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INTRODUZIONE DELLAUTORE

Nel 1956 mio nonno, emigrato in America nel 1924 e tornato in


Italia dopo la depressione del 29, cerc di descrivermi la
televisione con queste sue parole: La radio una scatoletta dove si
sente solo la voce che viene da lontano ma adesso gli americani
alla radio ci stanno facendo una finestrella con tanti pupazzetti
dentro che ti fanno vedere quello che si sente. Frase che fin in
onda nel programma Alto gradimento di Arbore. Mentre
ascoltavo la spiegazione avevo incollato lo sguardo verso un
ingombrante ricevitore Radio Marelli con il fronte fatto di tante
scrittine luminose messe a scaletta, dove riuscivo a decifrare:
Radio Monteceneri, Tirana, Motecarlo, Radio Vaticana etc
Avvicinai gli occhi allapparecchio e cercai di sbirciare attraverso
quelle scritte, che erano trasparenti, casomai fosse possibile vedere
quegli omini nellinterno, fregando cos gli americani prima che ci
facciano la finestrella. In effetti riuscii a vedere una serie di
capoccette globulari dallanima illuminata e fuori fuoco per via
delleccessiva vicinanza. Eh si! Dissi a me stesso, se ci fosse una
finestrella i pupazzetti si vedrebbero e come. Tutto fin l, finch
nel 1994, non mi recai a vedere una mostra di De Pero al Palazzo
delle esposizioni di Roma che mi fece riaffiorare quellimmagine,
da tanti anni dimenticata, dove gli omini di De Pero e le valvole
termoioniche dentro al Radiomarelli finirono per ricombaciarsi in
una sola sensazione psico-percettiva che innesc nella mia testa
una serie di riflessioni della serie:
Cosa penserebbe Dante
Alighieri se vedesse unautomobile con i fari accesi? Penserebbe a
Caron dimonio con gli occhi di brace? E se Ovidio vedesse volare
un aereo non penserebbe forse ad una nave

alata spinta dal tuono? E Leonardo cosa penserebbe della


televisione o Beethoven della sua musica sul CD? Eventi
irrealizzabili? Mica tanto, c stata una generazione eletta che ha
goduto o subito, secondo i punti di vista, queste impossibili
emozioni. Mio nonno, per esempio nato nel 1888 in un paesino
di campagna dove tutto procedeva pi o meno come dai tempi di
No e di colpo paff! quel viaggio sulla macchina del tempo verso le
Americhe: Prima lo sciofferre, come lui lo chiamava, con quel
ciambellone tra le mani riusciva a guidare una specie di corriera
piena zeppa di gente verso la stazione come nulla fosse. E poi il
treno!!. Oddio che mpressione na casa appresso a natra, na
casa appresso a natra, caca fumo e scappa, caca fumo e scappa.
E poi quellenorme palazzone con tante finestrelle rotonde dove lo
fecero salire Solo quando apri lobl della sua cuccetta si
accorse che le altre case si erano allontanata allorizzonte e si fece
prendere da un attacco di panico. Gli avevano detto che il
bastimento come una citt che corre sopra lu maru e siccome il
molo Beverello di Napoli sallontanava allorizzonte, pensava
daver perso la nave e tutti i suoi risparmi, fin quando qualcuno,
con la santa pazienza, non gli spieg che era lui che si stava
muovendo verso il nuovo mondo.
Lo sbarco in America fu per lui pi un viaggio nel tempo che nello
spazio. Pot in quella pazza epoca e in quel pazzo paese provare, in
modo reale, le sensazioni che Dante, Ovidio, Leonardo e
Beethoven, tutti messi insieme, non poterono nemmeno concepire.
Possono le generazioni del dopoguerra piccarsi daver provato
emozioni forti come la sua generazione? Non credo.

Negli anni cinquanta ci dicevano che le citt del 2000 sarebbero


state come quelle che si vedevano nei film di Flash Gordon, o nei
cartoni dei Pronipoti di Hanna & Barbera, con case ellissoidali,
tutte di vetro governate da robot, automobili a levitazione
magnetica che parcheggiavano direttamente sul balcone, e invece
no! Il mondo del 2000 pi o meno come quello degli anni
sessanta. .Si, ci sono tante cose nuove: Il telefonino, i progressi
della medicina, il computer, ma per il resto?.dove sono le
astronavi che ci avevano promesso? Le case e le automobili sono
poco diverse di allora, anzi pi traffico e pi inquinamento di
prima. Nel 64 una canzone diceva che nel 2000 noi non
mangeremo pi fettuccine e spaghetti col rag perch una pillola
ad ognun ci sazier ma per fortuna lamore sempre quello
rester, e invece no!, le cose si sono invertite, continuiamo ad
abbuffarci di spaghetti al rag ed invece prendiamo pillole di
Viagra. La classe operaia non quella profetizzata nel film
Metropolis con un esercito di operai ridotti ad automi umani,
peggio! gli operai di

oggi, rimasti senza lavoro per via dei robot, giacciono depressi sul
sof zappando tra la paccottiglia televisiva e sorseggiandosi il
cervello tra volgari piogge di milioni e le telenovela recitate da
attori che non vorrebbero nemmeno al teatrino parrocchiale pi
sgarrupato. Mio nonno invece s che stato luomo del viaggio nel
futuro. Per lui la radio, la televisione, il computer suscitano
ancora stupore e sconcerto, hanno ancora qualcosa di
spaventosamente affascinante. Mio nonno stato luomo che in
un sol balzo ha scavalcato il baratro che divide il mondo antico dal
moderno. Forse per questo continuava a collezionare vecchi
televisori, lavatrici e frigoriferi, tenuti in ammollo alla pioggia e in
attesa di essere consumati dalle intemperie fin quando mor nel 74.
Mio nonno diceva che noi montanari ci siamo scafati meglio di
quelli di pianura, perch quelli di pianura avevano la terra da
coltivare e non trovavano il tempo di studiare. Noi invece non
avendo tante risorse scappavamo, e a spasso per il mondo ci siamo
evoluti e integrati meglio nellera moderna.

Il Gransasso sullo sfondo di Chicago, uno


scenario realizzato da R. Soldati nel 1998
Sulla riva del lago Michigan in occasione
della mostra sulle carbonaie La miniera
verde La mostra fu organizzata nei locali
di una galleria nei pressi dello Shedd
Aquarium e successivamente spostata alla
Rountree Gallery di Platteville in Wisconsin

La classica valigia di cartone chiusa con lo


spago, simbolo dellemigrante anni 50

A quei tempi i motivi che inducevano ad emigrare erano gli stessi


di oggi, guerre e penuria di risorse. Cera, in compenso il fascino
dellignoto. Navigando verso il far west. mio nonno cercava
dimmaginarsi lAmerica mettendo insieme i pezzi di come
glielavevano raccontata quelli che cerano gi stati. Si chiedeva
se sbarcando avesse trovato un pagliaio dove dormire le prime notti
e se le vacche fossero uguali alle nostre, stessi colori e stesse corna.
La statua della libert, vista dal ponte del bastimento, gli apparve
un gigante che lo sovrastava imponente, quasi minaccioso. La sua
mole gli infuse nella testa, in modo netto e definitivo, le dimensioni
di quel paese dove impar presto il mestiere del carpentiere, istruito
dal fratello arrivato a New York due anni prima di lui.

Un giorno di settembre del 1930, con un discreto gruzzolo in tasca i


due fratelli, scappando dalla depressione che devastava leconomia
USA, salirono sul cassone di un camion che durante la corsa verso
il porto si ribalt uccidendo il fratello pi giovane. Fu sepolto in
un cimitero nei pressi di New York. Nella foto sopra. Per i nuovi
emigranti diverso, oggi c la stampa e la TV. Un profugo
rumeno mi ha raccontato di essere sbarcato di notte, con altri sette
compagni dal solito gommone, in una elegante spiaggia di Valtur
in cui venne loro prestata la prima accoglienza con un buffet da
nababbi, proprio come si vedeva nella RAI italiana dalla Romania,
anche se i pranzi dei giorni seguenti, dispensati dalla Caritas, non
erano proprio allo stesso livello di qualit.

In questo CD sono state archiviate le testimonianze pi


significative e adatte a mettere in risalto il modo di percepire la
realt di una nuova epoca, filtrandola attraverso i racconti di
alcuni protagonisti da noi intervistati che per varie ragioni
migrarono dal mondo antico verso il moderno durante quel
frammento di tempo chiamato novecento.
Per i futuristi
lautomobile era un dio dacciaio e lautista il suo sacerdote. Mai
come allora un metallo aveva preso forma liberando una forza
vitale con una bestialit di un animale forgiato da mano umana.
Per gli artisti legati ancora alla classicit, lavvento della
tecnologia era invece solo motivo dangoscia che fugavano
rifugiandosi nei fantasmi del mondo antico evocandolo con opere
popolate di dei, elfi, e ninfe, sempre immersi in un eterno e
malinconico crepuscolo. Raramente ci si invece chiesti come, chi
a quellepoca non praticava o semplicemente non gli fu consentito
praticare larte del comunicare, potesse figurarsi una sbuffante
vaporiera, laeroplano, la TV, la fonderia o la fabbrica.

A volte alcune argomentazioni da noi raccolte quasi per gioco,


sembrano essere alquanto suggestive come queste che vi stiamo per
proporre nel CD.
Lasciamo invece a chi possiede appropriati strumenti e la
necessaria competenza, il difficile e nobile compito di risolvere le
ben pi complesse problematiche socio-culturali che allora come
adesso accompagnano i flussi migratori. Come autore mi sono
limitato a riportare le interviste e le testimonianze cos, come le
abbiamo collezionate assieme ai miei collaboratori. Nientaltro
che ulteriori testimonianze da unire alla mole di materiale
multimediale riguardante la memoria storica e fotografica, scritta e
orale che tanti altri, come noi, hanno gi fatto servendosi della
preziosa collaborazione degli ultimi testimoni di unepoca unica e
irripetibile nel contesto di tutta storia umana. Trovo sorprendente
come ci si possa esaltare nel rinvenire un reperto antico, anche il
pi insignificante, per poi ignorare del tutto quegli archivi viventi
che sono i vecchi.

Cap. 1: La migrazione stagionale

R. S.: Nel 1988 intervistai un carbonaio, Pietro, per ascoltare


dalla sua viva voce un divertente episodio del quale lui stesso fu
protagonista, nella Roma anteguerra dove spesso si recava a
vendere il carbone dopo averlo fatto.

Pietro: Per vendere il carbone, c da considerare il fatto che


bisognava pagare il trasporto, e quello costava. Noi da Sabaudia
andavamo a vendere carbone addirittura ad un ristorante di
Roma

Foto di Catherine Green

R. S.: Come mai cos lontano da Sabaudia?

Pietro: Mah, di solito i padroni che reclutavano carbonai alle


loro dipendenze erano quasi sempre gente locale, e quelli
avevano conoscenze e clienti in zona. Non era conveniente fare
tanti chilometri, specialmente con i sacchi di carbone da
trasportare con il treno. Era piuttosto costoso. Toccava a noi
poveracci vendere fuori zona il carbone che ci spettava come
paga. In mezzo a Roma, addirittura, dovevamo salire sopra i
tram con i sacchi a spalla. Avevamo le facce sporche di carbone
impastato con il sudore e neri come la pece in mezzo a tutta
quella gente ben vestita. Quando salivamo sul tram, scappavano
tutti. Una volta, per scendere, ho dovuto far cadere il sacco di
peso sollevando un nuvolone nero in mezzo alla gente che
cercava di salire. Non ti dico quanti mortacci mi sono preso quel
giorno. Comunque, qualcuno mi ha raccontato di un
contadinotto, che, pensando di risparmiare, ebbe la bella idea di
caricare un sacco sopra una carrozzella romana, e quando il
cocchiere gli mostr il prezzo il

Un tronco prima e dopo la carbonizzazione.

contadino cominci a litigare. Non poteva rassegnarsi al fatto


che una vecchia carrozza a cavallo costasse molto pi del tram.
R. S.: Con i soldi ricavati compravate anche i vestiti?

Pietro: Quasi mai. I soldi bastavano appena per mangiare. Una


volta venne allassegna la moglie di un signorotto locale che
regal un bel vestito da cavallerizzo quasi nuovo ad un nostro
paesano, completo di stivaletti. Una domenica andammo ad
Ostia, io, mio fratello e il nostro amico con il vestito nascosto
dentro una busta di carta. Entr dentro il cesso del treno e ne
usc, che se ci penso, mi viene ancora da ridere.
Ve lo immaginate con quel vestito elegante addosso e la faccia
nera di carbone a spasso per Ostia? Quella fu la prima e lultima
volta che lo indoss completo. Quando torn in paese, per non
creare trambusto, lo indossava a pezzi, un giorno la giacca, un
altro i pantaloni oppure gli stivali.

A destra, sculturina in legno fatta da un carbonaio

Costruzione degli zoccoli per camminare sopra il carbone ardente durante

Appena arrivati sul campo di lavoro, bisognava preparare la capanna e

la sfornatura. 1992, Foresta di Valforana di Tornimparte. foto di C. Green

il materasso fatto di fogliame, per dormire. 1998, foto di R. Soldati

R. S.: La penuria dei mezzi di trasporto e la scarsit di attrezzature


adeguate, costringeva i carbonai a risolvere lallestimento e le
relative funzioni del campo, con espedienti spesso ingegnosi e
sorprendenti come ci raccontano i carbonai Eugenio, Cesare e
Giovannina che tra il 1938 e il 1940 hanno partecipato ai lavori
della Bonifica Pontina per fare il carbone utilizzando le enormi
quantit di legname proveniente dai disboscamenti operati per fare
spazio alle nascenti citt dellAgro pontino.
Cesare: Il carbonaio arrivava sul campo con pochissime cose. Si
portava dietro solo alcuni utensili che non si potevano costruire
utilizzando le risorse disponibili sul posto. La cosa pi
ingombrante

da portare dietro era il segone, ma di solito quello era un


attrezzo che ci forniva il padrone.

R. S.: Praticamente il segone era il padre della motosega?

Cesare: Pi o meno si, ma era a mano per due persone


contrapposte, una tirava da una parte una dall'altra. C'era un
vecchio tipo di segone che aveva i denti a scaletta, era lento e
molto faticoso da usare. C'era anche un nuovo tipo di segone che
al posto dei denti normali aveva delle lamelle a doppio effetto,
con un taglio micidiale e veloce. Chi poteva averne uno, lavorava
tre volte di pi. Era un tipo di lama che ancora oggi viene
adottata sulle seghe ad arco metallico.

Un coltello militare smarrito nel 1952 e ritrovato sul posto nel 1984 dal proprietario.

Una collana con ciondolo scolpito in un pezzo di carbone

Pietro: Per spegnere la carbonaia era necessaria l'acqua e se


l'acqua non c'era, allora bisognava scavare una grande buca per
terra l'inverno prima. Si riempiva la buca di neve pressata e
ricoperta di fogliame, in modo da avere una minima riserva
d'acqua per la primavera. Quando arrivavi sul campo per fare la
carbonaia non c'era nulla, si faceva tutto sul posto e nel giro di
qualche giorno ti ritrovavi in mezzo ad un campo attrezzato. Si
costruiva la capanna, fatta di tronchetti di legno ricoperti di
fogliame con uno zoccolo cinto di zolle di prato. Dentro si faceva
una specie di brandina di legno con sopra due o tre sacchi ripieni
di fogliame che facevano da materasso. Si costruiva la camastra
che serviva per appendere il caldaio sul fuoco.

Un gruppo di carbonai abruzzesi mentre compongono una carbonaia.

In pratica era un paletto orizzontale sostenuto da un tronco


verticale. Sempre con il legno fabbricavamo gli attrezzi da lavoro
come per esempio il rastrello, la forca, il baiardo che era una
lettiga per trasportare la legna, oppure la carriola con la ruota
ricavata da un tronco tagliato in sezione e poi la slitta che serviva
per scendere il legname quando la foresta era su pendii scoscesi.
Il cesto fatto di stecche intrecciate, era usato per trasportare
tronchetti, fogliame, o per mettere il carbone dentro le balle di
juta. Per camminare sopra il carbone ardente, si facevano gli
zoccoli di legno con una cintola di cuoio o un copertone d'auto.
Finito il lavoro, tutti gli attrezzi di legno venivano anchessi
carbonizzati.

Sotto, la fase del rabbocco, che consiste nell alimentare il fuoco

R. S.: Cosa cucinavate sul campo?


Eugenio: Ah, quello che c'era. Spesso la pasta, che veniva
condita solo con strutto, l'olio costava e, se c'era, la qualit era
pessima; faceva pi male che bene. Spesso cucinavamo le patate
sotto la brace o addirittura le mettevamo ad abbrustolire dentro
la carbonaia infilzandole con uno spiedino di legno. La polenta
oggi considerata un lusso, ma allora costava poco e si mangiava
quasi sempre quella, al punto che adesso mi fa venire il
voltastomaco soltanto vederla. Una volta mio padre, che di
cucina non ci capiva un fico secco, stanco per aver sorvegliato la

carbonaia tutta la notte, si addorment mentre stava cucinando e


la pasta divenne una sbobba. Ormai erano le due passate e noi
che stavamo tagliando la legna non ne potevamo pi dalla fame.
Uno di noi allora si mise ad urlare spiegazioni sul ritardo. Mio
padre, che era ad un tiro di schioppo, non trovando il coraggio di
dire la verit e con la speranza di argomentare una scusa a prova
di bomba, non trov niente di meglio che rispondere: "Non ci
sento per le moscheee! Ci guardammo in faccia sconsolati.
Mosche o non mosche quel giorno saltammo il pranzo e chi s
visto, s visto.

BALLA LA VECCHIA

"Appena arrivi alla carbonaia, guarda se balla la vecchia! " grid un carbonaio ad un altro. Un suggestivo
termine che per noi "scolarizzati" si traduce in diffrazione da calore. Praticamente quel tremolio che si
manifesta osservando il paesaggio attraverso una fonte di calore, dovuto alla diversa densit tra aria calda e
fredda. Persino una vecchia si metterebbe a ballare, passando nello sfondo di una carbonaia surriscaldata.
Il carbone pronto quando balla la vecchia!

Carbone vegetale tipo cannellino

Il trasporto della legna. Dal film La stagione delle carbonaie

R. S.: Nella zona dell'assegna c'erano le ragazze?

Eugenio: certo che c'erano, ma erano pure loro cos sporche di


carbone che se le incontravi ripulite non le riconoscevi neanche.

R. S.: A proposito delle donne carbonaio. Giovannina, originaria


del comune di Lucoli, in una recente intervista per il film La
stagione delle carbonaie, cos racconta la sua esperienza nel 1938
a Serra Capriola, in provincia di Foggia.

Giovannina: Allora il nemico numero uno non era la fatica o la


fame, ma le pulci. Quando arrivammo sul posto dove mio padre e
i miei fratelli dovevano costruire la carbonaia, ci venne assegnata
una casetta in muratura, cosa di un certo privilegio rispetto alla
solita capanna di fogliame ma l'illusione dur poco. Non appena
varcai la soglia fui assalita da migliaia e migliaia di pulci. Le
calze mi diventarono nere di pulci affamate che non volevano
saperne di andar via. Mi misi a schiacciarle con le mani, ma
subito mi assalivano altre. Scappai fuori e cominciai a piangere,
non sapevo che fare. Ero l tutta sola, l'unica donna in quel posto
che non conoscevo piena di gente estranea. Vidi per l'ultima
volta le

donne alla stazione e dopo sei mesi le rividi alla stazione, c'erano
solo uomini in quel posto. Mi ricordo che una volta alcuni
carbonai fecero un rimprovero a mio fratello, gli dissero: "Come
avete coraggio di portare questa donna qui da sola in mezzo alla
macchia". Mio fratello e gli altri andavano a fare carbone
lontano anche due o tre chilometri dalla casetta dove rimanevo
per cucinare, e l passavano i cacciatori. C'erano in giro
taglialegna, gente che non conoscevo, avevo paura. A volte gli
stessi boscaioli del mio gruppo si buttavano malati per restare
soli con me.

R. S.: Non c'erano rimedi contro le pulci?

Giovannina: Ma quale rimedio! Il freddo, solo il freddo le


mandava via, ma l'estate ci mangiavano vivi. Le coperte erano
piene. Se c'era il sole stendevamo le coperte e le pulci morivano,
ma durante la notte le coperte si riempivano di nuovo. Solo dopo
la liberazione, quando vennero gli americani portarono il DDT
che le sterminava. Si metteva il liquido dentro un soffietto a
stantuffo e poi si spruzzava il liquido in tutta la casa. Ma il DDT
lo respiravamo anche noi e spesso causava forti dolori di stomaco
e vomito, ma era sempre meglio delle pulci.

Cap. 2: Servi e padroni

R. S.: L'eterno contrasto tra "servi e padroni, per dirla in modo


brutale, sembra essere il tema pi ricorrente e quasi ossessivo nei
racconti e nelle testimonianze dei nostri intervistati. Frugando nei
particolari delle foto mille indizi ci inducono ad immaginare gli
stenti e i disagi di questi personaggi cos avvezzi alla miseria da
non riconoscerla neanche come tale, se non come una sorta di
destino e chiss, forse anche accettata con rassegnazione. Alla
luce di quanto abbiamo

constatato, non ci sorprende affatto che


alcuni intervistati non solo non erano disposti ad identificare se
stessi nelle foto, ma addirittura tendevano a negare di essere stati
tra quella gente vestita di stracci che cadevano a brandelli.
Per tanto, non ci resta altro che esprimere tutta la nostra
comprensione verso coloro che hanno scelto la reticenza,
limitandoci a pubblicare solo le interviste autorizzate
dell'interlocutore.

Foto di Catherine Green

Pastore nellagro pontino malato di malaria. Secondo la testimonianza di Salvatore Colafigli di Lucoli, questo personaggio,
nei ritagli di tempo, costruiva le capanne che venivano commissionate dai pastori e i carbonai che arrivavano dallAbruzzo.

R. S.: Come era vissuta la povert a fianco alla ricchezza? Spesso


sento la frase "sotto padrone", ma chi era questo padrone? Ci
risponde Felice, un pastore del Comune di Lucoli in una intervista
del 1972.

Felice: Se ripenso quanto eravamo scemi allora, darei le


capocciate contro un muro.

R. S.: Pi che scemi forse c'era un po' pi di ignoranza?

Felice: Scemi e anche ignoranti, perch se c'era qualcuno che


aveva un po' di cervello, piantava tutto ed emigrava. Tanti lo
hanno fatto e si sono arricchiti. Invece noi povere pecore
rimanevamo qui a farci sfruttare. Un giorno ci prendevano la
lana, un altro il latte. S, era cos. Ci sentivamo pi pecore che
cristiani.

Pensavamo che miseria e ricchezza erano regole del padreterno.


Pensavamo che il mondo andava cos e alla fine ci si rassegnava
ad essere poveri, anzi ci sembrava normale.
Ci sentivamo addirittura onorati di servire un padrone in
cambio di un piatto di sbobba. Quando i figli di un padrone si
sposavano, tutto il paese si recava a guardare quant erano belli
il signorino e la signorina e a nessuno fregava niente se a noi
cafoni non ci facevano neanche entrare in chiesa perch eravamo
sporchi e straccioni. C solo una cosa che adesso mi ripaga.
Oggi la gente ha aperto gli occhi e i ricchi di paese non trovano
nessuno che andrebbe a lavorare per loro, neanche a peso d'oro.
Anticamente la regola nelle famiglie ricche era di lasciare
l'eredit al primo maschio, maritare le femmine a gente facoltosa
e mandare i secondi nati a fare i preti privilegiati. Oggi invece
tutti gli eredi si dividono i soldi, case e terre in tante parti e cos i
ricchi di una volta sono diventati come noi.

R. S.: Come era strutturato il rapporto lavorativo con la


committenza?

Cesare: Il padrone era uno che aveva la possibilit di comprare


un pezzo di bosco per sfruttarlo, e noi carbonai professionisti gli
cedevamo quasi tutto il carbone ricavato. Lavoravamo per lui e
la nostra paga consisteva, secondo accordi, in qualche balla di
prodotto e una specie di buono mensa. In pratica il padrone dava
una certa somma a qualche negozio di alimentari, in modo che
noi potevamo acquistare viveri fino all'esaurimento della somma.
Spesso ci forniva anche gli attrezzi.
R. S.: Mussolini aveva una villa nei pressi di Latina e, secondo
quanto riportato dalle cronache, molto spesso scendeva in campo a
lavorare assieme agli operai, almeno secondo la propaganda
fascista. Ti mai capitato di vedere il Duce in persona? (Oltre a
Giovannina rispondono alla nostra domanda due pastori di Lucoli,
Lorenzo e Salvatore).
Lorenzo: S, una volta, quando il Duce decideva di lavorare lo
sapevano tutti perch almeno un paio d'ore prima arrivava
qualche gerarca a dire come comportarci, organizzare il campo
ed allontanare i pi straccioni. Non appena il campo era
diventato una specie di salotto arrivava il Duce. Era bassotto e
piuttosto robusto, ma quando lavorava, lavorava duro e anche
con una certa pratica. Un giorno mi dissero di portare l'acqua ai
trebbiatori e, quando arrivai, trovai l'aia piena di camicie nere.
Uno di loro mi ferm, diede due cazzotti alle cupelle piene
d'acqua che portavo caricate sul mulo e alla fine mi fece passare.
Arrivato vicino la trebbiatrice, sbragai le funi per scaricare

l'acqua, ma una rimase impigliata al basto.


Siccome avevo le mani occupate per reggere la cupella, non
riuscivo a tirarla gi. Allora si fece avanti uno con un fazzoletto
in testa che liber la fune e quando due camicie nere mi
aiutarono a poggiare a terra la cupella, mi accorsi che quello con
il fazzoletto in testa era Mussolini.
Giovannina: Mio padre era il caporale di Mussolini, quando
Mussolini aveva meno di venti anni e non era ancora nessuno.
Allora stava facendo il servizio militare al corpo dei bersaglieri.
Mio padre mi raccontava che un giorno, durante una marcia,
Mussolini si stacc dal plotone e and a sedersi sopra la riva di
un ruscello. Mio padre, che era il caporale, fece fermare i soldati,
and da lui e gli chiese: "Che succede? Ti vedo pensieroso, c
qualcosa che non va?" ma lui non rispose, allora mio padre
aggiunse: "Senti, cos mi crei difficolt. Andiamo al campo e l
potrai spiegare se c qualcosa che non va." Mussolini, senza
fiatare, si alz e riprese la marcia.
Quando Mussolini divenne Duce, mio padre gli scrisse ma in
risposta ricevette solo una lettera di cortesia battuta a macchina
da qualcuno e siglata dalla segreteria di stato.

Salvatore: Un giorno, mentre stavamo pranzando, un nostro


compagno disse: "Qua vicino c il Re che venuto a mietere il
grano". E un altro rispose: "Eh, si vede che se la passa male pure
lui." Probabilmente nessuno dei due sapeva che al potere c'era
Mussolini, oppure pensavano che Mussolini e il Re erano la
stessa cosa. Certo che non si stava proprio male a Latina.
Abituati alla miseria nera, l c'era l'abbondanza di tante cose. Si
rimediava a dritta e manca, ma quando era ora di ripartire con
le pecore, ti accorgevi di essere con il culo per terra.

Foto di Catherine Green


La preghiera del carbonaio al momento dellaccensione

QUANDO BRONTOLA LA MARINA O ACQUA O FARINA

Quando brontola la marina ora di partire con il gregge verso la pianura, mi disse un montanaro con lo sguardo un po' triste perso
allorizzonte, ricordando tempi andati. Di mare neanche lombra, per il brontolio si sentiva e come. Era una specie di tuono
sotterraneo che udii anche altre volte; mi ero spesso domandato cosa fosse. Il montanaro mi spieg che, allapprossimarsi dellinverno,
il mare forma delle gigantesche onde le quali, scontrandosi, producono quellinquietante brontolio e che la spuma, prodotta
nellimpatto, avrebbe generato la neve. Non convinto di quella pittoresca teoria, anche perch il mare distava da noi almeno duecento
chilometri, decisi di attingere a fonti scientifiche pi convincenti. Un geologo mi spieg che si trattava di boati prodotti da fenomeni
tettonici incruenti, dovuti alla sollecitazione delle zolle superficiali causata dallimprovviso ingrossamento delle falde acquifere
sotterranee che producono i boati in questione, talvolta seguiti da microsismi. Peccato! Avremmo preferito la versione tradizionale e
sicuramente pi affascinante e poetica esposta dal montanaro, ma la scienza sempre l a fare il guastafeste.

R. S.: A giudicare dalle foto c'era anche chi portava la famiglia al


completo?

Salvatore: S, certamente. C'era tanta gente che veniva anche dal


nord Italia. C'erano famiglie di ex-combattenti ai quali lo stato
aveva assegnato dei terreni da coltivare e per costruirci sopra la
casa. Tanti sono rimasti in quel luogo. A Latina ci sono molte
strade che portano nomi di citt del nord.
Era gente intraprendente quella. Gli altri venivano dall'Abruzzo
o dai dintorni di Latina. Gente che aveva perso tutto in periodo di
guerra, ed era venuta l solo a sgobbare, senza nemmeno rendersi
conto che potessero accampare dei diritti su quei terreni.

Un contadino molto furbo in cambio di una caciotta si fece


amico un geometra che gli mostr, in cartina, alcuni terreni che
avrebbero fiancheggiato le strade ancora in progetto, le attuali
Migliare, compr quei terreni e oggi si ritrova un enorme
capitale. He.saperci fare. All'inizio, sia i nostri che quelli del
nord, vivevano dentro un tipo di capanne molto grandi e ben
fatte, molto meglio delle nostre; erano quasi abitazioni. Ne
costruivano anche un tipo pi piccolo, ma robuste, le
chiamavano lestre; poi, man mano che costruivano le case, sia le
capanne che le lestre venivano riciclate come stalle.

R. S.: Che posto avevano le donne e i bambini sui campi di


lavoro?

I bambini allora non contavano niente. Erano costretti a fare i


servi agli adulti. Li utilizzavano per fare lavori anche pesanti.
Dovevano procurare la legna e accendere il fuoco, trovare i
paletti per fare il recinto, custodire il gregge e, se li vedevano in
ozio, si arrabbiavano e ordinavano loro di fare qualsiasi cosa,
anche quando erano mezzi morti di stanchezza. A raccontarlo
non ci si crede. Quando ero ragazzino, allet di undici anni, con
mio padre avevamo portato le pecore vicino Oriolo romano.
Appena arrivammo mio padre mi port in un posto dove c'ra
una fontanella per riempire due cupelle da quaranta litri
ognuna. Siccome i giorni successivi sarei dovuto tornare da solo,
non avrei mai potuto scendere le cupelle dal mulo per poi
ricaricarle piene d'acqua, perch erano troppo pesanti. L'unico
modo per farlo consisteva nel servirsi di un tubo di gomma, che

qualcuno aveva infilato alla cannella, per riempire le botticelle


direttamente sul basto, ma il padrone del tubo, che stava
innaffiando un orto, non vedendo pi arrivare l'acqua, arriv
infuriato a litigare con mio padre, e stavano quasi passando per
vie di fatto. Nonostante la discussione, il giorno dopo mio padre
mi ordin di tornare alla fontanella; staccai il tubo e subito
arriv quel tipo che lo prese e cominci a frustarmi. Quando
raccontai a mio padre quello che era successo, mi disse di tornare
anche l'indomani e, se quello mi avesse ancora toccato, sarebbe
andato lui a dirgliene quattro. Non avevo scelta. Arrivato alla
fontana, quel tipo era gi l. Non appena mi avvicinai, mi disse:
"Lo vedi quello, se ti azzardi a toccarlo, ti faccio nero come quel
tubo". Quella volta tornai indietro scarico. Per fortuna,
qualcuno raccont a mio padre di stare alla larga da quel tipo,
per che una volta aveva quasi ammazzato un pastore con una
fucilata al sale grosso. Mio padre si spavent e, finalmente, si
decise a procurarsi l'acqua in un altro modo.

Foto di Catherine Green


Le donne dei lavoratori impegnati nella bonifica che lavano gli indumenti alla chiusa del fiume Amaseno nei pressi di Latina nel 1936, foto di G. Bortolotti

R. S.: Scusa, io non voglio giudicare l'operato di tuo padre; so


che una volta maltrattare i bambini era ritenuto quasi un metodo
educativo, ma oggi una cosa del genere sarebbe roba da galera.
Cosa ne pensi di quanto ti successo?

Salvatore: Lo hai detto tu stesso, allora era cos. Siccome i


maltrattamenti erano normali, quel modo di fare ci sembrava
normale; ci si abituava a tal punto che, gi a otto anni, avevamo
una bella scorza; sopportavamo tutto.

Mia madre, prima ci trattava a legnate, e dopo, quando lo


raccontava a qualcuno, cominciava a disperarsi dal rimorso.
D'altra parte ci sono persone che dicono: "Sono un bravo
cristiano e onesto lavoratore, per che i miei mi hanno addrizzato
a forza di botte". Non era sempre cos, c'erano tanti genitori
molto buoni. Eh,... certo che un po di invidia me la facevano i
loro figli.

Foto di Catherine Green

Cap.3: Pastori in cammino


ADAGIO PASTORALE
Pecore di stalla a Roma non portate, se avvezze nelle reti non ci sono. Neanche la masseria grossa non fate,
se lerba poi non viene la sbagliate. Le pecore non mangiano frittate, mangiano erbe buone e saporite.
Bisogna che il pastor capisca bene il gregge di Pasqual, come si tiene.

R. S.: In merito agli antichi tratturi, lungo i quali si svolgeva la


transumanza delle greggi, esiste una discreta documentazione
scritta e degli studi piuttosto approfonditi di notevole importanza,
non solo dal punto di vista storico ma anche da quello
antropologico. Infatti, la necessit di condurre il gregge verso zone
non soggette ai rigori dell'inverno, lontano dalla neve che per mesi
ricopre i pascoli montani, finiva per

creare una situazione di semi nomadismo nelle famiglie che


praticavano la pastorizia.
Come ci racconta Mario, che negli anni quaranta e cinquanta ha
partecipato pi volte alla transumanza, i pastori non si limitavano
solo a trasmigrare il gregge ma continuavano a sorvegliarlo anche
sul posto senza rivedere, per mesi interi, la famiglia.

Foto di Catherine Green

Mario: Poteva capitare che nasceva un figlio a Novembre e


riuscivi a vederlo per la prima volta a Marzo. Io di solito andavo
nel Lazio, nei pressi del Divino Amore e della Cecchignola; ma
c'era anche chi andava a Latina o addirittura in Puglia. Tornare
a casa per una breve visita, specialmente ai tempi di mio padre,
non era facile. Oltre al fatto che il viaggio costava, le pecore
erano una grossa responsabilit, un lavoro che impegnava dal
mattino alla sera e dovevi farlo con giudizio, altrimenti ti tiravi
addosso le critiche dei compagni per qualsiasi cosa che non filava
per il verso giusto. Per esempio, c'era da stare molto attenti agli
sconfinamenti. Oggi ci sono pascoli liberi che non servono pi a
nessuno; addirittura, si pu pascolare su qualche campo
padronale abbandonato.

Ma allora le pecore erano tante, e i pascoli erano gelosamente


controllati, specialmente nel periodo della transumanza. Poteva
anche capitare che le pecore mangiavano troppa erba medica
fresca, si gonfiavano e morivano. Quando a primavera veniva
l'ora di tornare a casa, si scatenavano sempre polemiche e liti tra
di noi. In autunno litigavano i cani per gelosia tra le diverse
greggi e a primavera cominciavano a litigare i pastori, ma per
fortuna tutto poi finiva l. Le cose sono andate meglio quando,
verso gli anni cinquanta, le gregge venivano trasportate a valle
con i camion. Mi sentivo come un signore con le pecore sul
camion e io comodo dentro la cabina, che potevo arrivare in
giornata sul posto, sveglio e riposato, anzi che dopo sei o sette
giorni di marcia massacrante.

Le capanne fatte di paglia e munite anche di una cintura di zolle che pastori e carbonai costruivano come rifugio temporaneo.

1936, foto di G. Bortolotti

R. S.: Mi rendo conto che il distacco di un componente, talvolta


anche due o pi, dalla stessa famiglia, distacco che a volte durava
per mesi e costringeva a rimanere lontani da casa, doveva creare,
per forza di cose, una situazione di estremo disagio nell'interno del
nucleo familiare specialmente in un'epoca nella quale i mezzi di
comunicazione di qualsiasi tipo erano scarsi. Come veniva vissuto
questo disagio?

Salvatore: Ah, ne succedevano di cotte e di crude. C'era la


nostalgia del paese, della famiglia, non sapevi quando tornavi,
che razza di novit potevi trovare, non sapevi se la moglie era
andata con qualcun'altro o se il raccolto era andato in malora.
Allora, quando vedevamo qualcuno preoccupato o distratto, gli
si diceva. "Ma a che pensi, alle pecore che t n' Puglia?" Invece
dalla Puglia pensavamo sempre alle faccende in paese. Quando
tornavamo a casa, la prima sera la passavamo accanto al fuoco a
raccontarci le novit e i pettegolezzi di ogni genere. Alla fine, la
conclusione era sempre la stessa, si faceva quella vita per tirare
avanti e basta. Ci sosteneva solo la speranza che un giorno le
cose sarebbero andate meglio, e chi se la sente di dire che oggi
non si sta meglio, anzi, molto meglio di allora?

Prima le pecore, poi la guerra e poi ancora le pecore. Sempre in


giro stavamo. Il periodo migliore della mia vita lo passai in un
campo di prigionia inglese. L c'erano sigarette, cioccolata e
anche donne.

R. S.: Che cosa era esattamente il tratturo e come vi organizzavate


durante una transumanza?

Mario: Il tratturo era il sentiero che si seguiva per spostare le


greggi durante il periodo della transumanza. Quando si
viaggiava con centinaia di capi, bisognava sapere esattamente
dove passare. Te lo immagini sbagliare strada con quattrocento
o cinquecento pecore? Le difficolt erano tante. Di solito
eravamo in quattro o cinque a compiere il lavoro. Il tracciato del
tratturo era stabilito solo in parte, il resto si stabiliva secondo le
esigenze. Per esempio, si cercava sempre di passare alla larga da
terreni privati. Se il gregge sconfinava in un campo coltivato,
erano dolori. Anche se non mangiavano nulla, tutte quelle
pecore potevano rovinare ettari di campo. Per evitare guai,
preferivamo il demanio comunale, anche se nel periodo di
transumanza tanti raccolti erano gi stati fatti.

Salvatore Colafigli mentre cucina per i colleghi pastori.

Nella foto a destra, la tosatura della lana, operata dai pastori abruzzesi nella pianura pontina.

R. S.: C'erano posti di ristoro lungo il tratturo?

Mario: Ma quali posti di ristoro. Non avevamo neanche il vino


per ubriacarci, come potevamo permetterci di pagare addirittura
un ristorante? Tutti i curiosi che venivano a guardare le pecore
ci vedevano barcollanti e pensavano che eravamo ubriachi.
In realt erano sonno e stanchezza. Le pecore dovevano essere
sorvegliate giorno e notte e non c'era neanche il tempo per
dormire. Si cucinava per strada quello che cera, di solito
pancotto, un p di formaggio, qualcosa che trovavamo strada
facendo e basta. Una volta abbiamo chiesto un p di legna da

ardere ad una casa e non solo hanno rifiutato di darcela, ma ci


hanno anche trattati male. Siamo stati costretti a sfilare alcuni
paletti da una vigna per accendere il fuoco e scaldarci. Appena
sistemato il gregge e dopo aver cenato, era gi sera tardi, poi ci
mettevamo a dormire per terra o dove capitava. Non si faceva in
tempo a prendere sonno che era gi ora di ripartire. Una volta,
un nostro compagno era cos stanco che si mise a dormire
durante la marcia. Ci voltammo e non lo vedemmo pi, allora
tornammo indietro a cercarlo. Vidi l'ombrellone aperto dentro
un ponticello e sotto c'era lui che dormiva

Salvatore: Una volta ci regalarono una chilata di farina, non ci


sembrava vero.
Ci fermammo ad una fontanella, la
impastammo, accendemmo un fuoco e ci buttai sopra la pasta,
cos, senza sale ne lievito. Il mucchio di frasche faceva tanto
fumo che non potevamo vedere fino a che punto era cotta la
pagnotta. Cominciai a preoccuparmi e mi misi a cercare tra le
fiamme. La trovai che era diventata nera come un tizzone.
Pensammo di grattare via la crosta per recuperare almeno la
mollica, ma quando la spaccai a met mi accorsi che dentro la
pasta era ancora cruda. I miei compagni, a giudicare dalle facce,
non si fecero una bell'idea di me come cuoco. Ancora adesso mi
prendono in giro da quel giorno.

R. S.: Chi vi metteva a disposizione i pascoli? Di chi erano i


terreni?
Mario: Quasi sempre di privati, li prendevamo in affitto. Io,
come ho gi detto, andavo spesso nella zona della Cecchignola.
Le offerte venivano fatte a Roma qualche mese prima della
transumanza sulla piazza della Rotonda.

R. S.: Vuoi dire il Pantheon?

Mario: Esatto! Era l che si trattava, alla piazza del Pantheon.


C'era gente che offriva e gente che accettava le offerte. Si entrava
in qualche bar e davanti ad un caff si concludeva l'affare. Il
pascolo veniva preso in affitto per un certo periodo. Nei
momenti critici, specialmente durante la guerra, l'affitto del
pascolo si pagava con la merce, per che la moneta era a rischio e,
quindi, si cedeva una certa quantit di lana, formaggio e qualche
agnello. Se le cose andavano male, se per esempio veniva

una stagione secca e le pecore non davano pi il latte, bisognava


dare anche tutta la lana al padrone del terreno, rischiando di
rimetterci. Ma a dire il vero, le cose andavano quasi sempre
bene. Di solito si stipulavano contratti verbali con l'unica
garanzia di due o tre testimoni, ma anche questo comportava un
rischio limitato. Di solito si teneva fede alla parola. Quando
andavamo con poche pecore in zone di piccoli terreni, si partiva
direttamente all'avventura e trattavamo sul posto. Ogni tanto la
paga per il pascolo consisteva nella semplice stabbiatura del
terreno con gli escrementi lasciati dalle pecore.
R. S.: Esistono tratturi in diverse direzioni, come risulta dalla
mappa. Quale percorrevate voi?

Mario: Di tratturi ce n'erano di facili e di difficili. Per andare


nella campagna romana, la strada era abbastanza comoda.
Partivamo da Lucoli passando per Antrodoco, Rieti, Passo
Corese e poi lungo un tratto della Salaria fino a Roma. Arrivati
a Roma, attraversato Trastevere, uscivamo da porta San Paolo
verso la Madonna del Divino Amore. Era l che organizzavamo
il campo. Prima di tutto si costruivano gli stazzi per le pecore e
dopo il resto, specialmente la capanna fatta di rami ricoperti di
scopazza o ginestre. Se c'erano le donne, la capanna la
costruivano molto meglio, ci mettevano molto pi cura; noi
uomini arronzavamo. Dentro veniva allestita uso abitazione e
soprattutto come rifugio per la notte. Si dormiva sopra alla
ramazzola, praticamente una brandina di paletti con del
fogliame sopra; di solito si usavano foglie di granturco. La
cucina era fuori per non rischiare di mandare a fuoco la
capanna. Spesso c'erano delle donne locali che cucinavano, ma
facevano quasi solo polenta; non se ne poteva pi.


COME SE FA NU SCALO
Ovvero, come si costruisce una lunga scala, secondo una divertente descrizione di un macchiaiolo in dialetto abruzzese.

Se taglia nu paju lungu lungu, p se spacca finu a met battenno c 'na mazza sopre nu cugnu. Se scacchia gliu paju
p na mezza metrata, e se blocca c 'na stecca nghiovata sotto. Nghiovata la stecca se fa nu bbusciu c 'nu verdole e se
'nfila nu pizzucu, p se fa n'atru bbusciu e se 'nfila n'atru pizzucu, se fa n'atru bbusciu n'atru pizzucu. Insomma, 'nu
busciu e 'nu pizzucu, nu bbusciu e nu pizzucu . . .Esso! fattu ju scal.

Una tradizionale scala, da alberi ricavata da un unico tronco spaccato a met. 1998, foto di R. Soldati.

Un taglialegna abruzzese.

Cap. 4: La migrazione allestero

Foto di Catherine Green

LUCOLI'S COWBOY

Brano da una lettera inviata dagli Stati Uniti dAmerica, all'inizio del novecento,
da un emigrante del comune di Lucoli:

Cara mamma e cari fratelli, sono tanto dispiaciuto di non potervi scrivere di sovente,
ma il posto laddove lavoriamo tanto distante dalla posta. Per arrivare alla citt si va col treno e ci abbisogna
dormire dove capita e tornare il giorno dopo. Il bestiame va guardato a occhio. Spesso gli indiani si ubriacano
e vengono qua a dare fastidio. Ieri l'altro, ci hanno sparso il bestiame dappertutto e ci voluta mezza giornata
per radunarlo. (. . .) Dovevate vedere quante vacche e bestie si erano ammassate, mentre aspettavamo che i
padroni ci fecessero un ponte colle barche per passare il fiume.

R. S.: Uno deglintervistati, Felice, tenne a precisare una


differenza fondamentale tra emigrazione dentro e fuori lItalia:
Felice: Allinizio del secolo lemigrato stagionale si recava a
lavorare quasi sempre per la sopravvivenza portandosi dietro,
quando poteva, anche tutta la famiglia ovunque ci fosse lavoro,
con lunico scopo di nutrirsi per sfangare la stagione come si
diceva. La misera paga serviva appena a comprare qualche
indumento e un po di polenta. Per giunta allora la nostra
moneta era sempre a rischio di svalutazione per questo motivo si
preferiva qualche forma di baratto del tipo: Tu mi fai pascolare
sul prato e io ti do un poco di lana o formaggio. Tu mi fai il
carbone con la mia legna e io ti passo i viveri e un paio di balle
per scaldarti linverno. Lemigrante allestero invece partiva
sempre verso paesi ricchi per offrire lavoro in cambio di valuta
pregiata e la reale possibilit di fare fortuna e tornarsene in
Italia. Emigrare allestero era spesso un vero e proprio salto nel
buio. La posta in gioco erano i risparmi di una vita di stenti e di
duro lavoro. La vita dellemigrato era costellata di esaltanti
successi ma anche storie tristissime.
Abbiamo notato la
tendenza, da parte degli intervistati, a privilegiare, nei loro
racconti, pi laspetto ironico che quello drammatico del loro
vissuto. Le brutte esperienze personali vengono solitamente tinte
di grottesco come fosse acqua passata, costanto per riderci
sopra. Abbiamo sentito storie di armatori senza scrupoli che
imbarcavano disperati a suon di soldoni, zigzagavano per una
decina di giorni nel Mediterraneo e dopo aver approdato la
carretta in qualche paesaccio del litorale italiano indicavano
loro: Ecco, seguite quella strada che vi porter dritto a Nova
Yorca. E poi cera la gente malata, magari di tubercolosi, che
arrivata a destinazione, non superava la quarantena e veniva
rispedita a morire in Italia. Un tipetto molto intraprendente di
un paesino abruzzese promise biglietti a prezzi stracciati ad una
ventina di malcapitati, parenti inclusi, e dopo aver racimolato
una bella sommetta se ne fugg in Venezuela.

R. S.: Sproprio come la Matilda della famosa canzone aggiungiamo


noi, e dalli risate da orbi di fronte le facce sconcertate di noi
intervistatori. Ricordi degli episodi legati alla emigrazione in quel
periodo?

Felice: La gente partiva per che era disperata. Quasi tutti


partivano spinti dalla miseria, erano pochi quelli che lo facevano
per avventura. Quando qualcuno leggeva le lettere dei parenti
emigrati, c'era sempre un gruppetto di persone che ascoltava
quelle parole, sempre piene di nostalgia. Il proposito di un
emigrante era sempre quello di fare un po' di fortuna e poi
tornare, invece quasi sempre si finiva per restare e man mano
partiva tutta la famiglia. Subito dopo lultima guerra in un
tranquillo paese qui vicino, sparirono alcune galline.
A quei tempi le galline erano un bene prezioso. Se ne bolliva
una si e no a Natale e forse a Pasqua e in gran segreto, per non
invitare altre bocche. Di ladri neanche a pensarlo, tutta gente
onestissima in paese, anzi prodiga di offrire aiuto a chi ne avesse
bisogno. La colpa di quelle sparizioni non poteva che essere
addossata a qualche faina o volpe. Chiunque fosse, era di sicuro
un animale furbo e intelligente. Mai un indizio, mai una penna
fu trovata in giro. Le sparizioni durarono un paio d'anni,
dopodich non vi furono mai pi episodi del genere. Passati una
decina d'anni, nel giorno di Natale del 1954, torn in paese dalla
Germania, un emigrante di nome Benito.
Benito era il maggiore di cinque fratelli di una famiglia
poverissima. Per questo motivo decise di emigrare, fare un p di
fortuna e mandare soldi a casa. Infatti, si present ben vestito e
quasi irriconoscibile ai paesani, con una discreta macchina, che
aveva il bagagliaio pieno di polli spennati e impacchettati, con
l'aggiunta di un regalino, un rametto di vischio e un biglietto
d'auguri con tante scuse per aver rubato i polli dieci anni prima,
spinto dalla miseria e dalla fame, avendo cura di rubare non pi
di una gallina a pollaio e di annotare con scrupolo il nome di
ogni creditore sopra un quaderno.

R. S.: E nessuno pens di denunciarlo per furto di polli?

Felice: Assolutamente no! Era un ladro onesto, e siccome


nessuno pot decidere se fosse pi ladro che onesto o pi onesto
che ladro, alla fine fu perdonato. Un altro paesano che si
chiamava Carmine, part per lAmerica nel 1960 a fare il
cameriere al ristorante del fratello nella citt di Boston senza
spiccare una sola parola dinglese. Un giorno lo chiam al
tavolo un cliente che voleva pi pizza. More!, more pizza
please (trad. Pi pizza per favore) Visto che Carmine non
capiva, il cliente scrisse More pizza sopra un foglietto. Carmine
lo lesse e rispose: No! no!, noi qui non avere pizza con le more e
neanche le more.
Una volta torn dalla "Merica", cos la
chiamava, con una macchinona talmente lunga che non poteva
neanche passare in mezzo al paese. Un giorno vidi quella
macchina parcheggiata con un gruppetto di ammiratori attorno.
Quando mi avvicinai per curiosare anch'io, uno mi disse: "C'
voluto un bastimento per portarla dall'America". Mentre un
altro aggiunse: "Ieri Carmine mi ha fatto fare un giro fino
all'Aquila e prima ancora di arrivare a cinquanta all'ora, gli
alberi gi facevano, zzzzoom, zzzzoom". Non sapeva che il
contachilometri era regolato in miglia orarie.
R.S.: Emigranti daltra risma in questo racconto di Elisabetta
Seneca.

Elisabetta: Io avevo uno zio, che allinizio degli anni trenta,


riusc a dissipare mezzo patrimonio di famiglia tra case da gioco
e donnacce. Era una specie di Don Giovanni che girava mezzo
mondo con un cappellaccio nero, pipa e mantello a rota,
ammaliando le signore pi in vista dell'epoca.

Era un artista di vita e di pennello, in tutti i sensi. Frequentava


d'Annunzio e il suo amico Paolo Antonio Michetti il pittore. Mio
zio si era procurata una macchina fotografica quando lavorava
in Germania e si mise a fare ritratti dimenticando la pittura e
suscitando la curiosit di Michetti. Mio fratello, il daziere, ha
derupato fino all'ultima negativa non appena lo zio morto. Dio
solo sa quanto potessero valere tutte quelle fotografie. Mio zio
con D'Annunzio non ebbe mai un'amicizia speciale. D'Annunzio
era preso solo con se stesso, parlava a ruota libera e se riuscivi ad
infilarti nel discorso sgomitando tra le frasi e cercando di dire la
tua, la faccia di D'Annunzio cominciava a fluttuare nel vuoto,
pronto a proseguire la sua diarrea verbale non appena smettevi
di parlare. Una volta lo zio litig con D'Annunzio che cercava
sempre di importunargli le sue donne.
Fu l'unica volta che Dannunzio sconcertato dall'ira di mio zio lo
ascolt con un po d'attenzione replicando all'attacco. "Io non
importuno e non rubo donne agli amici, son le tue donne che
scelgono di stare con me in argomento". Mio zio rispose..."He
no! amico mio a te non frega un bel niente che una donna si bella
o brutta, fosse anche storpia e deforme la cosa importante
dimostrare a te stesso e talaltro di averla, magari solo un attimo
ma averla." Con Michetti era diverso, con Michetti e Paoletto de
Cecco, un attore scapestrato quanto lui, armati di macchina
fotografica se ne andarono a zonzo tutta l'estate a fotografare le
feste di santi patroni tra Francavilla e Orsogna. D'Annunzio non
amava tanto aggregarsi a quella combriccola che se ne andava
dietro le processioni a fotografare mendicanti e storpi,
D'Annunzio amava la vita comoda e le belle donne di corte
Savoiarda o di casa Torlonia.

Francesco Paolo Michetti in


una foto fornita da Elisabetta

Una volta lo zio si trov faccia a faccia con Re Vittorio Emanuele


terzo, quando si rec al palazzo Savoia di Napoli ad incontrare
Michetti che doveva fare un ritratto al Re, per un francobollo
della posta reale. Attraverso una porta socchiusa poteva vedere
Michetti che armava la macchina fotografica. Un cortesissimo
giambellano apr la porta quanto bastava a mostrare il Re di
spalle in posa. Mio zio lo osserv per un attimo incredulo, poi
rivolto al giambellano gli chiese, "Quello seduto dietro lo
scrittoio proprio lui, il Re?" Il giambellano gli rispose sottovoce
"si! proprio lui e... non seduto" alludendo alla sua statura.
Un giorno del 1904 fu un brutto giorno per la mia famiglia. Mio
fratello minore Olivo, si stava preparando per il giuramento
nuziale quando si presentarono a casa due carabinieri che
portarono un mandato di confisca rovinando la festa. Mio zio
aveva perso mezzo patrimonio al gioco, e si ritrov braccato dai
debitori. Fu cos che mezza casa fu presa e trasformata in scuola
elementare con bambini pestiferi e addio pace e tranquillit".
Una certa Francesca Florio aveva fornito allo zio l'indirizzo di
un ricco mercante d'arte toscano che viveva in America. Senza
neanche avvisarlo, mio zio s'imbarc su di un bastimento

lasciando la mia famiglia in un mare di guai.


Appena arrivato in America mi scrisse come volesse scusarsi con
me di quanto era successo, senza curarsi della mia famiglia. Mia
madre mor di parto quando nacqui io. Ero l'ultima, arrivata per
sbaglio, per questo mio padre, nella foto sopra, non riusc mai a
perdonarmi la colpa. Le pettegole del paese raccontano che mio
padre non appena saputo che ero nata io si mise a passeggiare
nervosamente avanti e dietro al salone, ripetendo di continuo,
"affogate la gatta, affogate la gatta..." Anche i miei fratelli erano
contro di me, mi trattavano peggio di una serva, solo mio zio mi
amava e sapeva capirmi. Sul bastimento partito da Napoli gli
ufficiali di bordo riservarono a mio zio un posto in prima classe
in cambio di un ritratto per il comandante talmente ben riuscito
che anche gli altri ufficiali ne pretesero uno. Durante il viaggio
gli venne il mal di mare e fu costretto a completare i ritratti in un
albergo di New York, dove dormivano gli ufficiali.
Il
proprietario dell'albergo, un italo-americano, organizz per mio
zio, una bottega in citt in cambio di una serie di dipinti con
paesaggi e monumenti italiani, sia per abbellire l'albergo che da
vendere nei vari negozi e gallerie di zona.

Un giorno si vide arrivare a studio il gallerista toscano. Lo zio


era cos preso dal suo lavoro che si era dimenticato di lui. Il
gallerista seppe che mio zio era approdato in America da Donna
Francesca Florio, ed era venuto da Boston deciso a portarselo via
per offrirgli una bottega migliore di quel buco a New York, ma
fu un disastro. Durante una mostra ebbe una lite furiosa con
uno scultore mezzo frocio che lo infastidiva di continuo.
Siccome mio zio non gli dava spago lo scultore cominci a
tormentarlo di continuo. Non so cosa successe di preciso, so solo
che i due si ubriacarono e lo scultore butt del vino addosso al
dipinto dello zio che reag spaccandogli le opere. Si rese conto
che quel gruppo d'artisti non faceva per lui e se ne torn al
tranquillo lavoro di New York. Non ho idea di che vita facesse e
quanto guadagnasse, so solo che mi mantenne agli studi e senza
curarsi dei miei parenti. Mor nel 1958 a New York "
R. S.: Sinceramente, cosa pensate dei nuovi immigrati che adesso
arrivano n Italia, alla luce della vostra esperienza. Quali sono,
secondo voi, le differenze sostanziali tra le migrazioni di allora e
quella di oggi?

Pietro: MahOggi la radio e la televisione rendono tutto pi


chiaro, i nuovi emigranti sanno gi pi o meno cosa troveranno e
come fatto il paese di destinazione, allora no.
In America cerano facce strane da tutto il mondo. Io emigrai nel

1955 allora noi cafoni non sapevamo come familiarizzare con


quella gente e finivamo sempre per ritrovarci in qualche locale
italiano a cantare torna a Surriento e rimestolarci nella
nostalgia. Le diverse etnie si prendevano in giro una con laltra,
per esempio noi chiamavamo le ragnatele merletto irlandese,
perch glirlandesi avevano le case piene di ragnatele, mentre
glirlandesi dicevano di noi che per non farsi rubare i soldi ad un
italiano basta nasconderli sotto un pezzo di sapone, tanto
glitaliani non si lavano mai.
A Boston avevo due amici irlandesi, molto simpatici che erano
venuti in America per colpa di una brutta carestia causata
nientemeno che dalla Cocciniglia. Ma tu pensaun insetto che
distrusse tutte le patate agli irlandesi che gi avevano problemi
economici per motivi territoriali. Noi italiani eravamo sempre
vissuti nella miseria. Sul fronte dellAdamello mio padre diceva
che si combatteva non tanto per cacciare gli austriaci ma perch
avevano promesso un pezzo di terra ad ogni soldato.
Mi raccontava sempre che durante una terribile marcia sulle
Tofane erano stremati. I muli carichi di armi, viveri e munizioni
scivolavano di continuo lungo i pendii nevosi ema che vuoi
raccontare povere bestie. I graduati erano gli unici ad avere
sempre energie perch quelli, sotto sotto, la panza si che se la
riempivano. Se qualcuno non reggeva la fatica, capace pure che
ti lasciavano l a morire in nome della patria.

Solo quando cadeva un mulo ne approfittavano per stramazzare


a terr a riposare, ma appena il mulo era di nuovo a posto il
comandante urlava: avanti soldati!! presto la terra che state
calpestando sar vostra, e via! tutti in piedi rinvigoriti verso la
vittoria, poveri scemi. Su quelle montagne hanno lasciato tutto,
salute morti e speranza. Lunico premio, mio padre, lo ebbe nel
1974, una misera medaglietta al valore, di Vittorio Veneto.
Diceva: Sono cavaliere cavolo! Senza cavallo ma cavaliere, e
anche fortunato perch ci hanno fatti cavalieri tutti novantenni,
quando la maggior parte dei miei commilitoni sono gi belli e
morti. Era cos furioso di quella presa in giro che si mise a
chiedere lelemosina mostrando la medaglietta a tutti gli
onorevoli che uscivano da Montecitorio mica per necessit, solo
per protesta. Tantosai quanto gliene fregava a quelli, lo
fecero addirittura cacciare dallingresso. Eravamo delusi,
l Italia per noi non era una madre, era peggio di una matrigna.

La nostra patria donava sole e bellezze ai turisti e ai suoi figli


negava anche un po di lavoro. Non aveva mica detto, il
comandante a mio padre, che per avere un pezzo di quella terra
non bastava saperla conquistare ma anche sapersela prendere,
nel modo che solo certi furbacchioni sanno. In America nel
nostro dopolavoro qualcuno fond un giornale per darci notizie
fresche dallItalia. Dur solo un mese, a nessuno fregava pi un
fico secco dellItalia, della politica e dei suoi governanti. Sono
tornato in Italia nel 1970 appena andai in pensione, facevo
lidraulico. Non tornai prima perch avevo una paura fottuta
dellaereo, non lo avevo mai preso.
Un giorno mio figlio mi disse di fare i bagagli. Ma perch? Gli
chiesi. Tu non preoccuparti, mi rispose, fa i bagagli e zitto!
Andiamo in un posto.

Laeroporto me lero immaginato diversamente, invece era


proprio come una stazione, con tanta gente carica di bagagli e
laltoparlante in diverse lingue. Mio figlio mi port allimbarco
dove si vedevano gli aerei in decollo. Non pensavo di partire, ero
disorientato. Poi entrammo in un corridoio stretto e lungo. Alla
fine cerano due signorine e uno in divisa, tutti molto gentili.
Non mi ero reso conto di essere salito sullaereo sembrava
linterno di una corriera. Mio figlio mi disse: vedi questi, cosa
sono? Sono sedili, gli risposi. allora sieditisono comodi
no!. Si sono molto comodi mahemQuando mi allacci la
cintura capii che saremmo tornati in Italia. La cosa che mi fece
pi impressione non fu il volo ma di ritrovarmi in Italia in sole
otto ore. Dopo quel lunghissimo viaggio in nave nel 55 lItalia
me la figuravo lontanissima, pensavo di non tornarci mai pi,
invece la mia patria era l, ad un tiro di schioppo. Trovai lItalia
come lAmerica, stesse le strade, stesse le citt, stessi i vestiti,
stessi i supermercati. Quando oggi, entro ad un nostro
supermercato e magari vedo una famiglia di filippini o slavi, mi
fermo a guardare con piacere. I giovani Italiani non possono
neanche immaginare la felicit di quella gente che nel loro paese
non avevano nulla, mentre qui c tutto. Guardano quel ben di
Dio come fossero in paradiso, valutano i prezzi scelgono con cura
e sempre attenti a non riempire il carrello di schifezze come
facciamo noi dei paesi ricchi e sempre scontenti di tutto. Li
osservo con piacere perch anchio imparai a fare come fanno
loro, perch ero come loro quarantanni prima in un mercato di
Detroit dove la felicit, ti prego di non ridere, stava pi che
nellacquistare, nelluscire senza aver comprato nulla, tanto la
merce, in caso di bisogno, era l e i miei soldi ancora in tasca.
Intanto, pensavo tra me e me, in attesa che arrivi il bisogno, mi
faccio una bella passeggiata tranquilla verso casa, dove la mia
famiglia maspetta a cena.

ABBIAMO INTERVISTATO:

Elisabetta Seneca, Felice Colafarina, , Mario Michetti, Salvatore Colafigli,


Giovannina, Eugenio e Cesare Soldati, Pietro Trebbiani, Alfonso di Pietro, Domenico di Prospero
Gildo Vannicelli, Vincenzo Ammannito, Valerio Tiberi, Vincenzo Gianforte,
Le foto di G. Bortolotti sono state gentilmente concesse dal Consorzio della Bonifica di Latina
Le foto moderne sono state eseguite presso il Parco Musei Piana delle Orme di Latina

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