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LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE MEDICA E QUELLA DELLA STRUTTURA SANITARIA

PUBBLICA E PRIVATA: NATURA GIURIDICA, NESSO DI CAUSALITÀ E ONUS PROBANDI

di
Roberta VACCARO

1. Inquadramento generale della responsabilità medica e problematiche


connesse.
La responsabilità medica è una species di responsabilità professionale, afferendo
all’esercizio di un’attività di carattere intellettuale, che trova i suoi elementi
qualificanti:
a. nella prestazione di un’opera intellettuale, improntata oltre che ai generali
canoni di diligenza e prudenza, alle specifiche regole o c.d. leges artis del settore di
riferimento del professionista (c.d. perizia);
b. nella (tendenziale) autonomia e discrezionalità (specialiter tecnica) riconosciuta
al professionista nell’esecuzione della prestazione, anche ove si inserisca in un rapporto
di lavoro subordinato (su tutti l’esempio del medico dipendente dell’ente ospedaliero);
c. nel carattere personale della prestazione ai sensi dell’art.2232 c.c.
Molteplici e lungamente dibattute sono le problematiche connesse a tale tipo di
responsabilità, le quali, peraltro, tagliano trasversalmente diversi rami del diritto (dal
penale al civile e all’amministrativo).
Sotto il profilo della responsabilità civile è possibile compendiare le seguenti questioni
ermeneutiche, sulle quali è ancora acceso il dibattito dottrinale e giurisprudenziale:
- i caratteri della colpa medica e regime giuridico applicabile;
- natura della responsabilità della struttura sanitaria e del medico (contrattuale o
extracontrattuale) e connesso regime probatorio;
- nesso di causalità tra la condotta del sanitario (specie se omissiva) e l’evento
dannoso; nonché tra l’evento dannoso e i danni consequenziali;
- individuazione degli obblighi gravanti sul sanitario, con particolare riferimento
agli obblighi di informazione e conseguenze dell’inadempimento degli stessi.

2. La colpa medica: caratteri generali e regime applicabile.


a. Inquadramento sistematico.
All’apice delle problematiche si pone l’individuazione della natura della prestazione del
sanitario, dei caratteri e del grado della colpa medica rilevante in ambito civilistico .
Secondo una distinzione tradizionale e in parte ancora seguita in dottrina e in
giurisprudenza, la prestazione del medico, salvo talune eccezioni (di cui si dirà infra),
appartiene alla categoria delle obbligazioni c.d. di mezzi, essendone anzi uno dei più
rilevanti esempi.
Argomentando in tale direzione, l'obbligazione del medico sarebbe pertanto quella di
porre in essere un comportamento professionalmente adeguato, espressione della
diligenza che lo standard medio di riferimento richiede, non essendo al contrario tenuto
a far conseguire la paziente il risultato sperato, consistente nella guarigione. A
differenza delle c.d. obbligazioni di risultato, infatti, in tali obbligazioni il mancato
raggiungimento del risultato non determina per ciò solo inadempimento (v. Cass. 26
febbraio 2003 n. 2836).
L’inadempimento (o l’inesatto adempimento) consiste, infatti, nell’aver tenuto un
comportamento non conforme alla diligenza richiesta, mentre il mancato
raggiungimento del risultato può costituire danno consequenziale alla non diligente
prestazione o alla colpevole omissione dell’attività sanitaria.

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b. La diligenza professionale di cui all’art.1176, comma 2 o c.d. perizia. La
nozione di colpa medica.
La diligenza cui è tenuto il medico nell’adempimento delle obbligazioni inerenti alla
propria attività professionale non è tanto (o soltanto) quella del buon padre di famiglia,
di cui all'art. 1176 comma 1 c.c., ma è piuttosto quella qualificata, richiesta dalla
natura dell’attività esercitata, ai sensi del comma 2 del medesimo articolo.
L’espressione di tale diligenza qualificata, sub specie di particolare sforzo tecnico-
scientifico, è la perizia, intesa come conoscenza e applicazione di quel complesso di
regole tecniche proprie della categoria professionale d'appartenenza: nello specifico, si
tratta delle leges dell’ars medica, di natura cautelare, tese a perimetrare l’ambito del
c.d. rischio consentito e per l’effetto l’ambito di liceità dell’intervento.
Il richiamo alla perizia ha, dunque, in questi casi, la funzione di ricondurre la
responsabilità alla violazione di obblighi specifici derivanti da regole disciplinari precise.
Ciò comporta, come è stato rilevato dalla dottrina, che la diligenza assume nella
fattispecie un duplice significato: parametro di imputazione del mancato adempimento
e criterio di determinazione del contenuto dell'obbligazione.
Va da sé che nelle varie discipline specialistiche, anche all’interno della stessa attività
professionale medica, la perizia di volta in volta si caratterizzerà in modi parzialmente
diversi, riempiendosi dei significati tecnico-qualitativi attinti dallo standard medio dello
specialista di riferimento, fermi comunque quei principi fondamentali comuni a qualsiasi
ramo dell’attività medica.
In definitiva, su ogni sanitario graverà, accanto ai generali doveri di diligenza e
prudenza, una perizia il cui contenuto è rappresentato:
 da un lato, dalle leges artis comuni a qualsiasi ramo della professione medica ( id
est, di medicina di base);
 dall’altro, alle regole di condotta specifiche del settore di specializzazione del
singolo sanitario.
Precisa in tal senso, Cass. civ., sez. II, 9 novembre 1982 n. 5885, che “in tema di
responsabilità professionale, l'inadempimento […] và valutato alla stregua del dovere di
diligenza che in tale materia prescinde dal criterio generale della diligenza del buon
padre di famiglia e si adegua, invece, alla natura dell'attività esercitata. Consegue che
l'imperizia professionale presenta un contenuto variabile, da accertare in relazione ad
ogni singola fattispecie, rapportando la condotta effettivamente tenuta dal prestatore
alla natura e specie dell'incarico professionale ed alle circostanze concrete in cui la
prestazione deve svolgersi e valutando detta condotta attraverso l'esame nel suo
complesso dell'attività prestata dal professionista”.
Con la conseguenza che, la colpa medica ricorre in tutte le ipotesi di inosservanza e/o
violazione da parte del sanitario delle specifiche regole cautelari di condotta proprie
dell’agente modello del settore specialistico di riferimento (ipotizzandosi tanti agenti-
modello, quante sono le branche specialistiche della medicina: es. radiologo, cardiologo
etc.).
Essa potrà essere omissiva, allorché l’errore medico (terapeutico o diagnostico) si
sostanzi nell’omissione delle cautele prescritte dalle speciali regole di condotta, da
valutare anche alla stregua dei protocolli terapeutici standardizzati; commissiva,
laddove la violazione delle suddette regole si sostanzi in una condotta attiva. Accanto a
tale colpa professionale, o speciale, nulla esclude che possa ascriversi al medico anche
una responsabilità per colpa generica, per inosservanza delle regole generali di
diligenza e prudenza.
c. Regime giuridico: l’ambito applicativo dell’art.2236 c.c. e rapporto con l’art.1176
c.c.

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Il codice civile riserva alla responsabilità professionale, nel cui ambito rientra quella
medica, un’apposita disciplina speciale di cui all’art. 2236 c.c., in considerazione delle
peculiarità della prestazione intellettuale.
La norma in questione pone una limitazione di responsabilità del prestatore d'opera,
circoscrivendola ai soli casi di dolo o colpa grave, qualora si trovi di fronte a problemi
tecnici di speciale difficoltà.
La ratio di questa limitazione di responsabilità consiste nell’esigenza di
contemperamento di due opposti interessi: da un lato, la necessità di non mortificare
l'iniziativa del professionista nella risoluzione di casi di particolare difficoltà,
esponendolo a continue rappresaglie risarcitorie da parte dei pazienti; dall’altro, non
indulgere verso atteggiamenti improntati a leggerezza e negligenza (v. in tal senso, la
relazione di accompagnamento del disegno di legge del codice civile; nonché Corte Cost.
n.166/1973).
Circa l’ambito applicativo di detta previsione, la giurisprudenza ha, tuttavia, formulato
due fondamentali precisazioni:
 la norma si applica soltanto quando sia in discussione la perizia del
professionista, non quando, al contrario, ci si trovi di fronte all'imprudenza o all'incuria,
operando in relazione a queste ultime il giudizio improntato a criteri di normale severità
(colpa lieve) di cui all’art.1176, comma 2;
 ed inoltre, occorre che la perizia sia impiegata per la risoluzione di problemi
tecnici di speciale difficoltà, in quanto poco studiati o molto dibattuti con riguardo ai
metodi terapeutici da adottare, per essere caratterizzati dalla straordinarietà e
particolare eccezionalità del loro manifestarsi.
In tal senso, si è affermato che “la limitazione della responsabilità professionale del
medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell'art. 2236 c.c. si applica nelle sole
ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà (perchè trascendono la
preparazione media o perchè non sono stati ancora studiati a sufficienza, ovvero
dibattuti con riguardo ai metodi da adottare) e, in ogni caso, tale limitazione di
responsabilità attiene esclusivamente all'imperizia, non all'imprudenza e alla
negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che,
nell'esecuzione di un intervento o di una terapia medica provochi un danno per
omissione di diligenza ed inadeguata preparazione;
la sussistenza della negligenza va valutata in relazione alla specifica diligenza richiesta
al debitore qualificato dall'art. 1176, comma 2, c.c.”(v. rassegna giurisprudenziale).
È chiaro, peraltro, che – nei casi di “speciale difficoltà” - la responsabilità di uno
specialista (o di una struttura specializzata) sia più facilmente dimostrabile rispetto a
quella di un medico generico o non competente in quello specifico settore o, ancora,
privo di strumenti adeguati.
Ciò non toglie che, in ogni caso, il grado di diligenza debba essere valutato con
riferimento alle circostanze del caso: può infatti ricorrere una colpa c.d. per assunzione
del medico inesperto; ovvero, in relazione alla inadeguatezza delle dotazioni della
struttura ospedaliera, una colpa nell’uso di apparecchiature non idonee e/o per non
aver trasferito, con tempestività, il paziente presso una struttura adeguatamente
attrezzata per quello specifico intervento.
La giurisprudenza ha, in tal senso, precisato che “l'attenuazione di responsabilità è,
peraltro, ulteriormente limitata dalla richiesta, in capo al professionista, di una
scrupolosa attenzione, pretendendosi dallo specialista uno standard di diligenza
superiore al normale: così, il richiamo (ormai, poco più che formale e declamatorio)
alconcetto di colpa grave non vale più come criterio di valutazione di una grossolana
divergenza dalla diligenza media, ma come scarto di diligenza esigibile da uno
specialista (dal quale, appunto, pretendere una preparazione ed un dispendio di
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attività superiore al normale: CC 4437/1982, Di Biagio/Cassa maritt. Meridion.),
mentre non si consente al non specialista il trattamento di un caso altamente
specialistico (CC 2428/1990, che ritenne responsabile un ortopedico il quale, senza
esperienza nel campo, affrontò un intervento di alta chirurgia neoplastica)” (Cass.
n.9471/2004).
Nel solco di questa ormai consolidata impostazione giurisprudenziale e dottrinale si
colloca la recentissima sentenza 13-03-2007, n. 5846, con la quale la Suprema Corte ha
ulteriormente ribadito che “La limitazione di responsabilità non si applica (…) al
professionista generico che - consapevolmente - abbia omesso di consultare uno
specialista che avrebbe potuto indirizzarlo, oltre che ad una diagnosi corretta, verso un
intervento con conseguenze meno dannose”.
Riassumendo, quindi,:
 trattandosi di obbligazioni inerenti all’esercizio di attività professionali, la
diligenza nell’adempimento deve valutarsi, a norma dell’art. 1176, secondo comma,
con riguardo alla natura dell’attività esercitata;
 l’art. 2236 c.c. è riferibile alla sola perizia dispiegata nella soluzione di problemi
di speciale difficoltà, vale a dire con riferimento a quei casi che trascendono la
preparazione media;
 gli artt. 1176, comma 2 e 2236 c.c. esprimono l’unitario concetto secondo cui
il grado di diligenza deve essere valutato con riguardo alla difficoltà della
prestazione resa.
 la colpa professionale è appunto inosservanza della diligenza qualificata
richiesta.
d. Il problema dell’applicabilità analogica dell’art.2236 c.c. alla responsabilità
aquiliana ed in sede penale.
Dette limitazioni di responsabilità sono state dalla giurisprudenza ritenute applicabili, in
via analogica, anche alla responsabilità extracontrattuale, ricorrendo l’eadem ratio e
l’identità di prestazione, indipendentemente dalla qualificazione dell’illecito.
Si è, infatti, rilevato che “l'art. 2236 c.c. ...sebbene collocato nell'ambito della
regolamentazione del contratto d'opera professionale, è applicabile, oltre che nel
campo contrattuale, anche in quello extracontrattuale, in quanto prevede un limite di
responsabilità per la prestazione dell'attività professionale in genere, sia che essa si
svolga sulla base di un contratto, sia che venga riguardata al di fuori di un rapporto
contrattuale vero e proprio” (Cass. n. 1544/1981; in termini Cass. n.11440/1997).
Giova fin d’ora evidenziare, tuttavia, che la rilevanza di detta applicazione analogica è
andata stemperandosi nel tempo fino quasi a scomparire a seguito della progressiva
adesione da parte della dottrina e della giurisprudenza alla tesi della natura
contrattuale della responsabilità del medico, anche in assenza di un formale contratto
stipulato direttamente con il paziente.
L'applicabilità anche in sede penale della limitazione di responsabilità di cui
all’art.2236 c.c., ammessa in un primo tempo dalla dottrina e da parte della
giurisprudenza, è stata poi definitivamente negata dalla giurisprudenza penale di
legittimità sul finire degli anni ‘80.
Costituisce ormai orientamento pacifico, infatti, quello secondo il quale
“l'accertamento della colpa professionale del sanitario deve essere valutata con
larghezza e comprensione per la peculiarità dell'esercizio dell'arte medica e per la
difficoltà dei casi particolari, ma, pur sempre nell'ambito dei criteri dettati per
l'individuazione della colpa medesima dall'art. 43 c.p. Tale accertamento non può
essere effettuato in base al disposto dell'art. 2236 c.c. (…). L'applicabilità di tale
norma e' esclusa dalla sistematica disciplina del dolo e della colpa in diritto penale per
la quale il grado della colpa è previsto solo come criterio per la determinazione
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della pena o come circostanza aggravante e mai per determinare la stessa
sussistenza dell'elemento psicologico del reato, sicchè il minor grado della colpa non
può avere in alcun caso efficacia scriminante” (Cass. pen. sez. IV, 22 febbraio 1991).

3. La responsabilità della struttura sanitaria pubblica e privata.


Nell’ambito dell’esercizio dell’attività medica occorre distinguere la responsabilità
gravante sulla struttura sanitaria da quella di cui è chiamato a rispondere il singolo
medico, che ha posto in essere la condotta colposa causa di pregiudizio per il paziente.
a. La natura della responsabilità della struttura sanitaria
La Cassazione ha costantemente inquadrato la responsabilità dell'ente ospedaliero nella
responsabilità contrattuale, sul rilievo che l'accettazione del paziente in ospedale, ai
fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto
(v. per es. Cass. n. 5939/1993; Cass. n. 4152/1995; Cass. n. 7336/1998; Cass. n.
589/1999; Cass. n. 3492/2002; Cass. n. 11316/2003; Cass. n. 10297/2004e da ultimo
Cass. n.9085/2006).
b. Il c.d. contratto di spedalità: contenuto e qualificazione giuridica.
A fondamento di detta responsabilità contrattuale, parte della giurisprudenza più
risalente individuava un contratto avente il medesimo contenuto di quello stipulato con
il professionista, pertanto un contratto d’opera professionale, con conseguente
applicabilità del relativo regime (specialiter l’art.2236 c.c.).
Tale impostazione appariva, tuttavia, imprecisa (non ricorrendo in tale fattispecie il
requisito della personalità proprio del contratto d’opera intellettuale) e comunque
insufficiente a fotografare il complesso delle prestazioni alle quali è tenuta la struttura
sanitaria per effetto del contratto con il paziente.
Ecco perché appare preferibile l’orientamento più recente della giurisprudenza (già in
nuce in Cass., Sez. Un., n. 9556/2002), che pone a fondamento della responsabilità della
struttura sanitaria la figura del contratto atipico c.d. di spedalità o di assistenza
sanitaria.
Si è, in particolare, affermato che “Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di
cura privata (o ente ospedaliero) ha fonte in un atipico contratto a prestazioni
corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte
dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal
paziente, dall’assicuratore, dal Servizio Sanitario Nazionale o da altro Ente), insorgono
a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo “lato sensu”
alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del
personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie,
anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la
responsabilità della casa di cura (o dell’Ente) nei confronti del paziente ha natura
contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle
obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, ai sensi dell’art. 1228 c.c.,
all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal
sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro
subordinato comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui
effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la
circostanza che il sanitario risulti essere anche “di fiducia” dello stesso paziente, o
comunque dal medesimo scelto ” (Cass., n. 13066/2004; e negli stessi termini Cass. n.
2042/2005).
Alla stregua di tale orientamento, dunque:
- oggetto della obbligazione non è solo la prestazione del medico, ma una
prestazione complessa definita di “assistenza sanitaria”, fondata sul contratto

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atipico individuato dalla sentenza Cassazione n. 13066/2004 in base allo schema della
“locatio operis”, con obbligazione di risultato;
- unitario è il criterio della responsabilità, sia per la casa di cura privata che
pubblica, non essendo possibile differenziare la responsabilità in base alla natura del
soggetto danneggiante, trattandosi di violazioni che incidono sul bene della salute,
tutelato quale diritto fondamentale dalla nostra Carta costituzionale, senza possibilità di
limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura
(pubblica o privata) della struttura sanitaria;
- parificato è il regime giuridico tra pubblico e privato, escludendosi per il
medico operante all’interno della struttura sanitaria pubblica l’applicabilità della
normativa prevista dagli artt. 22 e 23 del D.P.R. 10.1.1957 n. 3 con riguardo alla
responsabilità degli impiegati civili dello Stato (la limitazione tout court della
responsabilità dei dipendenti pubblici ai casi di dolo e colpa grave, ivi prevista, si
risolverebbe, infatti in una ingiustificata disparità di trattamento tra medico pubblico
e privato, a fronte dell’identità di prestazione effettuata: in entrambi i casi, dunque,
troveranno applicazione le norme civilistiche di cui agli artt. 1176, 1218 e 2236 c.c.;
cfr. Cass. n. 5939/1993 e negli stessi termini Cass. n. 4152/1995 e da ultimo Cass. n.
4058/2005);
- inoltre, è irrilevante, ai fini della responsabilità contrattuale della struttura
sanitaria, lo status giuridico del medico in relazione alla struttura ospedaliera nella
quale è stato eseguito l'intervento o la prestazione: in ogni caso questi, nel momento in
cui effettua la prestazione all’interno della struttura sanitaria, è considerato quale
ausiliario necessario, sia in presenza che in assenza di un rapporto di lavoro
subordinato, sussistendo comunque un collegamento tra la prestazione medica e
l’organizzazione aziendale; tale collegamento permane anche se il sanitario risulti
essere “di fiducia” del paziente (Cfr. in tal senso Cass. n. 10297/2004).
In ordine a quest’ultimo profilo, occorre, tuttavia, precisare che:
 se il paziente si rivolge direttamente alla struttura sanitaria, della quale il
medico è dipendente, la responsabilità contrattuale dell’Ente si fonda sul contratto
stipulato dal paziente per l’effettuazione della prestazione sanitaria ;
 nel caso, invece, in cui il rapporto sia sorto direttamente con un professionista
di fiducia, ma sia stato comunque il paziente a rivolgersi, anche se su indicazione del
medico di fiducia, alla struttura sanitaria, dell’intervento del medico quest’ultima sarà
responsabile anche in virtù del principio del contatto sociale;
 solo nel caso in cui il contratto si sia concluso direttamente con il
professionista e sia stato quest’ultimo a contattare la casa di cura, per l’affitto delle
attrezzature o la locazione delle stanze, quest’ultima sarà responsabile solamente
delle prestazioni accessorie concordate col paziente (es: assistenza infermieristica,
sala operatoria, medicazioni , ecc), svolgendo un ruolo di mero ausilio strutturale: detta
responsabilità sarà, nel dettaglio, riconducibile all’art. 2050 c.c. se i mezzi usati dal
medico siano pericolosi o all’art. 2051 c.c., quale custode delle strutture o della
apparecchiature, nel caso in cui il danno sia ascrivibile al mancato o difettoso uso delle
stesse.
c. Il criterio di imputazione della responsabilità contrattuale e il danno c.d. da
disorganizzazione.
Acclarata la natura contrattuale della responsabilità della struttura sanitaria, secondo
l’orientamento attualmente prevalente, tale responsabilità si fonderà:
- sulla norma generale di cui all’art. 1218 c.c. per l’inadempimento delle
obbligazioni direttamente a suo carico (responsabilità per fatto proprio);

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- sulla previsione di cui all’art. 1228 c.c., per i fatti dolosi e colposi dei terzi
(sanitari, personale paramedico, ausiliario etc.) di cui si avvale la struttura sanitaria
nell’adempimento dell’obbligazione (c.d. responsabilità oggettiva per fatto altrui).
In quest’ultimo caso, peraltro, la responsabilità sarà configurabile solamente nel caso in
cui sia accertata la colpa del sanitario (oltre che il nesso di causalità tra la condotta del
sanitario e il danno al paziente).
d. La responsabilità diretta per danno da c.d. “disorganizzazione”.
Alla stregua di quanto evidenziato sopra, le obbligazioni a carico della struttura sanitaria
possono sintetizzarsi in:
1) prestazioni di diagnosi, cura e assistenza post-operatoria;
2) prestazioni di tipo organizzativo relative anche alla sicurezza e manutenzione delle
attrezzature e dei macchinari in dotazione;
3) vigilanza e custodia dei pazienti;
4) prestazione di natura alberghiera (vitto-riscaldamento-alloggio).
Viene così esaltata, dalla dottrina e giurisprudenza più recenti, l’affermazione di una
responsabilità contrattuale della struttura sanitaria:
- non solo collegata all’intervento diagnostico e/o terapeutico dei medici, e
all’attività strumentale ed accessoria del personale ausiliario, paramedico etc.;
- ma anche direttamente imputabile alla stessa struttura nel complesso, per i danni
provocati dalla insufficiente organizzazione o dalla inefficienza dei servizi e delle
attrezzature.
In definitiva, l’attività del medico all’interno della struttura sanitaria non è che un
segmento della più complessa prestazione richiesta all’Ente e può, quindi, sussistere
una responsabilità della struttura sanitaria anche in mancanza di responsabilità del
personale sanitario.
In termini più chiari, la struttura sanitaria risponderà del danno da disorganizzazione
nell’ipotesi di violazione dell’obbligo accessorio, connesso alla prestazione principale, di
non recare danno ingiusto al paziente per omissione di diligenza nel predisporre gli
strumenti necessari all’esatto adempimento della prestazione sanitaria ex artt. 1175 e
1375 cod. civ.

4. La natura della responsabilità del medico: contrattuale o extracontrattuale?


La responsabilità del sanitario nei confronti del paziente che abbia subito un pregiudizio
dalla negligente esecuzione dell’intervento terapeutico ha natura controversa. Due tesi,
cronologicamente sfalsate nel tempo, si contrappongono.
4.1 La tesi (più risalente) della responsabilità extracontrattuale.
La dottrina e giurisprudenza più risalenti (su tutte Cass. 2750/1988 e Cass. 2428/1990)
hanno ritenuto che l’accettazione di un paziente all’interno di una struttura determini
l’instaurarsi di un rapporto contrattuale soltanto tra quest’ultimo e l’Ente.
Il medico, terzo rispetto al rapporto contrattuale tra il paziente e la struttura sanitaria,
avrebbe con il malato un rapporto “giuridicamente indiretto”. Pertanto la sua
responsabilità sarebbe di tipo extracontrattuale con la conseguenza (tra l’altro) della
prescrizione del diritto del paziente al risarcimento nel termine di 5 anni, oltre che del
più gravoso onere probatorio a suo carico.
In ogni caso, come detto, è riconosciuta l’applicazione analogica dell’art. 2236 c.c., in
punto di responsabilità.
4.2 La tesi della responsabilità contrattuale e i diversi fondamenti normativi.
Sul finire degli anni ’80, la giurisprudenza recepisce le critiche mosse dalla dottrina alla
qualificazione extracontrattuale della responsabilità del medico (troppo riduttiva la
qualificazione del medico come quisque de populo, che non tiene conto del rapporto

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che si instaura direttamente con il paziente e troppo penalizzanti per quest’ultimo le
conseguenze probatorie che discendono da detta qualificazione).
Si inaugura, pertanto, un nuovo corso, destinato a consolidarsi negli anni 2000, secondo
il quale la responsabilità dell’ente gestore del servizio ospedaliero e quella del medico
dipendente hanno entrambe radice nell’esecuzione non diligente o errata della
prestazione sanitaria da parte del medico, per cui, accertata la stessa, risulta
contestualmente accertata la responsabilità a contenuto contrattuale di entrambi, sub
specie di responsabilità professionale.
Pur nella convergenza del risultato finale a favore della responsabilità contrattuale,
diverse ed eterogenee sono, tuttavia, le argomentazioni addotte a sostegno ed i
referenti normativi citati.
a. L’art. 28 Cost.: il principio di immedesimazione organica.
La prima sentenza della Cassazione (n. 2144/1988) ad inaugurare il nuovo corso a favore
della responsabilità contrattuale del medico, nella specie dipendente di Ente pubblico
ospedaliero, argomenta sulla base del disposto dell’art. 28 Cost. il quale prescrive che
“i funzionari e dipendenti dello stato e degli enti pubblici, sono direttamente
responsabili secondo le leggi penali civili e amministrative degli atti compiuti in
violazione dei diritti”.
Su tale presupposto, si afferma la responsabilità contrattuale diretta:
- dell’ente, in quanto è ad esso riferibile, per il principio dell'immedesimazione
organica, l'operato del medico dipendente inserito nell'organizzazione del servizio;
- del medico, in quanto la sua responsabilità avrebbe radice comune (esecuzione
negligente della prestazione sanitaria) a quella dell’ente (in definitiva se quest’ultima
è di tipo professionale contrattuale, stante l’identità della causa, la responsabilità del
medico dipendente non potrà non essere dello stesso tipo).
Detta spiegazione presta, tuttavia, il fianco a due critiche difficilmente superabili:
- il solo richiamo all’art.28 Cost. non è esaustivo, in quanto si limita a sancire la
responsabilità diretta del dipendente pubblico sulla base delle "leggi penali, civili ed
amministrative" e la legge civile, nello specifico, contempla sia una responsabilità
contrattuale che extracontrattuale;
- né la questione è risolta per il richiamo alla comune radice delle due
responsabilità, ben potendosi ipotizzare casi di concorso di responsabilità (in capo allo
stesso soggetto, e a fortiori a soggetti diversi) contrattuale ed extracontrattuale per il
medesimo fatto lesivo (in particolare, ove un unico comportamento risalente al
medesimo autore appaia di per sé lesivo non solo di diritti specifici derivanti dal
contratto, ma anche dei diritti soggettivi tutelati erga omnes, indipendentemente dalla
fattispecie contrattuale).
b. Art.1411 c.c.: il contratto a favore del terzo.
Alcuni hanno percorso la diversa strada della applicazione della normativa relativa al
contratto in favore di terzo, in quanto l'ente gestore del servizio sanitario - nel
momento in cui si assicura la prestazione professionale del medico - stabilisce anche che
il beneficiario di detta prestazione sia il paziente che successivamente richiederà la
prestazione sanitaria.
Sennonché, al di là del fatto che può mancare tra casa di cura e medico il contratto
(specialiter ante privatizzazione del pubblico impiego), in ogni caso il soggetto
danneggiato che agisce non aziona il "contratto" esistente tra l'ente ed il medico, di
cui egli sarebbe il terzo beneficiario (cioé in senso lato il "contratto di lavoro") ma
aziona il diverso "contratto" intervenuto tra lui e l'ente gestore per ottenere la
prestazione sanitaria, rispetto al quale egli non è terzo beneficiario , ma parte
contrattuale, ovvero propone un'azione di responsabilità extracontrattuale per la
lesione di un suo diritto soggettivo assoluto, quale è il diritto alla salute.
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c. Il contratto con effetti protettivi a favore di un terzo (artt. 1175 e 1375 c.c. e 2
Cost.).
Quest'ultima obiezione impedisce anche di poter condividere la tesi di coloro che
sostengono che nella fattispecie sarebbe ravvisabile un contratto con effetti protettivi
nei confronti di un terzo (il paziente). La figura de qua ricorrerebbe ogni qualvolta da
un determinato contratto sia deducibile l'attribuzione al terzo di un diritto non al
conseguimento della prestazione principale, come accade sicuramente nel caso del
paziente, ma alla sua esecuzione con diligenza tale da evitare pregiudizi a danno del
terzo. Nel caso di specie, invece, l'attività diagnostica e terapeutica, e dunque la
prestazione, è dovuta direttamente nei confronti del paziente, che dunque non è mero
beneficiario di obblighi di protezione, ma destinatario degli obblighi di prestazione del
contratto.
d. Art.1173 c.c.: la responsabilità contrattuale da “contatto sociale”.
La soluzione più convincente, alla luce delle critiche sopra evidenziate, prende le mosse
dalla storica sentenza n. 589/1999 della Suprema Corte e fonda la responsabilità
contrattuale sul “contatto sociale” che si instaura tra medico e paziente, al momento
dell’accettazione del paziente in ospedale e della presa in carico da parte del sanitario
accettante.
Si profila, in definitiva, una “responsabilità contrattuale nascente da
"un'obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto", in quanto
poiché sicuramente sul medico gravano gli obblighi di cura impostigli dall'arte che
professa, il vincolo con il paziente esiste, nonostante non dia adito ad un obbligo di
prestazione, e la violazione di esso si configura come culpa in non faciendo, la quale dà
origine a responsabilità contrattuale” (Cass. n.589/1999 cit.).
Si riconduce, in altri termini, la fattispecie in questione alla categoria dottrinale dei c.d.
rapporti contrattuali di fatto, vale a dire di quei rapporti modellati su una fattispecie
contrattuale tipica, della quale seguono la disciplina giuridica, ma che tuttavia si
costituiscono (salvo forzature ermeneutiche) in assenza di una base negoziale (o
dichiarata nulla), per effetto del contatto sociale tra le parti.
Il fondamento di tali obbligazioni viene individuato nell’art.1173 c.c., quale clausola
generale aperta (e non già catalogo rigoroso e tipizzato), che consente di inserire tra le
fonti delle obbligazioni qualsiasi altro “atto o fatto idoneo a produrle secondo
l’ordinamento giuridico”.
L’inquadramento in tale categoria evidenzia una duplice caratteristica del fenomeno:
 la fonte dell’obbligazione ex art.1173 c.c. (nel caso di specie, è un fatto, il
contatto sociale);
 la disciplina, mutuata dallo schema contrattuale del quale il rapporto presenta le
caratteristiche funzionali.
Attraverso tale soluzione, ormai largamente condivisa in giurisprudenza (v. Cass. n.
4058/2005, da ultimo Cass. n. 9085/2006), si superano le contraddizioni della tesi più
rigorosa a favore della responsabilità extracontrattuale, e in particolare
l’irragionevolezza di un diverso regime giuridico nei confronti di una prestazione, quella
resa dal medico a favore del paziente, che non può che essere sempre la stessa, vi sia o
meno alla base un contratto d'opera professionale tra i due.
L'esistenza di un contratto potrà al più rilevare a monte, al fine di stabilire se il medico
sia obbligato alla prestazione della sua attività sanitaria ( salve le ipotesi in cui detta
attività sia obbligatoria per legge), ma una volta accettato l’incarico ed entrato in
contatto con il paziente, l'esercizio della sua attività sanitaria (e quindi il rapporto
paziente medico) non potrà che modellarsi sul contratto di prestazione d’opera
professionale di tipo sanitario.

9
Questa soluzione della questione ovviamente riverbera i suoi effetti sul regime
applicabile alla responsabilità, in particolare sulla ripartizione dell'onere probatorio e
sul termine di prescrizione.

5. Onere della prova dell’inesatto adempimento.


Omologate le responsabilità della struttura sanitaria e del medico come responsabilità
entrambe di natura contrattuale, si elidono per il paziente le differenze di regime
giuridico a seconda che agisca nei confronti dell'ente ospedaliero o del medico
dipendente: e ciò, in particolare, sia ai fini della rilevanza del grado della colpa (ex art.
1176, comma 2 in combinato disposto con l’art. 1218 c.c.; nonché ex art. 2236 c.c.), di
cui si è detto, che della ripartizione dell'onere probatorio.
In ordine a quest’utimo profilo, è possibile distinguere due tappe fondamentali
dell’evoluzione giurisprudenziale: ante e post intervento delle Sezioni Unite con la
sentenza n. 13533/2001.
a. L’orientamento ante Sez. Un. n. 13533/2001: obbligazione di mezzi, distinzione
tra interventi di facile e difficile soluzione.
L’orientamento tradizionale della giurisprudenza, non poco criticato dalla dottrina,
muovendo dalla considerazione che l’obbligazione del sanitario (e corrispondentemente
della struttura sanitaria), in quanto professionale, è obbligazione di mezzi, differenzia
il regime probatorio di queste ultime (artt. 1176, comma 2 e 2236 c.c.) rispetto a quello
ordinario previsto dall’art. 1218 c.c. (riferibile, secondo tale tesi, alle sole obbligazioni
di risultato).
In definitiva, mentre ai sensi dell’art.1218 c.c. sul creditore incombe l’onere di provare
il titolo (contratto) dal quale scaturisce l’obbligazione e la scadenza del termine (se
previsto) per l’adempimento, limitandosi ad allegare l’inadempimento (gravando ex
adverso sul debitore l’onere della prova del fatto estintivo dell’obbligazione:
adempimento o impossibilità sopravvenuta della prestazione); nel caso di obbligazioni di
mezzi, il creditore è altresì tenuto a provare l’inesatto adempimento.
Tale onere subisce, tuttavia, un temperamento nel caso di interventi operatori di
routine o comunque di non difficile esecuzione ai quali consegua un risultato
(inaspettatamente) peggiorativo delle condizioni finali del paziente.
In tali casi, infatti, la Cassazione ha più volte affermato che “la dimostrazione da parte
del paziente dell’aggravamento della sua situazione patologica o l’insorgenza di nuove
patologie è idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all’inadeguata o
negligente prestazione, spettando all’obbligato fornire la prova che la prestazione
professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano
stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile” (Cass. n. 6141/1978; Cass.
n. 6220/1988; Cass. n. 3492/2002).
Più specificamente, l’onere della prova è stato ripartito tra le parti nel senso che:
- spetta al medico provare che il caso è di particolare difficoltà e al paziente
l’inesatto adempimento del medico, ovvero le modalità di negligente esecuzione
dell’intervento;
- ovvero spetta al paziente provare che si tratta di un intervento di routine o
comunque di facile esecuzione dal quale è derivato un esito peggiorativo e al medico
fornire la prova liberatoria dell’esatto adempimento o dell’impossibilità sopravvenuta
della prestazione (sub specie di mancanza di colpa: cfr. su tutte Cass. n. 4852/1999 e
Cass. n. 1127/1998).
In quest’ultimo caso, alcuni Autori hanno parlato di metamorfosi dell’obbligazione di
mezzi in obbligazione di (quasi) risultato, anche al fine di sconfessare l’utilità della
stessa distinzione tra i due tipi di obbligazione. Altri (e la giurisprudenza prevalente), in
modo più cauto, hanno invece precisato che non si verifica alcuna metamorfosi sul piano
10
sostanziale, ma opera più semplicemente sul piano processuale il principio res ipsa
loquitur: vale a dire una presunzione relativa di responsabilità in tutti i casi in cui
l'operato del medico presenti aspetti tali da rendere giuridicamente presumibile una
negligenza professionale.
In ogni caso, un metro piuttosto rigoroso nel valutare l’inadempimento, tale da
configurare un’obbligazione di risultato, è comunque adoperato dalla giurisprudenza,
coeva a tali sentenze, con riferimento agli obblighi di informativa nel settore della
chirurgia estetica, in particolare relativi alla possibilità di ottenere il risultato sperato
dal paziente (v. in tal senso Cass. n. 9705/1997 .
b. Il ribaltamento dell’onere della prova dopo le S.U. n. 13533/2001: sfuma la
rilevanza della distinzione tra obbligazioni di mezzo e di risultato; unico è il criterio
di riparto dell’onus probandi.
I risultati sopra riassunti sono stati riletti dalla giurisprudenza più recente (specialiter
Cass. nn. 10297, 11488 e 9471 del 2004), alla luce del principio enunciato in termini
generali dalle Sezioni Unite con la sentenza 30-10-2001, n. 13533, in tema di onere
della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.
Le Sezioni Unite, nel risolvere un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici,
hanno enunciato il principio, secondo cui il creditore che agisce per la risoluzione
contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve dare la
prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione
della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è
gravato dall’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto
adempimento.
Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando
che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza
dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione,
ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o
qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare
l’avvenuto, esatto adempimento.
Applicando detti principi alla responsabilità professionale del medico, la Cassazione
inaugura un nuovo orientamento, secondo il quale “il paziente che agisce in giudizio
deducendo deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario
restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento” (Cass.
n.10297/2004 e da ultimo Cass. n.9085/2006).
Più precisamente, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento
della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto
dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la
prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti
peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.
“La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la
soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale
criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la
valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando
comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare
difficoltà” (Cass. n.10297/2004).
Tali conclusioni, del resto, appaiono pienamente coerenti con i principi tradizionalmente
posti alla base del riparto dell’onere probatorio:
- il principio di c.d. persistenza del diritto in capo al creditore, gravando sul debitore la
prova contraria della sua estinzione;
- e di c.d. vicinanza o riferibilità della prova, inteso come apprezzamento
dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.
11
Significativo è, con riferimento a quest’ultimo principio, il ragionamento di Cass. 21-06-
2004, n. 11488, la quale afferma che “la prova dell'incolpevolezza dell'inadempimento
(ossia della impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore) e della
diligenza nell'adempimento è sempre riferibile alla sfera d'azione del debitore, in
misura tanto più marcata quanto più l'esecuzione della prestazione consista
nell'applicazione di regole tecniche, sconosciute al creditore in quanto estranee al
bagaglio della comune esperienza e specificamente proprie di quello del debitore”.
E ancora, se nell’obbligazione di mezzi l’oggetto della prestazione è un comportamento
diligente e, specularmente, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza
nell’esecuzione della prestazione, “non vi è dubbio che la prova sia vicina a chi ha
eseguito la prestazione, tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il
difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il
tipo di attività alla quale il debitore è tenuto” (Cass. n. 10297/2004 cit.).
Quindi, per il principio di vicinanza della prova, compete al medico, che è in possesso
degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore nonché del bagaglio
conoscitivo necessario, provare l’esatto adempimento o l’incolpevole inadempimento.
Con la precisazione, peraltro, che la prova cui è tenuto il medico (e la struttura
sanitaria) dell’assenza di colpa non va intesa come “prova negativa”, bensì come prova
positiva del fatto contrario (ovvero che la prestazione è stata eseguita diligentemente).
Pertanto, la trasposizione della sentenza delle Sezioni Unite del 2001 si è tradotta in un
ribaltamento dell’onere della prova in punto di inadempimento, essendo il creditore-
paziente tenuto solo ad allegarlo. Strettamente connesso è il problema se la colpa
medica debba essere o meno allegata in modo specifico.
c. Allegazione della colpa: generica o specifica?
Sul tema si sono avvicendate, in poco più di un mese, due significative sentenze della
Suprema Corte, le quali pervengono a conclusioni opposte.
c/1 A favore dell’allegazione della colpa in modo chiaro e non generico si è espressa
Cass. civ., 19 maggio 2004, n. 9471.
Ciò non vuol dire, tuttavia, che l’onere di allegazione debba spingersi al punto da
indicare specifici e peculiari aspetti di tipo tecnico-professionale, conoscibili solo dagli
esperti del settore; è sufficiente l’allegazione di profili concreti di colpa conoscibili
da un non-professionista, ma pur sempre avveduto sui presupposti essenziali della
responsabilità medica, come l’avvocato.
In altri termini, la Cassazione rileva che “In tema di responsabilità professionale del
medico-chirurgo, pur gravando sull'attore l'onere di allegare i profili concreti di colpa
medica posti a fondamento della proposta azione risarcitoria, tale onere non si spinge
fino alla necessità di enucleazione e indicazione di specifici e peculiari aspetti
tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti
del settore, essendo sufficiente la contestazione dell’aspetto colposo dell’attività
medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le
cognizioni ordinarie di un non - professionista che, espletando la professione di
avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l’attuale stato dei profili di
responsabilità del sanitario (omessa informazione sulle possibili conseguenze
dell’intervento, adozione di tecniche non sperimentate in sede di protocolli ufficiali,
mancata conoscenza dell'evoluzione della metodica interventistica, negligenza - intesa
oggi come violazione di regole sociali e non solo come mera disattenzione -, imprudenza
- intesa oggi come violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per
l’espletamento di certe attività -, ed imperizia - intesa oggi come violazione delle
regole tecniche di settori determinati della vita di relazione e non più solo come
insufficiente attitudine all'esercizio di arti e professioni” ).

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c/2 Opta per un’allegazione meramente generica della colpa medica, l’orientamento
prevalente in giurisprudenza, confermato da Cass. civ., sez. III, 21-06-2004, n. 11488.
Secondo tale pronuncia, infatti, “In tema di responsabilità professionale del medico
chirurgo, sussistendo un rapporto contrattuale (quand'anche fondato sul solo contatto
sociale), in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c. il paziente ha l'onere di allegare
l'inesattezza dell'inadempimento, non la colpa né, tanto meno, la gravità di essa,
dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel
caso di cui all'art. 2236 c.c.) essere allegate e provate dal medico”.

6. Nesso di causalità: distinzione con la colpa (oggettivizzata), onus probandi e


criteri di valutazione.
6.1 Nozione e distinzione tra nesso di causalità e colpa oggettivizzata.
In più occasioni la Cassazione ha precisato che, solo una volta accertato il nesso di
causalità è possibile passare alla valutazione dell’elemento soggettivo della colpa.
Sovente, tuttavia, i due profili si intrecciano al punto da confondersi in talune pronunce
giurisprudenziali, specie a seguito dell’evoluzione di un concetto di colpa oggettivizzata
(in base a c.d. standards generali di comportamento) e con riferimento alle condotte
omissive.
Una recente sentenza della Cassazione ha, pertanto, avvertito l’esigenza di procedere
ad una accurata ricognizione del complesso rapporto intercorrente tra nesso causale e
colpa (nella specie medica), tracciandone i profili distintivi, specie sul versante
probatorio.
Nel dettaglio, la sentenza 18-04-2005, n.7997, ha precisato che:
 il nesso di causalità è elemento strutturale dell'illecito, che corre su di un piano
strettamente oggettivo, individuando la relazione esterna tra il comportamento
astrattamente considerato (e non ancora utilmente qualificabile in termini di "damnum
iniuria datum") e l’evento;
 la colpa è invece elemento soggettivo della fattispecie illecita: essa è la misura
dell’avvedutezza dell’agente nel porre in essere un comportamento; anche laddove
sia intesa come giudizio relazionale "oggettivato" (in base a standards generali di
comportamento) è pur sempre “valutazione di comportamento”, valutazione, dunque,
inscritta tout court all'interno della relativa dimensione soggettiva.
In altri termini, il nesso causale, al di là e prima di qualsivoglia analisi di
prevedibilità/evitabilità soggettiva, è, puramente e semplicemente, la relazione esterna
intercorrente tra comportamento ed evento, svincolata da qualsivoglia giudizio di
prevedibilità soggettiva: la rigorosa oggettivazione del concetto di eziologia dell'evento
consente di tenere irrinunciabilmente distinti i due piani di analisi strutturale
dell'illecito, fungendo la colpa come limite alla oggettiva predicabilità della
responsabilità una volta accertata la relazione causale tra la condotta e l'evento.
Evidenziata la necessità di una valutazione cronologicamente e logicamente successiva
(e non contestuale) dei due profili, la Corte puntualizza:
a. il diverso riparto dell’onere probatorio;
b. e i criteri di valutazione di questi due elementi costituitivi del fatto illecito.
a) Quanto al riparto dell’onus probandi, con specifico riferimento alla responsabilità
medica, si afferma che:
 il positivo accertamento del nesso di causalità deve formare oggetto di prova da
parte del danneggiato-paziente, in quanto elemento costitutivo della domanda
risarcitoria;
 la colpa medica, alla luce dell’orientamento ormai ampiamente condiviso, deve
solo essere allegata dal paziente (nei termini di cui si è detto), gravando ex adverso sul
medico la prova liberatoria dell’assenza della stessa.
13
b) In ordine, poi, ai criteri di valutazione dei due elementi della fattispecie
complessa dell’illecito, questa sentenza afferma (non senza critiche) che:
 la valutazione del nesso di causalità va compiuta secondo criteri a) di
probabilità scientifica, ove questi risultino esaustivi; b) di logica, se appare non
praticabile (o insufficientemente praticabile) il ricorso a leggi scientifiche di copertura;
con l'ulteriore precisazione che, nell'illecito omissivo, la valutazione del nesso causale
segue un processo più complesso rispetto a quello commissivo, dovendosi, in altri
termini, accertare il collegamento evento/comportamento omissivo in termini di
probabilità inversa, onde inferire che l'incidenza del comportamento omesso si pone in
relazione non/probabilistica con l'evento (oche, dunque, si sarebbe probabilmente
avverato anche se il comportamento fosse stato posto in essere);
 invece, i criteri funzionali all'accertamento della colpa medica risultano quelli
a) della natura, facile o non facile, dell'intervento del medico; b) del peggioramento o
meno delle condizioni del paziente; c) della valutazione del grado di colpa di volta in
volta richiesto (lieve, nonchè presunta, in presenza di operazione "routinarie"; grave, se
relativa ad interventi che trascendono la preparazione media ovvero non risultino
sufficientemente studiati o sperimentati, con l'ulteriore limite della particolare diligenza
e dell'elevato tasso di specializzazione richiesti in tal caso); d) del corretto
adempimento dell'onere di informazione e dell'esistenza del conseguente consenso del
paziente.
6.2 Distinzione tra causalità penalistica e civilistica: tesi binaria e monistica.
Il nesso di causalità, come accennato, è elemento costitutivo della domanda risarcitoria
e, come tale, deve essere provato secondo la regola di cui all’art.2697 c.c.
In particolare colui che agisce per il risarcimento del danno è tenuto a provare un
doppio nesso di causalità: tra la condotta del debitore-danneggiante e l’evento (inteso
come lesione in sé della posizione giuridica tutelata); e tra l’evento e le conseguenze
pregiudizievoli che ne sono derivate (i c.d. danni-conseguenza).
Sui criteri di valutazione dei due segmenti successivi del nesso eziologico in campo civile
è tuttora acceso il dibattito tra due tesi giurisprudenziali e dottrinali: binaria e
monistica.
Il dibattito si incentra, in particolare, sul primo nesso di causalità: quello che avvince la
condotta all’evento dannoso (c.d. causalità materiale o fattuale); mentre risulta
pressoché pacifico in giurisprudenza (meno in dottrina) che per l’accertamento del nesso
di causalità c.d. giuridica tra evento dannoso e danni conseguenza ricorre la disciplina
dell’art.1223 c.c. (richiamata, per la responsabilità aquiliana, dall'art. 2056 c.c.)
fondata sul criterio della c.d. regolarità causale (sono risarcibili i danni immediati e
diretti in quanto normale conseguenza dell’evento lesivo, secondo l’id quod plerumque
accidit o secondo la comune esperienza).
a. La tesi tradizionale binaria: 2 criteri per 2 nessi di causalità distinti.
Secondo l’impostazione tradizionale (Cass., Sez. Un., n.174/1971), diversa è la disciplina
e il criterio da utilizzare nell’accertamento del nesso eziologico tra condotta ed evento
dannoso e tra evento stesso e danni conseguenza:
 la prima ipotesi attiene alla c.d. causalità materiale e trova disciplina negli artt.
40 e 41 c.p., ed in particolare nel criterio della condicio sine qua non (per cui è causa
dell’evento ogni condizione necessaria e sufficiente a produrlo) riempito di contenuto
dalla sussunzione sotto leggi scientifiche di copertura e temperato dall’art.41 comma 2
(nel caso di concorso di fattori sopravvenuti eccezionali che innescano un processo
causale anomalo);
 per contro, il successivo nesso tra evento e conseguenze dannose risarcibili
indicherebbe la c.d. causalità giuridica, disciplinata dall'art. 1223 c.c., , e sarebbe

14
fondato, alla stregua della tesi prevalente, sul criterio della c.d. regolarità causale o
causalità adeguata.
b. La tesi monistica:unitario è il criterio per la causalità civilistica.
Alla tesi binaria, si contrappone quella (recentemente avallata da Cass. n.7997/2005),
che opta per un criterio unitario di causalità giuridica in entrambi i segmenti.
Tale tesi muove dall’assunto secondo cui la causalità civile, in particolare nel settore
della responsabilità medica, risponde ad esigenze e finalità diverse da quella penale:
 nella prima, infatti, la funzione è di individuare il soggetto sul quale allocare il
danno;
 nella seconda è sanzionare un comportamento riprovevole.
Ne consegue che alla responsabilità civile non sono estensibili i principi di cui all’art.27
Cost. e possono, al contrario, profilarsi ipotesi di responsabilità oggettiva.
In definitiva, in questa prospettiva, il criterio causalistico degli artt. 40 e 41 c.c. va
letto alla luce dell’art.1223 c.c e la causalità giuridica (fondata sul criterio della
regolarità causale) fungerebbe da filtro della causalità materiale, escludendo la valenza
eziologica di concatenazioni anomale secondo la comune esperienza e che sul piano
squisitamente naturalistico sarebbero da qualificarsi come causa ed effetto.

6.3 Corollari applicativi delle due opposte tesi: il criterio della probabilità logica o
statistica?
Gli ultimissimi anni registrano repentini mutamenti giurisprudenziali in ordine
all’individuazione dei criteri che devono guidare il giudizio sulla sussistenza o meno del
nesso eziologico nel campo della responsabilità medica: la Cassazione, infatti, talvolta
sembra aderire alla tesi binaria talatra a quella monistica.
Queste oscillazioni traspaiono in particolare con riferimento alla valutazione
dell’efficienza causale della condotta omissiva del medico.
La domanda alla quale la Cassazione ha fornito spesso risposte contraddittorie è, in
definitiva, la seguente: l’accertamento della causalità omissiva del medico segue le
norme penalistiche di cui agli artt.40 e 41 c.c. e dunque valgono medesimi criteri
elaborati dalla giurisprudenza penale sul tema o, attesa la diversa funzione della
responsabilità civile, si tratta di una causalità giuridicamente ben distinta, per la quale
può dunque non essere necessario lo stesso rigore dell’accertamento penalistico?
a. Adesione alla tesi binaria: criterio della probabilità logica.
Aderisce alla tesi binaria Cassazione 4-03-2004, n.4400, ove si afferma che “il nesso di
causalità materiale va determinato a norma degli artt. 40 e 41 c.p.”.
Pertanto, in ossequio ai principi espressi sul tema dalle Sezioni Unite penali 11-09-
2002, n. 30328, Franzese, la Suprema Corte afferma che “non è consentito dedurre
automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la
conferma, o meno, dell'ipotesi dell'esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve
verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e
dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia
altresì escluso l'esistenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente
certa la conclusione che la condotta omissiva o in ogni caso colpevole del medico è stata
condizione necessaria dell'evento lesivo con elevato grado di credibilità razionale o
probabilità logica”.
In sostanza si passa da un criterio empirico della probabilità statistica (dal quale
automaticamente dedurre in funzione della percentuale riscontrata la sussistenza o
meno del nesso causale) ad un criterio processualistico della probabilità logica o
certezza processuale, come verifica aggiuntiva di tipo induttivo, dell’attendibilità
dell’impiego del primo criterio alla fattispecie concreta, sulla base dell’intera evidenza
disponibile.
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Con la conseguenza che, coefficienti medio-bassi di probabilità c.d. frequentista non
escludono il riconoscimento giudiziale del nesso di casualità, se corroborati dal positivo
riscontro probatorio della sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori
alternativi e viceversa “livelli elevati di probabilità” potrebbero essere scalzati dalla
presenza di fattori causali alternativi.
Conclude a favore del criterio della probabilità logica anche Cass. n. 25233/2005, alla
quale si deve un interessante excursus sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità
sul tema.
Rileva, infatti, la Corte che “ è stato talora affermato che a far ritenere la sussistenza
del rapporto causale, ‘quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di
successo…sono sufficienti' (Sez. 4, n. 4320/83 ); in altra occasione si è specificato che,
pur nel contesto di una ‘probabilità anche limitata', deve trattarsi di serie ed
apprezzabili possibilità di successo'…; altra volta, ancora, …'in tema di responsabilità
per colpa professionale del medico, se può essere consentito il ricorso ad un giudizio di
probabilità in ordine alla prognosi sugli effetti che avrebbe potuto avere, se tenuta, la
condotta dovuta…, è necessario che l'esistenza del nesso causale venga riscontrata con
sufficiente grado di certezza, se non assoluta…almeno con un grado tale da fondare su
basi solide un'affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente a tale fine un
giudizio di mera verosimiglianza ( Sez. IV, n. 10437/93 ). In tempi meno remoti…è
stato posto l'accento sulle ‘serie e rilevanti (o apprezzabili) possibilità di successo',
sull'alto grado di possibilità…è stata apprezzata una percentuale del 75% di probabilità
di sopravvivenza della vittima, ove fossero intervenute una diagnosi corretta e cure
tempestive ”.
Tutte soluzioni opinabili, evidenzia la Corte, aderendo, alfine, al più ragionevole criterio
della probabilità logica.
b. Adesione alla tesi monistica: ritorno al criterio della probabilità statistica.
Sembra, invece, abbracciare la tesi autonomistica, con un ritorno in campo civilistico al
criterio della probabilità statistica (peraltro debole: quale apprezzabile chance), la
sentenza n. 21894/2004 (che ancora il giudizio sul rapporto causale alle “regole di
natura probabilistica tali da consentire una generalizzazione sul nesso di
condizionamento omissione-evento”) e soprattutto quella di poco successiva della stessa
Suprema Corte, la n. 7997/2005 cit., ove si afferma che:
- il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni
comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o
anche solo contribuito a generare, tale obbiettiva relazione col fatto deve considerarsi
"causa" dell'evento stesso;
- il nesso di causalità giuridica è, per converso, relazione eziologica per cui i fatti
sopravvenuti, di per sè soli idonei a determinare l'evento, interrompono il nesso con il
fatto di tutti gli antecedenti causali precedenti;
- la valutazione del nesso di causalità giuridica, tanto sotto il profilo della
dipendenza dell'evento dai suoi antecedenti fattuali, quanto sotto l'aspetto della
individuazione del "novus actus interveniens", va compiuta secondo criteri a) di
probabilità scientifica, ove questi risultino esaustivi; b) di logica, se appare non
praticabile (o insufficientemente praticabile) il ricorso a leggi scientifiche di copertura.
E ancora, più di recente, aderisce alla tesi autonomistica, pronunciandosi a favore del
criterio della probabilità statistica, la terza Sezione civile, con sentenza 19-05-2006,
n. 1175.
In essa si afferma, infatti, che “I criteri di accertamento del nesso causale adottati
dalla sentenza ‘Franzese’delle sezioni unite penali – alto grado di probabilità logica e di
credibilità razionale – trovano applicazione nel solo diritto penale e nelle fattispecie
omissive. Nelle ipotesi di responsabilità civile, soprattutto se si versa in casi di illecito
16
(anche) commissivo, la verifica probabilistica può arrestarsi su soglie meno elevate di
accertamento controfattuale”.

FONTE: http//www.neldiritto.it

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