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di
Roberta VACCARO
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b. La diligenza professionale di cui all’art.1176, comma 2 o c.d. perizia. La
nozione di colpa medica.
La diligenza cui è tenuto il medico nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla
propria attività professionale non è tanto (o soltanto) quella del buon padre di famiglia,
di cui all'art. 1176 comma 1 c.c., ma è piuttosto quella qualificata, richiesta dalla
natura dell’attività esercitata, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo.
L’espressione di tale diligenza qualificata, sub specie di particolare sforzo tecnico-
scientifico, è la perizia, intesa come conoscenza e applicazione di quel complesso di
regole tecniche proprie della categoria professionale d'appartenenza: nello specifico, si
tratta delle leges dell’ars medica, di natura cautelare, tese a perimetrare l’ambito del
c.d. rischio consentito e per l’effetto l’ambito di liceità dell’intervento.
Il richiamo alla perizia ha, dunque, in questi casi, la funzione di ricondurre la
responsabilità alla violazione di obblighi specifici derivanti da regole disciplinari precise.
Ciò comporta, come è stato rilevato dalla dottrina, che la diligenza assume nella
fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento
e criterio di determinazione del contenuto dell'obbligazione.
Va da sé che nelle varie discipline specialistiche, anche all’interno della stessa attività
professionale medica, la perizia di volta in volta si caratterizzerà in modi parzialmente
diversi, riempiendosi dei significati tecnico-qualitativi attinti dallo standard medio dello
specialista di riferimento, fermi comunque quei principi fondamentali comuni a qualsiasi
ramo dell’attività medica.
In definitiva, su ogni sanitario graverà, accanto ai generali doveri di diligenza e
prudenza, una perizia il cui contenuto è rappresentato:
da un lato, dalle leges artis comuni a qualsiasi ramo della professione medica ( id
est, di medicina di base);
dall’altro, alle regole di condotta specifiche del settore di specializzazione del
singolo sanitario.
Precisa in tal senso, Cass. civ., sez. II, 9 novembre 1982 n. 5885, che “in tema di
responsabilità professionale, l'inadempimento […] và valutato alla stregua del dovere di
diligenza che in tale materia prescinde dal criterio generale della diligenza del buon
padre di famiglia e si adegua, invece, alla natura dell'attività esercitata. Consegue che
l'imperizia professionale presenta un contenuto variabile, da accertare in relazione ad
ogni singola fattispecie, rapportando la condotta effettivamente tenuta dal prestatore
alla natura e specie dell'incarico professionale ed alle circostanze concrete in cui la
prestazione deve svolgersi e valutando detta condotta attraverso l'esame nel suo
complesso dell'attività prestata dal professionista”.
Con la conseguenza che, la colpa medica ricorre in tutte le ipotesi di inosservanza e/o
violazione da parte del sanitario delle specifiche regole cautelari di condotta proprie
dell’agente modello del settore specialistico di riferimento (ipotizzandosi tanti agenti-
modello, quante sono le branche specialistiche della medicina: es. radiologo, cardiologo
etc.).
Essa potrà essere omissiva, allorché l’errore medico (terapeutico o diagnostico) si
sostanzi nell’omissione delle cautele prescritte dalle speciali regole di condotta, da
valutare anche alla stregua dei protocolli terapeutici standardizzati; commissiva,
laddove la violazione delle suddette regole si sostanzi in una condotta attiva. Accanto a
tale colpa professionale, o speciale, nulla esclude che possa ascriversi al medico anche
una responsabilità per colpa generica, per inosservanza delle regole generali di
diligenza e prudenza.
c. Regime giuridico: l’ambito applicativo dell’art.2236 c.c. e rapporto con l’art.1176
c.c.
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Il codice civile riserva alla responsabilità professionale, nel cui ambito rientra quella
medica, un’apposita disciplina speciale di cui all’art. 2236 c.c., in considerazione delle
peculiarità della prestazione intellettuale.
La norma in questione pone una limitazione di responsabilità del prestatore d'opera,
circoscrivendola ai soli casi di dolo o colpa grave, qualora si trovi di fronte a problemi
tecnici di speciale difficoltà.
La ratio di questa limitazione di responsabilità consiste nell’esigenza di
contemperamento di due opposti interessi: da un lato, la necessità di non mortificare
l'iniziativa del professionista nella risoluzione di casi di particolare difficoltà,
esponendolo a continue rappresaglie risarcitorie da parte dei pazienti; dall’altro, non
indulgere verso atteggiamenti improntati a leggerezza e negligenza (v. in tal senso, la
relazione di accompagnamento del disegno di legge del codice civile; nonché Corte Cost.
n.166/1973).
Circa l’ambito applicativo di detta previsione, la giurisprudenza ha, tuttavia, formulato
due fondamentali precisazioni:
la norma si applica soltanto quando sia in discussione la perizia del
professionista, non quando, al contrario, ci si trovi di fronte all'imprudenza o all'incuria,
operando in relazione a queste ultime il giudizio improntato a criteri di normale severità
(colpa lieve) di cui all’art.1176, comma 2;
ed inoltre, occorre che la perizia sia impiegata per la risoluzione di problemi
tecnici di speciale difficoltà, in quanto poco studiati o molto dibattuti con riguardo ai
metodi terapeutici da adottare, per essere caratterizzati dalla straordinarietà e
particolare eccezionalità del loro manifestarsi.
In tal senso, si è affermato che “la limitazione della responsabilità professionale del
medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell'art. 2236 c.c. si applica nelle sole
ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà (perchè trascendono la
preparazione media o perchè non sono stati ancora studiati a sufficienza, ovvero
dibattuti con riguardo ai metodi da adottare) e, in ogni caso, tale limitazione di
responsabilità attiene esclusivamente all'imperizia, non all'imprudenza e alla
negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che,
nell'esecuzione di un intervento o di una terapia medica provochi un danno per
omissione di diligenza ed inadeguata preparazione;
la sussistenza della negligenza va valutata in relazione alla specifica diligenza richiesta
al debitore qualificato dall'art. 1176, comma 2, c.c.”(v. rassegna giurisprudenziale).
È chiaro, peraltro, che – nei casi di “speciale difficoltà” - la responsabilità di uno
specialista (o di una struttura specializzata) sia più facilmente dimostrabile rispetto a
quella di un medico generico o non competente in quello specifico settore o, ancora,
privo di strumenti adeguati.
Ciò non toglie che, in ogni caso, il grado di diligenza debba essere valutato con
riferimento alle circostanze del caso: può infatti ricorrere una colpa c.d. per assunzione
del medico inesperto; ovvero, in relazione alla inadeguatezza delle dotazioni della
struttura ospedaliera, una colpa nell’uso di apparecchiature non idonee e/o per non
aver trasferito, con tempestività, il paziente presso una struttura adeguatamente
attrezzata per quello specifico intervento.
La giurisprudenza ha, in tal senso, precisato che “l'attenuazione di responsabilità è,
peraltro, ulteriormente limitata dalla richiesta, in capo al professionista, di una
scrupolosa attenzione, pretendendosi dallo specialista uno standard di diligenza
superiore al normale: così, il richiamo (ormai, poco più che formale e declamatorio)
alconcetto di colpa grave non vale più come criterio di valutazione di una grossolana
divergenza dalla diligenza media, ma come scarto di diligenza esigibile da uno
specialista (dal quale, appunto, pretendere una preparazione ed un dispendio di
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attività superiore al normale: CC 4437/1982, Di Biagio/Cassa maritt. Meridion.),
mentre non si consente al non specialista il trattamento di un caso altamente
specialistico (CC 2428/1990, che ritenne responsabile un ortopedico il quale, senza
esperienza nel campo, affrontò un intervento di alta chirurgia neoplastica)” (Cass.
n.9471/2004).
Nel solco di questa ormai consolidata impostazione giurisprudenziale e dottrinale si
colloca la recentissima sentenza 13-03-2007, n. 5846, con la quale la Suprema Corte ha
ulteriormente ribadito che “La limitazione di responsabilità non si applica (…) al
professionista generico che - consapevolmente - abbia omesso di consultare uno
specialista che avrebbe potuto indirizzarlo, oltre che ad una diagnosi corretta, verso un
intervento con conseguenze meno dannose”.
Riassumendo, quindi,:
trattandosi di obbligazioni inerenti all’esercizio di attività professionali, la
diligenza nell’adempimento deve valutarsi, a norma dell’art. 1176, secondo comma,
con riguardo alla natura dell’attività esercitata;
l’art. 2236 c.c. è riferibile alla sola perizia dispiegata nella soluzione di problemi
di speciale difficoltà, vale a dire con riferimento a quei casi che trascendono la
preparazione media;
gli artt. 1176, comma 2 e 2236 c.c. esprimono l’unitario concetto secondo cui
il grado di diligenza deve essere valutato con riguardo alla difficoltà della
prestazione resa.
la colpa professionale è appunto inosservanza della diligenza qualificata
richiesta.
d. Il problema dell’applicabilità analogica dell’art.2236 c.c. alla responsabilità
aquiliana ed in sede penale.
Dette limitazioni di responsabilità sono state dalla giurisprudenza ritenute applicabili, in
via analogica, anche alla responsabilità extracontrattuale, ricorrendo l’eadem ratio e
l’identità di prestazione, indipendentemente dalla qualificazione dell’illecito.
Si è, infatti, rilevato che “l'art. 2236 c.c. ...sebbene collocato nell'ambito della
regolamentazione del contratto d'opera professionale, è applicabile, oltre che nel
campo contrattuale, anche in quello extracontrattuale, in quanto prevede un limite di
responsabilità per la prestazione dell'attività professionale in genere, sia che essa si
svolga sulla base di un contratto, sia che venga riguardata al di fuori di un rapporto
contrattuale vero e proprio” (Cass. n. 1544/1981; in termini Cass. n.11440/1997).
Giova fin d’ora evidenziare, tuttavia, che la rilevanza di detta applicazione analogica è
andata stemperandosi nel tempo fino quasi a scomparire a seguito della progressiva
adesione da parte della dottrina e della giurisprudenza alla tesi della natura
contrattuale della responsabilità del medico, anche in assenza di un formale contratto
stipulato direttamente con il paziente.
L'applicabilità anche in sede penale della limitazione di responsabilità di cui
all’art.2236 c.c., ammessa in un primo tempo dalla dottrina e da parte della
giurisprudenza, è stata poi definitivamente negata dalla giurisprudenza penale di
legittimità sul finire degli anni ‘80.
Costituisce ormai orientamento pacifico, infatti, quello secondo il quale
“l'accertamento della colpa professionale del sanitario deve essere valutata con
larghezza e comprensione per la peculiarità dell'esercizio dell'arte medica e per la
difficoltà dei casi particolari, ma, pur sempre nell'ambito dei criteri dettati per
l'individuazione della colpa medesima dall'art. 43 c.p. Tale accertamento non può
essere effettuato in base al disposto dell'art. 2236 c.c. (…). L'applicabilità di tale
norma e' esclusa dalla sistematica disciplina del dolo e della colpa in diritto penale per
la quale il grado della colpa è previsto solo come criterio per la determinazione
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della pena o come circostanza aggravante e mai per determinare la stessa
sussistenza dell'elemento psicologico del reato, sicchè il minor grado della colpa non
può avere in alcun caso efficacia scriminante” (Cass. pen. sez. IV, 22 febbraio 1991).
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atipico individuato dalla sentenza Cassazione n. 13066/2004 in base allo schema della
“locatio operis”, con obbligazione di risultato;
- unitario è il criterio della responsabilità, sia per la casa di cura privata che
pubblica, non essendo possibile differenziare la responsabilità in base alla natura del
soggetto danneggiante, trattandosi di violazioni che incidono sul bene della salute,
tutelato quale diritto fondamentale dalla nostra Carta costituzionale, senza possibilità di
limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura
(pubblica o privata) della struttura sanitaria;
- parificato è il regime giuridico tra pubblico e privato, escludendosi per il
medico operante all’interno della struttura sanitaria pubblica l’applicabilità della
normativa prevista dagli artt. 22 e 23 del D.P.R. 10.1.1957 n. 3 con riguardo alla
responsabilità degli impiegati civili dello Stato (la limitazione tout court della
responsabilità dei dipendenti pubblici ai casi di dolo e colpa grave, ivi prevista, si
risolverebbe, infatti in una ingiustificata disparità di trattamento tra medico pubblico
e privato, a fronte dell’identità di prestazione effettuata: in entrambi i casi, dunque,
troveranno applicazione le norme civilistiche di cui agli artt. 1176, 1218 e 2236 c.c.;
cfr. Cass. n. 5939/1993 e negli stessi termini Cass. n. 4152/1995 e da ultimo Cass. n.
4058/2005);
- inoltre, è irrilevante, ai fini della responsabilità contrattuale della struttura
sanitaria, lo status giuridico del medico in relazione alla struttura ospedaliera nella
quale è stato eseguito l'intervento o la prestazione: in ogni caso questi, nel momento in
cui effettua la prestazione all’interno della struttura sanitaria, è considerato quale
ausiliario necessario, sia in presenza che in assenza di un rapporto di lavoro
subordinato, sussistendo comunque un collegamento tra la prestazione medica e
l’organizzazione aziendale; tale collegamento permane anche se il sanitario risulti
essere “di fiducia” del paziente (Cfr. in tal senso Cass. n. 10297/2004).
In ordine a quest’ultimo profilo, occorre, tuttavia, precisare che:
se il paziente si rivolge direttamente alla struttura sanitaria, della quale il
medico è dipendente, la responsabilità contrattuale dell’Ente si fonda sul contratto
stipulato dal paziente per l’effettuazione della prestazione sanitaria ;
nel caso, invece, in cui il rapporto sia sorto direttamente con un professionista
di fiducia, ma sia stato comunque il paziente a rivolgersi, anche se su indicazione del
medico di fiducia, alla struttura sanitaria, dell’intervento del medico quest’ultima sarà
responsabile anche in virtù del principio del contatto sociale;
solo nel caso in cui il contratto si sia concluso direttamente con il
professionista e sia stato quest’ultimo a contattare la casa di cura, per l’affitto delle
attrezzature o la locazione delle stanze, quest’ultima sarà responsabile solamente
delle prestazioni accessorie concordate col paziente (es: assistenza infermieristica,
sala operatoria, medicazioni , ecc), svolgendo un ruolo di mero ausilio strutturale: detta
responsabilità sarà, nel dettaglio, riconducibile all’art. 2050 c.c. se i mezzi usati dal
medico siano pericolosi o all’art. 2051 c.c., quale custode delle strutture o della
apparecchiature, nel caso in cui il danno sia ascrivibile al mancato o difettoso uso delle
stesse.
c. Il criterio di imputazione della responsabilità contrattuale e il danno c.d. da
disorganizzazione.
Acclarata la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria, secondo
l’orientamento attualmente prevalente, tale responsabilità si fonderà:
- sulla norma generale di cui all’art. 1218 c.c. per l’inadempimento delle
obbligazioni direttamente a suo carico (responsabilità per fatto proprio);
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- sulla previsione di cui all’art. 1228 c.c., per i fatti dolosi e colposi dei terzi
(sanitari, personale paramedico, ausiliario etc.) di cui si avvale la struttura sanitaria
nell’adempimento dell’obbligazione (c.d. responsabilità oggettiva per fatto altrui).
In quest’ultimo caso, peraltro, la responsabilità sarà configurabile solamente nel caso in
cui sia accertata la colpa del sanitario (oltre che il nesso di causalità tra la condotta del
sanitario e il danno al paziente).
d. La responsabilità diretta per danno da c.d. “disorganizzazione”.
Alla stregua di quanto evidenziato sopra, le obbligazioni a carico della struttura sanitaria
possono sintetizzarsi in:
1) prestazioni di diagnosi, cura e assistenza post-operatoria;
2) prestazioni di tipo organizzativo relative anche alla sicurezza e manutenzione delle
attrezzature e dei macchinari in dotazione;
3) vigilanza e custodia dei pazienti;
4) prestazione di natura alberghiera (vitto-riscaldamento-alloggio).
Viene così esaltata, dalla dottrina e giurisprudenza più recenti, l’affermazione di una
responsabilità contrattuale della struttura sanitaria:
- non solo collegata all’intervento diagnostico e/o terapeutico dei medici, e
all’attività strumentale ed accessoria del personale ausiliario, paramedico etc.;
- ma anche direttamente imputabile alla stessa struttura nel complesso, per i danni
provocati dalla insufficiente organizzazione o dalla inefficienza dei servizi e delle
attrezzature.
In definitiva, l’attività del medico all’interno della struttura sanitaria non è che un
segmento della più complessa prestazione richiesta all’Ente e può, quindi, sussistere
una responsabilità della struttura sanitaria anche in mancanza di responsabilità del
personale sanitario.
In termini più chiari, la struttura sanitaria risponderà del danno da disorganizzazione
nell’ipotesi di violazione dell’obbligo accessorio, connesso alla prestazione principale, di
non recare danno ingiusto al paziente per omissione di diligenza nel predisporre gli
strumenti necessari all’esatto adempimento della prestazione sanitaria ex artt. 1175 e
1375 cod. civ.
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che si instaura direttamente con il paziente e troppo penalizzanti per quest’ultimo le
conseguenze probatorie che discendono da detta qualificazione).
Si inaugura, pertanto, un nuovo corso, destinato a consolidarsi negli anni 2000, secondo
il quale la responsabilità dell’ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico
dipendente hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente o errata della
prestazione sanitaria da parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta
contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi, sub
specie di responsabilità professionale.
Pur nella convergenza del risultato finale a favore della responsabilità contrattuale,
diverse ed eterogenee sono, tuttavia, le argomentazioni addotte a sostegno ed i
referenti normativi citati.
a. L’art. 28 Cost.: il principio di immedesimazione organica.
La prima sentenza della Cassazione (n. 2144/1988) ad inaugurare il nuovo corso a favore
della responsabilità contrattuale del medico, nella specie dipendente di Ente pubblico
ospedaliero, argomenta sulla base del disposto dell’art. 28 Cost. il quale prescrive che
“i funzionari e dipendenti dello stato e degli enti pubblici, sono direttamente
responsabili secondo le leggi penali civili e amministrative degli atti compiuti in
violazione dei diritti”.
Su tale presupposto, si afferma la responsabilità contrattuale diretta:
- dell’ente, in quanto è ad esso riferibile, per il principio dell'immedesimazione
organica, l'operato del medico dipendente inserito nell'organizzazione del servizio;
- del medico, in quanto la sua responsabilità avrebbe radice comune (esecuzione
negligente della prestazione sanitaria) a quella dell’ente (in definitiva se quest’ultima
è di tipo professionale contrattuale, stante l’identità della causa, la responsabilità del
medico dipendente non potrà non essere dello stesso tipo).
Detta spiegazione presta, tuttavia, il fianco a due critiche difficilmente superabili:
- il solo richiamo all’art.28 Cost. non è esaustivo, in quanto si limita a sancire la
responsabilità diretta del dipendente pubblico sulla base delle "leggi penali, civili ed
amministrative" e la legge civile, nello specifico, contempla sia una responsabilità
contrattuale che extracontrattuale;
- né la questione è risolta per il richiamo alla comune radice delle due
responsabilità, ben potendosi ipotizzare casi di concorso di responsabilità (in capo allo
stesso soggetto, e a fortiori a soggetti diversi) contrattuale ed extracontrattuale per il
medesimo fatto lesivo (in particolare, ove un unico comportamento risalente al
medesimo autore appaia di per sé lesivo non solo di diritti specifici derivanti dal
contratto, ma anche dei diritti soggettivi tutelati erga omnes, indipendentemente dalla
fattispecie contrattuale).
b. Art.1411 c.c.: il contratto a favore del terzo.
Alcuni hanno percorso la diversa strada della applicazione della normativa relativa al
contratto in favore di terzo, in quanto l'ente gestore del servizio sanitario - nel
momento in cui si assicura la prestazione professionale del medico - stabilisce anche che
il beneficiario di detta prestazione sia il paziente che successivamente richiederà la
prestazione sanitaria.
Sennonché, al di là del fatto che può mancare tra casa di cura e medico il contratto
(specialiter ante privatizzazione del pubblico impiego), in ogni caso il soggetto
danneggiato che agisce non aziona il "contratto" esistente tra l'ente ed il medico, di
cui egli sarebbe il terzo beneficiario (cioé in senso lato il "contratto di lavoro") ma
aziona il diverso "contratto" intervenuto tra lui e l'ente gestore per ottenere la
prestazione sanitaria, rispetto al quale egli non è terzo beneficiario , ma parte
contrattuale, ovvero propone un'azione di responsabilità extracontrattuale per la
lesione di un suo diritto soggettivo assoluto, quale è il diritto alla salute.
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c. Il contratto con effetti protettivi a favore di un terzo (artt. 1175 e 1375 c.c. e 2
Cost.).
Quest'ultima obiezione impedisce anche di poter condividere la tesi di coloro che
sostengono che nella fattispecie sarebbe ravvisabile un contratto con effetti protettivi
nei confronti di un terzo (il paziente). La figura de qua ricorrerebbe ogni qualvolta da
un determinato contratto sia deducibile l'attribuzione al terzo di un diritto non al
conseguimento della prestazione principale, come accade sicuramente nel caso del
paziente, ma alla sua esecuzione con diligenza tale da evitare pregiudizi a danno del
terzo. Nel caso di specie, invece, l'attività diagnostica e terapeutica, e dunque la
prestazione, è dovuta direttamente nei confronti del paziente, che dunque non è mero
beneficiario di obblighi di protezione, ma destinatario degli obblighi di prestazione del
contratto.
d. Art.1173 c.c.: la responsabilità contrattuale da “contatto sociale”.
La soluzione più convincente, alla luce delle critiche sopra evidenziate, prende le mosse
dalla storica sentenza n. 589/1999 della Suprema Corte e fonda la responsabilità
contrattuale sul “contatto sociale” che si instaura tra medico e paziente, al momento
dell’accettazione del paziente in ospedale e della presa in carico da parte del sanitario
accettante.
Si profila, in definitiva, una “responsabilità contrattuale nascente da
"un'obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto", in quanto
poiché sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall'arte che
professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di
prestazione, e la violazione di esso si configura come culpa in non faciendo, la quale dà
origine a responsabilità contrattuale” (Cass. n.589/1999 cit.).
Si riconduce, in altri termini, la fattispecie in questione alla categoria dottrinale dei c.d.
rapporti contrattuali di fatto, vale a dire di quei rapporti modellati su una fattispecie
contrattuale tipica, della quale seguono la disciplina giuridica, ma che tuttavia si
costituiscono (salvo forzature ermeneutiche) in assenza di una base negoziale (o
dichiarata nulla), per effetto del contatto sociale tra le parti.
Il fondamento di tali obbligazioni viene individuato nell’art.1173 c.c., quale clausola
generale aperta (e non già catalogo rigoroso e tipizzato), che consente di inserire tra le
fonti delle obbligazioni qualsiasi altro “atto o fatto idoneo a produrle secondo
l’ordinamento giuridico”.
L’inquadramento in tale categoria evidenzia una duplice caratteristica del fenomeno:
la fonte dell’obbligazione ex art.1173 c.c. (nel caso di specie, è un fatto, il
contatto sociale);
la disciplina, mutuata dallo schema contrattuale del quale il rapporto presenta le
caratteristiche funzionali.
Attraverso tale soluzione, ormai largamente condivisa in giurisprudenza (v. Cass. n.
4058/2005, da ultimo Cass. n. 9085/2006), si superano le contraddizioni della tesi più
rigorosa a favore della responsabilità extracontrattuale, e in particolare
l’irragionevolezza di un diverso regime giuridico nei confronti di una prestazione, quella
resa dal medico a favore del paziente, che non può che essere sempre la stessa, vi sia o
meno alla base un contratto d'opera professionale tra i due.
L'esistenza di un contratto potrà al più rilevare a monte, al fine di stabilire se il medico
sia obbligato alla prestazione della sua attività sanitaria ( salve le ipotesi in cui detta
attività sia obbligatoria per legge), ma una volta accettato l’incarico ed entrato in
contatto con il paziente, l'esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto
paziente medico) non potrà che modellarsi sul contratto di prestazione d’opera
professionale di tipo sanitario.
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Questa soluzione della questione ovviamente riverbera i suoi effetti sul regime
applicabile alla responsabilità, in particolare sulla ripartizione dell'onere probatorio e
sul termine di prescrizione.
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c/2 Opta per un’allegazione meramente generica della colpa medica, l’orientamento
prevalente in giurisprudenza, confermato da Cass. civ., sez. III, 21-06-2004, n. 11488.
Secondo tale pronuncia, infatti, “In tema di responsabilità professionale del medico
chirurgo, sussistendo un rapporto contrattuale (quand'anche fondato sul solo contatto
sociale), in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c. il paziente ha l'onere di allegare
l'inesattezza dell'inadempimento, non la colpa né, tanto meno, la gravità di essa,
dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel
caso di cui all'art. 2236 c.c.) essere allegate e provate dal medico”.
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fondato, alla stregua della tesi prevalente, sul criterio della c.d. regolarità causale o
causalità adeguata.
b. La tesi monistica:unitario è il criterio per la causalità civilistica.
Alla tesi binaria, si contrappone quella (recentemente avallata da Cass. n.7997/2005),
che opta per un criterio unitario di causalità giuridica in entrambi i segmenti.
Tale tesi muove dall’assunto secondo cui la causalità civile, in particolare nel settore
della responsabilità medica, risponde ad esigenze e finalità diverse da quella penale:
nella prima, infatti, la funzione è di individuare il soggetto sul quale allocare il
danno;
nella seconda è sanzionare un comportamento riprovevole.
Ne consegue che alla responsabilità civile non sono estensibili i principi di cui all’art.27
Cost. e possono, al contrario, profilarsi ipotesi di responsabilità oggettiva.
In definitiva, in questa prospettiva, il criterio causalistico degli artt. 40 e 41 c.c. va
letto alla luce dell’art.1223 c.c e la causalità giuridica (fondata sul criterio della
regolarità causale) fungerebbe da filtro della causalità materiale, escludendo la valenza
eziologica di concatenazioni anomale secondo la comune esperienza e che sul piano
squisitamente naturalistico sarebbero da qualificarsi come causa ed effetto.
6.3 Corollari applicativi delle due opposte tesi: il criterio della probabilità logica o
statistica?
Gli ultimissimi anni registrano repentini mutamenti giurisprudenziali in ordine
all’individuazione dei criteri che devono guidare il giudizio sulla sussistenza o meno del
nesso eziologico nel campo della responsabilità medica: la Cassazione, infatti, talvolta
sembra aderire alla tesi binaria talatra a quella monistica.
Queste oscillazioni traspaiono in particolare con riferimento alla valutazione
dell’efficienza causale della condotta omissiva del medico.
La domanda alla quale la Cassazione ha fornito spesso risposte contraddittorie è, in
definitiva, la seguente: l’accertamento della causalità omissiva del medico segue le
norme penalistiche di cui agli artt.40 e 41 c.c. e dunque valgono medesimi criteri
elaborati dalla giurisprudenza penale sul tema o, attesa la diversa funzione della
responsabilità civile, si tratta di una causalità giuridicamente ben distinta, per la quale
può dunque non essere necessario lo stesso rigore dell’accertamento penalistico?
a. Adesione alla tesi binaria: criterio della probabilità logica.
Aderisce alla tesi binaria Cassazione 4-03-2004, n.4400, ove si afferma che “il nesso di
causalità materiale va determinato a norma degli artt. 40 e 41 c.p.”.
Pertanto, in ossequio ai principi espressi sul tema dalle Sezioni Unite penali 11-09-
2002, n. 30328, Franzese, la Suprema Corte afferma che “non è consentito dedurre
automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la
conferma, o meno, dell'ipotesi dell'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve
verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e
dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia
altresì escluso l'esistenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente
certa la conclusione che la condotta omissiva o in ogni caso colpevole del medico è stata
condizione necessaria dell'evento lesivo con elevato grado di credibilità razionale o
probabilità logica”.
In sostanza si passa da un criterio empirico della probabilità statistica (dal quale
automaticamente dedurre in funzione della percentuale riscontrata la sussistenza o
meno del nesso causale) ad un criterio processualistico della probabilità logica o
certezza processuale, come verifica aggiuntiva di tipo induttivo, dell’attendibilità
dell’impiego del primo criterio alla fattispecie concreta, sulla base dell’intera evidenza
disponibile.
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Con la conseguenza che, coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista non
escludono il riconoscimento giudiziale del nesso di casualità, se corroborati dal positivo
riscontro probatorio della sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori
alternativi e viceversa “livelli elevati di probabilità” potrebbero essere scalzati dalla
presenza di fattori causali alternativi.
Conclude a favore del criterio della probabilità logica anche Cass. n. 25233/2005, alla
quale si deve un interessante excursus sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità
sul tema.
Rileva, infatti, la Corte che “ è stato talora affermato che a far ritenere la sussistenza
del rapporto causale, ‘quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di
successo…sono sufficienti' (Sez. 4, n. 4320/83 ); in altra occasione si è specificato che,
pur nel contesto di una ‘probabilità anche limitata', deve trattarsi di serie ed
apprezzabili possibilità di successo'…; altra volta, ancora, …'in tema di responsabilità
per colpa professionale del medico, se può essere consentito il ricorso ad un giudizio di
probabilità in ordine alla prognosi sugli effetti che avrebbe potuto avere, se tenuta, la
condotta dovuta…, è necessario che l'esistenza del nesso causale venga riscontrata con
sufficiente grado di certezza, se non assoluta…almeno con un grado tale da fondare su
basi solide un'affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente a tale fine un
giudizio di mera verosimiglianza ( Sez. IV, n. 10437/93 ). In tempi meno remoti…è
stato posto l'accento sulle ‘serie e rilevanti (o apprezzabili) possibilità di successo',
sull'alto grado di possibilità…è stata apprezzata una percentuale del 75% di probabilità
di sopravvivenza della vittima, ove fossero intervenute una diagnosi corretta e cure
tempestive ”.
Tutte soluzioni opinabili, evidenzia la Corte, aderendo, alfine, al più ragionevole criterio
della probabilità logica.
b. Adesione alla tesi monistica: ritorno al criterio della probabilità statistica.
Sembra, invece, abbracciare la tesi autonomistica, con un ritorno in campo civilistico al
criterio della probabilità statistica (peraltro debole: quale apprezzabile chance), la
sentenza n. 21894/2004 (che ancora il giudizio sul rapporto causale alle “regole di
natura probabilistica tali da consentire una generalizzazione sul nesso di
condizionamento omissione-evento”) e soprattutto quella di poco successiva della stessa
Suprema Corte, la n. 7997/2005 cit., ove si afferma che:
- il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni
comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o
anche solo contribuito a generare, tale obbiettiva relazione col fatto deve considerarsi
"causa" dell'evento stesso;
- il nesso di causalità giuridica è, per converso, relazione eziologica per cui i fatti
sopravvenuti, di per sè soli idonei a determinare l'evento, interrompono il nesso con il
fatto di tutti gli antecedenti causali precedenti;
- la valutazione del nesso di causalità giuridica, tanto sotto il profilo della
dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali, quanto sotto l'aspetto della
individuazione del "novus actus interveniens", va compiuta secondo criteri a) di
probabilità scientifica, ove questi risultino esaustivi; b) di logica, se appare non
praticabile (o insufficientemente praticabile) il ricorso a leggi scientifiche di copertura.
E ancora, più di recente, aderisce alla tesi autonomistica, pronunciandosi a favore del
criterio della probabilità statistica, la terza Sezione civile, con sentenza 19-05-2006,
n. 1175.
In essa si afferma, infatti, che “I criteri di accertamento del nesso causale adottati
dalla sentenza ‘Franzese’delle sezioni unite penali – alto grado di probabilità logica e di
credibilità razionale – trovano applicazione nel solo diritto penale e nelle fattispecie
omissive. Nelle ipotesi di responsabilità civile, soprattutto se si versa in casi di illecito
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(anche) commissivo, la verifica probabilistica può arrestarsi su soglie meno elevate di
accertamento controfattuale”.
FONTE: http//www.neldiritto.it
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