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Le cinque stirpi
La guerra dei nani
La vendetta dei nani
Il destino dei nani
Il trionfo dei nani
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Titolo originale
Der Triumph der Zwerge
ISBN 978-88-429-2878-2
I Primi
Xamtor Frontealta del clan dei Frontealta, re della stirpe dei
Primi
I Secondi
Boïndil Duelame, detto anche il Rabbioso, del clan dei
Branditori d’ascia, re dei Secondi e imperatore delle stirpi
dei nani
Boëndalin Colpopotente, suo figlio maggiore
I Terzi
Tungdil Manodoro, guerriero ed erudito
Goda Ardentecoraggio, del clan dei Coraggiocostante, maga
guerriera e sposa del Rabbioso
Hargorin Seminamorte, del clan degli Schiacciamassi,
comandante dello Squadrone Nero e re dei Terzi
Rognor Colpodimorte, del clan dei Massacratori d’Orchi,
cancelliere dei Terzi
Bolîngor Acchiappalame, del clan dei Pugnodiferro,
guerriero
Furobil Divorascintille, del clan dei Mangiafuoco, alchimista
Lorimgon Cerusico, del clan degli Aggiustaossa, guaritore
I Quarti
Frandibar Cogligioielli, del clan dei Battiloro, re dei Quarti
Aurogar Manolarga, del clan dei Cercargento
I Quinti
Balyndis Ditadiferro, del clan dei Ditadiferro, regina dei
Quinti
Balyndar Ditadiferro, suo figlio
Belogar Martellodarmi, del clan dei Rotolamassi
Gosalyn Franamonte, del clan dei Cercagallerie
Girgandor Vettatempestosa, del clan dei Battiferro
Goïmbar Trovagemme, del clan degli Occhidopale
Barborín Prodebraccio, del clan dei Colpofulmineo
I Liberi
Beligata Colpoviolento, un tempo appartenente alla stirpe
dei Terzi, ora una Libera
Gordislan «il Giovane» Pugnodistelle, re di Goldhort
Balodil, in albico Carâhnios, l’ultimo Zhadár
GLI UMANI
Mallenia von Ido, regina del Gauragar e dell’Idoslân
Sha’taï, sua figlioccia
L’Irraggiungibile Rodario, re dell’Urgon
Isikor, re del Rân Ribastur
Astirma, regina del Sangreîn
Coïra, maga e regina del Weyurn
Rodîr Bannermann, guerriero
Lot-Ionan, mago e padre adottivo di Tungdil Manodoro
Natenian, re del Tabaîn
Raikan von Auenwald, fratello di Natenian e pretendente al
trono del Tabaîn
Tenkil von Hoge, guerriero del Tabaîn
Lilia, guerriera del Tabaîn
Irtan, guerriero del Tabaîn
Ketrin, guerriera del Tabaîn
Cledenia, aristocratica del Tabaîn
Dirisa, aristocratica del Tabaîn
Heidor, aiuto oste del Gauragar
GLI ELFI
Ilahín
Fiëa, sua sposa
Phenîlas, Sorânïon
Ocâstia, guerriera e Sorânïan
Ataimînas, reggente del Ti Lesinteïl e Naishïon degli elfi
Nafinîas
Tehomín, delegato del Naishïon
Menahîn, delegato del Naishïon
Venîlahíl, Sorânïon
Chynêa, portavoce dei Nuovi Arrivati alla Porta Orientale
Semhîlas
Rahîlas
Inisëa
Vilêana, principessa
GLI ALBI
Carmondai, maestro dell’immagine e della parola
Aiphatón, ex imperatore degli albi nella Terra Nascosta e figlio
degli Eterni
Nodûcor, albo ripudiato
Irïanora
TERMINOLOGIA
Acïjn Rhârk, nome corretto degli acronta, detti anche «Torri
Ambulanti» e Dorón Ashont (albico)
Bestia di Narshân, predatore indigeno del Phondrasôn e della
Terra dell’Aldilà
Botoiki, umani dotati di poteri magici, residenti nella Terra
dell’Aldilà
Fin’Sao, creatura mutaforma
Kân Thalay, parola mistica che descrive una condizione di
perfetta serenità interiore
Naishïon, sovrano assoluto, imperatore degli elfi
Nrotai, la Prima Ondata durante una grande campagna
militare degli Acïjn Rhârk
Phondrasôn, luogo d’esilio sotterraneo
Shintoìt, denominazione del figlio degli Eterni
Sorânïon, sommo inquirente del Naishïon
Srai G’dàma, la Sacra Madre Imperatrice, sovrana degli Acïjn
Rhârk
Verme Aureofuoco, creatura simile a un drago ma con
l’aspetto di un verme
Zhadár, denominazione albica degli Invisibili
PROLOGO
R
aikan von Auenwald tirò le redini quando all’orizzonte
comparve il bordo ancora lontano del cratere in cui un
tempo sorgeva il regno albico degli odiosi gemelli
trigemini. I quattro compagni lo raggiunsero,
aprendosi a ventaglio alla sua destra e alla sua sinistra
prima di fermarsi. Senza smontare da cavallo, i tre uomini e le
due donne, che indossavano vestiti palesemente costosi e
mantelli chiari e leggeri, lasciarono vagare lo sguardo
incredulo. Non avevano previsto un cambiamento così radicale.
«Avrei perso qualunque scommessa.» Raikan, alto e bruno,
apparteneva a un’antica famiglia aristocratica e sarebbe
diventato reggente quando Natenian, il fratello maggiore,
avesse mantenuto la promessa di rinunciare al titolo per motivi
di salute. Perciò aveva ricevuto l’incarico di trattare con gli elfi
che si erano stabiliti laggiù dopo la cacciata degli albi.
«Anch’io», ammise sconcertato Tenkil von Hoge,
schermandosi gli occhi con la mano e spostando alcune ciocche
nere col pollice. Era il più muscoloso del gruppo ed erano stati
necessari molti anelli per intrecciare una cotta di maglia della
sua misura. Benché fosse una visita pacifica, non si era voluto
togliere l’armatura e aveva ancora quasi tutte le armi infilate
nella bandoliera. «Com’è possibile?»
Lilia, Ketrin e Irtan tacquero, troppo stupite per parlare.
Raikan ripensò alle rotazioni dell’autunno, dell’inverno e
della primavera precedenti, che avevano portato con sé gesta
eroiche, morti e vittorie.
Schiere di guerrieri si erano messe in marcia per annientare
gli Dsôn Aklán e gli ultimi Occhineri nel Nord della Terra
Nascosta. Alla fine i più audaci erano riusciti nell’intento,
seppure a prezzo di enormi perdite.
Poi avevano cominciato a demolire le case degli albi, a
spianare il monte del palazzo e a riempire la voragine, tutto
sotto la sorveglianza dell’elfo Ilahín e della sua sposa Fiëa. A
poco a poco, un ciclo dopo la fine di Lot-Ionan, degli albi, del
drago Lohasbrand, dei suoi mezz’orchi e del mostro Kordrion,
nella Terra Nascosta era tornata la pace. I troni dei regni
umani erano occupati ed era stato messo un freno ai capricci
dei singoli e delle moltitudini. Prevalevano la legge e l’ordine.
Secondo Raikan, il regno del Tabaîn era sulla buona strada,
anche se occorreva ancora mettere in riga un pugno di
aristocratici per garantire la stabilità interna della regione
agricola nella parte nord-occidentale della Terra Nascosta.
L’invito di Ilahín e Fiëa a recarsi nel Ti Lesinteïl, e più
precisamente a corte, aveva raggiunto i fratelli nel bel mezzo
dei preparativi per l’abdicazione.
Raikan ignorava che i pochi elfi rimasti avessero già eletto
un re o che il loro numero fosse aumentato così rapidamente da
poter costituire una corte. «Andiamo ad ammirare il miracolo
da vicino.»
Il gruppetto diresse i cavalli lungo la strada larga, in leggera
discesa.
La vecchia profondità del cratere in cui un tempo s’innalzava
la capitale degli albi del Nord si poteva intuire solo se si
conoscevano gli antichi racconti. Gli elfi lo avevano riempito di
detriti e tramutato in una conca circolare del diametro di
diverse miglia, ma per Raikan il vero portento era il bosco fitto
e rigoglioso che vi cresceva sopra.
Le cime degli alberi formavano un mare ondeggiante di
foglie verde intenso in cui lui e i suoi compagni s’immersero,
affondando tra le piante alte più di cento passi come sul letto di
un oceano.
Raikan apprezzò i giochi di luce, le sfumature delle foglie,
delle cortecce e dei boccioli freschi. L’aria profumata di miele,
d’incenso e di erbe sconosciute stuzzicò e sedusse i suoi sensi.
«Non avevo mai visto alberi con fiori come questi.» Tenkil
aveva un tono sospettoso. «O capaci di crescere così
velocemente.»
«Non c’è nulla di male nel fatto che gli Orecchi appuntiti
nascondano l’orrore sotto la vitalità della natura.» Raikan
aveva un buon presentimento: era convinto che dall’incontro
con gli elfi sarebbe scaturito qualcosa di eccellente per il
Tabaîn. In cuor suo non era contrario a un patto col regno
elfico, perché avrebbe garantito al Tabaîn un vantaggio sul
Gauragar e sull’Idoslân.
Nella Terra Nascosta stava per iniziare una nuova era, ma
Raikan non si fidava della regina Mallenia. Nonostante la forza
combattiva e la determinazione dimostrate dalla donna, c’era
una cosa che lo turbava molto: il suo comportamento in ambito
sentimentale.
Che cosa si può pretendere da una sovrana disposta a
concedersi a un attore che allo stesso tempo ha una relazione
con una maga?
Raikan non temeva un attacco di Mallenia, ma la
considerava volubile e avventata. Se avesse convinto gli elfi a
schierarsi dalla sua parte, avrebbe fatto colpo sul popolo del
Tabaîn. Voleva soltanto la sicurezza del proprio Paese.
La delegazione seguì la strada tortuosa che si snodava tra i
tronchi possenti. La foresta inondata di luce circondava il
gruppo su tutti i lati. Dal terreno spuntavano muschi e felci, ma
il sottobosco era così rado che di tanto in tanto Raikan
scorgeva un animale selvatico intento a spiarli.
«Guarda a destra», disse Tenkil. «Sembrerebbe che gli elfi
non siano stati così scrupolosi.»
Raikan girò la testa e vide i resti di un’imponente statua di
ossa, senza dubbio un manufatto albico.
Pareva l’immenso busto di un guerriero che si ergeva dal
pavimento per scagliarsi contro i nemici. I rampicanti si erano
attorcigliati intorno alla sinistra opera d’arte, tendendosi fino
all’inverosimile.
«Non passerà molto tempo prima che le piante la
frantumino.» Raikan sentì un brivido lungo la schiena. Gli albi
sono stati eliminati. Loro e tutto ciò che avevano creato.
I cinque cavalieri raggiunsero un’ampia piazza al cui centro
s’innalzava un albero colossale che, coi suoi rami, faceva ombra
all’insediamento. Raikan si domandò quanto dovessero essere
profonde le radici per sostenere tutto quel peso. Sotto il
baldacchino di foglie sorgevano case in pietra simili a piccole
fortezze, ma abbastanza leziose da non sembrare i mattoncini
smarriti da un gigante. I conci sgrossati – dipinti di verde,
ornati di motivi curvi e coperti di rampicanti – s’inserivano alla
perfezione nell’ambiente circostante.
Tenkil rifletté. «Se qualcuno volesse occupare
l’insediamento, dovrebbe avanzare combattendo casa per
casa.»
Raikan evitò di rimproverarlo. Il guerriero aveva lottato a
lungo contro i nemici del Tabaîn, perciò giudicava qualunque
luogo secondo criteri tattici prima di osservarlo con occhi
pacifici.
Gli elfi percorrevano le vie fortificate lanciando occhiate
amichevoli ai visitatori.
Raikan ne contò almeno quaranta. Fece segno agli altri di
fermarsi. «Ho sentito parlare di un manipolo di elfi che è giunto
nella Terra Nascosta.»
«Sono di più.» Tenkil sospirò. «Molti di più.»
«Ma disarmati.» Raikan sorrise. «Non hanno cattive
intenzioni.»
Al centro del piccolo insediamento si ergeva un’alta casa di
cento passi per cento, il cui tetto arcuato s’innalzava per
cinquanta passi buoni sopra le loro teste. Quattro balaustre si
allungavano verso l’esterno a una distanza di dieci passi l’una
dall’altra.
L’edificio era perlopiù di legno, con travi ornate da intagli
elaborati e innumerevoli lampioncini bianchi costellati di rune
rosse. Due giganteschi vessilli neri scendevano fino a sfiorare il
pavimento, con decorazioni bianche che quasi scintillavano.
Nella parte inferiore, gli stendardi incorniciavano una
massiccia porta di bronzo a due battenti, anch’essa tempestata
di rune. «Gli elfi sono i costruttori più veloci che abbia mai
visto», riconobbe Tenkil, ma senza voler fare loro un
complimento. Dalle sue parole emergeva il sospetto che
qualcosa non quadrasse.
Ne ho abbastanza del suo pessimismo. Raikan stava per
redarguirlo quando la porta si aprì e uscì un elfo avvolto in
ampie vesti verde scuro, che teneva in mano un vassoio con
una caraffa d’acqua e cinque calici. I corti capelli neri erano
tirati indietro per mettere in risalto le orecchie leggermente
appuntite, e dalla cintura intorno ai fianchi snelli pendeva un
lungo pugnale.
L’elfo si avvicinò con sussiego.
Raikan trovò poco opportuno bere mentre era ancora in
sella, così smontò, imitato da Tenkil, Lilia, Ketrin e Irtan.
La brezza soffiò nel bosco, facendo tintinnare i campanelli
nascosti tra i rami e conferendo solennità al momento.
L’elfo accennò un inchino e tese il vassoio. «Benvenuti,
uomini e donne del Tabaîn. Il mio padrone è lieto che abbiate
accettato il suo invito.»
«Grazie.» Raikan e gli altri presero un calice ciascuno.
Già il primo sorso fu delizioso: l’acqua pura era più
rigenerante di qualunque cosa avessero mai assaggiato. Non
riuscirono a identificare l’aroma soave, che tuttavia lasciò loro
una piacevole sensazione di freschezza nella gola.
Dopo che gli ospiti ebbero bevuto e rimesso i calici sul
vassoio, l’elfo si voltò sorridendo. «Da questa parte, prego. Il
mio signore vi aspetta.»
Raikan s’incamminò, restando alla distanza di due braccia.
«Ketrin, rimani coi cavalli.»
La bionda annuì e si arrotolò le redini in uno spesso fascio
intorno alla mano.
Tenkil indicò verso l’alto. «Guardie. Nove arcieri, se ho
contato bene. All’ombra della seconda balaustra.»
Raikan si sarebbe meravigliato del contrario. «Diamo per
scontato che siano lì per proteggerci.»
Tenkil proruppe in una risata roca. «Come gli esploratori
nascosti nel bosco, che ci puntavano addosso le frecce mentre
li oltrepassavamo?»
Raikan tacque. Non si era accorto dei soldati elfici. Con
quelle osservazioni, l’amico era riuscito a rovinargli il
buonumore.
Varcarono la soglia e si ritrovarono in una vasta sala
disadorna, profumata di fiori e incenso. Sulle pareti si
distinguevano caratteri dipinti e paesaggi stilizzati con uccelli.
Ogni tanto i colori brillavano come se sulle raffigurazioni fosse
stato applicato del metallo liquido.
In fondo al locale c’era una pedana, con una pila di stuoie su
cui un impressionante elfo castano sedeva sui polpacci, in una
posizione tutt’altro che comoda. La veste dal taglio raffinato
era di tessuto bianco con fili d’oro e d’argento intrecciati. I
raggi del sole filtravano da tre direzioni diverse attraverso
spiragli nel soffitto, e i riflessi trasformavano l’elfo in una
figura di luce. Le mani cariche di gioielli erano aperte sulle
cosce, gli occhi puntati sui visitatori.
Fino a quel momento Raikan aveva conosciuto solo Ilahín e
Fiëa, e aveva immaginato di trovare l’elfo seduto su un trono
sfarzoso. La sobrietà della sala lo sorprese quanto l’aspetto del
sovrano.
Il domestico fece un inchino e disse qualcosa in elfico.
«Usiamo la lingua degli umani», lo interruppe il re, da un
lato con la consueta cantilena melensa, dall’altro con un
accento insolitamente duro. «Altrimenti diventiamo scortesi e
Raikan potrebbe pensare che abbiamo qualcosa da
nascondere.» Fece un gesto elegante ma imperioso con la
destra.
Raikan annuì e si mosse, afferrando Tenkil per il braccio.
«Non ho nessuna intenzione d’inginocchiarmi», bisbigliò il
guerriero, ma l’acustica della stanza amplificò le sue parole al
punto che tutti le udirono.
«Nemmeno il sovrano degli elfi.»
«Lui può fare ciò che desidera, ma io mi metterò in
ginocchio tutt’al più dopo aver esalato l’ultimo respiro. Ho
combattuto abbastanza a lungo per non…»
Basta così! Raikan scoccò un’occhiataccia all’amico. «Allora
aspetta fuori coi cavalli.»
Tenkil socchiuse le labbra, ma fu abbastanza saggio da
tacere. Girò sui tacchi e uscì.
Ha fatto il guerriero per troppo tempo, si disse Raikan.
Con Lilia e Irtan salì sulla pedana e sedette sui polpacci, a
notevole distanza dal re, che aveva un’aura di potere e
spavalderia. L’elfo si credeva superiore agli umani, come
dimostrava lo sguardo vigile dei suoi occhi grigioverdi.
Nei cicli precedenti c’era stato poco tempo per l’arte della
diplomazia, così il giovane tabaînano non sapeva come
comportarsi. Inoltre non esistevano fonti antiche che
descrivessero la condotta da tenere al cospetto di un sovrano
elfico. Lascerò che sia lui a fare la prima mossa.
La porta di bronzo si chiuse con un forte rimbombo
metallico, simile al suono di un gong. Il rumore echeggiò,
quindi fu soverchiato dal lieve tintinnio dei campanelli.
Non accadde nulla. L’elfo e gli umani si studiarono e
aspettarono.
Ben presto Raikan dovette soffocare uno sbadiglio. L’incenso
e lo scampanellio melodioso creavano un’atmosfera rilassante
nonostante la posizione sempre più scomoda. Il suo nervosismo
tuttavia si placò.
Finalmente il sovrano prese la parola. «Sono Ataimînas,
reggente del Ti Lesinteïl e Naishïon degli elfi. Vedo che il
Tabaîn mi ha mandato il suo futuro re.» Si posò la mano sul
cuore. «Ne sono onorato.»
«L’onore è tutto mio.» Raikan, lusingato, sentì un formicolio
ai piedi e ai polpacci. Di lì a poco avrebbe avuto le gambe
intorpidite. «Avete compiuto un autentico miracolo.»
Ataimînas sorrise riconoscente. «La maga Coïra e le nostre
modeste arti magiche si sono alleate affinché l’orrore venisse
sepolto e dimenticato.» Allargò le braccia. «Parliamo
dell’avvenire, giovane re. Il resto non deve più interessarci.»
Raikan era d’accordo. «Come può esservi utile il Tabaîn?»
«Col grano.» Ataimînas si mise le mani in grembo, facendo
sfavillare gli anelli e le gemme. «I regni elfici stanno
rinascendo dal nulla e non abbiamo tempo per coltivare i campi
e dedicarci all’agricoltura. Nei prossimi dieci cicli intendiamo
coprire il fabbisogno di cereali con l’aiuto del fertile Tabaîn. Ho
sentito dire che i vostri campi sono tuttora ricchi di spighe.»
Siamo partiti col piede giusto. L’alleanza è una prospettiva
sempre più concreta. Raikan sorrise senza volerlo. «Possiamo
rinunciare a qualche sacco di segale.»
«Mi riferisco a tutti i regni elfici: il Ti Âlandur, il Ti Singàlai,
che voi chiamate Pianura d’Oro, e il Ti Lesinteïl. Il fabbisogno
complessivo si aggira intorno ai millecento stai.»
Raikan udì Lilia sussultare per lo stupore. «Quante sono le
bocche da sfamare, reggente Ataimînas?»
L’elfo parve sorpreso dalla domanda. «Pensavo che i figli di
Vraccas vi avessero informati del nostro arrivo. Non ne
abbiamo mai fatto mistero.»
«I nani inviano regolarmente messaggi al Consiglio dei Re,
ma l’ultimo incontro risale a mezzo ciclo fa. C’è stato molto da
fare.»
«Capisco. Allora leggerete che ci siamo trasferiti dal Sud,
dall’Ovest e dall’Est dopo avere ricevuto il segno della
Creatrice secondo cui le minacce per il nostro popolo erano
state sventate.» Ataimînas indicò la porta. «Questo è solo uno
di tanti insediamenti, re Raikan. Stiamo risorgendo, e non
c’isoleremo dagli umani e dai nani come hanno fatto i nostri
predecessori.» L’elfo raddrizzò la schiena, facendo scintillare la
veste sotto i raggi del sole. «Conosco la fama che gli elfi hanno
nella Terra Nascosta e temo che sia meritata, ma le cose
cambieranno in meno di una generazione umana. I rapporti
commerciali col Tabaîn saranno solo il principio, se lo vorrete.»
Ma certo! Raikan dissimulò l’entusiasmo. «Non ci avete
ancora detto quanti elfi sono arrivati.»
«Fino alla rotazione odierna, circa diecimila.» Ataimînas
lesse lo sbigottimento sui volti dei visitatori e reagì con una
risata cordiale. «Dovreste vedere la vostra faccia, giovane re.
Non siamo conquistatori. Ci limitiamo a tornare nel luogo in cui
la Creatrice ci ha dato vita, e per farlo ci servono più cereali.»
La prospettiva dell’affare e dell’alleanza era allettante.
Raikan avrebbe dovuto essere soddisfatto, ma non riuscì a
scacciare la preoccupazione per l’enorme numero di elfi nella
Terra Nascosta. Era come se Tenkil, prima di uscire, avesse
lasciato nella sala il velo invisibile della diffidenza. Quel
pensiero irritò Raikan.
«Vi metteremo a disposizione altre sementi, che il Tabaîn
potrà coltivare per noi nei propri campi», continuò Ataimînas.
«Si tratta di una particolarissima varietà di grano, e farete
sorvegliare le colture, re Raikan. In cambio vi darò altro oro.»
Fece un sorriso di sufficienza. «Farò di voi un uomo ricco.»
Specificò l’entità della ricompensa e il prezzo per ogni staio di
grano.
Raikan non lo contraddisse e non contrattò: l’oro promesso
superava di gran lunga le sue aspettative. «Sono felice di
aiutare i regni elfici», dichiarò. Con un affare come quello
sarebbe stato più facile chiedere un’alleanza.
«Non perdiamo tempo.» A un cenno di Ataimînas si aprì una
porta laterale nascosta nella pannellatura, da cui entrarono due
elfi muniti di penna e pergamena.
Il contratto per la consegna e la coltivazione dei cereali era
già stato redatto. I documenti furono completati di comune
accordo con la quantità e l’importo in oro, e infine
controfirmati.
Raikan sapeva di avere compiuto un atto che solo il re
avrebbe potuto decidere, ma non poteva lasciarsi sfuggire
quell’occasione. È per il bene del Tabaîn. «Mille grazie», disse
all’elfo, prendendo il contratto. «Posso approfittarne per…»
«La questione è risolta.» Ataimînas pareva soddisfatto.
«Cambiamo argomento: le terre.»
Ora sì che Raikan era sbalordito. «Non capisco. Volete
acquistare i campi per la vostra varietà di cereali…?»
«Il regno elfico in cui vi trovate verrà unito agli altri due.
Compriamo i territori intermedi.» Ataimînas allungò il braccio
dietro di sé, prese una mappa e la srotolò. I nuovi confini erano
già disegnati. «Dal Tabaîn vorremmo la regione che si estende
a nord dell’Âlandur fino alle pendici dei monti. Non è collocata
tra i nostri possedimenti, ma sarebbe la soluzione perfetta.»
Raikan intuì che l’elfo non prevedeva d’incontrare la minima
resistenza. È inevitabile che si presentino delle difficoltà. D’un
tratto il regno elfico diventò un alleato inadatto, che invece
della sicurezza lasciava presagire un contrasto. Ebbe la
sensazione di avere fatto un viaggio a vuoto. «Suppongo che
parlerete dinanzi al Consiglio dei Re. La vostra richiesta
riguarda innanzitutto la regina Mallenia.»
«Esatto. Tuttavia temo che si opporrà per futili motivi.
Giacché governa due regni, è in combutta col re dell’Urgon,
perciò potrei avere tre voti contrari.» Ataimînas studiò Raikan.
«Vorrei il vostro sostegno.»
Il giovane capì le ragioni della sua generosità. «Devo
discuterne con mio fratello», replicò inventando un pretesto
assai debole. «È una decisione più importante di quella sulla
consegna e sulla coltivazione dei cereali.» Si direbbe che le
fosche previsioni di Tenkil si stiano realizzando. A un solo ciclo
dalla liberazione, già incombeva una nuova guerra.
L’elfo fece un sorriso distaccato, coi riflessi d’oro e d’argento
che gli scivolavano sul bel volto. «Fate pure, Raikan von
Auenwald. Riuscirete a persuaderlo. Chi non vorrebbe il
Naishïon per amico?»
Raikan ricordò che Ataimînas aveva usato quella parola
anche all’inizio della conversazione. «Perdonate la mia
ignoranza, ma negli ultimi duecentocinquanta cicli nessuno ha
visto gli elfi né ha parlato con loro. Cosa significa questo
titolo?»
«Si potrebbe tradurre nella vostra lingua come ’sovrano
assoluto’.» L’elfo continuò a usare un tono amichevole. «Del
mio popolo, non della Terra Nascosta», aggiunse con un sorriso
scaltro. «Per evitare equivoci.»
«Naturalmente.» Raikan era contento di avere ordinato a
Tenkil di uscire. Il guerriero si sarebbe impelagato in una
disputa interminabile. Avrò molto su cui riflettere durante il
viaggio di ritorno. L’alleanza va considerata attentamente.
«Avete saputo della trovatella salvata sui Monti Grigi?» chiese
per cambiare argomento.
«La ragazzina, intendete?» Ataimînas s’irrigidì, alzandosi e
piegandosi leggermente indietro. «Se volete il mio parere,
Belogar Martellodarmi avrebbe dovuto ucciderla. Io e il nano la
pensiamo allo stesso modo. Anch’io temo non si rivelerà una
benedizione per la nostra patria.»
Raikan stava per fare un’altra domanda quando da fuori
giunsero un urlo e un sibilo di frecce, seguiti da altre grida e
dai nitriti dei cavalli imbizzarriti.
Il futuro re del Tabaîn si alzò, imitato da Lilia e Irtan, ma
tutti e tre caddero di nuovo sulle stuoie. Avevano perso la
sensibilità alle gambe, paralizzate dalle ginocchia in giù.
Distesi sulla pedana, erano facili bersagli.
«Tenkil!» Raikan si voltò prima verso la porta chiusa, poi
verso il re elfico.
Ataimînas tuttavia non era più al suo posto.
Fu così che mutarono i tempi nella Terra Nascosta.
Da eroe degli albi a prigioniero dei sovrani e infine a cagnolino
dei potenti… in apparenza.
Ma il mio tempo arriva, sta per tornare.
Giacché è stato lui il mio maestro: il tempo.
Annotazioni segrete agli Scritti della verità,
compilati sotto costrizione da Carmondai
I
R
odario, insieme con una guaritrice e tre soldati
urgoniani, attraversò frettolosamente la locanda per
raggiungere le stanze in cui la ragazzina aspettava di
essere convocata alla riunione.
L’Irraggiungibile aveva l’impressione che i corridoi
fossero interminabili e che ogni passo suo e dei suoi compagni
fosse piccolo e legnoso.
Finalmente arrivarono a destinazione.
La porta della camera era aperta, e nell’aria aleggiava
l’odore fin troppo familiare del sangue appena versato.
Allarmato, Rodario corse dentro… e trovò Sha’taï
accovacciata in un angolo.
Una guardia e la cameriera erano stati uccisi con tagli
meticolosi alla gola. Il soldato non aveva neppure avuto il
tempo di sfoderare l’arma.
Il vestito marrone scuro della ragazzina, decorato di ricami
giallo pallido, era coperto di macchie nere e il sangue le
gocciolava da una leggera ferita sul collo.
È viva! «Piccola mia!» Rodario si avvicinò e le s’inginocchiò
accanto, cingendola con un braccio. Con l’altra mano chiamò la
guaritrice.
La donna esaminò attentamente lo squarcio mentre le
guardie portavano fuori i cadaveri.
«È scesa la notte», spiegò Sha’taï con l’accento insolito che
rivelava le sue origini straniere. «Poi l’albo ci ha attaccati e…
Volevo chiamare aiuto, ma avevo paura.» Benché avesse
cercato di trattenere le lacrime, scoppiò a piangere e si
aggrappò al braccio di Rodario.
«Non può più farti del male. Lo abbiamo ucciso.» Le
accarezzò dolcemente i capelli biondi.
«Non mi sembra che ci sia del veleno», sussurrò la
guaritrice, somministrando alla ragazzina un sorso di essenza
tranquillante da una fiala blu. «Però il taglio è profondo e va
cucito per essere sicuri che si rimargini.»
Rodario fece un cenno di assenso e cullò Sha’taï finché non
sentì che si rilassava e scivolava in un sonno ristoratore.
Grazie, dei! Si alzò e la sollevò per portarla in un’altra
stanza e adagiarla sul letto, per nulla disturbato dal sangue che
incrostava il vestito costoso.
La guaritrice premette un panno sul taglio. Estrasse ago e
filo e cucì i bordi della ferita con movimenti rapidi e delicati,
mentre la ragazzina riposava.
Sarebbe potuta finire molto diversamente. Rodario osservò
Sha’taï, che a occhio e croce aveva solo dodici cicli, e si
meravigliò della rapidità con cui aveva imparato la lingua e le
consuetudini della Terra Nascosta.
Sha’taï e suo zio avevano vagato sui Monti Grigi,
imbattendosi per caso nell’insediamento abbandonato. Dopo la
morte dello zio, la ragazzina era stata trovata da un drappello
formato da umani, un elfo e due nani.
All’inizio questi ultimi si erano opposti all’idea di portarla
nella Terra Nascosta, soprattutto perché parlava solo albico.
Anzi, a quanto pareva, uno di loro aveva perfino tentato di
ucciderla.
Nonostante le obiezioni degli altri, tuttavia, Rodîr
Bannermann l’aveva condotta da Mallenia, che l’aveva presa
sotto la sua protezione e l’aveva dichiarata sua figlioccia. Non
avendo discendenti, la regina aveva considerato un dono di
Samusin ricevere una figlia in quel modo.
Sappiamo pochissimo della Terra dell’Aldilà.
Sha’taï aveva raccontato di enormi città, di faide familiari
che l’avevano costretta a fuggire, ma anche d’insediamenti
albici che erano stati distrutti durante una guerra furibonda.
E di Aiphatòn.
Pareva che lo Shintoìt fosse stato coinvolto in quegli eventi,
sebbene la ragazzina non sapesse se fosse ancora vivo.
Così ha mantenuto il giuramento di annientare il suo popolo.
Rodario si attorcigliò i baffi e sorrise guardando Sha’taï. Sarà i
nostri occhi sulla Terra dell’Aldilà nel Nord.
Era per quella ragione che Mallenia l’aveva portata a
Pietralibera: perché riferisse l’accaduto, desse spiegazioni e
fugasse i pregiudizi. I nani la consideravano un demone in
carne e ossa, il male con sembianze infantili.
Una volta finito, la guaritrice spalmò una pomata biancastra
sulla ferita e applicò una benda, quindi si alzò e si accomiatò
con un inchino.
Quando Sha’taï parlerà al cospetto dei re e delle regine, si
renderanno conto di essersi sbagliati. Rodario si sedette sul
bordo del letto e le prese la mano sinistra. «Dormi. Sei al sicuro
con noi», sussurrò.
«Poveri illusi. Non siete al sicuro nemmeno voi. Fate troppo
affidamento sui nani e sulle loro porte, ma sono già state
superate una volta e accadrà di nuovo», bisbigliò la piccola
tenendo le palpebre abbassate. Poi girò la testa e aprì gli occhi
di scatto.
Leggendo la paura e la convinzione sul suo volto, Rodario
rabbrividì. «L’imperatore Boïndil e i figli del Fabbro sono pronti
per ogni evenienza. Hanno rinforzato i baluardi.»
«Esistono poteri che la pietra, gli scudi e le asce non
possono contrastare.»
«La magia, lo so. Ma abbiamo Coïra. È saggia e potente e ha
istruito i primi nuovi maghi. Inoltre, gli elfi non sono mai stati
così numerosi nella Terra Nascosta. Sono guerrieri eccellenti.»
Rodario sorrise, notando che la stretta della ragazzina intorno
alle sue dita si era fatta più forte.
Sha’taï tuttavia sembrava ancora dubbiosa. «Non immagini
di quale magia siano capaci i Nhatai. Il loro potere sconfigge le
porte più sicure e gli eserciti migliori. Ho visto…» disse con un
filo di voce prima di riaddormentarsi, senza lasciargli la mano.
Rodario fu percorso da un brivido. Parlavano spesso della
Terra dell’Aldilà, ma Sha’taï non era mai parsa così spaventata.
«Che cosa sono i Nhatai?» La voce cupa e stentorea alle sue
spalle lo fece trasalire.
«Da quando in qua i nani sanno introdursi di soppiatto nelle
stanze? E perché lo fanno?» Rodario si girò per metà e vide
l’imperatore sulla soglia.
«Ho bussato. Forte.» Boïndil gli mostrò prima il
mazzapicchio e poi il segno sullo stipite. «È stata la
preoccupazione a condurmi qui. Dopo il mio discorsetto sui
regni naneschi sono venuto a controllare che fine avessi fatto.»
Rodario fece un sorriso conciliante. «Ero soprappensiero.»
Boïndil si mise l’arma sulla spalla. «Riflettevi sui Nhatai,
forse? Non venirmi a raccontare che è la prima volta che senti
questo nome. Può darsi che il sonnifero le abbia ottenebrato la
mente.» Si parò davanti all’Irraggiungibile, lo fissò con occhi
penetranti, poi guardò la ragazzina. «Se esiste una magia
capace di mettere in pericolo la sicurezza delle fortezze vicino
ai passaggi, devo saperlo. È l’unico modo per contrastarla.»
Roteò il mazzapicchio, e la corrente d’aria gli fece ondeggiare
la barba, cui il combattimento non aveva certo tolto splendore.
«Glielo chiederò di nuovo.»
«Dovrei essere io a interrogarla.» Boïndil aveva un tono
preoccupato e categorico.
«Dimentichi che siamo entrambi re, anzi che lo siamo tutti.»
Rodario lo perdonò per averlo trattato come un postulante e gli
posò la mano sulla spalla.
«E tu dimentichi che facevi l’attore. Un commediante seduto
sul trono vuole insegnarmi a prendermi cura della Terra
Nascosta?» Il nano proruppe in una risata piena e tonante.
«Auguro all’Urgon di fare la scelta giusta.»
Rodario s’incupì. È la birra a farlo parlare così. «Ora sei
arrogante.»
«Posso permettermelo. Sono l’imperatore, nonché un figlio
del Fabbro.» Boïndil indicò Sha’taï. «Abbiamo perso molte
vittime per liberare la nostra patria da ogni male, ma non so
ancora cosa pensare di questa ragazzina, le cui prime parole
sono state in lingua albica.»
«È buona come un gattino!»
«Questo sarò io a deciderlo.» Il nano inspirò ed espirò a
fondo, e il suo alito puzzolente di birra investì Rodario. «Tu e
Mallenia l’avete portata qui affinché ci desse spiegazioni.»
«Esatto.»
«Allora svegliala e ascoltiamola. Se persuaderà il Consiglio
dei Re, il mio giudizio sarà più mite. Altrimenti resterò dell’idea
che sarebbe meglio rimandarla indietro.» Boïndil non fece
mistero della propria avversione. «Può raccontarci ciò che
vuole, perché non sappiamo se sia vero.»
Rodario sorrise. «Vuoi dire che si è inventata i Nhatai, di cui
avevi così paura fino a qualche minuto fa?»
«No. In quel caso sembrava sincera. Ho avvertito il timore
nella sua voce. E…» Sbigottito, Boïndil smise di strepitare e
abbassò lo sguardo. «Per Vraccas!»
Sha’taï gli aveva stretto la mano libera intorno alle dita,
come se volesse chiedergli protezione.
«Visto? Le piaci. Desidera un’alleanza con l’imperatore dei
nani.» Rodario trattenne una risata.
Il nano non si lasciò impietosire. Fece mezzo passo indietro e
ritirò il braccio. «Non ti sei domandato perché l’Occhineri sia
entrato prima in questa stanza invece di attentare subito alla
vita dei re?»
«Aveva bisogno di un’armatura per ingannarci.»
Boïndil si spostò verso la porta. «Se la sarebbe potuta
procurare anche lungo il tragitto, anziché correre il rischio di
essere smascherato mentre commetteva un omicidio. Se
Sha’taï avesse urlato, il piano sarebbe andato a monte. Ma
forse la ragazzina lo ha aiutato.»
«Stupidaggini! L’arte oscura del terrore l’ha paralizzata.»
Rodario non voleva ammettere che le congetture dell’amico
gettavano un dubbio sulla sincerità di Sha’taï.
«Una ragazzina che parla albico e che viene dalla Terra
dell’Aldilà sopravvive alla visita di un Occhineri che poco dopo
fa strage di guardie esperte. Sarebbe la trama perfetta per
un’opera teatrale. Sono l’unico a trovarlo curioso?» replicò
Boïndil con estrema calma, quindi uscì.
Rodario guardò la porta e ascoltò il fracasso degli stivali
chiodati. Zuccone che non sei altro. Vraccas vi ha davvero
scolpiti nella pietra.
«Perché non avete un imperatore?»
L’Irraggiungibile si concentrò su Sha’taï, che lo stava
fissando con un’espressione seria negli occhi celesti. «Sei
sveglia? Hai solo finto di dormire?»
«Se i nani hanno un imperatore che li unisce, anche la Terra
Nascosta dovrebbe averne uno.» Sha’taï sospirò e gli accarezzò
il braccio, poi girò la testa e abbassò le palpebre, sfiorandogli
la pelle coi capelli. «Tu saresti la persona giusta. Credo che ti
nominerò imperatore, zio.» Gli lasciò la mano e si acciambellò
come un gatto.
Lui si chiese se non avesse sognato le ultime parole, che le
erano affiorate alle labbra con assoluta convinzione. Senza il
minimo dubbio né esitazione. Una dichiarazione d’intenti cui
sarebbero seguite le azioni.
Rodario le diede un bacio sulla fronte, le rimboccò le coperte
e si alzò. Come potresti? pensò divertito, quindi si lisciò i baffi,
raddrizzò le spalle e assunse una posa eroica. Ma sarebbe il
pubblico più numeroso che un attore possa sperare di avere.
Ma l’arsura cresce
a ogni coppa da cui la bevanda fuoriesce,
è questa l’incresciosa natura
di chi beve idromele oltremisura.
Ma alla fine mi consolerò
quando a terra dinanzi alla botte cadrò.
Nemmeno un sorso ho versato,
e bevo, bevo, bevo!
B
alyndar Ditadiferro del clan dei Ditadiferro, della stirpe
dei Quinti, osservò la strada, che dalla gigantesca
Porta di Pietra era appena visibile nella nebbia carica
di umidità. «Si direbbe che Vraccas stia forgiando
molte lame nella Fucina Eterna e le stia raffreddando
nell’acqua. Si prepara per una guerra.»
«Purché non siamo di nuovo noi a dover fermare
un’avanzata», commentò con scarso entusiasmo l’ufficiale di
guardia.
Non ricordo il suo nome. Dovrei venire più spesso, pensò
Balyndar.
L’altro fece notare la sciatteria della bandoliera a uno dei
soldati che superarono passeggiando sul cammino di ronda. «Il
Nord potrebbe essere risparmiato, per una volta.»
Pioveva senza sosta da rotazioni. Le nuvole ammantavano le
vette della Grande Lama e della Lingua di Drago con una
foschia ora grigio chiaro, ora biancastra, ora più scura, che
nemmeno il sole e il vento riuscivano a dissipare.
«Facciamo ciò che ci è stato ordinato», replicò Balyndar, i
cui capelli castani, nonostante la treccia, erano più crespi del
solito. Aveva la barba corta e, sotto il mantello leggero,
indossava una via di mezzo tra una cotta di maglia e una
corazza a lamelle. In passato aveva avuto una mazza chiodata
con due sfere di ferro infilata nella bandoliera, ma ormai
portava con sé la leggendaria Lama di Fuoco. Essendo figlio di
Balyndis Ditadiferro I, regina della stirpe dei Quinti, era stato
designato come proprietario di quell’arma leggendaria dopo la
battaglia nella Forra Oscura.
Era un guerriero fin nel midollo.
Chi lo guardava attentamente e conosceva Tungdil
Manodoro credeva di cogliere una certa somiglianza. Non era
un caso. In passato la madre di Balyndar e l’Erudito avevano
avuto una relazione.
Poi però si erano separati e Balyndis era andata sui Monti
Grigi, dove aveva contratto il patto di ferro col re dei Quinti.
Poco dopo era nato un discendente: un rampollo ed erede.
Ufficialmente Balyndar era considerato figlio del sovrano.
I Quinti comprendevano membri di diverse stirpi ed erano
stati rifondati per raccogliere l’eredità dei Quinti originari sui
Monti Grigi. I precedenti guardiani della Porta di Pietra non
esistevano più da tempo.
Balyndar si fermò e osservò il cortile, che si allargava tra la
porta e l’accesso alle montagne. «Si procede bene», commentò,
tra le martellate incessanti.
Gli scalpellini scolpivano e sgrossavano i blocchi di pietra
per apportare migliorie alle torri. Poiché il Kordrion e le altre
vecchie minacce erano scomparsi, occorreva rinforzare il
baluardo contro i nuovi pericoli sconosciuti.
«Molto bene, oserei dire.» L’ufficiale indicò la torre là
davanti, di cui si distingueva solo il profilo nella bruma. «Le
fondamenta sono state consolidate a poco a poco, il muro
esterno allargato di due passi e le intercapedini riempite con
una miscela di argilla e paglia per attutire l’effetto dei
cannoneggiamenti. Abbiamo ispessito di qualche passo la porta
di granito, ampliando così il cammino di ronda.» Indicò verso il
basso. «I chiavistelli sono stati sostituiti. Da cinque sono
diventati dieci, come richiesto da tua madre.»
Due per ciascuna stirpe. Balyndar scorse le impalcature e i
paranchi con cui erano stati issati e applicati i materiali e le
immense barre.
I Quinti sgobbavano senza tregua, sotto il sole e i raggi
freddi delle stelle. Il cammino di ronda era stato allargato
anche per fare spazio a catapulte più grandi. Le prime
macchine erano già state montate.
«Queste misure, insieme con le nuove armi, impediranno un
nuovo ingresso del male», disse orgoglioso Balyndar, spostando
lo sguardo sulla strada larga trenta passi che, dopo mezzo volo
di dardo, si perdeva nel nulla apparente della nebbia.
L’ufficiale si avvicinò ai merli, guardando a destra e a
sinistra. «Non mi piace questo tempo. Sembra mandato da
Tion, non da Vraccas.»
«Perché?»
«Altrimenti sarebbe un vapore caldo e odoroso di acciaio
arroventato e carbone incandescente. Quello sì che mi sarebbe
gradito.» L’ufficiale posò una mano sul parapetto. «Questa non
è una buona rotazione.» Lanciò un’occhiata obliqua alla Lama
di Fuoco, tempestata di diamanti. «Meno male che ci sei tu.»
Balyndar era stupito da quel pessimismo. «La situazione
nella Terra Nascosta promette bene. Dopo un lungo periodo di
privazioni e oppressione arrivano tempi migliori. Non sono mai
nati così tanti bambini nani. Presto i Quinti torneranno a essere
numerosi», disse in tono incoraggiante.
L’ufficiale tacque, scrutando la foschia.
«Ripetimi il tuo nome», lo pregò Balyndar.
«Goïmbar Trovagemme del clan degli Occhidopale. Sono
entrato nella guarnigione della fortezza solo di recente.»
D’un tratto i fili di bruma presero a turbinare, disegnando
sagome che si trasformarono in alte figure dai lunghi mantelli
bianchi. Incespicarono e vacillarono come ubriachi, alcune
sostenendosi a vicenda, altre con gli indumenti costellati di
macchie e schizzi rossi. Le vesti e le armature erano ridotte a
brandelli.
«Lo sapevo. Non è una buona rotazione.» Goïmbar urlò un
ordine lapidario.
Le squadre accorsero dagli alloggi nelle torri e prepararono
in un lampo le catapulte.
«Li hai evocati col tuo catastrofismo.» Balyndar si avvicinò al
muro e fissò gli sconosciuti, perplesso. «Per Vraccas! Sono
abbigliati come elfi. È la prima volta che arrivano dal Nord.»
«Potrebbero essere Occhineri che vogliono ingannarci»,
obiettò Goïmbar mentre i soldati infilavano le fiaccole nei
sostegni. Si strinse la cintura intorno alla cotta e asciugò
l’umidità dal manico dell’ascia.
Le fionde per i giavellotti e i dardi si tesero crepitando
piano, le ruote dentate si azionarono e tirarono indietro le funi
spesse. Frammenti di pietra furono avvolti nelle corde da lancio
perché fossero scagliati contro il nemico a seminare
distruzione.
Balyndar trovò eccessivi tutti quegli sforzi per quelle poche
figure cenciose che si avvicinavano alla porta, ma non fermò
l’ufficiale. La prudenza non era mai troppa, soprattutto nel
Nord, dove i mostri cercavano costantemente di penetrare
nella Terra Nascosta. «Hai ragione. Potrebbe essere uno
stratagemma.»
In caso contrario, non aveva importanza.
Secondo le istruzioni dell’imperatore, non dovevano far
passare altri elfi. A quanto pareva, Samusin aveva deciso di
mandarne alcuni proprio dove sarebbero stati respinti.
Balyndar si concentrò sulle ferite degli sconosciuti. Non sono
state provocate da proiettili né da asce o spade.
Sembrava che interi pezzi di armatura fossero stati staccati
con violenza da una mano artigliata. Lo stesso valeva per gli
indumenti rovinati e i corpi; un elfo aveva perso una gamba,
altri due un braccio insieme con l’articolazione della spalla.
«Devono essersi imbattuti in un branco di orchi arrabbiati e
affamati che hanno cercato di mangiarli vivi», ipotizzò Goïmbar.
L’elfo più vicino alzò la testa verso il cammino di ronda ben
illuminato, agitando il braccio implorante.
«Vuole che li facciamo entrare.»
Le squadre gridarono che le catapulte erano pronte, poi –
dopo un ultimo clic meccanico – scese un silenzio carico di
tensione. Le fiaccole scoppiettavano piano e di tanto in tanto
sprigionavano scintille che si spegnevano danzando nella
bruma grigia e umida.
«Lo vorrei anch’io, se fossi ferito e avessi una speranza di
essere aiutato.» Balyndar posò la mano sulla Lama di Fuoco, la
cui magia lo proteggeva da quasi tutti gli incantesimi che
potevano colpire un guerriero in battaglia. Sentì su di sé un
pesante fardello. Non posso aprire loro la porta, ma… potrei
andare a controllare come stanno.
Usando una piattaforma e le carrucole delle impalcature
sarebbe stato possibile calare viveri, tende e un guaritore
affinché gli elfi potessero sopravvivere finché l’imperatore non
avesse modificato gli ordini.
«Non vorrai mica uscire?» Goïmbar sembrava avergli letto
nel pensiero.
Balyndar non rispose. «Ehi, laggiù. Chi siete, e chi vi ha
conciati così?» gridò agli elfi.
Una delle figure in fondo alla fila incespicò e cadde. Il suo
compagno tentò invano di rialzarlo mentre gli altri
proseguivano verso la porta. Il gruppetto si distribuì così su
una lunghezza di trenta passi.
«Fateci entrare, nani gentili», urlò il primo elfo, che
continuava ad agitare il braccio come se temesse di non essere
visto. «Ci sta alle calcagna. Per Vraccas e Sitalia, vi supplico.
Altrimenti ci farà a pezzi!»
Balyndar si voltò verso Goïmbar. «Di chi sta parlando?»
«Dobbiamo obbedire alle istruzioni dell’imperatore. Non
intendo farli entrare», ribadì l’ufficiale.
Allora si fa a modo mio. Balyndar ordinò di tirare su una
piattaforma di carico e di calarla sull’altro lato.
I nani si misero al lavoro, ma ci sarebbe voluto un po’ di
tempo, che forse i «Nuovi Arrivati» non avevano.
Ormai il primo elfo era davanti alla porta, i cui battenti
chiusi ermeticamente non avrebbero permesso neppure
all’insetto più minuscolo di strisciare nella Terra Nascosta. «Mi
sentite, figli del Fabbro?» urlò disperato. «Dovete darci
protezione! Ascoltate, eravamo cento, e questo è ciò che è
rimasto dopo che…»
«Guarda!» Balyndar indicò la foschia, dalla quale sbucò
un’altra sagoma.
Molto diversa da quelle degli elfi, sembrava appartenere a
un guerriero umano assai muscoloso, protetto da un’armatura
di cuoio marrone. La testa era infilata in un elmo di rame
decorato di rune; da dietro la schiena gli spuntava una piccola
asta su cui sventolava una bandiera bianca con caratteri verdi.
Gli stivali di pelle si alzavano e si abbassavano a ritmo regolare
mentre lo sconosciuto si avvicinava agli elfi passo dopo passo.
«Per Vraccas!» esclamò Balyndar. «È stato lui ad attaccare
gli elfi? A mani nude?»
Dalle braccia e dai pantaloni del guerriero gocciolava
sangue. Da lontano, gli schizzi che cadevano sul lastricato
grigio parevano neri come l’inchiostro.
«Quanto dev’essere forte per strappare braccia e gambe
dalle articolazioni?» Goïmbar, affascinato, guardò l’umano,
dalle fessure del cui elmo usciva un vapore biancastro,
probabilmente il respiro che si condensava nell’aria fresca.
«Attenti!» gridò Balyndar, per mettere in guardia gli elfi.
Il gruppo si voltò. Qualcuno lanciò grida di terrore e si
affrettò ancora di più verso la porta.
«Vi supplico!» Il primo elfo s’inginocchiò e protese le
braccia. «Aprite e salvateci da questa creatura. Non è terrena.»
Balyndar sfoderò la Lama di Fuoco e aspettò spazientito che
la piattaforma venisse trasferita dall’altra parte. «Resistete!»
gridò, non sapendo cos’altro dire.
Il guerriero aveva raggiunto gli ultimi due elfi della fila.
Quello steso a terra gli scagliò addosso il pugnale, ma la
lama rimbalzò sull’armatura. L’umano afferrò il malcapitato per
il piede e lo scaraventò verso la ripida parete rocciosa. L’elfo
sbatté la testa e, dalla sua posizione innaturale, Balyndar intuì
che si era fratturato l’osso del collo.
Nel frattempo l’altro elfo attaccò il mostro, con la spada. Gli
assestò un colpo di sghembo al capo, cercando allo stesso
tempo di piantargli una daga nella gola.
Balyndar fece tanto d’occhi quando vide l’acciaio andare in
frantumi contro il rame – un materiale assai più morbido –
come se fosse vetro, e poi la punta della daga scivolare sul
collo dell’aggressore senza neppure scalfirlo.
Con un gesto fulmineo, il guerriero premette i pugni a destra
e a sinistra della testa dell’elfo, all’altezza delle orecchie.
L’elmo dello sventurato si accartocciò come se fosse di cera
dipinta. Il metallo e le ossa non resistettero a quella furia
incontenibile. Dalla bocca, dal naso e dagli occhi uscirono
sangue e cervello; il viso si tramutò in una caricatura grottesca.
Il cadavere si afflosciò sul lastricato e l’aggressore proseguì,
inesorabile e indifferente come se avesse schiacciato una
mosca.
«Santi numi», mormorò Goïmbar.
«Chiama un disegnatore. Deve trascrivere ogni più piccola
runa sulla pergamena.» Balyndar saltò sulla piattaforma, che,
appesa a catene sotto i merli anteriori, aspettava soltanto di
essere mandata giù. «Fate fuoco con le catapulte contro il
guerriero!» Poi fece segno di abbassare la piattaforma.
Diversi nani salirono con lui, poi la catena sobbalzò e si
srotolò sferragliando.
Sopra di loro volarono dardi e giavellotti. Molti si spezzarono
contro la roccia dura della Porta di Pietra, ma altri piovvero
addosso all’aggressore, che si riparò allungando le braccia. Per
qualche istante il guerriero scomparve in una nuvola di cuspidi
metalliche, schegge di legno e aste spaccate; poi si riscosse e
riprese a camminare. La pelle lacerata sulle braccia nude si
rimarginava da sola.
Niente tagli profondi, niente ferite sanguinanti. «Un
avversario magico», disse Balyndar mentre un’altra scarica di
frecce e giavellotti sibilava verso il guerriero. Previde tuttavia
come sarebbe andata a finire. I proiettili comuni non lo
fermeranno. Impugnò con due mani la Lama di Fuoco. Ma
questa sì. «Restate indietro.»
Il guerriero sconosciuto, schivata la pioggia di acciaio, si
mise a correre verso gli elfi. I nani sui cammini di ronda, sulle
torri e sulla piattaforma assistettero impotenti mentre uccideva
senza pietà un elfo dopo l’altro, sfondando crani, strappando
membra oppure squarciando ventri ed estraendo viscere. Alle
sue spalle si allungava una scia rossa.
«Apriteci! Vogliamo solo la vostra protezione.» Il primo elfo
alzò le braccia, ma era debole e disperato, con le lacrime agli
occhi.
«Più veloci», ordinò Balyndar alle squadre operative. Non
poteva ancora saltare senza fratturarsi le gambe.
Poi ci fu uno scossone e la piattaforma si fermò a una
ventina di passi dall’ultimo superstite.
«La catena è scivolata fuori del tamburo», spiegò Goïmbar
da dietro i merli.
«Allora usate le corde. Sbrigatevi!» Balyndar resistette
all’impulso di provare a saltare. Potrei lasciarci le penne.
Intanto il guerriero aveva quasi raggiunto l’elfo
sopravvissuto. Costui udì i passi dietro di sé e abbassò
lentamente le braccia: ribellarsi sarebbe stato inutile,
l’avversario era invincibile. L’elfo alzò il capo e lanciò a
Balyndar un’occhiata accusatoria; poi un pugno che grondava
sangue gli spappolò il volto. Morì con un verso raccapricciante,
a metà strada tra un grido e un rantolo. Il cadavere si accasciò
di lato mentre il sangue che sgorgava dalla testa fracassata
formava una pozza davanti alla porta.
Il guerriero sconosciuto si girò verso la piattaforma, con
sottili volute di vapore bianco che uscivano dalle fessure della
visiera. Impassibile, parve domandarsi come raggiungere i nani
per continuare la strage.
«Resta dove sei!» intimò Balyndar, fuori di sé, brandendo la
Lama di Fuoco. «Se ti prendo, ti faccio a fette.» I diamanti
scintillarono quando un raggio di sole perforò la bruma e
illuminò l’arma.
Il guerriero, incuriosito, inclinò la testa e sbuffò.
«Dove sono le corde?» Balyndar non aveva mai visto rune
come quelle, cosa che tuttavia non lo stupì. La Terra dell’Aldilà
ospitava molti popoli e alfabeti sconosciuti. I simboli
sembravano conferire una forza incredibile all’aggressore.
Forze demoniche che occorre sradicare.
La piattaforma tremò. Le catene vibrarono, quindi cedettero
di colpo. I nani faticarono a restare in equilibrio. Il guerriero
svanì per qualche istante, poi la piattaforma toccò terra.
L’impatto fece vacillare Balyndar, che sgusciò sotto il
parapetto e salì sulle rocce insanguinate. «Ora tocca a te,
perfido figlio di Tion!» Tuttavia, quando sollevò la Lama di
Fuoco e si guardò intorno, vide che l’umano era stato
inghiottito dalla nebbia. «Codardo!» Lo seguì finché i suoi
compagni, preoccupati, non gli urlarono di tornare indietro.
Nella foschia potevano essere in agguato centinaia di nemici
che aspettavano solo di assassinare a tradimento un nano
imprudente.
Devo informare mia madre. Forse sa cosa significano le
rune. Balyndar si fermò e ordinò ai compagni di trasferire i
cadaveri sulla piattaforma e di tenerli al fresco con ghiaccio e
neve finché non avesse dato ordine di portarli nel Lesinteïl.
Il Rabbioso aveva vietato di far entrare altri elfi nel Paese,
ma le sue istruzioni non parlavano di corpi distesi su un carro.
Memore degli avvenimenti nella Terra Estinta, Balyndar
ordinò di spezzare l’osso del collo ai cadaveri per evitare che
tornassero sotto forma di morti viventi.
Assorto nei pensieri, rimase ai piedi della porta chiusa, con
le mani posate sulla testa d’ascia della Lama di Fuoco, e
osservò la bruma, solida come latte congelato. Credette di
udire a lungo l’eco dei passi del guerriero e il leggero garrito
della bandiera. Si sarebbe tranquillizzato soltanto quando gli
armaioli e gli ingegneri avessero ancorato alle mura le
macchine di nuova invenzione.
Sarebbe opportuno che Coïra esaminasse questa foschia. In
fondo è magica anch’essa. Balyndar guardò gli schizzi di
sangue elfico sulla porta e poi i morti che venivano caricati sui
pianali.
Alla fine entrarono nella Terra Nascosta, ma solo per essere
sepolti.
P
henîlas porse al sovrano la capsula di tionio che aveva
prelevato dal collo della bestia. «Fungevano da
messaggeri. Come temevo, Naishïon.»
Ataimînas era accovacciato nella grande sala dei
ricevimenti, avvolto in ampie vesti blu ricamate d’oro e
impreziosite da larghe fasce nere che si allungavano dal bacino
fin sotto le costole; le maniche si fermavano all’altezza dei
gomiti, gli avambracci erano protetti da risvolti di seta bianca,
le dita infilate in guanti di cuoio candido. Prese la capsula con
la sinistra, lasciando la destra mollemente posata sulla coscia.
«Per il Rabbioso», lesse. «Perché non è aperta?»
«È molto robusta.»
Ataimînas rise. «I nani e la loro arte del ferro battuto.»
Esaminò attentamente i simboli. «Sono stranamente arcuati.
L’autore non sembra averli disimparati, bensì modificati a bella
posta per comunicare che non viene dalla Terra Nascosta.»
Alzò gli occhi verdi su Phenîlas. «Di sicuro ci sono molte
spiegazioni ma, considerando le bestie che portavano le
capsule al collo, nessuna è di mio gradimento.» Chiamò un
sottoposto e lo incaricò di portare il contenitore nei laboratori.
«Trova il modo di aprirla», gli ordinò. Poi si rivolse a Phenîlas.
«Dobbiamo stabilire se il contenuto nasconda una grave
minaccia per noi.»
«Sono curioso.»
Il Naishïon continuò a fissarlo. «Secondo te, perché da
alcune rotazioni non arrivano più nuovi elfi nelle nostre terre?»
«Perché le porte sono state chiuse.» Era la risposta più
ovvia. Phenîlas non riusciva a immaginare attacchi ignoti
all’interno della Terra Nascosta e riteneva impossibile che il
flusso si fosse già esaurito.
«Lo credo anch’io. I miei messaggeri partiranno prima
dell’alba alla volta delle cinque catene montuose per avere
delle risposte. Spero che non c’entri la vecchia inimicizia.
Credevamo di averla superata.» Ataimînas girò leggermente la
testa e guardò trasognato i ritratti appesi alla parete. «Sei in
grado di dirimere la controversia per il trono tabaîniano?»
«Spero che il mio intervento sarà proficuo.»
«Non me ne faccio niente delle speranze. I cereali sono
indispensabili per i sudditi che devo sfamare. Le scorte sono
quasi finite e il raccolto nelle terre dei nostri vicini è
imminente. Ma è ancora più importante che il re ci conceda il
diritto di accesso ai suoi campi affinché possiamo coltivare il
nostro grano. Avevamo quasi convinto Natenian. Che cosa
sappiamo di Dirisa?»
«Niente», ammise Phenîlas. «La sua candidatura al trono è
giunta inattesa. Le spie di Natenian non avevano idea delle sue
intenzioni. Era considerata poco ambiziosa come tutti gli altri
membri del Consiglio, ma si direbbe che aspettasse solo
l’occasione propizia.»
«Altri imprevisti. Come la piccola umana che fa da cagnolino
a Mallenia.» Ataimînas fece un sorriso beffardo. «Risolvi la
questione, Phenîlas. Prima che la costernazione per la morte di
Raikan diminuisca e Dirisa trovi sostenitori. E scopri se è
manovrata da qualcuno.»
«Come desiderate, Naishïon.»
«Poi dovremo decidere come eliminare la ragazzina, perché
su questo punto sono d’accordo coi nani.» Ataimînas espirò
bruscamente. «Peccato che l’albo non l’abbia uccisa.»
«E ciò continua a stupirmi.» Phenîlas ricordava bene la
rapidità e la disinvoltura con cui l’avversario aveva seminato la
morte tra le guardie nella locanda. Le sue capacità erano
venute meno proprio con una ragazzina disarmata? «Prima
dell’inverno le succederà qualcosa.»
«Occupati anche di questo.» Ataimînas lo ripagò con un
sorriso. «Se porti a termine questi due compiti, ti nomino mio
vice.»
«Siete molto generoso, ma questo non susciterà le ire di
Ilahín? Sulla Pianura d’Oro gode di grande stima perché
s’interessa di ogni cosa ed è onnipresente. Io invece sono un
guerriero che fa il proprio dovere di nascosto.»
«Un impero ha bisogno di guerrieri segreti che si occupino
dei sudditi.» Il Naishïon tese il braccio per indicare l’uscita.
«Sai cosa fare.»
Phenîlas si alzò. «C’è ancora una cosa che potrebbe essere
fondamentale. Sul confine del Lesinteïl ho sentito parlare di un
gruppo di nani che seguiva le tracce della bestia fuggita. Si
sono messi in testa di trovarla e ucciderla.»
«Si parlava anche del soldato tabaîniano scomparso?»
«No.»
Ataimînas aggrottò le sopracciglia. «Un tentativo molto
debole di mandare un’unità in ricognizione nel Phondrasôn per
cercare il loro eroe.» Abbassò lo sguardo sulla capsula. «Falli
seguire da una squadra di cacciatori travestiti da albi.» Indicò
di nuovo l’uscita.
Non c’era altro da aggiungere.
N
ella luce fioca del muschio luminoso, Gosalyn guardò
il simbolo che contraddistingueva il cunicolo
claustrofobico in cui stava strisciando. «Vraccas, no!»
La runa era sua. Era già stata là e aveva imboccato
la diramazione sbagliata.
Il senso dell’orientamento innato per le gallerie, i tunnel e i
pozzi sotterranei sembrava non estendersi a quella parte della
Terra Nascosta, forse perché gli elfi e la maga avevano lanciato
degli incantesimi o perché in passato gli albi avevano vissuto
laggiù.
Perse anche la cognizione del tempo. Da quand’era saltata
nel buco potevano essere passate dieci rotazioni o anche
centinaia. I viveri diminuivano a poco a poco e gli altri membri
del gruppo parevano essere stati inghiottiti dal Phondrasôn.
Alla curva successiva si tenne sulla sinistra e tornò nella
stretta caverna che in cui era incappata durante l’esplorazione.
Sgusciò dentro e appoggiò subito la schiena alla parete per
evitare di essere aggredita alle spalle, quindi si concesse un
sonnellino per recuperare le forze. Il suo cervello, tuttavia,
continuò a lavorare.
Aveva stabilito che quasi tutti i cunicoli in cui si era
trascinata instancabilmente dovevano essere stati creati da
esseri simili a vermi. Le pareti dimostravano che non avevano
usato zappe né vanghe e che non avevano nemmeno fatto
ricorso alla forza. Le bestie avevano trovato i tunnel e li
avevano percorsi fino in superficie.
Al contrario dei mostri, la nana non aveva un fiuto così
sviluppato da captare i profumi impercettibili che ogni tanto si
spandevano nell’aria e che l’avrebbero aiutata a uscire dal
labirinto. In compenso sentiva l’odore opprimente del metallo
fuso e della scoria, e a volte anche di terra smossa perché le
belve erano state costrette a scavare in alcuni punti.
C’era un altro fattore che la preoccupava: gli elfi avevano
riempito il cratere, ma non sempre i detriti e la sabbia
costituivano uno strato compatto. Ogni volta che udiva la terra
cadere lentamente in un pozzo o in una galleria, sceglieva per
prudenza un altro corridoio.
Non aveva idea di cosa stessero facendo gli altri nani.
Dopo che erano entrati nel tunnel obliquo, la strada si era
biforcata all’improvviso. La bestia era andata loro incontro da
un cunicolo. Belogar si era scagliato contro il nemico e gli
aveva assestato una testata repentina che lo aveva catapultato
nell’altro pozzo.
Da allora Gosalyn vagava senza meta. All’inizio aveva
chiamato i compagni ma, non avendo ottenuto risposta
nemmeno con un colpetto in lontananza, aveva smesso di
urlare. Non di esplorare, però.
Per la nana, la priorità era la sopravvivenza, seguita dalla
ricerca di Tungdil Manodoro. Se avesse trovato gli altri,
sarebbe stato per volontà di Vraccas. Per il resto, affidò la loro
vita al Fabbro Divino.
«Segui la mia voce», echeggiò l’invito dello Zhadár nella
caverna. «So che mi senti, Gosalyn.»
Naturalmente lo Sradicatore si è salvato. La nana alzò la
testa. «Grida di nuovo, Carâhnios.»
Le risa esagerate dello Zhadár echeggiarono al suo fianco.
«Uno scherzetto», ridacchiò lui. «Ho pensato di venire a
prenderti.»
Gosalyn si tirò su, col cuore che galoppava per la paura. Non
l’aveva sentito arrivare né aveva scorto la sua sagoma. «Grazie.
Dove sono gli altri?»
«L’altro, vorrai dire.» Lo Zhadár la prese per mano e se la
trascinò dietro. «Seminamorte ci sta aspettando. La bambolina
con la cicatrice è rimasta di sopra e probabilmente è stata
dilaniata dalla bestia. Un vero peccato.» Tirò su col naso, poi
rise. «Saremmo stati una bella coppia. Anzi, bellissima. Tanto
più che condividevamo un segreto, noi due.»
Gosalyn non indagò perché le sembrava tutto inventato di
sana pianta. «E Belogar?»
Carâhnios chiuse la bocca di scatto, facendo schioccare i
denti. «Divorato. Che tonto.»
«Come osi insultarlo?» Gosalyn avrebbe voluto colpirlo con
un sasso o addirittura con l’arma per avere offeso il suo amico.
«Si è sacrificato per me.»
«Ti sbagli. È stato soltanto stupido.» Carâhnios pareva
totalmente privo di compassione. «Come si può combattere con
una bestia di Narshân in un posto come questo? Gli ho
suggerito di seguirmi, ma ha voluto fare l’eroe. Ora è finito
nello stomaco della belva, è diventato il suo spuntino.» Un altro
schiocco, poi una risata. «Questo luogo mi fa venire fame.
Fame, fame, fame!»
Gosalyn dovette affrettarsi per tenergli dietro.
Lo Zhadár la guidò in una parte del labirinto dove la
pendenza aumentava. Iniziarono a scivolare, e la nana dovette
concentrarsi per non ruzzolare e anche per cercare
d’imprimersi il percorso nella memoria.
La perdita di due guerrieri riduceva le probabilità di trovare
Tungdil Manodoro senza altre vittime tra le loro file.
Le gallerie luccicavano nel chiarore verdastro del muschio
luminoso, le pareti erano di roccia massiccia. Dovevano essere
in una zona del labirinto che era chiaramente più antica e si
estendeva sotto il cratere. L’aria, ora più calda, puzzava di
escrementi e di spazzatura, ma anche di fumo. Da qualche
parte ardeva un fuoco.
Le suole di Gosalyn sdrucciolarono sul terreno liscio. Erano
arrivati in una piccola grotta il cui lato sinistro era franato e,
per qualche misterioso motivo, era stato spianato da qualcuno.
Chi potrebbe avere costruito una rampa così gigantesca?
Nel soffitto si aprivano fori larghi quanto una persona, da cui
scendeva una miscela indurita di vetro, scoria e metallo, che
formava colonne capaci di sostenere il locale.
Gosalyn ipotizzò che fossero il risultato dei tentativi elfici di
rendere impenetrabile il cratere. Non poté fare a meno di
guardare le colonne. Sono bizzarre, ma bellissime. La scoria
era colata e si era raffreddata formando flussi discendenti.
«Ci siamo quasi.» Carâhnios la trascinò oltre un mucchio di
grossi massi dietro il quale Hargorin sedeva davanti a un
focherello, che aveva acceso con lo sterco essiccato. «Eccoci
qui!» esclamò lo Zhadár, trionfante, sollevandole il braccio. «Ce
l’hai fatta, guerriera! Sei sopravvissuta. Per il momento. Ma chi
può saperlo? La morte è in agguato ovunque!» Si appoggiò alla
roccia, chiuse gli occhi e cominciò a russare, ridacchiando e
schioccando le labbra al tempo stesso.
Gosalyn era incredula. «Sta dormendo. Per Vraccas, sta
dormendo!»
«Lascialo riposare.» Hargorin, che aveva perso peso, le
allungò la borraccia. «Spero che Samusin ci conceda un
rimpiazzo per le nostre perdite, altrimenti dubito che
torneremo vivi.»
La nana bevve un piccolo sorso. «Percorreva i tunnel come
se fosse già stato qui.»
«Forse è così. Avrà viaggiato in lungo e in largo per la Terra
Nascosta mentre cercava gli albi. Non mi meraviglierebbe.»
Hargorin guardò le fiamme tremolanti. «Che cosa possono fare
gli elfi contro il suo potere?» Spostò gli occhi sullo Zhadár. «Per
noi è una fortuna che sia qui.»
Gosalyn si rilassò. Il dolore per la perdita del caro amico le
fece salire le lacrime agli occhi. Deglutì a forza e bevve un altro
sorso prima di restituire la borraccia. Non poteva farsi assalire
dai dubbi.
Visualizzò la mappa della Terra Nascosta, sotto la quale
alcuni tunnel si diramavano dal Phondrasôn. Il Paese si
estendeva verso est fino alla Forra Oscura e verso nord fino
alla Porta di Pietra. La missione avrebbe richiesto diversi cicli
solo per le distanze da coprire.
Esisteva ancora una fievole speranza: con un po’ di fortuna
si sarebbero imbattuti nel sistema di tunnel abbandonato che
era stato costruito dai nani. Non c’erano la manodopera, il
tempo né le attrezzature necessarie per ricollegare i regni dei
nani coi vagoncini. Nei tratti rimasti, tuttavia, c’erano diverse
uscite che conducevano nella Terra Nascosta.
Quante volte i nostri antenati hanno attraversato il
Phondrasôn senza saperlo? Gosalyn lanciò un’occhiata
sprezzante a Hargorin. In tre, senza viveri e senza sapere dove
cercare. Tanto vale lanciare un sasso nella galleria successiva e
sperare che colpisca un unicorno.
Il nano allungò le mani verso il fuoco e canticchiò.
N
ella galleria, l’oscurità prodotta dall’albo era
impenetrabile per gli occhi dei nani.
Gosalyn, tuttavia, sapeva che l’avversario stava
incoccando una freccia e si buttò a terra. «Mettetevi
al riparo!» urlò. Non sapeva se il dardo fosse
destinato a lei.
Udì il sibilo, ma non aveva idea di dove la freccia si fosse
conficcata. Poiché non era risuonato il tonfo di nessun corpo,
sperò che il gruppo fosse incolume.
D’un tratto ricominciò a vedere, ma si rese conto della paura
che la pervadeva e le accelerava il battito.
L’albo, che indossava un’armatura uguale a quella dell’elfo
morto, aveva colto di sorpresa Hargorin attaccandolo con uno
spadone; l’arco era posato a terra. Il nano parò il fendente con
l’ascia e cercò di respingere l’avversario col manico. Ma l’altro
schivò i colpi e lo centrò alla tempia, mandandolo a sbattere
contro la parete e tramortendolo.
«Ti ucciderò, traditore», disse l’albo in tono maligno,
preparandosi a un nuovo attacco. «Che Tion ti rubi l’anima.»
Gosalyn era come paralizzata. Il terrore che il nemico le
aveva scatenato addosso le impedì di aiutare Seminamorte.
Devo fare qualcosa. Non posso permettere che la paura trionfi.
Caparbia, fece un passo avanti, pensando alla melodia cantata
dal comandante. Il più grande rifugio è la tua volontà, sempre il
vincitore sarai. «Guarda, resisto ai tuoi poteri!» gridò all’albo.
L’altro si bloccò e la fissò con occhi luminosi e rossastri.
«Non farai altro che prolungare la tua agonia e quella di questo
verme delle montagne.» Posò la punta della lama sul collo di
Hargorin, sotto la laringe. «E soprattutto non mi fermerai.
Trascinerò i vostri cadaveri dal Naishïon e dirò che eravate
spie dell’imperatore.»
«Mai. Phenîlas sa cosa…?» Gosalyn si morsicò il labbro.
Com’è riuscito a farla in barba agli elfi? Oppure sapevano di
avere un albo tra le loro file?
«Phenîlas sapeva di voi, certo. Tutti sanno di voi.» L’albo
rise. «Ma avvierò una protesta formale a nome del Naishïon
durante il Consiglio dei Re, e la stella dei nani nella Terra
Nascosta tramonterà.» Sputò addosso a Hargorin. «Mi basta
essere sicuro che la discordia tra voi cresce e dà buoni frutti.»
Lui? Nel Consiglio? Gosalyn, stimolata dalle novità, fece un
altro passo. Aveva la sensazione di camminare
intenzionalmente sul ghiaccio sottile, destinato a rompersi da
un momento all’altro e a gettarla nell’acqua gelida, dove
sarebbe morta assiderata. «Ti uccideranno.»
«Mi scambieranno per un elfo.» L’albo alzò il braccio, per
decapitare Hargorin. «T’inviterei in veste di testimone, ma
temo che mi servirà il tuo orrendo cranio, talpa schifosa»,
aggiunse sprezzante, abbassando l’arma.
Ma, prima che la lama penetrasse nella carne del nano,
Carâhnios comparve come se fosse stato portato dalle ombre e
con la Sanguinaria parò il fendente.
«Zhadár», sibilò l’albo, sferrandogli un calcio. «Un altro
traditore!»
Col pugno corazzato Carâhnios bloccò la suola. Schivò il
colpo successivo e ne sferrò uno a sua volta.
La paura abbandonò Gosalyn. L’albo non riusciva a
mantenere l’energia magica. Tra lui e Carâhnios iniziò un
duello rapido, pressoché impossibile da seguire.
Quando la nana si mosse per andare in suo aiuto, lo Zhadár
le fece segno di restare indietro. «Occupati di Hargorin!»
ordinò trionfante. «Mi piace divertirmi con un Occhineri.»
Gosalyn corse da Seminamorte, che era accovacciato a terra
col volto insanguinato e tentava di tirarsi su.
«È solo un graffio», ringhiò il nano, afferrando il manico
della scure. «Facciamolo a pezzi.»
Gosalyn lo aiutò ad alzarsi e lo sorresse.
Il guerriero barcollò leggermente, ancora stordito dal calcio.
L’ammaccatura dell’elmo dimostrava che l’albo calzava stivali
con la punta ferrata.
Carâhnios era in difficoltà. L’avversario aveva estratto uno
spadino. Oltre a far fronte alla straordinaria velocità e abilità
dell’albo, lo Zhadár dovette parare un numero crescente di
colpi.
Gosalyn si accorse che negli attacchi del nemico non c’erano
più spiragli di cui Carâhnios potesse approfittare. «Che tu lo
voglia oppure no, noi ti aiutiamo!» gridò.
All’improvviso lo Zhadár scivolò sui detriti. L’albo fece un
affondo e tentò d’infilzarlo tenendo la spada dritta.
La nana intuì che Carâhnios non aspettava altro: infatti si
lasciò cadere a terra, e la lama gli passò sopra la faccia.
Allungandosi, l’albo rimase col fianco scoperto. La Sanguinaria
scivolò in diagonale da dietro in avanti, mirando esattamente al
ventre.
L’albo capì di avere commesso un errore fatale, ma ormai
l’arma gli aveva già trapassato la corazza e la carne.
Gemendo fece un salto indietro, mentre il sangue prese a
uscire dalla ferita. «Perirete con me!» urlò. Le linee dell’ira gli
comparvero sul volto.
L’oscurità tornò a scendere su Gosalyn, che con Hargorin
aveva quasi raggiunto il nemico.
Si udì un tintinnio, poi Seminamorte ansimò e scivolò dalla
presa di Gosalyn; la nana ricevette un colpo alla spalla, ma lo
intercettò con l’ascia prima che le rimbalzasse sulla cotta e la
ferisse al collo.
Anche Carânhios gridò, ma più di rabbia che di dolore.
«Perfido codardo!» tuonò. «Prenderò il tuo sangue e lo farò
bollire! Ti dissanguerai vivo e rimpiangerai di non essere morto
subito!»
Dove si è cacciato? Gosalyn sfoderò il pugnale, tese il
braccio e si girò all’interno della galleria, che nell’oscurità
assoluta sembrava più ampia.
Di lì a qualche istante le tenebre si dissiparono e l’albo si
materializzò al suo fianco.
Gosalyn sapeva che non aveva tempo di voltarsi o di fare
qualcosa, e questo la salvò.
«Via!» Una figura le saltò addosso e la buttò a terra.
La nana atterrò sulla pietra e vide Beligata distesa sopra di
sé. L’altra rotolò via impugnando la doppia ascia con entrambe
le mani.
Hargorin, accovacciato poco lontano, si teneva lo schiniere
destro, da cui spuntava l’osso. Carâhnios si tirò su imprecando;
la spada albica gli aveva inferto una ferita all’avambraccio
destro.
Due passi più in là, davanti all’albo si piazzò un nano in
un’armatura di tionio malconcia. «Ho incontrato molti
rappresentanti della tua razza, ma ne ho rivisti pochissimi
vivi», disse con calma, come se stessero chiacchierando tra
amici.
L’albo attaccò.
Tungdil lasciò che la lama si frantumasse sullo spallaccio
destro – quello ancora intatto – e scagliò prima il sasso che
teneva nella destra e poi quello che stringeva nella sinistra.
I proiettili spigolosi centrarono l’albo in pieno viso,
tramortendolo. Il sangue prese a gocciolare dagli squarci sulla
fronte e sul naso.
Gosalyn si alzò e affiancò Beligata. «Chi è?» Rabbrividì
osservando il volto sfigurato del nano.
Tungdil prese la spada dell’albo e lo decapitò senza tante
cerimonie. «Mi chiamo Tungdil Manodoro. Beligata mi ha detto
della vostra impresa. Sono tornato indietro per ripagarvi del
vostro coraggio.»
Gosalyn era stupefatta. Vide le particelle d’oro sul dorso
della mano di Tungdil. Non aveva mai incontrato di persona
l’eroe della Terra Nascosta perché, avendo meno di cento cicli,
era troppo giovane. In compenso conosceva le storie, le
canzoni, i ritratti e le statue che lo celebravano, ma non aveva
mai sentito parlare di una faccia deturpata. Però quel nano non
aveva l’occhio sinistro, come riferivano le descrizioni. È una
prova sufficiente? Confusa, guardò Beligata.
«Non lo so», rispose la guerriera, che aveva dedotto i suoi
pensieri taciti da quello sguardo interrogativo. Andò da
Seminamorte ed esaminò l’osso spezzato. Si tolse la cintura per
legare la ferita e steccare con due pugnali la gamba.
Carâhnios puntò su Tungdil occhi colmi di diffidenza. «Tu
saresti l’Erudito?»
«Dove hai preso la mia arma?» Corrucciato, Tungdil guardò
la Sanguinaria. «Non dovrebbe essere qui.»
«Ce l’aveva l’altro Tungdil, quello che ha liberato la Terra
Nascosta dal male e che per fortuna è dovuto morire.» Lo
Zhadár si appoggiò alla spada. «Nessun altro sapeva
maneggiarla.»
Tungdil gli rivolse un’occhiata penetrante. «Che cosa sei? Di
certo non un figlio del Fabbro.»
«Lo ero. Un Terzo. Trasformato dagli Occhineri, istruito nelle
loro arti e ultimo di questa specie.» Carâhnios ridacchiò e
sbuffò. «Quanti ne sono rimasti come te, Tungdil Manodoro?
Compariranno nuove copie di te a ogni piè sospinto e gioiranno
di essere tornate? Potreste fondare una nuova stirpe.»
Nessuno si unì alla sua risata tonante, il cui possibile fondo
di verità era innegabile.
«Sono l’unico vero Erudito», dichiarò Tungdil, con voce
calma e molto bassa.
Carâhnhios pescò la fiala dallo zaino e l’accostò al collo
dell’albo. Con gesti esperti schiacciò il petto del cadavere per
spremere più sangue. «Se non altro, mi è concesso questo»,
mormorò sghignazzando. Gli occhi neri scintillarono di piacere
mentre osservavano attentamente il liquido che si riversava nel
piccolo recipiente. «Rifornimento per il mio elisir. Quello…»
Il fendente fu così fulmineo che nessuno lo vide arrivare né
poté impedirlo. Con la spada, Tungdil trapassò la nuca dello
Zhadár inginocchiato e abbassò con forza la lama fino al
cadavere dell’albo. La faccia di Carâhnios rimase inchiodata al
ventre del nemico.
Infine Tungdil s’impossessò della Sanguinaria e la studiò
pensosamente. «Non dovresti essere qui, né tantomeno tra le
mani di una simile creatura.»
Intorno allo Zhadár turbinarono lunghi fili neri che, simili a
serpenti, circondarono Carâhnios come se volessero
schiacciarlo. L’oscurità si allargò intorno al suo elmo, azzerando
la luce. Lo Zhadár sussultò e cercò di sfilarsi la lama dal collo e
di liberarsi. L’elisir gli conferì il potere di resistere alla morte
nonostante la gravità della ferita.
Gosalyn e gli altri fissarono la scena finché non ridiventò
buio, ma le tenebre artificiali tremolarono e si tinsero di grigio,
schiarendosi e infine scomparendo.
«So cosa sei diventato, perché conoscevo quelli che ti hanno
trasformato in ciò che sei», disse Tungdil, per nulla intimorito
dai fili neri. «Cattivo fin nel midollo.» Conficcò la Sanguinaria
nella schiena dello Zhadár.
Carâhnios urlò e si dimenò con tutte le forze. Ma i denti
della spada lo immobilizzavano, legandolo all’albo morto, il cui
cadavere fu sballottato qua e là.
«Nulla di malvagio deve funestare il mio Paese, nemmeno se
finge di fare qualcosa di buono. L’ho giurato a Vraccas.»
Tungdil raccolse un grosso masso. Impassibile, tolse l’elmo allo
Zhadár e con pochi colpi gli sfondò il cranio.
Dalla faccia di Carâhnios sgorgò un sangue nero che bagnò
anche l’albo. Lo Zhadár smise di dibattersi e di ansimare. Era
morto.
«Torniamo indietro.» Tungdil sorrise ai nani, che si
avvicinarono cautamente. Mollò la pietra. «Io e Beligata
abbiamo segnato la strada. Se superiamo la grotta crollata, non
dovrebbero esserci difficoltà.»
«Dovrai dare spiegazioni all’imperatore.» Hargorin aveva il
viso rugoso contratto in una smorfia di dolore, ma cercò di
mostrarsi forte.
«Gli spiegherò ogni cosa, anche le proprietà delle bevande e
degli elisir dei gemelli trigemini, che hanno creato esseri come
quello da cui vi ho liberato. Nani fuori, albi dentro.» Tungdil
non tradì la minima tensione.
«Voglio prendere le teste dell’Orecchio appuntito e
dell’Occhineri. Dimostrano che nei regni elfici sta accadendo
qualcosa di sinistro», dichiarò Hargorin.
Tungdil si oppose. «Le nostre parole sono una prova
sufficiente per le stirpi dei nani. Gli altri non ci crederebbero
ugualmente. Ora andiamocene. Le gallerie sono fragili. Possono
franare da un momento all’altro, e non sono venuto per restare
sepolto quaggiù.»
«Aspettate.» Beligata perquisì prima l’elfo e poi l’albo. Il
secondo aveva con sé due piccoli flaconi con scritte in rune
albiche. «Che cosa contengono?» Li sollevò.
«Occhi di elfo», tradusse Hargorin. «Che roba è?»
Tungdil si mise alla testa del gruppo e s’incamminò
lentamente. «Immagino che lo usino per tingersi gli occhi
affinché il nero non li tradisca sotto la luce del sole.» A ogni
passo gettava via un pezzo dell’armatura sudicia e malconcia. I
frammenti caddero tintinnando e sferragliando. «Occhi come
quelli degli elfi.»
È così che l’albo è riuscito a ingannare gli Orecchi appuntiti,
si disse Gosalyn. Dall’espressione degli altri intuì che erano
arrivati alla stessa conclusione.
Quella scoperta faceva nascere altre domande, cui sarebbe
stato impossibile rispondere sotto terra.
Gli albi si erano già infiltrati tra gli elfi? Il loro avversario
era uno degli Occhineri sopravvissuti nella Terra Nascosta?
Oppure aveva intercettato di nascosto un elfo nel Phondrasôn e
gli aveva rubato la corazza?
Perché il re degli elfi ha tentato di ucciderci? Gosalyn
sorresse Seminamorte insieme con Beligata e scavalcarono i
pezzi di tionio, che valevano una fortuna.
La nana aveva l’impressione che Tungdil non volesse avere
nulla a che fare col passato. Aveva rinnegato l’oscurità e si era
sbarazzato dell’armatura come se fosse un guscio, un bozzolo,
per uscirne purificato e salire verso la luce.
Disarmato. Inerme.
Quella scena non aveva niente in comune con la comparsa
marziale dell’altro Tungdil, le cui intenzioni non avevano
incontrato il favore degli spiriti.
Si è liberato perfino della potente Sanguinaria. In Gosalyn si
accese la vaga speranza di avere trovato il vero Tungdil, o di
essere stata trovata da lui.
«Se la sua anima riesce a disfarsi con la stessa facilità delle
tenebre degli ultimi duecentocinquanta cicli, la Terra Nascosta
ha un futuro roseo. Ma solo in questo caso», sussurrò Beligata,
la cui cicatrice spiccava fin troppo chiaramente.
G
osalyn, Hargorin e Beligata, guidati da Tungdil,
impiegarono molto tempo per aprirsi un varco tra gli
spazi vuoti della grotta franata e poi per trovare un
passaggio verso l’esterno.
Fu faticoso. Il sudiciume e la sabbia si mescolavano
al sudore, formando croste sulla pelle, che prudeva, s’irritava e
si scorticava.
A rallentarli maggiormente era la gamba di Seminamorte,
ma anche le ferite delle nane si facevano sentire, e furono
necessarie pause più frequenti. Come se non bastasse, l’acqua
si esaurì e la disidratazione mise a dura prova i loro corpi,
portandoli al limite della sopportazione.
Camminando videro le crepe nelle pareti, di cui Tungdil si
era già accorto. Dalle viscere della terra salirono diversi boati,
quindi rovinò un’altra galleria. I crolli lasciavano il male
sempre più indietro.
Vraccas tuttavia fu clemente. Alla fine, esausti, i nani
spuntarono nel cuore della notte in un luogo diverso dal punto
di partenza, dove non restarono impigliati nei rovi né furono
attaccati dai mostri.
Strisciarono fuori tra le radici di un albero e si ritrovarono in
un boschetto di mele turchine. Cercarono riparo dalla
pioggerella sotto i rami frondosi. Erano così stremati da non
avere neppure l’energia di lavare via la sporcizia sotto
l’acquerugiola tiepida.
A eccezione di Tungdil.
Sembrava avere superato l’arrampicata meglio degli altri.
Accese il fuoco, prese le borracce vuote e si allontanò di
qualche passo per raccogliere le gocce che cadevano dalle
foglie. Infine restituì i recipienti ai compagni.
Gosalyn lo osservò stancamente. Vraccas, può essere vero?
Pensò a Belogar e trattenne le lacrime. La sua morte è stata
così atroce, così assurda.
Tungdil tornò sotto la pioggia e si fermò a guardare il cielo
come se non potesse smettere di ammirarlo, benché non ci
fossero le stelle. Le gocce non lo infastidivano, anzi le raccolse
tra i palmi e si lavò il volto orribile. Ormai l’eroe della Terra
Nascosta indossava solo una tunica cenciosa, che emanava un
puzzo penetrante di sudore e sporcizia.
Beligata sciolse la benda di fortuna che aveva applicato al re
dei Terzi e sospirò. «Si è infiammata.»
«Chissà cosa c’era sulla spada dell’Occhineri.» Hargorin
esaminò la ferita. «Finirà male. Vedo la linea nera che si
allunga verso l’alto.»
«Ci serve aiuto.» Gosalyn si pulì il viso scarno con l’acqua
della borraccia. Erano dimagriti tutti. «Vado a dare
un’occhiata.» Si apprestò ad arrampicarsi sul tronco. Prima che
le proteste si facessero troppo veementi, si era già staccata di
alcuni passi dal terreno sebbene le bruciassero i muscoli e le
dolessero le dita. «Dall’alto si vede meglio.» I rami bagnati non
semplificarono l’impresa, ma riuscì ad arrivare alla chioma e a
infilare la testa tra le foglie.
Il cielo era nuvoloso. Tutt’intorno si stendeva un bosco buio,
apparentemente sconfinato in tutte le direzioni. Non c’erano
luci né radure. Senza stelle era impossibile determinare la
propria posizione. Così avrebbero dovuto aspettare il mattino
per decidere dove andare.
La nana, tuttavia, provò la sensazione delle gocce sulla pelle,
che bagnavano e lavavano via la sabbia incrostata. Mentre
scendeva, raccolse alcune mele per dividerle con gli altri. Il
sapore fresco e acidulo e soprattutto la polpa dei frutti
sarebbero stati un toccasana.
Tornata a terra, vide che Tungdil stava distribuendo le
borracce dopo averle riempite di nuovo. Quando Gosalyn
mostrò il bottino appetitoso, il morale del gruppo si sollevò un
poco.
«Io faccio il primo turno di guardia.» Tungdil si avvicinò a
Hargorin. Non puzzava più come prima, ma la veste avrebbe
avuto bisogno di sapone e lavatoio. «Sai che dovremo
amputarti la gamba se non troviamo un guaritore al più presto,
vero?»
Il re dei Terzi annuì. «Se dovesse accadere, me ne farò
fabbricare una d’argento. Dovrò cambiare nome, non potrò
spaccare crani e sfondare porte con un calcio», replicò con un
umorismo nero.
«Perché vuoi fare la guardia?» Beligata si esaminò
l’armatura lurida. «Non è necessario guardarsi dagli elfi, e le
bestie non possono seguirci. L’unico accesso ai cunicoli era la
grotta.»
Tungdil fece un sorriso che conferì alla sua faccia un aspetto
ancora più spaventoso. «Meglio tenere un occhio aperto
mentre tutti gli altri sono chiusi.» Bussò sul tronco. «Potremmo
essere uccisi da un albero, per esempio.» Fece l’occhiolino e si
tirò indietro i capelli bagnati, quindi si strizzò la barba.
Gli ha fatto bene lasciare il Phondrasôn. Gosalyn aveva le
ossa stanche e le palpebre pesanti. Ma aveva molte domande
da fare all’eroe di un tempo.
Tungdil invece non ne aveva nemmeno una pur avendo
vagato nel labirinto per duecentocinquanta cicli e non sapendo
quale fosse la situazione nella Terra Nascosta.
«Perché non hai preso la Sanguinaria?» gli chiese Gosalyn,
insonnolita.
Tungdil aggiunse al fuoco i rami secchi che aveva trovato
intorno all’albero. I legnetti bruciarono crepitando. Beligata e
Hargorin avevano chiuso gli occhi e facevano respiri profondi.
«Perché quell’arma non c’entra più nulla con la Terra
Nascosta.» Tungdil sorrise amichevolmente. «Reca in sé la
malvagità di un Eterno. Credevo che fosse un trionfo, quando
ho riforgiato la sua spada e l’ho sottomessa. Tuttavia l’oscurità
è rimasta chiusa al suo interno, e anche nella mia armatura di
tionio. M’influenzavano.» Il nano abbassò la voce. «Ho
scacciato il male.»
«Che cosa aveva l’armatura?»
«Mi ha reso un buon servigio e mi ha protetto, ma è stata
forgiata con rune albiche, fabbricata col sapere albico e intrisa
di magia dannosa che non posso e non voglio più sfruttare.»
Tungdil si tolse la tunica fradicia e la gettò sotto la pioggia,
restando soltanto con un panno intorno ai fianchi. «Puzzo come
se avessi nuotato in una cloaca.»
Gosalyn sogghignò. «Nessuno di noi profuma di limpido lago
montano.» Se gli occhi non la ingannavano, il corpo dell’eroe
era solcato da cicatrici di varie dimensioni: le più lunghe
derivavano da tagli, le più corte da coltellate o impatti di
frecce.
Tungdil addentò una mela e chiuse l’occhio. Rilassò il viso e
masticò solennemente. «Queste non c’erano nel regno dei
demoni da cui sono fuggito. Deliziosa. Ha un sapore così
squisito che dopo averla mangiata si potrebbe morire perché
non esiste di meglio», sussurrò.
«Arriveranno cose molto migliori. Pensa alla birra che solo
noi sappiamo produrre», lo contraddisse Gosalyn.
Tungdil scoppiò in una risata calda e benevola. «È uno dei
ricordi che mi hanno tenuto in vita.» Sollevò la palpebra e fece
l’occhiolino. «D’accordo, è una frottola, ma sono impaziente di
brindare col mio amico Rabbioso. Alla sua nomina a
imperatore.» Diede un altro morso alla mela. «L’altro Tungdil è
morto, allora?»
Gosalyn annuì. «Trafitto dalla Lama di Fuoco.»
«Chi la maneggiava?»
«Kiras, una discendente di…» La nana aveva difficoltà a
ragionare lucidamente.
«Sirka», finì Tungdil, triste e commosso. «Sono stato via
troppo a lungo pur non avendone mai avuta intenzione. La mia
anima è stanca e desidera un po’ di riposo. Perdonami se
quando ci siamo incontrati ti sono sembrato rozzo e brusco.»
Notò che l’altra reprimeva uno sbadiglio. «Dormi. Domani
dobbiamo viaggiare spediti per trovare un guaritore. Altrimenti
temo che Hargorin dovrà ricorrere davvero a una gamba
d’argento.» Attizzò il fuoco, e il legno si sgretolò in piccoli
frammenti neri. Il calore e il leggero scroscio della pioggia
conciliavano il sonno. Tungdil aggiunse rami più grossi.
«Veglierò su di te, Gosalyn, e anche sui tuoi amici e presto sulla
Terra Nascosta.»
«Davvero?»
Le fiamme scoppiettarono, le scintille salirono danzando
verso le foglie, il calore fece ondeggiare i rami.
«Sì, non appena la mia anima si sarà ripresa.»
Gosalyn si abbandonò contro la corteccia del melo e scivolò
in un sonno profondo.
I
l Rabbioso galoppava verso la stazione di sosta da cui era
partita la squadra incaricata di cercare Tungdil Manodoro.
Lo zoccolio del cavallo si fondeva col calpestio degli altri
animali.
L’imperatore era accompagnato da un drappello di
trenta guerrieri. Era possibile che alcune forze nella Terra
Nascosta non vedessero di buon occhio il ritorno del grande
eroe. Dopo la strana conclusione del Consiglio, Boïndil temeva
altre sorprese. Perciò aveva preferito affidarsi alle armi e agli
scudi dei nani.
Si era stupito di ricevere la notizia del rientro della squadra
poco dopo essere arrivato sui Monti Blu. Aveva avuto appena il
tempo di ascoltare i resoconti di Goda sulla costruzione degli
edifici fortificati mentre faceva sellare un nuovo pony, per poi
ripartire subito alla volta del Nord. Poiché i tunnel veloci non
erano utilizzabili, l’alternativa – ancorché sgradevole – era
andare a cavallo.
Boïndil superò la quercia sotto cui aveva sepolto Tenkil e
pregò Vraccas di vegliare sull’anima del coraggioso guerriero.
Senza di lui non avremmo saputo nulla del Sapientone.
All’orizzonte si profilò la stazione di sosta, nel cui recinto
trottavano solo due cavalli. Si sarebbe detto che ci fossero
molti messaggi da recapitare, se tutti i portaordini erano in
viaggio. Senza sapere il perché, Boïndil fu turbato da quella
constatazione.
Svoltarono verso l’edificio con le stalle annesse e si
avvicinarono come una lunga nuvola di polvere, che rotolava
accompagnata dal tintinnio e dallo sbatacchiare di armi e
corazze.
Il capitano comparve sulla soglia e osservò gli ospiti inattesi.
Impugnava mollemente la spada sguainata, ma la rinfoderò
quando riconobbe l’imperatore. «Ma guarda cosa mi tocca
vedere!» esclamò soverchiando il fracasso.
Il corteo si fermò. Gli sbuffi di polvere fluttuarono verso
l’uomo come banchi di nebbia.
«Rieccoti, ma non so se le nostre scorte di birra basteranno
per tutti questi rappresentanti della tua specie.»
Boïndil rise e smontò. «Non resteremo a lungo. Tu e i tuoi
uomini tenetevi pure quella brodaglia ghiacciata.» A un suo
cenno, dieci nani scesero da cavallo e lo seguirono, mentre gli
altri rimasero ai loro posti. Il Rabbioso si diresse verso il
capitano. «Sono Boïndil Duelame del clan dei Branditori
d’ascia, della stirpe dei Secondi, nonché imperatore delle stirpi
dei nani.»
«Sapevo già chi sei. La tua corporatura, la tua arma, ogni
cosa di te è arcinota nella Terra Nascosta. Insieme con lo
stemma e le insegne, dovrei essere cieco per non riconoscerti.»
Il capitano s’inchinò. «I tuoi amici ti aspettano dentro. Se la
sono passata bene, da noi.»
Il Rabbioso non stava più nella pelle. Che aspetto avrà? Che
cosa gli sarà successo? Sarà diverso dall’altro Tungdil? La sua
mente era un turbinio di pensieri quando varcò la soglia. Aveva
la bocca secca e il sangue che gli ronzava nelle orecchie per
l’agitazione.
A un tavolo sedevano Beligata, Gosalyn e Hargorin, che
avevano un’aria molto provata. Il guerriero dai capelli rossi non
aveva più la gamba destra e al moncone era applicata
un’imbottitura morbida, come se dovesse infilarsi un arto di
legno. Al bordo del ripiano erano appoggiate due stampelle.
Nonostante ciò, i nani indossavano le cotte come se fossero già
pronti a buttarsi nell’avventura successiva.
Quando l’imperatore entrò, i tre si alzarono. Beligata
sorresse Seminamorte.
«State comodi.» Il Rabbioso strinse loro la mano e si guardò
intorno alla ricerca del nano che era impaziente d’incontrare.
«Dov’è il cadavere di Belogar?»
«Abbiamo dovuto… non c’era più molto da…» provò a
spiegare Gosalyn, posando l’anello sul tavolo. «Questa è l’unica
cosa che possiamo restituire al suo clan.»
Boïndil le mise la mano sulla spalla, strappandole un sorriso
coraggioso. «Non lo dimenticheremo mai e gli renderemo
omaggio.» Poi si rivolse a Hargorin, accennando al moncone.
«E ti farò fabbricare la migliore gamba artificiale che esista.»
«Ci sta già pensando qualcun altro.» Seminamorte indicò
dietro di sé. «È nella fucina. Non credo che si sia accorto del
tuo arrivo.»
«C’è qualcuno con lui?»
«No.»
«Dov’è lo Zhadár? Vaga ancora per le terre cercando gli
Occhineri?»
Beligata scosse la testa. «Tungdil lo ha ucciso e lasciato nel
tunnel. Insieme con un Occhineri travestito da elfo.» La nana
porse a Boïndil la fiala su cui si leggeva OCCHI DI ELFO in rune
albiche. «Gli elfi ci davano la caccia, imperatore. Erano
camuffati da albi, ma abbiamo scoperto il loro trucco.»
Un albo che si spaccia per un elfo, ed elfi che fingono di
essere albi. Che cosa sta succedendo nei boschi? «Tra poco mi
riferirete ogni dettaglio.» Il Rabbioso si alzò. «Saprò
ricompensarvi come meritate. Non dovrete più preoccuparvi di
come sbarcare il lunario.» Li superò dirigendosi nervosamente
verso l’uscio laterale, che conduceva alle stalle e alla fucina.
Ordinò alle guardie di restare nella sala: non voleva che
qualcuno lo vedesse quando fosse comparso davanti all’amico.
Vraccas, metti fine alle delusioni. Questa volta dev’essere lui!
Udì il sibilo del mantice e lo scoppiettio del carbone che
veniva portato all’incandescenza. Aprì la porta e sentì il calore
che regnava nella stanza. Un martello colpì più volte il ferro in
rapida sequenza, producendo scintille e piccoli frammenti di
scoria.
È lui!
C’era un nano voltato di spalle, con una veste rosso scuro
che gli arrivava alle ginocchia. Le cinghie di un grembiule di
cuoio erano annodate sulla schiena, le maniche arrotolate fino
alle spalle muscolose. Il chiarore rossastro delle braci illuminò
vecchie cicatrici lasciate da armi di vario tipo e rune tatuate
sulla pelle. I lunghi capelli castani erano raccolti in una treccia.
Oppure no?
Il Rabbioso gli girò intorno per guardarlo di profilo mentre
l’altro continuava a forgiare. Senza dubbio i lineamenti erano
quelli dell’amico, ma gran parte del viso era deturpata da
ustioni. La cicatrice che scendeva in linea retta dalla tempia
destra fino all’orlo della veste doveva essere stata medicata da
un guaritore mediocre. L’occhio sinistro era nascosto sotto una
benda di cuoio bianco.
I movimenti erano diventati più brevi e veloci. Il martello
danzava intorno a una cerniera il cui perno si adattava alle
dimensioni di un nano e s’infilava in due supporti. Tungdil
lavorava a una gamba di latta.
«Sapientone», sussurrò Boïndil.
Il martello si fermò a mezz’aria.
Tungdil girò lentamente la testa e abbassò il braccio. «Non è
pazzesco che io abbia aspettato questa rotazione per più di
duecento anni e, ora che è arrivata, abbia paura?» disse
commosso, posando l’attrezzo sull’incudine.
«Perché?» Il Rabbioso aveva un nodo alla gola e la bocca
così secca che avrebbe ingollato anche la pessima birra della
ghiacciaia.
«Perché potresti non credermi se ti dico che sono il vero
Tungdil Manodoro. Ho sentito dire che un altro Tungdil è
arrivato dal Phondrasôn e ha compiuto gesta eroiche.»
L’Erudito si tolse il grembiule. «Non ho uno straccio di prova.
Solo i ricordi di tutto quello che ho fatto nella Terra Nascosta.
Ogni piccolo dettaglio. Ogni parola che ci siamo detti e ogni
avventura che abbiamo vissuto. Balyndis… Sirka…» Tungdil
mostrò le mani callose, anch’esse segnate da cicatrici.
«Chiedimi ciò che vuoi, Rabbioso. Mettimi alla prova,
interrogami finché non sarai sicuro di avere dinanzi a te il vero
Tungdil Manodoro. Poi mandami da Balyndis e da tutti gli altri
nani che ti vengono in mente e che conoscevo all’epoca. Che
m’interroghino pure anche loro.» Fece un lungo sospiro e con
l’avambraccio sinistro si asciugò la fronte sudata. «Ma davanti
a una bella birra scura, per favore.»
È molto diverso dal Sapientone che è sbucato dalla forra un
ciclo fa. Il Rabbioso aprì la bocca per fare la prima domanda.
«Ma non tirare in ballo la barzelletta del mezz’orco che
chiede indicazioni al nano. E, se mi prendi di nuovo in giro con
la storia delle nane e dei rituali di accoppiamento col formaggio
puzzolente, mi offendo», aggiunse Tungdil.
Boïndil proruppe in una risata fragorosa. «Ti ha infastidito
così tanto all’epoca?»
«Una sfrontatezza senza pari, se si considera che mi
consideravano successore dell’imperatore.» Tungdil
sghignazzò. «E ora sei tu il sovrano dei figli del Fabbro. I tempi
cambiano. Anche tu hai dovuto superare delle prove? Copiare
un testo e guidare una spedizione?»
«Mi hanno eletto, punto e basta.» Boïndil sorrise.
«Perdonami se non ti abbraccio e non gioisco come sarebbe
opportuno, ma durante l’ultimo incontro con Tungdil sono…»
Deglutì. «Pensavo che fosse quello vero. Ci ho creduto col
cuore e con la testa. Tu… lui ha compiuto gesta eroiche, ci ha
salvati come avrebbe fatto il Sapientone… come avresti fatto
tu, poi è stato ucciso e…» Il Rabbioso inalò l’aria intrisa di
fumo e tacque per ricomporsi. «Non è facile per me né per i
nani né per la Terra Nascosta. Anche dopo la tua… la morte del
primo Tungdil ero convinto di averti perduto per sempre. I
dubbi sono riaffiorati solo a poco a poco e hanno acceso la
speranza. E la diffidenza.»
«Lo capisco.» Tungdil annuì. «Beligata, Gosalyn e Hargorin
mi hanno raccontato per filo e per segno cos’è accaduto nei
cicli scorsi e quali tragedie si sono verificate in mia assenza e
dopo la morte del finto Tungdil.» Prese la gamba artificiale, che
aveva forgiato con una lamiera spessa e lavorato a sbalzo.
«Non appena torno dalle ombre, un nano perde la vita e un
altro la gamba. Non mi fa molto onore.»
«Abbiamo molto di cui discutere. Il motivo per cui hai ucciso
lo Zhadár, per esempio.» Il Rabbioso ascoltò il proprio cuore,
ma la ragione lo sprangò con un chiavistello di ferro e gli
ordinò di andarci coi piedi di piombo. Come aveva giustamente
osservato Tungdil, non aveva prove. Ma ha i ricordi delle molte
avventure vissute insieme.
«Scopriamo se sei un altro sosia del mio amico, comunque
abbia visto la luce, oppure se posso sperare di riavere il mio
Sapientone.»
Tungdil sorrise, ma tornò subito serio. «Giacché me l’hai
domandato, lo Zhadár emanava crudeltà, perfidia e
pericolosità. Nel Phondrasôn un’aura come quella circonda solo
le creature e i demoni più malvagi. Un essere come lui non può
restare in vita.» Fece scorrere le dita sulla gamba di metallo.
«Non avrebbe tardato a capire che avevo intuito le sue
intenzioni e sarebbe passato all’attacco. Così ho dovuto
anticiparlo.»
Il Rabbioso aveva sentito parlare della trasformazione che
Carâhnios aveva subito nel giro di un ciclo. Durante l’ultimo
incontro aveva provato una profonda avversione per lo Zhadár.
«Vorrei saperne di più.»
«Certo, ma non so spiegarti come sia nato il mio sosia.»
Tungdil indicò l’osteria. «Continuiamo di là. Mi è venuta sete, e
Hargorin aspetta con ansia la gamba per provarla, benché la
ferita non si sia ancora rimarginata.»
«Ti avverto, la birra è disgustosa. I Lunghi non sanno
produrla.» Il Rabbioso lo fece passare per primo.
Mentre camminavano fianco a fianco, Tungdil lo guardò
dritto negli occhi con espressione astuta e indagatrice.
«Cerchi qualcosa, Sapientone?»
«Riconosco qualcosa, e mi sorprende.»
Il cuore di Boïndil perse un battito. «A cosa ti riferisci?»
«Alla tua collera. Oltre al marrone, le tue pupille hanno
riacquistato la colorazione rossastra. Ma non è tutto.»
«Devi averlo immaginato.»
Tungdil fece un debole sorriso. «Ho acquisito capacità di cui
farei volentieri a meno, perché mi sono state insegnate dagli
albi. Non posso dimenticare le mie conoscenze, e questo rende
difficile immaginare le cose.»
Sa che ho bevuto l’elisir dello Zhadár! «Ne parliamo un’altra
volta», si affrettò a replicare il Rabbioso. «Portiamo la gamba a
Hargorin.»
Rientrarono.
Boïndil notò che Tungdil non esitava ad avvicinarsi ai
guerrieri armati: li salutò educatamente e augurò loro la
benedizione di Vraccas, ottenendo una risposta poco
entusiastica.
Temono come me di seguire l’eroe sbagliato e di lasciarsi
abbindolare di nuovo da un’illusione.
«Fa’ smontare i guerrieri qui fuori e falli sistemare nel
fienile», ordinò il Rabbioso a uno dei suoi compagni. «Restiamo
fino a domani.» Guardò il capitano della stazione, che, accanto
al bancone, era ancora sorpreso dal loro arrivo. «Pagherò ogni
cosa.»
«Fate come se foste a casa vostra», replicò l’uomo.
Tungdil s’inginocchiò davanti a Hargorin e infilò la gamba
nel supporto. «Sedetevi», disse, e guardò il guerriero. «È solo
una soluzione provvisoria finché non mi procuro l’argento.»
Seminamorte provò ad alzarsi dalla sedia con l’aiuto di
Beligata, appoggiandosi con l’altra mano alla spalla di Tungdil.
Spostò cautamente il peso sulla gamba di latta. «Stringe un
pochino, ma può andare.»
«Letteralmente.» Il Rabbioso ridacchiò e incrociò le braccia.
«Allora puoi partecipare a qualunque battaglia con la grinta di
una volta.»
«Sì, mio imperatore.» Hargorin camminò avanti e indietro
per abituarsi al nuovo arto. «I miei calci saranno micidiali.»
Guardò Tungdil. «Puoi forgiarmi delle lame da applicare alla
gamba?»
Ridendo, l’Erudito si alzò e si ripulì la veste. «Certo.»
«Lo vedo già in prima linea. Non avrà più bisogno della
scure», disse allegramente Beligata.
Heidor portò i boccali di birra e li posò sul tavolo, quindi si
dileguò. Aveva perso la disponibilità verso i nani e non l’aveva
più ritrovata da quando aveva riconosciuto Seminamorte. Un
vero peccato, secondo Boïndil.
Presero le coppe mentre le dieci guardie si toglievano gli
elmi e si avvicinavano al bancone per farsi servire da bere. Da
fuori arrivò uno zoccolio. I pony venivano condotti nelle stalle
dove i nani avrebbero passato la notte.
«Si fa presto a perdere il comando», osservò il capitano, per
nulla contrariato. Moriva di curiosità. A quanto sembrava, non
gli avevano detto chi fosse il nano con la faccia ustionata.
Meglio così.
«Lo riavrai», urlò Boïndil, alzando la coppa. «Grazie per
l’ospitalità.»
«Qualunque cosa, per l’amicizia tra i popoli.» L’ufficiale
sollevò il bicchiere di acquavite.
Il Rabbioso tirò Tungdil per la manica e si spostarono verso
un tavolo nell’angolo. «Iniziamo l’interrogatorio.»
Hargorin, Beligata e Gosalyn bevevano parlottando e
ammirando la gamba di latta. Ogni tanto si aggiungevano altri
nani. La sala si riempì.
«Non sarebbe meglio rimandare a domani?» propose
l’Erudito. «Il viaggio ti ha stancato.»
In cuor suo, Boïndil avrebbe accettato più che volentieri, ma
non voleva perdere tempo. Desiderava discutere di cose che
riguardavano la Terra Nascosta. Ma prima devo essere sicuro.
Rise, attirandosi un’occhiata interrogativa da parte di Tungdil.
Ancora più sicuro di un ciclo fa? «Partiamo dall’evidenza. Non
hai un’arma né una corazza, nemmeno un pugnale.»
«Non mi servono più. Sono a casa.» Tungdil appariva calmo
e rilassato. «Ho fatto un giuramento al Fabbro Divino: se avessi
raggiunto la Terra Nascosta, non avrei più portato armi né
corazze.» Indicò i propri vestiti. «Non ho bisogno d’altro.»
Infilò la mano sotto il colletto e tirò fuori un ciondolo con la
runa di Vraccas. «Insieme con questa.»
«È una battuta?» replicò Boïndil, sbalordito. «Sei un eroe, un
guerriero e un…»
«Sapientone e un fabbro. La mia vita è iniziata così, e voglio
ricominciare da lì», lo interruppe Tungdil. «Lascia riposare la
mia anima. Poi vedremo quali programmi ha Vraccas per me.»
«Quanto tempo ti occorrerà?»
«Il necessario. Ma mi sento già meglio. Un ciclo, dieci…
chissà.»
«Ma…» All’imperatore mancarono le parole.
Un Tungdil era arrivato pieno di grinta, collera, combattività
e doti misteriose che aveva imparato dagli albi. L’altro voleva
avere una vita semplice per lavorare davanti alla forgia e
all’incudine, sfogliare libri noiosi o, nella migliore delle ipotesi,
fare il consigliere.
Non devo neppure domandargli se vuole diventare
imperatore. Il Rabbioso sbadigliò. «Spiegami com’è nato il
sosia.»
«Impossibile.»
«Perché?»
«L’ho visto, ma non riesco a capirlo.» Tungdil ridacchiò con
un’espressione che l’altro conosceva bene.
L’imperatore, tuttavia, si vietò di esultare. L’aveva già fatto la
prima volta.
«È successo così: mi ritrovavo nel bel mezzo di una battaglia
nel regno sotterraneo e infinito con diversi avversari, quando
siamo stati travolti da un’onda magica. Ha investito la grotta in
cui eravamo, moltiplicando a casaccio ciò che toccava: parti
dell’edificio, oggetti, albi, esseri viventi, senza la minima
logica.» Tungdil s’indicò. «In quella confusione ho visto me
stesso. All’inizio ho pensato che fosse un’illusione, uno scherzo
della mia immaginazione, finché non ho capito: l’onda magica
aveva creato un’immagine di me che è fuggita dalla caverna e
ha condotto una vita propria. Da allora sono esistiti due
Tungdil.» L’eroe guardò l’amico. «Quello fasullo è morto nella
Forra Oscura, con la Lama di Fuoco nel petto. L’originale è
davanti a te.» Tungdil bevve un sorso di birra. «Ora comincia
pure con le domande.»
I
l Rabbioso sedeva davanti a una birra accanto al fuoco
nella sala principale, affollata da una ventina di nani.
Doveva essere il quarto o il quinto boccale della serata.
Si era isolato volutamente per riflettere mentre fissava
le fiamme. Rimuginò sulle rotazioni precedenti e su ciò
che Tungdil gli aveva detto.
L’amico gli aveva raccontato le avventure che aveva vissuto
nel mondo sotterraneo, un luogo che non aveva nulla in
comune con le stupende meraviglie dei regni naneschi. Laggiù
c’erano morte, dolore, atrocità, demoni e bestie, signori della
guerra e regine della morte, torturatori, creature
inimmaginabili e alleanze volte a rafforzare il potere malvagio.
Tungdil aveva descritto le proprie gesta, che non avevano nulla
da invidiare alle azioni più efferate mai compiute da un nano,
ma che erano state necessarie per sopravvivere. Tuttavia non
ne aveva parlato con orgoglio o gioia, bensì con sincero
disgusto.
Con ribrezzo verso se stesso. Il Rabbioso aveva notato
vistose differenze tra il primo e il secondo Tungdil.
La volubilità e l’enigmaticità erano del tutto assenti.
Naturalmente, l’eroe aveva molte cicatrici ed era circondato da
un’aura potente, ma non mostrava traccia di malvagità o di
bassezza. Qualunque cosa gli avessero fatto i gemelli trigemini,
l’effetto degli albi era stato neutralizzato. Il fatto che si fosse
sbarazzato dell’armatura di tionio e della Sanguinaria bastava
a dimostrare la sua trasformazione.
Boïndil proibì a se stesso di ascoltare troppo il cuore. La
testa aveva paura di prendere una decisione sbagliata, capace
di provocare la catastrofe che non si era verificata all’epoca del
primo Tungdil.
E se fosse un bravo attore? E se a tornare fosse stato un
mutaforma che vuole giocare con me e con la Terra Nascosta?
Si passò la mano sul volto rugoso e si accarezzò la barba come
se dovesse rabbonirla vezzeggiandola. Ho di nuovo un
Sapientone al mio fianco e non so se sia stato mandato da
Vraccas o da Tion in persona.
Ad aggravare la sua irresolutezza si aggiungeva il fatto che
Tungdil non dava segno di voler prendere il potere, come si
conveniva a un eroe. Non ambiva alla carica di imperatore né
alla corona della stirpe dei Terzi, che Hargorin gli aveva
offerto.
Riposare. L’unica cosa che desidera è riposare l’anima. Il
Rabbioso ringhiò insoddisfatto e vuotò la coppa. Capisco che
voglia starsene in panciolle per riprendersi dagli strapazzi, ma
l’anima? Per quanto tempo?
Quel comportamento tuttavia era indice di saggezza.
Probabilmente era meglio che per il momento Tungdil si
tenesse fuori dalle questioni dei nani. Nella Terra Nascosta,
chiunque lo avrebbe trattato con diffidenza perché era già
esistito un Tungdil della cui autenticità il Rabbioso era stato
convinto. Lasciava l’amaro in bocca vedere il vero eroe
guardato con sospetto mentre quasi tutti avevano seguito senza
esitazione la sua copia magica.
Sempre ammesso che sia l’originale, pensò il Rabbioso,
mettendosi le mani nei capelli. C’è da diventare matti! Vraccas,
fa’ qualcosa!
I nani effettuarono il cambio della guardia, causando un
certo trambusto nella sala.
I soldati appostati fuori entrarono portando dentro l’odore
della pioggia e un’umidità fredda. L’autunno usava la nebbia e
una leggera acquerugiola per mostrare agli abitanti della Terra
Nascosta che le notti avevano perso il loro tepore.
Beligata si avvicinò all’imperatore e fece un inchino. Nella
sinistra non portava la doppia ascia, bensì un oggetto piuttosto
lungo, avvolto in un panno rozzo. «Hai un attimo?»
«Certo.» Il Rabbioso era contento che avesse interrotto le
sue riflessioni: non conducevano a nulla, perciò tanto valeva
lasciar stare. Notò che Beligata aveva gli stivali e i pantaloni
bagnati fino alle ginocchia. «Non sapevo che ti avessero messo
di guardia.»
«Ho fatto una passeggiata.» La nana lanciò una rapida
occhiata intorno, quindi spostò un poco il tessuto per
permettergli di sbirciare sotto. Comparve una lama nera con un
lato seghettato. «Nel caso ci serva ancora», bisbigliò,
guardandolo speranzosa.
Boïndil fissò prima l’arma e poi Beligata, la cui cicatrice
sembrava luccicare. «Tungdil mi aveva detto di essersene
liberato.»
«È vero.» Beligata coprì la lama. «Nel caos della fuga dagli
abissi, nessuno si è accorto che durante il mio turno di guardia
sono tornata sul posto e l’ho recuperata.» Posò delicatamente
la mano sulla spada. La manica scivolò leggermente indietro,
rivelando l’inizio di un tatuaggio. «La Sanguinaria è potente. È
l’unica arma che può reggere il confronto con la Lama di
Fuoco. Starebbe bene non solo nella mano di un eroe tornato,
ma anche in quella di un imperatore.»
Giovane e inesperta. Il Rabbioso si lisciò la barba, che aveva
urgente bisogno di una pettinata. «Ti sei unita ai Liberi, ma è
palese che ragioni come una Terza. Sei pronta per buttarti
nella mischia», osservò Boïndil, in tono paterno. Posò a sua
volta le dita sulla spada. «Ma quest’arma non è adatta per chi
vuole fare il bene. È per questo che Tungdil se n’è sbarazzato.»
Beligata s’incupì. «Non è stato facile nascondere la
Sanguinaria agli altri. Credevo che mi avresti elogiata, non
rimproverata.»
«Ti ho spiegato perché non posso lasciarti la spada e perché
non la maneggerò nemmeno io. Non più.» Boïndil fece un
sorriso benevolo. «Farò in modo che sparisca per sempre.» E
tirò l’arma verso di sé.
Beligata tuttavia non la mollò. Il suo sguardo era incredulo,
con una punta di ostilità. «Sono tornata a prenderla e…» Si
morsicò il labbro.
Ha urgente bisogno di qualcuno che la guidi. Boïndil non
perse la sua gentilezza. «Hai dimenticato che stai parlando con
l’imperatore.»
«Sono una Libera!»
«Che però è intelligente. E che siederà al tavolo quando
riunirò i sovrani delle stirpi. Non puoi cavartela con una
scusa.» Boïndil strinse la presa e sentì montare la collera. Le
continue obiezioni la fomentarono, facendolo diventare rosso
come un gambero. «Non avresti nemmeno dovuto cercare
l’arma dopo che il vecchio proprietario l’aveva abbandonata!
Credimi, Tungdil aveva un motivo valido per lasciarla nel regno
dei demoni.» Il Rabbioso ebbe l’impressione che la cicatrice di
Beligata brillasse nella luce debole come fresco muschio
luminoso. Che cosa le succede?
La nana deglutì e lasciò la Sanguinaria. «Nascondila dove
non posso trovarla», gli consigliò, alzandosi di scatto.
«Altrimenti me ne impadronirò e la userò per compiere gesta
eroiche.»
«Hai un’ottima doppia ascia. Ti renderà famosa», ribatté
Boïndil, affrettandosi a bere un sorso. Non devo perdere il
controllo. Diede un colpetto al panno. «Questa invece ti
costerebbe una parte della tua vita.»
La nana si voltò bruscamente e uscì dalla sala.
«È impavida, ma sciocca», disse una voce che veniva dalle
tenebre accanto al Rabbioso.
Dall’ombra spuntò Tungdil, che si sedette su uno sgabello di
fronte all’amico. Indossava come sempre una veste rossa con la
runa di Vraccas all’altezza del cuore. «Ogni tanto mi ricorda
te.» Ridacchiò. «Da giovane, quando saltavi grugnendo nella
bocca dei maiali come se non potessero farti nulla.»
«Ed era proprio così.» Boïndil si era ripreso dallo stupore.
«Ti muovi furtivo come un Occhineri.»
«Io sono un mezzo Occhineri.» Tungdil rise sommessamente
e si diede un colpetto alla benda. «Vedi?»
«Questa sì che è buona», sghignazzò l’altro.
«Ma non uso più questi poteri. Lo Zhadár mi avrebbe
superato da molti punti di vista. L’elisir di sangue albico doveva
avere un’energia incredibile.»
«Speriamo che non avesse allievi.» Il Rabbioso ricordò che
pure Tungdil era esperto di alchimia. La luce del fuoco
mitigava l’orrore suscitato dalla faccia sfigurata. Accennò alla
Sanguinaria. «La farò distruggere.»
«È in grado di resistere alla Lama di Fuoco. Che cosa
potrebbe neutralizzare l’antica spada degli Eterni? La magia?»
Tungdil sembrava poco convinto. «Sono riuscito solo a
rimodellarla. Se vuoi un suggerimento, caricala su una
catapulta in una fortezza dei nani e lanciala il più lontano
possibile nella Terra dell’Aldilà. È bene che non resti qui.»
Guardò il fuoco. «Sai di cosa avrei voglia?»
«Di una birra?»
«Di un libro.»
Il Rabbioso sorrise. «Questo sì che è un desiderio tipico del
Sapientone.»
Tungdil fece un verso a metà strada tra il divertito e il
malinconico. «Un regno in cui i libri non trovano posto è un
regno perduto. Mi riposerò e leggerò molto. Negli ultimi
duecentocinquanta cicli saranno comparsi molti nuovi scritti.
Ho sentito dire che hanno scoperto le opere di un albo.»
«Sì, sono sbucate fuori quelle e molti altri volumi.» Boïndil
posò la Sanguinaria sotto la sedia, notando con gioia che
l’amico non tentava neppure di darle una sbirciatina. «Hai
passato le ultime rotazioni a raccontarmi episodi spaventosi
della tua vita.»
«Così raccapriccianti che hai dovuto annegare la paura
nell’alcol.» Tungdil ridacchiò. «Attento a non esagerare. Come
sai, un tempo bevevo troppo. Un ubriacone non è in grado di
prendere decisioni adeguate e si trascura perché deve pensare
a soddisfare i propri desideri. Devi bere di meno, vecchio mio.»
Gli mise la mano sulla spalla. «Ha a che fare con la
trasformazione?»
Mi legge come un libro aperto. L’imperatore gettò altri due
ceppi nel camino e si preparò mentalmente a confessare la
storia dell’elisir dello Zhadár. Dovette fare uno sforzo, ma la
raccontò con dovizia di particolari. «Da quando l’ho assaggiato,
ne voglio altro, perciò l’ira è tornata. Riesco a dominarla
soltanto con la birra, l’acquavite o qualunque cosa mi ottenebri
la mente», concluse Boïndil, battendosi il pugno sul petto.
«L’antica rabbia. Se non avessi già bevuto tanti boccali, le mie
urla avrebbero assordato Beligata.»
Tungdil rifletté. «Sai dove lo Zhadár aveva il proprio
laboratorio?»
Il Rabbioso non si sbilanciò. «Credo… di poterlo scoprire.
Perché?»
«Se capisco quali ingredienti usavano lui e gli albi per
distillare e trasformare il sangue elfico, sarò in grado di
preparare un antidoto.» Tungdil annuì impercettibilmente.
«Non sarebbe difficile. Ho imparato molte cose. Forse servirà a
liberarti di un fardello.»
La gioia di Boïndil fu effimera, subito sostituita dalla
diffidenza. Potrebbe somministrarmi qualunque cosa. «Me ne
occupo io», disse evasivo.
«Sono a tua disposizione. E grazie per esserti affidato a me.»
Tungdil indicò l’arma sotto il tavolo. «Disfatene. Una volta per
tutte.»
«Dato che siamo in tema di consigli, posso conoscere la tua
opinione sugli elfi?»
«Dovrei saperne di più.» Tungdil si piegò e appoggiò i gomiti
sulle ginocchia, quindi giunse le mani prive di anelli, sulle quali
s’intravedevano tatuaggi in parte sbiaditi e in parte
danneggiati. «Si tratta di una questione specifica, suppongo.»
Il Rabbioso riepilogò gli avvenimenti accaduti nel Tabaîn,
precisando pure che i tre Paesi elfici sarebbero stati fusi in un
impero. «Davanti alle porte della Terra Nascosta sono comparsi
piccoli accampamenti di Orecchi appuntiti in attesa di
entrare.»
«Quanti?»
«Ai diecimila già entrati se ne aggiungerebbero altri
quattromila, se li lasciassimo passare. Ho mandato un
messaggero da Ataimînas per informarlo della fiala di bianco
d’occhi, come lo chiamo io.»
«Bene. Finché questa faccenda non è chiarita terrei le porte
chiuse ed eviterei ogni contatto con gli elfi», suggerì
cautamente Tungdil. «L’esistenza di una tintura colorante
collima con la perfidia degli albi. La usano per disorientare gli
elfi. Il loro sovrano assoluto deve appurare al più presto quanti
nemici camuffati si nascondono nelle loro file. Non lo
ammetterebbe mai, ma penso sia molto lieto che tu abbia
respinto i Nuovi Arrivati.»
Il Rabbioso incise con l’unghia le proprie iniziali sul tavolo.
«E i tentativi nel Tabaîn?»
«Lascia che siano gli umani a occuparsene. Ricorda la
missione dei nani: noi sorvegliamo le porte e prendiamo le armi
quando la Terra Nascosta è in pericolo.» Tungdil si sistemò la
benda. «Può darsi che il subbuglio finisca presto.»
Boïndil lo guardò stupito. «L’assassinio del successore al
trono… lo definisci un subbuglio?»
«Non sono questioni che riguardano tutta la Terra Nascosta.
Aspetta, tieniti pronto, ma non immischiarti.» Tungdil raddrizzò
le spalle. «Bada alle porte. Gli elfi accampati all’esterno
cercheranno un modo per entrare. Gli albi travestiti, almeno.»
Si alzò stancamente dallo sgabello e si stiracchiò. «Il letto mi
chiama. Domani potrai chiedermi altre cose. Inoltre Hargorin
aspetta che io faccia delle migliorie alla gamba di latta.»
«Ti verrà in mente qualcosa.»
Tungdil sorrise. «La nostra giovane e irruente Beligata ti ha
mai spiegato come si è procurata quella strana cicatrice?»
«No.»
«Ma guarda un po’…» Tungdil si girò e si avviò verso la scala
che portava al piano di sopra. Gli aveva assegnato una stanza
in soffitta, in modo che non dormisse nel fienile con gli altri
nani finché le sue origini non fossero state chiarite.
«Tutto qui?» Il Rabbioso pensò di seguirlo, ma poi si
costrinse a restare seduto per non lasciare incustodita la
Sanguinaria. Beligata sarebbe stata capace di riprendersela.
Le fiamme che guizzavano nel camino lo spinsero a
concentrarsi di nuovo su se stesso. Aveva altre cose su cui
riflettere, dal laboratorio dello Zhadár alla cicatrice, al
consiglio di non intromettersi negli eventi del Tabaîn.
Darei qualunque cosa per conoscere meglio le capacità
magiche di Tungdil. Si fece portare un’altra birra da Heidor.
Non avrebbe smesso finché l’alcol non avesse placato la sete e
l’ira.
Occorreva interpellare Coïra senza indugio, ma non si
sapeva ancora che fine avesse fatto. Non aveva dato segni di
vita a parte la missiva che Phenîlas aveva letto durante la
riunione.
Boïndil alzò la testa e vide Hargorin che parlava con Gosalyn
e Beligata intorno a un tavolo. Sono stati protagonisti di un
piccolo miracolo, sebbene il Sapientone sia tornato in
superficie da solo. Bevve la birra ghiacciata, il cui sapore non
migliorava nemmeno dopo molti boccali, e si diresse verso il
gruppetto. Un piccolo miracolo. Proprio ciò di cui avrei
bisogno.
P
henîlas era nella tenuta dell’ex sovrano del Tabaîn,
sull’ampia terrazza collocata sul tetto dell’edificio di
pietra rettangolare da cui lo sguardo spaziava sui campi
circostanti e sui bassi frutteti. La sedia imbottita era
comoda, la veste di seta sotto l’armatura di cuoio gli
donava un piacevole refrigerio. Una tenda lo riparava dal sole
cocente.
Il padrone di casa si faceva aspettare; la piattaforma con cui
era salito l’elfo era ancora di sotto. I servitori si prendevano
cura dell’ospite servendogli tè, pasticcini e frutta fresca.
Col sapore delizioso delle mele caramellate sulla lingua,
Phenîlas rifletté sui cambiamenti fulminei avvenuti nella Terra
Nascosta, tra cui non figurava soltanto l’incomprensibile
donazione di Mallenia, che ormai era nota a tutti.
Dopo la visita a Dirisa, l’elfo aveva assistito all’incoronazione
nella Città delle Spighe e, durante il grande evento, era
diventato per decreto il delegato ufficiale del Naishïon e del
regno elfico.
Natenian e Dirisa avevano organizzato una cerimonia
grandiosa, prima nel tempio e poi sui gradini del piazzale
antistante, per gli spettatori che si erano riuniti a migliaia.
Durante i discorsi avevano ricordato Raikan, la sua «morte
eroica» e la sua scorta. A Phenîlas era toccato il ruolo dell’elfo
riconoscente che ostentava ancora una volta rammarico e
compassione.
Poi Natenian aveva spiegato che stava molto male, che non
sarebbe mai riuscito a colmare il vuoto lasciato dal fratello e
che pertanto avrebbe rinunciato al trono. A suo giudizio non
esisteva candidata più adatta di Dirisa, aveva aggiunto.
La cosa incredibile era che la moltitudine aveva esultato.
La paura più grande di Phenîlas si era rivelata infondata.
Non c’erano stati atti di violenza, insulti né lanci di frutta o
uova marce contro la nuova sovrana. Dall’espressione di
qualche aristocratico era palese che non capivano la decisione
di Natenian ma, finché il popolo si fosse schierato dalla parte
della giovane regina, qualunque iniziativa sarebbe stata vana.
Durante la seduta successiva del Consiglio, Phenîlas aveva
dichiarato che Dirisa aveva il pieno appoggio e l’amicizia del
Naishïon, dando così un avvertimento a quelli che meditavano
di negarle la propria fedeltà.
All’epoca Natenian si era già dimesso, e dopo
l’incoronazione non si era più fatto vedere. Perciò l’invito alla
tenuta era giunto per Phenîlas ancora più inaspettato. Non
c’era nulla da discutere, Natenian non svolgeva nessun ruolo
negli avvenimenti della Terra Nascosta.
Che cosa vuole da me? Era per pura curiosità che in quel
momento Phenîlas si trovava lì.
Il cigolio delle ruote dentate annunciò l’arrivo della
piattaforma di carico.
L’elfo posò la mela sul piatto e si alzò per salutare l’uomo,
che era soltanto un aristocratico di stirpe reale. Dopo una
breve menzione sui libri di storia, il suo nome sarebbe caduto
nell’oblio. E nessuno scoprirà che ha fatto uccidere suo fratello.
L’elfo inclinò leggermente la testa quando il vecchio
deforme, con un’ampia veste giallo grano, si avvicinò
ansimando.
Natenian si trascinava con due stampelle lungo la terrazza, e
si lasciò cadere gemendo sulla poltrona modellata sulla forma
del suo corpo. I servitori gli misero davanti dei pezzetti di
frutta e versarono tè e succo nelle coppe preziose, quindi si
allontanarono di qualche passo.
«Scendete», ordinò Natenian.
Phenîlas notò che i due uomini si scambiavano un’occhiata
confusa ed esitavano.
«Signore», protestò uno di loro. «Noi…»
«Andate», lo interruppe Natenian, spostandosi le ciocche
sudate dalla fronte. «Anche se non sono più re, dovete obbedire
ai miei ordini.»
I servitori s’inchinarono, salirono sulla piattaforma e
scomparvero, accompagnati dallo sferragliare degli ingranaggi.
Sulle prime Natenian ignorò l’elfo. Usò una stampella per
tirare verso di sé le ciotole e i piatti di frutta e pasticcini.
Alcuni bocconi scivolarono sul tavolo o caddero a terra, ma non
vi badò. Mangiò di gusto, chiudendo le palpebre soddisfatto e
facendo versi estasiati.
Phenîlas si schiarì la voce e sorseggiò l’acqua. Il mio tempo è
troppo prezioso per guardarlo abbuffarsi.
Aveva con sé il contratto tra il Tabaîn e il regno elfico, che il
Naishïon aspettava con urgenza; a oriente, inoltre, si
ammassavano nuvole scure. Sopra i campi mietuti si
raccoglieva un’aria surriscaldata che avrebbe scatenato
violenti temporali e cicloni. Era per quella ragione che nel
regno si costruivano edifici di pesanti pietre squadrate.
I venti impetuosi avrebbero travolto e ucciso un elfo a
cavallo.
Sarebbe meglio partire subito.
«Vi state domandando perché siete qui.» Natenian aveva la
bocca e il mento sporchi di succo e briciole.
«Proprio così.»
Il vecchio indicò le ciotole e i piatti vuoti. «I miei guaritori mi
hanno proibito molto tempo fa di mangiare queste leccornie,
perché m’indeboliscono. Così avrei regnato sul Tabaîn ancora a
lungo, hanno detto.» Si mise in bocca un acino di uva spina,
schizzandosi le labbra di succo. «Sono stato un bravo re e sarei
stato migliore di Raikan o Dirisa.»
«Il mio Naishïon apprezzerà ancora di più che vi siate
ritirato per salvaguardare la pace nel vostro Paese.»
Natenian rise. «Non so neppure come mi sia venuto in
mente. Se ci ripenso, non me ne capacito, ma stranamente ho
la sensazione che sia stata la scelta giusta. Irreale ma giusta.»
L’uomo ruttò, poi mangiò anche un pezzettino di torta.
«Ora vi concedete questi piaceri perché la vostra longevità
non ha più importanza», precisò Phenîlas. Un comportamento
frequente tra gli umani.
«Una volta ero vostro alleato, elfo.» Natenian si leccò le dita.
«Ho firmato un accordo preliminare con voi, ho sacrificato mio
fratello e la vita dei suoi compagni per il bene del regno. Che
cosa mi è rimasto?» Accennò ai campi. «Cereali che mi
appartengono.» Puntò il dito umido di saliva verso gli alberi. «E
frutti che mi uccidono quando li mangio. Una vita splendida,
no?» Si batté la destra sul petto. «Meno male che sono bello e
sano. Altrimenti non avrei più nulla», concluse con una risata
amara.
«Sono certo che il mio signore vi risarcirà.»
«Non può. Ciò che ho fatto sarebbe stato utile solo alla
reggenza del Tabaîn», replicò Natenian, in tono duro. «Sono
seduto su un grosso mucchio di spazzatura, anzi di sterco.»
Afferrò le ciotole di uva spina e le scagliò via con un gesto
rabbioso. «Sterco!» Seguirono torte, mele e le brocche di
succo, scandendo i lanci con una serie ininterrotta di «sterco».
Phenîlas si alzò. La veste di seta ricamata era troppo costosa
perché si macchiasse irreparabilmente. «Potete sbraitare e
lanciare la frutta anche senza di me.» Fece un cenno di saluto.
«Il mio Naishïon mi aspetta.»
Natenian si sollevò con un grosso sforzo sulle gambe
arcuate, appoggiandosi al bordo del tavolo. «Voi siete stato la
mia rovina. Voi siete stato la fine di mio fratello», disse in tono
cupo. «E non scorgo nemmeno un barlume di rimorso nei vostri
occhi o sul vostro volto arrogante. Avete messo in atto queste
macchinazioni a spese degli altri.»
«La posta in gioco non è solo la vita dei re», ribatté Phenîlas.
«Avrei fatto di peggio pur di garantire la sopravvivenza del mio
popolo.»
«Cereali insanguinati!» urlò Natenian, fuori di sé. «Ecco
cosa vogliono mangiare i vostri elfi. Che i loro stomaci si
gonfino fino a far esplodere le viscere.» Si spostò lungo il
tavolo aggrappandosi al ripiano e avvicinandosi a piccoli passi.
«Questa è la mia maledizione.»
«In questo modo non perirebbe solo il mio popolo.» Phenîlas
indietreggiò lentamente verso la piattaforma.
«Resterete ad ascoltare i miei rimproveri!» Natenian cercò
di afferrare l’elfo, ma le dita appiccicose sfiorarono soltanto il
colletto della camicia di seta.
Maledizione, me l’ha rovinata! «Se supererete questa
rotazione, capirete cosa intendo. Al momento giusto riveleremo
gli scritti della Creatrice, anche se non posso dirvi quando
accadrà.» Phenîlas indicò i pezzetti di torta e frutta disseminati
qua e là. «Oppure potete ingozzarvi dei cibi che vi uccidono.»
Indispettito, controllò il colletto e notò le impronte chiaramente
visibili.
Natenian chinò il capo; i capelli castani umidi parevano neri.
«Non capisco come possiate vivere con questo peso.» Si guardò
le dita imbrattate di succo rossastro.
L’elfo sorrise. «Trovate una droga che vi doni bei sogni. Fate
sapere al mio signore cosa desiderate come risarcimento per la
perdita del trono.» Si voltò e si diresse verso la piattaforma. Un
incontro inutile. Non ho capito cosa voleva da me.
«Dite al vostro Naishïon che il tradimento nei miei confronti
gli costerà caro», gridò il vecchio.
Phenîlas ebbe la tentazione di fermarsi e sconsigliargli di
ricattare il regno elfico, ma dopo una breve esitazione
proseguì: l’ex re, che riteneva di essere stato derubato e
ingannato, parlava sulla scorta di sentimenti feriti.
Comprenderebbe ogni cosa, se conoscesse gli scritti di Sitalia.
«Mangiate più bacche, se non lo sopportate. E masticate più in
fretta.»
Natenian tacque.
Quando Phenîlas ebbe raggiunto il pozzo, coperto da una
botola di pesanti tavole di pietra, azionò col piede il
meccanismo incassato nel pavimento per dare il segnale ai
servitori.
Risuonò il lieve cigolio delle ruote dentate, seguito da un
tonfo sordo alle sue spalle.
L’elfo si girò, ma Natenian era scomparso. Da sotto giunsero
urla di orrore attutite. Phenîlas non ebbe bisogno di controllare
per scoprire cosa fosse successo: Natenian si era suicidato.
L’attesa della morte dovuta al consumo eccessivo di frutta gli
è sembrata troppo lunga.
Un campanello tintinnò, la botola si aprì e sulla piattaforma
si materializzarono due servitori. Fissarono l’elfo sbigottiti,
quindi abbassarono lo sguardo sul suo colletto.
Le impronte. Phenîlas sapeva bene come i domestici
avrebbero interpretato la scena: cocci di stoviglie sparsi
ovunque, le urla, le stampelle appoggiate al tavolo e
l’aristocratico sfracellato ai piedi dell’edificio. Le prove
apparenti avvaloravano l’ipotesi di una zuffa.
E di un assassinio.
«Quanto manca?»
Gosalyn sbuffò quando udì la domanda spazientita di
Beligata, che la nana ripeteva almeno quattro volte a rotazione.
«I posti di guardia non sono lontani», rispose. «Al più tardi
domani.»
Hargorin borbottò qualche parola di approvazione e il
silenzio tornò ad avviluppare il gruppetto, che stava
attraversando la Terra Nascosta per compiere una missione
segreta in nome dell’imperatore.
La prima destinazione era a sud, sui Monti Blu.
Per raggiungerla avrebbero dovuto superare il Gauragar e
tagliare per il regno desertico del Sagreîn, il cui solo pensiero
faceva accapponare loro la pelle. Nessuno amava le montagne
di sabbia morbida, che muovendosi potevano inghiottire i
viandanti, né le solitarie distese di detriti che si allungavano a
perdita d’occhio. Il sole cocente impediva la crescita di
qualunque pianta, le notti erano gelide e non c’era nulla con
cui accendere il fuoco.
Per il momento, tuttavia, erano ancora nel Gauragar.
Nella parte meridionale, vicino al confine col Sangreîn, gli
inverni erano assai più miti e gradevoli di quelli cui i nani delle
montagne erano abituati. Perciò Hargorin, Beligata e Gosalyn
avevano fatto a meno delle pellicce e si erano accontentati di
mantelli imbottiti da portare sopra le giubbe e le cotte: anziché
congelare, sudavano. E gli abitanti di città e villaggi si
meravigliavano dell’abbigliamento leggero dei tre nani, che
trottavano lesti sui loro pony.
E lo chiamano freddo, questo? Non rabbrividirebbero
nemmeno i nostri bambini, pensò Gosalyn, divertita.
Chiunque avesse fatto la guardia su una fortezza dei nani
conosceva le raffiche gelide e taglienti, la condensa ghiacciata
sulla barba o sotto il naso, la sensazione che i bulbi oculari si
congelassero o che gli arti s’irrigidissero e si spezzassero. In
confronto, l’inverno gauragariano somigliava più a un autunno
inoltrato.
Hargorin, che cavalcava in testa al gruppo, diresse il pony
verso una fattoria dal tetto di giunchi, un poco discosta dalla
via. Schwarzkrum, la città di confine dove il viaggio si sarebbe
interrotto per quella rotazione, non distava più di quattro
miglia, ma il nano sembrava avere un motivo per lasciare la
strada.
«Che cosa c’è? Hai fame?» domandò Gosalyn.
«Il mio pony zoppica. Un ferro staccato. Non voglio
affaticare il buon Talek. Ci aspetta ancora un lungo cammino e
voglio che abbia un buon ricordo di me.»
Hargorin e Gosalyn udirono chiaramente i gemiti soffocati.
La nana della stirpe dei Quinti evitò di pronunciare le parole
che avrebbe voluto dire a Beligata. Da quand’erano partiti, la
guerriera aveva da ridire su qualunque cosa facessero, dalla
velocità di viaggio al tragitto, alle decisioni più semplici come i
luoghi di sosta. Ancora una critica, e le chiedo spiegazioni sul
suo comportamento.
Raggiunsero la fattoria.
Hargorin fece segno a Gosalyn di smontare e bussare alla
porta. Si trovavano nell’estremo sud, perciò era improbabile
che qualcuno riconoscesse il comandante del vecchio
Squadrone Nero, ma avevano constatato che il viso di una nana
suscitava meno diffidenza della barba rossa di un nano
scorbutico. Gosalyn arrancò sulla neve bagnata e pesante,
molto diversa dai fiocchi leggeri che cadevano sulle montagne.
Dopo un paio di colpi energici, l’uscio si socchiuse.
Comparve il volto di un vecchio dalla barba ispida, che
all’inizio guardò troppo in alto. «Oh, eccoti», ridacchiò,
abbassando lo sguardo. Aveva i denti ingialliti e consumati, e
l’alito puzzolente di cibo e acquavite. «Tre figli di Vraccas.
Cercate un posto per dormire, immagino.» Sulla testa gli
crescevano radi capelli color zolfo.
Gosalyn annuì. «Potresti ospitarci?»
L’uomo infilò un dito gottoso nella fessura e indicò il fienile.
«Lì. Il fieno vi riscalderà. Vi faccio portare qualcosa da
mangiare.» Il battente si richiuse con uno scricchiolio.
Cortesia scortese. Tra i Lunghi se ne vedono di tutti i colori.
«Niente da fare.» Beligata stava già girando il pony.
«Ferma», urlò Gosalyn. «Dobbiamo andare nel fienile.»
L’altra diresse l’animale verso le stalle.
Hargorin fece un cenno incoraggiante a Gosalyn. «Posso
usare la fucina?»
Oddio. La nana bussò di nuovo.
La porta si riaprì. «Che cosa c’è?»
«Si è staccato un ferro di cavallo.» Gosalyn non vedeva
nemmeno l’uomo attraverso la fessura. Che tipo strambo.
«Da quando i nani hanno i ferri di cavallo ai piedi?» Il
vecchio rise e allargò lo spiraglio, passandole una pagnotta
scura, formaggio e lardo affumicato. «Prendi. E usate pure la
mia fucina, ma senza incendiare nulla.»
L’uscio si richiuse.
Che cosa succede se busso di nuovo? Gosalyn sorrise. Meglio
di no, altrimenti dovrò restituirgli il cibo.
«Molto ospitali», commentò caustico Hargorin, storcendo la
bocca. Prese le redini del pony di Gosalyn e lo portò con sé. La
nana lo seguì coi viveri.
Beligata aveva già raggiunto la stalla ed era svanita
all’interno.
Si udirono forti muggiti e l’aria s’intrise dell’odore di
bestiame. Il calore degli animali avrebbe garantito una
temperatura gradevole nel fienile.
Gosalyn si affrettò ad accendere la vecchia lampada a
petrolio appesa a un pilastro. I tre legarono i pony in fondo alla
stalla, lontani dalle mucche irrequiete che con le loro lunghe
corna avrebbero potuto essere un pericolo per i cavallini. Non
era detto che le diverse specie di animali gregari provassero
una simpatia reciproca.
Una mucca sarebbe un pessimo rimpiazzo per un pony.
Gosalyn scoppiò a ridere immaginando Beligata che sobbalzava
sulla schiena arcuata di una vacca a pelo lungo.
Le mucche si calmarono, i pony mangiarono l’erba secca che
era caduta dall’alto.
Gosalyn dissellò i cavallini e Hargorin andò nella fucina.
Beligata, seduta al piano di sopra con le gambe penzoloni,
osservò Gosalyn strofinare i pony con la paglia. «Credi che
troveremo qualcosa negli appunti del mago?» le chiese. Dal suo
tono scettico si capiva quanto fosse pessimista riguardo
all’esito della missione.
Gosalyn perse il buonumore. «Se così non fosse, l’imperatore
ci avrebbe rimandati indietro?»
«Secondo me, non sa un bel niente.» Beligata studiò le travi.
«Lavoro mediocre. Alla prossima tempesta i giunchi voleranno
via. I cavi sono allentati.»
«Stringili. Sarà il nostro ringraziamento.»
«Ti sembro un’artigiana?»
«Sei una Libera. Potete fare qualunque cosa», replicò
pungente Gosalyn, alludendo al fatto che in realtà la guerriera
apparteneva alla stirpe dei Terzi.
«So fare più cose di te, questo è vero. Batterti sarebbe fin
troppo facile», replicò Beligata, raccogliendo la sfida.
Gosalyn si raddrizzò e alzò la testa. «Battermi? In cosa?»
Con aria candida, l’altra dondolò le gambe più rapidamente,
facendo sgocciolare di sotto la condensa dagli stivali. Gli occhi
chiari le scintillarono alla luce della lampada. «In quello che
vuoi. Scegli la disciplina, e ti sconfiggo. Anzi, ti distruggo.»
Gosalyn rise e tornò al lavoro. «Sì, certo.»
«Vuoi scommettere qualcosa?»
«Non m’interessa. Gli ordini dell’imperatore sono: andate sui
Monti Blu, consegnate il messaggio a mia moglie e consultate
le annotazioni di Lot-Ionan per vedere se accennano ad altre
fonti magiche nella Terra Nascosta.»
«Ero presente quando ce li ha comunicati.» Beligata s’infilò
lo stelo di un fiore secco tra le labbra e lo fece ondeggiare
finché i petali non si staccarono. «Ci servirebbe un erudito per
comprendere quei libri. Oppure t’intendi di formule magiche e
del linguaggio segreto degli stregoni? Sempre ammesso che ne
esistano ancora e che non siano stati sterminati dai Secondi.»
Dopo una breve pausa aggiunse: «Vedi l’Erudito da qualche
parte?»
«No», rispose Gosalyn.
Beligata sputò il fiore. «Avrebbe dovuto accompagnarci.»
«Tungdil deve riposare. Hai visto le sue cicatrici?» Gosalyn
si spostò verso l’altro pony e raccolse una manciata di paglia
fresca per asciugare il pelo umido. «In questi
duecentocinquanta cicli deve averne viste di tutti i colori.»
Ricordò la notte sotto l’albero, quando l’Erudito si era spogliato
e seduto accanto a lei davanti al fuoco. Sofferenze più che
sufficienti, anche per l’anima.
«Proprio come il primo Tungdil.» Beligata fece una risata
velenosa. «Di sicuro nel Phondrasôn esiste una fucina coi suoi
stampi. Ogni ciclo un Erudito viene forgiato, risvegliato con la
magia e mandato da noi.» Smise di dondolare le gambe. «Ma
potrebbe tornarci utile.»
I pensieri di Gosalyn avevano imboccato una direzione
analoga.
I nani della stirpe dei Secondi avevano dovuto purificare la
loro patria dall’influenza del mago, cui si erano aggiunti i
cadaveri degli albi che erano morti avvelenati sotto il comando
di Aiphatòn. Era assai improbabile che avessero avuto riguardo
per i libri da cui il male aveva tratto potere.
«Su questo ti do ragione.» Gosalyn strofinò la schiena del
pony. «Potrebbe ancora servirci.»
«Ipotizziamo di non trovare testi né indizi, e nemmeno
appunti. Che cosa facciamo?»
«Cerchiamo.»
«Che cosa? La fonte o Coïra?»
«Entrambe.» Gosalyn si augurò che Hargorin tornasse
presto. Essendo il comandante, di certo avrebbe avuto le idee
più chiare e spiegazioni più convincenti. Potrebbe zittirla. «Se
dubiti che possiamo farcela, perché sei venuta?»
«Obbedisco all’imperatore. Be’, più o meno.» Beligata
sorrise, allungò il braccio tra il fieno e, con stupore di Gosalyn,
impugnò la Sanguinaria. «Spero in una possibilità di usare
questo gioiellino.»
«Dove l’hai presa?»
L’altra proruppe in una risata beffarda. «Ho recuperato
l’arma, l’ho mostrata all’imperatore e lui… me l’ha regalata.»
«Non ti credo!»
«Ha espresso il concetto in altri termini, ma non può avere
nulla in contrario.» Beligata si posò la spada sulle ginocchia.
«L’ho trovata, perciò posso tenerla. Non vedo l’ora di usarla per
tagliare in due una bestia. Si dice che la Sanguinaria ne sia in
grado.»
L’irragionevolezza fatta nana. Vraccas deve avere scolpito i
suoi avi in una pietra particolarmente dura. Gosalyn sospirò.
«Hargorin è a conoscenza della tua iniziativa?»
«No, ma questo non cambia nulla. L’arma resta con me.»
Beligata l’adagiò accanto a sé. «Sui Monti Blu si aggirano
ancora dei mostri, oppure sono stati uccisi tutti quanti dai
Secondi? Si vocifera che la porta sia rimasta aperta per
qualche tempo durante il regno di Lot-Ionan. Forse c’è una
bella bestia che vaga per le valli.»
Gosalyn passò all’ultimo pony. «Non ne esistono più. Non
avrai bisogno di quella lama spaventosa.»
«E se gli elfi ci attaccassero?»
«Gli elfi sono contenti che teniamo chiuse le porte.»
«Non è quello che intendevo.» Beligata tagliò una fetta di
formaggio. «Potrebbero avere catturato la maga e averci
ingannati. Non appena scoprono che cerchiamo Coïra,
potrebbero arrivare alla conclusione di doverci togliere di
mezzo.»
«Se mi dici un solo motivo valido per cui gli elfi dovrebbero
tener prigioniera una maga, e soprattutto se mi spieghi come,
hai vinto la scommessa.»
Beligata sogghignò e diede un morso al formaggio. «Fammi
pensare.» Masticò. «Quell’elfo viene trattenuto nella Città delle
Spighe per il presunto omicidio di Natenian.»
«Che cosa c’entra con la maga?» Gosalyn e gli altri avevano
appreso lungo il cammino dell’incidente che era seguito
all’incoronazione. Dirisa avrebbe dovuto tenere in carcere il
sospettato finché le circostanze non fossero state chiarite, e ciò
era causa di scontento sia per gli abitanti del Tabaîn sia per il
Naishïon. «È successo da poco, mentre Coïra non dà sue notizie
da molte rotazioni.»
«Aspetta! Ho una risposta migliore.» Beligata agitò con fare
conciliante la mano libera. «L’impero degli elfi non deve
trovarsi in pericolo per nessuna ragione. Chi li fermerebbe? Un
manipolo di guerrieri umani? Certo che no.» Alzò l’indice.
«Ecco il motivo: l’unica che sarebbe abbastanza forte per
bloccare Ataimînas è Coïra. Se scompare, gli Orecchi appuntiti
possono permettersi quasi tutto. Tranne nei regni dei nani.»
Agitò il dito, trionfante. «Ho vinto la scommessa!»
«Coïra è andata da Ilahín e Fiëa come amica e alleata»,
protestò Gosalyn, ma per tutta risposta ricevette una risata
canzonatoria.
«Sai che le cose cambiano velocemente.» Beligata
abbandonò il tono di scherno. «Gli alleati possono diventare
nemici.» Recuperò la Sanguinaria e la tenne con la lunga punta
verso l’alto. «E nel bel mezzo di una battaglia, per giunta.»
Fece un’espressione spietata. «Prendi me e Hargorin. Siamo
Terzi. Coloro che odiano i nani. Gli eredi di Lorimbur», sibilò.
«E tu cosa sei, Gosalyn?»
«Il tuo re ha dichiarato conclusa la faida. E sostieni tu stessa
di essere una Libera.»
«La mia appartenenza non ha nulla a che vedere col mio
modo di sentire.» Beligata la guardò con occhi seri. «Forse ho
lasciato la stirpe per non dover rispettare la fine della faida?»
Parlò piano, con una punta di crudeltà nella voce. «Molti Terzi
hanno agito come me per lo stesso motivo.» Nella cicatrice si
aprì una fessura sottilissima, da cui il sangue le gocciolò sulla
guancia.
Gosalyn deglutì. Non perché temesse per la propria vita,
giacché era una guerriera esperta e avrebbe saputo difendersi,
ma perché era possibile che le parole di Beligata fossero vere.
In questo caso l’unità dei nani è in pericolo.
Beligata si ripulì e premette la mano sulla cicatrice. «Ci
facciamo chiamare…» Si piegò quando la porta della stalla si
chiuse con un sonoro schianto.
Le nane sussultarono e guardarono verso l’ingresso.
Meno male che è tornato, pensò Gosalyn.
Ma Hargorin non c’era. Doveva essere stato il vento.
Si scambiarono un’occhiata interrogativa. Pur senza
ammetterlo, erano preoccupate per l’assenza del comandante.
«Vado a controllare», annunciò Gosalyn. «Forse la gamba gli
si è incastrata da qualche parte.»
«E un guerriero come lui non è capace di liberarsi o di
chiamare aiuto?» Beligata scivolò verso il bordo e si preparò a
saltare. La cicatrice aveva già smesso di sanguinare. «Vengo
con te. Non sappiamo chi ci sia nella baracca oltre al vecchio.»
Gosalyn non obiettò. Si voltò verso l’uscita e sfilò l’ascia
dalla cintura. «Non si sentivano altre voci o rumori, ma hai
ragione.» Così si dimentica di avere vinto la scommessa.
Quando raggiunse la porta, non aveva ancora udito il tonfo
delle suole di Beligata sulla paglia morbida. «Che cosa c’è?
Non te la senti?» Si guardò sopra la spalla: il fienile era deserto
e il mucchio di fieno sul pavimento era intatto. Gosalyn sfoderò
l’arma e si spostò all’indietro e di lato verso la parete, per
vedere meglio le tavole e le travi. Se è uno scherzo…
Una sagoma lunga e scura sbucò come per magia da una
delle alte travi trasversali e atterrò sul bordo anteriore del
fienile senza fare il minimo rumore. Nella destra stringeva la
Sanguinaria, di cui rivolse lentamente la punta contro la nana.
Nella Terra Nascosta, tutti conoscevano il viso con le guance
marchiate a fuoco, piuttosto vecchio per appartenere a un albo.
Dev’essere Carmondai. Gosalyn brandì con decisione la
propria arma. «Anche se sei il cagnolino della regina,
Occhineri, ti faccio a pezzi se hai fatto del male ai miei amici!»
L’albo fece un sorriso sprezzante. «Non sono più proprietà
dell’Ido. Sono evaso.» Scavalcò con un salto la nana, si
molleggiò sulle gambe contro la parete laterale, atterrò su una
trave e svanì nell’oscurità.
La lampada si spense, la stalla piombò nel buio.
«Puoi uccidermi», disse una voce nelle tenebre.
Gosalyn ricevette un colpo alla schiena e uno dietro le
ginocchia, e cadde sulla paglia. Un piede le bloccò il polso,
impedendole di usare l’ascia.
«Se ci riesci», le sussurrò l’albo all’orecchio. Una lama
fredda le toccò la nuca. «Direi che ho già vinto, no?»
Gosalyn capì che sulla sua nuca indifesa era posata la lama
della Sanguinaria.
Il suo unico pensiero era il fatto che l’arma veniva usata da
un albo contro un nano per la prima volta dopo molti cicli e che
grazie a Beligata sarebbe morta per opera di quella spada
maledetta.
Col viso nella paglia aspettò il colpo mortale che avrebbe
spento la sua scintilla vitale e l’avrebbe spedita nella Fucina
Eterna con amici e antenati.
«I tuoi compagni sono ancora vivi», bisbigliò Carmondai. «Li
ho soltanto messi fuori gioco affinché non vi scagliaste contro
di me non appena mi fossi fatto riconoscere.»
«Vuoi dire che ci lascerai in vita?»
«Certo. Che cosa me ne farei delle vostre ossa storte?»
L’albo rise e staccò cautamente la lama dalla nuca della nana.
«Non ho voglia di cimentarmi in quel genere di arte.»
Gosalyn lo squadrò. Dato che non li aveva uccisi, aveva un
intento ben preciso. Prenderci in ostaggio?
No, valevano troppo poco.
La lettera alla moglie di Boïndil?
Improbabile.
Il sapere dei libri di Lot-Ionan!
La nana si sedette. «Dove sono i miei compagni?» Osservò
l’albo, che indossava un lungo mantello nero sopra semplici
vestiti scuri. Sebbene avesse i capelli ispidi, fosse scheletrico e
avesse perso gran parte della sua insopportabile bellezza a
causa dei marchi a fuoco, conservava una sublimità, un’aura
irresistibile, che non c’entrava nulla con la paura.
La lampada riacquistò la sua intensità.
«Ho legato Hargorin all’incudine. Beligata resterà priva di
sensi ancora per un po’ e si sveglierà con la bocca piena di
fieno.» Carmondai impugnava la Sanguinaria con la perizia di
un guerriero.
Gosalyn intuì che l’albo aveva altre doti oltre alle capacità di
scrittura. Non solo era rimasto agile, ma avrebbe anche saputo
maneggiare la spada con straordinaria abilità. «Come fai a
conoscere i nostri nomi?»
Carmondai rise garbatamente. «Vi seguivo già da qualche
tempo. Siete troppo imprudenti per svolgere una missione
segreta in nome dell’imperatore. Potrebbero esserci dei sicari
in agguato.»
«Come te, Occhineri?»
L’albo si sedette con le gambe incrociate sulla paglia,
affinché fossero più o meno alla stessa altezza. «Così va
meglio.» Sembrava guardingo, ma non nervoso. «Prima parlo
con te, perché sei la più ragionevole.»
«So cosa si dice sul tuo conto. Conquisti chiunque con le tue
lusinghe.»
«Colui cui ti riferisci si chiama Rodario», la corresse l’albo,
sorridendo. «Io preferisco l’intelligenza all’inganno. Come te.»
Indicò verso settentrione. «Sono dovuto fuggire da Aichenburg
perché la ragazzina della Terra Estinta ha cercato di
addossarmi la responsabilità di un crimine che non ho
commesso.»
«Certo.» Gosalyn agitò la mano. «Invece il tuo popolo è
famoso per il suo carattere pacifico.»
«Ti ho risparmiato la vita oppure no?»
«Soltanto perché vuoi abbindolarmi e usarmi per i tuoi
scopi.»
Carmondai sospirò. «La famigerata testardaggine dei
Cavernicoli.» Si massaggò la schiena. «Un tempo saltare era
più facile.»
La nana fece un sorriso maligno. «Ritieniti fortunato a
essere diventato vecchio.»
«Non sono ancora fortunato. Un giorno, forse», replicò
l’albo. «Quella ragazzina ha poteri magici. So cosa è e sono
certo che influenza la volontà dei sovrani della Terra Nascosta.
Le donazioni di Mallenia e le misteriose riconciliazioni nel
Tabaîn tra Dirisa e Natenian sono soltanto l’inizio. Quando la
ragazzina sarà diventata più grande e più potente, riuscirà a
controllare intere regioni.» Carmondai inclinò leggermente la
testa. «Fa parte di una famiglia di maghi della Terra dell’Aldilà
che usano i ghaist come ricognitori.»
«Fandonie!» Gosalyn cercò di smentire la tesi dell’albo, che
parlava con voce limpida e melodiosa, ma ricordò le parole
dell’imperatore, che aveva accennato a Tenkil e all’attentatore
del Consiglio dei Re. Ha aggiunto pure che non capiva come
l’albo avesse potuto mancare il bersaglio.
«Chiedi al tuo sovrano. Era presente quando, durante la
riunione, i nemici sono diventati amici intimi da un momento
all’altro», disse Carmondai. «Ne avete discusso, no? Te lo leggo
in faccia.»
Gosalyn omise di avere fatto parte della pattuglia che aveva
trovato Sha’taï nell’insediamento dimenticato. «La ragazzina è
in grado d’influenzare anche un albo?» Gli riferì gli
avvenimenti legati all’attentato durante la prima assemblea del
Consiglio a Pietralibera, e inorridì quando lo vide annuire.
«In noi alberga una magia innata che ci protegge da molte
cose, ma non ci rende immuni da tutto», disse pensosamente
Carmondai.
«Come mai non hai subito il suo fascino?»
«Ottima domanda. A mio parere, non è ancora abbastanza
forte da piegare la mia volontà. Sono troppo esperto. Troppo
vecchio.»
«Come l’imperatore.»
«Ci ha provato anche con lui?»
«Sì. Boïndil ha sentito un formicolio quando le ha preso la
mano per rivolgere una preghiera agli dei. E Sha’taï era tra
loro.» La diffidenza di Gosalyn verso le descrizioni di
Carmondai diminuì via via che confrontava le sue parole con
quelle del Rabbioso. «Vuole diventare sovrana.»
«Vuole il potere nella Terra Nascosta», la corresse l’albo.
«L’astuzia le impedisce di fare un tentativo diretto. Sceglierà un
rappresentante che pensa di essere seduto sul trono. In realtà
sarà lei a pilotarlo. Suppongo che userà i sovrani finché non
avrà acquisito una forza sufficiente.» Carmondai accarezzò la
Sanguinaria. «Tuttavia nessuno ha prestato ascolto al mio
avvertimento.»
«Nessuno crede a un albo», commentò Gosalyn.
Carmondai confermò battendo la mano libera sulla
Sanguinaria. «Mi serve qualcuno che goda della fiducia
generale e che strappi a Sha’taï la maschera della bellezza e
dell’innocenza.»
«Noi!» urlò la nana, orgogliosa.
«Con tutto il rispetto, pensavo alla maga scomparsa»,
replicò educatamente l’albo. «Tu e i tuoi amici la cercate, io vi
aiuto, e salviamo la Terra Nascosta da un nuovo giogo di
oppressione.»
Gosalyn rise. «Un albo onorevole? Impossibile. Inàste e Tion
ti hanno dato un’anima nera. Aspiri ad altro. Forse tu e Sha’taï
siete in combutta e volete ingannarci.»
«O forse sto dicendo la verità, nana, e ti pentirai sino alla
fine dei tuoi giorni di non avermi creduto. E la fine dei tuoi
giorni arriverà assai presto, se ti metterai contro la ragazzina.»
«E se non fossimo d’accordo col tuo piano?»
«Cercherei la maga per conto mio e vi abbandonerei al
vostro destino. Ma penso che insieme avremmo più probabilità
di successo.»
«Nonostante ciò, nessuno ti ringrazierà.»
«L’unica cosa che desidero è la grazia.» Carmondai finse di
essersi appena ricordato qualcosa. «Ti ho già detto che ho una
vaga idea di dove possano essere le altre fonti magiche della
Terra Nascosta?» Posò le mani scarne sulla Sanguinaria. «Non
per vantarmi, ma vivo nel Paese da molto tempo. Ci sono
segreti che solo io conosco.»
Gosalyn odiò se stessa, ma si alzò e indicò la porta. «Vado a
chiamare Hargorin. Credo che lo convinceremo.»
Carmondai fece un sorriso che gli conferì un’aria molto
pericolosa. Con l’arma nera degli Eterni sembrava imperioso e
impaziente di fondare un regno tutto suo.
Gosalyn uscì per andare a cercare l’amico. Non si fidava
dell’albo. A prescindere da quanto il suo tono fosse persuasivo
e le sue parole convincenti. E poi temeva che Hargorin facesse
irruzione nel fienile e gli tagliasse la testa.
Un nano evita le battaglie lunghe e i discorsi prolissi. Entrambi
richiedono troppa energia.
Proverbio dei nani
XIII
M
allenia era sinceramente contenta di vedere i
numerosi volti conosciuti e sconosciuti che l’avevano
accompagnata nel tempio di Palandiell a
Hochstetten.
Si sentiva a disagio solo perché aveva un vestito
con cui sembrava stranamente delicata e indifesa. Inoltre gli
uomini le lanciavano occhiate che non avrebbe mai ricevuto
con l’armatura. A chi può piacere indossare un abito come
questo?
In quella rotazione della dea, poco dopo la luna piena del
ciclo invernale dell’equinozio, sarebbe stato firmato il contratto
tra il Regno unito del Gauragar-Idoslân e il regno elfico del Ti
Lesîndur, che avrebbe suggellato la cessione di molte miglia
quadrate di terreno nel Nord.
Il sancta sanctorum circolare di marmo verde e bianco aveva
un importante significato simbolico. Sul lato meridionale si
ergeva una statua della dea, alta dieci passi, e sulle pareti
erano dipinte raffigurazioni delle gesta di Palandiell.
Non erano necessarie sedie né panche perché il pavimento
era fatto di morbida terra rastrellata. Poiché l’interno
dell’edificio era caldo, crescevano fiori e piante in ogni
stagione. Solo qualche tavola di legno proteggeva le scarpe
costose degli ospiti dalla sporcizia.
La statua della dea, con un fascio di spighe di vari cereali
nella mano destra tesa in avanti e una cornucopia sotto il
braccio sinistro, osservava i presenti dall’alto. Intorno alla testa
aveva viticci da cui pendevano grappoli d’uva, e sotto i piedi le
spuntavano fili d’erba dorata. Il marmo pregiato non era
dipinto, in modo che si potesse ammirare la qualità della pietra.
I gradini davanti a Mallenia conducevano a un lungo altare
d’acciaio su cui venivano posate e bruciate le offerte. La pietra
sacrificale, che serviva per l’immolazione degli animali, si
trovava un po’ più in là. In quella rotazione Mallenia aveva
proibito ai sacerdoti di uccidere essere viventi e ordinato di
usare frutta e cereali. Non voleva spargimenti di sangue
durante la donazione.
Oltre a Rodario, c’erano Dirisa, Astirma e perfino Isikor,
accompagnati dalle rispettive corti e da una moltitudine di
guardie per difendersi da eventuali sicari albici. I soldati erano
disposti in varie file dietro i sovrani.
Al centro del gruppo c’era anche Sha’taï, che aveva preferito
restare con la cameriera.
L’imperatore dei nani era stato invitato, ma non si era fatto
vivo. Un peccato, ma nulla d’irreparabile. Dopotutto, Mallenia
aveva stretto un accordo con gli elfi, non coi nani.
Mentre i sovrani e il loro seguito erano nella parte anteriore,
vicino al sancta sanctorum, altri tremila umani di ogni età
sostavano nella zona centrale e posteriore dell’edificio, oltre
una fila di guardie. Il brusio riverente ricordava il fruscio
dell’erba nel vento.
«Il tempio è pieno fino all’inverosimile», bisbigliò Rodario,
che era riuscito a riunire un numero incredibile di colori nel
proprio abbigliamento, una scelta che distoglieva l’attenzione
dal taglio impeccabile. «I tuoi sudditi si accalcano sulla piazza
qui davanti. La folla arriva fin nelle vie più lontane di
Hochstetten.»
«Non sembri felice della partecipazione degli umani.»
Mallenia guardò la statua di Palandiell, che sorrideva benevola.
L’aria profumava d’incenso e di erbe bruciate. Il tempio era
inondato di luce che, filtrando dalle finestre, si concentrava
sulla scultura.
«Il malumore serpeggia tra la folla. Non tutti sono
soddisfatti del cambiamento.» Rodario si era spuntato barba e
baffi e truccato leggermente gli occhi. Non riusciva a
rinunciare del tutto a farsi notare. «Per sicurezza, prima della
cessione dovresti chiedere quale sarà il destino degli abitanti
della regione interessata.»
«Non sono più di un milione. La zona è poco popolata e non
particolarmente fertile. Palandiell non tiene in gran conto
quelle terre. Possiamo benissimo trasferire gli abitanti nelle
altre città del Gauragar e dell’Idoslân», replicò Mallenia,
ottimista. La crocchia le tirava il cuoio capelluto e le causava
una sensazione fastidiosa alle tempie. «Capiranno che è un
miglioramento.»
«Un milione d’insoddisfatti, mia regina, può far dilagare la
scintilla della rabbia.»
Mallenia si girò verso di lui, benché si fosse ripromessa di
non farlo. «La delegazione del Naishïon arriverà tra poco. È un
po’ tardi per i ripensamenti.»
«D’accordo, ma almeno chiediglielo. Devono pur sapere
come intendono usare le terre.» Rodario le sfiorò la mano.
«Voglio evitare che i tuoi sudditi ti caccino dal Paese perché
fraintendono il tuo gesto nei confronti degli elfi.»
Il buonumore di Mallenia rischiò di svanire, tanto più che il
vestito rivelava di lei e del suo corpo più di quanto i sarti
avessero promesso. Non le piaceva neppure l’idea di voltare le
spalle al popolo.
Stava per ribattere quando i cinque sacerdoti e le cinque
sacerdotesse entrarono da una porta laterale e si avviarono
verso la statua cantando solennemente.
Non c’era più tempo per le parole, la cerimonia era iniziata.
I dieci uomini e donne dalle vesti verdi ricamate resero lode
a Palandiell. Il popolo e i sovrani si unirono al coro.
Mallenia dimenticò il malumore, salmodiando a sua volta e
provando un brivido quando la cupola amplificò il canto. La
Terra Nascosta è più unita che mai. Ci sono voluti
duecentocinquanta cicli di oscurità per ottenere questo
risultato.
Il fuoco fu acceso con una scintilla presa dalla fucina di
Vraccas e attizzato sulla pietra sacrificale. Le offerte
bruciarono sul letto di carboni ardenti e il fumo salì verso il
soffitto, dove uscì da sfiati sapientemente nascosti e raggiunse
la dea.
Uno squillo di tromba annunciò l’arrivo degli elfi, che
entrarono nel tempio facendo un profondo inchino.
Indossavano vesti bianche e verdi in onore di Palandiell.
La moltitudine fece ala al passaggio dei nuovi ospiti,
consentendo loro di arrivare fino alle tavole. Mentre
incedevano solennemente verso i sovrani, gli elfi gettavano
semi sul terreno.
«Guai a loro se sono malerbe», mormorò Rodario a voce più
alta del dovuto, strappando una risata a un sacerdote.
«Sono semi di cereali donati da Sitalia», urlò l’elfo dai
capelli bianchi in testa alla fila, facendo ammutolire tutti i
presenti. Aveva una vistosa ciocca dorata che gli scendeva fino
alla cintura. «Che germoglino e producano molte spighe che
diventino un tutt’uno con quelle degli umani, affinché
mangiamo pane ricavato dalla stessa farina.» Dopo avere
superato lo sbarramento di residenti, guardie e cortigiani,
s’inchinò davanti alla statua. «Mi chiamo Tehomín. Sono qui in
veste di delegato del Naishïon.» Gli elfi lo raggiunsero e si
disposero in una formazione a punta di freccia. «Il sole non è
mai sorto su rotazione più straordinaria e importante di questa,
regina Mallenia, sovrana dell’Idoslân e del Gauragar.»
«Ringraziamo Palandiell.» La donna gli fece segno di
mettersi al suo fianco. «Il terrore è stato sconfitto. Alle tenebre
seguono un’amicizia e una solidarietà inossidabili tra i popoli.»
Quando si accorse che Rodario apriva la bocca, forse per
informarsi sulle sorti degli umani nella regione interessata, lo
fulminò con lo sguardo. È un mio problema.
Tehomín l’affiancò. «Rispetteremo le terre che riceveremo
da voi e dal Gauragar, ve lo assicuro», disse a bassa voce. «Con
le nostre cure prospereranno e daranno messi copiose.
Occorrerà tempo, ma per fortuna ne abbiamo in abbondanza.»
Mallenia fece cenno al sacerdote di continuare coi sacrifici.
La cerimonia proseguì tra altri canti finché Palandiell non
diede la propria benedizione.
Sulla piattaforma davanti alla statua furono collocati un
tavolo e due poltrone per l’Ido e gli elfi. Mallenia e Tehomín si
accomodarono. I servitori portarono calamaio, penne e i
documenti che, una volta firmati, avrebbero ufficializzato gli
accordi verbali.
«Col presente, la sottoscritta regina Mallenia von Ido,
sovrana di tutte le terre e le forme di vita nell’Idoslân e del
Gauragar, affida il Nord del Gauragar, così come indicato sulle
mappe, al popolo degli elfi senza pretendere denaro né altri
doni», lesse. «La cessione durerà in eterno e ha validità
immediata.» Si piegò per prendere la penna dal calamaio.
«Chi avesse qualcosa da obiettare parli ora o taccia per
sempre», echeggiò una voce profonda.
I presenti trattennero il fiato.
Tra la calca si aprì un corridoio e le guardie furono spinte
via con forza.
Un nano con l’armatura e una corona stilizzata intorno
all’elmo si fece largo verso la statua. Le suole chiodate
sbatterono sulle assi facendo scricchiolare il legno. Nella
destra impugnava il mazzapicchio, da cui anche il più ingenuo
avrebbe intuito che intendeva impedire la cessione.
Nessuno osò fermare l’imperatore, che era riuscito a fare un
ingresso indimenticabile.
Mallenia non sapeva come comportarsi. Guardò Rodario, che
fece un impercettibile gesto conciliante, e poi Tehomín, che non
avrebbe potuto avere un’espressione più sbalordita.
«Per Vraccas! Io avrei qualcosa da obiettare!» Boïndil si
fermò a tre passi dal tavolo. Posò con forza il mazzapicchio
sulle assi, provocando un rimbombo che echeggiò nel tempio
come un tuono secco e sommesso. «Se qualcuno si degnasse di
chiedermelo.»
Mallenia sospirò. «Avete accettato il mio invito», replicò in
tono formale. In quel momento non si parlavano da amici.
«Tuttavia il programma prevede una cerimonia e una festa, non
una disputa. Devo pregarvi di spostarvi nella fila del Consiglio.
Oppure fuori, se preferite», aggiunse con tutta la calma e la
cortesia che riuscì a trovare.
Rodario annuì come se stesse dando istruzioni a un attore da
dietro le quinte, ma non s’intromise.
«Saranno anche le vostre terre, regina, ma così i Quinti
diventano i nuovi vicini degli elfi», disse Boïndil, cauto.
«Dunque ritengo più che giusto avere voce in capitolo. Il
Naishïon ha tutto l’interesse che la questione venga chiarita
prima del trasferimento degli elfi. O sbaglio?» Guardò Tehomín.
Il delegato chiamò uno dei suoi compagni e gli parlò
sottovoce in elfico, quindi annuì. «Mi scuso a nome del mio
signore. Naturalmente avremmo interpellato voi e i Quinti,
imperatore Blindil.» Si posò la mano sul cuore. «Vi prego di
accettare le mie scuse, amico nano.»
«Fatevi dire dalla regina il mio nome corretto, altrimenti vi
chiamo Tüdelün.» Boïndil non sembrava colpito né entusiasta.
Accennò alla statua. «Palandiell e Vraccas hanno lottato
insieme contro Tion. Sono stati alleati. Vorrei essere sicuro che
altri alleati si uniscano alle nostre file.»
«Si chiama Boïndil», suggerì Rodario, imbarazzato. «Boïndil
Duelame del clan dei Branditori d’ascia, re dei Secondi e
imperatore di tutte le stirpi dei nani.»
«Siamo alleati», dichiarò Tehomín, guardandolo. La ciocca
dorata brillò sotto il sole. «Se non avete altre…»
«Che ne sarà degli umani che vivono in quella regione?» Il
nano posò le mani inanellate sul manico del mazzapicchio.
Pareva che nulla potesse indurlo a tagliare corto né a perdere
la calma. «Finora ho sentito parlare di una donazione di terre,
ma non di persone. O dei loro averi. Spiegatevi meglio.» Indicò
col pollice sopra la spalla. «Vi ascoltiamo volentieri.»
Ha tolto le parole di bocca a Rodario. Mallenia guardò
l’attore e cercò di capire se fosse stato al corrente dell’arrivo
dell’imperatore.
Tehomín fece il sorriso più gentile che la Terra Nascosta
doveva avere mai visto. «Mi rovinate la sorpresa.»
«Caccerete via gli abitanti?»
«Li risarciremo per la perdita dei terreni. A prescindere che
si tratti di semplici contadini o di nobili.»
«Onesto.» Boïndil accennò al documento. «E lo avete scritto
anche lì?»
«Sì, imperatore.» Tehomín posò due dita sul foglio. «Nella
terza riga. Volete che la legga?»
«Sono ansioso di ascoltarla.» Il nano si mise comodo. «E non
dimenticate i servitori e coloro che non possiedono terre ma si
sono guadagnati da vivere col sudore della fronte.»
Gli manca solo un boccale di birra. Mallenia trovò
inammissibile il comportamento dell’imperatore e allo stesso
tempo si chiese perché non fosse stata lei a fare quelle
domande. Guardandosi intorno, notò lo stesso interrogativo
inespresso sui volti degli spettatori. Si sentì messa in ridicolo.
Tehomín aveva ritrovato la calma. Evidentemente avere a
che fare col nano lo divertiva. Lanciò una lunga occhiata a
Mallenia, contraendo gli angoli della bocca. «Col presente, il
popolo degli elfi giura di essere sempre un fedele alleato della
Terra Nascosta contro il male. Resteremo al fianco dei nani,
degli umani e di coloro che si sono votati al bene.» Passò al
capoverso successivo. «Ci prenderemo cura delle terre che
riceviamo dalla regina Mallenia, dalla pianta più minuscola
all’animale più imponente.» Guardò il nano. «Ora arriva la
risposta alla vostra domanda: A ogni uomo, donna o bambino
che possiede delle terre nel Nord del Gauragar – terre che
d’ora in poi ci apparterranno per sempre – verrà pagato un
risarcimento. Spetterà un indennizzo anche a chiunque lavori
in quella regione. Le terre dovranno essere sgomberate entro
la primavera della prossima rotazione.» Tehomín raddrizzò la
schiena. «Il testo ha la vostra approvazione, regina Mallenia
von Ido?»
Lei fece sì con la testa.
«E la vostra, imperatore?»
«Aggiungete che donerete cento botti di birra scura per
salutare i nuovi vicini.» Boïndil additò il foglio. «E a mo’ di
risarcimento perché non conoscevate il mio nome.»
Rodario scoppiò in una risata contagiosa.
Mallenia trasalì, tendendo i muscoli poderosi. Vide la propria
autorità minacciata dall’affettazione del nano. Boïndil aveva
manipolato la cerimonia come se potesse influire sulla sua
decisione di cedere le terre.
Ma Rodario si avvicinò e, con una pressione impercettibile,
le impedì di saltare su dalla poltrona.
Tehomín rise. «Boïndil Duelame del clan dei Branditori
d’ascia, re dei Secondi e imperatore delle stirpi dei nani, siete
davvero un sovrano dalla spiccata personalità. Per noi sarà un
onore avere voi e i Quinti come vicini.»
Boïndil assentì e si mise il mazzapicchio in spalla. «Bene.
Non ho più nulla da obiettare contro la cerimonia.» Rimase
fermo ad aspettare che sottoscrivessero l’accordo. Vedendo che
nessuno dei due si muoveva, li esortò con un gesto.
Mallenia chiuse gli occhi per due o tre secondi e ringraziò
Palandiell per non avere ucciso il nano nel tempio
seppellendolo sotto una pietra o sotto la cornucopia della
statua.
I sacerdoti alzarono la voce e cantarono mentre la regina e
l’elfo firmavano. Sul sancta sanctorum scese di nuovo
un’atmosfera solenne.
Boïndil assistette alla firma con un’espressione mesta sul
vecchio viso barbuto.
Non poteva né voleva negare di avere altri pensieri oltre alla
preoccupazione per gli umani, pensò Mallenia, ma era
abbastanza saggia da non chiederglielo in quell’istante.
La regina e Tehomín si alzarono, si scambiarono i rotoli e si
strinsero la mano. Poi l’elfo percorse la fila dei sovrani e
s’inchinò davanti a tutti, compreso il nano, che si limitò ad
annuire rabbiosamente.
Il protocollo prevedeva che Mallenia e Tehomín
annunciassero al popolo l’alba della nuova era davanti al
tempio. Lasciarono l’edificio e si diressero verso il primo
gradino.
Le guardie coi loro scudi lunghi si assieparono intorno ai due
aristocratici per dare filo da torcere a eventuali arcieri. Ogni
casa dei dintorni era stata perquisita, sui tetti c’erano soldati
incaricati d’individuare i malintenzionati tra la folla o alle
finestre. Le probabilità di un attentato erano quasi nulle.
Quando la moltitudine vide i due sovrani, cominciò a urlare.
La regina sorrise finché capì che non li stava acclamando. Ci
fischiano?
«Ora rimpiangerai che io non abbia fatto quelle domande qui
fuori.» Boïndil lasciò vagare lo sguardo.
Rodario la prese per il gomito. «Hai troppo poche guardie
per tenere l’orda sotto controllo. Andiamocene.»
Tehomín aveva compreso la situazione e alzò le braccia.
«Ascoltate!» urlò mostrando il contratto. «Ascoltate cos’è stato
deciso per il bene della Terra Nascosta!»
Boïndil saltò sul basamento di una colonna per farsi vedere e
agitò il mazzapicchio. «Volete tacere, per Vraccas? Ascoltate,
prima di belare come stupidi pecoroni!» tuonò.
Sulla piazza calò il silenzio.
«Non ci fidiamo degli elfi», gridò un temerario. «Perché
arrivano solo adesso? Dov’erano nei cicli precedenti?»
Mallenia lo individuò tra la calca. «Tu, vieni avanti. Voglio
che ti sentano tutti.»
L’uomo si fece strada tra la gente e salì due gradini. Ripeté la
domanda, suscitando un mugugno di approvazione tra gli
spettatori.
«La memoria torna ai racconti del periodo in cui gli Eoîl Atár
hanno portato la sciagura nel Paese.»
Mallenia strinse le labbra. L’avevo dimenticato. Un altro fatto
inspiegabile.
A quel punto, Tehomín fece qualcosa di così sorprendente
che per poco Boïndil non perse l’equilibrio. S’inginocchiò
davanti all’uomo, con la ciocca dorata che tintinnava sul
marmo. «Ti chiedo perdono se gli Eoîl Atár hanno fatto del
male ai tuoi antenati. Erano accecati. Fanatici. Pazzi. Si
consideravano puri, ma nel profondo erano più corrotti di
quanto potrebbe esserlo Tion.» Allargò le braccia. «Non
accadrà più. Il regno di questi elfi è sinonimo di onestà.»
L’uomo lo guardò incredulo. «Sono parole che possono
significare tutto e niente. Suonano bene, ma gli elfi sono
sempre stati bravi a cianciare.»
Mallenia sentì qualcuno che le toccava la mano.
Sha’taï si era avvicinata e incollata alla sua gamba e al suo
fianco. «Non avere paura. Filerà tutto liscio.»
La regina colse la sicurezza nella sua voce e le lanciò
un’occhiata stupita. Si sentì contagiare dall’ottimismo infantile.
«Vuoi una prova?» Tehomín sfoderò il pugnale di una
guardia e lo porse all’uomo tenendolo per la lama. «Uccidimi, e
ti giuro che gli elfi non attenteranno alla tua vita né a quella
dei tuoi cari.»
Nel silenzio assoluto sì udì un frullo d’ali quando alcune
colombe volarono sopra le teste dei presenti.
L’uomo fissò il pugnale, allibito. Chiuse lentamente le dita
intorno al manico e puntò gli occhi su Tehomín.
L’elfo rimase in ginocchio. «Oggi è un momento storico
indimenticabile. Mettici alla prova», disse impavido.
Mallenia non osò muoversi. Boïndil spostò lo sguardo da
Tehomín all’uomo e viceversa.
Il braccio col pugnale scattò in avanti, poi la punta della
lama centrò il petto dell’elfo e si fermò quando il metallo
penetrò nel tessuto. Per quanto debole, il fendente bastò per
arrivare fino alla pelle e infliggergli un taglio, come dimostrava
la macchia scura che si allargò sulla stoffa verde.
L’uomo, atterrito, mollò l’arma e indietreggiò sui gradini.
«Io… io pensavo che lo schivasse», balbettò.
Tehomín strinse i denti. «Grazie per avermi risparmiato la
vita.» Si alzò senza badare al dolore. «Ti ho convinto?»
L’altro annuì e tornò tra la folla come se temesse una
ritorsione.
Che gesto! «In questo modo avete la prova che gli elfi sono
vostri amici. Gli dei hanno forgiato di nuovo il legame che ci
unisce e ci rende indistruttibili, qualunque cosa escogitino Tion
e Samusin», urlò Mallenia d’istinto, prendendo la mano di
Dirisa. «Scambiamoci un segno di fratellanza!»
Gli altri la imitarono, perfino le guardie e gli spettatori sulla
piazza. L’unica eccezione fu Boïndil, che restò aggrappato alla
colonna con una mano, stringendo il mazzapicchio nell’altra.
«Lunga vita a Mallenia von Ido. Lunga vita all’amicizia!»
gridò Rodario.
Sorprendentemente, la massa ripeté le sue parole,
acclamando la sovrana e gli elfi. Le voci diventarono sempre
più forti e le mani intrecciate si protesero verso il cielo finché
non si sciolsero per fare un applauso scrosciante.
«Permettete anche a me di dare un segno.» Dirisa tese la
mano a Tehomín. Mallenia faticò a sentirla tra le urla di giubilo.
«Rilascerò Phenîlas non appena farò ritorno nel Tabaîn. Non è
un assassino. Presenterò l’accaduto come un intrigo della
servitù.»
«Vi ringrazio», replicò l’elfo.
«Propongo che Rodario lo conduca personalmente dal vostro
signore», aggiunse Dirisa, amabile.
Boïndil saltò giù dal basamento mettendosi il mazzapicchio
in spalla. Il suo sconcerto era palese. «Che cosa c’entra
l’Irraggiungibile?»
«Come imperatore della Terra Nascosta dovrebbe essere lui
a incontrare il Naishïon», spiegò Dirisa come se fosse la cosa
più ovvia del mondo.
Boïndil fece una risata tonante. «Certo. Un attore come
sovrano supremo! Questa sì che sarebbe una farsa. Guardatelo:
sembra che sia caduto sulla tavolozza di un pittore.»
Mallenia invece trovò eccellente la proposta della regina.
Per controbilanciare gli elfi. «È un’idea brillante!» esclamò
gioiosa. «I nani hanno un imperatore», disse voltandosi verso
Boïndil. «Gli elfi, il Naishïon. A noi manca un imperatore.»
«Io voto a favore», intervenne Astirma.
«Non ci potrebbe essere candidato migliore», osservò Isikor,
un tipo anonimo dall’abbigliamento sobrio.
Mallenia diede un bacio a Rodario. «Si fa presto a diventare
il sovrano assoluto.»
«Manca ancora il voto di Coïra», obiettò Boïndil, guardandoli
come se fossero usciti di senno.
«Che ha ceduto a me», dichiarò Rodario, illuminandosi.
«Anch’io voto per me stesso, a nome sia dell’Urgon sia del
Weyurn.» Ricevette le congratulazioni dei sovrani e di Tehomín.
«Dobbiamo dare al popolo anche questa notizia. Una rotazione
mandata dagli dei! La Terra Nascosta non sarà mai più
sottomessa.» Diede a Boïndil una pacca sulla spalla. «Noi due,
entrambi imperatore.»
Il nano, perplesso, si grattò la barba.
Mallenia era molto orgogliosa. Un trionfo senza pari.
Sha’taï si staccò dal suo fianco e si strusciò contro gli ospiti
altolocati, che le accarezzavano i capelli non appena si
accorgevano della sua presenza.
Mallenia si avvicinò a Rodario. «Dobbiamo fare altri sacrifici
a Palandiell. La tua reggenza dovrà essere longeva.» Con la
coda dell’occhio vide la figlioccia prendere per mano Boïndil ed
esaminare il suo anello; il nano tuttavia ritirò le dita
borbottando e si voltò per andarsene. E pacifica, spero.
I
l Rabbioso e i suoi compagni si addentravano sempre di
più nel giovane impero elfico. L’imperatore aveva portato
con sé una delegazione più numerosa, e non solo perché si
conveniva alla sua posizione e alla sua carica.
La ragione non erano nemmeno gli eventuali sicari
albici.
In presenza della ragazzina arrivata dalla Terra dell’Aldilà si
sentiva a disagio: davanti al tempio di Palandiell aveva notato
che gli umani cambiavano idea con facilità non appena la
vedevano. Si era circondato dei migliori guerrieri, nel caso
tirasse una brutta aria.
Forse era scorretto, ma Boïndil credeva che i radicali
cambiamenti nella Terra Nascosta fossero imputabili
unicamente a Sha’taï. Doveva riconoscere che la ragazzina
aveva portato la pace e la conciliazione quando, nel Tabaîn, i
rapporti con gli elfi avevano rischiato di guastarsi, ma la sua
opera buona aveva un difetto: l’inspiegabile disponibilità dei
presenti. Quell’atmosfera di letizia misteriosa prevaleva
dall’incoronazione a Hochstetten, e il Rabbioso la notò anche
durante il viaggio verso l’impero degli elfi.
La cortesia cresceva come una pianta rampicante,
avviluppando gli umani e soffocando la loro mente. Le obiezioni
alla nomina di Rodario I giungevano tutt’al più da regioni
remote della Terra Nascosta, mentre per il resto gli umani si
sentivano finalmente sullo stesso piano dei nani e degli elfi.
L’euforia prendeva piede.
Boïndil non era infastidito dall’ottimismo, ma riteneva che
non fosse spontaneo. Guardò verso l’avanguardia, che si
trovava già in un piccolo villaggio e aveva dato il segnale di via
libera.
Dietro il paesino si stendeva una fitta foresta di abeti
all’interno della quale c’era il punto d’incontro.
«L’ennesimo insediamento abbandonato», disse Aurogar
Manolarga del clan dei Cercargento, un aitante guerriero della
stirpe dei Quarti. «I sudditi di Mallenia hanno fretta di partire.»
«Nessuno vuole restare qui, se ha le tasche piene d’oro.» Il
Rabbioso raddrizzò le spalle. A forza di cavalcare gli doleva
anche il posteriore. Dobbiamo ripristinare i tunnel veloci. Gli
scomodi viaggi a cavallo delle rotazioni precedenti lo avevano
affaticato. «Se io fossi senza coscienza né decoro, formerei una
banda e vagherei per queste terre in cerca di umani da
derubare dei loro tesori.»
Aurogar annuì. «Meno male che noi nani siamo così onesti.
Pur apprezzando l’oro.» Rise, imitato dall’imperatore.
Il corteo di cinquanta guerrieri attraversò un mondo
innevato e il Paese che fino a poco tempo prima faceva ancora
parte del Gauragar. Nemmeno quell’enorme donazione
suscitava più le proteste del popolo. Gli elfi e gli umani si erano
avvicinati e avevano reso la Terra Nascosta più forte che mai, si
diceva ovunque.
Boïndil continuò a sospirare e a rimuginare. Il fatto che
Tungdil fosse scomparso non aiutava. Mi chiederanno di lui.
Tutti quanti.
Verso sera raggiunsero la città di Barenbrock, anch’essa
abbandonata dagli abitanti.
Sopra le mura tuttavia sventolavano gli stendardi elfici.
Nonostante il freddo e il ghiaccio, gli artigiani avevano
cominciato a conferire alla fortezza forme più arrotondate
tagliando le parti spigolose e a dipingere le pietre con elaborati
motivi rossi, porpora, gialli e neri.
«Niente male», approvò Aurogar. «Ma stanno cercando di
scolpire linee circolari nella roccia friabile. Non ci riusciranno.
Per giunta usano l’attrezzo sbagliato.»
«Non sono di queste parti.» Il Rabbioso ridacchiò. «Dovresti
dirglielo. I tuoi consigli verrebbero ascoltati da orecchi aguzzi,
anzi appuntiti.»
La frecciata fu accolta dalle risate fragorose dei nani più
vicini al sovrano.
I guerrieri elfici davanti alla porta lasciarono passare il
corteo e fecero il saluto militare.
«Stento a crederci», commentò Aurogar, ricambiando il
gesto con grande rispetto.
Boïndil, tuttavia, sapeva che lui e gli altri non avevano
abbassato la guardia. Il rimedio bianco d’occhi faceva di ogni
elfo un possibile albo. Chi lo dimentica può perdere la scintilla
della vita più rapidamente di un’ascia fissata male durante la
corsa.
Da ogni vicolo che superavano lungo la strada principale
giungevano martellii e zoccolii. I nuovi proprietari
ristrutturavano Barenbrock e la modificavano secondo criteri
elfici affinché corrispondesse ai gusti dei futuri abitanti. Di
tanto in tanto si udivano schianti e tonfi, le tegole d’argilla
tintinnavano; la polvere e la neve vorticavano e cadevano sui
tetti. Gli artigiani non esitavano a eseguire lavori di
demolizione.
Il corteo sbucò sulla piazza del mercato, intorno alla quale
molti edifici erano stati abbattuti e sostituiti da porte circolari
disposte in fila.
Al centro s’innalzava una casa a diversi piani, tutta di legno,
con tetti arcuati sovrapposti, campanelli sulle travi e statue nei
punti più alti.
Alle estremità delle grondaie facevano bella mostra di sé
doccioni a forma di bestie. Le travi gigantesche erano
verniciate di bianco, decorate di rune rosse e gialle, con lunghi
vessilli neri che, costellati di rune candide a forma di fiore,
pendevano dall’ultimo piano e garrivano nel vento.
Dai segni sottili il Rabbioso intuì che la costruzione, sebbene
gigantesca e impressionante, era stata assemblata alla bell’e
meglio. Dev’essere rapida da montare e smontare. A quanto
pareva, il Naishïon preferiva pernottare in un palazzo da
viaggio tutto suo. «Una fortezza mobile sarebbe utile»,
mormorò sorridendo.
«A me non piace.»
«Non mi riferisco allo stile, bensì al fatto che si possa
scomporre e impilare velocemente.» Boïndil apprezzava la
genialità dell’idea, ma sapeva che era irrealizzabile per via del
peso.
Aurogar rise. «Erigere una fortezza ogni volta, questo sì che
sarebbe divertente. Avremmo dovuto pensarci prima. Avremmo
avuto qualche vantaggio in battaglia.»
Il Rabbioso fece fermare il corteo e ordinò ai guerrieri di
scendere dai pony. Formarono un quadrato intorno
all’imperatore e, con lui al centro, si avviarono verso la
struttura sorvegliata da guardie elfiche.
«A cosa servono, se tra loro c’è un Occhineri?» chiese
Aurogar.
Metà dei nani si fermò poco prima degli scalini che
conducevano all’ingresso con le porte di bronzo rotonde. Gli
altri salirono i gradini fino alla porta, che si spalancò.
Un elfo elegantemente abbigliato si parò loro davanti e
allargò le braccia, per poi unirle sul petto e inchinarsi. «Vi do il
benvenuto a nome del mio signore, imperatore Boïndil.
Scegliete tre dei vostri guerrieri migliori e pregate gli altri di
attendervi in questa anticamera, come ha già fatto Rodario I.»
Il Rabbioso non intendeva rinunciare alla protezione. «Ho
soltanto guerrieri migliori. Come faccio a scegliere?»
«Allora prendi i più intelligenti.»
«Sono tutti intelligenti. Come vedi, non troviamo un
accordo.»
«I più intelligenti sono quelli che si tirano indietro e
mandano avanti i migliori.»
Aurogar sbuffò e roteò gli occhi. «Ciance elfiche», disse nella
lingua dei nani. «Mettono in fuga perfino i mezz’orchi.
Immaginate cosa sarebbe successo se i Musi di porco avessero
chiesto la strada a un elfo e non a uno di noi.»
Gli altri risero.
«Così non andiamo da nessuna parte.» Boïndil snocciolò tre
nomi senza pensarci troppo. Si tolse i mantelli, rivelando
l’armatura. «Aurogar, resta qui e fa’ il bravo.» Gli consegnò gli
indumenti. «Al mio segnale fa’ ciò che abbiamo concordato.»
Posò la destra sulla testa del mazzapicchio.
L’elfo socchiuse gli occhi, ma non fiatò mentre i nani
entravano nell’anticamera.
Nella stanza c’erano guerrieri coi colori dell’Urgon sulle
corazze. Riuniti in gruppetti, fecero cenni di saluti ai nani. Gli
elfi andavano qua e là con vassoi carichi di tè e spuntini.
Il Rabbioso e i suoi tre compagni furono guidati lungo un
corridoio verso un’altra porta circolare di bronzo, sorvegliata
da quattro guardie che aprirono l’uscio e li lasciarono passare
soltanto dopo che il comandante ebbe pronunciato un
complicato vocabolo di otto sillabe.
Le cose si fanno molto interessanti. Boïndil non ricordava
neppure le prime tre lettere della parola d’ordine.
Oltre la soglia c’era un locale profumato d’incenso e di fiori.
L’olezzo, che gli solleticò e irritò il naso, era troppo intenso per
i suoi gusti. Lo sguardo gli cadde sulle tre guardie umane e
sulle tre elfiche in piedi dietro Rodario e il Naishïon.
E la piccola umana funesta!
Sha’taï era accomodata accanto all’imperatore della Terra
Nascosta, graziosa e innocua, con gli occhi grandi e un sorriso
timido sulle labbra.
Il Rabbioso sbuffò, un gesto più eloquente di qualunque
parola. Vraccas, ne vedremo delle belle. «Tenetemi d’occhio»,
sussurrò al nano più vicino. «Se mi comporto diversamente dal
solito, tramortitemi e portatemi fuori.»
L’altro parve confuso.
Boïndil scrollò il capo e andò verso la poltrona libera. Grazie
al sedile alto, poteva guardare l’uomo e l’elfo negli occhi, cosa
che lo mise a suo agio. «Eccomi. I tre potenti si sono riuniti.»
Annuì magnanimo. «E forse addirittura i più potenti di tutti»,
aggiunse dopo una breve pausa, fissando Sha’taï. Appoggiò
l’arma al tavolo.
«Che cosa intendi?» chiese Rodario, più variopinto di un
arcobaleno. Aveva i capelli acconciati in modo singolare; i baffi
e il pizzetto erano lustri di olio.
«I bambini inteneriscono anche i più duri tra noi», replicò
Boïndil, attenuando l’allusione. «A meno che un albo non voglia
il loro sangue e le loro ossa.»
Sha’taï non aveva reagito come previsto. Non si era
spaventata né gli aveva lanciato occhiate torve. Le ferite sul
collo si erano ridotte a graffi superficiali. Era là che la lama
dello scrittore doveva averla colpita.
Ataimînas sorrise educatamente. Indossava un mantello di
seta bianca con fili d’oro e d’argento, una veste nera attillata e
una fascia dello stesso colore intorno ai fianchi. «Benvenuto nel
Ti Lesîndur, imperatore Boïndil.»
«Grazie. Che la benedizione di Vraccas sia con noi.» Il
Rabbioso si guardò in giro. «Dove sono gli altri?» E che fine ha
fatto la birra?
«Quali altri?» Rodario aggrottò le sopracciglia.
«La Terra Nascosta ha altri reggenti oltre a te.»
«E più sovrani naneschi di te, eppure sei venuto da solo»,
ribatté l’uomo, con una strizzatina d’occhio maliziosa.
«Risparmiati le smancerie! Forse ti aiutano con le donne,
ma…»
«Questa rotazione è dedicata a noi tre, i sovrani supremi dei
popoli della Terra Nascosta», intervenne Ataimînas. «Dobbiamo
essere unanimi sulla direzione che la nostra patria prenderà
nei prossimi cicli prima di definire nel dettaglio ciò che
pretendiamo dai diversi regni.»
«Ciascuno deve mettere a disposizione le proprie capacità
migliori e le risorse più abbondanti», continuò Rodario.
«Be’, noi nani abbiamo montagne di pietre.» Il Rabbioso
incrociò le braccia muscolose. «Gli altri arrivano domani,
dunque?»
Gli altri due sovrani annuirono.
«Lo trovo assai strano.»
«Perché sei così scontroso, amico mio? La cavalcata ti ha
tolto il buonumore?» Rodario allargò le braccia con sussiego.
«Guarda, siamo pari tra i pari.»
«Ti espongo la mia opinione.» Il Rabbioso sentì ribollire il
sangue. Era passato troppo tempo dall’ultima birra. «Voglio che
siamo tutti presenti quando parliamo del futuro.»
«Allora ordina anche ai tuoi sovrani di venire a Barenbrock.»
Rodario accarezzò i capelli di Sha’taï, come se la ragazzina
fosse un portafortuna.
«Non abbiamo bisogno di loro. Il contributo che il mio
popolo potrà dare nei prossimi cicli, finché brillerà una scintilla
nella fucina della vita anche solo di un nano, è evidente.» Diede
un colpetto al manico del mazzapicchio. «La protezione degli
elfi e degli umani. Una cosa simile ha un valore inestimabile. E
possiamo fornire l’acciaio. Il migliore.»
Ataimînas si rilassò un poco. «Me ne rallegro.»
Se ne rallegra. L’inquietudine aumentò e fece affiorare più
rapidamente le parole alle labbra del Rabbioso. «Credo perfino
che tu mi sia grato per avere trattenuto i Nuovi Arrivati finché
non trovate un antidoto al bianco d’occhi. Prego, Naishïon. È
anche così che proteggo la Terra Nascosta.» Si morsicò la
lingua. «C’è una birra?» domandò imbarazzato dopo essersi
schiarito la voce. «Scura.»
Rodario posò le mani sul tavolo, allungò lentamente le
braccia e assunse un’aria assai boriosa. Il suo comportamento
teatrale si era unito all’arroganza imperiale. «Ti suggerisco di
moderare un poco i termini», lo rimproverò, in tono altezzoso.
«Sappiamo che…»
«Perdonatemi se v’interrompo, Rodario I, ma l’imperatore
Boïndil ha assolutamente ragione.» Ataimînas si rabbuiò. «Da
quando esiste l’inimicizia, anzi l’odio, tra elfi e albi, non è mai
accaduto che siano sfuggiti alla maledizione. L’arma più
efficace che hanno contro di noi è la diffidenza. Il mio popolo
potrà dimostrare tutta la propria forza soltanto quando saremo
sicuri di avere smascherato ogni singolo albo. Ci vorrà del
tempo. Fino ad allora ti supplico, imperatore, di tenere chiuse
le porte. Non far entrare nessun elfo che prima non sia stato
controllato.»
Nonostante l’apprensione, il Rabbioso si meravigliò. «Avete
trovato un metodo per individuare gli Occhineri?»
«Ci stiamo lavorando, ma speriamo di accelerare le cose.»
Ataimînas unì le dita, cariche di anelli nonostante i guanti di
cuoio sottile. «Finora abbiamo quattrocento elfi, tra guerrieri e
guaritori, che sono stati sottoposti ad apposite verifiche e
appartengono indiscutibilmente al mio popolo. Col tuo
permesso, dieci elfi di ciascuno dei due gruppi si trasferiranno
nei regni dei nani per esaminare i Nuovi Arrivati davanti alle
porte mentre gli altri metteranno rigorosamente alla prova
quelli che si trovano qui.»
Il Rabbioso studiò l’elfo, i cui occhi verdi luccicavano come
se fosse sull’orlo delle lacrime. Voglio saperlo. «E tu?»
«Rabbioso! È il Naishïon!» s’indignò Rodario.
«È un elfo.» Boïndil gli rivolse un’occhiata penetrante. «O un
albo? Quali prove abbiamo?» Maledetto fuoco interiore! Mi
serve la birra per spegnerlo!
Ataimînas si alzò.
Anche se in un primo momento il Rabbioso credette che
volesse andarsene e mandare a monte l’incontro, l’elfo si
spogliò fino a restare a torso nudo e voltò loro le spalle.
All’altezza del cuore si vedeva un segno che poteva sembrare
un tatuaggio ma che, a un esame più attento, si rivelava
un’ustione con tanto di cicatrici decorative. Il ghirigoro, sottile
e pieno di svolazzi, pareva un ornamento, ma i dolori dovevano
essere stati atroci.
«Questo è il sigillo di Sitalia. Viene tracciato sul corpo con
l’aiuto di un guaritore e caricato di magia elfica. Se un membro
del mio popolo lo tocca o pronuncia determinate sillabe,
s’illumina e conferma che chi lo ha su di sé è un vero elfo»,
spiegò il Naishïon.
«E nel caso di un albo?» insistette il nano.
«Non accadrebbe nulla, perché tutt’al più possono
dipingerlo.»
Il Rabbioso annuì, colpito. «Questa sì che è una verifica.»
«Posso vederlo da vicino?» chiese Sha’taï, con voce soave.
«No», bisbigliò Rodario. «Non puoi…»
«Certo.» Ataimînas le diede le spalle. «Guarda pure.»
La ragazzina si avvicinò esitante, salì sulla sedia dell’elfo e
ammirò il sigillo. «È bellissimo», sussurrò. «Quanto tempo
impiegano i vostri artisti per farlo, sommo signore degli elfi?»
«Sembra un’eternità», rispose Ataimînas. «Il tormento è la
verifica; il segno, la garanzia. La prova e la benedizione della
Creatrice.»
Il Rabbioso premette i palmi sul tavolo quando Sha’taï, con
finta incredulità infantile, toccò la pelle del Naishïon. Per un
attimo le linee parvero illuminarsi.
«Sha’taï!» la rimproverò Rodario, inorridito.
Impaurita, la ragazzina saltò giù dalla sedia e cadde sul
pavimento. «Perdonatemi, sommo signore degli elfi! Ma io…»
Ataimînas si rivestì e sorrise, tendendole le dita. «Non è
grave. Com’è stato?»
«Come… toccare una corteccia morbida.» Sha’taï gli prese la
mano e si tirò su. «Sommo signore degli elfi. Perdonate la mia
curiosità.»
Per Vraccas. Che cosa faccio se riesce a condizionare anche
lui? Il Rabbioso deglutì a fatica. «Ho sete.»
Ataimînas chiamò una guardia. «Certo, imperatore. Faccio
portare qualcosa da bere. Sembra che abbiate la gola secca
come se aveste lavorato a una fucina. La birra scura è di vostro
gradimento?»
Il nano annuì.
«E acqua e vino. Così la nostra chiacchierata sulla linea
d’azione comune sarà più piacevole.»
«A noi e a tutti gli dei! La Terra Nascosta si rafforza», esultò
Rodario, con troppo entusiasmo. «Dov’è il nuovo Tungdil? Si
farà vivo?»
Il Rabbioso avrebbe avuto bisogno di una seconda birra.
Molto abbondante e molto forte. «Si sta sgranchendo le gambe.
Potrebbe volerci del tempo.» Non aveva neppure dovuto
mentire.
U
n corpo a faccia in giù era sempre sinonimo
d’imboscata.
Hargorin guardò Gosalyn galoppare tra la pioggia
gelida e l’erba alta, in cui potevano essere in agguato
pericoli di ogni genere. Pazza.
«E poi ci meravigliamo se viene colpita da una freccia o da
una spada», borbottò Beligata. «Che cosa facciamo?»
Ormai Gosalyn era smontata dal pony e saltata oltre il bordo
della scarpata.
«Impediamo che muoia.» Hargorin partì al trotto e seguì la
linea di erba calpestata dal cavallino di Gosalyn. Quando
raggiunsero il punto in cui la nana aveva lasciato l’animale, la
videro correre attraverso l’avvallamento. Non le mancavano più
di trenta passi dal corpo della donna.
«Non ha neppure sfoderato l’arma», commentò Beligata, con
un misto di stupore e severità. Scese e tirò fuori la doppia
ascia.
«Va’ da lei!» ordinò Hargorin, smontando a sua volta. «Io vi
raggiungo.» Con la gamba di metallo non sarebbe riuscito a
tenere la stessa velocità.
Beligata annuì e si lanciò lungo il pendio.
Il nano legò le redini tra loro e avvolse cappi di cuoio intorno
alle zampe anteriori dei pony, quindi si avviò guardandosi
intorno con circospezione e impugnando saldamente la scure.
La pioggia incessante copriva eventuali suoni rivelatori. Il
fosso non offriva copertura da possibili tiratori armati di arco o
balestra.
Hargorin si avvicinò zoppicando al punto in cui le nane si
stavano occupando della donna.
«È morta», lo informò Beligata, sollevando l’asticciola di una
freccia nera. «Questa era accanto al corpo, il resto è conficcato
nel cuore.»
Una freccia albica. Hargorin si lasciò cadere su un
ginocchio, puntellandosi sulla scure per sicurezza. Osservò la
morta, che Gosalyn aveva girato sulla schiena. Non era Coïra,
ma indossava i suoi vestiti. Doveva avere circa sedici cicli.
«Un’apprendista, suppongo.»
«Un diversivo.» Beligata indicò il volto pallido, che grazie al
freddo non mostrava il minimo segno di decomposizione. «A
quanto pare, sono state inseguite da un Occhineri.»
«Poiché la maga non aveva energia sufficiente per un
incantesimo, si sono dovute accontentare di un inganno.»
Gosalyn guardò le rovine della fortezza, dove si trovava
l’ingresso delle grotte. «Dobbiamo scoprire se sono entrate.» Si
alzò. «Copriamo il cadavere con le pietre e andiamo a
controllare.»
Hargorin apprezzava il suo spirito d’iniziativa, ma
quell’irruenza rendeva difficile obbedire all’ordine di tornare
tutti sani e salvi. «In futuro aspetterai le mie istruzioni.»
Gosalyn fece per ribattere, ma poi annuì con espressione
colpevole. «Ero sicura che non ci fossero pericoli.»
«Forse lo era anche lei.» Hargorin chiuse gli occhi al
cadavere. «Ora è morta.»
«Giacché hanno un albo alle calcagna, dobbiamo sbrigarci»,
disse Beligata. «Lasciamo stare la morta. Trascinare le pietre è
solo uno spreco di tempo e di energie.»
Hargorin era d’accordo, anche perché voleva uscire dal
fosso, dove sarebbero stati un facile bersaglio. Si raddrizzò e si
arrampicò sull’altro lato della scarpata, seguito dalle nane.
A parte qualche pietra sgrossata rozzamente, della fortezza
non era rimasto quasi nulla. Ciuffi di erba rada spuntavano
dalla terra arida e parevano destinati ad annegare sotto la
pioggia o a essere schiacciati dalla neve. La presenza delle
bestie aveva ammorbato per sempre il terreno benché i resti
dei mezz’orchi non ci fossero più.
Si sarebbero intonati perfettamente a questo posto.
Hargorin vide gli accessi, murati con enormi blocchi di pietra
impossibili da spostare. Altrove s’innalzavano mucchi di detriti,
che di sicuro erano stati usati anche per riempire le gallerie.
Il capitano delle guardie non aveva mentito. Mallenia aveva
messo fine alle scorribande nelle caverne.
«Ci separiamo, ma fate attenzione. Cercate una crepa nel
terreno», ordinò Hargorin. «Probabilmente si fa prima a
scavare un buco che a sfondare i muri o a sgomberare i
detriti.»
Le nane s’incamminarono.
Hargorin si avviò appoggiando con decisione la gamba
meccanica. Il suono che produsse gli rivelò informazioni
sufficienti sulla conformazione del terreno.
La pioggia diventò ancora più fredda, i fiocchi di neve
s’infittirono. Il respiro gli formava nuvolette di condensa bianca
davanti al naso. Il mantello e la tunica erano umidi, ghiacciati e
molto pesanti. Se non avessero trovato l’ingresso né le tracce,
Hargorin avrebbe accettato l’offerta del capitano e si sarebbe
riscaldato davanti al fuoco.
Dove si è cacciato il tessitore di storie? Il pensiero
tormentoso che Carmondai potesse allearsi con l’altro albo non
gli dava pace.
Continuò ad arrancare sotto gli scrosci che gli annebbiavano
la vista e gli penetravano fin nelle ossa. Di un riparo, neanche
l’ombra.
Sembra che Elria voglia affogarci.
Tenne gli occhi puntati sul terreno, dove l’acqua si
accumulava o scorreva lungo la leggera pendenza. Si augurò
d’imbattersi in una crepa da cui ricavare un accesso.
D’un tratto il rivolo si tinse di rosso.
Sangue! Hargorin cercò il punto in cui il liquido cambiava
colore.
Dietro due colonne capovolte ed erose dalle intemperie.
Si approssimò con cautela, sempre stringendo la scure.
Avrebbe chiamato i rinforzi solo se fosse incappato in un
avversario. Sulla roccia erano distese altre due donne dalle
vesti blu, con lunghe frecce che spuntavano dai corpi. Erano
state colpite alle spalle perché erano fuggite nella direzione
sbagliata, come confermava la posizione dei cadaveri dietro i
pilastri. Alcuni corvi saltellarono via di qualche passo,
lanciando gracchi indignati all’indirizzo del nano.
Hargorin si avvicinò pur sapendo che non c’era più niente da
fare.
Si sbalordì quando notò che il sangue non sgorgava dai
cadaveri delle apprendiste, bensì da quello di un albo supino
dieci passi più in là, col busto che pendeva dal bordo di un
masso.
I fiotti rossi fuoriuscivano da un taglio alla gola e scivolavano
sul volto coperto dalle linee dell’ira e sui capelli biondi.
È ancora vivo? Hargorin alzò la scure. Aveva la sensazione di
essere osservato.
Il picchiettio della pioggia cambiò di colpo, come se le gocce
cadessero su un telo.
«Meno male che c’ero io, altrimenti sareste stati i prossimi»,
disse una voce simpatica. Carmondai si teneva sopra la testa
una specie di baldacchino sorretto da un bastone. «Anche se so
che avresti preferito uccidere con le tue mani l’assassino.»
Sarà anche vecchio, ma è bravo, incredibilmente bravo.
Hargorin studiò l’albo morto. Gli occhi si spensero e le linee
dell’ira si dissolsero.
Carmondai sorrise e aprì il palmo sotto la pioggia. «Un
tempaccio da lupi. Dovreste tornare al posto di guardia e
riposarvi. Domani seguiremo le tracce.»
«Quali tracce?»
L’albo indicò verso nord. «Ho trovato le orme degli stivali di
un nano. Un paio, maschili. Il tuo simile portava un carico di
media grandezza, direi. E il sangue che ho trovato sotto gli
alberi è di un umano, probabilmente una donna.»
«Come fai a saperlo?»
«So leggere le impronte.»
«No, mi riferivo al sangue.»
Carmondai sorrise. «Sono maestro dell’immagine e della
parola. Indovina cosa usavo ogni tanto per dipingere?»
Hargorin si diede dello scemo. «Chiamo le altre, così ci
mostri le tracce.» Soffiò nel corno.
Carmondai si mise comodo mentre aspettavano le nane.
«Dove hai preso il baldacchino?» domandò Hargorin.
«L’ho costruito strada facendo. È molto pratico.»
«Soltanto se non si deve combattere.»
«Se si è abbastanza esperti, è sufficiente una mano.» L’albo
alzò la destra.
Le nane arrivarono da direzioni diverse e si stupirono dei
nuovi cadaveri.
Carmondai e Hargorin le aggiornarono. Il tessitore di storie
li condusse lontano dalla rovina, verso gli alberi inselvatichiti,
dove trovarono erba calpestata e tracce di sangue.
Le orme inconfondibili degli stivali si dirigevano verso nord.
«Andiamo a prendere i pony.» Hargorin si voltò. «Faremo
una sosta quando avremo raggiunto questo nano.»
T
ungdil guardò la maga che, nuda e addormentata,
fluttuava nel campo di forze, lambita da scintille
sfavillanti e da lampi occasionali. Perfino i lunghi capelli
neri ondeggiavano come se fossero immersi nell’acqua.
Il nano si era accovacciato là accanto per prendersi
cura di lei, qualora fosse stato necessario. Durante il breve
sonnellino aveva sognato Balyndis e Sirka, le nane che gli
stavano a cuore.
Sirka era morta da tempo. Tungdil poteva solo sperare di
tornare da Balyndis. Era certo dei propri sentimenti nei suoi
confronti. Nel Phondrasôn aveva avuto la possibilità di
riflettere e guardarsi dentro.
Coïra deve sopravvivere. La Terra Nascosta ha bisogno di
lei. Chi altri potrebbe istruire i nuovi maghi?
L’aveva salvata chiudendole una profonda ferita, ma era
riuscito a stento a portarla lì ancora viva, trottando
instancabilmente.
Sull’avambraccio destro Coïra aveva subito una lesione di
altro tipo, probabilmente dovuta a un incantesimo fallito. Dal
gomito in giù, il braccio appariva traslucido, come se fosse
fatto di vetro, mentre in altri punti si vedevano le vene, i
muscoli e i tendini. La pelle si era trasformata in un involucro
trasparente.
La fonte tuttavia avrebbe posto rimedio anche a quello.
Tungdil aveva quasi dimenticato il luogo che, quando faceva
il fabbro, gli era stato precluso come a tutti i suoi simili.
I cicli passati nel regno delle tenebre avevano messo a dura
prova la sua salute mentale, gli avevano rubato alcune
conoscenze, gliene avevano regalate di nuove e avevano
alterato e condizionato le vecchie nozioni, ora in meglio, ora in
peggio.
Tuttavia, mentre vagava per il Paese e la sua anima si
nutriva di pace, i ricordi erano riaffiorati, anche quelli che
credeva perduti per sempre.
La magia della fonte gli procurava un leggero formicolio in
tutto il corpo. Allungava i suoi tentacoli anche nella sua
direzione, per poi affrettarsi a ritirarli. Non voleva entrare in
contatto con un Cavernicolo né tantomeno legarsi al suo
essere.
Tungdil vide le gocce di sudore sulla fronte della maga. La
febbre non era ancora scesa del tutto perché l’albo aveva usato
cuspidi e lame avvelenate, com’era consuetudine dei sicari. Un
graffio era sufficiente per uccidere la vittima.
Ma non lei. Tungdil cercò di mettersi comodo sul terreno
umido e freddo, ma quello non emanava calore come le
profonde gallerie dei nani. La veste rosso scuro con la runa di
Vraccas e il mantello grigio erano bagnati. Solo il campo
magico offriva un certo riparo, ma allo stesso tempo era una
maledizione.
I ricordi lo avevano accompagnato anche nel Phondrasôn,
quando pensava alla patria per non perdere la ragione. Però
non aveva mai immaginato che quello relativo alla fonte
sarebbe diventato importante.
Quell’energia era una peculiarità: un apprendista di Lot-
Ionan aveva tentato di condizionare il campo magico in cui si
trovava la galleria per renderlo duttile e malleabile affinché i
fili si potessero tirare come miele denso o zucchero
caramellato. L’idea era geniale: ci si poteva allontanare dal
campo pur restando legati alla sua energia e continuando a
usufruirne.
Ma il tentativo era fallito.
Dopo quel pasticcio, una piccola parte del campo aveva
cambiato natura. Affinché nessuno rischiasse la vita, Lot-Ionan
l’aveva fatto isolare con uno spesso muro cosicché gli
apprendisti non potessero accedervi, a eccezione di colui che vi
era rimasto impigliato per avere preso quell’iniziativa
imprudente. Tungdil credeva di avere scorto sul terriccio le
ossa di quel poveretto. La punizione per la sua intraprendenza.
Così gli umani avevano dimenticato quel luogo perché, a
parte il nano, coloro che sapevano della sua esistenza erano
morti da tempo.
Coïra avrebbe dovuto pagare un prezzo per la propria vita.
Ma almeno sarà ancora in grado di pagarlo. Spero che sia
della mia stessa idea. Tungdil osservò la guarigione, che
procedeva senza tralasciare nessuna parte del corpo. Sarebbe
svanito anche il dolore che la maga aveva provato fino a
quell’istante.
Quel luogo esisteva ancora per volontà di Samusin. Sarebbe
anche potuto accadere che lo spostamento dei campi e la
ridistribuzione dell’energia prosciugassero la fonte.
Grazie, Vraccas.
Tungdil aveva dovuto cercare a lungo l’accesso. La galleria
era perlopiù crollata e invasa dai detriti, e saccheggiatori senza
scrupoli avevano lasciato le loro tracce. Tungdil si domandò se
accendere un fuoco, ma in uno spazio così angusto il fumo lo
avrebbe soffocato. Inoltre non voleva abbandonare il rifugio,
bensì continuare a vegliare sulla maga.
Era indeciso.
Doveva procurarsi indumenti più pesanti e soprattutto
asciutti, ma li avrebbe trovati solo in un villaggio distante
diverse miglia. Era stato costruito sulle rovine di Gutenauen,
che era caduta nelle mani dei mezz’orchi centinaia di cicli
addietro.
Al nano tornò in mente il periodo trascorso col mago, un
vecchio di buon cuore che, secondo il Rabbioso, si era
trasformato in uno degli avversari più temibili dei nani e degli
umani. Stento a crederci.
Non avrebbe mai e poi mai immaginato molte delle cose che
aveva letto nelle rotazioni precedenti. Libri di storia, pagine su
pagine. Le prove atroci che la Terra Nascosta aveva dovuto
superare dopo la sua partenza per la Forra Oscura.
Sospettava che ci fosse lo zampino di Tion. Ma ormai questi
eventi stanno per finire.
Si era stupito quand’era incappato nella propria storia, che
aveva letto avidamente. Un misterioso sosia magico con
un’armatura di tionio nero, dotato di poteri albici, ma
costantemente in missione nella Terra Nascosta. Come
ricompensa aveva dovuto assaggiare la Lama di Fuoco.
Dev’essere stata la scarica magica. Tungdil si guardò la
mano col segno dorato. Quella nella caverna del Phondrasôn.
Era quello il motivo per cui il campo manteneva le distanze
da lui?
Oppure sono un sosia a mia volta? Era un’idea insieme
sconcertante e divertente. Una copia che si preoccupava di
essere una copia. Molto interessante.
«Sei stato tu a portarmi qui», disse la donna.
Si è svegliata, finalmente. Il nano la guardò e fece un
inchino. «Mi chiamo Tungdil Manodoro.» Indicò i vestiti luridi
della donna, posati su un sasso. «Ti ho dovuta spogliare. Avevi
la veste coperta di terriccio, sudiciume e sangue.» Apprezzò
che non si mostrasse schifata dal suo viso deturpato.
Coïra abbassò le iridi azzurre sul proprio corpo e sulle mani.
«Questo… come può…?» Le salirono le lacrime agli occhi.
«Dove siamo? Che razza di campo è questo?»
Tungdil glielo spiegò. «Ho notato che il tuo braccio destro è
cambiato ma, non appena ti ho consegnata all’energia, è
iniziata la trasformazione. Spero che non ti dispiaccia.»
Coïra si asciugò il sudore. «È magnifico! Era più di un
semplice difetto che…» Rise sollevata. «Ti ringrazio, ti
ringrazio tanto!» esclamò commossa. «Hai fatto di più che
salvarmi la vita.» Provò a toccare terra. I piedi nudi si posarono
sul terreno, le dita vi affondarono come se volessero artigliarlo.
«È incredibile che il mio braccio stia tornando come prima.» Lo
tastò. «Un incantesimo è riuscito male, la magia si è scaricata
nella mia mano e vi è rimasta imprigionata. Perciò non ho
potuto curare definitivamente la ferita, ma solo finché ho avuto
un poco di magia dentro di me. Più diminuiva, e più il taglio
doleva e si apriva.»
«Probabilmente la fonte ha neutralizzato l’incantesimo.»
Tung-dil ammirò la pelle impeccabile, molto diversa dalla sua.
Tra poco parleremo del prezzo.
«Dove sono i miei apprendisti?»
«Morti. Sono caduti vittime dell’albo. Quasi sicuramente ti
seguiva da tempo e aspettava il momento giusto. Nel Toboribor
non c’era niente e nessuno che potesse aiutarti.»
«Tranne te.»
Tungdil annuì.
Coïra non riuscì più a trattenere le lacrime. «Erano donne e
uomini onesti.» Lo guardò. «Ti chiami Tungdil Manodoro, hai
detto?»
«Sì, e so che dalla Forra Oscura è già arrivato un nano che
tutti hanno scambiato per il vero Tungdil.»
«Non tutti. Ci sono sempre stati degli scettici.»
«Hai dato loro retta?»
Coïra rise. «Ero troppo occupata a difendere la Terra
Nascosta. L’altro Tungdil è stato di grande aiuto. Non avevamo
bisogno di nient’altro.» Studiò il nano. «Hai riportato gravi
ferite.»
«Si sono rimarginate e non mi dolgono più. Semmai le
cicatrici mi fanno male quando cambia il tempo.»
La maga non sembrava in imbarazzo per la propria nudità.
Continuava a guardarsi la mano e il braccio, che erano tornati
uguali agli altri. «Perché eri nel Toboribor? Cercavi qualcosa?
Non credo che sia stata una coincidenza.»
Tungdil la indicò. «Cercavo te perché mi ero stancato di
vagare senza meta.» Omise che voleva trovare anche un altro
luogo e che era stato il Rabbioso a descrivergli la strada per
raggiungerlo. «Mi hanno detto che avevi bisogno di campi
magici, così sono partito per segnalarti quello in cui ti trovi ora.
Avevo dapprima pensato che fossi a Porista, e poi sui Monti Blu
coi Secondi, quando ho sentito parlare della loro fonte. Lungo il
tragitto tuttavia un mercante mi ha parlato di uno dei tuoi
apprendisti, che aveva comprato dei viveri da lui. Ho seguito le
sue tracce e ti ho trovata.» Tungdil fece un’espressione triste.
«Troppo tardi, malauguratamente.»
«Maledetto albo!» Coïra espirò. «Sebbene sia splendido
essere immersa in questa energia e sentirsi piena di forza
magica, dobbiamo andare. E soprattutto mi servono dei
vestiti.» Si spostò di qualche passo, muovendosi sempre più
lentamente. Quindi si diede una spinta sulle gambe e fu tirata
indietro con delicatezza ma decisione. I suoi piedi scavarono
lunghi solchi nel terreno morbido.
Sbalordita, guardò il nano. «Che cosa succede?»
«Il campo non libera più ciò che s’intride della sua magia»,
spiegò Tungdil, in tono di scusa. «Non avevo altra scelta.
Sapevo che saresti morta se non ti avessi portata qui.»
«Devo rimanere qui dentro?» La maga impallidì. «Questa… è
una delle famigerate burle dei nani. Lot-Ionan sapeva
sicuramente come…»
Tungdil scosse la testa.
Coïra aveva un nodo in gola. «Quanto è grande?»
«Lo stregone mi ha detto che è circoscritto a questa stanza.
Siamo tra le rovine di una galleria laterale dove un tempo
s’istruivano gli apprendisti. Conosco un’uscita nascosta sotto
un gruppo di rocce. È da lì che siamo entrati.»
Coïra inorridì. «È un… buco! Una galleria isolata. Senza…
niente.» Rise disperata.
«Avrei dovuto lasciarti morire come i tuoi apprendisti?
L’ultima maga della Terra Nascosta?» Tungdil lesse lo sconforto
sul suo giovane viso. La gioia per la guarigione del braccio non
poteva compensarlo. «Sono certo che renderemo piacevole la
tua permanenza.»
La donna scoppiò in una risata triste. «Dovrei regnare sul
Weyurn, volevo scoprire dei campi magici, e che cos’ho
ottenuto? Un buco! Una prigione da dividere coi vermi e con le
larve!»
«Hai ottenuto una freccia albica avvelenata, la cancrena e la
febbre», la corresse Tungdil. «E poi hai ottenuto la vita. E il
braccio.»
Coïra lanciò un urlo furibondo e pronunciò una formula
magica.
Dalle sue mani uscirono raggi blu che attraversarono il
soffitto e lo vaporizzarono. Piovvero terriccio e grossi massi che
mancarono Tungdil di poco.
La camera si riempì di terra. Dall’apertura entrò la pioggia.
«Non posso restare qui!» Coïra fletté le gambe e si diede lo
slancio verso l’alto. «Non ce la faccio!»
Tungdil la seguì con lo sguardo e ben presto la vide
tramutarsi in un puntino nero nel cielo, che rimpicciolì e
scomparve tra le nuvole grigie. Salì sulle pietre e si arrampicò
lungo la collina crollata senza staccare gli occhi dal
firmamento. Ci è riuscita? Oppure si è sfracellata?
All’improvviso Coïra cadde dalle nubi basse, piombando
nella galleria come un sasso. Fece dei segni con le mani, quindi
l’aria s’infiammò e la donna diventò una cometa. Si tinse di blu,
trascinandosi dietro una coda di cinquanta passi. Precipitò
accompagnata da tuoni e rimbombi.
Non ce l’ha fatta. Tungdil si spostò sull’erba umida per
essere pronto a schivarla.
Coïra lanciò un raggio accecante verso il basso, al centro
della piccola fonte, provocando un’esplosione simile a
un’eruzione vulcanica.
Il terreno si sollevò. Il nano fu sbalzato via e si ritrovò
circondato da energie magiche che lo strattonavano
violentemente, come se il campo volesse dividere con lui il
proprio tormento.
Il mondo si capovolse. Tungdil allargò le braccia per provare
a rallentare il volo.
Poi la terra si avvicinò sempre di più e il nano cadde su una
siepe che attutì l’impatto. I rami morbidi e flessibili gli
impedirono di rompersi le ossa.
Tuttavia gli bruciava il viso, gli tremava la vista e dovette
chiudere la palpebra perché non gli venissero le vertigini. La
maga ha attaccato la fonte. Rotolò via dai cespugli, si alzò e
cercò di attenuare i fastidi respirando a fondo.
Dal lungo grido tormentato di Coïra capì che quel piano
rischioso era andato a monte e che la fonte non aveva liberato
la donna.
Quando riaprì l’occhio, vedeva doppio. Ricominciò a
distinguere nitidamente gli oggetti solo dopo avere battuto più
volte la palpebra.
C’è qualcosa che non va. Vedo diversamente da prima.
Tungdil si tastò l’occhio sano, quindi controllò la benda e si
accorse che non era più al suo posto. Vraccas, com’è possibile?
Si passò la mano tremante sul viso bagnato e regolare. Le
cicatrici sono sparite! E… Deglutì e ansimò, incredulo. Ho di
nuovo due occhi! Ridendo forte, balzò in piedi e corse verso
l’enorme buco spalancato nel terreno dall’esplosione. «Coïra,
guarda quale prodigio ha compiuto la tua magia!» urlò dal
bordo.
La maga, seduta su una pietra, alzò il capo e s’illuminò. «È
meraviglioso che abbia guarito anche te, ma temo di non
riuscire a liberarmi. Lot-Ionan è stato bravo a delimitare il
campo.»
«Vado al villaggio più vicino e ti porto dei vestiti.» Tungdil
dovette ammettere di avere paura che la guarigione si
vanificasse non appena si fosse allontanato dalla fonte. La
pioggia battente gli inzuppava il mantello.
Coïra sollevò la mano e fece un gesto, recitando una formula
magica. D’un tratto fu avvolta in un vestito grigio scuro con
ricami azzurri. «L’energia che mi attornia mi permette di
lanciare incantesimi più potenti di qualunque altra fonte. Ho la
sensazione che mi legga nel pensiero e realizzi i miei desideri.
Tranne la libertà.» Fece fluttuare le rocce verso l’alto e,
unendole ai mattoni della parete crollata, costruì un tetto per
ripararsi dalla pioggia. «Ingannerò il tempo mettendomi…
comoda», aggiunse, scoraggiata. «Riferisci l’accaduto al
Consiglio dei Re. A quanto sembra, dovrò istruire i futuri maghi
della Terra Nascosta da questa galleria.»
«Ti farò portare dei viveri.»
Coïra pronunciò un’altra formula, facendo comparire un
tavolo con ogni prelibatezza: bolliti, arrosti, pane, frutta e dolci,
il tutto preparato con tanta cura che sembrava uscito dalla
cucina di un re. «Come dicevo, voglio mettermi comoda.
Scoprirò cosa mi consente, questa magia.»
«E io informerò il Consiglio.» Tungdil si allontanò dall’orlo
del fosso e si stava incamminando quando all’orizzonte scorse
tre puntini che si muovevano nella sua direzione: nani in sella a
pony. I miei occhi funzionano alla perfezione. Si fermò ad
aspettare. Non aveva nulla da obiettare a un poco di
compagnia.
D
al cancello Rognor guardò la violenta tempesta che
imperversava fuori della fortezza. Le tende sottili si
gonfiavano e si agitavano come vele, liberandosi della
neve e lasciando uscire il calore.
Il cancelliere era preoccupato per l’ondata di gelo.
La sua apprensione non riguardava tanto il baluardo, i cui
camini erano tutti accesi, quanto la città provvisoria degli elfi.
Stanno esaurendo la legna da ardere. Moriranno assiderati nel
sonno.
Nelle rotazioni precedenti, Phenîlas aveva iniziato i controlli
sugli elfi che attendevano di superare la porta dei Monti Neri.
L’ordine veniva estratto a sorte in modo che non ci fossero
favoritismi. Sugli avambracci portavano i sigilli magici con cui
potevano dimostrare di essere veri figli di Sitalia.
Rognor aveva immaginato che nella tendopoli sarebbe
dilagato il panico, ma la notizia degli albi infiltrati aveva
lasciato indifferenti gli Orecchi appuntiti. Resistevano.
Ammirevoli. Tuttuavia probabilmente si guardavano con
sospetto, e la diffidenza s’insinuava sotto le tende.
La verifica e il conferimento del sigillo erano un compito
faticoso per i Sorânïon. Non riuscivano a controllare più di
dieci elfi a rotazione. Avevano bisogno di un pizzico di magia e,
non appena esaurivano le energie, dovevano andare a una
fonte magica. La più nota si trovava sui Monti Blu e non era
facile da raggiungere.
Dieci a rotazione. Ci vorrà un ciclo per controllarli tutti,
rifletté Rognor.
Ma il tempo inclemente e l’inverno rigido dei Monti Neri
avrebbero ridotto il numero più velocemente dei Sorânïon.
Non erano ancora stati individuati albi camuffati, il che non
giustificava l’atrocità del rituale.
Alle orecchie del nano giunse un urlo acuto e straziante.
Anche quelli erano dieci al giorno: adulti, bambini… Phenîlas e
i suoi aiutanti dalle armature di palandio bianco non facevano
eccezioni. L’età non aveva nessuna importanza per loro, e
Rognor trovava inconcepibile l’idea di marchiare perfino i
neonati.
Quelle delegazioni erano comparse in tutti i regni dei nani
davanti ai quali gli elfi si erano accampati in attesa di entrare.
D’un tratto nella tormenta si profilarono alcune figure
stracariche, con sciarpe davanti alla faccia. Le raffiche
congelavano in un batter d’occhio la pelle scoperta. Gli
sconosciuti erano accompagnati da Phenîlas e dai suoi aiutanti,
che non sembravano meno stanchi ed esausti.
Il cancelliere contò dieci elfi che avrebbero potuto varcare
l’ingresso. Anche i Sorânïon pernottavano nella fortezza.
«Alzate il cancello», ordinò alle guardie.
Le sbarre si alzarono e gli elfi s’infilarono nel passaggio e
rallentarono.
«Il cancelliere in persona.» Phenîlas ordinò ai propri
sottoposti di andare a dormire. «Che cos’ho fatto per meritare
questo onore?»
«Mi chiedevo se preparare altro carbone per le stufe. Con
questo vento, il calore si disperde velocemente.»
«Ieri notte ne sono morti assiderati altri quattordici benché
le stufe fossero accese.» L’elfo lanciò un’occhiata al cortile.
«So cosa stai pensando, ma non posso permetterlo. Ho
istruzioni ben precise.» Rognor sapeva che ci sarebbero stati
più sopravvissuti se gli elfi si fossero sistemati dall’altra parte
del cancello.
Phenîlas guardò quelli che si concedevano un attimo di
riposo mentre la grata scendeva. «Ho visto altre due sezioni del
corridoio che potresti isolare. Così non passerà nessuno.
Sarebbe un gioco da ragazzi continuare a garantire la sicurezza
dei Monti Neri e della Terra Nascosta finché la porta resta
chiusa. C’è spazio in abbondanza.»
Rognor annuì pensosamente. «Potrebbe anche succedere il
contrario, e agli impazienti potrebbe venire voglia di spingersi
oltre il cortile o il corridoio. Come nel caso dei sei che abbiamo
cacciato.» Abbassò la voce. «Anche se li abbiamo spacciati per
albi, non dobbiamo sottovalutare la disperazione di chi è
rimasto.»
Era per quella ragione che aveva triplicato le guardie e
ordinato di colpire qualunque elfo si fosse avvicinato a meno di
venti passi. Con l’espressa approvazione di Phenîlas.
«Fuori della porta la disperazione è più grande di quanto
sarebbe dentro», obiettò il Sorânïon, conciliante. «Sei tu il
signore del baluardo. Sta a te decidere.»
Rognor fece un segno ai soldati. Di lì a poco il passaggio si
sarebbe aperto. «Non sono il signore, bensì il governatore. E
faccio la guardia come mi è stato ordinato.» E di sicuro non
faccio entrare nella fortezza gli albi travestiti. Lascio passare
soltanto gli elfi che hanno superato il controllo.
Risuonarono rumori meccanici e cigolii di chiavistelli. Se il
primo bastione fosse caduto, gli eventuali aggressori non
sarebbero mai riusciti a sfondare con un ariete un acciaio così
spesso, ma particolari cuscinetti girevoli consentivano
un’apertura assai agevole.
Phenîlas gli segnalò di avere capito.
«Quanti ce ne sono ancora lì fuori?» domandò Rognor.
«Senza tenere conto di quelli che sono morti questa notte,
poco meno di tremila. Tra poco due dei miei aiutanti andranno
alla fonte per ricaricare le energie magiche. Non possiamo
permetterci ritardi. Non con tutti gli elfi che aspettano di
entrare.» Phenîlas stava per aggiungere qualcosa quando
guardò il gruppo ed esitò. «Sono undici?»
Rognor ricordava il numero esatto. «Sì.»
L’elfo sfoderò la spada e s’incamminò. «Non aprire la porta.
Non ancora almeno.»
«Ce n’è uno di troppo?»
Phenîlas annuì e urlò qualcosa in elfico. «Qualcuno ha
approfittato della mia stanchezza e della tormenta.»
Rognor lo seguì senza sguainare l’arma. Pur avendo messo
in guardia i soldati con un gesto, riteneva che fossero affari del
Sorânïon.
I cigolii del cancello cessarono.
Phenîlas diede altre istruzioni e gli elfi si girarono.
Uno di loro, tuttavia, partì di corsa e si diresse verso
l’entrata. Sebbene si fosse aperto solo uno spiraglio, il fuggitivo
parve avere la speranza di accedere almeno al corridoio.
Come se esistesse la possibilità di fuggire. «Fermo!» gridò
Rognor. «Non un passo in più. L’andito è chiuso. Non si entra.»
Phenîlas si rattristò. «Non basta avere scoperto dei presunti
albi. Ora devo anche giustiziare questo poveretto.»
«Perché?»
«Ho annunciato che chiunque avesse osato penetrare nella
fortezza di propria iniziativa sarebbe entrato nella dimensione
finita.» L’elfo rivolse la punta della spada contro la figura
imbacuccata. «Niente minacce senza esecuzione della pena.
Altrimenti la punizione non fa paura a nessuno.»
Il nano tacque. Non è il mio popolo.
Avevano raggiunto il fuggitivo, che si fermò ansimando
davanti allo spiraglio e si voltò.
Era un’elfa dall’espressione disperata. Sapeva che sarebbe
stata trucidata dalla spada di Phenîlas, ma colse Rognor di
sorpresa appellandosi alla sua clemenza. «Pietà, signore della
fortezza!» implorò, mettendosi in ginocchio. Parlò con voce
squillante, facendosi sentire da tutti affinché per il Sorânïon
fosse difficile infliggerle la punizione. «Vi chiedo il diritto di
permanenza! Gettatemi in una segreta o incatenatemi, ma per
favore non consentitegli di uccidermi!»
«Non hai niente da chiedergli.» Phenîlas le posò la lama
sulla spalla, e la luce delle lampade e delle fiaccole si rifletté
sul metallo affilato. «Non ti sei sottoposta al controllo e non hai
il marchio di Sitalia. Perché rischiare la vita eterna?»
«Non avrei superato un’altra notte al freddo.» L’elfa si mise
la mano sul ventre. «Ho dovuto fare un tentativo. Per mio figlio.
Non volevo che morisse né che nascesse fuori della nostra
nuova patria.»
«Ora sì che deve morire.» Phenîlas la guardò con
rammarico. «Come hai potuto?»
Un’elfa incinta? Rognor toccò il braccio del Sorânïon.
«Perché non la sottoponi ora al controllo?»
«Perché non ne ha diritto. Non è stata estratta a sorte.»
«Non lo verrebbe a sapere nessuno. E lei dovrebbe tacere.»
«Tacerò! E mio figlio avrà il tuo nome! Per ringraziarti della
tua compassione.»
«Ma gli altri taceranno? E se ti sfuggisse per errore? O se
tuo figlio volesse sapere perché si chiama così?» Phenîlas
sollevò la spada e posò l’altra mano sul manico del pugnale.
«Forse ti consolerà l’idea di morire col tuo bambino.»
L’elfa cercò di evitare la lama affilata, ma il Sorânïon aveva
previsto il suo movimento. Prima che Rognor potesse
concedere il diritto di permanenza e impedire l’esecuzione
all’interno della fortezza, il metallo sottile trafisse il ventre
dell’elfa.
Lei aprì la bocca per gridare, ma il pugnale le affondò nella
gola. Si afflosciò con un gemito sul pavimento di pietra.
Phenîlas fece una smorfia. «Due vite sacrificate
inutilmente.» Pulì le armi sui vestiti della moribonda.
Se la caricò sulla spalla e fece dietro front, passando tra i
dieci che avevano superato il controllo e ricevuto il marchio.
Nessuno protestò, lo insultò o lo maledisse. «Fate passare gli
altri, cancelliere», disse il Sorânïon. «Devo riportarla indietro,
in modo che il popolo sappia della sua morte. Scoraggerà altri
tentativi analoghi.»
Il cancello si riaprì e Phenîlas arrancò sulla neve per dare
l’annuncio agli abitanti della tendopoli.
Rognor guardò la macchia di sangue, che era già congelata.
«Aprite la porta», ordinò alle guardie.
Il concerto di rumori meccanici ricominciò. Il cancello si alzò
per i dieci elfi, che oltrepassarono il nano trascinandosi nel
corridoio.
Uno di loro si fermò accanto al cancelliere e lo guardò
riconoscente. «Grazie per avere cercato di dissuadere il
Sorânïon. Ma l’elfa era consapevole delle conseguenze del
proprio gesto. La colpa non è vostra né di Phenîlas.» Scosse la
testa. «Gli albi sono il male. Sono tutto ciò che esiste di male.
Senza di loro non sarebbe accaduto.»
Rognor deglutì. Se le avessi concesso il diritto di
permanenza, sarebbe ancora viva. Con lo sguardo seguì il
gruppo, quindi si voltò verso il cancello. Gli albi non c’entrano
nulla con queste due morti. La responsabilità è solo del
Sorânïon e di colui che gli ha impartito gli ordini. Si diresse a
passo pesante verso il proprio alloggio per bere una birra calda
aromatizzata.
Non avrebbe mai creduto che gli elfi fossero pronti a
trucidare le loro femmine incinte.
Di cos’altro sono capaci, se non hanno pietà neppure per il
loro popolo?
Q
uando Tungdil si svegliò, credette che il pavimento si
muovesse.
Poiché i suoi sensi non avevano ancora ripreso a
funzionare come al solito, all’inizio attribuì
quell’impressione a un’illusione ottica.
Invece non poteva avere dubbi sulle condizioni delle sue
mani, incatenate dietro la schiena. Anche le caviglie erano
immobilizzate. Aveva una benda tesa sugli occhi, che gli
premeva contro la testa e il naso.
Respirò con calma e aspettò di stare meglio.
Non dovrebbe dolermi la spalla? Tungdil ricordò il colpo che
gli aveva fratturato la clavicola, ma riusciva a muovere
normalmente il braccio e l’articolazione. Erano solo le catene a
limitare i suoi movimenti. Strano.
Forse gli avevano somministrato un rimedio contro il dolore
oppure lo avevano guarito con la magia, anche se non aveva
mai saputo che gli acronta conoscessero quell’arte.
Altrimenti Andôkai non avrebbe scelto Djerůn come guardia
del corpo. Tungdil tastò il terreno, trovandolo freddo e
metallico. Si alzò a sedere come meglio poté, si girò sul
fondoschiena e allungò le gambe. Se non altro, era in un
ambiente spazioso.
Il leggero dondolio non era cessato. Di tanto in tanto il
pavimento vacillava, ma non come su una barca.
Una slitta? La benda non gli lasciava intravedere nulla, e
l’aria era pulita ma tiepida. Una veste rozza aveva sostituito le
pellicce e il mantello. Dove sono? «C’è qualcuno?» sussurrò.
«Sono qui», rispose la voce cupa di Hargorin, poco lontano.
«Da quanto tempo?»
«Mi sono appena svegliato.»
Un gemito li interruppe. «Dove siete?» domandò Gosalyn,
stordita. «Ho… un panno davanti agli occhi.»
«Ce l’abbiamo tutti.» Tungdil si sforzò di essere
rassicurante. «Il lato positivo è che siamo ancora vivi.»
«Almeno noi tre», aggiunse Hargorin.
«Quattro», gemette Beligata. «Perché mi sento pesante
come il piombo?»
Ci siamo svegliati tutti insieme. Non è un caso. «Qualcuno di
voi è dolorante?»
Tutti risposero di no.
«Perché non ci hanno ucciso?»
«Avranno capito di avere commesso un errore», ipotizzò
Hargorin. «L’Occhineri è ancora vivo?»
«Sì», confermò Carmondai, assonnato. «Se fosse stato uno
sbaglio dei Dorón Ashont, voi sareste liberi e io morto.
Ringrazio Inàste di avermi fatto svegliare.»
«Non cantare vittoria troppo presto», lo ammonì Beligata.
«Tutti incatenati, giusto?» Gli altri risposero di sì. «Qualcuno
deve provare a togliersi la benda per spiegare agli altri dove ci
troviamo.»
«Ciascuno di noi è chiuso in una gabbia dalle maglie strette,
con un telo steso sopra. Tra le gabbie ci sono due sfere
metalliche bucherellate che fungono da bracieri e, se non erro,
siamo su un’enorme slitta in movimento. Non fiuto l’odore di
cavalli né di altri animali, e non sento gli schiocchi delle fruste
che incitano gli schiavi. Ne deduco che sono i Dorón Ashont a
trainarci.» Carmondai si schiarì la voce. «E indossiamo vesti di
tessuto naturale. Lino.»
È abile. Tungdil provò a sbarazzarsi della benda strofinando
le guance e i fianchi sul pavimento.
Nonostante gli sforzi non riuscì a liberarsene, ma la stoffa
scivolò abbastanza da permettergli di dare un’occhiata. L’albo
non aveva mentito: Tungdil vide esattamente le stesse cose.
Beligata, Hargorin e Gosalyn cercavano ancora di togliersi la
striscia di stoffa.
Un’idea per trasportare i prigionieri evitando di caricarseli
in spalla. Le maglie parevano fatte di filo metallico
attorcigliato: si sarebbero potute tranciare solo con un’ascia
affilata o con le tenaglie. «Dove ci staranno portando?»
«Che cosa ci facevano gli acronta sulle montagne?»
domandò Hargorin.
«Suppongo che la colpa sia delle rune albiche. I Dorón
Ashont sono acerrimi nemici del mio popolo. Un tempo ci
hanno sconfitti, e hanno annientato l’antico regno degli Eterni
dopo che avevamo tentato di sterminarli col veleno perché non
potevamo sgominarli in battaglia.» Carmondai disegnò il
simbolo nell’aria. «Seguitemi. Scommetto che l’alba non
immaginava che sarebbero stati gli Ashont a trovare la sua
indicazione e a obbedirle. Anche se centinaia di cicli dopo.»
Tungdil ricordò le avventure che aveva vissuto con la maga
Andôkai e con la sua guardia del corpo. «Combattono un’eterna
faida contro le bestie di ogni tipo.» Esitò. «Non sei
incatenato?»
Carmondai sorrise e gli mostrò le braccia. «Ho trovato un
pezzo di filo metallico che sporgeva e che sembrava fatto
apposta per scassinare il lucchetto. Ma non so ancora come
allargare le maglie. Un albo e un gruppo di nani. Li abbiamo
incuriositi abbastanza da spingerli a trasferirci altrove.»
«Gli albi conoscevano bene gli acronta?»
«Le Torri Ambulanti sono rimaste perlopiù un mistero.
Comparivano e seminavano la morte, sempre con una
pianificazione accurata, accanendosi prima solo sui mezz’orchi,
poi anche sui flecx e sugli altri mostri creati da Tion e da
Samusin.» Carmondai cercò di sbirciare attraverso il telo, ma
era troppo spesso. Tra il tessuto e il fuoco acceso era
impossibile dire se fuori fosse giorno o notte.
«’Sempre con una pianificazione accurata’ si riferisce alla
violenza degli attacchi?» chiese Tungdil.
«Al fatto che sceglievano sempre il popolo apparentemente
più pericoloso. Eliminavano quelli che erano in superiorità
numerica o che si distinguevano dagli altri per l’astuzia o per la
tecnica di combattimento.» Carmondai sembrò frugare nella
memoria come se nella sua testa fossero ordinatamente
archiviate schede su tutti gli eventi del passato. «Noi eravamo
gli unici a essere aggrediti ogni volta che ne avevano
l’occasione. Grazie alla faida interminabile.»
«Sapevate qualcosa dell’organizzazione dei loro eserciti?»
Hargorin riuscì ad abbassare la benda.
«No. Di certo simili informazioni avrebbero aiutato gli Eterni
a metterli in ginocchio. Sapevamo che esistono diversi
esemplari, ma nulla di più preciso. E che sono astuti e
intelligenti.» L’albo rise. «Al punto da mandarci una malattia
che ha fatto centinaia di vittime e da distruggere l’antico
Dsôn.»
«Allora mi sorprende ancora di più che ti abbiano lasciato in
vita.» Anche Beligata si liberò della benda.
Tungdil aggrottò le sopracciglia quando vide il volto della
nana. La cicatrice si era allungata, benché non sembrasse
infiammata o danneggiata dagli acronta. Semplicemente
cresceva in linea retta.
Una rapida occhiata a Carmondai gli rivelò che pure l’albo
se n’era accorto. Il suo viso esprimeva stupore e soddisfazione.
Buon segno.
«Scopriremo il motivo per cui ci hanno risparmiati.» Il
tessitore di storie rifletté picchiettandosi l’indice destro sul
labbro.
«Forse perché abbiamo combattuto valorosamente?»
Hargorin si mise in ginocchio. «Il trucco del coltellino è stato
un’idea geniale.»
Carmondai passò la mano sulle maglie. «Ma purtroppo
inefficace quando gli avversari sono più di uno.»
«Più efficace che restare svenuti sul pavimento.» L’altro
proruppe in una risata tonante.
«Sono vecchio. Perdonami, Cavernicolo.» L’albo la prese con
umorismo. «Ammetto di avere perso la cognizione del tempo,
ma le ferite si sono rimarginate e non vedo il livido che, dopo
avere ricevuto un pugno da una mano corazzata, dovrebbe
durare a lungo. Data la forza dell’Ashont e la violenza del
colpo, almeno dieci o quindici rotazioni.»
Tungdil calcolò il triplo del tempo per la guarigione della
clavicola. «Ci hanno narcotizzati.»
«E volevano che ci svegliassimo nello stesso momento.» Con
sorprendente agilità, Beligata si passò le mani sotto il sedere e
le gambe per averle almeno davanti. «Siamo vicini alla meta,
forse?»
«Quale velocità può raggiungere un acronte?» Gosalyn si
voltò speranzosa verso Carmondai.
«Sicuramente ottanta miglia a rotazione, fino a cento su un
terreno agevole. Ma sulla neve, dov’è ostacolato dal suo peso e
da quello dell’armatura, trenta al massimo.»
«Più di mille miglia», borbottò Tungdil. Notò che non aveva
più il pensiero affannoso. Non siamo più ad alta quota. «Ci
hanno portati lontano.»
«Senza nemmeno chiedercelo.» Beligata esaminò le maglie
ma, a giudicare dalla sua espressione, aveva poche speranze di
trovare un punto debole. «Se siamo molto sfortunati, hanno
preso la direzione sbagliata. Così impiegheremo decine di
rotazioni per recuperare il ritardo.»
«Ah, i giovani…» Hargorin rise bonario. «È già sicura che
fuggiremo.»
«In un modo o nell’altro, dobbiamo farlo.» Tungdil scacciò il
terrore che lo aveva assalito. «Avranno piani diversi dai nostri.»
«Poco ma sicuro.» Carmondai rimase in ascolto e posò la
mano sul pavimento della gabbia. «Gli scossoni diminuiscono.
Stiamo rallentando.»
In effetti, il dondolio finì.
Non accadde nient’altro.
«Non arrivo allo sportellino della gamba di ferro. Il coltello
che ho nascosto all’interno potrebbe essermi utile.» Hargorin
guardò le sfere di metallo che fungevano da fonte di calore.
«Forse il carbone è abbastanza caldo da sciogliere il fil di ferro.
Che ne pensi, Sapientone?»
Era insolito per Tungdil sentirsi chiamare così da un nano
che non fosse il Rabbioso. «Dovrebbe funzionare.» Si guardò
intorno. «Ma se le scintille entrano in contatto col telo, ed è
assai probabile, può darsi che il tessuto prenda fuoco e che
bruciamo vivi.»
«Così ameranno l’albo ancora di più.» Beligata si passò le
mani sul viso, sfiorando la cicatrice. Esitò, si tastò la pelle, ma
non aggiunse altro.
«A quanto ne so, prediligono la carne cruda», commentò
Carmondai.
«Aspettiamo di vedere cosa succede», decise Tungdil. «Se
stiamo facendo una sosta, avranno messo qualcuno di guardia,
e dai rumori capirà che stiamo combinando qualcosa.»
Soprattutto perché sanno che siamo svegli.
Gli altri tacquero e rizzarono le orecchie.
Non udirono nulla a parte qualche suono attutito, che non
rivelò loro nulla sulle attività degli acronta né sul luogo in cui si
erano fermati.
Poi il veicolo sussultò e s’inclinò lentamente.
I prigionieri furono premuti contro le maglie, quindi la slitta
prese velocità.
Tungdil si augurò che fosse una scelta intenzionale e non un
incidente. «Appoggiate la schiena alla rete, girandovi nella
direzione di viaggio.» Così in caso d’impatto e di arresto
improvviso avrebbero riportato ferite meno gravi.
Procedettero spediti, superarono alcune curve e infine si
fermarono. Attraverso il tessuto percepirono un fruscio
costante.
Il telo fu rimosso, e finalmente videro dov’erano stati portati.
Si trovavano in una sala a forma di cupola, costruita con
semplici pietre e senza particolari pregi architettonici. La luce
filtrava da dieci fori disposti in cerchio sul soffitto alto. L’aria
puzzava di escrementi e di sudore.
Il fruscio si rivelò essere il mormorio e il brusio di centinaia
di creature rinchiuse in gabbie identiche alle loro, ma di
diverse dimensioni e collocate nelle nicchie delle pareti.
Tungdil girò la testa e capì che i suoi calcoli erano sbagliati.
C’erano sette piani in tutto, sovrapposti ad anello e
leggermente sfalsati. Se non errava, erano gli unici nani e, di
primo acchito, non sembrava che ci fossero albi.
«È una collezione di curiosità?» Hargorin osservò gli altri
prigionieri.
Beligata studiò il pavimento. «No. È un’arena. Vedo denti
strappati, un pezzo di armatura laggiù e qui accanto un
frammento di lama.»
«Ci fanno combattere l’uno contro l’altro», interloquì
Gosalyn, furiosa. «Per divertirsi.»
Tungdil aveva un altro sospetto, ma lo tenne per sé.
Non si vedeva nessuno. Il telone oscillò su un gancio e fu
sollevato con un sistema di carrucole.
Quindi alcuni uncini si abbassarono dal soffitto rozzamente
lavorato, incastrandosi nelle maglie e sollevando le gabbie.
Dopo un breve volo, i nani e l’albo atterrarono in nicchie
attigue e furono sganciati. Gli uncini risalirono ronzando piano.
Il pavimento dell’arena era dieci passi sotto di loro.
Tungdil era nella rientranza all’estrema destra.
Il mostro sconosciuto là accanto sembrava un incrocio tra un
umano e un lupo. Ringhiò, appiattì le orecchie e mostrò una
lingua da serpente.
«Mi capisci?»
La bestia digrignò le zanne, abbaiò più volte e si sedette.
«Non è un teatro né la cantina di un’arena.» Carmondai,
nella gabbia centrale, si guardò attentamente intorno. Davanti
alle nicchie c’erano posti di guardia, ma dei soldati nemmeno
l’ombra. Indicò le aperture da cui entrava la luce. «Quelli sono
specchi. Se necessario, possono usarli per illuminare tutto il
pavimento.»
«E per spiarci.» Gosalyn era riuscita a spostare le braccia
avanti.
Dall’ombra sbucò un acronte corazzato, con la visiera
dell’elmo puntata verso i nuovi arrivati. Alzò il braccio,
mostrando una lunga spranga di ferro che si assottigliava e si
appuntiva a un’estremità. Indicò Hargorin.
Il gancio si abbassò e s’infilò tra le maglie, estrasse la gabbia
dalla nicchia e la trasferì rapidamente verso il basso.
«Che Vraccas sia con te!» urlò Tungdil.
«Fagli vedere cosa significa essere un figlio del Fabbro!» lo
incitò Gosalyn.
Non appena la gabbia ebbe toccato il suolo, l’acronte azionò
col piede un meccanismo nella base, e la cupola metallica
scattò grazie a una molla, lasciando Hargorin libero di
muoversi nella sala.
Quindi il mostro gli gettò una chiave e una spranga di ferro
davanti ai piedi e fece un passo indietro, sguainando la spada.
Dall’alto, dove si godeva la vista migliore dell’area centrale,
Tungdil aveva individuato quattro palchi in cui erano
accomodate figure più piccole. Indossavano un’armatura, ma
avevano con sé carta, penne e inchiostro. Osservano e
prendono appunti. Giudici?
Da lassù arrivò un fischio sommesso, pareva che i
preparativi fossero conclusi.
«Non fanno combattere le creature tra loro. Noi siamo i loro
avversari di prova», rifletté Tungdil. «Ogni metodo di
combattimento viene messo a verbale, ogni movimento
annotato.»
Gli specchi cambiarono posizione all’improvviso e deviarono
la luce del sole in modo che sul pavimento non restasse più
neppure uno spicchio d’ombra in cui Hargorin potesse
nascondersi.
Il brusio e i versi dei prigionieri si spensero, la tensione
aumentò.
«Pensi che non ce la faccia?» Il nano squadrò l’avversario,
alto tre passi, abbassò gli occhi sulla spranga e fece per
raccogliere la chiave. «Sta’ a vedere…»
«No, non toccarla», gridò Tungdil.
«Devo semplicemente farmi ammazzare?» Hargorin si fermò
con la schiena piegata. «Forse mi risparmierà il dolore, ma è
contro i miei principi.»
«Lascia la chiave dov’è. Devono capire che non intendiamo
collaborare», insistette Tungdil.
«È una buona idea?» Gosalyn lo guardò, preoccupata.
«Potrebbero ucciderlo perché non ha obbedito.»
«Troverebbero il risultato insoddisfacente», intervenne
Carmondai. «Tungdil ha ragione. Osservano e imparano.»
Hargorin si raddrizzò e incrociò le braccia con un gesto
eloquente.
L’essere accennò alla spranga, ma il nano rise e non si
mosse.
Dietro le fessure della visiera brillò una luce color porpora, e
si udì un ruggito cupo che fece tremare le ossa perfino a
Tungdil. Alcune creature strillarono di paura. «Resta fermo!»
«Certo.» Hargorin lanciò un’occhiata sprezzante
all’avversario. «Anche se ho la tentazione di prendere la
spranga e insegnargli il rispetto per i figli del Fabbro.»
L’acronte fece un passo avanti, lo afferrò per il braccio
destro e lo sollevò, per poi scagliarlo violentemente sul
pavimento. Quindi gli diede un calcio, lo ributtò nella gabbia e
abbassò la cupola metallica. La chiusura scattò.
«No», gemette Gosalyn.
«Non è morto», la tranquillizzò Carmondai. «Hanno ancora
bisogno di lui. Di sicuro è stata una punizione per la
disobbedienza. Ma è arrivata… all’improvviso.»
«Hanno ancora tre di noi. Perché ne dovrebbero risparmiare
uno?» Beligata scoccò un’occhiataccia all’acronte, che si
diresse verso un passaggio.
Gli specchi ruotarono e le ombre s’infittirono. L’acronte
scomparve nell’oscurità.
Un gancio pescò la gabbia e riportò Hargorin nella nicchia.
Dalla bocca aperta gli usciva un rivolo di sangue. Le braccia
incatenate avevano una posizione innaturale sotto il corpo e
dovevano avere riportato almeno una frattura.
«Per Lorimbur!» Beligata agitò le catene contro le maglie.
«Ucciderò quel mostro! Avete sentito? Lo ucciderò!»
«Zitta, altrimenti…» l’avvertì Gosalyn.
Gli specchi si girarono e inondarono di luce il pavimento,
dove l’acronte si materializzò come per magia.
Il gancio che aveva prelevato Hargorin tirò Beligata fuori
dalla rientranza e la trasferì nell’arena.
«Giuro che ti strappo l’elmo dalla testa. Insieme col cranio»,
inveì la nana.
Non ci riuscirai. Tungdil controllò i palchi, dove le penne
vennero intinte nei calamai.
«Se non altro, la sua morte servirà a qualcosa. Ora sappiamo
che ci capiscono», commentò Carmondai. «Se la vita è una
moneta di scambio per scoprire dettagli sul loro conto, la
esauriremo presto.» Si appoggiò alle maglie e fissò gli
avversari.
«Vorrei che fossi tu a pagare il conto», sibilò Gosalyn.
«Oh, tra poco anch’io finirò lì sotto.» Carmondai fece
l’occhiolino a Tungdil. «Ma dopo di voi.» Indicò i palchi. «Che
ne pensi? La tua amica li convincerà a smettere?»
N
on appena la cupola metallica si sollevò, Beligata
saltò fuori, raccolse la chiave e aprì il lucchetto della
catena. Quindi prese la spranga di ferro. «Patirai le
stesse sofferenze del mio amico! Non illuderti che
l’armatura ti protegga!»
L’acronte le puntò contro la spada per segnalare che
accettava la sfida. Poiché non si muoveva, sembrava che
volesse lasciare il primo colpo all’avversaria.
Tungdil guardò i palchi. «Gosalyn, osservalo e tieni a mente
come combatte. Noi sappiamo fare da tempo ciò che fanno
loro.»
«Ha appena definito ’amico’ Seminamorte?» Carmondai
finse di applaudire. «Sarà uno spettacolo assai istruttivo. Di
sicuro Beligata pagherà un prezzo analogo a quello di
Hargorin.»
«Ha… bisogno di aiuto!» Gosalyn non riusciva a staccare gli
occhi dal re dei Terzi, che aveva una pozza rossa intorno alla
testa. Di tanto in tanto era scosso da un sussulto, ma non si
trattava di movimenti volontari.
«Guarda il combattimento.» Tungdil alzò di nuovo lo sguardo
verso i palchi, i cui occupanti prendevano appunti.
Beligata simulò un colpo al fianco dell’avversario, la spada
dell’acronte cercò di parare la spranga, che però cambiò
traiettoria grazie a un’abile rotazione della nana. La punta
affilata gli trapassò la scarpa corazzata e gli si conficcò nel
collo del piede.
Beligata estrasse l’arma e saltò dietro la cupola metallica
per proteggersi dal contrattacco e aspettare una nuova
occasione favorevole.
L’acronte ruggì e fissò la ferita, da cui sgorgava un liquido
giallo vivo.
Carmondai seguì lo scontro più attentamente di Gosalyn, che
continuava a tenere d’occhio Hargorin. «Sono curioso di sapere
come reagirà l’Ashont.»
Tungdil notò che le figure sui palchi parlottavano, facendo
volare le penne sulla carta. Non avevano previsto che Beligata
riuscisse a colpirlo.
Il gigante zoppicò verso la nana, che con la sottile veste di
lino si muoveva senza sosta tra lui e la gabbia. I fendenti poco
convinti s’impigliarono nelle maglie, ma l’acronte riuscì ogni
volta a liberare la lama.
Tungdil urlò per attirare l’attenzione degli occupanti dei
palchi, ma quelli lo ignorarono. Così tornò a concentrarsi sul
duello. Imparare a conoscere il nemico osservandolo. Prima o
poi sarebbe arrivato anche il suo turno.
Beligata saltò sotto la cupola metallica e fece scattare la
spranga contro l’avversario.
L’acronte deviò la punta e vibrò un fendente, ma le maglie lo
intralciarono.
La nana approfittò della distanza ridotta per piantargli
l’estremità dell’arma nella coscia destra e poi ritirarla senza
indugio. L’altro lanciò un secondo ruggito e vacillò
leggermente.
Beligata schizzò fuori della gabbia, gli girò intorno e schivò
un colpo orizzontale che l’avrebbe tagliata in due. Gli conficcò
la punta nel polpaccio della gamba ferita, aprendo un nuovo
foro nell’armatura.
L’acronte si voltò ringhiando, ma la nana rimase alle sue
spalle e gli centrò il tallone sinistro.
Quando il tendine si strappò, si udì un rumore simile allo
schiocco di una frusta e il gigante si piegò. Quindi si girò e
tenne a distanza l’avversaria agitando la spada.
«Ce l’hai in pugno! Uccidilo!» gridò Gosalyn, entusiasta.
«No!» ordinò Tungdil. «Dobbiamo dimostrare di essere
diversi dalle altre bestie.»
«Quello non è un Ashont addestrato. I movimenti sono
casuali, non c’è coordinazione tra gli attacchi con le braccia e
le gambe. Non è abituato a portare l’armatura e non ha modo
di difendersi da Beligata», commentò Carmondai.
«È una degna avversaria.»
L’albo rise. «Un Ashont ha sconfitto molti dei nostri
guerrieri. Nulla contro la nana ma, se avesse sfidato un vero
acronte, a quest’ora sarebbe già caduta.»
«È una conclusione accurata?» Tungdil ebbe un
presentimento su ciò che stava accadendo nell’arena, perché
aveva notato qualcosa di analogo.
«Per rispondere dovrei conoscere meglio gli Ashont ma, se
mi baso su quello che vedo, deduco che è una Torre Ambulante
assai giovane e che quelle figure lassù vogliono sapere se sia
idoneo per il campo di battaglia e per la caccia ai mostri. Non
sono interessate tanto a come combattiamo noi quanto a come
lotta l’Ashont.»
Beligata prese la rincorsa e usò la spranga a mo’ di asta, si
scagliò contro l’acronte coi piedi avanti e lo colpì di sghembo
prima che potesse attaccare.
Caddero insieme, ma la nana rimase sopra, roteò l’arma e gli
premette la punta sotto la fessura tra l’elmo e la corazza.
«Visto? Funziona anche senza coltellino», urlò con enfasi a
Tungdil.
«Esatto», replicò il nano.
L’acronte sentì il metallo sulla gola e non si mosse. In
compenso emise un ruggito che fu ripetuto dagli occupanti dei
palchi.
La nana restò sopra il gigante senza spostare la spranga e
aspettò nervosamente. «Che cosa faccio?»
Con un movimento fulmineo, l’acronte afferrò con la sinistra
l’arma della nana e se la piantò nella gola. Il sangue giallo
brillante prese a scorrere sul pavimento.
«Per Lorimbur!» Beligata saltò giù. «Che cosa significa?»
«Sono state le figure sui palchi a ordinarglielo.» Carmondai
si allontanò dalle maglie e si sedette sul pavimento. «Non si è
dimostrato all’altezza di essere un guerriero. È solo un’ipotesi,
ma sarebbe calzante per questo popolo. Non possono
permettersi punti deboli.»
«Torna nella gabbia! Dimostriamo loro di avere compreso
qual è il nostro compito!» gridò Tungdil alla nana.
Contrariamente alle aspettative, Beligata obbedì. Gli specchi
tornarono nella posizione di partenza e l’oscurità la inghiottì.
Quando i suoi occhi si furono abituati al buio, Tungdil vide
un acronte che entrava nella sala e chiudeva la cupola.
Il gancio scese dal soffitto, s’infilò nelle maglie e riportò la
prigioniera nella nicchia. Le figure sui palchi si alzarono e se
ne andarono. Il guerriero afferrò il cadavere per il colletto
dell’armatura e lo trascinò fuori.
Quando la porta si richiuse alle sue spalle, ci fu
un’esplosione di urla, strida e ruggiti. Le bestie acclamavano la
nana per avere umiliato e ucciso il nemico.
«Di certo non accade spesso. Terribile. Voci tremende.»
Carmondai si tappò le orecchie.
«A quanto pare, non dobbiamo temere una vendetta.»
Tungdil guardò Hargorin, le cui condizioni non erano
migliorate. «Come possiamo occuparci di lui?»
Beligata posò la mano sulle maglie e tirò, deformandole in
qualche punto. «Avevo più di un motivo per usare la gabbia
come riparo.» Sgusciò fuori. «La spada dell’acronte è stata
assai utile, anche se non per lui.» Si avvicinò alla gabbia di
Tungdil e studiò il meccanismo di apertura, per poi guardarsi
intorno alla ricerca di un attrezzo. «Potrei farcela con un colpo
molto forte al perno di sblocco, ma…»
«La gamba di Hargorin», suggerì Gosalyn. «Potrebbe
funzionare. Oppure il coltello nascosto all’interno.»
Beligata scivolò verso la gabbia dell’amico e cercò di
allungare la mano tra le maglie, ma il braccio era troppo corto.
Si tolse la veste, l’attorcigliò e la gettò come una rete in un
buco della gabbia. Al quarto tentativo l’arto di metallo
s’impigliò nel tessuto e la nana lo tirò verso di sé.
Astuta. Tungdil, come Gosalyn, controllò che non arrivassero
guardie, ma nessuno intervenne per zittire lo strepito delle
bestie. Buon per noi.
Dopo essersi rivestita, Beligata estrasse con un enorme
sforzo la gamba. «Faccio un tentativo.» Prese il coltello e lo
posò sul pavimento. «È troppo fragile. Provo con un altro
metodo.» Infilò la parte più sottile della gamba nell’apertura
sul pavimento della gabbia, si mise là davanti e prese la misura,
per poi sferrare un violento calcio.
Tungdil notò che i mostri si erano calmati. Avevano intuito
cosa stava succedendo. Tutti gli occhi erano puntati sui nani. Ci
tradiranno?
«Ci lasceranno evadere?» Carmondai si era alzato. «E dove
fuggiamo? Gli Ashont ci cercheranno.»
«Finché restiamo qui non facciamo neppure un passo verso
la nostra destinazione.» Tungdil vide che Beligata dava un altro
calcio.
Si udì un clic e il meccanismo si aprì. La molla fece scattare
la cupola metallica.
Ci fu un’esplosione di urla, che non avevano bisogno di
spiegazioni. Gli altri prigionieri volevano essere liberati.
Di sicuro le guardie si sarebbero accorte del cambiamento di
tono.
«Fate silenzio!» si adirò Beligata, ma la sua voce fu coperta
dal chiasso.
«Presto! Prima Hargorin», ordinò Tungdil, uscendo dalla
gabbia.
S’inginocchiarono davanti al re dei Terzi e inserirono la
gamba di latta nell’apertura, quindi l’Erudito sferrò un calcio.
«A sinistra. Attenti», mormorò Carmondai.
Su un lato del corridoio si aprì una porta e controluce
comparve la sagoma di un acronte.
Il rumore si placò all’istante e una pioggia di sassolini si
abbatté sui nani per rivelare le loro intenzioni alla guardia. Il
presentimento di Carmondai si era avverato.
«Non vogliono che fuggiamo.» Il primo calcio di Tungdil non
bastò per aprire la grata. Che Tion li divori!
La guardia ruggì quando capì cosa stava accadendo. Si mise
a correre.
«Dovete andarvene!» urlò Gosalyn. «Salvatevi e portate a
termine la missione!»
«Tornate a liberarci», insistette invece Carmondai. «Non
dimenticate che avete bisogno di me se volete sopravvivere
nella Terra dell’Aldilà.»
«Come se finora ci fossi stato d’aiuto», ringhiò Beligata.
Tungdil fece un altro tentativo e la cupola si aprì, ma di lì a
poco l’acronte li avrebbe raggiunti. Se si fossero caricati
Hargorin in spalla, non sarebbero riusciti a sfuggirgli.
«Andiamocene.» Si affrettò lungo la balaustra.
«Maledette bestie.» Beligata lo seguì. «Vorrei spaccare loro
la testa.»
«Torneremo a prendervi», promise Tungdil a Carmondai e a
Gosalyn.
Poiché la porta là davanti non si apriva, scesero saltando da
una cupola all’altra e raggiunsero l’arena mal illuminata, su cui
filtrava un raggio di luce da uno spiraglio dell’uscio sulla
destra.
Meglio un barlume di speranza che niente. Tungdil toccò
terra per primo e sbirciò nella fessura. «Non si vede nessuno.»
Alzò lo sguardo verso la balaustra.
L’acronte si ergeva come una statua. Aveva il solito chiarore
color porpora che usciva dalla visiera, e nella destra stringeva
Hargorin Seminamorte come una bambola troppo grande.
Tungdil vide chiaramente i tubi tesi che, all’altezza della bocca,
s’infilavano nell’elmo e scorrevano dietro le spalle.
Che razza di dispositivo è? Di tanto in tanto i nani che
lavoravano nelle gallerie ammorbate da vapori velenosi
usavano respiratori alimentati da sacchi di cuoio o vesciche di
animali. È possibile che serva allo stesso scopo?
Si udì un sibilo.
Lo strepito delle bestie cessò all’improvviso. Partendo dai
livelli superiori, si accasciarono sui pavimenti delle gabbie. Il
silenzio scese su un piano dopo l’altro. Anche Gosalyn e
Carmondai persero i sensi.
«Fuori!» ordinò Tungdil a Beligata, sentendosi assalire da un
senso di vertigine. Nell’arena era stato introdotto qualcosa
d’inodore, più pesante dell’aria e capace di provocare
svenimenti. Sulle montagne dei nani esistevano le cosiddette
«fosse della morte», in cui si raccoglievano gas che uccidevano
qualunque creatura li respirasse. Sembra che gli acronta li
utilizzino in forma attenuata per riportare la calma.
I nani dovettero appoggiarsi alle pareti perché avevano le
gambe molli. Proseguirono con un enorme sforzo di volontà,
lasciarono l’arena e imboccarono un corridoio alto, illuminato
da bracieri sospesi. Non avevano idea di cosa bruciasse al loro
interno, ma non produceva puzzo né fuliggine.
«Dove andiamo?» sussurrò Beligata, incespicando e
aggrappandosi a Tungdil. «Io… il gas è…»
«Respira a fondo. Deve uscire dai polmoni», consigliò
l’Erudito, mettendo in pratica il suo stesso suggerimento. «Più
ci allontaniamo, e prima ci riprendiamo.»
Si stupì che l’acronte non li avesse seguiti: probabilmente
non considerava suo compito rincorrere i fuggitivi.
Con la vista annebbiata avanzarono barcollando e svoltando
in corridoi laterali senza sapere dove sarebbero sbucati.
Avanti. Tungdil perse l’orientamento. Il gas gli si era fermato
nei polmoni oppure gli era già entrato nel flusso sanguigno. I
bracieri diventarono lune ondeggianti avvolte dalle fiamme, e il
corridoio una gola interminabile da cui non c’era via di scampo.
«Continuiamo», ansimò, allungando il braccio per prendere la
mano di Beligata. «Dobbiamo nasconderci finché non staremo
meglio.»
Ma le sue dita strinsero il vuoto.
È svenuta? Si voltò e si appoggiò, esausto, alla parete calda.
Qualche passo indietro, la nana era china a vomitare coi
palmi posati sulle cosce.
Là accanto comparve l’acronte, che si trascinava dietro
Hargorin con un braccio. Aveva ancora i tubi infilati sotto
l’elmo, ma aveva anche sfoderato la spada. Voleva ucciderli.
«Arrivo subito.» Beligata, che non si era accorta
dell’acronte, sputò sul pavimento.
Vraccas, no! «Attenta! Dietro di te!» l’avvertì Tungdil.
La lama lunga e larga le trapassò la schiena e la inchiodò a
terra. La nana si dibatté per qualche istante, poi rimase
immobile. Evidentemente non c’era clemenza per i prigionieri
che tentavano di evadere. Sul viso le passò un’ombra, e la
cicatrice brillò prima di spegnersi pulsando.
Oh, Vraccas, che cosa ti ho fatto per essere condannato ad
assistere alla morte dei migliori? Tungdil era così debole da
non riuscire nemmeno a urlare. Si voltò e provò a scappare.
Le gambe si alzavano e si abbassavano a costo di dolori
indicibili. Sembrava che i polmoni fossero rimpiccioliti alle
dimensioni di piselli, perché respirare gli era quasi impossibile.
Ma si costrinse a tenere duro e a correre, a passare senza
sosta da un corridoio all’altro e a varcare porte di cui non
distingueva bene la sagoma.
Di colpo il pavimento finì e il nano precipitò.
Mentre cadeva, perse conoscenza. Perciò non si chiese
neppure dove sarebbe atterrato.
T
ungdil riprese lentamente conoscenza e si ritrovò
immerso nell’oscurità, ma non era in gabbia né in
catene.
Ovunque fosse finito, sembrava che gli acronta non
lo avessero scovato. Vraccas, ti devo una bella
preghiera. Alzatosi, si tastò intorno.
Le pareti del pozzo in cui era precipitato erano di arenaria
rozzamente sgrossata. I costruttori non erano stati molto
accurati. Tungdil sentì i detriti e la ghiaia che crocchiavano
sotto le suole.
«Beligata?» sussurrò, sperando contro ogni speranza di
ricevere una risposta. Niente.
La parete era segnata in diversi punti, ma gli scavi di
ampliamento erano stati interrotti.
Mi sono cacciato in un vicolo cieco. Tungdil iniziò ad
arrampicarsi. Era solo questione di tempo prima che gli
inseguitori, non trovandolo da nessuna parte, lo cercassero
anche laggiù.
Le sue dita robuste trovarono degli appigli, le suole
s’infilarono nelle fessure più sottili. Salì finché non scorse una
luce fioca e s’issò su una sporgenza.
Durante la fuga doveva avere imboccato un corridoio
laterale in cui gli acronta non si avventuravano perché
sapevano che finiva nel nulla.
Strisciò nell’angolo e vide confermata la propria ipotesi.
A meno di venti passi si allungava un corridoio con un
pregiato rivestimento di legno e coi soliti bracieri appesi al
soffitto.
Le fiamme tenui gli mostrarono nude pareti di arenaria su
cui spiccavano altri segni. A quanto pareva, i costruttori
avevano previsto dei punti per l’allargamento del passaggio. Gli
acronta odiavano gli sprechi, rinunciavano a fronzoli, incisioni
e altri ornamenti, e usavano soltanto il legno lavorato
grossolanamente.
Arenaria. Dunque siamo lontani dai Monti Grigi. Tungdil si
tirò su, si spostò verso l’intersezione col corridoio principale e
sbirciò dietro l’angolo, ma non vide nessuno. Lo stavano
cercando altrove.
Avanzò di soppiatto, aguzzando il naso e le orecchie per
captare qualche indizio. Non ricordava di essere passato di là.
Il gas gli aveva ottenebrato il cervello, facendolo vagare come
un ubriaco.
Sorrise. È bastato per seminare gli acronta. Solo un nano ne
sarebbe capace. Baciò l’anello di Balyndis.
L’aria era fresca e pulita, senza la minima traccia di puzzo.
Le pareti e il soffitto erano ricoperti di legno; il pavimento di
sabbia morbida permetteva di camminare senza fatica né
rumore. Di tanto in tanto Tungdil udiva un ruggito, ma non
incrociò nemmeno un acronte.
Ripensò a Beligata e Hargorin. Non è giusto che siano morti
senza la possibilità di difendersi.
I corridoi erano leggermente arcuati. Le enormi porte ovali a
destra e a sinistra erano tutte chiuse a chiave.
Non avendo nulla con cui scassinare le serrature, il nano
dovette proseguire, tormentato dalla fame e dalla sete.
Finalmente superò un uscio aperto, da cui giungevano i versi
degli esseri giganteschi.
Osò spiare dietro l’angolo… e rimase a bocca aperta, perché
non si sarebbe mai aspettato di vedere una cosa simile. Una
biblioteca!
Tungdil era sulla balaustrata superiore di una sala
esagonale. Contò otto piani profondi trenta passi, zeppi di
scansie e armadi chiusi da lastre di vetro. Rotoli, volumi e
pergamene erano impilati ovunque; simboli e segni parevano
indicare i vari argomenti.
Là dentro i costruttori si erano dati molto più da fare che nei
corridoi, impreziosendo gli scaffali con decorazioni, intarsi e
colori. Sul pavimento rivestito di piastrelle bianche e nere
erano collocati scrittoi dietro cui erano seduti acronta
corazzati, il che creava uno strano contrasto. La stanza era
illuminata da lampade protette da paralumi di vetro, il cui
chiarore era intensificato da specchi. Due guerrieri
consultavano una pergamena, discutendo sul contenuto nella
loro lingua incomprensibile.
Tungdil ebbe l’impressione di essere tornato all’epoca di Lot-
Ionan, solo che il sapere degli acronta sembrava assai più
vasto. Devo scoprire cosa nascondono.
Poteva trattarsi di annotazioni dei popoli che avevano
sconfitto e distrutto oppure di scritti redatti di loro pugno.
Nella seconda ipotesi, la sfida sarebbe consistita nel capire
come funzionassero quella lingua e quella scrittura.
D’un tratto uno dei due acronta alzò la testa, vide il nano e
ruggì. L’altro arrotolò la pergamena e corse verso la scala.
Maledizione! Tungdil tornò in corridoio e riprese la fuga.
Aveva perso l’opportunità di trafugare un’opera, ma la sua
anima guerriera lo rimproverò per averlo anche solo pensato.
La priorità era trovare i compagni e liberarli, per poi provare a
fuggire da quella prigione.
Si affrettò lungo gli anditi, ora salendo, ora scendendo.
Grazie all’innato senso nanesco dell’orientamento s’impresse
nella memoria i segni sui rivestimenti di legno, in modo da
poter ritrovare quel magnifico archivio.
Udì i passi pesanti degli inseguitori: non si sarebbero arresi
tanto facilmente. Che cosa faccio?
Riconobbe l’odore che all’improvviso gli aggredì le narici:
fuoco, ferro caldo, vapore acqueo, fuliggine. Doveva esserci
una fucina nelle vicinanze.
Svoltò a destra nel corridoio in cui il puzzo era più forte, e si
ritrovò in un’officina soffocante che avrebbe fatto onore ai
fabbri dei nani.
In giganteschi recipienti si fondeva il minerale metallico per
ricavare il ferro grezzo, che poi scorreva in corsie ardenti sulla
sabbia verso gli stampi. In un altro punto, rulli grandi quanto
ruote di mulino spianavano il metallo arroventato
trasformandolo in lamiera, mentre davanti alle incudini c’erano
acronta che con violente martellate producevano enormi armi,
armature e pezzi di corazza. Il caldo li aveva costretti a
liberarsi del consueto guscio d’acciaio.
Tungdil vide i crani antropomorfi, dotati di mascelle larghe e
zanne aguzze e sporgenti; al posto del naso avevano solo tre
fori. Sopra le spesse fibre muscolari si stendeva una pelle
pallida su cui spiccavano vene giallo chiaro. La luce delle
fiamme nei forni fusori si rifletteva sui corpi come su uno
schermo.
Nelle immense fucine, le fiamme fischiavano intorno ai pezzi
grezzi e i mantici soffiavano sul carbone, le catene tintinnavano
e le scintille si alzavano crepitando, mentre l’acqua
gorgogliante e sibilante raffreddava l’acciaio nei mastelli.
Tungdil contò un centinaio di acronta che lavoravano in
perizoma senza fare caso a lui. La disattenzione produceva
ferro mediocre, lame difettose e armature scadenti. E noi
abbiamo sempre pensato che esistessero solo singoli esemplari
o tutt’al più un manipolo di queste creature.
Poco lontano c’erano i tavoli degli incisori, dei cesellatori e
degli acquafortisti, che, seduti l’uno accanto all’altro,
decoravano armi e corazze con splendide linee e intarsi.
Creavano anche cerniere, piccole molle e occhielli, chiodi e
ganci e altri pezzi minuscoli, che permettevano di congiungere
le parti senza saldarle e garantivano la libertà di movimento
durante i combattimenti.
Vraccas, ti ringrazio per avermi mostrato tutto questo.
Tungdil sentì arrivare gli inseguitori e si diede una rapida
occhiata intorno. La fucina doveva avere una cappa per
espellere fumo, vapore e calore. La via di fuga più veloce.
Sul soffitto, invece di un grande camino, c’erano diversi
pozzi rivestiti di metallo, abbastanza larghi da consentire il
passaggio di un nano.
Grandioso! Non potranno seguirmi. Strisciò lungo la parete
nascondendosi dietro le fucine, i mucchi di carbone e i mantici,
quindi si arrampicò servendosi di una catena. Il vapore denso
lo riparò dagli sguardi dei mostri.
La catena conduceva a una carrucola che distava un braccio
da uno sfiatatoio.
Con energia e agilità straordinarie, Tungdil si diede lo
slancio e si aggrappò al bordo della lamiera di rame. Dondolò e,
battendo le palpebre contro il fumo, provò a studiare la
struttura del pozzo.
Poiché l’interno era liscio e privo di appigli, non aveva altra
scelta se non fare forza contro le pareti con le spalle e coi piedi
e trascinarsi faticosamente verso l’alto.
Nella stanza si riunirono diversi acronta. Il visitatore
indesiderato era stato scoperto. Le guardie che lo avevano
seguito indovinarono le sue intenzioni. Si fecero portare dei
giavellotti, le cui punte erano ancora incandescenti.
Devo andarmene! Tungdil s’infilò nello sfiatatoio e s’incuneò
con le suole e le spalle per non precipitare sul pavimento della
fucina. Aveva sottovalutato la temperatura delle pareti
metalliche. Doveva sbrigarsi se non voleva che il calore
s’insinuasse sotto la veste o che gli ustionasse la nuca indifesa,
in seguito a un movimento inconsulto.
Il primo giavellotto lo mancò per un pelo.
Il proiettile dalla punta arroventata ronzò e illuminò l’interno
del pozzo, quindi perse slancio e cadde tintinnando. Anche se
era capovolto e non poteva trafiggerlo, un eventuale contatto
sarebbe stato doloroso. Con grande gioia del fuggitivo tuttavia
l’asta s’incastrò.
C’è un cunicolo trasversale! Tungdil s’issò ansimando, tra
colpi di tosse e conati di vomito.
Altri due giavellotti lo sfiorarono, si conficcarono accanto al
primo e formarono un graticcio di legno, cui il fuggitivo poté
aggrapparsi.
La sua pelle aveva toccato più volte la lamiera rovente; la
nuca e le mani iniziavano a coprirsi di vesciche. Il fumo
aumentò, togliendogli il respiro: gli acronta volevano
soffocarlo.
Con le ultime energie e i sensi offuscati, Tungdil afferrò un
giavellotto e si tirò su. Strinse un’altra asta, quando la prima si
spezzò sotto il peso, vi salì a cavalcioni e strisciò verso il
corridoio trasversale. Rotolò sulla schiena e respirò a pieni
polmoni.
Avanti. Sanno dove sono ed escogiteranno qualcosa per
uccidermi.
Non era in gioco soltanto la sua vita. La Terra Nascosta e i
suoi amici contavano su di lui.
Baciò l’anello di Balyndis. Si alzò e prese due giavellotti. Al
primo staccò la punta, che avrebbe potuto usare a mo’ di
spadino e che infilò sotto la veste. Lasciò intatto il secondo e
proseguì ansimando.
Sapeva di non potersi fermare nonostante le vesciche e la
tosse, altrimenti sarebbe soffocato.
Scavalcò a casaccio gli sfiatatoi verticali e dopo un’eternità
raggiunse un corridoio angusto dove percepì una corrente di
aria fresca.
Ben presto si rese conto di essere in un sistema di aerazione
simile a quelli che i nani costruivano per poter respirare anche
nelle gallerie più profonde e nei corridoi più remoti. Riusciva a
camminare eretto, mentre un acronte avrebbe dovuto
strisciare. Non avrebbe potuto chiedere di meglio.
Rimase in ascolto e segnò le diramazioni. Sotto di sé scorse
stanze e anditi, e marcò anche quelli.
Di tanto in tanto incappava in grate che fungevano da
protezione contro mostri o insetti, ma le rimosse col giavellotto.
L’arenaria si rivelò poco resistente.
Poi la fame e la sete diventarono insopportabili.
Quando vide un locale buio che odorava di cibo, Tungdil
spostò la grata e si calò al suo interno, pur temendo una
trappola. Atterrò in una stanza che poteva tranquillamente
essere una cucina. Non conosceva le abitudini alimentari degli
acronta, ma trovò pagnotte grandi come ruote di carro,
salsicce, formaggi e tinozze di carne sotto sale.
Di sicuro sono le scorte per sfamare i prigionieri. Non riuscì
a immaginare un acronte che mangiava un panino al
formaggio. Ricordò che Djerůn uccideva i mostri e li divorava
crudi.
Senza esitare, Tungdil staccò un pezzo di pane e lo assaggiò:
il sapore era acidulo, ma non sgradevole. Mangiò con appetito,
provando anche gli altri cibi. Evitò solo la carne, perché sapeva
da dove veniva.
Mentre masticava udì un ruggito sommesso alle spalle.
Prima che potesse reagire, ricevette un colpo al torace e fu
scaraventato a terra. Sentì un piede che lo premeva contro le
tavole posate sulla sabbia morbida.
Rischiando di soffocare, Tungdil sputò il boccone. Aveva
perso il giavellotto, perciò rimase immobile. «Mi arrendo», urlò
prima in nanesco e poi nella lingua comune della Terra
Nascosta. Era certo che il gigante avrebbe capito.
Una mano corazzata entrò nel suo campo visivo e strappò via
le tavole. Con suo stupore, l’indice d’acciaio tracciò sulla
sabbia alcune rune nanesche mentre l’acronte emetteva
brontolii rassicuranti. SEI COLUI CHE CHIAMANO TUNGDIL
MANODORO. TI HO RICONOSCIUTO DAI SEGNI DORATI SULLA MANO.
«Sì, sono io.» Il nano non osò muoversi. Se l’altro avesse
aumentato la pressione, gli avrebbe spezzato la colonna
vertebrale.
HO SENTITO PARLARE DI TE, MA TI CREDEVO PRIMA NELLA FORRA
OSCURA E POI MORTO. CON LA LAMA DI FUOCO NEL PETTO.
«Oh, è una lunga storia.»
L’acronte cancellò le rune e ricominciò. NON HAI MOLTO TEMPO
PER CONVINCERMI.
Tungdil raccontò il più dettagliatamente possibile, ma in
modo così sintetico da non annoiare l’ascoltatore. «Hai davanti
a te il vero Manodoro», concluse.
QUESTA SÌ CHE È UNA SORPRESA. I MIEI GIOVANI ACÏJN RHÂRK VI
HANNO RACCATTATI PERCHÉ NON SAPEVANO COSA PENSARE. UN ALBO E UN
MANIPOLO DI NANI SONO PARSI LORO TROPPO CURIOSI PERCHÉ POTESSERO
UCCIDERVI E RIMETTERSI IN CAMMINO.
«Hanno fatto la cosa giusta.»
NON È ANCORA DETTO. L’acronte produsse un brontolio cupo.
«Siamo alleati. Ho combattuto con uno di voi, si chiamava
Djerůn, e mi sono messo in viaggio anche col sovrano di
Letèfora per fermare il male. Un acronte altissimo, con tanto di
ali.» Tungdil dedusse che il suo aggressore non era un
guerriero qualunque. «Sarebbe imperdonabile fare del male a
me e ai miei amici.»
SE PROPRIO VUOI SAPERLO, HO FATTO CURARE I TUOI AMICI, ANCHE
QUELLI MEZZI MORTI, scrisse la creatura. HANNO BUONE PROBABILITÀ
DI SOPRAVVIVERE E DI CONTINUARE A SODDISFARE LA CURIOSITÀ DEI
GIOVANI.
«Allora avete usato Hargorin e Beligata come cavie.»
UN GUERRIERO GIOVANISSIMO, LA CUI STRADA NON ERA ANCORA
DECISA. GRAZIE A VOI ABBIAMO CAPITO CHE NON MERITAVA DI PROSEGUIRE.
TU E I TUOI AMICI SIETE PREZIOSI. Il dito d’acciaio scriveva senza
esitazione, l’acronte padroneggiava assai bene le rune
nanesche. CHE COSA CI FACEVATE SUI MONTI CON L’ALBO?
Se solo potessi alzarmi. Il suo stivale rischia di rompermi la
schiena. Tungdil riassunse brevemente la missione perché era
certo di non potersela cavare con una menzogna. Inoltre
sperava di ottenere l’appoggio degli acronta. Combattono
contro il male. Perché non contro il botoiko? «Così siamo partiti
per vedere cosa succede al di là dei confini. Unitevi a noi. Tu e
la tua razza distruggerete la malvagità», concluse.
Il brontolio si ripeté, mescolato a una punta di quello che
con un pizzico di fantasia si sarebbe potuto interpretare come
buonumore. LOTTIAMO CONTRO I MOSTRI. QUELLA CHE HAI DESCRITTO
SEMBRA UNA DELLE SOLITE GUERRE. NON C’IMMISCHIAMO MAI. NON
PARTEGGIAMO PER NESSUNO.
«Ma un ghaist può provocare danni ben peggiori. Non
appena i botoiki se la prenderanno con gli acronta, il tuo
popolo potrebbe soccombere», insistette Tungdil.
CONOSCIAMO I BOTOIKI. RIUNISCONO INTORNO A LORO LE CREATURE
PERDUTE PER COMBATTERE LE LORO FAIDE DI FAMIGLIA, MA NON SONO UNA
MINACCIA. I NOSTRI RICOGNITORI NON SBAGLIANO.
«Invece hanno sbagliato quando ci hanno catturati.»
NO. CERCAVANO UN ALBO, E LO HANNO TROVATO. C’ERANO RUNE
ALBICHE SULLE PIETRE CHE STAVANO SEGUENDO.
«Quei simboli sono antichissimi! L’albo che ci accompagna ci
deve la vita. È per questo che lo abbiamo portato con noi. Ha
viaggiato in lungo e in largo per la Terra dell’Aldilà.»
HO NOTATO CHE È PIUTTOSTO VECCHIO. NON È UN DEGNO AVVERSARIO.
La mano guantata scrisse rapida e sicura. TUTTAVIA CIÒ SIGNIFICA
CHE LE RUNE CONDUCEVANO DA VOI A NOI E NON VICEVERSA?
«Esatto.»
Un borbottio deluso. I GIOVANI S’ILLUDEVANO DI SCOVARE ALBI
FRESCHI. LE DUE CITTÀ CHE AVEVAMO SCELTO COME META SONO STATE
RIDOTTE A MUCCHI DI DETRITI E CENERE. ALLORA NON CI SONO FUGGITIVI,
BENSÌ SOLO UN OCCHINERI CHE È SFUGGITO AL POPOLO DEI NANI CICLI
ADDIETRO E CHE È ARRIVATO FINO A NOI?
«Sì.» Tungdil rifletté. «Hai menzionato due città degli
albi…»
UNA SUL MARE, L’ALTRA SU UNA ROCCIA. TUTT’E DUE DISTRUTTE.
QUALCUNO CI HA PRECEDUTI, MA NON SAPPIAMO CHI. Le dita
cancellarono le scritte. NON LO SAI NEMMENO TU.
«No.»
CHE DELUSIONE.
Tungdil non vedeva la possibilità di sfuggire alla suola. Allo
stesso tempo odiava essere in quella situazione e non poter
fare nulla. «Portami da coloro che comandano il tuo popolo»,
azzardò.
PERCHÉ?
«Potremmo fare un patto contro i botoiki e scoprire
cos’hanno in mente.»
COME TI HO DETTO, LE GUERRE TRA I POPOLI NON C’INTERESSANO.
VOGLIAMO STERMINARE LE BESTIE PER RAGGIUNGERE IL KÂN THALAY.
L’acronte pareva avere soddisfatto la propria curiosità. TUNGDIL
MANODORO, EROE NEL POSTO SBAGLIATO, CHE COSA MI OFFRI IN CAMBIO
DELLA VITA?
Vale la pena fare un tentativo. «Informazioni», gemette il
nano. Una costola gli schioccò e lo sterno scricchiolò.
ORA SÌ CHE FACCIAMO SUL SERIO. INFORMAZIONI… SU COSA?
«Su un luogo pieno di bestie che finora tu e i tuoi simili
avete visto soltanto in sogno. Gli albi lo chiamano Phondrasôn
ed è zeppo di feccia di cui tu e i tuoi amici potrete cibarvi per
l’eternità.»
SEMBRA MOLTO INTERESSANTE. Le dita scrissero con più
entusiasmo. COME LO RAGGIUNGIAMO?
«Non è così semplice. Possiamo fare uno scambio: io vi dico
come trovare l’ingresso, e voi liberate me e i miei compagni.»
FUORI QUESTIONE. Il brontolio diventò più forte e minaccioso.
MA TI FACCIO UN’ALTRA PROPOSTA. UNA VOLTA A CICLO, UNO DI VOI AVRÀ
L’OPPORTUNITÀ DI AFFRONTARE UNO DEI MIEI ACÏJN RHÂRK. SE LO
SCONFIGGETE, VI LASCIO ANDARE E VI DO UN MANIPOLO DI GIOVANI NROTAI
CHE SFIDERANNO I BOTOIKI E LA LORO MARMAGLIA PER AMORE DEL SAPERE.
FINO AD ALLORA MI PARLERAI DEL LUOGO IN CUI VIVONO LE BESTIE, E IO
FARÒ APPURARE LA VERIDICITÀ DELLE TUE PAROLE.
Uno dei miei Acïjn Rhârk? Quell’espressione confermava che
il suo aguzzino non era un guerriero qualunque. «E se non ci
riuscissimo?»
TU E I TUOI AMICI RESTERETE PRIGIONIERI. CICLO DOPO CICLO.
«Purché all’albo non venga torto un capello e gli vengano
messi a disposizione carta, inchiostro e penne affinché possa
scrivere. Con la mia autorizzazione, beninteso.» Tungdil cercò
di scongiurare il peggio. Poiché Beligata e Hargorin erano
ancora vivi, non correvano nessun rischio. Abbiamo bisogno
anche di Carmondai.
ALLORA ABBIAMO UN ACCORDO, TUNGDIL MANODORO, CHE ACCETTO
SOLTANTO PERCHÉ LA TUA FAMA TI HA PRECEDUTO, scrisse l’acronte.
HAI LA MIA STIMA E IL MIO RISPETTO.
Echeggiò un ruggito, ed entrarono altri quattro acronta
corazzati che accerchiarono il nano senza nemmeno
concedergli il tempo di guardarsi indietro. Lo scortarono lungo
corridoi romboidali ed esagonali in cui non era ancora stato. Gli
rammentarono Letèfora. Il palazzo in cui viveva l’acronte,
nonché re della città, aveva lo stesso stile architettonico.
A Tungdil sarebbe piaciuto sapere con chi avesse parlato. Mi
fido della parola di un acronte che non ho nemmeno visto in
faccia. Vraccas, fa’ che io non abbia perso completamente la
ragione.
Di lì a poco, tuttavia, si ritrovò nell’ampia sala con l’arena e
fu trasferito nella gabbia.
Alla sua sinistra, Beligata sonnecchiava sotto la cupola di fil
di ferro. A destra, Hargorin russava e schioccava
rumorosamente le labbra; lo scomparto nascosto nella gamba
artificiale era aperto e vuoto. I carcerieri avevano scoperto il
trucco.
Finora l’acronte ha mantenuto la parola. Tungdil guardò
Carmondai, circondato da fogli, penne e calamai. Aveva già
cominciato a disegnare e gli fece un cenno sbrigativo.
«Abbiamo un nuovo compito», annunciò Tungdil a voce
abbastanza alta per farsi sentire da Gosalyn e dal tessitore di
storie. Ricapitolò loro le sue peripezie. Omise solo di avere
riposto la punta del giavellotto sotto la veste, perché temeva
che gli acronta li origliassero. Sarà fondamentale per il piano
B.
Un nano come lui non viveva nella speranza di sconfiggere
un acronte in una rotazione lontana. Baciò l’anello di vraccasio.
La preparazione era tutto. Preparazione e opportunità, era
quello il segreto del successo.
T
ungdil, chino, si affrettò con due copie sotto il braccio
lungo i corridoi di aerazione che lo ricondussero
nell’arena all’insaputa degli acronta. Gli scritti
parlavano delle città albiche e dei botoiki, che la Madre
Imperatrice, come veniva chiamata la sovrana,
considerava una minaccia irrilevante.
Un errore, secondo il nano.
Si meraviglieranno quando cadranno sotto il potere di quegli
stregoni. Svoltò e spiccò un salto, atterrando sulla cupola della
gabbia e scivolando giù. «Ho trovato qualcosa.» Porse i fogli a
Carmondai.
«Come sempre.» L’albo consultò gli appunti e li passò a
Gosalyn. Il fatto che fossero trascorsi molti cicli si deduceva
soprattutto dai suoi lunghi capelli castani striati d’argento. Gli
coprivano le parole incise sulla fronte e, in parte, i marchi a
fuoco sulle guance.
Nelle altre due gabbie, Hargorin e Beligata studiavano altre
annotazioni nel tentativo di approfondire le proprie conoscenze
sulla scrittura, sulla lingua e sulla costituzione fisica degli
acronta.
Si erano ripresi dalle ferite e avevano combattuto più volte
contro un guerriero della Madre Imperatrice, benché senza una
vittoria schiacciante, il che serviva loro da stimolo. Beligata
conosceva meglio degli altri la struttura interna ed esterna
degli acronta. Dopo che Tungdil aveva imparato la loro
scrittura e l’aveva insegnata agli altri, non le era stato difficile
documentarsi nell’archivio e in biblioteca.
Avrebbe la stoffa dell’erudita. Tungdil aprì la gabbia e
s’infilò dentro, abbassò la cupola e la fece scattare. Non vedo
l’ora che racconti la verità sulla cicatrice. I margini si sono
allargati di nuovo. Sfinito, si sdraiò, baciò l’anello di vraccasio e
chiuse gli occhi per concedersi un poco di riposo nonostante il
lavorio della mente. Doveva elaborare le informazioni che
aveva appena letto. Il suo sapere non era mai stato vasto come
in quel momento.
Gli acronta avevano scritto di qualunque popolo avessero
incontrato, aggiungendo valutazioni sulla pericolosità, sui
metodi di combattimento, sull’aspetto, sulla lingua e perfino sul
comportamento, sulla posizione di città e insediamenti,
sull’evoluzione e così via. I loro esploratori avevano viaggiato in
lungo e in largo, tranne che nella Terra Nascosta.
In passato gli ingressi si erano spesso rivelati inaccessibili,
almeno nei periodi in cui erano stati affidati alla sorveglianza
dei nani. La notizia aveva fatto esultare Beligata e Hargorin.
Nei rari casi in cui la Porta di Pietra era stata aperta, gli
acronta avevano accennato solo alla consueta infestazione di
bestie, che tuttavia non aveva reso necessario un intervento.
Tungdil si girò sulla schiena.
Continuò a decantare le informazioni per imprimersele
indelebilmente nella memoria. Gli acronta erano sempre stati
un mistero. Ora si trovava nel loro covo, in un luogo segreto di
cui non aveva ancora determinato la posizione benché avesse
trafugato e consultato decine di mappe.
Per indicare se stessi, gli acronta usavano il nome Acïjn
Rhârk. Grazie a un appunto, Tungdil aveva scoperto perché la
guardia del corpo di Andôkai si chiamava Djerůn. Il termine
derivava da Daajerhrůn, che designava gli esemplari più alti e
forti. La storpiatura di un titolo onorifico.
Un ciclo dopo l’altro, la Srai G’dàma, la Sacra Madre
Imperatrice, sceglieva la razza di bestie cui dare la caccia per
poi divorarle. Era quello lo scopo dei rilevamenti effettuati dai
ricognitori, che arrivavano ovunque e seguivano l’evoluzione
dei mostri.
Lo stimolo non era solo il desiderio di sterminare i nemici,
ma affondava le radici anche nella mitologia. Il Kân Thalay, il
tempo della serenità e della pace interiore, sarebbe arrivato
solo quando l’equilibrio del mondo fosse stato ripristinato. A
quel punto, gli acronta non avrebbero più avuto ragione di
combattere.
La loro più grande ambizione.
Fino a quell’istante la loro esistenza avrebbe ruotato intorno
alla lotta. Gli umani erano agli ultimi posti della lista.
Tungdil aveva trovato illuminanti gli appunti sulla vita degli
acronta. Uscivano da uova come serpenti e venivano allevati
per cinque cicli nel covo, finché non erano completamente
sviluppati. Dopo un altro ciclo raggiungevano la statura
massima.
Tungdil aveva creduto per molto tempo che fossero un
popolo nomade, ma aveva ormai capito di essersi sbagliato.
L’ubicazione del covo era segreta, la struttura invisibile
dall’esterno. Soltanto le unità da combattimento si
avventuravano fuori per cacciare, come se fossero sbucate dal
nulla.
Non riesco a dormire. L’eroe si alzò a sedere e osservò
l’arena, dove poco prima un troll era stato fatto a pezzi da un
acronte.
I guerrieri ricevevano una formazione di base della durata di
tre cicli, sufficiente per l’unità standard. Dopo dieci cicli erano
idonei per le unità speciali, e dopo cinquanta diventavano
veterani, o guerrieri d’élite.
Durante le battaglie e le marce, un’unità era sempre
composta di cinque membri, identificati da simboli identici
sulle armature. Le decorazioni rivelavano anche quanti nemici
avesse ucciso il guerriero e di quali meriti si fosse fregiato.
La Srai G’dàma deponeva uova particolarmente grandi, da
cui sgusciavano gli esemplari più pericolosi. Più forti e più alti
degli altri, erano spesso dotati di ali. Alcuni partivano oppure si
sentivano chiamati a missioni più nobili e, per ordine della
Madre Imperatrice, si sparpagliavano e fondavano nuovi covi o
insediamenti, non di rado vicino a una popolazione di bestie,
per poi riunire intorno a sé altri acronta. Tutti, però, erano
sottoposti al comando della Sacra Madre Imperatrice.
Non devo essere ingrato. Siamo vivi. Tungdil toccò le maglie.
Tuttavia dobbiamo portare a termine l’incarico, possibilmente
con gli acronta come alleati.
In un modo o nell’altro doveva convincerli che i botoiki erano
pericolosi.
Spulciava sempre i messaggi che gli esploratori inviavano al
covo, e in effetti era incappato in qualche riferimento a un
nuovo esercito che gli stregoni avevano creato nei due cicli
precedenti, reclutando perlopiù mostri giganteschi.
Da un rapido confronto delle mappe aveva calcolato che era
accaduto a più di ottocento miglia dalla Porta di Pietra.
Per il momento il baluardo non correva rischi.
Ma presto le cose potrebbero cambiare.
La porta dell’arena si aprì ed entrò un acronte corazzato. Gli
specchi ruotarono e illuminarono il pavimento.
Un nuovo scontro. Tungdil alzò gli occhi e vide un gancio
scendere verso la sua gabbia. Allarmato, si alzò. Questa volta
tocca a me. «Beligata, quali sono i loro punti deboli?»
«Mi sembra di avere letto qualcosa.» La nana girò le pagine.
«È scritto da qualche parte, ma…»
La gabbia di Tungdil fu afferrata e trasferita di sotto.
«Continua a cercare. Lo tengo a distanza il più a lungo
possibile», urlò l’Erudito.
Carmondai indicò l’estremità opposta della sala. «Non solo
lui.»
Il nano si voltò.
Una trentina di gabbie furono calate sul pavimento, coi
prigionieri che scuotevano e tiravano le maglie come ossessi.
La luce rischiarò mezz’orchi, ibridi di animali, creature grandi
e piccole, un troll e un essere che sarebbe stato bene in mare.
Dal soffitto piovvero armi, scudi e pezzi di armature affinché i
mostri potessero attrezzarsi.
L’acronte, munito di una spada lunghissima e di un’ascia,
vibrò qualche fendente di prova e ringhiò piano dietro la
visiera.
Un veterano che vuole guadagnare una nuova decorazione.
Tungdil tenne la punta del giavellotto accuratamente nascosta
sotto la veste. Evidentemente è in cerca di una sfida. La gabbia
toccò terra con uno scossone.
I giudici avevano preso posto sui palchi. L’acronte iniziò ad
aprire le cupole. Anziché lanciarsi contro di lui, i mostri corsero
a prendere le armi.
Interessante. Contrariamente alle aspettative, Tungdil non
fu aggredito. Non hanno selezionato i più stupidi per affrontare
il guerriero.
A differenza degli altri, non si affrettò bensì si avvicinò piano
piano al mucchio di oggetti, già abbondantemente
saccheggiato.
Due mezz’orchi incitarono le bestie a unire le forze, ma gli
altri non capivano i loro ruggiti. Così si formarono gruppetti i
cui membri si conoscevano o si associavano perché
appartenevano alla stessa razza.
Meglio evitare certe compagnie. Preferisco restare solo.
Tungdil esaminò ciò che era rimasto: armi rubate che, a
giudicare dalle dimensioni e dalla qualità, non venivano usate
dagli acronta. Invece di fonderle nelle officine, i giganti le
cedevano ai prigionieri. Si accovacciò e scelse uno scudo in
discrete condizioni, una corda, un bifacciale abbastanza affilato
e sei pugnali bilanciati. Potrebbero tornarmi utili. Con tutta
calma frugò col piede tra i pezzi di armatura mentre le bestie
lanciavano le prime urla terrorizzate e i prigionieri le
incitavano dalle nicchie. Sperando che gli occupanti del palco
non facessero caso ai suoi movimenti, gettò i coltelli ai propri
compagni. Trovò una corazza che proteggeva la schiena e il
petto e la indossò, aggiungendo bracciali ed elmo. Si mise la
corda intorno alle spalle. «Beligata?»
«Sto cercando! Il guerriero è ancora occupato.»
Tungdil si tirò su e si legò le cinghie di cuoio della corazza
sui fianchi, quindi osservò il combattimento contro l’acronte.
Quattro sono già fuori gioco.
Grazie ai duelli di cui era stato spettatore e agli appunti che
aveva studiato, era in grado di prevedere esattamente le mosse
del veterano. Così sarebbe stato più facile affrontare la Torre
Ambulante e cogliere il momento giusto per ucciderla. Tuttavia
c’era una bella differenza tra schivare gli attacchi e vibrare un
colpo capace di mettere il guerriero al tappeto.
Con l’aiuto di Vraccas, darà fondo alle sue energie. Tungdil
immaginò il colpo successivo e sorrise soddisfatto quando
l’acronte lo sferrò contro un mezz’orco, trapassandolo nel
senso della lunghezza. Dovrebbero dargli più filo da torcere.
L’arena si svuotò velocemente. I quasi quaranta aggressori si
erano ridotti a poco più di venti.
I superstiti avevano capito di essere semplici prede e
diventarono più cauti. Si riunirono in gruppi più numerosi e
comunicarono a gesti, cosa di cui l’acronte prese atto con un
borbottio. Sembrava compiaciuto.
«Beligata, sarebbe bello se trovassi qualcosa.» Tungdil si
sedette sul pavimento, ignorando le istigazioni dei mostri.
Sfidate la sorte senza di me. Aspettò.
Il mezz’orco superstite si mise al comando delle bestie e
prese a impartire istruzioni. L’acronte fu accerchiato.
Un troll, alto il doppio di lui, si tenne in disparte agitando
una clava col lungo braccio senza sapere cosa fare. Intorno alla
creatura si erano radunati dieci mostri che speravano così di
avere più probabilità di sopravvivenza.
Oltre al nano, si teneva a distanza soltanto l’essere marino
simile a una foca, col corpo pingue e con le pinne. Steso a
terra, parve chiedersi cosa avrebbe potuto fare contro l’acronte
sulla terraferma.
Lo strepito dei prigionieri non era cessato. Il puzzo di
sangue, viscere e carne calda li eccitava ancora di più.
«Ehi, ho qualcosa!» annunciò Beligata, agitando un foglietto.
«Alza la voce», gridò Tungdil. Maledizione! Queste bestie
sono troppo chiassose.
«Devi… colpire… dietro.»
Tungdil comprese che così non sarebbe andato da nessuna
parte. «Appallottola il foglio intorno a un sasso e lanciamelo.»
Provò a spiegarsi coi segni.
Beligata obbedì.
Tungdil seguì la traiettoria della pietra. Con la coda
dell’occhio vide che la creatura marina si dirigeva nel probabile
punto di atterraggio: muovendosi come un incrocio tra un
bruco e un serpente, strisciava a una velocità che lui non
sarebbe mai riuscito a uguagliare. «Guai a te!» gli gridò, e si
mise a correre. Si accorse che il combattimento contro
l’acronte era ricominciato perché udì le grida e i tintinnii. Il
biglietto di Beligata, tuttavia, era assai più importante.
Il sasso cadde sul pavimento, sobbalzò diverse volte e rotolò
verso la bestia marina, che aprì la bocca per addentarlo.
Non lo prenderai. Tungdil scagliò lo scudo per deviare la
pietra.
Le zanne del mostro si strinsero intorno al disco e
morsicarono la lamiera e il legno come se fossero pane.
Dovrò stare alla larga dal suo muso. Il nano si chinò.
Un’ombra si allungò su di lui e lo scaraventò a terra, quindi
lo colpì violentemente, facendolo ruzzolare per diversi passi.
Che cos’è stato? Tungdil alzò la testa verso l’aggressore
inatteso.
L’essere marino non si vedeva da nessuna parte, in
compenso una creatura antropomorfa, nuda e dotata di braccia
lunghissime e di unghie affilate come coltelli, era accovacciata
davanti al foglietto.
Tungdil riconobbe gli occhietti neri e luccicanti. Un
mutaforma. Si rialzò. Si prende gioco di me camuffandosi da
essere goffo per togliermi di mezzo. Si avvicinò. «Che cosa
vuoi? Dammi il biglietto.»
La creatura aprì il messaggio e lo lesse. O almeno finse di
leggerlo. «Bene.» Lo agitò. «Bene, bene.» Lo posò sul
pavimento e lo fermò col sasso, senza indietreggiare. «Leggere.
Vieni, leggere.» Alzò le braccia e arricciò l’indice.
Tungdil si sforzò di ricordare le annotazioni degli acronta sui
mutaforma. Di sicuro non sono alleati sinceri.
Se non errava, l’essere apparteneva alla specie dei Fin’Sao,
che si contraddistinguevano per una brutalità gratuita. Non
voleva soltanto uccidere le prede o gli avversari, ma anche
accanirsi su di loro. Solo allora, infatti, la carne acquisiva il
sapore desiderato.
«Allontanati!» ordinò Tungdil. Se il Fin’Sao non avesse
obbedito, avrebbe chiesto a Beligata di lanciare un altro
biglietto. Oppure questo è l’originale?
La bestia fece qualche passo indietro e gli fece l’occhiolino.
Tungdil si tenne pronto al contrattacco. Che essere perfido.
A quanto pareva, l’avversario da temere non era l’acronte. Il
Fin’Sao aveva voglia di combattere contro un nemico facile da
sconfiggere.
«Se mi attacchi, ti faccio a pezzi», minacciò Tungdil,
raccogliendo lo scudo. Recuperò rapidamente il foglietto e,
rannicchiandosi dietro il disco metallico, lo lesse.
Il Fin’Sao, però, aveva grattato via le parti più importanti.
Piccolo bastardo. Il nano abbassò la pagina. «Che cosa
vuoi?»
«Noi due, insieme.» L’altro inclinò la testa. «Io so cosa fare.
Tu fai, io dico.»
Tungdil si allontanò. «Tenta la fortuna da solo.» Fece segno a
Beligata di gettare un altro messaggio. «Non mi faccio
ricattare.»
«Il mio popolo vive vicino. Fuggire, nascondersi, protezione
da quelli.» Il Fin’Sao girò su se stesso con le unghie che
graffiavano il pavimento. «Tu e i tuoi amici. E io. Aiutare.»
Tungdil non vide l’utilità di legarsi a un alleato inaffidabile.
Il patto con gli acronta e con la Madre Imperatrice è più
vantaggioso. «No. Ma, dato che ora conosci i punti deboli del
guerriero, va’ pure.»
Il Fin’Sao soffiò rabbiosamente e si scagliò di colpo contro il
nano.
Tungdil si tuffò dietro lo scudo e aspettò l’impatto, puntando
i piedi sul pavimento ed estraendo il bifacciale.
Una zampa gli scalfì l’elmo senza trapassarlo, le unghie
dell’altra si conficcarono nel rivestimento di metallo e nel
legno.
Non volevo combattere. Tungdil sollevò il disco il più
possibile e stese l’avversario. Ma non ho alternative. Quindi lo
colpì al basso ventre.
La lama squarciò l’addome, provocando un fiotto di sangue.
Gemendo, la bestia indietreggiò con una serie di saltelli
grotteschi. Il movimento allargò la ferita e fece uscire le
viscere. Dopo quattro passi il Fin’Sao si afflosciò.
«Attento», gridò Beligata tra gli incitamenti dei prigionieri.
Tungdil si voltò verso destra per osservare il combattimento
principale, ma la sagoma dell’acronte si erse davanti a lui
all’improvviso. Per Vraccas!
L’altro aveva già sollevato l’ascia per colpirlo.
T
ungdil sapeva di non poter sfuggire alla lama
dell’enorme ascia.
Tuttavia, prima che colpisse il nano, l’arma trucidò
una bestia corazzata che si era avventata contro
l’acronte all’improvviso. Mentre il metallo affondava nel
ferro, nella pelle e nelle ossa e ricompariva in una scintillante
nuvola di sangue rosso, il nano guadagnò qualche istante per
agire. Estrasse prontamente due pugnali, li sovrappose e li usò
per difendersi.
Le armi si scontrarono tintinnando.
Tungdil scivolò sul pavimento finché, allo stremo delle forze,
non dovette lasciarsi cadere all’indietro.
La lama si alzò a un palmo dal suo naso, coprendogli il viso
di spruzzi scarlatti, ma era troppo lontana per ferirlo.
Presto. Il nano rotolò di lato e schivò il piede dell’acronte,
che gli avrebbe spappolato il cranio. Non c’è tempo da perdere!
Balzò in piedi e controllò cosa stessero facendo l’avversario e le
bestie.
Erano rimasti solo quattro mostri, raggruppati in un punto
dell’arena. A differenza dei caduti, si erano disposti in
formazione. Due stringevano lunghi giavellotti, uno usava una
cinghia di cuoio a mo’ di fionda con cui lanciare le palle delle
mazze ferrate, e l’ultimo si era munito di altri sette giavellotti.
Avanzarono verso l’acronte.
Tungdil aumentò la distanza tra sé e il gigantesco guerriero,
che gli voltò le spalle e s’incamminò verso il gruppo roteando
l’ascia per deviare i lanci.
Dov’è? Dov’è? Dopo una breve ricerca, il nano trovò il
prezioso foglietto di Beligata e lo lesse.
In effetti, il corpo degli acronta aveva un punto debole: sulla
schiena, dove il bacino si congiungeva alla colonna vertebrale.
Secondo il libro dei guaritori, un colpo violento poteva
provocare una rigidità temporanea, e un fendente addirittura la
paralisi degli arti inferiori.
Tungdil studiò l’acronte e la sua spessa armatura. Non aveva
con sé nulla che potesse trapassare l’acciaio. Che cosa faccio?
«Tutto qui?» chiese a Beligata, agitando il biglietto.
«Sì.»
Tungdil rise mestamente e guardò il mucchio di armi.
Nell’accozzaglia di lame e impugnature intravide un martello
da fabbro il cui manico gli arrivava al naso. Dovrebbe bastare
per vibrare un colpo violento. Raccogliendolo, concluse che
pesava circa il doppio di una grossa ascia e che dunque non gli
avrebbe permesso di sferrare attacchi veloci. Lo strinse con
entrambe le mani. Ma come faccio a immobilizzare il
guerriero?
L’acronte scagliò via i giavellotti e schivò le mazze.
Tungdil si mise il martello in spalla e girò intorno al mostro,
scrutando il pavimento per vedere se potesse sfruttarlo a
proprio vantaggio, in cerca d’irregolarità o spaccature che
potessero trasformarsi in trappole. Intanto continuava a
lanciare rapide occhiate ai combattenti.
L’acronte si era stancato di scansare le mazze. Ne agguantò
una e la rilanciò energicamente. Tuttavia non mirò alla bestia
che l’aveva gettata, bensì a uno degli avversari armati di
giavellotto. La sfera munita di punte di ferro lo centrò alla
spalla e gli strappò l’articolazione insieme con l’armatura.
Tungdil aggrottò la fronte, preoccupato. Il veterano ha una
forza straordinaria.
La bestia si afflosciò urlando, il sangue verde innaffiò i suoi
compagni e formò una pozza.
L’acronte sfoderò la spada e avanzò. Pareva avere
concentrato tutta la propria attenzione sul gruppo, senza
prendere sul serio il nano.
Si è sparsa la voce che finora siamo sempre stati sconfitti,
pensò Tungdil. Baciò l’anello di Balyndis, si mise a correre e
fece in modo d’imitare la sequenza di passi dell’acronte.
Sembrava che Vraccas volesse offrirgli un’opportunità.
Con un gesto sdegnato, il gigante scaraventò l’ascia, che
passò turbinando fra i tre mostri, colpendo la seconda bestia
munita di giavellotto e aprendole il petto. Il lungo manico ruotò
e centrò lo stomaco dell’avversario che aveva lanciato la
mazza, atterrandolo all’istante.
Tungdil elogiò il coraggio del giavellottista, che non
indietreggiò nemmeno di un passo e prese la misura. Bravo
ragazzo. Tienilo occupato per me. Una decina di lunghi passi lo
separava dalla schiena del colosso. Il bersaglio pareva a
portata di mano.
La bestia scagliò il primo giavellotto.
Il proiettile puntò dritto verso l’elmo, ma una leggera parata
lo deviò, rendendolo innocuo.
Ora. Tungdil si mosse all’ombra dell’acronte e alzò il braccio.
Vraccas, aiutami.
Il gigante fletté le gambe e saltò verso la bestia, che urlando
scagliò un giavellotto dopo l’altro.
Il fendente del nano mancò il veterano, che si sollevò quasi
verticalmente e scese sul mostro come un uccello rapace
brandendo la spada dall’alto verso il basso.
So dove atterrerai. Tungdil si mise a correre e fece un altro
tentativo.
L’acronte tornò sul pavimento, la lama anticipò la mossa del
mostro e lo trapassò dalla clavicola destra al piede. Il
moribondo gridò come un ossesso.
Tungdil fissò il punto vicino al coccige dove la massiccia
testa di ferro avrebbe dovuto sfondare l’armatura come un
fulmine di metallo. Tese i muscoli e fece appello a tutta la
propria forza.
Il martello colpì, l’estremità smussata sbatté contro
l’armatura finemente lavorata.
Il nano esultò.
L’acronte, alto più di tre passi, vacillò. Invece del solito
ruggito emise un suono breve e chiaro, simile al fischio di un
bollitore. Il corpo s’irrigidì, quindi si accasciò. Il guerriero si
ribaltò seppellendo i cadaveri e i feriti.
I prigionieri nelle gabbie ammutolirono. Non se lo
aspettavano, e lo stupore li lasciò senza parole.
La corazza si alzava e si abbassava regolarmente, perciò il
nano dedusse che il veterano era ancora vivo. Paralizzato, non
morto.
«Brava», gridò Tungdil a Beligata, baciando l’anello di
vraccasio. Poi guardò verso i palchi, si avvicinò alla testa
dell’acronte e posò il martello sull’elmo. Avrebbero capito che
un altro fendente sarebbe stato letale. «Vi basta come prova, o
devo uccidere un veterano che ha combattuto valorosamente e
potrebbe farlo ancora?»
«Tramortiscilo!» suggerì Hargorin. «Tra poco sarà di nuovo
in grado di alzarsi.»
Non appena l’eco delle sue parole si spense, i prigionieri
andarono in visibilio, acclamando Tungdil come uno dei pochi
che erano riusciti a sconfiggere un acronte.
Per tutta risposta si udì il temuto sibilo del gas, che affluì
dall’alto e addormentò le bestie, una fila dopo l’altra.
«Ditemi: vi basta?» ripeté Tungdil agli occupanti dei palchi
prima che le gambe gli cedessero e che i sensi lo
abbandonassero.
P
otremmo quasi dimenticare dove siamo. È bellissimo,
qui, si disse Tungdil.
Dopo dieci rotazioni, i nani, l’albo e gli acronta si
ritrovarono davanti un paesaggio di colline verdeggianti
su cui crescevano piccole macchie di alberi. Valli strette
si alternavano a pianure ben visibili, seguite da nuova alture
che non superavano i trecento passi.
L’ubicazione del covo degli acronta, in cui i nani e l’albo
avevano trascorso alcuni cicli, restò ammantata nel mistero. I
giganti li avevano condotti fuori con sacchi infilati sulla testa e
li avevano trasportati per due rotazioni, facendo una sosta ogni
tanto per mangiare e bere. Per il resto non avevano mai
permesso loro di guardarsi intorno.
I sacchi erano spariti solo alla terza rotazione, e da allora il
paesaggio non era cambiato molto.
Faceva caldo, ma non al punto di sudare. Però la marcia era
faticosa.
I fili d’erba frusciavano sotto le suole degli stivali, gli insetti
ronzavano. Il gruppo viaggiava leggero e aveva rinunciato ai
viveri. Si dissetavano con l’acqua dei ruscelli e si sfamavano
con la frutta e con gli animali uccisi dagli acronta.
Tungdil ricordò l’avventura col Rabbioso, quand’erano
partiti con Djerůn e con la maga Andôkai e avevano salvato la
Terra Nascosta dal male. Ma questa volta è diverso.
Per proteggere la patria dovevano attraversare la Terra
dell’Aldilà circondati da cinque acronta corazzati, armati e più
silenziosi di Tungdil e dei suoi compagni. Per le Torri
Ambulanti, la loro andatura spedita comportava solo la
necessità di fare passi più lunghi.
Fino a ottanta miglia ogni rotazione. Ai loro occhi dobbiamo
sembrare lenti come lumache. Una goccia di sudore gli entrò
nell’occhio, causandogli un leggero bruciore.
Erano diretti verso il punto in cui gli esploratori avevano
avvistato Aiphatòn e le sue truppe. A guidare il gruppo era
Tsatòn nar Draigònt, il veterano cui Tungdil aveva risparmiato
la vita.
Comunicavano con la lingua dei segni oppure scrivendo sul
terreno. L’Erudito rimpiangeva di non avere più accesso alla
biblioteca degli acronta. C’erano molte altre nozioni che
avrebbero potuto tornarci utili.
Tsatòn puntò verso una macchia di alberi e annunciò di voler
fare una sosta. Qui i nostri ricognitori hanno lasciato dei
messaggi, aggiunse a gesti. Abbiamo molti luoghi in cui
scambiarci le informazioni quando l’esploratore non può
aspettare.
«Molto astuto.» Hargorin aveva un’armatura leggera di
seconda mano, che aveva adattato alla bell’e meglio.
Nessuno di loro indossava una corazza della misura giusta.
Non avevano avuto il tempo di forgiarle su misura, perciò si
erano accontentati di quelle fornite dagli acronta. I nani non
erano molto soddisfatti, e ancora meno delle armi non
bilanciate che un tempo erano state usate dalle bestie.
«Meno male che nella Terra Nascosta non ci sono Torri
Ambulanti.»
«Non sarebbero tue nemiche. Probabilmente la loro
protezione non vi nuocerebbe.» Carmondai aveva un’armatura
di cuoio nero che gli piaceva molto e gli aderiva perfettamente
al corpo. Era l’unico ad avere con sé la sua vecchia arma.
Dopo la cattura del gruppo, gli acronta avevano conservato
la Sanguinaria perché avevano intuito la sua natura insolita.
Beligata si guardò bene dal cercare di sottrarla all’albo.
Avanzarono nel boschetto. I nani e l’albo camminavano
dentro il cerchio degli acronta.
Tsatòn li guidò a passo deciso verso una piccola radura sul
cui bordo si trovava un gruppo di rocce. Si sedettero, e i
giganti fecero la guardia mentre i nani e l’albo mangiavano la
frutta che avevano raccolto lungo la strada. Carmondai tirò
fuori un foglio e disegnò con maestria lo spiazzo e i viandanti.
Un maestro dell’immagine e della parola. Tungdil era colpito
dal suo talento e dalla sua abilità.
Il veterano aprì uno scomparto segreto nella pietra, in cui
era nascosta una cassetta di metallo chiusa. Il coperchio si aprì
dopo che l’acronte ebbe premuto una precisa sequenza di
simboli sul lato superiore.
Tungdil memorizzò la combinazione. Non si sa mai.
Tsatòn estrasse una pergamena e la srotolò.
Il messaggio era redatto in un codice acrontico che l’Erudito
riuscì a decifrare solo in parte, cogliendo i riferimenti a un
villaggio e a un periodo di tempo. A giudicare dall’espressione
perplessa dei suoi amici e dell’albo, anche loro erano in
difficoltà.
Il veterano scrisse sul terreno la traduzione in rune
nanesche.
«Dietro la collina sorge un villaggio occupato dal botoiko e
dagli albi, che vivono lì da venti rotazioni», lesse Tungdil.
«Aspettano altri esseri viventi da arruolare nel loro
esercito.» Hargorin prese la borraccia.
L’INSEDIAMENTO DOVREBBE AVERE QUATTROMILA ABITANTI, scrisse
Tsatòn.
«Non sono molti.» Gli occhi neri conferivano a Carmondai un
aspetto sinistro cui i nani non si erano mai abituati, com’era
evidente dalle loro facce disgustate.
«Quattromila sono un’inezia. Se davvero il loro obiettivo
dovesse essere la Porta di Pietra, i Quinti li sterminerebbero in
un batter d’occhio», intervenne Gosalyn. «Abbiamo macchine
da lancio e catapulte che…»
«La Voce del Vento rade al suolo qualunque cosa costruiate»,
la interruppe l’albo. «Esistono molte leggende sulla sua forza
distruttiva. Non va dimenticato che perfino gli Ashont
raccontano delle regioni colpite dal vento settentrionale. Le
lame di basalto e ossidiana penetrano nelle più piccole fessure
delle corazze. E poi la violenza delle raffiche.» Carmondai
continuò a disegnare e gettò via il torsolo della mela.
«Prima di fare altri piani, vediamo cosa succede oltre la
collina. Dobbiamo capire cosa sia accaduto ad Aiphatòn e da
cosa dipenda il suo voltafaccia», disse Tungdil.
«Sempre che sia mai stato sincero.» Gosalyn sputò il
nocciolo di una ciliegia e armeggiò con la fibbia della cintura.
«Altroché se lo era. Ho sentito dire che ha tradito e
avvelenato la sua gente.» Carmondai la guardò. «Perché
dovrebbe complicarsi la vita e attaccare faticosamente la Terra
Nascosta dall’esterno, quando ha avuto la possibilità di
sottometterla con le sue truppe dopo la morte di Lot-Ionan?»
«Un albo parla sempre in difesa di un altro albo», borbottò
Hargorin. Stava intagliando un manico con cui sostituire quello
della scure, e i trucioli s’impigliavano nella barba. «Conosco
quelli come voi.»
«Hai servito quelli come noi.» Carmondai riprese a
disegnare. «Per molto tempo. E metti a tacere la coscienza
dicendole che in segreto difendevi il bene.» Si fermò e gli
lanciò una lunga occhiata. «Questo ti fa sentire meglio, re dei
Terzi? Non ci sono state rotazioni in cui hai assaporato il potere
comandando gli avidi e assoggettando gli umani che prima non
ti avevano mostrato un briciolo di rispetto?»
«La tua lingua è affilata e piena di veleno. È tipico di voi. I
gemelli trigemini non erano da meno.» Hargorin indicò il
veterano. «Dovremmo permettergli di divorarti. Non abbiamo
più bisogno di te, ora che abbiamo gli acronta. Inoltre le tue
conoscenze non ci sono ancora servite a nulla. Dubito che tu
possa esserci utile.»
Gosalyn e Beligata ridacchiarono.
«Potremmo votare.» Il nano agitò il pezzo di legno. «Chi è a
favore?»
Tungdil masticò un pezzo della carne secca aromatizzata che
avevano portato con sé perché pesava poco. «Lasciatelo in
pace. Ci aspettano sfide ben diverse dal dare un vecchio albo in
pasto agli acronta.»
I nani risero. Era palese che non avrebbero rimpianto la
morte di Carmondai, in qualunque modo si fosse verificata.
Il tessitore di storie lanciò una rapida occhiata a Tungdil e
continuò a far volare la matita sulla carta. Quindi ripose il
foglio nella custodia di cuoio, che poi avvolse nella carta
cerata. «Di sicuro avrete bisogno di me», mormorò. «Trattatemi
bene, e vi aiuterò.» Fece un sorrisero gelido.
È pur sempre un albo. Tungdil scosse le gambe indolenzite e
strofinò l’anello di Balyndis. Spero che tu stia bene. Tu e tuo
figlio. Non vedeva l’ora di cenare con loro. Non si aspettava
granché, ma il fatto che fossero disposti a sedersi a tavola con
lui era un inizio. Come l’anello.
«Piantala con queste erbe», disse brusca Beligata.
Tungdil alzò la testa.
«Volevo solo darti una mano», si giustificò Gosalyn, che
aveva posato degli steli schiacciati su una benda sottile. «La
cicatrice non ha un bell’aspetto. I margini si stanno
annerendo.»
«È colpa del colore, ti ho detto.»
«Credevo che fosse verde.» Gosalyn accantonò le erbe.
«Verde e nera.» Beligata, nervosa, si allontanò.
«Come ha fatto il tatuatore a ridurti così?» Hargorin incastrò
il manico nella testa dell’ascia e vi piantò alcuni grossi chiodi
da maniscalco. «Più che sufficiente per spaccare il cranio alle
bestie. Non è bella, ma sempre meglio di questa clava.» Guardò
la nana. «Chi ti ha tatuata?»
«Un amico», rispose Beligata, visibilmente irritata come ogni
volta che qualcuno accennava alla cicatrice. «Ho voluto fargli
un piacere perché era bravissimo negli altri lavori con l’ago.»
Scrollò il capo sbuffando. «Quante volte dovrò ancora
raccontare questa storia?»
Carmondai scoppiò in una risata sommessa, ma tacque.
«Sono preoccupata.» Gosalyn mise via la benda. «Si sta
allargando. Lo vedo chiaramente. E il nero si estende anche
sotto la pelle.»
«Che colore ha usato il tatuatore?» Tungdil aiutò Hargorin
ad alzarsi. Si apprestarono a ripartire.
«Ha detto di averlo preparato con le sue mani. Usando le
essenze.» Beligata indicò la collina. «Sopravvivrò. E ora
facciamo ciò per cui siamo venuti.»
«Lasciamo qui i bagagli.» Tungdil s’incamminò.
I nani, l’albo e Tsatòn s’inerpicarono fino alla sommità
arrotondata dell’altura erbosa per dare un’occhiata alla piccola
valle.
Il ricognitore degli acronta non aveva mentito. Nella conca
sorgeva un villaggio fortificato in cui scorrazzavano creature di
ogni genere, che in circostanze normali non avrebbero mai
popolato un simile insediamento.
Tungdil scorse umani, mezz’orchi, gnomi e bestie di specie
sconosciute, tutti impegnati a forgiare attrezzi dei metalli più
disparati davanti a fucine improvvisate. Chi non martellava
faceva rifornimento di ferro e carbone. Altri intagliavano
manici nel legno strappato dalle case.
«Fabbricano pale e zappe», si stupì Beligata. «Vogliono
attaccare un campo? O una miniera?»
«Può darsi.» Tungdil si guardò intorno. «Forse si preparano
a lavorare in una galleria.»
«E a estrarre altro minerale per le armi. Probabilmente da
queste parti il ferro e l’acciaio da fondere e da forgiare
scarseggiano», intervenne Hargorin.
«Non trasformano i vomeri in spade ma viceversa. I mostri
non sono capaci di fare nient’altro.» Beligata si schermò gli
occhi dal sole. «Ci manca solo la miniera.»
CI SAREBBE VORKOMMEN A NORD, VERSO I MONTI GRIGI, scrisse
l’acronte sulla terra. UNA VECCHIA CAVA DI PIETRA A FORMA D’IMBUTO,
SCAVATA DA POPOLI DIMENTICATI E ORMAI SCOMPARSI, UN BUCO LARGO E
PROFONDO QUANTO È ALTA UNA MONTAGNA. È DI NUOVO ABITATA.
«Quanto dista?»
CIRCA QUATTROCENTO MIGLIA. GLI ESPLORATORI HANNO VISTO DEI FILI
DI FUMO. PENSAVO CHE I VICINI GIACIMENTI DI CARBONE SI FOSSERO
INCENDIATI, MA SEMBRA CHE ALIMENTINO ALTIFORNI E FUCINE.
«Si preparano ad armare un nuovo esercito, ma le orde non
si riuniscono in questo villaggio.» Ormai Tungdil aveva capito
che i mostri là davanti non erano guerrieri. «Questi sono fabbri
e artigiani», osservò a mezza voce.
«E se li eliminassimo?» propose Hargorin. «Così priveremmo
l’esercito di collaboratori importanti.»
«Sono quattromila, noi solo dieci. Non ho nulla contro un bel
combattimento, ma sarebbe una follia», commentò Gosalyn.
«No. Come ha detto Tungdil, non sono guerrieri. Senza la
guida di un comandante esperto sono più facili da uccidere di
un gregge di pecore.» Hargorin gongolò all’idea di massacrare
l’unità di artigiani.
«Non dovremmo partire dal presupposto che siano stati
costretti dal botoiko?» obiettò Carmondai. «Alcuni
tornerebbero volentieri dalle loro famiglie, se fossero liberati
dal condizionamento.»
Beligata lo fissò. «Tu? Proprio tu fai appello alla
compassione?» Accennò al villaggio. «Potremmo ritardare
notevolmente la campagna contro la Terra Nascosta.»
«Sta a voi decidere. Volevo solo farvelo presente.»
«Laggiù!» esclamò Gosalyn. «A destra! Un albo!»
Girarono lo sguardo verso il margine del villaggio, dove
s’innalzava una piccola fortificazione.
Aiphatòn uscì in compagnia di un albo coi capelli simili a
vetro e con una maschera nera sulla bocca e sulla mandibola.
Li seguiva un’alba bionda, impegnata a leggere uno spesso
fascio di fogli.
L’ex imperatore degli albi aveva un gonnellino intorno ai
fianchi e non si era coperto il busto tempestato di piastrine di
tionio. I lunghi capelli neri gli scendevano dalla nuca legati in
una doppia treccia.
È proprio Aiphatòn. Tungdil tirò fuori il cannocchiale e
osservò i tre albi.
Sembrava che si comportassero normalmente. Con l’albo
imbavagliato e magrissimo comunicavano a segni, e Aiphatòn e
l’alba parlavano e ridevano; poi lui la baciò con trasporto.
Infine si mise il giavellotto in spalla, svoltò e percorse la strada
fermandosi a controllare i lavori delle fucine.
L’alba, che sfoggiava un attillato vestito grigio con motivi
bianchi, si sedette su una panchina davanti a una casa.
Continuò a leggere i fogli mentre un mostro le serviva una
caraffa e una coppa, posandoli su un tavolo.
L’albo dalla pelle smorta e dai capelli trasparenti ordinava le
pagine e, a un suo cenno, gliele porgeva. Aveva un’armatura di
cuoio nero che esaltava il suo pallore.
L’incarnazione della morte. Tungdil non vide su di loro le
rune bianche dei botoiki. «Per caso avete notato qualcuno che
abbia l’aria di uno stregone?» La risposta fu un coro di no.
L’alba sta studiando delle formule magiche? È lei la botoika?
«È una scena quasi idilliaca», commentò Beligata, beffarda.
«Se non sapessimo che lì sotto i nemici sgobbano fianco a
fianco, potremmo concludere che le bestie e gli umani si sono
votati alla pace.»
«Un albo dai capelli simili a vetro», sussurrò Carmondai,
prendendo un foglio da disegno. «Quello è Nodûcor, la Voce del
Vento!»
Tungdil aveva preso una decisione. «Scendo a parlare con
Aiphatòn. Da lui scopriremo con certezza dove si trova il
botoiko. Se riusciamo a toglierlo di mezzo, molti innocenti
verranno risparmiati.» Fece un cenno a Carmondai, che
recuperò gli utensili da disegno e li fissò alla cintura. «Tu vieni
con me.» Quando gli altri nani si apprestarono a seguirlo, li
fermò. «Copritemi le spalle. Andate a chiamare gli altri quattro
acronta. Se qualcosa dovesse andare storto, attaccate.
Aggredite prima gli albi, compresa la Voce del Vento.»
Gosalyn indicò Carmondai. «Anche lui è un albo.»
Hargorin e Beligata fecero una risatina.
Sono in vena di scherzare. Ottimo. Tungdil sorrise. «No. Lui
risparmiatelo. Le bestie e gli umani si possono eliminare in un
secondo momento, se dovessero scagliarsi contro di noi. Ma ne
dubito.»
Tsatòn si lasciò scivolare lungo il pendio per tornare nel
boschetto e chiamare i suoi guerrieri. Beligata, Hargorin e
Gosalyn sguainarono le armi e si tennero pronti.
Tungdil e Carmondai, chini, scesero il versante opposto,
nascondendosi dietro i cespugli e nelle conche e avvicinandosi
al muretto che delimitava il villaggio. Non incapparono in
guardie che li fermassero o chiedessero il motivo della loro
visita. Così raggiunsero la recinzione, formata da strati di
pietre sovrapposti senza malta.
Carmondai aiutò Tungdil a scavalcare e lo stupì con l’agilità
con cui superò l’ostacolo a sua volta.
Un vecchio albo pieno di sorprese.
Si ritrovarono dietro una casupola tozza con fucina annessa.
Aiphatòn percorreva la strada sterrata in direzione dell’edificio.
«Dentro», sussurrò Tungdil, ed entrò nel locale buio.
La fucina ospitava diversi pezzi grezzi. Il mantice era
azionato da due piccoli mostri; l’aria soffiava sbuffando sul
carbone e attizzava il fuoco. Alle incudini lavoravano due
mezz’orchi e creature ibride con lineamenti umani ma corpi
coperti di pelliccia bruciacchiata dalle scintille. Si sentiva un
puzzo di corno carbonizzato.
Tungdil e Carmondai si nascosero alla bell’e meglio.
Volevano origliare la conversazione tra Aiphatòn e le bestie.
«Mostratemi ciò che avete fabbricato», disse l’ex imperatore
degli albi, varcando la soglia col giavellotto decorato di rune
nella destra.
I mezz’orchi e i mostri fecero un inchino e gli porsero gli
attrezzi incompiuti, la cui forma definitiva era tuttavia già
visibile.
«Niente male, ma siete troppo lenti.» Aiphatòn puntò la lama
contro il collo del mezz’orco più vicino.
«Allora dacci del carbone che produca temperature più
alte», lo rimbeccò il Pelleverde. «Senza i mantici, il ferro
diventerebbe tutt’al più caldo.» Mise in mostra i muscoli
possenti. «Sono forte ma, se il metallo non è incandescente,
non concludo nulla.»
Gli occhi neri di Aiphatòn erano insondabili.
Lo fa apposta, oppure è vittima del botoiko? si domandò
Tungdil. Una volta Carmondai aveva detto che gli albi erano
immuni dagli effetti di quella magia.
«Continua a lavorare e non lamentarti. Voglio vedere il
piccone entro sera. Se non resiste, pagherai con la vita.»
Aiphatòn esaminò l’attrezzo fabbricato dall’essere peloso.
«Guarda, lui ci riesce. Senza piagnucolare.» Uscì senza
salutare.
Ora. Tungdil si trascinò dietro Carmondai e rimase all’ombra
della casupola. «Pst!» fece all’ex imperatore.
«Sei pazzo?» bisbigliò il tessitore di storie. «E se…?»
Aiphatòn si fermò e si guardò intorno. Individuò il nano e il
suo compagno. Corrugò la fronte e si avvicinò lentamente,
senza apparire allarmato né preoccupato.
È… arrabbiato? Tungdil fece un cenno di saluto. Non è ciò
che mi aspettavo.
«Come mai tra noi abbiamo un nano che non sgobba alle
fucine né dà istruzioni alle bestie?» domandò brusco Aiphatòn
nella lingua comune della Terra Nascosta. La punta del
giavellotto si orientò verso Carmondai. «E tu? Da dove vieni?
Sicuramente non da una delle due città», aggiunse in albico.
«Non ti ha riconosciuto», osservò il tessitore di storie.
Dipenderà dal potere del botoiko. Oppure ha perso la
ragione? Tungdil s’inchinò. «Sono appena arrivato col mio
amico. Gira voce che cerchiate dei bravi artigiani. Lui ha già
costruito delle città, se dovesse essere necessario.»
Aiphatòn lo scrutò stringendo le palpebre. «Chi ve l’ha
riferito?»
«L’abbiamo udito durante una conversazione», rispose
Tungdil, evasivo. «Ed è vero, a quanto vedo.»
«Sei venuto di tua spontanea volontà?» L’albo rise. «Accade
raramente, ma resta pure finché desideri. Possiamo discutere
della tua retribuzione. Prima vorrei sapere come siete finiti
qui.» Le rune del giavellotto mandarono bagliori verdastri e
minacciosi.
«Stento a crederci. È vittima di un incantesimo», sussurrò
Carmondai.
«Siamo fuggiti dalla Terra Nascosta. I tempi sono cambiati»,
mentì Tungdil. «Hai ancora qualche ricordo?»
«Di cosa? Della Terra Nascosta? Certo. Ma è passato molto
tempo. Le novità capitano a fagiolo.» Aiphatòn tornò sulla
strada e li chiamò agitando la mano corazzata.
«Accompagnatemi. Ho alcune domande da farvi, anzi molte.»
«Riceverai tutte le risposte.» Carmondai fece buon viso a
cattivo gioco e s’incamminò con Tungdil.
Andarono verso la costruzione fortificata da cui Aiphatòn era
arrivato. L’alba bionda e l’albo imbavagliato non fecero caso a
loro; rimasero concentrati sulle annotazioni, evidenziando
alcuni passi e aggiungendo nuovi appunti.
«Sono tuoi amici?» Tungdil li indicò. Mi piacerebbe sapere
cosa studiano.
«Irïanora e Nodûcor. Mi aiutano col lavoro.» Aiphatòn si
rivolse a Carmondai. «Ben presto la bellezza di Irïanora ti
accecherà e ti riempirà di amore e di desiderio nei suoi
confronti. Perciò te lo dico chiaramente: a essere suo sono io e
nessun altro.» Aprì la porta e li lasciò passare per primi.
«Sfiorala solo con un dito, e ti taglio la testa, vecchio albo.»
Tungdil intuì che la stanza era una guardiola, probabilmente
l’ex alloggio del tutore dell’ordine nell’insediamento. Una
stretta scala a chiocciola scendeva verso le celle e saliva verso
un altro locale e il posto di vedetta. «Un poco spoglio.»
«È più che sufficiente per i nostri scopi.» Aiphatòn entrò
dietro Carmondai e accennò alle sedie. La stufa era accesa, col
tè che bolliva sulla piastra. Sul tavolo c’erano tre coppe usate,
un vasetto di miele e qualche briciola. Nell’aria aleggiava un
vago odore di spezie. «Ebbene, raccontatemi cosa succede
nella Terra Nascosta.»
«Ci sono stati molti cambiamenti. Ti occorreranno diverse
rotazioni per ascoltarli tutti.» Tungdil scelse la sedia da cui
poteva tenere d’occhio la strada e i due albi guardando fuori
della finestra.
Carmondai prese uno sgabello e si sedette con la schiena
rivolta verso la parete. «Che cosa stai combinando? Che cosa te
ne fai di tutte quelle fucine e quegli attrezzi?» Rise. «Non
vorrai mica scavare un passaggio sotto la loro porta!»
Aiphatòn si accomodò di fronte all’albo. «Sarebbe assurdo.
La pietra è troppo dura.» Sedeva diritto come un fuso. Le
piastrine di tionio erano in parte graffiate; una presentava un
foro coi bordi leggermente fusi, come se fosse stata colpita da
un dardo incandescente. «Racconta, nano.»
Devo spezzare l’incantesimo che gli imprigiona la mente.
Tungdil riassunse gli ultimi avvenimenti, descrivendo anche le
vittorie contro il male e parlando perfino degli albi, ma senza
menzionare il nome di Aiphatòn. «Sono un seguace convinto di
Lorimbur», mentì. «E non tutti i membri della nostra stirpe
disapprovano le azioni degli Occhineri.» Indicò Carmondai. «Ce
la siamo filata non appena abbiamo capito che tirava una
brutta aria. Puoi vedere tu stesso com’è ridotto il mio amico.»
«Sì. Ma ora dimmi come gli abitanti hanno reagito agli
attacchi.»
«Te l’ho già detto.»
«Parli di fatti assai remoti. Io invece mi riferisco agli assalti
di alcune rotazioni orsono alla Porta di Pietra.» Aiphatòn storse
la bocca, deluso. «Oppure tu e il tuo amico siete in viaggio da
troppo tempo e non potete dirmi nulla che non sappia già?»
«Ah, intendevi quegli attacchi. Allora li hai organizzati tu?
Tutti parlano di un botoiko e di un ghaist.» Tungdil osservò il
suo comportamento. Si è accorto che ho sussultato?
«Spiegami soltanto cosa ne pensano gli abitanti della Terra
Nascosta», insistette l’ex imperatore.
«Forse dovrei fare qualche precisazione.» Carmondai si
lanciò in una descrizione prolissa.
Un movimento sulla strada attirò l’attenzione di Tungdil, che
smise di ascoltare il compagno.
Un ghaist, il cui elmo di rame decorato di rune presentava
una vistosa ammaccatura, arrivò di corsa e si fermò davanti a
Irïanora e Nodûcor. L’alba si alzò e andò da lui con alcuni fogli
mentre la Voce del Vento continuava imperterrito a riordinare
le pagine. A giudicare dal suo comportamento, l’alba non
considerava il ghaist un sottoposto.
Guarda chi c’è: il braccio mortale e il vice del botoiko. Ci
manca solo il suo signore, così possiamo ucciderlo ed eliminare
il pericolo per la nostra patria prima di quanto abbiano previsto
le profezie degli elfi. Tungdil si guardò attentamente intorno.
Che sia nelle vicinanze?
L’alba porse al ghaist diverse pagine, e l’essere si diresse
verso la casa.
Il nano rimpianse di non avere un sostegno magico o la
Lama di Fuoco per sfondargli l’elmo. Posò lo sguardo sulla
Sanguinaria, appoggiata accanto a Carmondai. Dubitava che un
albo così avanti negli anni potesse spuntarla contro un ghaist.
Ma forse io sì. Dopo avere lasciato il Phondrasôn aveva giurato
a se stesso di non sfruttare più il male, nemmeno per fare il
bene. Sono stato un idiota?
Il gigante entrò senza bussare e rimase sulla soglia. Dalle
fessure della visiera saliva una nebbia biancastra che si
dissolse nell’aria. Pareva sorpreso dalla presenza degli ospiti.
Evidentemente Irïanora non gliene aveva accennato.
Tungdil fece un gesto impercettibile a Carmondai, che aveva
posato mollemente la mano sull’elsa della spada. Non troppo
presto.
«Ora la questione del resoconto si risolve da sola, nano»,
disse Aiphatòn, facendo segno al nuovo arrivato di entrare.
«Com’è andata alla Porta di Pietra? Giacché ti vedo qui,
suppongo che i difensori si siano fatti venire in mente qualcosa,
non è così?»
L’essere avanzò lentamente, le tavole del pavimento
cigolarono e scricchiolarono sotto il suo peso.
Alle sue calcagna c’era Irïanora, che aprì la bocca. La sua
espressione era assente, gli occhi neri fissavano il vuoto. «Sì, ci
è mancato poco, però hanno distrutto non solo la rampa, ma
anche tutto l’esercito. Non sopravvivranno al terzo tentativo, lo
giuro.»
Tungdil dissimulò lo sconcerto. Non credette neppure per un
attimo che l’alba fosse il botoiko. L’atteggiamento e lo sguardo
rivelavano che la sua volontà era stata annullata. La
spiegazione era palese. Il ghaist non è in grado di parlare e la
usa per fare rapporto.
Il gigante fece un passo verso Carmondai.
«Un albo. Con un bel messaggio sulla fronte», disse l’alba in
tono piatto. «Viene dalla Terra Nascosta. Che gradita
sorpresa.»
Per un essere magico controllato da un botoiko, si comporta
in modo assai autonomo, non come un tirapiedi. Sotto
l’armatura si nasconde forse un botoiko che si spaccia per un
ghaist? s’interrogò Tungdil.
Carmondai fece un inchino. «Non mi piaceva più vivere lì.»
«E a me non piace più vivere qui», replicò Irïanora. «Non ci
sono dubbi sulle tue origini.» Il ghaist guardò Tungdil. «Ma che
un nano lasci la patria è assai insolito. E in compagnia di un
albo, per giunta.»
Tungdil si affrettò a ripetere la storia mentre Aiphatòn
ascoltava meditabondo.
«Non so cosa sia un Terzo, ma mi pare di capire che in
passato abbiate fatto causa comune con gli Occhineri», riprese
Irïanora. «Dimmi, giacché non sopporti più la tua gente, mi
faresti un favore?»
«È per questo che sono qui.»
«È per questo che è qui, dice!» esultò Irïanora con finto
entusiasmo. «Che splendida notizia!»
Il ghaist si piegò, portando le fessure della visiera all’altezza
degli occhi di Tungdil.
«Siete recalcitranti. Troppo, per sottomettervi al mio
controllo. Perciò devo uccidervi tutti. Mi siete d’intralcio.»
«Non mi riguarda.» Il nano ostentò indifferenza. «Per me va
benissimo. Non me ne importa un fico secco di loro.» Alzò la
mano. «Ma dobbiamo ancora discutere del pagamento, e vorrei
trattare col tuo signore.»
Irïanora rise. «Col mio signore?»
«Colui che ti ha creato e cui devi obbedire come gli altri.»
«Facciamo un gioco», disse il ghaist, con la voce di Irïanora.
Gli premette il polpastrello dell’indice contro il palmo. «Che ne
dici?»
Un formicolio si allargò sulla pelle callosa e solcata da
cicatrici della mano di Tungdil. Si vide un tenue luccichio che
durò pochi secondi.
Non accadde altro.
«Detesto i tuoi simili», dichiarò Irïanora, apatica.
«Così il prezzo sale.» Tungdil si strofinò la mano sui
pantaloni. Ha cercato di piegare la mia volontà. Meno male che
non ci è riuscito. Rabbrividì.
«Davvero?»
Il nano annuì. «Hai tentato di condizionarmi come il resto
delle bestie e degli umani. È stato scortese. Dovrei eliminarti
all’istante, anche se poi il tuo signore dovrebbe creare un
nuovo ghaist.»
L’alba proruppe in una risata meccanica e troppo stridula,
mantenendo un’espressione imperturbabile. «Sei un vero
furbacchione, ma non hai ancora tratto la conclusione esatta.
Inoltre non puoi uccidermi. Ti mancano gli strumenti.»
Il ghaist si raddrizzò.
«Che cosa vuoi per indicarmi la strada attraverso i Monti
Grigi?»
Che cosa significa? «Non esiste nessuna strada.» Tungdil si
rese conto di avere risposto troppo frettolosamente. E a voce
troppo alta.
«Oh, capisco. L’avidità è una caratteristica innata del tuo
popolo. Credo che una ricompensa in monete d’oro ti
rinfrescherà la memoria», disse il ghaist, sempre servendosi di
Irïanora. Poi accennò ad Aiphatòn. «Il mio buon amico e
seguace, nonché amante di Irïanora, ha percorso quel sentiero,
ma i miei esploratori non sono più riusciti a trovarlo. I nani
devono averlo distrutto ma, poiché voi due siete arrivati fin qui
senza passare dalle porte, è naturale sospettare che sappiate
esattamente dove sia il sentiero.» Con un gesto fulmineo, il
ghaist mise la mano intorno al collo di Carmondai, che
s’irrigidì. «Costui non resiste alle mie forze. Gli albi non sono
più tra coloro che sono immuni. Non esiste essere vivente che
possa sottrarsi al mio potere. Soltanto i nani sembrano esserne
in grado. Maledetti.» Il ghaist fissò il tessitore di storie. «Mi
occorre energia per assoggettare la tua volontà, ma non è
impossibile. Fa’ il bravo e dimmi chi siete e quali sono le vostre
vere intenzioni, perché non mi faccio ingannare così
facilmente.»
Vraccas, tieniti pronto. Tungdil si domandò se sarebbe stato
abbastanza veloce da impugnare la Sanguinaria e baciò
dolcemente l’anello. Poteva ancora attaccare il mostro. Tra
poco userò il tuo…
«Il nano si chiama Tungdil Manodoro. Penso che guidino un
drappello di esploratori appostato sulle colline intorno al
villaggio.» Aiphatòn fece un sorriso freddo.
Tungdil si raggelò. Un errore madornale.
«Ti ho riconosciuto subito, ma ho finto affinché tu e
Carmondai mi seguiste. Il tuo amico è il tessitore di storie,
suppongo. Girava voce che i gemelli trigemini lo avessero
rinchiuso.» Aiphatòn rise e allungò il giavellotto. «All’inizio ero
scettico perché ti credevo morto, ma devo essermi sbagliato.
Sembri vivo e vegeto, illustrissimo eroe della Terra Nascosta.
Non vedo l’ora di ascoltare le tue spiegazioni.» La punta del
giavellotto ruotò. «Guidate un drappello di esploratori? È
rimasto in cima all’altura?»
Beccati. Lo scontro era ormai inevitabile, ma prima Tungdil
doveva dare ai nani e agli acronta il segnale dell’attacco.
Da fuori giunsero grugniti e ruggiti.
Dalla finestra vide che le bestie e gli umani prendevano le
armi e gli strumenti forgiati e si lanciavano verso la collina da
cui erano arrivati lui e Carmondai.
Posso risparmiarmi la fatica.
«Hai appena perso il tuo alleato», disse Irïanora. «Ora
perderai anche la vita, nano.»
Quando Carmondai sguainò la Sanguinaria e gliela puntò
contro, Tungdil capì che la situazione era diventata più
pericolosa che mai. Aveva avuto più probabilità di vittoria
perfino nell’arena brulicante di mostri. Se il botoiko è in grado
di controllare la mente degli acronta, allora Beligata, Gosalyn e
Hargorin sono spacciati. Il cattivo presentimento si rafforzò. Mi
serve un miracolo, Vraccas. Con un urlo si scagliò contro
Carmondai e gli afferrò la mano che impugnava la Sanguinaria.
Nondimeno Tungdil scoprì qualcosa di spaventoso. Sovente
sentiva dire che era già stato in un luogo in cui invece si recava
per la prima volta.
Se all’inizio pensò che fosse uno scherzo, poi ricordò l’onda
magica che aveva generato i sosia dei gemelli trigemini.
Per un attimo fugace non aveva forse intravisto anche la
propria immagine?
Fu così che cominciò a cercare se stesso.
Annotazioni segrete agli Scritti della verità,
compilati sotto costrizione da Carmondai
XXVII
D
a quando Beligata aveva scavato il passaggio verso
l’esterno, sedevano dall’alba al tramonto, camuffati
nel miglior modo possibile, accanto agli ingressi del
nascondiglio. Tungdil teneva d’occhio la miniera, la
nana aspettava gli esploratori dell’esercito, che
sarebbero dovuti comparire a sud.
Nelle rotazioni precedenti c’erano state alcune novità, anche
se Tungdil non aveva ancora ben chiaro il loro significato.
Per curiosità aveva cominciato a contare le bestie e gli
umani e a confrontarli coi viveri consegnati.
Aveva scoperto con stupore che nel cratere arrivava il triplo
delle scorte necessarie. Con ogni carico.
Più cibo vuol dire più bocche da sfamare. Guardò le entrate
delle gallerie, che si allungavano orizzontalmente dalle terrazze
della cava verso le pareti. Temo che ci siamo lasciati ingannare.
Secondo i nuovi calcoli, il botoiko non aveva radunato
centomila, bensì trecentomila guerrieri e li proteggeva da
sguardi indiscreti nascondendoli nei cunicoli. Ciò spiegava
perché gli schiavi non venivano soggiogati con la magia. A
quanto pareva, i poteri dello stregone avevano toccato il limite.
Ragione in più per escogitare un piano infallibile.
Tungdil non badava più ai leggeri tremiti della terra,
sebbene la frequenza e la velocità delle vibrazioni fossero
aumentate. Sarebbe troppo bello se fossimo su un vecchio
vulcano in procinto di eruttare. Sorrise. Ci risparmieremmo
una battaglia.
Alla luce delle nuove informazioni, la versione dell’attacco
proposta da Beligata era attuabile solo in parte, perché i nemici
erano così numerosi da poter intraprendere sortite e sferrare
attacchi di fianco in qualunque momento.
La cosa migliore sarebbe far crollare le gallerie e uccidere le
truppe all’interno mentre sono accampate in attesa
d’intervenire. Tungdil raschiò la parete per esaminarne la
composizione: lo strato superiore della miniera era di arenaria
facilmente asportabile, seguita però da granito mescolato a
filoni di carbone, e infine da basalto. Non aveva mai visto
quella miscela, né sui monti né nel Phondrasôn. Ripensò
all’idea del vulcano. Una speranza vana, purtroppo. La pietra
non è quella giusta. Altrimenti sarei circondato da basalto e
granito.
Sul fondo dell’imbuto distinse crepe che si erano aperte
intorno alle grandi colate di metallo.
Le linee dell’ira della montagna. Quando si guardò intorno
con più attenzione, vide le spaccature che strisciavano e si
allargavano fino alle pareti rocciose e alle terrazze. Si sarebbe
detto che il peso delle officine stesse mettendo a dura prova il
sottosuolo. Forse possiamo approfittarne.
Beligata si materializzò in preda all’agitazione e dovette
fermarsi di colpo per non buttarlo nel cratere. «Sono arrivati!»
annunciò a voce troppo alta. «Ho avvistato gli esploratori.»
«Hai dato loro il segnale?»
La nana fece sì con la testa. «Ci aspettano.»
«Ti aspettano. Io resto a controllare cosa succede.»
Beligata scrollò il capo. «Nemmeno per idea. Abbiamo
bisogno di eroi come te nelle truppe.»
«Avete il Rabbioso. È lui l’eroe più illustre. La sua gloria
eclissa la mia. Io ero nel Phondrasôn mentre un finto Tungdil
sbrigava il mio lavoro.» Il nano sorrise. «Va’ e non dimenticare
gli appunti.» Le porse l’ultimo foglio.
Beligata vi posò sopra lo sguardo. La sua gioia per l’arrivo
dell’esercito svanì. «Trecentomila?»
«Questo cambia la partita di tharc, vero?» Tungdil indicò la
miniera. «Perciò è importante che io osservi e vi riferisca cosa
accade. Non appena la situazione diventa troppo pericolosa, mi
ritiro.»
«Come farai a recapitarci i messaggi?»
«Semplice: correrò avanti e indietro.» Il nano rise e agitò la
mano. «Sbrigati! Aspettano le informazioni. Non lasciare
l’imperatore all’oscuro di ciò che avviene nella conca. Lui e i
suoi strateghi s’inventeranno qualcosa, e tu devi dare il tuo
contributo. Ma non menzionare il tharc.»
Beligata non era molto convinta, ma annuì e si allontanò.
All’inizio Tungdil avrebbe voluto proporre di far entrare di
nascosto un’unità attraverso la piccola galleria ma, date le
nuove conoscenze e ipotesi, sarebbe stato un suicidio. Inoltre il
corridoio finiva troppo in alto rispetto al cratere per avvicinare
a sufficienza la Lama di Fuoco al ghaist e ad Aiphatòn.
In mezzo ci sono centinaia di passi, molte terrazze e migliaia
di bestie. Da solo, con un pugnale degli acronta e con
un’armatura che aveva visto giorni migliori, non avrebbe
concluso un bel nulla. Toccava all’esercito nanesco fare in
modo che Balyndar entrasse in azione con l’ascia magica.
Mio figlio. Tungdil provò un misto di paura e orgoglio verso
il guerriero, che gli sarebbe piaciuto conoscere meglio. La
strada verso quel traguardo passava per Balyndis, per la cui
incolumità era ancora più preoccupato. Il Phondrasôn gli aveva
aperto gli occhi. Sono stato un idiota. Più di una volta. Baciò
l’anello. Il nostro rapporto inizierà con una cena. Sarà Vraccas
a decidere come finirà.
Si costrinse a concentrarsi sul compito che aveva deciso di
portare a termine senza rivelarlo a Beligata. Era arrivato il
momento di stanare il botoiko.
Da quando sorvegliavano il cratere, lo stregone misterioso
non si era mai fatto vivo: aveva agito tramite il ghaist e
Aiphatòn. Di tanto in tanto era venuta a dare istruzioni anche
l’alba dai capelli biondi.
Quella singolare circostanza gli fece venire un’idea.
Fuggite!
Fuggite dalla maledizione della miniera,
dalla maledizione delle pietre,
dalla maledizione dell’abisso.
Abbiamo compreso troppo tardi
e pagato le gemme
troppo care.
Rompete la cupola,
e rafforzerete la maledizione.
La sua fame di vita
è incommensurabile.
Fuggite!
Q
uando il Rabbioso aprì gli occhi, vide il tetto di un
carro coperto che gli dondolava sopra la testa. Il
pagliericcio su cui era disteso attutiva gli scossoni del
veicolo.
«L’imperatore si è svegliato», annunciò Tungdil. «In
tempo per il ritorno nella Terra Nascosta.»
Girò il capo e vide l’amico sdraiato al suo fianco. «Anche tu
qui? Dunque la battaglia non ti ha risparmiato, Sapientone.»
Spostò il lenzuolo dal petto nudo e peloso, su cui spiccava una
spessa benda. Aveva ancora caldo, ma non era più stordito.
Debole come un neonato.
«Mi sono beccato un giavellotto nella gamba, che mi è
costato sangue e muscoli.» Con un sorriso raggiante, Tungdil
gli tese la mano. «Ce l’abbiamo fatta, imperatore.»
«Per Vraccas, puoi dirlo forte!» Il Rabbioso non ricordava
nulla del viaggio, così pregò l’altro di fargli un riassunto.
«Beligata e alcuni esploratori hanno seguito le tracce dei
mezz’orchi, ma restando a una certa distanza. Quando stavano
per liberarti dal bosco in cui erano svaniti Aiphatòn e i suoi
guerrieri, sei comparso mezzo morto sul pony.» Tungdil
ridacchiò. «Ti hanno quasi dovuto spezzare le dita per staccarti
le mani da quel povero cavallino. Stavi per soffocarlo.»
«E poi?»
«Ti hanno portato da un guaritore. All’inizio i mezz’orchi vi
hanno dato la caccia, ma hanno cambiato idea quand’è arrivato
Balyndar. Non volevano assaggiare la Lama di Fuoco.»
«Peccato, mi sarebbe piaciuto assistere alla scena.» Il
Rabbioso accettò il mestolo d’acqua che l’altro gli stava
porgendo. «Aiphatòn è morto.»
«Davvero?»
«Carmondai e l’Occhineri bionda lo hanno ucciso.»
L’imperatore riferì brevemente gli avvenimenti sulla riva del
ruscello. «L’albo mi ha pregato di dirti che a ogni ciclo riceverai
una storia sulla Terra dell’Aldilà.» Bevve un sorso. «Un accordo
tra eruditi, giusto?»
«Può darsi.» Tungdil fece un’espressione pensosa. «Dopo
che nel delirio avevi gridato qualcosa sul giavellotto e sulla
Sanguinaria, Beligata è tornata nel bosco, ma non ha trovato il
cadavere di Aiphatòn. I due albi hanno lasciato tracce molto
labili.»
Ma… era morto. «L’avranno mangiato i mezz’orchi.»
«Sei sicuro che sia entrato nella dimensione finita?»
Il Rabbioso non aveva dubbi. «Lo hanno assassinato davanti
ai miei occhi. Carmondai ha centrato il foro della corazza e
l’alba lo ha pugnalato alla nuca e alla schiena trapassandogli il
cuore. Nessuno sopravvive a ferite di questo tipo.» Si batté il
petto. «Era steso sull’erba con gli occhi vacui e sbarrati.» Fissò
il tetto traballante. «Mi faceva quasi pena.»
«Partito per sterminare il proprio popolo, cade vittima di un
incantesimo e poi muore per mano di un albo. Ucciso dall’arma
del padre.» Tungdil prese un foglio imbrattato di sangue secco.
«Carmondai te l’ha messo addosso di nascosto. L’abbiamo
trovato sotto la tua armatura. Qui il tessitore di storie racconta
cosa gli è successo dopo l’episodio al villaggio.»
«E cosa gli è successo?» Il Rabbioso si alzò a sedere come
meglio poté. «Non tenermi sulle spine.»
«Lo scoprirai quando ce ne sarà l’occasione. Ora riposati,
imperatore.»
«Avrei voglia di una birra.»
«Anch’io, ma non ne hanno portata. Balyndis ha deciso che
festeggeremo coi Quinti.» Tungdil esaminò la benda sulla
propria gamba.
«Allora dimmi almeno cos’hai combinato col ghaist.»
«Bella domanda. Ma è una lunga storia, perciò per ora ti
basti sapere che l’ho sconfitto con le armi dei nani.» Tungdil
ridacchiò. «Dicevo sul serio: devi riposare. Secondo i guaritori,
potresti ancora morire di febbre.»
«Cosa vuoi che ne sappiano quelli?» borbottò il Rabbioso.
«Forse la causa sei tu e non la ferita.»
«Questa devi spiegarmela.»
«Ho bevuto l’antidoto prima del combattimento. Credevo che
scacciasse l’ira dal mio corpo, ma ho rischiato di prendere
fuoco.» Il Rabbioso ebbe la sensazione di essersi liberato di un
peso.
«Te l’ho dato quattro cicli orsono. Hai aspettato a lungo»,
commentò Tungdil, in tono neutro. «Può darsi che la reazione
al rimedio si sia sommata alla febbre. Non posso escluderlo. Il
distillato di sangue elfico è tra i più pericolosi mai inventati dai
gemelli trigemini. Ma ha fatto effetto. Se d’ora in poi avrai sete,
sarà per un unico motivo.»
«Quale?»
«La sete.»
Boïndil rise di gusto. «Ti ringrazio! Ci vorrebbe proprio una
birra.» Sorbì l’acqua e si schiarì la voce. «Sapientone?»
«Sì?»
«Non voglio più essere imperatore.»
«Tutti sanno che questo ruolo non ti piace, ma trovano
coraggioso che tu l’abbia accettato. Senza il tuo intervento,
tutto questo non sarebbe stato possibile.»
Il Rabbioso batté le mani divertito. «Oh, questa sì che è
bella. Aspettano che abdichi?»
«Diciamo che lo sperano. Ma non se ne avranno a male se
resterai in carica.»
«Allora voglio che l’imperatore sia tu.»
«Sembri un bambino cocciuto. Non puoi ordinarmi di
diventare il re dei re.»
«D’accordo.» Boïndil era contrariato. Non abbiamo
candidato migliore e, poiché ha sconfitto il ghaist e l’esercito
degli straccioni, la sua gloria è cresciuta. «Chi proporresti? Chi
sarebbe adatto? Non Frandibar, per favore. Non lo sopporto.»
«L’avventura dei cicli scorsi è stata più che sufficiente.
Volevo dare un poco di tregua alla mia anima. Riprendermi dal
Phondrasôn. Rispolverare il mio sapere. Sono uno studioso e ho
altri progetti.»
«Altri progetti. Vale a dire?» Il Rabbioso alzò gli occhi al
cielo. «Non esiste nulla di più prestigioso della carica di
imperatore. È per questo che si chiama così.»
«Sha’taï.»
Boïndil storse la bocca. «L’avevo quasi dimenticata.»
«Balyndis ha detto una cosa molto saggia…»
«Lo so, lo so: Sha’taï ha paura. Sfrutta i propri poteri per
farsi amare affinché la Terra Nascosta sia pronta a morire per
lei qualora fosse necessario.»
«Esatto. Potrebbe essere sufficiente spiegarle che non siamo
una minaccia e che è perfettamente al sicuro.» Tungdil si lavò
la faccia, le gocce d’acqua gli colarono sulla barbetta.
«Dobbiamo convincerla a smettere di condizionare i sovrani,
ma senza spaventarla.»
«E poi?» Il Rabbioso si grattò le tempie rasate. Presto sarò
di nuovo un guerriero. Quanto al re dei Secondi… be’, troverò
qualcuno. «È pur sempre una botoika. Non appena succederà
qualcosa che la intimorisce o che non le piace…» Lasciò la
frase a metà. La protezione più efficace sarebbe la sua morte.
«Potremmo esiliarla, rinchiuderla oppure sperare che non si
arrivi a tanto.» Tungdil sembrava contrario all’idea di eliminare
Sha’taï. «Parleremo con lei per saperne di più.» Picchiettò con
l’indice curvo sul cranio dell’amico. «Fortunatamente siamo
immuni dall’incantesimo.»
«Ed è per questo che ci teme più degli altri.» Potrebbe
esserci un fondo di verità. «Dimmi, sei certo che ci sia solo
acqua su questo carro?» Deluso, Boïndil guardò la botticella.
Tungdil lo guardò come se avesse avuto un lampo di genio.
«Osservazione assai acuta.»
«Ti aspettavi qualcosa di diverso?» Boïndil sghignazzò. Poi
posò gli occhi sull’anello di vraccasio. «Glielo stai riportando.
Allora tu e Balyndis tornerete insieme?»
«Staremo a vedere.»
«Oppure durante il ciclo che hai passato da solo con Beligata
è accaduto qualcosa che vorresti raccontarmi?»
Tungdil alzò la mano e rimase in ascolto, quindi si tuffò
all’indietro facendosi scudo con la botte.
L’imperatore imprecò sottovoce, perplesso, finché una lunga
punta non trapassò il legno, coprendolo di schegge e restando
infilzata a un dito dal suo naso.
Il carro si era fermato. Risuonarono urla, nitriti e squilli di
corno.
«Maledetti Musi di porco!» Il Rabbioso tastò il pavimento
alla ricerca del mazzapicchio.
«Questi sono i nostri dardi», disse Tungdil. «Vado a dare
un’occhiata. Tu nasconditi sotto il carro.»
Il telone si spostò.
Comparve Beligata, con un taglio sulla cotta e un graffio
sulla spalla che potevano essere stati provocati solo da un’arma
molto affilata e rapida. «Sono venuta a prendere l’imperatore.»
Fece per caricarsi il Rabbioso sulla spalla. Tungdil l’aiutò e
l’avvolse in una coperta. «Dobbiamo trasferirci in fondo al
corteo finché la situazione non sarà chiarita.»
«Che cosa succede?» Nonostante il dolore, Boïndil riuscì ad
afferrare il mazzapicchio.
«La fortezza dei Quinti fa fuoco contro di noi.» Beligata
ansimò sotto il peso e saltò giù dal carro. «Balyndis e suo figlio
cercano di scoprire cosa stia accadendo.»
«Scommetto che c’è lo zampino della mocciosa! Dobbiamo
sbarazzarcene, Sapientone.» Boïndil guardò l’amico, per avere
la sua approvazione, ma Tungdil era scomparso.
Spillate, spillate!
Vino rosso
o anche squisita birra nera.
Sulla gola riarsa da mane a sera
siede già l’anima appannata,
pronta a partire disperata.
È ancora presto, però, che tormento,
ma credi alle mie parole e sii contento.
Ogni bocca ama bere.
Allo zaffo! Allo zaffo!
Versate, versate!
I bicchieri riempi, nana graziosa.
Uno per me, l’altro per te,
quando allegramente me ne andrò
serena la tua fronte vedrò.
Lei mi ama e io la riamo colmo di rispetto,
con lo strascico e col corsetto.
Pensate pure quel che desiderate.
Versate, versate!
Bevete, bevete!
Tutti i beoni di cui parlo verso la forgia di Vraccas allungano
il passo
giacché anche lì trovano fresche cantine
per i vini infuocati delle fucine.
Bevete, bevete!