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GIORGIO BASSANI

Il romanzo di Ferrara
Secondo Libro

Dentro le mura

CINQUE STORIE
FERRARESI

Premio Strega 1956.

Indice
Il romanzo di Ferrara............................................................................................................................1
CINQUE STORIE FERRARESI..........................................................................................................1
Dalida Mantovani.................................................................................................................................3
La passeggiata prima di cena..............................................................................................................23
Una lapide in via Mazzini...................................................................................................................38
Gli ultimi anni di Clelia Trotti............................................................................................................56
Una notte del '43.................................................................................................................................80

Dalida Mantovani

Enfin, des anns entieres s'tant passes, le temps et l'absence ralentirent sa douleur et teignirent sa
passion.
La Pricesse de Clves.

Finch visse, Lida Mantovani ricord sempre il breve periodo di tempo che aveva preceduto il
parto. Ogni volta che ci ripensava, si commuoveva. Eppure, quei giorni non erano certo stati densi
di avvenimenti e di sensazioni. Era vissuta per un mese distesa in un letto, in fondo a un corridoio.
Da una finestra che dava nel giardino della Maternit, i suoi occhi si posavano sulle foglie lustre di
una grande magnolia. Era aprile: ma faceva gi caldo, e la finestra restava aperta tutto il giorno. Poi,
verso la fine, aveva perduto interesse anche per le foglie nere, come unte, della magnolia. I dolori la
assalirono con molto ritardo; non capiva n sentiva pi in modo normale. Si era ridotta ad essere
una cosa molto gonfia e insensibile (la calma che la circondava era pari a quella che aveva dentro),
abbandonata in fondo a una corsia. Non mangiava quasi pi nulla. Ma il professor Bargellesi, in
quegli anni direttore della Maternit, ripeteva che era meglio cos
La osservava dai piedi del letto.
Fa caldo. Se vuoi respirare meglio che ti tieni leggera, diceva, e intanto si lisciava con le dita
fragili e arrossate il barbone bianco, macchiato di nicotina intorno alla bocca.
Del resto mi pare che sei grassa abbastanza, aggiungeva sorridendo.
Dopo il parto il tempo riprese a passare.
In Principio, pensando a David (la feriva il ricordo della sua faccia annoiata e scontenta: non le
rivolgeva quasi mai la parola, rimaneva tutto il giorno steso sul letto, a leggere romanzi e a
dormire), Lida aveva cercato di tirare avanti da sola nella camera ammobiliata di via Mortara dove
era vissuta con lui gli ultimi sei mesi. Ma poi, di l a qualche settimana, persuasa oramai che David
non si sarebbe fatto pi vedere, accorgendosi che le poche centinaia di lire che egli le aveva lasciato
stavano per finire, e siccome, oltre a questo, cominciava a mancarle il latte da dare al bambino, ella
dovette rassegnarsi all'idea di tornare a casa, dalla madre. Cos, nell'estate di quello stesso anno,
Lida Mantovani ricomparve in via Salinguerra. Rivide la stradetta deserta che le era tanto familiare,
coi suoi muriccioli irti di pezzi di vetro, le sue casupole, il suo ciottolato mezzo ricoperto d'erba.
Rivide infine la cameraccia dal pavimento di legno polveroso e dai due letti di ferro affiancati dove
aveva trascorso la prima giovinezza.
La stanza non era che uno scantinato. (Un tempo, forse era servito da carbonaia dello stabile, che in
via Salinguerra era l'unico di una certa mole). Nonostante questo, accedervi era pi complicato del
necessario. Entrati nel portico, vasto e buio come un fienile, bisognava salire una rampa di scale
fino a un primo pianerottolo e a una porticina, superata la soglia della quale ci si trovava a sfiorare
col capo un soffitto a travicelli, sospesi improvvisamente sopra una specie di baratro. Appena Lida
entr, scorse laggi sua madre che aveva alzato il volto dal cucito. Nei suoi occhi non c'era stupore,
soltanto una interrogazione pungente.
Col bambino in braccio, essa scese adagio i gradini della scala interna, le si avvicin, quindi si
chin a baciarla sulla guancia. E il bacio, proprio come se Lida stesse rincasando dopo una assenza
di poche ore, venne tranquillamente restituito.

Si present quasi subito la questione del battesimo.


Appena la madre seppe che il bambino non era stato ancora battezzato:
Sei matta?!, esclam, facendosi un rapido segno di croce.
Mentre ella parlava, proclamando agitata che non bisognava perdere un minuto, Lida sentiva
affievolirsi dentro se stessa ogni forza di resisterle. Alla Maternit, quando erano venuti attorno al
suo letto per prendere il bambino, e le chiedevano festosi che nome intendesse dargli, era stata l idea
improvvisa di non fare nulla contro David a comandarle di dire: No, per ora non voglio. Ma
adesso pensava, perch avrebbe dovuto continuare ad avere scrupoli? A che pro' avrebbe
aspettato ancora? La sera stessa il bambino venne portato a Santa Maria in Vado. Fu la madre a
combinare tutto; fu lei a volere che si chiamasse Ireneo, in memoria di un fratello morto di cui Lida
non aveva mai saputo l'esistenza Recandosi in chiesa le due donne avevano camminato in fretta,
come se si sentissero inseguite.
Tornarono invece adagio, risalendo via Borgo di Sotto dove il gasista del Comune stava accendendo
uno dopo l altro i lampioni stradali, svuotate ad un tratto di ogni energia, senza scambiare una
parola.
L'indomani mattina ricominciarono a lavorare.
Si sedettero di fronte alla finestra, come avevano sempre fatto da quando Lida aveva finito le
elementari. La testa china sul cucito, vicine, non discorrevano che di cose indifferenti, grate l'una
all'altra del senso di riserbo che le tratteneva dal tornare su un periodo di tempo che per ragioni
diverse era stato cos doloroso per tutte e due. Si sentivano molto pi legate di prima, molto pi
amiche.
Ma entrambe sapevano bene che il loro accordo poteva durare soltanto a un patto: purch avessero
evitato di parlare dell'unico argomento su cui esso si fondava.
La pi forte tuttavia era sempre Lida. Talvolta la madre non resisteva, azzardava uno scherzo,
un'allusione ve Diceva sospirando:
Eh, gli uomini sono tutti uguali!; e perfino:
Non lo sapevi che l'uomo cacciatore?
Rialzava quindi il capo, si incantava a scrutare Lida.
Magra, affilata, limata dall'ansia e dalle privazioni come era tornata dalla sua avventura, in lei le
pareva di rivedere se stessa, quale era stata nella sua giovent Pensava al fabbro di Massa Fiscaglia
il paese dove era nata dal quale l'aveva avuta venti anni prima. Pensava alla societ paesana
che quando era rimasta incinta l'aveva rifiutata, scacciata, costretta ad emigrare in citt, in fondo
cos simile alla societ cittadina che, servitasi di sua figlia, l'aveva poi respinta come una scarpa
vecchia. Ed ecco che i capelli unti e arruffati, le grosse labbra sensuali, i gesti pieni di pigrizia
dell'unico uomo della sua vita (che amarezza era sempre stato ritrovare qualcosa di lui in Lida!),
diventavano anche di David, il figlio di signori che per tanto tempo aveva fatto l'amore con Lida
senza mai sentire il dovere di entrare in casa per fidanzarsi, e che ella non aveva mai conosciuto,
mai visto una volta sola. Oh, gli uomini erano tutti uguali, tutti cos! Ma anche lei e la figlia, che
avevano sofferto gli stessi dolori, si erano consumate per le stesse angosce, avevano subito le stesse
ingiustizie, erano finalmente uguali.
Da questi solitari vaneggiamenti la vecchia ricavava una strana allegria, la invadeva una specie di
febbre. Una sera prese per mano Lida, conducendola davanti allo specchio dell'armadio.
Vedi, vedi?, diceva con voce soffocata.
Nella stanza non si udiva che il soffio della lampada a carburo. Ed esse restarono a lungo a guardare
dentro lo specchio appannato i loro visi accostati.

Naturalmente le cose non procedevano sempre tanto lisce; non sempre Lida era tranquilla, disposta
ad ascoltare senza ribattere.
Un altra sera, per esempio, la vecchia si mise a raccontare la propria storia. (Era la prima volta: l
anno precedente la cosa non sarebbe stata nemmeno concepibile!). Alla fine, concludendo, ella
pronunci una frase che ebbe il potere di far scattare in piedi Lida.
Se i suoi parenti avessero voluto, disse, lui mi avrebbe sposata.
Stesa sul letto, il volto nascosto nelle mani, Lida ripeteva mentalmente queste parole, riudiva il
sospiro pieno di rammarico che le aveva accompagnate. Non piangeva, no. E alla madre, che le era
corsa dietro, e ansimante si era chinata su di lei, ella mostr, rialzandosi, un viso asciutto, uno
sguardo pieno di disprezzo e di noia.
Del resto le sue insofferenze erano rare; e se l assalivano, l assalivano senza preavviso, come
raffiche tempestose in un giorno di bonaccia.
Una volta, sentendo la madre chiamarla col suo nome, le si rivolt contro con un riso cattivo.
Lida! anzi Lyda! E come ci tenevi, quando andavo a scuola, che lo scrivessi sui quaderni con l i
lungo! Cosa credevi che diventassi da grande: una del variet?
Ma la vecchia non rispose. Sorrideva. La sfuriata della figlia la riportava indietro a cose lontane, di
cui lei sola era in grado di valutare l'importanza. Lyda!, ripet fra s, pi volte. Pensava alla
propria giovinezza. Pensava ad Andrea, Tardozzi Andrea, il fabbro di Massa Fiscaglia che era stato
il suo amante e avrebbe potuto diventare suo marito.
Ella era venuta a stare in citt; e lui, ogni domenica, faceva sessanta chilometri in bicicletta. Trenta
per venire e trenta per tornare. Sedeva l, dove ora sedeva Lida. Le sembrava ancora di vederlo: con
la sua giubba di pelle, i suoi calzoni di fustagno, i suoi capelli spettinati! Finch una notte,
ritornando al paese, era stato sorpreso a met strada dalla pioggia, e si era ammalato di pleurite. Da
allora in poi non lo aveva pi visto. Era andato a stare a Feltre, nel Veneto: una cittadina di mezza
montagna dove aveva preso moglie e avuto figli. Se i parenti di lui avessero voluto, e se in seguito
non si fosse ammalato, egli l'avrebbe sposata di sicuro. Cosa sapeva, cosa poteva capire, Lida? Lei
sola poteva specchiarsi nella figlia, comprendere per tutte e due.
Compatire la figlia, comprenderla, perdonarla Talvolta Lida smetteva di lavorare; i suoi occhi
cercavano la finestra, il suo sguardo si perdeva oltre i vetri. E allora la vecchia osava di pi Non
bisognava disperare esclamava quasi con giubilo. Il passato era passato, inutile pensarci; e
poich il bambino c'era, bisognava tenerselo. Del resto chiss: non era figlio di un signore?
E fu veramente soltanto in grazia di questa ultima frase, che la madre aveva detto pensando a ben
altro (no, da lui non sarebbe andata mai: se per la strada avesse veduto comparire di lontano un
cappottone di panno blu col bavero di marmotta, o un impermeabile stretto alla vita; se David,
passandole accanto, le avesse sfiorato il gomito, ella avrebbe continuato a camminare abbassando la
faccia, decisa a non fare nulla per essere notata), soltanto in grazia di quella frase Lida ricord con
vivezza David, rivide il suo lungo viso di cavallo triste. Non gli avrebbe chiesto un soldo, non lo
avrebbe seccato. Cosa avrebbe potuto dirgli, o scrivergli?
Ricordava la barba di otto giorni che si era lasciato crescere.
In quella stanza di via Mortara faceva un caldo!
Egli stava continuamente a letto, dormiva, sudava, leggeva romanzi.
Dopo cena, la prima a coricarsi di solito era Lida. Ma l'altro letto, di fianco a quello dove essa e il
bambino gi dormivano (la lampada a carburo posta al centro del tavolo ancora da sparecchiare
spandeva attorno la sua luce azzurrognola), spesso rimaneva intatto fino a notte inoltrata.
Via Salinguerra una stradetta serpeggiante che comincia da un piazzale terroso, frutto di una
antica demolizione, e termina ai piedi dei bastioni comunali. Percorretela anche oggi; e l'odore di

letame, di terra arata, di stalla; lo stesso silenzio dal quale vi sentirete circondati (le campane delle
chiese di Ferrara, ascoltate da qui, hanno un suono diverso, come sperduto): tutto contribuir a darvi
l'impressione che vi troviate ben oltre la cinta delle Mura, in piena campagna. E infatti proprio
cos, in un certo senso. Perch, sebbene via Salinguerra sia compresa per l'intero suo corso dentro il
perimetro delle mura cittadine, si pu dire che la campagna cominci dai grandi orti che si stendono
oltre i rossi muretti fiancheggianti dai due lati la strada, e di cui pochi in citt, pur conoscendone
l'esistenza, sospettano l'estensione.
Muggiti di buoi, gracidii di rane, odore di erba e di strame e, la sera, il lontano scampanio
dell'Angelus. Suoni e odori arrivavano anche laggi, in fondo allo scantinato dove Lida Mantovani
e la madre lavoravano per conto di una sartoria. Esse tenevano la testa china sulle stoffe, e non
l'alzavano che per scambiare qualche parola, o per dare un'occhiata ai rari passanti: ombre fugaci
scorte di sotto in su, scarpe strascicate sui ciottoli, sguardi indifferenti, abbagliati dalla luce
meridiana.
Alle loro spalle, il tavolo, i letti, l'armadio, il buio accidioso della stanza sempre pi denso man
mano che l occhio si avvicinava al soffitto, la scala che saliva fino alla porticina di legno non
verniciato, e lass, sospesa sopra il vano della porta a un braccio di lamiera flessibile, una
campanella. La quale, essendo collegata con l'esterno per mezzo di una lunga corda la cui estremit
usciva da un foro del portone di strada, preannunciava le rare visite con squilli improvvisi,
acutissimi. Sedute di fronte alla finestra sopra due scalcagnati seggioloni di paglia, ogni tanto madre
e figlia trasalivano con violenza, si voltavano di scatto indietro.
Pass qualche anno.
Ed era da credere che molti altri ne dovessero passare cos, senza novit o cambiamenti di rilievo,
quando la vita, che sembrava essersi dimenticata di loro, a un tratto se ne ricord nella persona di un
certo Benetti, Oreste Benetti, il quale possedeva in via Salinguerra una bottega di legatore di libri, e
che esse avevano sempre conosciuto, sebbene un po' alla lontana. L improvvisa insistenza con cui
egli cominci a frequentarle la sera dopo cena, aveva un significato troppo chiaro, almeno per la
madre, perch ella non ne fosse subito elettrizzata. S, Oreste Benetti veniva per Lida Dopo tutto
Lida era giovane, molto giovane Di colpo ella si rivel viva, energica, ringiovanita. Andava e
veniva per la stanza senza quasi mai intervenire nei discorsi che Benetti e Lida facevano, paga di
trovarsi l, a sorvegliarli mentre parlavano seduti al tavolo uno di fronte all'altro, paga di attendere
in disparte che un evento meraviglioso si realizzasse Lida sosteneva la conversazione dell'ospite con
una specie di calma sommissione. Guardava la sua grossa testa, proporzionata al tronco robusto, ma
non alla piccola statura; guardava le sue lunghe mani nodose, intrecciate sulla tovaglia. Quanto al
legatore, egli risaliva volentieri indietro nel tempo. Raccontava a Lida che l'aveva veduta bambina,
alta cos. Capitava in bottega, si alzava sulle punte dei piedi per arrivare con gli occhi all'altezza
del banco.
Signor Benetti, gli chiedeva con la sua vocina sottile, me la regali un poco di carta oleata?
Volentieri, bambina: ma potrei almeno sapere a cosa ti serve?
Niente, per ricoprire il sussidiario.
Raccontava e rideva. E bench non si rivolgesse mai a nessuna delle due donne in particolare, i suoi
occhi, mentre parlava, cercavano quelli di Lida. Il consenso e l'attenzione li voleva da lei: e lei gli
rispondeva con una amabilit contegnosa, una compostezza da cui ricavava un piacere insolito, mai
provato prima di allora. Senza che se ne accorgesse, Lida si atteggiava nel modo che pi sentiva
gradito al Benetti.
Il legatore era molto compreso di s, della propria importanza: eppure, nello stesso tempo, andava
continuamente a caccia di prestigio.
Una volta, una delle poche che si rivolse direttamente alla vecchia, e la chiam col suo nome di
battesimo, Maria, fu per ricordarle l'anno in cui era venuta a stare in citt.

Era stato un anno rammentava di freddo eccezionale. I cumuli di neve sporca erano rimasti
lungo i lati delle vie fino ai primi di aprile. La temperatura si era talmente abbassata che persino il
Po aveva gelato.
Persino il Po. Vi dico: una vera Siberia!
Gli pareva ancora di vederla, diceva, la grande distesa ghiacciata. Tra gli argini, l'acqua aveva
smesso completamente di scorrere. Rammentava lo spettacolo straordinario del fiume, gli argini
coperti di neve, le case ai piedi degli argini mezzo sepolte sotto la neve. Verso sera, i biroccianti che
risiedevano nei paesi di l dal Po Occhiobello, Stienta, Fiesso Umbertiano, Garofolo, Polesella,
eccetera tornavano da Ferrara coi carri vuoti. Dalle segherie che lavoravano in mezzo ai boschi
di pioppi delle due rive, avevano trasportato in citt quintali e quintali di legna da ardere. Alcuni,
forse per scommessa, guidavano i loro carri, invece che per il ponte di ferro di Pontelagoscuro,
attraverso l'immensa lastra gelata. Avanzavano lentamente, qualche metro davanti ai cavalli,
tenendo le redini raccolte in pugno dietro la schiena. Con l'altro pugno, perch gli zoccoli non
slittassero sul ghiaccio, spargevano segatura.
Intanto fischiavano, emettendo grida gutturali. Un modo come un altro soggiungeva Oreste
per riscaldarsi e per fare coraggio a s e alle bestie.
Ricordo che quel famoso inverno, disse una sera col tono rispettoso di quando parlava delle
persone e delle cose della Religione (orfano dall'infanzia ed educato in seminario, aveva conservato
per i preti, per i preti in genere, una venerazione quasi filiale), ricordo che quel famoso inverno il
povero Don Castelli ci conduceva ogni sabato pomeriggio a Pontelagoscuro perch vedessimo il Po.
Appena fuori Porta San Benedetto rompevamo le righe e camminavamo ognuno per conto nostro
come Dio consigliava. Quattordici chilometri a piedi: non era mica il giro dell'orto! Don Castelli,
poveretto, sebbene tirasse il fiato coi denti, era sempre davanti a tutti. Non voleva mai che
prendessimo il tram, nemmeno al ritorno. Diceva che camminare fa bene alla salute, stimola
l'appetito e per questo aveva mille ragioni! A me, e intanto guardava sorridendo Lida, le
strizzava l'occhio allegramente, tra faceto e paterno, a me mi teneva sempre vicino, mi voleva bene
come un padre.
Dovevo avere la bambina, disse a questo punto Maria.
In citt mi sentivo persa, non sapevo n leggere n scrivere, e se non fosse stato per lei intanto
accennava col mento a Lida sarei scappata via subito, tornata a Massa Fiscaglia. Ma come
potevo fare? Voi sapete, Oreste, come la gente di campagna.
Un freddo cos, dopo quell'anno, non ci fu che nel diciassette, conferm Oreste: e rimase
pensieroso. Quindi, con un lampo improvviso negli occhi:
Ma no, soggiunse, anzi. Per quello che ne so io, nel diciassette il freddo fu molto meno intenso.
Faceva un caldo, da noi sul Carso! Certe cose sarebbe meglio domandarle alla gente che marcava
visita, a certi imboscati di comune conoscenza sottoline con ironia queste ultime parole
che il fronte lo vedevano soltanto in cartolina.
Raccogliendo l'allusione, la vecchia si irrigid Ma poi, pensando ad Andrea Tardozzi, il fabbro di
Massa Fiscaglia, che era stato riformato per la pleurite e non aveva fatto la guerra, si ritrov di l a
poco a farneticare intorno a lui, intorno a se stessa, intorno a tante cose che potevano essere e non
erano state. Se i parenti di lui non si fossero opposti, se egli non si fosse ammalato di polmoni, certo
l'avrebbe sposata. Nel 10 si era trasferito a Feltre, nell'alto Veneto, dove si era ammogliato. Moglie
e figli: chiss se nemmeno si ricordava di lei.
Vigliacco, vigliacco: mentre il viso si addolciva, si inteneriva, le labbra non cessavano di
muoversi.
Vigliacco, vigliacco, vigliacco, ripeteva a non finire.
L'antico insulto si era trasformato dopo tanti anni in una giaculatoria da beghina, in un bisbiglio

senza pi alcun significato.


Stabilite le distanze che gli premeva di stabilire, Oreste poteva tornare a mostrarsi cavalleresco, a
comportarsi con finezza, come del resto gli comandava la sua natura. Si era fatto da s, e ne era
fiero. Aveva avuto una giovinezza triste, le cui sole isole felici restavano, fra pochi altri, i ricordi
delle passeggiate invernali compiute coi compagni di collegio. Poi era venuto il lavoro, il mestiere,
il suo mestiere.
Noi artigiani, diceva, come se dichiarasse un titolo nobiliare. Lida ascoltava con attenzione. Ed
egli le era grato che sedesse l, davanti a lui, cos silenziosa, cos composta, cos attenta a
corrispondere al suo segreto ideale femminile.
Coi suoi discorsi Oreste faceva arrivare spesso la mezzanotte.
Parlava di una quantit di cose: di religione, di storia, di economia, lasciandosi anche andare a
frequenti amare allusioni alla politica anticattolica del governo. Nei primi tempi, senza smettere di
ascoltarlo, Lida muoveva con la punta del piede la culla dove Ireneo dorm fino a quattro anni. In
seguito, quando fu cresciuto un poco di pi, ed ebbe un letto per proprio conto (cresceva gracile:
verso i cinque anni fu colpito da una lunga malattia infettiva che lo lasci poi sempre di salute
malferma e forse influ sul suo incerto carattere), ella si alzava ogni tanto dalla seggiola, si
accostava al bambino addormentato, chinandosi a posare una mano sulla sua fronte.
Nell'estate del '28 Lida comp venticinque anni.
Una sera, mentre lei e il Benetti sedevano ai loro soliti posti, divisi come sempre dal tavolo e dalla
lampada, ad un tratto, con molta semplicit, il legatore le chiese se acconsentiva a sposarlo.
Lida trasal e lo guard.
Le pareva di vederlo per la prima volta. Soltanto adesso si accorgeva di quegli umidi occhi
nerissimi, di quella fronte bianca e alta, chiusa da un arco di capelli color grigio ferro, tagliati corti,
a spazzola, come li portano i militari e certi preti.
Chiss quanti anni ha, pens macchinalmente. Forse quarantacinque, forse cinquanta, forse
pi
Di colpo fu presa da un senso di angoscia. Voleva rispondere, ma non sapeva che cosa. In cerca di
aiuto si volse allora verso la madre, che intanto si era avvicinata; ma la smorfia patetica che gi
piegava la bocca di Maria Mantovani non fece che aumentare la sua confusione.
Cos' che hai?, le grid rabbiosa, in dialetto. Si sentiva torcere lo stomaco dal disgusto, accecare
dall'ira.
Si alz di scatto, sal di corsa la rampa interna, usc sbattendo la porta, discese dall'altra parte gi
nell'atrio.
Raggiunta infine la strada, subito alz gli occhi al cielo.
Era un magnifico stellato. Sola, in distanza, si sentiva la musica di una banda. Dalle imposte di una
casetta di fronte filtrava un tenue chiarore di luce elettrica. Lida appoggi le spalle al muro, vi ader
con tutta la schiena, e intanto guardava in alto, al cielo pieno di stelle. Attraverso il muro udiva la
voce di Oreste. Egli parlava quietamente alla madre: anche se non riusciva a distinguere le parole
che diceva, bastava la sua voce, il suono pacato della sua voce, a persuaderla alla calma, a invitarla
dolcemente a rientrare.
Quando riapparve in cima al pianerottolo era soltanto un po' pallida. Mentre scendeva la scala, il
Benetti e la madre, che durante la sua assenza non si erano mossi dalle loro seggiole, si voltarono a
guardarla col viso di chi attende una risposta. Lida si strinse leggermente nelle spalle.
And a sedersi di nuovo al suo posto; e per quella sera, come, del resto, anche per le altre che
seguirono, nessuno dei tre torn pi sull'argomento.

In realt il Benetti dimostr subito di non nutrire alcun dubbio circa il tenore della risposta che un
giorno o l'altro gli sarebbe venuta da Lida. Per lui era come se Lida avesse gi acconsentito, come
se fossero gi fidanzati.
Bisogna essere ragionevoli, sospirava. Bisogna star quieti e tirare avanti.
S, lui sapeva benissimo sembrava voler dire con chi ella aveva avuto il bambino. Sapeva
tutto. Credeva alla sincerit della passione giovanile che l aveva spinta a darsi, a perdersi,
conosceva lo strazio che gliene era derivato.
Aveva piet di lei: l'amava anche per questo. Il suo trasporto non era cos cieco, per, da impedirgli
di ricordare (e di ricordarle) che aveva commesso un grande peccato, un peccato mortale, da cui
sarebbe stata assolta solamente il giorno che egli l'avesse sposata. Quanto a lui, che cosa si era
immaginata, Lida? Si era immaginata forse che un uomo come lui, che tra l'altro, se ne rendeva ben
conto!, aveva venti anni pi di lei, potesse pensare all'amore al di fuori del matrimonio? E il
matrimonio al di fuori della religione cattolica? Un dovere, una missione: un buon cattolico non
poteva concepire la vita, e quindi anche l'amore fra uomo e donna, in modo diverso.
Nei suoi discorsi, certo, la redenzione attraverso il matrimonio cattolico era sempre implicita,
suggerita, mai espressa a chiare parole. Per riferirsi a tale idea e Lida seguiva il complicato,
tenace lavorio del cervello di Oreste senza mai reagire, come ipnotizzata gli bastava accennare
ogni tanto al passato di lei, alla sua giovinezza inquieta, randagia, alla necessit di riscattarsene con
una maturit migliore, con una vita dignitosa e serena. Seduto al tavolo fra le due donne, egli
riconduceva i loro pensieri sempre l, alla storia di Lida, una storia che col tempo appariva
sempre pi irreale e scandalosa, ma di cui, anche se era meglio non parlare, bisognava non scordarsi
un momento.
Era l che risiedeva la sua forza. Allusioni, accenni, niente altro. Per convincere Lida che lui solo,
oramai, era in grado di guidarla nella vita, nessun altro espediente gli doveva sembrare pi efficace
e perci pi legittimo di questo.
Stavano cos all'erta, avevano i nervi tanto tesi, che bastava nulla perch il precario equilibrio che
regolava i loro rapporti si spezzasse. Dopo, restavano turbati, si tenevano lunghi bronci.
Una volta, per esempio, Oreste dichiar che si sentiva veramente come il padre di Ireneo. Si era
lasciato trasportare, si era abbandonato un po' troppo.
Ma come, non sei lo zio Oreste? esclam a questo punto Ireneo, che aveva gi sette anni, e aveva
preso l'abitudine, ogni sera prima di coricarsi, di farsi correggere i compiti da lui.
Si capisce, certo. Facevo cos per dire. Che cosa ti salta in mente?
La sua confusione dava a Lida un senso preciso, assai gradito, della propria importanza. Mentre
Oreste continuava affannato a parlare al bambino, ella e la madre si guardarono e si sorrisero.
I doni, comunque, aiutavano molto a superare questi momenti di aridit e di cattiveria.
Fin da principio Oreste ne era stato prodigo. Sebbene avesse fatto capire che dopo le nozze
sarebbero andati a stare tutti e tre assieme in una casa nuova, un villino fuori Porta San Benedetto
per l acquisto del quale stava appunto trattando con una impresa di costruzioni, nonostante questo
fece montare l'impianto della luce elettrica, fece imbiancare le pareti della stanza, acquist alcuni
mobili, una stufa economica di ghisa, un quadro, vari utensili da cucina, due vasi di fiori, ecc.: come
se, pur insistendo perch Lida accettasse di sposarlo, non avesse nessuna intenzione di affrettare il
matrimonio. Era innamorato diceva in realt con questi suoi doni spesso utili, vero, ma talora
assurdi.
Se la sposava, la sposava perch l'amava. Non era mai stato fidanzato in vita sua. Da giovane,
prima, e poi da uomo maturo, non aveva mai gustato il piacere inebriante di far regali alla propria
fidanzata. Adesso che questo piacere gli era consentito, aveva ogni diritto di pretendere che le cose
non venissero fatte troppo in fretta, che tutto si svolgesse adagio, procedendo per gradi, secondo le

regole dovute.
Arrivava ogni sera alla medesima ora, alle nove e mezzo in punto.
Lida lo sentiva venire di lontano, fino dalla strada. Ed ecco la scampanellata vigorosa che lo
annunciava, ecco il suo passo tranquillo su per la scala del portico, ecco di lass, dall'alto del
pianerottolo, il suo saluto, il suo grido giocondo:
Buona sera, mie signore!
Scendeva quindi verso di loro seguitando a canticchiare fra i denti l'aria del Barbiere, per
interrompersi a met della scala con una breve tosse educata. E da quel momento in poi la stanza
era piena di lui, del piccolo uomo dai capelli grigi che aveva un po' del soldato e un po' del prete,
della sua presenza calda, viva, imperiosa.
La scena del suo arrivo era sempre la stessa, da anni non cambiava. Sebbene potesse prevederla in
ogni particolare, tutte le volte Lida si sentiva invadere da un senso di calma stupefazione.
Non si alzava nemmeno per andargli incontro.
Oh, quando una scampanellata altrettanto vigorosa significava che David, chiuso nel suo cappotto
blu dal bavero di pelliccia, battendo i piedi sui ciottoli per l'impazienza e per il freddo l aspettava
come d accordo davanti al portone di strada (mai aveva voluto entrare, mai aveva voluto conoscere
sua madre!): allora le rimaneva appena un attimo per infilarsi il soprabito, darsi un poco di cipria,
aggiustarsi i capelli davanti allo specchio dell'armadio. Non le era concesso che un attimo: ma
bastava perch nello specchio, piccola e lucida di capelli tirati sulla nuca la luce da tergo la
faceva sembrare quasi calva ella vedesse apparire e sparire, svelta svelta dietro le proprie spalle,
la testa grigia di sua madre.
Cosa vuoi, cosa cerchi?, si volgeva di scatto a gridarle.
Sai cosa ho da dirti? Ne ho abbastanza di te e di questa vita.
Usciva sbattendo la porta, e David non piaceva attendere.
Ancora fremente, aggrappata al suo braccio, si lasciava portare.
Di solito risalivano via Salinguerra. Arrivati in fondo alla strada e arrampicatisi sui bastioni (da una
parte si vedevano i lumi della citt, dall'altra si stendeva la campagna immersa nel buio),
prendevano per il sentiero che si inoltrava serpeggiando tra una doppia fila di alberi di grosso fusto.
Camminavano in fretta, senza scambiare una parola. A quell'epoca David progettava di laurearsi al
pi presto. Si era riconciliato con la famiglia: per potersene staccare pi tardi, diceva, a migliori
condizioni. Per questo, non per altro e lui ci si adattava per il bene comune bisognava che loro
due tornassero a fare un po' di attenzione, evitando, come in principio, di farsi vedere assieme.
Era necessario, anche lei doveva capirlo. Lungo quel sentiero, al piccolo cinema di Porta Reno dove
erano diretti, non li avrebbe visti nessuno degli amici e dei conoscenti di casa. Del resto non era
bello cos? L'amore in fondo, ha il suo migliore alimento nei contrasti, nei sotterfugi
Tornare a fare attenzione. Perch c'era stato un periodo di tempo anteriore a quello nell'estate
dell'anno precedente un periodo di tempo nel quale David non temeva affatto di mostrarsi in giro
con lei. Allora, a quell'epoca davvero favolosa, davvero incredibile, sembrava proprio che egli
volesse troncarla con tutto e con tutti. Studi amici, famiglia: egli doveva finirla una buona volta con
la vita noiosa e ipocrita che aveva vissuto fino a quel momento! La portava nei migliori cinema, si
sedevano di pieno giorno nei caff del centro: Non mi sei rimasta che te, sospirava. I pomeriggi
molto spesso li passavano l sui bastioni, sdraiati nell'erba come due zingari. Dormivano
abbracciati, senza pudore. Talvolta David si alzava, si accostava a un gruppo di sfaccendati intenti
in circolo a giocare d'azzardo.
E mentre egli, seduto, gettava meccanicamente le carte, ella restava in piedi dietro di lui, chinandosi
ogni tanto per dargli qualche consiglio. In piedi dietro le sue spalle, quasi a proteggerlo, a

vegliarlo La citt era l, a poche centinaia di metri di distanza, addormentata nel sole sotto i suoi
tetti rossi, dietro le sue persiane accostate.
Al cinema, la sera, non andavano che di rado. Spesso tornavano ancora sui bastioni. Faceva caldo,
coppie di innamorati passavano bisbigliando: e anche essi, aspettando il fresco, si mettevano a
passeggiare lentamente. Ogni tanto, da un lato del sentiero, si apriva un piazzale erboso.
Alta su di esso, la luna faceva s che le panchine di cemento che ne delimitavano il contorno, le
poche ancora vuote, splendessero laggi, sull'orlo estremo del prato e del terrapieno, come per luce
propria. La luna trasformava tutto. L aria era dolce e profumata. Perfino le cartacce sporche, che a
scostarle di giorno col piede rivelavano covi immondi di mosche, la notte, sparse qua e l nell'erba,
brillavano intensamente. Ebbene, perch ogni cosa, adesso, appariva tanto diversa? Il sentiero lungo
il quale si affrettavano, era il medesimo, s, ma erano bastati pochi mesi, il tempo che c'era voluto
per arrivare all'inverno, perch diventasse un viottolo sinistro, da averne paura. La nebbia che
cominciava a traboccare dai canali della campagna sottostante aveva gi invaso i piazzali, ne aveva
fatto altrettanti golfi di tenebre, dove le panchine, viscide di umidit e disertate da tutti, solo a
guardarle davano i brividi.
E se l'estate precedente David, mentre camminavano adagio, l'uno a fianco dell'altro, neppure la
sfiorava; se ogni tanto, avvertendo sopra di s lo sguardo di lei, si voltava a sorriderle con tristezza:
adesso (erano bastati cos pochi mesi perch egli cessasse di amarla), adesso la teneva stretta per un
braccio, non la guardava, la sospingeva dove non voleva andare. Tutto era mutato, dentro e fuori di
loro, tutto si era spento! Ribellarsi? Sfuggirli? Improvvise, quasi in risposta, le luci di piazza
Travaglio e di Porta Reno splendevano violente, vicinissime, davanti ai suoi occhi. Era troppo tardi
per resistere. Ecco il cinema Diana coi cartelloni esposti a fianco dell'ingresso, con la sua pesante
porta a vetri smerigliati che David apriva a fatica, e i cui battenti, nel richiudersi, sferzavano l'aria
del piccolo atrio mandando un suono soffocato e lamentoso. Infine, spinta alle spalle verso un antro
caldo, pieno di fumo, ella vi scivolava dentro.
La sala era lunga e bassa, stretta poco meno di un corridoio.
La folla vi si stipava in silenzio, punteggiando il buio di sigarette accese.
Appena entrata, subito i nervi le si distendevano. Il ronzio della macchina da proiezione, il lungo,
azzurro fascio di luce che ne scaturiva, avevano per lei, chiss perch, qualcosa di rassicurante.
Nonostante tutto i film le piacevano, specie quelli d'amore. Talvolta raccontavano di ragazze
povere, senza particolari doti di bellezza (non erano belle: ma spesso un cuore ardente e
disinteressato, un aspetto simpatico, bastavano a compensare qualche difetto del viso e della
persona!), le quali finivano col venire sposate, quando meno lo speravano, dal signore ricco e stanco
della vita, dal concertista celebre travestito da studente, dal principe in incognito. Di tanto in tanto
ella volgeva gli occhi verso David. Egli si era levato il cappello e il cappotto. Nella penombra ne
distingueva il collo alto e sottile, il profilo scontento, come assonnato, i capelli ondulati, lucidi di
brillantina. Allungava una mano per cercare la sua, e David lasciava fare. Talora si girava a
rispondere al suo sguardo: pareva tranquillo, di buon umore. Ma poi, bruscamente, respingeva la
mano, si scostava con tutta la persona. Che caldo!, lo sentiva sbuffare. Non si respira.
Intimorita, non insisteva. Riportava gli occhi sullo schermo, e David era laggi, al centro del
grande, grigio quadro in fondo alla sala, che guardava con occhi teneri e appassionati, che si
accendeva una sigaretta con le mani inguantate, che ballava vestito con lo smoking, che baciava; e
lei, confusa nella folla, si accontentava di vederlo, di ammirarlo, di adorarlo da lontano. I film la
prendeva a un punto tale, che pi tardi, al termine dello spettacolo, mentre con gli altri uscivano dal
cinema, se David, facendo a un tratto la voce carezzevole e stringendole il braccio, le proponeva di
accompagnarla a casa tornando per i bastioni, allora essa trasaliva violentemente, era sempre un
amaro risveglio, il suo.
La strada, tanto, si allunga di poco!, insisteva David.

E tardi, la mamma mi aspetta per mezzanotte, prova va a rispondergli. E poi fa freddo, sar tutto
bagnato
Cercava di non cedere subito, di guadagnare tempo.
Davanti all'ingresso del Diana non mancava mai una vecchietta con lo scialle nero, i mezzi guanti di
lana e il sottanone grigio, che arrostiva le castagne soffiando sui carboni di un suo fornello. Non gli
piacevano le caldarroste? lei gli chiedeva. Lasciasse almeno che la piazza si vuotasse.
Come sarebbe stato meglio intanto pensava tornare a casa attraversando la citt! La nebbia
era talmente aumentata da quando erano entrati al cinema, che le lanterne gialle dei lampioni non si
scorgevano quasi pi Con tutta quella nebbia non sarebbero stati visti da nessuno: nemmeno se
fossero passati per il centro, nemmeno se avessero preso per corso Giovecca. A causa dei
marciapiedi viscidi, avrebbero camminato adagio, sentendo le labbra e le ciglia bagnarsi di tiepide
goccioline, stretti l'uno all'altro come due fidanzati veri e propri. David le avrebbe parlato di s, dei
suoi studi, dei suoi progetti per il futuro. Magari le avrebbe parlato del film: forse per criticarlo,
forse per prendere in giro il modo di recitare del primo attore o della prima attrice, ma cosa
importava? Sarebbero entrati in qualche caff, vi si sarebbero seduti. Egli avrebbe ordinato due
bicchierini per s grappa, per lei anisetta. E nel torpore che l'avrebbe invasa sorbendo l'anisetta e
pensando al letto e al sonno vicini, ella si sarebbe sentita felice.
Ma cedeva, invece.
E subito, mentre si allontanavano in direzione dei bastioni, dai piccoli crocchi di soldati e di ragazzi
che ancora sostavano davanti all'ingresso del cinema a mangiare caldarroste e a fumare,
cominciavano a levarsi risate, fischi, parolacce.
Affrettare il passo non serviva. La distanza sembrava che rendesse le voci anche pi acute, anche
pi penetranti.
Fischi e risate la inseguivano nel buio, erano come mani gelide e schifose che cercassero di
afferrarla, di toccarla sotto le vesti.
Al primo buio, al primo prato, veniva rovesciata nell'erba. Col mento sopra la spalla di lui, gli occhi
spalancati, si lasciava andare.
Dopo, era la prima a rialzarsi. E se, a un certo punto, si era sentita prendere da un improvviso
desiderio di dibattersi sotto di lui, di morderlo, di fargli del male (David non resisteva mai:
allentando immediatamente la lunga schiena, le si abbandonava addosso con tutto il suo peso), ecco
che quella furia, quella rabbia che in ultimo l avevano indotta a strapparlo via da s, davano luogo
in lei a una specie di paura. Si affannava a rassettare gli abiti di David ancora prima che i suoi.
Come era gi lontano, come non gli importava pi niente di lei! Eppure non aveva nulla da
rimproverargli
Forse non lo sapeva in che modo la serata sarebbe finita? Dal momento che gli correva incontro sul
portone di casa, e lui, quasi senza salutarla la prendeva per un braccio e cominciava a camminare in
fretta verso le Mura, tutto, ogni volta, era chiaro anche troppo.
Si avviavano.
Se David avesse detto qualcosa, se almeno avesse tentato di riempire quel silenzio tremendo che
cresceva fra loro! Freddo, distratto, qualunque cosa le fosse venuta da lui, certo non avrebbe potuto
che ferirla. Tuttavia lo provocava. Niente sarebbe stato peggio di quel silenzio, di quel vuoto.
Chiedeva per esempio:
Come si chiama la tua mamma?
E poich David non rispondeva, rispondeva lei per lui.

Teresa, sillabava.
Non era buffo e commovente, che lei gli facesse domande simili, che fosse lei a rispondere a se
stessa?
E Marina, aggiungeva, come si chiama tua sorella Marina?
Scoppiava a ridere. Poi ripeteva:
Ma-ri-na, staccando di nuovo le sillabe come una scolaretta che dice la lezione.
Egli sbadigliava, accelerando il passo sul terreno indurito dal freddo. Per cominciava a parlare,
finalmente.
Erano discorsi strani, pieni di frasi non sempre facili a comprendersi, dette con un tono di voce che
non era il suo solito. Raccontava in genere di s, e specialmente di una sua relazione sentimentale
con una signorina della migliore societ. Bionda, con gli occhi azzurri, le mani bellissime, ne
vantava i gusti raffinati e aristocratici, le abitudini mondane.
I loro rapporti, i loro contrasti, perch spesso bisticciavano, si svolgevano sempre al centro di
ambienti di cui per farsi un'idea, le veniva spontaneo ricorrere alle scene di certi film: un ballo di
beneficenza al Circolo dei Commercianti, una rappresentazione di gala al Comunale, l'ultima caccia
alla volpe. Si trattava di una relazione difficile, avversata dalle rispettive famiglie (ma
soprattutto, a quanto le era dato capire, dalla famiglia della signorina), una relazione comunque di
testa, dove della cosa che loro due avevano fatto poco prima, sul prato, non si parlava nemmeno
lontanamente Scendevano intanto dai bastioni, imboccavano via Salinguerra. Fino a quel
momento lei era rimasta ad ascoltare in silenzio, quasi trattenendo il fiato. Ma quando si accorgeva,
dai profili delle case e dai fanali, che erano ormai arrivati, ci le metteva addosso una specie di
febbre, di agitazione nervosa. Si sentiva piccola, brutta, senza la minima attrattiva, certo irritante
nella sua improvvisa vivacit.
Odiava tutto di se stessa: quel suo soprabito liso e striminzito, quella sua corona di capelli arruffati,
inumiditi dalla nebbia (avrebbero avuto bisogno di un po' di parrucchiere!), quelle sue mani volgari,
deformate dal lavoro e dai geloni. Non si faceva illusioni, si era vista allo specchio. Cos come era,
non poteva sperare niente, la sua sorte era gi segnata. E allora, a questo punto, tanto valeva
investirsi decisamente della parte della vecchia amica a cui permessa ogni domanda, in grado di
dare il consiglio pi scabroso: insomma della donna con la quale tutto si pu fare eccetto che
l'amore. D'altronde non era questo ci che David desiderava di pi, adesso? Non gli faceva piacere,
forse, che lei si comportasse proprio come se nulla, nemmeno mezz'ora prima, fosse mai successo
tra loro?
Erano arrivati davanti al portone, entravano nel portico.
David continuava a parlare. Le sue parole erano pi che mai leggere, gelate. Appena presa la laurea,
sarebbe andato via da Ferrara e dall'Italia, forse in America, comunque solo.
Solo, sicuro, perch lui, naturalmente, non si sarebbe mai sposato.
La donna che mi ama deve ficcarselo bene in testa.
Patti chiari e amicizia lunga.
Non si sarebbe sposato nemmeno con la signorina che gli piaceva tanto? gli aveva chiesto una
volta.
No certo. E poi non vero che mi piaccia tanto. Ad ogni modo figurati, soggiunse ridendo, ma
con un'ombra di incertezza nella voce, figurati se potrei adattarmi a marcire per tutta la vita in
questo buco di provincia!
A lei non era rimasto che annuire nel buio.
Un'altra volta, per - e doveva rammaricarsene pi tardi, a letto, quando per il tic-tac della sveglia

posta sulla credenza e per l'ansimare che la madre faceva dormendo non riusciva a prendere sonno un'altra volta le era venuto da ridere. Gli aveva chiesto:
E se restassi incinta?
Sapeva bene che una domanda di questo genere avrebbe costretto David a trattenersi ancora un
poco, almeno per altri cinque minuti. Quello che nel frattempo lui avrebbe detto non importava.
Importava che prima di andarsene sentisse il bisogno di darle un bacio.
Nessuno ha certo dimenticato l'inverno del 1929. Per trovare un inverno simile bisognava rifarsi al
1903, quando il Po aveva gelato, o al '17: cos almeno affermava Oreste Benetti.
Prese a nevicare verso Natale, e continu neve e neve fino alla Befana. Ma la temperatura non era
ancora rigida, tutt'altro.
Nei giorni intorno all'Epifania, ci fu anzi un breve intervallo di sole, di tepore quasi primaverile, e la
neve gi si scioglieva. Dal letto, dove aveva dovuto mettersi ai primi freddi per una influenza che le
aveva lasciato due o tre gradi di febbre e una brutta tosse, Maria Mantovani ascoltava lo sciacquio
che le ruote di qualche veicolo facevano passando per via Salinguerra. Tuttavia non c'era da fidarsi.
Fino dalle cinque del pomeriggio veniva su dalla campagna un mare di nebbia quasi calda, che
bagnava pi della pioggia.
Appena arrivato, Oreste si toglieva immediatamente il pastrano fradicio. Perch scolasse, lo
attaccava l, ad un chiodo che sporgeva dalla porta d' ingresso.
Scendeva allegro la scala, andava a sedersi al tavolo, quindi cominciava a parlare.
Da diverso tempo l'argomento principale dei suoi discorsi era diventato Ireneo. A ottobre, con
l'inizio dell'anno scolastico, il bambino era stato ammesso come internista al Seminario dove lui,
Oreste Benetti, nella sua doppia qualit di ex allievo e di rilegatore di fiducia, godeva di molte
simpatie. Ne tornava giusto ora - annunci una sera. Aveva visto Don Bonora, il prefetto succeduto
ormai da venti anni al povero Don Castelli. Gli aveva chiesto di Ireneo.
Cosa vuole che le dica. Siamo appena agli inizi, non abbiamo ancora cominciato col latino, si
era limitato a rispondere da principio Don Bonora. E poich lui insisteva per sapere cosa pensasse
del ragazzo, il sacerdote bench gentilissimo, aveva aggiunto che gli aveva fatto l'impressione di un
temperamento un po' fiacco, un po' svogliato.
Questo per non significa niente, riprese subito Oreste.
Nel latino le basi sono tutto; e quel Don Bonora -e strinse le labbra come a garantire
personalmente delle straordinarie capacit formative della scuola, dei suoi prefetti e dei suoi
insegnanti.
Pass quindi a parlare della stagione. Alzava gli occhi al soffitto, fiutava l'aria con diffidenza.
Secondo me non ne siamo ancora fuori, disse, il peggio deve ancora venire.
Dal letto, Maria Mantovani ascoltava senza fiatare. Corrugava la fronte, sorridendo per conto suo
sotto le coperte.
Oreste aveva ragione: la stretta pi forte dell'inverno doveva ancora venire. Infatti, all'inizio della
terza settimana di gennaio il cielo si chiuse di nuovo, la temperatura si abbass, e riprese a nevicare
furiosamente. Vento di tramontana e neve per giorni e giorni: pareva di essere in alta montagna. La
gente camminava in fila indiana lungo le anguste trincee che le squadre di spalatori ingaggiati dal
Comune tenevano sgombre a fatica. Sui bastioni comparvero sciatori in perfetta tenuta alpina.
Furono perfino organizzate delle gare di sci, con l'effetto di trasformare improvvisamente via
Salinguerra, di solito cos deserta e silenziosa, in una strada piena di movimento e di strepito.
Attirata dallo spettacolo inconsueto che si svolgeva sulle Mura, si pu dire che buona parte della
popolazione passasse per di l

Di colpo lo stato della vecchia si aggrav. La febbre torn a salire, il suo respiro si fece affannoso.
Fu mandato a chiamare un medico, il quale, dopo un rapido esame, dichiar trattarsi di polmonite.
C'era pericolo, s rispose il medico a una precisa domanda di Oreste. Date le condizioni generali
della malata, qualunque disastro era possibile.
Prevista, temuta, sopraggiunse la crisi del quinto giorno.
Maria Mantovani non staccava gli occhi dalla finestra.
Di l dai vetri, attraverso i quali la luce filtrava a stento, scorgeva la neve cadere fitta, a vortice.
Tendeva l'orecchio.
Via Salinguerra risuonava fiocamente di grida allegre, di passi precipitanti, di motori e di trombe
d'automobili. Cosa succedeva, fuori? ella si chiedeva. La citt doveva essere in festa. Ma perch
ogni voce, ogni suono, le giungeva da cos lontano?
Non ci sento bene, si lament a un certo punto.
Non ci sento pi E come se avessi dell'ovatta nelle orecchie.
Nevica, rispose piano Lida, seduta di fianco al letto.
per questo che ti sembra cos.
La madre ebbe un piccolo sorriso astuto.
No, non per questo, mormor scuotendo il capo e abbassando le palpebre.
Dopo un'ora cominci a rantolare. Oreste scapp via, tornando di l a poco col parroco di Santa
Maria in Vado.
La stanza si riemp di gente. Era una piccola folla di donnette del vicinato, entrate dietro il prete e il
chierico.
Il prete impart alla moribonda l'estrema unzione, poi se ne and. Ma le vicine rimasero tutte, con
gli scialli neri in testa e bisbigliando giaculatorie, raccolte sotto la finestra.
In piedi al centro della camera, fra il gruppo delle donne e il letto, Oreste teneva le mani giunte. Le
sue labbra si muovevano rapide, sicure.
Ad un tratto il rantolo cess. Subito Oreste venne avanti, si chin sul capezzale. Leggere ed esatte
(Lida le seguiva affascinata), le mani di Oreste chiusero gli occhi sbarrati di Maria Mantovani,
incrociarono sul suo petto le braccia, aggiustarono con pochi tocchi le lenzuola scomposte e la
coltre. Infine egli si ritir, riguadagnando in punta di piedi il centro della stanza.
Lida non si muoveva. Sempre seduta di fianco al letto fissava il profilo di cera della madre. Le
palpebre abbassate, il naso profilato, le labbra che accennavano ad un vago assurdo sorriso felice:
ella osservava ogni particolare di quel volto immobile con attenzione caparbia, quasi con avidit,
come se lo vedesse per la prima volta. E intanto qualcosa, un vecchio nodo di rancore, le si
scioglieva dentro il petto.
Si coperse il viso con le mani e si mise a piangere quietamente.
Alla fine rialz il capo e si volse verso Oreste.
Vorrei restare sola. Anche voi, Oreste, andatevene anche voi.
Va bene, cara, va bene
Era fredda, imperiosa: Oreste non l'aveva mai vista cos
Fu con un'ombra di soggezione che egli distolse gli occhi da quelli di lei. Le vicine si avviavano gi
su per la scala.
Ultimo del gruppo, anche egli raggiunse il pianerottolo, quindi chiuse la porta dietro di s.

Col gomito puntato nella coltre e la guancia appoggiata alla mano, Lida rimase sola. Pensava alla
madre, a se stessa alla loro storia. E a poco a poco l'immaginazione la portava in un'altra stanza
molto simile a questa dove adesso si trovava, la stanza del Palazzone di via Mortara in cui al
principio di una lontana primavera, era andata a vivere insieme con David. Come in questa, c'erano
due letti affiancati, 11 lavabo in un angolo, un armadio con la specchiera appannata, un
cassettone L'unica differenza era data dalla finestra: qui bassa, al livello della strada, l alta,
aperta sulla distesa dei tetti, la campagna e, sullo sfondo, le colline di Bologna. Per il resto tutto era
uguale, tutto si ripeteva. Vedeva se stessa accanto a un altro letto, col gomito puntato sull'orlo del
materasso di crine e la guancia appoggiata alla mano, intenta, nei lunghi pomeriggi estivi, a vegliare
un altro corpo, quello di David. Egli dormiva.
Ma il suo respiro era cos lento, cos pallida la sua mascella sotto una barba di molti giorni, che alle
volte, presa dall'angoscia, lei lo scuoteva ad un braccio. Che cosa?, borbottava egli, svegliandosi
a mezzo. Si agitava nel letto (un libro cadeva con un tonfo sul pavimento), lungo la schiena il
pigiama appariva intriso di sudore, ricadeva a dormire.
La stanza ricordava era all'ultimo piano del grande casamento popolare. Immediatamente sotto il
tetto ed esposta a mezzogiorno, pi che di una camera si trattava di un piccolo granaio soffocante.
Un giorno, proprio alla fine di quell'inverno in cui David le era parso cos stanco di lei, tanto che si
aspettava da un momento all'altro di sentirsi dire: Basta, Lida, meglio che non ci vediamo pi, e
in questa attesa si consumava: un giorno David le aveva proposto di andare a vivere l, nel
Palazzone di via Mortara, come una coppia di operai qualsiasi. Aveva deciso, diceva, di rompere
definitivamente con la famiglia, di entrare in zuccherificio, di farsi una nuova esistenza. L'idea di
abitare in due in una mansarda gli piaceva, lo entusiasmava addirittura. Che cosa poteva fare, lei,
se non seguirlo, se non dirgli subito di s, esattamente come quell'altra volta, la prima, che si erano
incontrati in una sala da ballo di Borgo San Giorgio (lei aveva poco pi di sedici anni: non era che
una bambina!), avevano ballato tutta la sera insieme, e poi erano finiti a far l'amore in un prato delle
Mura? Ancora una volta non si era chiesta nulla, non aveva esitato un momento.
Uscita una sera in compagnia di David, non era pi tornata a casa, ecco tutto. Che pazzia era stata!
Eppure soltanto pi tardi, molto molto pi tardi, quando, dopo il parto, era tornata a stare da sola
nella camera del Palazzone, e il bambino piangeva continuamente, e lei si sentiva il petto sempre
pi vuoto di latte, e non le era rimasta che qualche lira: soltanto allora, davvero, aveva cominciato a
veder chiaro in quello che le era accaduto, a svegliarsi dal lungo sogno ad occhi aperti che era stata
fino a quel punto la sua vita.
Ma lui, David, chi era? insisteva adesso a domandarsi Che cosa cercava, che cosa voleva?
Finch era rimasto con lei, al Palazzone, e per molto tempo anche dopo, non si era chiesta niente,
non aveva mai capito.
In una camera del piano di sotto abitava la famiglia di un infermiere dell'Ospedale Comunale. Si
chiamavano Mastellari. Erano in tutto sei persone: l'infermiere, sua moglie, e quattro figli ancora
bambini. La mattina, quando scendeva con la brocca e un fiasco per attingere acqua alla grande
fontana posta in mezzo al cortile di terra battuta, spesso si fermava a scambiare qualche parola con
la signora Mastellari.
Cosa fa suo marito?, le aveva domandato una volta quest'ultima. E' operaio?
S. Per ora disoccupato: ma presto entrer in zuccherificio, aveva risposto lei, senza nemmeno
essere sfiorata dal pensiero che David era David: uno studente in legge, cio, anche se in ritardo con
gli esami e con la laurea, anche se in rotta con la famiglia.
Un operaio. Ma non era questo, d'altra parte, ci che egli stesso aspirava a diventare? Non lo
ripeteva di continuo?
Bastava che lui parlasse, in realt. Tutto allora appariva facile, possibile, credibile. Il matrimonio,
per esempio, non era che una formalit. Se lei proprio ci teneva, l'anno venturo al pi tardi

avrebbero regolarizzato la loro posizione in municipio. Chiss che per quell'epoca i suoi
genitori
Sicuro, sarebbe diventata sua moglie. La mia signora, aggiungeva sorridendo. Frattanto, era come
se lo fosse.
Dopo cena, tenendosi per mano, scendevano le interminabili scale del Palazzone immerse nel buio.
In cerca di un po' di refrigerio, avevano preso l'abitudine di passare le sere a Porta Mare, che non
distava pi di due o trecento metri, e dove, accanto alla barriera, c'era un chiosco di gelati.
A piegare per via Fossato di Mortara si arrivava sulle Mura in un attimo. Ed era stata una sera di
quelle, appunto, mentre si affrettavano tra gli alberi dei bastioni verso Porta Mare, e si facevano
guidare attraverso l'oscurit dalla lampada ad acetilene del chiosco dei gelati, che lei, sentendo
crescere al suo fianco la noia e la stanchezza di David, a un tratto si era spaventata, aveva perso la
testa.
Sai, credo proprio che avr un bambino, aveva detto fermandosi, posandogli una mano sul
braccio.
David non era sembrato sorpreso, non replic nulla.
Limone o cioccolata?, le aveva chiesto con gentilezza di l a poco, quando si erano fermati col
petto contro il banco di zinco del chiosco.
Mentre sorbiva il suo gelato (sceglieva sempre un misto di crema e panna), la guardava da capo a
piedi. Pareva triste, deluso. Lei, come al solito, aveva scelto un gelato di cioccolata. Ma quella sera,
una delle ultime, non ne sarebbe arrivata alla fine.
Non ti sembra che faccia un caldo insopportabile?, aveva osservato a un certo punto David. A
Cortina, di sera, debbono mettere i maglioni.
La sua famiglia, aggiunse poi, si era trasferita a Cortina d'Ampezzo fino dai primi di luglio.
Abitavano all'Hotel Faloria, un albergo grande come un castello, costruito dagli austriaci, che si
trovava in mezzo a un bosco di abeti e di Chi era David, cosa voleva? Perch, perch?
La domanda non trovava risposta, non l'avrebbe trovata mai. Del resto era tardi. Qualcuno, forse
Oreste, bussava i vetri. Bisognava alzarsi, andargli ad aprire.
Infatti era Oreste.
Chiuso l'uscio dietro di s, e raggiunte le vicine gi nell'atrio, per mezz'ora buona Oreste si era
tenuto unito al crocchio delle donne rimaste a parlare sulla soglia del portone.
Ma poi il crocchio si era disperso; ed egli, rimasto solo, aveva preso a camminare su e gi davanti
alla casa senza sapere a che santo votarsi.
In lui si urtavano due sentimenti opposti, due contrastanti necessit.
Da una parte gli premeva allontanarsi almeno per qualche ora, per correre a chiudere bottega e per
provvedere a quanto imponeva la morte di Maria Mantovani (essa si era aggravata
improvvisamente, e nessuno, nemmeno lui, aveva avuto tempo e cuore, in quegli ultimi giorni, di
prepararsi al peggio). D'altra parte Lida era sola, e il pensiero di lei bastava a trattenerlo. Pi volte,
chinandosi, aveva tentato di guardare nella stanza attraverso il vetro appannato della finestra.
Accanto alla sagoma bianca del letto di destra distingueva una piccola figura nera, curva ed
immobile.
Cosa fa?!, borbott ad un tratto fra i denti con impazienza affettuosa, gi da marito.
Scendevano le prime ombre della sera; aveva smesso di nevicare, ma il freddo mordeva. Attorno,
dalle finestre delle case, trapelavano interni di cucine, di tinelli illuminati. Bisognava spicciarsi,
concludere qualcosa. Finalmente, dopo che si fu chinato un'ultima volta a scrutare nella stanza e, a
causa del buio, non vi ebbe scorto pi nulla, si decise a battere ai vetri con le dita. Stette quindi in

ascolto, col cuore che gli pulsava sordamente nel petto. E non appena gli pane di udire il passo di
Lida su per la scala interna fu svelto a infilare il portone e a trovarsi in cima al pianerottolo ancora
prima che lei abbassasse la maniglia ed aprisse.
Subito, al primo sguardo, egli si accorse di avere ripreso il sopravvento. Col dorso appoggiato allo
stipite della porta, Lida lo fissava in silenzio, abbandonando gli occhi nei suoi. Nell'atteggiamento
di lei non c era altra richiesta che di protezione.
Dio santo, non vorrete mica passare tutta la notte cos!, egli disse sottovoce, ma quasi con
ruvidezza.
Poi, sempre bisbigliando, e senza varcare la soglia, cominci a esporle il suo piano.
Lui doveva correre via, a chiudere bottega, e siccome rimaneva qualche altra piccola cosa da
sistemare, non sarebbe stato di ritorno che fra due ore. In primo luogo per, sarebbe passato da una
delle vicine, la signora Bedini.
Dato che era stata lei, poco prima, a mettersi spontaneamente a disposizione, le avrebbe chiesto
senz'altro di venire.
A fare che!, esclam, prevenendo vivacemente qualunque possibile obiezione da parte di Lida.
Diamine, a farvi compagnia, magari a prepararvi un po' di cena o magari soltanto per pregare!
Alla parola cena Lida scosse il capo, in segno di diniego.
Tuttavia l'argomento successivo fu pi forte di ogni sua resistenza. Chin gli occhi, ed egli la
guard sorridendo.
Dunque mi raccomando, ammon, non state a chiudere la porta col catenaccio.
Quanto al resto, aggiunse, lei non doveva pensare a niente.
C'era lui apposta. Fidatevi di me, mormor toccandole un braccio.
Ad ogni modo, ripet ancora, sarebbe tornato per le nove al massimo.
Intesi?
E strettale la mano, spar di corsa gi per la scala.
Durante la notte la temperatura precipit. La tenue luce rosa che l'indomani mattina si fece strada a
fatica attraverso i vetri incrostati di ghiaccio (Lida si era distesa sul suo letto, la Bedini si era
appisolata su una seggiola, mentre Oreste, che aveva pregato per lunghi tratti della notte, stava in
piedi presso la finestra, scrutando il tempo), era una luce che veniva da un sole distante, perduto nel
cielo di un azzurro vago, nebbioso, un sole che non scaldava. In quel momento calcolava Oreste
mentre, col bavero del cappotto rialzato sulla nuca fitta di corti capelli d'argento, soffiava adagio
nelle dita intirizzite in quel momento il termometro doveva segnare dieci, quindici, forse venti
gradi sotto zero. Ci, prevedeva, avrebbe stabilizzato la stagione.
Per lungo tempo, per l'intero gennaio e, forse, buona parte di febbraio, ci sarebbero stati freddi
anche maggiori.
Avrebbero avuto un inverno eccezionale, durante il quale i canali della campagna e perfino il Po
sarebbero gelati, le tubature dell'acqua potabile sarebbero scoppiate, un inverno paragonabile
soltanto a quello del 1903. Gli doleva che l'agricoltura, e l'economia del Paese in genere, avessero a
soffrire da un inverno cos rigido. Ma intanto non poteva fare a meno di compiacersi di aver
previsto esattamente ogni cosa.
I funerali di Maria Mantovani si svolsero nel tardo pomeriggio dello stesso giorno.
Dietro il carro di terza classe, che avanzava scorrevole sulla neve battuta, camminava, oltre al prete
e a un chierichetto con la croce, il solo Oreste. Per suo consiglio Lida era rimasta a casa. Quanto a
lui, l'antico seminarista prediletto da Don Castelli, l'ex soldato del Carso, a lui il freddo intenso

infondeva energia, restituiva magicamente le ore di sonno perdute la notte precedente. Le ruote del
carro funebre, alte e sottili, alzavano blocchi di neve compatta che, prima di essere giunti alla
sommit del giro, ricadevano senza rumore, infarinando appena la lucida, nera vernice dei raggi e
delle balestre. Egli camminava con gli occhi attenti ai solchi impressi nella neve dalle ruote alle
piccole frane di neve che si staccavano via via dai cerchioni; e intanto il passo, che gli si regolava
per istinto su quel lo del prete, ridava alla sua andatura un po' della volonterosa alacrit dell'ottimo
soldato di fanteria che era stato da giovane.
Torn che era gi notte. E dalla strada, invece che bussare ai vetri come nei giorni passati, prefer
farsi precedere dalla solita scampanellata.
Lida lo attendeva in piedi, in fondo alla scala. Durante la sua assenza doveva aver dormito. Infatti il
suo viso prima segnato profondamente dalla stanchezza, ora appariva fresco, riposato. Si era
cambiata d'abito.
Egli sedette al suo vecchio posto, appoggiando le braccia conserte sul tavolo. Di l, mentre Lida si
affaccendava attorno alla stufa economica, la osservava con l'espressione mista di compiacenza e di
gratitudine che sempre affiorava dai suoi occhi quando credeva di scoprire, in una parola o in un
gesto di lei, studio e desiderio di piacergli.
Per questa notte, disse, sar meglio chiamare un'altra volta la Bedini. Bisogna che ci passi, pi
tardi. Domani andr a parlare con Don Bonora, perch lasci che il ragazzo, almeno una settimana, o
due, venga a dormire a casa. In seguito vedremo.
Era lui che decideva, oramai, che disponeva del futuro Dopo cena rimasero l, a discorrere separati
dal tavolo ancora da sparecchiare. Venendo a Maria Mantovani e alla sua vita, Oreste ne parl a
lungo, con estrema dolcezza.
Disse che aveva tanto sofferto, in vita sua, proprio perch aveva molto amato, proprio perch aveva
avuto troppo cuore.
Descrisse infine il luogo del Camposanto Comunale dove l'indomani mattina l'avrebbero sistemata.
Era un posto bellissimo, assicur, un posto da signori.
Non aveva ancora visto, Lida, quel braccio di arcate, costruito di recente, che partendo dal fianco
destro della chiesa di San Cristoforo e descrivendo una grande curva, era venuto a completare anche
dalla parte della Mura degli Angeli l'antico porticato della Certosa? Ebbene, sua madre sarebbe stata
sepolta (Macch sepolta: dalla terra, poveretta, non sar nemmeno sfiorata!) appunto sotto quegli
archi nuovi. Un posto bellissimo, ripet, esposto a mezzogiorno, col sole, quindi, che ci batteva
dall'alba al tramonto come m una serra.
Certo, aggiunse dopo una pausa, piegando le labbra, certo i loculi laggi costano cari.
Ma subito, come se temesse di essere stato capito male, volle dire che lei, Lida, non doveva
preoccuparsi per la spesa.
In tanti anni di lavoro, qualcosa, grazie a Dio, mi riuscito di metterla da parte!, esclam.
E siccome lei gli aveva fatto sperare gli aveva fatto credere Dato che ci, pensava, avrebbe
reso contenta la sua povera mamma
Insomma, quello che mio tuo, concluse, abbassando la voce, e passando per la prima volta dal
voi al tu.
La guardava fissamente negli occhi, chinato un poco in avanti. Indi si alz in piedi; e, congedandosi
in fretta, promise a Lida che sarebbe tornato a farle visita la mattina seguente.
Avevano tante altre cose da dirsi!
Abbiamo tante altre cose da dirci: questo affermava esplicitamente Oreste ad ogni commiato o,
almeno, promettevano in silenzio i suoi occhi seri, dolcissimi.

In realt, a parlare era sempre lui.


Quando non si trattava di ricordi (la fanciullezza trascorsa in Seminario, la guerra sul Carso, gliene
fornivano temi abituali), erano lunghi monologhi intorno alla religione e ai recenti fatti politici che
la interessavano tanto da vicino
Dopo la firma dei Patti Lateranensi, dal febbraio di quello stesso anno, il suo patriottismo poteva
effondersi ormai liberamente nelle manifestazioni di tenerezza sentimentale proprie a un innamorato
alfine corrisposto. Brava la Chiesa, diceva, che per il bene dell'Italia e del mondo aveva saputo
mettere da parte le meschine questioni di puntiglio e di rivalsa; ma bravo anche lo Stato italiano,
che aveva avuto il grande merito di muovere il primo passo verso la pacificazione: ed era chiaro che
nella sua fantasia la Chiesa e lo Stato si configuravano materialmente coi volti di un uomo e di una
donna i quali, dopo un lungo periodo dl rapporti non sempre tranquilli, spesso turbati da crisi
violente, avessero deciso ad un tratto di sposarsi. E adesso che epoca meravigliosa stava per
iniziarsi! continuava a dire, con occhi esultanti. La primavera che gi si annunciava avrebbe
visto aprirsi l'era della pace e della gioia, rinnovarsi la mitica et dell'oro. Ciascuno nella sua sfera,
Chiesa e Stato sarebbero liberi ma concordi, secondo il precetto della Bibbia e del Vangelo, secondo
il sogno e la profezia di Dante. Il prete non sarebbe stato pi schernito e perseguitato. La societ
non lo avrebbe pi respinto, ma in s lo avrebbe accolto come un padre che bisogna ascoltare e
venerare. E se anche non era da sperarsi che rinascesse un partito cattolico vero e proprio, per ora ci
si poteva accontentare. Non era poco avere ottenuto che gli uomini dell'AC e quei giovanotti delle
FUCI fossero lasciati in pace! Non era poco essere stati messi in condizione di benedire
serenamente nel tricolore sabaudo la bandiera della Patria!
Era a partire da questo punto, di solito, sullo slancio dell'intensa commozione che destavano in lui
questi discorsi, ma cambiando tono, che cominciava a riferirsi pi direttamente a loro: a s e a Lida.
Descriveva il villino fuori Porta San Benedetto dove, dopo sposati, sarebbero andati a stare. Anche
se non aveva mai voluto che Lida venisse a vederlo (non glielo avrebbe fatto vedere che a maggio:
data certa della consegna), tuttavia, poich trovava il modo di recarsi quasi ogni giorno sui lavori,
non gli dispiaceva tenerla informata esattamente circa il progresso di questi. Si lamentava, in
genere. Se la prendeva col muratore, perch un muro scialbato di fresco, trasudando umidit,
appariva gi macchiato; col carpentiere, per una serranda che non funzionava; con l'ingegnere, per i
suoi modi bruschi, scortesi. Ma poi, quando passava a parlare del luogo dove il villino sorgeva (ne
parlava come di un luogo molto pi lontano di quanto non fosse realmente: come se si trattasse di
un quartiere di un'altra citt, sconosciuta a Lida, infinitamente pi bella e amena e ospitale di
Ferrara), allora il suo volto si spianava, si rischiarava tutto. Il villino si trovava in fondo al viale
Cavour ripeteva per l'ennesima volta nei pressi della stazione, in una zona occupata per intero
da costruzioni recenti. Ognuna di esse aveva attorno quasi mille metri quadrati di terreno proprio,
da coltivarsi a orto o a giardino.
C'era aria buona, laggi, aria di campagna. E qui taceva, pago di quell'immagine di felicit che
aveva suscitato da vanti agli occhi di Lida. Era una felicit gi in vista, gi a portata di mano, da cui
li separava uno spazio di tempo sempre minore. A maggio, al pi tardi, si sarebbero sposati.
Quanto a Lida, cercava di secondare il fidanzato con la migliore volont possibile. Non c'era pi sua
madre, vero, con la quale le fosse dato di scambiare a tempo opportuno un'occhiata di intelligenza.
Ma la passione che ardeva negli occhi di Oreste era cos vera e trascinante; cos caldo, affettuoso,
accogliente l'avvenire che la sua fantasia le dipingeva, da farle ritenere ben presto assurda, se non
ridicola, qualsiasi pretesa di ironia da parte propria.
L'et dell'oro, la felicit che gli occhi e le parole di Oreste non cessavano di predirle, queste cose
non credeva che le avrebbe viste mai, n che fossero realizzabili sulla terra. Eppure, sebbene non
potesse illudersi, sebbene si rendesse conto dei guasti irreparabili che tempo, solitudine e tristezza
avevano prodotto dentro di lei, nonostante ci comprendeva che appunto a quelle promesse a cui
non credeva, a quelle fantasie alle quali aderiva con tante intime riserve, a quei puri sogni, era

legata ogni sua residua ragione di esistere. Quali argomenti, d'altronde, avrebbe saputo opporre a
quelli di Oreste? Se le fosse mancata la forza che le veniva di riflesso dalla fede illimitata che era in
lui, con che cosa l'avrebbe sostituita? Forse e sorrideva di s coi ricordi del passato? Oreste
era superiore in tutto. Tutta la luce, tutto il calore venivano da lui. Ogni pensiero si formava in lei
con difficolt, contraddetto e smentito continuamente da un altro contrario. Ma quest'ultimo nasceva
dalla constatazione di un dato di fatto preciso, reale, della cui verit non dubitava mai. Lei, Lida era
come un pianeta, la cui unica fonte di vita il sole al quale appartiene. E la consapevolezza della
propria inferiorit e dipendenza la riempiva di piacere, di pace.
Venne maggio.
Negli ultimi giorni la calma di Oreste si trasform improvvisamente in ansia, in angoscia. Lida se
ne stup. Le pareva strano, in contrasto col suo carattere, che egli, dopo essersi accontentato per anni
di una promessa di nozze nemmeno formulata a parole, dopo avere acconsentito a qualunque
dilazione, ora si lasciasse prendere da tanta smania.
Al matrimonio aveva sempre accennato di rado; appena un po pi di frequente negli ultimi tempi.
Adesso, invece, voleva fare presto, non perdere nemmeno un giorno, magari anticipare la data della
cerimonia.
Gli chiese sorridendo il perch di questo cambiamento.
Egli la guard senza rispondere niente, con occhi disperati.
Poi disse piano:
Io sono come quei cavalli che scoppiano sul traguardo.
Parl quindi del matrimonio, di quello che rappresentava per lui. Disse che lo considerava il
traguardo supremo della sua vita, di l dal quale solamente avrebbe avuto il coraggio di invocare
sopra di loro la protezione della divina Provvidenza. Disse che se non le aveva mai fatto fretta,
prima, era stato perch, sentendo di non poter contare che sulle proprie forze, aveva sempre dubitato
di riusci re a sposarla veramente.
Lida lo ascoltava, ma senza capirlo. Lo guardava, e comprendeva una cosa sola: egli temeva ancora
di perderla!
Pos una mano sulla sua; e un attimo dopo si trovava fra le sue braccia, per la prima volta.
Gli anni che seguirono furono anni tranquilli, felici. Anni di lavoro; e, se non proprio di ricchezza,
certo di agiata prosperit. Comunque, di inverni come quello del '29 non se ne videro altri; e tanto
meno ne vide Oreste, che mor presto, nella primavera del '38.
Verso la fine di ogni autunno, egli era solito soffermarsi davanti ai vetri delle finestre, studiando il
tempo. Pensava che in quella casa nuova, dove non mancava nulla, dove c'era persino l'impianto del
calorifero, nessun inverno, per quanto rigido, avrebbe potuto pi impensierirlo. Il futuro gli
sorrideva. Dopo il matrimonio, Lida si era conformata subito alle sue abitudini devote, e aveva
preso a frequentare assiduamente la chiesa di San Benedetto. Si era ingrassata, imbellita. La ragazza
magra, limata dall'ansia, che egli aveva conosciuto tanti anni prima, quando aveva cominciato a
farsi vedere in una certa stanza di via Salinguerra, si era trasformata a poco a poco in una bella
donna calma, serena, un po pingue, della pinguedine che sta bene alle donne pie. Ebbene
ripeteva spesso, tra il seno e il faceto anche questa tarda bellezza della moglie, di cui non gli
pareva ingiusto, in fondo, attribuirsi una parte di merito, mostrava che il Signore aveva benedetto la
loro unione.
E' stato felice, si diceva a volte Lida.
Ma subito, come deformata da un'eco interna, la frase si distorceva in una domanda piena di dubbio,
di invidia dolorosa: Sar stato felice?
Soltanto adesso che anche lui non era pi che un ricordo, sapeva che no, qualcosa gli era sempre

mancato. Per anni, per tutti gli anni del loro matrimonio Oreste aveva desiderato un figlio suo, e lei
non aveva saputo darglielo.
Le tornavano in mente, ora, le cure tenerissime, pi che paterne che egli, sebbene non ricambiato da
particolari segni di gratitudine, aveva sempre avuto per Ireneo. A tredici anni, appena uscito dal
Seminario, lo aveva preso con s, in bottega, dove, tra la macchina rifilatrice e la porta a vetri, gli
aveva sistemato un piccolo banco tutto per lui.
Gli aveva voluto insegnare il suo mestiere: e a lei, che certe sere, dopo la Benedizione, attraversava
mezza citt per raggiungere la legatoria di via Salinguerra e tornavano poi a casa assieme,
risalendo a braccetto la Giovecca o via Mazzini, e passando per il centro a lei pareva ancora di
vederlo mentre da dietro al banco grande covava con occhi ardenti di zelo affettuoso quel suo
allievo cos fiacco, invece, cos pronto a distrarsi per la minima cosa che succedesse fuori, nel
piazzale l davanti. Le pareva ancora di vederlo e di udirlo: con quel suo torso vigoroso,
sproporzionato rispetto alla misura delle gambe, che si ergeva sullo sgabello di l dal banco; con
quelle sue mani grosse e dure, stranamente ingentilite dalla fede matrimoniale d'oro (non se ne volle
separare mai: nemmeno nel '35, all'epoca delle Sanzioni!); con quella sua voce forte, allegra,
squillante Quanto doveva aver lottato perch lei, Lida, non si accorgesse del suo desiderio! Come
doveva essersi tormentato se, quasi a punirlo e a soffocarlo dentro se stesso, a un certo punto aveva
perfino voluto che Ireneo assumesse il suo nome!
Eppure, ella ne era certa, Oreste non aveva mai disperato.
Per esserne sicura, le bastava ricordare l'occhiata con cui l'accoglieva ogni volta che entrava in
bottega: un'occhiata interrogativa, ma tranquilla, piena di una fiducia incrollabile.
Se non ora, diceva il suo sguardo, presto lei gli sarebbe venuta incontro con la grande notizia. Gli
avrebbe dato un figlio, s, che fosse veramente suo, e non si levasse tra loro con la precoce,
silenziosa, immotivata tristezza del ragazzo di quindici anni (cresceva di intelligenza forse non
molto viva, purtroppo: un ragazzo alto e magro, cos diverso da lui anche nel carattere), il quale,
sebbene lui gli avesse dato il suo nome; sebbene gli venisse insegnando il mestiere con la stessa
passione con cui l'avrebbe insegnato a un suo figlio carnale: nonostante ci, lei lo sapeva!, non lo
aveva mai chiamato che zio Oreste.
Un figlio suo - pensava Lida -: ecco che cosa gli mancava, ecco l'unica ombra che avesse turbato la
serenit della loro vita.
Per tornare a parlare di quell'et dell'oro della quale, nel febbraio del '29, aveva predetto il ritorno,
certo non aspettava che di sentirle dire:
Sono incinta.
Con altrettanta certezza, tuttavia, cogliendolo di sorpresa, la morte aveva prevenuto e impedito in
lui ogni principio di disperazione.

La passeggiata prima di cena

Why does my pen not drop from my hand on approaching the infinite pity and tragedy of all the
past? It does, poor helpless pen, with what it meets of the ineffable, what it meets of the cold
Medusa-face of lite, of all the life lived, on every side. Basta, basta!
H. JAMES, Notebooks, 321.
Ancor oggi non difficile, frugando in certe bottegucce di Ferrara, mettere le mani su cartoline
vecchie di almeno cinquant'anni. Sono vedute ingiallite dal tempo, macchiate di umidit. Una di
queste mostra corso Giovecca, la principale arteria cittadina, come era allora, verso la fine del
secolo scorso. Per eseguire il suo lavoro, il fotografo dovette porsi col cavalletto sul marciapiede
opposto a quello dove si allineavano, al riparo di grandi tende dai bordi frangiati e svolazzanti, i
tavolini e le seggiole di vimini del Gran Caff Zampori, da anni scomparso. A destra, in ombra a
guisa di quinta, si erge lo sperone del Teatro Comunale, mentre la luce la luce dorata di un
crepuscolo primaverile tutta per il lato sinistro del quadro. Da questa parte le costruzioni sono
basse, ad un solo piano, col tetto ricoperto da grosse tegole brune, alla base qualche piccolo negozio
(si nota una pizzicheria, l'antro di un carbonaio, una macelleria equina), misere casupole che nel '30,
quando in quel punto fu deciso di costruire l'enorme palazzo in travertino romano delle
Assicurazioni Generali, vennero rase al suolo senza piet.
Anche corso Giovecca, e intendo il piano stradale che occupa, come un largo fiume visto di scorcio,
lo spazio centrale della cartolina, assai diverso da ora. La pavimentazione attuale una cosa di
lusso, da grande citt. Come adesso, la Giovecca un lungo, imponente stradone, cos ampio e
pulito da riflettere il colore del cielo. Delle rotaie del tram, delle guide di pietra bianca lungo le
quali scorrevano calessi e biciclette, non , da tempo, rimasta pi traccia. Il ferro delle rotaie chiss
dove andato a finire: inghiottito anche esso, forse, dall'ultima guerra. Quanto ai lastroni di pietra
delle guide che servivano al traffico dei veicoli due doppie strisce parallele, di fianco alle rotaie del
tram, alcuni anni fa furono raccolte in un prato di l dai bastioni e, qui abbandonate, in breve si sono
coperte di muschio.
La cartolina, dicevamo, tratta da una fotografia; e, come tale, essa d conto, oltre che dell'aspetto
di corso Giovecca verso la fine del secolo XIX (una grossa carraia, irta di ciottoli e ineguale nel
fondo come il letto di un torrente: ed forse perci che la nostra Main Street appare, nella cartolina,
molto pi affollata e movimentata di quanto non sembri ora), della vita che, nell'attimo in cui il
fotografo fece scattare l'obiettivo, si svolgeva per tutto lo sviluppo del corso: dall'angolo del Caff
Zampori, sulla destra, a pochi metri dal punto dove era piazzato il cavalletto, fino laggi, dove i
lunghi raggi del sole pomeridiano pongono in risalto la lontana, rosea fronte della Prospettiva
settecentesca di l dalla quale, invisibile a chi guarda, non c' pi che la ripa verde delle Mura.
Elemento trascurabile di quella vita di cui, ora, non resta pressoch alcun ricordo (il quadro
gremito di particolari soltanto in primo piano: il garzone di una barbieria che si affaccia sulla soglia
della bottega a stuzzicarsi i denti; un cane che annusa il marciapiede chiazze di sangue rappreso,
probabilmente davanti all'ingresso della macelleria equina; uno scolaretto che traversa correndo
il crocicchio; un signore di mezza et, in redingote e bombetta, che scosta col braccio alzato la
tenda a difesa dell'interno del Caff Zampori; un bellissimo tiro a quattro, forse quello dei duchi
Costabili, da pochi mesi ritiratisi in provincia da Roma, che viene avanti e si appresta ad affrontare
al gran trotto, alle spalle del fotografo, la cosiddetta Salita del Castello; mentre, man mano che ci si
spinge con l'occhio lungo corso Giovecca, persone e cose perdono forma e rilievo, avvolte in una
specie di pulviscolo luminoso): elemento trascurabile, dunque, del quadro offerto dalla principale

arteria della nostra citt in un imprecisato crepuscolo di maggio sul finire del secolo scorso, una
ragazza di circa vent'anni, proprio nell'attimo in cui il fotografo faceva scattare l'obiettivo, e fuori,
com' naturale, della portata di esso, si allontanava per corso Giovecca lungo il marciapiede di
sinistra, camminando sveltamente verso l'indistinta periferia cittadina.
Cominciava quel tratto del giorno che precede l'ora della cena. E un momento delizioso, questo,
quando l'aria rinfresca e I nervi si distendono: nel quale la popolazione della citt, rappresentata nei
pi vari strati sociali, solita da tempo immemorabile uscire dalle case e dagli uffici e passeggiare
su e gi, finch non si accendano i lampioni, lungo gli ampi marciapiedi di corso Giovecca. Per tale
ragione per la quantit e la variet dei passanti c' da pensare che la nostra ragazza, anche se
fosse stata inseguita a distanza ravvicinata da uno sguardo meno indifferente di un obiettivo
fotografico, avrebbe durato una certa fatica a farsi distinguere. Niente, nella sua figura, dava
nell'occhio in modo particolare, si elevava al disopra della pi modesta mediocrit. Non si trattava
insomma di una bellezza capace di farsi notare, nell'ora della maggiore animazione, in una strada di
qualche importanza; di una di quelle giovani donne, voglio dire, che per la ricercata eleganza
dell'abito e dell'acconciatura, per la maestosa languidezza del passo, potessero far convergere su di
s gli sguardi ammirati della gente. Tutt'altro. Fotografata in un gruppo (come, del resto, confusa tra
medici in camice bianco, e infermiere in camice grigio, ella era apparsa a se stessa nella fotografiaricordo che, avvolta in un foglio di carta da pacchi, e stretta sul petto, proprio ora recava a casa
dall'ospedale), il suo viso tendeva a sparire, non era che un piccolo ovale sfuocato.
Il viso di Gemma Brondi questo il nome, comunissimo a Ferrara e nel contado, della giovane
infermiera era dunque come ce n' tanti, n bello n brutto: reso, se possibile, ancora pi comune
e insignificante dal fatto che alle ragazze del suo ceto, a quei tempi, non era permesso l'uso del
rossetto, del belletto, della cipria, insomma di tutti quegli accorgimenti di cui oggi anche l'ultima
delle infermiere che lavora nel nostro moderno Arcispedale Comunale sorto, negli anni tra il '20 e il
'30, in fondo a corso Giovecca, non manca, finito il suo turno e prima di uscire, di servirsi talora con
raffinatezza. I capelli castani di Gemma Brondi, raccolti sulla nuca in nodo voluminoso, scoprivano
una fronte convessa, troppo massiccia, una fronte forte e ossuta da contadina che contrastava,
magari non sgradevolmente, con la mollezza della bocca. Negli occhi, dello stesso colore dei
capelli, dove il raggio della giovent brillava solo di rado, e quasi di soppiatto, si notava prevalente
un'espressione spaurita, malinconica, non troppo diversa da quella, piena di pazienza e dolcezza,
degli sguardi di certi animali domestici. In realt nemmeno il camice grigio, una specie di rozzo
grembiale che, stretto alla vita, dava invece risalto alla grossezza e alla prominenza del seno, la
difendeva abbastanza, riusciva a cancellarla come forse avrebbe desiderato. Ma a questo proposito
il passo, ora lento ora affrettato, con cui ella si teneva al basso muretto di divisione che
fiancheggiava dal lato sinistro l'ultimo tratto della Giovecca, sembrava parlare per lei. Il suo corpo
procace e tozzo sul quale, cinto da un piccolo nastro di velluto nero, si levava un collo esile, quasi
gracile, doveva darle un vago senso d'imbarazzo, come di vergogna.
Resta ora da accennare a quelli che in quel momento potevano essere i pensieri di una ragazza come
Gemma Brondi, apprendista infermiera presso l'Ospedale Comunale di Ferrara pi di mezzo secolo
fa; pensieri o, meglio che pensieri, sensazioni indeterminate, appena affioranti alla coscienza, che al
contrario dell'antico volto di corso Giovecca, tramandatoci fedelmente da una semplice cartolina,
non hanno lasciato dietro di s nessunissima traccia. Eppure, ove si osservi con un po' di attenzione
l'aspetto generale di corso Giovecca, in quel punto del giorno e della sua storia; se si bada all'effetto
complessivo di felicit, di speranza, corroborato dallo sbattere allegro delle tende davanti al Caff
Zampori, che d, visto dalla spalletta che cinge la Fossa del Castello, lo sperone nerastro del Teatro
Comunale - quasi prora che avanzi, festosa, verso il futuro e la libert-: non ci si pu sottrarre
all'impressione che qualcosa delle fantasie di una ragazza di vent'anni, diretta verso casa dopo una
giornata di lavoro, sia rimasto registrato nel quadro che abbiamo sotto gli occhi, anche se poi questo
quadro medesimo non abbia conservato nulla della sua persona fisica.
Fatto si che dopo una giornata passata nei tristi cameroni dell'ex convento nei quali, subito dopo
l'unificazione del Regno, L'Ospedale Comunale aveva trovato provvisoria e inadeguata

sistemazione, era, si pu arguirlo, con una specie di avidit sensuale che Gemma Brondi si
estraniava dal mondo attraverso cui, attirando l'attenzione di tutti, era passata test in carrozza la
duchessa Costabili. Perduta nei propri sogni, abbandonandosi senza riserve alle proprie
fantasticherie adolescenti, ella camminava senza vedere nulla, la parola; tanto vero che, giunta
all'altezza della Prospettiva, quando, come era solita fare ogni sera, alz meccanicamente gli occhi
ai tre rosei fornici dell'interrompimento architettonico, una frase che fu sussurrata al suo orecchio
(Buona sera, signorina, o qualcosa di simile) la trov impreparata, senza difesa, pronta soltanto
ad arrossire e impallidire alternativamente, a guardarsi intorno spaurita come in cerca di scampo.
Buona sera, signorina, aveva sussurrato la voce, permette che l'accompagni?
La frase fu questa o, come si diceva, pressapoco questa.
Quale fosse stata esattamente, nessuno dei due, n Gemma Brondi n la persona che l'aveva
pronunciata, avrebbero saputo dire. E chi altro, se non essi, avrebbe potuto raccoglierla, nonch
ricordarla? Proprio in quel momento da una chiesa l vicino, la chiesa di Sant'Andrea, avevano
cominciato a suonare le campane a distesa; campane che al fotografo, curvo sul marciapiede
dall'altro capo del corso, e intento a riporre macchina e cavalletto, giungevano smorzate, come
soffiate dall'aria pi fresca, a dirgli che almeno per quel giorno il suo lavoro era terminato. Chi
aveva parlato, chi, ora, mentre il mattone rossastro della Prospettiva si spegneva e raffreddava
lentamente sopra le loro teste, tratteneva Gemma Brondi in una conversazione che sforzava gli
occhi di lei ad evitare quelli pungenti e nerissimi del suo interlocutore, era un giovanotto
dall'apparente et di trent'anni, vestito di scuro, con tutte e due le mani appoggiate al manubrio di
una pesante bicicletta Triumph, un giovanotto dal volto emaciato sul quale spiccavano le lenti
cerchiate d'oro, a stanghetta, e i baffi, spioventi attorno alla bocca, dello stesso colore degli occhi.
Ma a questo punto, percorrendo di volo il cammino lungo il quale i due giovani, lui conducendo la
bicicletta a mano, tra qualche istante si avvieranno, trasferiamoci a poca distanza di l, e
precisamente nell'interno di una bassa casa a due piani nella quale la famiglia Brondi, una famiglia
di contadini di citt, vive da diverse generazioni.
La casa, una specie di fattoria, posta a ridosso dei bastioni, separata da questi dalla stradetta
polverosa che segue passo passo tutto lo sviluppo delle mura urbane, e in cui, svoltando
bruscamente una cinquantina di metri oltre la Prospettiva, corso Giovecca va a finire. E ormai quasi
notte Nelle stanze a terreno, che per l'imminenza dello spalto erboso dei bastioni prendono luce
soltanto dalle finestre posteriori, aperte sulla distesa degli orti, hanno acceso la luce proprio adesso.
La prima in casa ad accorgersi del dottor Corcos, del dottor Elia Corcos, era stata Luisa: e forse da
quella sera stessa.
Di solito, dopo aver finito di apparecchiare il tavolo tondo del tinello, e avere acceso, sotto le
pentole di cucina, i fornelli che la madre aveva gi riempiti di carbon dolce e schegge di legna;
proprio quando le voci del padre e dei fratelli, che si erano attardati fino a buio a lavorare nell'orto,
ed ora si preparavano a rincasare, si facevano pi distinte: appunto allora Luisa era solita
scomparire, per non farsi pi rivedere che quando gli altri avevano quasi finito la minestra.
Benedetta ragazza! Chiss mai dove sar andata a nascondersi, sospirava la madre. E intanto
sorrideva con stanchezza indulgente a un'immagine dl Luisa appoggiata a braccia conserte al
davanzale di una delle finestre rivolte verso i bastioni la finestra della camera che la figlia
maggiore divideva al piano di sopra con Gemma un'immagine che nel buio crescente rispondeva
con maliziosa complicit al suo sorriso. Il vecchio Brondi e I tre ragazzi continuavano, curvi sulle
scodelle, a mangiare con appetito. La sparizione di Luisa all'ora di cena rientrava nel numero dei
piccoli privilegi per mezzo dei quali ella affermava un suo diritto, che in casa tutti le riconoscevano,
di essere considerata un po' come la bambina della famiglia.
Pi tardi ella scendeva le scale senza rumore, si faceva sulla soglia leggera come un fantasma. E se,
da quella sera il suo ingresso nel tinello non fosse stato seguito quasi immediatamente da quello di
Gemma (giunti davanti alla porta di casa i due giovani, come accortisi dl un pericolo, si erano

separati bruscamente: Gemma aveva infilato svelta l'uscio, mentre il dottore, inforcata la bicicletta,
con poche pedalate era scomparso laggi alla curva), nemmeno la madre, forse, si sarebbe curata di
alzare il capo. Da quella sera, tuttavia, Letizia aveva preso a considerare l'apparizione di Luisa come
un segnale, e il suo sguardo, appuntandosi interrogativamente verso le zone buie della stanza,
cercava quello della zitella. Vi cercava una conferma. Tra le due donne (ambedue alte, bionde,
delicate: in famiglia esse formavano, e non solo fisicamente, quasi un nucleo a s), a questo punto
correva, tra ombra e luce, 1l sorriso d'intesa che fino allora le aveva unite soltanto
nell'immaginazione, e che tuttavia il disordinato ingresso di Gemma, di l a un momento, d'un tratto
faceva dileguare.
Corse anche qualche parola; ma non subito: bens diverse sere dopo, mentre, come sempre usavano
prima dl cena, esse si recavano per la Benedizione nel vicino Sant'Andrea.
Il sentiero dell'orto che menava dall'aia fino al portoncino basso, tinto di verde, aperto laggi in
fondo nel muretto di cinta (per entrare in chiesa bastava poi fare qualche passo, piegando a destra in
via Campo Sabbionario), non consentiva il transito che di una sola persona per volta.
Ci favoriva le confidenze, stimolava le confessioni. E fu solo dopo quelle rotte, quasi impaurite
battute di un dialogo condotto pressoch correndo, senza guardarsi in viso, battute concernenti
l'aspetto del dottor Corcos (nel volto pallidissimo di lui Luisa aveva fatto in tempo a notare I baffi
neri, spioventi attorno al mento accuratamente rasato:
Un signore!, aveva soggiunto ridacchiando), soltanto allora fu permesso alla ragazza di rientrare
in casa un po prima che la funzione fosse terminata. Gli occhi fissi all'altare, la madre la sentiva
alzarsi, smuovere leggermente al suo fianco la seggiola di paglia. Avrebbero parlato delle sue nuove
scoperte la sera successiva, non prima: di l a poco, comunque, il pensiero di Luisa l'avrebbe fatta
sostare sulla soglia del portoncino, a discorrere con le vicine qualche minuto pi a lungo del
necessario. Finch una voce maschile non avesse gridato alle sue spalle, di lontano:
Insomma, si mangia? Ed ecco che i saluti erano rapidi quasi sgarbati. Ella arrivava in cucina
senza fiato, il cuore che le batteva, eppure col viso chiuso, ostile, della padrona di casa, della
arzdra, decisa a resistere, anche lei, in difesa dei loro diritti. Non uscivano mai, lei e Luisa, se non
al termine della giornata e per chiuderla santamente la chiesa, si pu dire, l'avevano in casa. Chi
aveva il coraggio di protestare? La minestra veniva scodellata in un silenzio di tomba. Al vecchio
Brondi e ai ragazzi premeva troppo di raggiungere senza contrasti, dopo cena, l'osteria con annesso
gioco di bocce che frequentavano assiduamente fuori Porta San Giorgio, da primavera ad autunno.
La stagione progrediva lentamente verso l'estate. I pipistrelli vorticavano attorno alla mole bruna, in
controluce dall'abside di Sant'Andrea, con strida sempre pi acute. E a mano a mano che il tempo
passava l'immaginata effige del dottor Corcos si arricchiva di nuovi particolari: una magnifica
giacca azzurra a coda di rondine, occhiali d'oro a stanghetta, un orologio anch'esso d'oro che egli,
una volta sul punto dl accomiatarsi da Gemma, aveva estratto da un taschino del gil, e poi, via via,
una cravatta di seta bianca, una mazzetta dal pomo d'avorio, e un'aria, una certa aria A volte,
provocando il vivo ritrarsi di Luisa, la coppia appariva improvvisamente, ferma tra gli alberi del
bastione, quasi all'altezza della finestra-osservatorio. Dove erano stati si chiedeva avvampando
la zitella di dove venivano?
Forse erano stati fino allora sdraiati nell'erba alta del piazzale, a stringersi e a baciarsi? Un'altra
sera, sempre sul punto di accomiatarsi, egli si era levato il cappello, si era inchinato
cerimoniosamente, forse le aveva persino baciato la mano. Le sue intenzioni erano chiare! concludeva Luisa, rapita e indignata insieme, riferendo quegli ultimi particolari. Possibile
comunque che Gemma non si accorgesse del pericolo che correva? Possibile che non capisse che un
signore come quello Ma intanto chi era, come si chiamava colui?
Non resta purtroppo nessun ritratto del dottor Elia Corcos all'et di trentanni. L'unico, conservato
dalla signora Gemma Corcos in uno stipetto che, a molti anni dalla morte di lei, e cio di recente,
dopo la dichiarazione di morte presunta dello stesso dottor Corcos e dell'unico figlio ed erede

diretto con lui convivente, dottor Jacopo, fu venduto, insieme con altre cose che le erano
appartenute, a un antiquario di via Mazzini, sarebbe stato reperibile ritagliando una piccola testa dal
gruppo fotografico che ella, ancora ragazza, aveva portato a casa dall'ospedale - e nascosto quindi
nel cassettone dove era custodita la sua biancheria in un tardo pomeriggio di primavera del 1888.
Ebbene, quando fosse tuttora possibile, frugando nei cassetti di un polveroso mobiluccio emerso da
un fondo di magazzino, recuperare la fotografia in parola, non sarebbe improbabile che osservando
attentamente il viso smunto, avido e pallidissimo di Elia Corcos trentenne (il viso di uno studente,
ancora, uno studente per il quale gli anni dl universit, trascorsi a Bologna, rappresentano nel
ricordo un duro periodo di fatiche, di privazioni, fors'anche di umiliazioni), noi potessimo avere il
senso abbastanza preciso dello stupore di Luisa e, poi, di Letizia Brondi, quando i loro occhi alfine
si posarono su quella realt cos diversa dall'altra che a poco a poco si erano costruite a forza
d'immaginazione
Dunque un dottorino di quelli dell'ospedale! - dovettero esclamare dentro se stesse, deluse e irritate.
Bisognava impedire che la cosa continuasse, bisognava che anche gli altri, in famiglia, sapessero.
Se Gemma non si fosse decisa a parlare, ci avrebbero pensato loro: a costo che, dopo la rivelazione
dei suoi rapporti con quel tale, ella fosse costretta dai fratelli e dal padre a non uscire pi di casa.
Il vecchio, lui, questa volta si sarebbe fatto sentire, eccome se si sarebbe fatto sentire! Purch lo
scandalo avesse termine la famiglia avrebbe rinunciato volentieri a quei pochi soldi che Gemma
guadagnava all'ospedale.
Tra il dire e il fare, tra l'immaginare e l'eseguire, c'era ad ogni modo l'usata differenza. Tanto vero
che Luisa (il percorso a ritroso, fra il portoncino e l'aia, aveva sempre avuto per le due complici
effetto calmante), appena rientrata, si affrett a salire in camera e ad affacciarsi, dopo aver riposto
con cura la fotografia nel cassettone della biancheria, alla solita finestra.
Senonch era segnato che le delizie dello spiare e del riferire, del congetturare e del dedurre,
nascoste delizie che la fantasia, forzando dolcemente l'intransigenza dei progetti di severit test
formulati, tornava gi a prolungare m un futuro vago e senza limiti, proprio al termine di quella
stessa giornata dovessero subire una brusca smentita dalla realt dei fatti.
I due innamorati venivano avanti lungo la stradetta senza dare segno di accorgersi che erano giunti
l dove, data un'occhiata alla persiana dietro la quale Luisa vigilava, abitualmente Si separavano.
Gemma camminava un poco discosta dal dottore; e questi, pur procedendo di pari passo con la
ragazza, ne restava diviso dalla bicicletta a cui si appoggiava, secondo il solito, con ambe le mani.
Non scambiavano parola: anche questo secondo il solito. Ma qualcosa nella rigidezza del
portamento, nell'ostinazione con la quale tenevano gli occhi fissi a terra (Cosa sar successo, mio
Dio?, bisbigliava in un soffio Luisa, premendosi una mano sul petto), dava al loro silenzio un peso,
una gravit tutti particolari. Oltre a ci, avvicinati che si furono ancora di pi, parve a Luisa che la
sorella avesse il volto abbondantemente rigato di lacrime.
Ormai erano fermi, sotto la finestra, davanti all'uscio.
Cosa avrebbero fatto, adesso? Che cosa significava quel loro improvviso fissarsi, occhi negli occhi,
continuando per a restare divisi dalla bicicletta, e a non dire una parola?
Quand'ecco, come in risposta, il dottor Corcos si volse, e rapido attravers la strada. Per qualche
secondo stette curvo sulla bicicletta che aveva appoggiato con delicatezza al ciglio del bastione fino da giovane fu sempre cerimonioso e metodico. Indi si raddrizz (Ges mio, e adesso?),
per tornare subito, lento, sui propri passi.
Gemma non si era mossa. Con le spalle appoggiate allo stipite della porta, essa attendeva.
Corcos ebbe uno strano gesto, proprio come - cos parve a Luisa - se si forbisse i baffi
Si baciarono a lungo.

Dopodich il dottor Corcos (doveva essere passato molto tempo: era ormai notte fonda, e i suoi
movimenti si distinguevano appena), riattravers il viottolo, raccolse la bicicletta, e segu Gemma
che lo aveva gi preceduto nell'interno della casa.
La conversazione, se pur potesse dirsi conversazione, giacch a parlare per un bel pezzo non fu che
lui, dapprima langu, era inevitabile.
Presentandosi subito col nome, il cognome, la paternit, la professione, l'indirizzo, egli seppe
interpretare perfettamente fin da principio il senso di disorientamento e d'imbarazzo del vecchio
Brondi e dei fratelli di Gemma: degli uomini di casa, insomma, che prima di allora nemmeno
sapevano che esistesse. Ma anche degli altri, le donne: le quali, come abbiamo veduto, avevano di
lui una conoscenza cos vaga e, per certi riguardi, addirittura cervellotica.
Fu, la sua, una dichiarazione anagrafica in piena regola (egli aveva preso posto tra Luisa e Letizia,
giusto di fronte al capofamiglia che al suo ingresso aveva levato il volto dal solitario ed era rimasto
a guardarlo con la bocca semiaperta: ed ogni tanto, a misure alterne ed uguali, volgeva gli occhi
verso le due donne con una accentuazione di rispetto appena venato di ironica galanteria che gi di
per s, indirettamente, alludeva al mondo diverso dal quale proveniva): dichiarazione che forse,
senza il soccorso della straordinaria gentilezza di modi dell'ospite, ovvero della tensione che era
nell'aria per ci che doveva pure accadere, forse sarebbe potuta sembrare noiosa, pedantesca, e,
nella sua diffusa e minuziosa precisione, per lo meno stravagante.
Elia Corcos. Che strano nome. La redingote professionale, indossata certo per rendere pi severo il
glabro volto giovanile; la cravatta di seta bianca; il cappello nero a larghe falde rialzate: e ogni cosa
un po' lisa, leggermente stinta, magari acquistata di seconda mano; il modo che egli aveva di
parlare, servendosi di tratto in tratto di brevi frasi o singole parole in dialetto, che pronunciava con
un suo particolare accento quasi di diffidenza, come se le prendesse con le molle; il volto che
pareva plasmato di una materia pi fragile, pi delicata: tutto lo diceva appartenente a una diversa
condizione sociale. Per quanto modesta dovesse essere la sua origine, per quanto povero fosse, non
c'era dubbio, egli non era dei loro.
A paragone di questa, ogni altra considerazione, compresa quella che non fosse cattolico, bens
ebreo, anzi israelitat come lui stesso ebbe a precisare, era destinata a passar presto in seconda
linea E cos il suo nome, per allora, non suscit altro senso che dell'inferiorit sociale, del rispetto
fatto di estraneit di classe e timidezza linguistica che ha sempre dato ai nostri contadini, non
importa se accolti o meno a vivere nell'ambito delle mura urbane, qualsiasi contatto con la
borghesia cittadina. Ma che cos'altro, in fondo, avrebbe potuto suscitare? Il sole della celebrit, o
per meglio dire dell'affettuosa, incrollabile ammirazione collettiva, che per almeno tre generazioni
avrebbe accompagnato fedelmente l'esistenza di Elia Corcos, tanto da fare di lui, col tempo, una
specie di istituzione, di simbolo municipale: quel sole era ancora troppo lontano dal sorgere, con
l'alba del nuovo secolo, nel cielo di Ferrara.
E difatti:
Un grande clinico!, si sarebbe cominciato a proclamare: ma soltanto di l a una decina d'anni, non
prima.
O addirittura: Un genio! Un uomo che se Ferrara non fosse Ferrara, ma Bologna
Perch c'era stato un momento avrebbero affermato ancora pi tardi, decine e decine d'anni pi
tardi, i testimoni della florida vecchiaia di Elia Corcos (la signora Gemma, la povera signora
Gemma era gi morta da un pezzo!): c'era stato un punto, perduto come la giovinezza di lui nella
notte del secolo scorso, che rivelava quali singolari analogie potessero stabilirsi tra la fortuna della
sua carriera di medico e quella della citt che gli aveva dato i natali.
Il famoso Murri, di cui, si asseriva, Elia Corcos era stato compagno di universit a Bologna, ed era
poi diventato una gloria di Bologna e della Nazione, essendo stato chiamato al capezzale della
allora giovanissima duchessa Costabili, da appena due anni stabilitasi col marito nella nostra citt:

Non capisco!, aveva esclamato. Mi si fa venire apposta da Bologna, mentre qui a Ferrara avete
Corcos, il mio amico carissimo Elia Corcos, che vale assai pi di me!
Questo momento della vita del dottor Corcos si faceva cadere dai pi, n si sa con quanta ragione,
ma soltanto per dire come la vita sa confondere le sue tracce, e tutto, del passato, pu diventare
materia di sogno, argomento di leggenda, intorno all'epoca in cui un certo onorevole socialista
aveva ottenuto, ricattando Crispi, il grande Crispi, che il pi importante nodo ferroviario
dell'Italia settentrionale fosse impiantato a Bologna anzich a Ferrara. Tutta la fortuna e la
prosperit di Bologna erano dipese da quella risoluzione fatale, tanto pi odiosa perch strappata
con raggiro da un socialista, ma non perci meno efficace e vantaggiosa per Bologna che, a causa di
essa, era diventata in breve la maggiore citt dell'Emilia. Lo spettacolo della grande stazione
ferroviaria di Bologna, una stazione dove potevano sostare venti treni in una volta, col suo
ristorante splendente di cristalli e di lampade, le sue tenebrose e accoglienti sale d'aspetto, il suo
traffico internazionale inferiore soltanto a quello di Milano, abbagliava da lungi gli occhi offuscati
di noia dei nostri concittadini. Tenaci e fortunati difensori degli interessi della loro citt, a Bologna;
inetti amministratori comunali, a Ferrara: i socialisti, dovunque avessero le mani in pasta, per una
ragione o per l'altra avevano sempre torto. Se Ferrara non fosse Ferrara, se il nostro Comune, al
momento buono, fosse stato in altre mani! Come quella della citt, anche la vita del dottor Corcos
era stata sospesa, per un attimo ormai smarrito nel tempo, tra la luce e l'oscurit. Come tanti altri
suoi concittadini, come tanti altri galantuomini suoi pari, di null'altro colpevoli che di essere nati a
Ferrara, anche Corcos era stato una vittima delle macchinazioni dei socialisti.
E perch dei socialisti solamente? Anche i massoni, gli inevitabili massoni, venivano presto
chiamati in causa (non era un massone, di grazia, lo stesso Francesco Crispi?): e ci a seconda che
le frasi deploranti la scarsa rinomanza del nome di Corcos si involassero, terminando in un gesto
d'odio, in una smorfia amara, in una occhiata carica di disprezzo e d'invidia lanciata attraverso i
quaranta chilometri di pianura che si stendono fra Ferrara e Bologna, dai tinelli delle case borghesi,
dalle salette piene di fumo del Circolo dei Commercianti o, per converso, magari fingendo, data la
circostanza, di ignorare che Elia Corcos fosse un ebreo, dalle inviolate camere del Palazzo
Arcivescovile, dove di solito nomi di quel genere non venivano pronunciati che da labbra
atteggiate a schifiltosa cautela. Vero che, come per incanto, sul nome di Corcos qualsiasi contrasto
cessava, prevalendo sempre il senso della pi decisa solidariet di classe; e la comune persuasione
che spesso, per riuscire nella vita, basta niente: un po' di furberia, un grammo di sana ambizione.
Con un tantino di queste doti secondarie, eppure indispensabili perch del merito, del puro
merito, non era nemmeno il caso di discutere tutta la gloria toccata al bolognese Murri avrebbe
invece aureolato i pittoreschi riccioli bianchi del suo antico compagno di studi e collega di Ferrara.
Quanto a Gemma, la povera signora Gemma, sebbene Elia Corcos non avesse mai gradito che
sguardi e pensieri indiscreti lo seguissero oltre la soglia del portone della sua casa di via Ghiara che
sull'imbrunire, di ritorno dall'abituale passeggiata per corso Giovecca, egli aveva sempre amato
sentir sbattere con violenza alle proprie spalle; sebbene su di lei, come per consentire a un tacito ma
preciso desiderio del dottore, nessuno, in citt, si fosse mai fermato troppo a lungo: ecco che a
questo punto nemmeno la sua modesta figura, appiattita contro un comunissimo sfondo domestico,
si era mai potuta difendere dall'assumere, cos come ogni altra persona e cosa che aveva riguardato
da vicino Elia Corcos e la sua vita, significato di simbolo, importanza di esempio.
Che un uomo dell'ingegno e della finezza di Elia Corcos, accolto sino da giovane negli ambienti pi
chiusi, compresi gli aristocratici, per trovare una moglie avesse dovuto, a suo tempo, scegliere cos
in basso, ci confermava che anche egli, non diversamente da infiniti altri suoi conterranei degni di
miglior sorte, proprio nell'attimo in cui si accingeva a spiccare il volo, era caduto vittima di qualche
imboscata.
Gloria, Potere, Amore: oh le grandi, eterne parole, trattenute in fondo alla strozza da un feroce
pudore, ma sempre valide, nella fantasia, a suscitare dietro le quattro torri del Castello che sorgono
al centro dell'abitato, e danno il primo saluto della citt a chi venga dalla campagna, cieli

prodigiosamente accesi, carichi d'ogni pi violenta passione!


Essi, Corcos in prima fila, avevano avuto le ali mozzate!
Ci che spettava loro di diritto, altri se ne era appropriato! Senonch, allo stesso modo che il canto
consola e ripaga la cecit del poeta, ecco che negli offesi, nei derelitti, quasi a compenso
dell'enorme sopruso, sorgeva potente la consapevolezza di un tesoro che mai nessun furto avrebbe
potuto alienare. Tutto essi avevano perduto. Ma non, grazie a Dio, il vigore della fantasia, la forza
indagatrice e chiarificatrice del libero pensiero: virt, queste, merc delle quali era pur sempre
possibile, restituendo magicamente al passato che via via si allontana vivezza di presente, varcando
d'un balzo pianure e montagne, spingere l'occhio, di scorcio, fin dentro il gabinetto particolare di un
famoso personaggio storico al tempo del massimo rigoglio della sua fortuna politica, sorprendente
la sua mano bruna, nervosa, da dominatore, proprio nell'atto di afferrare, impaziente e riluttante
insieme, la penna che avrebbe deciso del destino di una antica e nobile citt, di una provincia
popolosa ed industre, e finalmente-conclusione ultima speculare con la serenit dei saggi sul
contemporaneo e interdipendente attentato sofferto dalle carriere parallele del dottor Corcos e della
citt dove lui era nato. Quanto alla signora Gemma, si sa: era stata una donna di levatura troppo
modesta per rispondere a ci che sarebbe stato lecito attendersi dalla moglie di uno spirito
superiore. Il sacrificio doveva esser stato consumato senza, si pu dire, che lei se ne rendesse conto.
E come meravigliarsene, del resto? Certe aperture, certi voli d'aquila, che permettevano se non altro
di sapere e di compiangere ( l'amaro retaggio, questo della verit e delle lacrime, che tocca a chi
perde, a chi rinunzia!), non potevano aver tentato una persona che chiss se aveva finito la quarta
elementare.
Di tale tenore, dunque, sarebbero stati pi tardi, decenni e decenni pi tardi, i pensieri della terza
generazione dei nostri concittadini di coloro, per intenderci, le cui tempie sono incanutite fra le
due guerre a proposito del dottor Corcos e del suo strano, per non dire misterioso, matrimonio
giovanile. Dopo aver spaziato cos vastamente, chiamando in causa perfino Francesco Crispi, questi
pensieri portavano ad un'unica conclusione: che la signora Gemma non aveva capito, che la signora
Gemma non era stata all'altezza. Ma era giusto, in fondo, spacciarsi di lei con tanta disinvoltura?
Essa era morta da un pezzo, da un pezzo riposava, sola, nel Camposanto Comunale, e di lei non era
rimasto da interrogare che qualche sbiadita fotografia.
Eppure non era stata lei, dopo tutto, l'unica persona al mondo che aveva conosciuto intimamente
Elia Corcos? Chi, oltre lei, era mai riuscito a penetrare di l dalla barriera delle solenni, ironiche
scappellate che il dottor Corcos, scendendo ogni sera prima di cena lungo corso Giovecca, era solito
largire ad almeno mezza cittadinanza: un muro di rispetto contro cui aveva dovuto sempre arrestarsi
qualsiasi moto di curiosit, qualsiasi indagine, perch equivaleva chiaramente a un: Amicissimi,
signori miei, ma se per mettete alla larga? E lasciando un attimo da parte Ferrara e la sua storia:
quella lontana notte d'estate del 1888 che Elia si era deciso a entrare per chiederla in casa (per
menti esercitate a ben altri voli non doveva esser difficile risalire nel tempo fin l!), chi, se non lei,
nel buio tinello rustico di casa Brondi sedeva esattamente di fronte al dottore, dall'altra parte del
tavolo, nel posto quindi pi indicato per cogliere l'attimo quando, sporgendosi subitaneo dall'ombra
circostante, il volto di lui era entrato, livido nel cerchio di luce attorno al quale stavano tutti raccolti
i Ombra. Luce. Al centro, la tovaglia splendeva immacolata.
Oh, nessuno meglio di Gemma aveva veduto, nessuno meglio di lei si era potuto render conto del
poco tempo che era stato necessario per consumare il sacrificio!
Quanto ne occorre per compiere una breve serie di gesti: chinare il dorso, sporgere la testa in avanti,
offrire al lume un volto pallidissimo, enormemente pi bianco dell'usato, come se tutto il sangue, di
colpo, se lo fosse risucchiato il cuore. Egli aveva avuto paura era stata cosa da niente
leggerglielo in faccia. Desiderio di battersela, di sfuggire alla trappola nella quale era caduto, nella
quale, forse, si era voluto cacciare lui stesso. Non era lui, lui stesso, del resto, che in quel momento
stava chiedendo al vecchio ubriacone la figlia in isposa? Non era lui che stava rovinandosi con le
sue mani? E tutto ci, in nome di Dio, soltanto per riparare a una supposta gravidanza? Ombra.

Luce.
Battersela, uscire di l, sfidare il padre, i fratelli di lei, non farsi pi rivedere. Oppure cedere,
arrendersi ancora prima di aver lottato, rassegnarsi alla vita mediocre del medico-curante di
provincia, col vantaggio, per, di poter cominciare a insinuare magari da quella sera stessa, quando
Gemma lo avrebbe riaccompagnato alla porta di strada, che la causa di tutto era stata lei, il
matrimonio al quale, in un certo senso, loro l'avevano costretto. Erano due strade, che gli si
aprivano dinanzi in quel momento: ma lui - e la bocca, sotto i baffi, gi cedeva a un abbozzo di
sorriso - lui sceglieva subito la pi piana, la pi facile
La pi piana, la pi facile? Chiss. Ma intanto presto, presto: purch la commedia finisse, non
durasse un secondo di pi.
Si sposarono. Si allogarono presso il padre di lui, il vecchio mercante di grani Salomone Corcos, e
l, nel cuore angusto e malsano del ghetto nacque Jacopo, subito, e poi Ruben. Dovette insomma
passare una dozzina d'anni (le tempie e i baffi del giovane medico avevano fatto in tempo a
imbiancarsi leggermente), prima che la dimora parva sed apta mihi, sed nulli obroxia, sed parta
meo, come diceva Elia, potesse essere acquistata.
Per arrivarci da casa Brondi, percorrendo il viottolo in cima alle Mura ed evitando ogni possibile
scorciatoia attraverso le viuzze medioevali del centro, non c'era da fare che un chilometro e mezzo,
due al massimo. Una sgambata di una mezz'ora, a prendersela con calma. Finch, dopo aver
superato sulla sinistra le casupole di Borgo San Giorgio, raggruppate attorno alla chiesa e al
campanile; avere seguito per quanto lungo il muraglione del Manicomio, ed esserselo lasciato
bene alle spalle; e da ultimo aver cominciato a intravedere, da quell'altezza sulla pianura sterminata,
i veli azzurri e ondulati delle colline di Bologna (dall'altra parte, frattanto, la rossa distesa dei tetti di
Ferrara aveva ruotato sul suo asse di un quarto di giro): ecco che d'improvviso si era ammessi al
cospetto della facciata serena, domestica della casa - grigia, laggi, tutta tramata di vite americana,
le verdi imposte socchiuse a difendere l'interno dalla violenza del riverbero - alla quale, nel silenzio
dell'orto antistante, l'alterno avvicendarsi del sole e delle nuvole prestava a volte pallori, cupezze e
trasalimenti di luce che avevano qualcosa di vivente, di umano.
A guardarla da questo lato, dal lato rivolto a mezzogiorno, si sarebbe detta una casa di campagna:
con la sua piccola aia, davanti, e la legnaia a pianterreno, e la corte rustica separata dall'orto vero e
proprio per mezzo di una siepe perennemente gremita di galline, e l'orto coltivato a frutteto che,
chiuso tra muri irti di cocci, e scompartito per il lungo da un vialetto tutto fiorito, a primavera, degli
arricciati, violacei fiori degli ireos, scendeva gi oltre la siepe, fino a pi dei bastioni.
E non intimidiva, la casa, ad accedervi da questo lato!
Da dare anzi ragione al senso oscuro di selvatichezza che indusse sempre Brondi padre e i fratelli di
Gemma a scegliere, quando venivano, la strada delle Mura, e a farsi vivi di lass con grida, magari
con grossi fischi popolari: come se la targhetta d'ottone con sopra scritto DR. ELIA CORCOS
MEDICO-CHIRURGO che, lustrata a dovere, faceva bella mostra di s dall'altra parte, sul portone
severo di via Ghiara, avesse lo stesso potere di metterli a disagio, o irritarli, chiss, del pavimento
del salotto buono, le cui mattonelle rosse, tirate a cera, suonavano troppo dure sotto le suole
chiodate dei loro scarponi; e come, insieme, se nella ritrosia con la quale per tutto il giorno la
facciata celava dietro le imposte del primo piano il salotto buono, appunto, e la grande cucina dalle
masserizie di rame appese alle pareti (ritrosia che invece pareva cedere, non appena cominciasse a
imbrunire, a un bisogno improvviso, violento, di confidenza, d'abbandono e tra poco i familiari si
sarebbero scorti assisi al tavolo di marmo della cucina, con l'azzurra garza del lume a gas accesa
sopra le teste: Elia chino, anche mentre mangiava, su qualche suo libro, sordo fin d'allora a quanto
accadeva attorno a lui), come se essi, i Brondi, ritrovassero qualcosa dello spirito di colei che da pi
di dieci anni era diventata la signora Corcos, vero, la moglie di un dottore, e che dottore!, ma
restava pur sempre la Gemma, una cio come loro. Esisteva in qualche modo un rapporto, insomma,
tra lo sguardo che la casa, corruscando dolcemente dai vetri degli alti abbaini, volgeva alle

campagne gi buie, e quello che una donna ancora giovane, la persona inquadrata, come in un
ritratto, da una finestra della cucina, indirizzava loro di lontano attraverso l'aria ottenebrata. Ella
agitava un braccio a chiamarli, insistente, festosa. Che si accomodassero, che venissero pure avanti!
Non lo sapevano che la porticina dell'orto rimaneva sempre aperta apposta per loro, giusto perch
loro se ne servissero? Il sole al tramonto faceva baluginare i raggi in distanza, nella penombra che si
addensava dietro le spalle di Gemma. La figura di lei alla finestra, col grosso seno chiuso in una
specie di usbergo di seta, ricordava la fotografia a grandezza naturale che, subito dopo essere entrati
nella casa di via Ghiara, per espresso desiderio di Elia era stata sistemata nel tinello buono, proprio
sopra il pianoforte Pleyel. Solo che nel ritratto, montato in una bella cornice (un ritratto che faceva
pena, a guardarlo, tanto corruccio e amarezza si esprimevano dal semplice volto contadino!), lo
sfondo era diverso: invece delle casseruole scintillanti, fogliame vario, immerso in una nebbia
biancastra.
In via Ghiara, dal lato opposto, la casa nemmeno si riconosceva.
Era una costruzione a tre piani di rossa pietra scura. E sembrava incredibile, guardandola, che la
campagna, quel mondo di cui la via tranquilla e appartata, cos borghese, faceva quasi dimenticare
l'esistenza (quel mondo lontano ed estraneo-pensavano i parenti di Elia-da cui era venuta Gemma),
cominciasse invece di l, a poche decine di metri di distanza, appena oltre quell'ultimo velo di
facciate dall'apparenza signorile tra le quali si allineava, senza affatto scapitarne al confronto, anche
quella del dottor Corcos.
Corcos, Josz, Cohen o Tabet che fossero essi, i suoi parenti ed affini, non parevano per nulla
intimoriti dalla targhetta d'ottone che spiccava con le sue grandi lettere nere sul portone di via
Ghiara. E bench avessero a suo tempo aspramente rimproverato ad Elia di aver preso in moglie
una gui, come dicevano nel loro gergo, e per di pi contadina; e avessero anche disapprovato, in
seguito, che egli fosse uscito dal quartiere del ghetto, dove era nato, per andarsene a stare in quella
strada cos remota: tuttavia non era senza una punta di orgoglio, d'orgoglio di setta e di casta, che
essi, le volte che ci venivano in visita, si tenessero costantemente all'ingresso principale, tanto
decoroso e rispettabile, in fin dei conti, cos intonato alle loro velette, ai loro cappellini trafitti da
lunghi spilloni, ai loro abiti di seta con lo strascico, alle loro finanziere e cilindri e tubini e
bombette. L'aspetto della casa, la quiete e il silenzio della strada, simili seppure diversi a quelli dei
vicoli del centro di dove erano partiti (il festoso, popolare movimento di via XX Settembre, l'ampia
arteria urbana parallela a corso Giovecca, nella quale, laggi presso il Manicomio, si vedeva
sboccare via Ghiara, pareva spegnersi come per incanto alle sue soglie, dove l'erba tornava a
crescere indisturbata tra le selci del fondo stradale), bastavano a rassicurarli che Elia, nonostante
tutto, restava sempre uno del loro sangue, della loro educazione: un Corcos, infine.
Assodato questo punto, che era quello fondamentale; quando fosse risultato ben chiaro che egli non
rinnegava affatto la sua origine, che non si convertiva, insomma, ma anzi, con la sua crescente
fortuna, dava all'origine comune un lustro del quale anche essi indirettamente avrebbero goduto i
benefici: allora tutto il resto, compreso il suo matrimonio con Gemma Brondi, poteva venire scusato
e perfino giustificato. Cosa contava, per esempio, che egli fosse figlio di quell'inetto di Salomone
Corcos, di quel mercantuccio di nessuna importanza, trascurabile sotto ogni punto di vista, il quale
di niente altro era stato capace, in vita sua, che di far figli dodici, ne aveva avuti! e si era
infine ridotto a vivere alle spalle di Elia, ultimo della serie? Che cosa rappresentava la stessa
Gemma, nella sua vita, se questo legame non gli aveva impedito di diventare a poco pi di
quarant'anni, Primario dell'Ospedale Comunale, medico personale della duchessa Costabili, e forse
della duchessa, dopo la morte immatura del marito, forse qualcosa di pi che il medico personale?
Egli l'accompagnava ogni estate in giro per le pi rinomate stazioni climatiche europee Svizzera,
Germania, Francia meridionale per la cura delle acque: e non era davvero colpa di Elia se
Gemma, al suo ritorno, non fosse in grado di apprezzare convenientemente i raffinati, spesso
cospicui doni che lui le portava dall'estero: un anno un manicotto di pelliccia d'astrakan o di
ermellino, un altro anno uno stupendo ncessaire da viaggio, di pelle di cinghiale, un altro anno
ancora un modello di Parigi, autentico, e cos via

Di l a qualche anno, fosse stato un uomo diverso, e non quell'orso, quell'ostinato misantropo che
era (anche ai viaggi al seguito della duchessa Costabili egli pareva acconciarsi per puro dovere,
giusto perch lo pagavano profumatamente: eh, non si poteva proprio dire che fosse un tipo che
briga per far carriera, uno che sapesse imporsi con armi diverse da quelle dell'ingegno, e non per
nulla era nato a Ferrara invece che a Bologna!), Elia avrebbe potuto ottenere facilmente una cattedra
universitaria: e allora, non che essere ammesso al Circolo dei Commercianti, dal quale, a quanto
risultava, gli erano gi pervenute cortesi sollecitazioni ad iscriversi che lui aveva rifiutate,
naturalmente, nemmeno l'inattingibile Circolo dei Concordi, riservato alla pi ristretta aristocrazia
cittadina - ai Costabili, ai Maffei ai Canonici, ai Del Sale, agli Scroffa, ecc. - avrebbe osato, nei
suoi confronti, di votare palla nera. Tutto sommato, considerando il carattere e i gusti dell'uomo che
a volte, verso sera, era possibile sorprendere nell'orto, intento, con gli occhiali rialzati sulla fronte
accigliata e una lisa giacchetta indossata sui pantaloni della redingote, a praticare certe sue
misteriose iniezioni disinfettanti nella corteccia degli alberi da frutta, Gemma, chiss, poteva essere
stata davvero la moglie pi adatta, per lui: devota, abile nel condurre una casa, lavoratrice come
poche, anzi come nessuna, cuoca impareggiabile. Per esempio: fino dai primi giorni di vita
coniugale era stato stabilito che ella dovesse alzarsi dal letto all'alba, e ci perch Elia, levandosi di
l a mezz'ora per studiare, trovasse pronto il caff. Quale altra donna, santo Dio, si sarebbe
assoggettata a una simile corv senza protestare?
Nemmeno una serva, a pensarci! No, no: se lui, prudente e avveduto, era arrivato al punto di
sposarla, a questo non doveva essersi indotto soltanto per riparare alle conseguenze di uno sbaglio
commesso in giovent, durante un solitario turno di notte trascorso all'ospedale in compagnia di una
ragazza esuberante (ne succedono tanti, dalle nostre parti, di incidenti consimili, senza che ci sia
bisogno di ricorrere al sindaco!), bens obbedendo a un calcolo preciso, seguendo un piano
lucidamente predisposto. Che egli, di malferma salute quale era stato a trent'anni, pallido e
malaticcio, sempre, da pensare che si avviasse a finire precocemente di etisia, si fosse trasformato in
poco pi di dieci anni in un uomo dall'aspetto, se non robusto, certamente florido: tutti erano
d'accordo nell'attribuire il merito di questo decisivo, sorprendente consolidamento della salute di
Elia, in notevole misura anche a Gemma. E poi si sa, uno scienziato, un positivista! Perfino che egli
avesse rifiutato, a un certo punto, di continuare a pagare la quota alla quale erano obbligati secondo
il censo tutti i membri naturali della Comunit, affermando a giustificazione del rifiuto che la
coscienza non gli permetteva di fingere una fede che non aveva: anche su ci era legittimo, per non
dire doveroso, chiudere un occhio, se poi, trattandosi della circoncisione dei figli, non solo aveva
acconsentito a sottoporli a quella operazione del resto semplicissima, non solo aveva voluto
assistervi di persona, ma anzi aveva dichiarato che la cosa gli piaceva, perch rispondeva a evidenti
norme d'igiene note anche agli antichi e perci incluse saggiamente da essi nella religione. Che
senso aveva, alla fine, che egli fosse e dichiarasse di essere un libero pensatore (al Tempio ci venne
soltanto nell'occasione della morte del padre, per la funzione di suffragio: e bisognava vederli i
saluti gravi, ossequiosi, che rivolgeva ai presenti passando lungo i banchi: per tenere la gente a
distanza, intendiamoci, non c'era che lui!), che peso potevano mai avere questi tratti d'indipendenza,
queste sue eccentricit, se nella so stanza, venendo al dunque, continuava a conformarsi alla regola
generale?
E infatti, a questo proposito, quando il biondo, piccolo Ruben nel 1904, a soli sei anni, mor di
meningite: non era stata una sorpresa per tutti, una lieta sorpresa, che Elia, in contrasto con la sua
abituale noncuranza in materia di religione (la stessa, oh certo, che quasi in riconoscimento delle
innegabili virt di madre e di sposa di Gemma, l avrebbe indotto, nel '25, quando ella fosse
risultata inguaribilmente ammalata di cancro, a sposarla davanti a quel parroco di San Giuseppe,
convocato d'urgenza, per opera del quale lei aveva ripreso negli ultimi tempi le pratiche religiose
interrotte dalla giovinezza: perch Elia non era, poi, l'uomo arido e insensibile, il mostro di egoismo
che talvolta poteva apparire, ma invece, ecc. ecc.): non era stato davvero consolante, per tutti loro,
che egli insistesse che il suo secondogenito fosse sepolto accanto al nonno Salomone, nell'antico
cimitero ebraico, cos intimo, raccolto, verde e ben curato com'era? E d'altra parte - rammentavano -

non era stato, in quell'occasione della morte del bambino, estremamente penoso il comportamento
di Gemma, che non solo aveva voluto seguire passo passo il funerale, ma dopo, quando ebbero
finito di colmare la fossa, si butt a braccia aperte sul tumulo di terra fresca, e gridava,
interrompendo le preghiere dell'officiante dottor Levi, gridava che l, il suo bambino, al mi pvar
putn, lei non voleva lasciarcelo?
Una madre sempre una madre, ma anche un padre ha i suoi diritti. Pretendeva forse questo,
Gemma: che Ruben Corcos fosse sepolto di l dal muro, nel Camposanto Comunale, dove per
ritrovare una lapide si perdono le giornate? E cosa avevano tutti quei Brondi (ma erano caterve,
coloro!), da piangere e disperarsi a quel modo?
Perch erano venuti in cos gran numero? Dovevano aver convocato parenti prossimi e lontani,
amici e conoscenti, se non sapevano, la maggior parte, che stare a capo scoperto era proibito. E
quella l? Chi era quella donnetta con lo scialle nero e le dita ossute da zitella che cercava, aiutata
da Elia e da Jacopo (gi tanto somigliante ad Elia, il ragazzi: bruno, riservato, fine, pallido: un vero
Corcos), di rialzare Gemma che faceva di no col capo, e non avrebbe voluto ubbidire?
Luisa Brondi? Ah: la sorella di Gemma.
Imbattendosi sul portone della casa cli via Ghiara in Luisa, ce ne era sempre qualcuno, dei parenti
di Elia, che diceva cos Fingevano di non riconoscerla o, magari, stentavano veramente. Intimidita,
Luisa si stringeva lo scialle sotto la gola; e allo scatto che, aperta dai piani superiori per mezzo di
una corda tratta a mano, la serratura faceva, era pronta a cedere subito il passo.
Si tirava da parte, la vecchia ragazza, abbassando gli occhi.
Come avrebbe voluto, in quel momento, poter tornarsene sui propri passi! E invece no: ogni volta
finiva anche lei con l'entrare, richiudere adagio il portone, accodarsi a mezza scala al gruppo
compatto degli altri che salivano parlando tranquillamente fra loro: secondo un moto istintivo che fu
sempre pi forte, sempre, di ogni volont di resistergli, di proibirselo.
S, era proprio la sua, di Luisa, l'esile figuretta vestita di nero, col capo avvolto dallo scialle scuro
della chiesa e della festa, che quasi ogni pomeriggio sul tardi, ma non ci fu domenica, per anni ed
anni, che ci non accadesse, poteva esser vista avanzare rapidamente dalle azzurre, fitte di popolo,
gi suburbane lontananze di via Venti Settembre, per emergere infine a via Ghiara, a quel buen
retiro, come anche diceva Elia, a quell'isola di tranquillit cos propizia ai suoi studi, al suo bisogno
di raccoglimento e di pace. E mentre, per ultima, ella faceva lentamente gli scalini che portavano al
piano di sopra, il pensiero che niente di comune ci fosse tra loro, Brondi, e quella gente cos chiusa
e superba che le camminava davanti, non cessava un momento di torturarle il cuore.
Sostavano di nuovo, confusi insieme dinanzi alla porta chiusa, sul pianerottolo del primo piano.
Finalmente qualcuno veniva ad aprire, finalmente entravano.
Perch ci torno?, si chiedeva Luisa.
Inoltrandosi nelle stanze, guardava in giro. Dappertutto grossi tomi di scienza medica, libri di
letteratura amena per lo pi italiani e francesi, atlanti storici e geografici, dizionari, microscopi,
barometri, stetoscopi di legno e di metallo, strane, complicate lampade da studio, scaffali;
dappertutto grandi madie rustiche, armadi, tavoli rotondi, ovali e rettangolari, alari giganteschi
come ce n' solo in campagna, capaci secchie di rame friulane o di zinco appese da ganci ai soffitti
della cucina e dei bagni, neri letti di ferro verniciato, camini dalla cappa immensa e fuligginosa: e
lass, in cima in cima alle scale oltre il pianerottolo del secondo piano, incombente sopra la
porticina del granaio e su tutto il resto, la solenne immagine di un Mos legiferante
Perch fra tanti e cos diversi oggetti potesse stabilirsi un accordo - ella pensava - perch trovassero,
a poco a poco, anche essi il loro riposo, ce ne sarebbe voluto, del tempo! Forse soltanto il tempo,
con la sua lenta, insensibile carezza, con la sua nebbia leggera, sarebbe riuscito, alla fine, a
compiere il miracolo! Ma intanto la casa, che ripeteva nell'interno l'inconciliabilit dei suoi due
volti opposti e contrari - eppure vibrava tutta, come uno strumento musicale, nell'ora che la

campana della chiesa di San Giuseppe, l presso, le rovesciava addosso la sua stordente, inebriante
coltre di melodia - la casa non mancava mai di ripeterle che anche le persone, che in essa vivevano
e per essa passavano, erano incomunicabili l'una all'altra, l'una all'altra estranee.
Ogni volta, prima ancora di rivederlo, ella si raffigurava Elia.
Nella grande cucina dove le masserizie, ai muri, splendevano come fiamme; nella quale, restituito
dai suoi annuali viaggi estivi a Baden-Baden o a Vichy, egli tornava a rifugiarsi ogni autunno con
desiderio cos intenso, cos imperioso: Elia le sarebbe riapparso, ogni volta, invariabilmente seduto
al suo tavolo da lavoro, sordo a qualsiasi voce che cercasse di distoglierlo dai suoi pensieri, chiuso
in una solitudine che non si poteva valicare. Cosa ci vengo a fare, qui?, Luisa insisteva a
domandarsi. A che scopo sarebbe continuata a venirci, lei, nel cucinone pieno di serve, di
infermiere, di vicine, di parenti poveri e ricchi, di bambini e di adulti spesso vocianti, spesso
rissanti; dove anche Gemma, che pur dominava col grosso mazzo delle chiavi delle credenze e degli
armadi appeso alla cintura, e coi subitanei, violenti scoppi d'ira plebea, non riusciva mai a spezzare
il cerchio di riserbo che difendeva Elia da qualunque intrusione indiscreta? Ed eccolo l, Elia,
difatti. Proprio in quell'attimo rialzava gli sguardi dai libri su cui, dopo l'ospedale e l'ambulatorio,
passava il resto della giornata (ehi librzz!, li indic sempre Gemma, con disprezzo), per portarli
fuori, oltre l'orto, oltre il muro di cinta che separava l'orto dai bastioni, oltre i bastioni stessi, e da
ultimo fissarli laggi, incredibili, sulle gran nuvole dorate che occupavano l'immenso cielo del
paesaggio familiare.
O rus, quando ego te adspiciam? mormorava egli, fra s, muovendo appena le labbra, gli occhi fissi
agli esigui filari di pioppi e agli sparsi casali della pianura. Oppure, volgendosi beffardo verso
Gemma: Vieni, diletta, appressati, schiava non sei n ancella
Perch dunque tornarci - esclamava dentro se stessa Luisa, a questo punto - se anche per lei, la
cognata zitella, non c'era e non ci sarebbe stato mai altro che un posticino in disparte, donde le sue
mani, manovranti in fretta meccanica l'uncinetto, riflettessero gli ultimi barlumi di luce?
Perch non possedeva, anche lei, un carattere forte come quello di sua madre, che non usciva di
casa per nessun'altra ragione che per recarsi in chiesa? Perch non il senso di dignit di suo padre e
dei suoi fratelli, i quali, le rare volte che si facevano vedere da quelle parti, non c'era mai modo di
stanarli dalla legnaia a terreno? L sotto, poich erano venuti per questo, essi si accanivano a gran
colpi di scure sui ceppi pi grossi, tanto da ridurli a misura di stufa. E bisognava sentirli, come
picchiavano! La casa ne rintronava tutta, dalle cantine ai granai. Inutile tentare di farli salire di
sopra, loro: nemmeno per dargli da mangiare.
Non restava che far scendere, cucinati a parte, enormi piatti di pasta asciutta, pane e salame, la
cipolla condita con olio e sale, il fiasco di vino.
No, non c'era mai stato niente di comune. Eccetto, forse (con gli anni, Luisa si attacc sempre pi a
questa idea), eccetto, forse, che col padre di Elia, col povero signor Salomone, l'ex mediatore di
grani che si era sposato tre volte, aveva avuto dodici figli l'ultimo dei quali fu Elia, e sebbene
vecchissimo, e vedovo per la terza volta gi all'epoca del matrimonio del figlio prediletto, e molto
attaccato alla catapecchia del vicolo Torcicoda da cui in vita sua non si era mai mosso, e dove, da
ultimo, aveva convissuto con la famiglia di Elia: nonostante ci si era deciso, alla fine, a seguire il
figliolo nella casa di via Ghiara: appena in tempo, nemmeno l'avesse presentito, per morirvi quasi
centenario, e per esser posto in effige fotografica nel tinello buono, di fronte a quella di Gemma.
Trattare con lui era ben diverso! Cerimonioso, vero, come Elia; prodigo anch'egli di scappellate,
di inchini, di complimenti d'ogni sorta: ma senza affettazione, senza ironia.
Se per istrada, ad esempio, egli si imbatteva in una donna che conoscesse, e non importava se col
cappello della signora o con lo scialle della popolana, eccolo, allora, che in segno di rispetto,
leggermente sfumato di ammirazione trattandosi di una bellezza, egli si addossava completamente
al muro o, al caso, scendeva addirittura dal marciapiede.

Bench religiosissimo e praticante (il matrimonio di Elia doveva esser stato un dolore, per lui, da
questo punto di vista soltanto: ma era una spinta segreta, a cui non accenn mai), pure, in casa, non
parlava mai di religione: n della propria n dell'altrui. Si limitava a usare liberamente il gergo del
ghetto, un gergo che solo in parte assomigliava al dialetto, pieno come era di parole
incomprensibili. Ma vocaboli come hamr (asino), hasr (maiale), magnd (quattrini), mahod
(bastonate), phat (paura), ecc., non avevano, in bocca sua, niente di misterioso, di strano, bens
acquistavano in qualche modo il colore del suo perpetuo ottimismo, della sua bont.
Richiesto, estraeva di tasca un piccolo orologio d'argento, a chiave, che alla sua morte pass ad
Elia: non senza, prima di dichiarare l'ora, averlo accostato all'orecchio, con aria beata. E spesso,
anche senza esserne richiesto, perch, con tutto che fosse l'uomo pi mite del mondo, era un
fervente patriota, spesso si metteva a parlare dei decenni del Risorgimento, quando Ferrara era
ancora sotto l'Austria, e i soldati in assisa bianca montavano la guardia davanti al Palazzo
Arcivescovile con la baionetta inastata. La gente, questi soldati, li guardava con disprezzo, con
odio; e anche lui, che allora era abbastanza giovane, aveva condiviso tali sentimenti. Ma insomma,
a ripensarci, che colpa ne avevano loro, quei poveri ragazzi, messi qui nella vigna a far da pali?
Ancora pi spesso, ad ogni modo, tornava su Garibaldi, che era stato il sole, l'idolo della sua
giovent E raccontava della voce del Generale, quella voce melodiosa, tenorile, da far rimescolare il
sangue, che lui, Salomone Corcos, confuso in mezzo a una folla delirante, aveva udito levarsi dal
balcone del palazzo Costabili, dove alloggi per una settimana l'Eroe dei due Mondi, in una stellata
notte di giugno del 1863.
C'era andato con Elia bambino, rammentava, tenendolo in braccio per tutta la durata del discorso: e
ci perch il minore dei suoi figli, il quale era troppo piccino per poter ricordarsi di un'altra notte
meravigliosa di qualche anno avanti, quando i cancelli del ghetto erano stati abbattuti a furor di
popolo, potesse ricordarsi dell'Uomo biondo in camicia rossa che aveva fatto l'Italia. Garibaldi! Lui
aveva grave carico di famiglia, ben dodici figli! Eppure, ne era certo, sentiva che sarebbe bastata
una sola parola del Generale (si inceppava sempre un poco, raccontando: ma a questo punto, con gli
occhi che gli brillavano, restava quasi senza fiato), perch se necessario, egli lo seguisse anche in
capo al mondo. In capo al mondo, sicuro! Chiunque avesse sentito parlare Giuseppe Garibaldi
avrebbe fatto altrettanto.
Con Gemma fu sempre umano, gentile, cavalleresco. E come avrebbe potuto dimenticare, Luisa, la
sua cortesia anche nei propri riguardi? Di lui, che se la incontrava per casa, non mancava mai di
interrogarla, sapendola di famiglia di ortolani, sui prezzi delle derrate: quanto i piselli, quanto l'uva,
quanto il grano? Lei Luisa, la sorella di Gemma, diceva: e pareva contento, poich la memoria
da qualche tempo si era messa in testa di fargli spesso difetto, di essersene ricordato da solo.
Ma c'era una cosa, sua, a parte i riccioli bianchi, lucenti come seta, e il gran naso caratteristico, della
quale ella si rammentava con una sorta quasi di volutt. E questa cosa era l'odore che emanava dai
suoi abiti.
Era un odore che sapeva di frutti della terra, come egli li chiamava: lo stesso sentore agreste,
misto di effluivi d'agrumi, fieno appassito e grano, che, sfogliando certi libretti di devozione da lui
portati con s, dalla casa di vicolo Torcicoda, perch fossero eventualmente distribuiti ai convitati
dell'gape pasquale, ella aveva sentito levarsi, ogni volta, da quelle antiche pagine ingiallite, scritte
mezze in ebraico e mezze in italiano, illustrate da incisioni in inchiostro azzurro raffiguranti le sette
piaghe d'Egitto, Mos dinanzi a Faraone, il passaggio del Mar Rosso, la caduta della manna, Mos
sul Sinai a colloquio. con l'Eterno, l'adorazione del vitello d'oro, e cos di seguito, fino
all'apparizione a Giosu della Terra Promessa. A differenza di Elia, la cui redingote professionale
non seppe mai d'altro che di sublimato e di acido fenico (ma da vecchio, novantenne come suo
padre, a vederlo nella schiera dei centottantatr ebrei cittadini che furono mandati a Fssoli e, di l,
deportati in Germania, cos solitario e silenzioso, al solito, fra i suoi piangenti compagni di
sventura, non sarebbe mancato chi nominasse anche per lui la Bibbia e i Patriarchi): dai panni e
da tutta la persona di Salomone Corcos spirava quel sottile, delicato, raro eppur familiare profumo

religioso.
Di esso, riposti nella credenza del salotto buono, i libretti pasquali avevano impregnato a poco a
poco il legno del mobile, l'intera stanza. Luisa vi entrava di soppiatto, in casa Corcos fu sempre il
suo rifugio, questo: anche dopo la morte di Gemma, quando, nel '26, venne a convivere con Elia in
qualit di governante di casa; anche dopo la scomparsa di Elia stesso, nell'autunno del '43.
Restava l, seduta nel buio, a pensare e a respirare in silenzio.
L'amore era un'altra cosa: lo sapeva anche lei, Luisa.
Qualcosa di crudele, di atroce, da spiare di lontano; o da sognarne, chiudendo gli occhi.
E certo il sentimento che, fino da giovane, ella aveva provato per Elia, che non era l'amore, dunque,
e nemmeno il desiderio o l'invidia di esso, ma tuttavia una presenza continua, fatale, indispensabile:
quel sentimento non era mai stato un pensiero lieto, se entrando, ogni volta, nella cucina dove Elia,
presso la finestra d'angolo, si attardava a studiare fino all'ora di cena (egli studiava, e pareva non
accorgersi di nulla: ma forse nulla, in realt, che valesse la pena di esser notato, poteva sfuggire ai
suoi occhi nerissimi, pungenti, indagatori), ella sentiva il bisogno di evitare il calmo sguardo che
per un attimo, al suo ingresso, si era levato da un libro; e di suscitare subito in s, a difesa, il ricordo
di Salomone Corcos. Da tutti, da tutti, e non solo da Elia, Salomone Corcos era stato diverso! Anche
il secolo passato, il suo secolo, era stato senza confronto migliore di quell'altro, pieno di ansia e di
dolore, nel quale a lei e a Gemma era toccato di vivere. E cos, intorno alla figura del buon vecchio,
Luisa aveva inventato a poco a poco un'et felice, meravigliosa, quando Iddio, al di sopra di ogni
divisione di razza, di classe, di religione, parlava ugualmente a tutti gli uomini.
Elia, Elia! Nulla poteva sfuggire al suo sguardo, davvero!
Eppure, insieme, pareva quasi che non vedesse
Quella notte famosa che si era fidanzato con Gemma (fu nel 1888, d'agosto), mentre, rincasando a
tarda ora, passava in punta di piedi davanti alla porta della camera da letto del signor Salomone, era
stato un momento in forse se entrare, e raccontare subito al padre ogni cosa.
Dove sei stato, Signore Iddio santissimo?, aveva gridato a un tratto il vecchio, dall'interno della
stanza, prima ancora che lui abbassasse la maniglia. Lo sai che non riuscivo a chiudere occhio?
Ci l'aveva indotto a cambiare bruscamente idea. Era dunque salito in camera sua, una stanzuccia
che dava sui tetti per un abbaino. E avendo visto, di lass, che ormai era l'alba (non pi un rumore,
nella casa, la citt addormentata ai suoi piedi, quella luce rosa che sfiorava l i tetti, da oriente, e un
brivido, un brivido d'orgoglio nel cuore), aveva deciso di fare a meno completamente del sonno, per
quella notte, e di mettersi anzi a studiare.
La Scienza. Non era questa la sua missione?
Doveva esser stato egli stesso a parlare di ci, una volta o l'altra; e intanto guardava dinanzi a s,
senza vedere pi nulla e nessuno, sogghignando leggermente.
Certo uno sguardo strano, povera Gemma! Come se persone e cose, proprio dall'alba di quel giorno
in poi, lui le avesse viste sempre cos: dall'alto, cio, e quasi fuori del tempo.

Una lapide in via Mazzini.


Et j'ai vu quelquefois ce que l'homme a cru voir.
RIMBAUD.

Quando, nell'agosto del 1945, Geo Josz ricomparve a Ferrara, unico superstite dei centottantatr
membri della Comunit israelitica che i tedeschi avevano deportato fin dall'autunno del '43, e che i
pi consideravano non senza ragione sterminati tutti da un pezzo nelle camere a gas, nessuno, in
citt, da principio lo riconobbe.
Non rammentavano nemmeno chi fosse, a dire il vero.
A meno che soggiungevano alcuni con aria dubitativa a meno che non si trattasse di un figlio di
quell'Angelo Josz, notissimo grossista di tessuti, che sebbene discriminato per meriti patriottici
(cos si esprimeva la motivazione del decreto del '39: e dopo tutto era stato umano, da parte del
defunto Console Bolognesi, che gi a quel tempo era Segretario Federale di Ferrara, e sempre
rimase un ottimo amico del vecchio Josz, adoperare, in memoria delle comuni imprese
squadristiche di giovent, un linguaggio talmente generico), non per questo era riuscito ad evitare
per s e per la famiglia la grande razzia del '43.
S, uno di quei ragazzi appartati cominciavano a ricordare stringendo le labbra e corrugando la
fronte non pi di una decina fra tutti, che per aver troncato forzatamente ogni rapporto di studio
con gli ex compagni di scuola fino dal '38, ed avere anche smesso, per conseguenza, di frequentarne
le case, da allora in poi non si erano pi visti in giro che di rado, ed erano venuti su con certe facce
strane, tra impaurite, selvatiche e sdegnose, che a rivederle ogni tanto in fuga, chine sul manubrio di
una bicicletta trascorrente velocissima per la Giovecca o per corso Roma la gente, turbata, preferiva
dimenticarsele.
Ma a parte ci: nell'uomo di et indefinibile, grasso al punto che sembrava gonfio, con un kolbacco
di pelo d'agnello sul capo rapato, e rivestito di una sorta di campionario di tutte le divise militari
cognite e incognite del momento chi avrebbe potuto riconoscere il gracile fanciullo di sette, o il
nervoso, magro, spaurito adolescente di tre anni avanti?
E se un Geo Josz era mai nato e esistito; se anche egli, a quanto asseriva, aveva fatto parte di quella
schiera di centottantatr larve inghiottite da Buchenwald, Auschwitz, Mauthausen, Dachau, ecc.:
possibile che lui, solo lui se ne tornasse adesso di l, e si presentasse bizzarramente vestito, vero,
ma comunque ben vivo, a raccontare di s e degli altri che non erano tornati, n sarebbero, certo,
tornati mai pi? Dopo tanto tempo, dopo tante sofferenze toccate un po' a tutti, e senza distinzione
di fede politica di censo, di religione, di razza, costui, proprio ora, che cosa voleva? Perfino
l'ingegner Cohen, il Presidente della Comunit israelitica, il quale, non appena rientrato dalla
Svizzera, aveva voluto dedicare agli scomparsi una gran lapide marmorea che spicc presto rigida,
enorme, nuovissima sulla facciata di cotto rosso del Tempio (e si dovette poi rifarla, naturalmente,
non senza soddisfazione di chi aveva rimproverato all'ingegnere tanta fretta celebrativa: giacch i
panni sporchi carit di Patria insegni! c' sempre modo di lavarli senza scandalo), perfino lui,
in principio, aveva levato una quantit di obiezioni, insomma non ne voleva sapere.
Ma andiamo con ordine, tuttavia; e prima di procedere oltre, fermiamoci un momento all'episodio
della lapide posta sulla facciata del Tempio israelitico per incauta iniziativa dell'ingegner Cohen:
episodio dal quale ha inizio, propriamente, la storia del ritorno di Geo Josz a Ferrara.
A raccontarla ora, la scena potr sembrare poco credibile.
E basterebbe, per dubitarne, immaginarla svolgersi contro lo sfondo per noi cos usuale, cos

familiare di via Mazzini (nemmeno, la guerra l'ha toccata: come a significare che nulla, mai, vi
potr accedere!): della via, cio che partendo da piazza delle Erbe, e fiancheggiando il vecchio
ghetto con l'oratorio di San Maurelio all'inizio, la stretta fessura di via Vittoria a mezzo corso, la
facciata di cotto rosso del Tempio israelitico un poco pi avanti, e la doppia, opposta schiera dei
suoi cento fondachi e botteghe, proteggenti ognuno, nella penombra impregnata di odori, una
piccola, cauta anima intrisa di mercantile scetticismo e ironia congiunge i vicoli contorti e
decrepiti del nucleo medioevale di Ferrara con le splendide arterie, tanto devastate dai
bombardamenti, della parte rinascimentale e moderna della citt.
Immersa nel fulgore e nel silenzio del meriggio di agosto, un silenzio interrotto a larghi intervalli
dagli echi di spari lontani, via Mazzini si apriva vuota, deserta, intatta.
E tale era apparsa anche al giovane operaio che dall'una e mezzo, montato sopra una piccola
impalcatura con un berretto di carta sulla testa, si era messo ad armeggiare attorno al lastrone di
marmo che gli avevano dato da sistemare, a due metri dal suolo, contro il mattone polveroso della
sinagoga.
La sua presenza di contadino costretto a inurbarsi per colpa della guerra e a improvvisarsi muratore
(egli si sentiva penetrare lentamente dal senso della propria solitudine e da un vago spavento:
perch si trattava di una lapide commemorativa, certo: ma lui si era guardato bene dal leggere cosa
c'era scritto sopra!), si era persa fin da principio nella luce, non era valsa ad annullare il deserto del
luogo e dell'ora. N era valso ad annullarlo, codesto deserto, nemmeno il piccolo gruppo di passanti
che, raccoltosi pi tardi senza che lui in apparenza se ne accorgesse, era venuto a coprire a poco a
poco, vario di atteggiamenti e di colori, buona parte del selciato alle sue spalle.
I primi a fermarsi erano stati due giovanotti: due partigiani barbuti e occhialuti, coi pantaloni corti
al ginocchio il fazzoletto rosso al collo, il mitra a bandoliera: studenti signorini di citt - aveva
pensato il giovane muratore-contadino sentendoli parlare e voltandosi appena a sbirciarli.
Ad essi, di l a poco, si era aggiunto un prete, imperterrito ad onta del caldo nella sua tonaca nera,
ma con le maniche imboccate-aveva una sua strana aria battagliera, come di sfida - sui bianchi
avambracci pelosi. E quindi, di seguito, un borghese, un sessantenne dalla barbetta color pepe e
sale, L'aria spiritata, la camicia aperta sul petto magrissimo e l'inquieto pomo d'Adamo: il quale
borghese, dopo aver cominciato a leggere a mezza voce ci che presumibilmente era scritto sulla
lapide (ed erano nomi e nomi: ma non tutti italiani, a quanto pareva), a un certo punto si era
interrotto bruscamente per esclamare con enfasi: Centottantatr su quattrocento!: come se anche
in lui, Podetti Aristide da Bosco Msola, che a Ferrara c'era per caso, n aveva intenzione di
trattenercisi pi a lungo del puro necessario, e intanto badava al lavoro e a niente altro, quei nomi e
quei numeri potessero risvegliare chiss che ricordi, suscitare chiss che emozioni. Cosa gli
importava, a lui, di sapere a chi quei nomi appartenessero, e per quale ragione erano stati incisi nel
marmo? I discorsi della gente che attratta invece proprio da essi, stava diventando sempre pi fitta,
facevano un ronzio molesto alle sue orecchie. Ebrei va bene, centottantatr su quattrocento.
Centottantatr su quattrocento che ne vivevano a Ferrara prima della guerra.
Ma che cosa erano, finalmente, questi ebrei? Cosa intendevano dire, coloro e gli altri, i fascisti, con
questa parola?
Eh, i fascisti! Proprio dal suo paese in fondo alla Bassa, dl cui a partire dall'inverno del '44 avevano
fatto una specie di loro quartier generale, avevano sparso il terrore nelle campagne per mesi e mesi.
Li chiamavano tupn, topini, per il colore delle camicie: e appunto come i topi, quando era arrivata
l'ora della resa dei conti avevano trovato subito la buca dove nascondersi. Stavano nascosti, adesso.
Ma chi poteva garantire che non sarebbero pi tornati? Chi poteva giurare che non stessero girando
tuttora per le strade, anche essi col fazzoletto rosso al collo, aspettando il momento della riscossa?
Al momento buono, altrettanto svelti di come si erano nascosti, sarebbero saltati di nuovo fuori con
le loro camicie nere, le loro teste di morto: e allora, meno cose uno sapeva, tanto meglio per lui.
Ed era, il povero ragazzo, talmente determinato a non volere saper nulla perch gli bastava di

lavorare, a lui, non si interessava di altro -; talmente ignaro, e diffidente di tutto e di tutti, mentre
volgeva, chiuso nel suo rozzo dialetto del Delta, la schiena ostinata contro il sole: che a un tratto,
sentendosi toccare leggermente una caviglia (Geo Josz?, disse nel medesimo tempo una voce
beffarda), si rivolt subito indietro con gli occhi cattivi.
Un uomo basso, tarchiato, con uno strano berretto di pelliccia in capo, era davanti a lui. Alzando il
braccio, indicava la lapide alle sue spalle. Come era grasso! Sembrava gonfio d'acqua, una specie di
annegato. E non c'era da averne paura: perch rideva, di certo per guadagnarsi la sua simpatia.
Geo Josz?, ripet indicando sempre la lapide: ma serio, ora.
Di nuovo si mise a ridere. Ma subito, come pentito, e seminando il discorso di frequenti prego
alla tedesca (si esprimeva con la forbitezza di un conversatore da salotto: e Podetti Aristide, poich
era a lui che si indirizzava, stava a sentirlo a bocca aperta), si dichiar spiacente, mi creda, di aver
guastato ogni cosa col suo intervento il quale, era pronto a riconoscerlo, aveva tutti i caratteri della
gaffe. Eh gi - sospir: la lapide avrebbe dovuto essere rifatta, dato che quel Geo Josz, cui in
parte era dedicata, non era altri che lui stesso, l presente A meno che (e cos dicendo volse in giro
gli occhi celesti, come a impadronirsi di una immagine di via Mazzini dalla quale fosse esclusa la
piccola folla che gli si stringeva attorno senza fiatare: non una testa, frattanto, si era sporta da
qualcuna delle tante botteghe l presso), a meno che la commissione promotrice delle onoranze,
accettando il fatto come un suggerimento del destino, non avesse senz'altro rinunciato all'idea della
lapide commemorativa: la quale - sogghign - se offriva il vantaggio indubitabile, posta in quel
luogo di intenso passaggio, di farsi leggere quasi per forza (Lei per non tiene conto della polvere,
caro amico: tra qualche anno, vedr, nessuno se ne accorger pi!), aveva tuttavia il grave torto di
alterare in modo sconveniente la facciata cos onesta, cos alla mano, del nostro caro vecchio
Tempio: una delle poche cose, compresa la stessa via Mazzini - che la guerra, grazie a Dio, aveva
risparmiato completamente, ed era rimasta identica a prima sulle quali ( s, caro amico, lo
dico anche per Lei che immagino, non israelita), uno potesse ancora contare.
Un po' come se Lei, con quella faccia, con quelle mani, la obbligassero, che so, a mettersi lo
smoking.
E intanto mostrava le proprie, di mani, callose oltre ogni dire; ma coi dorsi cos bianchi che un
numero di matricola, tatuato poco pi su del polso nella pelle molliccia, come bollita, poteva essere
letto distintamente nelle sue cinque cifre, precedute dalla lettera J.
Cos, dunque, con uno sguardo non gi minaccioso, bens ironico e divertito (i suoi occhi, di un
celeste acquoso, guardavano freddi dal basso: quasi che egli emergesse, pallido e gonfio come era,
dal profondo del mare), Geo Josz ricomparve a Ferrara, tra noi.
Egli veniva da molto lontano, da assai pi lontano di quanto non venisse realmente! E ritrovarsi
d'un tratto qui, nella citt dove era nato..
La cosa si era svolta pressapoco nel modo seguente.
L'autocarro militare, a bordo del quale egli si era potuto trasferire in poche ore dal Passo del
Brennero alla Valle Padana, staccatosi dal traghetto di Pontelagoscuro aveva risalito lentamente
l'argine destro del Po. Ed ecco che, giunto in cima, dopo un ultimo, quasi riluttante sobbalzo gli
aveva offerto allo sguardo l'immensa, dimenticata pianura dell'infanzia e dell'adolescenza. Laggi,
spostata un poco a sinistra, avrebbe dovuto esserci Ferrara. Ma era Ferrara egli si era chiesto, e
aveva chiesto, anche, al conducente seduto al suo fianco - era Ferrara quello scuro poligono di
pietra polverosa, ridotto, a parte le quattro torri del Castello che aeree, irreali, ne sorgevano al
centro, a una specie di lugubre ferro da stiro che gravava pesante sui campi?
Dove erano i verdi, luminosi, antichi alberi che una volta si innalzavano lungo il crinale delle Mura
smozzicate? L'autocarro si avvicinava velocemente alla citt, come se, accelerando via via lungo
l'intatto asfalto del rettilineo, vi piombasse sopra dall'alto: e attraverso le larghe brecce aperte qua e
l nei bastioni, si potevano gi scorgere le vie urbane, un tempo tanto familiari, rese irriconoscibili

dai bombardamenti.
Non erano passati che due anni, da quando lui era stato portato via. Ma erano due anni che valevano
per venti, o per duecento.
Egli era tornato quando pi nessuno l'aspettava. Che cosa voleva, adesso?
Per rispondere con calma a una domanda come questa -con la calma necessaria a intendere e
compatire quello che, m un primo momento, magari non era stato che un semplice, anche se
inespresso, desiderio di vita - ci volevano forse altri tempi, forse un'altra citt.
Ci voleva gente, ad ogni modo, un po' meno atterrita di quei certi signori dai quali prendeva norma,
ancora e sempre, l'opinione pubblica cittadina (c'erano, nel numero, insieme con alcuni grossi
commercianti e proprietari di terre, parecchi tra i pi autorevoli professionisti di Ferrara: il nerbo
insomma di quella che era stata, prima della guerra, la nostra cosiddetta classe dirigente): persone
che per essere state costrette ad aderire, pi o meno in blocco alla defunta Repubblica Sociale, n
sapendo rassegnarsi nemmeno per poco a starsene in disparte, vedevano insidie e nemici, e perfino
rivali politici dappertutto. Avevano preso la tessera, la famigerata tessera, vero. Ma per puro
civismo.
E non prima, comunque, di quel fatale 15 dicembre del '43 che aveva visto la fucilazione simultanea
di ben undici concittadini, e dal quale aveva avuto inizio, in Italia, la non mai abbastanza deprecata
lotta fratricida. Crivellati dl colpi dirimpetto al portico del Caff della Borsa - dove erano rimasti
per un giorno intero, sorvegliati da vicino dalla truppa col mitra imbracciato - li avevano veduti, coi
loro occhi medesimi, i corpi di quei disgraziati riversi nella neve fradicia come tanti fagotti! E
cos, seguitando su questo tono, tutti presi come erano dallo sforzo di convincere gli altri e se stessi
che, se avevano sbagliato avevano sbagliato piuttosto per generosit che per paura (per questa
ragione, smesso ogni altro distintivo, avevano cominciato a farsi vedere in giro con tutte le
decorazioni disponibili inalberate all'occhiello della giacca): non potevano certo dirsi i tipi pi adatti
per conoscere negli altri quella semplicit e normalit di propositi, quella famosa purezza delle
opere e delle intenzioni a cui, per s, non sapevano rinunciare. Quanto poi al caso specifico
dell'uomo dal kolbak: ammesso pure che colui fosse Geo Josz - del che non erano, per, mica del
tutto persuasi! -; ci ammesso, di lui bisognava diffidare ugualmente. Quel grasso suo, tutto quel
grasso, li insospettiva. L'edma da fame, gi! Ma chi altri se non Geo poteva aver messo in
circolazione una simile storia, nel goffo tentativo di giustificare una floridezza che contrastava
singolarmente con quanto si diceva dei campi di concentramento tedeschi? L'edma da fame non
esisteva, era una invenzione bella e buona. E la grassezza di Geo significava due cose: o che nei
lager non si soffriva, poi, di quella gran fame che la propaganda sosteneva; o che Geo vi aveva
goduto di condizioni di particolare favore. Un fatto era sicuro: sotto quel berrettone di pelo, dietro
quel labbro increspato da un perpetuo sorriso, non ci poteva essere posto, l'avrebbero giurato, che
per pensieri e progetti ostili.
E cosa dire degli altri - una minoranza, per la verit che se ne stavano tappati in casa, con l'orecchio
teso ai minimi rumori provenienti da fuori, l'immagine stessa della paura e dell'odio?
C'era fra questi ultimi chi si era offerto di presiedere, con tanto di sciarpa tricolore a tracolla, le
pubbliche aste dei beni sequestrati alla Comunit israelitica, inclusi i lampadari d'argento del
Tempio e le antiche pergamene delle Scritture; e chi, calcando sulla canizie il nero berretto
sormontato dal teschio della Brigata Nera, aveva fatto parte di un tribunale straordinario
responsabile di varie fucilazioni: gente per il resto quasi sempre per bene, che magari, prima di
allora, non avevano mai dato segno di interessarsi di politica, ed anzi, nella maggioranza dei casi,
avevano condotto vita prevalentemente ritirata, dedita alla famiglia alla professione, agli studi
Senonch temevano tanto per s, costoro; avevano, per proprio conto, tanta paura di morire: che
quand'anche Geo Josz non avesse desiderato che di vivere (e questo era il minimo, via!, che egli
potesse desiderare): ebbene anche in una richiesta cos semplice cos elementare, essi avrebbero
trovato di che sentirsi personalmente minacciati. Il pensiero che uno di loro potesse una notte o

L'altra, essere preso alla chetichella dai rossi, e condotto al macello in qualche luogo ignorato
della campagna: codesto pensiero tremendo tornava, assiduo, a farli impazzire di angoscia. Vivere,
sopravvivere purchessia!
Era una pretesa violenta, esclusiva, disperata.
E almeno si fosse, l'uomo dal kolbak, quel rottame deciso a andarsene da Ferrara!
Incurante che i partigiani, sottentrati al Comando della Brigata Nera, adoperassero la casa di via
Campofranco, di propriet di suo padre, come loro caserma e prigione, era chiaro invece che egli si
accontentava di portare attorno, ossessivo, quella sua faccia di malaugurio: certo per aggiungere
nuova esca all'ira di chi avrebbe provveduto a vendicare lui e tutti i suoi. Lo scandalo pi grosso, ad
ogni modo, era che le nuove autorit sopportassero un tale stato di cose. Al Prefetto dottor Herzen,
insediato nella carica l'indomani della cosiddetta Liberazione, da quel medesimo C.L.N. di cui,
dopo i fatti del dicembre '43, era diventato il presidente clandestino, inutile ricorrere: se era vero,
come era vero, che le liste di proscrizione le compilavano ogni sera nel suo ufficio, in Castello. Eh
s, lo conoscevano bene, loro, quel tipo che nel '39 si era lasciato espropriare quasi sorridendo del
grande calzaturificio del quale era proprietario alle porte della citt, e di cui ora, se i bombardieri
alleati non lo avessero ridotto in malo modo avrebbe certo preteso di ritornare in possesso! Sui
quarant'anni, calvo, con le lenti cerchiate di tartaruga, aveva l'aspetto caratteristicamente pacifico e
inoffensivo (a parte il nome ebreo, Herzen, e la schiena rigida, inflessibile, che pareva avvitata al
sellino della bicicletta dalla quale non si separava mai) di tutte le persone pi seriamente temibili.
Ma la Curia Arcivescovile? E il Governatorato inglese?
Non era questo, purtroppo, il segno dei tempi: che anche da quelle parti non tornasse migliore
risposta di qualche sospiro di desolata solidariet o, peggio, di un ghigno beffardo?
Con la paura e con l'odio non si ragiona. Che se si fosse voluto, invece, per tornare a Geo Josz
medesimo, comprendere qualcosa di ci che realmente egli volgesse nell'animo, sarebbe bastato,
dopo tutto, rifarsi alla sua straordinaria riapparizione a Ferrara: e precisamente al seguito della
scena singolare che, giusto accanto all'ingresso del Tempio israelitico, in via Mazzini, a un certo
punto l'aveva condotto a offrire le mani, non senza sarcasmo, all'esame sbigottito di un giovane
muratore.
Si ricorder forse il borghese di circa sessant'anni, con la rada barbetta brizzolata e il collo
risecchito, che era stato tra i primi a fermarsi davanti al lastrone di marmo della lapide
commemorativa voluta dall'ing. Cohen, levando a un dato momento la voce stridula
(Centottantatr su quattrocento!, aveva gridato con orgoglio) per commentarne il contenuto.
Ebbene, quando costui, dopo aver seguito con gli altri in silenzio ci che nei minuti successivi era
accaduto, si fu fatto largo con movimenti scomposti tra la piccola folla, e si fu buttato al collo
dell'uomo dal kolbak, baciandolo fragorosamente sulle gote, e dimostrando con ci, primo fra tutti,
di avere riconosciuto perfettamente in lui Geo Josz: quest'ultimo, che ancora stava con le mani stese
in avanti, se ne usc a dire freddo freddo: Con quella barbetta ridicola, caro zio Daniele, quasi non
ti riconoscevo: frase, la sua davvero rivelatrice non soltanto dei rapporti di parentela esistenti fra
lui e uno dei superstiti rappresentanti cittadini della famiglia Josz (un fratello di suo padre, per la
precisione, il quale, sfuggito per miracolo alla grande retata del novembre '43, era rientrato in citt
fin dagli ultimi giorni dell'aprile scorso), bens dell'insofferenza acuta, profonda che lui, Geo, aveva
subito provato per ogni segno che gli parlasse, a Ferrara, del passaggio del tempo, e dei mutamenti
anche minimi da esso portati nelle cose.
E cos:
Perch quella barba?
Crede forse che la barba le stia bene?
Pareva, sul serio, che egli non avesse in mente che di osservare con occhio critico tutte le barbe di
varia foggia e misura che la guerra, non diversamente dalle famose carte false, aveva fatto diventare

di uso comune: ed era il suo modo, questo, giacch non poteva certo dirsi un tipo loquace, di
disapprovare, di non essere d'accordo.
In quella che era stata prima della guerra casa Josz, dove zio e nipote apparvero lo stesso
pomeriggio, ce ne erano molte, di barbe, naturalmente; e al basso palazzotto di pietra rossa,
sormontato da una snella torre ghibellina, cos esteso in lunghezza da coprire quasi interamente un
lato della breve e appartata via Campofranco, ne veniva un'aria militaresca, feudale, buona forse a
evocare gli antichi padroni dello stabile, i marchesi Del Sale, dai quali Angelo Josz lo aveva
acquistato nel '10 per poche migliaia di lire, ma nulla affatto lui, il grossista di tessuti ebreo
scomparso con moglie e figli nei forni di Buchenwald.
Il portone da basso era spalancato. Davanti, seduti sui gradini dell'ingresso col mitra fra le gambe
nude, o sdraiati sui sedili di una jeep accostata all'alto muro che, di fronte, correva a separare via
Campofranco da un vasto giardino privato, sostavano in ozio una dozzina di partigiani. Ma altri, in
maggior numero, alcuni recando sotto il braccio fascicoli voluminosi, e tutti coi segni, nei volti,
dell'energia e della risolutezza, andavano e venivano senza riposo nonostante l'afa del pomeriggio
inoltrato. Si svolgeva cos, fra la strada met in ombra e met al sole e il portico sbrecciato del
vecchio palazzo gentilizio, un andirivieni intenso, vivace, allegro, in pieno accordo con le strida
delle rondini che passavano basse, radendo i ciottoli, e col ticchettio di macchine da scrivere che
usciva fuori di continuo per le enormi inferriate secentesche del pianterreno.
La strana coppia - uno magro, alto, spiritato, L'altro grasso, tardo, sudaticcio entr dunque nel
portico, e subito attrasse l'attenzione dei presenti: in gran parte gente armata, al solito con capelli e
barbe prolisse, che sedevano in attesa su rozzi banchi disposti lungo le pareti. Si fecero attorno e
Daniele Josz, che evidentemente ci teneva a mostrare ai nipote la propria dimestichezza con
l'ambiente, gi rispondeva di buon grado alle domande, per conto suo e del compagno.
Ma lui, Geo, fissava ad uno ad uno quei volti abbronzati, sanguigni, che li stringevano da presso,
come se attraverso le barbe volesse indagare chiss quale segreto, quale nascosta magagna.
Eh, a me non me la date mica a bere!, diceva il suo sorriso.
Parve rasserenato solo un momento, scoprendo che oltre il cancello del portico, diritta al centro del
piccolo giardino pelato che si stendeva di l, splendeva, bruna e rigogliosa, una grande magnolia.
Ma non abbastanza, tuttavia, perch poco pi tardi, di sopra, nell'ufficio del giovane Segretario
provinciale dell'ANPI (lo stesso che di l a due anni sarebbe diventato il pi brillante deputato
comunista d'Italia: cos gentile, compto e rassicurante da far sospirare di rammarico, visto che
apparteneva ad una delle migliori famiglie borghesi di Ferrara, i Bottecchiari, e per giunta era
scapolo, non poche delle nostre pi degne mres de famille, egli non ripetesse di nuovo la sua ormai
vieta osservazione:
La barba non le sta affatto bene, lo sa?
Sicch, nel gelo imbarazzato che subito scese su quella che fino allora, per merito esclusivo dello
zio Daniele, era stata una conversazione non priva di cordialit, nel corso della quale il futuro
onorevole aveva fatto mostra di non rilevare il Lei a cui si era tenuto Geo per parte sua, e aveva
insistito nell'affettuoso tu dei coetanei e dei compagni di partito, emerse chiaro, di colpo, ci che
Geo Josz realmente voleva, la ragione per la quale egli si trovava l (e avessero potuto assistere alla
scena tutti coloro che viceversa temevano tanto di lui!). Quella casa dove loro, cos come gli altri
prima di loro si erano insediati, era sua, non se ne ricordavano? Con quale diritto se ne erano
impossessati?
Guard minaccioso la dattilografa che, trasalendo, smise d'un tratto di battere sui tasti, come se
intendesse dire anche a lei, proprio a lei, che non si sarebbe affatto accontentato di una stanza sola, e
fosse pure stata quella l cos bella e assolata - un tempo salotto da ricevere, certo, anche se il
parquet era stato strappato dal pavimento per farne magari legna da ardere, nella quale, vero?, si
stava cos bene, dall'alba al tramonto, e forse anche pi in l del tramonto, a lavorare in compagnia

del giovane comandante partigiano che sembrava tanto deciso, bont sua, a rinnovare il mondo.
Cantavano gi nella strada:
Fischia il vento, urla la bufera, scarpe rotte e pur bisogna andar e il canto entrava, impetuoso e
assurdo, attraverso la finestra aperta contro il cielo di un rosa tenero, dolcissimo.
Ma la casa era sua, non si illudessero. Presto o tardi lui se la sarebbe ripresa, tutta.
Questo sarebbe accaduto, sebbene ovviamente non subito.
Per il momento, Geo parve accontentarsi di una stanza sola - e non si tratt certo dell'ufficio di Nino
Bottecchiari!
Era invece una sorta di granaio posto in cima alla torre che sovrastava la casa, per raggiungere la
quale occorreva superare non meno di cento gradini, e a cui, da ultimo, per mezzo di una tarlata
scaletta di legno, si accedeva direttamente da un sottostante sgabuzzino una volta adibito a
ripostiglio di comodo. Fu Geo stesso, col tono disgustato di chi si rassegna al peggio, a parlare per
primo di quel ripiego. Quanto allo sgabuzzino inferiore, anche quello, aggiunse, gli sarebbe
tornato abbastanza utile, potendo allogarvi, come intendeva, lo zio Daniele
Senonch da quell'altezza, attraverso un'ampia vetrata, risult presto chiaro che Geo poteva tener
dietro a qualunque cosa succedesse nel giardino, da una parte, e in via Campofranco, dall'altra. E
siccome egli non usciva quasi mai di casa passando presumibilmente gran parte del giorno a
guardare il vasto paesaggio di tegole brune, orti, e verdi campagne che si stendevano ai suoi piedi
(un panorama immenso, ora che i fronzuti alberoni delle Mura non erano pi l a limitarlo!), la sua
presenza continua divenne in breve, per gli occupanti dei piani di sotto, un pensiero molesto,
assillante. Le cantine di casa Josz, che rispondevano tutte nel giardino, fino all'epoca della Brigata
Nera erano state adattate a prigioni segrete, sul conto delle quali, in Citt, anche dopo la
Liberazione si erano sentite raccontare molte storie sinistre. Ma adesso, sottoposte al probabile
infido controllo dell'ospite della torre, non servivano pi naturalmente, a quegli scopi di giustizia
sommaria e clandestina per cui erano state istituite. Adesso, con Geo Josz installato in quella specie
di osservatorio, non c'era da essere sicuri nemmeno un momento: giacch la lampada a petrolio che
lui teneva accesa tutta la notte-e se ne vedeva il debole chiarore filtrare dai vetri, lass, fino all'alba
lasciava supporre che egli fosse sempre all'erta, non dormisse mai. Dovevano essere le due, le tre
del mattino seguente alla sera che Geo era comparso la prima volta in via Campofranco, quando a
Nino Botticchiari, che era rimasto a lavorare nel suo ufficio sino a quell'ora, e finalmente si
disponeva a concedersi un po' di riposo, appena uscito in istrada capit di alzare gli occhi alla torre.
Badate a voi!, ammoniva il lume di Geo sospeso a mezz'aria nel cielo stellato.
E fu rimproverandosi acerbamente di colpevole leggerezza e acquiescenza - ma al tempo stesso, da
buon politico, preparandosi a tener conto delle nuove circostanze di fatto - che il giovane futuro
onorevole si decise a salire con un sospiro, a bordo della jeep.
Ma c'era poi il caso che egli, a qualunque ora del giorno come in breve cominci a fare, si
presentasse da un momento all'altro per le scale o gi nel portico: passando sotto gli occhi dei
partigiani, qui assembrati in permanenza, vestito dell'impeccabile abito borghese di gabardine color
oliva che quasi subito aveva sostituito al kolbacco, alla giubba di cuoio e ai pantaloni stretti alle
caviglie di quando era arrivato a Ferrara. Egli passava tra i partigiani ammutoliti senza salutare
nessuno, elegante, perfettamente sbarbato, con l'ala del feltro marrone abbassata da un lato della
fronte sull'occhio freddo, di ghiaccio; e nel diffuso disagio che seguiva ad ogni sua apparizione, egli
fu fin dall'inizio l'autorevole padrone di casa, troppo educato per litigare, ma forte del suo diritto, al
quale basta mostrarsi per ricordare al L'inquilino moroso e vandalico che deve andarsene.
L'inquilino nicchia, fa finta di non rilevare la muta insistente protesta del proprietario dello stabile,
che per ora non dice nulla ma certo non mancher, a tempo opportuno, di chiedergli conto dei
pavimenti rovinati, delle pareti imbrattate: sicch, di mese in mese, la sua situazione peggiora, si fa
sempre pi imbarazzante e precaria. Fu tardi, dopo le elezioni del '48, quando tante cose, a Ferrara,

erano ormai cambiate, o meglio tornate nello stato di prima della guerra (ma intanto la candidatura a
deputato del giovane Bottecchiari aveva fatto in tempo a essere coronata dal pi completo dei
successi): fu allora che l'ANPI si risolse a trasferire altrove la sua sede; e precisamente in tre stanze
dell'ex Casa del Fascio, in viale Cavour, dove dal '45 aveva stabilito i propri uffici la Federazione
provinciale del Lavoro. Vero , tuttavia, che per l'azione silenziosa, implacabile di Geo Josz, tale
trasferimento risultava da un pezzo pi che maturo.
Egli non usciva quasi mai di casa, dunque, come se volesse che nemmeno per un momento col ci si
dimenticasse di lui. Ma ci non gli impediva di farsi vedere ogni tanto in via Mazzini, dove a partire
dal settembre aveva ottenuto che il magazzino del padre, nel quale la Comunit veniva ammassando
tutto ci che si poteva recuperare dei beni sequestrati agli ebrei durante il periodo della Repubblica
Sociale, fosse sgomberato in vista dei pi che necessari come disse all'ing. Cohen in persona lavori di restauro, e della riapertura dell'esercizio; o pi di rado, lungo corso Giovecca, col passo
incerto di chi avanza in terreno proibito, ed ha l'animo diviso tra il timore di fare incontri spiacevoli
e l'acre desiderio, perfettamente opposto, di farli per la passeggiata serale che gi aveva ripreso a
svolgervisi animata e vivace come sempre; o all'ora degli aperitivi, e sedendo di schianto a un
tavolino - perch ci arrivava ogni volta senza fiato, grondante di sudore, al Caff della Borsa, in
corso Roma, che era rimasto il centro politico della citt. N l'atteggiamento di ironico spregio che
gli era abituale, e aveva persuaso perfino lo zio Daniele, pur cos espansivo, ed elettrizzato dall'aria
del primo dopoguerra, a rinunciare ben presto ad ogni conversazione attraverso la botola
incombente sulla sua testa, accennava a disarmare di fronte alle manifestazioni di cordiale
accoglienza, agli affettuosi Ben tornato! che ormai, dopo le incertezze dei primi momenti,
cominciavano a venirgli da tutte le parti.
Uscivano dalle botteghe prossime a quella che era stata del padre, e adesso era sua, con la mano tesa
di chi offre aiuto e consiglio, o addirittura promette, per iperbole di generosit, concorrenza leale in
eterno; o traversavano apposta la Giovecca per quanto era larga, e con slancio eccessivo reso ancora
pi isterico dal fatto che, in genere, non lo conoscevano che di nome, gli buttavano le braccia al
collo ovvero si staccavano dal banco del bar, tuttora immerso in quella stessa oscurit faziosa dalla
quale un tempo sortivano ogni giorno alle tredici, gli annunci radiofonici delle sconfitte (annunci
che raggiungevano appena, al passaggio, la bicicletta fuggitiva di Geo ragazzo), per venire a
sederglisi accanto, sotto il tendone giallo che bastava cos poco a difendere dal sole accecante e
dalla polvere delle macerie.
Lui era stato a Buchenwald e, unico!, ne tornava, dopo aver sopportato chiss quali torture fisiche e
morali, dopo avere assistito a chiss quali orrori. Ebbene essi erano l, a sua disposizione, tutti
orecchi per ascoltare. Raccontasse, e loro non si sarebbero stancati mai, pronti a rinunciare, per lui,
perfino al pranzo a cui gi chiamava con due rintocchi l'orologio del Castello. Parevano nel
complesso altrettante patetiche scuse di avere tardato a riconoscerlo, di aver cercato di respingerlo,
di escluderlo ancora una volta. Era come se in coro dicessero: Sei mutato, sai? Un uomo fatto, che
diamine, e poi cos ingrassato! Ma vedi: anche noi siamo cambiati, il tempo passato anche per
noi: nel mentre che mostravano, come a testimonianza della loro buona fede, e a sostegno
dell'evoluzione che le loro idee avevano subito in quegli anni tremendi, decisivi, i calzoni di tela
grezza, le maniche rimboccate, le sahariane, i colletti senza cravatta, i sandali senza calze: nonch la
barba, naturalmente, poich non c'era nessuno che non la portasse Ed erano incerti nell'offrirsi
ogni volta all'esame e al giudizio di Geo, e sinceri, poi nel dolersi delle sue ripulse inflessibili: cos
come fu sincera, a suo modo, la convinzione che dopo l'aprile prese un po' tutti, in citt - compresi
coloro che avevano pi da temere del presente e da dubitare del futuro -: la convinzione cio che
bene o male fosse per iniziarsi da allora un'epoca nuova, migliore in ogni caso di quell'altra che,
come un lungo sonno pieno di incubi atroci, stava finendo nel sangue.
Quanto allo zio Daniele, al quale, da tre mesi che viveva di espedienti e senza alloggio fisso, il
bugigattolo soffocante della torre era subito apparso, nel suo ottimismo inguaribile, un acquisto
meraviglioso, nessuno pi di lui era convinto che con la fine della guerra fosse davvero cominciata
l'et felice della democrazia e della fratellanza universale.

Finalmente si respira!, aveva azzardato fin dalla prima notte che aveva preso possesso del suo
pozzo - e parlava steso supino sul materasso di crine, le mani dietro la nuca.
Finalmente si respira, aah!, ripet a voce pi alta. E Non pare anche a te, Geo, che l'aria, in citt,
sia diversa da quella di prima? Le cose sono mutate, credimi: dentro, nella sostanza, mica soltanto
di fuori. Sono i miracoli della libert. Io, per me, sono profondamente persuaso
Ci di cui Daniele Josz era profondamente persuaso, a Geo invece doveva sembrare di assai dubbio
interesse, se per tutta risposta egli non lasci mai cadere dall'apertura verso la quale salivano la
scaletta di legno e le appassionate apostrofi dello zio niente altro che qualche Uhm! qualche Ma
davvero?, che non invogliavano certo a proseguire.
Cosa far mai?, si chiedeva allora il vecchio ammutolendo, mentre gli occhi gli andavano al
soffitto schiaffeggiato avanti e indietro da un paio di ciabatte instancabili; e non sapeva cosa
pensare.
Gli pareva impossibile, a lui, che Geo non condividesse il suo entusiasmo.
Fuggito da Ferrara nei giorni dell'armistizio, aveva passato quasi due anni, ospite di contadini,
nascosto in uno sperduto villaggio dell'Appennino tosco-emiliano. E lass dopo la morte della
moglie che, poveretta, lei cos osservante!, aveva dovuto essere sepolta sotto falso nome in terra
consacrata, si era aggregato in qualit di commissario politico a una brigata partigiana. Egli era
entrato fra i primi, abbronzato e barbuto in cima a un camion, in Ferrara liberata. Che giorni
indimenticabili! Ritrovare la citt mezzo diroccata, vero, quasi irriconoscibile, ma completamente
ripulita dai fascisti, da quelli di prima e da quelli di Sal da tutte quelle facce, insomma, buona
parte delle quali anche Geo avrebbe pur dovuto ricordare: questa, per lui, era stata una gioia cos
piena, cos straordinaria! Sedersi tranquillamente al Caff della Borsa, di cui subito, appena tornato,
aveva fatto la base di operazioni della sua antica, modesta attivit di assicuratore, senza che nessun
occhio corrucciato gli comandasse di andarsene, ma anzi, sentendosi al centro della simpatia
universale: oramai, dopo l'adempimento di un simile desiderio, egli avrebbe potuto anche morire!
Ma Geo? Possibile che Geo non sentisse nulla di tutto ci? Possibile che dopo essere sceso
all'inferno, e per miracolo esserne risalito, in lui non ci fosse altro impulso che di rievocare
immobilmente il passato, cos come provava in qualche modo l'agghiacciante schiera di fotografie
dei suoi morti (il povero Angelo, la povera Luce, e quel piccolo Pietruccio nato dieci anni dopo Geo
quando in famiglia pi nessuno l'aspettava, nato solamente per conoscere la violenza e l'angoscia e
per finire a Buchenwald!): fotografie delle quali, un giorno che di nascosto si era spinto di sopra,
nella stanza del nipote, aveva trovato tappezzate le quattro pareti? Possibile infine che l'unica barba,
in Citt, contro la quale egli non aveva nulla da obiettare, fosse proprio la barba di quel vecchio
fascista di Geremia Tabet, cognato del povero Angelo, che anche dopo il '38, ad onta delle leggi
razziali e del conseguente ostracismo imposto ovunque agli ebrei, aveva potuto continuare a
frequentare il Circolo dei Commercianti per il bridge del pomeriggio, seppure non ufficialmente?
La sera stessa del ritorno di Geo, lui, Daniele Josz, aveva dovuto seguire a malincuore il nipote fino
a casa Tabet in via Roversella, dove da quando era rientrato in citt non si era mai fatto vedere.
Ebbene, non era inconcepibile continuava a ripetere a se stesso L'ex commissario politico, il
sessantenne ex partigiano: e intanto il nipote, nella stanza di sopra, non smetteva di camminare
pesantemente su e gi - non era inconcepibile che Geo, appena lo zio fascista si era affacciato da
una finestra del primo piano, fosse uscito in un grido acutissimo, ridicolmente, istericamente
appassionato, quasi selvaggio? Perch quel grido? Che cosa significava? Significava forse che il
ragazzo, nonostante Buchenwald e lo sterminio di tutti i suoi, era cresciuto quale il padre, Angelo,
era stato nella sua ingenuit fino all'ultimo, magari fino alla soglia della camera a gas: un
patriota, cio, cos come tante volte l'aveva sentito professarsi con stolida fierezza?
Chi !, domand una voce preoccupata, scendendo dall'alto.
Sono io, zio Geremia, sono Geo!
Si trovavano da basso, di fronte al portone chiuso di casa Tabet Ormai erano le dieci, e in fondo al

vicolo non ci si vedeva a pi di un passo di distanza. Il grido di Geo rammentava Daniele Josz l'aveva fatto trasalire di sorpresa.
Era stato una specie di strano urlo, strozzato dalla pi violenta, inspiegabile delle emozioni.
Sorpresa e imbarazzo: impossibilit di dire niente. In silenzio, urtandosi fra di loro e inciampando
nei giardini, avevano fatto a tentoni, nel buio pi assoluto, due ripide rampe di scale.
Finalmente, in cima alle scale, mezzo dentro e mezzo fuori dell'uscio, era apparso, in pigiama,
l'avvocato Geremia Tabet in persona. Reggeva nella mano destra un piattino, con sopra dritta una
candela, il cui lume vacillante dava al naturale pallore del suo viso, incorniciato dalla barba a punta
nemmeno tanto ingrigita, vaghi riflessi verdastri.
Non appena lo aveva scorto, lui, Daniel Josz, si era fermato.
Era la prima volta che lo rivedeva, da quando la guerra era terminata; e se adesso si trovava l, sul
punto di fargli visita, a ci si era indotto unicamente per compiacere a Geo che, viceversa, dopo il
sopralluogo alla casa di via Campofranco, di qualche ora prima, sembrava non avere altro per la
testa che lo zio Geremia. Deposta la candela sul pavimento, l'avvocato Tabet aveva stretto il
nipote al seno, con un lungo abbraccio: ed era bastato questo perch il terzo incomodo, che era
rimasto a osservare la scena dal pianerottolo inferiore immerso nel buio, dimenticato laggi come
un estraneo, si sentisse nuovamente il parente povero che tutti loro - suo fratello Angelo d'accordo
anche in ci coi Tabet - avevano sempre evitato e disprezzato per le sue idee sovversive.
Andarsene. Andarsene senza salutare. Non mettere piede in quella casa.
Che peccato aver resistito alla tentazione! A fermarlo, in realt, era stata una speranza, una assurda
speranza. Dopo tutto, aveva pensato, la povera Luce, la mamma di Geo, era una Tabet: sorella di
Geremia. Forse era stata soltanto la memoria della madre a trattenere in un primo momento Geo dal
comportarsi nei riguardi dello zio materno con la freddezza che il vecchio fascista meritava
Ma si era ingannato, purtroppo: e per il resto della sera, anzi, fino a notte inoltrata, perch sembrava
che Geo non si decidesse mai ad accomiatarsi, gli era toccato di assistere, seduto in un angolo del
tinello, a manifestazioni di affetto e di confidenza poco meno che disgustose.
Era come se d'istinto si fosse stabilita fra i due una specie di intesa, alla quale, con prontezza
altrettanto fulminea, si erano subito uniformati anche gli altri membri della famiglia:
Tania Tabet, lei s invecchiata e sciupata!, e sempre appesa, con quei suoi occhi smarriti, alle labbra
del marito: e cos i tre ragazzi, Alda, Gilberta e Romano, che per, con la madre, si ritirarono presto
a dormire. Il patto era questo: Geo non avrebbe alluso, nemmeno indirettamente, ai trascorsi politici
dello zio, e lo zio, dal canto suo, avrebbe evitato di chiedere al nipote che gli parlasse di ci che
aveva visto e patito in Germania, dove anche egli, del resto - e ci dovevano comunque ricordare
coloro che pensassero di rinfacciargli qualche erroruccio di giovent, qualche pi che umano
sbaglio di scelta politica - aveva perduto una sorella, un cognato e un nipotino amatissimi.
Che sventura, certo, quale fatalit! Ma il senso dell'equilibrio e della discrezione (il passato era
passato: inutile starlo a rivangare!) ormai doveva vincerla su ogni altro impulso.
Meglio guardare avanti, al futuro. E anzi, a proposito di futuro in che cosa consistevano - aveva
chiesto a un dato momento Geremia Tabet, assumendo il tono grave e benevolo del capofamiglia
che vede lontano e a molto pu provvedere - in che cosa consistevano i progetti di Geo?
Egli meditava certo di riaprire il negozio di suo padre: aspirazione nobilissima, che lui non poteva
che approvare, visto tra l'altro che il magazzino, almeno, ancora c'era. Ma per riuscire nell'impresa
ci volevano quattrini, molti quattrini: ci voleva l'appoggio di qualche banca. Avrebbe potuto
aiutarlo, lui, in quest'ultimo senso? Lo sperava, lo sperava davvero.
Se per intanto, comunque, visto che la casa di via Campofranco era stata occupata dai rossi, egli
avesse voluto venire ad abitare temporaneamente da loro, una branda, se non un letto vero e

proprio, si sarebbe sempre riusciti a rimediarla!


Fu a questo punto esatto - rammentava Daniele Josz che lui, rialzando la fronte con pi viva
attenzione, aveva cercato di nuovo, seppure inutilmente, di capire.
Sudando abbondantemente, bench in pigiama, L'avvocato Tabet sedeva coi gomiti puntati sul
grande nero tavolo del refettorio al centro del quale, ormai prossima a finire, friggeva la candela; e
intanto, perplesso, si tormentava con la punta delle dita la barbetta grigia, il classico pizzo da
squadrista che, unico fra i vecchi fascisti di Ferrara, aveva avuto il coraggio, o L'improntitudine, o
magari l'accortezza, chiss, di non farsi tagliare. Quanto a Geo, mentre, accennando di no col capo,
declinava sorridendo l'invito, era proprio a quel pizzo ormai bigio e alla mano grassoccia che lo
stuzzicava, a cui, dall'altro lato del tavolo, si appuntavano i suoi occhi cerulei con fissit caparbia,
fanatica.
L'autunno fin. Sopraggiunse l'inverno, il lungo e freddo inverno delle nostre parti. Torn la
primavera. E lentamente, insieme con la primavera, ma tuttavia come se a evocarlo fosse soltanto lo
sguardo scrutatore di Geo, anche il passato tornava.
Strano, non vero? Eppure il tempo veniva disponendo le cose in modo tale da far pensare che tra
Geo e Ferrara tra Geo e noi - esistesse, se ci si pu dire, una specie di segreto rapporto dinamico.
Difficile, lo so, spiegare con chiarezza.
C'era, da un lato, il progressivo riassorbimento da parte del corpo di Geo di quegli umori malsani
che alla prima sua comparsa in via Mazzini, nell'agosto dell'anno precedente, avevano dato luogo a
tante discussioni e perplessit.
Dall'altro lato c'era il contemporaneo riaffiorare, dapprima timido, poi sempre pi deciso e evidente,
di una immagine di Ferrara e di noi, morale e fisica, di cui nessuno, m cuor suo, non aveva
desiderato a un certo punto di dimenticarsi. Piano piano egli dimagriva, riassumendo col trascorrere
dei mesi, a prescindere dai capelli radi e precocemente incanutiti sulle tempie, un volto che le
guance glabre rendevano ancora pi giovanile. Ma anche la citt dopo che furono rimossi i cumuli
pi alti di macerie, e si fu sfogata una iniziale smania di cambiamenti in superficie anche la citt si
ricomponeva a poco a poco nel profilo assonnato, decrepito, che i secoli della decadenza clericale,
succedutisi di colpo per maligno decreto della storia, ai lontani, e feroci, e gloriosi tempi della
Signoria ghibellina, ave Vano ormai fissato per ogni possibile futuro in maschera immutabile.
Tutto, in Geo, parlava del suo desiderio, anzi della sua pretesa di ritornare ragazzo, quel ragazzo che
era stato, s, ma insieme, precipitato come era nell'inferno senza tempo di Buchenwald, non aveva
potuto mai essere. Ed ecco che anche noi, suoi concittadini, che eravamo stati testimoni della sua
fanciullezza e adolescenza, eppure di lui fanciullo non ci ricordavamo che vagamente (ma lui s che
ci ricordava, tanto diversi da come eravamo oggi!), ritornavamo quelli di una volta, quelli di prima
della guerra e di sempre.
Perch resistere? Se lui ci voleva cos, e se, soprattutto, eravamo cos, perch non accontentarlo? veniva fatto di pensare con improvvisa indulgenza e stanchezza.
Ma la nostra volont, lo si sentiva bene, non c'entrava che per poco o nulla. Si aveva l'impressione
di essere tutti coinvolti, Geo Josz da una parte e noi dall'altra, in un moto vasto, lento, fatale, da cui
non era possibile sottrarsi. Un moto cos lento - concorde come quello di sfere collegate per
sottoposti ingranaggi a un unico perno invisibile - che soltanto il crescere dei piccoli platani
ripiantati lungo i bastioni cittadini fino dall'estate del '45, o il graduale accumularsi della polvere
sopra la gran lapide commemorativa di via Mazzini, avrebbero potuto darne conveniente misura.
Si arriv a maggio.
Dunque era per questo! - uno diceva fra s e s, sorridendo.
Dunque era soltanto perch un rimpianto assurdo non sembrasse cos assurdo, e la sua illusione
fosse perfetta, che a partire dai primi del mese erano ricominciate a sfilare per via Mazzini, coi

manubri delle biciclette traboccanti di fiori di campo, schiere allacciate di belle ragazze che adagio
pedalavano, reduci da gite nella campagna suburbana, verso il centro della citt. Ed era, d'altronde,
per la medesima ragione, se nello stesso tempo, uscita da chiss quale nascondiglio ad appoggiare la
schiena contro lo stipite di marmo che aveva tenuto in piedi, per secoli, uno dei tre cancelli del
ghetto, tornava a comparire laggi all'angolo, immutata come un piccolo idolo di pietra, e simbolo
per tutti noi, nessuno escluso, del variamente beato entre deux guerre, la figuretta ermetica del
famigerato conte Scocca.
(Toh, il vecchio matto: eccolo l di nuovo!, era stato spontaneo borbottare, non appena si erano
riconosciuti in distanza l'inconfondibile paglietta giallastra inclinata sull'orecchio, lo stuzzicadenti
serrato fra le labbra sottili, il grosso naso sensuale levato a fiutare l'odore dei maceri che il
venticello vespertino portava con s).
E poich, nel frattempo, l'ultima generazione di belle ragazze di Ferrara, suscitando aperte
esclamazioni di lode dagli stretti marciapiedi, e pi segrete occhiate di ammirazione dall'oscurit
dei fondachi retrostanti, aveva quasi finito, una sera di quelle, di risalire pigramente via Mazzini, ed
anzi, in procinto di sfociare in piazza delle Erbe, stava per passare oltre ridendo: cos, di fronte allo
spettacolo della vita in eterno rinnovantesi, eppure sempre uguale a se stessa, e indifferente ai
problemi e alle passioni degli uomini, davvero non ci fu broncio, per quanto ostinato, che a questo
punto potesse resistere. Il piccolo palcoscenico di via Mazzini presentava a sinistra, provenienti
contro sole dal fondo della strada, i ranghi serrati e luminosi delle ragazze cicliste; e a destra,
immobile e grigio come il muro a cui si addossava, il conte Lionello Scocca. Come non sorridere
davanti a un simile spettacolo e alla luce che lo avvolgeva, quasi di posterit? Come non
commuoversi all'esibizione di quella specie di savia allegoria che conciliava d'un tratto ogni cosa:
l'angoscioso, atroce ieri, con l'oggi tanto pi sereno e ricco di promesse? Certo che a rivedere il
maturo, squattrinato patrizio riprendere bellamente il suo antico posto d'osservazione, donde per
chi, come lui, avesse vista acuta e udito sottile era possibile sorvegliare via Mazzini per tutta la sua
lunghezza e, nello stesso tempo, l'attigua piazza delle Erbe improvvisamente manc il cuore di
rimproverargli di essere stato per anni informatore stipendiato dell'OVRA o di avere diretto, dal '39
al '43, la locale Sezione dell'Istituto di cultura italo-germanico. Quei baffetti alla Hitler che si era
lasciati crescere per l'occasione, e ancora conservava, non inducevano adesso che a considerazioni
intrise di simpatia, e perfino, perch no?, perfino di gratitudine.
Parve scandaloso perci che nei riguardi del conte Scocca una innocua macchietta, in fondo - Geo
Josz si comportasse invece in un modo da Cui, nonch la simpatia e la gratitudine, doveva
dichiararsi estraneo ogni pi elementare senso di umanit e di discrezione. E la sorpresa fu tanto pi
viva perch di lui e delle sue bizzarrie, inclusa l'avversione per le cosiddette barbe di guerra, da
qualche tempo era invalsa l'abitudine di sorridere benevoli, comprensivi.
Parlare di Geo e dei suoi famosi capricci (Ce l'ha con la barba! Se non che per questo), e
assumere l'aria rassegnata di chi costretto, vessato, si disponeva a fare la sua volont giusto per
accontentarlo, soprattutto per fargli piacere: il vezzo era questo, e questa, insieme, la verit
profonda. Non senza che poi, sempre in materia di barbe cittadine che ad una ad una cadevano sotto
la forbice del barbiere, gli potesse anche essere riconosciuta una buona fetta di merito giacch,
ripeto, ogni cosa accadeva in gran parte per accontentarlo, soprattutto per fargli piacere - se
tante facce di galantuomini osavano finalmente restituirsi, nude, alla nuda luce del sole. Ed era vero,
verissimo, a quest'ultimo proposito, che l'avvocato Tabet, l'avvocato Geremia Tabet, zio materno di
Geo, la barba non se l'era ancora tagliata, n con ogni probabilit se la sarebbe tagliata mai. Ma il
suo caso avrebbe potuto presentare una eccezione valida soltanto per chi non sapesse associare
mentalmente a quel povero pizzo incanutito la casacca nera di orbace, i lustri stivaloni neri, il nero
fez di velluto coi quali ogni domenica mattina, fino all'estate del '38, fino all'estremo limite dei bei
tempi, l'avvocato Geremia era stato solito presentarsi in gloria, tra mezzogiorno e l'una, al Caff
della Borsa.
Da principio l'incidente sembr inverosimile. Nessuno ci credeva. Non si riusciva positivamente a

figurarsi la scena: Geo che entrava senza sorpresa, col suo passo fiacco, nel campo visivo del conte
Scocca addossato al muro; Geo che colpiva le guance incartapecorite della vecchia spia rediviva
con due schiaffi secchi, perentori, da vero squadrista. Il fatto comunque era accaduto di sicuro:
decine di persone avevano visto. Ma d'altra parte: non era abbastanza strano che fossero subito
corse varie versioni, e contrastanti, del modo come si erano svolte le cose?
Quasi quasi veniva da dubitare non solo della fondatezza di ciascuna di esse, ma addirittura della
realt vera, oggettiva, di quel medesimo doppio schiocco, pam-pam, cos pieno e sonoro, secondo la
voce generale, che si era udito per buona parte di via Mazzini: dall'oratorio di San Maurelio, a pochi
metri dal punto dove sostava il conte, fino all'altezza del Tempio israelitico e anche pi in l.
Per molti il gesto di Geo restava immotivato, senza spiegazioni possibili. Pochi momenti prima egli
era stato visto camminare nello stesso senso delle ragazze in bicicletta, lentamente, lasciandosi via
via superare da esse. Non volgeva mai il viso dal mezzo della strada: e nulla del suo viso, dove si
leggeva un sentimento misto di gioia e di stupore, poteva dar luogo a immaginare ci che sarebbe
successo di l a un istante arrivato cos dinanzi al conte Scocca, e staccati gli occhi da un terzetto di
cicliste vicine a sboccare da via Mazzini in piazza delle Erbe, ecco Geo, d'un tratto, fermarsi sui due
piedi: come se la presenza del conte, a quel punto e a quell'ora, gli riuscisse a dir poco
inconcepibile. La sua esitazione ad ogni modo era stata minima. Quanto basta per aggrottare le
ciglia, stringere le labbra, serrare convulsamente i pugni, borbottare qualcosa di mozzo e di
incoerente. Dopodich, come spinto da una molla, egli era letteralmente volato addosso al povero
conte, il quale, dal canto suo, fino allora non aveva mostrato per nessun segno di essersi accorto di
lui.
Tutto qui? Eppure una causa c'era, doveva esserci obiettavano altri torcendo le labbra dubbiosi. Il
conte Scocca non si era accorto del sopraggiungere di Geo: e ci, per quanto la cosa, in se stessa,
potesse sembrare strana, li trovava sufficientemente d'accordo. Ma come era possibile pensare che
Geo, lui s, si accorgesse del conte, proprio nel momento che le tre cicliste, su cui si appuntavano
avidi i suoi sguardi, stavano per sparire dentro la bruma dorata di piazza delle Erbe?
Secondo costoro il conte, invece che starsene immobile e silenzioso a guardare il passeggio, di
niente altro preoccupato eccetto che di risultare assolutamente identico all'immagine che egli e la
citt, con moto concorde di simpatia, insieme vagheggiavano, qualcosa faceva. E questo qualcosa,
di cui nessuno che fosse passato a pi di due metri di distanza si sarebbe potuto render conto
anche perch, nonostante tutto, le sue labbra persistevano a trasferire uno stuzzicadenti da un angolo
all'altro della bocca, questo qualcosa era un sibilo sottile, cos debole da parere, pi che timido,
casuale: una fischiatina oziosa e fortuita, che sarebbe di certo rimasta inosservata se il motivo al
quale accennava fosse stato diverso da quello di Lili Marln. (Ma non era proprio quest'ultimo,
d'altronde, il particolare pi gustoso, ci di cui si doveva maggiormente essere grati all'antico
delatore?).
Tutte le sere all'ombra del fanal fischiettava piano, ma con chiarezza, il conte Scocca, gli sguardi
anche egli perduti, malgrado i suoi settanta e pi anni, dietro le ragazze cicliste. Forse anche lui,
tralasciato un attimo di zufolare, a un dato momento aveva unito la sua voce all'unanime coro di
lodi che si levava dai marciapiedi di via Mazzini, per mormorare in dialetto secondo il sensuale e
bonario uso emiliano: Benedette da Dio!, o: Benedette voi e la madre che vi ha fatto!. Ma la
sfortuna aveva voluto che il sibilo ozioso, pacifico, innocente, innocente per chiunque altro, si
capisce, fuori che per Geo! - gli risalisse subito alle labbra. Inutile aggiungere che da qui fino al
termine la seconda versione dell'incidente concordava in pieno con la prima.
Ne esisteva tuttavia una terza, di versioni: e questa, come la prima, non parlava affatto di Lil
Marln n di altre fischiatine pi o meno innocenti o provocatorie.
A dare retta a questa ultima campana, era stato il conte a bloccare Geo. Ehi!, aveva esclamato
vedendolo passare.
Di colpo Geo si era fermato. E allora il conte subito a parlargli, cominciando senz'altro dal nome e

dal cognome (Guarda guarda: non sarai mica Geo Josz, il figlio del mio amico Angiolino?!):
perch lui, Lionello Scocca, sapeva tutto di tutti, e gli anni che aveva dovuto passare nascosto,
chiss dove e come, non avevano per niente annebbiato la sua memoria o attenuato la sua capacit
di riconoscere un volto fra mille - e si trattasse pure di un volto come quello di Geo, che a
Buchenwald, non gi a Ferrara, era diventato un volto d'uomo! E cos, assai prima che Geo si
scagliasse sul vecchio e, senza tenere conto n dell'et sua n di altro, lo schiaffeggiasse con
violenza, per qualche minuto i due avevano continuato a conversare tra loro con molta affabilit, il
conte Scocca interrogando Geo sulla fine di Angelo Josz, al quale, disse, era sempre rimasto
affezionatissimo, informandosi minuziosamente della sorte toccata agli altri suoi familiari,
Pietruccio compreso, deplorando quegli orribili eccessi e insieme congratulandosi del ritorno di
lui, Geo; e Geo rispondendo con una certa imbarazzata riluttanza, vero, ma insomma rispondendo:
non diversi all'aspetto da una normale coppia di cittadini che sostano su un marciapiede a discorrere
del pi e del meno in attesa che venga buio. Che cosa avesse spinto Geo, poi, ad assalire d'un tratto
il conte, a cui era giusto fare credito di non aver detto nulla che in qualche modo potesse offendere
o ferire il suo interlocutore, e di non aver abbozzato, nella fattispecie, nemmeno la pi piccola
fischiatina: la bizzarria del carattere di Geo stava tutta qui, a giudizio di chi raccontava tali cose,
stava tutta in questo enigma: e le chiacchiere e le supposizioni sull'argomento sarebbero
continuate ancora per molto.
In qualunque modo i fatti si fossero svolti realmente, certo che a partire da quella sera di maggio
molte cose cambiarono. Se qualcuno voleva comprendere, comprese.
Agli altri, ai pi, fu dato almeno di sapere che una svolta si era prodotta, che era accaduto qualcosa
di grave, di irreparabile.
Fu l'indomani stesso, per esempio, che la gente pot rendersi davvero conto di quanto Geo fosse
dimagrito.
Assurdo come uno spaventapasseri, tra la meraviglia, il disagio e l allarme generale egli riapparve
vestito degli stessi panni che indossava quando era tornato dalla Germania, nell'agosto del '4s,
kolbak e giubba di cuoio compresi. Gli andavano tanto larghi, adesso - n lui, era chiaro, doveva
aver fatto niente per adattarseli - che sembravano appesi dalla gruccia di un armadio. La gente lo
guardava venire su per corso Giovecca, nel sole della mattina che brillava lieto e pacifico sui suoi
stracci, e stentava a credere ai propri occhi. Dunque, durante quei mesi lui non aveva fatto altro che
dimagrire, che asciugarsi! Adagio adagio si era ridotto alla buccia! Ma nessuno riusciva a ridere. A
vederlo attraversare la Giovecca all'altezza del Teatro Comunale, e quindi prendere per corso Roma
(travers badando alle macchine e alle biciclette, con cautela da vecchio), ben pochi furono quelli
che nel loro intimo non si sentissero rabbrividire.
E cos, da quella mattina, senza mai pi mutare abito, Geo si install si pu dire stabilmente al
Caff della Borsa, in corso Roma, dove ad uno ad uno, se non, proprio, i recenti seviziatori e
massacratori della Brigata Nera, che condanne del resto gi inattuali tenevano ancora nascosti,
tuttora lontani, tornavano a farsi vedere gli antichi bastonatori, i remoti dispensatori di purghe del
'22 e del '24, che l'ultima guerra aveva travolto e messo nel dimenticatoio.
Ricoperto di cenci, egli, dal suo tavolino, fissava i gruppetti di costoro con una certa aria tra di sfida
e di implorazione. E il suo atteggiamento contrastava, a tutto suo svantaggio, naturalmente, con la
timidezza, il desiderio dl non farsi troppo notare, che ogni gesto degli ex tiranni rivelava. Vecchi,
ormai, inoffensivi, coi segni rovinosi che gli anni della sfortuna avevano moltiplicato sulle loro
facce e sui loro corpi; e tuttavia riservati, educati, vestiti bene: questi ultimi si presentavano tanto
pi umani, tanto pi commoventi e meritevoli di piet che non l'altro che non Geo. Che cosa voleva,
Geo Josz? - ricominciarono a chiedersi in molti. Senonch il tempo dell'incertezza e della
perplessit, il tempo - che ora appariva quasi eroico! nel quale prima di prendere la pi piccola delle
decisioni si stava l a spaccare, come si dice, ogni capello in quattro: quel tempo pieno di
romanticismo dell'immediato dopoguerra, cos propizio alle questioni morali e agli esami dl
coscienza, non poteva purtroppo essere pi revocato.

Che cosa voleva, Geo Josz? Era l'antica domanda, s, ma formulata senza segreti tremori, con la
brutalit impaziente che la vita, ansiosa dei suoi diritti, ormai imponeva di adoperare.
Per questo, eccettuato lo zio Daniele, che la presenza a quei medesimi tavolini, cos in vista, di
alcuni dei pi noti esponenti del primo squadrismo locale, ex Consoli della Milizia, ex Segretari
Federali, ex Podest, ecc., riempiva sempre d'indignazione e vena polemica (ma la sua fedelt era
troppo naturale, troppo ovvia: chi poteva sentirla come reale eccezione, come consolazione vera?):
per questo, dico, si erano fatti ben rari i frequentatori del Caff della Borsa ancora capaci di
compiere lo sforzo di levarsi dalle loro seggiole di vimini, percorrere i pochi metri necessari, e
infine sedersi accanto a Geo.
Ce n'erano alcuni, comunque, restii pi degli altri ad arrendersi all'interna ripugnanza. Ma il senso
di imbarazzo che ogni volta riportavano da queste volontarie corv era sempre lo stesso. Non era
possibile, esclamavano, conversare con un uomo travestito! E d'altra parte a lasciare parlar lui,
cominciava subito a raccontare di Fssoli, della Germania, di Buchenwald, della fine di tutti i suoi:
e continuava cos per ore intere, da non sapere pi in che modo squagliarsela. Lu, al caff, sotto il
tendone giallo che, schiaffeggiato di traverso dallo scirocco, stentava maledettamente a proteggere i
tavolini e le seggiole dalla furia del sole pomeridiano, non c'era da fare altro, mentre Geo
raccontava, che seguire con l'occhio i movimenti dell'operaio occupato, l davanti, a riempire di
calce i fori prodotti sulla spalletta della Fossa del Castello dalla fucilazione del 15 dicembre 1943.
(A proposito: doveva essere stato il nuovo Commissario prefettizio, mandato di recente da Roma
dopo l'improvvisa fuga all'estero del dottor Herzen, a dare precise disposizioni al riguardo!). E
intanto Geo ripeteva le parole che suo padre, prima di abbattersi sfinito sul sentiero che portava dal
lager alla miniera di sale dove insieme lavoravano, gli aveva mormorato in un soffio; e poi, non
contento, rifaceva con la mano il piccolo gesto di addio che la madre gli aveva rivolto, alla cupa
stazione d'arrivo, in mezzo alla foresta, mentre era sospinta via con le altre donne; e poi, ancora,
narrava di Pietruccio, il fratellino minore, seduto accanto a lui, al buio, nell'autocarro che dalla
stazione fra gli abeti li trasferiva alle baracche del campo, e a un tratto scomparso, cos, senza un
grido, senza un lamento, senza che se ne potesse pi saper nulla, n allora n mai Orribile, si
capisce, straziante. Ma in tutto questo c'era qualcosa di eccessivo - dichiaravano concordi i reduci
da quelle troppo lunghe e deprimenti sedute, non senza una onesta meraviglia, conviene pur dirlo,
per la propria freddezza - c'era qualcosa di falso, di sforzato. Colpa della propaganda, chiss aggiungevano a loro scusa. Vero che se ne erano gi uditi tanti, a suo tempo, di racconti del tipo di
questi, che ormai, a sentirseli ancora propinare quando magari l'orologio del Castello stava battendo
per il pranzo o per la cena, uno non riusciva a difendersi, francamente, da una certa impressione di
noia e d'incredulit. E come se bastasse, dopo tutto, per farsi ascoltare con maggiore attenzione,
indossare una giacca di pelle e cacciarsi un berretto di pelo sulla testa!
Durante il resto del '46, L'intero '47 e buona parte del 48 la figura via via pi lacera e desolata di
Geo Josz non cess mai di stare davanti ai nostri occhi. Nelle vie, nelle piazze, nei cinema, nei
teatri, attorno ai campi sportivi alle cerimonie pubbliche: si volgeva il capo, e lo si vedeva l,
instancabile, sempre con quell'ombra di rattristato stupore nello sguardo, come se non chiedesse
altro che di attaccare discorso. Ma tutti lo sfuggivano come la peste. Nessuno capiva. Nessuno
voleva capire.
Di ritorno da Buchenwald, con l'animo ancora torturato dall'ansia e dall'angoscia, era
comprensibilissimo - ammettevano generalmente - che egli rimanesse volentieri in casa o,
uscendone, piuttosto che strade del genere di corso Giovecca, cos ampio e aperto da dare, a volte,
un senso quasi di vertigine anche alla pi normale delle persone cercasse d'istinto i vicoli tortuosi
della citt vecchia, le anguste e buie viuzze del ghetto. Ma che in seguito, deposto l'abito di
gabardine che la sartoria Squarcia, la migliore della citt, gli aveva cucito su misura, e tirata fuori di
nuovo la sua lugubre divisa da deportato, si studiasse di capitare dovunque ci fosse gente, voglia di
divertirsi o, semplicemente, sano desiderio di uscire dalle secche di quello sporco dopoguerra, di
andare avanti in qualche modo, di ricostruire: che scusa poteva trovarsi per una linea di condotta
cos stravagante e offensiva? E cosa doveva importare, a lui, che una sera di agosto del '46 aveva

avuto il cattivo gusto di comparirvi, cos conciato, a spegnere il riso su tutte le bocche, cosa doveva
importargli, santo Dio, che a pi di un anno dalla fine della guerra si fosse pensato di inaugurare un
nuovo dancing all'aperto: quello fuori Porta San Benedetto, appunto, alla curva del Doro?
Non era mica uno dei soliti posti! Come chiunque doveva riconoscere, si trattava di un locale
modernissimo, all'americana, con magnifica illuminazione al neon, tanto di bar e ristorante aperti in
permanenza, cucina sempre pronta, al quale non era dato rivolgere critica pi seria (secondo quanto
si era letto nell'articolo pubblicato sulla Gazzetta del Po da quel povero illuso del giovane
Bottecchiari) che di sorgere a neppure cento metri dal luogo dove, nel '44, erano stati uccisi per
rappresaglia i cinque componenti del Direttorio del Il C.L.N. clandestino. Ebbene, a parte il fatto
che il dancing alla curva del Doro distava in linea retta non cento, ma almeno duecento metri dal
piccolo cippo di marmo della fucilazione, soltanto a un maniaco odiatore della vita sarebbe venuto
in mente di accanirsi contro un ritrovo cos simpatico, cos gaio. Che male c'era? Nei primi mesi ci
si andava un po' tutti, uscendo dai cinema dopo mezzanotte, con l'idea di fare uno spuntino. Ma
spesso si finiva col cenare addirittura; e poi si ballava al suono del radiogrammofono, magari, fra
comitive di transito e camionisti, stando allegri e in compagnia fino all'alba. Era pi che naturale.
La societ, scompaginata dalla guerra, cercava di riprendersi. La vita ricominciava.
E quando ricomincia, si sa, non guarda in faccia a nessuno.
Ad un tratto i volti, sino a un momento prima amaramente interrogativi, senza luce di speranza, si
illuminavano di maligna certezza. E se il camuffarsi ed esibirsi di Geo, cos insistente, cos irritante,
avesse un preciso scopo politico? Se - e ammiccavano - egli fosse un comunista?
Quella sera del dancing, per esempio, dove si era messo a mostrare a destra e a sinistra le fotografie
dei suoi familiari periti a Buchenwald, era arrivato a un tale eccesso di petulanza da cercare di
trattenere per le falde dei vestiti giovanotti e ragazze che di niente altro avevano desiderio, in quel
momento - poich l'orchestra, frattanto, aveva riattaccato a suonare - eccetto che di lanciarsi
abbracciati sulla pista da ballo. Non erano fantasie, centinaia di persone lo avevano visto. E dunque:
a che cosa poteva alludere, egli, con quei gesti, con quei ghigni mielati, con quelle smorfie
imploranti, ironicamente imploranti!, con quella sua bizzarra e macabra pantomima, insomma, se
non che lui e Nino Bottecchiari, accordatisi ultimamente circa la casa di via Campofranco, filavano
ormai, anche riguardo al resto e cio al comunismo, il perfetto amore? E se le cose stavano cos, se
lui non era che un utile idiota, non era giustificato, in fondo, che il Circolo Amici dell'America, al
quale nella baraonda e nell'entusiasmo del primo dopoguerra qualcuno aveva iscritto d'ufficio anche
Geo, provvedesse subito a escluderlo per misura d'ovvia prudenza dal numero dei soci?
Probabilmente nessuno, a dire la verit, almeno per il momento si sarebbe sognato di pensare a lui,
Geo Josz. Ma lui voleva lo scandalo, era chiaro: tanto vero che quella notte famosa quando aveva
preteso di entrare per forza al Circolo (fu nel '47, nel febbraio), i camerieri si erano visti capitare
davanti non un signore decentemente vestito, ma uno strano individuo ridotto come un pezzente,
con la nuca rapata degli ergastolani - qualcosa, considerando anche la sporcizia e il puzzo, di molto
simile al povero Tugnn da la Ca' di Dio - il quale, dal vestibolo pieno di cappotti e pellicce appesi
in mostra dagli attaccapanni, si era messo a proclamare a gran voce che lui. essendo, come poi
risult esattissimo, regolarmente iscritto al Circolo, poteva frequentare il medesimo quando gli
piaceva.
E a che titolo, d'altronde, si sarebbe potuto biasimare seriamente il Circolo stesso di aver preso nei
confronti di Geo una decisione tanto radicale, se gi nell'autunno del L'anno precedente l'assemblea
dei soci aveva espresso il voto unanime che si tornasse al pi presto all'antico, glorioso nome di
Circolo dei Concordi, restringendo di nuovo il campo delle iscrizioni all'aristocrazia - ai Costabili,
ai Del Sale, ai Maffei, agli Scroffa, agli Scocca, ecc. - e alla parte pi eletta della borghesia? Se agli
Amici dell'America, pro temporum calamitatibus, era stato bene accogliere chiunque senza
difficolt, ai Concordi certe norme, certe consuetudini secolari, certe naturali esclusioni - e in ci la
politica non entrava per nulla - non era pi il caso, via!, di avere paura a ripristinarle. Perch? C'era
qualcosa di strano?

Anche la vecchia Maria, la Maria Ludargnani, che in quell'inverno stesso, fra il '46 e il '47, aveva
riaperto la sua casa di appuntamenti di via Arianuova (era rimasto l'unico luogo, in fondo, dove ci si
potesse riunire senza che le opinioni politiche si mettessero di mezzo ad avvelenare i rapporti tra le
persone: e si passavano le serate come una volta, per lo pi limitandosi a chiacchierare, o a giocare
a ramino con le ragazze), anche lei non aveva voluto assolutamente saperne, quell ' altra notte che
Geo era venuto a bussare alla sua porta, di farlo entrare: n si era indotta a staccarsi dallo spioncino,
con l'occhio al quale era restata a osservarlo a lungo, prima di averlo visto allontanarsi attraverso la
nebbia. Insomma se a nessuno era passato nemmeno per la testa, in quel frangente, che Geo fosse
defraudato di qualche diritto: con tanta maggior ragione si doveva riconoscere che il Circolo dei
Concordi aveva agito, nei riguardi di lui, nel pi corretto e avveduto dei modi. La democrazia, se
questo nome aveva un senso, doveva salvaguardare tutti i cittadini: in basso, d'accordo, ma anche in
alto!
Soltanto nel '48, dopo le elezioni del 18 aprile, dopo che la Sezione provinciale dell'ANPI fu
costretta a trasferirsi in tre stanze dell'ex Casa del Fascio, in viale Cavour (e si ebbe la prova
tardiva, con ci, che le voci di una adesione al comunismo del proprietario della casa di via
Campofranco erano puramente fantastiche), soltanto nell'estate di quell'anno Geo Josz si decise ad
abbandonare la citt. Scomparve all'improvviso, senza lasciare dietro di s il minimo segno, come
un personaggio da romanzo: e subito alcuni lo dissero emigrato in Palestina, sulle tracce del dottor
Herzen, altri nell'America del Sud, altri in un imprecisato Paese d'oltre cortina.
Si dur a parlare di lui per qualche mese ancora: al Caff della Borsa, al Doro, nella casa di Maria
Ludargnani e in molti altri posti. Daniele Josz ebbe modo pi volte di tenere pubblico banco
sull'argomento. L'avvocato Geremia Tabet intervenne come curatore degli interessi niente affatto
trascurabili dello scomparso. E intanto: Che pazzo!, si sentiva ripetere dappertutto.
Scuotevano il capo bonari, stringevano le labbra in silenzio, levavano gli occhi al cielo.
Se avesse avuto un po' pi di pazienza!, aggiungevano sospirando: ed erano di nuovo sinceri,
oramai, di nuovo sinceramente addolorati.
Dicevano poi che il tempo, che aggiusta tutte le cose di questo mondo, e grazie al quale anche
Ferrara, per fortuna, risorgeva identica dalle sue rovine, il tempo avrebbe calmato alla fine anche
lui, lo avrebbe aiutato a rientrare nell'alveo, a ingranare di nuovo, insomma - perch era questo,
stringi stringi, il suo problema. E invece no. Aveva preferito andarsene. Sparire. Fare il tragico.
Proprio adesso che, affittando a dovere il palazzo ormai sgombro di via Campofranco, e dando
opportuno impulso all'azienda paterna, avrebbe potuto vivere comodamente, da signore, e pensare
tra l'altro anche a rifarsi una famiglia. A sposarsi, sicuro: giacch non ci sarebbe stata signorina, a
Ferrara, della classe sociale cui egli apparteneva, la quale, al caso, avrebbe considerato la differenza
di religione (gli anni, per questo, non erano passali invano: in questa materia si era dovunque assai
meno rigidi che nel passato!) come un ostacolo insormontabile. Strambo come era, lui non poteva
saperlo: ma le cose, con novantanove probabilit su cento, avrebbero finito col mettersi cos il
tempo avrebbe sistemato ogni cosa, proprio come se niente di niente fosse mai accaduto. Certo,
bisognava aspettare. Bisognava saper dominare i propri nervi. Si era mai vista, al contrario, maniera
pi illogica di comportarsi? Carattere pi indecifrabile?
Ah, ma per comprendere con che razza di tipo, con quale specie di enigma vivente si era capitati,
l'episodio del conte Scocca, senza che fosse necessario attendere il resto, in fondo poteva pi che
bastare un enigma, gi.
Eppure, a guardare bene, quando in mancanza di indicazioni pi sicure ci si fosse richiamati a quel
senso di assurdo, e insieme di verit rivelata, che nella sera imminente pu destare in noi qualsiasi
incontro, proprio l'episodio del conte Scocca non avrebbe offerto nulla di enigmatico, nulla che non
potesse esser compreso da un cuore appena solidale.
Oh, ben vero! La luce del giorno noia, duro sonno dello spirito, noiosa ilarit - come dice il
Poeta. Ma fate che scenda alla fine l'ora del crepuscolo, L'ora ugualmente intrisa d'ombra e di luce

di un calmo crepuscolo di maggio: ed ecco che cose e persone, che dianzi vi erano sembrate del
tutto normali, indifferenti, pu darsi che a un tratto vi si mostrino per quelle che sono veramente
pu darsi che a un tratto vi parlino - e sar, in quel punto, come se foste colpiti dalla folgore - per la
prima volta di se stesse e di voi.
Che cosa faccio, io, qui con costui? Chi costui? Ed io che rispondo alle sue domande, e intanto
mi presto al suo gioco, io, chi sono?
Erano stati due schiaffi che, dopo qualche momento di muto stupore, avevano risposto fulminei alle
domande insistenti, seppure cortesi, di Lionello Scocca. Ma a quelle domande avrebbe potuto anche
rispondere un urlo furibondo, disumano: cos alto che tutta la citt, per quanta ancora se ne
accoglieva oltre l'intatta, ingannevole quinta di via Mazzini fino alle lontane Mura sbrecciate,
l'avrebbe udito con orrore.

Gli ultimi anni di Clelia Trotti.


Le persone di cui si conquista l'affetto con un imbroglio non si amano mai sinceramente. Io ricordo
che un moribondo non accett neppur di par lare con delle persone che lo amavano perch egli
aveva fatto creder loro di amarle.
SVEVO.
A definirlo consolante, il vasto complesso architettonico del Camposanto Comunale di Ferrara, cos
come si presenta alla vista di chi riesce dall'angusta via Borso nell'immensa piazza della Certosa, c'
rischio, lo comprendo bene, di farsi ridere in faccia, o di guadagnarsi alla peggio qualche brutta
qualifica! In nessun luogo d'Italia, e tanto meno qui in Emilia, la morte mai stata popolare:
consolante, poi Eppure, infilata che si sia via Borso, che una strada dritta, d'un duecento metri
di lunghezza, oppressa d'ambo le parti dal fogliame traboccante di due grandi parchi gentilizi
nient'altro che un budello di transito, con le botteghe dei marmisti e dei fiorai raccolte tutte all'inizio
e al termine, e l'asfalto percosso sordamente dall'unghia dei pesanti cavalli dei trasporti la veduta
improvvisa del camposanto d sempre un'impressione lieta, quasi di festa.
Si pensi, per avere un'idea di che cosa piazza della Certosa, a un prato aperto, pressoch vuoto,
sparso com' a distanza di rari monumenti funebri di acattolici illustri del secolo scorso (qualche
massone, un israelita libero-pensatore, due o tre protestanti): a una specie di piazza d'armi, insomma
Da un lato, flettendosi ad arco fin sotto le mura urbane, con la scabra facciata incompiuta della
chiesa di San Cristoforo nel mezzo, si stende un rosso porticato quattrocentesco, contro il quale, nei
giorni di sereno, il sole batte a gloria, veramente. Dall'altro lato, verso sud-ovest, soltanto rustiche
casupole di tipo contadino, poco pi rilevate sul terreno dei muretti di divisione che delimitano gli
estesi orti dei quali ricca ancor oggi questa estrema zona della citt: casette e muriccioli che,
rispetto all'ampio baluardo del rosso portico del camposanto, ad essi opposto, non sono che piccole
rughe, minimi ostacoli al torrente pomeridiano e serale della luce. Nell'ambito dello spazio
compreso tra questi limiti, c' ben poco, davvero, che parli della morte. Perfino le due coppie di
angeli di terracotta che, ritti in cima alle estremit del porticato, sono raffigurati nell'atto di
attendere dal cielo, verso cui guardano, il segnale per dare fiato alle lunghe trombe di bronzo che
gi imboccano, non hanno, a guardar bene, nulla di tremendo.
Gonfiano a prova le gote rosse, impazienti di suonare, impazienti di giocare: da quei quattro
ragazzotti robusti, di certo delle nostre parti, delle nostre campagne, nelle cui sembianze l'artista li
ha rappresentati.
Sar per questo, per la dolcezza serena del luogo, ed anche, s'intende, per la sua relativa solitudine,
che piazza della Certosa sempre stata mta di convegni di innamorati.
Dove si va, a Ferrara, anche oggi, quando si ha voglia di vedere una persona un poco in disparte? In
piazza della Certosa, preliminarmente: ch se la cosa proceder poi per il suo verso, sar faccenda
da nulla - una passeggiatina di nemmeno mezzo chilometro - raggiungere pi tardi i bastioni, dove
di luoghi riparati dagli occhi indiscreti delle balie, abbastanza frequenti anche esse, sull'ora del
crepuscolo, in piazza della Certosa, ce n' quanti se ne vogliono; mentre, al contrario, se l'idillio non
vorr andare avanti, sar altrettanto agevole e, insieme, lontano dal risultare compromettente, il
ritorno in compagnia verso il centro della citt. questa, una consuetudine vecchia, una specie di
rito: antico, c' da giurarlo, quanto Ferrara medesima. Esisteva prima della guerra, esiste oggi,
esister anche domani.
Il campanile della chiesa di San Cristoforo, mozzato a mezza altezza da una granata inglese
nell'aprile del '45, e, sorta di sanguigno troncone, rimasto tale e quale a pi di un lustro dalla fine
del conflitto, l a dire, vero, che qualunque promessa d'eterno illusoria, e che anche questa,
dunque, che sembra esprimersi dal caldo rosseggiare degli intatti portici contro il sole, altro non

che una menzogna bella e buona. Finir, s, finir presto o tardi di esistere, di rasserenare e illudere
gli animi di coloro che la contemplino - cos come ha gi cessato, l presso, di esistere il campanile
della chiesa di San Cristoforo - anche la snella teoria degli archi che si protendono come braccia
aperte verso la luce. Anche questo finir, una volta o L'altra, come tutto. Ma intanto, a un passo
dalle migliaia e migliaia di morti cittadini allineati nel retrostante cimitero (qualcosa di simile, per
fare un esempio, succede anche a Pisa, attorno alla Torre pendente), e mentre dura imperterrito, sul
prato attraversato dalle lunghe ombre delle steli e dei cippi funerari, il pacifico, indifferente
armeggio della vita che non vuol saperne di finire: quale profezia pi di questa sembra destinata a
perdersi nell'aria eccitante della sera ormai prossima, a rimanere inascoltata? Ci non toglie, per,
che l'atmosfera di manifestazione popolare, quasi sportiva, destata di colpo nella piazza da un
corteo funebre troppo diverso dai soliti per passare inosservato, corteo che, in un pomeriggio
d'autunno del 1946, era sbucato da via Borso con la banda in testa, non mancasse di cogliere di
sorpresa gli abituali frequentatori della piazza - balie, bambini e coppie di innamorati in prevalenza
- costringendo le prime, sedute nell'erba accanto alle carrozzine, a levare gli occhi stupiti dai ferri
delle maglie, i secondi a sospendere di rincorrersi o di giocare col pallone, gli ultimi a sciogliere le
mani intrecciate e a staccarsi vivamente l'uno dall'altro.
Autunno del '46. La guerra era ormai una cosa lontana.
La prima impressione tuttavia, osservando il funerale che in quel momento faceva il suo ingresso in
piazza della Certosa, era di essere tornati al maggio e al giugno dell'anno precedente, al tempo
infuocato della Liberazione. A prima vista, con un soprassalto improvviso del cuore e del sangue,
sembrava di esser stati chiamati ad assistere ancora una volta ad uno di quei tipici esami di
coscienza collettivi, cos frequenti a quell'epoca, attraverso i quali una societ vecchia e colpevole
tentava disperatamente di rinnovare se stessa. E ci si era appena accorti, difatti, della selva di
bandiere rosse che venivano dietro il feretro, e delle decine e decine di cartelli ad esse frammisti,
con sopra scritto GLORIA ETERNA A CLELIA TROTTI, ovvero 0NORE A CLELIA TROTTI,
MARTIRE DEL SOCIALISMO, Oppure W CLELIA TROTTI, GUIDA EROICA DELLA
CLASSE OPERAIA, e dei barbuti partigiani che li impugnavano, e dell'assenza soprattutto, dinanzi
al carro di prima classe, dl preti e chierici, che gi lo sguardo correva avanti a precedere il corteo,
spiegantesi scarlatto sul verde intenso del tappeto erboso, alla mta verso la quale esso stava
dirigendosi: a una fossa, cio, scavata nella zona di prato esattamente di fronte alla facciata della
chiesa di San Cristoforo.
Non nell'ambito del camposanto vero e proprio, perci, bens fuori, In terra civica, in terra non
consacrata; dove, a parte un protestante inglese, morto di malaria a Ferrara, nel ' 17, nessuno era
stato sepolto da oltre quarant'anni.
Senonch, tornando indietro al corteo funebre, la cui testa si trovava gi a poche decine di metri
dall'umile, laica fossa aperta in attesa (altra gente, frattanto, continuava a uscire da via Borso, da
pensare che pi non finisse), un occhio appena esercitato si sarebbe facilmente accorto, da
un'infinit di particolari, quanto la prima impressione di un magico ritorno dell'aria del '45 fosse
stata ingannevole.
Prendiamo intanto la banda musicale che, come ho detto, procedeva staccata dinanzi al carro, e
suonava a tempo ritardato la marcia funebre di Chopin. Le fiammanti divise indossate dai suoi
componenti uno dei meriti dell'amministrazione comunista da poco insediata in municipio
avrebbero certo incantato l'estraneo, L'ignaro, ma non chi, sotto i larghi berretti dalle lucide visiere,
tipo polizia americana, per intenderci, fosse stato in grado di rintracciare ad una ad una le
fisionomie bonarie e avvilite degli zelanti vecchioni dell'Orfeonica (chiss dove sfollati, invece,
poveri diavoli, ai tempi di sparatorie e di agguati seguiti alla rottura del fronte e all'insurrezione
nazionale!) Ma l'accurata messinscena, cos estranea al caos geniale di ogni rivoluzione, risultava,
se possibile, ancora pi evidente nella schiera compatta di una quindicina, non meno, di donne del
popolo, di tipiche arzdre della Bassa: le quali, recando a coppie grandi corone di garofani e di rose,
circondavano da ogni lato il carro funebre a guisa di scorta d'onore. Sarebbero bastati i volti terrei,

fortemente segnati dalla stanchezza, di queste mature madri di famiglia tutte coetanee, all'incirca, di
Clelia Trotti, per indovinare di dove venivano e come erano venute. Convocate a Ferrara fin dai pi
lontani villaggi della costa adriatica, dai quali erano partite, all'alba, stipate su tre o quattro
automobili: a Ferrara, sul mezzogiorno, avevano certo trovato chi le aveva rifocillate di pasta
asciutta, di una fetta d'arrosto, e di un quarto di vino; ma non, ahim, il necessario riposo. La stessa
mente burocratica, segno di tempi ormai quasi pacifici, che aveva provveduto a una mensa adornata
con bandierette rosse di carta velina, aveva poi disposto, implacabile perch subito dopo il pasto le
anziane massaie si ripulissero alla meglio della polvere del viaggio, e infine indossassero, sulle vesti
di tutti i giorni, una specie di strana tunica: rossa, naturalmente, e cosparsa in aggiunta di tante
minuscole falci e martello nere.
Cos abbigliate, ora figuravano come era stato stabilito che figurassero: quasi sacerdotesse del
Socialismo. Ma quel loro passo pesante e smarrito, gli sguardi inselvatichiti che volgevano attorno
(si capisce: la maggior parte di esse vedevano una citt per la prima volta!), le rivelavano fin troppo
chiaramente. E veniva da pensare che la faticosa odissea di cui dall'alba di quel giorno erano state
protagoniste era ben lungi, purtroppo, dal volgere alla fine.
Svestite di l a qualche ora delle tuniche; fatte risalire sulle stesse macchine che le avevano
trasportate in citt: soltanto a notte tarda, stremate, sarebbero state restituite ai loro abituri. E chiss
se, prima di farle ripartire, ci si sarebbe ricordati di metterle a sedere una seconda volta, come si
sarebbe pur dovuto, attorno al tavolo adorno di bandierette.
Immediatamente dietro il carro funebre, allineate in varie file nel breve intervallo che si apriva tra il
carro medesimo e la folla indifferenziata dei portatori di cartelli e bandiere, seguivano le Autorit.
Erano socialisti, comunisti, cattolici, liberali, azionisti, repubblicani storici: L'ex Direttorio al
completo, insomma, dell'ultimo C.L.N. clandestino, ricostruito per l'occasione in quasi tutti i suoi
membri, con aggiunte e mescolate al gruppo alcune altre personalit non strettamente politiche,
come ad esempio l'ingegner Cohen, presidente della Comunit israelitica, o il sindaco di fresca
nomina, la dottoressa Bettitoni.
E cos, sebbene l'onorevole Mauro Bottecchiari, il principe del nostro Foro, ormai non potesse
pi dirsi, dopo le recenti elezioni amministrative che avevano visto la vittoria schiacciante dei
comunisti, la figura politica pi rappresentativa della citt, era a lui, alla sua spettinata chioma
d'argento, era all'acceso colorito del suo volto aperto, leale che l'occhio di tutti correva in primo
luogo. S, L'avvocato Bottecchiari era ormai, dal punto di vista della politica, quello che si dice un
uomo finito (Un riformista alla Turati!, si era cominciato a definirlo con ironia, da parte
comunista). Che cosa erano, tuttavia, a confronto col vecchio leone, gli altri componenti dell'ex
Direttorio dell'ultimo C.L.N. clandestino? A parte il dottor Herzen, il cosiddetto Prefetto della
Liberazione di recente emigrato in Palestina, nessuno mancava. C'era l'avvocato Galassi-Tarabini,
democristiano, che, preoccupato di trovarsi l, al seguito di un funerale puramente civile (perci
girava attorno gli occhi azzurri, slavati, che sembravano sempre sul punto di riempirsi di lacrime), si
teneva al fianco di Don Bedogni dell'Azione cattolica, il quale, al contrario, in basco e pantaloni,
cercava di mostrare anche in quella circostanza la scioltezza brillante e la disinvoltura che nel
dopoguerra avevano fatto di lui uno dei pi seguiti polemisti politici della regione. C'era l'ing. Sears
del Partito d'Azione, che, al solito, camminava un poco in disparte e, le piccole mani intrecciate
dietro la schiena, sorrideva appena tra s. C'era il gruppetto dei repubblicani storici il farmacista
Riccoboni, il sarto Squarcia, il dentista Canella alquanto imbarazzati, era chiaro, ma pur
volonterosi di stare al passo C'era infine Alfio Mori, il federale comunista di Ferrara, piccolo, scuro,
con gli occhiali, con un inizio di sorriso che gli scopriva appena gli incisivi superiori grandi e
bianchissimi, e veniva avanti parlando piano con Nino Bottecchiari, il giovane e promettente
segretario provinciale dell'ansi. Ebbene che cos'erano, costoro, curvi e dimessi come marciavano, se
non, nel complesso, una piccola squadra di nullit? L'on. Bottecchiari li soverchiava di tutta la testa,
e volgeva ogni tanto in giro, in atto di sfida, quella stessa faccia rossa di collera dinanzi alla quale
perfino il famigerato Sciagura, mandato ad aggredirlo in pieno corso Giovecca, nel lontano '22,

aveva dovuto battere vergognosamente in ritirata. Certo, magari soltanto per quel giorno - in
armonia, del resto, col tono di polemica inattualit al quale si era voluta improntare la cerimonia egli era tornato ad essere come una volta il capo riconosciuto dell'antifascismo cittadino. Nulla di
pi naturale, perci, dopo che il carro funebre si fu arrestato di fianco alla fossa e le arzdore del
Delta ebbero estratto da esso il feretro di zinco di Clelia Trotti, che fosse lui l'on. Bottecchiari, ad
avanzare per primo verso il catafalco.
La solenne traslazione della salma della Trotti dal cimitero di Codigoro al Camposanto Comunale di
Ferrara (perch la povera maestra era morta non ora, bens tre anni innanzi, al tempo
dell'occupazione tedesca, mentre si trovava detenuta nelle carceri di Codigoro), non avrebbe potuto
esimerlo dall'assumere quella parte di primo piano che gli era dovuta e alla quale era obbligato.
Toccava evidentemente al pi antico compagno di lotte socialiste di Clelia Trotti aprire la serie delle
orazioni commemorative.
Compagni!, grid l'on. Bottecchiari: un urlo rauco imperioso, che echeggi lungamente sotto i
portici del camposanto.
Compagne!, aggiunse dopo una pausa: in tono pi basso, per, come se si preparasse a prendere
lo slancio.
Cominci quindi a parlare, gesticolando. E le sue parole avrebbero certo raggiunto anche gli angoli
pi lontani di piazza della Certosa (nello sforzo, il volto dell'onorevole era diventato paonazzo), se
proprio in quel momento, da via Borso, non avesse fatto strepitosa irruzione una motocicletta: una
Vespa, per essere pi precisi, una delle prime che si vedessero circolare in citt subito dopo la
guerra.
Il tubo di scappamento della Vespa era privo, con ogni evidenza, di qualsiasi forma di silenziatore.
Ch se si fosse anzi osservato il vistoso cromato che decorava il lato sinistro dello scooter, ci si
sarebbe accorti che esso, invece che ad attenuare gli scoppi del motore, serviva esattamente al
contrario: a renderli cio pi secchi e metallici: pi adatti a rispondere all'inquieta mano adolescente
che scattava ogni momento a suscitarli.
Interrotto nel suo slancio oratorio, L'on. Bottecchiari tacque.
Corrugando le bianche sopracciglia cespugliose, appunt gli sguardi verso il fondo della piazza. Era
presbite e, non distinguendo bene, si tolse con un gesto nervoso della grossa mano che sempre gli
tremava, gli occhiali a pince-nez.
L'immagine lontana di una ragazzetta in Vespa, la quale, uscita da via Borso, ma ormai rallentando,
correva lungo l'arco del portico del camposanto, alle spalle della gente ammassata a semicerchio, fu
subito a fuoco. Oh, doveva essere una ragazza molto giovane, di buona famiglia - espresse la bocca
dell'on Bottecchiari piegandosi in una smorfia di tristezza. Chi poteva essere, figlia di chi? - diceva
anche il suo viso diffidente e irritato: come se egli stesse ricapitolando mentalmente, mentre
considerava l'abbronzatura di quelle robuste gambe di quindicenne reduce da due mesi di bagni a
Cesenatico o a Marina di Cervia (la borghesia, eh gi, passata la burrasca della guerra riprendeva
una dopo l'altra le sue abitudini!), gli elenchi delle famiglie borghesi cittadine ai quali dopo tutto,
nonostante il socialismo, anche il suo nome, Bottecchiari, era sempre stato iscritto. Che
indecenza!, imprec allora, forte: con l'amarezza di chi si sente ferito, incompreso.
Io mi domando, soggiunse indicando con la mano tesa la giovanissima motociclista dritta in sella,
laggi, con l'esile torso quasi maschile fasciato da una camicetta di seta nera assai aderente, e un
nastro rosso nei capelli, io mi domando se si pu essere pi maleducati di cos! E la folla
centinaia di facce scandalizzate - girando gli occhi in quella direzione, si volse lentamente a zittire.
Sst!
La ragazza non intese, o non volle intendere - l'ultima generazione molto irriverente, si sa. Perch,
sebbene avesse ormai raggiunto il luogo della piazza verso il quale era diretta (L'on. Bottecchiari,
che l'aveva vista scomparire dietro una siepe pi alta di persone issate, per meglio assistere alla

cerimonia, sui paracarri delimitanti il sagrato della chiesa, aveva inutilmente atteso che essa
ricomparisse pi in l, allo scoperto), non solo non credette opportuno spegnere il motore, ma anzi,
di tanto in tanto, bench gi ferma, continuava imperterrita nel suo gioco di brusche fragorose
accelerazioni.
Fatela smettere, perdio!, grid esasperato l'on. Bottecchiari.
Sst!, ripeterono in coro, con energia, gli uomini arrampicati sui paracarri: nuche che si volgevano,
occhi che dall'alto, seguivano severi una scena che lui, Bottecchiari, per quanto si alzasse sulle
punte dei piedi, non era in grado di scorgere. Ma nessuno che saltasse gi, tuttavia, nessuno che per
porre fine a quello sconcio rischiasse di perdere il suo posto di vedetta!
Seduto sui gradini del sagrato, in ottima posizione per vedere ogni cosa - L'on. Bottecchiari, l, in
attesa di poter ricominciare il suo discorso, e qui, a due passi da lui, la ragazza della Vespa, con gli
occhi azzurri della quale proprio in quell'attimo, i suoi occhi si stavano incrociando - Bruno Lattes
trasal Accanto a lui, seduto sullo stesso gradino, era un ragazzo di s e no diciassette anni, con la
racchetta da tennis sotto il braccio, un golf bianco annodato per le maniche attorno al collo,
biondissimo anch'egli, come la ragazza, e la stessa espressione dura e indifferente negli occhi chiari.
Senza spegnere il motore, puntando un piede a terra, la ragazza si mise a parlare col giovane
tennista.
Evidentemente si erano dati appuntamento l, in piazza della Certosa: perch a Ferrara quando due
cominciano come si dice da noi, a filare assieme, fanno e faranno sempre cos (Ma chi era, di chi
era figlia? - si chiedeva frattanto Bruno Lattes, guardando fissamente, come affascinato, il nastro
rosso che legava i capelli della fanciulla.
Possibile che la guerra, gli anni nei quali lui era stato ragazzo ed essa bambina - gli ultimi anni di
Clelia Trotti!, non avessero lasciato nessun segno sulla sua fronte nessuna ombra di consapevolezza
nei suoi occhi? Possibile che la nuova generazione fosse dovunque, anche a Ferrara, a quel modo:
come se uscisse, ignara di tutto, dalle pagine di una rivista americana?).
Ti aspetto da quasi mezz'ora, diceva il ragazzo senza alzarsi in piedi.
E ti lamenti, rispose la ragazza, indicando con una piccola smorfia ironica la piazza brulicante di
folla. Avevi da passare il tempo, mi pare.
Sst! Silenzio!, ripeterono una terza volta gli uomini arrampicati sui paracarri.
Sar meglio che spegni i I motore, disse il ragazzo.
Andiamo via, piuttosto. Non vorrai mica fermarti qui, si lagn la ragazza. Ma nello stesso tempo
scendeva dalla Vespa, ne arrestava il motore, e si metteva a sedere, sul gradino, a fianco dell'amico.
Davanti a questo feretro che racchiude le spoglie mortali di Clelia Trotti, della nostra
indimenticabile Clelia, riattacc l'on. Bottecchiari e il tono della sua voce annunziava gi le grosse
lacrime che di l a poco sarebbero scese a rigargli le guance apoplettiche - non posso, compagni,
amici, concittadini tutti, non riandare con la memoria a un comune passato. Ci conoscemmo, se ben
ricordo, nell'aprile del 1904
Bruno Lattes si volse lentamente a guardarlo. Ma di nuovo trasal L'ometto vestito di nero che
rigido, impettito, si teneva laggi in fondo a fianco dell'oratore, non lo conosceva bene, forse?
Sottratto anche egli al tempo, e quasi, come l'on. Bottecchiari e il gruppo di persone che lo
circondavano, rifatto in cera, non c'era mica caso che si trattasse di Cesare Rovigatti, il ciabattino di
piazza Santa Maria in Vado?
Quanto tempo era passato si diceva poi, con dolore da quando lui, Bruno, dopo il 25 luglio del
'43, nell'agosto, aveva lasciato Ferrara per Roma, e quindi, nemmeno due anni pi tardi, per gli Stati
Uniti d'America! Durante questo tempo i suoi genitori, che mai avevano creduto di 144 145 dover
fuggire, mai si erano voluti fornire di carte false erano stati portati via dai tedeschi: ed ora i loro due
nomi figuravano, insieme con quasi duecento altri, nella lapide che la Comunit israelitica aveva

fatto porre sulla facciata del Tempio, in via Mazzini. Lui, invece, se ne era andato da Ferrara: al
momento giusto per non farsi prendere con suo padre e sua madre (tutto era stato inutile: non era
stato proprio possibile convincerli a venir via!), o, magari, per non farsi fucilare da quelli di Sal: e
adesso, dopo nemmeno un anno che era in America, gi insegnava letteratura all'universit. Non era
ancora che un incaricato, s'intende, un semplice Letture d'Italia. Ma presto, di sicuro, L'avrebbero
assunto in pianta stabile: e sarebbe stato il primo passo, questo, per ottenere pi in l la cittadinanza
americana, base necessaria di qualunque buona carriera
Quattro anni, s, che contavano quanto una intera vita.
Tuttavia Rovigatti - ripeteva Bruno a se stesso con una sorta di amaro compiacimento: come se tale
circostanza fosse esattamente ci che egli aveva il diritto di attendersi dal ciabattino di piazza Santa
Maria in Vado - tuttavia Rovigatti, escluso qualche capello bianco che cominciava a scalfirgli le
tempie brune, non sembrava invecchiato quasi per nulla. Non diversamente dall'on. Bottecchiari e
dagli altri partecipanti ai funerali di Clelia Trotti che egli aveva conosciuto e frequentato nel
passato; non diversamente da Ferrara medesima che, a parte i guasti prodotti dai bombardamenti,
del resto in via di rapida riparazione, gli era sembrata sin da principio identica a come l'aveva
lasciata (perfino la sua casa di via Madama, bench spogliata di ogni suppellettile, gli era stata
restituita intatta, intatta come un guscio vuoto): anche per Rovigatti il tempo sembrava essersi
fermato.
Eccolo dunque l, il vecchio piccolo mondo che si era lasciato dietro le spalle, del quale si era
spacciato appena in tempo. C'erano davvero tutti, identici tutti a se stessi.
Ma Clelia Trotti?
L'ultima volta che lui, Bruno, L'aveva vista, era stato proprio l, in piazza della Certosa, quasi nello
stesso punto dove adesso posava la sua bara, il giorno prima di partire; e per tutti quegli anni, nella
sua memoria, Clelia Trotti non era mai cambiata.
Come avrebbe voluto, ora, poter ritrovare anche lei cos, fissata in cera, immobile come una
statuetta grottesca della quale disporre a proprio agio, di cui sorridere, fra scherno e piet, per
meglio liberarsene! E dirle: Lo vede se avevo ragione, quando le promettevo che sarei tornato?
Lo vede se aveva torto, Lei, a non credermi?
Che non cambiasse mai, che restasse sempre uguale a come l'aveva vista l'ultima volta, prima di
andarsene, prima di tagliar la corda e salvarsi Questo avrebbe preteso anche da lei, se lei intanto
non fosse morta.
Bisognava risalire al '40, a qualche mese dopo l'inizio della guerra. O a prima ancora, e nemmeno di
poco: forse al tardo autunno del '39, un anno circa dopo la bomba delle leggi razziali. Era stato
comunque Rovigatti, il ciabattino di casa, il quale risultava una delle rare persone in citt che avesse
mantenuto regolari rapporti con Clelia Trotti, a mettere la prima volta in contatto Bruno Lattes con
la vecchia maestra.
A quell'epoca, secondo ci che Bruno aveva sentito dire di lei, Clelia Trotti era una donnetta
risecchita e trasandata di quasi sessant'anni: qualcosa come una beghina, all'aspetto, che uno, a
incontrarla per istrada, neppure l'avrebbe notata. Senza dubbio anche per questo, perch lei stessa
dopo il confino doveva tenerci a farsi dimenticare, ben pochi, a Ferrara, potevano dire di conoscerla
di persona e, ad ogni modo, si rammentavano che esistesse. Nemmeno l'on. Bottecchiari, che pure
in giovent l'aveva conosciuta benissimo, avendo diretto per alcuni anni insieme con lei, all'inizio
della sua carriera politica, la famosa Fiaccola del Popolo (erano stati anche amanti, a quanto si
diceva, almeno fino allo scoppio della prima guerra mondiale: poi l'avvocato era partito per il
fronte), nemmeno lui pareva sapere con esattezza dove fosse andata a stare di casa.
Ecco qua il nostro piccolo Lattes!, aveva gridato l'onorevole da dietro il pesante tavolo stile
Rinascimento, quella volta che Bruno si era apposta recato al suo studio per averne qualche notizia.
Piccolo di et, ma non di statura, aggiunse allegramente, vedendolo sostare incerto sulla soglia.

Avanti, avanti!, continu, e lo squadrava da capo a piedi come per misurare quanto fosse
cresciuto in quegli anni: Come sta il pap?
Si era levato a mezzo dalla poltrona a braccioli, tendendogli la mano poderosa in segno
d'incoraggiamento e di saluto. Ma poi, non appena gli aveva sentito fare quel nome, Clelia Trotti, si
era subito chiuso in un cauto riserbo.
Ma s aspetta un po', rispose con imbarazzo, mi pare di aver sentito dire che stia dalle parti
del Saraceno di via Belfiore
Aveva quindi portato immediatamente il discorso su altri argomenti: sulla guerra, sulla drole de
guerre, sul probabile intervento dell'Italia, anzi di Mussolini, sui prossimi possibili colpi di
Hitler. Eh gi, dicevano intanto i suoi occhi azzurri, pieni di rosse venuzze, lampeggianti di
ironico trionfo, eh gi! Per vent'anni mi avete guardato con sospetto, evitato e spregiato anche voi
come antifascista, come sovversivo, come avversario del Regime, ed ora che questo stesso vostro
Regime vi butta fuori, ora eccovi qua!
Discorreva sempre di tutt'altro, nel mentre: mai allontanandosi, cos come aveva incominciato, dal
campo della politica internazionale e da quel tipo di elucubrazioni strategiche le stesse che i
fascisti chiamavano con disprezzo alta strategia di cui, gi allora, quando la radio trasmetteva le
quotidiane notizie della guerra ferma alla linea Maginot, cominciava a traboccare perfino il Caff
della Borsa. Almeno per quella volta, era evidente, egli non voleva che il colloquio uscisse da un
simile genere di binari.
Il tono di blanda complicit della sua voce non doveva illudere Bruno. Faceva soprattutto appello
all'amicizia che sin dai tempi del liceo aveva legato lui, Bottecchiari, a suo padre avvocato: amicizia
o, pi che amicizia, ovvia considerazione fra borghesi benestanti e colleghi, richiamandosi per
tacito accordo alla quale erano pur sempre continuati anche dopo la Marcia su Roma, anche dopo il
delitto Matteotti, i saluti solenni e confidenziali scambiati sorridendo a distanza, secondo l'eterno
costume, da un marciapiede all'altro di corso Giovecca Sicch, pi tardi, al termine del loro
simpatico conciliabolo, era stata da principio una straordinaria sorpresa per Bruno che
l'onorevole, in procinto di accomiatarlo, tornasse spontaneamente sull'argomento di Clelia Trotti.
Se ti riesce di agganciarla, salutamela, gli aveva detto con un ghigno cordiale, battendogli una
mano sulla spalla attraverso l'uscio mezzo accostato. E poi, pi piano:
Non conosci Rovigatti, Cesare Rovigatti, il ciabattino che ha la bottega in piazza Santa Maria in
Vado, di fianco alla chiesa?
Ci siamo sempre fatti risuolare le scarpe da lui, rispose Bruno; e sent di arrossire, di colpo. Ma
perch?
Lui s che pu dirti dove sta la Trotti. Vallo a trovare chiediglielo. Ma attenzione, aggiunse subito,
in un soffio (la fessura della porta a vetri smerigliati si era ridotta a uno spiraglio), bada che Clelia
sorvegliata.
L'onorevole non si era sbagliato, Clelia Trotti abitava proprio dalle parti del Saraceno. Ma non,
come anche aveva detto, in via Belfiore: bens in via Fondo Banchetto, in una piccola casa a due
piani che quasi faceva angolo con via Coperta. Il vecchio tribuno si era limitato a mettere il
piccolo Lattes sulla strada, a indicargli la direzione: interrogato, il ragazzo non avrebbe potuto
dire, al caso, di aver saputo da lui niente di pi
Da Rovigatti, Bruno era andato quella sera stessa, uscendo dallo studio legale Bottecchiari.
Erano le sette, l'ora che piazza del Duomo brulicava maggiormente di folla serale. Aveva, perci,
sostato abbastanza a lungo ai piedi della scala, attendendo nell'oscurit dell'atrio il momento pi
propizio per uscire dal portone senza dar nell'occhio. Alla fine si era deciso. Era scivolato fuori
come un malfattore, e poi, le mani affondate nelle tasche dell'impermeabile, aveva attraversato la
piazza e si era infilato sotto i portici,della cattedrale.

Ripensava, camminando, all'ambigua accoglienza dell'onorevole.


Rivedeva il suo viso quale gli era apparso da ultimo, attraverso la porta socchiusa. Aveva detto:
Rovigatti; e insieme aveva ammiccato con espressione decisamente, esageratamente volgare. Che
cosa aveva voluto significare, L'onorevole, con quell'ammicco d'intesa? Davvero aveva voluto, con
quello, e col nome che aveva sussurrato, chiedergli tacitamente scusa per essersi tenuto, durante il
loro colloquio, un po troppo sulle generali, e nello stesso tempo riparare allo sgarbo con una precisa
compromissione in extremis? O non, forse (e pensando a ci, si era sentito subito torcere lo stomaco
dal disgusto: nemmeno i capelli bianchi, dunque, portavano ormai pi consiglio!), magari per
alludere con discrezione al legame che un tempo l'aveva unito, e forse, chiss, ancora segretamente
l'univa, all'antica compagna di partito: allusione questa bastevole, era chiaro, per togliere anche al
poco gi detto ogni carattere di confidenza politica? E non era proprio cos, del resto, che ci si
comportava abitualmente a Ferrara (a Ferrara: in quella fogna di provincia, in quella sentina di ogni
vizio e d'ogni scetticismo!), quando, tra gente per bene, un po' vantandosene un po
vergognandosene, ci si confidava a mezzo, strizzandosi l'occhio da uomo a uomo, una relazione con
una ragazza del popolo? Ma d'altra parte: perch mai l'on. Bottecchiari, un ex deputato socialista, un
uomo che mai aveva chinato il capo, uno che aveva tutte le carte in regola per differenziarsi in ogni
circostanza dal gregge conformista, irto di comandati cipigli, che occupava insolente le strade, i
caff, i cinematografi, le sale da ballo, i campi sportivi, perfino le biblioteche, escludendone
d'imperio chiunque fosse, o sembrasse, diverso da s: perch mai l'on. Bottecchiari, sia pure per
prudenza, sia pure per scherzo o civetteria, sopportava di assumere un momento solo i modi, la
grinta melensa e crudele di quel gregge? Non era stato veramente, cos, come se avesse voluto
rifiutare anche egli ogni aiuto, ogni impegno: e, chiamato a scegliere, si fosse alla fine schierato
dalla parte di quelli -il muro compatto e ostile delle buone famiglie di Ferrara, per i quali era stato
tanto facile, dopo l'autunno del '38, chiudere davanti a lui, Bruno, e a tutti gli ebrei, la porta di casa?
La verit era - aveva concluso Bruno con amarezza - che nemmeno lui, L'on. Bottecchiari, era
riuscito a passare senza danno, senza corrompere il suo carattere, la sua dritta e fiera giovent, sotto
il torchio di quei decenni, dal '15 al '40, che avevano visto la degenerazione progressiva di ogni
cosa. Nulla, oh nulla e il socialismo col rimanente - si era in realt potuto conservare puro, intatto!
Era ben vero, per esempio, che i colleghi fascisti dell'on.Bottecchiari fremevano d'ira quando egli,
perorando in tribunale, lasciava ad ogni momento intendere come la pensasse.
Pi d'uno, certo, avrebbe voluto farglisi sotto, prenderlo per il bavero della giacca (ma di tanto, in
fondo, non era stato capace nemmeno Sciagura, ai suoi tempi: gi nel '22 L'on. Bottecchiari pesava
novanta chili), e gridargli in faccia: Lei ha voluto dire questo e questo non vero? Lo
ammetta! Ma la sostanza era che lo lasciavano cantare: paghi, alla fine, di aver costretto il vecchio
lottatore proprio a quell'eterno dire e non dire, a quell'alludere continuo, senza riposo, che con gli
anni era di ventato in lui una specie di tic, di vizio, di seconda natura.
No, non c'era dubbio. Se l'on. Bottecchiari, nonostante il suo passato, si era potuto sempre
permettere, anche dopo l'avvento del fascismo, di scendere ogni giorno a piedi per corso Giovecca,
reduce dallo studio o dal tribunale e diretto a casa, sventolando fieramente in distanza la zazzera
bianchissima, quasi luminosa, in faccia ad amici e avversari (gli anni nei quali lui, Bruno, era nato e
cresciuto, gli anni che avevano fatto di Clelia Trotti una vecchia, una sopravvissuta): tutto ci non
era potuto succedere senza che anche egli, nel profondo, ci avesse rimesso qualcosa.
Chiuso in questi pensieri che gli stringevano il cuore in una morsa d'angoscia, urtando nella gente e
lasciandosene urtare, aveva risalito lentamente via Mazzini e via Saraceno.
Che schifo, che schifo!, mormorava tra i denti, saettando attorno occhiate cariche di disprezzo. Le
vetrine sfavillanti; la gente ferma, di fronte ai cristalli, a osservare la merce esposta; i negozianti che
si facevano sulle soglie delle botteghe, simili nei modi e nei sorrisi alle megere di via Colomba o
via Sacca, sempre prodighe di richiami per gli studenti che passavano a tiro dei loro anditi; perfino
le ragazze e le signore che, scendendo verso piazza delle Erbe, lo sfioravano senza notarlo: tutto
quello che vedeva attorno a s portava impresso il segno di un vizio nascosto, il marchio mal

dissimulato della corruzione. Che marciume, che vergogna, continuava a dire.


Eppure, man mano che procedeva, che le strade si facevano pi anguste e le luci meno violente a
mano a mano, insomma, che egli si allontanava dal centro, e gli venivano incontro, semi-deserti, i
vicoli tutti ciottoli della citt vecchia, dove Clelia Trotti abitava e dove si diceva che si fosse
ristretta quasi esclusivamente a vivere il suo disagio e il suo disgusto scemavano. Era arrivato, cos,
fino all'altezza di via Belfiore. Fu sul punto di attraversare la strada per inoltrarsi, a caso, gi per di
l. Ma soltanto qualche lume giallastro filtrava, almeno fino al punto in cui la viuzza faceva gomito,
dalle finestre serrate delle case. A chi rivolgersi, a quell'ora, a quale campanello suonare? Era l'ora
della cena: a casa, tra l'altro, dovevano gi aspettarlo.
L'gape paterna!, borbott sogghignando tra s. Fin col prendere a sinistra, per via Borgo di
Sotto.
Piazza Santa Maria in Vado gli si era aperta a un tratto dinanzi come un mare di nebbia: con la scura
facciata della chiesa da un lato, il buio varco aperto sui bastioni di fronte, al centro la fontanella
assediata da donnette parlottanti, povere bottegucce e casupole tutte attorno da cui sortivano,
insieme con deboli luci e odori di caldarroste e castagnacci - gli odori dell'infanzia! - suoni lievi e
sparsi: un'incudine battuta senza forza; un pianto sommesso di bambino; un buona sera! e un a
domani scambiati in fondo a un invisibile portico, fra due uomini di et, un tintinnio di
bicchieri: gli esili, quieti rumori, insomma, della giornata artigiana e operaia giunta al suo
termine.
L'occhio gli era subito corso, laggi, a una piccola vetrina illuminata un poco pi intensamente.
Rovigatti era l, seduto al deschetto: Bruno ne distingueva appena, oltre la lastra appannata della
vetrina, la sagoma familiare. Si accost.
E l'immagine immutata del ciabattino di casa (non era mai cambiato, mai: ricordava di averlo visto
sempre cos, fin da bambino) fu come se gli venisse incontro attraverso la nebbia, facendosi via via
pi chiara e pi di stinta.
Entr, si lev il cappello, offerse la mano sopra al deschetto, gli si sedette di fronte. Ebbe subito,
senza difficolt alcuna - con una certa, anzi, ostentazione di arrendevolezza da parte del ciabattino l'indirizzo esatto della maestra:
Fondo Banchetto 36, presso Codec. Ma poi avevano parlato, parlato di un'infinit di altre cose.
Sicch anche per quella sera, una volta di pi!, Bruno aveva finito col rincasare che la cena era
terminata da un pezzo.
Torn la sera dopo, e poi quasi tutte le altre di quell'ultimo scorcio del ' 39. Fino a quando? Per
molto tempo senza dubbio.
L'indomani stesso era andato a suonare con trepidazione al campanello della casa di via Fondo
Banchetto 36. E certo, se fosse stato ricevuto subito, se una signora grassa, in grembiule di ratin
nero e i I distintivo fascista appuntato sul petto, coi capelli color pepe e sale e l'aria diffidente (La
sorella, avrebbe poi spiegato Rovigatti, asciutto), non si fosse presentata sull'uscio a dirgli che la
maestra non era in casa; se lei, sempre lei, non fosse riapparsa a dirgli, il giorno dopo, che la
maestra stava facendo lezione e perci non poteva ricevere nessuno; e, il successivo, che non stava
bene; e l'altro ancora che era partita per Bologna, e non sarebbe stata di ritorno prima della
settimana ventura, e cos via per settimane e settimane: con ogni probabilit lui e Rovigatti non
avrebbero avuto il tempo di diventare amici. Aveva compreso immediatamente, lui, che gli sarebbe
toccato fare anticamera a Santa Maria in Vado. Ma per quanto, ancora? Chiss. Fino a quando,
comunque, era chiaro, sarebbe parso alla Trotti, o a chi decideva per lei, di farlo entrare. (Ma lo
sapeva, lei, dei suoi tentativi di conoscerla? - si era subito chiesto. Le avevano riferito che lui
passava da casa quasi ogni giorno?).
Premeva il bottone del campanello, tutte le volte, col cuore che gli batteva; e ogni volta la scusa era
patente! - si rinnovava la sua delusione. Ma non si irritava, per questo: bench, a dire il vero, la

sorella, che era poi la signora Codec, non gli fosse troppo simpatica. Ripiegava ogni volta l vicino,
a piazza Santa Maria in Vado: come se, essendogli vietato l'accesso a un mondo meraviglioso, egli
dovesse accontentarsi di sostare in attesa al suol margini.
Infatti se ne contentava. La porta a vetri di Rovigatti, che quel mondo, sebbene evitasse di parlarne,
intimamente conosceva, che di quel mondo era partecipe, mai l'avrebbe trovata chiusa, poteva
contarci. Cigolava appena quando egli, per entrare, la scostava con due dita. Rovigatti era sempre
l, simile a quei Geni rustici, un po' maliziosi ma di buon carattere, a cui il popolo crede ancora.
Buona sera, signorino Bruno, come va?, diceva sorridendo a fior di labbra: e lo guardava di sotto
in su, scrutandolo con quei suoi occhi scuri, come febbricitanti (era lui il vero custode, il guardiano
bonariamente diplomatico e reticente della soglia che gli era negata!). Sostare l, in attesa;
conversare con lui, aspettando che si facesse notte: a poco a poco questa era diventata un'abitudine
indispensabile, quasi un rito quotidiano.
Il custode, appunto, il guardiano: una specie di portiere nella sua guardiola (gli occhi di Bruno,
allora, lo vedevano proprio cos). Ma non, ad ogni modo, persona inferiore o subalterna. Questo no.
Appena entrato, Bruno si metteva a sedere sul panchetto dl contro a quello su cui sedeva Rovigatti;
e restava l ore intere, come affascinato, a guardarlo lavorare. Che forza quale coscienza di s
sembrava ricavare il ciabattino dall'esercizio stesso della fatica manuale! Arrotolati gli spaghi
attorno alle palme non meno dure del cuoio medesimo dal quale, in precedenza, aveva ritagliato la
forma di una suola, egli li tirava a s con energia misurata; un pugno di piccoli chiodi prendeva
dimora nella sua bocca, e lingua e labbra erano pronte, secondo le esigenze, a restituirli
puntualmente alla luce; il martello batteva e ribatteva, con automatismo preciso e instancabile, la
sorda superficie della calzatura che egli teneva ben salda, frattanto, fra le ginocchia strette a
morsa Come era abile, com'era sicuro! E se, parlando, continuava a trafficare con le mani
mani grandi e annerite, che combattevano duramente la loro umile battaglia, l, sotto la lampada
bassa, dalla mattina alla sera di ogni giorno -: non per questo i gesti, impostigli dal lavoro, lo
Impedivano, gli erano mai di impaccio. E nemmeno lo distraevano. Anzi. Un chiodo ficcato nello
spessore del cuoio con un sol colpo di martello pareva servirgli meglio, a momenti, per ribadire un
concetto, che qualsiasi argomento complementare.
Tuttavia non poteva essere che il lavoro a separarli pensava Bruno - a far s che lui si sentisse
continuamente escluso dalla piena confidenza di Rovigatti. Perch?, sembrava voler dire
quest'ultimo, passandosi una mano nel ciuffo di capelli lustri, corvini, che gli ricadevano ancora
giovanilmente da un lato della fronte pallida, gremita alle tempie di punti neri, forse che non
ancora, Lei, nonostante queste leggi della razza, un signorino, un signurn? Cane non mangia cane,
vada l!
E cos se Bruno si abbandonava a parlare di politica (non era che un espediente, in fondo, per
vedere di tirarlo dalla propria parte, per sentirlo meno lontano da s: e per ottenere soprattutto che
egli interponesse i suoi buoni uffici affinch il regalo di Clelia Trotti gli fosse dischiuso un po'
prima di quanto era stato decretato), Rovigatti si limitava ad ascoltare, per lo pi, o a rispondere con
freddezza, in tono pacato, esageratamente obiettivo. Quando poi l'ospite le diceva pi grosse del
solito, allora chinava la testa sul lavoro, o dava rapide sbirciate fuori, nella piazza, come se temesse
che qualche ignoto emissario dell'OVRA, protetto dall'oscurit, si fosse potuto avvicinare non visto
fino a qualche metro di distanza, e adesso se ne stesse l, con l'orecchio incollato al muro esterno, a
sentire tutto quello che dicevano. Ma no, non direi: qualcosa di buono l'hanno fatto anche loro,
giunse addirittura a ribattere, una volta: e mentre Bruno lo guardava stupefatto, gli occhi gli
ridevano di malizia. Sentiva di trionfare, evidentemente.
Il signorino Bruno, il figlio dei signori del palazzo di via Madama ai quali da quasi vent'anni lui
risuolava le scarpe, il signorino Bruno era in casa sua, veniva a fargli visita! Ma il trionfo comunque
non poteva dirsi completo se ora, arrivati al punto a cui si era arrivati (la baracca, era chiaro,
cominciava proprio a far acqua da tutte le parti!), egli non si fosse potuto prendere il lusso di
riconoscere all'avversario di ieri perfino qualche piccolo merito Non era un signore, lui: da questa

parte della barricata - dalla parte dei poveri, degli oppressi, dei perseguitati - Cesare Rovigatti ci era
nato e cresciuto. E allora? Soltanto perch Cesare Rovigatti non era che un ciabattino soltanto per
questo si pretendeva adesso da lui odio cieco ottuso rancore e spietatezza indiscriminata? Ah no,
troppo comodo! Era finito il tempo nel quale i ricchi, i potenti, si servivano di loro, popolo
lavoratore, a guisa di massa di manovra, riservando a s il monopolio dei sentimenti elevati!
Era finito il tempo degli equivoci! E se qualcuno, a questo proposito, si illudeva di poter ripetere il
solito gioco del passato, affidando alla classe operaia il nobile compito di levar dal fuoco castagne
che non la riguardavano ebbene tanto peggio per lui. (Quando diceva queste cose o lasciava
intendere che le pensava, le sue pupille si facevano dure, ostili; dai suoi occhi tornava a scoccare,
rapida attraverso il deschetto ingombro di scarpe vecchie, un'occhiata raggelante, carica di
sospettosa ironia: la stessa da cui Bruno si era sentito trafiggere la volta che, contando sul suo
violento anticomunismo di tipo anarchico, romagnolo e sperando di fargli piacere, si era azzardato a
chiamare anch'egli i comunisti i nostri cari cugini).
La sua vanit pareva particolarmente soddisfatta, ad ogni modo, quando gli riusciva di portare la
conversazione su argomenti diversi dalla politica. Sulla letteratura, per esempio.
Piaceva a Bruno Vittor Hugo? - domandava. Che libro insuperabile, Il Novantatr! E I Miserabili? E
L'uomo che ride? e I lavoratori del mare? Nell'Italia dell'ottocento, sebbene su un piano molto
inferiore, soltanto Francesco Domenico Guerrazzi aveva fatto qualcosa di simile, come romanzi.
E tuttavia nell'insieme che disastro, la letteratura Italiana, a volerla considerare dal punto di vista del
proletario, tenendo conto del grado di istruzione a cui il proletariato pu aspirare in Italia! Tra i
poeti, a guardar bene non restava che Dante, il pi gran poeta del mondo.
Quelli che erano venuti dopo, invece che per il popolo avevano scritto per i signori. Il Petrarca,
L'Ariosto, il Tasso, L'Alfieri, eh s, anche l'Alfieri, il Foscolo: roba per una lite. Quanto ai
Promessi Sposi, troppo odore di sacristia, troppa reazione. No: se si voleva tornare a leggere
qualcosa di degno (modesto, magari, ma degno), bisognava saltare a pi pari fino al Carducci del
Canto dell'Amore, allo Stecchetti di certe invettive sociali. Ma a proposito: adesso, nel novecento, a
parte quel degenerato di D'Annunzio, a parte il Pascoli, come andavano le cose in letteratura?
Purtroppo egli non disponeva del tempo necessario per mettersi al corrente. La Biblioteca
Comunale la chiudevano alle diciannove: ed era un peccato, perch se l'orario di consultazione
fosse stato esteso alle ore serali, lui, dopo bottega, non avendo obblighi di famiglia, avrebbe certo
saputo approfittare di quel pubblico servizio come tanti altri lavoratori.
Per il signorino Bruno aveva studiato e continuava a studiare; anzi, bench non ancora laureato,
(ma non insegnava gi, del resto, nella scuola israelitica di via Vignatagliata?), poteva dirsi fin da
ora un professore. Forse pensava di dedicarsi un giorno o l'altro a scrivere dei libri, non vero?
Ebbene lui, che era indubbiamente una persona colta, e, come letterato, doveva star dietro alle
ultime novit, rispondesse per favore sinceramente: ne esistevano, adesso, di buoni scrittori? Preso
all'improvviso da un senso profondo di inutilit, come di impotenza, Bruno non rispondeva. In
questo campo, ne sono sicuro, non si fa pi niente di bello, di utile!, concludeva Rovigatti
stringendo convinto le labbra, scuotendo il capo con accoratezza sincera. La riluttanza di Bruno a
informarlo sullo stato presente della letteratura nazionale; l'espressione che assumeva il suo volto
quando, interrogato, preferiva non rispondergli (Perch sono qui?, si chiedeva invece egli: e quasi
non sperava pi nel premio finale di cui la lunga quarantena a Piazza Santa Maria in Vado avrebbe
dovuto renderlo degno): anche da questo capiva che vedeva giusto, che aveva ragione lui.
Ma l'argomento, in fondo, che pi metteva Rovigatti a suo agio, era quello del proprio mestiere. Era
un mestiere umile, diceva, anzi umilissimo: per gli aveva sempre consentito non solo di sbarcare il
lunario decorosamente, ma di resistere tutti quegli anni senza mai piegare la schiena.
E poi che cosa credeva, Bruno: che fare il ciabattino non presentasse dei lati interessanti? Ogni
attivit umana ne aveva: bastava esercitarla con passione, starci dentro, conoscerla nei suoi
segreti. Parlava senza pi ironia, senza pi cattiveria, finalmente: e Bruno, ascoltandolo,

dimenticava a poco a poco la propria tristezza, si sentiva quasi felice.


Una scarpa scalcagnata diventava sempre qualcosa di vivo, in mano sua. Dal modo come un cliente
aveva consumato un tacco, deformato una tomaia, sbucciato una punta Rovigatti sapeva risalire, con
intuito meraviglioso che incantava Bruno, al carattere di quel tale. Prima di accingersi a riparare una
calzatura, egli era solito soppesarla al lume ravvicinato della lampada col sorriso indulgente
dell'artista che contempla il proprio personaggio, ed disposto, purch gli sia dato di leggergli
dentro il cuore, purch risulti vivo, a vederlo compiere le pi grosse ribalderie.
Da questo signore, vede, sar difficile farsi pagare, diceva egli per esempio, maneggiando certi
scarpini di coppale, strettissimi, che parevano nuovi, e invece nascondevano sotto le punte affilate
segni non lievi di consunzione: e la cautela con la quale li metteva sotto gli occhi di Bruno, perch
Bruno li esaminasse con l'interesse che meritavano (la cautela del domatore di serpenti!),
individuava perfettamente il proprietario di quegli oggetti, che era un giovane ozioso, appunto, un
crudele sfruttatore di donne notissimo in citt.
E tu, bella bionda, attenta a dove corri!, mormorava con un sogghigno di simpatia, passando il
pollice calloso attorno al tacco altissimo, aguzzo come un pugnale, di certe scarpette femminili di
pelle di coccodrillo, che una camminata energica, esuberante, vittoriosa, aveva fortemente slabbrato
ai margini.
Una volta fece vedere a Bruno, tra le altre, anche le scarpe dell'on. Bottecchiari, il principe del
nostro Foro
(disse proprio cos, con una certa ironia: ma gli occhi, mentre tornava a osservarle sopra pensiero,
gli ardevano di zelo combattuto, di tenace fedelt).
Avr i suoi difetti, si capisce, riprese di l a qualche istante, ma una persona di cui dopo tutto ci
si pu ancora fidare. Cosa importa se si imborghesito? Guadagna, e molto; ha una bella casa, una
bella moglie bella una volta, naturalmente: i suoi cinquanta li ha messi insieme anche lei! -; col
suo ingegno, con le sue doti di oratore, perfino i fascisti lo rispettano, gli fanno la corte.
Un fatto per quello che conta: Id tessera, che gli volevano dare anche l'anno passato, sa cosa gli
ha detto, lui? Gliel'ha sbattuta sul muso!
E non smetteva, frattanto, di rigirare fra le mani callose le scarpe dell'on. Bottecchiari (un paio di
scarpe marrone, dalla punta quadrata: le scarpe di un uomo sanguigno, ottimista, dal fisico di oltre
un quintale), a fianco di cui, da giovane, aveva militato nelle file del Partito Socialista Italiano di
Giacomo Matteotti e di Filippo Turati, e insieme col quale, nel '24, era stato aggredito nei locali
della Cooperativa di consumo dei ferro-tranvieri, ambedue salvandosi poi per miracolo da una
uscita secondaria.
Accenn col mento a fuori, nella direzione di via Fondo Banchetto.
N lui n gli altri amici di una volta, soggiunse, si incontravano pi con l'avvocato Bottecchiari da
quasi vent'anni, questo era vero Ma di recente, vistolo passare in senso contrario al suo, lungo l'altro
marciapiede di corso Giovecca (dalla parte opposta della barricata!, pens Bruno: e come non mai,
d'un tratto, si sent solidale con lui Rovigatti, e con Clelia Trotti, e con tutta la povera gente tradita e
dimenticata di citt e di campagna che immaginava dietro a loro: felice e grato di essere con loro, e
per sempre): nemmeno una settimana avanti l'onorevole, gioviale e alla mano come sempre era
stato, gli aveva gridato di lontano: Ciao, Rovigatti!
Un bel giorno la porta della casa di via Fondo Banchetto si apr senza che il vano venisse subito
ostruito dalla tozza figura della signora Codec. Era naturale, in fondo ovvio, che a lungo andare
succedesse questo. In ogni favola che si rispetti (potevano essere le tre, tre e mezzo del pomeriggio:
c'era sul serio qualcosa di irreale nel silenzio della contrada affatto deserta), raro che la vicenda
non si concluda con la sparizione o la metamorfosi del Mostro.

D'un tratto l'incantesimo si era spezzato, la signora Codec era scomparsa. Ebbene chi poteva
essere, se non Clelia Trotti, la persona venuta ad aprire in sua vece? Certo era lei, non poteva essere
che lei - si diceva Bruno - la donnetta risecchita e trasandata, la specie di beghina di cui parlava la
gente. Per sincerarsene, bastava guardarle gli occhi.
Erano ancora gli occhi, stupendi, della bella fanciulla emula di Anna Kuliscioff, dell'impetuosa
eroina della classe operaia che l'on. Bottecchiari aveva amato da giovane
Spogliatasi della buccia del drago, restituita per miracolo alle sue vere fattezze, anche Clelia Trotti,
dunque, come le principesse delle favole, sorrideva dolcemente dello stupore-e sorriso e stupore
erano del pari d'obbligo, di maniera - che si esprimeva dal volto del giovane sconosciuto, fermo sul
ciottolato davanti alla sua porta. A questo punto sarebbe stato sufficiente un: Entri, si accomodi, so
gi perch Lei viene qui: e la favola, col piccolo uscio che misteriosamente si richiudeva alle loro
spalle, contro la quiete ovattata di via Bondo Banchetto, avrebbe avuto un compimento esatto,
impeccabile. E invece no, la frase non fu detta. Come a significare che il sorriso, quel dolce sorriso
in certo modo smentito, del resto, dall'indagine di un acuto sguardo azzurrino, era di pura gentilezza
e niente altro. Un sorriso interrogativo; gentile, ma che esigeva risposta.
Improvvisamente Bruno comprese. Non soltanto la signora Codec, ma nemmeno Rovigatti aveva
mai fatto il suo nome! Occorse perci, attraverso la soglia ancora vietata, dire nome e cognome:
Bruno e Lattes, in tutte sillabe. Fu adesso il viso di Clelia Trotti a esprimere stupore - autentico
stupore, il suo, e abbandono fidente mentre la punta indagatrice dell'iride chiara veniva come
sommersa da un'onda di tristezza generosa. Comunque, tanto bast perch la favola si compisse in
ben altro modo: sfumando cio nel vero; e la realt, la realt nuda, cominciasse a ritrovare le
dimensioni a lei proprie.
Bada che sorvegliata, aveva detto l'on. Bottecchiari, abbassando la voce come se temesse di
essere udito perfino dall'aria. Era alla polizia, all'OVRA, che egli intendeva riferirsi. Ma una volta
di pi le cose, a guardarle da vicino, risultarono subito diverse.
Venga, che andiamo a parlare nel tinello, sussurr in un soffio la vecchia maestra, dopo aver fatto
passare Bruno nell'andito d'ingresso.
Ora lo precedeva in punta di piedi, lungo un buio corridoietto umidiccio. E cos, mentre le andava
dietro, cercando anche egli di non far rumore, e intanto la guardava muoversi con tutta la
circospezione di cui era capace, di nuovo fu facile per Bruno indovinare. Se Clelia Trotti era
sorvegliata, era sorvegliata soprattutto in casa, non fuori Erano la signora Codec e suo marito (lui
cassiere alla Cassa Agricola, la roccaforte della borghesia agraria cittadina, lei insegnante
elementare di ruolo, in pieno stato di servizio) i pi veri carcerieri di Clelia Trotti. E la polizia?
La polizia, certo, sapeva perfettamente quel che faceva.
Abbandonando la sessantenne ammonita al controllo domestico dei due degni coniugi persone,
costoro, evidentemente di troppo buon senso per tollerare che l'incomoda ospite ricevesse visite
sospette, L'OVRA poteva limitarsi a farsi viva ogni tanto; e per il resto, davvero, dormire sonni
tranquilli.
Entrarono nel tinello a pianterreno. Bruno si guard intorno.
Era qui che Clelia Trotti passava gran parte delle sue giornate, sfiatandosi a far lezione ai bambini e
ai ragazzetti del vicinato. Era questa la sua prigione.
I mobili di legno scialbo, dozzinali, ma non senza qualche ridicola pretesa, la coperta verde,
macchiata d'inchiostro, stesa a riparo del tavolo centrale; il lampadario di finto vetro di Murano; il
diploma di ragioniere con sopra scritto a caratteri gotici il nome del padrone di casa, Evaristo
Codec, appeso a una parete fra miseri quadrucci di paesaggi alpestri e marini; la pendola, anch'essa
di legno chiaro, dal tic-tac secco e sonoro, incombente come un avvalso minaccioso; persino il
raggio di sole invernale che, dall'unica finestra aperta sull'orticello retrostante, filtrava di traverso
nella stanza, facendo ardere crudamente una testa di cavallo color sangue rappreso, dipinta a olio

sopra un cuscino del divano: in quel fondo di pozzo, in quella specie dl tana malfida, ogni cosa
parlava a Bruno di noia, di accidia, di lunghi anni di gretta, ingloriosa segregazione e di oblio. E l,
dall'altro lato del tavolo, pur insistendo a sorridere di s, di Bruno, e di tutto il resto (chiedeva scusa,
anehe, chiedeva un po' d'indulgenza!), la vecchia rivoluzionaria che aveva visto coi suoi occhi Anna
Kuliscioff e Andrea Costa, che aveva discusso di socialismo con Filippo Turati, con Giacomo
Matteotti e con Massarenti, L'apostolo di Molinella, e aveva avuto una parte importante nella
famosa Settimana Rossa dl Romagna, del '13, ridotta a parlare a voce soffocata, un bisbiglio appena
intelligibile, levando ogni tanto gli occhi in alto, al soffitto, quasi a indicare che di lass, dal piano
superiore, la sorella o il cognato potevano scendere da un momento all'altro a interromperli, oppure
sostando in silenzio, con una mano aperta e tesa a mezz'aria e l'indice dell'altra alle labbra (la
pendola suon, rocamente, durante uno di tali silenzi: e insieme veniva dall'orto un sommesso
chioccolio di galline), proprio come una scolaretta paurosa di essere colta in fallo! La realt era
questa - pensava Bruno - inutile illudersi!
E allora, tutto sommato, allora valeva davvero la pena essersi condotti nei riguardi della vita sempre
in modo cos diverso da come si era condotto l'on. Bottecchiari, se la tabe comune, il tempo che
fiacca e stravolge ogni cosa, aveva potuto ugualmente portare tanto avanti l'opera sua corrompitrice
e disgregatrice? Clelia Trotti non si era mai piegata, aveva sempre serbato purissima la propria
anima; l'on. Bottecchiari, invece, sebbene non avesse mai accettato la tessera del Fascio, si era
inserito pienamente nella societ dei suoi anni maturi, giungendo addirittura a far parte del consiglio
di amministrazione della Cassa Agricola, e ci senza che alcuno se ne lamentasse o scandalizzasse.
Ebbene, considerando i risultati, chi dei due aveva avuto ragione nella vita? E che cosa era mai
venuto a fare lui Bruno, arrivando tardi, irrimediabilmente ultimo, se non, appunto, per rendersi
conto che il mondo migliore, la societ pi onesta e pi civile di cui Clelia Trotti era una prova e un
relitto insieme, non sarebbero pi ritornati? Egli la guardava, la celebre socialista, la pietosa
prigioniera, e non riusciva a staccare gli occhi dalla riga scura appena visibile che segnava torno
torno, poco pi gi dei bianchi capelli raccolti a nodo sulla nuca, il collo magro e rugoso di lei.
Quale aiuto - si diceva, fissando crudelmente quel povero collo mal lavato - quale protezione, quale
segno utile di solidariet, quale effettiva speranza di redenzione poteva egli attendersi da Clelia
Trotti, da Rovigatti, e dalle altre umili amicizie del genere di Rovigatti che la maestra continuava
sicuramente a coltivare di nascosto? Bisognava levarsi al pi presto di l, sottrarsi immediatamente
a quel colloquio grottesco! Ma a parte ci: perch non avrebbe dato ascolto una buona volta a
quanto da tempo gli raccomandava suo padre, il quale, dal settembre del '38, non aveva mai cessato
di esortarlo ad andarsene da Ferrara per trasferirsi in Erez, come si era abituato subito a dire, o
negli Stati Uniti, o nell'America del Sud? Perch finalmente non dargli retta? - continuava a
chiedersi Bruno.
Lui era giovane, insisteva suo padre, aveva l'intera vita davanti a s. Doveva emigrare, mettere
radici altrove. Se voleva, c'era ancora modo. Fino all'estate prossima, l'Italia non sarebbe entrata in
guerra, e a un ebreo discriminato il passaporto non lo rifiutavano certamente. Volevano
scommettere?
La discriminazione, che lui disprezzava tanto, per avere il passaporto sarebbe tornata utilissima
Lei mi deve scusare, diceva frattanto Clelia Trotti pi che mai sottovoce, ma questa casa mia
per modo di dire. Anzi, non lo affatto. Mia sorella e mio cognato, aggiunse, con gli occhi azzurri
che tornavano di nuovo a esprimere, fissi in quelli di Bruno, la gioia di potersi confidare e la
certezza di non sbagliarsi ad aver fiducia in lui, mia sorella e mio cognato che, da quando tornai
dal confino, e cio ormai da parecchi anni, mi hanno presa qui con loro, si sono messi in testa di
impedirmi - e rideva, ora, tentennando il capo divertita di commettere altre sciocchezze Mi
sorvegliano, mettono il naso in tutto quello che faccio, pretendono che rincasi prima del buio con
almeno due ore di anticipo. Peggio, creda, che se fossi una bambina! Certo mi rendo conto: per
della gente che non la pensa come noi che anzi ha un'idea della politica completamente diversa
dalla nostra buona gente, sa, d'altra parte, due veri cuor d'oro mi rendo conto che comportarsi
come essi si comportano nei miei riguardi possa sembrare una specie di diritto. Lo fanno per il mio

bene, dicono; e sar. Ma intanto qui ebbe una breve smorfia piena di stanchezza, con lo sguardo
che d'improvviso si era fatto serio, quasi severo - intanto quale noia!
E sua sorella la signora che viene sempre ad aprire la porta?
S, appunto, ma perch?, fece la maestra, allarmata.
Forse vuole dire che non la prima volta che viene qui in cerca di me, non vero? Oh, poverino!,
e congiunse le piccole mani ossute, con l'indice e il medio della destra macchiati di nicotina; chiss
quante volte Giovanna le ha fatto fare la strada per niente!
Una volta mi diceva una cosa, una volta un'altra. Erano scuse, lo capivo benissimo. Ma non potevo
supporre che Lei non fosse in qualche modo al corrente. E allora
Oh poverino!, ripet Clelia Trotti. E io che parlavo di diritto! Ma mi sentiranno, questa volta,
giuro che mi sentiranno! Poco, posso capire; ma quello che troppo troppo!
Rimase qualche istante in silenzio, come meditando sulla gravit dell'arbitrio perpetrato nei suoi
confronti e sulle misure che avrebbe preso per far valere le proprie ragioni.
Ma inseme, si vedeva, insieme pensava anche ad altro. E doveva esser qualcosa che, suo malgrado,
le faceva un certo piacere.
Ma senta: come ha fatto a trovare il mio indirizzo Non le sar stato facile procurarselo,
immagino.
Nel novembre scorso andai dall'avvocato Bottecchiari fece Bruno, guardando altrove. E poich
ella non replicava.
L'avvocato Bottecchiari, soggiunse, un nostro vecchio amico di famiglia. Contavo che sapesse
indirizzarmi; invece non seppe, o non volle, dirmi niente di preciso. Mi consigli tuttavia di
rivolgermi a Rovigatti, Cesare Rovigatti, quel ciabattino, sa?, che ha la bottega a due passi dl qui, in
piazza Santa Maria in Vado. Fortunatamente lo conoscevo benissimo, e
Il nostro Cesarino, s Tanto caro. Per non riesco a capire come mai Avrebbe pur potuto
parlarmi di lei! Lo vede? Per una ragione o per l'altra, non c' nessuno che non si creda in dovere di
assumere nei miei riguardi le pi strambe iniziative. E viceversa non comprendono che con questo
sistema, creandomi a poco a poco il deserto attorno, come se mi togliessero l'aria per respirare.
Meglio la galera, allora!
C'era stanchezza, disgusto, disperazione, nel tono di voce con cui aveva pronunciato le ultime
parole. Bruno la guard in viso. Ma i suoi occhi intensamente azzurri, fermi e asciutti sotto le grige
sopracciglia aggrottate, erano pieni dl speranza. Come se di tutto e di tutti ella dubitasse, eccetto che
di lui.
D'un tratto la porta fu aperta. Qualcuno si affacci: era la signora Codec.
C' qualcuno?, aveva chiesto la nota voce odiosa, prima ancora che la testa color pepe e sale si
sporgesse a curiosare.
Lo sguardo diffidente della signora Codec si scontr con quello di Bruno.
Ah, disse poi, fredda. Non sapevo che avessi visite.
Oh, un amico! Il signor Lattes, si affrett a spiegare Clelia Trotti, agitata, Bruno Lattes!
Piacere tanto, fece la signora Codec, senza avanzare di un passo. Finalmente l'ha trovata, eh?,
soggiunse con un sorriso acido, rivolta a Bruno ma senza guardarlo.
Si trasse un poco in disparte, e allora, dal buio del corridoio venne fuori con l'aria spaventata un
bambinello di otto o nove anni. Indossava un grembiulino nero, attraversato sul petto da tra righe
orizzontali bianche.

Vieni pure avanti, lo incoraggi la signora Codec.


E poi, alla sorella:
Non ti preoccupare. Il signor Lattes lo accompagno io.
Quando stettero di nuovo come sempre erano stati, lei bloccando con la massiccia persona
l'ingresso, e Bruno, dai sassi della strada, a guardarla di sotto in su:
Non so se mia sorella si ricordata di parlargliene cominci la Codec, ma dopo domani al pi
tardi deve assentarsi veramente. Un viaggio, s, e credo piuttosto lungo.
Quanto durer? Mah, qualche settimana forse qualche mese Insomma per il momento inutile,
dia retta a me, che Lei torni a farle visita. Per il momento proprio inutile.
Faccia il favore, signor Lattes, sia bravo! Lo dico anche per il Suo bene
Parlava, e l'espressione del suo viso si faceva sempre meno dura, la sua voce sempre pi incerta.
Sottoline le ultime parole con uno sguardo accorato supplichevole infine, mentre si ritirava e
chiudeva lentamente la porta in faccia a Bruno, aggiunse in un bisbiglio: Siamo sorvegliati, non lo
sa?
Quella notte stessa, rincasando tardissimo come sempre, e senza nemmeno aver telefonato, verso le
otto, che non l'aspettassero a cena, Bruno fu sorpreso per istrada dalla neve. (La sera l'aveva passata
dapprima in un cinematografo, e poi, seduto a fianco del bigliardo nella veste di occasionale,
volontario marcatore di punti, in un bar di fuori Porta Reno).
In principio fu una specie di minuto polverio, mulinante leggero attorno ai lampioni. Ma in via
Madama, mentre cercava di infilare la chiave nella serratura del portone, la neve era gi diventata
fitta e pesante. La sent, chinandosi, bagnargli il volto. Intanto, pur continuando ad armeggiare con
la chiave (causa l'oscurit, tutte le volte impiegava molto tempo ad aprire), tendeva l'orecchio per
contare le ore che in quel momento avevano cominciato a battere all'orologio del Castello. Una,
due, tre, quattro. Le quattro.
Ma non per questo, pensava, suo padre doveva essersi deciso a spegnere la luce e a dormire. Come
al solito, la luce l'avrebbe spenta non prima di averlo sentito passare a tentoni e in punta di piedi
davanti alla porta della camera da letto, non prima di avergli fatto capire, tossendo e borbottando,
che era stato sveglio e in ansia per lui fino a quell'ora. Le labbra gli si piegarono in una smorfia di
insofferenza. Meglio cos Quella notte non aveva davvero voglia di rifare la vecchia, stupida
commedia del buio e dei passi in punta di piedi. Se suo padre non dormiva, sarebbe entrato
senz'altro in camera sua. Sapeva gi di che cosa gli avrebbe parlato.
Senonch, appena fu nell'atrio in fondo al quale, attraverso la cancellata, si intravedevano le nere
piante del giardino, prima ancora di accendere il lume delle scale si accorse di un poco di luce che
filtrava dalla porta della stanza a pianterreno dove aveva sistemato il suo studio. Si accost. Piano
piano aperse l'uscio. Suo padre era l, seduto nella poltrona di velluto verde a lato del tavolo, che
dormiva con la testa reclinata sulla spalla e avvolto in un plaid. Dalle sue ginocchia, un giornale
aperto era mezzo scivolato sul pavimento.
Penetr nello studio senza far rumore, addossandosi alla parete di fianco alla porta.
Non aveva mai fatto cos tardi, vero-si diceva. Forse per questo, non risolvendosi a spegnere la
luce, n riuscendo, d'altra parte, ad aspettare pi oltre disteso, forse per questo suo padre aveva
deciso a un certo punto di alzarsi dal letto e di scendere cos, in camicia da notte e ciabatte, al piano
inferiore. Chiss: magari gli era venuto anche in mente di approfittare dell'occasione per discutere a
fondo con lui la faccenda del suo trasferimento in Palestina o in America, a proposito della quale,
ogni volta che aveva cercato di intavolarla, si era sempre sentito rispondere con freddezza; e perci,
prevedendo e temendo un litigio, che avrebbe certo svegliato la mamma, provocandone l'atterrito e
lacrimoso intervento dalla camera attigua, aveva pensato che gli convenisse attenderlo gi nello

studio, dove avrebbero potuto parlare e gridare finch volevano, senza paura di disturbare nessuno.
Si mosse in punta di piedi, sogghignando. E stava gi per toccare la mano sinistra del dormiente che
si era abbandonata come morta sul giornale spiegato (la destra, a cui la fronte si appoggiava, si era
disposta d'istinto in modo da difendere le palpebre socchiuse dalla luce della lampada da tavolo),
quando qualcosa, una sensazione improvvisa, quasi una fitta di dolore fisico, gli interruppe il gesto
a mezzo. Rimase dunque cos, con la mano tesa che quasi toccava quella cerea del padre, guardando
intensamente la tempia magra di lui, una tempia fragile, pi cartilagine che osso, di uomo deluso, di
uomo fallito (dal settembre del '38 era passato poco pi di un anno: ma era bastato per fare
dell'avvocato Lattes un vecchio ebreo del ghetto!), e quei capelli bianchi, bianchi e leggeri come
piuma, che avevano la stessa leggerezza e bianchezza di altri capelli - i capelli di Clelia Trotti.
Quanto tempo ancora sarebbe vissuto suo padre? Quanto tempo ancora sarebbe vissuta Clelia
Trotti? Sarebbero riusciti a vedere, prima di morire, la fine della tragedia che stava sconvolgendo il
- mondo?
Bench finiti, bench prossimi alla morte, n l'uno n l'altra smettevano ancora di sognare, ciascuno
a suo modo, la libert. Dal suo carcere di via Fondo Banchetto Clelia Trotti sognava la rinascita del
socialismo merc l'immissione nelle stanche vene del Partito del sangue dei giovani come Bruno
(glielo aveva letto negli occhi: ed era quanto lui stesso si era proposto di offrirle, in fondo!).
L'avvocato Lattes, dal ghetto di via Madama dove, con dolorosa volutt, deliberatamente si era
rinchiuso (l'avevano espulso perfino dal Circolo dei Commercianti: e adesso stava sempre in casa,
consumando il tempo a leggere i giornali e ad ascoltare radio Londra), l'avvocato Lattes non
cessava un momento, pur lasciandosi andare come faceva, di fantasticare sulla brillante carriera
che, bastava solo che volesse, attendeva sicuramente il figliolo in America o in Erez. E lui,
Bruno, che cosa avrebbe fatto? Sarebbe rimasto? Sarebbe partito? Suo padre si illudeva sul valore
effettivo della discriminazione: il passaporto, anche richiedendolo, non sarebbe stato possibile
ottenerlo. Quanto alla guerra, oh, essa era appena cominciata, sarebbe durata chiss quanti anni, n
si poteva in alcun modo prevedere come sarebbe finita. No, L'alternativa fra restare e partire non
sussisteva. Non c'era che una via sola: quella che portava tutti, nessuno escluso, incontro a un futuro
inevitabile. E allora, se la tagliola era ormai scattata e ogni evasione impossibile, allora tanto valeva
tirare avanti per la strada gi imboccata, partecipando volonterosamente, non fosse altro che per
piet e umilt, ai sogni solitari, ai disperati passatempi, ai tristi, miserabili sogni da carcerati dei
propri compagni di viaggio.
Sempre in punta di piedi and alla finestra, scostando appena i battenti. La neve continuava a
cadere. Fra qualche ora sarebbe stata alta, avrebbe steso su tutta la citt, prigione e ghetto comune,
il suo silenzio opprimente.
Perfino la signora Codec andava accontentata, oramai.
Aveva chiesto che la sua casa non diventasse un covo di cospiratori; e da ultimo si era scoperta,
aveva gettato sul tavolo tutte le sue povere carte di carceriera zelante, senza dubbio, ma non perfida,
soltanto impaurita.
Con ogni probabilit, qualunque cosa ella dicesse o pensasse, L'OVRA si era praticamente
dimenticata della casa di via Fondo Banchetto 36. Da molto tempo nessun individuo dalla
carnagione olivastra, i baffetti da meridionale e il feltro calcato sugli occhi anche d'estate, si
presentava pi, sull'imbrunire, per verificare se l'ammonita Trotti Clelia si trovava in casa come
prescritto. Eppure, meglio non contrariarla, la signora Codec - si diceva Bruno. Meglio tenersi
passivamente al ruolo di sorvegliante severa e incorruttibile che ella medesima si era assunto. Tener
d'occhio una donna come la sorella sovversiva, la quale, dopo il confino, aveva avuto la bellezza di
dieci anni supplementari di ammonizione, con l'obbligo di rincasare al tramonto e di presentarsi in
Questura una volta alla settimana per la firma dello speciale registro degli ammoniti; precipitarsi a
ogni scampanellata, senza mai dimenticare di mettere bene in mostra, in cima al grembiule nero di
maestra in piena attivit di funzione, il distintivo fascista: anche la signora Codec aveva pur diritto
al piccolo margine d'illusione, di gioco, necessario a ognuno per vivere!

E Clelia Trotti? Forse anche lei, in cuor suo, non desiderava ricever visite. Uscire di casa con aria
furtiva, sbirciare di traverso le persiane del piano superiore, svoltare subito per via Coperta: se
qualcosa le faceva ancora piacere, dovevano essere le rare sue evasioni da casa Codec. Bastava
dunque aspettare e adesso era molto pi facile, ahim!
Presto o tardi, sarebbe stata lei a farsi viva.
Una mattina di circa due mesi dopo, mentre stava facendo lezione in un'aula della scuola israelitica
di via Vignatagliata, ad un tratto Bruno vide la testa della bidella che spuntava cautamente dalla
porta.
Permesso?
Che cosa c'?
C' di l una signora che La vuole.
La bidella venne avanti verso la cattedra, strascicando le ciabatte sul pavimento di mattoni e
destando fra i banchi la solita ilarit.
Cosa debbo dirle?, domandava intanto, preoccupata.
Era una donna di et indefinibile, bassa, rotonda, dai capelli corvini che scendevano in bande unte e
lustre a incorniciare un assonnato viso da pecora: L'ospite meno anziana dell'ospizio dei vecchi di
via Vittoria, esumata apposta dall'ing. Come quando, nell'ottobre del '38, era stato necessario
sistemare nei locali dell'asilo infantile i ragazzi espulsi dalle scuole medie statali.
Dica che aspetti la campana, rispose Bruno, cos seccamente che la piccola scolaresca subito
ammutol Quante volte debbo ripetere che durante le lezioni non voglio essere disturbato?
Era Clelia Trotti, non poteva essere che lei. Pur continuando a spiegare e a interrogare, Bruno la
vedeva con l'immaginazione attendere nell'atrio l accanto. Leggeva le grandi lapidi, piene di nomi
di oblatori benemeriti, murate nelle pareti fra le porte biondicce delle aule; osservava i busti di
gesso verniciato di Vittorio Emanuele secondo, Umberto primo e Vittorio Emanuele terzo, disposti
dentro nicchie del muro attorno al Bollettino della Vittoria; ogni tanto andava ad affacciarsi
pazientemente agli opposti finestroni, spalancati ad accogliere l'allegro rumore del ghetto, da una
parte, e dall'altra il cinguettio dei passeri che gremivano al sole primaverile gli stenti alberetti del
giardino sottostante Finalmente la campana squill. I ragazzi si riversarono dalle aule nell'atrio,
buttandosi quindi a precipizio gi per lo scalone centrale. E tuttavia, uscito che fu a sua volta
nell'atrio tornato deserto, sul momento Bruno rimase sconcertato a vedere la piccola donna in
cappello e tailleur grigi, che sostava in piedi, di spalle, intenta laggi in fondo a leggere il proclama
di Diaz. Bisogn che ella, sentendolo avvicinarsi, si volgesse indietro di scatto, e gli sorridesse con
quel suo sorriso buono, come tra le lacrime, con quei suoi occhi azzurri dove era sempre la stessa
espressione ironica, triste e generosa della prima volta, quando lui le aveva detto come si chiamava.
Soltanto allora egli la riconobbe.
Erano molti anni che non mi capitava di rileggere il comunicato del 4 novembre 1918, disse
Clelia Trotti ancor prima di dargli la mano, e accennando col mento alla parete. Si vede che
dovevo proprio venire qui!
Si affacciarono insieme al finestrone che dava sul giardino, appoggiando i gomiti alla ringhiera di
ferro.
Che bella stagione, non vero?, ella disse, guardando verso la rossa distesa di tetti che si apriva
davanti a loro, di l dal muro di cinta del giardino.
Bellissima rispose Bruno. La osservava. Si era assettata con cura, questa volta, lo vedeva dalla
cipria che si era data fin sul collo; aveva voluto farsi bella per lui!
Ci si sente proprio rivivere, ella riprese, socchiudendo gli occhi al riverbero. E poi, dopo una
pausa, ma sempre con una specie di gioia, di ilarit interiore: Come avevamo ragione, noialtri

socialisti, sebbene, a dire la verit, non pochi anche allora la pensassimo diversamente, di sentire
nelle campane che salutavano la vittoria italiana del '18 le nostre campane a morto! Le valli che
avevano disceso con orgogliosa sicurezza". Che tono, eh? C' gi dentro il fascismo, la burbanzosa
retorica di questi ultimi venti anni.
Ad un tratto, muovendo da chiss quale ristagno di amarezza, sorse violento in Bruno il desiderio di
ferirla, di farle del male.
Perch vuole illudersi?, proruppe con sarcasmo.
Perch continua a ingannare se stessa? A Ferrara, come Lei sa bene, noi ebrei eravamo tutti, o
quasi, nient'altro che dei borghesi (dico eravamo, perch adesso, e forse meglio che sia cos, non
apparteniamo pi a nessuna classe, e facciamo come nel Medio Evo, discriminati e non
discriminati, classe a parte). Eravamo quasi tutti proprietari di terre grossi, medi e piccini; e dunque,
Lei m'insegna, quasi tutti fascisti. Lei non pu immaginare quanti siano rimasti, fra noi, gli ardenti
patrioti!
Vuol dire i nazionalisti?, corresse gentilmente Clelia Trotti.
Li chiami pure come vuole. Mio padre, per esempio, and volontario a combattere sul Carso. Nel
'19, tornando dal fronte, si imbatt per istrada in un gruppo di operai, che lo copersero di sputi
perch in divisa di ufficiale. Per questo motivo, soltanto per questo, ader al fascismo. Ora
naturalmente fascista non lo pi per quanto, in fondo, sia per merito suo se risultiamo
discriminati Anche lui non pensa pi che alla patria palestinese, adesso. Eppure non giurerei
ma da questo momento, fissato con mite rimprovero dalla vecchia socialista, Bruno si sent ingiusto,
vile non giurerei che la prosa del generale Diaz abbia cessato di far colpo sulla sua fantasia e su
quella della maggior parte dei come debbo chiamarli? dei miei correligionari.
Quanto Lei dice a me sembra assai naturale, profer calma Clelia Trotti, si spiega benissimo.
Non pareva affatto delusa ma, se mai, di nuovo rattristata.
La guerra, riprese poi, sospirando, fu una gran rovina, si sa. Quanti errori abbiamo commesso
anche noi!
Ma Lei, comunque, mi sembra troppo pessimista. Va bene, in generale forse Lei ha ragione. Per,
perch non tiene conto anche di se stesso? Lei diverso, non come gli altri, e il suo esempio
sufficiente per dimostrare che ogni regola ha le sue eccezioni, se Dio vuole. E poi Lei giovane, ha
l'intera vita davanti a s; e per i giovani come Lei, cresciuti sotto il fascismo, c' tanto da fare, mi
creda!
A sentirla adoperare le medesime frasi di suo padre, Bruno rialz il capo. Parlando, ella si era di
nuovo voltata a guardar fuori dalla finestra. Il futuro che vedeva era laggi, dove le ultime case di
Ferrara, di un tetro color ruggine, cedevano, in direzione del mare, al verde-azzurro della campagna
sterminata.
La guerra scoppi di l a pochi mesi, e: Finalmente!, esclam gioiosa e trafelata Clelia Trotti, la
sera stessa del 10 giugno, entrando in fretta nello studio di via Madama.
Finalmente!, ripet, mentre si lasciava cadere nella poltrona di velluto verde.
Abbandon la testa contro la spalliera e chiuse gli occhi.
Non era la prima volta che, approfittando dell'oscuramento e sfidando ogni divieto, veniva a trovare
Bruno a casa sua.
Ma l'eccitazione, la specie di febbre che le avevano dato fin da principio queste visite clandestine,
non accennavano ancora a diminuire.
Quando il respiro le si fu un po' calmato, disse subito che il fascismo. con quel gesto pazzesco di
uscire dalla cobelligeranza, non aveva fatto altro che decretare la propria rovina Ne era certa,

afferm: e cominci immediatamente a spiegare, con foga e calore straordinari, perch fosse cos
sicura del suo pronostico.
Bruno la fissava in silenzio. La sua buona fede era perfetta si diceva - di lei non si aveva il diritto di
dubitare.
Eppure, perch non vederlo? Non c'era nei suoi occhi soprattutto la certezza che lui, adesso che era
diventato davvero impossibile uscire dall'Italia, ormai non si sarebbe potuto pi sottrarre al compito
che lei gli aveva assegnato in cuor suo, n, insomma, sfuggirle di mano come fino a ieri aveva
temuto? C'era questo, s. Anche se poi, da certa espressione tenera e scettica che gi assumeva la
sua bocca (non era cos stupida via!, da pensare nemmeno per ischerzo a cose del genere: lei, che
poteva esser sua madre!), gli fosse ben chiaro che ella per prima si vietava qualsiasi confronto, e sia
pure per contrasto, fra il ragazzo che le sta va davanti e Mauro Bottecchiari, il compagno della sua
giovent, al quale l'entrata in guerra dell'Italia aveva suggerito il pretesto politico, nel lontano 1915,
per liberarsi di lei.
In un primo tempo i convegni nello studio a pianterreno si rinnovarono con una certa frequenza.
Tutto era per gioco, naturalmente, il tipico gioco intriso di amarezza e di assenza delle prigioni:
rientrando in esso, e Bruno un po' se ne compiaceva, anche quell'aria di sotterfugio, di sotterfugio
erotico, quasi, che assumevano per forza i loro incontri. Sapendo in precedenza che la Trotti doveva
venire, subito dopo cena Bruno scendeva nello studio; e lo sguardo col quale, seduto a capotavola,
suo padre lo seguiva fino alla porta della camera da pranzo, era quello, tra allarmato e incuriosito,
che sempre gli rivolgeva ogni volta che lo sospettava protagonista di un intrigo sentimentale o,
comunque, lo vedesse assorbito da qualcosa di cui non poteva rendersi ben conto. Talora Clelia
Trotti tardava.
Non c'era da fare altro, aspettandola, che sforzarsi di leggere un libro, di preparare qualche lezione.
Impossibile, a causa dell'oscuramento, tenere spalancata la grande finestra attraverso la quale, le
estati precedenti, lo scirocco portava i suoni e i profumi della campagna non lontana.
Allora erano odori d'acque stagnanti, di strade e di erbe impolverate. Erano latrati remoti, brandelli
di musiche. Ovvero, scoppiando improvvise come sotto le volte di una grotta, erano risate di
ragazze, voci basse e sussurrate di uomini, miste a passi pesanti di soldati che uscivano da una
caserma delle vicinanze, o vi rientravano richiamati dal suono della ritirata Adesso, invece, nella
stanza dal pavimento e dalle pareti rivestiti di legno, dove il calore, al chiuso, si faceva presto
intollerabile, non si udiva che il replicato, ossessivo battere e ribattere di qualche falena contro la
lampadina del lume da tavolo.
Ma ecco contro le imposte, da fuori, un leggero, complice urto di dita.
Entrata, subito ella andava a sedersi nella poltrona di velluto verde, di modo che Bruno, cosa che
sempre lo imbarazzava, per parlarle o starla a sentire era obbligato a riprendere il proprio posto
davanti al tavolo ingombro di carte. Ma certe volte, senza nemmeno levarsi i guanti di filo grigio (il
cappellino, nonostante il caldo che le faceva grondare la fronte di sudore, quello non se lo tolse
mai!), certe volte indugiava in piedi, col naso incollato ai vetri di uno dei quattro scaffali che erano
disposti in simmetria lungo i lati minori dello studio. C'era una specie di puntiglio di umilt, da
parte sua, a non toccare nessun volume. Si limitava a scrutare i titoli dei libri attraverso le lastre,
aiutandosi con un appannato occhialetto che soltanto in rare occasioni tirava fuori dalla sua grossa
borsa di pelle nera, da maestra.
Ma perch non se ne porta a casa qualcuno!, la incoraggiava Bruno. Glieli presto volentieri.
Con tutte le lezioni che ho, non avrei tempo di leggerli, rispondeva.
La mia cultura, se cultura si pu chiamare, talmente antiquata, si confid una sera, che per
aggiornarla dovrei fare uno sforzo eccessivo, superiore alle mie possibilit. E poi, a quale scopo?
Ho sempre desiderato leggere almeno un libro di Benedetto Croce, per esempio: non so, magari
qualcuno dei suoi lavori meno astrusi, quelli storici. Di anno in anno rimandavo. Un po', forse,

pensando a mia sorella Giovanna, che se le facevo trovare in casa dei libri di quel genere,
immaginarsi la paura che avrebbe preso, poveretta; e un po' anche, chiss, per un residuo di
diffidenza socialista. Cos, di anno in anno sono passati i decenni, e adesso eccoci qua, che non
ne vale pi la pena. Da ragazza ero molto appassionata di filosofia.
Allora andavano i Comte, gli Spencer, gli Ardig, gli Haeckel, quello del sionismo.
Sorrise, compatendosi: e poi, con un'ombra di timidezza negli occhi:
Lei invece conosce molto bene le opere del Croce, eh?
Era un'allusione, non pi che un'allusione, a quello che lei ben sapeva, e che Bruno stesso, del resto,
pentendosene subito dopo, non si era potuto trattenere di dichiararle una volta: cio che lui non era
socialista, e che con ogni probabilit non lo sarebbe stato mai.
Ma pi forte di ogni dolore, comunque, pi forte di ogni rimpianto per non essere all'altezza di
insegnargli nulla, la consolava certo la persuasione che proprio questo era giusto e opportuno: che
egli non fosse socialista, appunto, bens qualcosa di diverso, di nuovo. Il futuro, gli anni che a guisa
di oscura nube attendevano l'Italia e il mondo di l dalla guerra ancora agli inizi anni a cui si
sarebbe approdati dopo aver pagato chiss quale scotto di sangue e di lacrime -: codesto futuro, ella
era solita dire, non avrebbe saputo Cosa farsene di loro, socialisti della vecchia scuola. Siamo dei
vecchioni, noialtri, dei poveri ferrivecchi, insisteva: ed era come se intanto affermasse che domani,
invece di loro, ci sarebbe stato bisogno di giovani come lui, Bruno, che fossero socialisti senza
esserlo. Non gi, con questo, che lei ripudiasse L'Idea. Lei era socialista, e tale intendeva morire
afferm esplicitamente una sera. Ma non perci era meno convinta che fosse necessario pensare fin
da ora a qualcosa di inedito, di originale, che non rientrasse assolutamente nei soliti schemi.
Soltanto cos sarebbe stato possibile, dopo, dar del filo da torcere ai comunisti, i quali, sebbene
fossero dei giganti (era indubbiamente sincera, in questa sua ammirazione: n l'alleanza che
l'Unione Sovietica aveva stretto dal '39 con la Germania hitleriana pareva minimamente turbarla:
ma il fatto che Alfio Mori, dimesso anche egli dalle Trmiti nel '33, da qualche anno si stesse
adoperando per sottrarle quel po' di base operaia e contadina che le era rimasta fedele, questo fatto
pensava Bruno non poteva non riempirle il cuore di amarezza, forse di segreto rancore):
nonostante ci anche loro, sicuro, soprattutto nei metodi, appartenevano ormai al passato.
Verso la fine di settembre, improvvisamente l'OVRA si dest.
Un giorno, sull'imbrunire, un agente in borghese della Squadra politica venne a domandare se la
signora Trotti si trovava nella sua abitazione. Senza fiato, la Codec rispose che s, certo, sua
sorella era in casa. Qualcosa tuttavia, forse l'agitazione della donna, mise in sospetto la guardia. La
quale non volle andarsene prima di essersi sincerata coi suoi occhi, e sia pure con mille scuse, che
ogni cosa fosse in regola. Non ci si poteva pi fidare. Per timore che l'imprevisto risveglio della
polizia preannunciasse un inasprimento del regime di controllo degli ammoniti, Clelia Trotti decise
di rinunciare per qualche tempo alle sue scappate notturne. Con Bruno, se necessario, si sarebbero
visti di giorno: evitando naturalmente di valersi, anche questo per ovvia misura di prudenza, dello
studio di via Madama.
Di tanto in tanto, dunque, sebbene non con la stessa frequenza di prima, e servendosi, per
combinare gli appuntamenti, del tramite di Rovigatti, il quale, geloso della Trotti, a ci si prestava
ma non volentieri, cominciarono a incontrasi in piazza della Certosa. Dal suo punto di vista
Rovigatti non aveva torto. Che cosa avevano da dirsi o da fare, insieme, di tanto importante, di tanto
urgente, che mettesse conto di rischiare come rischiavano? Per parlare di Radio Londra e del
colonnello Stevens? Ma la maestra, quando Bruno le riferiva i commenti del ciabattino, cercando
anche, blandamente, di dargli ragione, alzava le spalle infastidita. Che noioso, diceva.
Povero Cesarino, rise una volta: e non era mai stata cos giovane. Fa cos perch mi vuol bene.
Lo sa quanto che ci conosciamo?
Da prima di quell'altra guerra, immagino.

Oh, da molto prima! Fino dalle elementari. Stavamo li casa tutti e due in vicolo del Gregorio.
Perci Bottecchiari, L'avvocato Bottecchiari, L'ha conosciuto parecchio dopo.
Molto dopo, rispose asciutta. E lo guardava, pi che mai giovane, e non senza ironia.
Nei luminosi, tardi pomeriggi di settembre il vasto prato prospiciente alla chiesa di San Cristoforo
era gremito come al solito, come sempre nella bella stagione, di bambini, di balie, di coppie di
fidanzati. Qualunque cosa Rovigatti dicesse, in tutta la citt non c'era luogo migliore di quello dove
due persone potessero farsi vedere in compagnia senza destare sospetti eccessivi e fossero pure
stati un giovanotto e una vecchia signora, i quali non si trovavano certo l per filare assieme.
Parlavano seduti vicini: sugli scalini del sagrato, per lo pi; o talora anche sull'erba, nel margine
d'ombra che, col calare del sole, veniva crescendo lentamente presso l'estremit meridionale del
porticato, dalla parte di via Borso.
Bello, non le pare?, diceva Clelia Trotti, gli occhi rivolti alla piazza. Non sembra nemmeno di
essere al cimitero.
Io, vede, disse una volta, non ho mai capito perch i morti debbano essere tenuti segregati dai
vivi come usa da noi, che per visitarli, a momenti, ci vuole il permesso come nelle prigioni.
Napoleone fu un grand'uomo, senza dubbio, perch impose all'Europa, ed anche all'Italia attraverso
la nostra Cisalpina, le conquiste della Rivoluzione. Quanto al suo famoso editto sui cimiteri, per,
resto della stessa opinione dell'autore dei Sepolcri. A me piacerebbe essere sepolta qui, per esempio,
in questo bel prato, con tutto attorno questo continuo rumore di vita. A costo, e rise, a costo di
venire scomunicata. Ma vero, aggiunse subito, che a parte qualche anno di galera, qualche altro
di confino, e adesso di libert vigilata, io non ho mai fatto niente di abbastanza importante per
meritarmi una tomba fra gli illustri, sia pure eretici, della nostra citt. Non ho preso neppure le
botte, si figuri. Con me i fascisti furono pi delicati. Si limitarono, nel '22, mentre uscivo dalla
scuola elementare Umberto I, in via Bersaglieri del Po, a farmi bere una mezza oncia di olio di
ricino e a coprirmi di nero-fumo. E se non era per i bambini, che stavano l a guardare, e molti
piangevano di paura, non mi sarebbe dispiaciuto neanche tanto. Non c'era mica bisogno di venire in
venti, coi randelli, i pugnali e le teste di morto sui berretti, per aver ragione di una donna sola. Bella
forza! Mentre ingoiavo il mio bravo olio, sapevo gi che le camicie nere si sarebbero tirate addosso
la disapprovazione generale.
Il tema preferito dei suoi discorsi era, ad ogni modo, il suo passato di detenuta e confinata politica.
Il carcere una vera scuola, disse una sera, accendendo una Macedonia dal mozzicone della
precedente un vizio, questo, che le si era attaccato appunto in carcere se per non dura
troppo e se non spezza o infiacchisce la fibra. Per parte mia, sono grata al destino di non avermene
risparmiata la prova. La solitudine, il raccoglimento, il non aver presente che la compagnia di noi
stessi, sono cose benefiche; e conoscere se stessi, lottare con le proprie tendenze, combatterle spesse
volte, ed uscirne qualche volta vincitori, non pu succedere che fra le quattro mura di una cella.
Quando io uscii dal carcere, nel '30, lasciai il mio numero 36 (vede la coincidenza? Io stesso
numero della casa di mia sorella!), con vera malinconia, come se ci abbandonassi una parte di me
stessa. Ogni angolo, ogni parete, ogni piccola cosa portavano la traccia del dolore, l dentro. La
verit che i luoghi dove si ha pianto, dove si ha sofferto, e dove si trovarono molte risorse interne
per sperare e resistere, sono proprio quelli a cui ci si affeziona di pi Guardi Lei, per esempio.
Poteva andarsene via come tanti suoi correligionari, e ne aveva ogni diritto, dopo quello che ha
dovuto subire. Ma la sua scelta stata un'altra. Ha preferito restare qui, a lottare e a soffrire. E
adesso questa terra, questa vecchia citt dove nato, dove cresciuto e si fatto un uomo, sono
diventate doppiamente sue. Lei non le abbandoner mai pi, io lo so!
Era sempre cos. Anche quando cominciava a parlare di s, della propria vita (dell'on. Bottecchiari,
di sua iniziativa non parl mai: limitandosi, a questo proposito, a rispondere alle domande di Bruno
con certa sua altera e paziente dolcezza), finiva inevitabilmente col tornare su Bruno e su quella che
riteneva dovesse essere la sua attivit nell'immediato avvenire.

Per lui, diceva, ella progettava da tempo fruttuosi contatti con i principali esponenti
dell'antifascismo cittadino, e anzi, proprio per questo, aveva gi dato incarico a Rovigatti di
preannunciare in giro le sue prossime visite. Egli doveva conoscere in primo luogo i socialisti. Il
notaio Licci, un ex massimalista piuttosto amareggiato e scorbutico, meglio lasciarlo cuocere ancora
un poco nel suo brodo, in attesa che fosse lui a scuotersi l'accidia di dosso e a ricercare
spontaneamente le antiche amicizie. Era urgente, invece, che andasse a trovare gli avvocati
Baruffaldi, Polenghi e Tamagnini, tutti e tre riformisti, tutti e tre smaniosi di fare. E che tornasse
dall'avvocato Bottecchiari: non tanto per parlare con l'onorevole, cosa abbastanza superflua, quanto
per vedere di agganciare suo nipote Nino, il quale era entrato recentemente nello studio dello zio
come praticante. Si trattava di un giovane all'incirca della sua et, un ragazzo senza dubbio assai
sveglio e capace, che aveva saputo imporsi anche nel G.U.F., dove fino a due anni prima aveva
ricoperto una carica di una certa importanza.
E bisognava avvicinarlo al pi presto, era chiaro: pena, altrimenti, di trovarlo un giorno o L'altro
affascinato da qualche nuova sirena totalitaria. Ma poi, oltre ai socialisti, era necessario che
conoscesse i repubblicani storici: come il dentista Canella, il sarto Squarcia, il farmacista
Riccoboni. Anche costoro, negli ultimi tempi, avevano dato segni non equivoci di volersi muovere,
e di essere pronti a dimenticare, in nome dei comuni obiettivi di lotta, gli eterni rancori e pregiudizi
antisocialisti. Quanto ai cattolici, il loro ambiente, simile in questo a quello comunista, era un
mondo un po' a s, non era facile entrar ci. Tuttavia l'avvocato Galassi-Tarabini, almeno lui, era un
carattere abbastanza aperto. Gi intimo sia del conte Grsoli che di Don Sturzo, avversato dai
clerico-fascisti degli anni in cui Pio Xl esaltava Mussolini al punto di chiamarlo l'Uomo della
Provvidenza, era certo una brava persona, che bisognava assolutamente non trascurare. E altrettanto
si doveva dire dell'ing. Sears, un liberale molto a destra, ma gran galantuomo; e del dottor Herzen,
acceso sionista, vero, ma forse recuperabile per l'Italia, specie se abbordato da un israelita.
Rimaneva infine Alfio Mori, il compagno di galera di Gramsci, L'uomo di cui si sussurrava che il
compagno Ercoli, tutte le volte che rientrava segretamente in Italia dall'Unione Sovietica, ascoltasse
pi volentieri il consiglio. Mori era il pi importante di tutti, e come tale anche il pi sorvegliato.
Doveva sempre agire con precauzioni infinite. Per esempio: si fissava un appuntamento, e lui
mancava. Se ne fissava un secondo, e lui mancava ancora. Soltanto al quinto, al sesto appuntamento
successivo Mori si decideva finalmente a farsi vedere.
Se Bruno aveva pazienza, ad ogni modo, chiss che non fosse possibile combinare un colloquio
anche con lui
Ella parlava, parlava. Le ombre delle steli e dei cippi funerari si allungavano lentamente nell'erba, il
prato a poco a poco si spopolava, qualche coppia di innamorati prendeva la via dei bastioni.
Una sera che stava sdraiato come al solito ai piedi di Clelia Trotti, ascoltando senza troppa
attenzione ci che essa diceva e lasciando vagare oziosamente lo sguardo nella piazza, a un certo
punto Bruno not un ragazzo biondo, alto, snello, che sostava in piedi, appoggiato alla canna di una
bicicletta, a una ventina di passi di distanza. Aveva tutta l'aria di aspettare qualcuno (intanto, per
ingannare l'attesa, si era immerso nei fogli rosa della Gazzetta dello Sport). Ed ecco, infatti,
sopraggiungere quasi di corsa una ragazza, bionda anch'essa, anche essa giovanissima. Temeva
evidentemente di essere seguita perch, inoltrandosi nel prato, si voltava ogni tanto indietro.
Comunque, raggiunto che ebbe l'amico, fu la prima a lasciarsi scivolare nell'erba, disponendo subito
con rapidi e graziosi gesti di una mano la gonna di lana bianca pieghettata attorno alle gambe,
mentre con l'altra costringeva affettuosamente il ragazzo, rimasto in piedi, a sederlesi a fianco.
Ora i due sedevano vicini nell'erba, di spalle, accanto alla bicicletta. Le loro giovani teste si erano
avvicinate fino a toccarsi. Sembrava che non dicessero una parola, penetrati dalla dolcezza dell'aria,
paghi di quel semplice sfiorarsi dei loro corpi. Chi sono? Come si chiamano?, si chiedeva intanto
Bruno, ansiosamente, mentre la voce di Clelia Trotti, al suo orecchio, suonava distante, un ronzio
incomprensibile. Gli pareva di conoscerli: sia il ragazzo, sia la ragazza; bench i nomi, per quanti
sforzi facesse, non gli riuscisse di ricordarli. Di una cosa era certo, per: che erano studenti, forse di

liceo, e che appartenevano ambedue alla migliore borghesia cittadina.


Passarono una decina di minuti.
Ad un tratto Bruno vide il ragazzo muoversi. Si alz di nuovo in piedi; raccatt con calma la
bicicletta, quindi tese una mano all'amica. Mentre si faceva tirar su quasi di peso essa rideva, con
pigra civetteria, rovesciando indietro il collo.
Cominciarono ad allontanarsi, traversando obliquamente il prato in direzione delle Mura.
Perch non arriviamo anche noi fin lass?, disse allora Bruno, volgendosi sul gomito. Indicava
col braccio teso la Mura degli Angeli ancora piena di sole.
Interrotta a met di una frase, Clelia Trotti guard anch'essa da quella parte.
Ma tardi; ho paura che non faremo a tempo, rispose.
Sa bene che debbo ritirarmi con le galline!
Eh via! Per una volta Vedr un magnifico tramonto.
Bruno si era gi levato. Le allung una mano per aiutarla ad alzarsi, quindi si avviarono.
La giovane coppia procedeva con circa cinquanta metri di vantaggio. Lui era salito in bicicletta, e di
tanto in tanto, per reggersi, allacciava col braccio destro le spalle della compagna. Chi sono, come
si chiamano?, si ripeteva Bruno. Continuava a guardarli socchiudendo gli occhi. Eccoli l i
campioni, i prototipi della razza! - si diceva, con odio e amore disperati. Pi che belli, gli parevano
meravigliosi, irraggiungibili. Il loro sangue era migliore del suo; la loro anima era migliore della
sua! I capelli della ragazza erano stretti da un nastro rosso. E la poca luce residua sembrava a Bruno
che si raccogliesse tutta su quel nastro.
Oh essere con loro, dei loro, nonostante tutto!
Ho fatto bene a darle retta. Dalla cima della Mura potremo gustarci un tramonto veramente
straordinario, disse tranquilla Clelia Trotti.
Bruno si volse. Dunque non aveva visto nulla, ancora una volta non si era accorta di nulla. E adesso,
di nuovo, aveva ripreso a parlare. Come tra s. Come inseguendo un suo sogno. Perduta, sempre,
nel suo solitario, eterno vaneggiamento da reclusa.
Egli rabbrivid
Forse sarebbe venuto il giorno che lei avrebbe capito chi era Bruno Lattes - si disse poi, tornando a
guardare davanti a s, alla Mura degli Angeli ormai vicinissima, alta nella luce della sera. Ma
questo giorno, se pure ci sarebbe mai stato, era certamente molto lontano, ancora.

Una notte del '43.

Che devo dirvi, le visioni sono spaventose, ma anche la vita spaventosa.


Io, mio caro, non capisco la vita e ne ho paura.
CECHOV.

Sul momento si pu anche non accorgersene. Ma basta che uno sieda qualche minuto a un tavolino
all'aperto del Caff della Borsa, in corso Roma, con davanti la rupe a picco, di un rosso quasi
dolomitico, della Torre dell'Orologio, e poco pi a destra la terrazza merlata dell'Aranciera, perch
la cosa salti subito all'occhio. Giorno o notte che sia, difatti, estate o inverno; che piova o no: la
gente, se deve passare per di l, difficile che non preferisca infilarsi sotto il basso portichetto dove
si annidano in penombra i locali contigui del Caff della Borsa e dell'antica farmacia Barilari,
anzich tenersi dalla parte opposta, al marciapiede che segue in linea retta la Fossa del Castello.
Si provi a transitare a certe ore sotto il portico del Caff -verso le tredici, per esempio, o verso le
venti: le ore propizie agli aperitivi, ai modici acquisti di paste per uso familiare.
Farsi strada fra i tavolini stipati sino all'inverosimile in quello spazio cos ridotto, tra la folla seduta
e quella in piedi, salutando, stringendo mani, bonariamente urtando e venendo urtati secondo il
costume inveterato della provincia italiana che la guerra ha interrotto ma non abolito, ogni volta, sul
serio, poco meno che una impresa.
Con ci sono ben rari, ripeto, coloro che per guadagnare tempo si risolvano a girare al largo. Se
qualcuno lo fa, allora vale la pena, volgendo gli sguardi sorpresi e divertiti dal fondo del portico del
Caff, dando magari di gomito al proprio vicino, osservare minutamente come vestito, che faccia
ha, e congetturare, dall'esame particolareggiato del suo aspetto, di dove venga, dove sia diretto, ecc.
ecc. C' il turista con l'indice infilato fra le pagine della rossa guida del Touring e il naso all'aria,
immerso nella contemplazione delle incombenti quattro torri del Castello.
C' il viaggiatore di commercio che, la borsa di pelle sottobraccio e il soprabito svolazzante, corre
via trafelato verso il viale che porta alla stazione. C' il contadino della Bassa, venuto in citt per il
mercato, il quale, in attesa della corriera pomeridiana di Comacchio o di Codigoro, si guarda attorno
senza saper che fare del proprio corpo appesantito oltre misura dal cibo e dal vino ingurgitati sul
mezzogiorno in qualche bettola di San Romano. Insomma, a meno che non si tratti di una coppia di
ragazze dei postriboli di via Colomba, di via Sacca, di via Bomporto, di via delle Volte, mandate
apposta in piazza appunto perch la piazza possa rendersi conto, de visu, del cambio della
quindicina (e sono venute da fuori anche esse, in fondo: ma intanto che occhiate, che sogghigni e,
talvolta, che allegre oscenit, corrono allora fra portico e marciapiede!); o addirittura, ridotta dagli
anni a una specie di mummia imbellettata e contegnosa, col solito cagnetto a guinzaglio che abbaia
isterico contro tutto e tutti contro gli anziani habitus come contro i giovanotti delle ultime leve
a meno che non si tratti, dico, di Maria Ludargnani, la vecchia ruffiana in persona, che fino dal
'47 ha potuto riaprire indisturbata la sua casa d'appuntamenti di via Arianuova, e non ha mai avuto
soggezione, lei, n di Dio n del diavolo; per ogni altro caso non c' da sbagliare: se c' qualcuno
che si avventura lungo la spalletta rossastra della Fossa del Castello una riga che taglia il busto di
un uomo pressapoco all'altezza del cuore-con l'aria di chi non ha nessunissima ragione di supporre
che ci sia, in ci che fa qualcosa di speciale o di irregolare, quel tale certo un estraneo, un
forestiero: uno che non pu sapere, infine.
Il tipo in esame passa, comunque, e la gente, seduta al caff dall'altra parte del corso Roma, guarda

e sogghigna.
Gli occhi si appuntano, i respiri si mozzano. Dall'espressione tesa e concentrata che i volti
assumono, si direbbe che qualcosa di molto serio, di molto importante, debba accadere da un
momento all'altro. Di quali massacri immaginari non sono responsabili la noia e l'ozio della
provincia? come, infatti, se la pietra grigia del marciapiede dall'altro lato del corso una lunga,
stretta, abbacinante lista di marmo pario, quando il sole d'estate vi batte sopra in pieno possa
essere squarciata, d'un tratto, dall'esplosione di una mina di cui il piede del forestiero abbia percosso
inavvertitamente il detonatore. O come, magari, se una rapida sventagliata della stessa mitragliatrice
fascista che sparando proprio di l, da sotto il portico del Caff della Borsa, abbatt lungo il
medesimo marciapiede, in una notte di dicembre del 1943, undici cittadini prelevati in parte dalle
carceri di via Piangipane e in parte dalle loro case, possa far compiere all'incauto passante l'identica
breve, orribile danza fatta di sussulti e contorsioni che certo compirono, prima di cadere gi esanimi
l'uno sull'altro, coloro che la storia ha ormai consacrato quali le prime vittime in ordine di tempo
della guerra civile italiana.
Niente di tutto questo accade mai, s'intende. Nessuna mina scoppier, nessuna mitragliatrice torner
a crivellare di pallottole il muretto opposto. Per modo che la persona di fuori, venuta a Ferrara,
poniamo, per ammirarvi le bellezze artistiche, avr tutto il tempo di calpestare a suo agio il
marciapiede dove, pi di dieci anni fa, giacquero undici cadaveri insanguinati, nonch di passar
davanti alle piccole targhe di marmo con sopra incisi i nomi dei fucilati che nel '43, L'indomani
della Liberazione, il Comune fece murare in tre punti distinti lungo la spalletta della Fossa del
Castello nei punti precisi dove i cadaveri, ammucchiati nella neve come tanti fantocci, furono
trovati la mattina del 15 dicembre 1943 senza che il corso dei suoi pensieri venga minimamente
a essere turbato. E i segni dei proiettili, lievi, s, ma per chiaramente visibili, che nonostante un
recente restauro si vedono ancor oggi butterare qua e l l'antica spalletta contro la quale furono
allineati i condannati a morte? L'epoca dei massacri, di quelli veri, ormai cos lontana, che non c'
da meravigliarsi se un occhio distratto, sfiorando appena questi segni, ne riconosca tanto poco la
natura da attribuirli facilmente all'esclusiva opera del tempo, il quale non risparmia proprio nulla,
ahim, nemmeno i vecchi muri. Saggio e opportuno dunque un restauro, sia detto ci di passata, che
sorvolando sulle minori scalfitture, ha badato a turare soltanto i buchi pi grossi: se vero che il
turista, anima da trattarsi sempre con ogni riguardo, anima essenzialmente romantica, di solito non
manca di esser grato a chi sa suggerirgli le delicate reveries di cui si nutre tanto volentieri.
Eppure talvolta, sebbene molto di rado, qualcosa accade: qualcosa che da sola, assai meglio del
senso di rispetto o di raccapriccio che tiene lontani dai luoghi della morte, basta a spiegare la tenace
riluttanza dei nostri concittadini a servirsi del marciapiede di fronte al portico del Caff.
Non forte, ma tuttavia ben chiara - tale, comunque, da farsi udire distintamente, se non dal tipo che
ignaro sta camminando laggi, lungo la spalletta della Fossa del Castello, almeno dalla gente seduta
al caff - si ode a un certo punto una voce. una voce bianca, incrinata come l'hanno certi ragazzi
alle soglie della pubert, dalla pronuncia leggermente blesa. E poich esce dal gracile petto di Pino
Barilari, il proprietario dell'omonima farmacia, il quale, affacciato a una finestra del soprastante
appartamento, rimane invisibile a coloro che sostano di sotto, riparati dal portico: per questi ultimi,
sul serio, come se scendesse dal cielo. La voce dice: Badi a Lei, giovanotto!; oppure:
Guardi, signore, dove sta mettendo i piedi!; oppure: Attento!; ovvero: Ehi!, semplicemente.
E ripeto, non che queste parole vengano urlate, oh no. Si tratta piuttosto di un avvertimento, di un
consiglio largito col tono di chi non si aspetti di essere ascoltato, n dopo tutto abbia molta voglia di
farsi ascoltare: e parli perci, come conviene, senza troppo gridare. Difatti il risultato questo: che
il turista, o chiunque altro si trovi a calcare in quel momento il marciapiede da tutti evitato, continua
di solito per la sua strada senza dare mai segno di avere inteso quello che gli si dice.
Lo intendono benissimo in vece sua, come ho detto, gli avventori del Caff della Borsa. Lo svagato
turista appena spuntato dalla curva della Salita del Castello, che istantaneamente sotto il portico
del Caff i discorsi si fanno meno vivaci. Gli occhi si appuntano, i respiri si mozzano. Si accorger,

quel tale che passa in questo momento dall'altro lato del corso, di star compiendo qualcosa,
camminando dove cammina, da cui avrebbe fatto molto meglio ad astenersi?
Alzer o non alzer a un certo punto il capo, colui, come se una scarica elettrica gli attraversasse il
corpo, dalla guida del Touring? Ma soprattutto: scender o non scender d'un tratto dall'alto, aerea e
assurda, ironica e triste, la nota voce dell'invisibile Pino Barilari? Forse s; forse no. L'attesa
dell'evento ha veramente qualcosa di spasmodico: n pi n meno che se fossero, quanti sono, a
scommettere su una corsa di cani o di cavalli.
Ehi!
Di scatto, L'immagine del farmacista affacciato a una finestra dell'appartamento superiore. Egli c',
dunque, come sempre: seduto in vedetta con le braccia magre, bianchissime e pelose, levate
all'altezza del viso: puntando le lenti scintillanti di un binocolo da montagna in direzione di chi
passa e non sa. Sorride, intanto, sotto i baffetti sottili, all'americana.
E nella gente che si accalca da basso, all'ombra protettrice del portico, si fa pi vivo ogni volta il
piacere di trovarsi dove si trova, e non laggi allo scoperto, alla berlina.
Non erano molte, in citt, nel '38, quando a partire dall'estate di quell'anno cos determinante per le
sorti dell'Italia e del mondo si era cominciata a notare, al davanzale di una finestra di corso Roma,
l'insistente presenza di un uomo in pigiama, seduto in poltrona con la schiena appoggiata a due
guanciali, le persone che potessero raccontare dl lui e della sua vita, cose che non fossero meno che
generiche.
Non gi, intendiamoci, che non si sapesse tutti chi fosse.
La citt piccola, una specie di grossa famiglia, e in famiglia a ogni cosa si riesce eccetto che a non
saper nulla gli uni degli altri. Egli era l'unico figlio del dottor Francesco Barilari, morto nel '36
lasciandogli in eredit una delle migliori farmacie di Ferrara: era un dato di fatto codesto,
naturalmente di dominio pubblico. Noto perfino al ragazzi della generazione pi recente, sui quali si
era posato tante volte, come a soppesare le qualit e le possibilit dl ognuno (le mattine che
passavano correndo in fretta, diretti a scuola, lungo il portico del Caff, e intanto tiravano le
ultimissime boccate di fumo dalle cicche ridotte al minimo), lo sguardo ironico e penetrante di
Bilancino: - perch era questo, appunto, il soprannome che loro stessi avevano dato all'anziano,
sempre meditabondo e allampanato farmacista. Al cui proposito, tuttavia, a parte che fosse stato un
autorevole trentatr, che avesse avuto in principio qualche simpatia per il fascismo (simpatia subito
rientrata), e che da tempo immemorabile fosse rimasto vedovo c'era ben poco altro da dite.
Anche le informazioni sul giovane Barilari, se pure si pu chiamar giovane un uomo di trentun anni,
non andavano comunque molto pi in l del gi detto. Nel '36, per esempio, quando. il vecchio
massone mor, fu generale la sorpresa a vederlo prendere immediatamente il posto del padre dietro
il banco della farmacia. Chiuso nel candido camice di precetto, serviva i clienti con sicurezza, si
lasciava chiamar dottore senza battere ciglio. Dunque aveva fatto l'universit! - mormorava la gente
meravigliata Ma dove? Quando? Chi erano stati i suoi compagni di studi?
Nuova sorpresa e conseguente meraviglia nell'autunno del '37, in occasione dell'improvviso,
assolutamente imprevedibile matrimonio di lui, trentaduenne, con l'Anna Repetto, una bionda di
diciassette anni figlia di un maresciallo:lei carabinieri oriundo di Chiavari e, da qualche anno, di
stanza a Ferrara con la famiglia.
Si trattava di un tipo sfrenato, che aveva gi fatto girar la testa a pi di un compagno di liceo,
perennemente a zonzo in bicicletta o a ballare nei Circoli Rionali, con dietro, sempre, un codazzo di
coetanei e gli occhi di molti non coetanei fissi a seguirne di lontano le evoluzioni. Una ragazza
troppo in vista e vistosa, troppo importante e in certo senso rappresentativa, perch a vedersela
soffiare sotto il naso da un uomo affatto trascurabile come Pino Barilari non si sentissero defraudati,
traditi un po' tutti.
E cosi, subito dopo le nozze, per qualche tempo a proposito d i Pino c'era stato un gran ritorno di

chiacchiere.
Ma pi assai, a dire il vero, a proposito della sposa giovanissima.
Per lei i concittadini avevano azzardato a suo tempo i pronostici pi straordinari. Un pezzo grosso
di fuori, notandola in costume da bagno sulla spiaggia di Rimini o di Riccione, se ne innamorava di
colpo e la sposava. Un produttore cinematografico se la portava a Roma, e ne faceva una diva di
primo piano Come potevano perdonarle, ora, di aver ceduto alla tentazione di un modesto
matrimonio borghese? L'accusavano di meschinit, di aridit, di provincialismo, perfino di
ingratitudine verso la famiglia. Liguri, taccagni, chiss che delusione avevano provato anche loro,
povera gente! E poi: quando si erano visti, i due, prima di arrivare al matrimonio? Dove si erano
trovati per filare assieme? Se la loro non fosse stata fin dall'inizio quella piccola porcheria
combinata magari per telefono che certo era stata, non sarebbe stato difficile sorprenderli almeno
una volta dalle parti di piazza della Certosa, o lungo i bastioni, o in piazza d'Armi: nei posti,
insomma, dove vanno di solito i fidanzati. Anche stavolta, dunque, quella gattamorta di Pino
Barilari si era condotto con imprevedibile abilit. Rintanato nella farmacia, aveva lasciato che gli
altri, l fuori, si sfogassero ad ammirare l'Anna che passava e ripassava in bicicletta davanti al Caff
della Borsa, i capelli biondi gettati dietro le spalle, le grosse labbra assai tinte, incurante di mostrare
le gambe abbronzate, nude per quanto eran lunghe fino alle cosce.
Pi tardi, al momento opportuno, era stato pronto a tirare la rete. Ma d'altronde: che bisogno ci
sarebbe mai stato, per lui, di andare in giro con una ragazza libera e spregiudicata come l'Anna
Repetto - una ragazza, tra l'altro, che tutta la citt non perdeva mai d'occhio un istante - se di sopra
alla farmacia, dopo che Barilari padre era morto, c'era un appartamento intero a loro disposizione?
Chi avrebbe potuto accorgersene, di lei, se svelta svelta si fosse infilata in farmacia alle due del
pomeriggio, per esempio, quando il sole di luglio batte forte, a piombo sopra le tende marroni del
Caff della Borsa, quando tutti sono a mangiare, e sotto il portico non sono rimaste che le mosche
ad azzuffarsi per qualche briciola? Si erano sposati, ad ogni modo, questo contava ed era certo: e
l'Anna, di punto in bianco diventata la signora Barilari, era andata subito a stare in corso Roma,
nella casa del marito: sul conto del quale, dopo che l'avevano veduto qualche volta al cinema
insieme con la moglie, o a spasso con lei, verso sera, gi per corso Giovecca (lei robusta, sanguigna,
quasi luminosa; mentre lui, che le trottava a fianco con l'aria del naufrago aggrappato al salvagente,
lui, al confronto, sembrava anche pi insignificante, quasi spariva), si era ristabilito a poco a poco il
silenzio fatto di indifferenza che sempre aveva circondato la sua sbiadita figura.
Soltanto l'improvvisa paralisi che di l a nemmeno due anni l'aveva colpito alle gambe tabe dorsale,
non c'era dubbio - col conseguente effetto di cominciare a sospenderne lass in alto, come da un
palco di proscenio, il mezzo busto in pigiama sull'animato teatro di corso Roma, aveva avuto il
potere di richiamare di nuovo l'attenzione su di lui. D'allora in poi la giovane moglie, bench
compianta, fu trascurata. Si torn a parlare di Pino, e di lui solamente.
Non era questo, d'altra parte, ci che egli stesso voleva, offrendosi come faceva agli occhi di tutti?
Egli era sempre l, adesso, seduto da mane a sera al davanzale della sua finestra, e pronto a fissare
ogni passante con uno sguardo in cui brillava una luce nuova. Una luce nuova, sicuro! con un che,
dentro, di insolente e impudico insieme.
E allegra, per giunta. Come se fosse stata appunto la malattia, che per tanti anni aveva sonnecchiato
subdolamente nel suo sangue, ed ora insorgeva di colpo a stroncargli le gambe, a fare finalmente
della sua scialba vita qualcosa di chiaro, di comprensibile a lui stesso: di evidente, insomma.
Si sentiva forte, adesso, lo si vedeva bene: per la prima volta in vita sua. Addirittura rinato. Vedete
a cosa pu condurre un piccolo trascorso di giovent?, sembrava voler dire. Ecco qua, vedete?
Ma negli occhi, che gli splendevano, non c'era ombra di tristezza.
Per rendersi conto, ora, dell'imbarazzo, del sospetto istintivo che un simile atteggiamento aveva
suscitato in molti concittadini (fu forse da allora che il marciapiede di fronte al portico del Caff
prese a essere evitato con ogni cura), converr riportarsi all'atmosfera del '39: a quel senso di

smarrimento, incertezza e diffidenza generale, che nella societ italiana, e a Ferrara in ispecie, era
cominciato a serpeggiare sin dall'inizio dell'estate.
Per gran parte della nostra borghesia moderata, dal mese di maggio la citt si era trasformata
improvvisamente in un inferno.
C'era stata dapprima la storia degli studenti medi: di quel gruppo di ragazzi, cio, non uno al di
sopra dei diciotto anni, i quali, per istigazione di un loro professore di filosofia subito scappato in
Isvizzera, e allo scopo preciso di fomentare panico e disordine nella popolazione (ogni particolare
del complotto era trapelato in citt fino dai primi interrogatori; fatti in Questura), si erano prefissi
il bel proposito di sfondare ad una ad una, una per notte, tutte le vetrine dei negozi del centro. E ce
ne erano voluti di appostamenti, da parte della polizia, cui si erano aggiunti, inquadrati in pattuglie
volontarie personalmente da Carlo Aretusi, il noto antemarcia, una ventina di vecchi squadristi
della prima ora, per ottenere che i giovanotti si lasciassero cogliere con le mani nel sacco! A passare
di notte nei pressi del Castello, non c'era stato androne o angolo buio, per quasi due settimane, che
non apparisse punteggiato delle sigarette accese degli uomini in agguato
Ragazzate, sia pure: delle quali la stessa OVRA, nonostante le ardenti professioni di comunismo
degli arrestati e gli interrogatori continuavano, frattanto, nel carcere di via Piangipane - stava
facendo sforzi eroici per ridurre al minimo il peso politico: ma che, ad ogni modo, qualcosa
significavano. Si andava verso il peggio, ecco.
Si era circondati da disfattisti, da sabotatori, da spie. Persino tra gli studenti delle scuole medie, figli
di ingegneri di avvocati, di dottori, il comunismo, oramai, si era messo a far proseliti! E che le cose
non marciassero per il verso buono, lo si capiva osservando le facce di certe persone.
Le facce di certi ebrei, per esempio, nei quali era dato ancor oggi di imbattersi in pieno portico del
Caff (tutti quanti nel ghetto, invece, si sarebbe dovuto tornare a rinchiuderli: e basta coi soliti
pietismi fuori posto!); o quelle di alcuni dei pi irriducibili antifascisti cittadini - tipo l'avvocato
Polenghi, o l'avvocato Tamagnini, o L'onorevole Bottecchiari, L'ex deputato socialista - che al Caff
della Borsa si facevano vedere soltanto per le disgrazie, e infatti eccoli l, adesso, come altrettanti
uccellacci di malaugurio, che ci capitavano quasi ogni giorno, e all'ora, per giunta, del Giornale
Radio! Soltanto un cieco non si sarebbe accorto della contentezza maligna che, sotto l'abituale
maschera di indifferenza, sprizzava loro da tutti i pori.
Soltanto un sordo non avrebbe notato nella voce con cui l'on. Bottecchiari si indirizzava di lontano
al cameriere Giovanni per ordinargli il solito Punt e ml (una voce forte, calma, scandita: che faceva
sussultare la gente da un capo all'altro del caff) lo scherno di chi, in cuor suo, accarezza gi la
rivincita, pregusta gi la vendetta! E cosa mai poteva significare quella assurda mania di esibirsi che
aveva preso ad un tratto lo stesso Pino Barilari, se non che antifascista, sovversivo, affrettava
anch'egli col desiderio la disfatta della Patria? Nel suo ostentare senza pudore una malattia
indecorosa non era per caso da vedersi un'intenzione sottilmente offensiva e provocatoria, davanti
alla quale persino le quattordici vetrine finite in frantumi una dopo l'altra sotto le sassate della
cosiddetta banda del liceo avrebbero dovuto passar subito in seconda linea?
Queste preoccupazioni si diffusero, dilagarono, arrivarono in alto.
Senonch, messo a parte di esse, e richiesto di un parere dalla piccola corte di fedelissimi che
quotidianamente gli facevano circolo attorno, Carlo Aretusi, soprannominato Sciagura, strinse le
labbra dubbioso.
Non cominciamo a esagerare!, disse poi, sorridendo.
Ormai da venti anni, in compagnia inseparabile di Vezio Sturla e Osvaldo Bellistracci, egli
stazionava pressoch in permanenza davanti al medesimo tavolino del Caff della Borsa. Ed era a
lui, come al membro pi autorevole di quello che ai tempi delle squadre d'azione era stato il famoso
triumvirato fascista di Ferrara, come all'amico personale di Balbo, di Buonaccorsi, di Muti e di
Morigi il grande Morigi, il celebre tiratore di pistola, L'olimpionico di Ravenna! - era a lui che le

questioni pi delicate venivano subito sottoposte. (Non per nulla, del resto, quando si annunciava da
Roma qualche grana, perfino il Console Bolognesi, il Federale, accorreva in persona a
consultarlo).
Sciagura continuava a sorridere, incredulo, nostalgico. Per quanto gli altri insistessero, non fu
possibile indurlo a riconoscere che nel comportamento di Pino Barilari ci fosse qualcosa di
minaccioso.
Quello scarto di leva un sovversivo!?, sbott anzi a ridere. Ma se stato con noialtri a Roma,
nel '22!
Fu dunque cos - e c'era da ricordarsene, perch nel passato la cosa non si era verificata troppo
spesso - che dalle labbra di Sciagura, piegate per l'occasione in una smorfia patetica, il gruppetto
degli intimi pot sentire raccontare con una certa abbondanza di particolari anche della Marcia su
Roma.
Eh gi - sospir Sciagura. Aveva sempre preferito parlarne poco, lui, della Marcia su Roma!
Ma perch mai - riprese subito, con enfasi - perch mai avrebbe dovuto perdersi in chiacchiere su
un avvenimento come quello, che se per molti aveva significato la conquista del potere, con
conseguente adeguata sistemazione personale, per lui, invece, e per tanti altri come lui -e qui lo
Sturla e il Bellistracci tornarono ad annuire in silenzio - aveva rappresentato una cosa soltanto:
L'arresto della Rivoluzione, il tramonto definitivo dell'era gloriosa delle squadracce?
E poi, a guardare bene, di che altro si era trattato se non di una specie di trasferimento in tradotta
alla volta della capitale, con fermate a tutte le stazioni per raccogliervi drappelli di fascisti (da
Bologna a Firenze, a quell'epoca, non c'erano nemmeno le gallerie della Direttissima!), e un vero
esercito di carabinieri e Guardie Regie disposti a protezione lungo l'intera linea? Non c'erano
carabinieri n Guardie Regie, no perdio!, a proteggere i quattro 18 BL che nel '19 si erano spinti
fino a Molinella, in piena zona rossa, per incendiarvi la sede della Camera del Lavoro: impresa,
questa, che aveva richiamato per la prima volta sulla Federazione di Ferrara l'attenzione di tutta
Italia, e dalla quale, per essere precisi, era nato il primissimo attrito tra la Federazione di Ferrara e
quella bolognese, a cui la spedizione di Molinella era sembrata e fu anche detto, esplicitamente! una ingerenza provocatoria. Il fascismo era anarchico, allora, il fascismo era garibaldino. Non si
preferivano, al contrario di quello che accadde poi, i burocrati ai rivoluzionari. Se ad esempio il
giovane Sciagura (erano stati gli operai bolscevichi di fuori Porta Reno a chiamarlo cos: e lui di
quel soprannome se ne era sempre vantato, se ne era sempre fregiato come di una decorazione), se il
giovane Sciagura, o il giovane Bellistracci, o il giovane Sturla, armati solo di bastoni, pugni di
ferro, o al massimo di qualche vecchia Sipe residuato di guerra, uscivano di notte da Porta Reno per
cercar briga coi facchini comunisti che affollavano le bettole di Borgo San Luca, ebbene a
quell'epoca non c'era mica da contare, come invece poi, dopo il '22, fu sempre possibile,
sull'appoggio completo della Questura! Dopo il '22, figurarsi!, prima di partire per qualche
spedizione punitiva - quella su Codigoro, per esempio, quando si tratt di ridurre alla ragione gli
operai delle idrovore - si passava addirittura in Castello, dove, gi nel cortile, era diventato ormai
d'uso comune effettuare l'adunata dei camion e delle macchine. E adesso bisognava vederla, la
borghesia, come era pronta a fornire le sue macchine, come si proclamava onorata di metterle al
servizio della Causa!
Ma per tornare alla Marcia su Roma, e al figlio del dottor Barilari, in fondo era risultato lui, il
ragazzo, L'unico divertimento di tutto il viaggio. A ripensarci, la Marcia su Roma era stato proprio
lui che l'aveva salvata.
Intanto se l'erano visto capita e tra i piedi all'ultimo momento, quando il treno era gi in moto. E
correva correva lungo la banchina, con gli occhi fuori della testa per la paura di restare a terra,
sicch fu necessario allungargli una mano attraverso lo sportello, e tirarlo su quasi di peso.
Ecco qua, poi, come era vestito: con la mantella grigioverde, certo del padre, che gli arrivava fino ai

garretti; le fasce che gli si sfilavano dalle gambe ogni momento; le scarpe gialle, basse; e il fez, un
fez che chiss come se l'era procurato, e gli faceva, calcato in testa, certe orecchie da pipistrello da
sbellicarsi a forza di ridere. E che cos'altro si poteva fare se non ridere, a vedersi contemplati
continuamente da un paio di occhi stupiti, sgranati, nemmeno se lui, Sciagura, fosse stato una specie
di Tom Mix, e gli altri della Bombamano la truppa dello Sceriffo? Chi sei? Non sei mica il figlio
del dottor Barilari? gli avevano subito chiesto: non tanto per averlo mai visto, prima, quanto per la
somiglianza. E lui, senza poter rispondere per via della corsa che aveva fatto, diceva di s col capo.
Ma lo sa, il pap, che vieni via con noi?
E adesso lui faceva di no; e insieme li guardava uno per uno, con quei suoi occhi da bambino che
sta vivendo un film di avventure.
Aveva diciassette anni, altroch, non era affatto un bambino.
Eppure era peggio che se fosse un bambino.
Alla sua et era ancora vergine. E poich il treno, sia all'andata che al ritorno, si fermava a tutte le
stazioni (fermate che, come a Bologna e a Firenze, duravano talvolta due, tre ore); e loro
approfittavano di ogni sosta per scappare in cerca di qualche casino; e lui, Pino, sempre a
impuntarsi come un mulo, che nei casini non voleva venirci: finiva che dovevano trascinarselo
dietro quasi di peso, bisognava pur cercare di sverginarlo, no? Lui resisteva, puntava i piedi, li
scongiurava a mani giunte, piangeva.
Che cos'hai, paura che ti mangino?, gli dicevano gli altri. Vieni almeno a vedere. Parola d'onore
che non ti facciamo andar su in camera!
Non si fidava. Ogni volta occorreva che lui, Sciagura, sorridendo e ammiccando come d'intesa,
intervenisse a prenderlo in disparte, sussurrandogli in un orecchio qualche frase. Proprio non vuoi
venire? gli diceva. Oppure: Non fare il fesso, su! Ma non erano le parole che contavano.
Contava il tono.
Soltanto allora, difatti, come se sentisse in lui l'unico vero amico, egli si decideva a entrare. Per poi,
arrivato che fosse insieme con gli altri nella sala comune, rincantucciarsi in un angolo, girando
attorno gli occhi terrorizzati.
E le ragazze? Le ragazze, entusiasmate e intenerite dal suo spavento (per i fascisti, a parte questo,
avevano sempre avuto un gran debole!), non si pu immaginare che gare facevano per coccolarselo.
A dargli retta, a quelle l, c'era da vedere trasformato il casino in un ospizio per l'infanzia
abbandonata. Ed ecco che naturalmente doveva intervenire la padrona. Allora cosa facciamo,
signorine, la fabbrica della flanella? Ogni volta era sempre una commedia, una farsa del genere.
La scena madre, tuttavia, era successa agli Specchi, in via dell'Oca a Bologna, durante il viaggio di
ritorno.
La Porrettana non finiva mai, avevano visto all'andata che noia era stata. Sicch a Pistoia, prima di
affrontare L'Appennino, erano scesi in due o tre a fare incetta di fiaschi di Chianti. In mezzo alle
montagne c'era freddo, e nebbia che non ci si vedeva a dieci metri di distanza. Per far passare il
tempo non restava che bere; e cantare, si capisce, tutto quanto il repertorio. Morale: a Bologna,
quando c'erano arrivati che ormai era notte (ma l'accelerato per Ferrara non sarebbe partito che alle
2 e 05), tutti, Pino compreso, erano completamente ubriachi.
In via dell'Oca, da basso, puntando il dorso contro il battente del portoncino fitto di chiodi - neanche
se avesse voluto, quel pazzo, ficcarseli dentro nelle carni! - si era ripetuto da parte di Pino
l'ennesimo tentativo di resistenza.
E allora lui, Sciagura, fosse stato il vino, o il tedio del viaggio, o il dispetto di aver partecipato cos
per fare numero a quella gran pagliacciata quale ormai stava rivelandosi la Marcia su Roma (a
Roma c'erano rimasti due giorni, consegnati per lo pi in caserma: e il Duce non lo avevano visto
nemmeno di lontano, perch, dicevano, era occupato a trattare col Re circa la formazione del

governo), ad un tratto, senza sapere come, si era ritrovato con la Mauser in pugno, a puntarla sotto
la gola del ragazzo.
Che se Pino non si decideva, l per l, a smetterla di piagnucolare, e non entrava subito; o magari,
raggiunta che avevano di sopra la saletta comune, si fosse rifiutato come al solito di andar su in
camera con una ragazza: altro che la sifilide, quella volta, avrebbe potuto prendersi - se pure, vai un
po' a saperlo con sicurezza, se l'era presa proprio quella volta!
Era stato lui stesso ad accompagnarli su in camera: giusto per controllare che tutti e due, tanto Pino
quanto la donna, compissero sino in fondo il loro dovere. E fortuna - badava ancora a ripetere
Sciagura - fortuna che Pino non si era opposto nemmeno a questo! Altrimenti, sul serio, col revolver
spianato e ubriaco come era, sarebbe potuta succedere qualunque cosa.
Chi non ricorda, a Ferrara, la notte del 15 dicembre 1943? Chi potr mai dimenticare, finch avr
vita, le lentissime ore di quella notte? Fu una veglia angosciosa, interminabile, per tutti; con gli
occhi che bruciavano fissi a scrutare attraverso le fessure delle persiane le vie immerse nel buio
dell'oscuramento; col cuore che sobbalzava ogni minuto al crepitio delle mitragliatrici, o al
passaggio repentino, anche pi fragoroso, dei camion carichi di uomini armati.
A noi la morte non ci fa paura, viva la morte e viva il cimitero cantavano invisibili nel buio,
passando lungo le strade deserte, gli uomini dei camion. Era un canto cadenzato ma non marziale:
disperato anche esso.
L'annuncio dell'assassinio del Console Bolognesi, L'ex Segretario Federale lo stesso che dal
settembre, dopo la parentesi del periodo badogliano, era stato chiamato a riorganizzare la
Federazione in qualit di Reggente, si era diffuso in citt nel primo pomeriggio del giorno 15. La
radio poco pi tardi aveva dato i particolari: la Topolino ritrovata lungo una strada di campagna, nei
pressi di Copparo, lo sportello di sinistra aperto; il capo della vittima reclinato sul volante, come se
dormisse; il classico colpo alla nuca, pi rivelatore di una firma; e lo sdegno, l'ondata
irrefrenabile di sdegno, che la notizia, appena comunicata, aveva destato a Verona, in seno
all'Assemblea Costituente della Repubblica Sociale, adunata in Castelvecchio. Verso sera, anzi (una
sera livida, i suoni attutiti dalla nebbia e dalla neve caduta a intermittenze durante l'intera giornata,
nessuno per le strade, la gente costretta nelle case dal coprifuoco decretato per le cinque), si era
potuta ascoltare, sempre alla radio, una registrazione diretta della seduta veronese. Una voce sottile,
penetrante - il grido rabbioso e lamentoso di un bambino - d'un tratto aveva soverchiato quella
bassa, accorata di colui che, dopo aver dato comunicazione della morte del Console Bolognesi, ne
stava tessendo l'elogio funebre. Tutti a Ferrara!, fu udito gridare, distintamente. Vendichiamo il
camerata Bolognesi! Si erano appena richiuse le radio, ci si stava a guardare l'un l'altro spauriti,
che gi da fuori, dai vetri delle finestre che avevano cominciato a tremare, si annunciava il rotolio
sordo dei motori di lontani autocarri in avvicinamento e il ta-ta-ta lacerante delle prime sventagliate
di mitra. Ed era gi notte, fuori, era scaduta da un pezzo l'ora del coprifuoco.
Nessuno and a letto, nessuno dorm Non ci fu borghese di Ferrara - neppure tra quelli che per il
passato loro conformismo nel riguardi del regime caduto il 25 luglio scorso avevano accolto con
minore apprensione il ritorno del Fascio - il quale non temesse di vedere invasa da un momento
all'altro la propria casa. (Qualcuno, pi pavido, arriv al punto di farsi rinchiudere in uno
sgabuzzino segreto, con tanto di armadio o cassettone accostati a dissimulare il pertugio d'ingresso).
Ma anche nelle case borghesi, in genere, si parl e si discusse come mai: nelle lunghe pause
concesse da un bridge o da un poker che soltanto il desiderio di mentire a se stessi e agli altri la
propria angoscia, e la necessit, comunque, che il tempo trascorresse pi rapido, avevano
consigliato di avviare; oppure seduti senza far nulla sotto la luce del lampadario centrale, attorno a
quei medesimi tavoli da pranzo dove, a una certa ora, si era tentato vanamente di cenare come le
altre sere, e che poi erano rimasti cos, mezzo sparecchiati, le tovaglie sparse di briciole e ingombre
di piatti sporchi.
Cosa stava accadendo? Cosa sarebbe accaduto?

Fra la gente d'ordine le previsioni variavano, com' naturale, secondo i temperamenti e le


esperienze. Si pu esser certi tuttavia che prevalessero - non fosse altro che per farsi, anche con
questo, un po' di coraggio - i pareri meno catastrofici.
La citt risuonava di colpi d'arma da fuoco e di lugubri canti che parlavano di morte e di cimiteri.
Ma non perci era da pensare seriamente che i fascisti, i quali, dal settembre in poi, limitandosi a
rastrellare quel centinaio di ebrei su cui erano riusciti a metter le mani, e a rinchiudere nel carcere di
via Piangipane appena una decina dei pi accaniti antifascisti cittadini, avevano dato prova, tutto
sommato, di notevole mitezza, volessero, ora, cambiato di colpo registro, effettuare un giro di vite
vero e proprio. Erano italiani anche essi, i fascisti, che diamine! E anzi, a dir la verit - e qui un
sorriso e un ammicco erano divenuti di obbligo, pi italiani di tanti altri, buoni soltanto a riempirsi
la bocca con la parola libert, e di niente altro solleciti, in pratica, che di lustrare le scarpe allo
straniero invasore. No, no, non c'era da temere. Facevano un po' di baccano, i fascisti, si capisce; le
facce feroci; andavano attorno col teschio sul berretto: ma pi che altro per tenere a bada i tedeschi,
i quali, a lasciarli fare (n si sarebbe potuto, in fondo, dar troppo torto anche a loro: la guerra
guerra, e certi tradimenti, in guerra, si dovrebbe sempre pagarli!), non ci avrebbero pensato un
minuto a trattare l'Italia alla stregua di una Polonia o di una Ucraina qualsiasi. Poveri diavoli, i
fascisti! Bisognava un po' mettersi anche nei loro panni! Cercare di comprendere il dramma loro e
quello personale di Mussolini che anche lui, pover'uomo, se non si era ancora ritirato a vita privata
alle Caminate, come forse desiderava e certo gli conveniva, era per l'Italia, soprattutto, che doveva
averlo fatto.
Il Re, il Re! L'8 settembre non era stato capace, il Re che di fuggire a Bari con Badoglio. Mussolini,
invece, da buon romagnolo dall'animo sostanzialmente generoso (i Savoia e Badoglio erano
piemontesi: e i piemontesi, niente da fare, sono sempre stati gente gretta, poco sincera!) Mussolini
non aveva esitato un solo momento, lui nell'ora della tempesta, a risalire in plancia e a riprendere in
pugno, faccia volta ai marosi, la barra del timone E a essere schietti, che cosa c'era da dire
dell'assassinio del Console Bolognesi - un padre di famiglia, tra l'altro, uno che m vita sua non
aveva mai fatto male a una mosca? Nessuna persona civile, nessun vero italiano, avrebbe potuto
approvare un delitto come quello, che tendeva, era fin troppo chiaro, a far divampare anche da noi,
a imitazione pedissequa della Francia e della Jugoslavia, gli orrori della guerra partigiana. La
distruzione di tutti i valori della civilt mediterranea e occidentale, da quelli culturali e religiosi a
quelli materiali; insomma il comunismo: ecco il traguardo ultimo della guerra partigiana. Che se gli
jugoslavi e i francesi, nonostante l'esperienza recente della Spagna, volevano il comunismo,
padroni, si tenessero pure il loro Tito e il loro De Gaulle. Agli italiani, adesso, si imponeva un
obbligo solo: restar compatti e salvare il salvabile.
Come Dio volle, finalmente la luce torn. E con la luce, canti e spari cessarono.
Cess anche, di colpo, il fitto chiacchierio dietro porte e finestre. Ma l'angoscia no, che non cadde.
La luce del giorno, restituendo ad ognuno, anche ai pi ciechi, il crudo senso della realt, la rendeva
anzi pi acuta. Cosa significava quel silenzio improvviso? Cosa nascondeva o preparava? Poteva
benissimo trattarsi di un tranello: per indurre la popolazione a uscire all'aperto, e poi rastrellarla, o
chiss che altro farne. Trascorsero cos almeno due ore - due ore di inerte, torturante attesa - prima
che qualche vaga notizia dell'eccidio trapelasse a poco a poco, da s, nell'interno delle case.
Le vittime della rappresaglia erano dieci, venti, cinquanta, cento Ad abbandonarsi ai pronostici
pi disperati sembrava davvero, in principio, che non solo corso Roma, ma tutto il centro della citt
fosse seminato di morti. Ci volle dell'altro tempo, insomma si arriv, con questo, verso le nove e
mezzo, le dieci del mattino: soltanto allora fu possibile sapere con precisione numero e identit
degli uccisi.
Erano undici: riversi in tre mucchi lungo la spalletta della fossa del Castello, lungo il tratto di
marciapiede esattamente opposto al Caff della Borsa e alla farmacia Barilari: e per contarli e
riconoscerli, da parte dei primi che avevano osato accostarsi (in distanza non parevano nemmeno
corpi umani: stracci, bens, poveri stracci o fagotti buttati l, al sole, nella neve fradicia), era stato

necessario rivoltare sulla schiena coloro che giacevano bocconi, nonch separare l'uno dall'altro
quelli che, caduti abbracciandosi, facevano tuttora uno stretto viluppo di membra irrigidite.
E ci fu appena il tempo, in realt, di contarli e riconoscerli. Perch di l a poco, sbucando
improvvisa dall'angolo di corso Giovecca, una piccola macchina militare era venuta ad arrestarsi,
con teatrale stridio di freni, davanti al gruppo raccolto attorno ai cadaveri. Via! Via!, fu gridato,
prima ancora di balzare a terra, dai militi della Brigata Nera che l'occupavano. Sempre incalzati
dalle grida di costoro, ai presenti non era rimasto che ritirarsi lentamente verso le opposte estremit
del corso Roma: e di qui, tenendo tuttavia d'occhio i quattro militi che laggi in fondo, sotto il sole
ormai alto, montavano la guardia ai morti imbracciando i mitra, far sapere per telefono all'intera
citt quello che avevano visto e rischiato.
Orrore piet, paura folle: c'era questo nell'impressione che l'annuncio dei nomi dei fucilati dest in
ogni casa. Non erano che undici, vero. Ma si trattava di persone troppo note, in citt, di persone
delle quali, oltre ai nomi, si conoscevano troppo bene infiniti particolari del fisico e del morale (il
volto di questo, e il modo che aveva ridendo, di strizzare gli occhi celesti dietro le piccole lenti del
pince-nez; il passo strascicato di quest'altro, e i suoi capelli, magari, ingrigiti anzitempo; la maniera
di salutare di un altro ancora, agitando il braccio e gridando di lontano: Salute!; i vezzi, le piccole
manie; la passione per il gioco, L'avarizia, la prodigalit, la malignit; L'amore per la moglie, per
l'amante, per i figli, e cos via: undici vite di cui si sapeva tutto, o quasi tutto, cresciute insieme e
insieme troncate, di schianto, lungo il marciapiede di fronte al portico del Caff): troppo familiari,
troppo legate ad ognuno, per mille legami, erano le undici vittime dell'eccidio - troppo intrecciate,
le loro esistenze modeste, alle modeste esistenze di ognuno perch la loro fine non sembrasse di
primo acchito un evento spaventoso, di una efferatezza quasi irreale E sembrer strano, certo, che
l'esecrazione per l'assassinio quasi generale, perch non dirlo? - potesse accompagnarsi
immediatamente al proposito, altrettanto generale, di far buon viso agli assassini, di fare atto di
pubblica adesione e sottomissione alla loro violenza. Ma cos accadde, anche questo inutile
nasconderlo: se vero, come vero, che in nessun'altra citt dell'Italia settentrionale il fascismo
repubblicano avrebbe potuto contare, da allora in poi, su un numero cos imponente di iscritti: da
vedere fin dal mattino del giorno 17 (durante la notte era cominciato a piovere a dirotto) lunghe,
silenziose file di cittadini sostare nel cortile della Casa del Fascio, in viale Cavour, attendendo che
gli uffici della Federazione si aprissero. Curvi, dimessi, avviliti nei frusti cappotti di stoffa
autarchica che la pioggia batteva senza piet, erano l'identica marea di gente silenziosa che il
pomeriggio del giorno avanti aveva seguito passo passo lungo corso Giovecca, via Palestro, via
Borso, fino a piazza della Certosa, il funerale del Console Bolognesi, e nei cui volti illividiti dal
terrore le poche persone rimaste dentro le case, a spiare da dietro le persiane accostate (uomini,
uomini, uomini: tanti, dunque. ne contava Ferrara?), avevano riconosciuto, rabbrividendo, il proprio
stesso volto. Che cosa c'era da fare, se non cedere? Tedeschi e giapponesi, anche se per ora
mostravano di ritirarsi, da ultimo, sfoderando armi segrete di potenza inaudita, avrebbero capovolto
la situazione e vinto in poche battute la guerra. Non c'era da scegliere che una strada sola.
Ma gli autori della strage, intanto, chi erano? Nessun dubbio: gli autori primi, i responsabili
materiali, erano certo gli uomini dei camion - quattro targati VR, Verona, e due PD, Padova - gli
stessi che per tutta la notte aveva no fatto echeggiare la citt dei loro canti e dei loro spari, e si erano
dileguati, poi, verso l'alba, proprio come se il buio medesimo col quale erano venuti li avesse
risucchiati con s: i vendicatori preannunciati dalla radio, insomma, di cui qualche passante, che la
sera del 15 si era potuto attardare per le strade in quanto fornito di un permesso speciale, aveva fatto
in tempo a intravedere di lontano le stravaganti camicie azzurre, tipo Legione spagnola, il teschio
sul berretto alla raffaella, il mitra ad armacollo, nonch, infilate sotto le cinture di cuoio assieme col
pugnale e la pistola, un paio di bombe a mano dai lunghi manici, di marca tedesca. Per sapere dove
fosse via Piangipane non era davvero indispensabile essere del luogo, o farcisi condurre da uno del
luogo: bastava per questo, dare un'occhiata a una cartina topografica. Infatti erano stati loro, gli
squadristi veneti, a presentarsi alle due del mattino al portone delle carceri, in via Piangipane. Erano
stati loro, e non altri che loro, a costringere armi in pugno quel poveruomo del direttore a esibire

l'elenco dei politici e a cedere in consegna gli avvocati Polenghi e Tamagnini, entrambi socialisti e
vecchi organizzatori sindacali, e gli avvocati Galimberti, Fano, e Ferraresi, del partito d'Azione:
tutti e cinque detenuti in attesa d'istruttoria dal settembre precedente.
Senonch, a smentire la voce che subito circol una diceria messa in giro ad arte, era chiaro secondo la quale nessuno di Ferrara aveva partecipato al massacro, nessuno di Ferrara si era
macchiato di quel sangue, restavano gli altri sei morti: il Consigliere Nazionale Abbove, il dottor
Malacarne, il ragionier Zoli, i due Cases, padre e figlio, e l'operaio Felloni: ciascuno di essi
prelevato dalle rispettive abitazioni, che certo non erano segnate su alcuna cartina topografica - e si
eccettuasse pure, dal numero, L'operaio Felloni, la cui bicicletta, rinvenuta la mattina del 15 lungo
la muraglia rossiccia dell'Auditorium, in via Boldini, pareva indicare che il disgraziato, un oscuro
dipendente dell'Azienda Elettrica, era stato aggregato al gruppo dei giustiziandi unicamente per
essersi imbattuto, mentre si recava, ignaro, al lavoro, in una delle tante pattuglie che bloccavano
l'accesso al centro: reo di questo, in sostanza, e di questo soltanto. Ebbene nessuno che non fosse di
Ferrara, e molto pratico, per giunta, della citt, avrebbe potuto rintracciare a colpo sicuro il
Consigliere Nazionale Abbove non gi nel suo palazzo di corso Giovecca, ma nello studio
-garconnire che egli, ricavandolo da un chiostretto medioevale acquistato per pochi soldi, si era
fatto costruire di recente nella quieta e romita via Brasvola, e all'ombra discreta del quale,
riempitolo dei pi vari oggetti d'arte (quadri, tappeti, rarit e bizzarrie di ogni genere: un bric--brac
del pi squisito gusto dannunziano, niente da dire!), era solito riparare di tanto in tanto la sua
delicata canizie di maturo gaudente.
Nessuno che non fosse di Ferrara, informatissimo, oltre a ci, di quanto era accaduto in citt negli
ultimi tempi, avrebbe potuto sapere di certi convegni segreti che si erano tenuti, durante i
quarantacinque giorni del periodo badogliano, appunto nella garonnire del Consigliere Nazionale
Abbove (il dottor Malacarne e il ragionier Zoli, a stare alle chiacchiere, c'erano intervenuti ogni
volta, ma il vecchio Sciagura no, aveva sempre declinato l'invito), convegni intesi a stabilire una
linea di condotta comune per tutti quei fascisti di niente altro desiderosi, caduto il Regime, che di
far giungere al Re L'espressione della loro incondizionata fedelt e insomma, come si dice, di
voltar gabbana il pi presto possibile. E i due Cases, padre e figlio, in particolare, due dei pochi
ebrei sfuggiti alla grande retata del settembre (commerciavano in cuoio, n mai, mai in vita loro,
avevano pensato alla politica), i quali vivevano, dal settembre, tappati nel granaio della loro casa di
vicolo-mozzo Torcicoda, essendo riforniti di cibo, attraverso un buco del pavimento,
esclusivamente dalla rispettiva moglie e madre, arianissima, cattolicissima: chi altri, se non
qualcuno che ne conoscesse perfettamente il rifugio - qualcuno di Ferrara, dunque! - sarebbe stato
in grado di indirizzare proprio lass, in cima a quel polveroso labirinto di scalette semicrollanti, i
cinque scherani mandati a prelevarli? Chi altri se non
Carlo Aretusi, s, appunto Sciagura. E sarebbe stato sufficiente, perch i sospetti convergessero
subito su di lui (fin dal mattino del 16 aveva ripreso a comandare lui, in Federazione, e il nome suo,
da quel momento, cominci a essere pronunciato di nuovo come una volta, prima del '22, un
bisbiglio appena intelligibile)j sarebbe stato pi che sufficiente, in fondo, ricordarsi come era
apparso ai funerali del Console Bolognesi, il pomeriggio dello stesso giorno.
Non aveva mai voluto partecipare alle riunioni clandestine che nell'agosto passato erano state tenute
pi volte a casa del Consigliere Nazionale Abbove, mandando anzi a dire agli ex camerati che lui
non se la sentiva di intervenirvi perch - disse proprio cos, testualmente - non intendeva rinnegare a
cinquant'anni ci che aveva fatto a venti. Ed ecco che infatti, mentre camminava alla testa
dell'interminabile corteo, immediatamente dietro l'affusto di cannone su cui posava la bara del
Console Bolognesi, e lanciava di continuo, in direzione delle case di corso Giovecca e di via
Palestro - file e file di imposte chiuse - occhiate cariche d'odio e di disprezzo: ecco l che sembrava
tornato per miracolo, a non tener conto si capisce, delle tempie grige, il giovane che era stato a
vent'anni: snello, cio, con addosso, nonostante il freddo, la sola camicia nera, e il berretto alla
raffaella della Decima Mas calcato sulle ventitr. Talpe maledette, marmotte, vigliacchi di
borghesi! Vi far vedere io.. vi staner io, minacciavano i suoi occhi furenti, le sue labbra

arricciate. In piazza della Certosa, prima che il feretro del Console Bolognesi fosse introdotto in
chiesa, egli aveva arringato la folla su questo tono: e la folla ascoltava, accalcandosi grigia, attorno,
inerte; e lui a infuriarsi sempre pi, e proprio a causa, sembrava, di quell'inerzia.
I corpi degli undici traditori fucilati in corso Roma all'alba di stamani, aveva urlato a mo' di
conclusione, non saranno rimossi che quando l'ordiner io. Vogliamo essere certi, prima, che
l'esempio abbia dato i frutti desiderati!
Che cosa mancava, davvero, perch nel parossismo dell'ira si arrogasse addirittura il merito di aver
fatto giustizia lui, con le sue stesse mani?
E di l a poco, in corso Roma, quando era sopraggiunto improvvisamente a far scattare sull'attenti i
quattro militi della Brigata Nera che montavano tuttora di guardia ai corpi dei fucilati: cosa mai
bisognava dire del suo modo di comportarsi, che da principio era sembrato tanto in contrasto con
quello di mezz'ora avanti, in piazza della Certosa, mentre poi, a ripensarci, valeva pi di cento
confessioni messe insieme?
Scese dalla macchina rannuvolato, dando appena un'occhiata ai cadaveri stesi sul marciapiede; e
subito uno dei militi era avanzato di un passo, informandolo, con l'aria di compiacersi che fosse
arrivato in buon punto, di quanto stava accadendo. Per tutta la giornata, riferiva il milite, loro
quattro erano riusciti a tenere a bada la gente che pretendeva avvicinarsi. Pi di una volta, anzi, allo
scopo di disperderli (si trattava con ogni probabilit dei familiari dei traditori) donne che urlavano e
piangevano, uomini che imprecavano: non era stato mica facile, no, persuaderli a indietreggiare),
erano stati costretti a sparare in aria qualche raffica, con l'effetto di ricacciarli laggi, agli opposti
angoli di piazza del Duomo e di corso Giovecca, dove anche adesso, come il camerata Aretusi
poteva constatare, c'era qualcuno che si ostinava a rimanere. Che cosa avrebbero dovuto fare,
tuttavia, aggiunse il milite e qui, levando il braccio, egli aveva indicato la finestra dietro i vetri della
quale si intravedeva immobile, la sagoma di Pino Barilari con quel signore l, un bel tipo di
incosciente, parola d'onore, che nessuna intimazione o minaccia, nessuna scarica di mitra. aveva
persuaso a spostarsi di un solo millimetro?
Forse era sordo. Comunque, se la saracinesca della farmacia, l sotto il portico, non fosse risultata
abbassata, uno di loro sarebbe certo salito a intimargli da pi vicino, con le buone o con le cattive,
di togliersi di mezzo
Di scatto, come se fosse stato morso da una vipera, Sciagura alz gli occhi alla finestra che il milite
gli indicava.
Era ormai scuro, in istrada. Traboccando dalla Fossa del Castello, d minuto in minuto la nebbia
infittiva. E per tutto corso Roma (lungo una fronte di almeno centocinquanta metri non si vedevano
che buie finestre di uffici: banche, studi di avvocati, ecc.), era quella lass, l'unica finestra
illuminata.
Sempre guardando, Sciagura si lasci sfuggire di tra le labbra contratte un'imprecazione soffocata,
ebbe un gesto come di dispetto. Torn a volgersi; e con voce mutata una specie di mormorio
impaurito - raccomand ai quattro militi che di l a venti minuti, quando fossero arrivati gli uomini
che lui avrebbe mandato a rimuovere i cadaveri, li lasciassero pure fare, non si opponessero in
nessun modo.
Ci si immaginava molte cose.
L'interno dell'appartamento sovrastante la farmacia, innanzi tutto, dove nessuno, in citt, compresi
gli amici di Loggia del defunto dottor Francesco, ai quali non era mai riuscito, secondo quanto
risultava, di varcare la soglia del retrobottega, poteva dire di aver messo piede una volta sola. Una
scaletta a chiocciola collegava il retrobottega col piano di sopra. Qui, oltre alla stanza da pranzo, al
salotto di riguardo e alla camera da letto matrimoniale - e senza contare, s'intende, i vani di servizio
- non doveva trovarsi che la stanzetta che Pino occupava da ragazzo, e dove, dopo la paralisi, egli
era tornato probabilmente a dormire. Nessuno c'era stato, nessuno ne sapeva niente di preciso. Ma

in realt, a forza di pensarci, era come aver visto coi propri occhi una pianta dell'appartamento, o
come addirittura esserci stati di persona. Da potere indicare a quale parete della stanza da pranzo
fosse appeso il ritratto fotografico di Bilancino, montato in una pesante cornice dorata,
dell'ottocento; o descrivere la forma del lampadario centrale, che faceva convergere sul panno verde
del tavolo e sulle carte da gioco del solitario di ogni sera una luce bianca, fortissima; o raccontare
dell'effetto che in simile ambiente fa cevano, sparsi qua e l, ma con maggiore frequenza, ad ogni
modo, nella camera matrimoniale, i mobili e gli oggetti di gusto moderato introdottivi dalla moglie.
E dopo ci parlare a lungo, diffondersi sulla stanzetta attigua a quella matrimoniale (davano
ambedue sopra un cortile interno), nella quale, appena cenato, Pino si ritirava unicamente per
dormirci: con un lettuccio da ragazzo in un angolo, contro una parete una piccola scrivania, contro
l'altra un armadio e ai piedi del letto, ricoperta di stoffa scozzese a quadri rossi e blu, la grande
poltrona a schienale che ogni mattina la stessa signora Anna trasportava nella stanza da pranzo,
accanto alla finestra piena di sole, e su cui Pino sedeva poi fino a sera. Volendo, si sarebbero potuti
nominare ad uno ad uno (ma anche questo era un modo per imprestare a Pino Barilari qualcosa
della propria infanzia, della propria innocenza perduta), gli autori dei libri contenuti in una scansia a
vetri che trovava posto a fianco della porta, presso il radiatore del calorifero. Salgari, Verne, Ponson
du Terrail, Dumas, Mayne Reed, Fenimore Cooper, ecc. C'erano persino Le avventure di Gordon
Pym, di E.A. Poe, in una edizione che mostrava in copertina il grande fantasma bianco armato di
falce, egentesi a picco sopra la minuscola scialuppa dell'esploratore: e quest'ultimo volume non
stava con gli altri, bens sul comodino accanto al letto, posato in modo che l'illustrazione della
copertina non si vedesse (bastava capovolgere il libro: allora il fantasma bianco, anche se
continuava a essere presente, a esser l, non faceva pi paura!): insieme con l'album della collezione
di francobolli, un fascio di matite colorate infilate dentro un bicchiere, un temperino da pochi soldi,
una gomma da cancellare mezzo consumata
Ci si immaginava tante altre cose.
Dove vai?,.aveva chiesto per esempio Pino, la sera del 15 dicembre 1943, levando il capo dal
solitario.
La moglie si era alzata da tavola. Senza rispondergli, si dirigeva gi verso la porta. Ed era stato
dall'ombra del corridoio, dove si apriva la botola della scaletta a chiocciola, che gli era giunta la
voce calma di lei.
Dove vuoi che vada! Da basso, a chiudere
Forse egli non aveva ascoltato la radio, nel primo pomeriggio, con la trasmissione da Verona. Alle
nove, comunque, quando i rintocchi dell'orologio del Castello si erano spanti sulla citt con la
dolcezza di una benedizione (dan, dan, dan: erano la neve e la nebbia, senz'altro, a propagarli cos
chiari: ma intanto, sotto quel suono, un altro ne cresceva: un rotolio lontano, di grossi motori in
avvicinamento), alle nove pareva normale ritrovare Pino gi rannicchiato nel suo lettuccio di
ragazzo, con le coperte tirate fin sulle orecchie, profondamente addormentato. Lo si vedeva proprio
come se fosse dato di stargli a capo del letto, a guisa dell'angelo custode. Dormire, chiudere gli
occhi al pi presto Sentendo la moglie alzarsi da tavola per scendere gi in farmacia (c'era
sempre da fare qualcosa, da basso: tirare i conti della giornata e, da ultimo, calare la saracinesca
dall'interno); vedendola di spalle, sul punto di varcare la soglia della stanza da pranzo, cos grande,
bella e indifferente: a cos'altro, se non a questo, Pino avrebbe dovuto pensare? Cosa mai d'altro
avrebbe potuto pretendere?
Dormire, s, chiudere gli occhi: e quella sera avesse egli, o non avesse, ascoltato la radio nel
pomeriggio - anche pi presto del solito.
Ci si figurava anche il resto, naturalmente; fino all'ultimo, e nei particolari pi minuti.
Gli undici uomini allineati in tre gruppi distinti contro il muretto della Fossa del Castello;
L'andirivieni dei Legionari in camicia azzurra nello spazio compreso tra il portico del Caff e il
marciapiede opposto; la smorfia disperata dell'avvocato Fano, quando egli, un attimo prima della

scarica, aveva gridato a Sciagura, intento un poco in disparte ad accendersi una sigaretta:
Assassino! (L'urlo altissimo, atroce, era stato udito dall'interno di alcune case di piazza del
Duomo e di corso Giovecca: a non meno, dunque, di cento metri di distanza); quella gran luce, poi,
quell'incredibile chiaro di luna che da mezzanotte, girato improvvisamente il vento, aveva fatto di
ogni pietra della citt un pezzo di vetro o di carbone; e Pino Barilari, infine, che soltanto il grido
dell'avvocato Fano era riuscito a strappare all'ultimo momento dal SUO duro sonno di ragazzo,
appiattato ora lass, tremante sulle sue grucce, dietro le lastre della finestra sovrastante alla scena
E questo cos, per mesi e mesi, per tutto il tempo che occorse alla guerra, dal dicembre del '43 al
maggio del '15, per risalire adagio adagio l'intera penisola.
Come se l'immaginazione collettiva - allo stesso modo di chi, per pulirsi, ogni tanto fa sanguinare
una ferita malchiusa - avesse bisogno di tornare sempre l, a quella notte tremenda, e di rivedere
uno per uno i volti degli undici fucilati, quali, nel momento supremo, solamente gli occhi di Pino
Barilari avevano potuto vederli.
Vennero infine la liberazione e la pace: e per molti di noi, per quasi tutti, l'ansia improvvisa di
dimenticare.
Ma si pu dimenticare? E sufficiente desiderarlo?
Bisogn che la gente aspettasse, ad ogni modo - e furono altri mesi di rovello, di chiusa impazienza,
alla ricerca continua di un pretesto, di un'occasione di riscatto qualsiasi.
Finch nell'estate del '44, quando nel salone delle conferenze dell'ex Casa del Fascio, in viale
Cavour, ebbe inizio il processo contro una ventina di presunti autori del massacro di tre anni prima
veneti la gran parte: pescati nel campo di concentramento di Coltano e nelle prigioni -; e quando,
poi, rintracciato sotto falso nome in Toscana, nell'alberguccio di Colle Val d'Elsa, dove si
nascondeva, dal giovane e attivissimo Segretario Provinciale dell'ANPI.
Nino Bottecchiari, anche Sciagura fece il suo ingresso nel gabbione degli imputati: quest'ultima, ad
un tratto, parve l'occasione pi utile per mettere definitivamente una pietra sopra il passato.
Verissimo, purtroppo dicevano. Nessuna citt dell'Italia settentrionale aveva dato maggior
numero di aderenti alla Repubblica di Sal, nessuna borghesia era stata pi pronta a inchinarsi ai
tetri vessilli, ai mitra e ai pugnali delle sue varie Milizie e Corpi speciali: Brigate Nere, Legionari
della Decima, Paracadutisti o Tp che fossero.
(Non era un caso, infatti, se dal '45 Ferrara era amministrata dai soli comunisti, e se tante persone
capaci, ancora nel fiore delle forze e dell'et, erano state praticamente escluse da ogni forma di vita
politica!) Eppure sarebbe bastato poco perch l'errore di calcolo che tanti avevano compiuto sotto la
pressione di avvenimenti eccezionali quel semplice, umano errore di calcolo che i comunisti
tendevano ora a trasformare in perpetuo marchio d'infamia diventasse insieme col resto niente
altro che un brutto sogno, un incubo orrendo da cui svegliarsi pieni di speranza, di fiducia in se
stessi e nel futuro. Sarebbe bastata la condanna esemplare degli assassini, e di Sciagura in ispecie: e
della notte del 15 dicembre 1943, di quella notte decisiva, fatale, sarebbe stato cancellato ben presto
ogni ricordo.
Il processo andava avanti a rilento, nel caldo e nella noia, suscitando nel pubblico, che accorreva in
gran folla ad ogni seduta, un senso crescente di inutilit, di impotenza.
Gli accusati, rinchiusi nel gabbione sistemato lungo un fianco della sala, fra due finestre,
rispondevano l'uno dopo l'altro alla Corte, innervosita e messa a disagio dagli altoparlanti che il
C.L.N. aveva fatto disporre nel viale sottostante, con diramazioni che arrivavano fino al centro, in
pieno corso Roma, sempre le solite cose: che nessuno di loro aveva partecipato alla spedizione
punitiva del dicembre '43, che nessuno di loro, anzi, era mai stato a Ferrara. Erano tanto sicuri di
non aver nulla da temere, e di cavarsela, alla peggio, per insufficienza di prove, che qualcuno osava
addirittura scherzare, fare dello spirito. Ci fu un tale, per esempio uno di Treviso sui
quarant'anni, bruno, coi capelli lunghi e riccioluti, la grossa mascella sporca di barba e, nonostante

il caldo, un maglione nero accollato fin sotto il mento, il quale disse che s, a Ferrara una volta lui
c'era stato: ma venti anni prima, in bicicletta, per trovarci la fidanzata. Battuta, questa, che strapp
al Presidente, dal canto suo sempre disposto a sottrarsi a quell'aria di giudizio popolare
rivoluzionario, che si era voluto dare al processo, un sorriso arguto, tipicamente napoletano, di
bonaria comprensione.
(Se aveva acconsentito a tenere il dibattito l, nei locali dell'ex Casa del Fascio, era stato unicamente
perch la sede del Tribunale, semidistrutta da un bombardamento del '44, e in via di ricostruzione,
non poteva tuttora essere adoperata l) Quanto a Sciagura, non solo anche egli negava, come era da
prevedersi, qualsiasi partecipazione diretta o indiretta al fatto del 15 dicembre '43; ma fin dal
primo momento che i partigiani di Nino Bottecchiari l'avevano dato in consegna ai carabinieri, e
questi, dopo averlo ammanettato, avevano messo lui pure dentro la gabbia, non si era lasciata
sfuggire occasione per manifestare, insieme al pi vivo rispetto per la Corte chiamata a giudicare
del suo operato
(verso il signor Presidente si mostrava particolarmente ossequioso, quasi umile), il suo profondo
disprezzo per la gente che, laggi, gremiva lo spazio della sala riservato al pubblico, e nel
comportamento della quale si potevano vedere gli effetti nocivi del presente stato di cose. Era
cos, con l'odio fazioso, con la sete di vendetta che traspariva da ognuno di quei volti (molti li
riconosceva: appartenevano a persone altrettanto pronte, ieri, a battere le mani e a gridare
evviva), era proprio con tali sistemi che si intendeva realizzare la tanto auspicata e auspicabile
pacificazione dell'Italia? Era questo il clima di libert che si era riservata alla Corte per porla in
grado di emettere un giudizio sereno su un uomo come lui, reo di esser stato un soldato al servizio
di una Idea?
Non erano che manovre divagatorie, lo si capiva bene; fumo negli occhi: per prender tempo e per
impedire che il processo assumesse quel colore affatto penale da cui, era chiaro, egli aveva
maggiormente da guardarsi.
lo fui soltanto il soldato di una Idea, continuava a ripetere compiaciuto, non lo sgherro di un
sistema e nemmeno il servo dello straniero!
Oppure, con tristezza: Adesso tutti dicono male di me!
E non aggiungeva altro. Ma era come, ogni volta, se insinuasse che no, non si illudessero i suoi
odierni persecutori di riuscire a far dimenticare, condannando lui, quello che ieri erano stati. Tutti,
come lui, erano stati pi o meno fascisti: e nessun verdetto di tribunale avrebbe mai cancellato una
verit come questa.
Di che cosa lo si incolpava, poi, dopo tutto? Di aver fornito la lista delle undici persone fucilate la
notte del 15 dicembre 1943, e di aver diretto personalmente l'esecuzione di quei disgraziati, se
non aveva capito male. Ma prove, occorrevano, non bastavano certo le semplici induzioni, per
convincere un tribunale serio, un tribunale regolare, che lui, Carlo Aretusi, aveva compiuto
realmente quelle due cose: steso la lista, e diretto la fucilazione.
Non si facciano chiacchiere sull'eccidio, perch di questo lo assumo completa ed intera la
responsabilit, pareva che egli avesse detto, alcuni giorni dopo, a non ricordava pi quale
assemblea plenaria degli azionisti della Cassa Agricola: e poteva anche darsi che tali, in quella o
altra circostanza, fossero state le sue parole. Ma con questo? Ci volevano prove, ancora, e ancora
prove. Perch le parole che lui poteva aver dette allora, ad altro non erano intese probabilmente,
che a convincere i tedeschi sulla sincerit e fedelt incondizionata dell'alleato meridionale. Dopo 1'8
settembre ormai si poteva ben dirlo! i tedeschi erano diventati i veri padroni del Paese, e a loro,
si sa, non sarebbe costato proprio nulla fare di ogni centro abitato un mucchio di macerie. Non
erano dunque le parole, e dette per dl pi in pubblico perch altri le sentisse e riferisse, quelle che
contavano. Contavano le prove e i fatti. Contavano le medaglie da lui meritate nella prima guerra
mondiale, combattendo quegli stessi tedeschi verso i quali, ora, lo si accusava di servilismo (lui, un
Ardito del Piave!). E gi che si era menzionata l'assemblea della Cassa Agricola, perch non

ricordare, a questo proposito, che l'on. Bottecchiari, il socialista avvocato Mauro Bottecchiari, il
quale faceva parte, come era ben noto, del Consiglio d'Amministrazione della medesima, era stato
dimesso a Natale da via Piangipane per diretto intervento di lui, Carlo Aretusi? Anche la maestra
Trotti, quella santa donna!, era stata liberata nella stessa occasione (non era colpa sua se di l a
qualche mese le S.S. tedesche l'avevano arrestata di nuovo e tradotta in quel carcere di Codigoro
dove era poi morta): e peccato ora che non potesse, purtroppo, testimoniare in suo favore. Ma l'on.
Bottecchiari s, era ben vivo. E dunque: per quale ragione non si provvedeva a convocarlo subito in
tribunale (una brava persona, L'on. Bottecchiari: lealissimo: e per questo anche lui, Carlo Aretusi,
ne aveva sempre avuto il massimo rispetto, fin dai lontani tempi del '20, del '22!), invitandolo a dire
sinceramente quello che sapeva? La verit era che il costume politico odierno e cos dicendo
Sciagura guardava con intenzione verso Nino Bottecchiari, il nipote dell'onorevole, che non
abbandonava un momento l'aula era troppo peggiore di quello di una volta! E restava da dire,
ancora, un'altra verit: che se adesso si voleva condannare lui, era soprattutto perch aveva assunto
la reggenza della Segreteria Federale il giorno dopo l'assassinio del Console Bolognesi, non per
altro. Era per questo motivo, squisitamente politico, che si chiedeva adesso la sua pelle. Senonch
un tribunale serio, un tribunale regolare, un tribunale che non si fosse lasciato influenzare dalle
passioni di parte, avrebbe facilmente compreso, egli ne era certo, che quella benedetta carica di
Reggente lui l'aveva accettata, allora, soltanto per impedire a tanti estremisti, a tanti facinorosi
irresponsabili, di instaurare il regime del terrore. E difatti, quale era stato il primo provvedimento
che lui aveva preso non appena assunta la carica, se non quello di restituire senza indugio le salme
delle vittime alle rispettive famiglie?
Ogni tanto, a onor del vero, il Presidente si ricordava di interromperlo, richiamandolo blandamente
all'ordine. E lui pronto a obbedire, ogni volta, staccando subito le mani dalle sbarre della gabbia a
cui, parlando, finiva sempre con l'aggrapparsi convulso, a distogliere gli sguardi fiammeggianti dal
fondo della sala, e a sedersi di nuovo sulla panca, in fila con gli altri imputati, qualcuno dei quali
non dimenticava mai di stringergli la destra in silenzio Ma erano tregue, tuttavia, che duravano
poco. Perch alla prima parola del Pubblico Ministero che non gli andasse, o a qualche deposizione
testimoniale che ritenesse contraria alla verit dei fatti, o a un semplice mormorio del pubblico,
ovvero, soprattutto, al minimo accenno che si facesse a una sua attiva partecipazione alla
fucilazione della notte del 15 dicembre 1943, eccolo di nuovo scattare in piedi, tornare ad afferrarsi
alle sbarre con impeto selvaggio, e a levare nella sala quella sua voce pesante e sgradevole da
vecchio padrone che gli altoparlanti, di fuori, subito diffondevano per largo raggio sulla citt.
Fuori i testimoni!, urlava allora, come impazzito. Vediamo chi ha il coraggio di affermare
davanti a me una cosa simile!
Ma tacque, di colpo, la volta che vide farsi largo tra la folla, aggrappandosi con una mano al braccio
della moglie con l'altra a un grosso bastone nocchieruto dal puntale di gomma (le gambe, magre
come stecchi dentro i calzettoni delle brache alla zuava, gli uscivano, nello sforzo del passo in una
sorta di curiosi calci o falciate laterali), Pino Barilari in persona. Era stato Nino Bottecchiari a
suggerire per lettera alla Corte di interrogarlo, dopo che una specie di deputazione composta da lui
medesimo, dalla sindachessa Bettitoni, dal Federale comunista Alfio Mori, e dall'ing.
Sears del Partito d'Azione, recatasi apposta in farmacia per convincerlo a presentarsi in tribunale,
aveva dovuto, allo stesso modo che un tempo gli amici massoni del defunto dottor Francesco,
arrestarsi di qua dal retrobottega. Mio marito ammalato, a letto con l'influenza, aveva detto la
signora Anna, appoggiandosi stancamente allo stipite della piccola porta di l dalla quale, in una
penombra da cantina, si intravedeva la scaletta di ferro, a chiocciola, che conduceva di sopra: ma
con l'aria di scusarsi, per la verit (come si era sciupata, mio Dio, in quegli ultimi tempi: trascurata
nel vestire, senza rossetto, certe occhiaie d'insonnia: una donna di quarant'anni!), quasi che fosse
desolata di dover dire quella bugia. E subito, sicuro come sempre di aver compreso l'indispensabile,
Nino Bottecchiari aveva sorriso.
Lo stesso sorriso ironico, da diplomatico che veda gli avvenimenti dar ragione ai propri calcoli e

prendere la piega desiderata, aleggiava ora, in tribunale, sulle labbra del giovane Segretario
provinciale dell'ANPI mentre egli osservava, da buona posizione, L'effetto che l'ingresso in aula di
Pino Barilari aveva prodotto su Sciagura. Quest'ultimo si era tenuto zitto, difatti: immobile, come
affascinato, non staccava un secondo gli occhi dal farmacista, al quale e alla moglie si stava
cercando posto, frattanto, nel settore riservato ai testimoni. Si limitava a lisciarsi i capelli color
grigio-ferro con la mano destra, secondo un moto lento, uniforme, meccanico. E insieme pensava, si
capiva bene, non smetteva un momento di pensare.
Arriv il turno di Pino Barilari. Sempre sorretto dalla moglie egli si fece avanti.
Giur regolarmente, sebbene in un soffio.
Ma prima che, rispondendo alla domanda del Presidente, avesse pronunziato con chiarezza, quasi
scandendola, quell'unica parola: Dormivo, che d'un tratto, come la puntura di uno spillo in una
vescica gonfia d'aria, aveva risolto in nulla l'enorme tensione generale; proprio quando, un attimo
prima che aprisse la bocca, il paralitico aveva girato torno torno gli occhi spalancati (il silenzio era
assoluto, nessuno respirava: anche la moglie, al suo fianco, si era curvata ansiosa a scrutargli il
viso): proprio in quel punto, dal suo angolo, Nino Bottecchiari aveva veduto distintamente Sciagura
rivolgere a Pino Barilari - L'unica persona, a Ferrara che forse sapeva, L'unico testimone da cui
adesso dipendeva la sua libert, e magari la sua vita - qualcosa come una rapida, furtiva smorfia
propiziatoria: e un ammicco, gi, un impercettibile ammicco d'intesa.
Per dire l'ultima parola sulla questione fu necessario attendere ancora qualche anno, tuttavia. Nel
mentre, ognuno ebbe modo di riprendere il proprio posto. Pino Barilari alla sua finestra: ma
diventato aggressivo e ironico, adesso, con un binocolo da montagna sempre a portata di mano,
implacabile nella funzione che pareva essersi assunto di sorvegliante del passaggio lungo il
marciapiede di fronte. E tutti gli altri, i vecchi insieme coi giovani (Sciagura compreso,
naturalmente, per il quale il processo si era concluso con l'inevitabile assoluzione), ritornati a
dividersi, sotto, i tavolini e le seggiole del Caff della Borsa.
Nel '48, subito dopo le elezioni del 18 aprile, Anna Barilari abbandon la casa del marito e inizi le
pratiche per la separazione legale. La gente pensava che sarebbe tornata a vivere in casa del
maresciallo) Repetto, in famiglia: ma si ingannavano.
And a stare da sola, in un piccolo appartamento in fondo a corso Giovecca, dalle parti della
Prospettiva: due finestre a pianterreno che davano, difese da inferriate ricurve e sporgenti,
direttamente sul marciapiede. E bench avesse ormai quasi trent'anni, e all'aspetto, formosa come
era, ne dimostrasse anche di pi, ricominci a girare in bicicletta come una volta, quando si tirava
dietro i compagni di scuola pi fitti delle mosche, ed erano molti, in citt, che ancora se ne
ricordavano. Si era iscritta all'Accademia di Disegno (ci capit due o tre volte), portava maglioni
accollati che le mettevano in evidenza il petto prepotente, i capelli biondo canapa buttali dietro le
spalle, si tingeva in viso pi che mai. Voleva imitare le ragazze esistenzialiste di Parigi e di Roma,
probabilmente. In realt faceva la vita-assicurava chi era in grado di saperlo - e senza nemmeno
badare tanto per il sottile. Non sdegnava neppure - dicevano - di mettersi con qualcuno del forese
piovuto a Ferrara per il mercato del luned: e infatti per questo, il luned bazzicava cos volentieri
ristoranti e trattorie di San Romano!
Vero che ogni tanto spariva, per periodi di tempo che variavano da una settimana a venti giorni.
Altre volte, invece, eccola apparire con qualche amica di fuori. Facevano una settimana o due di
vita in comune, camminando a braccetto su e gi per corso Giovecca e corso Roma dalla mattina
alla sera, e suscitando ad ogni passaggio sotto il portico del Caff (l'altro marciapiede, quello
opposto, lo lasciavano ovviamente a Maria Ludargnani e alle professioniste di via Sacca e di via
Colomba), ondate sempre rinnovantisi di interesse. Chi era mai quella brunetta dagli occhi maliziosi
che l'Anna si tirava dietro? - si sentiva domandare da tutte le pari. Una bolognese? Una romana? Ma
quest'altra con gli occhi azzurri, i lineamenti fini ed esangui, le scarpette basse senza tacco e quasi,
pareva, senza suola, quest'altra, a meno che non fosse una straniera, francese, inglese o americana,

non poteva essere che una fiorentina!


Per sincerarsene, comunque, non mancavano mai i volonterosi che si spingessero la sera stessa fino
in fondo alla Giovecca, andando a battere discretamente ai vetri del noto appartamentino Non
sempre entravano, specie d'estate. Restavano spesso a conversare dal marciapiede, attraverso le
inferriate.
Di modo che a passare da quei paraggi intorno alla mezzanotte, non era raro scorgere tre o quattro
uomini sotto le finestre dell'ex signora Barilari (la luce del lampione pi vicino non raggiungeva il
davanzale su cui ella appoggiava i gomiti: ma i suoi capelli, sempre pi ossigenati, sembravano
splendere nell'oscurit per luce propria), fermi a parlottare nel buio con lei e con l'amica di turno.
Si trattava in genere di uomini fra i trenta e i quarant'anni, non pochi ammogliati e con figli.
Conoscevano Anna da quando era ragazza, alcuni erano stati addirittura suoi compagni di scuola.
Cosicch, pi tardi, quando verso l'una o le due tornavano a farsi vedere al Caff della Borsa, e
stanchi, accaldati, rimboccando le maniche delle giacche di tela, si buttavano a sedere attorno a un
tavolino: era parlando di lei, soprattutto, e non tanto della sua ospite d'occasione, che facevano
arrivare l'ora di andare a letto.
Non era davvero un carattere facile, quello dell'Anna! -sospiravano.
La cosa dipendeva forse dal fatto che fino a poco tempo prima era stata una signora per bene, e
perci si vergognava di darsi per denaro; o forse perch loro stessi non riuscivano a comprendere
per quale ragione avesse scelto di umiliarsi cos (questo voleva diventare: proprio una prostituta di
mestiere?): per una ragione o per l'altra - dicevano con lei non si sapeva mai che tono prendere. Si
offendeva per niente. A parlarle dal marciapiede, sbatteva ogni mo mento la finestra in faccia, salvo
per a riaprirla di l a qualche minuto per poco che uno, invece che stringersi nelle spalle, mandarla
al diavolo e andarsene per i fatti suoi, tornasse a bussare ai vetri e a fischiare. Ma anche a entrare in
casa, la musica non cambiava. Alla fine, per esempio, non era mai chiaro se bisognava o non
bisognava insistere perch accettasse qualcosa. E che dire dei lunghi preludi sentimentali (coi
mediatori di terreni e coi mercanti del luned era sperabile che fosse pi sbrigativa!), a cui veniva
obbligato ogni concittadino ed ogni ex compagno di scuola in particolare? Che dire del disagio che
procurava il suo chiacchierio fitto, continuo, instancabile? Stava ancora rivestendosi, magari, e gi
tornava a raccontare di s, di Pino Barilari (l'aveva lasciato, s, ma non prima di averlo affidato a
una governante), degli anni che aveva vissuto col marito nell'appartamento sopra la farmacia, delle
ragioni per le quali si era sposata, di quelle che poi l'avevano indotta a separarsi legalmente. Lei e il
marito, il marito e lei: non parlava di altro. Dopo che gli era venuta la paralisi - diceva - aveva
cominciato a tradirlo, si capisce, con questo e con quello. Lui era una specie di bambino, di
bambino malato; o una specie di vecchio. E lei giovane, invece, poco pi che ventenne La
confusione della guerra, con gli allarmi i bombardamenti, le paure di ogni genere, aveva fatto ii
resto. Ma gli aveva voluto bene, a lui: come a un fratello minore. Se lo tradiva, lo tradiva di
nascosto, con tutte le precauzioni che poteva, giusto perch lui non se ne accorgesse.
E nemmeno tanto di frequente.
Era cos tardi, quando si abbandonavano a riportare questi discorsi di Anna Barilari, corso Roma
talmente silenzioso e vuoto, che le loro voci risuonavano come in una sala. Pi che qualche fischio
di treno in distanza, e, ad ogni quarto i colpi che l'orologio del Castello lasciava cadere dalla cima
della torre di fronte, altro non si sentiva.
Una notte, verso la fine di agosto del '48 (ma parlava sottovoce, questa volta, levando ogni
momento gli occhi in su, come se temesse di essere ascoltato), uno di essi raccont qualcosa di
nuovo.
Poco prima - disse - egli si trovava con due amici comuni in casa dell'Anna Barilari. Quella sera
Anna era stata particolarmente noiosa. Tanto che a un certo punto, infastidito di udirla ripetere le
solite cose: Bel modo che avevi di voler bene a tuo marito, L'aveva interrotta. Gli volevi bene, e

poi andavi con chi ti faceva comodo. Sei sempre stata una gran pasticciona, va l!
Era accaduto il finimondo.
Vigliacchi! Spudorati! Uscite da casa mia!, si era messa a urlare.
Sembrava una furia. Anche l'altra ragazza, una di Modena, gridava che pareva la ammazzassero,
chiss perch.
Ma poi, a sentirsi chiedere scusa, si erano calmate tutte e due abbastanza presto. Ed ecco, pi o
meno esattamente, ci che era venuto fuori subito dopo dalla bocca di Anna.
A Pino lei aveva voluto sempre bene - ricominci a dire col tono lamentoso che le era abituale. Ed
anzi, fino a una certa data, L'accordo fra loro era stato perfetto.
Da quando non poteva pi camminare, egli passava le giornate alla finestra della stanza da pranzo,
risolvendo ad uno ad uno tutti i giochi della Settimana enigmistica e degli altri giornaletti del
genere, di cui era avidissimo.
Non aveva niente da fare: questo spiega perch in breve, a forza di esercitarsi, fosse diventato di
una bravura eccezionale in questo tipo di passatempi, con particolare riguardo delle parole
incrociate e dei rebus a frase E cos, per farle vedere come era bravo, talvolta si trascinava sulle
grucce fino alla scaletta a chiocciola che comunicava col retrobottega, e di lass, sporgendosi dalla
botola, si metteva a chiamarla: Anna, Anna!: con tanta impazienza e insistenza che lei, per
quietarlo, doveva piantare immediatamente la cassa, salire di sopra, e aspettare che lui, mostratole il
problema, alfine si decidesse, con gli occhi che gli brillavano di orgoglio, a rivelargliene la
soluzione.
Era lei che gli faceva le lunghe serie di iniezioni a cui, per la malattia, doveva spesso assoggettarsi.
Lei che lo metteva a letto ogni sera, prima delle nove. Che importanza aveva se non dormivano pi
assieme? C'era proprio bisogno di dormire assieme, per volersi bene? Lui non ci aveva mai tenuto
molto, del resto, anche prima della malattia: da pensare anzi che in certo modo fosse contento,
allora, di tornarsene nella cameretta dove stava da ragazzo.
No, due potevano benissimo dormire insieme, eppure non amarsi affatto!
Era stato comunque a partire dalla notte del 15 dicembre 1943 - la notte famosa dell'eccidio,
precisamente che tutto, fra loro, era cambiato di colpo.
Dopo averlo messo a letto come ogni sera, lei era uscita di casa contando di essere di ritorno al
massimo di l a un'ora (con la scusa della farmacia, si era fatta fare un salvacondotto valido anche
per eventuali coprifuochi). Non era passata nemmeno mezz'ora, invece, che era cominciata quella
gran sparatoria per le strade: sparatoria che l'aveva costretta a rimanere nella casa dove si trovava la casa di un tale, eh gi, inutile fare nomi! - fino alle quattro del mattino successivo.
Cessati gli spari, si era precipitata subito fuori. Aveva risalito la Giovecca, completamente deserta,
tutta di corsa.
Soltanto quando era arrivata all'angolo di corso Roma si era fermata un momento per riprendere
fiato. E mentre sostava, affannata, sotto un arco del portico del Teatro Comunale, proprio di l, ad un
tratto, ammucchiati lungo il marciapiede di fronte alla farmacia, aveva veduto i morti.
Ricordava perfettamente ogni particolare della scena, come se la vedesse ancora. Corso Roma
deserto sotto la luna piena; la neve, indurita dal freddo, sparsa come una specie di polvere brillante
su ogni cosa; cos chiara e trasparente l'atmosfera da poter leggere le ore all'orologio del Castello, l
sopra - le quattro e ventuno, esatte -; e i cadaveri, infine, che dal punto dove lei li guardava
assomigliavano a tanti fagotti di stracci, e invece erano corpi umani, l'aveva capito subito. Senza
sapere quello che faceva, come affascinata, si era staccata dal portico del Teatro Comunale,
avanzando in direzione obliqua verso di loro, allo scoperto.
Fu a mezza strada, quando oramai, in piena luce, si trovava a non pi di cinque o sei metri dal

primo gruppo di fucilati, che il pensiero di Pino le aveva attraversato improvvisamente la testa.
Allora si era voltata, di scatto.
E Pino era lass, immobile dietro i vetri della finestra della stanza da pranzo: un'ombra appena
visibile che la guardava.
Erano rimasti cos, a fissarsi per qualche secondo. Lui dall'oscurit della stanza, lei dalla strada. E
intanto pensava: che cosa faccio, adesso?
Finalmente si era decisa a entrare in casa.
Mentre saliva la scaletta a chiocciola, cercava di pensare a ci che avrebbe potuto dire. In fondo non
sarebbe stato difficile inventare una bugia qualsiasi, e fare in modo che Pino ci credesse. Era un
bambino, in fondo, e lei la sua mamma.
Senonch lui non le aveva permesso di dire nessuna bugia, quella volta. Nella stanza da pranzo,
quando vi era entrata, Pino non c'era pi Si trovava bens nella sua cameretta, a letto, col viso
rivolto verso la parete, le coperte tirate fin sopra le orecchie; e a giudicare dal modo come respirava,
si sarebbe detto che dormisse. Svegliarlo, gi: questo avrebbe dovuto fare! Ma se poi dormiva sul
serio, ed ella, poco prima, dalla strada, non avesse avuto che un'allucinazione? Era possibile.
Nel dubbio, aveva richiuso adagio la porta ed era andata a gettarsi sul letto, in camera sua. Pensava
che tra poche ore, se non dalle labbra di Pino, almeno dalla sua faccia avrebbe saputo la verit. E
invece niente. Non una parola, da parte sua, non uno sguardo che le permettessero di capire. N
quella mattina, n mai.
E perch tutto questo, perch? Se era sveglio, quella notte, perch non aveva mai voluto
ammetterlo, nemmeno in tribunale? Aveva paura? Ma di chi o di che, con precisione? In apparenza
non era mutato nulla, nei loro rapporti.
Eccetto che da allora, dopo il processo, essendogli venuta la mania del cannocchiale, passava le
giornate cos, sorvegliando il marciapiede di fronte, ridacchiando e borbottando tra s: senza pi
chiamarla di sopra, come usava una volta, per farle vedere come era bravo a risolvere i rebus a
frase.
Era diventato pazzo? Poteva darsi, con la malattia che aveva. Ma d'altra parte: come era mai
possibile continuare a viverci insieme, senza che a poco a poco, anche lei, finisse con l'impazzire?

FINE

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