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Questo scritto è stato pubblicato sulla rivista Persone & Conoscenze, 29, aprile 2007. Sul web è reperibile
all’indirizzo www.bloom.it.
I romanzi sono piacevoli avvicinamenti alla conoscenza. Ma sono interessanti per noi anche in
quanto sistemi che connettono, reti. Ragionando attorno ai romanzi, per esempio, costruiamo
esperienza utile per implementare, in azienda, sistemi di Knowledge Management.
Non riflettiamo abbastanza, forse, su come siamo condizionati, nei nostri processi di
organizzazione della conoscenza, dalla forma-libro: una organizzazione sequenziale, un sistema
chiuso.
Il bello è che la stessa letteratura che giunge a noi chiusa nella forma-libro, ci mostra un altro
mondo, un'altra possibilità.2
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Vladimir Nabokov, Pale fire, New York, 1962; trad. it. Fuoco pallido, Adelphi.
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Georges Perec, La Vie mode d'emploi, 1978; trad. it. La vita, istruzioni per l’uso, Rizzoli, 1984
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“Computers in the '60s were giant machines, accessible to amateurs mainly in university computer centers, where
students could divert themselves from their science homework with primitive question-and-answer games. But the
trend toward smaller and faster digital tools was already apparent to insiders, some of whom wondered how
computers could handle basic, personal information tasks, such as editing a term paper. In 1969, Nelson was
hanging around Brown University, where an early word-processing tool was under development. The Brown project
focused on a system that would output paper, but Nelson believed that paper was hopelessly retrograde and that the
native territory of hypertext was on the screen, not the page. Later that year, Nelson got permission from the
publishers of Vladimir Nabokov's Pale Fire to use the elaborately annotated parody in a hypertext demonstration.
The idea, like most of Nelson's contributions, was rejected by the sponsors of the Brown experiment. Nelson was
bitter over the obstruction of his work. ‘Thus progress must wait,’ he later wrote, ‘for the halt and lame to catch
up.’” (Gary Wolf , The Curse of Xanadu, Wired, 3.06. Jun 1995).
E finalmente Cortázar e la sua Rayeula
Possiamo dunque immaginare come viene a noi Rayuela,10 il romanzo dello scrittore argentino Julio
Cortázar. Il romanzo che, meglio di ogni altro, mi sembra rispondere al modello emergente di
romanzo–ipertesto, iper-romanzo: il romanzo che guadagna ad essere scritto (o riscritto) con un
computer, il romanzo che guadagna ad essere letto (o riletto) con un computer.
Cortázar, definita una prima traccia di personaggi (Oliveira, Traveler, la Maga, Talita, i membri del
Club de la Serpiente) e di trama (il lado de acá. il lado de allá, l'otro lado), scrive liberamente senza
costrizioni sequenziali. Procedendo per associazioni libere, ‘per accumulazione’, per appunti sparsi.
Con la consapevolezza che per vie più o meno evidenti il frutto della scrittura ha un senso nella
costruzione del romanzo.
Cortázar si trova di fronte, in ordine causale, ciò che è potenzialmente, ciò che sarà Rayuela. A
partire da questo materiale sin armar deve dare forma al romanzo. Ora l’autore ha a disposizione,
immaginiamo, una massa di appunti. L’ordine apparente, il fatto che gli appunti siano scritti in
sequenza in un quaderno, un brogliaccio, deve essere vissuto come insignificante, o anzi fuorviante.
Il contenuto c’è, ma è una galassia senza forma, senza confini, senza inizio e senza fine. Ora, in
qualche modo, deve essere distribuito, organizzato, strutturato.
Cortázar copia a macchina gli appunti. Il testo,a questo punto, si manifesta come un insieme di
‘capitoli’ -storie, scene o riflessioni- dotati di una loro coerenza interna, ognuno occupante un certo
numero di pagine.
Cortázar sa che la disposizione degli elementi è relativa, opinabile, non necessaria. Ma sta
scrivendo un libro, e cioè lavorando alla produzione di un oggetto costituito da pagine disposte in
sequenza. Si pone allora il problema di accorpare i capitoli in nuclei omogenei.
Cortázar, avendo di fronte, e in mente, queste piccole pile di fogli che sono la manifestazione fisica
dei ‘capitoli’, procede per tentativi, per prove, guidato dal caso e dall’intuito e dai pensieri del
momento. Come mescolando e rimescolando un mazzo di carte. Senza trovare una soluzione
soddisfacente, perché i criteri attorno ai quali organizzare l’ordinamento sono molti, contradditori
tra di loro, e nessuno è risolutivo. In ogni caso, la forma, la sequenza di pagine rilegate, che avrà il
libro al termine del suo ciclo di produzione è solo una delle enne possibili. (Ci ricorda Ortega:
“Ogni inizio di capitolo è pieno di numeri, cancellature, note”).
Cortázar, allora, elimina il vincolo. Smette di pensare alla forma libro. Perciò ora, avendo di fronte
le pile sparse di fogli che sono i capitoli, può ordinarli lasciandosi più liberamente guidare dal caso,
e dall’intuito e dai pensieri del momento.
Il migliore degli autori possibili, in questa accezione, è l’autore che rinuncia ad essere tale. Che non
si preoccupa di prefigurare e di chiudere, di vincolare a percorsi di lettura. E se la gioca invece
nell’aprire piste, nel creare possibilità, nell’accettare che nessun testo potrà mai essere concluso.
La stanza dei giochi sarà veramente attraente se vi si potranno giocare giochi che il genitore
considera indebiti o pericolosi.
Diciamo dunque grazie a Cortázar per aver lasciato aperta, consapevolmente o no non importa,
anche questa pista di lettura.
Il nuovo romanzo: costruito come una base dati destrutturata, o più modestamente un baule,
contenente materiali giudicati dall'autore omogenei, tutti funzionali a produrre un ‘effetto estetico’,
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Julio Cortázar, Rayuela, Sudamericana, Buenos Aires, 1963. Traduzioni: Il gioco del mondo, Einaudi, Torino;
Marelle, Gallimard, Paris, 1966; Hopscotch, Pantheon Books, New York, 1966; Rayeula. Himmel und Hölle, Suhrkamp,
1981; O Jógo da Amarelinha, Rio de Janeiro, Civilização Brasileira, 1970.
un fascio di emozioni. Il romanzo come galassia senza forma.