzati che vanno
direttamente anziché con i secchi di acqua riempiti con le fontane
che sono distanti, vanno con i bidoncini personali.
Intini Pietro, teste

Lucia De Palo, il giudice, parlava chiaro. Altro che Tina e


i suoi racconti. “È stato accertato”, scriveva nella sentenza,
“che nei forti giorni di tramontana il fenomeno assume
dimensioni insopportabili e si vedono chiaramente dai
parchi minerali alzarsi delle nuvole di polvere che rag-
giungono dimensioni enormi, con conseguenti grossissimi
disagi alla popolazione.” Il vento che governa un quartie-
re, Almodovar forse ci farebbe un film.

L’effetto sulle cose è che va a sporcare tutto questo minerale dove si


va a depositare, perché basta vedere i nostri stabili sono di colore
scuro, marronastro, luccicanti a volte. Sulle macchine lo stesso pro-
blema sui marciapedi questa polverina che vedi dappertutto e que-

70
sto è un problema che si accentua specialmente se c’è vento che è
una dannazione per il quartiere Tamburi... Beh! Le persone natu-
ralmente... poi questa è polvere che vola nell’aria a mio avviso, non
sono un tecnico, però respiro questa polvere ti entra dentro casa...
Quando c’è vento, siccome io abito vicino all’Ilva, dai parchi si
vede che si alza questa polvere.
Guarino Domenico, teste

Sì, qui diventa proprio mostruoso, una situazione invivibile. Nelle


giornate di vento.
Crocco Danilo, teste

La polvere doveva essere davvero tanta. Si alzava a tutte le


ore del giorno, era in grado di arrivare ovunque, nei nego-
zi e nelle scuole. Si fermava sui balconi, si aggrappava ai
muri, si fermava per terra, il campo sportivo dove si affon-
da nei minerali, per esempio. La polvere si appiccicava sul
corpo. In tanti al quartiere Tamburi raccontavano di non
lavarsi con il bagnoschiuma. Ma con lo spirito. E poi la
polvere non dava fastidio soltanto a Tina.

Mi devo girare così, perché ti va in faccia, ti dà fastidio agli occhi...


Ferulli Francesco, teste

Si avverte un bruciore agli occhi sicuramente e altri danni in


maniera evidente al momento non si notano, però io vi posso dire
che purtroppo l’interessamento a polveri determina dei danni che
non sono rapidi, ma sono nel tempo.
Infesta Gianfranco, teste

71
Personalmente a me producono un fastidio agli occhi, un rossastro
sugli occhi e anche sulla parte respiratoria... Quando uno si puli-
sce il naso si vede un po’ di polvere sul fazzoletto.
Gentile Armando, teste

Tina aveva ripreso a pulire, non riuscivo più a vederla.


Avrei voluto parlarle, forse chiederle scusa, o forse no per-
ché altrimenti avrebbe ripreso a strillare. Squillava il tele-
fono, mi cercava Vittorio. Non risposi, volevo continuare
a leggere.
Nelle carte tornava spesso il nome di Franco Sebastio.
Anche lui era un magistrato. Doveva essere la dannazione
dell’Ilva, magari nell’ufficio di qualche dirigente dell’a-
zienda c’era un poster con la sua faccia, gli occhiali, i baffi
folti, e sopra qualche decina di freccette. Era Franco Seba-
stio che aveva istruito in qualità di pretore prima, poi di
sostituto procuratore, poi di procuratore aggiunto tutti i
procedimenti penali contro l’Ilva di Taranto. Sebastio l’a-
vevo intravisto prima in sala ma anche conosciuto una
volta, tempo fa, per un altro procedimento che riguardava
l’Ilva ma non c’entrava nulla con il Vulcano: l’azienda
aveva preso una vecchia palazzina, tutta sporca, con i vetri
rotti, e ci aveva deportato un po’ di dipendenti scomodi,
che avevano rifiutato un accordo con l’azienda. Li aveva
presi e messi lì a fare niente, come punizione. A Taranto la
gente diceva in giro “beati loro, vengono pagati e non
lavorano”. Loro invece, i dipendenti deportati, andarono
via di testa. Depressi, mobbizzati. Del caso se ne discusse
sui giornali, i sindacati denunciarono. Intervenne la magi-
stratura, arrivò Sebastio, la palazzina chiuse, i dipendenti
tornarono al lavoro e i vertici dell’Ilva furono condannati.
Quella era la storia della palazzina Laf.

72
Questa invece è la storia di una polverina magica fluo-
rescente, colorata. E anche un poco molesta. Ma non solo:
pare sia anche pericolosa.

Giudice, voglio premettere che molestare significa recare molestia,


dar noia, fastidio ma anche procurare una sensazione incresciosa
di irritazione provocata da tutto ciò che produce un turbamento
del benessere fisico e che offendere è qualcosa di più e sta per urta-
re contro, rendere ranno, danneggiare, produrre una lesione (…)
Ora fatta questa premessa, voglio dire che il particolato (una
miscela di particelle solide e liquide sospese nell’aria i cui costi-
tuenti variano per dimensione, composizione e origine) anche
quello più grossolano, può non solo molestare ma anche offendere
sia la mucosa degli occhi, determinando irritazioni oculari, sia le
prime vie aeree del naso, determinando fastidi, starnuti e prurito,
sia le primissime vie aeree, determinando anche tosse secca e stiz-
zosa. E questi sono i sintomi più banali, più immediati che si pos-
sono avere (…) Dobbiamo però fare una piccola considerazione,
cioè purtroppo il nostro apparato respiratorio è il più esposto al
mondo esterno di tutti gli altri organi che noi abbiamo, persino
più del mantello cutaneo che si espone per 4,5 metri quadrati. Il
mantello alveolare si espone per 60, 100 metri quadrati, cioè
signor Giudice se noi dovessimo dispiegare gli alveoli dei nostri pol-
moni su un pavimento, noteremo con grande sorpresa che dispie-
gando tutti questi alveoli, occuperemmo la superficie di un campo
da tennis. Allora lei capisce che inalando dai 10 ai 20mila litri al
giorno di aria, perché questo è quello che inaliamo, è ovvio che in
questo immenso filtro vanno a depositarsi un’innumerevole quan-
tità diciamo di sostanze nocive per il nostro apparato respiratorio
(…) Il problema è che il particolato tende a legarsi con in pollini
nell’aria (…), così i soggetti predisposti a questo tipo di patologia
hanno molto più frequentemente crisi asmatiche, è stato visto che

73
l’aumento del particolato si correla con l’aumento dei ricoveri ospe-
dalieri, con l’aumento dell’uso di farmaci antiasmatici e quindi
diciamo, evidenziano questa azione negativa.
Dottor Corbo, specialista in pneumologia, consulente del
Pubblico ministero

A lamentarsi non erano poi soltanto i cittadini. Ma anche


le istituzioni, i politici, chi rappresenta i cittadini. “Nel
corso del dibattimento”, annotava sempre il giudice, “sono
stati sentiti testi che hanno, per ruolo istituzionale, quello
della salvaguardia del territorio, e hanno tutti descritto la
situazione con toni estremamente gravi.”
Nonostante questo, però, il Comune di Taranto e la
Provincia di Taranto, dopo aver siglato un protocollo d’in-
tesa con l’azienda, decisero di ritirare la costituzione di
parte civile nel procedimento penale. Se non lo avessero
fatto, la città e i centri della provincia avrebbero avuto
diritto a un risarcimento economico, magari anche soltan-
to simbolico, per risarcire il danno subito. Gli unici a non
ritirare la costituzione di parte civile furono la Uil e
Legambiente. L’avvocato dell’associazione ambientalista,
Eligio Curci, seguì tutte le udienze.

Era una lamentela continua, tant’è che si sono già organizzati dei
comitati cittadini (…) Noi abbiamo fatto anche un corteo, pro-
prio per manifestare tutto questo. Personalmente ho visitato non
soltanto il campo sportivo che credo sia stato uno degli elementi più
eclatanti per il cumulo che noi abbiamo registrato di polveri pro-
venienti dal parco minerale. Ma anche in alcune abitazioni dove
i cittadini ci hanno dimostrato come quotidianamente sui balconi,
sui davanzali, eccetera, c’è la presenza di queste polveri. Quindi è

74
un dato scontato, ma d’altra parte è un dato anche visibile. Ci sono
alcune zone e alcune strade e dei guard-rail che ormai sono diven-
tati tutti rossi. Cioè basta andare in quelle zone dove è facilmente
visibile che c’è una deposizione di polveri. (…) Molte strade e molti
guard-rail, sono per esempio tutti rossi, quel materiale si deposita
un po’ dappertutto, specificamente nel quartiere Tamburi.
Rossana Di Bello, ex sindaco di Taranto

La colpa della polvere non era soltanto del vento, raccon-


tava sempre il giudice. La nube si alzava anche nei giorni
di calma piatta. “Anche in condizioni di assoluta normali-
tà climatica e in assenza di vento lo spolverio è emerso e
sembra idoneo a imbrattare cose e persone per una vastis-
sima area e a creare problemi alla respirazione e alla vista.
La situazione (...) è permanente.” L’unica soluzione per
risolvere il problema, dicevano sempre i giudici nelle loro
sentenze, era spendere tanti soldi, oppure spostare i par-
chi. Non è un caso che nei primi due gradi di giudizio
fosse stata decisa anche la confisca dell’area, poi annullata
dalla Cassazione. Ma a proposito di chi è la colpa?

Il primo responsabile del rispetto delle norme dovrà identificarsi,


indiscutibilmente, nel legale rappresentante della società dotata di
personalità giuridica, e cioè Emilio Riva (…) Tutti i dati proba-
tori sopra analizzati dimostrano che, nella conclamata inidoneità
dei rimedi-tampone apprestati negli anni per eliminare o contene-
re il fenomeno dello spolverio, la soluzione di un problema avente
così gravi ricadute sulla salute dei cittadini non poteva passare se
non attraverso radicali mutamenti del processo produttivo (…) In
definitiva si trattava di operare scelte di ampio respiro strategico
volte a ripensare struttura, articolazione e ubicazione delle aree

75
produttive dell’enorme insediamento siderurgico così da prevenire,
eventualmente, anche alla dismissione dei parchi minerali e dun-
que alla decisione di eliminare all’occorrenza determinate aree e
fasi del ciclo produttivo (…) Non vi è chi non veda come l’impor-
tanza e la portata di scelte industriali volte a eliminare la fonte di
pericolo ovvero a mantenere la fonte di emissione, rendendola com-
patibile con la salute dell’uomo e dell’ambiente al prezzo di ingen-
tissimi esborsi di denaro, non potevano che competere al minimo
all’amministratore delegato, Emilio Riva (…) Non si era in pre-
senza di fenomeni occasionalmente cagionati dall’attività produt-
tiva ma di caratteristica costante e connaturata alla peculiare
strutturazione del ciclo produttivo integrale e alla specifica disloca-
zione dell’area parchi nell’ambito dello stabilimento Ilva (…)
Sarebbe legittimo pretendere in ragione delle enormi dimensioni
dello stabilimento tarantino (il più grande d’Europa) e delle altret-
tanto imponenti ricadute pregiudizievoli per il territorio e la salu-
te dei cittadini (…): non si può parlare di inesigibilità tecnica o
economica quando è in gioco la tutela di beni fondamentali di rile-
vanza costituzionale, come ad esempio il diritto alla salute.
Dino Maria Semeraro
Cesarina Tronfio
Giovanna Semeraro
Consiglio Corte d’Appello di Lecce, 10 giugno 2004

Emilio Riva è un pregiudicato. Così era scritto nelle pagi-


ne che mi aveva dato Tina. L’imprenditore, il proprietario
dell’Ilva, il grande capitano d’impresa italiano, è stato con-
dannato due volte, in due procedimenti diversi, sempre
per lo stesso reato: aver inquinato Taranto. Il 25 ottobre
2005 la Cassazione lo ha condannato a sei mesi di reclu-
sione – sostituiti con l’ammenda di 7980 euro – per getti-
to pericoloso di cose. Laddove per cose si intende polveri

76
e inquinanti lanciati nell’aria.
Il 10 ottobre 2008, invece, la sezione distaccata della
Corte di Appello di Lecce (si attende ora l’ultima pronun-
cia della Cassazione) lo ha condannato a due anni per get-
tito pericoloso di cose, danneggiamento aggravato, omis-
sione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro nel
reparto cokerie. In entrambi i procedimenti insieme con
Riva è stato condannato anche il direttore dello stabili-
mento di Taranto, Luigi Capogrosso.
Non è vero quindi che sul Vulcano non è mai colpa di
nessuno.

77
Il Vulcano (II)

Fu quando pensavo che fosse tutto in quelle cinquecento


pagine di sentenze, in quel migliaio di cartelle scritte da
cinque giudici diversi a distanza di parecchi anni gli uni
dagli altri, fu quando avevo pensato di aver capito il Vul-
cano che invece mi accorsi di non aver capito nulla. Asso-
lutamente nulla. Bastò mettersi le scarpe da ginnastica e
scendere giù all’Hotel Delfino per fare colazione alle nove
della mattina. Mi bastò aprire il giornale.

L’Ilva ha comunicato alle organizzazioni sindacali dei metalmec-


canici che dal 10 maggio prossimo sarà fermato l’altoforno 2 dello
stabilimento siderurgico di Taranto. Una decisione che comporterà
l’aumento del numero di cassintegrati dagli attuali 4.100 a 6.700
circa, ovvero la metà dei lavoratori dello stabilimento. La produ-
zione di ghisa, ridotta già a partire dall’ottobre scorso, calerà ulte-
riormente da 26.000 tonnellate al giorno a 7.000 circa, mentre
resterà operativo solo l’altoforno 5 su un totale di cinque altoforni.
la Repubblica

Il lavoro è l’altra faccia del Vulcano, quella che non puzza,


che non fa fumo. Non colora di grigio le nuvole, ma fa

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bene e fa anche male uguale. Se possibile, ancora di più.
L’altra faccia del Vulcano si materializza 24 ore su 24, a
ciclo continuo, ma poi c’è una giornata in particolare in
cui si materializza più precisa del solito, il 27 di ogni mese.
È da questa parte del Vulcano che nasce il magma, è da qui
che comincia la vita.
Taranto è una delle città più indispensabili al sistema
industriale italiano, necessaria all’autosufficienza di questa
nazione e di questo continente. Senza Taranto, sentii
tempo fa in televisione, saremmo tutti ancora più dipen-
denti dalla Russia e dalla Cina. Ciascuno a Taranto ha in
casa un padre operaio, un cugino macchinista, un genero
capo turno, la gran parte della città riesce a mangiare gra-
zie alle grandi aziende, siano esse l’Eni, l’Agip, l’Ilva,
oppure l’indotto, che non è il nome di una fabbrica ma è
tutto quello che gira intorno e quindi, comunque, arriva il
27 di ogni mese. Raccontava l’Ilva nel suo bilancio di
sostenibilità presentato nel 2005 che ha 13.346 dipenden-
ti diretti, più i 3136 dell’indotto. Negli anni molti di loro
si sono fatti male in fabbrica, tanti, troppi, sono morti
mentre lavoravano l’acciaio. Nell’ultimo anno poi l’azien-
da ha aumentato gli investimenti in tema di sicurezza (due
miliardi di euro) e ad aprile del 2009 ha annunciato trion-
fale in una conferenza stampa che nello stabilimento si è
registrato un calo del 50% di tutti gli infortuni. Ogni
tanto, però, qualcuno continua a farsi male. Gli operai di
Taranto sono ragazzi giovani e sono uomini, anche vecchi.
Lo 0,6 per cento degli operai Ilva ha meno di 20 anni, il
18,7 ne ha da 21 a 25, il 38 è compreso in una fascia di
età che va dai 26 ai 30, il 20,1 dai 31 ai 40, il 17,1 dai 41
ai cinquant’anni. C’è poi un 5% che è ultracinquantenne.
Non è certo il massimo nella storia delle acciaierie. Quan-
do si chiamava ancora Italsider, dentro il mostro hanno

79
lavorato anche 21.785 persone per poi crollare nel 1995
quando arrivò il gruppo Riva a 11.796.
In un libro stampato dalla Regione Puglia sulla storia di
Taranto c’è un appunto interessante. Scriveva un vecchio
sindaco di Taranto, era il 1959, si parlava dell’acciaieria
che stava per nascere e della banda che girava per la città.
Si parlava dell’altra faccia del Vulcano. A me venne in
mente un paese che si chiamava Macondo, e la storia di
come la gente del luogo conobbe il ghiaccio.

Alla notizia la città esultò. Fu scomodato persino un complesso


bandistico che portò in ogni rione l’annuncio tanto atteso. La città
cominciava finalmente a guardare al suo futuro con maggiore sere-
nità. Chi alzò un dito allora per dire che il IV centro siderurgico
stava per nascere proprio alle porte della città? (...). Nessuno pote-
va farlo. Perché, allora, c’era fame di buste paga, di posti di lavo-
ro, di tranquillità economica, di serenità.
Se ce lo avessero chiesto, avremmo costruito lo stabilimento anche
in pieno centro cittadino, in piazza della Vittoria, nella Villa Peri-
pato, al lungomare.
Angelo Monfredi, sindaco di Taranto, 1959

Nel corso di un incontro al Quirinale proprio rispondendo a una


domanda di alcuni studenti di Taranto dissi che bisogna rendersi
conto che per tanto tempo il problema numero uno è stato il pro-
blema del lavoro, di creare posti di lavoro, specialmente nel Mez-
zogiorno d’Italia e sembrava che la strada maestra fosse quella di
costruire fabbriche. In questo senso ho peccato anch’ io: mi ricordo
che mi diedi molto da fare e partecipai a delle battaglie perché si
costruisse il grande impianto siderurgico a Taranto. Abbiamo
imparato, dopo, che bisognava essere più prudenti, e che bisognava

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mettere nel conto anche tutte le conseguenze negative dell’indu-
strializzazione. Ma si è dovuti passare per quell’esperienza, per
capirlo.
Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica, 2008

A colazione servivano, tra le altre cose, quella frutta secca-


ta e glassata che è la prova evidente dell’esistenza del tra-
scendente. Le banane, soprattutto. I cornetti alla crema
facevano abbastanza schifo, l’edizione di Bari di Repubbli-
ca in prima pagina parlava del Petruzzelli, il teatro brucia-
to, ricostruito ma ancora chiuso per un dispetto della poli-
tica (il governo nazionale di destra a quello locale di cen-
trosinistra). A pagina 9 raccontava invece della crisi. Il
mondo va a rotoli, l’economia ha inchiodato con il freno
a mano, si è messa su un lato, rischia di cappottarsi. Le
aziende chiudono, i dipendenti arrivano la mattina in fab-
brica e non trovano più nulla, via le scrivanie, via i com-
puter, c’è soltanto una lettera di licenziamento. I sindaca-
ti contrattano, le istituzioni continuano a stanziare soldi
su soldi, i precari non si lamentano più di essere precari.
Ora sono disoccupati. Ora c’è la crisi e quindi anche l’Il-
va è in crisi. “La nostra produzione è calata del 70% in
conseguenza a una drastica riduzione degli ordinativi”,
spiegava il responsabile dei rapporti internazionali del
gruppo Riva, uno dei manager più importanti dell’acciaie-
ria, Giancarlo Quaranta. 6700 lavoratori in cassa integra-
zione. “Paghiamo la crisi di settori trainanti come quello
delle auto, degli elettrodomestici e delle costruzioni –
diceva Quaranta a Repubblica – registriamo un calo degli
ordinativi del 60%.”

81
Il fatturato del gruppo Riva ha sfondato il tetto dei dieci miliardi
di euro. L’acciaio, dicono, subirà una contrazione dei consumi e
quindi Riva ha deciso di mandare in cassa integrazione 2500 ope-
rai. Ma a leggere le analisi di Federacciai non è vero che si consu-
merà di meno. Il portafoglio ordini delle aziende siderurgiche su-
birà, nella peggiore delle ipotesi, un decremento del 2%, ma mer-
cati come Africa del Nord e la stessa Scandinavia continueranno a
comprare acciaio perché non ne producono. L’Italia, invece, è lea-
der europeo del settore. Che cos’è cambiato? Sono mutati i margini
di guadagno. I prezzi delle materie prime sono cambiati brusca-
mente e così anche i prezzi dell’acciaio. Quindi Ilva teme non di
andare in crisi, ma di guadagnare di meno. Un’azienda ha il dove-
re di guardarsi dagli imprevisti del futuro, ma non ha il diritto di
giocare sulla pelle di una città.
Francesco Boccia, deputato, economista, già liquidatore del
comune di Taranto

La pagina 9 del giornale mi colpì. Tanto. In fondo al pezzo


c’era anche una piccola tabella, colorata, piena di numeri.
Fonte: “Dati ufficiali dell’Inps”, era scritto grande come i
foglietti illustrativi dei medicinali. I numeri erano scritti in
grande. Nonostante questo li lessi più volte perché teme-
vo di non aver capito bene. La tabella diceva che a Taran-
to, nel mese di marzo del 2009, le ore di cassa integrazio-
ne ordinaria sono aumentate rispetto all’anno precedente
del 1495,71%, mentre a livello regionale l’incremento è
del 118,22. Millequattrocentonovantacinque, 1495,
mille-quattrocento-novanta-cinque ore in più di cassa
integrazione in un mese soltanto. Era scritto proprio così,
non mi ero sbagliato.

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Se dicessi che in questo momento non sono preoccupato, direi pro-
prio una stronzata. Certo che sono preoccupato, anzi sono proprio
cacato sotto, non dormo da quindici giorni, io sono terrorizzato. Io
lavoro dal 1987, senza pausa, tutti i giorni tranne al mese di ago-
sto e ai compleanni di mia moglie e dei miei figli. Mi sono preso
un giorno anche quando l’Inter ha vinto lo scudetto lo scorso anno.
L’unico mestiere che so fare è quello della fabbrica ma non è que-
sto. Io sono uno che si adegua, mi butto a fare tutto, in campagna
mi sono praticamente costruito una casa da solo. Il problema non
sono io ma sono gli altri: a 50 anni chi è che mi deve prendere a
lavorare? Avanti, chi è che mi deve prendere? Io però del lavoro ho
bisogno, per questo ringrazierò a vita il signor Riva che ci ha dato
questa grandissima possibilità e che mi permette di fare una vita
tranquilla, che mi permette di non fare mancare niente ai due miei
figli. Ora però tutta questa cosa a me mi sta toccando il sistema
nervoso, mia moglie mi dice di stare calmo ma io sono quindici
giorni che non riesco a dormire, mi sento una cosa che mi sale dallo
stomaco, mi manca il respiro, mi sento di morire, il cuore batte
forte, davvero è brutto assai, mi sento morire. E se continua così io
davvero muoio: non so se mi ammazzerà la fabbrica, questa paura
oppure la depressione. Ma qualcosa mi ammazzerà. Io ho due figli
e un affitto, io, non so se mi spiego, io quando parlo non devo pen-
sare solamente a me ma devo pensare a loro, ho la foto sul telefo-
nino, vedi come sono belli, il grande ha 14 anni, quello deve stu-
diare non posso mica dirgli, senti vai a lavorare perché papà ha
perso il lavoro e allora non sappiamo come dobbiamo fare a man-
giare. Io a quello gli devo dire “quanto ti serve per i libri quest’an-
no?”, e certo non posso andare a rubare perché io sono una perso-
na onesta e tra un padre povero e un padre ladro, allora meglio
povero. Magari se proprio non ce la faccio mi impicco. No, scusa,
forse ora sto esagerando, e che davvero è un periodo complicato, io
non so come e cosa fare, qua è tutto un casino, è tutto difficile.
Certo che sento questa cosa dell’inquinamento, certo che la situa-

83
zione è tremenda, delicata, lo so i tumori, questo cielo sempre gri-
gio, tutta quella polvere per strada delle montagne dei minerali,
ma io se chiude l’Ilva e tutte le altre fabbriche qui attorno, cosa
devo fare, avanti, dimmi tu cosa devo fare? Chi me li deve dare i
soldi per campare? Questo non è un referendum, non è che le merde
dei politici dopo che per anni e anni non hanno fatto niente e se
ne sono fregati del problema di Taranto ora si svegliano, vengono
qua e dicono “chiudiamo tutto così l’ambiente respira”. A parte che
non è vero perché tutta questa cosa qua ce la porteremo ancora
avanti e avanti per anni, una volta ho sentito dire a un medico che
noi e le generazioni dei miei figli siamo già condannati, dobbiamo
solamente sperare che la ruota non giri dalla parte nostra. Comun-
que come si può dire, chiudiamo tutto così l’aria diventa più puli-
ta? E gli operai poi come fanno? Chi dà da mangiare a Taranto?
Perché mi mettono davanti alla scelta se poter dare i soldi a mia
moglie per fare la spesa oppure alzare la possibilità che possa mori-
re tra qualche anno? È un atteggiamento da infami, da merde vere.
Anche perché la mia risposta è obbligata, non posso fare altro. Io
devo portare il pane a casa. Punto. Non ci possono essere altre paro-
le. A questo punto vuol dire che faremo come se fossimo nell’eserci-
to, cioè noi siamo come i soldati che vanno in guerra, uno mette
anche in conto di poter morire. Soltanto che noi non combattiamo
per la patria ma per l’affitto di casa.
Nino, operaio

Diritto alla vita. O diritto al lavoro. Mai avevo conosciu-


to una dicotomia più odiosa.

Ho trent’anni e lavoro all’Ilva dal 2001. Avevo 22 anni e mezzo


quando mi hanno assunto, praticamente un ragazzino, non potrò
mai dimenticare quel giorno, quando mi è arrivata la lettera di

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assunzione è stato uno dei giorni più belli della mia vita. A Taran-
to in fondo non è difficile trovare un lavoro, io non avevo nessuna
raccomandazione, all’Ilva non lavorava nessuno di casa. Per avere
quel posto ho semplicemente inviato una lettera e poi quelli mi
hanno chiamato, tutto qua. È stato facilissimo. Io lavoro alla Cola-
ta continua 5, uno di quei reparti che ha il ciclo continuo, 24 ore
su 24, non si ferma mai. O meglio io pensavo non si fermasse mai.
Io sono addetto alle piattaforme, seguo il colaggio dell’acciaio liqui-
do. Noi trasformiamo l’acciaio liquido trattato in precedenza e lo
trasformiamo in lingotti. Coliamo questo acciaio, cioè l’acciaio
viene colato all’interno della macchina, poi si raffredda lungo il
percorso e viene tagliato da dei cannelli meccanici con l’ossigeno e
gas. Le temperature? Beh, diciamo che si sta caldi. L’acciaio ha una
temperatura intorno ai 1.650 gradi. Noi nel reparto siamo 44,
lavoriamo 8 ore a testa al giorno. Cioè in realtà lavoravamo. Il
reparto è stato fermato, non ci sono commesse, quindi ora forse per
la prima volta da quando quel reparto è stato realizzato è tutto
quanto fermo. Oggi sono a casa, sono in ferie ancora per un po’, ma
tra qualche giorno non tornerò al lavoro. Andrò in cassa integra-
zione. Io di solito guadagno 1.300 euro, ora mi pare che dovrei
andare a guadagnare intorno agli 800, 850 euro al mese. Certo
per me non è esattamente una tragedia come per molti miei colle-
ghi che hanno famiglia: io vivo ancora con i miei, sono single, non
ho tantissime spese. Certo però anche io dovrò fare le mie belle
rinunce, che magari sembrerà anche poco ma sono importanti per
un ragazzo di 30 anni. Io non ho molti vizi, ma adoro ballare. Io
ballo la salsa ma poi il sabato mi piace anche andare in discoteca.
Ecco in discoteca non potrò andarci più, pazienza, così come ogni
volta che accendo la macchina per andare a fare un giro ci devo
pensare due volte. E che dobbiamo fare, la vita è così. Però io voglio
dire una cosa: se ci sono ora questi problemi la colpa non è certo di
chi ha fatto le battaglie per l’ambiente, di chi ha cercato di difen-
dere i nostri interessi. La colpa è di questo mondo industrializzato

85
di merda, la colpa della mia cassa integrazione è della non curan-
za dei banchieri o dei bancari, come cazzo si chiamano loro che
hanno in questi anni soltanto pensato ai fatti loro senza pensare al
disastro che stavano procurando a noi poveri cristi. Se ti dicessi che
in questo momento non ho paura di perdere lo stipendio ti direi
una cavolata. Anche perché poi dopo è difficile trovare qualcos’al-
tro, qui a Taranto o lavori all’Ilva oppure fai il marinaio. Ma in
questo momento il problema di Taranto non può essere soltanto il
nostro stipendio. Io ho paura non soltanto di perdere il lavoro, io
ho anche paura di ammalarmi e il discorso della malattia non è
un discorso prettamente egoistico, ma si rispecchia in un passato e
in un futuro oltre che nel presente. Comunque tieni conto che il
peso di queste aziende così inquinanti lo ha patito chi c’era prima
di noi, lo patirà quelli che arriveranno dopo di noi. Queste azien-
de, il nostro lavoro hanno un peso gravoso sulla salute e sull’am-
biente. Io non ho figli ma penso sia giusto pensare a chi arriva dopo
di noi.
Mario, operaio Colata 5

Lasciai il cornetto a metà. Vidi all’altro tavolo il professor


Assennato che chiacchierava con un’altra persona. Era di
spalle, non riuscii a capire chi fosse. Il professore incrociò
la mia curiosità, afferrò lo sguardo e mi fece segno, per
invitarmi al suo tavolo.

86
La storia

Mi alzai di scatto, ero imbarazzato. Non avevo un abbi-


gliamento esattamente professionale. Scarpe da ginnastica
senza calze sotto un paio di pantaloncini corti, una
maglietta di allenamento del Milan a maniche lunghe.
Classica tenuta da prima colazione in albergo, quando
scendi in tutta fretta perché altrimenti passa l’orario in cui
è aperto il buffet. La sera precedente con Vittorio avevamo
tirato fino a tardi, in un vecchio ristorante del centro sto-
rico: spazzolò tutto quello che avrebbe potuto crescere su
uno scoglio lungo qualche decina di metri, io che odio i
frutti di mare mi ero buttato invece su scampi buttati nel-
l’acqua bollente e poi serviti su un letto di ghiaccio. Spa-
ghetti alle cozze, naturalmente, e una spigola all’acqua
pazza. Poi vino, bianco e ghiacciato, tanto che una volta
tornato in albergo non avevo avuto nemmeno la forza di
togliere le lenti a contatto. Mi ero addormentato così, la
mattina avevo gli occhi tanto appiccicati da doverli scolla-
re con le mani. Ero sceso a colazione senza nemmeno
essermi lavato la faccia, facevo schifo, non volevo e non
potevo incontrare nessuno. Là in fondo c’era però Assen-
nato che continuava a sorridere e a fare segno con le mani
di avvicinarmi. Ero già in piedi, strinsi le spalle e feci due
passi per andargli incontro. Il professore sussurrò qualco-

87
sa che non potevo sentire, si girò la seconda persona che
era al tavolo con lui. Non feci fatica a riconoscerlo, Nichi
Vendola sorrideva. E come al solito brillava dal lobo
destro.

Caro signor Vendola, sono un bambino che vive in provincia di


Taranto. Io ho capito che l’Ilva fa mangiare le famiglie però non è
giusto che per mangiare si deve rischiare di morire. Voi avete la pos-
sibilità di aiutarci e richiamare quelle persone che devono togliere
il problema, e non lo hanno ancora fatto.
Gianni

Quando l’onorevole comunista Nichi Vendola vinse le pri-


marie del centrosinistra per le elezioni regionali pugliesi
contro ogni pronostico nei confronti del candidato del
partito democratico Francesco Boccia, ero a Londra in un
alberghetto di Covent Garden. Non votai, probabilmente
non avrei votato. Erano le otto del mattino, dormivo, mi
diede uno scossone sulla spalla il mio amico Teddy che
aveva appena acceso il televisore ed era riuscito a sintoniz-
zarsi sulla Rai “Oh svegliati, svegliati, ha vinto Vendola!
Ha vinto Vendola!”.
Qualche mese dopo, poi, Vendola vinse anche le elezio-
ni da presidente regionale contro l’uscente Raffaele Fitto,
il delfino migliore di Berlusconi giù al Sud, un ragazzo di
nemmeno 40 anni, figlio d’arte, che era sempre vissuto tra
politica, governo e pallone (i suoi piedi da centrocampista
raffinato erano forse la cosa di cui andava più fiero) e in
tutte e tre le cose era riuscito sempre molto bene. Era sicu-
ro di vincere Fitto, e tutti erano sicuri che lui vincesse.
Forse per questo vinse Vendola. Come si dice da queste

88
parti “fece strano”: un comunista, cattolico, omosessuale
che diventava governatore; quel signore che da bambino
andavo a vedere in piazza Caduti a Barletta sbraitare con-
tro i sindaci democristiani, quello che li chiamava mafiosi
e soprattutto li chiamava per nome e cognome, che passa-
va dall’altra parte del palco. Comunque la si pensi, da qual-
siasi parte la si guardi, la Puglia è una terra meravigliosa.
Tre passi dopo gli strinsi la mano, vestito tutto di nero.
Il professore Assennato mi salutò con una pacca sulla spal-
la, dandomi come al solito del lei. Mi sedetti al tavolo,
ordinai un altro caffè per sonno e per paura che l’alito puz-
zasse troppo. Poi, preso da un impeto di maleducazione,
indicai il titolo di Repubblica, quello sugli operai e la cassa
integrazione, che era aperto sul loro tavolo. Mi venne da
fare una domanda soltanto: “Perché?”.

Caro presidente Vendola,


le scriviamo perché speriamo che Lei sia uno di quei pochi adulti
che ascoltano i bambini. Siamo molto preoccupati per la nostra
salute perché abbiamo letto sui giornali che ci sono tarantini di 8
anni che hanno polmoni malati come persone di 70 anni che
hanno fumato tre pacchetti al giorno da quando erano ragazzini.
Fra di noi ci sono compagni che soffrono di allergia, asma e di
altri problemi respiratori. (…) Il cielo di Taranto di notte non è
splendente, perché i fumi delle fabbriche lo ricoprono con tanto
fumo che nascondono le stelle. I nostri nonni ci raccontano che
quando andavano al mare a piedi facevano i bagni nel mar Pic-
colo e dei cieli stellati della loro infanzia. Noi facciamo fatica per-
fino a immaginarli. Sappiamo che uno dei maggiori responsabili
dell’inquinamento di Taranto è l’Ilva. Ma noi non desideriamo
che la fabbrica chiuda perché molti nostri papà vi lavorano per
mantenere le famiglia. Le chiediamo però: cosa dobbiamo sceglie-

89
re tra salute e lavoro?
Non sono tutti e due garantiti dalla nostra Costituzione? Perché le
fabbriche non possono utilizzare impianti di depurazione per offri-
re lavoro e salute? Vorremmo mangiare le nostre cozze crude, ma
senza correre il rischio di ammalarci come facevano i nostri nonni.
Gli alunni della 5° D, Scuola elementare Rodari, Taranto

Prima di arrivare a Taranto mi ero preparato puntigliosa-


mente sull’argomento Vulcano. Mi ero documentato,
informato, per quanto possibile. Sapevo per esempio che
l’Ilva in qualsiasi altro posto d’Europa avrebbe già dovuto
chiudere. Così mi avevano raccontato, e così era. In tutti
gli altri paesi esisteva infatti una rigida normativa in mate-
ria di emissioni di sostanze tossiche, in particolare di dios-
sine. Non a caso si parla di diossine: sono tra le sostanze
più pericolose, perché tra le più cancerogene. In Austria il
limite massimo di emissioni è di 0,4 nanogrammi al metro
cubo. In Belgio 0,5. In Germania e in Olanda 0,4. In
Giappone 1. In Canada 1,35. In Italia invece puoi emet-
tere quello che vuoi. Non c’è alcuna norma specifica che
regolamenti la materia. O meglio esiste una vecchia nor-
mativa che però nel computo delle emissioni teneva conto
dell’intera gamma di diossine e non soltanto di quelle
nocive, come invece accadeva in tutti gli altri paesi del
mondo.
Il risultato italiano è che, nel computo globale, le parti-
celle nocive annegavano in quelle buone e così mai e poi
mai sarebbe stato possibile superare quei limiti. Tutto a
posto, tutto nella legge. Aveva lavorato per anni l’Ilva a
Taranto, così per anni avevano lavorato tutte quelle azien-
de che emettevano nell’aria inquinanti tossici e pericolosi
per la nostra salute. “In realtà”, mi aveva spiegato una

90
volta, Vittorio, “esiste il Protocollo di Aarhus, un docu-
mento sugli inquinanti organici approvato nel 2004 dal-
l’Unione Europea che pone come limite nell’industria
metallurgica un’emissione massima di 0,2-0,4 nanogram-
mi per metro cubo. Non sono numeri a caso ma è quello
che è riuscita a ottenere a Linz, in Austria, lo stabilimento
di Airfine. Questa direttiva è stata recepita in Italia nel
2006, ma poi non ne ha mai tenuto conto.”
Com’è possibile? “Tecnicamente, è un’incongruenza”,
rispose Vittorio, stringendosi nelle spalle. In Italia, quindi,
era tutto possibile. Anche perché, nel caso dell’Ilva, nessu-
no sapeva esattamente cosa fosse. Prima del 2008 nessuno,
nemmeno l’Arpa, aveva mai misurato esattamente quanta
diossina emettessero i camini dell’Ilva. Nessuno sapeva
cosa sputasse il Vulcano. Ci si basava unicamente sulle
indicazioni che la stessa azienda dava al registro nazionale
delle emissioni. E già sulla base di quei dati non c’era da
stare tranquilli. Poi le cose si chiarirono.

I tecnici dell’Agenzia regionale per la protezione ambien-


tale non è gente comune. Ne conoscevo quattro ed erano
tutti uguali. Parlavano per acronimi e in mezzo ci butta-
vano battute taglienti, figure retoriche geniali, ironizzava-
no sulla chimica. Il dottor Giua, per esempio, un signore
toscano, un chimico se non sbaglio, era tremendo. E come
lui Bottinelli, io lo chiamavo il “re dell’amianto”, una via
di mezzo tra un pescatore di Posillipo e il dottor House.
I tecnici dell’Arpa, dopo un accordo con l’azienda,
cominciarono a controllare l’Ilva per la prima volta nell’e-
state del 2007. Il 12 e il 16 giugno 2007. Entrarono gra-
zie a un protocollo d’intesa che coinvolse l’Ilva, le parti
sociali, il ministero dell’Ambiente e la Regione. Sembrava
il grande accordo, la risoluzione di tutti i problemi. In

91
ballo c’era infatti una partita molto grossa: l’Aia, non a
caso un acronimo. Aia sta per Autorizzazione integrata
ambientale. Si tratta di un certificato che ogni tot di anni
deve rilasciare il ministero dell’Ambiente ai grandi gruppi
industriali perché possano continuare la propria attività.
L’Ilva aveva l’Aia in scadenza, doveva rinnovarla.
Vittorio diceva che quella era una “grande occasione”.
“In sede di Aia”, mi spiegò una volta, “il ministero può
mettere dei paletti, può dare delle prescrizioni. In sostan-
za può fare quello che la legge dovrebbe prevedere e che
invece non prevede.” Così era successo per esempio in
Friuli Venezia Giulia, dove un limite c’era, ed era di 0,4.
Ecco, se l’Ilva fosse stata anche in Friuli Venezia Giulia
avrebbe dovuto chiudere.
In ogni caso, dopo il grande accordo l’Arpa entrò all’Il-
va. I risultati di quelle prime analisi furono così così: la
diossina emessa dallo stabilimento in quei giorni variava
dai 4,9 ai 2,4 nanogrammi per metro cubo. La mazzata
arrivò qualche mese dopo, nella seconda campagna di
campionamenti effettuata il 26 e il 27 febbraio del 2008:
i numeri schizzarono da 8,3 a 4,4 nanogrammi per metro
cubo. Significa dalle venti alle 11 volte in più rispetto a
quello che sarebbe il limite in tutte le altre parti del
mondo. In tutte le altre, appunto, ma in Italia no. L’a-
zienda si disse però pronta a cambiare il registro, a investi-
re tanti soldi per migliorare le attrezzature, per produrre lo
stesso l’acciaio, dare lavoro ai tarantini ma nello stesso
tempo diminuire le emissioni inquinanti. Promisero inve-
stimenti per 400 milioni di euro, misero anche mano al
portafoglio. E qualcosa accadde: 23 e 26 giugno del 2008,
l’Arpa torna all’Ilva. Rimisura la diossina e puff, i valori
sono caduti, quasi dimezzati: le diossine emesse scendono
in una a 1,9 massimo 3,4. Miracolo? “No urea”, mi rispo-

92
se tempo fa il professor Assennato. “Si tratta di un additi-
vo chimico – mi spiegò – che se inserito nel ciclo indu-
striale riesce a diminuire drasticamente le emissioni inqui-
nanti.” Tutto a posto, quindi. Tutto risolto, basta buttare
due gocce di urea e tutto è risolto. Niente affatto. Il prin-
cipio dell’annaffiatoio non sempre funziona. Questo è uno
di quei casi. Inserire l’urea nel processo della catena di
montaggio non è semplice. Per dire la verità, l’azienda ci
ha anche provato, ma gli sono stati piantati davanti deci-
ne di paletti burocratici: manca la concessione a costruire,
il comune di Taranto non la vuole rilasciare senza il via
libera del ministero dell’Ambiente, parte un ricorso al Tar.
Insomma si perde tempo. Nel frattempo però, nel crono-
programma che l’Ilva invia al ministero per ottenere l’Aia,
indica un livello massimo di emissioni di diossina molto
maggiore rispetto a quelli già raggiunti. A giugno hanno
già ottenuto 1,9 nanogrammi per metro cubo ma dicono
che non possono scendere sotto i 3,5. Perché?

La fabbrica dei veleni non esiste. Chiunque afferma il contrario fa


dichiarazioni da procurato allarme, delle quali dovrebbe interes-
sarsi la procura della Repubblica. L’Ilva sta riducendo le emissioni
con tre anni di anticipo rispetto a quanto stabilito nel cronopro-
gramma concordato con la Regione. E siamo pronti addirittura a
dimezzarle se ci concedono in fretta l’autorizzazione per la realiz-
zazione dell’impianto di urea.
Girolamo Archinà, responsabile delle relazioni istituzionali
Ilva Taranto

Più o meno la stessa domanda se la fece il presidente Nichi


Vendola che il 30 luglio del 2008 inviò una lettera al pre-
sidente del consiglio, Silvio Berlusconi. Lettera alla quale

93
allegò anche i disegni dei bambini, quelli della mostra.
Vendola ama parlare per metafore, è il pezzo forte dei suoi
comizi. La più bella secondo me, era quella sui quartieri
popolari, quelli più lontani, quelli più disgraziati: una
volta disse che si chiamavano tutti con il nome dei santi,
San Pio a Bari, San Paolo a Enziteto, per esempio, e disse
che la scelta toponomastica non poteva essere casuale, era
piuttosto una maniera come per chiedere scusa della scia-
gura urbanistica, quasi una preghiera perché i casermoni
non potessero diventare ghetto.

Comunque il presidente della Regione il 30 luglio scrisse


al premier, Silvio Berlusconi: “Taranto è una città splendi-
da ma sofferente. La fabbrica – la grande fabbrica che
doveva essere il suo polmone produttivo, simbolo e vita
della città – sembra essersi rovesciata contro le attese e le
speranze di un’intera comunità. Inquinamento, malattie
tumorali, distruzione del territorio, lo sfregio di interi
quartieri condannati a vivere senza poter aprire le fine-
stre”. La “poesia”, fin qui. Poi: “Dopo l’accordo – scriveva
il governatore pugliese – alcuni obiettivi sono stati rag-
giunti: 72 progetti di risanamento ambientale in Ilva sono
già stati realizzati, un’altra sessantina sono in corso o pro-
grammati, è stato rimosso l’amianto, dismesse le apparec-
chiature al Pcb, applicata una sperimentazione sulle dios-
sine per ridurne la carica distruttiva, migliorate le emissio-
ni in atmosfera, ma tutto questo non basta. Altre città,
come Genova, si sono semplicemente liberate della fabbri-
ca e hanno visto repentinamente cambiare la loro vita e
riscoperto il colore del cielo. A Taranto questo non è pos-
sibile ma non è possibile neanche continuare così, con pic-
coli miglioramenti segnati su un calendario troppo lungo.
La città non ne può più. Il management dell’Ilva sa che

94
abbiamo perseguito con realismo e rispetto l’obiettivo di
una radicale ambientalizzazione delle strutture produttive
del colosso siderurgico. E quel management non può
replicare alle spasmodiche attese della città minacciando,
sia pure velatamente, il ricorso al ricatto occupazionale.
Occorre fare scelte coraggiose, scelte non più procrastina-
bili, scelte di vita. Ecco perché la Regione intende chiede-
re e ottenere da Ilva interventi efficaci, ecco perché non
possiamo accontentarci di spalmare in cinque anni una
riduzione significativa delle diossine, ecco perché Le chie-
do di aiutarci cambiando quella norma che stabilisce un
limite così alto a questo veleno che vi rientra tutto”.

Berlusconi non rispose. La legge non cambiò. Vendola


attaccò ancora l’Ilva dicendo che la maggior parte degli
interventi promessi non erano stati realizzati. L’Ilva rispo-
se che no, non era vero, che la colpa era tutta loro, delle
istituzioni, che non rilasciavano le autorizzazioni necessa-
rie. Avevano in parte ragione tutti e due, intanto il Vulca-
no continuava a lavorare.

Taranto, evidentemente, deve essere in Sicilia.


Sebastiano Venneri, Legambiente

Era la fine di ottobre del 2008, e attorno all’Ilva scoppiò


un nuovo caso. Il ministro dell’Ambiente, Stefania Presti-
giacomo, rimosse con un decreto scritto in burocratese e
lungo poco più di una paginetta i tecnici che facevano
parte della commissione Aia. Coloro i quali, cioè, che
avrebbero dovuto dire sì o no all’autorizzazione necessaria
all’Ilva per proseguire l’attività. Coloro i quali, per dirla

95
con Vittorio, “avevano tra le mani l’opportunità di cam-
biare qualcosa”.
La Prestigiacomo sostituì i tecnici che aveva nominato
il suo predecessore, Alfonso Pecoraro Scanio: si trattava di
tecnici, sì, ma anche con coscienze politiche visto che, per
puro caso, molti erano vicini ai Verdi, il movimento del-
l’allora ministro. Ciò nonostante, dopo la decisione della
Prestigiacomo successe però un finimondo. “Decapitazio-
ne del sapere tecnico-scientifico” tuonò il presidente della
Regione, Vendola. Seguito a ruota da tutte le associazioni
ambientaliste. La storia più interessante me la raccontò
però un altro collega, Emanuele Lauria, cronista politico
della redazione di Repubblica Palermo. È uno di quelli che
quando chiama, il politico trema, perché sa già che ha
combinato qualche casino. Ecco, Emanuele mi raccontò
che nella commissione nominata dalla Prestigiacomo c’e-
rano tecnici. Ma soprattutto c’erano siciliani, e soprattut-
to ancora c’erano siracusani, il paese natale del ministro
dell’Ambiente. “Siciliano”, disse Emanuele, “è il presiden-
te della commissione, Dario Ticali. È un ingegnere paler-
mitano, 32 anni, si è laureato sei anni fa. Attualmente è
ricercatore all’università Kore di Enna, l’ateneo caro al ret-
tore Salvo Andò, ex ministro, e al senatore del Pd Vladi-
miro Crisafulli. Ticali è uno scienziato, tra le sue pubbli-
cazioni spiccano quelle sulla “potenzialità del ravaneto
nella tecnica delle costruzioni stradali” e sulla “gestione dei
rifiuti urbani in Sicilia”. Ecco, il ravaneto. “Ma nella com-
missione”, disse sempre Emanuele, “non è difficile rintrac-
ciare i nomi di professionisti esponenti di famiglie molto
note nel Siracusano e non solo. C’è il commercialista Mas-
simo Conigliaro, docente della scuola superiore dell’eco-
nomia e delle finanze ma anche figlio della compagna del-
l’ex presidente della commissione antimafia Roberto Cen-

96
taro. Ci sono, fra i giuristi, stretti congiunti di due magi-
strati: Valeria Polto è figlia di Salvatore Polto, presidente
della sezione penale del tribunale aretuseo. Elena Tambu-
rini è figlia di Giuseppe Tamburini, da settembre a capo
del tribunale di Modica. C’è poi l’ingegnere Antonio
Voza, figlio di colui che è stato per anni un’istituzione
nella città siciliana, ovvero l’ex soprintendente ai beni cul-
turali Giuseppe Voza. E dell’organismo fa parte anche l’av-
vocato ragusano Mariagrazia Gerratana, che ha uno studio
legale a Pozzallo. Insomma, il futuro dei grandi insedia-
menti industriali italiani e in particolare dell’Ilva passa per
la Sicilia e soprattutto per i siciliani.” Il vero scandalo nac-
que però attorno al presidente di quella commissione, tale
Bonaventura Lamacchia. A farlo scoppiare anche in que-
sto caso era stato un giornale, L’Espresso, in un articoletto
di Sandra Amurri. “Lamacchia ha un curriculum giudizia-
rio di tutto rispetto – scriveva la giornalista – Calabrese,
deputato nella XII legislatura per la lista Dini, poi Upr con
Cossiga e infine Udeur, è stato condannato a 2 anni e 5
mesi, pena patteggiata, come amministratore delegato e
presidente del Cosenza calcio. I reati? False fatturazioni,
costi inesistenti riferiti a documenti contabili mai esistiti,
ricettazione, falso in bilancio, falso ideologico, evasione
fiscale quantificata dalla Guardia di Finanza in oltre 30
miliardi di lire. Inoltre la Procura federale della Federcal-
cio lo ha interdetto per cinque anni da qualsiasi incarico
di natura sportiva, a causa dell’irregolare iscrizione del
Cosenza Calcio ai campionati 1990-91 e 1994-95.”
Lamacchia, quando era sindaco del suo paese, incassò
anche un anno di reclusione per turbativa d’asta. Nel
2002, dopo un anno di latitanza trascorsa tra Bratislava,
Bari e Milano, venne arrestato. Fu condannato nel 2004,
pena patteggiata, a 2 anni e mezzo per bancarotta fraudo-

97
lenta e tentata estorsione: aveva distratto, destinandoli ad
altre società, circa 2 miliardi di lire dalla Edicom e dalla
Edilrestauri. Nella veste di procacciatore d’affari della
canadese Warner Lambert, produttrice di caramelle alla
liquirizia, aveva tentato di costringere produttori calabresi
a cedere le radici di liquirizia a un prezzo inferiore rispet-
to al dovuto. Per finire, la settimana scorsa la Procura di
Cosenza lo ha rinviato a giudizio per calunnia dopo che
aveva denunciato il furto di assegni, risultati scoperti, per
12 mila euro. Il 7 novembre, il ministero annunciò trami-
te agenzia Ansa, la sospensione di Lamacchia dalla com-
missione. Qualche giorno prima il ministro era andato
però su tutte le furie, scrivendo una lettera al direttore di
Repubblica, Ezio Mauro.

Gentile direttore,
ho letto con grandissimo stupore quanto apparso sul suo giornale
sulla vicenda dell’Ilva. E credo di avere il diritto di dire come stan-
no le cose. 1) È davvero singolare che il “caso” Ilva scoppi adesso,
quando, grazie alle sperimentazioni avviate, è stato rilevato un
abbassamento significativo delle emissioni. Un dato che è stato
confermato dall’Arpa Regionale, al di là della querelle normativa
che l’agenzia ha avviato col ministero. A leggere articoli e annesse
dichiarazioni sembrerebbe, invece, che le emissioni dell’Ilva siano
cominciate nella primavera scorsa, più o meno all’epoca del cam-
bio di governo. Non si comprenderebbe altrimenti perché tutto ciò
che c’era da fare non è stato fatto nei due anni del governo Prodi
(e della presidenza Vendola) visto che tali emissioni c’erano già, e a
livelli anche maggiori di quelli attuali. Ma forse l’inquinamento
fa male quando governa Berlusconi, mentre quando governa Prodi
i camini emettono delicati effluvi alla lavanda. 2) I componenti
della commissione Aia sono stati sostituiti perché una legge dello

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stato ha modificato la composizione dell’organismo che non avreb-
be dovuto occuparsi solo dell’Ilva ma dei 200 maggiori impianti
industriali italiani. Il condizionale in questo caso è d’obbligo visto
che i componenti di quell’organismo si sono dimostrati inefficien-
ti. Infatti la barricadera commissione nominata dal governo Prodi,
rimasta in carica dall’ottobre 2007 all’agosto 2008, ha emesso in
totale ben 4 pareri, e tutti e quattro l’ultimo giorno in cui è stata
in carica, due mesi fa, a scioglimento già annunciato, lasciando un
arretrato di 160 richieste. Nei 10 mesi di “intensa” attività la com-
missione Aia non ha bocciato l’Ilva, non ha difeso l’ambiente, non
era anti o pro diossina. Semplicemente non ha deciso. Ha perpe-
tuato insomma un metodo invalso nel recente passato secondo cui
il pubblico che doveva dire sì o no semplicemente non rispondeva,
paralizzava. Vendola, appreso della “decapitazione” dell’Aia (per
usare la sua terminologia) avrebbe dovuto rallegrarsi per la sosti-
tuzione di una commissione inefficiente e non in grado di tutelare
l’ambiente. Invece si è inquietato. Verrebbe da pensare che per
qualche ragione il presidente della Puglia preferisse avere l’Ilva con
la pistola dell’Aia alla tempia, piuttosto che un quadro di certezze
e prescrizioni precise. 3) Non risulta inoltre che alla riunione svol-
tasi al ministero il 16 ottobre (e non il 15) fossero presenti rappre-
sentanti dell’azienda, come sostiene il direttore dell’Arpa regionale.
Anche questo dato è facilmente verificabile consultando il foglio
delle presenze a quella riunione. 4) Sull’area di Taranto inoltre è
stato firmato all’inizio del 2008 (quindi da Vendola e da Pecora-
ro Scanio, oltre che da imprese ed enti locali) un accordo di pro-
gramma proprio su questi temi con prescrizioni che l’Ilva sta rispet-
tando. Quell’intesa prevede fra l’altro che l’Ilva realizzi un
impianto in grado, intanto, di dimezzare le emissioni. Ma il
comune non ha rilasciato l’autorizzazione a realizzarlo perché
ricade su un sito inquinato. Ci voleva un via libera del ministero
dell’Ambiente che, nella precedente gestione, non è arrivato. Ora
noi l’abbiamo dato. Il Comune darà finalmente l’autorizzazione?

99
O anche in questo caso si preferisce tenere tutto fermo, facendo nel
frattempo allarmate denunce? (...) Caro direttore, siamo un paese
strano. Con un presidente della Regione che da più di tre anni e
mezzo governa la Puglia e per tre anni, supponiamo, ha avuto sen-
timenti “anti-diossina” gelosamente custoditi nel cuore. E dire che
aveva il potere e per due anni un ministro dell’Ambiente in piena
sintonia politica. Avrebbe potuto fare leggi e sfracelli. Invece nien-
te. Caro direttore, noi siamo consapevoli della complessità dei pro-
blemi e stiamo intervenendo con impegno e responsabilità per
ridurre radicalmente le emissioni nocive senza, possibilmente,
costringere alla chiusura un’impresa che dà lavoro a mezza Taran-
to. Ma io sono arrivata 6 mesi fa. I “veleni” e Vendola c’erano già.
Da anni.

Queste erano le premesse. Le cose però non sempre


vanno come uno immagina che andranno. Per lo meno
sui vulcani.

100
La legge

Ero ancora seduto al tavolo. Io, Vendola, Assennato, tre


tazze di caffè, due fette di pane con la nutella. Feci quella
domanda sui veleni e la cassa integrazione: “Perché?”,
domandai.
Vendola sorrise, sinceramente non capii per cosa diavo-
lo ridesse. A me non veniva neanche da sorridere, forse
perché avevo sonno. Disse il governatore che da quel
momento in poi a Taranto e in tutte le altre Taranto di
Puglia qualcosa sarebbe cambiato, o meglio ancora sareb-
be potuto cambiare. C’era la possibilità, una strada da per-
correre, e questa era la più grande vittoria. Vendola e
Assennato non erano lì per caso. Quella mattina sarebbe-
ro dovuti tornare all’ospedale Testa per presentare agli
addetti ai lavori, ai tarantini, a quell’accrocchio di scien-
ziati e cittadini, medici e potenziali ammalati, la nuova
legge regionale sulle emissioni di diossina che la giunta
aveva già approvato e che da lì a poche ore sarebbe finita
in consiglio regionale per l’approvazione finale. Mentre
parlava, Vendola sfogliava quattro paginette scritte a corpo
12, da lì a poco capii che si trattava della legge. “In attua-
zione di quanto previsto dal Protocollo di Aarhus, ratifi-
cato e reso esecutivo dalla legge 6 marzo 2006, tutti gli
impianti di cui all’articolo 1 di nuova realizzazione devo-

101
no adeguarsi ai valori limite ottenibili con l’applicazione
delle migliori tecnologie disponibili. In particolare, non
devono essere superati”, poi c’erano i due punti, e si anda-
va a capo.
“A partire dal primo aprile del 2009 la somma di 2,5
nanogrammi al metrocubo di diossine” e “a partire dal 31
dicembre del 2010 di 0,4”. In sostanza in quelle tre pagi-
nette era scritto che il Vulcano sarebbe dovuto sbarcare in
Europa, che si sarebbero dovuti adeguare alle leggi, che
tutto stava andando verso la normalità. Una legge, sulle
diossine. Tutta pugliese. “Un’assurdità”, pensai tra me e
me. Non dissi nulla, ascoltai Vendola e Assennato rincor-
rersi tra la chimica e la letteratura. “In caso di superamen-
to dei limiti, che verranno controllati dall’Arpa”, spiegava
il professore, “la Regione diffiderà il gestore dell’impianto
colpevole di tale superamento a rientrare, entro sessanta
giorni nei limiti previsti. Se il gestore non adempie, sarà
costretto a bloccare l’impianto.”
“I bambini di Taranto ci hanno raccontato la paura e la
bruttezza”, diceva Vendola, “hanno evocato la scena di
un’assenza solente: assenza di bellezza. Ovvero povertà di
qualità ambientale. Ma anche malattia e morte. I bambini
di Taranto ci hanno chiesto di far sul serio, di afferrare per
le corna un veleno cattivo come la diossina. Ci hanno chie-
sto di respirare il profumo della speranza.”
Una legge regionale, pugliese, sulle diossine. Questi sono
pazzi, pensai. Sorrisi, rimasi ad ascoltare per un po’, poi
finalmente riuscii ad andare a farmi una doccia.
Decisi che non sarei più tornato all’ospedale Testa,
quella mattina. Il Vulcano era sempre il Vulcano. E io
avevo paura.

102
Una notte il suo messaggio fu ricevuto
in un istante è stato trasportato
senza dolore
su di un pianeta sconosciuto
c’era un po’ più viola del normale
un po’ più caldo il sole
ma nell’aria un buon sapore
terre da esplorare
e dopo la terra il mare
un pianeta intero con cui giocare
e lentamente la consapevolezza
mista a una dolce sicurezza
l’universo è la mia fortezza
extraterrestre portami via
voglio una stella che sia tutta mia
extraterrestre vienimi a pigliare
voglio un pianeta su cui ricominciare.
Eugenio Finardi, Extraterrestre

Sbagliai quel giorno. Una legge, regionale, delle diossine


fu approvata il 16 dicembre 2008 dal Consiglio regionale
della Puglia. La votò tutta la maggioranza di centrosinitra
insieme con tre consiglieri di opposizione. La minoranza
di centrodestra si astenne senza opporsi, contestando non
il merito del provvedimento. Ma il metodo. Furono tutti
d’accordo, in sostanza, che quella legge si doveva fare. Che
dei limiti bisognava imporli. Erano tutti d’accordo che sul
Vulcano era necessaria la rivoluzione.
“Ora vedrai che il ministero impugnerà la legge regio-
nale, decadrà e non cambierà nulla”, mi disse un amico
saggio, una mattina. “Su queste materie la Regione non
può legiferare. E poi Vendola e la Prestigiacomo si odiano.

103
Non ne parliamo poi con Fitto: è lui il ministro degli Affa-
ri regionali, tocca a lui impugnarla.” Il ministro Raffaele
Fitto non impugnò la legge pugliese sulle diossine.

L’accordo siglato questa sera a Palazzo Chigi tra Governo, Regione


Puglia e Ilva alla presenza delle parti sociali rappresenta un gran-
de esempio di responsabilità istituzionale di tutte le parti in causa.
Il difficile contemperamento delle esigenze di tutela ambientale e
di difesa del lavoro è giunto al termine di una mediazione artico-
lata svolta sotto il coordinamento del sottosegretario alla presiden-
za del consiglio, Gianni Letta. Con l’accordo raggiunto si pongono
le basi per la modifica di alcune parti della legge regionale che ave-
vano destato particolari preoccupazioni per la salvaguardia del-
l’occupazione. In definitiva un buon esempio di cooperazione tra
le istituzioni.
Raffaele Fitto, ministro per gli Affari regionali

“Ora vedrai che l’Ilva annuncerà che chiude tutto, licen-


zierà gli operai e allora per la paura, con le elezioni alle
porte, saranno costretti a tornare indietro”, mi disse un
altro amico, ancora più saggio. L’Ilva ha minacciato, ma
loro non sono tornati indietro. Il passo l’ha fatto l’azienda.
Il 19 febbraio del 2009 si sono seduti intorno a un tavolo
e hanno sottoscritto un accordo: ministero dell’Ambiente,
dell’Interno, del Lavoro, dei Rapporti con le Regioni,
dello Sviluppo Economico, e poi regione Puglia, provincia
e comune di Taranto, Arpa, Ilva, Cgil, Cisl, Uil e Ugl.
Tutti d’accordo. “Entro il 21 dicembre del 2010 e non più
del 2009 l’Ilva dovrà raggiungere, tramite le migliori tec-
nologie disponibili, il limite di 0,4.” 2010 invece che
2009. Dodici mesi possono essere anche nulla.

104
Abbiamo già completato le fondamenta dell’impianto di urea e nei
prossimi giorni prenderanno il via i lavori di montaggio meccani-
co ed elettrico. Entro il 30 giugno sarà tutto pronto. Adesso l’Ilva
elaborerà uno studio per ridurre ulteriormente l’emissione di dios-
sine. E questo entro il 31 dicembre 2009. Ci auguriamo che lo spi-
rito rimanga di collaborazione e pragmatismo al fine di non rica-
dere negli stessi errori del passato.
Luigi Capogrosso, direttore stabilimento Ilva di Taranto

105
La passeggiata

Quella mattina della colazione andai via subito da Taran-


to, senza passare più dal Testa, senza nemmeno salutare
Vittorio che infatti si arrabbiò. In automobile cercai di
non guardare il cielo, di non fare caso al colore delle nuvo-
le, di non pensare né ai mulini a vento né tantomeno alle
fiammate che si vedono sempre, in lontananza nell’oriz-
zonte tarantino. Cercai di tenere gli occhi bassi, la musica
alta, senza pensare a nulla che non fossero le parole delle
canzoni. In quei giorni lì metto su Elio e Le storie Tese,
possibilmente Uomini con il borsello.

A Taranto ci tornai che era estate, per caso perché in realtà


dovevo andare a Castellaneta Marina a guardare il tennis.
Era luglio, e c’era il sole. Qualche giorno prima mi aveva-
no mandato via email un’inaspettata fotografia, documen-
tava il risultato di un primo accordo tra le istituzioni. Era
il primo luglio 2009: il presidente della Regione applaudi-
va, il ministro Stefania Prestigiacomo applaudiva, Fabio
Riva (il figlio del patron) applaudiva, davanti a loro appa-
riva un nastro da tagliare per un’inaugurazione, alle spalle
la nuova grande macchina dell’Urea, il depuratore dei
fumi, la lavatrice delle paure. Quella era una domenica e
pensai che forse Luca stava giocando da qualche parte a pal-

106
lone, mi chiesi se Maria si fosse mai laureata, mi domandai
della polvere di Tina e della legge di Vendola. Mi dissero che
in fondo era cambiato poco, se non che il magma della cassa
integrazione stava diventando ancora più pericoloso. Mi
dissero che qualcuno aveva già posto dubbi sulla bontà della
legge regionale, “basta aggiungere ossigeno nei camini,
diluendo con l’aria le diossine, per sfalsare tutte le analisi”,
sostenendo una tesi non supportata però dai tecnici. Mi dis-
sero che c’era ancora bisogno di aspettare e che comunque
la vita continuava. Così mi dissero, un paio di amici, per
telefono. Appena chiusi, mi vennero in mente le parole di
Franco Sebastio, il procuratore capo del tribunale di Taran-
to. Un giorno a Taranto la gente decise di scendere in piaz-
za e di organizzare una manifestazione di protesta, come
non mai. C’erano le scuole, i medici, gli operai, le casalin-
ghe, i genitori. Fu una bella giornata. Quel giorno sentii il
procuratore Sebastio per telefono e mi disse che un poco gli
aveva fatto strano vedere tutta quanta quella gente in piaz-
za. “Sa, quando ci sono state le condanne contro Riva le
aule di tribunale erano vuote.” Vuote.
Pensai a Sebastio quella mattina di aprile, e che comun-
que questa volta sarei dovuto passarci, alle pendici del Vul-
cano. Parcheggiai la macchina davanti a un marciapiede
sbreccato, lì al Tamburi. Accanto c’è una chiesa dove un
dipinto di Cristo, alle spalle, ha le ciminiere dell’Ilva. Era
tutto chiuso, il Taranto giocava in casa. Entrai in un bar,
l’unico aperto, c’era una signora minuta dietro il bancone
e un televisore a tutto volume. Si litigava su Canale 5 così
forte che la signora nemmeno mi sentì entrare. Chiesi una
Coca Cola, feci caso alle macchine parcheggiate con due
dita di polvere sopra e ai muri scrostati e colorati.
“Signora, ma lei vive qui?”
“Sì, qui accanto.”

107
“Ma come si vive in questo quartiere? Non ha paura di
vivere qui al Tamburi?”
“Beh, effettivamente un poco sì. Ci sono gli spacciato-
ri. E poi la lampadina qui di fronte è un mese che è rotta,
e nessuno l’aggiusta. Quando mi ritiro a casa la sera, dopo
la chiusura, ci sono un sacco di brutte facce e un poco mi
viene la paura.”

108
Una cronologia*

1957
[Italsider] Prime voci circa la localizzazione di uno stabili-
mento siderurgico nella zona di Taranto.
[Stato] Necessità di un nuovi investimenti in siderurgia
nel Mezzogiorno. Attività di lobbing parlamentare per
convogliare nell’area di Taranto gli investimenti pubblici.
[Comune di Taranto] Dopo un lungo susseguirsi di giun-
te di sinistra (Taranto rossa) inizia un lungo periodo di
giunte democristiane. Il sindaco, Raffaele Leone, convoca
una riunione per la costituzione di un consorzio per l’area
industriale.
[Sindacati] Atteggiamento favorevole alla localizzazione a
Taranto del centro siderurgico.
[Associazioni] Non vi sono opposizioni rispetto alla loca-
lizzazione dell’impianto a Taranto.

1959
[Stato] A giugno il comitato dei ministri per le partecipa-
zioni statali delibera la costruzione a Taranto del IV cen-
tro siderurgico.
[Italsider] Costruzione a Taranto del IV centro Siderurgico
[Comune di Taranto] La città esulta.

109
1960
[Italsider] Italsider rappresenta una speranza per la popo-
lazione: viene percepita come una opportunità di miglio-
ramento delle condizioni di vita. Preparazione del sito per
accogliere l’impianto.
[Stato] Dagli studi commissionati dalla Finsider vengono
individuate tre zone comunali che presentavano caratteri-
stiche idonee.
[Comune di Taranto] Si decide la localizzazione dello sta-
bilimento con superficie di 528 ettari, separato dalle abi-
tazioni cittadine solo da una strada statale senza tener
conto delle prescrizioni del piano regolatore. La camera di
commercio in un documento di qualche anno prima riba-
diva la necessità dell’ubicazione della nuova area indu-
striale in prossimità delle grandi linee stradali, ferroviarie e
marittime.
Si costituisce il consorzio per l’area di sviluppo industriale
(Consorzio ASI) che cerca di regolamentare l’insediamen-
to della grande fabbrica.

1961
[Italsider] Iniziano i primi lavori per la costruzione dello
stabilimento. I bulldozer sradicano ventimila alberi di
ulivo tra l’indifferenza generale, anche di quei proprietari
terrieri che vengono comunque risarciti con buoni inden-
nizzi.
[Comune di Taranto] Boom economico tarantino: la
popolazione aumenta di oltre 32.000 unità.
[Associazioni] Si segnalano mancanza di infrastrutture ed
eccessivo sfruttamento delle risorse naturali.

1964
[Italsider] A ottobre viene avviato il primo altoforno.

110
[Associazioni] Il circolo universitario popolare jonico
(CUPJ) che nel 1964 si trasforma in università popolare
jonica (UPJ) funge da spazio di elaborazione culturale.
Proprio nei locali dell’UPJ, siti nella centralissima via
D’Aquino, per la prima volta la direzione dell’Italsider si
confronta con la cittadinanza: il direttore dello stabili-
mento Arnaldo Mancinelli presenzia dei confronti sulle
grandi questioni ecologiche. Italia Nostra, attraverso il suo
presidente Antonio Rizzo, esprime perplessità nei con-
fronti di un’industrializzazione incontrollata.

1968
[Italsider] Progetto di ampliamento dello stabilimento da
528 a 1500 ettari (due volte la superficie urbana della città
di Taranto).
[Stato] comitato interministeriale per la programmazione
economica (CIPE) delibera i lavori di ampliamento.
[Comune di Taranto] Il consiglio comunale è chiamato a
esprimersi rispetto all’ipotesi di ampliamento.
[Sindacati] Si afferma con decisione la questione ambien-
tale. Dibattito tra forze politiche e sindacali.

1970
[Stato] A marzo il comitato tecnico esecutivo dell’IRI rela-
ziona sulla opportunità dell’ampliamento dell’Italsider di
Taranto. Il 26 novembre la relazione viene approvata dal
CIPE.
[Comune di Taranto] A novembre viene istituita una con-
ferenza dei servizi per la discussione dei lavori d’amplia-
mento di stabilimento e porto industriale e per la variante
al piano ASI necessaria.
[Regione Puglia] A dicembre viene istituita la regione
Puglia con l’approvazione del suo statuto.

111
[Sindacati] Le forze politiche e sindacali, seppur con
accenti diversi, giudicano con favore l’ulteriore sviluppo
industriale ma rivendicano l’importanza nelle decisioni
finali della volontà locale espressa in consiglio comunale.

1971
[Italsider] I lavori di ampliamento porteranno l’Italsider
“sul mare”, concedendole tre dei cinque sporgenti per l’at-
tracco delle navi che trasportano materie prime, con gravi
conseguenze per l’ecosistema della rada di Mar Grande,
già fortemente compromesso con la prima fase insediativa
e con la conseguente distruzione dell’isola di San Nicolic-
chio, piccolissima isola disabitata utilizzata dai pescatori
come appoggio per le loro attività. A settembre viene
avviato l’altoforno 4.
[Comune di Taranto] A gennaio la Giunta Comunale
nega la licenza edilizia per l’ampliamento.
[Stato] A marzo il Comitato dei Ministri per il Mezzo-
giorno invita il Comune alla concessione della licenza “in
precario” all’Italsider per i lavori d’ampliamento
[Comune di Taranto] Dopo le pressioni del Comitato dei
Ministri per il Mezzogiorno, ad ottobre, viene concessa la
licenza “in precario”.
[Associazioni] L’associazionismo ambientalista locale
muove i primi passi convocando manifestazioni pubbliche
nelle vie del centro cittadino e momenti di sensibilizzazio-
ne e riflessione soprattutto nel quartiere Tamburi, il più
colpito dall’attività industriale.
ll 31 gennaio (in pieno dibattito sulla variante al piano
ASI) durante la manifestazione “Taranto per un’industria-
lizzazione umana” organizzata nel centro cittadino da Ita-
lia Nostra, furono esposti in Piazza della Vittoria panni
simbolicamente anneriti dal fumo, sugli alberi della stessa

112
piazza furono appesi cartelli che riportavano la scritta
“reliquia”, furono esposte altre “reliquie” contenenti “aria
non inquinata”, “acqua dello Jonio non inquinata” e “ter-
reno agrario purissimo”.
Il Circolo Culturale “La Routine”, con sede nel quartiere
Tamburi, riesce a raccogliere 700 firme per una sottoscri-
zione finalizzata a sensibilizzare le istituzioni competenti
sul problema ambientale.
[Regione Puglia] Viene istituito il Comitato Regionale per
L’Inquinamento Atmosferico (CRIA) ma sin dal suo inse-
diamento il comitato non interverrà nell’area di Taranto.
[Provincia di Taranto] La tematica ambientale acquista
legittimazione a livello istituzionale. L’Amministrazione
Provinciale organizza un convegno dal titolo “Inquina-
mento ambientale e salute pubblica a Taranto”, durante il
quale per la prima volta si confrontano tutti gli attori inte-
ressati alla salvaguardia ambientale: amministratori locali,
studiosi, sindacalisti, ambientalisti e rappresentanti del-
l’industria. Sull’onda lunga del convegno, per la prima
volta a Taranto, si decide di condurre uno studio sull’in-
quinamento atmosferico che viene commissionato dal
Comune. I primi risultati indicano abbastanza chiaramen-
te che nella zona occidentale della città esiste un processo
di crisi ambientale”.
[Italsider] La direzione dello stabilimento, nel corso del
dibattito sull’ampliamento, annuncia investimenti per 50
miliardi di lire per il perfezionamento e potenziamento di
impianti di depurazione e abbattimento dei fumi, e la
collaborazione con una società statunitense, la Ecological
Science Corporation, per la revisione del processo pro-
duttivo.
Per i lavori di ampliamento si annunciano ulteriori inve-
stimenti in eco-compatibilità per 75 miliardi di lire.

113
1972
[Sindacati] CGIL CISL e UIL organizzano la prima piatta-
forma rivendicativa della lunga Vertenza Taranto.
Il sindacato e la classe operaia tarantina – con le loro lotte e
la loro cultura, nate dalla fusione dei caratteri innovativi
delle conquiste e delle posizioni della classe operaia del
Nord con le migliori tradizioni del bracciantato pugliese –
riaffermeranno nel corso dei decenni la propria presenza,
difendendo e migliorando le condizioni di vita e di lavoro
nell’area industriale, contribuendo a modificare i rapporti
sociali, politici, economico-produttivi della città e, in gran
parte, della provincia. Il Movimento operaio tarantino –
storicamente fra i più forti nel Mezzogiorno – saprà supera-
re anche l’ambito provinciale per diventare un punto di rife-
rimento valido per l’intero Movimento sindacale italiano.

1974
[Italsider-Sindacati] A seguito della Vertenza Taranto
viene firmato l’accordo tra sindacati ed Italsider. Nell’ac-
cordo viene inserito il problema dell’eco-compatibilità e
dell’ammodernamento impiantistico. Gli impegni assunti
dall’Italsider, in tutti i suoi stabilimenti, ammontano a 90
miliardi di lire da spendere per la maggior parte a Taran-
to. Vengono riviste l’organizzazione del lavoro in fabbrica
e gli investimenti in campo ecologico.
[Comune di Taranto] Creazione del Servizio Sicurezza
Lavoro e del Servizio per l’Igiene del Lavoro e Ambientale.

1975
[Italsider] Crollo del consumo mondiale di acciaio (-8%).
Solo nei Paesi della Comunità Europea la diminuzione fu
addirittura del 18%. Il costo del lavoro all’Italsider si col-
locava ad un livello nettamente superiore alla media nazio-

114
nale. In effetti la forza-lavoro Italsider era ben organizzata,
dotata di un elevato potere contrattuale, grazie alla pre-
senza di un sindacato forte di una percentuale di adesioni
del 75%. Nel complesso, la caduta della produttività era
legata principalmente alla diminuzione dell’attività pro-
duttiva che, a sua volta, si inquadrava nella crisi struttura-
le dell’azienda.

1976
[Stato] Viene varata la Legge Merli, che detta la disciplina
per gli scarichi degli insediamenti industriali. Rimarrà
inapplicata fino alla metà degli anni Ottanta, per i ritardi
del governo nell’emanare i decreti esecutivi.
[Regione Puglia] Stenta ad assumere quel ruolo di indiriz-
zo e programmazione conferitole dalla legge Merli a causa
della mancanza di adeguate risorse finanziarie.

1978
[Stato] Viene istituito il Servizio sanitario nazionale (SSN)
con la legge 833, la legge della riforma sanitaria. La rifor-
ma prevede la creazione di apparati tecnico-burocratici, le
Unità sanitarie locali (USL), alle quali vengono assegnati
anche compiti di prevenzione e tutela dell’ambiente.

1979
[Stato] L’attività svolta dall’Istituto Nazionale per gli
infortuni sul lavoro (INAIL) sin dall’insediamento del
Siderurgico inizia a far emergere i primi preoccupanti dati
relativi all’incidenza delle malattie professionali derivanti
dall’esposizione a gas, fumi e polveri altamente nocive.
[Provincia di Taranto] A settembre del 1979, vengono
installate 5 stazioni fisse di rilevamento posizionate in
punti strategici del territorio provinciale. Dall’analisi dei

115
dati emerge un primo rapporto sullo stato dell’ambiente
nell’area jonica.

1980
[Italsider] Si acuisce la crisi del settore siderurgico, infatti
negli anni 1980, 1981, 1982, si registrerà un calo costan-
te della domanda mondiale.
Nel 1983 la domanda scende fino a raggiungere i 300
milioni di tonnellate nei paesi industrializzati.
[Magistratura] Prime azioni della Magistratura nei con-
fronti di una serie di impianti industriali tarantini, tra i
quali la Cementir, l’IP e anche l’Italsider.

1981
[Italsider] L’effetto della crisi della siderurgia vede Italsider
in grave crisi di liquidità e incapace di fronteggiare la
situazione con mezzi propri, l’azienda viene ceduta alla
Nuova Italsider e sottoposta a una ricapitalizzazione.
Viene avviato un programma, denominato TARAP-
MRO, di ristrutturazione degli impianti e dei processi
produttivi su consulenza della Nippon Steel. Lo scopo era
quello di migliorare l’efficienza degli impianti e di razio-
nalizzare i costi assai elevati.
Attraverso questo piano si cercava, con l’aiuto della side-
rurgia leader nel mondo, quella giapponese, di porre rime-
dio alle diseconomie di scala generatesi dopo il raddoppio,
a causa della crisi siderurgica, agli errori gestionali e
soprattutto alla bassa produttività degli impianti.

1982
[Magistratura] La Pretura di Taranto indaga per getto di
polveri e inquinamento da gas, fumi e vapori, i vertici del-
l’Italsider.

116
Il processo si svolge nel 1982, vede la partecipazione di
numerosi testimoni provenienti dai quartieri più a rischio
d’inquinamento industriale (Tamburi, Città Vecchia,
Paolo VI) e, almeno in una prima fase, la costituzione di
parte civile non solo di associazioni ambientaliste ma
anche del Comune.
[Comune di Taranto] Dopo una prima fase in cui si era
costituito parte civile nel processo contro l’Italsider, nel
corso dell’anno però l’orientamento dell’Amministrazione
Comunale cambia: quasi alla vigilia della sentenza il sin-
daco dell’epoca, Giuseppe Cannata, annuncia la revoca
della costituzione di parte civile del Comune per motivi di
opportunità politica.
[Magistratura] Il processo si conclude con la condanna del
direttore dello stabilimento Italsider a 15 giorni di arresto
con l’accusa di getto di polveri ma non di inquinamento
da fumi, gas e vapori

1984
[Italsider] Dopo la sentenza la direzione dell’Italsider si
adopera per migliorare la percezione dell’attività dello sta-
bilimento, soprattutto attraverso la carta stampata. In que-
sto senso gli interventi dei dirigenti evidenziano gli inve-
stimenti che dalla metà degli anni Settanta si sono realiz-
zati e quelli in fase di realizzazione che riguardano sempre
gli impianti ecologicamente più critici.
[Comune di Taranto] Costituzione del Fondo d’Impatto
Ambientale. Il comitato direttivo del Fondo comprende
13 membri, 7 rappresentanti degli Enti Locali, 3 dei sin-
dacati e 3 delle industrie. Il Fondo è alimentato dallo
0,85% del monte salari delle industrie stesse e rimane in
vita fino alla durata in carica del sindaco di sinistra Mario
Guadagnalo, presidente dal Fondo. La portata innovativa

117
in termini di finalità annunciate del Fondo viene smenti-
ta all’atto pratico: le azioni intraprese sono di natura pret-
tamente ordinaria, non incidono in maniera strutturale
sul problema delle polveri e più in generale dell’inquina-
mento.

1986
[Stato] Con la Legge n. 349 viene istituito il Ministero
dell’Ambiente.

1988
[Stato] Viene approvato dall’IRI un piano di ristruttura-
zione discusso sia dal Parlamento che in sede comunitaria.
Esso prevede aiuti per un ammontare di 5.170 miliardi di
lire.
Nel contempo a maggio inizia il processo di liquidazione
volontaria della Finsider, dell’Italsider, della Nuova Delta-
sider e della Terni Acciai Speciali, che si concluderà nel
1989 con la costituzione di una nuova società, l’Ilva spa.

1991
[Stato] Il Ministero dell’Ambiente dichiara l’area di Taran-
to “area ad elevato rischio ambientale”.
L’area interessata, oltre al comune di Taranto, comprende
altri 4 comuni della provincia jonica (Crispiano, Massafra,
Montemesola, Statte) per un totale di 564 kmC e 263.614
abitanti.
[Associazioni] Nasce PeaceLink, associazione ambientalista
che, per prima, utilizza strumenti telematici per la diffusio-
ne delle informazioni sulle tematiche della pace ma anche
sulle problematiche ambientali, soprattutto a Taranto.

118
1994
[Stato] L’ENEA avvia il “Piano di disinquinamento per il
risanamento del territorio della provincia di Taranto” che
verrà pubblicato nel 1998 seguito da una nuova dichiara-
zione da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri
(D.P.C.M. 30/07/97).
La dichiarazione di area ad elevato rischio di crisi ambien-
tale ha validità massima per un periodo massimo di 5 anni
(art. 7, comma 1 L. 349/86). La dichiarazione reiterata è
avvenuta perciò con un ritardo di 2 anni rispetto ai tempi
previsti dalla legge.
La dichiarazione di area ad elevato rischio ambientale del
1990 e le successive reiterazioni, segnano gli ultimi signi-
ficativi avvenimenti della storia ambientale che lega il ter-
ritorio tarantino alla gestione pubblica dello stabilimento
siderurgico. Infatti, nella prima metà degli anni Novanta,
si esaurisce l’intervento pubblico nel settore dell’acciaio.

1995
[Stato-Ilva] In aprile giunge al termine la trattativa tra
l’IRI e il Gruppo Riva per l’acquisizione dello stabilimen-
to di Taranto. Il prezzo di cessione concordato è di 1460
miliardi. Il Gruppo Riva si presenta come una vera e pro-
pria multinazionale (non quotata in Borsa) che ha però
mantenuti intatti gli equilibri di gestione e controllo di
tipo familiare, infatti uno dei due fondatori è ancora il
presidente del Gruppo, Emilio Riva, che gestisce le attivi-
tà affiancato nelle posizioni dirigenziali chiave dai figli e
dai nipoti.
[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Le istituzioni
locali sono tenute fuori dal tavolo di negoziazione tra IRI
e Gruppo Riva. Gli esponenti politici si limitano ad inter-
venire seguendo la scia delle rivendicazioni sindacali, non

119
ponendo la questione ambientale tra le priorità nell’agen-
da istituzionale.
[Associazioni] L’associazione “Caretta Caretta” denuncia il
versamento in Mar Grande di sostanze non trattate da un
canale di scarico dell’Ilva.

1996
[Regione Puglia] La Regione viene investita di competen-
ze speciali in materia ambientale ed è quindi costretta a
dedicare una parte del suo apparato tecnico-amministrati-
vo a queste tematiche. Il ruolo della Regione acquista rilie-
vo nella questione ambientali per la collaborazione con il
Ministero dell’Ambiente alla realizzazione del Piano di
Risanamento.
Nel maggio si crea l’Ufficio del commissario delegato per
l’emergenza ambientale, una carica per un certo periodo
condivisa dal prefetto di Bari e dal presidente della Regio-
ne con competenze differenziate per ambiti d’intervento e
in seguito (agosto 2000) assegnato al solo presidente regio-
nale.

1997
[Regione Puglia-Ilva] Viene siglato il Primo Atto d’intesa
tra Regione e Ilva. L’Atto non prevede né limiti di tempo
più stringenti in fatto di risanamento né il ricorso a san-
zioni in caso di inadempienze. Viene presentato dal Grup-
po Riva il primo piano industriale di investimenti per 539
miliardi di lire per rifacimenti di nuovi impianti e per
l’eco-compatibilità e la sicurezza sul lavoro.
Inizia nello stesso periodo l’intervento per la rimozione
dell’amianto dagli impianti produttivi.
[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Le istituzioni
locali svolgono un ruolo marginale, non delineando una

120
strategia d’intervento da seguire. Comune e Provincia si
limitano a intervenire nella fase di attuazione e coordina-
mento degli interventi previsti nel Piano, a livello comu-
nale tentano di portare avanti il progetto del Fondo di
Impatto Ambientale.
[Sindacati] Il fronte sindacale non partecipa ai tavoli di
concertazione tenuti a livello regionale e i malumori ini-
ziano a serpeggiare soprattutto negli ambienti della UIL.
Si denuncia la mancanza di impegno su una serie di pro-
blematiche ambientali presenti all’interno dello stabili-
mento, ci si scaglia contro la logica dell’accordo che di
fatto “concede una proroga di due anni e mezzo all’impre-
sa per adeguarsi agli impegni”. La UIL inizia a distinguer-
si rispetto alla CGIL e alla CISL, mantenendosi più rigida
rispetto all’approccio collaborativo che diventa predomi-
nante in campo politico e sindacale.

1998
[Stato-Ilva] Dopo otto anni di attesa dalla prima dichiara-
zione di Area a elevato rischio di crisi ambientale arriva in
primavera il piano di risanamento ambientale messo a
punto dall’ENEA per conto del ministero dell’Ambiente.
Il Piano prevede interventi, in termini di finanziamento, a
titolarità privata e pubblica, con diversi livelli di priori-
tà.Tra gli interventi a titolarità privata ben 14 su 25 si con-
centrano sugli impianti Ilva, per una spesa complessiva di
208 miliardi, quelli a titolarità pubblica (48 miliardi)
riguardano azioni per porre rimedio a decenni di mancan-
za di controlli rispetto al rapporto salute-industria. Il
rispetto delle fasi di attuazione si rivelerà completamente
disatteso. I tempi stringenti fissati nell’Atto d’Intesa
Regione-Ilva, gli stessi interventi ribaditi nel Piano ed altri
interventi previsti in sede di trattativa IRI-Riva non ver-

121
ranno rispettati. Deterioramento delle relazioni tra il
management Ilva e operai. Scoppia il grave caso di mob-
bing delle palazzine Laf a danno di 70 operai successiva-
mente costretti alle dimissioni.

2000
[Stato-Regione Puglia] Visto il ritardo nell’attuazione del
Piano di risanamento, ad agosto, il ministero dell’Interno,
affida la titolarità esclusiva dello stesso al presidente della
regione nella sua veste di commissario delegato per l’e-
mergenza ambientale in Puglia.
[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Comune e
Provincia vengono privati delle loro prerogative nei mec-
canismi di controllo e di attuazione del Piano.
[Comune di Taranto] Nel corso della primavera con le ele-
zioni amministrative si conclude definitivamente l’espe-
rienza del “citismo” (Giancarlo Cito era stato eletto sinda-
co nel 1993). Le elezioni le vince il centrodestra con il sin-
daco Rossana Di Bello.
Creazione della commissione consiliare “Ambiente ed
Ecologia” che svolge un’indagine conoscitiva sullo stato
dell’ambiente e della salute dei cittadini.
[Stato] Relazioni allarmanti del Presidio Multizonale di
Prevenzione PMP (uffici tecnici delle ASL) circa l’inqui-
namento prodotto dalla produzione del coke e richiesta
del fermo delle batterie 3 e 6.
[Magistratura] In base alle ipotesi di reato segnalate dalla
relazione del PMP sull’inquinamento industriale dell’Ilva
viene realizzata una perizia a seguito della quale si invita-
no gli organi istituzionalmente competenti ad intervenire.

2001
[Comune di Taranto] A seguito della perizia e della lette-

122
ra della Magistratura con la quale si invitava, chi di dove-
re, a prendere provvedimenti circa l’inquinamento indu-
striale prodotto dagli stabilimenti Ilva, l’Amministrazione
comunale, con una “storica” ordinanza sindacale (6 feb-
braio) ordina, entro 15 giorni (poi passati a 90) dalla noti-
fica dell’ordinanza, di realizzare interventi migliorativi
relativamente ai forni delle batterie 3 e 6, di ridurre la pro-
duzione di coke con il fermo delle batterie 3 e 6 o alter-
nativamente di procedere alla sostituzione delle stesse.
Scoppia la “vertenza ambiente”.
[Ilva] Il Gruppo Riva che fino a quel momento si era
dichiarato disposto al dialogo solo con l’interlocutore
regionale, si dimostra conciliante. Intanto viene formula-
to un ricorso al TAR mentre le azioni messe in atto per
scongiurare il fermo delle batterie oggetto dell’ordinanza
risultano insufficienti. La direzione dello stabilimento
sembra reagire come nel 1997, mostrandosi da un lato
favorevole al dialogo e dall’altro non rispettando gli impe-
gni pattuiti per ritardi o “imperfezioni” nelle fasi di attua-
zione.
[Magistratura] Avvisi di garanzia inviati al presidente del
gruppo Riva e ad altri due dirigenti dello stabilimento,
legati alle risultanze della maxiperizia realizzata per conto
della procura nei mesi precedenti.
[Sindacati] Le confederazioni sindacali si dichiarano espli-
citamente contrari e a una “vertenza ambiente” condotta
attraverso le ordinanze, esprimono preoccupazione nei
confronti di un crescente antindustrialismo che si diffon-
de in città, denunciano eccessiva strumentalizzazione poli-
tica della vicenda e ripropongono lo strumento del Piano
di risanamento, seppur rivisto nei meccanismi di attuazio-
ne, come strada da seguire.
[Associazioni] L’associazionismo ambientalista si mostra

123
compatto nell’appoggiare l’ordinanza comunale. Viene
praticata una forte azione di denuncia per favorire un
coinvolgimento della cittadinanza nei processi decisionali
territoriali e diffusione dell’informazione attraverso gli
strumenti telematici. Per la prima volta viene posta la que-
stione dell’effettiva attivazione dell’Agenzia regionale per
la protezione dell’ambiente (Arpa) che, a distanza di due
anni dalla legge regionale di istituzione, non è entrata
ancora nella fase operativa.
[Comune di Taranto] Il 31 ottobre il sindaco Di Bello
invia una lettera pubblica al presidente delle Regione Fitto
nella quale afferma di avvertire la limitatezza dei suoi pote-
ri di sindaco e “quel che è peggio […] una sorta di sotto-
missione istituzionale ormai conclamata verso i responsa-
bili dell’inquinamento” .
[Ilva] In risposta alla pressione proveniente da Comune e
Magistratura, la direzione dello stabilimento per la prima
volta decide di rivolgersi direttamente alla cittadinanza
rivendicando il ruolo di fonte di occupazione e reddito per
la città, evidenziando gli investimenti fatti sin dal 1995
per migliorare l’impatto ambientale e rendendosi disponi-
bile a continuare in questa direzione che è l’unica a garan-
tire rispetto della salute dei cittadini e una posizione di
primo piano per l’azienda nel panorama mondiale. Sono
le idee principali espresse in una lettera firmata da Emilio
Riva e inviata in ottobre alle famiglie tarantine.

2002
[Comune di Taranto] Il sindaco non riesce a persuadere il
Gruppo Riva ed è costretto a cambiare atteggiamento,
richiedendo l’intervento del Governo centrale e della
Regione Puglia.
L’opposizione di centrosinistra, dopo aver appoggiato le

124
azioni del sindaco, rivede la sua posizione e lo invita a per-
seguire, insieme a Provincia e Regione, gli interventi pre-
visti nel Piano di risanamento del 1998 che attendono
ancora attuazione.
[Magistratura] A luglio, in un clima più favorevole a un
approccio consensuale, arriva la condanna di primo grado
per il procedimento iniziato nel 1999. Qualche giorno
dopo la sentenza, l’Ilva comunica la decisione di spegnere
le batterie oggetto delle ordinanze comunali e di ridurre
gli investimenti per lo stabilimento tarantino.
[Associazioni] L’associazionismo continua ad appoggiare
l’Amministrazione Comunale e l’azione della Magistratu-
ra che in questa fase sembrano operare in maniera sinergi-
ca. Dopo una fase iniziale di reciproca diffidenza, gli
ambientalisti cercano il confronto con i sindacati per con-
dividere una piattaforma di rivendicazione della tutela
occupazionale e del rispetto dell’ambiente.
[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune di
Taranto-Ilva] Inizia la cosiddetta “stagione delle intese”. Il
ministero dell’Industria, a settembre, istituisce un tavolo,
da attivare a livello regionale, con il compito di definire un
accordo per il risanamento complessivo dello stabilimento
siderurgico che definisca in maniera puntuale gli investi-
menti che il Gruppo Riva deve realizzare. Al livello regio-
nale è anche affidata la realizzazione di un Accordo di Pro-
gramma che interessi tutta l’area ionica da risanare. Viene
siglato il primo Atto di intesa, ne seguiranno altri 3, nel
quale vengono concordati interventi precisi con altrettan-
te scadenze temporali vincolanti finalizzate all’adegua-
mento delle migliori tecniche disponibili (BAT Best Avai-
lable Techniques) necessarie per il rilascio dell’Autorizza-
zione Integrata Ambientale (AIA) prevista dalle direttive
europee.

125
2003
[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune di
Taranto-Ilva] L’8 gennaio viene siglato il secondo Atto
d’intesa che prevede il potenziamento del barrieramento
tra lo stabilimento e le aree urbane contigue ad esso, tra-
mite l’ampliamento delle colline artificiali esistenti. Si
accertò poi che l’opera oltre che non comportare miglio-
ramenti riguardo alla dispersione di inquinanti in atmo-
sfera, avrebbe provocato il peggioramento della qualità
della vita dei residenti, alterando la morfologia dei luoghi,
accentuando l’attuale chiusura del quartiere e la sua sepa-
razione dal contesto territoriale, riducendo luce e aria agli
edifici residenziali e scolastici adiacenti.

2004
[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune di
Taranto-Ilva] Il 27 febbraio viene siglato il terzo Atto d’in-
tesa e il 15 dicembre il quarto Atto d’intesa. Uno degli
aspetti positivi di innovazione degli Atti d’Intesa sta nella
volontà di racchiudere finalmente in un quadro organico
e di concreta realizzazione la miriade di interventi pro-
grammati fino a quel momento. I risultati, però, sono
limitati in quanto ad interventi di natura prettamente tec-
nica e a breve termine si alternano interventi e atti pro-
grammatori a lungo termine.
Molti problemi di natura strettamente tecnica vengono
affrontati in maniera poco convincente.
[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Solo dopo la
sottoscrizione del 3° Atto d’intesa, Comune e Provincia
ritirano la costituzione di parte civile nel processo che
aveva visto la condanna in primo grado dei vertici dello
stabilimento per le polveri del parco minerali che ricade-
vano sul quartiere Tamburi.

126
[Stato-Comune di Taranto-Regione Puglia] L’intervento
di “barrieramento” a ridosso dei parchi minerari è sosti-
tuito da un nuovo progetto per il risanamento del quar-
tiere Tamburi. Si tratta, però, di un Programma che mai
avrebbe potuto essere approvato dal Ministero per palese
incompatibilità dei contenuti con i regolamenti della deli-
bera CIPE 2004.

2005
[Regione Puglia] Nelle elezioni di aprile viene eletto presi-
dente della regione Puglia Nichi Vendola.

2006
[Comune di Taranto] Il 17 ottobre viene dichiarato uffi-
cialmente lo stato di dissesto finanziario del Comune di
Taranto.
[Stato-Regione Puglia-Comune di Taranto] La struttura
commisariale del Comune di Taranto e la Regione Puglia
rimodulano il Programma di risanamento di Tamburi per
renderlo coerente con il regolamento CIPE.

2007
[Comune di Taranto] Il 14 giugno Ippazio Stefano viene
proclamato sindaco di Taranto.[Regione Puglia] Viene
riorganizzata L’Arpa (Agenzia regionale per l’ambiente)
che inizia una campagna di rilevamento dei dati dell’in-
quinamento prodotto dall’Ilva. Emergono dati preoccu-
panti soprattutto per quanto riguarda le emissioni di dios-
sine e di Idrocarburi Policiclici Aromatici.
[Associazioni] A maggio, PeaceLink, Uil Taranto e il
Comitato contro il rigassificatore, presentano un dossier
allarmante sull’inquinamento.
[Ilva] A giugno l’Ilva querela i relatori del dossier sull’in-

127
quinamento per “procurato allarme ambientale”.
[Associazioni] Comincia nuovamente a diffondersi un dif-
fuso senso di preoccupazione tra la popolazione.

2008
[Regione Puglia] L’Arpa continua la campagna di rileva-
mento delle emissioni inquinanti e i dati resi pubblici
sono sempre più allarmanti. Attraverso una rimodulazio-
ne dell’originario progetto di riqualificazione del quartie-
re Tamburi, vengono stanziati e resi utilizzabili per la
costruzione del mercato rionale, la realizzazione di urba-
nizzazioni e spazi verdi e la bonifica dei suoli inquinati, 10
milioni di euro in attuazione della delibera CIPE n. 3 del
22 marzo 2006 con l’impegno a stanziare ulteriori 68
milioni di euro includendoli nel nuovo ciclo di program-
mazione dei fondi FAS (Fondo Aree Sottoutilizzate). Ad
agosto viene siglato l’atto integrativo d’intesa che rende
utilizzabili i 10 milioni di euro.
[Associazioni] Anche le associazioni si attivano creando
una propria rete di informazione e divulgazione dei dati.
Si crea un vero e proprio allarme inquinamento e riemer-
ge un diffuso atteggiamento “antindustriale”. Inizia un
dibattito circa l’opportunità di indire un referendum cit-
tadino sull’opportunità di chiudere lo stabilimento Ilva,
seppur con varie sfumature (chiusura totale o del solo ciclo
di lavorazione a caldo).
[Regione Puglia] Il 30 luglio il presidente Vendola in una
lettera aperta al presidente del consiglio Berlusconi sotto-
linea tutta la gravità del “caso Taranto” e lo invita a colla-
borare per la soluzione del problema.
[Stato] Ad agosto la risposta arriva attraverso il ministro
dell’ambiente Prestigiacomo che a fronte di generiche
dichiarazioni di interessamento sul caso Taranto (annun-

128
cia anche un Consiglio dei Ministri a Taranto per settem-
bre che non avrà mai luogo) di fatto si schiera a fianco del
Gruppo Riva sostenendo di non ritenere opportuna la
revisione delle limitazioni legislative alle emissioni inqui-
nanti (quelle italiane sono scandalosamente alte) sottoli-
neando invece positivamente gli sforzi tecnici e di investi-
mento dell’Ilva per la riduzione delle emissioni.Viene
addirittura messa in discussione l’attendibilità dei dati
prodotti dall’Arpa. Sullo sfondo sembra esserci l’iter per
l’adeguamento alle “migliori tecniche disponibili” (BAT-
Best Available Tchniques) da parte dell’Ilva e il conse-
guente rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale
(AIA) prevista dalle direttive europee. Contestualmente,
in sede europea, il governo pone la questione dell’insoste-
nibilità per l’Italia delle limitazioni alle emissioni di Co2.
[Associazioni] Le associazioni, e più in generale la comu-
nità tarantina, assistono a quello che sembra essere uno
scontro istituzionale senza precedenti e si preparano a
sostenere l’azione della Regione Puglia.
[Regione Puglia] La stagione delle intese sembra definiti-
vamente terminata. Il 20 novembre, all’ospedale Testa di
Taranto, viene presentata la nuova legge regionale sulle
emissioni di diossina. La Legge impone, a tutti gli impian-
ti che producono diossine, di rispettare i limiti alle emis-
sioni di 0,4 nanogrammi all’ora, in linea con quelli indi-
cati dal Protocollo di Aarhus.
[Ilva] La dirigenza dello stabilimento dichiara l’impossibi-
lità a rispettare i tempi previsti dalla Legge.
[Associazioni] Il 29 novembre il comitato cittadino Alta-
marea, che riunisce 18 fra associazioni e movimenti
ambientalisti, indice una grande manifestazione contro
l’inquinamento. Con lo slogan “Vogliamo Aria Pulita!”
più di 20.000 persone scendono in piazza.

129
[Regione Puglia] Il 16 dicembre viene approvata dal con-
siglio regionale della Puglia la Legge regionale “anti-dios-
sine”, con l’astensione dell’opposizione di centro-destra ad
eccezione di tre consiglieri che sostengono la maggioranza
per l’approvazione del provvedimento. Un solo consiglie-
re di opposizione abbandona l’aula al momento del voto.

2009
In seguito all’approvazione della Legge regionale “anti-
diossina”e in vista della prima fase della sua applicazione
(1 aprile 2009) si apre un forte dibattito circa la sua effet-
tiva applicabilità.
[Ilva] La direzione dello stabilimento, oltre a ribadire le
sue valutazioni negative delle prescrizioni previste dalla
Legge regionale, annuncia ripercussioni sul piano occupa-
zionale.
[Stato] Agli inizi di febbraio, il ministero dell’Ambiente,
recependo le sole preoccupazioni della dirigenza Ilva, con-
voca un tavolo di concertazione tra Ministero, Regione
Puglia, Ilva e sindacati per evitare la paventata chiusura
degli impianti e arriva a ‘minacciare’ il ricorso contro la
Legge regionale per incostituzionalità.
[Sindacati-Associazioni] Forte dibattito nella comunità
tarantina con posizioni sostanzialmente convergenti nel
ritenere necessario un punto di mediazione tra le ragioni
ambientali e le problematiche occupazionali. Il 17 gennaio
Legambiente avvia a Taranto la campagna nazionale
“Mal’aria” e presenta il libro bianco sull’inquinamento
atmosferico da attività produttive in Italia.
[Regione Puglia] La Regione Puglia ribadisce l’assoluta
sostenibiltà della riduzione delle emissioni di diossina pre-
vista dalla prima fase della Legge regionale, peraltro già
ottenuta in una precedente sperimentazione (giugno

130
2007) mediante l’impiego del trattamento con urea.
[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune di
Taranto-Ilva-Sindacati] Dopo una fitta serie di incontri
contrassegnati da toni accesi, il 19 febbraio viene siglato a
Roma un Protocollo d’intesa tra tutti i soggetti coinvolti
che rinvia di tre mesi (30 giugno 2009) l’entrata in vigore
della prima fase della Legge regionale ‘antidiossina’
lasciandone, di fatto, inalterati i principi di fondo.Vengo-
no stabiliti, nella prima fase, precisi criteri e modalità di
monitoraggio delle emissioni e riaffermata la sostenibilità
del limite di 0,4 ng I-TEQ/Nmcubo come obiettivo da
raggiungere entro il 2010 mediante l’adozione delle
migliori tecniche disponibili indicate da uno studio di fat-
tibilità proposto dal gestore (entro il 30 dicembre 2009)
supportato da ISPRA e Arpa Puglia.

*La cronologia è tratta dal libro Vivere con la fabbrica, edito dalla
Regione Puglia.

131
Bibliografia di riferimento

Patrizia Consiglio, Francesco Lacava, Il caso Taranto. Sviluppo econo-


mico lotte sociali democrazia in fabbrica, Ediesse, Roma 1985; Mauro
del Monaco (tesi di laurea specialistica), Processo di policy ambientale:
il caso Ilva di Taranto, Facoltà di Economia, Università Bocconi di
Milano, 2006; Riccardo Mongelli (tesi di laurea), Ilva (ex Italsider) di
Taranto. L'italsiderino e il metalmezzadro. Da braccianti e pescatori a
metalmeccanici, Facoltà di Scienze Politiche, Università di Siena,
2006; Giacinto Nasole (tesi di laurea), L'operaio di Taranto, una situa-
zione difficile. Il caso Ilva, Facoltà di Economia, Università Bocconi di
Milano, 2006; Federico Pirro, Angelo Guarini, Grande industria e
Mezzogiorno 1996-2007, Cacucci editore, Bari 2008.

www.comune.taranto.it (Comune di Taranto); www.fiomtaranto.it


(sindacato CGIL-Metalmeccanici di Taranto); www.legambienteta-
ranto.eu (Legambiente Taranto); www.peacelink.it (Associazione Pea-
ceLink di Taranto); http://www.rassegnastampacrp.com/rassegna.aspx
(Rassegna stampa del sito ufficiale del consiglio regionale della Puglia)
www.regione.puglia.it (Regione Puglia); www.rivagroup.com (Grup-
po Riva); www.uilmtaranto.org (sindacato UIL-Metalmeccanici di
Taranto).

132
Ringraziamenti

La colpa di questo libro è principalmente di cinque persone. Di Mario


Desiati, innanzitutto, che ha detto sì e poi ha fatto tutto quanto il resto.
Di Antonella Gaeta, che mi vuole bene, forse pure troppo. Di mia
madre, Lucia, e mio padre, Costantino, che mi hanno fatto crescere in
quella casa. E di Micaela, chiaramente, perché è sempre colpa sua.

La colpa di questo libro è dei miei colleghi di Repubblica, a Bari, che


mi sopportano e mi fanno divertire: Stefano, Mimmo, Roberto,
Michele, Gianni, Lello, Davide e tutti quanti gli altri.

La colpa di questo libro è dei miei amici, perché ci sono sempre e ci


sono stati anche questa volta: Francesca, Anna, Gabriella, Lorenza,
Paolo, Ila, grazie.

Un grazie speciale deve andare al professor Giorgio Assennato, perché


mi ha insegnato che le cose si possono cambiare. Ma soltanto se hai
studiato. Grazie a Vittorio Triggiani, alle sue leggi e alle sue fotogra-
fie. E grazie infinite a Mario Diliberto, nonostante la maglia.

Grazie a Nico e Vito, per la disponibilità, e a tutti i professionisti della


Regione che hanno lavorato ai due volumi su Taranto.

Grazie poi a tutti quelli che mi hanno risposto al telefono, o che me


l’hanno sbattuto in faccia. Che mi hanno dato un appuntamento, o
mi hanno fatto un bidone.

Grazie a Federica, zio Enio e zia Iride, per tutto.

Grazie a Sebastiano Venneri, Alessandro Marescotti, Eligio Curci e a


tutti quelli che non ci stanno.

133
Indice

Il Vulcano 7
Scusi mi fa accendere 15
Quindici passi 23
Sognando nuvole bianche 30
I bambini mai nati 39
Agnello di dio (ssina) 43
Il lampadario e le scope 55
La polvere 67
Il Vulcano (II) 78
La storia 87
La legge 101
La passeggiata 106
Una cronologia 109
Bibliografia di riferimento 132
Ringraziamenti 133
Finito di stampare per conto di Fandango Libri s.r.l.
nel mese di luglio 2009
presso Grafiche del Liri
03036 Isola del Liri (FR)

Redazione Fandango Libri

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