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DE ARTE VENANDI CUM

AVIBUS
Federiciana (2005)
di Anna Laura Trombetti Budriesi
De arte venandi cum avibus
Il trattato De arte venandi cum avibus, relativo
alla caccia praticata con l'ausilio di uccelli
rapaci, compilato da Federico II nel corso di
circa un trentennio rimasto verosimilmente
incompiuto a causa della morte dell'imperatore
, unanimemente riconosciuto quale una
delle opere scientifiche pi significative del
periodo che abitualmente viene definito
Medioevo.
Poich si tratta dell'unica opera redatta
personalmente dal sovrano, essa si configura
quale fonte di straordinaria rilevanza da pi
punti di vista: testimone, oltrech della
passione totalizzante che egli nutr per
l'ars della caccia con i rapaci, elevata a
filosofia di vita, della sua profonda cultura
naturalistica, dell'ansia di conoscere ea que
sunt sicut sunt, dell'inesauribile desiderio di

misurarsi con una disciplina teorica e pratica di


estrema complessit, quasi uno specchio
dell'attivit politica al vertice dell'Impero, l'ars
venandi cum avibus fridericiana poco ha in
comune con le tradizionali pratiche venatorie,
alle quali sovrani e aristocrazie, in Oriente
come in Occidente, dedicavano e avrebbero
dedicato per molti secoli ancora gran parte
degli spazi lasciati liberi dalle attivit di
governo e da quelle militari. Manifestazioni di
coraggio personale, di abilit, di sprezzo del
pericolo, le cacce dei sovrani che affrontavano
personalmente e all'arma bianca il bersaglio
grosso (cinghiali, orsi, uri, ecc.) erano lo
specchio delle loro virt militari, un'altra faccia
della guerra; in seguito lo furono di differenti
caratteristiche connesse con l'immagine che
dell'esercizio del potere re e principi intesero
trasmettere. Strettamente correlata
all'esaltazione dell'astuzia e della destrezza, la
caccia al cervo con l'arco divenne una moda
sempre pi diffusa tra le aristocrazie nei secoli
centrali del Medioevo, in quanto sinonimo di
intelligenza piuttosto che di forza e dunque

esercizio pi adeguato per sovrani che


intendevano dare di s l'immagine del re
saggio. Le cacce dei re si trasformarono in
seguito in momenti di esibizione della
magnificenza degli apparati delle corti
divenendo prevalentemente lussuose
escursioni nelle grandi riserve popolate di
selvaggina, esibizioni compiaciute, soprattutto
in presenza di ospiti di alto rango, di superbe
mute di cani, di sapienti capicaccia, di
cacciatori provetti.
Nel panorama delle cacce principesche di tutti
i tempi l'ars venandi fridericiana si staglia
come un unicum, in quanto s attivit
venatoria di grande impatto, ma prin
cipalmente una modalit intellettuale
complessa attraverso la quale l'imperatore, il
Gran Falconiere, si esprime grazie a un
personalissimo modo di rapportarsi con i
rapaci, con le prede, con il territorio in cui
esercita l'ars e che risponde a una finalit
profonda, certamente non conclusa entro
l'orizzonte venatorio: cacciare, per Federico II,
equivale a conoscere la natura per dominarla

da falconiere e, al tempo stesso, da scienziato


e da imperatore.
Il trattato, composto in un limpido latino, si
giova dell'uso sapiente di una terminologia,
come afferma l'autore, da lui stesso sovente
coniata per sopperire ai vuoti di un lessico
tecnico ancora in parte da definire:
"Quest'arte, infatti, possiede come tutte un
proprio lessico; e quando Noi non abbiamo
saputo trovare nella lingua latina i termini
appropriati ad ogni situazione, ci siamo serviti
di quelli che Ci sono sembrati esser pi vicini a
fare comprendere il nostro pensiero" (De arte
venandi, 2000, p. 5).
Quando il giovane Federico, secondo il
costume dei re, venne addestrato anche alla
caccia, a ogni genere di caccia, certo apprese
la falconeria e l'astoreria, cio la caccia 'di alto
volo' e quella 'di basso volo' (i falconidi
attaccano la preda dall'alto, in picchiata, gli
astoridi in linea retta, volando bassi), dagli
esperti, soprattutto arabi, che risiedevano alla
corte di Palermo, ove questo svago era molto
in voga e dove i sovrani normanni avevano

commissionato alcuni fra i pi importanti


trattati di falconeria redatti nel sec. XII (quali
il Dancus rex, il Guillelmus falconarius, e
probabilmente il Gerardusfalconarius).
Federico II ebbe dunque modo di conoscere
teoria e pratica della falconeria e, come
osserva nel Prologo dell'opera, valut, allorch
ne progett la stesura, le profonde lacune dei
trattati che egli conosceva fin da giovane,
muovendosi con l'intenzione non solo di
integrarle, ma di elevare quel tipo di caccia dal
rango di ars mechanica a quello di
un'ars senza aggettivi, ove teoria e pratica
trovassero un necessario, perfetto equilibrio.
"Ad affrontare (la compilazione di)
quest'opera, chiarissimo M.E., ci ha indotto la
tua pressante sollecitazione, il desiderio di
correggere gli errori circa il presente oggetto
(la falconeria) dei molti che praticano
quest'arte in modo improprio, senza
possederne i fondamenti, seguendo taluni testi
erronei e lacunosi, e l'intento di tramandare ai
posteri una trattazione sistematica della
materia di questo trattato []" (ibid., p. 3).

Questa la sfida che pose a se stesso e che


propose al suo nobile pubblico, esortandolo
con una modestia di maniera a fare meglio di
quanto egli stesso nel trentennale lavoro
aveva potuto fare: "Il fatto che, nonostante che
le opere e gli autori siano molto numerosi,
pochi siano i trattati intorno a quest'arte, sta a
significare che si tratta di un'arte assai
complessa e non ancora sistemata.
Aggiungiamo che, se alcuni nobili, meno
occupati di Noi, vorranno attendere con
impegno a quest'arte, con l'ausilio di questo
trattato ne potranno comporre uno migliore,
dal momento che, continuamente, si
evidenziano nuovi e complessi problemi circa
tutto ci che concerne quest'arte. Chiediamo,
poi, ad ogni nobile lettore che debba rivolgersi
a questo libro fondandosi sulla sua sola
nobilt, che lo faccia leggere e esaminare da
qualche esperto di scienze, portando
indulgenza per le cose meno ben dette" (ibid.,
p. 5).
Dell'arte di cacciare con gli uccelli rapaci,
Federico sub dunque per tutta la vita il

fascino, arrivando a praticare quasi


esclusivamente la falconeria. La consider la
pi nobile tra le venationes, come afferma
nel Prologo al libro I del trattato (ibid., pp.
6-11) e per praticarla impegn notevolissimi
capitali: per procurarsi ovunque i migliori
rapaci; per mantenere falconieri in grado di
allevare, addestrare e curare i rapaci; per
costruire dimore per gli uni e per gli altri, e per
s residenze di caccia e relative riserve
soprattutto nelle zone umide della Capitanata;
per far viaggiare falconieri e rapaci che
necessitano di particolare attenzione nel
trasporto ovunque si spostasse anche con
l'esercito. Stava cacciando con i falchi insieme
agli uomini del seguito e al giovane Manfredi
quando l'accampamento di Vittoria fu
saccheggiato dai parmensi nel 1248. Della
totalizzante passione per la falconeria sono
testimoni i numerosissimi mandati relativi a
falchi e falconieri contenuti nell'unico registro
superstite della sua cancelleria (1239-1240).
La perdita di tutti gli altri registri della
cancelleria ci priva di notizie anche per questo

importante aspetto della vita dell'imperatore e


della corte siciliana.
Preliminare ad ogni considerazione un
cenno alla tradizione manoscritta del trattato.
Il De arte venandi cum avibus ci pervenuto
in due redazioni, denominate dalla critica
redazione "breve" e redazione "lunga",
ascrivibili a due dei figli di Federico II,
rispettivamente Manfredi ed Enzo. Della
redazione "breve", che comprende i due libri
iniziali dell'opera, di cui restano in tutto sei libri,
possediamo due soli testimoni: il ms. R (il Pal.
Lat. 1071 della Biblioteca Apostolica
Vaticana), databile alla seconda met del sec.
XIII, ornato di pregevoli miniature che si
devono alla cura di re Manfredi, e una sua
copia assai tarda (della fine del sec. XVI), il
ms. W (Vienna, sterreichische
Nationalbibliothek, ms. 10948).
Il ms. R fu fatto eseguire da Manfredi che vi si
fece effigiare in una delle prime miniature e
che in questo manoscritto e nella sue copie
risulta anche il petitor dell'opera. Il re anche
l'autore di dodici brevi aggiunte al testo,

precedute dall'appellativo rex o rex Manfridus.


La redazione del manoscritto dunque
ascrivibile agli anni in cui lo stesso Manfredi fu
re di Sicilia (1258-1266).
Il manoscritto accompagn verosimilmente il
suo possessore durante le infauste imprese
militari nelle quali fu coinvolto: ci potrebbe
spiegare la precoce perdita di tre fascicoli, le
lacerazioni nelle prime carte e le vistose
macchie di umidit che ne deteriorano le prime
trentacinque. Esso cadde probabilmente nelle
mani del nemico a Benevento, il 26 febbraio
1266, giorno fatale per l'erede di Federico. Agli
inizi del secolo successivo risulta, infatti,
appartenere al signore francese Giovanni II di
Dampierre e di Saint-Dizier, i cui parenti erano
stati a Benevento con Carlo d'Angi.
Appassionato di falconeria, Giovanni ne
dispose una traduzione in antico francese che
fu completata, dopo la sua morte, dal figlio
Guglielmo, che la fece corredare, sulla
falsariga del manoscritto manfrediano, da uno
splendido apparato di miniature di mano del
maestro Simon d'Orliens.

Successivamente il manoscritto testimoniato


in Germania. Nel 1594 apparteneva a un noto
medico naturalista di Norimberga, Joachim
Kammermeister (Camerarius) che se ne priv
per due anni al fine di permettere a Markus
Welser di curarne un'edizione a stampa: nel
1596 essa vide la luce ad Augusta dall'editrice
"ad insigne pinus" diretta da Welser e David
Hschel: l'editio princepsdel trattato
(redazione "breve"). Pochi anni dopo il
prezioso codice entr a far parte,
a Heidelberg, della biblioteca dei principi
elettori del Palatinato, verosimilmente per il
tramite di Ludwig, figlio di Joachim
Camerarius, per molti anni al loro servizio.
Infine, dopo la conquista e il saccheggio della
citt di Heidelberg da parte del conte di Tilly
(1622), fu donato, insieme a tutta la Biblioteca
palatina, dal duca Massimiliano di Baviera a
papa Gregorio XV.
Da una delle addizioni di Manfredi all'opera
paterna possibile evincere dati assai
importanti circa lo stato di completamento
delDe arte venandi alla morte dell'imperatore.

Nella sesta addizione, che si situa all'inizio del


libro II, introdotto, come il I, da
unPrologo assai articolato, Manfredi dichiara
di avere tra le mani una parte dell'opera
paterna che presenta lacune ed errori; egli si
industria allora di colmarli e correggerli
ricorrendo a carte paterne che fatica a trovare
e, tra l'altro, scrive: "IL RE. [] mentre
stavamo cercando quaderni e annotazioni di
quest'opera, perch avevamo riscontrato che
aveva bisogno di essere corretta, a causa di
errori dello scriba, abbiamo trovato in alcune
carte un capitolo intitolato: 'Il piumaggio dei
falchi'" (De arte venandi, 2000 pp.
1138-1139).
Manfredi dunque corresse gli errori riscontrati
nel testo paterno di cui disponeva, colm le
lacune attraverso gli appunti del padre.
Tuttavia, a proposito del suo intervento
sull'opera, restano aperti molti interrogativi.
Perch fece ricopiare solo i primi due libri
dell'opera? disponeva solo di quelli o aveva
sottomano anche il resto del trattato? e, nella
seconda e pi verosimile ipotesi, quanto

esteso era quel 'resto'? Alcune risposte,


seppure parziali, possono essere fornite da un
altro testimone pressoch coevo, il ms. B,
databile anch'esso alla seconda met del sec.
XIII e conservato alla Biblioteca Universitaria
di Bologna (Lat. 717). Si tratta del pi antico
codice della redazione "lunga" del trattato.
Edito di recente da chi scrive (l'edizione
contiene la collazione con il Pal. Lat.1071 della
Vaticana), ascrivibile alle cure di un altro dei
figli di Federico II, Enzo re di Sardegna. Nella
storia della tradizione testuale dell'opera
fridericiana, l'intervento di Enzo, gi legatus
totius Italie, sul testo paterno di grande
significato e ha consentito, in questi ultimissimi
anni, di approfondire un tema fino a oggi
trascurato: l'influenza culturale esercitata dal
figlio dell'imperatore, prigioniero per ventitr
anni a Bologna, sull'ambiente variegato e
complesso della citt e dello Studium, dove
poeti, uomini di legge e intellettuali potevano
frequentare l'illustre prigioniero che si era
formato alla poliedrica corte paterna. A
Bologna, dove la reclusione non gli imped di

avere contatti con l'esterno, Enzo aveva fatto


venire, attraverso gli amici cremonesi, i suoi
libri, i suoi appunti, le sue sostanze: risale ai
primissimi anni della sua detenzione l'incarico
affidato a Daniel Deloc, cremonese, di tradurre
dal latino in francese il trattato di falconeria
noto come Moamin che suo padre,
l'imperatore Federico II, aveva fatto tradurre
(collaborando egli stesso all'operazione)
dall'arabo al latino da Teodoro di Antiochia nei
primi anni Quaranta del Duecento.
Il ms. 'enziano', redatto in una
chiara littera bononiensis, articolato in sei
libri: i primi due ricalcano, con differenze non
sostanziali, i due del manoscritto manfrediano
che appare pi corretto, dal punto di vista
ortografico, di quello bolognese. Alcune
pregevoli miniature e bei fregi ornano le iniziali
di ciascun libro: sono certamente da
considerare ritratti dell'imperatore le figure a
cavallo delle cc. 1r, 2v e 125r; resta il dubbio
se si possa ravvisare Enzo nel giovane
aristocratico della c. 35r. Quanto al petitor, che
nel Prologo del manoscritto manfrediano lo

stesso Manfredi (egli am farsi chiamare dal


padre "Manfredi, figlio carissimo"), nel
manoscritto bolognese esso indicato con le
iniziali "M.E". Probabilmente il petitor
"magister Encius", il gran maestro falconiere
della corte fridericiana, elemento di spicco tra i
collaboratori dell'imperatore. Il manoscritto
bolognese e le sue copie restituiscono un
trattato articolato in sei libri che tuttavia,
stando a quanto previsto nei due proemi (ai
libri I e II), non contiene tutto quanto
l'imperatore dichiara di voler trattare: non vi
sono cenni all'astoreria, non all'addestramento
dei cani, manca del tutto un elemento che
caratterizzava la precedente trattatistica: le
cure per i rapaci, che egli dice di volere
affrontare. C'erano tra i fogli paterni di cui
parla Manfredi nella succitata addizione anche
appunti su queste materie? o magari
addirittura capitoli completi? Il problema resta
aperto in quanto esso non trova soluzione
neppure nella redazione "lunga" del trattato.
Se si confronta l'apparato iconografico del
manoscritto bolognese, che consta solo di

sette miniature, con quello del manoscritto


vaticano, non si pu non paragonare la
diversa fortuna dei due figli-diffusori dell'opera
paterna: l'uno re di Sicilia, l'altro detenuto. Le
precarie condizioni di prigioniero, seppure di
rango, gli impedirono di far corredare il
manoscritto da un adeguato apparato
illustrativo, quale egli forse aveva visto ornare
le pagine del 'secondo' Falkenbuch (v. infra)
paterno o forse la copia imperiale delDe arte
venandi, completata o no che fosse nel
maggio 1249, data della cattura di Enzo che
precedette di un anno e mezzo circa la morte
di Federico II. Enzo fece redigere un
testamento nel quale affidava i suoi libri ad
alcuni amici bolognesi: dunque verosimile
che il manoscritto non si sia mai allontanato da
Bologna, dove Enzo mor in povert.
Nell'introduzione all'edizione del ms. Lat. 717
della Biblioteca Universitaria di Bologna,
collazionato per i primi due libri con il Pal.
Lat. 1071 della Vaticana, si ridimensionato,
accettando e rafforzando le ipotesi fortemente
circostanziate di J. Fried, il peso chela critica,

a partire da C.A. Willemsen fino a B. van den


Abeele, ha attribuito a una fonte significativa
per chi abbia riflettuto sulla tradizione testuale
del De arte venandi fridericiano: la lettera
attraverso cui il mercante milanese "Bottatius"
offriva a Carlo d'Angi un manoscritto che gli
era stato venduto dopo il saccheggio
dell'accampamento imperiale di Vittoria. Egli lo
descrive con dovizia di particolari, definendolo
"nobilis liber" in due volumi "argenti decore
artificiose politus, et imperatorie maiestatis
effigie decoratus []"; lo dice appartenuto al
defunto imperatore Federico e osserva che
l'opera, per "compositam capitulorum
distinctionem docet ancipitrum, falconum,
ierofalconum, asturum, et ceterarum nobilium
avium et canum omnium cognitionem,
nutrituram, erudutionem, et eorum omnium
infirmitates et earum causas, signa et
curationes similiter earumdem; illic etiam
ostenditur quomodo si quis ab aucupe fugerit
possit et debeat mirabiliter rehaberi;
venationes insuper describit et quomodo
versari venator se debeat ad perfectionem

artis venatorie []" (edita da C.H.


Haskins, The 'De arte venandi cum avibus' of
the Emperor Frederick II, "English Historical
Review", 36, 1921, pp. 334-355).
A lungo si creduto che questa descrizione
fosse riferita alla copia imperiale perduta
del De arte venandi cum avibus. invece
assai pi probabile che il mercante milanese
descrivesse un altro Falkenbuch appartenuto
a Federico II, un'opera miscellanea composta
dal Moamin latino, libri I-III (ossia i libri sugli
uccelli da caccia), a cui seguivano due brevi
trattati di falconeria compilati in ambito
normanno siciliano, il Dancus rex e
il Guillelmus falconarius, quindi il Moamin, libri
IV-V (ossia i libri sui cani), in conclusione il
trattato di Guicennas sulla caccia, il De arte
bersandi, compilato presso la corte
fridericiana. L'opera offerta dal mercante
all'Angi si configurerebbe come una
miscellanea di testi sulla falconeria il cui
contenuto collima perfettamente con la
descrizione compilata dal mercante, mentre
non collima per molti aspetti con il De arte

venandi fatta confezionare dall'imperatore;


egli stesso ne fu in parte ispiratore, in parte
artefice (importante fu la sua collaborazione
con Teodoro di Antiochia nella traduzione
dall'arabo del Moamin). Quest'opera e non
il De arte venandi dovette essere quella offerta
da "Bottatius" all'Angi: di essa c' un
testimone importante, il ms. Lat. 368 (1459)
del Muse Cond di Chantilly: un codice
miniato che reca a margine dei testi sopra
descritti, nell'ordine in cui sono stati presentati,
miniature marginali di falchi, cani, ghepardi,
un'opera che collima con il codice trafugato a
Vittoria tanto da fare pensare che, se non
fosse di secoli pi 'giovane', potrebbe essere
proprio quel pregevole manoscritto.
Del ms. B. restano quattro copie complete e
una parziale. Anche la traduzione francese del
trattato ebbe una certa fortuna: se ne
conoscono cinque copie.
Questa, in estrema sintesi, la materia
contenuta nel trattato, articolato in sei libri. Il
libro I un trattato di ornitologia ove vengono

classificati, secondo il metodo aristotelico, ma


con alcune ben evidenziate correzioni, gli
uccelli, suddivisi in acquatici, terrestri e
intermedi, in rapaci e non rapaci, e se ne
illustrano le qualit specifiche. Si tratta poi
delle migrazioni, quindi delle loro
caratteristiche biologiche e morfologiche:
accoppiamento, nidificazione, deposizione
delle uova, cova, allevamento dei pulcini; si
descrivono gli organi esterni e interni delle
varie specie, con particolare attenzione alle ali;
quindi si tratta del piumaggio e delle
particolarit del volo. Il libro II (che reca, nel
ms. R, un differente inizio rispetto al ms. B,
ove si tratta di rapaci, abitudini, comportamenti
e caratteristiche morfologiche delle varie
specie) dedicato alla falconeria e si apre con
la descrizione delle attrezzature che occorrono
per esercitare l'arte; si tratta poi delle modalit
della cattura dei falchi e della loro nutrizione; si
descrive il procedimento della cigliatura
(ovvero della cucitura delle palpebre per
renderli pi docili), dell'ugnatura, e ci si
sofferma sull'impiego degli attrezzi

indispensabili all'addestramento. Si indicano


quindi le caratteristiche fisiche e psicologiche
del perfetto falconiere e si forniscono consigli
sull'addestramento del falco senza cappuccio.
Il libro III si apre con una minuziosissima
descrizione delle complesse fasi
dell'addestramento del falco al logoro, sia a
piedi, sia a cavallo, quindi alla traina, e si
chiude con notazioni sull'addestramento
dei cani da caccia. Il libro IV dedicato
prevalentemente alle modalit della caccia alla
gru con il girifalco, il grande falco bianco del
Nord Europa. Il libro V incentrato
sull'addestramento del falco sacro alla caccia
all'airone. Il libro VI concerne la caccia agli
uccelli acquatici anatre e simili con il falco
pellegrino.
Soprattutto i libri III-VI si caratterizzano per la
descrizione minuziosa di tutte le fasi
dell'addestramento e della caccia. come se
si aprisse dinanzi al lettore uno schermo
cinematografico dove viene proiettato un
lungometraggio girato 'in tempo reale', ove
nessun passaggio, dalla cattura al trasporto,

dall'addestramento alla caccia, viene dato per


sottinteso: uno scenario che si apre sui vari
terreni di caccia, quelli pianeggianti e quelli
umidi, inquadrati nelle varie stagioni e nelle
differenti condizioni climatiche, con il vento e
senza il vento, con i venti favorevoli e con
quelli contrari, e che ha quali protagonisti i
falchi (girifalchi, pellegrini e sacri, coadiuvati
dai levrieri) e gli esperti falconieri, i quali
compiono, con un rigore matematico, le
operazioni necessarie a fare confluire un lungo
e paziente lavoro, che inizia dalla cattura del
falco, nell'istante magico in cui il rapace, che
scende in picchiata a una velocit che arriva a
sfiorare i 500 km orari, cattura la preda e la fa
piombare a terra dopo averla uccisa o ferita a
morte.
Tutti falchi, cani, falconieri sono diretti da
un grande regista, l'imperatore Federico II che
conosce fin nelle pieghe pi nascoste i segreti
dell'ars venandi, cos come conosce l'arte di
governare gli stati e i popoli che gli sono stati
affidati da Dio.

Volendo considerare la fortuna del trattato


ricordiamo che otto manoscritti latini e cinque
francesi tramandano le due redazioni del
trattato ("breve" e "lunga"): numero certamente
non trascurabile di testimoni che, tuttavia,
risulta esiguo se posto in relazione con quello
di trattati anteriori quali il De cura accipitrum di
Adelardo di Bath, l'anonima Epistola Aquile,
Symachi et Theodotionis ad Ptolomeum,
ovvero il gi ricordato Dancus rex, di cui
restano sedici manoscritti latini e versioni in
sei lingue.
Se il trattato fridericiano fu effettivamente
copiato pi volte, va sottolineato come la sua
influenza fu scarsissima per non dire nulla
sulla trattatistica relativa alla caccia con il falco
delle et successive: l'opera dell'imperatore
non risulta mai citata nei trattati latini di
falconeria posteriori, neanche in quelli
francesi: ci non pu non meravigliare, atteso
che esso fu tradotto in quella lingua e certo
esemplato in non pochi manoscritti, cinque dei
quali sono pervenuti al nostro tempo.

Anche in Italia il De arte venandi risulta essere


caduto nel pi completo oblio: non ne vennero
fatti volgarizzamenti, neppure parziali, e, come
accadde per l'ambito francese, dove la
falconeria era, come in Italia, assai in voga,
tutti i trattati di falconeria redatti durante il
Basso Medioevo e fino a tutto il sec. XVI non
ne fanno menzione. Ricordiamo tra i tanti
l'anonimo Trattato del governo delle malattie e
guarigioni de' falconi astori e sparvieri,
i Ruralium commodorumlibri XII del bolognese
Pier de' Crescenzi, che dedica un libro alla
falconeria, i Tre Libri de gli Uccelli da rapina di
Francesco Sforzino da Carcano, stampato
a Venezia nel 1568. Unica, ma tarda
eccezione, l'Ornithologia di Ulisse Aldrovandi,
illustre scienziato bolognese (1522-1605) che
riporta ampi passi dell'opera fridericiana e che,
assai verosimilmente, pot avere tra le mani
l'edizione welseriana del trattato attraverso
l'amico umanista che ne fu l'ispiratore,
Joachim Camerarius (il gi ricordato
possessore del manoscritto manfrediano che
studi e si laure a Bologna in medicina, nel

1562, sotto la guida di Aldrovandi, con cui


rimase in contatto anche dopo il suo ritorno in
Germania).
Si pu dunque parlare di plurisecolare
isolamento del trattato il cui grande valore
scientifico, la ricchezza di osservazione, la
chiarezza di dettato, la capacit di
sistemazione di una materia cos vasta, senza
l'ausilio di modelli in alcun modo paragonabili
cui potersi ispirare, sono oggi universalmente
riconosciuti dagli specialisti: dagli esperti di
falconeria, agli zoologi, agli etologi. In molte
osservazioni circa la migrazione degli uccelli
Federico II stato superato solo nel secolo
scorso da Konrad Lorenz.
Forse la causa principale del silenzio dei
contemporanei e dei posteri sta in quella che il
filologo svedese Lindner defin: "la tragedia
della monumentalit", e a buona ragione: a
eccezione del solo Maomin latino che tuttavia
non , quanto a dimensioni, assolutamente
paragonabile con la versione "lunga" del
trattato fridericiano, il De arte

venandi s'impone su tutta la trattatistica


precedente e posteriore per la sua ampiezza,
ma, ancor pi, per il suo essere espressione
limpida di un pensiero ove, rispetto alla
tradizione sovente in contrasto con essa,
seppure entro i confini di un sapere
profondamente radicato nelle conoscenze del
tempo , domina, prepotente, il gusto della
sperimentazione, dell'osservazione e
dell'esperienza diretta. Impossibile per altri
autori confrontarsi con un'opera che non si
esita a definire 'imperiale', frutto di una visione
complessiva dell'universo sublunare, di una
straordinaria ed originalissima competenza
teorico-pratica; opera che un ibrido in quanto
unisce il metodo classificatorio dellanaturalis
scientia con una parte pratica estremamente
diffusa.
Nel lungo destino di isolamento del De arte
venandicum avibus non difficile scorgere
il Leitmotiv che caratterizz l'agire complessivo
dell'imperatore: l'aver pensato in grande nella
politica, nella legislazione, come nell'opera
scientifica, fu a un tempo il segno forte della

sua personalit e la causa dei molti insuccessi


nell'immediato della sua azione di sovrano, re
e imperatore. Pensare in grande signific
anche correre il rischio di lasciar molto di
incompiuto, e la vita, che Federico II si
augurava di avere sufficientemente lunga per
trattare di altri argomenti di caccia, non fu
troppo generosa con lui. La morte prematura
interruppe quasi certamente la stesura del
trattato: incompiuto lo trov Manfredi, che
rispettosamente intervenne sul testo
lasciandoci la straordinaria testimonianza di un
codice miniato tra i pi noti e forse tra i pi
amati del nostro Medioevo; incompiuto lo
dovette trovare anche Enzo che lo ebbe
compagno nella lunga prigionia
bolognese.FONTI E BIBLIOGRAFIA
Sulla tradizione manoscritta, le edizioni, le
traduzioni, i facsimili, l'ampia bibliografia:
C.A. Willemsen, ber die Kunst mit Vgeln zu
jagen. Kommentar zur latienischen und
deutschen Ausgabe, Frankfurt a.M. 1970; De
arte venandi cum avibus. L'art de la chace des
oisiaus. Facsimile ed edizione critica del

manoscritto fr. 12400 della Bibliothque


Nationale de France, a cura di L. Minervini,
Napoli 1995; De arte venandi cum avibus.
L'arte di cacciare con gli uccelli. Edizione e
traduzione italiana del ms. lat. 717 della
Biblioteca Universitaria di Bologna collazionato
con il ms. 1071 della Biblioteca Apostolica
Vaticana, a cura di A.L. Trombetti Budriesi,
Roma-Bari 2000; 'L'art de chasser avec les
oiseaux', le trait de fauconnerie 'De arte
venandi cum avibus', a cura di A. Paulus-B.
van den Abeele, Nogent-le-Roi 2000; sul
'secondo' Falkenbuch di Federico II e sulla
redazione 'enziana': J. Fried, Kaiser Friedrich
II. als Jger, oder, Ein zweites Falkenbuch
Kaiser Friedrichs II.?, "Nachrichten der
Akademie der Wissenschaften in Gttingen. I,
Philologisch-Historische Klasse", 1996, nr. 4;
Id., 'correptus est per ipsum imperatorem'.
Das zweite Falkenbuch Friedrichs II.,
inMittelalterliche Texte. berlieferungBefunde-Deutungen, a cura di R.
Schieffer, Hannover 1996, pp. 93-124;
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