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Cassano.

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TRACCE
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© 1997, Gius. Laterza & Figli – Edizioni della Libreria

Prima edizione 1997


Quinta edizione 2008

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mez-


zo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o
didattico.
Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso perso-
nale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia
che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la soprav-
vivenza di un modo di trasmettere la conoscenza.
Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fo-
tocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette
un furto e opera ai danni della cultura.
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Franco Cassano

Mal di Levante

Laterza
Edizioni della Libreria
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re

Proprietà letteraria riservata


Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nell’ottobre 2008


da Ragusa Grafica Moderna - Bari
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 978-88-420-8909-4
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Premessa

Basta camminare per le strade di Bari per capire


che vivervi diventa ogni giorno più difficile e per
sperimentare la prevaricazione sistematica del sen-
so cinico sul senso civico. La decisione di pubbli-
care questi due scritti così diversi per il registro e
l’occasione nasce dalla volontà di non farsi soffoca-
re da questo stato di cose e di combattere un atteg-
giamento di passività che perfezionerebbe il degra-
do. Ciò che li unisce è probabilmente solo il comu-
ne interrogarsi su un rapporto difficile e contrad-
dittorio con la città, soprattutto sulla sua incapa-
cità di farsi amare, di suscitare un sentimento for-
te di affetto e di identificazione.
Decidere di parlare di questa difficoltà (scri-
vere è un po’ come parlare ad alta voce) è un tenta-
tivo di provare a ricominciare, di proporre uno
spazio di riflessione a metà strada tra l’identifica-
zione localistica e apologetica e il distacco critico
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VIII Premessa

di chi parla da nessun luogo. Si tratta invece pro-


prio di ritrovare i «luoghi comuni», di saperli rein-
ventare o rinnovare, per sperimentare se da questo
cerchio più piccolo sia possibile ricostruire, anche
più in grande, la capacità di produrre, tramite la
fiducia, i beni pubblici e viceversa. Ma questo ar-
gomento etico-politico è solo una faccia delle ragio-
ni di questo piccolo libro. L’altra affonda le sue ra-
dici in un sentimento, nel desiderio di non tradire
una memoria, di trasmettere un amore e un ri-
spetto per la città che sono stati più di chi ci ha pre-
ceduto che della nostra generazione. Mio padre era
orgoglioso di essere barese, io non posso dire al-
trettanto di me, ma vorrei trovare il modo per far
sì che mio figlio torni ad esserlo. La partita vera si
gioca qui, in un rapporto difficile ma necessario,
in un nesso creativo tra futuro e memoria.
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MAL DI LEVANTE

alla memoria di mio padre


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Mal di Levante comparirà nella Storia di Bari, a cura di F. Tateo,


vol. V: Il Novecento, a cura di L. Masella, di prossima pubblicazio-
ne presso l’editore Laterza. Il cortile è, invece, già comparso su
«Memoria. Rivista di storia delle donne», n. 29, 2: Bambini, rac-
conti d’infanzia, 1990, e viene qui ripreso con alcune piccole va-
riazioni.
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Mal di Levante

Non è difficile capire perché Bari sta precipitando su


se stessa dopo decenni di ascesa né perché ciò acca-
de solo ora.
Un’avvisaglia forse c’è già nelle linee rette della
sua terra e del suo mare, nell’assenza di qualsiasi mo-
mento drammatico nel suo panorama, di qualcosa
che ricordi l’asprezza solare di Palermo o la dolcez-
za dominata dalla minaccia di Napoli. Sin dall’inizio
nulla di inutile, l’abolizione delle linee tortuose, una
mancanza di dolcezza e di abbandono, una paura del-
le divagazioni e delle complicazioni, un andare subi-
to al sodo, un venire al dunque, come se terra e ma-
re si fossero dato un appuntamento di affari. Un de-
ficit di fronzoli, un’impazienza di fronte a tutto ciò
che non permette di ridurre rapidamente le cose e gli
uomini ad un nucleo semplice, dicibile e praticabile.
All’inizio dell’identità barese c’è una duplice po-
lemica che nasce da questa impazienza: il primo lato
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4 Mal di Levante

polemico è contro la capitale del regno delle due Sici-


lie, contro Napoli parassitaria e inconcludente, sulla
base della convinzione di poter trasformare in un van-
taggio la purezza provinciale contrapponendosi con il
proprio dinamismo anche – e qui è il secondo fronte
polemico – all’arretratezza contadina dei «cafoni». Al-
l’inizio, quindi, c’è la rivendicazione di un’identità mo-
derna, dinamica, dotata di capacità imprenditiva. È
intorno a questa idea di sé che parte l’idea che a Bari
spetti un compito privilegiato, il ruolo di anti-Napoli,
di città che legittima il proprio ruolo non a partire dal-
la corte, dagli intellettuali e dalla plebe, ma dai com-
mercianti, da uomini svelti e pratici, con un senso de-
gli affari e degli scambi forte e sicuro. Questa impa-
zienza, questa volontà di partire è il Levante, l’idea di
una vocazione mediterranea che, piuttosto che ad
Ovest e a Sud, guarda ad Est, verso una via adriatica,
che muove da un mare stretto e abbordabile, per ap-
prodare prima sull’altra costa e spingersi poi sempre
più lontano fino al Medio Oriente.
Bari città di homines novi che guarda, quindi,
verso l’Oriente e per questo non guarda verso la cam-
pagna né verso Napoli: un altro mare, un altro oriz-
zonte, un altro destino. Un Oriente però che non se-
duce mai il barese che resiste da sempre ad ogni fa-
scinazione, Ulisse che non ha bisogno di farsi legare
per resistere ai canti delle Sirene. Nonostante tutto,
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Mal di Levante 5

infatti, Bari non ha mai giocato fino in fondo questa


partita del Levante: nella città c’è pochissimo Orien-
te rispetto a quello che potrebbe (e dovrebbe) esser-
ci se questa retorica del Levante fosse più vera e ra-
dicale. Non si può essere realmente del Levante se lo
si riduce solo a qualche traffico, ad un timido scam-
bio di merci, se non si barattano anche racconti, mi-
steri e fedi. Senza questo desiderio, senza questo rap-
porto con il mistero, il capitano naviga sempre sot-
tocosta e i suoi viaggi diventano grandi solo nei rac-
conti fatti a terra.
Tutto questo deriva anche dalla circostanza che
Bari non ha mai guardato solo ad Est, ma sempre più,
specialmente a partire dall’Unità, a Nord. La direttri-
ce adriatica è infatti nello stesso tempo anche un ca-
nale autonomo di comunicazione con il Nord e l’Eu-
ropa, con Milano e il sogno di una modernità che non
ama le capitali burocratiche ma quelle morali, perché
Bari ama sentirsi una potenziale capitale morale del
Sud, legata non alla rendita ma al profitto. Milano è
stata a lungo il Nord nel quale il barese amava identi-
ficarsi di più, un Nord laborioso, senza la tristezza e la
disciplina torinesi, più vitale e disordinato, più aper-
to, più capace di guardare alla sostanza che alla for-
ma. A Bari, infatti, lo sguardo non è paralizzato da un
grande passato come quello che si incontra passeg-
giando per le strade di Napoli e Palermo, non è sedu-
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to su una grande tradizione, ma è costantemente abi-


tato dall’impazienza di chi sa che la sua posizione è
fragile e instabile proprio perché guadagnata da poco.
Questo è il modo in cui Bari s’immagina e ama
immaginarsi. Questo in parte è ciò che essa è, ma
quell’immagine è solo una parte della verità, quella
nella quale la città ama specchiarsi, ma quello spec-
chio esagera e nasconde, perché nell’idea di una città
meridionale solo «per caso», moderna, dinamica,
sveglia e produttiva c’è una palese esagerazione. Ba-
ri è, in altri termini, sempre meglio di ciò che ne di-
cono i «detrattori» ma contemporaneamente sempre
peggio di quello che ne dicono gli «apologeti».
I «detrattori» sono quelli che sostengono l’im-
magine di una Bari che bara, finge, imbroglia, bluffa
senza avere nessun punto nelle mani, che la sua mo-
dernità è una pura rappresentazione dietro la quale si
cela un potere immobile, l’eterno opportunismo filo-
governativo, e la presunta capacità imprenditiva è
solo un simulacro dietro il quale si organizza la spar-
tizione delle risorse pubbliche. Una città cinica e un
po’ pavida, incapace di ribellioni, con un’informazio-
ne mai autonoma dal potere, che risucchia tutti (an-
che gli intellettuali ovviamente e tutt’altro che in se-
conda fila!) in una grande palude spartitoria che ri-
duce l’opposizione ad una realtà virtuale. Il dinami-
smo e la capacità imprenditoriale, l’enfasi sulla «mo-
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dernità» sarebbero solo il codice comunicativo che


riproduce, trasfigurandole, la collusione di massa e
la palude degli scambi e dei favori, un’ideologia che
la crisi attuale sta smascherando.
Gli «apologeti» invece minimizzano le perdite,
le lacerazioni, le difficoltà, insorgono quando l’im-
magine della città viene colpita, indicano i baricentri,
i ricchi retroterra, le cittadelle della scienza, le vita-
lità emergenti. Questa immagine coglie – non meno
di quella sostenuta dai «detrattori» – solo un aspetto
della realtà perché essa esagera e nobilita oltre mi-
sura un dinamismo reale.
Al fondo la verità di Bari si è sempre annidata
nella singolare fusione di queste due immagini con-
trastanti. Il barese ha sempre esagerato le sue qualità
«moderne», ma questo esagerare non era un sempli-
ce inganno, era il mentire del venditore, un dolus bo-
nus, un’autopromozione, un disdegno per l’apatia,
per la rassegnazione e i suoi mille rivestimenti. Quel
suo millantare qualcosa di reale, quel chiedere tem-
po e risorse per colmare lo scarto tra immagine e
realtà, quell’equivoco e quell’ambiguità custodivano
in ogni caso una differenza.
Ma negli ultimi anni l’equilibrio contenuto in
quello squilibrio si è rotto e la credibilità di questa
differenza è caduta: dalla venuta in primo piano e
pervasività della criminalità piccola e grande alla de-
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portazione degli albanesi, al rogo del Petruzzelli, alla


palese incapacità di reagire a questi colpi, si è di fron-
te ad un salto e un’accelerazione, ad uno scivola-
mento brusco della città verso l’immagine più dispe-
rata.
Quel rogo è infatti il segno di una crisi dura, in-
negabile, profonda delle classi dirigenti della città.
Quel gruppo di incredibili cialtroni che decise di ap-
piccare il fuoco non è che l’esito ultimo di uno sradi-
camento che non riconosce più nessun sacro. Si de-
cise allora che neanche il teatro-simbolo si potesse
salvare dalla sistematica devastazione in nome del-
l’utile e dello scambio. Ed è qui la malattia che colpi-
sce alla gola la città: l’incapacità di fermare il pro-
cesso di mercificazione di se stessa. Laddove nessu-
no si sente più cittadino e la città stessa si riduce ad
una risorsa per lo scambio e per gli affari, lì la città
muore.
Questa furbizia che non riesce a vedere (e quin-
di a combattere) la propria stupidità, questa furbizia
che continua nella vicenda della cosiddetta ricostru-
zione del Teatro in cui ognuno, temendo di essere
raggirato (massimo disonore per un barese), si ac-
contenta di bloccare gli altri, questa spirale che si av-
vita rischia di far sì che la diversità barese distrugga
se stessa. Qui è la crisi: fino a quando l’astuzia urta-
va contro dei limiti, contro un’idea di bene comune,
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contro un patrimonio e un’identità collettivi, essa


non erodeva se stessa. Quando questi limiti non ci so-
no stati più e i «luoghi comuni» sono diventati terre-
no di caccia, quando gli imprenditori sono diventati,
attraverso un patto sempre più angusto con il ceto
politico, la simulazione assistita (nella migliore delle
ipotesi) di se stessi, facendo l’apologia di un merca-
to che in realtà temevano, quando, dopo le strade e i
giardini, ha iniziato a sporcarsi anche il danaro, la
città ha cominciato a dissolversi. Se, invece di mito-
logizzare la modernità, l’opinione pubblica e la stam-
pa avessero assolto il loro (moderno) dovere di vigi-
lanza forse la città non sarebbe caduta così in basso.
In quel rogo, nel suo furbo autolesionismo si manife-
sta clamorosamente un virus che da molto tempo
aveva indebolito la capacità dinamica della città.
La storia ben sa che non esistono solo le asce-
se ma anche le decadenze delle città. Per poter fre-
nare la propria decadenza Bari deve arrivare ad
un’autocritica profonda, capace di scardinare anti-
che e rassicuranti abitudini, modificare un’identità
che oggi non sembra più capace di dar forza e vitalità
alla città.
Il problema, infatti, è che la crisi attuale rende
visibile un limite dell’identità di Bari, di qualcosa che
accompagna la città sin dall’origine, che a lungo era
stata anche una qualità e che ha cessato di esserlo.
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Da allora la crisi, pur nascosta dietro le vetrine, di-


venta sempre più irresistibile.
Un noto intellettuale, preside della Facoltà di
Lettere negli anni Cinquanta, ha lasciato nella me-
moria di chi lo ha conosciuto un giudizio su Bari che
è difficile ignorare se si vuole ragionare con verità e
passione sul carattere della città: «Bari – diceva Ma-
rio Sansone – è una città senza ironia e senza malin-
conia». E spiegava: «Quello che le manca è la perce-
zione delle sfumature e delle tonalità intermedie».
Noi aggiungeremmo che quello che le manca è il ri-
conoscimento del valore di quella sfera di attività e
di virtù che non hanno una destinazione immediata-
mente pratica, operativa, «fattizia». Di fronte a di-
scorsi che giocano con la fantasia, la cui utilità non è
visibile, il barese si annoia e si sente a disagio, oscil-
la tra il sospetto e il disprezzo, lasciando alla fine su-
bentrare il disinteresse. Questo limite non nasce a
partire da un certo momento della storia della bare-
sità ma le appartiene dall’origine, o per lo meno ap-
partiene a Bari dal momento in cui essa si muove ver-
so un destino più grande, distaccando le altre città
che con essa erano in competizione (si pensi a Tra-
ni). Quella impazienza, quel desiderio di «fare» com-
porta, sul lato d’ombra, un certo sprezzo per la bel-
lezza, per il gioco sottile, per un umorismo non sar-
castico, non greve.
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L’umorismo barese è sempre feroce e tira verso


il basso, verso lo smascheramento di ciò che è finta-
mente nobile e viene ricondotto alla sua natura ma-
teriale. Nulla è metafisico ma tutto è fisico, il metafi-
sico è un travestimento di chi vuole mostrarsi per
quello che non è, di chi inventa una nobiltà che è pu-
ra simulazione. Non c’è quindi spazio per i passaggi e
le sfumature, per le domande senza risposta, per
quella zona del cuore e della mente che apre lo spa-
zio all’arte, alla letteratura, alla bellezza della rap-
presentazione e della finzione.
Certo, un ruolo alla finzione viene riconosciuto,
ma deve essere quello esagerato e poco inquietante
dell’opera lirica, specialmente quando essa viene
commutando il suo ruolo corale e nazional-popolare
nel solo guscio di uno spettacolo sociale in cui il pub-
blico, con l’esibizione del proprio rango e della pro-
pria «roba», diviene il protagonista di una rappre-
sentazione lontana nei simboli e nei valori, decorati-
va e poco capace di inquietare. A far paura è proprio
quell’ironia che mette in dubbio, che sospende la le-
galità del mondo reale, che non è comprensibile den-
tro le maglie del quotidiano. Il principio di realtà ar-
riva subito a controllare i documenti di qualsiasi so-
gno e irride la sua irrealtà. È questa concretezza, que-
sta passione per ciò che è crudo e senza condimenti,
questa asprezza compiaciuta e «virile» in cui il bare-
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se ama riconoscersi, a sbarrargli la vista e togliergli


il respiro, a condurlo verso il disprezzo per ciò che
potrebbe salvarlo.
Questo disincanto irredimibile infatti rende de-
bole e ambiguo un motivo ricorrente nell’identità
della città: il costante richiamo a Parigi, alla clarté
della Ville lumière. Parigi e gli Statuti murattiani che
sono nelle fondamenta della Bari nuova non sono
comprensibili senza la Grande Rivoluzione, senza il
sogno della ragione, della costruzione di un ordine
razionale tra gli uomini, senza il rischio che viene dal
sogno, dall’urto di quest’ultimo contro gli interessi
costituiti. Pensare di ospitare dentro di sé quel sogno
togliendogli la radicalità, evirandolo dell’elemento
utopico che lo caratterizza, rende debole e ambiguo
il riferimento. Il motivo non è marginale perché è an-
che su questo riferimento a Parigi che Bari pretende
di giocare la sua differenza rispetto a Napoli dove i
simpatizzanti dei francesi, al crollo della Repubblica
Partenopea, furono impiccati. Volere questa diffe-
renza senza albergare dentro di sé neanche un po’ del
sogno francese fa sì che la propria imitazione si
esponga al dileggio, mostri sempre più lo scarto.
Chi sa l’impianificabilità di Bari, la fine inglo-
riosa del piano Quaroni di fronte all’assalto edilizio,
chi sa la diffusa complicità intellettuale con questa
modernità minore perché priva di qualsiasi coraggio,
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può capire quanto diverso sia il peso del bene pub-


blico nell’esperienza parigina e in quella barese. La
doppiezza del riferimento a Parigi nasce sempre da
quella difficoltà di sognare, dall’assenza nell’identità
della città di una dimensione o di un insieme di di-
mensioni diverse da quella del primato dell’utile pri-
vato. Sia chiaro: la vocazione pragmatico-mercantile
è stata la forza intorno alla quale la città ha costruito
la sua ascesa, il suo uscire fuori dal mucchio, dalla ri-
tualità provinciale e soporifera, dall’ossequio e dal
narcisismo di tanta classe dirigente meridionale, è
una forza che corazzando il barese con l’assenza di
pudore che lo contraddistingue, lo ha gettato all’a-
perto, lo ha fatto capace di sopportare l’ironia di chi
era più avanti, più moderno, più ricco oppure solo
più nobile, più fermo, più preoccupato dello stile e
della forma.
Spesso lo sguardo divertito e scandalizzato di
coloro che il barese vuole conquistare si è posato su
questo parvenu provinciale e grossolano ma vitale e
concreto, ripetendo il vecchio disprezzo di chi è già
arrivato verso chi sgomita perché è impegnato nella
fase più dura della lotta. È proprio questa mancanza
di pudore e quindi questa assenza di finezza e sensi-
bilità che ha dato ai baresi la capacità di non farsi ri-
succhiare nella mancanza di fiducia in se stessi, in un
senso di inferiorità paralizzante, che li ha fatti uscire
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da quel rischio di imbalsamarsi che grava su ogni


provincia. Quella sfrontatezza è stata dunque una
qualità e una forza, ma diviene un limite quando l’a-
scesa si debba accompagnare alla capacità di pro-
durre le utilità di lungo periodo, le utilità collettive,
quando si tratta di far riferimento ad una nozione di
ricchezza «larga» nella quale trovino posto la bellez-
za, l’immaginazione, la passione per un’idea, il ri-
schio, la capacità di perdersi per qualcosa che non si
vede e non si tocca, ma che, ciò nonostante, esiste e
conta per gli uomini.
È probabile che nulla sia più difficile da tra-
piantare a Bari della santità e dell’eroismo. Non solo
sembra che non esistano santi baresi (anche il pa-
trono è stato rubato) ma si potrebbe immaginare che
anche Francesco d’Assisi, se invece di fermarsi alle
porte della Puglia fosse arrivato a Bari, non sarebbe
diventato santo ma avrebbe aperto un negozio di tes-
suti. La devozione dei pellegrini, che ancora oggi
convengono dalle campagne per la festa di S. Nicola,
è la devozione di chi è più arretrato e il barese la ac-
cetta perché essa dà prestigio e danaro alla città, la
fa sentire capitale, ma è un sentimento profonda-
mente distante da un senso comune abituato a ra-
gionare di ciò che è tangibile, cumulabile, spendibi-
le. Bari è imbottigliata nell’immanenza e scruta con
sufficienza tutto ciò che la trascende, ogni azzardo
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del cuore e della mente. A Bari, quindi, vivono da esu-


li non solo le mezze dimensioni ma anche quelle
estreme in cui si può perdere, in cui l’utile viene so-
speso perché sono in gioco le passioni e i principi
(che sono nient’altro che l’utilità di lungo periodo).
Ma la stessa dinamicità mercantile, per poter
durare e rafforzarsi, ha bisogno di una sfera di rela-
zioni extramercantili, del mantenimento in efficien-
za delle condizioni sociali che permettono un ordi-
nato svolgersi del traffico stesso. In altri termini, l’u-
tile, quando viene misurato unicamente sulla sola
scala dell’interesse individuale e di breve periodo,
non produce dinamismo ma solo la commercializza-
zione e la mercificazione di tutti gli ambiti di vita, an-
che di quelli la cui permanenza fuori dello scambio è
una condizione di vita del traffico stesso.
Questa tendenza generale, che contrassegna la
storia della città, supera la soglia della controllabilità
a partire dalla fine degli anni Cinquanta allorché la
massima (certo anch’essa parigina, ma post-rivolu-
zionaria) di Luigi Filippo «Enrichissez-vous» diventa
non solo il criterio di condotta dominante ma anche
il filo della ricostruzione edilizia della città. La tradi-
zione consegnata nel centro ottocentesco viene can-
cellata quasi totalmente ma senza nessuna idea del-
l’interesse pubblico, senza la coordinazione di un
piano, sulla base del massimo di anarchia privata. Il
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moderno «barese» già allora manca di due dimensio-


ni essenziali: una sfera pubblica autonoma e capace
di dare criteri e respiro di lungo periodo allo svilup-
po e un’autentica disponibilità al rischio. Il profitto a
rischio-zero attraverso la mercificazione dello spazio
pubblico e la liquidazione di ogni equilibrio è la sin-
tesi di questa modernità minore, più mimetica che
sostanziale. Una monarchia di luglio senza rivoluzio-
ne: ecco la Parigi cui Bari può aspirare a rassomi-
gliare. Da allora il centro murattiano, con strade sen-
za proporzione con l’altezza degli edifici, con le sue
macchine che come cavallette assaltano tutto ridu-
cendo i marciapiedi a piccoli sentieri da percorrere
in fila indiana, è uno straordinario manuale di dise-
ducazione civica, un’illustrazione fisica dei limiti del-
le classi dirigenti della città, di un dinamismo gracile
anche se fondato sul cemento armato.
Fino ad allora la struttura urbana della città,
particolarmente in alcune zone centrali, aveva man-
tenuto un equilibrio, aveva osservato una misura,
contenuto in una «forma» quell’impazienza dandole
dei luoghi comuni. Per la verità il cemento aveva co-
minciato a festeggiare i suoi fasti durante il Venten-
nio fascista, un cemento di Stato testimoniato dalla
fittissima rete di opere pubbliche di quegli anni. La
Bari di Di Crollalanza aveva già dato inizio ad una for-
tissima dipendenza dalle risorse pubbliche registran-
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do l’avvio di un’imprenditorialità e di un’economia


stimolate e assistite politicamente, e già allora il Le-
vante inizia ad essere una simulazione compensativa
del declino della tradizione commerciale. Ma tutto
questo era legato ad un’idea della città come capita-
le burocratica della Regione, sede di servizi e avam-
posto di una grandezza imperiale che ancora oggi
guarda con fiero cipiglio il mare. Il centro murattia-
no rimaneva fuori di questa volontà di potenza edili-
zia, rimaneva il luogo di identità e di residenza delle
classi dirigenti e non solo di esse. In altri termini il
tempo del consumo aveva frenato e dato misura a
quello del traffico, le classi dirigenti, forse anche per-
ché il controllo sociale degli esclusi era allora più fa-
cile e più duro, non avevano ancora sacrificato l’a-
more per i propri luoghi all’accrescimento smisurato
della ricchezza. Alcune zone della vita, dell’abitare,
dell’incontrarsi erano ancora sottratte alla legge del-
la trasformazione in valore di scambio.
Fino a quando questi limiti ci sono stati, fino a
quando il verbo «passeggiare» ha designato un’espe-
rienza reale, la baresità ha contenuto la sua ormai de-
crescente capacità propulsiva, ha trovato un ostaco-
lo che paradossalmente ne esaltava i pregi. Ma da
quando ha inizio lo scempio urbanistico sembra che
Bari non appartenga più a nessuno e che nessuno più
appartenga a Bari. Il salto in una modernità senza ri-
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schi, erodendo il sacro dei luoghi comuni, ha poten-


ziato lo sradicamento e ha fatto dei baresi degli apo-
lidi. Da quegli anni la città inizia a divorare se stessa,
alimenta nei suoi cittadini un sentimento diffuso di
estraneità, un chiamarsi fuori, recide in nome della
«modernità» ogni canale di identificazione. Da allora
la baresità è fuori controllo e ha iniziato a farsi del
male.
Certo all’inizio l’euforia, il grande trend dello
sviluppo non fanno vedere i costi di quell’operazione:
l’afflusso di risorse pubbliche sembra proiettare nel-
l’orizzonte di un progresso infinito, dove c’è posto
per tutti. E per la verità agli inizi degli anni Sessanta
sembra definirsi per la città un altro ruolo, più «avan-
zato» come si amava dire allora, come centro di un
intervento dell’industria di Stato meno monocultura-
le di quello di Brindisi e Taranto, in connessione di-
namica e progressiva con la vitalità preesistente. Ma
quella fase «alta», che accompagna l’avvio del cen-
tro-sinistra e la centralità di Moro, non solo è, come
sempre, molto più ambigua, dipendente e governati-
va delle retoriche che l’accompagnano, ma è desti-
nata a consumare rapidamente l’enfasi programma-
toria per lasciar aperto il passaggio ad un ceto politi-
co che, seduto sulle chiuse di questo sistema, co-
struirà il reticolo del proprio potere, il suo linguaggio
paternalistico-tecnocratico che simula in modo de-
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gradato quell’interesse generale che in realtà ha sop-


presso. L’afflusso crescente di risorse permette di
mantenere in vita fino all’inizio degli anni Ottanta l’i-
dea della «diversità» di Bari, avanguardia meridiona-
le ora dell’industria, ora del terziario avanzato. Ma di-
viene sempre più visibile che questo dinamismo è più
presente nella retorica del venditore che nella realtà,
mentre la politica è ormai indistinguibile dal traffico
particolaristico. Di questa realtà in movimento la sfe-
ra pubblica e le istituzioni infatti non sono la cornice
logica, etica e giuridica, quella che dà guida e regole
al traffico privato, ma solo parte (cospicua) del bot-
tino, della spartizione privatistica delle risorse. Gra-
zie a queste nuove risorse élite politica ed élite eco-
nomica si confondono, l’area di consenso e di omertà
si allarga e l’opposizione (quando c’è) si riduce a un
conato moralistico e impotente, ad una vana eserci-
tazione metafisica di fronte alla concretezza fisica
dei flussi monetari, delle licenze, dei piani edilizi, del
credito facile ai potenti e ai prepotenti.
Questa recisione del sacro, questo far traffico di
tutto, questo levantinismo protetto e non più tempe-
rato che non ha più nulla a che fare con il Levante e
con il mare, che aborrisce il rischio, questa modernità
che cresce nel cono d’ombra della protezione statale
e dei favori politici, questa incapacità di pensare in
grande hanno fiaccato la città, hanno fatto sì che
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20 Mal di Levante

quando inizia a venir meno la mano protettiva dello


Stato invece del decollo di una vitalità autonoma
emergano le tare di un’imprenditorialità assistita, non
solo totalmente dipendente dalle risorse pubbliche e
dai favori politici, ma spesso cresciuta grazie a mille
connivenze e complicità, con una ricchezza sempre
meno limpida. Anche i fenomeni di vitalità e di dina-
mismo autentici e senza piume di pavone, che ormai
si manifestano più nella provincia che nella città, quel-
le forze che emergono fuori di qualsiasi protezione
pubblica, non solo non riescono ad incontrare Bari,
ma talvolta tendono addirittura ad evitarla.
Tutto sembra deciso. A meno che...
Forse è proprio la profondità della crisi che po-
trebbe spingere verso uno scarto la storia della città
e rimetterne in discussione i punti di fondazione. In
altri termini, Bari non può più pensare il proprio fu-
turo mantenendo intatta l’identità che l’ha condotta
in alto ma che oggi la spinge verso una contrazione
di corto respiro della propria vita e verso una solitu-
dine che con il tempo diviene senza rimedio. Perché
anche questo oggi è da dire: Bari è sola e i baresi, con
la loro immagine levantina, non sono circondati da
ammiratori ma da soggetti diffidenti che ne temono i
raggiri, che nel termine «levante» identificano il par-
ticipio presente del verbo «levare ad altri». La solitu-
dine è un altro effetto perverso della furbizia miope:
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Mal di Levante 21

essa è di così corto respiro da rovesciarsi nel suo op-


posto.
Diventa decisivo reimmettere nell’identità quel-
le dimensioni non-utili, la cui gracilità è all’origine
certamente dell’ascesa ma anche della crisi della
città. Occorre cioè che Bari reimmetta nel suo centro
la preminenza dell’interesse collettivo su quello indi-
viduale, esattamente il contrario di quello che anco-
ra oggi continua ad accadere con lo scempio di Pun-
ta Perotti, degno documento del degrado della città.
È la stessa logica che ha logorato Bari: il profitto tra-
mite mercificazione dei beni pubblici, la città che
mangia il proprio ambiente, si divora e si imbruttisce
proprio come in una malattia. Scompare così il bello
che le residua, e ci si abitua al brutto facendo eserci-
zio di prosternazione ai grandi interessi, alla loro
miopia e rozzezza. Questa immagine che Bari offre di
se stessa è più forte di qualsiasi campagna promo-
zionale a suo favore ed è capace di vanificarla in po-
chi istanti.
La città avrebbe bisogno in altri termini di se-
parare il suo governo da quello dei grandi interessi,
di dare per una stagione il governo a chi abbia voglia
e capacità di progettare e rilanciarla sul lungo perio-
do, di aprire alla fantasia le sue strade, i nomi delle
sue vie, di fare in modo che i luoghi dell’incontro e
della rappresentazione artistica ritornino in grande
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22 Mal di Levante

non solo nel cuore fisico ma in quello spirituale del-


la città. Occorrerebbe rieducarsi tutti alla bellezza,
ad un rispetto del meglio di ciò che si è ereditato, ten-
tare di rivedere in un certo rosso e ocra dei palazzi,
nell’incontro del bianco e del mare, le linee di un’e-
ducazione sentimentale per le nuove generazioni, un
sacro da cui ripartire.
Non si tratta di tradire la «praticità», quel senso
del «fare» di cui occorre riscoprire le forme antiche,
che erano più audaci e sapevano rispettare i luoghi,
ma di dare contemporaneamente ad essi uno slancio
e uno sfondo, un limite capace di spingerli in una di-
rezione più autenticamente imprenditoriale. Quel-
l’antico senso pratico potrebbe, una volta che abbia
imparato ad attraversare il territorio della bellezza e
del disinteresse e ritrovato il gusto del rischio, ritor-
nare a se stesso arricchito e dare in cambio anche un
senso della concretezza al pensiero, all’arte, farli di-
ventare utili alla città. Occorrerebbe trapiantare nel
cuore della città un po’ di malinconia, un po’ di amo-
re per le grandi battaglie del vivere civile, onorando
molto più che i maggiorenti quelli che hanno dato la
vita e compromesso per la città qualcosa di essen-
ziale. Occorrerebbe restituirla ad un rapporto con
l’ambiente che reimmetta delicatezza e sensibilità
nello stile di vita: perché il grado di civiltà della città
inizia dai suoi giardini, dalle sue strade, dal suo traf-
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Mal di Levante 23

fico, dal suo modo di amare il mare, dalla capacità di


abitare nell’anima e nei comportamenti dei cittadini.
Bari deve in primo luogo uscire dalla solitudine,
ricostruire amicizia e fiducia con il territorio che la
circonda, reinventare un ruolo generale, offrire ser-
vizi, saper ospitare. Farsi amare non è una debolez-
za, il primo indizio di un calcolo errato, ma qualcosa
che fa sì che qualcuno possa tornare a cercarci. Co-
me si può pensare di meritare rispetto, di poter esse-
re cercati, se gli unici teatri sono diventati dei tendo-
ni? se il porto tradisce un vero e proprio horror ma-
ris e rassomiglia più a un cantiere edile che a un luo-
go di traffico e di incontro? Come non capire che la
prima convenienza economica per Bari può venire
solo dall’idea di riconquistarne la bellezza, di crear-
ne di nuova, di riuscire a guardare lontano, dalla ca-
pacità di farsi scegliere anche da chi non vi è nato?
Nelle vecchie classi dirigenti c’era un equilibrio
(seppur precario e limitato) che portò a costruire il
Petruzzelli e che occorre ritrovare. Nei film antichi,
nelle fotografie ci sono una pulizia, un senso di pu-
dore e di appartenenza che non devono rimanere
confinati nei ricordi. Forse le mutilazioni crescenti
possono resuscitare l’orgoglio di cui c’è bisogno e de-
bellare l’individualismo rozzo e distruttivo che, dalle
classi dirigenti agli esclusi dei quartieri periferici,
sembra costituire il senso comune dominante. Forse
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24 Mal di Levante

esiste una soglia critica del degrado che può inne-


scare una reazione salutare, far riscoprire l’attacca-
mento ai luoghi sui quali qualcuno ci ha portato per
la prima volta per mano quando eravamo bambini.
Forse quella mano può trasmettere qualcosa e da es-
sa si deve ripartire: senza questa umiltà retrospetti-
va, senza questa memoria non c’è futuro. La vera for-
za del cambiamento non è in un ceto o in una classe
ma nel bisogno di vivere la città, nella capacità di
reinventarsi la tradizione e la misura.
E in questo impegno Bari può non essere sola
perché essa paga con anticipo e con asprezza un
prezzo che, anche laddove la modernità aveva avuto
più forza ed equilibrio, si è recentemente iniziato a
pagare. Oggi, infatti, la pervasività inevadibile della
mercificazione generalizza a tutto il pianeta l’ossi-
moro feroce di opulenza privata e squallore pubblico
e la distruzione dei beni pubblici non è un fenomeno
locale, ma la grammatica dominante della nostra for-
ma di vita. La fragilità di Bari, l’esiguità delle sue re-
sistenze le hanno fatto sperimentare con anticipo
l’indecenza di questo accostamento, ma questo pri-
mato negativo può trasformarsi paradossalmente in
una grande occasione: salvare Bari non è un’opera-
zione provinciale ma vuol dire confrontarsi con il
cuore del malessere urbano della nostra civiltà, che
fa dei luoghi di tutti una terra di nessuno. Lungo que-
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Mal di Levante 25

sta strada si può rompere la solitudine, si possono


rintracciare percorsi, pensieri e soluzioni che altrove
si è iniziato a sperimentare.
Se vuole continuare a pensare a Parigi senza far
sorridere gli altri, Bari deve fare nello stesso tempo
due operazioni: vivere un momento giacobino e aprir-
si ad una vocazione di confine capace di andare al di
là dei limiti dell’ideologia levantina.
Il giacobinismo cui pensiamo è sì preminenza
dell’interesse pubblico, ma non un astratto esprit de
géométrie presuntuoso e intollerante, accecato dal
fanatismo del moderno. Esso deve voler dire rein-
trodurre il valore della cooperazione, dell’utilità ad-
dizionale che si produce quando, anziché muoversi
l’uno contro l’altro, i membri di una comunità deci-
dono di perseguire alcuni obiettivi comuni, scoprono
che è possibile aver fiducia.
Contemporaneamente questo giacobinismo de-
ve sapersi riconciliare con la collocazione mediter-
ranea della città, riscoprire punti di armonia e di pas-
saggio tra la città vecchia e quella nuova, diventare
strumento per la ricostruzione della sua anima di
confine tra l’Europa e il mare. La raison giacobina
può non essere in contraddizione con la vocazione
mediterranea: liberare le istituzioni dagli interessi
privati che le intasano, ricostruire un ethos che inco-
raggia la fiducia e la cooperazione, rilanciare le im-
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26 Mal di Levante

prese fuori del cono d’ombra della protezione stata-


le, significa reincontrare fuori della loro simulazione
retorica il moderno e la proiezione verso l’Oriente.
In tanto parlare di Mediterraneo è diventato in-
fatti vitale riscoprire il peso di questo mar di Levan-
te, di un Adriatico ponte tra due parti dell’Europa,
porta su quella linea di frontiera in cui l’Oriente sla-
vo e ortodosso incontra l’Islam e le altre lingue dei
cristiani, su quei Balcani che hanno segnato e segna-
no ancora così dolorosamente la storia del mondo,
dove le religioni e le etnie si sono affrontate spesso
con le armi. È proprio questo mare che manca al-
l’appello, è proprio quella parte del Sud che si affac-
cia sull’Adriatico, la Puglia, che fa fatica a parlare an-
che perché non sa più attraversare il mare. Eppure il
mercante che ha sempre attraversato i confini, senza
armi ma solo con le merci, può avere in quel mondo
difficile e orgoglioso un grande ruolo di smilitarizza-
zione delle appartenenze. Tutto questo non può esser
fatto in solitudine ma va detto ad alta voce e si deve
pretendere che anche i governi nazionali imparino a
guardare in quella direzione, si liberino da soggezio-
ni politiche e culturali che li fanno guardare solo a
Nord. Come si può pensare ad un riscatto del Sud, se
l’abbattimento dei suoi confini meridionali ed orien-
tali non è nella testa e nella cultura dei governi? Ri-
scoprire come una risorsa questa vocazione di confi-
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Mal di Levante 27

ne e non violenta fatta di traffico di merci e di idee,


di rispetto per le tradizioni altrui, di emozione per i
diversi modi di pregare Dio, di affari ma anche di
ospitalità e curiosità: da questo lato Bari potrebbe ri-
trovare la miscela tra le sue anime, ritornare utile agli
altri e quindi anche a se stessa.
La posizione di confine comporta rischi molto
grandi, in primo luogo quello di non essere né l’uno né
l’altro, di essere periferia di entrambi i mondi che si
vogliono congiungere. Rovesciare in convenienza
questa collocazione significa coniugare le due anime
al loro livello più alto: non una modernità di quarta
mano che incontra un Oriente di livello ancora infe-
riore, ma una modernità esplorata ai suoi vertici e ai
suoi limiti, capace di tematizzare i propri confini e che
incontra l’Oriente non come fuga ma come un altro da
tornare ad interrogare, come dimensione interna alla
sua ricerca. Tra le tante Francie di cui ci si è adornati
occorrerebbe riscoprire quella di cui parlava Nietz-
sche e che fa dei Francesi «una sintesi, in parte riu-
scita, del nord e del sud», e permette ad «essi che san-
no amare nel nord il sud e nel sud il nord» di avere
comprensione «per i mediterranei di nascita, per i
‘‘buoni Europei’’». Perché questa capacità di varcare i
confini la si deve lasciare ai contrabbandieri?
Bari città europea, ma anche capitale dell’in-
contro tra le religioni, sede di un’università autenti-
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28 Mal di Levante

camente mediterranea, capace di capire che essere


ponte non vuol dire colonizzare, ma organizzare in-
contri alla pari in cui si insegna e si impara, che cer-
ca la fusione tra valorizzazione turistica e tutela del-
l’ambiente, l’equilibrio tra affari privati e pubbliche
virtù. Una baresità dall’orizzonte più largo, un senso
pratico che ritrova se stesso dopo aver viaggiato, che
diviene più sicuro di sé perché ha riscoperto il ri-
schio della traversata. Bari che trasforma il suo ma-
lessere in un privilegio, perché capisce che deve met-
tersi a lavorare sul confine tra la ragione e il suo al-
tro, che intreccia lumi e mistero, imprese e preghie-
re, negozi e racconti, traffico e fantasia, una città che
non c’è, ma potrebbe esserci se...
Siamo partiti da una riflessione sul modo in cui
a Bari si incontrano terra e mare, sul carattere anche
troppo spoglio di quell’incontro. Far ripartire Bari sa-
rebbe come inserire l’inutile complicazione di una
montagna in quel panorama. A loro modo le catte-
drali romaniche sono state una complicazione,
un’improvvisa irruzione di verticalità in un mondo
acquietato nelle sue dimensioni orizzontali, hanno
fatto impennare quella semplicità gettandola in altre
prospettive. Al granito bianco delle caserme che
guardano aggressivamente il mare dal lungomare
Nazario Sauro occorre sostituire luoghi dell’incon-
tro, un’università che, guardando ogni giorno il ma-
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Mal di Levante 29

re, ritrovi in esso un orizzonte delle sue ricerche, il


luogo dell’identità e della ricchezza. Avere ogni gior-
no di fronte questa parete azzurra avrebbe lo stesso
significato verticale di una montagna, significhereb-
be ricordare ogni giorno, come in una preghiera, che
la collocazione di confine può rovesciarsi nell’utilità
più grande, quella che rende preziosa una città agli al-
tri e alle generazioni future.
Di fronte a queste dimensioni la volpe barese ha
quasi sempre preferito dire che si trattava di uva
acerba. A quella volpe occorrerebbe trasmettere la
voglia di provare a saltare, il gusto di ciò che le man-
ca e il desiderio infinito di assaggiare l’uva. Oppure,
più realisticamente, le si potrebbe far capire che una
volpe veramente furba non può andare in giro dicen-
do bugie così grossolane senza pregiudicare la sua
fama.
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Il cortile

La mia infanzia è in primo luogo un cortile, un bruli-


care di voci e di grida di ragazzi e la sera, special-
mente d’estate, un luogo dal quale era possibile stan-
do al sicuro alzare il capo e guardare le stelle.
Ricordo una lunga chiacchierata con un amico
una sera in cui accumulavamo giri parlando di tutto,
passando liberi da un argomento all’altro e il punto
di partenza di quella eccitazione leggera era stata la
scoperta del cielo, una piccola rivelazione, una feli-
cità e una paura fuse dalla sensazione di essere in vo-
lo nello spazio. Scoperta che era possibile fare anche
sul terrazzo, sul quale in teoria era proibito andare,
ma c’erano sempre amici più grandi che consentiva-
no il passaggio. Dal terrazzo si vedeva il mondo ester-
no come dalle mura di un forte, di fronte la ferrovia
(il nostro era un palazzo di ferrovieri), il sottopas-
saggio (dove una volta vidi un cavallo frustato a san-
gue perché scivolava e non riusciva a tirar su il cari-
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32 Mal di Levante

co), il cinema e più in là l’inizio di un insediamento


più rado, alcune ville, una traccia della campagna.
Dal terrazzo si potevano fare scherzi gettando qual-
cosa di sotto e poi giù, dietro il parapetto, in silenzio
con il cuore che ci pulsava in gola e nelle orecchie
per la paura e le risate.
Il cortile era il regno dei maschi: poche erano le
bambine e poco propense alla promiscuità, control-
late dalla famiglia oppure già domate dentro da subi-
to. Talvolta si affacciavano a guardarci giocare e il lo-
ro sguardo, di cui eravamo consapevoli, oscillava tra
invidia e ripulsa dei nostri modi.
Dei due palazzi dei ferrovieri che, costruiti du-
rante il fascismo, ancora oggi si allineano di fronte al-
la ferrovia il nostro era quello degli impiegati e dei
funzionari e da noi c’era maggior controllo sociale:
invidiavamo quelli dell’altro palazzo perché poteva-
no giocare a pallone anche nelle prime ore del po-
meriggio e perché le ragazze lì erano meno segrega-
te; ci colpiva la loro maggior disinvoltura, era come
se fossero già adulti mentre noi, forse perché nati
dentro a desideri di mobilità sociale, ci sentivamo un
po’ sospesi, in continuo apprendimento, percepiva-
mo una maggiore distanza tra il presente e il futuro,
eravamo più ingenui e destinati a un’infanzia e un’a-
dolescenza più lunga.
In quel cortile, quindi, circolavano quasi soltan-
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Il cortile 33

to maschi di più età, da noi che eravamo sotto i dieci


anni fino a quelli che avevano superato i venti e che
talvolta già lavoravano. Da questa comunità separa-
va soltanto il matrimonio e l’addio al celibato era sen-
tito molto dai più grandi, da quelli che si ricordavano
la guerra e l’occupazione alleata e che avevano mille
storie da raccontare contendendosi o avvicendando-
si nella fascinazione dei più piccoli.
Due erano le mitologie che attraversavamo e ci
attraversavano: l’epopea western e lo sport. Il cine-
ma di fronte era il cinema del dopolavoro ferroviario
e quindi una specie di prolungamento del cortile nel
quale imparavamo a coesistere con altri. I film veni-
vano seguiti con grande partecipazione collettiva ed
era normale vederli più volte: il momento della gran-
de sfida finale e della sua felice risoluzione venivano
talvolta seguiti soltanto in piedi sulle sedie e con bat-
timani liberatori. Uscivamo dal cinema cavalcando e
battendoci il fianco come se fosse un cavallo da spro-
nare; era un tipo di corsa che richiedeva un incedere
speciale, un accompagnamento di suoni con la boc-
ca che era quasi sempre l’imitazione dell’accompa-
gnamento musicale, diverso nei momenti di fuga e in
quelli di rischio e via così. Si sostava un attimo di
fronte al fiume-strada che ci separava dal palazzo-
fortino e poi si guardava con circospezione, con l’oc-
chio vigile nei riguardi dei pochi indiani (automobili,
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34 Mal di Levante

biciclette, carri) che si vedevano all’orizzonte. Anche


a casa l’epopea continuava a cavallo di una sedia e
improvvisamente per noi la cucina diventava una
pianura che esploravamo dall’alto, bivaccando per la
notte sotto il tavolo ma sempre con la pistola a tam-
buro vicina alla mano perché l’agguato era sempre in
agguato.
Più di una volta mi è capitato di riflettere da
grande sull’imperiosità con cui certi paesaggi, certe
montagne dell’ovest americano sono entrati nella
mia cucina e nel mio cortile: la Monument Valley è
entrata in chissà quanti di noi, che tante volte sono
morti o sopravvissuti agli attacchi degli indiani poco
lontano da quelle rocce. Tra gli eroi dei fumetti ci si
divideva, e il mio preferito era un eroe senza pistole
e armato del solo lazo con dei pantaloni rossi e delle
strisce gialle. Ricordo ancora la delusione quando
riuscii a ottenere che per carnevale mi facessero il
costume di Pecos Bill: le strisce dei miei pantaloni
non erano sempre tese e sventolanti come quelle del
mio eroe, ma cadevano inesorabilmente giù. Per
quanto cercassi, correndo, di farle garrire esse ri-
spettavano la legge di gravità, che invece nel giorna-
lino era sospesa non solo nel caso delle strisce dei
pantaloni.
Il vivere dentro questa epopea era per noi un
rapporto limpido e codificato con la violenza, con le
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Il cortile 35

armi: gli eroi del western erano solo positivi e se c’e-


rano sfumature noi non le percepivamo. I buoni era-
no facilmente riconoscibili (anche per il colore della
pelle: i visi pallidi) così come i cattivi (sempre con la
barba lunga e con un ghigno), che ricevevano segni
di disapprovazione rumorosa alla prima comparsa
sullo schermo. Tutt’al più tra di noi c’erano tensione
e incertezza nelle occasioni nelle quali occorreva de-
cidere chi dovesse comandare, ma ben presto si ac-
cettò che il criterio fosse quello dell’età che del resto
coincideva quasi sempre con quello della forza fisica.
La violenza, quella clamorosa ed evidente, in
quell’universo arrivava fondamentalmente dall’ester-
no. Mi ricordo una volta, sempre nel cortile, uno
scontro tra due uomini che aspettavano la stessa ra-
gazza che lavorava come donna di servizio per una
delle famiglie del palazzo; alla fine uno di essi scappò
dopo aver colpito al capo con un tufo l’altro che cad-
de svenuto e sanguinante. Un’altra volta una donna,
al giardinetto dove mia madre mi portava all’uscita di
scuola, probabilmente una prostituta (ma quel nome
o il suo corrispondente più usuale non mi fu allora
mai fatto), ferì con un pettine un uomo che vidi stra-
mazzare a terra con il volto insanguinato proprio
mentre facevo una delle mie quotidiane battute in
cerca di indiani o fuorilegge.
La violenza vera, in proporzione infinitamente
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36 Mal di Levante

inferiore a quella che il western mi aveva inserito nel-


l’immaginario, mi si affacciò di fronte con i suoi co-
lori, con la sua incomprensibilità, con la sua diffi-
coltà di codificazione, con la sua enorme spropor-
zione rispetto a qualsiasi connessione di senso capa-
ce di giustificarla.
Al confine nordoccidentale dei palazzi dei ferro-
vieri iniziava un quartiere popolare povero con i «sot-
tani», delle abitazioni al livello della strada, e proprio
sulla via che conduceva al mercato c’erano anche le
case di alcune prostitute e protettori, un guado mala-
vitoso che capitava a tutti di dover attraversare. Era
per noi il regno dei «ragazzacci», i nostri indiani, che
camminavano scalzi, vivevano per strada e non in
quello spazio protetto che è un cortile, che erano ris-
sosi e violenti e grandi tiratori di pietre. Di fronte alla
loro durezza ci svegliavamo dai nostri sogni di pro-
dezze, anche se qualche volta ci siamo arrischiati in
controffensive disperate vivendo poi a lungo di que-
ste imprese e dilatandole nella nostra fantasia, così
come ci accadde di fare quando per la prima volta bat-
temmo quelli dell’altro palazzo a pallone. Ma spesso i
«ragazzacci» li spiavamo da lontano con un senti-
mento misto di ribrezzo e di invidia per il loro corag-
gio; soprattutto mi colpiva che essi vivessero la loro
condizione che io sapevo «terribile» senza nessuna
mortificazione, anzi con orgoglio e spavalderia.
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Il cortile 37

Poi, proprio come è successo agli indiani, quel-


la strada è cambiata e loro sono andati altrove, più
lontani, mentre sulla via si affacciavano visi «pallidi»
e piccolo-borghesi, più simili ai nostri. Ma poco più
in là era possibile scorgere ancora i loro villaggi, i lo-
ro accampamenti e i loro bivacchi. Poche ore di ca-
valcata e li si poteva ancora vedere e, man mano che
si diventava più grandi e sicuri, si poteva attraversa-
re il loro territorio, fermarsi in alcuni negozi della zo-
na e scambiare con alcuni di loro qualche parola in
dialetto. Talvolta nasceva improvvisa anche una par-
tita a palla, quasi sempre una palla di pezza per fe-
steggiare una pace sempre incerta e malferma.
Il calcio era il grande metalinguaggio dei ma-
schi, anche di gruppi sociali diversi, e a maggior ra-
gione era l’altra grande mitologia collettiva. Tranne
la mattina quando si era a scuola tutte le ore di luce
in cui non giocavamo a pallone ci sembravano ruba-
te da qualche perverso tiranno; e quando finalmente
potevamo straripare in cortile erano interminabili
partite, lunghe sudate, dispute infinite per decidere
se la palla fosse entrata o meno in porte che ovvia-
mente non c’erano ed ognuno immaginava a suo mo-
do, recuperi avventurosi di palle finite al di là dei mu-
ri, fughe ai rumori di vetri rotti e poi ad uno ad uno si
ricompariva come gli indiani dei film.
Combattemmo anche noi una lunga guerra da
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38 Mal di Levante

indiani contro la trasformazione di quel cortile in


garage: ci costruirono dei box per le macchine,
un’aiuola con qualcosa che era una futura palma e
noi distruggemmo l’aiuola e continuammo a giocare,
ma fummo l’ultima generazione perché adesso quan-
do passo da quel cortile (è poco lontano dall’univer-
sità) ci sono soltanto le automobili, ed il resto è si-
lenzio. Le ultime volte ho addirittura trovato chiusi
sia il cancello che il portone: anche quel cortile si è
barricato nel silenzio, nella paura e nella solitudine.
Rispetto ad oggi c’erano poche immagini, quel-
le fisse delle fotografie e quelle di cinegiornali affret-
tati, ma erano continuamente ripercorse con la fan-
tasia e tanti racconti di testimoni, tante parole. Men-
tre infuriava la partita da un balcone arrivavano no-
tizie del giro d’Italia e allora le montagne delle gran-
di scalate si mescolavano alle azioni della partita.
Quando fummo un po’ più grandi per giocare co-
minciammo ad uscire dal cortile, guadavamo la ferro-
via e trecento metri al di là dei binari c’erano tanti
campi di calcio in una zona non ancora edificata, cam-
pi di cui uno soltanto, quello con le porte, recava il se-
gno dell’intervento di una tecnologia minima mentre
gli altri, tra loro molto disuguali, erano stati modella-
ti dal lavorio di mille partite, spianati come da ere geo-
logiche da calciatori di tutte le età e classi sociali. Il
rango del campo su cui si poteva giocare, quando c’e-
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Il cortile 39

ra pienone, era deciso dai rapporti di forza e ricordo


partite iniziate su un campo e finite su un altro così co-
me la prima conquista del campo principale, quello
dove c’erano talvolta il triciclo dei gelati, la vaschetta
con le gassose e qualche spettatore con l’aria di chi se
ne intende e nei cui occhi ci si specchiava dopo una
prodezza o un errore clamoroso.
L’età che cresceva la si poteva misurare proprio
dalla sicurezza con cui ci avventuravamo su questa
«terra di nessuno», dalla prossimità del nostro cam-
po a quello principale. In queste partite era facile che
mi capitasse di essere il capitano della squadra sia
per l’incurabile malattia del prendere sul serio le epo-
pee collettive, sia perché ero il più grosso e il più for-
te e questo mi permetteva di difendere con discreto
successo nei momenti più critici le sorti della squa-
dra. Posseggo ancora una fotografia nella quale sono
l’unico delle due squadre schierate a centrocampo a
non guardare la macchina fotografica e a stare lì im-
pettito così come avevo visto fare ai giocatori veri
durante l’inno nazionale. Tutto lì (anche se si tratta-
va di una grande sfida con molto pubblico) è di for-
tuna, dal campo all’arbitro, alle divise, alla fotografia
che è pessima, solo io sembro non accorgermene e
prendere la cosa sul serio.
Si stava dunque molto insieme, ci si stava ad-
dosso, si litigava, si cambiavano alleanze, ma mai
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40 Mal di Levante

troppo a lungo perché i rimescolamenti erano conti-


nui e non si dipendeva mai strettamente da uno sol-
tanto, anche se poi il tempo e la scuola hanno inizia-
to ben presto a diversificare le persone, a tracciare
diversi destini e diverse traiettorie di uscita da quel
cortile. Ma quello che ricordo è qualcosa che tra-
scende queste differenze, è un’incredibile coralità, il
gran numero delle cose fatte insieme, dalle corse con
i tappi alle spedizioni sull’estramurale per vedere le
motociclette della Milano-Taranto, alle prime misu-
razioni della virilità, questa forse l’ultima delle cose
fatte insieme e la prima di un’altra fase della vita, l’i-
nizio di un’altra partita, giocata con altre squadre ma
anche e soprattutto da soli.
Al quarto piano di una delle tre scale di quel pa-
lazzo c’era la casa nella quale ho abitato dall’età di
dieci mesi fino a sedici anni; quattro stanze più la cu-
cina, esposta sull’interno a mezzanotte (il lato del
mare) e sull’esterno a mezzogiorno. Ricordo il bal-
cone della camera da pranzo inondato di sole e la vi-
sta e gli odori della ferrovia, di treni ancora a carbo-
ne e bianchi di fumo, era come se avessi dentro casa
uno splendido trenino «vero», i mille barbagli dei
cocci sui selciati e dei vetri delle carrozze. Su quel
balcone quando si «rifacevano» i materassi veniva
esposta la lana nella quale era bello tuffarsi; una vol-
ta, forse attirata da questa novità entrò nella camera
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Il cortile 41

in fondo una cavalletta e ricordo la soddisfazione


quando, vinto il ribrezzo – non ne avevo mai vista una
prima – riuscii a farla volar via con il battipanni.
Quando, dopo alcuni anni, quella diventò la mia
stanza ricordo quel bellissimo gioco che consisteva
nel guardare sul soffitto le macchine passare attra-
verso il riflesso del sole sulla carrozzeria o sui vetri;
da quel balcone vidi l’incendio di un mulino al di là
della ferrovia (come era lungo un incendio e come
era difficile spegnerlo!), da lì le sere d’estate si pote-
va vedere il terrazzo del dopolavoro sul quale si bal-
lava al suono di un’orchestrina, da quel balcone e dai
suoi grandi spazi ho imparato a riconoscere la luce
chiara e perpendicolare di mezzogiorno, da quel bal-
cone chissà quante volte al buio mi sono chiesto chi
sarei diventato, che cosa mi aspettava e adesso che
scrivo trovo incommensurabile quello che sono e la
sospensione trepida che c’era in quelle domande,
quel mistero che ero allora a me stesso.
Il balcone centrale era il balcone di quella che è
stata a lungo la sala da pranzo, in cui si mangiava la
domenica o quando c’erano ospiti: una volta venne a
pranzo un signore che recitava a teatro e aveva fatto
qualche parte in alcuni film ed io ricordo la sua faccia
liscia, rosea ed un po’ floscia e la tovaglia e le posate
buone e mia nonna (era stata anche lei primattrice
nella filodrammatica del dopolavoro) lusingata ed
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42 Mal di Levante

in punta di piedi. In camera da pranzo o in cucina


si ascoltava la radio: musica, varietà, giornali radio,
carillon e fischi che scandivano le ore, ma anche al-
cuni momenti di grande partecipazione emotiva come
l’alluvione del Polesine, il crollo di Dien-bien-phu, la
rivoluzione ungherese. Lontano, da qualche parte,
c’erano guerre come quella appena finita e dentro la
quale ero nato, ma i protagonisti non erano gli stessi
dei racconti di mio padre (prigioniero in Jugoslavia)
e di mio zio (prigioniero in India), ma un’immensa
ondata che sembrava espandersi irresistibilmente nel
mondo, un comunismo dagli occhi allungati, un’uma-
nità del nord e dell’est da noi molto lontana, senza sen-
timenti e senza pietà. Queste notizie e queste paure
arrivavano su un nucleo familiare (i nonni, i miei, gli
zii) solidamente di destra, sabaudo sicuramente nelle
tre donne che governavano la casa, più irrequieto ne-
gli uomini, specialmente mio padre. Ricordo le ele-
zioni (credo del ’48) con i manifesti dappertutto, an-
che sui muri delle chiese, soprattutto i manifesti con
stella e corona a cui andavano le preferenze dei miei
e che io contavo passeggiando con loro per capire se
«stavamo vincendo».
La figura centrale di questo nucleo familiare al-
largato era mia nonna, e io primo nipote (mio cugino
arrivò dopo tre anni e mezzo e mio fratello dopo ot-
to) ero il suo beniamino, il destinatario principale
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Il cortile 43

delle sue cure e della sua educazione sentimentale.


Mia nonna era nata a Roma, ma aveva vissuto e si era
sposata ad Ancona dove erano nate mia madre e mia
zia; quando mio nonno, funzionario delle ferrovie, fu
trasferito a Bari la famiglia lo seguì e lì le due figlie si
sposarono. Solo durante l’ultima parte della guerra
sfollarono vicino ad Ancona in un posto bellissimo e
allora selvaggio dove sono nato. In primo luogo mi fu
insegnato che non ero barese: quasi tutti i ricordi più
belli di mia madre, mia zia e dei nonni erano di An-
cona e io ho imparato ad amare una città e persone
che conoscevo pochissimo.
Il primo viaggio ad Ancona fu emozionante. Mi
svegliai all’alba sul treno e assistetti incantato allo
spettacolo della levata del sole dal mare e poi final-
mente l’arrivo: c’erano i parenti tanto raccontati, c’e-
rano ancora dei palazzi distrutti dai bombardamenti,
c’era quella strana cosa che sono le colline, le strade
in salita e tortuose che disorientano chi conosce sol-
tanto la geometria ortogonale di Bari. Con i suoi pa-
norami piatti e squadrati, in cui le colline erano e so-
no i palazzi, Bari mi sembrava la regola e Ancona l’ec-
cezione; avrei appreso più tardi che forse era vero il
contrario. In ogni caso questa rivendicazione dell’an-
conetanità era per i miei una rivendicazione di diver-
sità e di distinzione, quasi come un vantare dei nata-
li nobili, forse un radicamento più antico e consoli-
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dato nella piccola borghesia dei funzionari statali,


un’identificazione molto maggiore (e poco meridio-
nale) in una cultura post-unitaria, nei suoi miti e nei
suoi riti.
Successivamente la posizione dominante di
mio nonno venne messa in crisi dall’arrivo degli in-
gegneri, più giovani e di grado più elevato, ma ricor-
do che nella trama della distinzione che si veniva a
cucire tra le famiglie attraverso gli inviti a casa, le ce-
ne e il gioco a carte, la casa dei nonni fu a lungo la ca-
sa principale, la più aperta a tutti. In quella casa si
leggeva molto, tutti leggevano molto: non mancava
mai il quotidiano, ma anche «Oggi», la «Domenica
del Corriere» e la «Tribuna illustrata», riviste femmi-
nili, i miei giornalini; c’erano tanti libri, da Cronin a
Körmendi, da Zweig a Brontë, da Dickens a Zola e
ben presto anch’io ebbi la mia biblioteca personale,
appresi la magia del leggere. È forse proprio qui, nel
grande peso dato ai significati e al senso che mi pare
di poter dire che ci fosse la maggiore «diversità»:
l’impressione che avevo era che per gli altri le cose
fossero più semplici e lineari, che tutto ciò che era
lontano nel tempo e nello spazio fosse realmente lon-
tano, interessasse poco e non potesse riguardarci più
di tanto. Anche laddove c’erano libri, nelle case degli
ingegneri, essi erano di meno ma soprattutto meno
importanti, diversi, più orientati verso saperi pratici,
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Il cortile 45

manuali, strumenti di lavoro e non tramiti di signifi-


cati.
All’interno di quest’enfasi sottile e pervasiva, in
cui gli eroi per quanto lontani (non dormivano mai,
non andavano mai in bagno) erano sempre lì a misu-
rarci, si è compiuta la mia educazione sentimentale.
Primo nipote al centro dell’attenzione di tre donne
(mio padre tornò dalla prigionia quando avevo tre an-
ni e mezzo e quasi contemporaneamente alla nascita
di mio cugino) credo che il mio inizio di vita sia sta-
to accompagnato da molta attenzione, enfasi e punti
esclamativi. Sin dall’inizio sono stato immesso in
questo circuito di privilegi e obblighi interiorizzati
che veniva da una famiglia radicata in una cultura
umbertina, in cui molto più importanti del denaro
erano altri codici. Quando tornò dalla prigionia mio
padre (che fino allora era stato una fotografia di fron-
te alla quale dicevo le preghiere della sera) e nacque
mio cugino credo di essermi trovato di fronte alla ne-
cessità di impegnarmi con tutte le mie forze per con-
tinuare a ricevere in forme nuove e più adulte quelle
gratificazioni che fino ad allora mi erano arrivate al
fondo con poco lavoro.
Mio padre dovette riconquistarsi spazio con de-
cisione e ai miei danni (ricordo soprattutto la sua for-
za: alla stazione, quando me lo avevano indicato e mi
avevano detto di corrergli incontro, mi aveva solle-
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46 Mal di Levante

vato come una piuma, come nessuno fino ad allora


era stato capace di fare; ma anche i primi ceffoni do-
lorosi e pesanti) e mia nonna mi accolse spesso la
mattina nel suo letto dove mi leggeva libri, dal Cuo-
re di De Amicis al Giornalino di Giamburrasca.
Imparai a leggere e a scrivere molto presto e la
scuola non fu mai un problema (anche se non inse-
gnava mia madre era diplomata come maestra), ma
l’«andar bene» a scuola mi consentiva di conservare
in altra forma l’attenzione e la centralità dei miei pri-
mi anni.
Il mio peso e il mio super-io crebbero probabil-
mente insieme, inseparabili compagni di giochi delle
mie angosce, dei miei segreti, dei miei smarrimenti e
dei miei ritrovamenti. Fuori di quei modelli abitava
una parte di me, specialmente quella parte che era
collegata alle fantasie sessuali, per le quali in quel ti-
po di educazione non c’era parola: quante scoperte,
quante paure sono avvenute nel buio senza parola,
con l’idea di essere il primo e l’unico nella scoperta e
nel peccato, quante salive inghiottite di colpo, quan-
ti sguardi come pietre lanciate nascondendo la ma-
no, quante domande inevase, quanti silenzi e quante
reticenze da parte loro e mia, eppure, anche e accan-
to a ciò, quanti altri mondi conosciuti, quante storie
ascoltate e poi raccontate, quante figure entrate in
tutte le mie stanze come amici, quanti prahos sull’o-
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Il cortile 47

ceano indiano, quanti castelli inglesi, quanti galeoni


accerchiati, quanti cavalieri misteriosi sono entrati
da quelle porte e da quelle finestre! Come si intrec-
ciano reticenze e fantasia, esclusioni e messe al ban-
do di sé e l’arrivo sudato sulla collina sulla quale si
conoscono i propri eroi? Che cosa si blocca e che co-
sa si libera allorché scatta un’inibizione? Quali bam-
bini non sono stato?
Quelle domande trovavano risposte monche e
parziali nelle uguali domande di coetanei, nelle de-
scrizioni dei ragazzi più grandi, molti dei quali ave-
vano (o dicevano) costruita la loro esperienza nelle
case d’appuntamento. I loro racconti erano spesso
sommari ed imprecisi e probabilmente molti millan-
tavano un’esperienza che non avevano. Sia l’anato-
mia dell’altro sesso, sia l’atto sessuale sono stati a
lungo solo il risultato impreciso di una somma di de-
scrizioni, in alcuni casi descrizioni di descrizioni. Le
donne, le coetanee o quelle appena più grandi erano,
tranne eccezioni, lontane e seguite con gli sguardi.
L’uscire da questa lontananza è stato il lungo ap-
prendistato dell’adolescenza, la complicata costru-
zione di una lingua nella quale sentissi rappresenta-
to me stesso, al di là dei silenzi e dei gerghi di una vi-
rilità postribolare.
Mia nonna che nella relativa immobilità (era
molto grassa e non camminava bene) era il centro
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48 Mal di Levante

della casa, se n’è andata via quando avevo dodici an-


ni, con la mia infanzia. Già prima della sua morte
però in quel micro-sistema sociale era avvenuto un
cambiamento perché gli zii e mio cugino erano an-
dati ad abitare per conto loro. Nell’ennesimo sposta-
mento (quello di cambiare stanza era uno dei giochi
preferiti da mia madre) si creò uno spazio per me, o
meglio un compromesso tra una mia stanza autono-
ma e lo studio di mio padre, dove troneggiava una
nuova scrivania e sul muro il diploma di laurea di mio
padre conseguito presso la regia università di Bari
«Benito Mussolini». Su quella scrivania ricordo delle
custodie di cartoncino rosa per le «pratiche» (mio
padre era impiegato all’intendenza di finanza) e un
lume costantemente sbilanciato che bastava un non-
nulla (ma i miei movimenti erano molto di più di un
nonnulla) per fare cadere sul cristallo del ripiano del-
la scrivania.
In quella stanza c’era anche il mio letto (final-
mente i miei potevano dormire da soli) che nei primi
mesi prima di addormentarmi circondavo di sedie, di
segnali acustici e di protezioni contro gli abitanti not-
turni delle mie paure. Attorno al letto c’erano i libri,
sotto di esso le collezioni di giornalini religiosamen-
te riposte in ordine all’interno di scatole di cartone, i
soldatini, i ciclisti di plastica che si trovavano all’in-
terno delle prime scatole di detersivo, tappi, figurine,
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Il cortile 49

aeroplani ritagliati di cartone, palline di vetro, di cre-


ta e palle di gomma di tutte le dimensioni, e poi un
pallone di cuoio di seconda mano che diventava il
protagonista di forsennate partite appena eravamo
soli a casa, il terrore di tutti i vetri, le bottiglie e i lu-
mi di casa. In quella stanza stavo a lungo da solo e
leggevo tutto il leggibile. La sera mentre i miei ascol-
tavano la radio e giocavano a carte (a canasta, un gio-
co dove c’erano le pinelle e si poteva gelare il pozzo)
io mi mettevo sul letto e leggevo, talvolta chiedendo
conforto come quando alla fine dei Ragazzi della via
Pal muore Nemecsek.
L’arrivo di mio padre, è inutile nasconderlo, mi
aveva reso più difficile la vita, ma significava anche
qualcuno su cui e con cui misurarsi. E non fu facile,
anche perché il modo più efficace per farmi «filare
dritto» (come lui diceva) lo avevano già trovato mia
nonna e mia madre entrando nelle mie profondità e
gli schiaffi aggiungevano dolore fisico e rabbia quan-
do non sembravano giusti. Mio padre era più impul-
sivo e pesava di più, ma solo (così mi è a lungo sem-
brato) negli strati superficiali e meno a lungo: lui am-
ministrava la pena, mia madre e mia nonna mi ave-
vano insegnato la colpa.
L’occhio mi seguiva sempre e non c’era porta
che potesse coprirmi: forse solo il buio che rende me-
no visibili, ma il buio era anche il regno delle ombre
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50 Mal di Levante

e delle paure, c’erano buoni motivi per fuggirlo. Mi


sono sempre visto con quest’occhio non mio e pro-
prio lì stanno, inseparabili come in una medaglia,
pregi e difetti, luci ed ombre, diritto e rovescio. Ma
questa severità in mia madre era attenuata da un’in-
fanzia felice, dall’idea lì appresa che le storie debbo-
no finire bene anche se non sembra, che i costi ver-
ranno ricompensati, che dalla paura e dalla rabbia si
torna sempre e al compito spetta un premio fatto da
poche parole ma soprattutto da un tintinnìo di risate
che rimbalzava dalla sua infanzia nella mia.
Di qui quel tessuto simbolico fittissimo e senza
smagliature e diserzioni (che invece mia zia, più lai-
ca e più propensa a vedere l’esistenza dei cattivi sen-
timenti propri e altrui, conosceva) entro il quale in-
serire tutti i gesti quotidiani, questa àncora e questa
prigione, di qui il desiderio di provarsi e quello di tor-
nare, il piacere di perdersi e quello di ritrovarsi, di qui
la passione per le storie. Quello sfondo di straordi-
naria allegria ridava senso alla serietà e al sacrificio
che tante volte mi capitava di scorgere su quel volto.
Forse lì ho imparato che con tutti bisogna sempre
cercare il punto in cui, anche per un attimo, sono sta-
ti felici per incominciare a parlare. E che piacere, an-
che per mio padre, quando lei si scioglieva e tornava
a quell’allegria che le aveva conosciuta, e che c’è an-
cora tutta in quelle fotografie insieme sul terrazzo.
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Il cortile 51

Rispetto a questo senso del dovere e al suo potere si-


lenzioso mio padre rappresentava per me la forza fi-
sica e la durezza (dei tre adulti maschi era quello più
temuto anche da mio cugino). Solo più tardi avrei co-
nosciuto tenerezza per lui e solo dopo la sua scom-
parsa sarei stato capace di scoprire a che profondità
mi aveva abitato.
La sua famiglia era a me più estranea e ogni do-
menica andavo con lui a trovarla. Mio nonno pater-
no, professore negli anni Venti e Trenta nel ginnasio
cittadino, era morto lasciando quattro figli e la mo-
glie in grandi difficoltà. Questo evento e l’improvviso
declassamento avevano segnato profondamente la
famiglia di mio padre e talvolta quando andavo da lo-
ro mi sembrava che il lutto continuasse ancora, che
nessuna esperienza successiva a quella scomparsa
potesse aver valore agli occhi di chi guardava sol-
tanto all’indietro. Con molti rimproveri mio padre e
la secondogenita si erano staccati da quella decoro-
sa tristezza aumentandola.
Io ero il primo nipote maschio e con lo stesso
nome del nonno scomparso ma vivevo in un’altra ca-
sa e con altri lari e la nonna e gli zii paterni cercava-
no di farmi conoscere anche la loro religione, le loro
radici rimproverando a mio padre di non farlo a suf-
ficienza. L’effetto era talvolta controproducente an-
che perché questo nonno, alla cui venerazione mi in-
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52 Mal di Levante

vitavano, lo potevo conoscere soltanto attraverso fo-


tografie in cui era in compagnia di suoi colleghi e
amici (altolocati o famosi) e mai come padre di mio
padre, mai in compagnia della sua famiglia alla qua-
le mi sembrava fosse arrivato solo distrattamente e
in tarda età. Tutto ciò mi faceva sembrare quella ve-
nerazione eccessiva anche se confusamente potevo
intuire quale potesse essere stato l’orgoglio di quella
famiglia in un periodo in cui il nonno aveva come
suoi allievi i figli delle maggiori famiglie della città.
Di quella casa ricordo, oltre l’odore acutissimo di
ragù che si incontrava nel portone, anche quel peso
fortissimo e per me quasi soffocante del passato,
quel mio retrocedere sempre a metafora di altro, que-
gli sguardi mai diretti, ma che mi arrivavano sempre
alla luce di qualche altra cosa, che mi toccavano sem-
pre di rimbalzo.
Con il passare del tempo avrei capito meglio e
di più mio padre e la sua famiglia, sarei stato capace
di guardare con emozione e curiosità le foto che al-
lora mi venivano mostrate e mi annoiavano, ma sono
cose avvenute fuori dell’infanzia, quando le si so-
pravvive e la si storicizza. Quante le cose che si capi-
scono dopo! Ma soprattutto quanta parte del mondo
al di là del cortile ci viene nascosta per poi rivelarsi
attraverso estemporanee e dolorose scoperte! La mia
infanzia fu protetta da quel cortile e da tutti gli altri
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Il cortile 53

cortili che avvolgono in genere un bambino, dalle re-


ticenze, dal modo in cui si sottrae al suo sguardo il
proprio dolore o il peggio di sé e degli altri. Da que-
sto punto di vista la mia famiglia, con il suo «perbe-
nismo sentimentale», mi ha molto protetto e ancora
oggi non finisco mai di apprendere quanto diversa sia
la vita «vera» da quella consegnata nelle immagini a
me proposte allora. Eppure intrecciata a quella so-
spensione e «cecità» c’è ancora oggi, come il riflesso
di quell’infanzia, l’idea che non è assurdo sperare che
sia possibile diventare grandi senza tradire, misurar-
si con tutta la complessità e la durezza della vita sen-
za gettar via come ingenuità la delicatezza e il tin-
tinnìo delle risate. È proprio questo tintinnìo che spe-
ro di essere riuscito a trasmettere a mio figlio, perché
tutto il resto gli è secondo. Anche se, ricordando che
l’infanzia è per definizione l’età in cui non si può par-
lare, mi viene da pensare che, parlandone, l’ho per
l’ennesima volta tradita.
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Indice

Premessa VII

Mal di Levante 3

Il cortile 31

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