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Viale Gorizia 19
00198 Roma
ISBN 978-88-6044-122-5
Copertina:
disegno di Gianluigi Toccafondo
progetto grafico Studio Jellici
www.fandango.it
Stampato su Editor 2, carta ecologica riciclata naturale, prodotta con il 100% di maceri e senza l’uso di
cloro o imbiancanti ottici.
Giuliano Foschini
Quindici passi
Secondo l’Inventario nazionale delle emissioni in atmosfera
di Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca
ambientale, nel 2006 in Italia l’industria ha emesso il 95%
del totale dell’arsenico scaricato in atmosfera da tutte le fonti,
il 90% del cromo, l’87% dei Pcb, l’83% del piombo, il 75%
del mercurio, il 72% di diossine e furani, il 61% di cadmio.
Sono state emesse in atmosfera poco più di 173mila tonnella-
te di polveri sottili (PM10); per il 28% del totale dalle atti-
vità industriali e per il 27 dai trasporti stradali e oltre 1
milione di tonnellate di ossidi di azoto (NOx), il 44% dei
quali derivanti dal traffico stradale, mentre il 25 è dovuto
all’industria. Nelle classifiche di emissioni per questo tipo di
elementi tossici, Taranto è nettamente al primo posto.
Il Vulcano
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un acronimo gentile. Forse l’unico. Gli altri che mi vengo-
no in mente, forse perché sono quelli che sentii ripetere per
una giornata intera in quella dannata stanza, sono Pcb, Bat,
Bot, Nox, Cox, Aia, Ipa, Pm10 e non sono gentili per nien-
te. Prima di andare a Taranto quella mattina avevo studia-
to. Sapevo già che questo miscuglio disordinato di lettere
che intimoriscono come una lezione di chimica, a Taranto,
significano tante cose ma spesso una cosa soltanto. E non è
buona per nessuno. Perché gli acronimi non stanno soltan-
to nelle parole degli scienziati o dei politici. Non sono sui
giornali e nelle riviste tecniche. Gli acronimi si trovano
anche nell’aria e per questo colpiscono tutti senza distin-
zione di sesso, razza, religione e ceto. Gli acronimi sono
democratici. A volte credo che gli acronimi non abbiano
una funzione grammaticale né tantomeno sintattica. Piut-
tosto hanno una funzione sociale: sono stati inventati per
non far capire il reale significato di quello che rappresenta-
no. Per non far spaventare, allarmare, intimorire la gente.
Per permettere loro di andare a lavorare e poi gustarsi la
televisione, un libro, una canna senza troppi pensieri per la
testa. Si vive più tranquilli senza sapere cosa è l’Ipa.
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ponte girevole e da un anno ha riaperto il Museo Nazio-
nale Archeologico, una meraviglia anche per i profani. C’è
poi una Taranto che è tre volte Taranto. Si chiama Ilva, ma
fino a 15 anni fa, quando era pubblica, si chiamava Italsi-
der. Si tratta dell’acciaieria più grande d’Europa, una fab-
brica che contiene al suo interno 250 chilometri di ferro-
via, altiforni di decine di metri, una produzione in tempi
di crisi di 24.200 tonnellate di ghisa liquida al giorno e
16.700 di acciaio liquido. L’Ilva produce tanto, più di ogni
altra fabbrica nel continente. Sostengono gli acronimi che
inquini anche molto. Il proprietario di questa fabbrica è
Emilio Riva, un distinto ed elegante signore ormai ottan-
tenne che nel 1957 aprì un forno elettrico per la produ-
zione dell’acciaio a Milano. Nel 1995 con una firma sol-
tanto comprò dall’Iri tutte le acciaierie pubbliche, com-
presa quella di Taranto, diventando così il massimo
imprenditore siderurgico europeo. C’era il governo Dini,
all’epoca, e questo distinto signore bresciano staccò per lo
stabilimento tarantino un assegno da 1.460 miliardi di
lire. Troppo poco, ha poi detto qualcuno. Ma questo non
conta. Certo l’investimento ha poi dato i suoi frutti. Negli
ultimi quattro anni il gruppo ha prodotto utili per 2,5
miliardi (non milioni) di euro. Riva quindi è un uomo
ricco, molto ricco, ricchissimo. Così tanto da essere entra-
to nella cordata di imprenditori che ha salvato Alitalia,
mantenendo l’italianità della compagnia di bandiera. Per
questo tutta l’Italia deve dirgli grazie.
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Nella sala conferenze si discuteva di Ilva e di Taranto. Si
parlava di aria. In realtà non si parlava soltanto di Ilva ma
anche della raffineria Agip e di tutte le aziende dell’indot-
to, perché a Taranto non si fanno mancare nulla: c’è la raf-
fineria Agip del gruppo Eni, il cementificio Cementir del
gruppo Caltagirone, le due centrali elettriche della società
Edison Spa, le cave della società Italcave, gli impianti della
società Italcave, gli impianti della società Enel, un impor-
tante conglomerato di parecchie decine di piccole e medie
imprese collocate nell’area del consorzio industriale Sisri,
due inceneritori e un impianto pubblico di smaltimento,
nonché l’arsenale e il porto militare, i cantieri navali ex
Tosi e l’ex industria Belleli. A Taranto c’è tutta questa
roba, tutta quanta insieme. Una roba che è fatta di fumo,
di polvere, di fiamme. Attorno alla città rimesta un gigan-
tesco polo industriale, per molti aspetti il più impressio-
nante del Mediterraneo.
Quella mattina la sala dell’ospedale era piena, la gente
silenziosa e ordinata. In platea c’era qualche cittadino ma
soprattutto c’erano molti tecnici e tanti politici. Era faci-
le distinguerli: i politici parlavano senza le slide alle loro
spalle, per lo più a braccio, qualcuno, i più noiosi a dire
la verità, leggendo un foglietto che qualcuno aveva messo
loro tra le mani. I tecnici, invece, formavano una sorta di
ologramma con il Power Point, il corpo mischiato con le
slide, tanto che i più raffinati avevano persino scelto la
cravatta in tinta con il colore delle diapositive. Finezze.
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Giorgio Assennato è il direttore generale dell’Arpa, un
uomo canuto con l’aria da studioso. Durante il suo inter-
vento la platea ascolta in silenzio e non perde una parola.
È un professore universitario, un medico del lavoro, anzi
un “epidemiologo occupazionale” come mi disse una
volta, con la passione per la storia locale: è barese e di Bari
colleziona antiche mappe e vecchie cartoline. Giorgio
Assennato è un uomo di battaglie, nella sua vita ne ha fatte
tante: quando era al Policlinico di Bari ha combattuto
(senza troppa fortuna) con i baroni universitari, quelli che
scambiano i reparti per cosa loro, non per cosa nostra. Da
medico del lavoro è stato invece uno dei primi a occupar-
si dei dipendenti della Fibronit di Bari, la fabbrica dell’a-
mianto: decine, centinaia di operai si sono prima amma-
lati e poi sono morti. La stessa fine è toccata ai molti
inquilini delle abitazioni che confinavano con la fabbrica.
Anche grazie al lavoro e agli studi del professor Assen-
nato è stata provata la correlazione tra quelle malattie e
l’industria: oggi il sito è stato messo in sicurezza, non è più
pericoloso per nessuno, ed entro i prossimi quattro anni
diventerà un parco. Un parco vero, al posto dei capanno-
ni di amianto ci saranno le siepi, gli alberi e magari qual-
che monumento in memoria dei caduti dell’aria. “A tutti
coloro che nella loro vita sono stati colpevoli soltanto di
lavorare. O di respirare”, potrebbero scrivere sulla targa. A
pensarci bene prima o poi Taranto potrebbe diventare un
enorme monumento.
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tutte queste emissioni dannose. Oggi i dati ci segnalano la presen-
za anomala, rispetto al resto della provincia e della regione, di una
serie di malattie neoplastiche riconducibili all’inquinamento
ambientale. Ma è ancora troppo presto per tirare le somme. Per
capire a cosa andiamo incontro bisognerà ancora aspettare del
tempo. Serviranno anni per capire quanti morti, quanti ammala-
ti ha fatto questa guerra.
Giorgio Assennato, Arpa Puglia
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Sono sempre molto belle, leggere, come fossero ritoccate
con i colori a matita più che con il Photoshop. In una
pausa della conferenza, anzi in un coffee break così come da
brochure della giornata, Vittorio mi tirò per il maglione, a
momenti mi faceva precipitare il pasticcino che avevo in
mano, per portarmi sul terrazzo dell’ospedale Testa. Mi
disse che aveva voglia di fotografare le strutture portuali
dell’area industriale: “Dal lastrico si riescono a dominare
come forse in nessun altro posto di Taranto”. Incantevole,
il terrazzo dell’ospedale Testa. In realtà bello anche l’ospe-
dale, squadrato come sanno essere soltanto gli uffici pub-
blici ma comunque pulito, ben tenuto, ordinato. Rassicu-
rante. In realtà l’ospedale non è un ospedale, ristrutturato
come nuovo, la costruzione è da qualche anno disabitata
su disposizione dell’Autorità sanitaria. “Troppo vicina alle
raffinerie che rendono impossibile ogni attività, assisten-
ziale e non”, mi spiegò Vittorio come un fonogramma,
mentre salivamo le scale. In sostanza ero di fronte a un
paradosso: il luogo della cura che diventa il luogo del
rischio. Devono essere questo tipo di cortocircuiti ad azio-
nare i vulcani. A Taranto quella mattina c’era il cielo a
macchie. Nel porto era fermo un mercantile e lungo la
linea dell’orizzonte si intersecavano molte altre cose anco-
ra. “Giganti”, “Mostri” ripeteva Vittorio. A me, invece,
per uno strano gioco geometrico di prospettiva, quelle gru
e quei container in mezzo a un groviglio di ciminiere
erano sembrati quasi dei mulini a vento. Era proprio così.
Oggi ci sono le foto che mi danno ragione e poi forse quel-
l’immagine è anche qualcosa in più. Una metafora. Sarà
che ho sempre sognato di chiamarmi de Cervantes Saave-
dra. Vittorio aveva finito di fotografare, nel frattempo la
conferenza era ripresa. Al mio posto mi aspettava un
fogliettino di Legambiente, un pezzo di carta che distri-
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buivano all’ingresso e con il quale avevo giocato per tutta
la mattinata. Ma come diavolo si fanno le barchette?
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Scusi mi fa accendere
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Luca è una specie di scugnizzo con i congiuntivi al posto
giusto, un talento con il pallone e sui banchi di scuola. La
mattina stessa che ci incontrammo, Luca mi raccontò la
sua storia, quella di un tarantino doc cresciuto con due
grandi passioni: la geometria e Andrea De Florio.
Luca sosteneva che tra le due cose, in fondo, non ci fos-
sero grandi differenze. Entrambe sono composte da linee
perfette, le prime tracciate su un foglio di carta in più
dimensioni (“li sai fare i parallepipedi, tu? Io ne disegno in
continuazione”), le altre attraversano un campo di pallo-
ne. A lungo, e in più occasioni, ha provato a spiegarmi una
teoria geometrica da lui recentemente scoperta, ma ho
fatto sinceramente molta fatica a comprenderla. Più age-
vole, grazie anche a un gol contro la Juve Stabia visibile su
Youtube, comprendere la storia di Andrea De Florio, un
centravanti passato per Taranto fatto di velocità e tecnica
applicata alla serie C, uno di quelli che se il pallone non
gli arriva preferiscono andarselo a prendere a centrocam-
po, e poi lanciare il terzino per far vedere a tutta quanta la
squadra come si fa. Una delle prime cose che mi ha rac-
contato Luca, quando eravamo ancora nello studio del
medico nell’ospedale, è che lui ha un poster di De Florio
in camera e che un giorno gli piacerebbe essere come lui:
“Menare e segnare”, mi disse proprio così tracciando due
infiniti calcistici che sono una meraviglia. La seconda cosa
che Luca mi raccontò, appena conosciuti, era che lui si
trovava in ospedale non per caso. Non passava di lì né tan-
tomeno era andato a trovare un parente. Luca mi raccon-
tò che era lì perché portava nelle tasche sempre un accen-
dino. Eppure non fumava. A Luca, così come a un altro
ragazzino che poi era finito anche sui giornali, avevano
diagnosticato due anni prima un carcinoma della rinofa-
ringe. Il cancro caratteristico del fumatore incallito.
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Un bambino che vive a ridosso dell’area industriale inala in media
2 sigarette al giorno cioè 780 all’anno.
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e in quelle di acrilico, anche solo come portafortuna. Deve
esserci qualcosa di strano, in questa città. Qualcosa tipo l’in-
chiostro magico, non puoi vedere nulla finché non avvicini
al foglio bianco la luce.
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(la lunghezza delle cariche scientifiche ne determina spes-
so l’importanza), il dottor Franco Valerio, ha cercato di
trasformare le informazioni scientifiche in “conoscenze
divulgabili e facilmente comprensibili”. In sostanza
hanno provato a sciogliere gli acronimi e a raccontarci la
strana storia degli accendini di Taranto. “Uno dei proble-
mi principali di Taranto”, diceva Alessandro, “sono gli
Ipa, ossia gli Idrocarburi Policiclici Aromatici. Fra i più
pericolosi per l’uomo, perché assai cancerogeno, è il ben-
zoapirene, sostanza contenuta anche nelle sigarette. In
sostanza nell’aria di Taranto ci sono le sigarette.” Il sillo-
gismo in questo caso non è soltanto un gioco di logica.
Ha sicuramente una tendenza alla semplificazione, ma fa
tossire lo stesso. Luca pare tossisca anche in campo, di
questo l’allenatore non è affatto contento. “Per fare la
proporzione”, raccontava Marescotti sempre con lo stesso
tono, come stesse spiegando le guerre puniche, “abbiamo
valutato la quantità di aria respirata da ciascuna persona,
a seconda dell’attività che svolge e a seconda dell’età che
ha, e poi abbiamo quantificato il benzoapirene che c’è in
una sigaretta. A questo punto abbiamo individuato la
quantità di benzoapirene presente giornalmente in un
metro cubo d’aria in alcuni quartieri di Taranto e abbia-
mo calcolato i metri cubi respirati giornalmente da un
bambino, a seconda del suo tipico stile di vita, tenendo
presente le ore di sonno, quelle di gioco, più una serie di
altri fattori. Una volta ottenuto il totale dei nanogrammi
di benzoapirene inalati in un giorno, abbiamo diviso tale
valore per il benzoapirene mediamente contenuto nel
fumo di una sigaretta, lo stesso fumo che inala il fumato-
re. In questo modo è stato ottenuto l’equivalente in siga-
rette.” Io non ci avevo capito niente. Per questo, come mi
ha insegnato la maestra Annunziata Pisa alle scuole ele-
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mentari, ogni volta che penso alle parole di Alessandro
ripeto sempre la pappardella, a bassa voce per non sem-
brare troppo cretino: hanno calcolato la quantità di vele-
no che c’è nell’aria di Taranto, hanno calcolato quanto
veleno misto ad aria, in media, uno respira in una gior-
nata e poi alla fine lo hanno paragonato al veleno conte-
nuto nelle sigarette. Dovrebbe essere più o meno così. Più
o meno.
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ridosso della zona industriale, più esposti ai veleni dell’a-
ria. Come hanno dimostrato alcune rilevazioni dell’epoca
tenute secretate fino a settembre del 2008, in quei giorni
nell’aria di Taranto erano presenti quasi 67 nanogrammi
per metro cubo di diossina. “Significa che quel giorno
tutti, bambini compresi, hanno fumato 128 sigarette.” Sei
pacchetti e spiccioli in tre giorni, due al giorno.
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stria siderurgica dagli operai è considerato una sorta di
girone privilegiato dell’inferno. Ogni tanto, come fosse un
qualsiasi rubinetto di casa, una delle cockerie perde. Non
acqua, ma veleno. Per questo dai tecnici, dai giudici e dagli
ambientalisti è considerata una delle cause principi del-
l’inquinamento atmosferico. “Non a caso”, mi aveva spie-
gato sempre Marescotti, “l’esposizione al benzoapirene da
parte di un lavoratore della cokeria è particolarmente alta.
Oggi va molto meglio, perché la tecnologia si sta evolven-
do. Ma quando l’Ilva era ancora Italsider gli operai della
cokeria hanno inalato tra le 6500 alle 65.000 sigarette.”
Luca della cokeria sa poco e non sa niente. Sa tutto inve-
ce della sua malattia, ormai sconfitta. Gliel’hanno diagno-
sticata che aveva dieci anni. Gli hanno detto subito che
sarebbe stata lunga ma sicuramente ce l’avrebbe fatta.
Luca non ha mai avuto alcun dubbio: “Io ho il destino
segnato, tracciato, per me non ci sono grandi scelte: o fac-
cio il matematico e divento famoso con il mio teorema
oppure faccio De Florio. E sono cazzi”.
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Quindici passi
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci,
undici, dodici, tredici, quattordici, quindici. Uno, due,
tre… non avrei mai smesso di contare. Di contare e di pas-
seggiare, a passi piccoli un po’ come fanno i vecchi nei
supermercati non per colpa degli scaffali pieni zeppi di
roba ma dell’Alzheimer. Piccoli passi come quelli dei ten-
nisti quando corrono la linea di fondo campo, in quell’i-
stante prima di colpire una pallina, in quel movimento
che è una fotografia. Uno, due, tre, quattro, un conto
minuscolo e veloce fino a quindici. È tutta qui che si è
svolta la vita di un uomo, è in questo minuscolo spazio
che il vulcano ha mirato, ha colpito e ha affondato. Quin-
dici passi sono la distanza dalle prime case del quartiere a
ridosso dell’Ilva, quindici passi dura il tragitto tra l’Ilva e
le cappelle del cimitero di San Brunone.
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spalle, sono vigliacchi e infami, anche per questo fanno
più male. Eravamo al secondo coffe break della mattinata
e mi frullava ancora per la mente il doppio passo che mi
aveva raccontato Luca, l’ala-fumatore-geometra, il ragazzi-
no con le scarpe Prealpi. Mimavo con i piedi come fossi
un ballerino di tip tap, probabilmente sorridevo quando
ho notato quella ragazza che si avvicinava a Vittorio e al
professor Assennato. Si chiamava Marina, aveva i capelli
ricci, gonfi, le orbite scavate. Parlò così, per cinque minu-
ti senza un sospiro o un’interruzione sola. Un monologo
da teatro, lacerante. Lo registrai nel cuore.
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niente a che fare con l’Ilva né tantomeno con le aziende dell’in-
dotto. Io non sono una figlia dell’acciaio e non sono nemmeno una
figlia della fabbrica. Mia madre è segretaria in una scuola ele-
mentare, mio padre lavora come tuttofare nello studio di un notaio
qui a Taranto. Sono una borghese di secondo livello, nella vita non
mi è mai mancato niente né grazie né per colpa dell’Ilva o delle
altre industrie. Da cinque anni nella mia vita è mancata soltanto
una cosa. Mio zio Vincenzo. Ed è per lui che ora voi state spen-
dendo il vostro tempo. Mio zio Vincenzo è stato mio padre, anzi è
stato più di mio padre. È stato mio padre e mia madre messi insie-
me, anche se ripeto io li ho avuti tutte e due, e sono felicissima, ci
mancherebbe. Mio zio Vincenzo è stato mio fratello e mia sorella,
è stato mio zio chiaramente, non è mai stato mio amico perché la
differenza di età era troppa. Mio zio Vincenzo era nato nel 1939
e non si è mai sposato. Non ha mai avuto figli e che io sapessi mai
nemmeno una fidanzata. In realtà non l’ho mai chiesto né a lui né
ai miei genitori. Per una questione di pudore e forse di apparte-
nenza, perché zio Vincenzo era il mio. Punta e basta. Da quando
io sono nata, lui ha vissuto con noi. Appartamento accanto, stesso
pianerottolo. Tutto quello che io sono, non me ne vogliano i miei
genitori, lo devo a lui. Mi spiego meglio: tutto quello che ho impa-
rato, dalle targhe delle macchine a come si fanno i lacci alle scar-
pe, che in realtà non sono ancora capace, è perché un giorno zio
Vincenzo si è messo al tavolino e me l’ha spiegato. Io non gli ho mai
detto che gli volevo bene, e sono una stronza. Lui me l’ha detto più
volte, un sacco di volte. Zio Vincenzo lavorava da sempre allo sta-
bilimento dell’Ilva, non mi chiedete in quale reparto, in quale
struttura, di cosa si occupasse perché proprio non me lo ricordo. So
soltanto che era un operaio semplice e guadagnava un milione e
mezzo al mese. La casa era di proprietà, per lui spendeva poco e
niente. Il resto era tutto quanto per me. L’unica cosa che so dell’Il-
va è che in quello stabilimento non c’è niente di piccolo. Zio Vin-
cenzo lo ripeteva sempre: “Lì dentro è tutto enorme, un cavo elet-
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trico, una vite, tutto è grandissimo”. Dell’Ilva io so soltanto questo.
Niente di più. Anzi so anche che non ci lavorano le donne, o forse
non è vero, ma questa è l’idea che mi sono fatto sin da quando era
bambina perché zio aveva soltanto colleghi maschi. Solo uomini.
D’accordo, questo non importa. Così come voi sicuramente vi sta-
rete chiedendo il perché io vi stia raccontando queste cose, mi avre-
te presa per matta ma vi posso assicurare che non sono matta. O
almeno così credo. Vi voglio raccontare questa cosa semplicemente
per spiegarvi perché parlare, lavorare, battere il caso Taranto è
importante. Non per i giornali, ma per la vita e le storie della
gente. Io per colpa di Taranto sono arrabbiata con la vita: io mi
sono appena sposata, non ve l’ho detto, e mio zio Vincenzo non è
potuto essere il testimone delle mie nozze. E questo è ingiusto. Da
quando sono nata, uno dei due testimoni doveva essere zio Vin-
cenzo, anzi, mi sono sempre scervellata per immaginare come pote-
vo farmi accompagnare da zio e da mio padre all’altare. Uno da
una parte e uno dall’altro. Come avrete capito, zio Vincenzo è
morto, nemmeno due mesi dopo essere andato in pensione. Aveva
fatto una festa per il suo addio, a casa perché lui è una persona di-
screta. Ha invitato i suoi colleghi di lavoro, qualche amico del Cral
dove lui andava a giocare a tennis, io anche gioco a tennis e sono
stata da quando avevo sette anni, più forte di lui, ma questo non
c’entra dicevamo della festa e lui era contento e io anche, perché ero
diventata grande e lui vecchio. Toccava a me prendermi cura di
lui. Zio Vincenzo, che io ricordassi, non era mai stato male nella
sua vita, mai un raffreddore, mai un’influenza. Io invece sì che ero
stata male, soffrivo di tonsilliti frequenti e allora il medico mi pre-
scriveva le iniezioni di antibiotico per fare abbassare la febbre, e
allora le iniezioni le faceva zio Vincenzo. Lui e soltanto lui. Se-
nonché dopo quella festa cominciò a lamentarsi in silenzio, perché
era diventato fotofobico, mai che qualcuno potesse accendere una
luce su di lui. Fuggiva. Evidentemente però il fastidio doveva esse-
re serio perché per tre giorni consecutivi continuava a parlarmi di
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questo mal di pancia, di un senso di nausea perenne, un po’ di feb-
bre. Insomma un’influenza ma per uno che nella vita è stato sem-
pre bene, insomma potete immaginare. Io non ero preoccupata. In
realtà ci fu soltanto un piccolo allarme, una mattina mi chiese di
andargli a comprare giù il giornale, mio zio leggeva Il Tempo pur
non essendo un democristiano ma nemmeno un comunista, gli
dicevo sempre che era un cristiano sociale e lui abbozzava per
accontentarmi, ma in realtà glielo dicevo soltanto perché mi piace-
va il nome del vecchio leader, Donat Cattin. Sì, insomma, quel
giorno mi chiese di scendere al giornalaio e non era mai successo in
20 anni, così pensai che forse qualcosa di serio c’era. Lui se ne
accorse, ero spaventata, tanto che per tutta la giornata non fece
altro che chiedermi cosa avessi, mi propose persino una partita di
Burraco che non facevamo da quando io avevo 12 anni: giochi
interrotti per manifesta superiorità, la mia, anche perché contavo
puntualmente a doppio le pinelle. Secondo me non se n’era mai
accorto, non era esattamente un furbacchione. Dicevo, tanto si
accorse che io… insomma… che il giorno dopo scese lui al giorna-
laio. Non so perché però sentivo qualcosa nello stomaco, non so se
vi è capitato mai, non era un presentimento, no, era forse la paura
che faceva a pugni con la razionalità, io non lo so che cos’era ma
qualcosa c’era. Era il 23 dicembre e decisi, da sola, che doveva fare
degli esami. Un’ecografia, una Tac, qualcosa. Per fortuna ho un
amico che lavora all’ospedale nord, quello vicino al Tamburi: un
tecnico, era di turno il 24 pomeriggio. Prendemmo un appunta-
mento, alle 17 se non sbaglio. Uscimmo senza dire niente a
mamma mentre gli amici che solitamente vengono a casa per le
feste erano già arrivati a casa. Erano giorni di panzerotti. Quel
giorno guidai io ed era una sorpresa: zio non voleva, io sono una
donna. La mia Yaris, un suo regalo, camminava da sola, quel viag-
gio, chissà perché, è stato il più strano della mia vita. Era come se
sapessi tutto, era come se partendo da casa con un’influenza, forse
con delle coliche intestinali, in realtà fossi completamente coscien-
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te di quello che da lì a poco mi avrebbero detto. La faccia di Luca,
l’amico tecnico della radiologia: “È un cancro al polmone. Pur-
troppo però ci sono metastasi ovunque, non ha più il fegato”. Mio
zio non aveva mai fumato nella sua vita, beveva soltanto l’Amaro
Lucano. Non si è suicidato, qualcuno l’ha ucciso. Zio Vincenzo è
morto nemmeno tre settimane dopo. Non ha sofferto. Lui no. Non
ero mai andata a trovarlo al cimitero, è una strana cosa la morte.
L’ho fatto qualche giorno fa, quando mi hanno detto di Rimini.
Non so perché la Yaris si è fermata da sola. Ho pensato che quella
era la più grande ingiustizia, che chiunque sia stato non ha fatto
del male a lui, ma a me. Che sono andata all’altare accompagna-
ta a un braccio solo, che mi sono laureata senza di lui in mezzo
alla gente, che i miei figli non lo sapranno mai chi era, come par-
lava, come stava zitto, come metteva prima i tris e non le scale per
terra, al Burraco. Io spero che qualcuno, non so se voi, se la gente,
i politici, io non lo so chi faccia tutto il possibile perché questa città
non uccida più le centinaia di zio Vincenzo, non privi più la sua
gente non di supereroi ma di normali storie d’amore. Io voglio e
spero che nessuno più debba vivere da casa alla fabbrica e dalla
fabbrica al cimitero, tanto è tutto vicino, tutto nel quartiere. Nes-
suno deve più vivere come zio Vincenzo la sua vita in quindici
passi. Gli unici che possono fare qualcosa siete voi. Avete la forza e
il coraggio. Io invece sono codarda, ho paura che possa succedere di
nuovo e per questo me ne vado.
Scusate tanto se vi ho annoiato, buon lavoro.
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la rinofaringe di Luca. Non erano gli acronimi e nemme-
no tutti quei numeri. Non stavo capendo nulla di tutta
quanta quella roba. E quando non capisco, comincio ad
avere paura.
C’è da avere paura del Vulcano?
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Sognando nuvole bianche
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per buon costume. Non erano in rappresentanza dei
buoni propositi e nemmeno per appagare l’esibizionismo
delle loro maestre. Si trovavano al Testa per fare sentire la
loro voce, mi spiegò educatamente Matteo della quarta A,
indicandomi un pannello lì in fondo dove sono appesi una
serie di disegni. Poi mi mise un libro bianco per le mani,
“Puoi tenerlo, è gratis”. Il libro si chiama Sognando nuvole
bianche, il sottotitolo è “I bambini di Taranto contro l’in-
quinamento della città”. È una magnifica dimostrazione
di orrore e speranza. È un melting pot di colori e parole,
metafore e “ha” senza acca. È il Vulcano. Con il passare del
tempo, alcune maestre hanno notato che i bambini taran-
tini avevano un tratto comune nei loro disegni. Facevano
un cielo sempre pieno di nuvole, e queste nuvole erano
sempre nere. Da questa storia è nata la mostra e il libro che
raccoglie alcuni di questi disegni e qualche testimonianza.
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colorato i bambini di Taranto.
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medico che da quindici anni vive, lavora e lotta a Taranto.
Lavora all’ultimo piano dell’ospedale, vista ciminiere, in
una stanza grande come una cella, incasinata come le scri-
vanie dei giornalisti. Anche lui era alla conferenza, in
fondo a un angolo. Ascoltava, a volte sorrideva, sarcastico.
Patrizio Mazza lo conoscevo da un po’. La prima volta l’ho
incontrato nella sua stanza, in quel settimo piano, e anche
quella era una giornata di sole. L’appuntamento era alle
15,15. Per colpa di un cameriere troppo celere, alle 15 ero
già lì. La sua stanza era ancora chiusa, il corridoio di fron-
te – inibito al pubblico come da cartello ben esposto –
aveva la porta socchiusa. Mi affacciai. Nella prima stanza
di sinistra c’era un signore girato di spalle, feci attenzione
perché non mi vedesse. Non aveva i capelli, portava un
camice bianco e la voce era sottile, come effeminata, otti-
ma dizione. Aveva vetrini in mano e vetrini sulla scrivania,
ogni tre minuti ripeteva pedissequamente la stessa opera-
zione, così preciso da poter rimetterci l’orologio: afferrava
il vetrino con la punta delle dita ma non prestai attenzio-
ne se portasse i guanti. Alzava poi il vetrino verso l’alto,
mettendolo in controluce, come fosse una radiografia.
Rimaneva in quella posa plastica per qualche secondo,
osservando il vetro con l’occhio sinistro chiuso quasi
volesse bloccare l’immagine e scattare in quel momento
una bella Polaroid con il suo cervello. Dopodiché prende-
va quel vetrino e lo posizionava sotto la lente del micro-
scopio. Sollevava il sedere dalla sedia e saliva sulla macchi-
na, come per possederla. Ne vidi una ventina di quelle
operazioni e al massimo rimase al microscopio per trenta
secondi. Dopodiché prendeva il registratore che teneva
poggiato sulla scrivania e raccontava quello che vedeva:
“Situazione cellulare anomala”, “anomalia destra” e cose
del genere. Per quanto mi riguardava avrebbe potuto in
33
quel momento ordinare il sushi, il tono era come quello
che si usa al supermercato per un etto di crudo nazionale,
la sensazione però è che in quelle frasi apparentemente
senza senso si nascondessero in realtà delle condanne a
morte. Dall’altra parte del corridoio sentii l’inconfondibi-
le accento bolognese di Mazza. Scappai verso la voce. Mai
avrei dato un volto a quel registratore, mai avrei conosciu-
to la faccia del dottor Vetrino.
34
hanno aperto tre ematologie, siamo praticamente un
reparto cittadino, io cerco di tenere i pazienti il minor
tempo possibile qui in ospedale. Abbiamo venti posti
letto, e sono tutti quanti pieni. Prima di lei – mi disse un
giorno – su quella sedia era seduto un farmacista. Un
signore di 40 anni. Aveva la leucemia e probabilmente gli
restavano pochi mesi di vita. Non fumava, non beveva, e
nonostante il mestiere, nella sua vita non era mai stato
esposto a fonti particolarmente pericolose o cancerogene.
Era una persona sana e invece si è ammalato per colpa di
qualcosa, forse per colpa di qualcuno, e come lui centi-
naia, migliaia di persone di questo posto. Di chi è la colpa
dovrebbero dircelo i giudici, ma fino a oggi mai nessuna
sentenza, nessuna indagine ha accusato qualcuno delle
malattie, della disperazione delle persone. Come uscire da
questa merda dovrebbero dircelo i politici che hanno il
compito di mediare tra le varie posizioni e poi decidere,
prendere una posizione, scegliere una strada. Io faccio
solamente il medico. Io devo curare gli ammalati.”
Caro presidente, noi vorremmo che la nostra città sia più pulita,
perché è così sporca e il cielo è pieno di fumi: infatti Dio vorrebbe
aiutarci ma non può perché se si affaccia sta male anche lui.
Luam
35
ragazza, cazzo quella ragazza!, l’avevo dimenticata. Quel
pomeriggio entrò da Mazza subito dopo di me e mi sorri-
se forse per compassione, così da ricambiare le attenzioni
silenziose che le avevo prestato prima in sala d’aspetto.
L’avevo fissata ai limiti della molestia, per fortuna che il
mio turno non arrivò poi così tardi. Non era bella, era
diversamente bella. Spigolosa nel viso come un uomo,
truccata come una parrucchiera, era fasciata in un jeans
nero attillatissimo, stretto ancora di più alle caviglie da
uno scarponcino dal tacco alto, con una maglietta verde
militare che sfiorava morbida una cinta con le borchie,
lasciandole la pancia scoperta. Chi era quella ragazza? Che
lavoro faceva? Quanti anni aveva? Lì in sala, per inganna-
re l’attesa ascoltava musica con un telefonino. Aveva le
unghie delle mani laccate di fucsia, lo smalto mangiato
alle punte. Un orecchino soltanto che scendeva lungo
sulla spalla sinistra, i capelli neri, pochi e sottili. Feci sci-
volare per terra la penna che avevo in tasca, le diedi un
calcio, mi serviva una scusa per avvicinarmi a lei. Mi inte-
ressava raccogliere più informazioni possibili nel minor
tempo possibile, volevo sentire l’odore, guardarle meglio
la faccia per capire cosa nascondesse quel trucco. Volevo
scoprire cosa stesse ascoltando in quelle cuffie. Non sentii
quasi nulla. Ma erano i Depeche Mode. A pain that I’m
used to. Cantai il ritornello, scendendo giù nell’ascensore.
Di certo in quel momento anche lei stava facendo lo stes-
so, seduta sulla sedia dello studio di Mazza, un referto
medico in mano e i globuli bianchi come una pistola,
puntati alla testa.
36
mio padre mi risponde, caro figlio sono ricche di una sostanza dan-
nosa e velenosa… Io chiedo a mio padre come si chiama questa
sostanza e lui mi risponde figlio non è il caso che io ti risponda è
cosa da adulti. Ed io adesso mi chiedo come mai questi adulti non
sono ancora riusciti a risolvere questo problema? E come mai siamo
stati chiamati noi bambini che di queste cose non dovremmo saper-
ne niente?
Francesco
37
Per finire questa lettera vorrei ricordarle che se non provvediamo
subito moriranno molti bambini, piante e animali
Valeria Saponaro
38
I bambini mai nati
39
semplici, possibilmente evitando le sovrastrutture solite
del linguaggio degli adulti, perché il cielo di Taranto è
spesso grigio. E quali sono i rischi per loro del rischio di
quel cielo.” Pino Merico mi sembrò subito un tipo parti-
colare. Ne ebbi conferma in quella chiacchierata breve,
cinque minuti nemmeno. Era un medico, ma parlava più
come un militante. Si affidava alla scienza, ma credeva
anche alla coscienza civile. Ecco, la coscienza civile: attor-
no a tutti gli scienziati o agli addetti ai lavori, la stanza era
piena di gente qualunque, di persone che per stare lì ave-
vano magari preso un giorno di ferie al lavoro, che aveva-
no rinviato impegni, perso appuntamenti, forse anche
rinunciato a del denaro. Era “la società civile”, che non è
un acronimo ma un luogo comune. Eppure quel luogo
comune era l’unico strumento per cambiare le cose sul
Vulcano, mi assicurò il dottor Merico. “La gente comin-
cia ad avere paura perché sa. La conoscenza permette di
fare rivoluzioni, è l’unica cosa in grado di far cambiare
davvero idea alle persone, di portare loro a fare rinunce.
La gente di Taranto comincia a conoscere e secondo me
qualcosa può cambiare.”
40
so, in realtà, lo fanno anche prima di nascere. Perché a
Taranto i bambini disegnano. Muoiono. Ma spesso non
nascono neanche. Sono tante le malformazioni fetali
riscontrate, tante da spingere donne anche giovanissime
ad abortire. Tante da far gridare qualcuno dalla paura.
“La verità”, mi spiegò però Merico, “è che in questo la
letteratura scientifica è ancora debole, debolissima. Non
possiamo dire nemmeno quante sono esattamente le
malformazioni fetali. Possiamo dire sicuramente, però,
che sono una delle conseguenze sanitarie provocate dal-
l’inalazione delle diossine.” I bambini muoiono a Taran-
to. L’associazione di Pino Merico, “Bambini contro l’in-
quinamento”, è dedicata a tre pazienti, morti in anni ed
età diverse a Taranto. Questa è la storia del più piccolo di
loro, aveva 8 mesi: per caso, per puro caso, i genitori ave-
vano cominciato a raccontarla sul maxi schermo monta-
to in fondo alla sala. Erano due signori distinti, parlava-
no un italiano perfetto, avevano soltanto la faccia scava-
ta. In sala trasmettevano la puntata di Rosso Malpelo, un
programma andato in onda su La7 a cura di Alessandro
Sortino, un ragazzone dai capelli rossi, un bravissimo
giornalista noto per le sue inchieste nella trasmissione le
Iene.
41
esteso e così attivo. Sono stati tre mesi di sofferenze e chemio, si è
tentato di tutto per poterlo salvare.
Finalmente, poi, è volato in cielo e ha smesso di soffrire.
Mamma e papà
42
Agnello di dio (ssina)
43
c’entrava niente, però. A dettare i suoi spostamenti era un
giovane giornalista di un rotocalco Rai che aveva preso
evidentemente quella mattinata di lavoro come una parti-
ta di calcio a sette, lui difensore e Angelo centravanti di
furbizia, alla Inzaghi. Non lo lasciava un attimo, mai una
di-strazione, sempre lì appiccicato, ad aspettare, attendere
la debolezza. “Come va?”, attaccava, e poi, “certo che que-
sto è un bel posto”, (certo, a parte il fumo nero e quelle
fiammate che escono lì in fondo dalle fabbriche), “Ma è
buono il formaggio che producete?”, (sa un po’ di diossi-
na ma è buonissimo), ancora: “Certo che si vive bene qui
al Sud”, (già, una meraviglia). Dunque, l’affondo, teleca-
mera accesa, microfono e piumino posizionati a rigore di
inquadratura: “Signor Angelo, cosa prova in questo
momento? Lei ha lavorato una vita per vedere uccise le sue
bestie, ci racconti e non trattenga le sue emozioni”. Pian-
gi Angelo, gli voleva dire la merda. Piangi in favore di tele-
camera perché così mi sale lo share. Angelo Fornaro, “lo
stronzo che ha risolto tutti i problemi di Taranto”, quel
giorno pianse. Ma non per le telecamere. Dimenticavo: di
quel giorno non dimenticherò mai una cosa soltanto. La
puzza cruda del sangue.
44
aiutati da due pastori albanesi, gestisce l’azienda agricola di
famiglia. Quella masseria è così da cento anni. Un giorno,
tanti anni fa, gli hanno costruito davanti l’azienda siderur-
gica più grande d’Europa. L’area agricola è diventata zona
industriale, hanno acceso gli altiforni e il cielo è diventato
nero. Nonostante tutto, però, Fornaro e le sue pecore sono
rimasti lì. Lì sono cresciuti i suoi figli, lì sono nati i suoi
nipoti. Fino a quando è arrivato un giorno di settembre ed
è cambiato tutto. Sasha, il pastore albanese che non apre
bocca nemmeno se glielo chiedi per favore, quel giorno si
era spinto un po’ oltre i normali confini del pascolo. Aveva
preso una strada diversa ed era finito sotto il Vulcano. Pro-
babilmente, anzi sicuramente, non era la prima volta che
accadeva. Quel giorno però successe qualcosa. Da quelle
parti passava – ardita sarebbe la ricostruzione di un appo-
stamento voluto – un signore con una spiccata coscienza
ambientalista e un telefonino dotato di una buona mac-
china fotografica. Non era Vittorio. Immortalò quell’istan-
te, le pecore e le ciminiere, il fumo e la lana, il bianco e il
grigio forse semplicemente per raccontare e raccontarsi un
pezzo della sua città. Una volta trasferita sul computer
quella fotografia, una volta vista in grande quella immagi-
ne, salì però una domanda: “Ma non è che in questa foto
si nasconde qualcosa di pericoloso? Questi sono animali da
allevamento: vivono per produrre latte, per essere macella-
ti e per essere mangiati. Il latte di queste pecore, il formag-
gio, la loro carne non saranno mica contaminati da qual-
che veleno?”. La domanda, apparentemente catastrofista,
era comunque legittima, forse doverosa. È per questo che il
fotografo-ambientalista ha sentito il dovere di girarla alla
redazione di un giornale locale, Taranto Sera, la bibbia della
cronaca cittadina un piccolo quotidiano fatto di notizie,
fatti e foto segnaletiche di spacciatori, rapinatori e aspiran-
45
ti killer. Un giornale tanto arrembante da potersi permet-
tere ai tempi di Internet una distribuzione con gli strilloni,
un giornale che dice la verità e per questo non ha paura dei
colossi dell’industria. A Taranto Sera lavorano un gruppo di
giornalisti, alcuni molto bravi, tutti agguerriti. Tra loro
spicca Mario Diliberto, un mio amico, un giornalista raro
perché raro è un giornalista senza enfasi. Mario quando
parla dell’Ilva ha in mente le parole di suo padre che ha
passato una vita nell’acciaieria ma non si fa mai prendere
dall’enfasi né dalla retorica. Racconta secco, quasi cinico. È
un cecchino infallibile, implacabile davanti a una notizia. E
le fotografie di quelle pecore al pascolo per lui, e per tutti i
suoi colleghi, erano il migliore degli assist: le foto arrivaro-
no in tarda mattinata, l’edizione che va per strada alle 17
aveva in prima pagina le sequenze del bestiame sotto le
ciminiere e un pezzo d’accompagnamento che più di
denuncia suonava di paura. “C’è da stare tranquilli?”, si
chiedeva Taranto Sera. Letto il giornale si pose la stessa
domanda anche l’allora procuratore aggiunto del tribunale
di Taranto, Franco Sebastio, oggi capo della Procura, che
sulla base di quell’articolo aprì un fascicolo. Quella che si
chiama un’indagine conoscitiva. Angelo Fornaro probabil-
mente non l’ha mai saputo, ma è esattamente in quel
momento che è cominciato a essere “quello stronzo che con
le sue pecore ha risolto tutti i problemi di Taranto”.
46
Ci volle poco tempo per le analisi. Abbastanza però perché
la gente si fosse dimenticata di quella strana storia delle
pecore sotto le ciminiere. Non se ne ricordava quasi nes-
suno quando arrivò, nelle redazioni dei giornali, un pome-
riggio, era il 20 marzo del 2008, una telefonata del pro-
fessor Giorgio Assennato, lo scienziato, il direttore del-
l’Arpa. Disse che sul suo tavolo erano arrivati i risultati del
latte e del formaggio prelevati in alcuni degli allevamenti
attorno alla zona industriale di Taranto, compreso quello
dei Fornaro. E che le analisi parlavano chiaro: erano stati
riscontrati valori anche dieci volte maggiori rispetto a
quelli consentiti dalla legge di diossina e Pcb, ancora una
volta il solito acronimo. Significava che quella roba era
portatrice sana di cancro. Per ammalarsi non serviva sol-
tanto respirare. Bastava anche mangiare. Questo significa-
va che il “germe” era entrato nella catena alimentare e
dunque non soltanto l’aria, ma anche il cibo, il latte che
sarebbe potuto finire sui banchi frigo non soltanto di
Taranto e provincia, ma anche di tutto il mezzogiorno e
chissà, di tutta Italia.
47
ticare le proprie miserie, i guai personali. Come è succes-
so per l’influenza aviaria, così accadde anche il 21 marzo e
come al solito a pagare la psicosi furono i più deboli: i pro-
prietari dei caseifici della zona videro crollare le vendite.
Persino le multinazionali del latte che hanno dei depositi
vicino Taranto, per qualche giorno furono costretti a con-
trollare il prodotto goccia per goccia. La Regione e la Asl
corsero ai ripari, avviarono in tutta fretta i protocolli d’ur-
genza, applicarono immediatamente tavoli tecnici e map-
pature, organizzarono riunioni su riunioni, misero insie-
me esperti su esperti, prepararono relazioni su relazioni.
Ogni emergenza ha i suoi riti mediatici, anche quella della
diossina nel latte di Taranto ebbe la sua. Complessiva-
mente furono controllati circa 200 allevamenti, fu un
inferno per funzionari e veterinari, batterono a tappeto
stalle e alberi di ulivo perché qualcuno fece notare che la
diossina poteva esserci anche nei grassi degli oli, e quindi
via con le verifiche. Insomma fu un lavoraccio. Non durò
a lungo. Due giorni, e dell’emergenza diossina non gliene
fregò più niente a nessuno. Il caseificio riprese a vendere,
la multinazionale a imbottigliare, “i rischi sulla tavola
degli italiani” dei quali parlavano tutti i giornali, in quei
giorni scomparvero e a occuparsi della vicenda rimasero i
soliti ambientalisti volenterosi, qualche sito Internet e poi
i tecnici, questi ultimi per conto dei vari enti. Della vicen-
da fu però costretto a occuparsi il signor Angelo Fornaro,
suo malgrado.
48
Il 7 aprile, infatti, l’ufficiale della Asl bussò alla porta
della sua masseria e a quella di altre quattro nella zona per
notificare loro una carta giudiziaria. Non era una multa e
nemmeno un avviso di garanzia. Era un divieto. Un divie-
to di pascolo. Da quel momento in poi Sasha non avreb-
be più potuto portare a spasso il bestiame, niente più
pecore, niente più passeggiate sotto i camini delle fabbri-
che. Nella carta c’era scritto infatti che non si poteva più
pascolare a otto chilometri da Statte, un piccolo centro
alle porte di Taranto, la città più vicina agli allevamenti:
complessivamente erano inibiti centosessanta ettari di
campagna, compresi tra la strada provinciale 48 e l’area
industriale. Non era però finito. Dietro quel foglio ce
n’era un altro e poi un altro ancora. A firmarlo era la Asl
di Taranto e, se possibile, era ancora peggio. C’era scritto
in un incomprensibile italiano, burocratese, che cento
anni e più di storia di quella masseria erano stati cancel-
lati. E che tutte le pecore e gli agnellini della tenuta For-
naro erano in fermo sanitario. Significa cioè che non
avrebbero potuto e dovuto né produrre latte né men che
mai essere destinate alla macellazione. Non c’era scritto
ma Enzo Fornaro lo capì immediatamente: quella carta
era una condanna a morte. Qualcuno e qualcosa aveva
avvelenato i suoi animali. Le bestie erano tutte infette,
dentro la loro carne era nascosta la diossina e i soliti Pcb,
nei muscoli covavano tumori da esportazione pronti a
finire sulle tavole dei tarantini, dei pugliesi, degli italiani.
Le capre erano untrici. Il Vulcano, la bestia degli acroni-
mi, non aveva risparmiato nemmeno gli agnelli. Si era
detto fosse democratico questo Vulcano, in realtà sembra
un bastardo.
49
Oggi l’abbattimento delle pecore contaminate.
la Repubblica, 10 dicembre 2008
50
scritto in uno e poi qualcosa del genere. Angelo mi confi-
dò che nemmeno li aveva letti quei cartelli, “Cos’è che
vogliono?”.
La procedura, come da protocollo burocratico, preve-
deva che in masseria arrivassero dei camion inviati dalla
ditta che gestisce il mattatoio di Conversano, la società che
si era aggiudicata la gara per l’abbattimento dei capi di
bestiame bandita dalla Regione. I camion avrebbero dovu-
to caricare le bestie per poi trasportarle nel centro di
macellazione. La procedura era assai complessa: l’azienda
vincitrice dell’appalto doveva assicurare che la carne infet-
ta mai e poi mai sarebbe stata messa in commercio e che
le carcasse degli animali sarebbero state poi smaltite in di-
scarica con le procedure previste dalla legge. Trattate cioè
come rifiuti speciali pericolosi. La procedura prevedeva
poi al carico delle bestie la presenza dei veterinari della Asl
e dei proprietari degli animali per verificare che tutto fosse
fatto in regola, che i conteggi fossero giusti in modo tale
da garantirsi per lo meno i 133,3 euro lordi di rimborso.
Nel protocollo i lampeggianti però non erano previsti.
Eppure quella mattina c’erano e per i Fornaro furono
troppi. Prima dei camion nella masseria arrivarono forze
di polizia in tenuta da sommossa. Erano state mandate
dalla Questura per tenere a bada possibili manifestazioni
di forza di associazioni animaliste che nei giorni preceden-
ti sui giornali avevano denunciato l’“inutile strage” e altri
annunci di questo genere. Di attivisti nello spiazzo ce n’e-
rano tre, con i loro striscioni. Non erano di più. C’erano
invece una cinquantina di giornalisti, fotografi di quoti-
diani, troupe di programmi di approfondimento e pure
quelli di Uno Mattina. Le camionette, i lampeggianti forse
erano stati mandati anche per quello. Angelo però non
capì e allora si arrabbiò, disse che lo stavano trattando da
51
delinquente lui che era un galantuomo, ricordò “che io a
voi vi ho sempre trattato come ospiti di lusso”, il commis-
sario qualche giorno prima per esempio aveva assaggiato
durante un sopralluogo una fetta di formaggio. Angelo
disse che non era arrivato a 70 anni di vita di lavoratore
per vedersi trattare come un delinquente. Insomma disse
che non era giusto.
E poi si mise a piangere.
52
fermavano sotto un porticato e poi a una a una salivano
sul camion rosso che intanto aveva parcheggiato accanto al
cancello d’ingresso. C’era come un ordine funebre, un
rituale da campo di concentramento in quelle linee trac-
ciate dal gregge e in quegli ordini impartiti in albanese.
Eppure quelli non erano uomini, in fila c’erano bestie
nate con il destino già scritto: dovevano finire in un
macello, dovevano essere ammazzate e poi mangiate. Non
sono mai stato un animalista, ho paura dei cani, adoro la
carne, eppure in quella fila puzzolente di pecore lessi per
la prima volta chiaramente il senso del vocabolo “tristez-
za”, avvertii netta la sensazione dell’ingiustizia. Perché
Angelo doveva assistere a tutto questo? Lui assisteva e a
favore di telecamere gli venne un’espressione sarcastica,
come se quel sarcasmo fosse un gradino oltre il dolore
personale.
53
amici che avrebbero dovuto raccontare la giornata con le
immagini in un documentario per il sito di Repubblica – il
camion fino a Conversano. Vedemmo il primo agnellino
scendere e uno degli operai prenderlo, tirarlo per le due
zampe e, come un gioco, farlo camminare per qualche
metro in modo tale che gli altri animali scendessero senza
troppi problemi dal camion. Scesero. Dall’alto comincia-
rono a girare gli uncini. Ce ne andammo. Erano le 12.10
del mattino quando il telefono squillò per la prima volta.
54
Il lampadario e le scope
55
talia, probabilmente anche d’Europa. Prendiamo per
esempio i famosi Ipa, gli Idrocarburi policiclici aromatici.
Nel 2006, in tutta Italia, le industrie hanno emesso nell’a-
ria 33.707 chilogrammi di Ipa. Soltanto a Taranto l’Ilva ne
ha prodotte 32.240, cioè il 96%. Nell’acqua l’azienda
siderurgica ha scaricato invece 3241 chili di Ipa, contro i
3562 italiani. Sono il 91%. La questione non cambia se si
analizzano le diossine e i furani: in Italia sono stati caccia-
ti 95,2 grammi in un anno. A Taranto 91,5, il 96%.
Oppure il cianuro, che solo a ripeterlo mi fa paura: il 72
% di quelli scaricati nelle acque italiane, arrivano dall’Ilva.
I tarantini non lo sanno. Ma hanno la più grande società
di export di Europa. Si muovono nel campo della chimica.
In ogni caso, fin qui è tutto chiaro. Oppure forse no. L’Il-
va sostiene infatti che non è colpa loro tutto quel disastro,
e nemmeno di tutte le altre aziende della zona. Come
l’Eni, ad esempio, che recentemente ha chiesto di aumen-
tare del 40% l’emissione di alcuni veleni: Nox (ossidi di
azoto), Sox (ossidi di zolfo) e schifezze simili. Secondo l’Il-
va in fondo è colpa dei tarantini che sono degli sporcac-
cioni. Non è un modo di dire, ma hanno scritto proprio
così su un documento ufficiale, una difesa depositata dai
loro legali al Tar di Lecce in un giudizio amministrativo
contro la Regione.
56
di interesse nazionale di Taranto che, come delimitato con decreti
del ministro dell’Ambiente 10 gennaio del 2000, si estende per
114,9 km quadrati e ricomprende aree dei comuni di Taranto,
Statte, Montemesola, Crispiano e San Giorgio Jonico. Il complesso
produttivo di Ilva si colloca nell’ambito di un’ancor più vasta area
produttiva in cui, oltre all’insediamento, operano altre importanti
realtà produttive. Nell’area del sito ambientale di interesse nazio-
nale di Taranto numerose cave dismesse in discariche abusive di
rifiuti urbani porzioni del Mar Piccolo e del Mar Grande inqui-
nate per decenni dagli insediamenti portuali e dall’arsenale, oltre
che decine di pozzi “a perdere” e di collettori “a mare” provenienti
dai limitrofi insediamenti umani, la Salina Grande e le numero-
se aree in cui da decenni sono presenti “siti di discarica di rifiuti
urbani non adeguatamente conterminati e numerosi siti di smal-
timento abusivo di rifiuti di varia provenienza… e fenomeni di
degrado e di dissesto”. “La situazione ambientale presenta, quindi,
elementi di criticità riconducibili a un pregresso e generale stato di
degrado e dissesto del territorio provocato, per lo più, dalla tolle-
ranza di discariche abusive, da scarichi incontrollati nei corsi d’ac-
qua superficiali, dalla mancanza di un moderno ed efficiente siste-
ma fognario per gli insediamenti urbani, dall’assenza di impianti
pubblici effettivamente in grado di assicurare lo smaltimento dei
rifiuti e la depurazione dei reflui prodotti sul territorio.”
Difesa Ilva davanti al Tar di Lecce, 18 dicembre 2008
57
Tutta quella roba che le fabbriche di Taranto, e l’Ilva in
particolare, buttano per aria poi finisce da qualche altra
parte. E cioè dentro i nostri corpi. Dei tarantini, e non
solo. Una parte degli inquinanti viene assorbita per inala-
zione diretta. Ma parliamo di una piccola parte. Tutto il
resto viene assunto, invece, tramite l’alimentazione. Le
diossine emesse dalla combustione dei processi industriali
finiscono infatti per contaminare il suolo e l’acqua e quin-
di per contaminare gli alimenti. La carne, ma anche i deri-
vati del latte, i pesci e i crostacei marini. Quando ci sedia-
mo a tavola, insomma, è come se fossimo a una lezione di
chimica. Ma gli effetti della presenza di tutta quanta quel-
la roba non sono soltanto didattici. Ci sono anche quelli
medici. Gli acronimi non passano inosservati. Qualcuno
si accorge della loro presenza. A Taranto purtroppo in
tanti se ne sono accorti, tanti altri ancora per molto tempo
se ne accorgeranno ancora. La maggior parte di quegli
inquinanti hanno infatti effetti sulla salute dell’uomo. Par-
lava di “effetti”, il professor Assennato, ma in realtà avreb-
be potuto benissimo utilizzare il singolare. Effetto, perché
l’effetto alla fine è soltanto uno ed è sempre lo stesso: il
cancro. Per esempio, prendiamo sempre i soliti Ipa. Si è
detto che l’Ilva produce il 96% degli Idrocarburi Policicli-
ci Aromatici immessi in Italia nell’aria e il 91 nell’acqua.
Per la letteratura scientifica gli Ipa sono un inquinante
cancerogeno al 100%. E guarda caso a Taranto città ci si
ammala di tumore il 31% in più che nel resto della pro-
vincia. Di tumori e non di tumori qualsiasi, ma di quelle
tipologie di cancro che hanno una relazione specifica con
l’inquinamento ambientale. Per esempio: i maschi taranti-
ni hanno il 35% in più di tumori al polmone, e mentre
prendevo appunti mi vennero in mente gli accendini di
Luca e addirittura il 55% di tumori alla vescica, figli que-
58
sti ultimi molto probabilmente proprio dei famigerati Ipa.
Ma non solo: Vittorio mi aveva raccontato di un suo col-
lega che all’improvviso si era ammalato di prostata. Capi-
tano, pensai, i tumori alla prostata. Ma a Taranto capitano
ancora di più: il 44% in più che nel resto della provincia,
e la causa è molto probabilmente il cadmio, un metallo
che chiaramente da queste parti è di casa. La metà di tutto
quello prodotto dalle fabbriche italiane arriva dall’Ilva.
59
Vulcano. È impossibile fare uno studio epidemiologico, è
così che si dice, che metta in correlazione certa le emis-
sioni industriali con le malattie dei tarantini. C’è sempre
la possibilità delle discariche abusive o magari del traffico
cittadino. Per poter essere certi che sia tutta colpa delle
fabbriche bisognerà aspettare ancora, studiare e poi corre-
lare. Bisognerà ancora ammalarsi e forse anche morire per
avere giustizia.
60
esempio: ma Holly potrebbe mai scattare sulla fascia e poi
bloccarsi per uno spasmo causato dai Pcb che si trovano
nell’aria? Hello Spank avrebbe il pelo bianco se fosse nato
a Taranto o anche quello, come le lenzuola stese, sarebbe
diventato grigio? Insomma è normale che i sogni dei bam-
bini cambino colore?
Il verde non è verde, il blu è malato, gli animali sono pochi, l’uo-
mo sta morendo a causa di tante malattie legate all’inquinamen-
to. Noi bambini vogliamo un futuro più bello e più colorato. È un
nostro diritto.
Domenico Basile
61
Anche io voglio nella mia città nuvole bianche come quelle dei car-
toni animati. Tanto sono certo che prima o poi sarà così. La prego
di fare che accada.
Stefano
Io sono una bambina di nove anni che vive in una delle città più
inquinate d’Italia, Taranto. Il cielo della nostra città è quasi sem-
pre grigio mi sembra di vedere un lampadario spento. Ti prego, se
puoi accendi la luce sulla nostra città.
Fabiola
Alla fine scesi. Per poi però fermarmi dopo nemmeno una
rampa di scale. Era bagnato per terra, era ormai pomerig-
gio e nel vecchio ospedale avevano cominciato a fare le
pulizie. Tutto splendeva, lo avevo già notato, non c’era un
filo di polvere all’interno delle finestre. Chi si occupava
della cosa, evidentemente, doveva essere una persona
attenta. Quella persona mi spuntò all’improvviso lì davan-
ti, una signora di 60 anni all’incirca con i capelli ramati e
ordinati, accucciata con le ginocchia a terra per battere al
meglio il battiscopa del secondo piano. Sollevò lo sguardo,
mi vide lì impalato sulla rampa, e mi fece segno di scen-
dere con la mano. Affrontai i quattro scalini che rimane-
vano con l’esterno dei piedi, sperando di lasciare meno
impronte possibili. “Non si preoccupi, venga pure, tanto
dopo devo ripassare lo straccio.” Saltai gli ultimi due con
un balzo, a momenti cadevo all’indietro. La signora mi
guardò e sorrise, poi afferrò al volo l’occasione, “Scusi
signore, un attimo, soltanto una parola”, disse e in un
baleno scattò in piedi e si mise tra me e l’altra rampa,
impedendomi di scendere. Per fortuna. Tina aveva 51 anni
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solamente e viveva al quartiere Tamburi di Taranto, quel-
lo più vicino all’Ilva. Era una bidella, da qualche anno
lavorava come interinale in una società che assicurava il
servizio di pulizia e sorveglianza nella maggior parte degli
ospedali e delle strutture pubbliche della Puglia. Ma in
realtà anche del Lazio, della Lombardia, insomma vince-
vano sempre loro. Tina viveva al Tamburi e aveva un pro-
blema. In realtà ne aveva più di uno, ma di quello nello
specifico aveva bisogno di parlarmi. “Giovane, sei un gior-
nalista, vero?”, mi chiese toccandomi con una mano il pass
che portavo al collo da inizio giornata. “Lavori al Corriere
del Giorno? La Gazzetta? Senti, l’importante è che scrivi
questa cosa perché io tengo un problema.” Ero pronto ad
ascoltare la storia della sua mancata stabilizzazione nella
società oppure della classifica per le case popolari tarocca-
ta o in alternativa c’è sempre un marciapiede rotto sotto
casa di qualcuno e un giornalista che deve denunciare la
cosa nella speranza che lo aggiustino, visto che le decine di
telefonate al centralino dei vigili urbani non sono servite a
nulla. Tina, invece, non disse nulla di tutto questo. Ma mi
parlò delle sue scope, di suo figlio pittore e della sabbia del
Vulcano.
Tina era una delle signore del Tamburi, appunto. Vive-
va in una di quelle case con la vista sulle ciminiere, a pochi
passi dai famosi parchi minerali dell’Ilva. Mi raccontò che
tutti i giorni, da quando abita là dentro, lei è costretta a
scopare il balcone almeno tre volte e quando c’è il vento
non ne parliamo, deve stare sempre lì fuori a scopare, chi-
narsi, raccogliere e buttare. Il ballo del minerale, stavo per
dirle, ridendo. Per fortuna rimasi zitto. “Non pensare che
sia una cosa così, guarda che è una schiavitù, una cosa
brutta assai non riuscire a tenere una casa pulita, essere
costretta a stendere sempre le robe dentro casa perché
63
altrimenti diventano tutte quante nere oppure come una
specie di rosa. Qua a Tamburi tutto è rosa. Pure le cappel-
le del cimitero.” Il cimitero è quello di Brunone, quindici
passi dalla fabbrica e quindici dalle case. “Ora le cappelle
le pittano già di rosa, perché tanto diventano di quel colo-
re dopo qualche giorno e a questo punto meglio farlo
subito, si risparmia tempo e una brutta figura: almeno i
nostri morti, almeno loro, non sembrano sporchi.”
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2006, per poi fare il confronto tra la qualità dell’aria che
si respira al Tamburi e quella delle più grandi città italia-
ne, europee e addirittura mondiali. La centralina che regi-
stra i valori del benzoapirene è proprio a due passi da casa
di Tina, in via Orsini. Per esempio: Tina si ricorda dov’e-
ra il 4 aprile 2003? Spero di sì, perché quello è stato un
giorno davvero speciale. Il benzoapirene, uno degli inqui-
nanti cancerogeni più tremendi che possano esistere, quel-
lo che viene fuori dai tubi di scappamento delle automo-
bili ma anche dai camini delle industrie, era presente dieci
volte di più rispetto alla norma, sette volte di più che a
Chicago e San Paolo, quasi il doppio che a Los Angeles.
Oppure il 16 gennaio 2005: quel giorno l’aria che ha
respirato Tina al Tamburi era identica a quella di Harrison
Ford a Los Angeles. Stessa quantità di benzoapirene, disse
la scienza. Sostenne il professor Assennato, tradito da un
sorriso, che evidentemente in via Orsini devono circolare
lo stesso numero di automobili che sulla Hollywood Bou-
levard. O forse no.
65
chiamava Pretura, e allora e soltanto allora qualcosa era
successo. Tina mi raccontò una storia meravigliosa. Mi
parlò della giustizia, ai tempi del Vulcano.
66
La polvere
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da questa parte è più vicino al porto e così hanno rispar-
miato sui nastri trasportatori. Hai capito che casino questi
nastri?” Non avevo capito. E soprattutto non avevo capito
questa roba della polvere. Da dove arrivava? Perché arriva-
va? Che cos’era? Provai timidamente a farglielo notare.
“Tu sei scemo”, mi disse. E poi mi mise in mano un mal-
loppo di carte. “Leggi”, disse. “Così forse capisci.” Quelle
carte che Tina conservava in un cassetto di una vecchia
cattedra, uguale a quelle dei bidelli a scuola, erano le moti-
vazioni di alcune sentenze penali. Qualche centinaio di
pagine ciascuna. Le sfogliai, lì seduto sul gradino delle
scale.
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veri, pronte per essere trasformate in acciaio. In quasi
tutti gli altri stabilimenti siderurgici del mondo, persino
a Taiwan, queste colline sono coperte. Ma a Taranto no.
In realtà quando l’Ilva ha acquistato il bene aveva pro-
messo una serie di interventi per mettere in sicurezza
quell’area, ma a credere al panorama e ai giudici penali è
stato fatto ben poco. “Un’abile opera di maquillage”, è
definita in una sentenza di corte d’Appello, “verosimil-
mente dettata dall’intento di lanciare un segnale per
allentare la pressione sociale e della autorità locale e
ambientale: gli interventi fatti non possono essere consi-
derati però il massimo che si poteva fare”.
Il parco si trova al di là del muro di cinta dell’azienda
a poche decine di metri dalle case del Tamburi. Basta sali-
re su un qualsiasi balcone del quartiere per vederlo, in
lontananza. Ma perché i minerali si muovono? “Il mate-
riale accumulato allo stato grezzo”, scriveva sempre il giu-
dice, “una volta movimentato, a causa della stessa attività
produttiva ma anche a seconda delle condizioni meteocli-
matiche, si sgretola con conseguente formarsi di polvere
di colore nero, rossastra e lucente.” Che bello, che deve
essere: la notte, magari, e quella polvere nera, rossastra e
pure lucente. Come la polverina di Trilli campanellino.
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loro erano di un paese della provincia, e dicevano: “Ma come
fate a vivere, guarda là”.
Infesta Gianfranco, teste
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sto è un problema che si accentua specialmente se c’è vento che è
una dannazione per il quartiere Tamburi... Beh! Le persone natu-
ralmente... poi questa è polvere che vola nell’aria a mio avviso, non
sono un tecnico, però respiro questa polvere ti entra dentro casa...
Quando c’è vento, siccome io abito vicino all’Ilva, dai parchi si
vede che si alza questa polvere.
Guarino Domenico, teste
71
Personalmente a me producono un fastidio agli occhi, un rossastro
sugli occhi e anche sulla parte respiratoria... Quando uno si puli-
sce il naso si vede un po’ di polvere sul fazzoletto.
Gentile Armando, teste
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Questa invece è la storia di una polverina magica fluo-
rescente, colorata. E anche un poco molesta. Ma non solo:
pare sia anche pericolosa.
73
l’aumento del particolato si correla con l’aumento dei ricoveri ospe-
dalieri, con l’aumento dell’uso di farmaci antiasmatici e quindi
diciamo, evidenziano questa azione negativa.
Dottor Corbo, specialista in pneumologia, consulente del
Pubblico ministero
Era una lamentela continua, tant’è che si sono già organizzati dei
comitati cittadini (…) Noi abbiamo fatto anche un corteo, pro-
prio per manifestare tutto questo. Personalmente ho visitato non
soltanto il campo sportivo che credo sia stato uno degli elementi più
eclatanti per il cumulo che noi abbiamo registrato di polveri pro-
venienti dal parco minerale. Ma anche in alcune abitazioni dove
i cittadini ci hanno dimostrato come quotidianamente sui balconi,
sui davanzali, eccetera, c’è la presenza di queste polveri. Quindi è
74
un dato scontato, ma d’altra parte è un dato anche visibile. Ci sono
alcune zone e alcune strade e dei guard-rail che ormai sono diven-
tati tutti rossi. Cioè basta andare in quelle zone dove è facilmente
visibile che c’è una deposizione di polveri. (…) Molte strade e molti
guard-rail, sono per esempio tutti rossi, quel materiale si deposita
un po’ dappertutto, specificamente nel quartiere Tamburi.
Rossana Di Bello, ex sindaco di Taranto
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produttive dell’enorme insediamento siderurgico così da prevenire,
eventualmente, anche alla dismissione dei parchi minerali e dun-
que alla decisione di eliminare all’occorrenza determinate aree e
fasi del ciclo produttivo (…) Non vi è chi non veda come l’impor-
tanza e la portata di scelte industriali volte a eliminare la fonte di
pericolo ovvero a mantenere la fonte di emissione, rendendola com-
patibile con la salute dell’uomo e dell’ambiente al prezzo di ingen-
tissimi esborsi di denaro, non potevano che competere al minimo
all’amministratore delegato, Emilio Riva (…) Non si era in pre-
senza di fenomeni occasionalmente cagionati dall’attività produt-
tiva ma di caratteristica costante e connaturata alla peculiare
strutturazione del ciclo produttivo integrale e alla specifica disloca-
zione dell’area parchi nell’ambito dello stabilimento Ilva (…)
Sarebbe legittimo pretendere in ragione delle enormi dimensioni
dello stabilimento tarantino (il più grande d’Europa) e delle altret-
tanto imponenti ricadute pregiudizievoli per il territorio e la salu-
te dei cittadini (…): non si può parlare di inesigibilità tecnica o
economica quando è in gioco la tutela di beni fondamentali di rile-
vanza costituzionale, come ad esempio il diritto alla salute.
Dino Maria Semeraro
Cesarina Tronfio
Giovanna Semeraro
Consiglio Corte d’Appello di Lecce, 10 giugno 2004
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e inquinanti lanciati nell’aria.
Il 10 ottobre 2008, invece, la sezione distaccata della
Corte di Appello di Lecce (si attende ora l’ultima pronun-
cia della Cassazione) lo ha condannato a due anni per get-
tito pericoloso di cose, danneggiamento aggravato, omis-
sione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro nel
reparto cokerie. In entrambi i procedimenti insieme con
Riva è stato condannato anche il direttore dello stabili-
mento di Taranto, Luigi Capogrosso.
Non è vero quindi che sul Vulcano non è mai colpa di
nessuno.
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Il Vulcano (II)
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bene e fa anche male uguale. Se possibile, ancora di più.
L’altra faccia del Vulcano si materializza 24 ore su 24, a
ciclo continuo, ma poi c’è una giornata in particolare in
cui si materializza più precisa del solito, il 27 di ogni mese.
È da questa parte del Vulcano che nasce il magma, è da qui
che comincia la vita.
Taranto è una delle città più indispensabili al sistema
industriale italiano, necessaria all’autosufficienza di questa
nazione e di questo continente. Senza Taranto, sentii
tempo fa in televisione, saremmo tutti ancora più dipen-
denti dalla Russia e dalla Cina. Ciascuno a Taranto ha in
casa un padre operaio, un cugino macchinista, un genero
capo turno, la gran parte della città riesce a mangiare gra-
zie alle grandi aziende, siano esse l’Eni, l’Agip, l’Ilva,
oppure l’indotto, che non è il nome di una fabbrica ma è
tutto quello che gira intorno e quindi, comunque, arriva il
27 di ogni mese. Raccontava l’Ilva nel suo bilancio di
sostenibilità presentato nel 2005 che ha 13.346 dipenden-
ti diretti, più i 3136 dell’indotto. Negli anni molti di loro
si sono fatti male in fabbrica, tanti, troppi, sono morti
mentre lavoravano l’acciaio. Nell’ultimo anno poi l’azien-
da ha aumentato gli investimenti in tema di sicurezza (due
miliardi di euro) e ad aprile del 2009 ha annunciato trion-
fale in una conferenza stampa che nello stabilimento si è
registrato un calo del 50% di tutti gli infortuni. Ogni
tanto, però, qualcuno continua a farsi male. Gli operai di
Taranto sono ragazzi giovani e sono uomini, anche vecchi.
Lo 0,6 per cento degli operai Ilva ha meno di 20 anni, il
18,7 ne ha da 21 a 25, il 38 è compreso in una fascia di
età che va dai 26 ai 30, il 20,1 dai 31 ai 40, il 17,1 dai 41
ai cinquant’anni. C’è poi un 5% che è ultracinquantenne.
Non è certo il massimo nella storia delle acciaierie. Quan-
do si chiamava ancora Italsider, dentro il mostro hanno
79
lavorato anche 21.785 persone per poi crollare nel 1995
quando arrivò il gruppo Riva a 11.796.
In un libro stampato dalla Regione Puglia sulla storia di
Taranto c’è un appunto interessante. Scriveva un vecchio
sindaco di Taranto, era il 1959, si parlava dell’acciaieria
che stava per nascere e della banda che girava per la città.
Si parlava dell’altra faccia del Vulcano. A me venne in
mente un paese che si chiamava Macondo, e la storia di
come la gente del luogo conobbe il ghiaccio.
80
mettere nel conto anche tutte le conseguenze negative dell’indu-
strializzazione. Ma si è dovuti passare per quell’esperienza, per
capirlo.
Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica, 2008
81
Il fatturato del gruppo Riva ha sfondato il tetto dei dieci miliardi
di euro. L’acciaio, dicono, subirà una contrazione dei consumi e
quindi Riva ha deciso di mandare in cassa integrazione 2500 ope-
rai. Ma a leggere le analisi di Federacciai non è vero che si consu-
merà di meno. Il portafoglio ordini delle aziende siderurgiche su-
birà, nella peggiore delle ipotesi, un decremento del 2%, ma mer-
cati come Africa del Nord e la stessa Scandinavia continueranno a
comprare acciaio perché non ne producono. L’Italia, invece, è lea-
der europeo del settore. Che cos’è cambiato? Sono mutati i margini
di guadagno. I prezzi delle materie prime sono cambiati brusca-
mente e così anche i prezzi dell’acciaio. Quindi Ilva teme non di
andare in crisi, ma di guadagnare di meno. Un’azienda ha il dove-
re di guardarsi dagli imprevisti del futuro, ma non ha il diritto di
giocare sulla pelle di una città.
Francesco Boccia, deputato, economista, già liquidatore del
comune di Taranto
82
Se dicessi che in questo momento non sono preoccupato, direi pro-
prio una stronzata. Certo che sono preoccupato, anzi sono proprio
cacato sotto, non dormo da quindici giorni, io sono terrorizzato. Io
lavoro dal 1987, senza pausa, tutti i giorni tranne al mese di ago-
sto e ai compleanni di mia moglie e dei miei figli. Mi sono preso
un giorno anche quando l’Inter ha vinto lo scudetto lo scorso anno.
L’unico mestiere che so fare è quello della fabbrica ma non è que-
sto. Io sono uno che si adegua, mi butto a fare tutto, in campagna
mi sono praticamente costruito una casa da solo. Il problema non
sono io ma sono gli altri: a 50 anni chi è che mi deve prendere a
lavorare? Avanti, chi è che mi deve prendere? Io però del lavoro ho
bisogno, per questo ringrazierò a vita il signor Riva che ci ha dato
questa grandissima possibilità e che mi permette di fare una vita
tranquilla, che mi permette di non fare mancare niente ai due miei
figli. Ora però tutta questa cosa a me mi sta toccando il sistema
nervoso, mia moglie mi dice di stare calmo ma io sono quindici
giorni che non riesco a dormire, mi sento una cosa che mi sale dallo
stomaco, mi manca il respiro, mi sento di morire, il cuore batte
forte, davvero è brutto assai, mi sento morire. E se continua così io
davvero muoio: non so se mi ammazzerà la fabbrica, questa paura
oppure la depressione. Ma qualcosa mi ammazzerà. Io ho due figli
e un affitto, io, non so se mi spiego, io quando parlo non devo pen-
sare solamente a me ma devo pensare a loro, ho la foto sul telefo-
nino, vedi come sono belli, il grande ha 14 anni, quello deve stu-
diare non posso mica dirgli, senti vai a lavorare perché papà ha
perso il lavoro e allora non sappiamo come dobbiamo fare a man-
giare. Io a quello gli devo dire “quanto ti serve per i libri quest’an-
no?”, e certo non posso andare a rubare perché io sono una perso-
na onesta e tra un padre povero e un padre ladro, allora meglio
povero. Magari se proprio non ce la faccio mi impicco. No, scusa,
forse ora sto esagerando, e che davvero è un periodo complicato, io
non so come e cosa fare, qua è tutto un casino, è tutto difficile.
Certo che sento questa cosa dell’inquinamento, certo che la situa-
83
zione è tremenda, delicata, lo so i tumori, questo cielo sempre gri-
gio, tutta quella polvere per strada delle montagne dei minerali,
ma io se chiude l’Ilva e tutte le altre fabbriche qui attorno, cosa
devo fare, avanti, dimmi tu cosa devo fare? Chi me li deve dare i
soldi per campare? Questo non è un referendum, non è che le merde
dei politici dopo che per anni e anni non hanno fatto niente e se
ne sono fregati del problema di Taranto ora si svegliano, vengono
qua e dicono “chiudiamo tutto così l’ambiente respira”. A parte che
non è vero perché tutta questa cosa qua ce la porteremo ancora
avanti e avanti per anni, una volta ho sentito dire a un medico che
noi e le generazioni dei miei figli siamo già condannati, dobbiamo
solamente sperare che la ruota non giri dalla parte nostra. Comun-
que come si può dire, chiudiamo tutto così l’aria diventa più puli-
ta? E gli operai poi come fanno? Chi dà da mangiare a Taranto?
Perché mi mettono davanti alla scelta se poter dare i soldi a mia
moglie per fare la spesa oppure alzare la possibilità che possa mori-
re tra qualche anno? È un atteggiamento da infami, da merde vere.
Anche perché la mia risposta è obbligata, non posso fare altro. Io
devo portare il pane a casa. Punto. Non ci possono essere altre paro-
le. A questo punto vuol dire che faremo come se fossimo nell’eserci-
to, cioè noi siamo come i soldati che vanno in guerra, uno mette
anche in conto di poter morire. Soltanto che noi non combattiamo
per la patria ma per l’affitto di casa.
Nino, operaio
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assunzione è stato uno dei giorni più belli della mia vita. A Taran-
to in fondo non è difficile trovare un lavoro, io non avevo nessuna
raccomandazione, all’Ilva non lavorava nessuno di casa. Per avere
quel posto ho semplicemente inviato una lettera e poi quelli mi
hanno chiamato, tutto qua. È stato facilissimo. Io lavoro alla Cola-
ta continua 5, uno di quei reparti che ha il ciclo continuo, 24 ore
su 24, non si ferma mai. O meglio io pensavo non si fermasse mai.
Io sono addetto alle piattaforme, seguo il colaggio dell’acciaio liqui-
do. Noi trasformiamo l’acciaio liquido trattato in precedenza e lo
trasformiamo in lingotti. Coliamo questo acciaio, cioè l’acciaio
viene colato all’interno della macchina, poi si raffredda lungo il
percorso e viene tagliato da dei cannelli meccanici con l’ossigeno e
gas. Le temperature? Beh, diciamo che si sta caldi. L’acciaio ha una
temperatura intorno ai 1.650 gradi. Noi nel reparto siamo 44,
lavoriamo 8 ore a testa al giorno. Cioè in realtà lavoravamo. Il
reparto è stato fermato, non ci sono commesse, quindi ora forse per
la prima volta da quando quel reparto è stato realizzato è tutto
quanto fermo. Oggi sono a casa, sono in ferie ancora per un po’, ma
tra qualche giorno non tornerò al lavoro. Andrò in cassa integra-
zione. Io di solito guadagno 1.300 euro, ora mi pare che dovrei
andare a guadagnare intorno agli 800, 850 euro al mese. Certo
per me non è esattamente una tragedia come per molti miei colle-
ghi che hanno famiglia: io vivo ancora con i miei, sono single, non
ho tantissime spese. Certo però anche io dovrò fare le mie belle
rinunce, che magari sembrerà anche poco ma sono importanti per
un ragazzo di 30 anni. Io non ho molti vizi, ma adoro ballare. Io
ballo la salsa ma poi il sabato mi piace anche andare in discoteca.
Ecco in discoteca non potrò andarci più, pazienza, così come ogni
volta che accendo la macchina per andare a fare un giro ci devo
pensare due volte. E che dobbiamo fare, la vita è così. Però io voglio
dire una cosa: se ci sono ora questi problemi la colpa non è certo di
chi ha fatto le battaglie per l’ambiente, di chi ha cercato di difen-
dere i nostri interessi. La colpa è di questo mondo industrializzato
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di merda, la colpa della mia cassa integrazione è della non curan-
za dei banchieri o dei bancari, come cazzo si chiamano loro che
hanno in questi anni soltanto pensato ai fatti loro senza pensare al
disastro che stavano procurando a noi poveri cristi. Se ti dicessi che
in questo momento non ho paura di perdere lo stipendio ti direi
una cavolata. Anche perché poi dopo è difficile trovare qualcos’al-
tro, qui a Taranto o lavori all’Ilva oppure fai il marinaio. Ma in
questo momento il problema di Taranto non può essere soltanto il
nostro stipendio. Io ho paura non soltanto di perdere il lavoro, io
ho anche paura di ammalarmi e il discorso della malattia non è
un discorso prettamente egoistico, ma si rispecchia in un passato e
in un futuro oltre che nel presente. Comunque tieni conto che il
peso di queste aziende così inquinanti lo ha patito chi c’era prima
di noi, lo patirà quelli che arriveranno dopo di noi. Queste azien-
de, il nostro lavoro hanno un peso gravoso sulla salute e sull’am-
biente. Io non ho figli ma penso sia giusto pensare a chi arriva dopo
di noi.
Mario, operaio Colata 5
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La storia
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sa che non potevo sentire, si girò la seconda persona che
era al tavolo con lui. Non feci fatica a riconoscerlo, Nichi
Vendola sorrideva. E come al solito brillava dal lobo
destro.
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parti “fece strano”: un comunista, cattolico, omosessuale
che diventava governatore; quel signore che da bambino
andavo a vedere in piazza Caduti a Barletta sbraitare con-
tro i sindaci democristiani, quello che li chiamava mafiosi
e soprattutto li chiamava per nome e cognome, che passa-
va dall’altra parte del palco. Comunque la si pensi, da qual-
siasi parte la si guardi, la Puglia è una terra meravigliosa.
Tre passi dopo gli strinsi la mano, vestito tutto di nero.
Il professore Assennato mi salutò con una pacca sulla spal-
la, dandomi come al solito del lei. Mi sedetti al tavolo,
ordinai un altro caffè per sonno e per paura che l’alito puz-
zasse troppo. Poi, preso da un impeto di maleducazione,
indicai il titolo di Repubblica, quello sugli operai e la cassa
integrazione, che era aperto sul loro tavolo. Mi venne da
fare una domanda soltanto: “Perché?”.
89
re tra salute e lavoro?
Non sono tutti e due garantiti dalla nostra Costituzione? Perché le
fabbriche non possono utilizzare impianti di depurazione per offri-
re lavoro e salute? Vorremmo mangiare le nostre cozze crude, ma
senza correre il rischio di ammalarci come facevano i nostri nonni.
Gli alunni della 5° D, Scuola elementare Rodari, Taranto
90
volta, Vittorio, “esiste il Protocollo di Aarhus, un docu-
mento sugli inquinanti organici approvato nel 2004 dal-
l’Unione Europea che pone come limite nell’industria
metallurgica un’emissione massima di 0,2-0,4 nanogram-
mi per metro cubo. Non sono numeri a caso ma è quello
che è riuscita a ottenere a Linz, in Austria, lo stabilimento
di Airfine. Questa direttiva è stata recepita in Italia nel
2006, ma poi non ne ha mai tenuto conto.”
Com’è possibile? “Tecnicamente, è un’incongruenza”,
rispose Vittorio, stringendosi nelle spalle. In Italia, quindi,
era tutto possibile. Anche perché, nel caso dell’Ilva, nessu-
no sapeva esattamente cosa fosse. Prima del 2008 nessuno,
nemmeno l’Arpa, aveva mai misurato esattamente quanta
diossina emettessero i camini dell’Ilva. Nessuno sapeva
cosa sputasse il Vulcano. Ci si basava unicamente sulle
indicazioni che la stessa azienda dava al registro nazionale
delle emissioni. E già sulla base di quei dati non c’era da
stare tranquilli. Poi le cose si chiarirono.
91
ballo c’era infatti una partita molto grossa: l’Aia, non a
caso un acronimo. Aia sta per Autorizzazione integrata
ambientale. Si tratta di un certificato che ogni tot di anni
deve rilasciare il ministero dell’Ambiente ai grandi gruppi
industriali perché possano continuare la propria attività.
L’Ilva aveva l’Aia in scadenza, doveva rinnovarla.
Vittorio diceva che quella era una “grande occasione”.
“In sede di Aia”, mi spiegò una volta, “il ministero può
mettere dei paletti, può dare delle prescrizioni. In sostan-
za può fare quello che la legge dovrebbe prevedere e che
invece non prevede.” Così era successo per esempio in
Friuli Venezia Giulia, dove un limite c’era, ed era di 0,4.
Ecco, se l’Ilva fosse stata anche in Friuli Venezia Giulia
avrebbe dovuto chiudere.
In ogni caso, dopo il grande accordo l’Arpa entrò all’Il-
va. I risultati di quelle prime analisi furono così così: la
diossina emessa dallo stabilimento in quei giorni variava
dai 4,9 ai 2,4 nanogrammi per metro cubo. La mazzata
arrivò qualche mese dopo, nella seconda campagna di
campionamenti effettuata il 26 e il 27 febbraio del 2008:
i numeri schizzarono da 8,3 a 4,4 nanogrammi per metro
cubo. Significa dalle venti alle 11 volte in più rispetto a
quello che sarebbe il limite in tutte le altre parti del
mondo. In tutte le altre, appunto, ma in Italia no. L’a-
zienda si disse però pronta a cambiare il registro, a investi-
re tanti soldi per migliorare le attrezzature, per produrre lo
stesso l’acciaio, dare lavoro ai tarantini ma nello stesso
tempo diminuire le emissioni inquinanti. Promisero inve-
stimenti per 400 milioni di euro, misero anche mano al
portafoglio. E qualcosa accadde: 23 e 26 giugno del 2008,
l’Arpa torna all’Ilva. Rimisura la diossina e puff, i valori
sono caduti, quasi dimezzati: le diossine emesse scendono
in una a 1,9 massimo 3,4. Miracolo? “No urea”, mi rispo-
92
se tempo fa il professor Assennato. “Si tratta di un additi-
vo chimico – mi spiegò – che se inserito nel ciclo indu-
striale riesce a diminuire drasticamente le emissioni inqui-
nanti.” Tutto a posto, quindi. Tutto risolto, basta buttare
due gocce di urea e tutto è risolto. Niente affatto. Il prin-
cipio dell’annaffiatoio non sempre funziona. Questo è uno
di quei casi. Inserire l’urea nel processo della catena di
montaggio non è semplice. Per dire la verità, l’azienda ci
ha anche provato, ma gli sono stati piantati davanti deci-
ne di paletti burocratici: manca la concessione a costruire,
il comune di Taranto non la vuole rilasciare senza il via
libera del ministero dell’Ambiente, parte un ricorso al Tar.
Insomma si perde tempo. Nel frattempo però, nel crono-
programma che l’Ilva invia al ministero per ottenere l’Aia,
indica un livello massimo di emissioni di diossina molto
maggiore rispetto a quelli già raggiunti. A giugno hanno
già ottenuto 1,9 nanogrammi per metro cubo ma dicono
che non possono scendere sotto i 3,5. Perché?
93
allegò anche i disegni dei bambini, quelli della mostra.
Vendola ama parlare per metafore, è il pezzo forte dei suoi
comizi. La più bella secondo me, era quella sui quartieri
popolari, quelli più lontani, quelli più disgraziati: una
volta disse che si chiamavano tutti con il nome dei santi,
San Pio a Bari, San Paolo a Enziteto, per esempio, e disse
che la scelta toponomastica non poteva essere casuale, era
piuttosto una maniera come per chiedere scusa della scia-
gura urbanistica, quasi una preghiera perché i casermoni
non potessero diventare ghetto.
94
abbiamo perseguito con realismo e rispetto l’obiettivo di
una radicale ambientalizzazione delle strutture produttive
del colosso siderurgico. E quel management non può
replicare alle spasmodiche attese della città minacciando,
sia pure velatamente, il ricorso al ricatto occupazionale.
Occorre fare scelte coraggiose, scelte non più procrastina-
bili, scelte di vita. Ecco perché la Regione intende chiede-
re e ottenere da Ilva interventi efficaci, ecco perché non
possiamo accontentarci di spalmare in cinque anni una
riduzione significativa delle diossine, ecco perché Le chie-
do di aiutarci cambiando quella norma che stabilisce un
limite così alto a questo veleno che vi rientra tutto”.
95
con Vittorio, “avevano tra le mani l’opportunità di cam-
biare qualcosa”.
La Prestigiacomo sostituì i tecnici che aveva nominato
il suo predecessore, Alfonso Pecoraro Scanio: si trattava di
tecnici, sì, ma anche con coscienze politiche visto che, per
puro caso, molti erano vicini ai Verdi, il movimento del-
l’allora ministro. Ciò nonostante, dopo la decisione della
Prestigiacomo successe però un finimondo. “Decapitazio-
ne del sapere tecnico-scientifico” tuonò il presidente della
Regione, Vendola. Seguito a ruota da tutte le associazioni
ambientaliste. La storia più interessante me la raccontò
però un altro collega, Emanuele Lauria, cronista politico
della redazione di Repubblica Palermo. È uno di quelli che
quando chiama, il politico trema, perché sa già che ha
combinato qualche casino. Ecco, Emanuele mi raccontò
che nella commissione nominata dalla Prestigiacomo c’e-
rano tecnici. Ma soprattutto c’erano siciliani, e soprattut-
to ancora c’erano siracusani, il paese natale del ministro
dell’Ambiente. “Siciliano”, disse Emanuele, “è il presiden-
te della commissione, Dario Ticali. È un ingegnere paler-
mitano, 32 anni, si è laureato sei anni fa. Attualmente è
ricercatore all’università Kore di Enna, l’ateneo caro al ret-
tore Salvo Andò, ex ministro, e al senatore del Pd Vladi-
miro Crisafulli. Ticali è uno scienziato, tra le sue pubbli-
cazioni spiccano quelle sulla “potenzialità del ravaneto
nella tecnica delle costruzioni stradali” e sulla “gestione dei
rifiuti urbani in Sicilia”. Ecco, il ravaneto. “Ma nella com-
missione”, disse sempre Emanuele, “non è difficile rintrac-
ciare i nomi di professionisti esponenti di famiglie molto
note nel Siracusano e non solo. C’è il commercialista Mas-
simo Conigliaro, docente della scuola superiore dell’eco-
nomia e delle finanze ma anche figlio della compagna del-
l’ex presidente della commissione antimafia Roberto Cen-
96
taro. Ci sono, fra i giuristi, stretti congiunti di due magi-
strati: Valeria Polto è figlia di Salvatore Polto, presidente
della sezione penale del tribunale aretuseo. Elena Tambu-
rini è figlia di Giuseppe Tamburini, da settembre a capo
del tribunale di Modica. C’è poi l’ingegnere Antonio
Voza, figlio di colui che è stato per anni un’istituzione
nella città siciliana, ovvero l’ex soprintendente ai beni cul-
turali Giuseppe Voza. E dell’organismo fa parte anche l’av-
vocato ragusano Mariagrazia Gerratana, che ha uno studio
legale a Pozzallo. Insomma, il futuro dei grandi insedia-
menti industriali italiani e in particolare dell’Ilva passa per
la Sicilia e soprattutto per i siciliani.” Il vero scandalo nac-
que però attorno al presidente di quella commissione, tale
Bonaventura Lamacchia. A farlo scoppiare anche in que-
sto caso era stato un giornale, L’Espresso, in un articoletto
di Sandra Amurri. “Lamacchia ha un curriculum giudizia-
rio di tutto rispetto – scriveva la giornalista – Calabrese,
deputato nella XII legislatura per la lista Dini, poi Upr con
Cossiga e infine Udeur, è stato condannato a 2 anni e 5
mesi, pena patteggiata, come amministratore delegato e
presidente del Cosenza calcio. I reati? False fatturazioni,
costi inesistenti riferiti a documenti contabili mai esistiti,
ricettazione, falso in bilancio, falso ideologico, evasione
fiscale quantificata dalla Guardia di Finanza in oltre 30
miliardi di lire. Inoltre la Procura federale della Federcal-
cio lo ha interdetto per cinque anni da qualsiasi incarico
di natura sportiva, a causa dell’irregolare iscrizione del
Cosenza Calcio ai campionati 1990-91 e 1994-95.”
Lamacchia, quando era sindaco del suo paese, incassò
anche un anno di reclusione per turbativa d’asta. Nel
2002, dopo un anno di latitanza trascorsa tra Bratislava,
Bari e Milano, venne arrestato. Fu condannato nel 2004,
pena patteggiata, a 2 anni e mezzo per bancarotta fraudo-
97
lenta e tentata estorsione: aveva distratto, destinandoli ad
altre società, circa 2 miliardi di lire dalla Edicom e dalla
Edilrestauri. Nella veste di procacciatore d’affari della
canadese Warner Lambert, produttrice di caramelle alla
liquirizia, aveva tentato di costringere produttori calabresi
a cedere le radici di liquirizia a un prezzo inferiore rispet-
to al dovuto. Per finire, la settimana scorsa la Procura di
Cosenza lo ha rinviato a giudizio per calunnia dopo che
aveva denunciato il furto di assegni, risultati scoperti, per
12 mila euro. Il 7 novembre, il ministero annunciò trami-
te agenzia Ansa, la sospensione di Lamacchia dalla com-
missione. Qualche giorno prima il ministro era andato
però su tutte le furie, scrivendo una lettera al direttore di
Repubblica, Ezio Mauro.
Gentile direttore,
ho letto con grandissimo stupore quanto apparso sul suo giornale
sulla vicenda dell’Ilva. E credo di avere il diritto di dire come stan-
no le cose. 1) È davvero singolare che il “caso” Ilva scoppi adesso,
quando, grazie alle sperimentazioni avviate, è stato rilevato un
abbassamento significativo delle emissioni. Un dato che è stato
confermato dall’Arpa Regionale, al di là della querelle normativa
che l’agenzia ha avviato col ministero. A leggere articoli e annesse
dichiarazioni sembrerebbe, invece, che le emissioni dell’Ilva siano
cominciate nella primavera scorsa, più o meno all’epoca del cam-
bio di governo. Non si comprenderebbe altrimenti perché tutto ciò
che c’era da fare non è stato fatto nei due anni del governo Prodi
(e della presidenza Vendola) visto che tali emissioni c’erano già, e a
livelli anche maggiori di quelli attuali. Ma forse l’inquinamento
fa male quando governa Berlusconi, mentre quando governa Prodi
i camini emettono delicati effluvi alla lavanda. 2) I componenti
della commissione Aia sono stati sostituiti perché una legge dello
98
stato ha modificato la composizione dell’organismo che non avreb-
be dovuto occuparsi solo dell’Ilva ma dei 200 maggiori impianti
industriali italiani. Il condizionale in questo caso è d’obbligo visto
che i componenti di quell’organismo si sono dimostrati inefficien-
ti. Infatti la barricadera commissione nominata dal governo Prodi,
rimasta in carica dall’ottobre 2007 all’agosto 2008, ha emesso in
totale ben 4 pareri, e tutti e quattro l’ultimo giorno in cui è stata
in carica, due mesi fa, a scioglimento già annunciato, lasciando un
arretrato di 160 richieste. Nei 10 mesi di “intensa” attività la com-
missione Aia non ha bocciato l’Ilva, non ha difeso l’ambiente, non
era anti o pro diossina. Semplicemente non ha deciso. Ha perpe-
tuato insomma un metodo invalso nel recente passato secondo cui
il pubblico che doveva dire sì o no semplicemente non rispondeva,
paralizzava. Vendola, appreso della “decapitazione” dell’Aia (per
usare la sua terminologia) avrebbe dovuto rallegrarsi per la sosti-
tuzione di una commissione inefficiente e non in grado di tutelare
l’ambiente. Invece si è inquietato. Verrebbe da pensare che per
qualche ragione il presidente della Puglia preferisse avere l’Ilva con
la pistola dell’Aia alla tempia, piuttosto che un quadro di certezze
e prescrizioni precise. 3) Non risulta inoltre che alla riunione svol-
tasi al ministero il 16 ottobre (e non il 15) fossero presenti rappre-
sentanti dell’azienda, come sostiene il direttore dell’Arpa regionale.
Anche questo dato è facilmente verificabile consultando il foglio
delle presenze a quella riunione. 4) Sull’area di Taranto inoltre è
stato firmato all’inizio del 2008 (quindi da Vendola e da Pecora-
ro Scanio, oltre che da imprese ed enti locali) un accordo di pro-
gramma proprio su questi temi con prescrizioni che l’Ilva sta rispet-
tando. Quell’intesa prevede fra l’altro che l’Ilva realizzi un
impianto in grado, intanto, di dimezzare le emissioni. Ma il
comune non ha rilasciato l’autorizzazione a realizzarlo perché
ricade su un sito inquinato. Ci voleva un via libera del ministero
dell’Ambiente che, nella precedente gestione, non è arrivato. Ora
noi l’abbiamo dato. Il Comune darà finalmente l’autorizzazione?
99
O anche in questo caso si preferisce tenere tutto fermo, facendo nel
frattempo allarmate denunce? (...) Caro direttore, siamo un paese
strano. Con un presidente della Regione che da più di tre anni e
mezzo governa la Puglia e per tre anni, supponiamo, ha avuto sen-
timenti “anti-diossina” gelosamente custoditi nel cuore. E dire che
aveva il potere e per due anni un ministro dell’Ambiente in piena
sintonia politica. Avrebbe potuto fare leggi e sfracelli. Invece nien-
te. Caro direttore, noi siamo consapevoli della complessità dei pro-
blemi e stiamo intervenendo con impegno e responsabilità per
ridurre radicalmente le emissioni nocive senza, possibilmente,
costringere alla chiusura un’impresa che dà lavoro a mezza Taran-
to. Ma io sono arrivata 6 mesi fa. I “veleni” e Vendola c’erano già.
Da anni.
100
La legge
101
no adeguarsi ai valori limite ottenibili con l’applicazione
delle migliori tecnologie disponibili. In particolare, non
devono essere superati”, poi c’erano i due punti, e si anda-
va a capo.
“A partire dal primo aprile del 2009 la somma di 2,5
nanogrammi al metrocubo di diossine” e “a partire dal 31
dicembre del 2010 di 0,4”. In sostanza in quelle tre pagi-
nette era scritto che il Vulcano sarebbe dovuto sbarcare in
Europa, che si sarebbero dovuti adeguare alle leggi, che
tutto stava andando verso la normalità. Una legge, sulle
diossine. Tutta pugliese. “Un’assurdità”, pensai tra me e
me. Non dissi nulla, ascoltai Vendola e Assennato rincor-
rersi tra la chimica e la letteratura. “In caso di superamen-
to dei limiti, che verranno controllati dall’Arpa”, spiegava
il professore, “la Regione diffiderà il gestore dell’impianto
colpevole di tale superamento a rientrare, entro sessanta
giorni nei limiti previsti. Se il gestore non adempie, sarà
costretto a bloccare l’impianto.”
“I bambini di Taranto ci hanno raccontato la paura e la
bruttezza”, diceva Vendola, “hanno evocato la scena di
un’assenza solente: assenza di bellezza. Ovvero povertà di
qualità ambientale. Ma anche malattia e morte. I bambini
di Taranto ci hanno chiesto di far sul serio, di afferrare per
le corna un veleno cattivo come la diossina. Ci hanno chie-
sto di respirare il profumo della speranza.”
Una legge regionale, pugliese, sulle diossine. Questi sono
pazzi, pensai. Sorrisi, rimasi ad ascoltare per un po’, poi
finalmente riuscii ad andare a farmi una doccia.
Decisi che non sarei più tornato all’ospedale Testa,
quella mattina. Il Vulcano era sempre il Vulcano. E io
avevo paura.
102
Una notte il suo messaggio fu ricevuto
in un istante è stato trasportato
senza dolore
su di un pianeta sconosciuto
c’era un po’ più viola del normale
un po’ più caldo il sole
ma nell’aria un buon sapore
terre da esplorare
e dopo la terra il mare
un pianeta intero con cui giocare
e lentamente la consapevolezza
mista a una dolce sicurezza
l’universo è la mia fortezza
extraterrestre portami via
voglio una stella che sia tutta mia
extraterrestre vienimi a pigliare
voglio un pianeta su cui ricominciare.
Eugenio Finardi, Extraterrestre
103
Non ne parliamo poi con Fitto: è lui il ministro degli Affa-
ri regionali, tocca a lui impugnarla.” Il ministro Raffaele
Fitto non impugnò la legge pugliese sulle diossine.
104
Abbiamo già completato le fondamenta dell’impianto di urea e nei
prossimi giorni prenderanno il via i lavori di montaggio meccani-
co ed elettrico. Entro il 30 giugno sarà tutto pronto. Adesso l’Ilva
elaborerà uno studio per ridurre ulteriormente l’emissione di dios-
sine. E questo entro il 31 dicembre 2009. Ci auguriamo che lo spi-
rito rimanga di collaborazione e pragmatismo al fine di non rica-
dere negli stessi errori del passato.
Luigi Capogrosso, direttore stabilimento Ilva di Taranto
105
La passeggiata
106
lone, mi chiesi se Maria si fosse mai laureata, mi domandai
della polvere di Tina e della legge di Vendola. Mi dissero che
in fondo era cambiato poco, se non che il magma della cassa
integrazione stava diventando ancora più pericoloso. Mi
dissero che qualcuno aveva già posto dubbi sulla bontà della
legge regionale, “basta aggiungere ossigeno nei camini,
diluendo con l’aria le diossine, per sfalsare tutte le analisi”,
sostenendo una tesi non supportata però dai tecnici. Mi dis-
sero che c’era ancora bisogno di aspettare e che comunque
la vita continuava. Così mi dissero, un paio di amici, per
telefono. Appena chiusi, mi vennero in mente le parole di
Franco Sebastio, il procuratore capo del tribunale di Taran-
to. Un giorno a Taranto la gente decise di scendere in piaz-
za e di organizzare una manifestazione di protesta, come
non mai. C’erano le scuole, i medici, gli operai, le casalin-
ghe, i genitori. Fu una bella giornata. Quel giorno sentii il
procuratore Sebastio per telefono e mi disse che un poco gli
aveva fatto strano vedere tutta quanta quella gente in piaz-
za. “Sa, quando ci sono state le condanne contro Riva le
aule di tribunale erano vuote.” Vuote.
Pensai a Sebastio quella mattina di aprile, e che comun-
que questa volta sarei dovuto passarci, alle pendici del Vul-
cano. Parcheggiai la macchina davanti a un marciapiede
sbreccato, lì al Tamburi. Accanto c’è una chiesa dove un
dipinto di Cristo, alle spalle, ha le ciminiere dell’Ilva. Era
tutto chiuso, il Taranto giocava in casa. Entrai in un bar,
l’unico aperto, c’era una signora minuta dietro il bancone
e un televisore a tutto volume. Si litigava su Canale 5 così
forte che la signora nemmeno mi sentì entrare. Chiesi una
Coca Cola, feci caso alle macchine parcheggiate con due
dita di polvere sopra e ai muri scrostati e colorati.
“Signora, ma lei vive qui?”
“Sì, qui accanto.”
107
“Ma come si vive in questo quartiere? Non ha paura di
vivere qui al Tamburi?”
“Beh, effettivamente un poco sì. Ci sono gli spacciato-
ri. E poi la lampadina qui di fronte è un mese che è rotta,
e nessuno l’aggiusta. Quando mi ritiro a casa la sera, dopo
la chiusura, ci sono un sacco di brutte facce e un poco mi
viene la paura.”
108
Una cronologia*
1957
[Italsider] Prime voci circa la localizzazione di uno stabili-
mento siderurgico nella zona di Taranto.
[Stato] Necessità di un nuovi investimenti in siderurgia
nel Mezzogiorno. Attività di lobbing parlamentare per
convogliare nell’area di Taranto gli investimenti pubblici.
[Comune di Taranto] Dopo un lungo susseguirsi di giun-
te di sinistra (Taranto rossa) inizia un lungo periodo di
giunte democristiane. Il sindaco, Raffaele Leone, convoca
una riunione per la costituzione di un consorzio per l’area
industriale.
[Sindacati] Atteggiamento favorevole alla localizzazione a
Taranto del centro siderurgico.
[Associazioni] Non vi sono opposizioni rispetto alla loca-
lizzazione dell’impianto a Taranto.
1959
[Stato] A giugno il comitato dei ministri per le partecipa-
zioni statali delibera la costruzione a Taranto del IV cen-
tro siderurgico.
[Italsider] Costruzione a Taranto del IV centro Siderurgico
[Comune di Taranto] La città esulta.
109
1960
[Italsider] Italsider rappresenta una speranza per la popo-
lazione: viene percepita come una opportunità di miglio-
ramento delle condizioni di vita. Preparazione del sito per
accogliere l’impianto.
[Stato] Dagli studi commissionati dalla Finsider vengono
individuate tre zone comunali che presentavano caratteri-
stiche idonee.
[Comune di Taranto] Si decide la localizzazione dello sta-
bilimento con superficie di 528 ettari, separato dalle abi-
tazioni cittadine solo da una strada statale senza tener
conto delle prescrizioni del piano regolatore. La camera di
commercio in un documento di qualche anno prima riba-
diva la necessità dell’ubicazione della nuova area indu-
striale in prossimità delle grandi linee stradali, ferroviarie e
marittime.
Si costituisce il consorzio per l’area di sviluppo industriale
(Consorzio ASI) che cerca di regolamentare l’insediamen-
to della grande fabbrica.
1961
[Italsider] Iniziano i primi lavori per la costruzione dello
stabilimento. I bulldozer sradicano ventimila alberi di
ulivo tra l’indifferenza generale, anche di quei proprietari
terrieri che vengono comunque risarciti con buoni inden-
nizzi.
[Comune di Taranto] Boom economico tarantino: la
popolazione aumenta di oltre 32.000 unità.
[Associazioni] Si segnalano mancanza di infrastrutture ed
eccessivo sfruttamento delle risorse naturali.
1964
[Italsider] A ottobre viene avviato il primo altoforno.
110
[Associazioni] Il circolo universitario popolare jonico
(CUPJ) che nel 1964 si trasforma in università popolare
jonica (UPJ) funge da spazio di elaborazione culturale.
Proprio nei locali dell’UPJ, siti nella centralissima via
D’Aquino, per la prima volta la direzione dell’Italsider si
confronta con la cittadinanza: il direttore dello stabili-
mento Arnaldo Mancinelli presenzia dei confronti sulle
grandi questioni ecologiche. Italia Nostra, attraverso il suo
presidente Antonio Rizzo, esprime perplessità nei con-
fronti di un’industrializzazione incontrollata.
1968
[Italsider] Progetto di ampliamento dello stabilimento da
528 a 1500 ettari (due volte la superficie urbana della città
di Taranto).
[Stato] comitato interministeriale per la programmazione
economica (CIPE) delibera i lavori di ampliamento.
[Comune di Taranto] Il consiglio comunale è chiamato a
esprimersi rispetto all’ipotesi di ampliamento.
[Sindacati] Si afferma con decisione la questione ambien-
tale. Dibattito tra forze politiche e sindacali.
1970
[Stato] A marzo il comitato tecnico esecutivo dell’IRI rela-
ziona sulla opportunità dell’ampliamento dell’Italsider di
Taranto. Il 26 novembre la relazione viene approvata dal
CIPE.
[Comune di Taranto] A novembre viene istituita una con-
ferenza dei servizi per la discussione dei lavori d’amplia-
mento di stabilimento e porto industriale e per la variante
al piano ASI necessaria.
[Regione Puglia] A dicembre viene istituita la regione
Puglia con l’approvazione del suo statuto.
111
[Sindacati] Le forze politiche e sindacali, seppur con
accenti diversi, giudicano con favore l’ulteriore sviluppo
industriale ma rivendicano l’importanza nelle decisioni
finali della volontà locale espressa in consiglio comunale.
1971
[Italsider] I lavori di ampliamento porteranno l’Italsider
“sul mare”, concedendole tre dei cinque sporgenti per l’at-
tracco delle navi che trasportano materie prime, con gravi
conseguenze per l’ecosistema della rada di Mar Grande,
già fortemente compromesso con la prima fase insediativa
e con la conseguente distruzione dell’isola di San Nicolic-
chio, piccolissima isola disabitata utilizzata dai pescatori
come appoggio per le loro attività. A settembre viene
avviato l’altoforno 4.
[Comune di Taranto] A gennaio la Giunta Comunale
nega la licenza edilizia per l’ampliamento.
[Stato] A marzo il Comitato dei Ministri per il Mezzo-
giorno invita il Comune alla concessione della licenza “in
precario” all’Italsider per i lavori d’ampliamento
[Comune di Taranto] Dopo le pressioni del Comitato dei
Ministri per il Mezzogiorno, ad ottobre, viene concessa la
licenza “in precario”.
[Associazioni] L’associazionismo ambientalista locale
muove i primi passi convocando manifestazioni pubbliche
nelle vie del centro cittadino e momenti di sensibilizzazio-
ne e riflessione soprattutto nel quartiere Tamburi, il più
colpito dall’attività industriale.
ll 31 gennaio (in pieno dibattito sulla variante al piano
ASI) durante la manifestazione “Taranto per un’industria-
lizzazione umana” organizzata nel centro cittadino da Ita-
lia Nostra, furono esposti in Piazza della Vittoria panni
simbolicamente anneriti dal fumo, sugli alberi della stessa
112
piazza furono appesi cartelli che riportavano la scritta
“reliquia”, furono esposte altre “reliquie” contenenti “aria
non inquinata”, “acqua dello Jonio non inquinata” e “ter-
reno agrario purissimo”.
Il Circolo Culturale “La Routine”, con sede nel quartiere
Tamburi, riesce a raccogliere 700 firme per una sottoscri-
zione finalizzata a sensibilizzare le istituzioni competenti
sul problema ambientale.
[Regione Puglia] Viene istituito il Comitato Regionale per
L’Inquinamento Atmosferico (CRIA) ma sin dal suo inse-
diamento il comitato non interverrà nell’area di Taranto.
[Provincia di Taranto] La tematica ambientale acquista
legittimazione a livello istituzionale. L’Amministrazione
Provinciale organizza un convegno dal titolo “Inquina-
mento ambientale e salute pubblica a Taranto”, durante il
quale per la prima volta si confrontano tutti gli attori inte-
ressati alla salvaguardia ambientale: amministratori locali,
studiosi, sindacalisti, ambientalisti e rappresentanti del-
l’industria. Sull’onda lunga del convegno, per la prima
volta a Taranto, si decide di condurre uno studio sull’in-
quinamento atmosferico che viene commissionato dal
Comune. I primi risultati indicano abbastanza chiaramen-
te che nella zona occidentale della città esiste un processo
di crisi ambientale”.
[Italsider] La direzione dello stabilimento, nel corso del
dibattito sull’ampliamento, annuncia investimenti per 50
miliardi di lire per il perfezionamento e potenziamento di
impianti di depurazione e abbattimento dei fumi, e la
collaborazione con una società statunitense, la Ecological
Science Corporation, per la revisione del processo pro-
duttivo.
Per i lavori di ampliamento si annunciano ulteriori inve-
stimenti in eco-compatibilità per 75 miliardi di lire.
113
1972
[Sindacati] CGIL CISL e UIL organizzano la prima piatta-
forma rivendicativa della lunga Vertenza Taranto.
Il sindacato e la classe operaia tarantina – con le loro lotte e
la loro cultura, nate dalla fusione dei caratteri innovativi
delle conquiste e delle posizioni della classe operaia del
Nord con le migliori tradizioni del bracciantato pugliese –
riaffermeranno nel corso dei decenni la propria presenza,
difendendo e migliorando le condizioni di vita e di lavoro
nell’area industriale, contribuendo a modificare i rapporti
sociali, politici, economico-produttivi della città e, in gran
parte, della provincia. Il Movimento operaio tarantino –
storicamente fra i più forti nel Mezzogiorno – saprà supera-
re anche l’ambito provinciale per diventare un punto di rife-
rimento valido per l’intero Movimento sindacale italiano.
1974
[Italsider-Sindacati] A seguito della Vertenza Taranto
viene firmato l’accordo tra sindacati ed Italsider. Nell’ac-
cordo viene inserito il problema dell’eco-compatibilità e
dell’ammodernamento impiantistico. Gli impegni assunti
dall’Italsider, in tutti i suoi stabilimenti, ammontano a 90
miliardi di lire da spendere per la maggior parte a Taran-
to. Vengono riviste l’organizzazione del lavoro in fabbrica
e gli investimenti in campo ecologico.
[Comune di Taranto] Creazione del Servizio Sicurezza
Lavoro e del Servizio per l’Igiene del Lavoro e Ambientale.
1975
[Italsider] Crollo del consumo mondiale di acciaio (-8%).
Solo nei Paesi della Comunità Europea la diminuzione fu
addirittura del 18%. Il costo del lavoro all’Italsider si col-
locava ad un livello nettamente superiore alla media nazio-
114
nale. In effetti la forza-lavoro Italsider era ben organizzata,
dotata di un elevato potere contrattuale, grazie alla pre-
senza di un sindacato forte di una percentuale di adesioni
del 75%. Nel complesso, la caduta della produttività era
legata principalmente alla diminuzione dell’attività pro-
duttiva che, a sua volta, si inquadrava nella crisi struttura-
le dell’azienda.
1976
[Stato] Viene varata la Legge Merli, che detta la disciplina
per gli scarichi degli insediamenti industriali. Rimarrà
inapplicata fino alla metà degli anni Ottanta, per i ritardi
del governo nell’emanare i decreti esecutivi.
[Regione Puglia] Stenta ad assumere quel ruolo di indiriz-
zo e programmazione conferitole dalla legge Merli a causa
della mancanza di adeguate risorse finanziarie.
1978
[Stato] Viene istituito il Servizio sanitario nazionale (SSN)
con la legge 833, la legge della riforma sanitaria. La rifor-
ma prevede la creazione di apparati tecnico-burocratici, le
Unità sanitarie locali (USL), alle quali vengono assegnati
anche compiti di prevenzione e tutela dell’ambiente.
1979
[Stato] L’attività svolta dall’Istituto Nazionale per gli
infortuni sul lavoro (INAIL) sin dall’insediamento del
Siderurgico inizia a far emergere i primi preoccupanti dati
relativi all’incidenza delle malattie professionali derivanti
dall’esposizione a gas, fumi e polveri altamente nocive.
[Provincia di Taranto] A settembre del 1979, vengono
installate 5 stazioni fisse di rilevamento posizionate in
punti strategici del territorio provinciale. Dall’analisi dei
115
dati emerge un primo rapporto sullo stato dell’ambiente
nell’area jonica.
1980
[Italsider] Si acuisce la crisi del settore siderurgico, infatti
negli anni 1980, 1981, 1982, si registrerà un calo costan-
te della domanda mondiale.
Nel 1983 la domanda scende fino a raggiungere i 300
milioni di tonnellate nei paesi industrializzati.
[Magistratura] Prime azioni della Magistratura nei con-
fronti di una serie di impianti industriali tarantini, tra i
quali la Cementir, l’IP e anche l’Italsider.
1981
[Italsider] L’effetto della crisi della siderurgia vede Italsider
in grave crisi di liquidità e incapace di fronteggiare la
situazione con mezzi propri, l’azienda viene ceduta alla
Nuova Italsider e sottoposta a una ricapitalizzazione.
Viene avviato un programma, denominato TARAP-
MRO, di ristrutturazione degli impianti e dei processi
produttivi su consulenza della Nippon Steel. Lo scopo era
quello di migliorare l’efficienza degli impianti e di razio-
nalizzare i costi assai elevati.
Attraverso questo piano si cercava, con l’aiuto della side-
rurgia leader nel mondo, quella giapponese, di porre rime-
dio alle diseconomie di scala generatesi dopo il raddoppio,
a causa della crisi siderurgica, agli errori gestionali e
soprattutto alla bassa produttività degli impianti.
1982
[Magistratura] La Pretura di Taranto indaga per getto di
polveri e inquinamento da gas, fumi e vapori, i vertici del-
l’Italsider.
116
Il processo si svolge nel 1982, vede la partecipazione di
numerosi testimoni provenienti dai quartieri più a rischio
d’inquinamento industriale (Tamburi, Città Vecchia,
Paolo VI) e, almeno in una prima fase, la costituzione di
parte civile non solo di associazioni ambientaliste ma
anche del Comune.
[Comune di Taranto] Dopo una prima fase in cui si era
costituito parte civile nel processo contro l’Italsider, nel
corso dell’anno però l’orientamento dell’Amministrazione
Comunale cambia: quasi alla vigilia della sentenza il sin-
daco dell’epoca, Giuseppe Cannata, annuncia la revoca
della costituzione di parte civile del Comune per motivi di
opportunità politica.
[Magistratura] Il processo si conclude con la condanna del
direttore dello stabilimento Italsider a 15 giorni di arresto
con l’accusa di getto di polveri ma non di inquinamento
da fumi, gas e vapori
1984
[Italsider] Dopo la sentenza la direzione dell’Italsider si
adopera per migliorare la percezione dell’attività dello sta-
bilimento, soprattutto attraverso la carta stampata. In que-
sto senso gli interventi dei dirigenti evidenziano gli inve-
stimenti che dalla metà degli anni Settanta si sono realiz-
zati e quelli in fase di realizzazione che riguardano sempre
gli impianti ecologicamente più critici.
[Comune di Taranto] Costituzione del Fondo d’Impatto
Ambientale. Il comitato direttivo del Fondo comprende
13 membri, 7 rappresentanti degli Enti Locali, 3 dei sin-
dacati e 3 delle industrie. Il Fondo è alimentato dallo
0,85% del monte salari delle industrie stesse e rimane in
vita fino alla durata in carica del sindaco di sinistra Mario
Guadagnalo, presidente dal Fondo. La portata innovativa
117
in termini di finalità annunciate del Fondo viene smenti-
ta all’atto pratico: le azioni intraprese sono di natura pret-
tamente ordinaria, non incidono in maniera strutturale
sul problema delle polveri e più in generale dell’inquina-
mento.
1986
[Stato] Con la Legge n. 349 viene istituito il Ministero
dell’Ambiente.
1988
[Stato] Viene approvato dall’IRI un piano di ristruttura-
zione discusso sia dal Parlamento che in sede comunitaria.
Esso prevede aiuti per un ammontare di 5.170 miliardi di
lire.
Nel contempo a maggio inizia il processo di liquidazione
volontaria della Finsider, dell’Italsider, della Nuova Delta-
sider e della Terni Acciai Speciali, che si concluderà nel
1989 con la costituzione di una nuova società, l’Ilva spa.
1991
[Stato] Il Ministero dell’Ambiente dichiara l’area di Taran-
to “area ad elevato rischio ambientale”.
L’area interessata, oltre al comune di Taranto, comprende
altri 4 comuni della provincia jonica (Crispiano, Massafra,
Montemesola, Statte) per un totale di 564 kmC e 263.614
abitanti.
[Associazioni] Nasce PeaceLink, associazione ambientalista
che, per prima, utilizza strumenti telematici per la diffusio-
ne delle informazioni sulle tematiche della pace ma anche
sulle problematiche ambientali, soprattutto a Taranto.
118
1994
[Stato] L’ENEA avvia il “Piano di disinquinamento per il
risanamento del territorio della provincia di Taranto” che
verrà pubblicato nel 1998 seguito da una nuova dichiara-
zione da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri
(D.P.C.M. 30/07/97).
La dichiarazione di area ad elevato rischio di crisi ambien-
tale ha validità massima per un periodo massimo di 5 anni
(art. 7, comma 1 L. 349/86). La dichiarazione reiterata è
avvenuta perciò con un ritardo di 2 anni rispetto ai tempi
previsti dalla legge.
La dichiarazione di area ad elevato rischio ambientale del
1990 e le successive reiterazioni, segnano gli ultimi signi-
ficativi avvenimenti della storia ambientale che lega il ter-
ritorio tarantino alla gestione pubblica dello stabilimento
siderurgico. Infatti, nella prima metà degli anni Novanta,
si esaurisce l’intervento pubblico nel settore dell’acciaio.
1995
[Stato-Ilva] In aprile giunge al termine la trattativa tra
l’IRI e il Gruppo Riva per l’acquisizione dello stabilimen-
to di Taranto. Il prezzo di cessione concordato è di 1460
miliardi. Il Gruppo Riva si presenta come una vera e pro-
pria multinazionale (non quotata in Borsa) che ha però
mantenuti intatti gli equilibri di gestione e controllo di
tipo familiare, infatti uno dei due fondatori è ancora il
presidente del Gruppo, Emilio Riva, che gestisce le attivi-
tà affiancato nelle posizioni dirigenziali chiave dai figli e
dai nipoti.
[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Le istituzioni
locali sono tenute fuori dal tavolo di negoziazione tra IRI
e Gruppo Riva. Gli esponenti politici si limitano ad inter-
venire seguendo la scia delle rivendicazioni sindacali, non
119
ponendo la questione ambientale tra le priorità nell’agen-
da istituzionale.
[Associazioni] L’associazione “Caretta Caretta” denuncia il
versamento in Mar Grande di sostanze non trattate da un
canale di scarico dell’Ilva.
1996
[Regione Puglia] La Regione viene investita di competen-
ze speciali in materia ambientale ed è quindi costretta a
dedicare una parte del suo apparato tecnico-amministrati-
vo a queste tematiche. Il ruolo della Regione acquista rilie-
vo nella questione ambientali per la collaborazione con il
Ministero dell’Ambiente alla realizzazione del Piano di
Risanamento.
Nel maggio si crea l’Ufficio del commissario delegato per
l’emergenza ambientale, una carica per un certo periodo
condivisa dal prefetto di Bari e dal presidente della Regio-
ne con competenze differenziate per ambiti d’intervento e
in seguito (agosto 2000) assegnato al solo presidente regio-
nale.
1997
[Regione Puglia-Ilva] Viene siglato il Primo Atto d’intesa
tra Regione e Ilva. L’Atto non prevede né limiti di tempo
più stringenti in fatto di risanamento né il ricorso a san-
zioni in caso di inadempienze. Viene presentato dal Grup-
po Riva il primo piano industriale di investimenti per 539
miliardi di lire per rifacimenti di nuovi impianti e per
l’eco-compatibilità e la sicurezza sul lavoro.
Inizia nello stesso periodo l’intervento per la rimozione
dell’amianto dagli impianti produttivi.
[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Le istituzioni
locali svolgono un ruolo marginale, non delineando una
120
strategia d’intervento da seguire. Comune e Provincia si
limitano a intervenire nella fase di attuazione e coordina-
mento degli interventi previsti nel Piano, a livello comu-
nale tentano di portare avanti il progetto del Fondo di
Impatto Ambientale.
[Sindacati] Il fronte sindacale non partecipa ai tavoli di
concertazione tenuti a livello regionale e i malumori ini-
ziano a serpeggiare soprattutto negli ambienti della UIL.
Si denuncia la mancanza di impegno su una serie di pro-
blematiche ambientali presenti all’interno dello stabili-
mento, ci si scaglia contro la logica dell’accordo che di
fatto “concede una proroga di due anni e mezzo all’impre-
sa per adeguarsi agli impegni”. La UIL inizia a distinguer-
si rispetto alla CGIL e alla CISL, mantenendosi più rigida
rispetto all’approccio collaborativo che diventa predomi-
nante in campo politico e sindacale.
1998
[Stato-Ilva] Dopo otto anni di attesa dalla prima dichiara-
zione di Area a elevato rischio di crisi ambientale arriva in
primavera il piano di risanamento ambientale messo a
punto dall’ENEA per conto del ministero dell’Ambiente.
Il Piano prevede interventi, in termini di finanziamento, a
titolarità privata e pubblica, con diversi livelli di priori-
tà.Tra gli interventi a titolarità privata ben 14 su 25 si con-
centrano sugli impianti Ilva, per una spesa complessiva di
208 miliardi, quelli a titolarità pubblica (48 miliardi)
riguardano azioni per porre rimedio a decenni di mancan-
za di controlli rispetto al rapporto salute-industria. Il
rispetto delle fasi di attuazione si rivelerà completamente
disatteso. I tempi stringenti fissati nell’Atto d’Intesa
Regione-Ilva, gli stessi interventi ribaditi nel Piano ed altri
interventi previsti in sede di trattativa IRI-Riva non ver-
121
ranno rispettati. Deterioramento delle relazioni tra il
management Ilva e operai. Scoppia il grave caso di mob-
bing delle palazzine Laf a danno di 70 operai successiva-
mente costretti alle dimissioni.
2000
[Stato-Regione Puglia] Visto il ritardo nell’attuazione del
Piano di risanamento, ad agosto, il ministero dell’Interno,
affida la titolarità esclusiva dello stesso al presidente della
regione nella sua veste di commissario delegato per l’e-
mergenza ambientale in Puglia.
[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Comune e
Provincia vengono privati delle loro prerogative nei mec-
canismi di controllo e di attuazione del Piano.
[Comune di Taranto] Nel corso della primavera con le ele-
zioni amministrative si conclude definitivamente l’espe-
rienza del “citismo” (Giancarlo Cito era stato eletto sinda-
co nel 1993). Le elezioni le vince il centrodestra con il sin-
daco Rossana Di Bello.
Creazione della commissione consiliare “Ambiente ed
Ecologia” che svolge un’indagine conoscitiva sullo stato
dell’ambiente e della salute dei cittadini.
[Stato] Relazioni allarmanti del Presidio Multizonale di
Prevenzione PMP (uffici tecnici delle ASL) circa l’inqui-
namento prodotto dalla produzione del coke e richiesta
del fermo delle batterie 3 e 6.
[Magistratura] In base alle ipotesi di reato segnalate dalla
relazione del PMP sull’inquinamento industriale dell’Ilva
viene realizzata una perizia a seguito della quale si invita-
no gli organi istituzionalmente competenti ad intervenire.
2001
[Comune di Taranto] A seguito della perizia e della lette-
122
ra della Magistratura con la quale si invitava, chi di dove-
re, a prendere provvedimenti circa l’inquinamento indu-
striale prodotto dagli stabilimenti Ilva, l’Amministrazione
comunale, con una “storica” ordinanza sindacale (6 feb-
braio) ordina, entro 15 giorni (poi passati a 90) dalla noti-
fica dell’ordinanza, di realizzare interventi migliorativi
relativamente ai forni delle batterie 3 e 6, di ridurre la pro-
duzione di coke con il fermo delle batterie 3 e 6 o alter-
nativamente di procedere alla sostituzione delle stesse.
Scoppia la “vertenza ambiente”.
[Ilva] Il Gruppo Riva che fino a quel momento si era
dichiarato disposto al dialogo solo con l’interlocutore
regionale, si dimostra conciliante. Intanto viene formula-
to un ricorso al TAR mentre le azioni messe in atto per
scongiurare il fermo delle batterie oggetto dell’ordinanza
risultano insufficienti. La direzione dello stabilimento
sembra reagire come nel 1997, mostrandosi da un lato
favorevole al dialogo e dall’altro non rispettando gli impe-
gni pattuiti per ritardi o “imperfezioni” nelle fasi di attua-
zione.
[Magistratura] Avvisi di garanzia inviati al presidente del
gruppo Riva e ad altri due dirigenti dello stabilimento,
legati alle risultanze della maxiperizia realizzata per conto
della procura nei mesi precedenti.
[Sindacati] Le confederazioni sindacali si dichiarano espli-
citamente contrari e a una “vertenza ambiente” condotta
attraverso le ordinanze, esprimono preoccupazione nei
confronti di un crescente antindustrialismo che si diffon-
de in città, denunciano eccessiva strumentalizzazione poli-
tica della vicenda e ripropongono lo strumento del Piano
di risanamento, seppur rivisto nei meccanismi di attuazio-
ne, come strada da seguire.
[Associazioni] L’associazionismo ambientalista si mostra
123
compatto nell’appoggiare l’ordinanza comunale. Viene
praticata una forte azione di denuncia per favorire un
coinvolgimento della cittadinanza nei processi decisionali
territoriali e diffusione dell’informazione attraverso gli
strumenti telematici. Per la prima volta viene posta la que-
stione dell’effettiva attivazione dell’Agenzia regionale per
la protezione dell’ambiente (Arpa) che, a distanza di due
anni dalla legge regionale di istituzione, non è entrata
ancora nella fase operativa.
[Comune di Taranto] Il 31 ottobre il sindaco Di Bello
invia una lettera pubblica al presidente delle Regione Fitto
nella quale afferma di avvertire la limitatezza dei suoi pote-
ri di sindaco e “quel che è peggio […] una sorta di sotto-
missione istituzionale ormai conclamata verso i responsa-
bili dell’inquinamento” .
[Ilva] In risposta alla pressione proveniente da Comune e
Magistratura, la direzione dello stabilimento per la prima
volta decide di rivolgersi direttamente alla cittadinanza
rivendicando il ruolo di fonte di occupazione e reddito per
la città, evidenziando gli investimenti fatti sin dal 1995
per migliorare l’impatto ambientale e rendendosi disponi-
bile a continuare in questa direzione che è l’unica a garan-
tire rispetto della salute dei cittadini e una posizione di
primo piano per l’azienda nel panorama mondiale. Sono
le idee principali espresse in una lettera firmata da Emilio
Riva e inviata in ottobre alle famiglie tarantine.
2002
[Comune di Taranto] Il sindaco non riesce a persuadere il
Gruppo Riva ed è costretto a cambiare atteggiamento,
richiedendo l’intervento del Governo centrale e della
Regione Puglia.
L’opposizione di centrosinistra, dopo aver appoggiato le
124
azioni del sindaco, rivede la sua posizione e lo invita a per-
seguire, insieme a Provincia e Regione, gli interventi pre-
visti nel Piano di risanamento del 1998 che attendono
ancora attuazione.
[Magistratura] A luglio, in un clima più favorevole a un
approccio consensuale, arriva la condanna di primo grado
per il procedimento iniziato nel 1999. Qualche giorno
dopo la sentenza, l’Ilva comunica la decisione di spegnere
le batterie oggetto delle ordinanze comunali e di ridurre
gli investimenti per lo stabilimento tarantino.
[Associazioni] L’associazionismo continua ad appoggiare
l’Amministrazione Comunale e l’azione della Magistratu-
ra che in questa fase sembrano operare in maniera sinergi-
ca. Dopo una fase iniziale di reciproca diffidenza, gli
ambientalisti cercano il confronto con i sindacati per con-
dividere una piattaforma di rivendicazione della tutela
occupazionale e del rispetto dell’ambiente.
[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune di
Taranto-Ilva] Inizia la cosiddetta “stagione delle intese”. Il
ministero dell’Industria, a settembre, istituisce un tavolo,
da attivare a livello regionale, con il compito di definire un
accordo per il risanamento complessivo dello stabilimento
siderurgico che definisca in maniera puntuale gli investi-
menti che il Gruppo Riva deve realizzare. Al livello regio-
nale è anche affidata la realizzazione di un Accordo di Pro-
gramma che interessi tutta l’area ionica da risanare. Viene
siglato il primo Atto di intesa, ne seguiranno altri 3, nel
quale vengono concordati interventi precisi con altrettan-
te scadenze temporali vincolanti finalizzate all’adegua-
mento delle migliori tecniche disponibili (BAT Best Avai-
lable Techniques) necessarie per il rilascio dell’Autorizza-
zione Integrata Ambientale (AIA) prevista dalle direttive
europee.
125
2003
[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune di
Taranto-Ilva] L’8 gennaio viene siglato il secondo Atto
d’intesa che prevede il potenziamento del barrieramento
tra lo stabilimento e le aree urbane contigue ad esso, tra-
mite l’ampliamento delle colline artificiali esistenti. Si
accertò poi che l’opera oltre che non comportare miglio-
ramenti riguardo alla dispersione di inquinanti in atmo-
sfera, avrebbe provocato il peggioramento della qualità
della vita dei residenti, alterando la morfologia dei luoghi,
accentuando l’attuale chiusura del quartiere e la sua sepa-
razione dal contesto territoriale, riducendo luce e aria agli
edifici residenziali e scolastici adiacenti.
2004
[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune di
Taranto-Ilva] Il 27 febbraio viene siglato il terzo Atto d’in-
tesa e il 15 dicembre il quarto Atto d’intesa. Uno degli
aspetti positivi di innovazione degli Atti d’Intesa sta nella
volontà di racchiudere finalmente in un quadro organico
e di concreta realizzazione la miriade di interventi pro-
grammati fino a quel momento. I risultati, però, sono
limitati in quanto ad interventi di natura prettamente tec-
nica e a breve termine si alternano interventi e atti pro-
grammatori a lungo termine.
Molti problemi di natura strettamente tecnica vengono
affrontati in maniera poco convincente.
[Comune di Taranto-Provincia di Taranto] Solo dopo la
sottoscrizione del 3° Atto d’intesa, Comune e Provincia
ritirano la costituzione di parte civile nel processo che
aveva visto la condanna in primo grado dei vertici dello
stabilimento per le polveri del parco minerali che ricade-
vano sul quartiere Tamburi.
126
[Stato-Comune di Taranto-Regione Puglia] L’intervento
di “barrieramento” a ridosso dei parchi minerari è sosti-
tuito da un nuovo progetto per il risanamento del quar-
tiere Tamburi. Si tratta, però, di un Programma che mai
avrebbe potuto essere approvato dal Ministero per palese
incompatibilità dei contenuti con i regolamenti della deli-
bera CIPE 2004.
2005
[Regione Puglia] Nelle elezioni di aprile viene eletto presi-
dente della regione Puglia Nichi Vendola.
2006
[Comune di Taranto] Il 17 ottobre viene dichiarato uffi-
cialmente lo stato di dissesto finanziario del Comune di
Taranto.
[Stato-Regione Puglia-Comune di Taranto] La struttura
commisariale del Comune di Taranto e la Regione Puglia
rimodulano il Programma di risanamento di Tamburi per
renderlo coerente con il regolamento CIPE.
2007
[Comune di Taranto] Il 14 giugno Ippazio Stefano viene
proclamato sindaco di Taranto.[Regione Puglia] Viene
riorganizzata L’Arpa (Agenzia regionale per l’ambiente)
che inizia una campagna di rilevamento dei dati dell’in-
quinamento prodotto dall’Ilva. Emergono dati preoccu-
panti soprattutto per quanto riguarda le emissioni di dios-
sine e di Idrocarburi Policiclici Aromatici.
[Associazioni] A maggio, PeaceLink, Uil Taranto e il
Comitato contro il rigassificatore, presentano un dossier
allarmante sull’inquinamento.
[Ilva] A giugno l’Ilva querela i relatori del dossier sull’in-
127
quinamento per “procurato allarme ambientale”.
[Associazioni] Comincia nuovamente a diffondersi un dif-
fuso senso di preoccupazione tra la popolazione.
2008
[Regione Puglia] L’Arpa continua la campagna di rileva-
mento delle emissioni inquinanti e i dati resi pubblici
sono sempre più allarmanti. Attraverso una rimodulazio-
ne dell’originario progetto di riqualificazione del quartie-
re Tamburi, vengono stanziati e resi utilizzabili per la
costruzione del mercato rionale, la realizzazione di urba-
nizzazioni e spazi verdi e la bonifica dei suoli inquinati, 10
milioni di euro in attuazione della delibera CIPE n. 3 del
22 marzo 2006 con l’impegno a stanziare ulteriori 68
milioni di euro includendoli nel nuovo ciclo di program-
mazione dei fondi FAS (Fondo Aree Sottoutilizzate). Ad
agosto viene siglato l’atto integrativo d’intesa che rende
utilizzabili i 10 milioni di euro.
[Associazioni] Anche le associazioni si attivano creando
una propria rete di informazione e divulgazione dei dati.
Si crea un vero e proprio allarme inquinamento e riemer-
ge un diffuso atteggiamento “antindustriale”. Inizia un
dibattito circa l’opportunità di indire un referendum cit-
tadino sull’opportunità di chiudere lo stabilimento Ilva,
seppur con varie sfumature (chiusura totale o del solo ciclo
di lavorazione a caldo).
[Regione Puglia] Il 30 luglio il presidente Vendola in una
lettera aperta al presidente del consiglio Berlusconi sotto-
linea tutta la gravità del “caso Taranto” e lo invita a colla-
borare per la soluzione del problema.
[Stato] Ad agosto la risposta arriva attraverso il ministro
dell’ambiente Prestigiacomo che a fronte di generiche
dichiarazioni di interessamento sul caso Taranto (annun-
128
cia anche un Consiglio dei Ministri a Taranto per settem-
bre che non avrà mai luogo) di fatto si schiera a fianco del
Gruppo Riva sostenendo di non ritenere opportuna la
revisione delle limitazioni legislative alle emissioni inqui-
nanti (quelle italiane sono scandalosamente alte) sottoli-
neando invece positivamente gli sforzi tecnici e di investi-
mento dell’Ilva per la riduzione delle emissioni.Viene
addirittura messa in discussione l’attendibilità dei dati
prodotti dall’Arpa. Sullo sfondo sembra esserci l’iter per
l’adeguamento alle “migliori tecniche disponibili” (BAT-
Best Available Tchniques) da parte dell’Ilva e il conse-
guente rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale
(AIA) prevista dalle direttive europee. Contestualmente,
in sede europea, il governo pone la questione dell’insoste-
nibilità per l’Italia delle limitazioni alle emissioni di Co2.
[Associazioni] Le associazioni, e più in generale la comu-
nità tarantina, assistono a quello che sembra essere uno
scontro istituzionale senza precedenti e si preparano a
sostenere l’azione della Regione Puglia.
[Regione Puglia] La stagione delle intese sembra definiti-
vamente terminata. Il 20 novembre, all’ospedale Testa di
Taranto, viene presentata la nuova legge regionale sulle
emissioni di diossina. La Legge impone, a tutti gli impian-
ti che producono diossine, di rispettare i limiti alle emis-
sioni di 0,4 nanogrammi all’ora, in linea con quelli indi-
cati dal Protocollo di Aarhus.
[Ilva] La dirigenza dello stabilimento dichiara l’impossibi-
lità a rispettare i tempi previsti dalla Legge.
[Associazioni] Il 29 novembre il comitato cittadino Alta-
marea, che riunisce 18 fra associazioni e movimenti
ambientalisti, indice una grande manifestazione contro
l’inquinamento. Con lo slogan “Vogliamo Aria Pulita!”
più di 20.000 persone scendono in piazza.
129
[Regione Puglia] Il 16 dicembre viene approvata dal con-
siglio regionale della Puglia la Legge regionale “anti-dios-
sine”, con l’astensione dell’opposizione di centro-destra ad
eccezione di tre consiglieri che sostengono la maggioranza
per l’approvazione del provvedimento. Un solo consiglie-
re di opposizione abbandona l’aula al momento del voto.
2009
In seguito all’approvazione della Legge regionale “anti-
diossina”e in vista della prima fase della sua applicazione
(1 aprile 2009) si apre un forte dibattito circa la sua effet-
tiva applicabilità.
[Ilva] La direzione dello stabilimento, oltre a ribadire le
sue valutazioni negative delle prescrizioni previste dalla
Legge regionale, annuncia ripercussioni sul piano occupa-
zionale.
[Stato] Agli inizi di febbraio, il ministero dell’Ambiente,
recependo le sole preoccupazioni della dirigenza Ilva, con-
voca un tavolo di concertazione tra Ministero, Regione
Puglia, Ilva e sindacati per evitare la paventata chiusura
degli impianti e arriva a ‘minacciare’ il ricorso contro la
Legge regionale per incostituzionalità.
[Sindacati-Associazioni] Forte dibattito nella comunità
tarantina con posizioni sostanzialmente convergenti nel
ritenere necessario un punto di mediazione tra le ragioni
ambientali e le problematiche occupazionali. Il 17 gennaio
Legambiente avvia a Taranto la campagna nazionale
“Mal’aria” e presenta il libro bianco sull’inquinamento
atmosferico da attività produttive in Italia.
[Regione Puglia] La Regione Puglia ribadisce l’assoluta
sostenibiltà della riduzione delle emissioni di diossina pre-
vista dalla prima fase della Legge regionale, peraltro già
ottenuta in una precedente sperimentazione (giugno
130
2007) mediante l’impiego del trattamento con urea.
[Stato-Regione Puglia-Provincia di Taranto-Comune di
Taranto-Ilva-Sindacati] Dopo una fitta serie di incontri
contrassegnati da toni accesi, il 19 febbraio viene siglato a
Roma un Protocollo d’intesa tra tutti i soggetti coinvolti
che rinvia di tre mesi (30 giugno 2009) l’entrata in vigore
della prima fase della Legge regionale ‘antidiossina’
lasciandone, di fatto, inalterati i principi di fondo.Vengo-
no stabiliti, nella prima fase, precisi criteri e modalità di
monitoraggio delle emissioni e riaffermata la sostenibilità
del limite di 0,4 ng I-TEQ/Nmcubo come obiettivo da
raggiungere entro il 2010 mediante l’adozione delle
migliori tecniche disponibili indicate da uno studio di fat-
tibilità proposto dal gestore (entro il 30 dicembre 2009)
supportato da ISPRA e Arpa Puglia.
*La cronologia è tratta dal libro Vivere con la fabbrica, edito dalla
Regione Puglia.
131
Bibliografia di riferimento
132
Ringraziamenti
133
Indice
Il Vulcano 7
Scusi mi fa accendere 15
Quindici passi 23
Sognando nuvole bianche 30
I bambini mai nati 39
Agnello di dio (ssina) 43
Il lampadario e le scope 55
La polvere 67
Il Vulcano (II) 78
La storia 87
La legge 101
La passeggiata 106
Una cronologia 109
Bibliografia di riferimento 132
Ringraziamenti 133
Finito di stampare per conto di Fandango Libri s.r.l.
nel mese di luglio 2009
presso Grafiche del Liri
03036 Isola del Liri (FR)