Sei sulla pagina 1di 147

GINO CORNALI

UN FANTE LASS
Ai Morti e ai vivi del mio battaglione

I. DAL TICINO ALL'ISONZO (giugno-settembre 1915) E finalmente un giorno a Pavia vidi affisso all'angolo del Demetrio il manifesto della mobilitazione. Fra gli studenti non ci furono, in genere, dei saluti molto espansivi. Qualche bicchierata; qualche evviva alla stazione : e basta. Io arrivai a Bergamo, a casa mia, per l'ora del pranzo. La mamma non aveva ancora scodellata la minestra. Mi aspettavano. Mi accolsero con tenerezza. Il pap era piuttosto allegro. Diceva che l'entrata in guerra dell'Italia avrebbe abbreviata la durata delle ostilit; era pronto a scommettere che a Natale tutti saremmo stati di ritorno. Diceva poi forse per consolare la mamma che gli studenti di lettere sarebbero stati usati come ufficiali nei grandi Comandi. La mamma non diceva niente; ma non credo che condividesse tanto ottimismo, perch ogni tanto sorprendevo i suoi grandi occhi neri che mi guardavano con sgomento. Forse, in quei giorni, solamente le mamme presentivano la verit della guerra. Dopo pranzo uscii in cerca d'amici. Il Sentierone era affollatissimo: nei caff tutti i tavoli occupati. Ogni tanto qualcuno saliva sopra una sedia e diceva ad altissima voce delle parole che scatenavano salve di applausi. Sul viale della funicolare, dove m'ero rifugiato, incontrai il mio amico Vittorio. Mi confid che l'indomani all'alba sarebbe partito coi volontari ciclisti. Restai per un attimo a pensare che forse era quello il mio dovere: non attendere il corso degli allievi ufficiali annunziato dal proclama di mobilitazione, e partire subito, come soldato. Non seppi decidermi. Mi pareva quasi un tradire il destino: il mio destino; e, insieme;, un atto di superbia. Io non credevo che la guerra fosse Cosi breve come assicuravano tanti. E se agli studenti universitari era riservato il compito di comandare i plotoni dei soldati, in nome di che cosa e di chi avrei dovuto sfuggire a questo compito e a questa responsabilit ? " Accompagnai Vittorio fino alla sua casa, lo abbracciai forte, lo baciai senza dirgli nulla ; poi lo stetti a guardare mentre attraversava il breve giardino. Alla porta si volse, lev le due bracci, e, sottovoce, mi grid: "A Trieste!". Ritornandomene a casa, solo, pensavo che quel grido non poteva essere stato sincero, e che un amico come lui avrebbe dovuto trovare un'altra parola di commiato, oppure tacere, come avevo taciuto io. Sentivo che era gi incominciata, prima ancora della guerra, la retorica della guerra; e mi pareva di soffrirne come se offendessero in me un pudore nascosto. Nella sala da pranzo, sotto la lampada a gas, la mamma fingeva di

avere un gran daffare davanti a una piccola cesta di biancheria. Il pap era andato al caff, l mia sorellina dormiva. Mi sedetti al tavolo, di fronte alla mamma, e accesi una sigaretta. Le raccontai di Vittorio. Mormor : Povera madre! La rimproverai con dolcezza, esortandola a pensare anche a quell'altra madre, l'Italia, che aveva bisogno di tutti i suoi figli. Chin la testa sopra una calza nera, e non mi rispose. Quando fui a letto, venne nella mia stanza, mi rimbocc le coperte, mi baci sulla fronte, mi bened e poi, all'uscio, si volse e mi mand un altro bacio sulla punta delle dita, tentando di sorridermi. La mattina dopo, alle, sei, mi presentai alla caserma Umberto I. Eravamo un centinaio, e quasi tutti studenti. Ci rinchiusero in uno stanzone, con una pagnotta e una bracciata di paglia fresca, e fino a sera nemmeno un caporale si cura di noi. Ore lunghissime e calde, piene di pocher, d'inquietudine e d'umiliato dispetto. A sera s'ebbe la libera uscita, con l'impegno di ripresentarci l'indomani all'alba. A casa la pagnotta ottenne un vivissimo successo. Maria giur ch'era migliore del pane; il pap la trov saporitissima e sostanziosa; solamente la mamma scosse la testa scontenta. Ancora una notte nel mio soffice letto. La mattina, nel cortile della caserma, ci misero per quattro e ci tennero fermi, sull'attenti, fino a che comparve un capitano secco e arcigno che ci guard in faccia, uno per uno, con provocante disdegno e poi ci tenne un breve discorso durante il quale trov il modo di avvertirci che la nostra qualit di studenti non ci impediva di essere pi zotici e asini dei coscritti analfabeti e che se fosse dipeso da lui le cose sarebbero andate diversamente. Come, non lo disse; e se ne and in malo modo, borbottando chiss che cosa. E allora fu la volta d'un piccolo sergente dai polsini lunghi un miglio e dai capelli impomatati, che ci avvis che la sera stessa sessanta di noi sarebbero partiti per Modena. Per mia fortuna, fui tra i sessanta. Alla stazione non volli nessuno; neanche la mamma. Per vincere la sua insistenza le dissi che mi avrebbe fatto un regalo se, all'ora della mia partenza, fosse andata a pregare nella chiesetta di Sant'Antonio, dove, per tanti anni, quand'ero bimbo, l'avevo accompagnata alle funzioni serali del mese di maggio. A Modena mi tagliarono i capelli, mi insaccarono in una divisa di tela grigia, e mi assegnarono alla XIVa Compagnia, alle Scuole Cmpori. Due mesi di scuola ed uno di campo, ai Bagni della Porretta. Dalla pi illimitata libert goliardica alla disciplina rigida dell'Accademia. Ma i nostri istruttori non dovettero faticare molto per insegnarci ad ubbidire senza discutere; e, in capo ai tre mesi, ognuno di noi sapeva comandare il plotone, camminare otto ore con lo zaino affardellato sulle spalle, superar

d'un balzo un fossato di tre metri, strisciar per terra come una biscia e tenere il libro di contabilit della compagnia. Non era ancora la guerra, naturalmente; era un po' di caserma e un po' di piazza d'armi. Ma la guerra, ce l'avrebbero insegnata i fanti che ci aspettavano lass. Il 12 settembre il corso fin; e partimmo tutti per qualche giorno di licenza, in attesa della nomina. *** A casa, volli subito vestire la fiammante uniforme d'ufficiale, anche se sul colletto non potevo fissarmi nessun genere di mostrine e nessun numerino d'argento potevo inserire nel trofeo del berretto. Ma quella giubba attillata, quei gambali lucidi, quella lunga sciabola brunita, quei guanti bianchi, esercitavano un fascino cos irresistibile sulla mia vanit che stetti in divisa per quanto dur la licenza: dodici giorni. Eravamo in campagna, a Donate. Ogni mattina arrivavano notizie di morti e di feriti. Le cascine diventavano sempre pi silenziose. Se qualche ragazza usciva all'improvviso a cantare, la si guardava tutti con meraviglia; e il suo canto cessava di botto. Prima di partire volli passare una giornata a Milano, in casa di una mia bella amica : forse troppo di lusso per la mia acerba inesperienza. Non so che cosa sperassi, salendo le lucide scale di quella casa. Forse un po' di tenerezza, forse un po' d'amore. Contavo molto anche sulla elegante uniforme che vestivo. Infatti fui accolto con una dolce effusione, quasi portato, tra quelle braccia profumate, nell'angolo del salotto, fatto sedere sul divano morbidissimo, vicino vicino a lei, con la sua testa sulla mia spalla. Ma non avevo ancora aperto bocca che capit un signore, piuttosto anziano, elegantissimo, che mi saluto distrattamente ; e non mi ci volle molto per capire d'essere importuno. Feci l'atto di congedarmi; non fui trattenuto. E sulla soglia quel signore, come se si accorgesse solo allora della mia divisa, stringendomi la mano con una curiosa cordialit, mi disse : Sottotenente di complemento? Mi sembra un ragazzo. E pensare che siamo di fronte a un candidato al Paradiso! Lei mi saluto con affettuosa indifferenza, e la porta sbatt forte alle mie spalle. Scendendo dalle scale mi sentivo un gran vuoto al cuore e una punta d'amarezza che me lo trafiggeva come una spina.: E che desiderio d'una bocca che mi baciasse, di due mani che mi accarezzassero con dolcezza sui capelli. Con dieci lire quell'ansia, forse, avrei potuto quietarla; ma temetti che l'amarezza sarebbe stata, dopo, anche pi acuta; e ritornai a Bonate in fretta. L'ultima sera,; a pranzo coi miei, riuscii con la mia allegria a tener sereni tutti; e a un certo punto anche la mamma sorrise : appena appena,

ma sorrise. Dopo pranzo, vennero le zie e degli amici a salutarmi. Si parl di guerra; ognuno disse la sua; si fin per concludere che c'erano novanta probabilit sopra cento che a Natale la guerra fosse finita. Nella mia stanza, quando fui solo, pensai che non avrei potuto dormire e che era arrivato il momento di salutare i miei libri, le mie carte, la mia adolescenza; ma non avevo ancora messo il capo sul cuscino che ero gi addormentato profondamente. La mattina all'alba fu la mamma a svegliarmi. Sentii che pioveva. I passeri pigolavano sugli alberi del giardino. La mamma era pallidissima, col viso solcato da rughe che non le avevo mai viste. Ma non piangeva. Mi sugger piano piano un'Avemaria; poi mi accompagn in cucina, tenendomi per un braccio, mi prepar in silenzio il caff. Credevo che mi volesse parlare; certo lo voleva, come volevo anch'io; ma non sapevamo, n lei n io, che cosa dire e da che parte incominciare. Stai attento a non perdere il treno. E gi ora? Quasi... meglio che tu parta. Allora... L'abbracciai: forte, fortissimo. Le mani della mamma mi si avvinghiarono dietro alle spalle. Non prendere freddo... Sei cos facile ai raffreddori... Stai tranquilla, mamma. Tienti riparato, e... qualche volta d una preghiera... Te lo prometto, mamma. ...alla Madonna... Lei stata Mamma, e sa... Mi sciolsi, forse un po' bruscamente. Uscii. Il cielo nuvoloso schiariva. La carrozzella era pronta davanti al cancello. La mamma volle lei aiutare il vetturale a issare la mia cassetta d'ordinanza sul serpino ; e mi parve che sollevasse una cassettina da morto. Mi toccai, con un brivido, le due stellette sul colletto. Ancora un abbraccio. Partii. Sentii la mamma gridare, a voce bassa, il mio nome. *** Deposito Rifornimento Uomini a Modena. Mi avevano assegnato a una compagnia di reclute; ma l'istruzione era affidata ad ufficiali effettivi che sapevano i regolamenti a memoria e conoscevano la piazza d'armi almeno quanto io, tre mesi dopo, dovevo conoscere la trincea. Per due giorni mi annoiai mortalmente, avvilito di quell'inerzia che mi pareva un umiliante castigo. Sapevo di tanti camerati partiti verso i reggimenti di prima linea direttamente; e non riuscivo a spiegarmi perch mi avessero assegnato a Modena. Finalmente un

pomeriggio fummo chiamati d'urgenza al Comando. Corremmo. Ci radunarono in uno stanzone. Un capitano diede l'attenti e un colonnello raccolse il nostro giuramento. Uno per uno, dovemmo presentarci davanti a lui e, sguainata la sciabola, fare un grande saluto e poi pronunciare la formula di rito. Ero imbarazzato come davanti a una commissione d'esami e trepidavo per quel saluto colla sciabola, che finii diffatti per infilare nel tappeto rosso del tavolo. Quando la cerimonia fu compiuta, il colonnello, da quella sfinge che era stato fin l, si trasform di botto; e con voce vibrante, il viso congestionato d'emozione, ci grid che lass occorrevano d'urgenza ufficiali; ma, prima d'estrarre a sorte i candidati alla partenza, che gli pareva una cosa umiliante, domandava chi era pronto a partire. Eravamo un centinaio; ci facemmo avanti in sette. Il colonnello divent pallido e attese qualche minuto. Nel silenzio di tomba che era seguito, nessuno osava muovere un dito. Mi pareva che fosse successo qualche cosa di irreparabile, e sentivo la gola stretta da un'emozione angosciosa. Avrei giurato che il colonnello sarebbe scoppiato in una furibonda imprecazione. Non disse nulla. Si irrigid; poi con voce dura, tagliente, si rivolse, ai sette : Sta bene. Si presentino al Magazzino vestiario e poi all'aiutante maggiore. Gli altri tredici che occorrono, li sceglieremo... (esit un attimo)... dal mucchio E usc. Partimmo l'indomani mattina. E nessuno che ci salutasse alla stazione! Eravamo vestiti come i soldati, con una stelletta d'argento sul braccio, e una pistola automatica appesa al cinturone. La diagonale, la sciabola, i gambali lustri e il berretto erano rimasti a Modena, con la fascia azzurra del giuramento. Eravamo allegri come ragazzi in vacanza. A ogni stazione delle signorine ci offrivano arancie, cartoline, caff, panini imbottiti di prosciutto; ci mandavano dei baci sulla punta della mano. Pigiandoci ai finestrini gridavamo come ossessi, ricambiando quei baci, maledicendo al treno che non ai fermava abbastanza o ripartiva proprio quando sarebbe stato cosi bello scendere e correre verso quelle mani che si agitavano, quelle figurine bianche che parevano risplendere nel tumulto nero della folla e dei treni. A Cervignana, in un ufficio, un ufficiale colle pipe rosse sul collo della giubba, ci borbott il nome d'un paese: Armelino. Avremmo dovuto raggiungerlo al pi presto. Uno domand: Ci si va sin treno? L'ufficiale dalle pipe rosse sogghign e rispose : S, in vagoneletto. Un piantone fu pi cortese, e ci insegn che Armelino erano poche case, a qualche chilometro da Cervignano, dove era accampata una

Divisione di fanteria. Armelino. In fondo a una strada campestre sconciata dal fango c'era una casetta colla porta aperta. Fuori, dei soldati andavano e venivano indaffarati. La campagna pareva spenta sotto un cielo basso di nuvole fitte. Venne un sergente con una gran cravatta bianca che gli strozzava il collo roseo e ci squadr, sull'attenti: Loro desiderano? Siamo stati mandati qui dal Comando tappa di Cervignano. Scomparve. Dopo qualche minuto ritorn. S'accomodino. Dentro, seduto a un tavolino sgangherato, c'era un capitano colla fronte fasciata. Rispose freddamente al nostro saluto, e poi lesse, sopra un foglio di carta, i nostri nomi, aggiungendo un numero ad ogni nome. A me tocc il 117. Quand'ebbe finito, fece un gesto con la mano per congedarci e precis: I reggimenti sono accampati tutti qui intorno. Vadano a raggiungerli; e buona fortuna. Uno di noi os domandare se non era possibile che fossimo assegnati tutti allo stesso reggimento. Il capitano si strinse nelle spalle, seccato, e fece: Le assegnazioni non dipendono da me. Poi si curv sulle poche carte che gli stavano davanti. Fuori dalla Casina ci salutammo. Il sergente di prima mi aveva avvisato che il mio reggimento aveva le tende nei campi li attorno. Restai un pezzo sulla strada a guardare i camerati che si allontanavano in silenzio; poi mi avventurai nei campi, affondando fino alla caviglia nelle zolle fanghigliose. Arrivai a un gruppo di tende chiare. Alcuni soldati, sdraiati sull'erba contro una siepe, mi additarono, senza alzarsi, il comando del reggimento : una baracca in fondo a un campo di meliche mozze. Pareva vuota, se non fosse stato il picchiettare d'una macchina da scrivere. Entrai titubando. Lei chi ? Mi voltai di scatto. Era un capitano alto, pallido, con due battelli neri sul labbro e gli occhi canzonatori. Mi presentai. Ah, un complemento!... Benone. Vada pure a raggiungere la prima compagnia. Al colonnello si presenter pi tardi, alla prima occasione. Girai tra le tende a cercar la mia compagnia. I soldati stavano seduti per terra e tenevano quasi tutti la faccia chinata sopra la camicia spiegata sulle ginocchia, esaminandola con un'attenzione meticolosa. Al mio passaggio levavano la testa a guardarmi con curiosit e poi accompagnavano la mia penosa marcia nel fango con delle frasi di cui non afferravo bene il senso ma che erano senza dubbio suggerite dal mio

atteggiamento tremendamente matricolino. La tenda del capitano della prima compagnia? domandai a un soldato. Me l'accenn. Era aperta. Il capitano, piccoletto, tarchiato, con una barbetta nera ben curata intorno al mento, era seduto sopra la branda, con un fiasco stretto fra i piedi e le mani occupate una da un enorme pane imbottito, l'altra da una grossa ciotola colma di vino. Mi accolse con rumorosa cordialit, mi offr del prosciutto, del vino, del pane, del cioccolatte, meravigliandosi e quasi scandalizzandosi ch'io non volessi bere "a digiuno". Fiol d'un can! Se il momento migliore per bere! Lo stomaco innocente, la mente freschissima... Su su, da bravo. Non faccia storie. Non feci storie, da quel buon bergamasco che son sempre stato. Poi volle sapere di me, miei miei studi, della mia famiglia. Studente in lettere? Benon. Siamo quasi colleghi. Io sono maestro, nelle scuole comunali di Padova. Ventidue anni di onorato insegnamento. S, non c' male. A proposito, e... politicamente, di che colore siamo? Non stia a turbarsi. Io capisco tutto e comprendo tutto. Interventista. Va ben, questo. Adesso, son tutti interventisti: di tutti i colori. Ma prima? Non sapevo che cosa rispondergli. Egli mi confid d'essere un democratico anticlericale e che la guerra era per lui una specie di crociata contro il militarismo rappresentato dalla Germania e contro l'oscurantismo clericale rappresentato dagli austriaci. Finalmente, mi parl della compagnia. La migliore del reggimento, a sentirlo, tutti "fioi de cani", ma buona gente e dal fegato sano. A Bosco Cappuccio, pochi giorni innanzi, avevano fatto miracoli. Buoni anche i tre subalterni : due aspiranti venuti freschi freschi dal corso allievi ufficiali del Corpo d'armata, e provenienti dai sottufficiali, e un sottotenente effettivo, "un po' borioso, di quelli che stan solo a la forma : un pignolo da caserma, insomma. Ma, vedr, buon ragazzo, in fondo, anche lui. Basta lassarlo dir e lassarlo far...". Poco dopo, alla mensa del battaglione, ch'era in una cascinetta mezzo diroccata in fondo all'accampamento, mi presentai al maggiore e agli altri ufficiali. Il maggiore, un uomo basso e grosso, con un cespuglio di baffi rossicci sotto il naso e gli occhietti brillanti, mi accolse con fredda benevolenza, come se il darmi la mano e l'augurarmi il benarrivato fosse per lui nient'altro che un dovere professionale. I tre capitani delle altre compagnie non furono certo pi espansivi; solamente la subalternaglia rumoreggi festosa, pensando alle bottiglie di spumante che avrei dovuto offrire. Il mio capitano mi seguiva, mentre andavo presentandomi agli

ufficiali, con occhio attento ed affettuoso, pronto a sorridermi s'io mi imbattessi nel suo sguardo. Durante la colazione mi pareva d'avere come un groppo alla gola, e duravo fatica a mangiare, ad onta che l'appetito non mancasse. Pensavo che in quel momento, nella mia casa di Bonate, c'era la mamma, col pap e la mia Maria, seduti intorno alla tovaglia bianca su cui non mancava mai un piccolo mazzo di fiori; e mi guardavo in giro; e non vedevo che faccie ignote, estranee, forse ostili, e dei sorrisi ironici; e non sentivo che discorsi lontani dalla mia vita, pieni di oscuri significati, o ripugnanti al mio istintivo pudore. Fu un piccolo tormento che il pensiero di dovermi poi presentare al mio plotone rendeva anche pi inquieto. Speravo che fosse almeno il capitano a condurmi davanti ai miei sessanta uomini; invece, dopo colazione, il collega "pignuolo da caserma", pi anziano ed effettivo, mi trasse da parte con un certo sussiego, e mi avvis che dovevo recarmi all'istruzione, in un prato dietro l'accampamento, dove, preso contatto col mio plotone, avrei fatta l'adunata della compagnia per presentargliela in ordine quando fosse arrivante. I due aspiranti avevano avuto un giorno di permesso. Sul prato, i soldati formicolavano di qui e di l senz'ordine, quelli distesi sull'erba, questi raccolti in crocchietti ed acquattati a terra intorno a qualcuno che raccontava o leggeva. Il mio arrivo fece cadere di botto tutti i fitti conversari. Sentii gli occhi di duecento uomini che tornavano dalla trincea addosso a me. Quasi subito un sergente maggiore mi venne incontro di corsa, mi si piant davanti sull'attenti: Raduno la compagnia? S, faccia l'adunata per plotoni. Dov' il secondo ? Il sergente maggiore chiam forte : Sergente Rosa! Il sergente Rosa accorse, prese gli ordini, mi radun il plotone in fondo al prato. Immobili, davanti a me. stettero i miei sessanta soldati. Molti avevano la barba, parevano vecchi come mio padre. Qualcuno portava sul petto il nastrino azzurro d'una decorazione. Mi guardavano con attenta seriet, forse con diffidenza. Venivo dalla "Scuola"; avevo vent'anni; potevo, di qualcuno, essere il figliolo; non avevo ancora vista la trincea; non sapevo della guerra se non quello che mi avevano insegnato alla "scuola" o che avevo letto sui giornali : nulla. Peggio : delle ridicole teorie o delle sciocche descrizioni. Bisognava che io parlassi, e avevo paura della mia voce. Mi pareva che tutto sarebbe dipeso da quelle prime parole che avrei detto. Trangugiai la saliva, e dissi forte: Riposo. Il plotone s'allent ; qualche mormorio lo percorse punteggiato da due o tre brevissimi sorrisi. Nessuno mi levava gli occhi di dosso. Ma c'era, su quei visi rudi dove la trincea aveva steso come un'ombra color di terra, qualcosa che mi pareva un principio di simpatia. Fra il "pignuolo da

caserma" e gli ex-sottufficiali, io ero per loro, forse, l'ufficiale borghese che sa perdonare tutto perch non conosce troppo i regolamenti e fa la guerra colla fotografia della mamma sul cuore. De Amicis? Che importa, pur che si sappia tener duro? Me li feci seder sull'erba, intorno: ed io, in piedi, in mezzo a loro, incominciai a parlare. Poi li interrogai : sulle loro famiglie lontane, sulle loro case, sui loro campi. Erano quasi tutti contadini, e quasi tutti avevano moglie e figlioli. Qualcuno si frug sotto la giubba : uscirono delle fotografie, delle lettere, in mezzo a delle immagini di santi. All'improvviso una voce secca mi chiam. Era il "pignuolo da caserma" che stava osservando l'idillio poco lontano. Accorsi. Mi preg di mettermi sull'attenti; pari grado, s, ma pi anziano. No, caro Cornali, non va. Dovevi adunarti il tuo plotone per l'istruzione e non per passare in rivista le fotografie dei soldati. Queste sono abitudini che fanno ridere. Finirai per farti prendere in giro. E al momento buono ti spareranno nella schiena. Ad ogni modo, adesso, raduna la compagnia e presentamela. E che tutti i plotoni siano bene allineati, e un attenti perfetto, mi raccomando. Vai pure! La sera, dopo la mensa ma io avevo gi incominciato ad avvicinarmi ai colleghi e ad interessarmi alle conversazioni che si intrecciavano intorno a me in sei o sette ci avviammo, sotto la luna, per una strada solitaria, fra due alte siepi, e incominciammo a parlare dell'Italia, e delle nostre citt e delle nostre ragazze. Io non l'avevo: l'inventai; e non fui, forse, il solo. Poi cantammo. Io aveva una discreta voce di tenore; a un certo punto fui solo a cantare, in mezzo ai colleghi, " Me ne vogl'i in America...". Quand'ebbi finito, un aspirante napoletano sospir: Peccato che tu non sia napoletano! Eravamo arrivati a una svolta, e l, per un largo squarcio della siepe, si vedeva tutto il cielo, fino all'orizzonte. C'era una bassa fascia bruna, laggi, dove s'aprivano, con un brontolio di tuono, dei brevi lampi rossi, quasi sanguigni. Vedi? Quello il Carso. E queste son cannonate. Deve esserci qualche cosa di nuovo al Sei Busi. Mi pare pi in gi, verso Doberd..., Io ero ammutolito, e guardavo con un'emozione nuova quella fascia e quei lampi. La guerra. La guerra vera, finalmente. Ma non riuscii pi a cantare. E allora i colleghi mi riportarono alla mensa, mi fecero bere dell'acquavite; uno di di piglio a una chitarra e un altro, sull'aria del "Sor Capanna", improvvis una canzone dove si diceva d'uno studente interventista che si meravigliava perch alla guerra si sparavano delle cannonate.

" cos indiscrete " che qualche volta posson far del male... " La mattina dopo, con altri sottotenenti arrivati in quei giorni al reggimento, fui presentato al colonnello. Il gran rapporto degli ufficiali dei tre battaglioni avvenne in una baracca che qualcuno aveva, per l'occasione, tappezzata di tricolori. Si festeggiava anche la recente promozione del nostro maggiore, e ci volle del bello e del buono per ottenere un po' di silenzio da quella piccola folla di ufficiali. Il colonnello, un bell'uomo dai capelli bianchissimi e dal viso roseo e fresco di fanciullo, ci guardava con un sorriso affettuoso, quasi con tenerezza. Il tenente pi anziano, il capo gallotta, pronunci un brindisi con molta seriet e fervore, ma non arriv fino in fondo perch la memoria lo trad sul pi bello, e la perorazione fu sostituita da una specie di singhiozzante invito a bere alla salute del colonnello. Parl anche un capitano, poi un maggiore, e finalmente il colonnello. Anche la subalternaglia lo stava a sentire con piacere e con una punta di commozione. A un certo momento un colpo secco, contro la parete della baracca, e un improvviso rovinio d'assi scheggiati interruppero le parole del colonnello. La massa degli ufficiali ondeggi, qualcuno usc di corsa. Un altro colpo, che mi parve scoppiasse in fondo a una fulminea ventata. Un grido. Erano granate austriache. Non riuscivo a spiegarmi come mai gli austriaci bombardassero, e da dove, proprio la nostra baracca: e non riuscivo nemmeno a capire se ci fosse o non ci fosse del pericolo. Il colonnello sciolse bruscamente l'adunata, e se ne and, coi tre maggiori e il suo aiutante. Quando mi pass vicino rispose sorridendo al mio saluto e, senza fermarsi, fece: Il suo battesimo del fuoco, tenente. Mi avviai verso lo tende della mia compagnia, insieme coi due aspiranti, che erano tornati dal permesso. Parlavo forte, con disinvoltura, ansioso che i colleghi vedessero la mia perfetta indifferenza di fronte a quel pericolo che mi pareva cos lontano ed incerto. Ma ecco ancora la secca fulminea ventata, lo schianto lacerante. Mi trovai disteso per terra, sul fango secco, con la faccia contro un sasso. Un impeto di vergogna mi trasse in piedi di furia : giusto in tempo per vedere i due colleghi che facevano, con minor precipitazione, la stessa cosa. Davanti alla mia umiliata meraviglia sorrisero e uno comment : Ha imparato subito la mossa. Il bombardamento dur fino a mezzogiorno. Sul tardi vennero a ronzare sopra l'accampamento due aeroplani, altissimi. Parevano due tenui libellule color di sole, con un puntino nero sotto il ventre, come quei pidocchi che avevo gi trovato, il mattino, sulla mia camicia. A mezzanotte levammo, in fretta e furia, le tende, e l'intera brigata si avvi sotto la luna, per una strada che pareva andasse parallela alla gradinata del

Carso. Il capitano mi spieg che si trattava di una falsa marcia, per ingannare il nemico : tanto era vero che si poteva persino fumare. Camminammo fino all'alba. Al primo sole le compagnie si dispersero all'addiaccio per la campagna, dentro i fossati, dietro le siepi, all'ombra di qualche cascinale. Per tutto il giorno il brontolio lontano delie artiglierie parve tumultuare in sordina sopra il Carso; ma nessuno ci faceva gran caso, intorno a me; ed io mi sforzavo di nascondere quella strana, sottile inquietudine che mi teneva. A volte mi pareva come d'essermi sdoppiato; e che te mie parole e i miei gesti e la mia chiassosa allegria fossero d'un altro e che io mi fossi tutto rifugiato e nascosto in una lucida e vigilante tensione cui non sfuggiva il pi piccolo di quei tuoni lontani. Alle prime ombre della notte, zaino in spalla e in marcia verso l'Isonzo. Piovigginava. Il cielo era nero di nuvole. Divieto rigoroso di fumare e di parlare. I soldati camminavano pesantemente strascicando gli scarponi per terra. Io marciavo in testa al mio plotone e aveva accanto il mio attendente, Grillo. Davanti, nel buio, vedevo la sagoma oscura dell'ultimo uomo del primo plotone. A un certo punto lasciammo la strada e piegammo nei campi; e allora l'oscurit divenne anche pi profonda. Qualcuno inciampava nelle zolle dure, o contro i ciuffi tenaci delle meliche mozze; e s'udiva allora una bestemmia soffocata seguita da un basso crepitio di risate. Avevo paura di perdere il collegamento e di non sapermi poi orientare nella campagna, con quell'oscurit, e camminavo addosso all'uomo che mi precedeva, voltandomi ogni tanto per esortare i miei uomini : Sotto, sotto, ragazzi. Una volta, a una di queste mie esortazioni, sentii una voce rispondere: Solo... che andaremo tuti sototera. Il bombardamento, sul Carso, era caduto. Non pioveva quasi pi. Ma dal cielo nero scendeva l'alito umidiccio e gelido delle nubi. Ci avventurammo su l'Isonzo sopra una stretta passerella oscillante. Il fiume, gonfio, passava gorgogliando, con dei fuggenti balenii color d'acciaio, un metro sotto di noi. Io mi tenevo aggrappato alla corda metallica tesa lungo la passerella, e pensavo che, se per un incidente qualsiasi, fossi caduto in acqua, nessuno mi avrebbe salvato. All'improvviso un riflettore si accese in fondo all'orizzonte, e incominci a frugare nella notte come se ci stesse cercando. Io seguivo quel lungo fascio di luce con un'ansia indicibile. Pensavo "se riesco a fare ancora dieci passi senza che il riflettore ci abbia colti, siamo salvi". Ci colse in pieno: e fu come se un fiume di luce abbacinante stravolgesse. Ristemmo impietriti a un ordine secco che ci venne dall'altra riva, dove un battaglione era gi passato. In quel chiarore spietato avevo l'impressione d'essere ignudo

contro un nemico che mi stesse prendendo di mira. Pigiati l'uno contro l'altro eravamo, sulla passerella che oscillava cigolando. Voci e comandi si intrecciavano nella notte. Avanti, gridai verso la testa della colonna. Non si pu ! Non si pu ! Il fiume luccicava sinistro. Dissi a un caporale di tentare di aprirsi un varco per raggiungere il capitano e pregarlo di far continuare la marcia; il caporale tent di passare sulla incerta striscia di legno; dopo pochi passi ritorn ansante. Non si poteva. All'improvviso il riflettore si spense. Diventammo tutti ciechi. Una voce imprec : Adesso ci fracassano di granate. Una specie di smaniosa trepidazione mi serrava la gola. Pensai di buttarmi nel fiume e raggiungere la riva a guado. Non sapevo nuotare; ma l'acqua doveva essere bassa. E mi tenevo aggrappato alla corda, aspettando che un impeto di panico tra i soldati mi travolgesse. Ed ecco quattro colpi lontani, soffocati, ma che l'istinto avverte con una precisione lucidissima : e quattro sibili rabbiosi, come di fruste gigantesche, sulle nostre teste, e quattro schianti, quattro vampate rosso-turchine. Qualche grido, alle nostre spalle. Avanti, per Dio! Avanti! Non si pu! Altri quattro sibili, pi bassi, che ci fan chinar la testa, e quattro schianti pi vicini. Signor tenente, avanti! Un altro stormo di proiettili. Altre grida. La passerella oscillava paurosamente. Avanti! Avanti! sentivo implorare dietro di me. Avanti! gridavo io sottovoce. E pensavo che in quel momento, a Bonate, nella saletta del farmacista, mio padre e le zie parlavano certo di guerra o studiavano il comunicato Cadorna e vaticinavano che a Natale la guerra sarebbe finita, e non sapevano ch'io ero sopra una passerella fragile sull'Isonzo in piena, in mezzo all'infuriare d'un bombardamento. Finalmente le ombre che stavano davanti a me, come un muro, si mossero. Avanti! Avanti! Piano! Piano! Fate piano, per Cristo! Mi sentii urtato alle spalle, buttato avanti. Un gran lampo sanguigno, uno schianto vicinissimo; la passerella parve sobbalzare, con

un sinistro scricchiolio. Sentii il legno mancarmi sotto i piedi. Scivolai. Mi abbrancai disperatamente alla corda metallica. Ma davanti a me non c'erano pi soldati. Avanti! urlai; e mi buttai su con impeto, facendo forza sui polsi, scorticandomi il palmo delle mani contro la corda. Sulla sponda! Ci lanciammo di corsa per il greto, ci addossammo contro una parete sabbiosa, dove c'erano altri soldati. Che battaglione? Secondo. E il primo? Non so. Qualcuno mi chiam per nome, poco lontano. Riconobbi la voce del mio capitano. Ha avuto perdite? Feci l'appello : tutti presenti : neanche un ferito. Solamente il terzo plotone aveva avuto un caporale colpito da una scheggia a un braccio e un soldato colla mano lacerata dalla corda metallica della passerella. Riprendemmo la marcia. Ora il mio plotone era in testa, ed io camminavo accanto al mio capitano. Davanti a noi di qualche passo, a cavallo, era il maggiore, circondato da sei o sette soldati. Dietro di noi, sul fiume, continuava lo schianto degli srapnel. Il nostro terzo battaglione era rimasto di l dal fiume. Domandai al capitano: E adesso dove si va A Monfalcone.

II. MONFALCONE (ottobre-dicembre 1915) Di riserva nell'azione del 21 ottobre, restammo alcuni giorni accampati dietro il cimitero, in attesa dell'ordine che ci mandasse in linea. L'ordine non venne. L'azione si sospendeva, infrangendosi i nostri plotoni contro gli intatti reticolati austriaci di quota 121. Verso sera la compagnia fu comandata al Cantiere per spegnervi un incendio minaccioso. Il capitano protest : "Fioi de cani! Mi no son capitano dei pompieri"; ma si dovette andare. Il mio plotone chiudeva la marcia della compagnia; io venivo per ultimo. Davanti al cimitero si apriva, nella campagna, uno stretto camminamento che metteva all'Arsenale; e fu di li che si infilarono, uomo per uomo, i quattro plotoni. Ma io non vi avevo ancora messo piede che la fila dei soldati si ferm. Attesi qualche minuto, poi mandai un caporale a vedere che cosa fosse successo. Torn tutto affannato a raccontarmi che, passata quasi tutta la compagnia, mezzo del mio plotone era stato fermato bruscamente da un capitano d'artiglieria che aveva i suoi quattro pezzi appostati poco sopra il camminamento. Balzai fuori dal fosso e corsi verso la testa della brevissima colonna. Un soldato d'artiglieria, moschetto imbracciato, stava immobile in mezzo al camminamento. Che fate qui? Ordine del signor capitano. Non si pu passare. Dov' il vostro capitano? L. Andate a chiamarlo. Non posso muovermi di qui. E ho l'ordine di sparare su chiunque tenti di passare dal camminamento o sopra. Non aveva finito di parlare che mi vidi arrivare addosso un piccolo capitano colla faccia nera e due occhi che parevano tizzi di carbone infocato. Cosa vuole lei? Passare coi miei uomini. Torni indietro immediatamente. Di qui non si passa. Ho avuto un ordine. Me ne frego. Io ho i miei pezzi proprio qui sopra; e quota 121 l, la vede? L... E se vedono passare dei soldati nel camminamento, mi fracassano la batteria. L'ha capito o non l'ha capito? Ma il mio capitano... Il suo capitano un fesso. Se ne vada. Stetti un poco perplesso, davanti a quel furioso ; poi mi presentai e aggiunsi :

Riferir al mio colonnello che lei mi ha vietato di proseguire. Riferisca quello che vuole, ma si levi dai piedi. Proprio in quel momento uno srapnel venne a rompersi sopra le nostre teste, in alto; il capitano divent addirittura paonazzo di collera. Ripiegando in fretta verso la sua batteria continu ad urlare agitando minacciosamente contro di noi la sua Glisenti. Diedi il dietro-front ai miei soldati, e ritornammo al cimitero, dove un'improvvisa folata di srapnel ci disperse tutti, buttandoci contro il muro di cinta. Uno dei miei soldati cadde in mezzo alla strada, e vi stette, colle braccia spalancate. Mi precipitai su di lui. Teneva gli occhi chiusi. Lo sollevai per le spalle, appoggiai la sua testa sopra un mio ginocchio. Gli altri soldati erano curvi su di noi, in silenzio. Apri gli occhi, li gir intorno, mi guard; ebbe un lungo sospiro; si mise a piangere. ferito a un piede osserv il sergente Rosa. Aveva infatti una scarpa tutta rossa di sangue. Un portaferiti gliela tolse, piano piano, gli tagli la calzetta di cotone tutta inzuppata, e con un pacchetto di medicazione gli fasci il piede lacerato sul dorso da una larga ferita. Su, che non niente, da bravo. Un mese d'ospedale e due di licenza con la tua donna e i tuoi figlioli. Una fortuna. Va meglio adesso? Mi guard, tent di sorridere, non ci riusc; e si lasci cadere di botto la testa sui petto. Un altro svenimento. No, signor tenente. E morto. Il sergente Rosa s'era chinato a mostrarmi un piccolo foro nella giubba del soldato, proprio all'altezza del cuore. Mi allontanai di due passi, in silenzio, con un'impressione di gelo in cuore. Morto. Il mio primo morto. Non osavo guardarlo. Mi pareva assurdo morire cos, lontani dal nemico, colpiti da un proiettile partito chiss di dove. Alcuni soldati, col sergente, s'erano curvati sul morto, gli levavano il portafogli, l'orologio, gli sfilavano un anello dal dito, raccoglievano tutto in un fazzoletto. Io lo conosco... di un paese vicino al mio; ha una bottega di fruttivendolo e tre figlioli. Lo ricopersero con un telo da tenda, in attesa che il comando di battaglione mandasse una barella. Io pensavo a quella donna lontana, coi tre bambini, in mezzo alle ceste d'insalata e di grappoli d'uva; e non sapevo che fare e che dire. Mi pareva che i soldati mi guardassero in faccia per vedervi la mia emozione. Proprio in quel momento ci raggiunse un tenente colonnello d'artiglieria, seguito da un soldato. Mi presentai, gli feci un breve rapporto di quanto era accaduto. Si volse verso il mucchio oscuro del telo, salut gravemente, poi mi fece brusco:

Mi segua coi suoi uomini. Ci infilammo nel camminamento dietro a lui. Davanti alla sentinella che vigilava sempre col suo moschetto si ferm: Vai a chiamare il tuo capitano. Ma io... Fila! Il soldato s'arrampic fuor del fosso, e corse alla batteria. Dopo pochi secondi ecco arrivare il capitano, tutto sorridente: Colonnello... Cos' questa storia? Quale? domand con bonaria innocenza il capitano. La trovata della sentinella. Le spiego subito, signor colonnello. Siccome siamo in vista di quota 121 e se vedono passare qualcuno nel camminamento, sparano... Sparano? Davvero? incredibile, sa? Ma... Il colonnello gli volse brusco le spalle e mi ordin : Vada pure coi suoi uomini, tenente. Poi, balzato agilmente sull'orlo del fosso, stette, coi pugni chiusi sui fianchi, immobile, a guardare passare i miei fanti silenziosi. *** La nostra trincea si stendeva sulla groppa d'una tozza quota pietrosa proprio di fronte a quota 121, e pareva poi galoppar gi, di groppa in groppa, verso il mare. Non era che un muretto alto un metro s e no, di sassi sovrapposti, con qualche cestone gonfio di pietre. Ogni tanto lo spessore del muretto si faceva pi grosso, e dentro vi s'era scavata una tana per il comandante della compagnia o del plotone. Dietro la trincea la quota calava gi, in una ruina bianca di pietre, senza il pi piccolo riparo; davanti, un piccolo deserto sassoso, spaccato da un'avvallatura e dominato dal cocuzzolo oscuro della quota nemica incoronata di profonde trincee e di fitti reticolati. A mezzo della nostra linea s'apriva un varco che metteva nel "tamburo" : un mozzicone di trincea protetto da una duplice fila di cestoni sventrati, che si spegneva sull'orlo della valletta. Non una caverna, non un appostamento di mitragliatrice, salvo una vecchia "Perino" scintillante come se fosse d'oro; ma nessuno si ricordava con precisione d'averne mai sentita la voce. In compenso, una batteria da 75 appostata a poche decine di metri da noi; e si diceva che nell'azione del 21 ottobre, esaurite tutte le munizioni, gli artiglieri coi loro ufficiali fossero corsi in trincea a battersi coi loro moschetti. Il nostro capitano si ficc in una baracca duecento metri sotto, la linea, accanto a un cavernone che serviva di ricovero al plotone di

rincalzo. Io m'ero trovato una specie di nido fra due cestoni, con un soffitto di ruberoide e un telo da tenda per porta; e vi ricevevo i colleghi per la sacramentale partita. Ogni tanto la sera si cantava. Venivano, dagli altri battaglioni, Caradonna e Carnevali, Troilo e Bagnariol; uno aveva la chitarra ; ci si metteva in crocchio, spalle alla trincea, occhi al cielo, a cantare: l'inno di Oberdan, le canzoni di Trieste. E poi , si guardava il luccichio del mare, e ci si immaginava di vedere Trieste, e che a Trieste ci sentissero. I soldati erano allegri, la pagnotta buona, il riso ben condito ed abbondante, non mancava mai il vino. Purch non li buttassero contro gli intatti reticolati di quota 121, i nostri fanti erano contenti anche della guerra. Quando poi fosse necessario uscire dalla trincea e correre avanti, sotto le granate, pazienza. Non era detto che proprio tutti ci dovessero lasciare la pelle. Ogni tanto,: naturalmente, venivano ordini difficili: come quello di portare i tubi di gelatina sotto i reticolali nemici. Su altro fronte, forse, la cosa era possibile ; ma l, con quei quattrocento metri di nudo pietrame che ci separavano dalla linea austriaca, come cavarcela? Una mattina tocc a me; e c'era la promessa di dieci giorni di licenza premio. La promessa valse a trovare i dieci volontari. Cinque i tubi, lunghi, e pesantissimi. Uscimmo all'alba che una ftta nuvolaglia rendeva anche pi fosca; ma non s'era arrivati all'orlo della valletta che una raffica di mitragliatrice ci inchiod contro i sassi, immobili, e ci tenne l per quasi tre ore, col naso a terra, tra una fucileria infernale che s'era propagata come un razzo per tutta la linea. Il comando di battaglione ordin che si ritentasse la prova al tramonto; e fu il bis della mattina. Ormai mi sentivo anch'io un "anziano". Sapevo bestemmiare, portavo una barbetta rossa, e un esercito di pidocchi per tutto il corpo con perfetta disinvoltura. Una notte, dopo un falso allarme che aveva risvegliato per tutta la linea, dal Cosic al mare, un infernale fuoco di fucileria, il capitano mi mand di pattuglia. Quando, alla Scuola di Modena, mi avevano parlato di pattuglie, s'era sempre presupposto, fra le due linee, un terreno da esplorare, cespugli da nasconderci, boschi da rastrellare a poco a poco, e incontri drammatici e cavallereschi con le pattuglie avversarie. Ma su quel deserto di pietre, liscio, senza il pi piccolo arbusto, disteso come una pagina davanti agli occhi del nemico, dove nulla poteva celare una insidia e nulla offrirsi come riparo, la faccenda era diversa. Diceva l'ordine dei Comando che, essendoci fondato sospetto che gli austriaci stessero preparando una mina nella valletta per far saldare la nostra quota, era indispensabile una ricognizione. Presi con me il sergente Rosa, la squadra del caporal maggiore

Binaglia e il mio attendente: quattordici uomini in tutto. Strisciando per il tamburo, arrivammo sull'orlo della valletta, e ristemmo. Un piccolo arco di luna metteva un chiarore rossiccio nell'atmosfera e dava al Carso un trasognato luccicore funerario. Gi, verso il mare, si vedeva ardere l'inestinguibile incendio d'un deposito di carbone. Da una delle arcate del viadotto di Duino sprizzava a tratti il rigido fascio di luce d'un riflettore che spazzava la costa, le quote e rivelava gli scheletri delle case massacrate dalle artiglierie. Mi sporsi sull'orlo della valletta, col moschetto pronto, a guardare. Sassi che luccicavano; e, in un angolo, sul versante opposto, una grossa macchia oscura. Dalle trincee nemiche di quota 121 veniva distinto il martellare secco dei lavoratori che approfondivano le difese: qualche brusco comando, delle risate. Improvvisamente si lev dal mare un vento freddo umido , e a quel vento, intorno ai macchione oscuro che stavo guardando con circospetta trepidazione, parvero sorgere altre macchie, altre ombre incerte che la mia ansia individu senz'altro per una pattuglia nemica. Chiamai con un fil di voce il sergente, gliele mostrai. Rosa guard con attenzione. E una pattuglia nemica. La vede? una pattuglia di morti, signor tenente. Nostri? S. Han tutti la testa rivolta verso quota 121. Avanzi dell'azione del 21 ottobre. Calati nella valletta, ne trovammo a diecine. Squadre intere, ancora allineate, col caporale in testa, falciate dalle mitragliatrici. Frugammo a lungo, indisturbati; ma non c'era nulla. Raccogliemmo molti fucili e la salma d'un tenente irriconoscibile per un atroce squarcio nel viso. Poi ci avviammo verso la nostra trincea. Ma io non volli lasciar subito la valletta. Mi pareva che il mio dovere fosse di restarci ancora, solo, per non dar nell'occhio del nemico, e frugare con pi diligenza. Forse, dietro qualche cumulo di pietra si apriva la caverna da mine che preoccupava tanto il Comando. Feci risalire Rosa con tutta la pattuglia, avvisandolo di tenersi appiattato nel tamburo, e continuai ad esplorare il fondo della valletta, procedendo cautissimo sulle pietre, curvandomi sui cadaveri per accertarmi che non fossero dei vivi in agguato. Durai forse mezz'ora in queste ricerche vane. Il vento era pi violento e pareva spirare proprio a raso della terra. Tramontava la luna. Ed ecco un curioso fiore attirare la mia attenzione: bianchiccio, a cinque petali rigidi, che si agitavano mollemente a ogni sospiro di vento. Pensai a quelle "erbe grasse" che s'usavano tenere nei salotti e anche la mia mamma ne curava con particolare sollecitudine alcuni vasetti. Mi chinai, lo ghermii incuriosito; un brivido di terrore mi ributt indietro. Era una mano, scarnita, gelida di rugiada, al sommo dell'avambraccio irrigidito, che spuntava dai sassi. Mi

guardai attorno, nella valletta deserta di vita e affollata di morti. Mi parve d'essere solo, lontanissimo dai miei uomini, e che tutti quei morti sospirassero e gemessero nel vento della notte, e mi domandassero di portarli nei loro cimiteri accanto al pianto delle loro mamme. Pensai che un giorno sarei stato anch'io fra quei morti, insepolti, scarniti sulle pietre del Carso ; pensai alla dolcissima quiete verde del cimiterino di Santa Giulia, dove c'erano tutti i miei morti ad aspettarmi ; e un irresistibile bisogno d'una voce viva, d'uno sguardo vivo, d'una mano viva e calda che stringesse la mia, mi prese, mi butt verso il tamburo, tra gli uomini che mi attendevano pazienti, accovacciati contro i cestoni. *** L'indomani era Ognissanti. I conducenti e i cucinieri che di buon mattino ci portavano le casse del caff, sussurrarono d'un'azione che si sarebbe dovuta fare nel pomeriggio. Il capitano era inquieto ; il "pignuolo da caserma" bestemmiava come un carrettiere toscano guardando gli intatti reticolati che proteggevano le trincee nemiche di quota 121. Poco prima di mezzogiorno il capitano mi mand a chiamare nella baracca del suo comando. Forse il mio plotone doveva uscire per il primo dalla trincea? No; non era l'avanzata che si aspettava. Non ci era affidata che una funzione di second'ordine : un'azione dimostrativa. Fingere, cio, con poca truppa e densa fucileria, di muovere all'attacco di quota 121 per distrarre l'attenzione dell'artiglieria nemica e consentire cos ai reggimenti che stavano alla nostra sinistra di buttarsi avanti sul serio verso altre quote. Se poi la loro azione fosse ben riuscita, allora anche noi, con maggior probabilit di successo, ci saremmo lanciati senz'altro contro quota 121. Logico e semplice come un teorema. Nello spiegarci questa "manovra", il nostro buon capitano aggiunse, come sua considerazione personale, che non ci capiva gran cosa. Il pignuolo da caserma ebbe un sorrisetto ironico e comment : Eppure semplicissimo.' Si manda fuori un plotone... Il capitano non lo lasci finire, naturalmente, e complet secco : Un plotone, sissignore; e pi precisamente il suo. Viceversa, con una complicatissima dimostrazione, il sottotenente prov al capitano che toccava proprio al secondo, cio al mio. Si accese una curiosa discussione, alla quale parteciparono anche il furiere e l'attendente del capitano. Per difendere i miei soldati da questo troppo evidente intrigo di fureria cercai di oppormi; il collega effettivo ebbe un altro dei suoi sorrisetti tiraschiaffi e mi osserv : Sei l'ultimo arrivato e incominci gi a piantar grane quando si tratta di fare qualche cosa? Gli risposi che ero pronto ad uscire con qualsiasi plotone, purch non

fosse il mio. Ma il capitano tagli corto con un'energia inaspettata : Tocca al secondo plotone, e basta. Preparai il mio plotone. Il sergente Rosa mi assicur confidenzialmente che un'azione dimostrativa era una fesseria e che, con un po' di tatto, tutto si sarebbe risolto in una sparatoria assolutamente innocua. Prima di uscire mi recai dal capitano per domandargli ordini pi precisi. Mont su tutte le furie. stato anche a Modena tre mesi e non sa che cosa sia un'azione dimostrativa? Ma allora che razza di ufficiale mai lei? E che razza di interventista? Vada fuori col suo plotone e finga di attaccare: ecco tutto. Mi perdoni, signor capitano; ma fin dove devo portare il mio plotone? Fino a Trieste. Non gli potei cavare altro. E una bestemmia rispose al mio rispettoso saluto. Uscii dalla baracca cogli occhi che mi bruciavano di lacrime. Non riuscivo a capire perch il capitano mi trattasse cos. L'azione spettava a me, d'accordo; e la facevo volentieri. Per quanto mi frugassi dentro non rintracciavo la pi piccola esitazione, la pi piccola ombra di cruccio o di timore. Ma cercando di evitare ai miei soldati un'avventura che poteva anche costare la vita, non facevo forse il mio dovere? Se il turno di combattimento non toccava al mio plotone, perch non insorgere contro la piccola ingiustizia, contro il sopruso? Offrirmi volontario, avrei dovuto: questo era forse il muto rimprovero celato nella bruschezza del capitano. Ed ero pronto e l'avevo detto subito. Ma con qual diritto portare a un possibile sacrificio anche i miei sessanta uomini? Perch non m'avevano capito? Era dunque cos difficile la guerra? cos arduo intendersi coi colleghi? coi superiori? Raggiunsi in trincea il mio plotone, gi pronto, e attesi l'ora fissata, seduto sopra un sasso, scrivendo cartoline ai miei cari. "Niente di nuovo e sempre ottimamente" scrissi alla mamma; ma poi vi aggiunsi "Ti bacio con tutta la mia tenerezza". Il capitano mi sorprese che stavo ancora curvo a scrivere e m'invest con asprezza: il momento di scrivere, questo? Ma io sono pronto, signor capitano. Lei! E i suoi uomini? sicuro che ci sono tutti? Sicurissimo. Ho gi fatto l'appello. Se ne trovo uno, uno solo, in trincea, lo faccio fucilare; e lei... lei passa un bel guaio! Non gli risposi. Lo guardai negli occhi a lungo, con molta seriet, fino a che non vidi che abbassava confuso i suoi. Riprese con voce mutata : Allora ha capito quello che deve fare? Perfettamente; non ho bisogno d'altro.

E gli voltai le spalle. Alle due meno cinque incominci il fuoco delle nostre artiglierie. Prima fu la nostra batteria da settantacinque, colla sua voce secca, rabbiosa, mordente ; e a ognuno dei suoi colpi erano altrettanti pennacchi rossicci che sprizzavano su dal cocuzzolo di quota 121; poi tutta la zona rimbomb di tuoni e di schianti, e nugoli di ululanti proiettili fischiarono sulle nostre teste. Fuori! url a un certo punto il capitano. Alzai un braccio, urlai al plotone di seguirmi, scavalcai d'un balzo il muretto e corsi avanti, sui sassi, senza guardarmi all'indietro. In mezzo al tuonare del bombardamento avvertii nettamente il secco colpo d'una fucilata. Mi buttai a terra istintivamente. Sentii dei tonfi dietro e intorno a me. Erano i miei soldati. Squadra per squadra, a terra, si andavano componendo a catena, coi loro caporali. Rosa strisci fino a me, che ero avanti di qualche passo, e mi grid : Sar meglio andare avanti. Qui ci fregano tutti. Avanti! urlai; e feci di corsa un altro tratto, fino al ciglio della valletta. L c'erano dei massi di pietre sovrapposte, confusi embrioni di trincee; e il plotone si ripar tutto dietro quegli improvvisati baluardi. Io ero con Rosa, il mio attendente e un soldato che m'ero scelto come portaordini : un piccolo napoletano dagli occhi vivacissimi, l'unico napoletano di tutto il plotone. Il bombardamento da parte nostra continuava violento. Quota 121 pareva un piccolo vulcano in ebollizione per tutte le granate che vi si schiantavano sopra. Ma avevo l'impressione che nessuna arrivasse proprio sulla linea e pochissime nei reticolati; quasi tutte scoppiavano sulla cma, che era arida, pelata, deserta. Con un po' di pazienza riuscii a disporre le mie quattro squadre sopra un fronte abbastanza lungo; poi, ghermito il mio moschetto, diedi con un colpo il segnale del fuoco. Una fucileria assurda, grottesca. Si sparava sulla quota a casaccio. Forse qualche soldato premeva sul grilletto tenendo gli occhi chiusi, o la faccia schiacciata contro i sassi. Il mio attendente e il napoletanino, sdraiati accanto a me, s'erano sfidati a chi sapesse abbattere col novantuno una specie di pentolino che qualche austriaco burlone aveva piantato sopra un paletto dei reticolati. La gara attrasse anche me; e vuotai un intero caricatore contro il pentolino. Mi domandavo intanto se le azioni dimostrative si riducessero tutte a quella inoffensiva sparatoria che il nemico non doveva neanche degnare della sua attenzione. Ma ero un po' preoccupato per il dubbio che forse avrei dovuto fare qualche altra cosa portare, per esempio, il plotone pi sotto la trincea austriaca. Ne domandai a Rosa; e il sergente mi rassicur: Siamo gi troppo avanti. Se volessero fregarci, ci fregano E tutti in un quarto di minuto.

Feci un biglietto al capitano : "Raggiunto ciglio valletta, e iniziato il fuoco". Mi rispose: "Ottimamente. Tenga duro sulla posizione e intensifichi il fuoco. Bisogna che il nemico creda che si voglia attaccare la quota". Questo, ecco, mi pareva assurdo : supporre che il nemico abboccasse a un amo cos ridicolo come il mio plotoncino lanciato contro un'intera quota fortificata potentemente. A stormi ci passavano sulla testa le granate e gli srapnel delle nostre batterie. Qualche proiettile, i pi grossi, si sentivano venire da lontano, oltre il Carso : pareva che salissero ansando nell'aria, e andavano a rompersi, in un gran pennacchio di fiamme, sulla quota con un "rann" da terremoto. Ma il nemico taceva, ostinatamente. Pensavo che, ben protetti nelle loro caverne profonde, gli austriaci dovevano ridere di quel nostro infernale concerto. Forse avevano sguarnita la linea e ritirate tutte le truppe, tranne le vedette, nei ricoveri blindati; e s'io avessi osato, con un balzo fulmineo, avrei conquistato la trincea. Ma durante quei duecento metri di deserto non sarebbe bastata una mitragliatrice, una sola, a buttarci tutti e sessanta a terra, a tener compagnia ai cadaveri che affollavano la pietraia? Era gi strano che ci lasciassero dove eravamo... Ogni tanto guardavo alla mia sinistra per vedere le colonne degli altri reggimenti che avrebbero dovuto uscire dalle linee del Debeli e del Cosic per attaccare le trincee nemiche; ma non si vedeva che il deserto di pietre bianche tormentato dalle granate. Improvvisamente, dalla quota 121 si sgran secco e minuto, nell'orrendo frastuono, il rosario d'una mitragliatrice; e le pallottole vennero a schizzare intorno a noi, furibonde, sui sassi. Il nostro fuoco di fucileria cess come per incanto; ognuno schiacci la testa a terra, cercando, istintivamente, di raccorciare le gambe. Il rosario seguit implacabile. Io non sapevo che fare; tenevo le mani strette contro il moschetto, e, fra due pietre, spiavo la trincea austriaca per vedere dove sprizzasse la fiammella azzurra della Schwarlose. La colsi; passai la voce a Rosa che la pass a sua volta alla prima squadra, ch'era la pi vicina : e un attimo dopo la nostra fucileria riprese, e con un preciso punto da colpire, questa volta. Mi pareva che adesso i soldati sparassero con un fervore nuovo, quasi con ferocia; ma la mitragliatrice non ci lasciava tregua, ci teneva le teste inchiodate gi, inesorabilmente. All'improvviso, pochi passi pi in l, alla mia destra, vidi un soldato scattar su colle braccia spalancate, agitar forsennato il fucile, e poi crollar gi di botto sui sassi con una gran maschera rossa sulla faccia. uno della terza squadra mi sussurr il sergente. Rombon precis il mio attendente il sagrestano. Quasi contemporaneamente il napoletano gettava un urlo e si accartocciava tutto sul ventre, strambuzzando gli occhi e chiamando la Madonna. Rosa fu lesto a trascinarselo contro il nostro riparo di pietre, gli

abbass i pantaloni insanguinandosi le mani, trov la ferita. Il sangue ne purgava come da una sorgiva. Un altro grido, pi lontano, all'estremit del plotone. Continuare cos era assurdo. Mi consigliai con Rosa; decidemmo di buttare il plotone nella valletta, dove c'era maggiore possibilit di star defilati. Nello stesso tempo mandavo il mio attendente dal capitano con un altro biglietto : "Siamo sotto il fuoco di una mitragliatrice; porto il plotone nella valletta e di qui continuer, se possibile, la fucileria. Perdite: un morto e due feriti". Fatta passar la voce, a un mio grido, le squadre si lanciarono nella valletta; e lo sbalzo ci cost altri due colpiti. Nella valletta si era abbastanza coperti, e bench la Schwarlose continuasse a frugare rabbiosa tra i sassi, non ci poteva cogliere. Il mio attendente ritorn col biglietto del capitano; mi ordinava di rientrare in linea con tre squadre e di lasciarne una, con un caporal maggiore, a vigilare che non si preparassero sorprese da parte del nemico. Lasciai il caporal maggiore Binaglia coi nove uomini rimasti della sua squadra, e, piano piano, ritornai nella trincea. Aveva cominciato a piovere: una pioggia gelida e minuta, traversata da folate di vento ghiacciato. Trovai il capitano pallidissimo, accovacciato contro un cestone che lanciava dei "fioi de cani" a destra e a sinistra. Resto in linea cogli uomini, capitano? E dove vuol andare, fiol d'un can? Il mio plotone era di rincalzo, e avrebbe dovuto restare nella cavernetta vicino al comando. Stesi invece le tre squadre fra il terzo e il quarto plotone, e, col sergente Rosa e l'attendente, mi piantai davanti a una feritoia, fra due cestoni. Potevano essere le quattro del pomeriggio, e sul cielo livido di nuvole dense gi si incominciavano a presentire le ombre della sera. All'improvviso, dietro le quote nemiche, l'artiglieria si risvegli; e fu un risveglio spaventoso. L'azione alla nostra sinistra doveva essere andata male; le nostre batterie avevano quasi cessato il loro fuoco. Non si udivano che i rabbiosi latrati dei quattro pezzi della nostra Settantacinque, che mordevano con furia quota 121. In pochi minuti il bombardamento nemico divent d'una intensit atroce. Le granate ci giungevano dai rovesci delle linee nemiche, dalle bassure di Duino, dall'Hermada, da quota 144, dalle doline infossate dietro le due quote 208: ci prendevano d'infilata, ululando venivano a stormi a schiantarsi, con una precisione terribile, sulla nostra linea. Eravamo schiacciati contro il muretto, la testa nelle spalle, le pupille che si serravano a ogni rauco sibilo, con la disperata certezza della nostra inerme inferiorit di fronte a tanta violenza. Disarmati: peggio che disarmati : un gregge da maciullare. Angoscia di aspettare la morte senza nemmeno vedere il nemico che ci uccide!

A tratti pensavo che tutta la compagnia doveva essere gi sfracellata, e ch'io ero il solo sopravissuto. Sentivo, nel fragore senza sosta, delle deboli grida, delle implorazioni acute. Dov'era il capitano? Dov'erano i miei colleghi? E la mia squadra? Il mio caporal maggiore rimasto, coi suoi nove uomini, all'aperto, a "vigilare" ?... Per quanto aguzzassi lo sguardo fuori dalla feritoia, non vedevo nulla, sulla pietraia livida che mi si stendeva davanti, nella foschia della sera piovigginosa. E la mamma, la mamma che faceva a quell'ora? Forse Maria studiava il pianoforte con la sua maestra. E io... Se la mamma avesse potuto sapere, avesse potuto vedere... Ma che facevo incollato a quella feritoia? Perch avevo paura di staccare persino la faccia da quelle pietre? di alzar la testa e guardar per la trincea, dove c'erano i miei uomini, il mio capitano, i miei colleghi? Perch non giravo per la linea a rincorare i miei soldati? a dar le novit al mio capitano? a mostrargli che non avevo paura? No, io non avevo paura. Non avevo paura. Morire: ecco tutto; essere travolto da una di quelle granate, sepolto sotto un rovinio di pietre... Mi feci forza, mi irrigidii, mi staccai dal muretto. Sccccccccciiiiiii... vrann! vrannn! Mi ributtai gi, contro un cestone. Ma dove va, signor tenente? A vedere i miei uomini. Stia qui... Non si pu far niente. Non importa. Seppi staccarmi, fare qualche passo per la trincea, a testa alta. L'uragano di fuoco continuava. I soldati erano addossati al muretto, e mi guardavano inebetiti e attentissimi. Parevano ascoltare se, in mezzo alla orrenda tempesta, venisse il ronzio di quella granata che li avrebbe uccisi. Coraggio, ragazzi, fra pochi minuti andranno a mangiare anche loro. Qualche faccia sorrise, ma si ricompose subito come se il sorriso costasse un'insostenibile fatica. Tentai di accendere una sigaretta; ma una ventata fiammante mi lanci a terra, addosso a un soldato. Gli nascosi la faccia sul petto. Un chiarore sanguigno. Un metallico ronzio di scheggie. Niente? Niente, signor tenente. E lei? Niente. La mano? Una scalfittura : sottile e diritta come il taglio d'un rasoio. Ne succhiai il sangue. Una sciocchezza. Il capitano? Pi in gi, col tenente del primo. Ma io non potevo e non volevo abbandonare il mio plotone; e ritornai

accanto al sergente Rosa, davanti alla piccola feritoia aperta tra i sassi. Gli uomini del caporal maggiore Binaglia dovevano essersi trovato un rifugio, all'aperto, e forse stavano meglio di noi. Mi pareva d'impazzire e che a un certo punto sarei corso fuori, a gridare, ad urlare di farla finita, di ammazzarci tutti quanti, ma basta, basta con quell'inferno. Poi guardavo Rosa, guardavo il mio attendente, li vedevo tranquilli, mi vergognavo di me stesso, mi sforzavo alla calma, accendevo una sigaretta. Ci saranno perdite nel plotone? Non credo, signor tenente. pi il chiasso che la rovina. Se tutte le granate dovessero colpir nel segno, a quest'ora la guerra sarebbe gi finita osserv sottovoce il mio attendente. Un grosso sibilo friggente venne a spegnersi, con uno strano tonfo soffocato, sotto la feritoia. Non esplosa? Per adesso... Una voce rauca mi chiam, quasi rantolante. Mi volsi. Era il portaordini del capitano, col viso tutto insanguinato, che mi porgeva un foglietto . Ferito ? Niente: una piccola scheggia di striscio. E nella maschera rossa della faccia i due occhi gli brillavano di un sorriso quasi malizioso. Il capitano mi avvertiva che il sottotenente del primo plotone era rimasto ferito e che dovevo assumere il comando anche di quel plotone; aggiungeva di vigilare perch, dopo il bombardamento, il nemico avrebbe senza dubbio attaccato. Firmai, tesi il biglietto al soldato; e in quell'attimo come una ondata di fiamme mi invest, mi stord, mi rap via. Spalancai le braccia, precipitai chiss dove, insensibile e solo, disperatamente solo. Rinvenni quasi subito, e vidi sopra di me le faccie spaurite del sergente Rosa, del mio attendente, d'un soldato sconosciuto. Mi guardai intorno, volli muovermi: ero inchiodato a terra da qualche cosa di enorme che mi gravava sulle gambe. Forse non le avevo pi. Ecco: dovevo aver perdute le gambe. Una goccia calda e densa mi scivol gi dalla guancia nell'angolo della bocca: sangue. Pensai che era finita. Non sentivo nessun dolore: anzi, uno strano senso di leggerezza. Sorrisi ai soldati. Poi vidi che stavano facendo forza su qualche cosa, e avvertii una acutissima trafittura a un ginocchio. Mi venne da piangere dalla contentezza. Avevo ancora le mie gambe! In pochi secondi mi trassero fuori da una specie di sepolcro di sassi e di cestoni che mi si era rovesciato addosso, mi fecero bere dell'anice, mi sostennero per le ascelle. Niente. Una graffiatura sotto l'occhio, le ginocchia ammaccate, un braccio indolenzito. Illeso. Volli bere dell'altro anice, e vuotai tutta la borraccia del mio attendente. Poi il sergente mi accenn colla mano la trincea. Il punto del

muretto coi due cestoni che ci proteggevano non era pi che un mucchio di rottami, con un piccolo cratere bianco aperto nel mezzo; e di sotto i rottami spuntava un braccio immobile, colla mano color cenere, dischiusa, pareva, a un cenno di saluto. Uno dei miei caporali. Morto. Il bombardamento poco dopo cess; corsi gi per la linea a cercare del mio capitano. Lo trovai rannicchiato contro un cestone, col viso terreo, la barbetta sconvolta, due grosse borse di rughe nere sotto gli occhi smarriti. Mi guard come si guarda un'apparizione incredibile: Ma... non morto, lei? Il portaordini, sfuggito per miracolo allo scoppio, vedendomi investito in pieno, travolto dalla valanga di pietre, era corso a raccontare della mia morte al capitano. Qualche sera dopo fummo sostituiti in linea dal terzo battaglione, e la mia compagnia discese, di riserva, in una valletta pinosa, dietro la quota 83. Il novembre era freddissimo, ma le giornate serene; si andava in cerca di fondelli di granate per farne braccialetti e tagliacarte, e si giocava al pochr. L'ultimo turno in linea fu tranquillissimo; ma i plotoni, un po' i morti nel solito stillicidio quotidiano, un po' i feriti, un po' gli ammalati, s'eran ridotti della met. Il giorno del cambio, poche ore prima di scendere a Monfalcone, arrivarono i complementi. A me toccarono undici soldati e un caporal maggiore. Davanti alla baracca del capitano il sergente Rosa me li present. Erano tutti anziani, venivano dai depositi. Nuovissimi della trincea, si guardavano in giro come sorpresi che tutto fosse cos quieto e si potesse star ritti a sentir parlare un ufficiale e non si udisse un colpo. Dissi poche parole e, per consiglio dello stesso capitano, li lasciai nella cavernetta del plotone di rincalzo, che era vuota essendo stato il terzo plotone comandato di corv in Monfalcone. Si infilarono cos, uno per uno, nella cavernetta, felici di non venire in trincea; e, stanchi com'erano del lungo viaggio, non tardarono ad addormentarsi. Ripassando infatti davanti alla caverna un'ora dopo, sentii un concerto di soffi e di fischi da non lasciar dubbi. Scese la sera. Serena e tranquilla come da un pezzo non si godeva. La trincea era tutta un brulichio indaffarato di fanti, nell'imminenza dello sgombero. Coi miei due colleghi del primo e del quarto plotone, stavo sdraiato contro il muretto. Si parlava di donne. L'aria era fredda, ma la fantasia, eccitata da quell'argomento, ci riscaldava il cuore d'una struggente tenerezza. All'improvviso s'ud come un tonfo lontanissimo, nel silenzio: e, subito, un miagolio vorticoso sulle nostre teste, e uno schianto lacerante sotto la quota. T... Si stava cos bene!

Questa andata a trovare il capitano. Stemmo ad ascoltare, con un po' d'apprensione. Niente. Nessun altro colpo, nessun grido, gi. Riprendemmo a parlare di donne. Ma ci interrompemmo subito : il sergente Rosa correva verso di noi. Il capitano ? No, i complementi, signor tenente! Tutti. Corsi gi. Davanti alla baracca del comando di compagnia il furiere giocava a scopa coll'attendente del capitano. A momenti ci frega noi, quella brutta strega ! Al posto della cavernetta c'era una specie di mausoleo di enormi pietre scheggiate, irto di sbarre di ferro, di filo spinato contorto, di sacchetti sventrati: e tutto premuto, schiacciato, confitto, rottame su rottame, come se una gigantesca pressa l'avesse impastato. Verso il mare, al posto della bassa imboccatura della caverna, una piccola voragine. Cercammo di smuovere quei macigni, di aprirci un varco con le vanghette e coi piccozzini degli zappatori; ma ci sarebbero volute le mine. E il battaglione che doveva darci il cambio gi spuntava allo sbocco della valletta. Feci piantare una croce di legno al sommo del cumulo pietroso, e pregai l'aiutante del battaglione che saliva di farvi incidere i dodici nomi dei soldati colti nel sonno dalla morte. Scendendo, verso Monfalcone, sentivo i miei soldati che commentavano sommessi quella fine. Uno con un sospiro, osserv : Che peccato, non averli trovati. Pensa che avevano tutti le scarpe nuove.

III. LICENZA INVERNALE (gennaio 1916) Ci accantonammo, per il turno di riposo, a Passariano d'Udine, nelle case coloniche accovacciate nella campagna, intorno alla villa dei conti Manin. Ero l'ultimo arrivato: logico che quasi tutti i servizi e l'istruzione della compagnia toccassero a me. Ma Codroipo era vicino; e c'era un bar dove si poteva persino bere un americano e giocare al bigliardo. E poi c'erano delle donne. Venne Natale. Molti erano gi in licenza; e quella sera, alla mensa, si cerc di fare del chiasso e di ubbriacarci. Ma non ci riuscimmo. Squallida intorno la campagna, piena d'acquitrini; e le case addormentale, sotto un po' di luna. Un Natale senza luci alle finestre. In ogni casa, un vuoto; in molte un vuoto che non si sarebbe riempito pi. Verso la mezzanotte ci lasciammo. Io dormivo in una stanzetta a terreno nel rustico della villa, con un caro collega, l'aspirante Cappetta, di Salerno, che, di solito, si addormentava nell'attimo stesso che soffiava sulla candela. Quella notte non gli riusc di prendere sonno. Seduto sul letto, ad onta del freddo che lo faceva rabbrividire, mi raccont per un pezzo della sua casa e della sua famiglia. Sai, mi diceva, quando andr in licenza, busser alla porta di casa. in una stradetta vicina a una piazza. Si affaccier a una finestra la mia sorellina pi piccola ed io le dir serio serio : "ho dimenticato il fazzoletto ; sono tornato a prenderlo". E rideva di questa invenzione, lisciandosi, tutto commosso, i baffetti biondi. La licenza mi tocc a fine d'anno. E il viaggio, in tradotta, mi parve eterno, e, insieme, troppo breve, tanto era intensa quella smaniosa ansia di arrivare, quell'inquieto immaginarmi la scena che sarebbe successa. Quando la mia citt mi apparve, coi suoi campanili e le sue torri, sulla cresta del colle, dovetti staccarmi dal finestrino per non commettere qualche sciocchezza. A casa arrivai che nessuno mi aspettava. E fu una festa che mi stord. La mamma mi aveva allacciato con le braccia e non mi voleva lasciare, tanto che il pap, met per scherzo e met sul serio, intervenne per avere lui pure la sua parte. Quindici giorni. Qualche volta mi pareva che non finissero mai; qualche altra che dileguassero con una rapidit inesorabile. Tante cose da raccontare; e non saper mai da quale incominciare. Un po' la paura di spaventare la mamma, un po' il timore che la "mia" guerra non fosse poi cos interessante e meravigliosa come quella che si leggeva sui giornali; il

fatto che non riuscivo a dire neanche la decima parte di quello che mi ero proposto di descrivere. Ero ostinato e minuto, invece, nel voler sapere: di tutto e di tutti. I miei amici, per esempio, i miei compagni di liceo, dove erano? in quale reggimento? in quale parte del fronte? Curioso! Erano quasi tutti rimasti in citt, nei vari uffici. Protezioni, raccomandazioni. Chiss! Non avevo nessuna voglia di indagare, e neanche di esprimere lo sdegno che mi sentivo ribollire nel fondo a quella constatazione. Ne incontravo spesso, sul Sentierone.: ed erano tutti in diagonale, coi gambali lucidissimi e la cravatta bianchissima intorno al collo. Nessun pidocchio, certamente. Grandi esclamazioni di meraviglia, strette di mano gagliarde e "ti ricordi?", "ti ricordi?". E poi, di sfuggita: Sei in licenza? S. E tu? Macch licenza; ufficio da mattina a sera, e qualche volta anche dopo pranzo... Tu dove sei? Tal reggimento, tale compagnia... E fronte? Carso : Monfalcone. Ah!... Beato te. In questa maledetta Sussistenza dove mi hanno inchiodato, si crepa di noia. Quanto al crepare, sai, neanche da noi si scherza. S; ma un'altra cosa. No, no: credi a me. In fondo, siete dei fortunati. E se ne andava sospirando e scuotendo, come una vittima rassegnata, la testa. E poi c'era chi voleva sapere, sapere, sapere; e non poteva persuadersi ch'io non avessi proprio nulla da raccontare, neanche un attacco da descrivere, neanche una bella morte da rievocare. Ma lei non ha ammazzato ancora nessun austriaco? E pareva che in quella domanda ci fosse uno stupito rimprovero: come si sarebbe potuto vincere la guerra se tutti avessero fatto come me? Una zia, la pi cara delle zie, saputo che lass si giocava molto alle carte, si turb tutta e mi supplic, "per quanto avevo di pi caro" di non prendere quell'abitudine che avrebbe finito col rovinarmi. Quando ti invitano a giocare, pensa alla tua mamma che prega, al tuo pap che lavora da tanti anni per te, e... va a fare una bella passeggiata. Una cugina, che mi era stata anzi molto cara, quando seppe che in trincea non ci si poteva lavare e neanche far la barba, ebbe un brivido di sgomento e torse la bella bocca pregandomi di non ripeterle mai pi quelle "brutte cose" se non volevo vederla svenire. Non osai confessarle l'affare dei pidocchi, ma poi me ne pentii. Glielo confessai invece alla mamma; mi

prese la testa fra le mani e mi baci a lungo a lungo sulla fronte. Ecco: a casa mia, s, qualche volta, dopo pranzo, mi lasciavo andare a qualche confidenza. Ma poche cose, dette alla svelta, senza importanza. Sentivo che ormai io vivevo in un mondo lontano, troppo lontano dalla loro mentalit e dalle loro consuetudini. Potevano mai interessarsi al fatto che, nell'assenza del capitano, la compagnia fosse comandata da un sottotenente meno anziano di me, ma effettivo, e per questo solo considerato pi anziano? L'avrebbero creduta una delle solite ingiustizie; ed era invece un'ingiustizia assolutamente diversa dalle solite. Potevano persuadersi della necessit di promuovere a sergente il caporal maggiore Ferrarol? Potevano capire l'importanza dei turni di corv? E allora, perche raccontare? Io vivevo un'altra vita, in un'altra famiglia: ch'era la mia vera famiglia. Dove i pericoli, quelli s, non avevano nessuna importanza, e la morte era, in fine, un fatto d'ordinaria amministrazione, da registrarsi sul libro di contabilit della Compagnia. E la guerra... la guerra era la guerra, e nient'altro: ecco. Concepirla sotto una specie di morte atroce sempre imminente, era un errore. La guerra era piuttosto un modo di vivere, di pensare e di sentire, prima ancora che un modo di morire. O, forse, era questa continua possibilit di morire, presente senza tregua al nostro spirito, che dava a quella nostra vita un colore e una serenit nuovissima. S: la vita, nel suo senso assoluto, non che un'attesa della morte; ma gli uomini l'hanno organizzata in modo che l'illusione della sua durata una certezza indubitabile e, insieme, la pregiudiziale necessaria d'ogni pensiero e di ogni azione. Lass l'illusione secolare era caduta : ecco tutto. Non era pi necessaria perch l'avvenire non contava pi nulla. Il presente soltanto era la grande, infinita realt... Chi poteva capire tutto questo ? La mamma ?... La mamma non vedeva che con la sua angoscia, per gli occhi del suo terrore; e basta. Non poteva credere che ci fossero tante e tante ore liete e gioconde, lass, all'ombra della morte. La mamma contava i morti, e non credeva ai vivi. Nessuno, insomma, che potesse capire: nessuno che potesse vedere. E allora, dopo cinque o sei giorni, avrei voluto ritornarmene al mio reggimento, e non sapevo come passare i lunghi pomeriggi invernali, cos vuoti, nella mia citt, cos vuoti da immalinconire anche la mia giovinezza. Verso la fine della licenza il pap cadde ammalato; e questo accrebbe la tristezza della partenza. Dovevo prendere il treno delle cinque del mattino per raggiungere la tradotta a Brescia; e fu la mamma a svegliarmi. Capii che non aveva chiuso occhio in tutta la notte. Il suo viso, il suo povero viso bianco, era consumato dal dolore. E il pap? Non ha dormito affatto, poveretto.

Mi vestii in silenzio. La mamma era in cucina a prepararmi il caff. Nella stanza vicina alla mia, Maria dormiva, e ne sentivo il tranquillo respiro. Le sfiorai la fronte colle labbra, senza svegliarla; ma forse sent il mio bacio perch ebbe, nel sonno, un piccolo gemito. Nell'altra stanza il pap mi aspettava. Seduto contro una fila di cuscini, col viso scuro, gli occhi affossati, un convulso di singhiozzi che gli faceva tremare la gola, mi strinse quasi con furia contro il suo petto, mi baci, mormorando solamente: Poverino... poverino... La mamma non ebbe una lacrima. Quasi spettrale, cogli occhi nerissimi che parevano stranamente ingranditi nel suo viso bianco, mi accompagn fin sulle scale, si lasci abbracciare e baciare tutta fredda e tremante, dicendo ogni tanto il mio nome, come se lo confidasse a s stessa. Poi stette sul pianerottolo, con un braccio proteso in fuori a reggere la candela per rischiarare un poco la scala oscura. Quando fui gi, alzai la testa a guardarla : la fiamma oscillante della candela le riverberava nel viso tra palpiti d'ombra. Non aveva un gesto, non aveva una parola. I suoi occhi mi cercavano nell'ombra della scala. Per vedermi meglio, fece schermo con una mano alla candela ; e allora un tenuissimo sorriso parve passare, disperato, sul suo volto. Mamma! Gino... Il mio nome mi arriv a stento, come un soffio. Fuggii, chiudendo con forza alle mie spalle il portone della casa, che rimbomb cupamente nel silenzio della deserta via.

IV. CASTELNUOVO DEL CARSO (febbraio 1916) Alla fine di gennaio tutto il reggimento si port a Sagrado. Dovevamo sostituire, nelle trincee davanti a Castelnuovo, la Brigata Sassari. Sostammo una notte e tutto il giorno seguente nello scheletro di una grande filanda; e verso sera ci mettemmo in cammino, in fila indiana, gli uomini staccati l'uno dall'altro di qualche passo, per il sottopassaggio della ferrovia, su per il Bosco Cappuccio e Castelnuovo. La mia compagnia fu accatastata alla meglio in due baracche sudicissime che un aspirante della Sassari ci assicur assolutamente defilate dal tiro nemico. La notte fu abbastanza tranquilla; e l'alba trov tutti i fanti fuor della baracca intenti a spidocchiarsi i farsettoni di maglia e le camicie, con rosari di contumelie e di bestemmie all'indirizzo dei compagni della Sassari che, secondo i nostri padovani, avevano lasciato nelle baracche una specialit di pidocchi famelici, ancora sconosciuta alla nostra provata esperienza. Di buon mattino il maggiore adun tutti gli ufficiali per una visita al settore che si sarebbe dovuto, la notte, occupare con le nostre compagnie. Ma non s'era ancora girato il muro di cinta del parco Hohenloe, lungo il quale, come baracconcini da fiera, eran sorti a diecine i ben costrutti e muniti ricoveri dei Comandi di reggimento, del genio e dell'artiglieria, che un folgorante miaolio ci disperse tutti quanti, a terra, qua e l, il naso sui sassi. La granata scoppi sulla strada; e il ronzio delle precipitanti scheggie dur qualche secondo. Quando ci raccogliemmo di nuovo intorno al maggiore, constatammo d'essere stati tutti quanti colpiti. Leggerissime scalfitture, naturalmente : graffi di nessun conto : solo un aspirante, nuovo venuto, s'era avuta una sassata in uno stinco che n'era rimasto ammaccato sul serio. Ad ogni modo il maggiore giudic opportuno rinviare la gita in massa : e and in linea solamente coi quattro capitani. Ne torn a pomeriggio inoltrato, e colla faccia scontenta. Il mio capitano era addirittura furente. Mi assicur di non averci capito nulla e che l'assurdit di quella posizione era tale da scoraggiare anche i santi. Il cambio fu rinviato di ventiquattr'ore; ed io ne approfittai per toccar con mano la realt. Non volevo arrivar nuovo, in piena notte, in una trincea che non conoscevo, colla responsabilit del mio plotone e, forse, di tutti e tre i plotoni di prima linea. Non dissi niente a nessuno, tranne che al mio sergente, e, poco dopo l'alba, solo, mi avviai. Il mattino era sereno e silenzioso. Nemmeno un colpo di fucile per tutto il Carso. Il cielo si specchiava nelle infinite pozzanghere di fanghiglia. Le trincee di resistenza, che mi parvero abbastanza munite, formicolavano di soldati appena svegli e allegri, intorno alle marmitte fumanti del caff. Ogni tanto incontravo dei laceri e sudici fanti della

Sassari che, saputo dell'imminente cambio, lo anticipavano per conto loro, rotolando gi, a rivoletti frettolosi, verso le baracche. Una batteria da settantacinque si risvegli lontano, e a quattro a quattro, fulminei, i proiettili passavano nel cielo, andando a rompersi in quadruplici schianti sulle linee. A un certo punto mi infilai in un basso camminamento scavato nel fango e protetto, da un lato, da un sottile schermo di pietre sovrapposte. Ma tratto tratto quello schermo era sfasciato e il camminamento si perdeva in piccoli crateri che il fango e l'acqua avevano subito riempiti. Dopo duecento metri, pi nessuna traccia del camminamento. Bisognava andare allo scoperto. Mi fermai un attimo a guardare e poi mi accinsi ad attraversare di corsa lo spianato sassoso, pensando che fosse sotto il tiro delle mitragliatrici nemiche. Un caporal maggiore della Sassari, che incontrai proprio in quel punto, mi assicur che li s'era abbastanza sicuri e che le pallottole passavano tutte pi alte. Gli domandai dove fossero le trincee del 151, che avremmo dovuto sostituire; e quello tese un braccio: L, signor tenente... Mi volsi a guardare; e all'improvviso sentii che il caporal maggiore mi si aggrappava a una spalla con un lungo sospiro. Cercai di sostenerlo. Teneva gli occhi chiusi e rantolava. Gli passai un braccio sotto le ascelle: la mia mano si bagn di sangue. Poi mi pes tutto sulle braccia, scivol gi. Una pallottola gli era entrata sotto la spalla sinistra e lo aveva fulminato. Un poco pi avanti, nella dolina Piras, trovai il comando del 151; e raccontai a un piantone della morte del caporal maggiore. Da un ricovero usc un capitano, con una faccia insonnolita, che mi guard con stupore, mi ascolt annoiato e fin per dirmi : Torni alle sue baracche. La linea, ha tempo di conoscerla dopo. Adesso inutile fare delle passeggiate sentimentali, al solo scopo di verificare se il 151 pulisce le trincee come prescrive il regolamento. E al suo colonnello dica che la Sassari se ne frega delle ramazze. Ha capito? Evidentemente il capitano era di malumore. Salutai e ritornai indietro. Alle baracche c'era il mio capitano furibondo, che mi cercava da due ore. Il maggiore mi aveva mandato a chiamare tre volte. Corsi, col batticuore. Al Comando di battaglione il maggiore mi avvert che, finito il primo turno di trincea col mio plotone, sarei passato al comando, come suo aiutante maggiore. Credo di non aver saputo nemmeno rispondergli, tanto ero rimasto contento e orgoglioso. Il maggiore mi guard piuttosto a lungo, socchiudendo, come soleva, un occhio: e poi gli vidi l'ombra d'un sorriso passar furtiva sotto il cespuglio rossiccio dei baffi. Null'altro. Un saluto, rigidissimo; un dietrofront; e ritornai tra i miei fanti. A mezzanotte eravamo in linea. Io presidiavo col mio plotone, il

"budello". *** A che cosa in realt servisse il "budello" e quale compito avesse il plotone che lo presidiava, non si sapeva. Il tenente della "Sassari" che me lo diede in consegna mi disse che nei tre giorni che aveva dovuto starci coi suoi uomini ne aveva avuti otto ammazzati e sei feriti, che si era presi d'infilata dalle mitragliatrici nemiche, e alle spalle dalle vedette delle nostre stesse compagnie distese nella trincea retrostante. Consegne vere e proprie da darmi, non ne aveva: se volevo, potevo far rotolare qualche morto che incominciava a puzzare, nella trincea nemica; ma non era prudente rischiare una fucilata per un morto. Era notte fonda, e non ci si vedeva a un metro dal naso; e in quel fosso di fango, fra quei due incerti muriccioli di viscidi sacchetti di terra non ci capivo nulla. Sapevo solamente che la profondit della trincea era tale, da coprirci si e no fino al petto, e che bisognava pertanto andar carponi di notte e restar sdraiati di giorno, se non si voleva servir da bersaglio a uno degli immancabili cecchini che, pipa in bocca e scodellone di birra a portata di mano, stavano annidati comodamente dietro un mausoleo di pietre nella trincea nemica, un occhio alla sottile feritoia e l'indice della destra sul grilletto. Ma la linea nemica quanto dista esattamente? Esattamente non saprei, e non ho mai cercato di saperlo. Calcola dai dieci ai venti metri. Con quest'ultima confortante notizia il tenente sardo se ne and. La notte era abbastanza quieta, pur con la consueta sparatoria ininterrotta. Cercai di orientarmi alla meglio per disporre le vedette accoppiate. Il "budello" si staccava dalla nostra linea all'altezza della dolina Berardi e si inoltrava diritto verso la trincea nemica che, in quel punto, descriveva una specie di arco di cerchio; dopo circa trenta metri si rompeva in un microscopico fortilizio protetto da un grosso scudo e da una montagnola di sacchetti gonfi di spessa fanghiglia, contro i quali poggiavano, disfatti, alcuni cadaveri di fanti della Sassari. La trincea nemica correva parallela ai budello per una ventina di metri, quindici passi al di sotto di noi, poi se ne scostava, puntando verso la nostra trincea principale. Cos, il "budello" era destinato a ricevere il frutto della sparatoria nemica e della nostra in caso d'allarme o d'attacco. Sistemate le vedette accoppiate, strisciai verso il mio ricovero, che era una specie di buco raschiato nel fango, coperto da una lamiera di zinco. Il mio attendente mi aveva preceduto, come al solito, e lo trovai che bestemmiava in sordina per l'immondizia accumulata in quel metro

quadrato di fanghiglia. Aveva dovuto persino far rotolare gi dalla lamiera un cadavere che vi stava appoggiato a met, come se avesse voluto affacciarsi sulla trincea nemica; e diceva che gli era rimasto sulle dita un odor di morto che faceva venire il vomito. Impossibile accendere una candela; mi aiutavo con la lampadina elettrica. Ma la seconda volta che l'accesi, contro lo spesso scudo che proteggeva a mezzo l'apertura della tana venne a schiantarsi una pallottola, come una fulminea diabolica ditata. Le coperte, dopo mezz'ora, erano fradicie d'umidit. Topi grossi come gattini passavano tra le gambe, famelici. Uscii all'aperto, mi accoccolai alla meglio nel fosso, contro lo scudo, avvolto in un telo da tenda ancora asciutto, e accesi, con mille precauzioni, una sigaretta. Qualche gocciolina gelida veniva leggera dalle nuvole nere a posarmisi sulle guancia, sulla fronte, sulle mani. La fucileria ininterrotta, da Monfalcone al San Michele, pareva un infernale rosario di grilli d'acciaio, che talvolta, lontano o vicino, un'improvvisa ansia disperata intensificava in raffiche furibonde che andavano poi a poco a poco ricadendo nella normalit. A un certo punto il sergente Rosa mi capit davanti tutto eccitato ad annunziarmi che le pallottole venivano da tutte le parti e che gi quattro soldati erano rimasti colpiti, e almeno due, a suo parere, da fucilate dei nostri. Rifeci con lui, piano piano, il penoso percorso del "budello"; poi, riparandomi sotto la mantellina, buttai gi in fretta un biglietto al mio capitano prospettandogli la opportunit di lasciarmi in quel mozzicone illogico di trincea con una sola squadra, per evitare delle perdite inutili. Mi rispose con queste parole: "Non possibile. Budello estrema importanza. Tenga duro". A mezzo della notte le goccioline diventarono pioggia : e parve quasi un sollievo, nell'aria grassa di putrefazione. Ogni tanto si apriva, in cima a un fuso d'oro che sprizzava friggente verso le nubi, il candido bagliore d'un razzo : ondeggiava un poco, con livida stupefazione spettrale sul moncherino della mia trincea, e poi si spegneva; e allora la notte pareva schiacciarsi anche pi nera addosso a noi. Verso mattina la fucileria si spense quasi del tutto; e un sommesso brusio si diffuse per tutte le trincee del Carso. Noi nel budello si dovette addirittura strisciar come vermi. Un caporale che, per scavalcare un bidone, lev un attimo la testa oltre il muretto, s'ebbe una pallottola nella guancia che lo butt gi nel fango ululante di spasimo, mentre dalla vicinissima trincea nemica veniva, distintissima, una grassa risata. A mezzogiorno avevo gi tre morti e cinque feriti. Mi pareva assurdo continuare cos. Tornai a scrivere al mio capitano, facendogli un rapporto particolareggiato della posizione e pregandolo che, almeno, informasse il comando di battaglione per ottenere che, di notte, non si sparasse dalla trincea che ci stava alle spalle. Rispose che avrebbe provveduto. Ma ebbe pi effetto un mio biglietto al capitano Giorgi che comandava la terza compagnia, distesa precisamente in quel tratto di trincea donde ci

venivano le pallottole. Non solo mi rispose assicurandomi che avrebbe tenuto in silenzio tutti i suoi fanti, ma volle lui stesso sincerarsi della cosa, e, nel pomeriggio, capit nel budello a studiare la posizione e a concludere con me che tenere quella specie di camminamento avanzato con un intero plotone era una pericolosa sciocchezza. Era un ufficiale simpaticissimo, il capitano della terza: elegante anche in trincea, con due morbidi baffi biondi, stile milleottocentonovanta, il monocolo e un'arguzia sempre pronta. Ufficiale di carriera e coltissimo, usava considerarci, noi ufficiali improvvisati per la guerra, con un tantino di disdegnosa sopportazione; ma la sua signorile cortesia conteneva tale sottile disprezzo nei limiti di una affabilit abbastanza fraterna. Prima di andarsene dal budello mi sugger di spostare due vedette; e dovetti riconoscere che la sua osservazione era logica. Ma quando il mio capitano seppe della visita del collega e del suo consiglio, mont su tutte le furie e mi refil, per iscritto, un cicchetto in piena regola. Dopo quarantott'ore, ci eravamo abituati anche al budello. Le nostre grigio-verdi erano diventate colore del fango, e color del fango le faccie dei soldati. Si mangiava di notte, con una scatoletta di carne e mezza pagnotta : all'alba ci arrivava una marmitta di caff bollente : ed era l'unico refrigerio della giornata. Quasi tutto il pomeriggio lo passavo sdraiato dentro il microscopico fortilizio che chiudeva il budello, con un occhio contro la feritoia dello scudo blindato e il moschetto pronto, alla posta di qualche austriaco che spuntasse dalla trincea. Ogni tanto ne vedevo salire dei sottili capricciosi fili di fumo azzurro: forse qualche pipa tirolese; e allora puntavo due centimetri sotto quei tenui ghirigori di fumo e aspettavo pazientemente. Un giorno, verso il tramonto, qualcosa si mosse, spuntando appena appena dallo spesso parapetto della trincea; subito sparai. Vennero delle grida soffocate, un trepestio di passi; e poi, di furia, una pioggia di bombe a mano che men lo scompiglio nel mio povero fosso e sventr l'unica ghirba d'acqua che si teneva in serbo per il plotone. Di notte si lavorava a sistemare il parapetto; ma guai a fare anche il pi piccolo rumore: erano stormi di bombe che venivano ad abbattersi sul budello e a buttare all'aria il lavoro compiuto. Bisognava raschiare piano piano nel fango con le vanghette e i piccozzini, restando sdraiati a terra, e accumulare accortamente quel terriccio addosso ai sacchetti di terra allineati, per alzare e approfondire un poco quel misero riparo. Ma le vanghette e i piccozzini si impigliavano spesso nei cenci dissotterrati delle divise grigio-verdi o grigio-azzurri dei morti, sepolti dappertutto, intorno e sotto di noi. E il tanfo che allora ne vampava era tale che bisognava interrompere in quel tratto il lavoro e ricoprir di furia lo scavo. Nei pomeriggi di sole, ad onta del freddo rigido, comparivano delle grosse mosche dorate che ronzavano faticose intorno alle nostre faccie, e alle nostre pagnotte, con un'avidit moribonda. Dopo cinque giorni di siffatta

"guarnigione" eravamo tutti quasi irriconoscibili. E forse lo spettacolo pi buffo, in mezzo a quella grossa famiglia di fantasmi infangati, era la mia bianchissima cravatta che splendeva, alta quattro dita fuor del colletto dove anche le mostrine verde-nere erano diventate una crosta di fango. Come Dio volle, dopo sette giorni e sette notti di quell'inferno, arriv l'ora del cambio. Il sottotenente della terza che mi capit davanti verso le dieci di notte, in testa ai suoi cinquanta uomini accartocciati nelle mantelline, mi dichiar subito che non si sentiva di seguirmi nelle fastidiose operazioni della sostituzione delle vedette, e mi supplic di provvedervi io col suo sergente maggiore. Ma il suo sergente maggiore, forse per vincere la gelida ostinazione dell'acquerugiola che calava da ventiquattr'ore senza tregua dal cielo, aveva fatto appello alla grappa con tanto cieco abbandono che, a cinque metri di distanza, faceva pensare a una grande distilleria. Fummo costretti cos, io e il mio sergente Rosa, a portare una ad una, le coppie delle vedette e i caporali del plotone della terza davanti alle feritoie, e le squadre nelle loro tane. Verso l'alba, ogni cosa era al suo posto; e non osai nemmeno svegliare il mio collega che s'era profondamente addormentato sotto una montagna di coperte gi fradicie. Gli lasciai un biglietto con le consegne pi urgenti, e scesi, finalmente, nella dolina Berardi. Quando fui gi, in quella grande scodella sassosa, al sicuro delle pallottole, e volli, con un sospiro lungo forse trenta secondi, raddrizzarmi sul dorso, dopo una settimana di atroce costrizione, ebbi l'impressione che un coltello acuminato mi si piantasse nelle reni; e caddi sulle ginocchia, come schiantato. Ma una buona sorsata di grappa, una ghirba d'acqua pulita per lavarmi e una dormila di quasi dieci ore mi rinfrancarono del tutto. *** Fu Grillo, il mio attendente, a risvegliarmi, verso il tramonto. Mi domand scusa, e fece: Ho pensato che avrebbe avuto piacere di salutare il capitano Giorgi. Salutarlo? Perch salutarlo, il capitano della terza ? morto un'ora fa. Tra pochi minuti lo portano gi. E allora ho pensato... morto? stato un cecchino. Un colpo solo. In fronte. Corsi al Comando di battaglione. Era in una irrotta, all'altro lato della dolina. Il maggiore era in piedi, senza berretto, con una fonda ruga in mezzo alla fronte, appoggiato al tavolino ; il capitano della quarta si teneva gli

occhi coperti con una mano; l'aiutante maggiore, seduto sopra una pila di sacchetti vuoti, guardava davanti a s in silenzio, come trasognato; qualche soldato, negli angoli, aspettava, immobile. In mezzo, fra due mozziconi di candele infissi in due bottiglie nere, la barella; sulla barella il capitano Giorgi. Gli avevano fasciato la testa e poi calcato sulla fascia bianca il suo berrettuecio grigioverde. Pareva addormentato, e che sarebbe bastato toccargli un braccio per vederlo aprir gli occhi, sollevarsi con un sorriso, accarezzarsi i bei baffi biondi e chiedere al maggiore "Hai ordini, Cibele?". Nemmeno una goccia di sangue; e il viso ancora roseo. C'era solamente una piccola ombra, al sommo delle gote, sotto gli occhi, che dava a tutta la faccia l'impressione di un sottile, appena avvertibile sgomento. Cos presto si faceva dunque a morire? Pensai a sua moglie, che mi avevano detta bellissima ed elegantissima, che lo aspettava in un paesello appena al di l dell'Isonzo, e che tutti i giorni, mi dicevano i colleghi della terza, scriveva al suo "patano" una lunghissima lettera. Finito. Il maggiore fece un cenno; due soldati sollevarono la barella. Ci mettemmo tutti sull'attenti. Cibele si chin a baciare una guancia del morto; poi fece, quasi con furore: Via! Il piccolo corteo usc. Fuori del comando s'erano aggruppati dei graduati e dei soldati della terza, coi loro ufficiali : tutti si accodarono alla barella. Nella dolina che brulicava di fanti, in quell'ora di tregua consueta, all'ombra della imminente sera, ed era tutta un risuonar di voci e di richiami, cal un gran silenzio improvviso. Si udiva il nome del Capitano serpeggiare sommesso di qua e di l, in un sussurrio sgomento. Quando la barella imbocc il camminamento, una raffica di granate pass ululando sulle nostre teste, and a schiantarsi sulla linea nemica. Mi raccontarono com'era andata. Di fronte alla trincea della terza c'era un cecchino che, col suo tapum infallibile, disturbava maledettamente. I nostri l'avevano avuto in eredit dai sardi che, per quanto avessero fatto, non erano riusciti a ridurlo al silenzio. Ogni colpo, centro; ogni centro una sghignazzata grassa. Gi due fanti della terza erano rimasti fulminati; e per la compagnia aveva finito per diffondersi una specie di superstizione paurosa. Quel cecchino doveva essere una incarnazione di Belzeb. Quel giorno era toccata a un caporale che, per un quarto di secondo, aveva levato la testa fuor della trincea. Una pallottola in un occhio, un urlo, e gi, col viso nel fango. Il capitano Giorgi, quando lo aveva saputo, era corso su e gi per la trincea, col frustino in pugno, a scuotere con

affettuosa bruschezza i suoi fanti; una barzelletta per ogni scudisciata. In pochi minuti per tutta la compagnia s'era diffuso un buonumore goliardico. Tutti quei fanti, laceri e rossi di fango, accovacciati fuor dei loro buchi di sasso e di poltiglia secca, ridevano come uno sciame di ragazzi in festa. Arrivato al punto dove era caduto il caporale, Giorgi, ficcatosi il frustino sotto l'ascella, aveva levato lo Zeiss dalla custodia, s'era drizzato quanto era alto su dal parapetto della trincea e puntando tranquillamente il binoccolo sulla linea nemica, aveva detto, a voce altissima: Vediamo un po' dove si imboscato questo tirolese dei miei stivali. Nessuno aveva fatto a tempo a strapparlo gi. Era schioccato un colpo : un colpo solo ; e il capitano era crollato senza un grido, con un forellino rosso in mezzo alla fronte. Tutta la terza aveva urlato di furore; avrebbe voluto balzar fuori a vendicare il suo capitano; ma una sventagliata secca di Schwarlose aveva subito soffocato quel tumulto. Il giorno dopo mi congedai dal mio capitano, salutai, uno per uno, gli uomini del mio plotone, e, col mio attendente, passai al Comando di battaglione, come aiutante maggiore in seconda. *** Il maggiore era sceso al Comando di reggimento, nella dolina Piras, e non torn che all'ora della cena. Era buio in volto, e quasi non rispose al mio saluto. Ascolt distrattamente le novit della giornata, poi entr nella cavernetta scavata dietro l'antro del comando, e foderata di assi di legno che la proteggevano dalla umidit. Mi aveva fatto cenno di seguirlo; lo seguii. Si era seduto a un tavolino, aveva riempito due grossi bicchieri di Chianti, me ne aveva offerto uno. Tentai di rifiutare: Prima di pranzo, signor maggiore... Le fa male? mi domand guardandomi con un sorrisetto ironico luccicante negli occhi socchiusi. Questo no, ma... E allora beva. Bevetti. il solo conforto che ci resti in mezzo a tante fesserie. Adesso mi prepari una proposta di medaglia d'argento per il povero Giorgi. Al Reggimnto dicono che manca una ragione, e che le imprudenze non vanno incoraggiate; ma al Reggimento non capiscono niente. Si persuada che a capir la guerra si comincia appena appena qui, ai comandi di battaglione. Pi si sale, e pi si perde il senso della realt : che il solo, infine, che conti.

*** I primi giorni durai una certa fatica ad orientarmi, sopratutto spiritualmente, nelle mie nuove funzioni. La mancanza di un preciso compito, della precisa responsabilit d'un comando, mi pareva che avesse svuotato d'ogni valore e importanza la "mia" guerra. E talvolta mi domandavo se in quella mia nuova funzione io non avessi trovato una specie di imboscamento; e non riuscivo a quietare la mia trepidazione. Allora uscivo dal Comando, mi davo a percorrere la linea, mi spingevo nel budello, stavo delle ore intere coi miei colleghi di turno di vigilanza, durante la notte, ansioso di non staccarmi dai fanti. D'altro canto cercavo di rendermi utile al battaglione col tempestare di richieste il Reggimento, col lamentare deficienze di materiali e indumenti un poco al di l del necessario; tanto che un giorno l'aiutante maggiore in prima mi mand un secco biglietto coll'ordine di presentarmi a lui l'indomani alle 18. Il maggiore, quando seppe di quell'ordine, s'infuri, chiam al telefono il capitano del reggimento e lo avvert che il suo aiutante maggiore non si sarebbe mosso dalla dolina Berardi se lui non ne avesse dato il consenso. L'altro dovette ribattere con cortese fermezza, finch entr di mezzo il colonnello in persona; e il mio maggiore, tutto accigliato, ripose bruscamente il microfono. Andai. Il camminamento che univa la nostra alla dolina del Reggimento aveva dei tratti scoperti e che correvano perpendicolarmente alla linea nemica. Bisognava passarli di galoppo, se non si voleva finire "centrati" da uno dei molti cecchini austriaci. Di quell'ora, poi, nell'imminenza delle corv, la vigilanza di quei bersagliatori era intensificata; e non neanche escluso che su quei punti di obbligato passaggio fossero puntati dei fucili fissati al cavalletto. Bisognava, insomma, giocar d'astuzia; che era in fondo la pi sicura difesa del fante. Cos, al primo gomito del camminamento, attesi, curvo, pronto allo slancio. Scocc un colpo secco : e un pennacchietto di terriccio sprizz su, due metri avanti a me, dall'orlo del camminamento. Poi un altro, un altro ancora. Contai fino a cinque: il caricatore era finito : mi lanciai. Quando fui ai riparo, di l dalla curva, altri colpi scoccarono, affrettati, quasi precipitosi. L'aiutante maggiore in prima era quello stesso che mi aveva ricevuto ad Armelino : un triestino alto, gagliardo, dallo sguardo freddo e sempre un poco canzonatorio. Rispose appena al mio saluto, e mi avvis che ero incorso in due gravi mancanze: da sette giorni ero aiutante maggiore in seconda del primo battaglione, e non avevo pensato ancora a presentarmi a lui che, in qualit di comandante la compagnia di Stato maggiore del reggimento, era il mio superiore diretto; in secondo luogo, dal momento

che avevo assunte le mie nuove funzioni, non avevo cessato un minuto dal molestare il reggimento con proteste e richieste assolutamente ingiustificate e importune. Non mi puniva per un riguardo al mio maggiore, ma mi ammoniva formalmente a cambiar tattica, se non volevo essere esonerato da quella mia nuova carica. Comunque, desiderando egli tenermi d'occhio da vicino, mi ordinava di presentarmi a lui, tutti i giorni, alle 18, per una specie di rapporto giornaliero. Di fronte a questo appuntamento quotidiano, pensai a quel maledetto camminamento e all'eventualit che una sera, invece di un solo cecchino, fossero in due all'agguato. Forse il capitano dovette cogliere nei miei occhi quel pensiero perch, con un sorrisetto ironico, si affrett ad aggiungere: L'ora non molto comoda, d'accordo; ma la guerra fatta anche di queste seccature. Stavo gi per rispondergli come si meritava, quando entr il colonnello. Mi venne incontro con la mano tesa e un sorriso paterno negli occhi. Oh, ecco il nostro tenentino! Come va, il mio buon Cibele? Poi volle sapere del battaglione, dello spirito dei soldati, di quello che occorreva in linea. Ed io, pronto, ad elencargli tutto quello che da sette giorni chiedevo invano con i miei specchietti e i miei reclami. Giustissimo. Faccia le richieste per iscritto, e ce le mandi subito. Gi fatto, signor colonnello. Ah, s? Le ha lei, capitano? Sa, colonnello, se si dovesse dar retta a tutto quello che domandano i battaglioni, e il primo sopratutto, non basterebbe la Sussistenza del Corpo d'armata per noi soli. Non importa, capitano. Bisogna provvedere; e d'urgenza. Io gongolavo, sotto la maschera di impassibile rispetto che mi irrigidiva il volto. Il colonnello s'era avvicinato all'uscita del comando e, diritto nel vano, contro il cielo roseo per il tramonto, guardava nella vasta dolina il fitto tramestio dei soldati. Sul fondo del cratere sassoso, in una specie di quadrato limitato da una fila di proiettili inesplosi e di grossi fondelli di granate, spuntava una piccola selvetta di rozze croci di legno: i nostri Morti. Per gli spalti della dolina, verso le trincee, dai cento cubicoli, erano usciti i fanti del battaglione di rincalzo, ad aspettare il rancio. Erano allegri. La tranquillit consueta dell'ora, la soave trasparenza dell'aria, le grida e le risate dei fanti, mettevano in cuore non so qual dolce tenerezza nostalgica. Il colonnello guardava i suoi figlioli, immobile. Desidera altro, capitano? Il capitano rispose brusco, a voce bassa : Io? Non vede che c' il colonnello? Il colonnello si voltava, con un gran sorriso che gli raggiava dagli

occhi: Care creature! Le vede? Le sente? Che insegnamento di serenit! Oh, ma lei se ne vuole andare? Con questa luce? Aspetti, diavolo! Perch volersi buscare una schioppettata cos, senza ragione? Non vorrei che il mio maggiore... Cibele ha la testa sulle spalle. Venga con me. Andiamo a trovare i nostri fanti. E lei, capitano, ci faccia trovare un buon vermut per quando ritorneremo. Mi prese affettuosamente per un braccio e mi trasse con s, per la dolina, in mezzo ai soldati che gli si facevano intorno, lieti e rispettosi insieme. Qualcuno osava lanciare qualche piccola domanda audace, subito nascondendosi poi dietro le schiene dei compagni: Quando ci manda in licenza, colonnello? E il colonnello pronto ribatteva, sorridendo, che in licenza non ci poteva andare neanche lui, e che la sua Napoli a quell'ora doveva essere un paradiso e i suoi figlioli tornar di scuola, e la sua signora avere un gran da fare a tenerli in disciplina. Poi dalle sue tasche incominciarono ad uscire dei mezzi toscani, e perfino un intero sigaro virginia che tocc a un caporale zappatore, fra le scherzose proteste dei fanti che sostenevano esser quello un lusso eccessivo per uno zappatore "imboscato". Qualche ufficiale avrebbe voluto intervenire a sciogliere l'assembramento; ma il colonnello strizzava loro l'occhio, come a dire: "lasciateli fare; sono i miei ragazzi..." Io ero orgoglioso e commosso d'essergli accanto in quel momento. Mi pareva che fosse il pi grande e il pi buono di tutti i colonnelli dell'esercito. Quando mi congedai da lui, che gi eran scese l'ombre della sera sul Carso, mi trattenni a stento dal baciargli la mano. E feci tutto il camminamento a testa alta, senza fretta, col petto in fuori e le mani in tasca, fischiettando. Nel tratto scoperto non mi sarei messo a correre nemmeno per dieci giorni di licenza.

V. CASTIONS DI MURE (aprile 1916) Per il turno di riposo ci accantonammo a Castions di Mure, presso Campolonghetto. Uno stradale diritto, con in fondo una chiesa bianca e una bassa canonica; e qualche casolare sull'orlo dei viottoli campestri. All'ombra di un gruppo di platani la casa dell'assessore, dove dimorava il maggiore. Il Comando si install nella canonica; la mensa in una trattoria sullo stradale. Io trovai un tettuccio nello stanzone di un cascinale. Le Compagnie furono accantonate nelle baracche di legno, accanto alla chiesa. Bisognava rimettere in sesto i reparti, un po' sconquassati e logorati da tante settimane di trincea, e riprenderli in pugno attraverso un avveduto allenamento di esercitazioni. Ma, in realt, l'avvicinarsi della primavera, che metteva macchie violette e bianche di fiori sugli orli dei fossati e verdi luccichii sui rami degli alberi, non era propizia a un intenso lavoro di piazza d'armi; e le compagnie venivano, per lo pi, affidate ai sottufficiali. Fu questo lento rilassarsi della disciplina, forse, che port a un incidente che avrebbe potuto avere delle gravissime conseguenze, senza la presenza di spirito di due subalterni, assai benvoluti dai soldati, prima di tutto, e poi abbastanza "vecchi" del battaglione per potere imporsi e ricondurre alla calma e alla disciplina i reparti, con quattro bestemmie e cinque bastonate. Fu cos. Quella sera eravamo rimasti a Castions Frigo della quarta compagnia, comandato di picchetto all'accantonamento, ed io. Il maggiore era stato invitato a Campolonghetto dal colonnelo; due capitani e uno stormo di subalterni erano partiti per Palmanova in cerca d'avventure, in una carrettata semigoliardica di giovinezza; il capitano della seconda si era ritirato per tempo nella sua il stanza. Poteva essere la mezzanotte; la luna splendeva dal cielo sereno sulle baracche, dove tutti i fanti pareva che dormissero profondamente. Il mio collega ed io, nella baracchetta dell'ufficiale di guardia, giocavamo alle carte, in silenzio. Ci eravamo tolti la giubba e le mollettiere. La notte d'aprile era gonfia di tepori e di fiati profumati, che mettevano nelle vene uno strano languore, e avevano finito per farmi rimpiangere di non essere andato coi colleghi a Palmanova. All'improvviso un fitto brusio di voci ci sorprese; e poi subito dei colpi, come se stessero per fracassare una baracca. Ci guardiamo negli occhi, ci alziamo. Il sergente d'ispezione, un vicentino, tutto ciccia, certo Grosselle, di professione sagrestano, piomba nella nostra baracchetta spaurito.

Sior tenente! Il finimondo. In un baleno ci infiliamo la giubba e ci buttiamo fuori. Davanti a una delle baracche c' un tumultuare di soldati. Sentiamo delle grida: Abbasso il Carso! Basta col Carso! Non vogliamo pi il Carso! Siamo stufi del Carso! Viva il Trentino! Vogliamo andare nel Trentino!... Ci avventiamo su quella piccola folla. Nessuno dei fanti ha il fucile. Mi pare di scorgere il lampeggio di una baionetta sopra le teste. Volano delle pagnotte. Una mi colpisce in un occhio. Mi accorgo di aver lasciato la pistola nella baracchetta. Non so come mi trovo in mano una vanghetta da zappatore; forse l'ho strappata a un soldato. Dentro! Dentro! Svergognati! Nelle baracche, per Cristo! Sono il vostro tenente! Sento Frigo che strilla con voce acutissima: Vi mangio il naso, mascalzoni! Figure come queste al vostro tenente! Il tumulto non cessa. Vogliamo andare in villeggiatura nel Trentino! Basta col Carso! Viva il Trentino! Abbranco un caporale che conosco e so che mi vuol bene, lo scrollo: Animale! Fa tacere la tua squadra! Un energumeno che non riconosco alza le sue braccia su di me, gli pianto la vanghetta sul naso; quello d uno strillo e crolla gi, tenendosi colle due mani la faccia. Frigo bestemmia con selvaggia energia. Un'idea mi balena nel cervello; mi tiro indietro, salto sopra una cassetta da munizioni, urlo : Prima compagnia, compagnia di ferro, adunataaaaa! Un piccolo silenzio nel tumulto. Qualche ombra si stacca dal mucchio, mi viene accanto; qualche altra la segue. Frigo fa la stessa cosa, chiama la quarta. Due o tre sergenti, invisibili fin l, escon dall'ombra; ci aiutano. Grosselle mi si fa vicino e mi domanda all'orecchio : Comandelo la guardia? In un quarto d'ora i "rivoltosi" ci stanno innanzi, divisi in quattro gruppi, in silenzio. Incominciamo la litania delle insolenze. Volevate rovinare proprio noi, farabutti che non siete altro; noi che vi vogliamo bene; e voi lo sapete che facciamo di tutto per giovarvi. Asini! Neanche bere, sapete; se vi basta un bicchier di vino per perdere la testa; e finire sotto processo... S, sotto processo. Lo meritereste tutti... Mezz'ora dopo sono tutti nelle loro cuccette, dentro le baracche; e nel corridoio fra le due file di brande, passeggiamo un pezzo, continuando nelle nostre recriminazioni. L'energumeno che ho buttato a terra colla vanghetta ancora alla fontanella dell'acqua, e cerca di fermare il rivolo di sangue che gli esce dal naso. Lo medichiamo alla meglio. Sto per consegnarlo a Grosselle che me lo ficchi nello sgabuzzino della prigione,

quando ecco piombare nel campo, colla Glisenti in pugno, il capitano della seconda. Il sergente d'ispezione lo aveva mandato ad avvisare per un soldato della guardia. Domanda eccitatissimo se abbiamo "catturato" i colpevoli. Niente, niente, capitano: una ragazzata. Qualche bicchier di vino pi del solito. Voglio i nomi. necessaria una lezione. Quella ostinazione mi irrita; gli rispondo male: Non c' nessun nome. Tutti dormono, adesso. Non parlo a lei. L'ufficiale di picchetto aveva il dovere... Avevamo un solo dovere, signor capitano. Ristabilire la disciplina. E lo abbiamo fatto. Tenga gli arresti! ...e se lei veniva mezz'ora fa... ...faccia silenzio; ha capito? Signor s. Salutiamo sull'attenti; e aspettiamo rigidi. Il capitano ci guarda furibondo; e poi, all'improvviso, se ne va; sempre colla Glisenti in pugno. La mattina dopo il maggiore ci interroga tutti e tre: il capitano, l'ufficiale di picchetto e me. C' un rapporto del capitano, che denuncia il tentativo di ribellione del battaglione e il grave atto di indisciplina dell'aiutante maggiore in seconda. Il maggiore prega il capitano di desistere dalla sua ostinazione; il capitano duro, si aggrappa al regolamento : il maggiore, senza tanti complimenti, gli d dello sciocco. La cosa si imbroglia. Nel pomeriggio, il mio compagno ed io siamo chiamati dal colonnello, che ci fa una gran paternale, poi ci domanda, sul nostro onore di ufficiali, quello che , esattamente, successo la sera innanzi. Glielo raccontiamo: una ragazzata; un po' di vino; nessuna intenzione seria di rivolta; tutti bravi ragazzi dei quali rispondiamo, uno per uno, come di noi stessi. Ma i borghesi avranno sentito. durata mezz'ora in tutto. E poi... ci sono i suoi arresti. Lei ha risposto male al capitano... E io devo punirla... Ha ragione, signor colonnello. Cinque giorni di rigore. Ma il "terribile" rapporto del capitano finisce in un caminetto del comando. *** Quella mattina m'ero alzato assai presto, e alle sette ero gi al comando. Volevo finire una lunga relazione sull'uso d'una mitragliatrice contro gli aerei che il maggiore aveva ingegnosamente trovata e provata, e

sperava fosse adottata dai grandi comandi. Dalla porta aperta del mio piccolo ufficio avevo visto passare le compagnie avviate al prato dell'esercitazione, e, poco dopo, il generale Fara, che comandava la nostra divisione, al trotto, fra un gruppetto di ufficiali. Lavorai a tavolino, per due ore fitte, accanendomi in certi grafici e disegni, finche un ciclista del reggimento mi port un telegramma. Lo dissuggellai distrattamente; ma poi restai fermo, con quel foglietto giallo davanti agli occhi, sentendomi un gran freddo al cuor. Diceva quella strisciolina di carta bianca che traversava il telegramma: "Mamma morente vieni subito se vuoi vederla Pap". Mi parve che fosse un sogno ; e mi andavo dicendo : "adesso mi sveglio". Poi balzai su, d'impeto, strappai la bicicletta al caporale, e mi buttai a una corsa pazza per lo stradale. Incontrai il battaglione che rientrava, a passo lento, in una nuvola di polvere. Il maggiore era in testa, a cavallo. Signor maggiore, la mamma. Non seppi dire altro. Lesse; borbott qualche cosa tra i denti; mi fece un cenno; lo seguii per un viottolo campestre. Si ferm; rilesse il telegramma. Immobile, davanti a lui, lo guardavo, alto sulla sella, e mi sentivo la gola stretta da una disperazione incontenibile. Forse cercava qualche parola di speranza, di incoraggiamento. Non ne trov. Si cacci il foglietto giallo in un taschino, volt il cavallo: M'aspetti; vado subito al reggimento. Un'ora dopo era gi di ritorno. Il colonnello gli aveva promesso che avrebbe chiesto subito alla Divisione e che prima di sera avrei avuta la mia licenza. Mi sedetti sulla panchina di pietra, fuor del comando; ed aspettai. Non riuscivo a capire di che male mai fosse ammalata cos gravemente la mamma. Il giorno innanzi avevo ricevuta una sua lunga lettera serena, dove non c'era una sola parola che lasciasse indovinare qualche cosa. Un male fulmineo, allora. E io non sarei arrivato in tempo a... A che cosa? Scattai su d'un balzo dalla panchina, ribellandomi a quel terribile pensiero. Non era possibile. Io le avevo promesso che appena finita la guerra, coi miei risparmi, l'avrei condotta a Venezia, ch'era sempre stato il suo sogno. Lei ed io, soli, a Venezia; ed io le avrei raccontato a poco a poco, davanti alle meraviglie di quella citt, per le sue calli, lungo i suoi canali, la storia e la gloria veneziane; e le avrei... No! No! Non era possibile! Mi pareva una ingiustizia atroce, una crudelt inaudita. Finita la mensa, dove io non avevo potuto andare, alcuni colleghi mi circondarono, cercarono di distrarmi, di assicurarmi che la cosa non doveva e non poteva essere cos grave; e che mio padre doveva avere esagerato sul telegramma per avermi a casa qualche giorno. Il treno da Palmanova partiva alle cinque di sera. Bisognava avere la licenza almeno

alle quattro. I minuti passavano con una vuota lentezza esasperante. Alle due non seppi resistere; e filai a Campolonghetto. Al comando del reggimento trovai l'aiutante maggiore. S, il colonnello era stato alla Divisione e gli avevano formalmente promessa la mia licenza. Un po' di pazienza e... L'ora? Questo era volere un po' troppo: in serata certamente. Avrei perduto il treno delle cinque? Pazienza: c'era un treno l'indomani alle sei del mattino... Dov' il signor colonnello? Dov'? A letto che riposa. Vado da lui. Lei pazzo, tenente. Va bene la sua agitazione, ma... Non lo lasciai finire, uscii, mi feci indicare da un piantone l'alloggio del colonnello, salii per una scala. Un soldato seduto sopra uno sgabello stava lucidando uno stivalone. Origliammo a un uscio chiuso; si sent il fruscio d'un giornale spiegazzato, il colonnello non dormiva. L'attendente entr; lo udii parlottare; un attimo di silenzio, poi la voce del colonnello; Venga, tenente! Entrai. Era seduto sul letto, con indosso un pigiama bianco. Mi perdoni, signor colonnello... Ch, ch, figliolo. Il colonnello qui anche per questo. Ha fatto benissimo a venire da me. Adesso mi vesto subito e torno alla Divisione. Vedr che li faccio muovere, io. No, no; vado io. Per vincere i sergenti maggiori dei grandi comandi ci vuole, almeno almeno, un colonnello. E lei si faccia coraggio, e non pensi al peggio. Che diamine, un soldato come lei... Su, tenente: glielo dice il suo colonnello : lei trover la sua mamma in convalescenza. Due ore dopo avevo la licenza e partivo. All'alba ero a Bergamo. Dalla carrozzella sgangherata che mi port dalla stazione alla mia via Pignolo, attraverso la citt ancora deserta, guardavo le case e le finestre chiuse con uno sgomento e una inquietudine atroci. Allo svolto della nostra via mi sporsi, col terrore di vedere la porta di casa gi addobbata a lutto. Feci le scale di volo; fui su. Mi venne ad aprire il pap, col viso disfatto. Scoppi in singhiozzi, stringendomi fra le braccia. La mamma?... No no... Ma grave, gravissima... No, non entrare; le faresti male. Restai in sala da pranzo, seduto sopra una poltrona, immobile, ad aspettare. Ma forse era un sogno. Una zia mi fece bere una tazza di caff caldo. Poi il sonno, la stanchezza, l'emozione mi vinsero. Vidi la mamma verso mezzogiorno. La polmonite fulminea che l'aveva colta, da qualche ora, subito dopo il mio arrivo, pareva si stesse risolvendo. Magrissima, bianchissima, col viso affilato tra i lunghi capelli

neri, mi sorrise, si lasci baciare, mormor il mio nome con mi filo di voce. Ma gi il sole era in casa, era nei cuori di tutti. La sera, i medici uscirono sorridenti dalla sua stanza e ci annunciarono che si poteva considerare in convalescenza; Uno sugger che, non appena possibile, sarebbe stato opportuno portarla in Riviera, per una guarigione anche pi rapida e totale. Pensai alle parole del mio colonnello, e sorrisi di commozione. Gliele ripetei anche alla mamma ; ella mi ascolt seria seria, e poi mi fece cenno colla testa di no. Perch no, mamma? Questa volta sorrise, ma con tanta malinconia che mi sentii rimescolare. La notte volli vegliarla io, solo. Avevano tanto bisogno, gli altri, di un buon sonno! Seduto accanto al suo letto, in silenzio, guardavo il suo candido viso affondato nella gran massa dei capelli nerissimi. Non riusciva a dormire. Ogni tanto faceva dei gesti bruschi colla testa, e una smorfia di noia le passava rapida sul volto. Che cos'hai, mamma? Niente mi sussurrava. Mi pare... mi pare di sognare, sempre, e che ci sia come un'ombra qui... E si toccava la fronte. Mi pare... di non essere pi io... ecco... un'altra... Non so... Non farmi parlare. Pensavamo che fosse effetto della stanchezza, della gran febbre della settimana scorsa. Le doleva anche una gamba: una fitta interna, acuta, che le si ripercoteva nella nuca... Effetto dell'artrite, che la mamma aveva sofferto anni prima. A tutto si trovava, si voleva, ostinatamente, trovare una giustificazione normale, per salvare quella consolata serenit che avevamo conquistata dopo tanta disperazione. Mancavano ormai tre giorni alla mia partenza. Volli regalarmene uno, e lo passai nella mia prediletta campagna, a Bonate, nel sole. Quando tornai a Bergamo, la sera, trovai la mamma con qualche linea di febbre. Non rispose nemmeno al mio barcio : chiuse gli occhi, fece una faccia severa, poi volt di scatto la testa verso l'altro lato, mormorando qualche cosa che non compresi. Venne un dottore, visit, tocc, ascolt; ma non seppe diagnosticare nulla. La notte parve assopirsi in un sonno pesantissimo. La mattina dopo, ancora la febbre. E quel mutismo ostinato, e quella faccia scura, e quelle smorfie brevi sul viso bianco, come ombre. Le stavamo intorno sgomenti. I dottori scuotevano la testa preoccupati. Verso sera la febbre irruppe altissima; e la terribile parola fu alla fine pronunciata : meningite. Due giorni di spasimo atroce. Non ci riconobbe pi; non mi riconobbe pi. Eppure io ero l, sopra il suo viso, con tutta la mia angoscia; i suoi occhi ardenti di buio mi fissavano e non mi

conoscevano. La chiamavo, le sussurravo il mio nome piano piano, la baciavo sulle guancie, le accarezzavo i capelli. Niente. Respirava un respiro rauco, stridente, quasi feroce. Qualche volta pareva perfino che ridesse. Finita. Fu nel pomeriggio del primo maggio, poco prima di sera. Il pap era accasciato in una poltrona accanto al letto e singhiozzava; mia sorella gli si era aggrappata alle spalle, scossa da un tremito convulso. Io non riuscivo a piangere. Guardavo la mia mamma; la mia mamma, solamente: la mamma. Uno zio le teneva, con mano leggera, un polso, e pareva ascoltare attentissimo. A un certo punto, piano piano, depose quella mano sopra le lenzuola, e si scost dal letto. Due giorni dopo La portammo nel cimiterino di Santa Giulia, a Bonate. C'erano tutti i parenti e moltissimi amici. Anche dei cugini che non avevo mai visti. Una aveva assunto la direzione della cerimonia; ed io la guardavo sentendomi crescere dentro a poco a poco una collera spaventosa. Mi pareva che si stesse commettendo un sacrilegio, e che mi portassero via, mi rubassero la Mamma. La sera, dopo il funerale, una zia ci tenne a pranzo. Dopo un poco di silenzio, si cominci a parlare. Anch'io mi sorpresi a narrare come avessi ottenuto la licenza; e allora, tutto sgomento, colla sensazione precisa di avere offeso terribilmente la mia Mamma, interruppi bruscamente il pranzo, e me ne andai. Ma non potevo ancora piangere. Neanche il giorno dopo, che ritornai col pap e mia sorella sulla Sua tomba, neanche allora riuscii a piangere. Fu pi tardi: quando mi trovai solo nello scompartimento del treno che mi riportava lass, e nella foschia dell'alba piovigginosa vidi sparire la mia citt, e mi parve di non avere pi nessuno, nessuno al mondo, che mi aspettava. A Castions di Mure al battaglione mi sembr di ritrovare veramente dei fratelli. Mai come in quell'ora sentii qual parte della mia vita fossero i miei colleghi e i miei soldati. Mi furono attorno tutti; e nessuno che dicesse una sola di quelle parole di conforto che stridono come lame sul vetro contro il geloso pudore del nostro dolore. Ma tanto seppero fare e dire per riagganciarmi tutto al battaglione, alla sua vita e alle sue piccole vicende, che, per la prima volta dopo tanto dolore, potei pensare alla Mamma quasi con dolcezza, senza quelle ftte di angosciosa ribellione che mi avevano tormentato sin l. Cappetta mi volle accompagnare, a notte alta, nella mia stanza ; e, colla scusa ch'era tardi e lui alloggiava all'altro capo del paese, si fece allestire una brandicciola nella mia stanza dal mio attendente. Ci svestimmo in silenzio, poi sedemmo sui lettucci, in pigiama. Le finestre erano aperte sulla notte calda e piena del canto dei grilli. Accendemmo una sigaretta. Incominciai a parlare della Mamma.

Mi ascoltava serio serio, cogli occhi a terra. A un certo punto, mi accorsi che stavo per piangere. Mi fermai. Ci fu un minuto di silenzio. Credetti d'avere superato il pericolo; tentai di sorridere, feci : Sai, Le avevo promesso che, finita la guerra, L'avrei condotta a Venezia. Noi due soli. Non aveva mai visto Venezia e... Non potei continuare. Cappetta si alz, soffi sulla candela, and alla finestra, e si appoggi al davanzale, in silenzio.

VI. PASSO DI BUOLE (giugno 1916) Qualche giorno dopo arrivava al Reggimento l'ordine di partire per il Trentino, dove l'offensiva austriaca era sempre pi minacciosa. Il maggiore mi mand a preparare gli alloggiamenti del battaglione. Da Caprino veronese, dove avevo gi disposto gli attendamenti delle compagnie e gli alloggi degli ufficiali, un telegramma del maggiore mi port d'urgenza a Ferrara di Monte Baldo; e fu qui che il battaglione fece la sua prima tappa trentina. Una tappa deliziosa. Quella sera, in un piccolo albergo dove c'eravamo riuniti per la mensa, si brind con clamorosa letizia alle fortune del battaglione. Il maggiore era, insolitamente, allegrissimo; ma il soave Valpolicella c'entrava pure per qualche cosa, in tanta allegria. Dopo cena, qualcuno scov un vecchio pianoforte; qualche altro strapp fuori dalla cucina tre ragazzotte prosperose; e incominciarono le danze. Ball perfino il maggiore: una polca furibonda; e finita la polca schiocc, fra gli applausi frenetici degli ufficiali, un gran bacio sulle rosse guancie della sua ballerina. Questa finse di offendersi; e dovette, per punizione, offrir le guancie al bacio dei capitani, mentre la subalternaglia tumultuava intorno alle altre due ragazze. Pareva che il battaglione fosse destinato alla villeggiatura dell'Altissimo; e i fanti cantavano di soddisfazione. Qualcuno ricordava, con un sogghigno di compiacimento, la gazzarra della notte di Castions di Mure, convinto che proprio quel chiasso fosse la ragione di quella paradisiaca destinazione. Ma il giorno dopo furon levate, innanzi l'alba, le tende, di furia; per un alto passo, il battaglione cal ad Avio in Val Lagarina, e dopo quattro ore di riposo, si rimise in marcia verso il Passo di Boule. Inutilmente il maggiore aveva dimostrato al colonnello che il turno di combattimento non toccava al primo battaglione, assai pi logorato e provato degli altri due; e che il relativo conforto dell'Altissimo spettava, per sacrosanto diritto, a noi. Il colonnello aveva tenuto duro, confortato dal parere dell'aiutante maggiore in prima; e il mio maggiore era uscito indignato e furente dal comando. Cos, mentre gli altri due battaglioni si avviavano cantando verso le quiete trincee dell'Altissimo, il nostro eroico e scalcinato Primo si incamminava, in silenzio, verso il Passo. La notte sfavillava di stelle. Si andava, sulla piana rotabile della valle, quasi per forza d'inerzia. Ogni tanto, in fondo ai cieli, sulle cime invisibili, si apriva il balenio lento di qualche razzo. Nessuno parlava. Una stanchezza disperata seppelliva in fondo al cuore ogni sentimento, ogni volont. Avremmo dato dieci giorni di licenza, la nostra ricchezza

suprema, per una notte di sonno. Da quarantott'ore ero in piedi, in cammino, dall'una all'altra compagnia, preoccupato dei viveri, delle munizioni, degli ammalati, delle coperte, degli ordini da trasmettere, dell'itinerario, dei turni di prima linea. Il maggiore, dopo la discussione col colonnello, non aveva pi aperto bocca con nessuno. Davanti a tutti, a cavallo, a cap scoperto, la massiccia persona oscillante al ritmo del passo del cavallo, pareva un fantasma. Tentai di strapparlo da quel mutismo che mi dava un senso di inquieta pena; lo raggiunsi a fatica, gli domandai: Per il turno di prima linea, spetterebbe alla terza e alla quarta. Posso avvisare i comandanti? Alz le spalle, non disse verbo. Il battaglione lo seguiva in silenzio, lasciandosi dietro, nella notte, come una scia di sommesso fragore, una lunga eco di scarponi strascinati, di zoccolar di muli. Davanti a un cascinale che pareva guardare spaurito nel buio con le occhiaie vuote dei suoi finestroni, il battaglione fece alt. Le compagnie si dispersero all'addiaccio dintorno; il comando si rifugi nel cascinale. Un orribile sonno mi bruciava negli occhi, mi rintronava nelle orecchie, mi pesava nel respiro. Girando per i campi, seminati di soldati dormienti e russanti, alla ricerca dei quattro comandanti di compagnia, duravo una fatica erculea a non lasciarmi vincere dal desiderio acutissimo di abbandonarmi a terra, contro un albero e dormire: finalmente dormire! Dopo quasi un'ora di ansiose ricerche, ritornai nel cascinale. In una stanzaccia ignuda, a terreno, sopra un tavolo sgangherato, c'era un mozzicone di candela accesa, e il maggiore stava seduto, reggendosi la testa con una mano, il viso illuminato dalla mobile fiammella gialla. In un angolo, sopra una barella, il tenente medico russava. Il maggiore ascolt distrattamente il mio rapporto, che suggell con un freddo "va bene"; poi mut voce all'improvviso, e mi disse, come non mi aveva mai detto : E adesso riposa un poco. Veglio io. Non ho sonno, signor maggiore. Guardava fisso la fiamma della candela; non mi rispose. Mi sedetti in faccia a lui; puntai i gomiti sul tavolo, il mento sui pugni chiusi; attesi. Sentivo un cerchio di ferro serrarsi a poco a poco intorno alle mie tempie. La testa mi pesava terribilmente. A un certo punto mi accorsi che il maggiore stava parlando. La sua voce mi arrivava come da lontano, e duravo una gran fatica a cogliere il senso di quelle parole. Raccontava della scenata avuta col colonnello. Poi parlava della sua casa di Vicenza, della nipotina che lo aspettava, di sua moglie, di quando era in Libia e si moriva dal caldo. Parlava; ma non mi guardava; e le ombre si componevano e si disfacevano silenziose sul suo viso, contro la candela...

Un ultimo confuso ronzio... Poi il sonno mi pieg, mi schiacci la nuca, irresistibilmente, gi, sulle braccia incrociate... Mi risvegliai bruscamente. Ero sdraiato sopra una barella, sotto una morbida coperta ; il maggiore curvo su di me, sorridendo, mi scuoteva : Su, bisogna andare. Mi alzai a sedere, trasognato. Il maggiore continuava : La terza e la quarta sono gi partite per il Passo. Adesso tocca a noi. Dalle finestre entrava il bigio chiarore dell'alba. Cacciai la testa sotto una fontanella d'acqua gelata; mi risvegliai del tutto; uscii. Le due compagnie sfilavano gi, senza zaino, un uomo dietro l'altro, in silenzio. La mattina era serena; qualche fiocchetto di nuvola bianca stava gonfiandosi a poco a poco di rosa e d'oro. Il maggiore si iss sopra un mulo, mi chiam con un cenno della mano, e si avvi. Mi pareva che avesse negli occhi un sorriso, una luce che non gli conoscevo. E pensavo con una commozione e un turbamento profondi che doveva avermi sollevato di peso, la notte, e adagiato sulla barella e protetto colla coperta, e aver vegliato tutto solo, in mezzo al battaglione addormentato : lui solo aveva ricevuti i fonogrammi dei comando e trasmessi gli ordini alle compagnie, e assistito alla partenza della terza e della quarta; e non aveva dormito, mai, per lasciarmi dormire... Tutto questo assomigliava cos poco al maggiore che mi era sempre sembrato di conoscere, che mi sentivo in cuore non so qual struggente rimorso. Nella fresca mattina, trepida nell'attesa del sole, cantavano gli uccelli, La guerra pareva lontana lontana.. Si andava, dietro il maggiore, in silenzio. Il piccolo gruppo dei soldati del comando camminavano di buon passo intorno a me. A poco, a poco, sorpassammo la lunga colonna dei fanti delle due compagnie partite con noi; e ci cacciamo, per la strada della valletta, nel bosco fitto. Ogni tanto guardavo, di sfuggita, il mio maggiore. Lo vedevo sorridere, e agitare le labbra come se mormorasse qualcosa, a chiss chi. A un certo punto sorprese i miei occhi fissi nei suoi. Arrossii. Che c'? Pensi a questa notte? Il sonno giuoca di questi tiri, caro mio. Noi vecchi resistiamo; pelle dura. Voi, ragazzi... Mi rincresce, signor maggiore. Alz le spalle, cominci a fischiettare una canzonetta popolare. Dopo un poco ferm il mulo, si drizz sulle staffe, guardando indietro. La strada, dritta in quel punto, pareva una galleria verde, tappezzata dai dischetti rossi del sole spuntato da poco che si apriva mille sottili e tondi valichi attraverso il fitto fogliame. Vedi che bella mattina. Te la immagini piazza dei Signori a quest'ora?

Duecento metri pi in su, a una svolta, i segni della battaglia quotidiana. Un grosso albero stroncato, casse di cottura sventrate, una ruota di cannone, due carogne di cavalli. Dal culmine della valle, nascosto dal verde, incominciava a venire il secco crepitio delle mitragliatrici. L'artiglieria ci sorprese quando fummo quasi a mezzo della salita. Fu una brusca, fischiante folata di srapnel che ci pass sulle teste e and a schiantarsi sopra un breve spiazzo, duecento metri sotto di noi, dov'era accampata la sussistenza. Dall'alto vedemmo dei soldati correre qua e l, sparire nel frascame. La lunga fila grigia dei nostri fanti si schiacci, si cancell contro la montagna. Poi riemerse, a brandelli, si ricompose, riprese, lungo nastro oscillante, il suo lento calvario. Il sole era ormai alto nel cielo. Si sentivano dei fringuelli cantare nel folto la loro primavera. Passando accanto alle cucine di un reparto, imboscate dentro un fitto groviglio di frasche, sentimmo un cuciniere cantare. Uno dei nostri fanti gli grid una scherzosa maledizione; qualcuno gli fece eco con una risata; poi ricadde il silenzio. Le mitragliatrici erano pi vicine; qualche vago zufolio passava, misterioso come lo zirlo d'un tordo velocissimo, sopra le nostre teste. Un altro stormo di srapnel ruin gi vertiginoso dall'alto, spaccandosi, con frustate laceranti, sopra la coda della nostra colonna. Ci furono delle urla, delle bestemmie, dei lamenti. Il maggiore si ferm. Mandi a vedere che cosa successo. E faccia un ordine ai comandanti: massima energia, nessun ritardatario, tutti sotto. Riposeremo, se potremo, sotto il comando del settore. Torn il ciclista : la seconda compagnia aveva avuto quattro morti e una diecina di feriti. Riprendemmo il cammino. Prima che la strada uscisse dal bosco, e nuda sui fianchi della nuda montagna, attaccasse con ripida salita il pendio del Passo, addensate nell'ultima zona d'ombra, trovammo la terza e la quarta compagnia che ci avevano preceduti la notte. Poche parole coi due comandanti: poi il maggiore riprese la marcia. Sull'orlo dell'ombra ferm di botto il mulo, allontan il conducente, mi chiam con un cenno della mano : Senti. Se mi dovesse capitare qualcosa... inutile dir di no; lass ci arriveremo, certo; ma quanto al ritornarne un'altra cosa. Dunque, se mi dovesse capitare qualche cosa, ricordati che il battaglione passa, in attesa di un altro maggiore, al capitano della terza. Facendo il rapporto al reggimento, ricordati di dirlo. E poi... Ma signor maggiore! Non fare il ragazzo, e ascoltami. Stanotte, quando tu dormivi, io... ho scritto... Stette un poco incerto, con un pensiero che doveva oscillargli inquieto nel cuore ; poi scosse il capo, si picchi col pugno la coscia,. e

secco conchiuse : Non importa. Andiamo. Facemmo un pezzo di strada, in silenzio. Gli uomini dello stato maggiore erano rimasti indietro, col battaglione. Eravamo soli sulla strada, il maggiore ed io. A un altro svolto, si ferm. Lo raggiunsi. Poco pi innanzi c'era una casupola sbrecciata, col tetto coperto da una bandiera bianca traversata dalla croce rossa : qualche soldato era seduto contro il muro ; dal di dentro veniva un lamento lungo, lacerante, come se stessero sgozzando lentamente un bambino. Un carabiniere era dritto sull'attenti davanti al maggiore, che guardava col binoccolo il Passo formicolante di figurine oscure. Gli diedi la forza del battaglione. Mi interruppe bruscamente : Io salgo al comando del settore con questo carabiniere. Tu torna al battaglione: che stiano laggi, allo svolto, in attesa; e d ai quattro comandanti e al tenente delle mitragliatrici che fra un quarto d'ora tengo rapporto qui, dietro questo posto di medicazione. Cos dicendo si piegava sulla staffa sinistra e alzava la gamba destra per scendere dal mulo. Ma un orrendo ululo si avvent vertiginosamente gi dalle cime. V... : Con un balzo fui dietro lo svolto, mi abbracciai stretto stretto a un macigno. Un attimo. Vrrrannngggg !... Uno schianto spaventoso, una gran luce sanguigna, un rovinio di pietre. Tutta la montagna trem fra le mie braccia spalancate. Quando rinvenni, e mi rialzai stordito e illeso, mi guardai intorno smarrito. Il posto di medicazione non c'era pi, il mulo non c'era pi, il conducente e il carabiniere non c'erano pi. Non c'era che una voragine bianca fra la montagna e la strada; e nella cunetta sconvolta, sotto un macigno spaccato, un sacco grigio. Il mio maggiore. Corsi. Un filo di sangue gli traversava una guancia, si perdeva dentro il colletto della giubba. Teneva gli occhi socchiusi; dal bianco delle iridi pareva diffondersi su tutto il viso una pallida, spettrale serenit. Morto. Una stanchezza pesante, un senso atroce di vuoto mi ghermirono, mi travolsero. Caddi a sedere per terra, accanto al mio maggiore, mi chiusi il volto tra le mani. Intanto erano accorsi i ciclisti, gli attendenti; sorgevano dallo svolto i capitani, i tenenti. Arriv anche il tenente medico cogli infermieri e una barella. Erano tutti intorno al maggiore. Intesi il medico sussurrare: E' morto senza accorgersene. Lo sollevarono, lo deposero sulla barella forse quella stessa dove

egli mi aveva, la notte innanzi, piano piano, per non svegliarmi, adagiato lo coprirono con una coperta, lo sollevarono. Il piccolo corteo si avvi gi verso la pianura. Una mano molle e bianca pendeva fuori dalla coperta, e alla scossa ritmica del passo dei due infermieri, si moveva debolmente, come se mi salutasse: addio addio addio. Corsi allo svolto. La barella scendeva lentamente. I fanti, ammucchiati contro la montagna, si alzavano, ad uno ad uno, e salutavano smarriti. Qualcuno si levava l'elmetto. Il maggiore passava l'ultima rivista al suo battaglione. Mezz'ora dopo, ai Comando del Settore, il colonnello brigadiere ci dava le istruzioni per la difesa del Passo : resistere fino all'ultimo uomo e risparmiar munizioni. Dietro a noi, non c'era pi difesa: la strada aperta per la vai Lagarina e la pianura veneta. A mezzogiorno eravamo al Passo. Trincee non ne esistevano. Sulla cresta, qualche tratto sgretolato di muretto e dei mucchi di pietre; pi gi, sul pendio verso Vallarsa, qualche elemento di trincea per i piccoli posti. Di qua, delle tane per i soldati, e una strada abbastanza larga. Alla nostra sinistra Coni Zugna. Unica artiglieria, per noi, due pezzi da 87 B, al comando d'un tenentone con una barbaccia nera che gli nascondeva mezza faccia. Il primo giorno, un po' lo smarrimento per la morte del maggiore, un po' la incertezza del capitano che lo aveva provvisoriamente sostituito, non si cap gran cosa della posizione. Disperata, d'accordo: ce lo avevano detto chiaramente; ma se tenevan duro ai fianchi, perdere il Passo non ci pareva possibile. Di qua dal Passo, si era ben defilati dal tiro delle artiglierie; e le granate nemiche o si schiantavano contro la parete del colle verso l'altro versante, o andavano a finire gi in valle. I cecchini : quelli s, una vera seccatura. Annidati nelle rocce dello sperone che sorgeva alla nostra sinistra, invisibili e irraggiungibili, stavano all'agguato, sicuri di non mancare il bersaglio. Qualche volta, il tenentone degli 87 puntava i due pezzi contro lo sperone e lanciava una dozzina di granate. Un quarto d'ora di silenzio; e poi gli inesorabili ta-pum ricominciavano il loro terribile, lento rosario. E fu lass, tra quelle roccie, che, qualche tempo dopo, fu scoperto uno di quei maledetti cecchini : un tirolese dalle gambe mozze e con due stinchi di legno dal ginocchio in gi. L'avevano issato in quel nido d'aquile, circondato di barattoli di latta colmi di buon tabacco e pacchi di munizioni; ogni notte, una specie di montacarichi gli recava cibo abbondante e bottiglie di birra : e il monco ferocemente sparava, infallibile, succiando la sua pipa e vuotando scodellone di birra; finch un mattino, per puro caso, una scheggia di granata non gli spacc la fronte. I primi due giorni non si pot chiuder occhio. Gli attacchi, sulla nostra sinistra, si succedevano senza tregua; e il battaglione doveva

essere sempre pronto. Finalmente, la terza notte, dopo uno dei soliti allarmi, ritornata un po' di calma, mi buttai sul mio giaciglio e dormii. Non so quanto: certo pi del solito: almeno cinque ore. Quando mi svegliai fui come abbacinato per la gran luce. Pensai che il mio attendente avesse lasciato sollevato il telo da tenda su l'apertura del pertugio; poi mi accorsi all'improvviso di due solide scarpe piantate a un palmo dal mio naso. Guardai. Dopo le scarpe venivano due mollettiere mal girate, dei pantaloni da soldato, l'orlo d'una giubba: una mano: una manica: e sulla manica, per Dio, il cimiterino d'argento d'un maggiore. Scattai su di furia, confuso. Mi presentai, cercando di abbottonarmi il collo della giubba. Mi rispose secco: Sono il suo nuovo maggiore. Piccolo, colla faccia maschia e scura, la bocca sdegnosa, due occhi color dell'acciaio, freddissimi, una pipetta corta ficcata nell'angolo della bocca. Si alza a quest'ora, lei, di solito? Le assicuro che... Si vesta; presto. Uscii in fretta: mi lavai all'acqua che il mio attendente mi veniva versando da un fiasco : mi riavviai i capelli. Sentivo dietro di me, immobile e freddo, il maggiore; e ne indovinavo l'ironia sferzante dello sguardo. Indispettito, mi scelsi con cura dal tascapane una cravatta, me l'avvolsi intorno al collo, guardandomi in uno specchietto, e scervellandomi insieme, per indovinare dove si fosse mai cacciato il capitano che aveva comandato, per quei tre giorni, il battaglione. Finii per chiederlo a Grillo: Dov' il capitano? Non si preoccupi, tenente intervenne il maggiore. Il capitano al suo posto. Mi voltai, sull'attenti. La forza del battaglione? Gli diedi quella che ricordavo, dagli specchietti del giorno addietro. Trasse un taccuino, la matita: Ripeta. Ripetei. Controller. E' la forza di ieri, signor maggiore. Me lo immaginavo. Devo dirle una cosa. Se tutto il battaglione le assomiglia, avr da divertirmi. Signor maggiore, le assicuro che il battaglione ottimo. Sa lei che cosa vuol dire essere soldato? Sissignore

Ne dubito. Ad ogni modo, io sono un soldato. Mi accompagni ai piccoli posti. E si avvi, con passo rapido e secco. Gli tenni dietro in silenzio. Pensavo al nostro povero maggiore, morto sulla strada del Passo, e alla ultima notte nel cascinale in fondo alla valle; e mi pareva che quel piccolo ufficiale dagli occhi grigi e dalla voce tagliente e sferzante ne offendesse persino la memoria. Sul pendio verso Vallarsa, il bosco era a un certo punto interrotto da una larga rupe, bianca come una cicatrice mostruosa aperta nel verde, che strapiombava lucida a valle: un passaggio obbligato, dove s'era invano tentato di scavare alcuni appigli nel sasso e di stendere una qualsiasi mascheratura. Gli austriaci vi tenevano puntata una mitragliatrice. Trattenni il maggiore sull'orlo del bosco, e gli spiegai in poche parole il pericolo di quel passo. Ebbe un breve sogghigno, e poi mi ordin brusco : Mi preceda. L'ordine non mi fece n caldo n freddo. Avevo dovuto altre volte, in quei tre giorni, superare quella rupe, e sapevo ormai dove puntare i piedi e a qual ramo sporgente aggrapparmi colle mani per passare di l. Lo precedetti; poi mi fermai, e, tenendomi colla sinistra al ramo, protesi la destra verso il maggiore. Fu appena in tempo a ghermire la mia mano era scivolato sulla roccia. Mi pes tutto sul braccio. Tenni duro. Si aiut alla meglio scorticandosi la sinistra contro il sasso. Fu nel bosco. Mi avvidi che non aveva perduto la corta pipetta, sempre stretta tra le labbra, in un angolo della bocca. Non c' mai scivolato nessuno? Qualcuno s; e sono finiti in valle. Bisognerebbe mascherarlo. impossibile, signor maggiore. Non c' nulla d'impossibile. Stette qualche minuto a guardarsi intorno, pianta per pianta, dalla cresta del passo alla valle. Poi si volse verso di me, e disse, pensoso : giusto. Non possibile. Ad ogni modo... la ringrazio d'essere stato pronto ad aiutarmi, poco fa. A mezzogiorno, facemmo colazione insieme, nel baracchino del comando. Veniva dal 207; e tutto il suo battaglione s'era immolato eroicamente a Castel Dante. Era sardo; aveva fatto le campagne d'Africa; due medaglie d'argento splendevano gi sulla sua giubba. Non beveva vino; mangiava pochissimo. Divor con ingordigia un cartoccio d'uva bianca che il suo attendente, un soldatino sassarese color cioccolatta, gli aveva portato da Ala. Finita la colazione, si schiacci nella pipa un intero sigaro Virginia, si sdrai sul tettuccio di paglia, e incominci a tempestarmi di domande sui miei studi, la mia famiglia, i miei libri, le mie predilezioni letterarie. Ascoltava le mie risposte con molta seriet,

senza interrompermi, guardandomi con fissit negli occhi. A un certo punto chiuse gli occhi; credetti che volesse riposare; mi alzai. Si fermi. Esit un poco. Credo che la terr con me e non la rimander in compagnia. La notte, come al solito, un attacco. Sulla nostra sinistra : violentissimo. La cresta del passo era tutta impennacchiata dei sanguigni scoppii degli srapnel. I due 87 B latravano furibondi. Il maggiore, colle mani ficcate nelle tasche della giubba, la pipa in bocca, dritto in piedi sopra un grosso sasso, proprio sul culmine della cresta, guardava impassibile. Con una certa ansiet dominavo l'istinto di buttarmi a terra, di dove si sarebbe potuto veder benissimo e con assai minor rischio. Mi pareva una bravata inutile. Le compagnie sono pronte? Dietro la strada gli risposi nel fracasso del bombardameno. Uno srapnel venite a schiantarsi a poca distanza dalle nostre teste; mi buttai di botto contro un masso. La voce secca del maggiore mi drizz subito in piedi. ferito? No, signor maggiore. Non aveva battuto ciglio. Pensai con una certa irritazione che fare l'aiutante maggiore di quell'uomo non dovesse essere la cosa pi semplice del mondo. L'attacco sulla nostra sinistra si spense contro la ferma ostinazione dei nostri alpini. Poco prima dell'alba, sul passo e nella valle era il silenzio. Prima di rientrare nel baracchino, il maggiore volle passare davanti alle quattro compagnie ammassate contro una lunga parete erbosa, sulla strada del passo. Abbassai la tenda che chiudeva il nostro ricovero che il sole gi tingeva di rosso le cime. Stavo per chiuder gli occhi quando il maggiore mi disse: Lei avr certo pensato che era inutile esporsi cos, in cima al passo, con tutti quegli srapnel. Diventai rosso, nell'ombra, e non osai rispondere. Sono contento che lei non neghi. Ma non era inutile. Per l'esempio. No. Una cosa pi semplice e pi umana. Molto meno poetica. Si persuada che se il soldato vede i suoi ufficiali tranquilli, in piedi, colla testa bene diritta, allora pensa che un gran pericolo non ci deve essere e che probabile salvare ancora una volta la pelle. Nient'altro che questo. Come vede, la letteratura non c'entra. E adesso... dormiamoci sopra un paio d'ore. Per quanto non ci fossero stati ancora dei contatti diretti il

maggiore non aveva chiamato che i quattro comandanti di compagnia per un brevissimo rapporto pure si era diffusa tra gli ufficiali del battaglione una irritata diffidenza verso il nuovo comandante che, anche coi tre capitani e il tenente della quarta, aveva usato un linguaggio secco, autoritario e sprezzante. Ed io l'avvertivo chiaramente, girando per i comandi delle compagnie, nei baracchini dei miei colleghi. Ero, come tutti loro, un figlio del battaglione; mi volevano bene come a un fratello; non avevano mai avuto segreti per me. Ma adesso, quando comparivo davanti a loro, interrompevano bruscamente la conversazione, tenevano gli occhi bassi, parlavano a stento. Finche uno di loro, all'improvviso, sbott : Ma si pu sapere come fai a vivere accanto a quell'uomo? Perch non domandi di ritornare in compagnia? Non ti sei ancora accorto che si diverte a sfotterci? Risposi difendendo il maggiore, e assicurandoli che presto sarebbero stati d'accordo con me. Severo; forse troppo severo; siamo intesi. Ma che soldato, amici miei! Vi giuro che con lui siamo al riparo per sempre da ogni ingiustizia e da ogni sfott dei comandi. E se ci fosse stato lui, a Passo di Buole sarebbe venuto il terzo battaglione, come vero Iddio. Non mi credettero. I tre capitani rinfocolavano quel piccolo braciere di indignazione e giuravano che, non appena fossero a riposo, avrebbero pensato loro a ricondurre alla ragione quel pignolone. Intanto, vicino al maggiore, io ne subivo sempre pi l'ascendente; sempre pi mi sentivo legato a lui da un'ammirazione e da una devozione vivissime. Sentivo che egli concepiva il battaglione come una famiglia di sacerdoti legati da una rigida e austera fede, e non come un'accolta di allegri ragazzi che sopportassero serenamente i sacrifici della guerra, alleati nel non voler grane e pronti a godersela non appena fosse possibile. Un giorno fece chiamare, all'improvviso, il direttore di mensa e gli pose brusco questa domanda : Quanto vino si consuma per la mensa del battaglione? Sono venticinque ufficiali: quattro sono astemi; per gli altri calcolo circa... trenta fiaschi al giorno. Poi ci sono gli straordinari... E sorrideva, il buon collega, d'un innocente beatissimo sorriso. Il maggiore non disse verbo, e conged in silenzio l'ufficiale. Una sera il colonnello che comandava il Passo scese, col suo aiutante maggiore, al nostro baracchino; e tutti e quattro, seduti su quattro sassi, sull'orlo della strada del Passo, bevemmo il caff. La sera era tranquilla e sereno il cielo: intorno a noi, per i pendii ad anfiteatro, era il brulichio dei fanti; qualcuno cantava; lungo la strada della valle si snodava una breve colonna di muli. Il colonnello parlava di uno dei recenti attacchi austriaci e asseriva che quell'avanzarsi serrato e lento, a plotoni affiancati, come in

un campo di manovra, era una dimostrazione evidente dello spirito di disciplina del nemico. Crede lei, maggiore, che sarebbe possibile ottenere altrettanto dai nostri uomini? Non questa la domanda da porsi gli rispose il mio maggiore. un'altra. La disciplina austriaca, questa che li manda all'assalto in plotoni affiancati, pu adattarsi al nostro temperamento, e quindi dare dei frutti? Io rispondo di no. Badi, colonnello : io sono addirittura un fanatico della disciplina. Non esiterei a sparare su mio fratello, se mancasse al dovere. Ma un'altra disciplina quella che io servo e che io sento. Attraverso la persuasione? Ah no. Questo un concetto democratico; e, come tutte le trovate democratiche, destinato, nella realt, a disgregare le energie o a investire l'individuo di responsabilit pratiche e morali superiori, quasi sempre, alle sue possibilit. No, io voglio una disciplina gerarchica. Disciplina ferrea nei capi, piccoli e grandi: dal caporale che comanda la squadra, al capitano che comanda la compagnia, per restare nell'ambito del mio comando. In ciascuno il senso preciso della responsabilit, ma una responsabilit ben definita; e una coscienza del dovere spinta fino all'estremo, fino al colpo di rivoltella. Chiusa cos la massa dentro questa rete di coscienti responsabilit, frazionata in tanti piccoli reparti, ognuno dei quali cammina collo stesso passo e collo stesso cuore, essa funziona mirabilmente. E questo non disgregare? No; perch al di sopra dei quattro caporali c' il tenente che fonde le quattro squadre, senza distruggerne le rispettive unit, nel plotone; al di sopra dei quattro tenenti c' il capitano; al di sopra dei quattro capitani c' il maggiore. Se un soldato sbaglia, io faccio punire il suo caporale e il suo tenente, perch non han saputo salvare la integrit disciplinare della loro squadra e del loro plotone. Come teoria non c' male; ma e la pratica ? Non teoria, colonnello ; per me una certezza assoluta : una consuetudine morale e professionale. Il colonnello stette un poco a pensare, scuotendo la testa, poi tir un lungo sospiro, osserv che da un pezzo non si godeva una sera cosi tranquilla, e se ne and, augurandoci la buona notte. Seguendolo collo sguardo mentre saliva faticosamente per il sentiero sassoso verso il culmine del Passo dove, dietro un cumulo di roccie, aveva la baracca del suo comando, vedevo che gestiva e alzava le spalle parlando animatamente col suo aiutante. Probabilmente criticava la dottrina del mio maggiore. Anche il maggiore dovette accorgersene perch colsi un lieve sorriso passare nei suoi occhi grigi. Riemp accuratamente la sua pipetta, allung le gambe verso la strada, si appoggi tutto contro il

baracchino, e continu: Gli ho messo nella testa dei dubbi. Ma vecchio; cresciuto alla Scuola; non ha mai pensato che le cose potrebbero anche essere diverse di come gliele hanno insegnate. La realt insegna solamente a chi vuole imparare. Ed io... io non credo di sbagliare. E spesso penso che anche i popoli sono come dei grandi battaglioni, che bisognerebbe governare cos. Invece la democrazia ha messo dell'acqua in tutti i vini, tranne in quelli che avvelenano e ubriacano; ha distrutto il principio della gerarchia, che il fondamento d'ogni istituzione non effimera. Ma il popolo i suoi gerarchi se li elegge da se stesso; e mi pare che eserciti con questo un suo sacrosanto diritto. Caro tenente, non pu esistere una gerarchia, un ordine gerarchico se non fondato sul principio di autorit. Se noi ci eleggiamo da noi stessi i nostri capi, creiamo una falsa gerarchia, basata sopra un equivoco, e che lascia intatti in noi il diritto di discutere e di criticare, e quindi quello di disubbidire. L'ordine gerarchico deve scendere dall'alto al basso; non pu salire dal basso in alto. La sera diventava notte. Il cielo fioriva di stelle. Il brusio dei soldati sul Passo si quietava a poco a poco. Anche lass, vede, mormor il mio maggiore additandomi il firmamento anche lass, tutto una gerarchia. *** Qualche giorno dopo scendemmo dal Passo. Avremmo dovuto portarci a Schio, e qui ci sarebbe stata comunicata la nuova destinazione. Il maggiore aveva assistito immobile e impassibile, dritto in piedi sopra un grosso masso sull'orlo della strada, allo sfilare lento delle quattro compagnie e della sezione mitragliatrici. Soldato per soldato, nessuno era sfuggito ai suoi occhi attentissimi. Quando l'ultimo fante fu passato, si volse verso di me e disse : Ha visto? Una sfilata di straccioni. Mi parve che offendesse anche me, che offendesse anche i morti; e gli risposi con concitata indignazione : Ma, signor maggiore, dopo quindici giorni di trincea come questa... Lei non capisce niente. Erano straccioni anche i soldati di Napoleone, nella prima campagna d'Italia; ma erano dei soldati. Questi... saranno stati dei soldati e torneranno ad esserlo domani; oggi non lo sono pi. Eppure sul Carso, quante volte... Lasci stare. Capir pi tardi. A Vicenza, il treno speciale che trasportava il nostro battaglione arriv poco prima di mezzogiorno. Faceva caldo. I mille fanti si

sbracciavano, senza giubba, fuor dai finestrini, vociando e invocando frenetici i carrellini del Ristoratore colmi di fiaschi. Il gruppo degli ufficiali, raccolto in un angolo parlottava sommesso. Il capostazione ci inform che non saremmo ripartiti che alle quindici. Il maggiore chiam i quattro comandanti di compagnia, autorizzandoli ad uscir dalla stazione, per turno; ma nessun subalterno e nessun soldato doveva lasciare il treno, per nessun motivo. Poi mi fece un cenno, e lo seguii in citt. Ha visto? Musi duri, arcigni, pieni di riprovazione. Sar un divertimento ricondurli, uno per uno, alla ragione! Le assicuro, signor maggiore, che son tutti ottimi ufficiali. Non lo metto in dubbio. Soltanto... io non voglio degli ottimi ufficiali. Voglio dei buoni ufficiali. E diverso, non le pare? Ma vedr, vedr. Poche ore dopo, a Schio, attendate le compagnie, tenne il primo rapporto a tutti gli ufficiali. I comandanti di compagnia gli presentarono, ad uno ad uno, i subalterni; a tutti strinse la mano, senza sorridere; poi rest qualche secondo immobile, piantato sulle corte gambe davanti al semicerchio dei ventisei ufficiali silenziosi. Finalmente parl: freddo, preciso, scandendo nettamente le parole, gli occhi piantati negli occhi dei suoi ufficiali. Io non li conosco, loro non mi conoscono. Ci conosceremo subito. Ho gi avuto occasione di osservare che molte cose, troppe, non sono come dovrebbero essere, come dovranno essere. Bisogna rimediare. E per rimediare, non c' che un mezzo. Ubbidire. Disciplina. La mia disciplina. Non amo le chiacchiere : sono inutili. Non amo le discussioni : sono dannose. Dopo la guerra, ognuno riprender a discutere. Qui, no : per nessuna ragione. Si ricordino che la sostanza della disciplina tutta in questa paradossale ma sacrosanta verit: i superiori hanno ragione sopratutto quando hanno torto... Ma lei non rida, aspirante! scatt, tendendo il dito verso un aspirante della seconda che s'era tutto rischiarato, a quell'uscita, in un beato risolino; perch se ride a queste mie parole segno che lei non capisce e non ha mai capito niente, e il suo capitano non le ha spiegato nulla e non le ha insegnato nulla. Si ricordino che io esigo che ciascuno di loro non abbandoni mai, n in trincea n a riposo, il proprio reparto; ed esigano lo stesso dai comandanti delle squadre. Si ricordino che non tollero transazioni, mezze misure, accomodamenti. Si ricordino che la nostra disciplina non conosce il perdono, non conosce il "vedo ma fingo di non vedere" ; e che i menefreghisti sono esiziali come i disfattisti e i disertori. Si ricordino che la guerra una cosa seria, terribilmente seria. E poi... e per oggi baster, perch avremo modo di intenderci nell pratica quotidiana dei nostri rapporti ...e poi...

E qui si ferm, guard ad uno ad uno tutti gli ufficiali: ...e poi lor signori bevono troppo. Bevono troppo i soldati; e questo si pu anche capire; bevono troppo gli ufficiali, e questo assurdo. Il mio predecessore, morto eroicamente a Passo di Buole, amava il vino. Io sono astemio. Non ho altro da dire. Il capitano della prima, con voce roca, grid, e parve un grido di sgomento : Signori ufficiali, attenti! Il maggiore guard l'attenti, e gelido osserv : questo il loro attenti? Gli ufficiali corressero la loro posizione. Attese qualche secondo, salut con gravit : Grazie. S'accomodino. Volse le spalle e s'allontan. Non era ancora scomparso alla vista, che tutti mi furono addosso, furenti di indignazione: un cretino! un miles gloriosus! Si crede Napoleone! Ma con noi l'ha sbagliata! E' un soldataccio! Viene dalla gavetta! Ha insultato il povero maggiore! Ci tratta come pezze da piedi! Gliela faremo veder noi!... Vergognati d'essere il suo aiutante! Ritorna in compagnia! Piantalo! Pareva un comizio goliardico. Il pi inferocito era il capitano della prima che strillava in nome dei "sacri principi", e della nobilt delle dottrine democratiche contro la "disciplina teutonica e oscurantista" che proprio la guerra avrebbe dovuto cancellare dal mondo. Cercai di quietare il tumulto. In fondo, un valoroso! Ha due medaglie d'argento; e quando lo conoscerete meglio... Non mi lasciarono finire. Ero un traditore, un venduto, un rinnegato. Dovetti svignarmela ; non cos presto da non udire il proposito di quella turba di fratelli: "questa sera a mensa, tutti la sbornia". Ma il proposito non ebbe seguito, perch poco prima del tramonto il battaglione partiva di furia verso il Magnaboschi.

VII. DAL MAGNABOSCHI ALL'ASSA (giugno-luglio 1916) Salendo su per incerti sentieri, sotto il sole ardente, si incontravano talvolta dei bersaglieri che correvano gi, laceri e sporchi. C' molto ancora per arrivare al Magnaboschi? La guerra pareva lontana. Non c'erano, che due aeroplani nemici, altissimi, nel cielo abbacinante, che ronzavano, con le crocette nere sotto l'ali trasparenti. Il battaglione s'era allungato smisuratamente, per la salita faticosa. Il capitano della prima, che arrancava dietro a noi, teneva il fazzoletto bianco sotto l'elmetto. Grassoccio e rubicondo com'era, ricordava irresistibilmente Tartarin. Alla fine sbucammo in una specie d'altipiano lutto verde, orlato, sul fondo, da oscure abetaie. Neanche una nuvoletta di srapnel nell'azzurro; solo un lontano crepitio di fucilate. Gli altri due battaglioni del reggimento ci avevano gi preceduto. Dovevano essere in linea. Dove? Pass, di corsa, un soldato colle nostre mostrine. Dov' il comando del reggimento? L e tese il braccio, senza fermarsi, verso le abetaie. L. Su e gi per i molli e teneri avvallamenti dell'altipiano, nell'erba che era alta fin quasi al ginocchio; e poi per una larga mulattiera che passava al piede della fitta foresta e finiva in uno spiazzo dove gli alberi eran radi e formicolavano di fanti. I nostri. Mezz'ora dopo, le quattro compagnie s'erano acquattate all'adiaccio per l'abetaia, e il maggiore ed io eravamo sotto la tenda del colonnello, giunto da pochi giorni al reggimento, cogli altri due maggiori e i loro aiutanti. La situazione quasi disperala spieg il colonnello colla bocca piena di pagnotta e formaggio che andava mordendo con gagliardia da un grosso pezzo che si teneva stretto in una mano. Quel ch' peggio, non se ne capisce niente. Gi, alla malga del Comando della zona e protendeva il grosso pezzo di formaggio verso uno degli avvallamenti dell'altipiano dove, in mezzo all'erba alta, si vedeva una bassa capanna oscura il generale non ha saputo dirmi altro che questo : tenete duro, tenete duro. Da un colonnello di Stato maggiore ho potuto sapere che gi nei boschi, son stesi sette od otto battaglioni, ma ridotti ai minimi termini. Artiglieria niente; per le mitragliatrici mancano le munizioni. Noi siamo l'estrema, ultima riserva di tutta la zona. Se li lasciamo passare, sono a Schio, e poi a Verona. Ecco tutto. Ho mandato un tenente per una ricognizione;

aspettiamolo. Ci dir qualcosa di pi preciso. Intanto, se vogliono, c' del formaggio; un po' amarognolo, ma, dopo tutto, potrebbe essere anche peggiore. E che Dio ce la mandi buona. Torn il tenente. Aveva visitato "le posizioni"; e poteva assicurare che non esistevano. Non esisteva che una catena d'uomini, sdraiati sui sassi, contro gli abeti; e morti dapertutto. Qualche vedetta s'era appiattata dietro tre o quattro cadaveri accatastati. Gli austriaci sparavano incessantemente; le pallottole venivano da tutte le parti. Per ora, il reggimento l'ho tutto qui, sotto mano; e se sfondassero, si potrebbe attaccarli all'aperto, qui, sull'altipiano. Un po' di guerra manovrata, dopo tanta trincea... Ma se me lo disperdono... e il colonnello scosse perplesso la testa. Proprio in quel momento arrivava di corsa un sergente dei bersaglieri, con un biglietto del generale: un battaglione doveva portarsi senza indugio alle chiuse di Val Lastaro, dove i nostri pareva non potessero reggere pi. Ci siamo sospir il colonnello. A quale tocca? Al primo mormor senz'alzar gli occhi l'aiutante in prima. Allora, maggiore... Sono pronto. Un quarto d'ora dopo le quattro compagnie erano pronte, sotto gli abeti. Il maggiore le pass rapidamente in rassegna, poi chiam gli ufficiali. Li guard, come sempre faceva, a lungo, negli occhi, uno per uno; poi disse: Signori ufficiali, il nostro compito sar duro; durissimo. Conto sull'energia, sulla volont di ciascuno di loro. Oggi pi che mai, bisogna essere intransigenti coi propri soldati, ma intransigenti sopratutto con s stessi. Preciser pi avanti, non appena conoscer la posizione, i compiti di ciascun reparto. Andiamo. E si mise in cammino, per la mulattiera, dietro il sergente dei bersaglieri, che doveva guidarci alle Chiuse. A un certo punto, la mulattiera piegava ad angolo retto, attraversava l'abetaia, e si buttava gi, per il bosco, verso la valle. Il sergente si ferm; doveva ritornare dal suo generale. Ci spieg che pi innanzi avremmo incontrato uno sbarramento di tronchi d'alberi con un plotone di territoriali; di l ci avrebbero mostrato la strada per arrivare alle Chiuse. Il mio maggiore parve esitare un attimo; poi mi si volse brusco e disse : Lo segua; e, a mio nome, domandi al generale, istruzioni precise. Seguii il sergente, al galoppo, gi per i prati dell'altipiano, e piombai alla porta della baita, proprio mentre un gruppo d'ufficiali ne stava uscendo in fretta, Il signor generale? Chi mi vuole? E lei chi ? Non lo avevo riconosciuto. Mi presentai, domandai istruzioni per il

battaglione. Istruzioni?... Che istruzioni d'Egitto!... L'ordine era chiaro mi pare. Resistere; a tutti i costi; fino all'ultimo uomo. E ai nostri fianchi, signor generale? Non preoccupatevi dei fianchi, per Cristo ! E se ne vada subito... Andiamo; ho fretta; ho fretta. E il gruppo degli ufficiali se ne and, frettolosissimo, per un sentierino tra l'erbe. Raggiunsi il battaglione che era gi, nell'abetaia, in fila indiana, sulla mulattiera. Il maggiore ascolt il mio breve rapporto ; concluse : Sta bene. I segni della battaglia quotidiana erano intanto divampati davanti ai nostri occhi con una violenza inaspettata. Ai due lati della mulattiera, sotto gli alberi, una fungaia di morti, in grigio verde e in grigio azzurro; elmetti, fucili, baionette, cartucciere, casse di cottura sventrate, mitragliatrici contorte e disfatte, alberi mozzi o scheggiati; e una miriade di buchi di granate. Sempre pi vicini lo sgranarsi secco della fucileria e le prepotenti raffiche delle Schwarzlose. Infiniti miaolii di pallottole zirlavano tra i rami. Il maggiore andava innanzi di buon passo; e dietro veniva con sommesso trepestio l'intero battaglione in silenzio. Soltanto qualche grido improvviso rompeva l'atroce ansia che ci teneva il cuore. Non si sapeva dove si andasse e che cosa ci aspettasse quando fossimo giunti. Forse, uno stormo di austriaci, d'un tratto, sarebbe piombato addosso a noi, ignari, e ci avrebbe travolti. Pareva di camminare nel buio pi fitto ad occhi fasciati. Dopo circa un'ora di cammino, sbucammo in un largo della valle, contro un'alta muraglia di tronchi d'alberi, intorno alla quale si movevano, intenti a scavare, dei soldati della territoriale al comando d'un sergente maggiore, dai grossi baffi grigi. Il vostro ufficiale? Non c': rimasto ferito; e il posto lo comando io. Erano ventotto territoriali, di classi anzianissime, tranquilli, austeri, quasi patriarcali, coi lunghi fuciloni, senza elmetto. Che consegna avete? Difendere lo sbarramento ad ogni costo. Ho messo due piccoli posti lass, nel bosco, alla mia destra, e due a sinistra, per il collegamento; ed aspettiamo. Il maggiore guard con compiacimento quel vecchio sergente cosi tranquillo e sicuro, e gli mise una mano sulla spalla: Sta bene. Davanti a voi chi avete? Il sergente non sapeva bene; dei reparti di bersaglieri e di fanteria, stesi un mezzo chilometro avanti, di l dalle Chiuse. Ci doveva essere una specie di conca con un comando avanzato proprio sotto la linea dei soldati. Il maggiore fece raccogliere tutto il battaglione contro lo sbarramento, e,

con me, si butt di corsa gi per la mulattiera che, oltrepassato lo sbarramento, continuava a scendere nel bosco. I morti infittivano sempre pi; qualcuno giaceva di traverso al sentiero, e s'era costretti a scavalcarlo; le fucilate crepitavano incessanti. Il sole, calando, tingeva il cielo, sopra gli abeti, d'un rosso sanguigno. Arrivammo sull'orlo della conca. Sul fondo stagnava una larga pozzanghera d'acqua gialla. Qualcuno ci grid qualcosa, agitando un braccio fuor d'una bassa apertura nera, a fior del fango. Nostri? Nemici? Non si vedeva nessuno: tranne che i morti. Fischiavano pallottole, vicinissime; si schiantavano sui sassi secche e furibonde; schizzavano nella pozzanghera come gragnola. Altre grida, pi alte, pi concitate. Ci buttammo avanti, colle pistole in pugno. Dall'apertura spunt il viso grosso d'un ufficiale: Qui, qui, presto, per la Madonna santissima! Ci infilammo nell'antro. C'erano due tenenti colonnelli, vestili di fango e colla barba lunga sulla faccia sporca. Comandavano i resti di due battaglioni distesi sull'orlo della conca, cinquanta metri pi in su del fondo. Impossibile controllare le perdite; forse il settanta per cento. Un miracolo che gli austriaci non tentassero di scendere. Nessun mezzo di resistere, di organizzare una difesa, di preparare una manovra. Le mitragliatrici austriache erano piazzate tutt'intorno alla conca! Metter la testa fuor dell'antro significava morire : o press'a poco. Le pallottole s'infilavano perfino dentro i ricoveri dove s'erano cacciati i feriti; e li finivano. Due vie d'uscita: crepare o Mathausen. Il maggiore fece qualche altra domanda sulla posizione; ma non cav altro. I due colonnelli giudicavano disperata la situazione, e inutile ogni tentativo; meglio aspettare che la faccenda si liquidasse ai fianchi. Il maggiore stette un poco a pensare, poi fece semplicemente : Va bene, e si mosse per uscire. Dove vai? A vedere dove posso stendere le mie compagnie. Vai a farti friggere. Lasciale allo sbarramento : l'unica cosa buona che si pu fare. Non rispose, mi fece un cenno rapido, uscimmo. La fucileria dava l'impressione d'una fitta grandinata furibonda. Buttati a terra, col naso tra i sassi, d'abete in abete, strisciando come lucertole, salimmo su per l'anfiteatro della conca, in cerca della linea dei soldati. Finalmente, in mezzo a tanti morti che parevano vivi tanto di schianto li aveva colti la morte, trovammo un soldato vivo. Schiacciato a terra, s'era accumulato contro la testa un tozzo muretto di pietre, e guardava in su, per una feritoia. Quando si sent prendere per una caviglia di un guizzo, e ci si volt contro colla baionetta. Pellegatta, sussurr. Terza compagnia.

Dov' il tuo tenente? L... e fece un gesto vago, verso destra. Che fai qui ? Sono di vedetta. Ma il tuo plotone? Non so; qui dietro, credo... E gli austriaci li vedi? L. Pochi metri pi in s correva l'orlo d'una strada bianca in mezzo alla foresta; e di l dalla strada, nel folto, pareva di vedere delle sagome, delle ombre oscure agitarsi in silenzio. Perch non spari? Non ho quasi pi cartuccie... e poi... e poi rispondono colle mitraglie. C'era una linea di rade vedette, contro l'orlo della strada; ma larghi tratti erano vuoti e scoperti. Erano vigilati solo dai morti. E poco pi sotto delle vedette, qua e l, nelle pieghe dell'erta sassosa, gruppi di soldati: cos immobili e schiacciati a terra da non capire bene se si trattasse di morti o di vivi. Strisciammo piano piano, per quasi tutto l'anfiteatro della conca; e fu certo un miracolo passare negli spazi tra pallottola e pallottola, senza esserne colti. Ci fermammo contro una grossa rupe, alta e quasi a picco sul fondo della conca; Schiacciati contro il sasso ristemmo qualche minuto. Il maggiore pareva orientarsi. Trasse il suo taccuino, prese un rapido schizzo alla incerta luce del crepuscolo ormai avanzato. Ecco: da qui a quel gruppo di pini pi alti, stendiamo la prima compagnia e la seconda; le altre due a destra. Gli uomini larghi, a due a due; fin che si trovano i collegamenti coi reparti che ci stanno ai fianchi. Quando il battaglione a posto, i due colonnelli possono andarsene, coi loro uomini. Lei vada allo sbarramento; la sezione mitragliatrici vi resti, e il tenente prenda il comando del posto. Le armi possono essere ancora utili l. La prima e la seconda le porti su lei, a gruppi di tre o quattro uomini per volta; la terza e la quarta, faccia vedere da gi la posizione. Ha capito bene? Io l'aspetto qui. Andai. Era quasi sera. Le prime stelle sbocciavano, splendide e freddissime, sulla tragica conca. A salti, guizzando di qua e di l, galoppai verso lo sbarramento. Avevo l'impressione che tutti gli austriaci mi vedessero e mi prendessero di mira; e che ogni colpo di fucile fosse per me. Trovai gli ufficiali raccolti nel baracchino del sergente territoriale, intorno a una cassa rovesciata su cui erano allineate scatolette di carne in conserva e pagnotte. In poche parole li misi al corrente della situazione, riferii gli ordini del maggiore. Le compagnie scavalcarono lo sbarramento, ogni uomo uno sguardo d'invidia ai mitraglieri che restavano al sicuro dietro quel muro di tronchi. Poco prima di sboccare nella conca

incontrammo il maggiore. Era preoccupato; si domandava quanti uomini sarebbero arrivati sani e salvi fino alla linea da occupare. Forse il meglio sarebbe stato buttarli su di slancio, come all'assalto; ma e se gli austriaci, credendo a un attacco, avessero poi controattaccato, come si salvava la conca? La notte era chiara di luna. Tutti i morti parevano vestiti di turchino. Il maggiore fece stendere, largo il pi possibile, il battaglione nel bosco ; spieg ai quattro comandanti la posizione; li mand innanzi con qualche graduato; e cos, gruppo per gruppo, in poche ore, fu possibile avere tutto il battaglione in linea. I due colonnelli ci passarono accanto, sulla mulattiera, frettolosi, e ci augurarono buona fortuna. Dei loro soldati non si vide quasi nessuno. Qualcuno prefer restare annidato tra i sassi, coi nostri, piuttosto che affrontare il rischio d'una camminata nel bosco sotto il micidiale fuoco nemico; qualche altro aveva anticipato per conto suo il cambio, risalendo per le abetaie fino all'orlo dell'altipiano. Poco dopo la mezzanotte, nella conca affluirono al maggiore i rapportini dei quattro comandanti delle compagnie. Il bilancio del cambio era spaventoso : il nostro battaglione, secondo quanto dicevano e scrivevano i tre capitani e il tenente della quarta, aveva perduto pi di quattrocento uomini. Non ne restavano in linea che altrettanti. Il maggiore non disse verbo; rispose ai quattro ufficiali che tenessero i loro uomini tutti raccolti intorno ai loro tenenti e ai loro caporali; poi fece un breve rapporto al colonnello, chiedendo che almeno due compagnie di rinforzo fossero stese allo sbarramento. Il colonnello rispose che non poteva distogliere un uomo dai due battaglioni, raccolti, come suprema risorsa, sull'altopiano. La notte, non si chiuse occhio. Aspettavamo, da un minuto all'altro, che il nemico attaccasse. Ci pareva illogico, assurdo che non tentassero di sfondare. E ad ogni infittirsi della fucileria, a ogni risvegliarsi d'una mitragliatrice, dicevamo : "eccoci!"; e ci si cacciava fuori dall'antro, pistole in pugno. Niente. Il bosco era nero d'ombre e chiaro di chiazze di luna. Qualche ferito gemeva lamentosamente, dentro gli improvvisati ricoveri accanto al nostro antro. Uno, sopratutto, mi dava pena. Era il furiere della prima, colpito da una pallottola al ventre, moribondo. Chiamava la sua sposa, e il suo bambino. Nel delirio li invocava con espressioni di tenerezza struggente, come se li vedesse; poi si interrompeva per qualche secondo, e rompeva in un subito urlo di spasimo. Il nostro medico era rimasto, per ordine del colonnello, sull'altipiano; non avevamo che qualche portaferiti; e per il povero furiere non c'era che aspettare la morte. Venne verso l'alba. Lo sentimmo scoppiare in una risata lugubre, singultante, nervosa ; la risata si ruppe a

mezzo come per un colpo di tosse. Non lo sentimmo pi. Il bosco schiar in un baleno. Uscimmo dall'antro, ci inerpicammo su per l'erta. La solita fucileria infernale. Le compagnie erano distese a gruppetti di tre o quattro soldati lungo l'orlo della conca, vivi e morti mescolati, alla rinfusa. Dov' il tuo tenente? L. Dov' il tuo capitano? L. Anche gli ufficiali, come i loro fanti, moschetto in pugno, schiacciati contro i sassi. Non ha visto niente, tenente? Qualche ombra muoversi, ogni tanto : un cambio di vedette, forse; nient'altro. Sotto la rupe di mezzo, il maggiore convoc i quattro comandanti. Ma non c'erano novit, n da riferire n da ascoltare. La situazione permaneva cos: assurda, incredibile. Aggrappati alle roccie, tra gli abeti, sulle pareti di quella specie di scodella, sul cui orlo, al sicuro, stavano i fucili e le mitragliatrici degli invisibili nemici. Quando i quattro comandanti ritornarono ai loro reparti, il maggiore stette un pezzo a guardare col suo binoccolo nel bosco, verso l'orlo della conca. Poi concluse: O non vogliono o non possono attaccare; e siccome non c' nessuna ragione evidente perch non vogliano, dal momento che in mezz'ora ci spazzerebbero via, allora segno che non possono. E discese gi pensoso verso il fondo della conca. Tutta la giornata pass senza novit. Ogni tanto un urlo tra gli abeti: una pallottola arrivata al bersaglio. Verso sera il capitano della seconda mand un biglietto. Assalito da violenti dolori renali, era costretto, "suo malgrado" a lasciare la compagnia al subalterno pi anziano e a ritirarsi nelle retrovie. Lo vedemmo infatti, un quarto d'ora dopo, passare, tra gli alberi, curvo e guardingo, tenendosi i fianchi colle mani, seguito dal suo attendente. Scese la notte, risal, tonda e limpida, la luna. La sete ci bruciava la gola, ci ingrossava la lingua contro il palato arido e secco. Un portaordini a mezzanotte ci avvis che la corv del rancio s'era sfasciata lungo la mulattiera sotto un nugolo di srapnel; e le casse di cottura giacevano in mezzo al bosco, sventrate. I viveri di riserva il battaglione li aveva gi consumati. Il maggiore fece un biglietto feroce al reggimento perch si provvedesse senza indugio a mandare un'altra corv; ma la risposta fu quale si attendeva. Impossibile. Non c'era che aspettare l'indomani. Avvisai le compagnie. E per tutta la notte si videro i fanti strisciar cauti per i sassi a rovistare nei tascapani dei morti.

La notte pass lentissima. Poco prima dell'alba, uno dei nostri ciclisti, tornando da una delle compagnie dove era stato a recare un ordine, stava inginocchiato sulla soglia del nostro antro ad attendere che il maggiore leggesse il rapportino del comandante la compagnia. Era appoggiato colle due mani a terra, teneva la testa in avanti, e andava sussurrandomi a voce bassissima, per non disturbare il maggiore, che, non appena avessimo avuto il cambio, gli toccava la licenza; e mi pregava di ricordarmene e mi diceva che aveva una sorella che doveva sposare, e attendevano lui, proprio lui; e che il suo futuro cognato era capo sala in una fabbrica di mitragliatrici e guadagnava... A un certo punto allent le braccia e cadde gi, colla faccia a terra, senza un grido. Una pallottola lo aveva colto nella schiena, tra le spalle. Fulminato. Il maggiore usc dall'antro di furia. Lo seguii. Stette un pezzo in piedi, immobile, davanti al ricovero, colle mani affondate nelle tasche della giubba senza parlare. Poi si avvi lentamente per l'erta, verso la catena dei suoi soldati. Pass anche il giorno, intero intero: senza rancio, senz'acqua, senza sigarette. Poco dopo il mezzogiorno, capit, col viso radioso, l'attendente del maggiore con un cartoccio d'uva. Non volle dire dove l'avesse trovato. Forse, era sceso fino a Schio per procurarselo. Il maggiore ne tolse un grappolo che volle, a tutti i costi, dividere con me; e mand il resto al capitano della prima, che era il pi anziano del battaglione. Scese la sera; torn la notte: la solita notte d'incubi. Succhiai alcuni fili d'erba. Mi pareva d'indovinarvi un gusto d'anice squisito; e guardavo la pozzanghera d'acqua gialla, sul fondo della conca, pensando che se ne sarebbe potuto far bollire una gavetta, lasciarla raffreddare e che sarebbe poi stata un balsamo a quell'orribile sete che ci gonfiava la gola... Il quarto giorno, quando pareva che la resistenza fisica e morale stesse per cedere, arriv dal reggimento l'ordine di risalire sull'altipiano. Saremmo stati sostituiti nella conca dal terzo battaglione; e il cambio avrebbe avuto inizio alle dieci di notte. La notizia, subito risaputa per tutto il battaglione, cre uno stato d'inquietudine spasmodica. La fucileria divent addirittura furibonda vergo sera, quando incominciarono i primi movimenti. Per la mulattiera del bosco era una baraonda infernale. Il maggiore del terzo, assolutamente disorientato, si cacci nel nostro antro, e supplic il suo collega di lasciarmi a sua disposizione per stendere la compagnie. Il mio maggiore trov giusto ch'io restassi: e restai. Fino all'alba. Con quale velocit poi feci la mulattiera, e con che sospiro di soddisfazione mi buttai, sull'altipiano, sul giaciglio che il mio attendente mi aveva amorosamente preparato, sotto una comoda tenda , al piede di un altissimo abete! Potei dormire fino a mezzogiorno. Poi, in una radura del bosco, il maggiore pass in rassegna le quattro compagnie. E allora apparve qual fosse stata l'entit delle perdite subite nei quattro giorni passati nella conca : mezzo battaglione giusto giusto.

Il colonnello invit il mio maggiore a presentargli un elenco di proposte di medaglie al valore; ma il maggiore sorrise e gli rispose netto che non aveva nessuno da proporgli all'infuori dei morti; ma erano troppi, evidentemente... E tutto fin l. Mentre si ritornava dalla tenda del colonnello, quella sera, passammo accanto al comando della terza compagnia, dove, intorno a una cassa rovesciata, alcuni subalterni giocavano alle carte col capitano. Si alzarono di scatto al passaggio del maggiore; ma questi si ferm. A che cosa giocano? Al maus. Biglietti da cento, anche? Beati loro che ne hanno tanti da rischiarli cos. Tanto, signor maggiore, oggi ci siamo e domani chiss gli osserv il capitano. Noi; ma i nostri? quelli che ci aspettano a casa? Io, per esempio, non ho che mia madre; ma povera. Capitano, ho bisogno di parlarle. E se lo trasse lontano, sotto gli abeti. Restammo soli noi, subalterni. Nessuno parlava. Compresi che la loro diffidenza verso il maggiore s'era estesa anche verso di me; e ne sentii una acuta amarezza. andata bene anche questa volta dissi, cercando di avviare la conversazione. Gi, fece uno ; e adesso, come premio, il tuo maggiore fa una pipa al nostro capitano. Il mio maggiore anche il vostro maggiore; e gi alle Chiuse stato, come voi e come i nostri soldati: n pi n meno. Volevi che si facesse costruire una villa dal Piacentini? In mancanza di un fifaus, si sceglie la professione del coraggio. Siete ingiusti. Se gli viveste vicino come gli vivo vicino io, non direste e non pensereste cos. Io non nego che abbia del fegato; ma ha solo del fegato, ecco. poco. E se continua cos, se ne accorger. E vicino, io non gli vivrei. Li piantai brusco, sentendomi un groppo di collera e di disdegno in gola; e mi cacciai sotto la mia tenda. Pochi minuti dopo, sentii qualcuno grattare contro il telo della tenda; lo sollevai rapido; era uno dei colleghi, Mazzullo, un caro fratello, goliarda come me, come me interventista. Ti disturbo? Tu?!... Non puoi immaginare il piacere che mi fai. Ma... perch vieni? Sei mandato da qualcuno? So che il maggiore non c'; ho visto la sua tenda, qui sopra, ancora vuota. Parliamoci chiaro. Tu hai sentito tra noi una ostilit, un senso di indignazione la parola esatta per questo tuo maggiore; e, di rimbalzo, il nostro risentimento schizza anche su di te. Non devi stupirti.

Tu sai che cosa fosse il battaglione prima che lui venisse: una famiglia. Il povero Cibele era una specie di buon pap. Non ci dava seccature. Le compagnie filavano tutte ch'era un piacere. Viene costui, mette a soqquadro ogni cosa, corregge l'attenti di un tenente in piena trincea, insulta il maggiore morto, proibisce il vino, le carte. A parte che d prova d'esser un fesso, dimostra di non avere nessun tatto. Che cosa vuoi che ottenga da noi, con queste maniere? Noi siamo degli ufficiali di complemento, quasi tutti : ufficiali di guerra. Non deve dimenticarselo. Abbiamo una cultura, una preparazione spirituale e morale superiori. Non deve immaginarsi d'aver a che fare con dei sottufficiali di carriera promossi per necessit. Lo capisci, questo? Io ti posso assicurare che un soldato. E tu lo capisci, questo? Non lo nego; ma non basta. Bisogna anche esser un uomo intelligente; e questo non lo : o, perlomeno, fa di tutto per non sembrarlo. E questo non glielo posso perdonare. Ma per vincere questa guerra, che cos diversa da come la si immaginava noi, questo lo ammetterai, ci vogliono uomini come lui. Allora, fino adesso, che cosa ha fatto il battaglione, secondo te? Nulla? Ha fatto superbamente tutto quello che gli stato ordinato di fare. Da oggi far anche meglio. Ecco il tuo errore. Da oggi far peggio, perch nessuno di noi lavorer e si prodigher con l'ardore e la serenit di prima. Il tempo passa, e gli uomini si logorano, mio caro. Non dico di noi, che resisteremo per degli anni, se sar necessario; ma i soldati, i semplici soldati che vengono dalle campagne, si stancano, moralmente e fisicamente; sopratutto moralmente. Ed ecco la necessita d'essere soldati : solamente soldati. Per stancarli anche pi rapidamente? Non vuoi capire. Cadde un breve silenzio tra noi due. Ma io sentivo che il mio compagno aveva delle parole sulle labbra che non osava pronunziare. Gliele lessi negli occhi, Tu pensi ch'io... dovrei ritornare in compagnia? Quello chin l testa e sospir. Sii sincero! Ebbene, s. Con te, che ci vuoi bene e che sei come noi, come tutti noi, si deve essere sinceri. Io penso, e molti colleghi pensano come me, che tu dovresti chiedere al maggiore di ritornare in compagnia. Mi sentii arrossire; feci per ribattere sdegnato; l'amico mi ferm con un gsto. Aspetta. Non rispondermi subito. Pensaci, prima. Con te, non il caso di pensare che ti rincresca di ritornare al comando del tuo plotone

per i maggiori scomodi che ti possono toccare. Dunque... Pensaci su. Arrivederci. Ad ogni modo... inutile aggiungere che la mia amicizia non ti verr mai meno. E se ne and, sotto gli abeti. Restai solo. Le parole del caro camerata mi erano rimaste come rapprese nel cuore, me lo pungevano, creandovi un'infinit di sensazioni improvvise di certezze subitanee, di smarrimenti, di ricordi, di collere, di amarezze, di ribellioni. E fu lo stesso maggiore a togliermi da quel tormento. Mi capit innanzi d'un tratto, nell'apertura della tenda che non aveva neanche abbassata, Ancora sveglio? L'aspettavo, signor maggiore. Ah... Si sedette lentamente sopra una panca rustica che gli attendenti avevano costruita il giorno innanzi, caric adagio e accuratamente la sua pipetta ; e poi disse : strano come giochino a non capirmi questi ufficiali. E' un capitano, serio, di carriera, con un passato lusinghiero; e finge di non vedere la elementare logica delle mie parole. Giocare cos forte con i propri subalterni un assurdo disciplinare, ma sopratutto un assurdo morale. Nossignori: mi rispond che, per lui, un segno di famigliarit necessaria in momenti e in situazioni come queste. E allora, eccomi costretto alla severit, agli ordini tassativi. Non che me ne dispiaccia; ah, no! Ma, insomma, c' proprio tutto da rifare, in questo battaglione! E allora io sbottai all'improvviso: Signor maggiore, forse sarebbe meglio ch'io tornassi in compagnia, a comandare il mio plotone. Il maggiore volse lentamente la faccia verso di me, mi guard negli occhi, a lungo. Chinai il viso a terra. Lei far quello che io le ordino di fare mi disse senza bruschezza. Poi si alz, guard per qualche secondo le stelle fitte tra le cime degli abeti, e si diresse verso la sua tenda. *** La mattina dopo avvenne il miracolo. Un aspirante del terzo piomb addosso alla tenda del mio maggiore, l'apr bruscamente e url : Non ci sono pi! Non ci sono pi! Spariti ! Durante la notte, senza che nessuno, gi nei boschi, se ne avvedesse. Una pattuglia del terzo, all'alba, mandata dal maggiore verso la sinistra della conca per ristabilire il collegamento che, durante la notte, s'era infranto, stupefatta del gran silenzio che gremiva la cnca, fino a notte

romorosa di fucileria, s'era spinto sulla strada, poi oltre la strada, su su, per i boschi, senza incontrar nessuno, altro che i morti. Gli austriaci erano andati. Un'ora dopo giungeva l'ordine di mettersi in marcia, verso l'Assa, che il nemico aveva gi passata, distruggendo i ponti e stabilendosi di l dalla valle. Il nostro battaglione, designato di riserva della brigata, ritard di mezza giornata la partenza; e fu poi una marcia deliziosa, gi dal Magnaboschi verso l'Altipiano d'Asiago. Il mio maggiore, per evitare ai suoi fanti le noie dell'artiglieria nemica, condusse il battaglione con una accortezza mirabile, per verdi valloncelli e quote fiorite. I soldati andavano allegramente, col fucile a tracolla come per una partita di caccia. E cantavano, sotto le acacie e i castagni che il sole caldo traforava con mille raggi sottili, descrivendo sull'erba argutissimi ricami d'oro. *** Qualche giorno dopo eravamo in linea sull'Assa. Tre compagnie distese sul ciglio della valle, tra i boschi; una di riserva sull'altipiano, colla sezione mitragliatrici. Il comando l'avevamo in una casetta rustica, contro un ciuffo di castagni. Giornate quiete: quasi senza artiglieria. Poche pattuglie, lungo il fondo valle. Un piccolo paradiso. Ma una mattina arriv, dalla Divisione, l'ordine di tentare un'azione dimostrativa con una compagnia e la sezione mitragliatrici, per alleggerire la pressione esercitata dal nemico ai nostri fianchi. Il maggiore cerc che le cose avvenissero coi minori sacrifici possibili. La sezione mitragliatrici la fece uscire dalla casetta sbrecciata, sotto il campanile di Tresche, alle prime ore della sera, e disporre sul ciglio della valle, di dove le due armi incominciarono il fuoco a raffiche contro le lontane linee nemiche. (E fu qui che il mio caro Cappetta si busc due pallette di srapnel in pieno petto!). La compagnia di riserva la butt, a scaglioni d'uomini galoppanti, attraverso una prateria scoperta, nelle fitte boscaglie che calavano a picco nella valle. Tanto bast perch un duro bombardamento nemico tormentasse la zona per un paio d'ore. Ma era forse questo che si voleva perch poco dopo la mezzanotte arriv l'ordine dalla Divisione di interrompere l'azione, "avendo essa raggiunti gli obbiettivi proposti". Il maggiore, invogliato anche dalla splendida luna che rischiarava la notte, decise di recare lui stesso l'ordine ai due reparti sull'Assa. Andammo per un sentiero aperto nell'erba alta e profumata, e arrivammo sul ciglio della valle, dove era stesa, senza il suo tenente, che i portaferiti aveva gi trasportato in un vicino ospedaletto, la sezione delle mitragliatrici. Poco pi in l, gi nei boschi, doveva essere la compagnia. Improvvisamente un vocio confuso attrasse la nostra attenzione.

Seminascosta dentro un gruppo d'alti alberi era una piccola baita dal tetto spaccato. Per le fessure dei teli da tenda e delle coperte che ne coprivano le due finestrelle e la porta, filtrava la luce. Alcuni soldati si movevano, silenziosi, sotto gli alberi. Il maggiore vi si avvi a passo rapido. Chi c' l dentro? domand a uno dei soldati. I nostri ufficiali. Secondo battaglione. Il maggiore alz brusco la tenda che proteggeva la porta; entr. Un nugolo di fumo: nel fumo, le fiammelle di qualche candela e una diecina di faccie paonazze. Gi, quella tenda, per Cristo! Ma riconobbero il maggiore ; e un silenzio gel la compagnia. Riconobbi il nostro capitano. Signor maggiore, se vuole un bicchier di vino. Un capitano del secondo s'era fatto innanzi cortesemente. No, grazie. Loro che fanno, qui? Questa la sede del mio comando, sesta compagnia, e della seconda sezione delle mitragliatrici. Se arrivava mezz'ora fa, ci trovava anche il nostro maggiore, che ci ha offerto sei bottiglie di barbera. Se desidera... No: io cercavo solamente il capitano della mia compagnia. Eccomi, signor maggiore. Passavo di qui, e il collega... S, lo abbiamo voluto qui: stato, anzi, il nostro maggiore che... ...anche il signor maggiore del secondo, che... Buona sera, signori. Capitano, venga con me. Uscimmo. Il maggiore davanti, colla pipetta tra i denti, andava a passo rapido. Le nostre tre ombre sulla lucida erba del prato scivolavano goffe, appese ai nostri passi. Poi il maggiore, in mezzo al prato, si ferm di schianto. Capitano, dov' la sua compagnia? Qui, signor maggiore. Dove? Gi... sotto il ciglio. Andiamoci. Arrivammo al ciglio, entrammo nel bosco. Il capitano, davanti a noi, pareva incerto; lo sentivamo brontolare tra i denti. Dopo una mezz'ora si ferm. Capitano, dov' la sua compagnia? Le giuro che io l'avevo lasciata qui... poco sopra... Si vede che il tenente l'ha spostata pi a destra... Se vuole... Dov' la sua compagnia? Le spiego subito, signor maggiore. La mia compagnia doveva scattare, si ricorda, proprio di qui. Passavo, mi chiamano. C'era anche il maggiore; "venga a bere un bicchiere". Capir, non ho potuto dir di no. Ho

raccomandato al mio tenente di stendere la compagnia qui; proprio qui; e quell'animale... Aspetti che lo chiamo. Fece portavoce colle mani, e url, nella notte, un nome. Il grido risvegli un'eco lontana; si perse; nessuno rispose. Animale... Non capisco. Lei ha perduto la sua compagnia... Piano col "perduto", Se il tenente non ha ubbidito... ...ha abbandonato il suo posto... Signor maggiore!... ... davanti al nemico. Adesso mi offende! Ed io la denuncio... ... mi offende davanti a un inferiore ! Feci per allontanarmi ; il maggiore mi ferm : Lei stia qui; testimonier al tribunale militare dove io mander questo capitano. Io sono stato fra i primi interventisti... Se ne vada... ... e non posso permettere... ... e aspetti la mia decisione. Via! Se ne and: basso, tozzo, grosso, sotto la luna, col capo infossato nelle spalle tonde, le grasse gambette ad arco. Con la gola stretta da una sgomenta emozione, tentai : Signor maggiore... Vada subito a cercare questa compagnia, e dica al tenente che la riporti negli accantonamenti. Deve essere gi sull'Assa, verso destra. La trovai dopo due ore di cammino, nascosta dentro alcuni macchioni. Il tenente aveva un ordine scritto del suo capitano che gli ordinava di aspettare l "ulteriori disposizioni" senza muoversi. Il giorno dopo la faccenda fu portata davanti al colonnello. Stettero chiusi, il colonnello e i tre maggiori, quasi due ore; poi fu chiamato il capitano. Lo vidi entrare in quella stanza cogli occhi smarriti di terrore; e riuscirne, dopo pochi minuti, con l'ombra d'un sorriso sulla faccia pallida. Il mio maggiore non mi disse niente. Soltanto prima di notte, quando gli portai i rapportini delle quattro compagnie, mi addit coll'indice della destra la firma di quel capitano, e fece: Questo, l'ultimo che firma, qui. Domattina parte per le retrovie. Il colonnello gli ha perdonato. Tutti d'accordo, nel non voler grane. Io solo, la pecora nera... Anzi, la pecora bianca. M'intende? E adesso buona notte, tenente. A domattina.

VIII. NOVA VAS. (10 ottobre 1916) Ai primi d'ottobre prendemmo posizione sul ciglio del Vallone, di fronte a Nova Vas. Il maggiore aveva saputo, a poco a poco, trasformare il battaglione; e le quattro compagnie filavano come non erano filate mai. Gli ufficiali, ad uno ad uno, avevano finito per riconoscere nel nuovo maggiore una grande autorit spirituale e, se pure ancora lo temevano un poco, non potevano non ammirarlo. Il colonnello mi diceva talvolta, mi assicura ch'io sono un pignolo, e tengo troppo alla forma. Una questione curiosa, questa della forma; e ognuno la pu risolvere a modo suo, e tutti, apparentemente, possono aver ragione. Sono necessari il bel saluto, l'attenti perfetto e la pulizia accurata anche in trincea? Sissignore, sono necessari, perch il soldato che scatta sull'attenti davanti al suo ufficiale a cento metri dal nemico, ha una sua serenit spirituale, una sua fierezza sentimentale che sono, in fondo, le pregiudiziali indispensabili per durare e resistere. In verit, ogni reparto del battaglione era ora stimolato segretamente da un "punto d'onore" nuovissimo; e una silenziosa gara di emulazione tra le compagnie e i comandanti pareva animarli, come se ciascuno volesse parere il migliore agli occhi del maggiore. Il colonnello e i generali non contavano pi: tra loro e noi c'era il maggiore, solido, dritto, sicuro : un limite, un confine, un punto fermo. Tutto il battaglione pareva esaurirsi in lui, in lui trovare la sua ragione di vita. Una volta mi disse : I miei colleghi, molti, almeno, dei miei colleghi hanno un torto grave, a parer mio: non vedono al di l della guerra; si preoccupano solamente di avere dei buoni soldati e dei buoni ufficiali. Non basta. Bisogna pensare che la guerra un momento, una giornata nella vita di un popolo; e bisogna allora pensare anche al dopo. Noi siamo dei vecchi professionisti dell'esercito; lo conosciamo, stato la nostra vita e la missione della nostra vita. Non abbiamo fatto altro, insomma, che aspettare la guerra : e non solo per avanzare nella carriera, ma per realizzare anche tutto quello che abbiamo imparato ed insegnato, per dare finalmente una pratica alle nostre teorie e alle nostre dottrine. L'arte militare, badi, non c'entra : intendo parlare della conoscenza degli uomini, della disciplina morale e spirituale della massa. Non c' che la guerra che faccia affiorare inesorabilmente tutto quello che sta nel fondo dell'animo umano : la guerra, ossia la costante onnipresente possibilit di morire, ossia la paura, sia pure dominata, di morire. In trincea viene a galla tutto : e il bene e il male. Non c' maschera che possa resistere, non c'

finzione che possa aver credito. Ora, questa folla di soldati e di ufficiali improvvisati per necessit, domani si riverser nella vita civile, nelle vie delle citt, negli uffici, nelle scuole; ma quale animo vi porteranno? quale esperienza? quale fede? quale disciplina? Qui sta il punto essenziale. E questa deve essere la preoccupazione d'un vecchio ufficiale: aiutarvi a diventare degli uomini sani. Perch domani, non s'illuda, sar terribile. Finita la guerra, sar finita anche la pace, la "nostra" pace. Su questo tema del "dopo" parlava spesso, e mi pareva, allora, troppo pessimista. Diceva: Guai se le masse, allora, non avranno un freno. Si illuderanno di poter godere in una settimana quello a cui hanno rinunziato per degli anni. E poi ci sar tutto il piccolo esercito di quelli che approfitteranno di tale stato d'animo, cos come ci saranno gli arricchiti di guerra che scontenteranno voi, giovani intellettuali, e vi offenderanno e vi umilieranno. Correr, forse, del sangue per le strade. Ma noi vinceremo obbiettavo. Vinceremo, senza dubbio, gli austriaci ; ma bisogner poi vincere anche noi stessi. Vincere la pace, dopo aver vinto la guerra; e non tradire i morti col frustrare la vittoria. Sar necessario un governo forte, assai forte e risoluto, che non abbia paura del sangue e delle barricate. Un governo militare? Meglio un dittatore. Uno solo, al vertice, responsabile, di fronte al Re e di fronte alla nazione. Lei non vede, forse, e poco importa, ma non vedono neanche i grandi comandi, ed male, come ritornano dalle licenze invernali. Con un'ombra nel cuore, una piccola fiamma nuova in fondo alle pupille. Ci vorrebbe un plotone d'esecuzione in ogni citt. Meglio fucilare un disfattista o una disfattista oggi, che dover sparare domani sulla folla. La borghesia a un grande bivio, caro Cornali; gli immortali principi tramontano. Ma pensi. In poco pi di un secolo, Napoleone, le guerre dell'indipendenza, le guerre coloniali, l'offensiva socialista, questa guerra. Tutto in cinque generazioni. Troppo. E allora o morire o aver il coraggio di rifarsi, con un gesto di forza, una verginit storica e morale. Parlava volentieri. Qualche volta mi faceva l'impressione che si ascoltasse con compiacimento; ma, subito, s'accorgeva di questa mia fuggevole sensazione, e allora tagliava corto bruscamente, volgeva in scherzo il discorso e si condannava a pagarmi il caff coll'anice per punirsi del bottone che mi aveva attaccato. In certe sere tranquille, quando si ritornava dall'aver visitato le vedette e gli ufficiali di guardia, nel nostro baracchino, dopo che io aveva letta ad alta voce qualche pagina di Nietzche che il mio maggiore spietatamente commentava e disapprovava quasi con una feroce volutt ("Un superuomo, costui? Un pallone gonfio di letteratura, di decrepito romanticismo; un ubbriaco di fantasticherie, come il tubercolotico che,

talvolta. al mattino, davanti ai primi raggi del sole, si sente gonfiare il petto di aria pura e si inebbria d'una bugiarda certezza di salute!"), il maggiore si lasciava andare a rapidissime confidenze sentimentali, quelle confidenze che sorprendevano e travolgevano lass anche le anime pi fiere. Aveva una sua donna lontana, della quale era innamoratissimo, come si innamorati a vent'anni della prima donna che ci ha sorriso; e alla quale scriveva delle lunghissime lettere, e che gli scriveva tutti i giorni, come una fidanzata. Ma era andata sposa ad un altro, chiss perch, e aveva due figlioli piccolini, non ho mai saputo bene se dell'altro o del maggiore. Un dramma atroce, per il suo cuore e per la sua vita. Una notte, per trattenere le lacrime che gli bruciavano gli occhi, ruppe coi denti il cannello della pipetta. *** Non si poteva essere troppo ottimisti sull'esito dell'avanzata. L'esperienza ci insegnava che, al momento opportuno, sarebbero mancati i rinforzi necessari. La cosa ci fu poi confermata da un colloquio che il maggiore ebbe col Capo di Stato maggiore della Divisione. Due battaglioni di prima ondata; il terzo di riserva; ecco tutto. Dietro, niente: un reggimento, che la Divisione intendeva tenere come estrema risorsa, e non aveva torto. Un'avanzata, allora, che si sarebbe risolta in uno sbalzo in avanti e nel portare le nostre linee uno o due chilometri pi in l. Nostro obbiettivo dovevano essere le quote che ci stavano di fronte; possibilmente superarle e conquistarne altre. Termini generici, che non trovavano in noi alcuna immagine precisa in cui si potessero concretare. Quei primi giorni d'ottobre erano dolci come una primavera. Cieli sempre sereni, con nuvolette innocenti e di poco conto, e qualche breve e lieve pioggerellina, proprio da lirica dannunziana . I segni dell'offensiva si facevano, nel Vallone, sempre pi intensi. Per tutta la notte si udivano passare e ripassare gli autocarri che trasportavano munizioni sull'altipiano di Doberd; e ogni mattino, nel concerto delle artiglierie che aggiustavano i tiri, si sentivano delle voci nuove. Dicevano che avremmo avuto mille cinquecento pezzi sul solo fronte della terza Armata : e poich chi lo diceva era la piccola folla dei piantoni, dei conducenti e degli uomini di corv, che ronzavano sempre intorno ai comandi, la voce doveva essere attendibile. E allora pareva che la meta affidata al nostro sbalzo fosse troppo poca cosa e che, sfondate le prime linee, con una gran conversione a destra sarebbe stato facile arrivare di sorpresa fino a Trieste. Il comando del battaglione era in una delle tante cavernette scavate sulla prima linea: due piccole brande parallele, divise in fondo da una cassa capovolta. Su quel "tavolo" il telefono da campo, due libri di

Nietzche, un piccolo elzeviro d'Amsterdam con tutte le tragedie di Seneca, che dovevo preparare per i miei esami, un quadernetto di appunti, le due Glisenti e un bossolo da settantacinque vuoto. Il fante era allegro. Ciascuno certo pensava tra s: "E' impossibile che tocchi proprio a me di lasciarci la pelle". La sera del nove ottobre ci fu comunicata l'ora esatta dello sbalzo: alle 14 dell'indomani. Due ore prima dell'alba fummo risvegliati dalle artiglierie che incominciavano i tiri di distruzione. Continuarono fino a mezzogiorno; e fu un bombardamento d'una spaventosa intensit. Le granate si sentivano venire da ogni punto dell'orizzonte, e andavano a schiantarsi tutte sulle prime linee nemiche. Qualcuna, troppo corta, finiva sui nostri reticolati; due si fracassarono sulla nostra linea. Non si distinguevano pi le nostre dalle loro batterie. L'aria era arroventata di schianti. Mi pareva di vivere in un sogno. Pensavo che all'ultimo momento sarebbe venuto il contrordine a sospendere l'avanzata. Chiudevo gli occhi e mi dicevo : "se quando li riapro, nel camminamento non c' nessuno, l'avanzata non si fa". Ma nel camminamento c'era sempre qualcuno. E allora provavo a mutare l'oroscopo: "Se arrivo, a contare fino al trenta senza che sparino un colpo, viene il contrordine". E incominciavo a contare... Avevo dunque paura? Paura di morire, no: mi pareva, per lo meno, che il pensiero della morte non ci fosse, dentro il minuto vortice di ricordi, trepidazioni, immgini, speranze che mi ronzavano dentro. Era, piuttosto, dominante, lo sgomento del campo aperto. La trincea ci aveva assuefatti al bisogno di uno schermo, magari assurdo come un telo da tenda. Tra un'ora mi sarei trovato allo scoperto, in piedi, in piena luce, davanti ai fucili e alle mitragliatrici dei nemici. Il maggiore parve indovinare questo mio stato d'animo, che era forse comune a molti, e osserv all'improvviso, fingendo di esaminare con grande attenzione la tenue parete di sacchetti pieni di terra che proteggevano il nostro ricovero : strano come si conceda fiducia, talvolta una cieca fiducia, a un riparo di tal fatta. Vede? Un caricatore di mitragliatrice, senza nemmeno ricorrere al cannone, basterebbe per mandare a catafascio questo nostro palazzo. Eppure, com' difficile costringere il cervello a persuaderci che dietro questi sacchetti o in piedi, fuori della trincea, la stessa cosa, cio lo stesso rischio. Ma si trattava di dominare un istinto con un ragionamento. A mezzogiorno il maggiore fece chiamare i quattro comandanti di compagnia e il tenente delle mitragliatrici, per riassumere gli ordini dell'operazione. Ora dello scatto : le 14. Prima ondata : seconda e terza compagnia ; fronte di avanzata, quattrocento metri, circa; le squadre a

catena, e ogni compagnia su due cordoni d'uomini. Curati i collegamenti, con un subalterno all'estremit destra della seconda compagnia e uno alla estremit sinistra della terza; obbiettivo della prima ondata, sommergere la prima linea nemica. La seconda ondata, col comando, la prima e quarta compagnia e la sezione mitragliatrici, sarebbe partita alle 14,10, avrebbe superato, di slancio, le due compagnie ferme sulla linea nemica, e si sarebbe spinta sin dove il fiato e le munizioni glielo avrebbero consentito. Ad ogni modo, nessun imboscato, per nessun motivo : attendenti, conducenti, piantoni, furieri, anche i furieri, sissignori, in linea con gli altri: le scartoffie e le pezze da piedi delle furerie le avrebbero, se mai, vigilate gli ammalati. E piano anche con questi, naturalmente. E adesso signori, registrino gli orologi. Sono le 12,23. In silenzio ci curvammo tutti e sei sui nostri orologi. Poi il maggiore strinse la mano a tutti. Buona fortuna, signori. Uscirono, si dispersero nella trincea, di qua e di l, verso i loro reparti. Il bombardamento s'era allungato, e batteva ora le retrovie, i baraccamenti, le batterie lontane. L'artiglieria nemica pareva sommersa; ma ognuno di noi sapeva che non appena le fanterie fossero scattate dalle trincee, si sarebbe risvegliata, tutta insieme, da Gorizia a Duino, per fulminare, a nugoli di srapnel, gli assalitori. Un'ora e mezza ancora. Facciamo un giro per la trincea. Tutti al loro posto, tascapane gonfio di Sipe, elmetto in testa, maschera sul petto, baionetta innastata. Qualcuno mangiava, compunto, la sua I pagnotta. L'appetito non manca mai, eh? Fin che gh vita, se magna, sior magiore... E tu a chi scrivi? Alla mia donna. E che cosa le dici? Che sto bene e che speriamo di vederci presto. Bravo: e dille che anche il tuo maggiore la saluta e le mander presto a casa il suo uomo in licenza. Il fante sorrideva, incredulo e confuso. Ma si capiva che dietro quel sorriso c'era una piccola luce di trepida certezza, che si ravvivava alle parole del maggiore. Ritornammo al nostro ricovero. Il maggiore vuot una tazzina di caff bollente, si sedette sopra un grosso sasso, riempiendosi di tabacco la pipetta. Ci aspettano, naturalmente. Queste grandi preparazioni di fuoco sono troppo lunghe. Danno il tempo di orientare la difesa e di proteggere

le truppe. Troveremo dei nidi di mitragliatrici dapertutto. Pazienza: li prenderemo alla baionetta e colle bombe a mano. Ci fu un'altra ripresa delle nostre artiglierie. Intensissima e furiosa : e tutte le granate si schiantavano sulle prime linee nemiche. Dur quindici minuti; poi ricadde il silenzio su tutto il Carso. Migliaia e migliaia di uomini, invisibili, schiacciati contro le pietre, aspettavano tutti, in quel gran silenzio, un ordine, un grido, un gesto. L'una e quaranta. Controlli se sono tutti pronti. La galoppata per i cinquecento metri di trincea mi fece bene. Quando tornai e diedi la forza al maggiore mi pareva di respirare pi liberamente, d'essermi sciolto da un incubo. Ventiquattro ufficiali e novecento dodici uomini di truppa. Ammalati? Trentadue hanno marcato visita, undici sono stati mandati all'ospedale e sette gi al carreggio. Il maggiore si alz, cammin per la trincea piano piano, colle mani dietro la schiena e la pipetta puntata in alto ; poi, a un angolo di dove poteva dominare tutta la linea del battaglione, si ferm, sal sopra una cassetta di munizioni, si affacci fuori dall'orlo dei sacchetti di terra. Possono vederla, signor maggiore. Ci devono essere dei cecchini appostati. Alz le spalle e sorrise. L'una e cinquantacinque. Arriv in fretta un ufficiale di artiglieria coi gambali gialli, salut il maggiore, si affacci, al suo fianco, al parapetto della trincea, puntando il binoccolo e guardando con attenzione. Non era meglio che venisse un'ora fa, tenente? Il tenente si volse con molto garbo e rispose: Sono venuto quando me l'hanno ordinato, signor maggiore. L'una e cinquantotto. Ebbi un capogiro, dovetti sedermi sopra un sasso. Mi ripresi subito. Un minuto. Denso di ricordi e di immagini lontane che si precipitarono, come in una silenziosa voragine, dentro il mio cuore. L'una e cinquantanove. Un colpo di fucile lontano lontano. Pensai che fosse stato sparato contro quell'allodola che si ostinava a cantare altissima nel cielo. Alzai il viso per vederla, nel sole. La vocetta acuta del capitano della terza. Un gesto del maggiore, come di un direttore d'orchestra che attacchi. Un clamore confuso, un rotolio di pietre, un gridio che s'accende e propaga come un razzo per tutta la trincea. A gruppi balzarono su, scavalcarono, goffi e curvi, i sacchetti di

terra, saltarono sulle pietre, furono di l, presero a correre, pesantemente, vociando. Una nuova ansia improvvisa, una inquietudine incontenibile, un nodo alla gola, un bisogno di correre, di gridare, di alzare le braccia. C' come un vento dentro di me, intorno a me, che mi fa balzar su, in piedi, sopra l'orlo della trincea : e un senso di liberazione inaspettato mi gonfia il petto. La prima ondata gi arrivata alle prime linee, l'ha gi sommersa. Frotte di prigionieri corrono verso di noi, colle lunghe braccia levate, come un pesante gregge in fuga. Gli stormi degli srapnel che vengono a schiantarsi su di noi schioccano sibilanti come frustate eccitanti. Avanti ! Il maggiore si buttato fuori, levando in alto una mano. Con un salto gli sono al fianco; dietro, intorno, torme di soldati che gridano. Le baionette hanno luccicori che esaltano. Il maggiore partecipa di quest'ebbrezza. Ha visto? Ha visto? Uno scatto superbo, i miei soldatini! Mi passa come un baleno nel cervello il ricordo della mia trepidazione di prima, e mi prende un'allegrezza insensata. Sull'orlo d'una dolina fra le due linee faccio per trattenere il maggiore che vi si butta decisamente; ma vedo sul fondo, rannicchiato contro un cestone, il tenente della quarta, tutto pallido e sgomento con la barbona arruffata. Ferito? Che successo? Un capogiro spiega a bassa voce un soldato che sostiene la testa del suo tenente. Il maggiore ha gli occhi scintillanti : Si alzi e vada subito! Il tenente si alza, sorretto dal soldato, e si avvia su per il pendio sassoso della dolina a testa bassa. Nelle prime linee austriache non c' pi nessuno. Qualche vedetta morta, colla faccia contro i sassi. Alcuni fanti nostri stanno frugando nei ricoveri e nelle gallerie e fuggono via svelti al nostro appressarsi. Il maggiore incomincia a oscurarsi in viso. Sento che mormora rabbioso : Il battaglione mi si disperde tutto. Arriviamo sull'orlo d'una gran dolina, in tempo per vedere un nostro plotone che carica e disperde un gruppo di austriaci. I fuggiaschi sciamano su, per il pendio della dolina, voltandosi a far fuoco contro i nostri. La dolina, in un batter d'occhio, si svuota. Ma all'improvviso, dalla bocca nera d'una caverna che s'apre a mezzo del pendio di fronte a noi, scattano le fiammelle livide d'una mitragliatrice. Le pallottole si schiacciano con fragoroso crepitio sui sassi, uno dei nostri portaordini cade, colla faccia rossa di sangue. Ci buttiamo a terra. Su, per Cristo, E addosso! Il maggiore in testa a tutti, e corre gi, colla Glisenti in pugno; ci

precipitiamo urlando. La mitragliatrice tace; forse s' inceppata. Buttiamo delle Sipe. Dentro la caverna rimbombano dei cupi tonfi laceranti. Pi niente. E su per il pendio. Ma davanti a noi c' il vuoto. La battaglia si dispersa in cento azioni isolate. Tutte le quote sono eguali; tutte le doline sono eguali; tutte le trincee sono eguali. Il maggiore si ferma, si guarda intorno, stringe i pugni. Da un muricciolo sorge all'improvviso il comandante della prima con una trentina di soldati. Grida al maggiore, e pare un ebbro: Signor maggiore, la mia compagnia gliela porto fino a Vienna! Si fermi l, dietro quel muretto, e aspetti. Andiamo avanti per un pezzo. Non s'incontrano nemmeno i morti. Torniamo a fermarci. Siamo in un breve prato, incredibile conforto in mezzo a tanto deserto pietrame, che si assottiglia e s'allunga in una stradetta verde, vigilata da una fila d'acacie. Il maggiore si fa prendere in spalla da due ciclisti e guarda a lungo col binoccolo. Dal fondo della stradetta vien qualcuno di corsa. Allarmi! Sono quattro o cinque austriaci, in fila indiana. Ci vedono, si fermano di scatto. Uno si butta a terra: ha una piccola mitragliatrice legata sulla schiena. Addosso! Il maggiore il primo ad avventarsi e spara, correndo, la sua pistola. Sparo col mio moschetto senza mirare, fin che dura; poi lo impugno per la canna che scotta. C' fra quegli austriaci un ragazzo bruno, con tanti riccioli in testa che pare una bambina; cade, si rialza con un rigo di sangue sulle guancie, e corre via tenendosi la testa fra le mani. un ufficiale grida il maggiore. Gli siamo alle calcagna. Incespica, cade con un gemito; poi si volta sopra un fianco e protende una mano verso di noi, con qualcosa che luccica. Gi, signor tenente! Faccio appena a tempo a buttarmi a terra: sento dei colpi: pi nulla. Lo hanno finito. Mi pareva gi di volergli bene, a quel bel ragazzo ferito. Perch avr voluto sparare anche da terra? Il maggiore fermo in mezzo al prato, colla testa curva. Si riprende. Bisogna riordinare i reparti. Subito. Attraversa il prato, sale sopra un cumulo di pietre, mi fa un cenno, lo raggiungo. Guardiamo. Alla nostra destra, sul fondo d'una dolina, stanno raccolti molti soldati, ma il colore delle loro mostrine non il nostro; e dappertutto, vicini e lontani, soldati che corrono, avanti e indietro, e si appiattano, e riprendono a correre. Se avessi due compagnie intatte! Poi, secco, mi ordina : Vada, e raccolga tutti i soldati del battaglione che incontra. Punto

di adunata, l. Vede? Mi addita un muretto lungo, sbrecciato, che pare incoroni un basso avvallamento. Sapr orientarsi? Prenda come punto di riferimento quel ciuffo di robinie. E incominci col domandare a quei soldati laggi che cosa fanno dentro quella dolina. Lo saluto e parto di corsa. Poi mi accorgo di non aver pi n la mia pistola n il mio moschetto. Mi curvo a raccogliere il fucile di un morto, e devo quasi strapparglielo dalle mani tanto lo tien serrato fra le dita irrigidite. Arrivo di corsa nella dolina; e una voce brusca mi ferma : Dove va, tenente? un capitano sdraiato per terra, fra i suoi soldati. Mi pare che mi guardi con un sorriso di scherno sulle labbra. Mi ha mandato il mio maggiore a chiederle che cosa fanno qui. Davvero? E che cosa questo interesse del suo maggiore per la mia compagnia? Lo sa che ho anch'io un maggiore, e che io non ubbidisco che a lui? Ma... Fili, caro tenente, e dica al suo maggiore che stia tranquillo sul conto mio. I soldati ridacchiano sommessi. Ma non faccio in tempo a volgere le spalle ai capitano che un improvviso gridio e un impeto furioso di fucileria trabocca gi dall'opposto ciglio della dolina. Il capitano balza in piedi e grida qualche cosa che non afferro. Lo vedo inginocchiarsi e portarsi le due mani alla gola ; i fanti si raggrup. pano di qua e di l, confusamente; e una torma di nemici dilaga gi per il pendo, correndo pesantemente. Mi pare che siano un intero battaglione e che, invece di correre, danzino una loro mostruosa barbara danza. In pochi salti raggiungo l'altro orlo della dolina che ribolle di grida, di colpi di fucile e di tonfi di bombe a mano. Ho l'impressione che i soldati del capitano siano stati tutti sommersi. Piego a sinistra e mi metto a correre. Sento che qualcuno corre dietro di me. Inciampo, ruzzolo a terra, l'elmetto mi salta lontano. Sono in piedi col fucile puntato. Nessuno. Pochi passi pi in l, annidati contro un muretto sbrecciato sono dei soldati. Li raggiungo; c' in mezzo a loro un aspirante che mi saluta con un sorriso. Hanno le stesse mostrine dei soldati sommersi nella dolina. Mi prende un impeto di furore, mi sbraccio a urlare: Ma l si ammazzano i vostri e voi state qui rannicchiati come talpe. Avanti, per Dio! Si scrostano dalle pietre, calan gi, incerti e sbigottiti verso di me. L'aspirante tenta di spiegarmi : Ma io ho avuto l'ordine...

Distendili l, almeno. Si allungano in catena, fronte alla dolina non lontana. Un capogiro mi prende, mi piega a terra. Passa. Mi guardo intorno. Dove saranno i miei soldati? il mio maggiore? i miei colleghi? Dove sar il muretto che mi ha indicato? e quel ciuffo di robinie? Ho l'impressione angosciosa di essermi smarrito. Non avete visti reparti del mio reggimento? Qualche soldato... l... pi a destra... Mi rialzo, ricomincio a camminare: verso destra. Qualche morto. Soldati di altri reggimenti. Un avanzo di trincea sconvolto. Non avete visto soldati del mio reggimento? S; l... pi avanti... Cammino. Incomincia a scendere la sera. Contro l'orizzonte che il tramonto incendia, vedo delle piccole sagome oscure che corrono. Mi sembra che fuggano. Nostri? Austriaci? La fucileria si sta spegnendo. Passano e s'inseguono sibilando rauchi voli d grosse granate che vanno a rompersi lontano. Non ne posso pi. Dove sono? Che cosa faccio? Che cosa cerco? Come potr giustificarmi di fronte ai mio colonnello? "Il suo maggiore morto mi dir i suoi colleghi sono morti, i suoi soldati sono morti, tutto il battaglione si immolato eroicamente, e lei, lei che cosa fa qui? perch ancora vvo?". Avete visto soldati del mio reggimento? L, pi a sinistra, davanti... Perch non mi son portato con me un ciclista ? o il mio attendente? L'avevo pensato, ma mi rincresceva togliere un uomo alla scorta del maggiore, E adesso sono solo... Mi fermo. Sento una mitragliatrice vicina che prorompe nel suo scroscio secco. Mi pare una Fiat, mi avvicino. C' una bassa e larga siepe di spino; mi faccio largo tra i rami, tenendo innanzi, l'indice sul grilletto, il fucile. Vedo dei feriti che si divincolano sui sassi. Nostri, hanno le mie mostrine.. Ma la mitragliatrice dov', che par cos vicina? contro chi spara?... Mi pare di riconoscere uno dei feriti: un caporale della prima compagnia. Giro intorno alla siepe, ma non ho fatto due passi che vedo irrompere da sinistra, fuor da un cumulo di pietre, una pattuglia nemica. Vengono innanzi a un piccolo trotto pesante e tranquillo. Mi ributto dietro la siepe, sparo, mi vedono, sono a terra, sparano. Ho l'impressione che tutta l'aria sia piena di sibili e di schianti. Non ho pi caricatori, il fucile vuoto. Lo lascio a terra, cerco di strappare dalla canna la baionetta; resiste. Scatto in piedi, e mi butto a correre, a zig zag, sui sassi, disperatamente. Il nome di Dio mi viene sulle labbra, per istinto. Li sento alle spalle, sempre pi vicini. Spero, in un impeto d'angoscia, che non sia che una impressione della mia eccitazione, ma accelero il galoppo. Delle grida roche... Un filo di ferro mi stronca; sono gi colla faccia sui sassi,

una fitta acutissima al ginocchio. Chiudo gli occhi in una folle invocazione a Dio, alla Mamma morta che mi protegga. Le grida son l, a pochi metri... Mi raccolgo, scatto su, con un urlo, galoppo via, come un pazzo, rotolo gi in una dolina, la risalgo, con un groppo di risate frenetiche che mi stringe la gola. Un nugolo di srapnel viene a schiantarsi innanzi a me, sopra un muretto che corre via, tutto breccie, lontano. Delle voci chiamano, delle braccia si levano su da quel muretto. Mi par di sentire il mio nome, corro... e cado fra i miei fanti, mi piego a sedere per terra, disfatto, ai piedi del mio maggiore che mi guarda tranquillo. B, che successo? Faccio per raccontargli; si d l'allarme. Vengono innanzi a gruppi, sempre a quel piccolo trotto pesante e faticoso. Il maggiore si piega dietro una mitragliatrice. Si spara come ossessi. La frotta dei nemici si disperde e si frantuma. E allora su, fuori dal muretto, e addosso colle baionette. Il maggiore soddisfatto. Ascolta il mio racconto, tutto smozzicato e affannoso; e non dice nulla. Solo, alla fine, dopo un attimo di silenzio, osserva: Una delle prime virt dell'ufficiale deve esser quella di sapersi orientare. Se lo ricordi. riuscito a racimolare una settantina di uomini, li ha distesi dietro il muretto, e subito ha incomincialo a far scavare. I graduati sono fuori a raccogliere gli sbandati; quei due o tre ufficiali che ha trovato sono ai fianchi della nuova improvvisata trincea e cercano di stabilire dei collegamenti coi reparti laterali. Ma ci vogliono degli uomini : almeno un intero battaglione per stabilire una linea sul serio, difenderla, rassodarla. Ha mandato tre portaordini al colonnello perch gli metta a disposizione il terzo battaglione, di riserva; due sono rimasti per la strada, al terzo il colonnello ha risposto che non si sente di impiegare anche quell'ultima risorsa. Sarebbe necessario spiegare al colonnello la situazione, e dimostrargli che, se non si vuole ritornare al punto di partenza, bisogna portare in linea il terzo battaglione. L'azione ormai finita; non c' che da ributtare gli inevitabili contrattacchi e fare di quel muretto una trincea. Il comando di reggimento s' annidato nelle nostre trincee di partenza, e mi ci vuole mezz'ora per arrivarci, saltando di buca in buca, sotto un intenso fuoco di sbarramento. Trovo il colonnello che sta rosicchiando con gagliardia tutta piemontese un osso di costoletta. Mi sorride colla bocca piena: Come andiamo lass? Gli spiego la faccenda. Tira fuori una carta della zona, scosta il piatto coll'osso della costoletta ormai liscio come una pipa, inforca gli occhiali. Vediamo un po' dove siete arrivati. Cerco di orientarmi, in mezzo al groviglio delle linee, traccio un

segno col dito, poi, pi preciso, con uno stuzzicadenti che lo stesso colonnello mi offre. Ai nostri fianchi, la brigata di sinistra non ha avanzato affatto, quella di destra, invece, andata avanti press'a poco come noi. Ma se non si guarnisce la linea occupata, bisogna ritornare Capisco. Manda a chiamare il comandante del terzo battaglione, che arriva colla faccia scura. Sempre quel benedetto primo battaglione! Io, per me, ci vado volentieri, si figuri; ma impiegato anche il mio battaglione, a lei che cosa resta di riserva ? Capisco, ma come si fa? L'azione finita; non si tratta che di occupar la linea raggiunta; poi si vedr, sistemeremo i turni; e allora... Ah, per me.... S'and. Tutto il battaglione in fila indiana, e il maggiore, in testa, alle mie spalle, che lo sentivo soffiare e brontolare in sordina. La notte pass tra continui attacchi e contrattacchi di piccoli nuclei, al massimo d'un centinaio d'uomini. E un incessante affluire di nostri fanti sbandati. Arriv anche qualche ufficiale. All'alba potei dare al maggiore questa forza: otto ufficiali e trecentoquarantadue soldati. Molti degli ufficiali erano caduti prigionieri. Le compagnie, in generale, nell'avanzare, avevano compiuta una conversione a destra, e nel largo tratto di fronte rimasto scoperto sulla nostra sinistra, si erano cacciati gli austriaci, sorprendendo alle spalle molti reparti nostri ancora intatti, battuti prima dalla sorpresa che dal numero soverchiante. Si seppe anche di qualche morte eroica, come quella del capitano della quarta, finito a pugnalate da un sottufficiale austriaco, e quella di un giovanissimo aspirante della prima, inchiodato sui sassi da una fucilata mentre alla testa del suo plotone correva avanti sorridendo. Continu anche, nella notte, l'affluire dei prigionieri "volontari". Poco prima dell'alba, mentre col maggiore stavo ispezionando gli appostamenti delle due mitragliatrici, ci capit innanzi un maggiore d'artiglieria austriaco che, tendendomi la sua pistola per la canna, mi disse sorridendo : "Basta guerra. Ho studiato Politecnico di Milano... " Il maggiore lo guard cogli occhi sfavillanti ; poi, di scatto, ghermitolo per le spalle, gli soffi sulla faccia : "Lei un vigliacco e un por-co!". L'altro, fattosi bianco in viso, scoppi a piangere come un ragazzo. Poi due soldati se lo misero in mezzo; e se ne and a capo chino, colle spalle che gli sussultavano di singhiozzi. Due sere dopo il battaglione ebbe il cambio; si scese a Casseliano. Alla prima mensa, subito dopo il caff, il maggiore si alz. Ci alzammo tutti. Due parole, signori. Sono contento di loro. Le compagnie si sono

sbandate, si sono sbandati anche i plotoni; era prevedibile. Un battaglione che si butta all'assalto per sfondare, non pu e non deve avere altro compito che sfondare. Se, dietro a noi, fossero sopraggiunti, bene ordinati, altri due battaglioni, le cose sarebbero andate diversamente. Ma questa critica; e non tocca a noi farla. Noi abbiamo fatto il nostro dovere: tutti: i vivi e i morti. E ai morti, signori, rivolgiamo il nostro pensiero. Da soldati : con seriet. La guerra una cosa difficile : tremendamente difficile. Si preparano piani, si prescrivono azioni, si disegnano disposizioni che sembrano perfette; poi, nella realt, interviene l'imponderabile a sconvolgere tutto, a dare una nuova piega agli avvenimenti. Non importa. Ripeto: il battaglione ha fatto tutto il suo dovere. E io sono contento di loro. Nei silenzio mi pareva di sentire battere di commozione i cuori dei miei sette colleghi. Il mio squillava come una campana. Ero il pi anziano; mi irrigidii sull'attenti; dissi, con voce che mi sforzai di rendere fermissima : Signori ufficiali, attenti! Il maggiore salut gravemente; usc.

IX. QUOTA 208 (novembre 1916 - maggio 1917) Nelle trincee di quota 208 restammo dal novembre del '16 al maggio del '17. Quindici giorni in linea: e quindici di riposo a Vermegliano. Quando la fortuna era con noi, Vermegliano veniva sostituito con Soleschiano o Casseliano. In marzo ci tocc perfino la consolazione di Armelino. Il mio maggiore non c'era pi. Rientrando dalla licenza invernale, ai primi di novembre, non lo trovai. S'era ammalato: era in un ospedaletto lontano. Guarito, venne destinato a un altro reggimento: uno dei due della brigata dei Sardi: dei suoi sardi. La mancanza del maggiore mi pareva, nei primi giorni, insopportabile ; e pensavo che il battaglione si dovesse sfasciare senza quel suo capo ammirevole. Per quasi una settimana, anzi, ne tocc a me, tenente con quattro mesi di grado, il comando, come al pi anziano; poi fui sostituito da un capitano effettivo; e a me il colonnello affid la terza compagnia. Nel comunicarmi la nuova designazione, il colonnello mi ammon : "Badi che le d la pi bella compagnia del reggimento. Si faccia onore". Ma di farmi onore non mi preoccupavo affatto. Il comando della compagnia non mi dava quasi nemmeno il tempo di pensare ad altra cosa che non fossero i miei soldati e i miei graduati. Mi pareva che, dopo gli insegnamenti del mio maggiore, fossi stato "laureato" : dovessi cio realizzare tutto quello che avevo "studiato" con lui. Certo, per quei sette lunghi mesi trascorsi senza interruzione sul Carso al comando della mia terza, tutta la mia vita si concentr, si circoscrisse nella vita di quei quattro plotoni. Non credo che ci sia comando pi perfetto del comando di compagnia. Si comandanti nel senso assoluto della parola, e si soldati: si ha una autonomia quasi totale, e si vive colla truppa; si possono conoscere, uno per uno, i dipendenti, saperne le virt e le possibilit, i difetti e le incertezze, correggerli, migliorarli, confortarli quando necessario. Si pu essere il capo e il fratello, il padrone assoluto e il padre. Al di sopra del comando di compagnia, il contatto colla truppa incomincia a smarrirsi, e, col contatto diretto, spesso il senso della realt. Si ha in mano il polso dell'esercito, se ne sentono i battiti, se ne avvertono i pi piccoli rallentamenti, le pause. La compagnia ancora una famiglia; al di l delle compagnie, a incominciare dal battaglione, non ci sono che agglomerati di famiglie. Ma il padre del soldato in guerra non pu essere che il suo capitano. Solamente il capitano (cio il comandante di compagnia) pu domandare al soldato l'impossibile, quello che va al di l del dovere, il gesto o la pazienza eroica che non ricevono altro premio che

la morite o un affettuoso scapaccione del comandante. Tra i comandanti dei miei quattro plotoni, due, che furono con me dal primo all'ultimo giorno, mi erano particolarmente cari: Pieretto e Barba d'oro. Un veneto e un marchigiano; studente il primo scapestrato e allegro, compassato e corretto come un inglese il secondo : cuori d'oro l'uno e l'altro, che mi volevano bene come due fratelli e che si sarebbero fatti ammazzare per me, cos mi avrei data io senza esitare la mia vita per loro. Eravamo il terzetto pi "potente" del battaglione. Bastava che la subalternaglia sapesse che il "terzetto" la pensava in un modo, perch subito tutti i colleghi la pensassero come noi. Qualcuno scherzosamente ci chiamava i tre moschettieri. Mancava per un D'Artagnan al "terzetto". Avrebbe potuto esserlo il tenente Donini, un ragazzone di Pisa, alto come un corazziere e dal fegato a prova di bombarda; ma non dur al battaglione pi di due mesi. Un giorno, che s'era in linea, io colla mia terza, lui colla sua quarta, vennero a dirmi che s'era presa una pallottola in piena fronte, come il povero capitano Giorgi, ed era caduto gi senza un gemito, colle braccia spalancate. I tre moschettieri non ebbero pi il loro D'Artagnan. Il pezzo di trincea che io presidiai quasi costantemente in quei sette mesi correva sul pendio della quota ed era lungo press'a poco trecento metri. Il comando lo tenevo nella dolina della Ghirba, una buca che presumeva di essere uno dolina, con una cavernetta profonda in fondo alla quale si arrivava per una scaletta scivolosa. Il mio appartamento, voglio dire la mia branda, appoggiava contro la roccia, che avevo rivestita di ruberoide per proteggermi il viso dallo sgocciolio che ne trasudava. Bastava infatti una giornata di pioggia perch nella mia grtta lo stillicidio durasse una buona settimana. Davanti alla branda si apriva una specie di "sala da gioco", grande press'a poco come la cassa che ci serviva da tavolino ; e di l dalla sala da gioco spaziava l'appartamento della "servit" e cio il tratto di caverna che dai piedi della scaletta conduceva, attraverso un tragitto di almeno tre metri alla mia branda. Ma la grotta aveva i suoi misteri: un grosso pertugio, cio, che portava in una oscura caverna di cui nessuno aveva mai esplorato il fondo. Ne saliva ogni tanto un gorgoglio come di acque sotterranee che vi passassero schiumose. Ne salivano pi spesso torme di topi famelici grossi come gattini che movevano all'assalto delle pagnotte e delle scatole di conserva con un'audacia impressionante. Era l, nel mio "appartamento" che, nei lunghi pomeriggi piovosi, quando non s'udiva un colpo di fucile per chilometri di Carso, si giocava agli scacchi e al pocher, o si parlava dell'avvenire fino ad ubbriacarci. Era l che ogni tanto invitavo a pranzo gli ufficiali che non erano di turno di vigilanza lungo la linea; l che ricevevo le visite dei comandanti delle compagnie laterali; l che si studiavano i comunicati del Comando

supremo, e le circolari del Corpo d'armata. Ma la maggior parte della giornata e della notte la passavo in trincea. Solitamente, tenevo tre plotoni in linea e il quarto di rincalzo in un camminamento parallelo alla trincea, cento metri di sotto. Di giorno, la vigilanza della linea era affidata, per turno, a uno dei comandanti di plotone, e, per ogni plotone, a uno dei comandanti di squadra. Di notte, gli ufficiali di vigilanza erano due, con due comandanti di squadra per ciascun plotone. Ma non mi riusciva di restar tranquillo per una intera mezz'ora nella mia cavernetta. La distanza che correva fra noi e i nemici era, in quel tratto, di circa un centinaio di metri ; ma proprio di fronte all'orlo della dolina della Ghirba, sul quale correva la trincea, si apriva, fra le due linee, una piccola dolina, la dolina neutra, piuttosto profonda; e un'altra dolina si spalancava, pi grande, fra le due linee, alla estremit sinistra della mia trincea. Erano questi due vasti imbuti pietrosi che mi davano maggiore preoccupazione, soprattutto nelle notti di pi fonda oscurit : preoccupazione che mi spingeva spesso a uscir fuori, con uno dei sergenti pi fidati, come D'Antonio o Colantonio o Savorani, e strisciar gi nelle deserte doline per assicurarmi che tutto fosse tranquillo e i nemici non stessero tentando qualche sorpresa. La responsabilit di quel lungo e difficile tratto di linea mi dava una inquietudine che arrivava spesso fino allo spasimo. Mi pareva che se mi avessero colto all'improvviso, non avrei potuto tenere la linea, salvare dal panico i miei ottimi soldati, i miei magnifici graduati; e che allora quella catena di uomini tesa dalle Alpi al mare si sarebbe dissaldata proprio li, davanti alla dolina della Ghirba, lasciando dilagare il nemico gi nella pianura a cogliervi di sorpresa comandi e truppe a riposo. La fine. E passavo le notti, quant'eran lunghe e Dio solo sa com'eran lunghe le notti di pioggia sul Carso in trincea, su e gi, di vedetta in vedetta, ad ascoltare ogni rumore e scrutare ogni ombra. Pieretto e Barba d'oro, quando erano di servizio e mi incontravano in linea, prendevano cappello. "Non ti fidi neanche di noi. Meriteresti che ce ne andassimo a dormire: almeno giustificheremmo ai tuoi occhi codesta tua diffidenza". Ma io li lasciavo brontolare sorridendo, e rispondevo : "Meglio sei occhi che quattro, anche per voi". Notti veramente indimenticabili. Il fosso della trincea era disseminato di pozzanghere di pioggia e di fango nelle quali si affondava fino oltre la caviglia; pietre aguzze affioravano dai parapetti e dai rovesci fangosi, ferivano le ginocchia e gli stinchi; contro i traversoni tesi, bassi, agli angoli, si ammaccava la fronte; la pioggia ostinata e gelida penetrava fino alle ossa, toglieva la visibilit, pungeva la faccia. Davanti a ogni mucchio di teli da tenda mi fermavo. La vedetta si indovinava sotto il goffo viluppo, acquattata contro la feritoia. Vedi niente? Niente, signor tenente...

Sveglia, neh! Lasci fare, signor tenente. Ogni tanto mi sporgevo a guardare di l dal parapetto. Le buie sagome dei reticolati, polipi mostruosi e immobili nella oscurit, e poi un muro di tenebre. Mi sforzavo di spingere gli occhi dentro quel folto; ma non riuscivano ad aprirsi un varco. E allora cercavo di costruire un logico ragionamento dentro di me. "Con questo buio, anche di l, sar come qui: venti vedette incretinite e intorpidite dalla pioggia, e due ufficiali inquieti che scrutano la notte, temendo chiss quale sorpresa". Ma era un ragionamento che non mi consolava. Mille scricchiolii sospetti scoppiavano sottilissimi nel silenzio, che qualche raro colpo di fucile di quando in quando rompeva; e mi parevano gli scaltri passi di una pattuglia. Vedevo l'ombra scomporsi in un rimestio d'ombre, la tenebra popolarsi di fantasmi silenziosi che venivano innanzi, traboccavano gi nella trincea, mi sommergevano la compagnia. Su, un razzo! ordinavo nervosamente a una vedetta. Scattava su il fuso d'oro, nella tenebra, friggente, apriva un largo candore abbagliante sulla trincea, me la rivelava tutta sconvolta e luccicante di pioggia, colle vedette immobili alle loro feritoie, e gli ufficiali e i graduati di turno fermi contro il parapetto che parevano come cristallizzati nella roccia ; mi scopriva il deserto sassoso tra le due linee e le macchie oscure dei morti e i contorcimenti spasmodici dei reticolati e i paletti fradici con qualche straccio qua e l che vi pendeva. E poi il buio schiacciava, prepotente, la trincea, ci seppelliva pi in fondo di prima. Forse che la guerra non avrebbe potuto perdersi, tutta la guerra, per una mia disattenzione? Sommersa la mia compagnia, aperto un varco di trecento metri, in piena notte, nella linea, chi avrebbe impedito al nemico di cacciar battaglioni per quel varco? Chi avrebbe potuto organizzare in tempo delle difese efficaci nelle seconde e terze linee? Chi avrebbe vietato al nemico di correre e dilagare fino a Cervignano? fino a Udine? Il capitano della decima che stava alla destra della mia linea colla sua compagnia e talvolta veniva a trovarmi, nel cuor della notte, sapendo di trovarmi infallibilmente in trincea, mi prendeva amabilmente in giro e cercava di persuadermi che io, per lo meno, esageravo" Ma, scusa : hai a posto le tue vedette ? Hai due ufficiali in linea? e otto graduati e dodici vedette accoppiate? E allora, che cosa vuoi di pi? Non sei perfettamente a posto coi tuoi doveri di comandante, colla tua coscienza e col tuo senso di responsabilit? Hai paura di un attacco di sorpresa? E se anche avvenisse mentre tu dormi? In un secondo non fanno a tempo a svegliarti? e in dieci secondi non sei in linea? Tanto, qui si dorme d'un occhio solo, quando si dorme; e poi qualunque cosa accada, tu sei perfettamente a posto. Non ti pare? Non mi pareva. Avere delle giustificazioni anche perfette da offrire

domani a un eventuale giudice delle mie azioni, non significava nulla : voleva dire nient'altro che acquietare mia "paura" della responsabilit. Per me "essere a posto" non significava questo : voleva dire essere coi miei soldati, pronto a fare tutto quello che il caso improvviso mi avrebbe suggerito e imposto, diventare io stesso un soldato, un fucile, una baionetta di pi, nel momento necessario. Ma spesso pensavo che, se avesse dovuto toccarmi una sorpresa disastrosa in linea, non avrei potuto sopravvivere all'angoscia e alla umiliazione. Una notte, ero rientrato nella mia cavernetta da un lunghissimo giro di ispezione e avevo assistito al cambio in linea dei due ufficiali di vigilanza. La pioggia mi aveva talmente intirizzito che tremavo come se avessi la febbre altissima. Feci preparare dal mio attendente un caff caldissimo; e, nell'attesa, aprii il libriccino delle tragedie di Seneca sulle quali stavo preparando il mio esame di latino. Venne il caff: lo trangugiai d'un fiato ; ripresi la lettura, contando di riposarmi pochi minuti prima di ritornare in linea. Ma la stanchezza, il sommesso cantar della pioggia, il gran silenzio, mi appesantirono a poco a poco le palpebre, e lasciai andare la testa sulle braccia incrociate .Non so quanto dormissi : forse due ore. Mi risvegliai di botto, mi guardai intorno. La fiammella della candela infissa nella bottiglia oscillava morente in mezzo a un piccolo stagno di cera liquida. Contro la scaletta russavano l'attendente e i due portaordini. Un terribile silenzio schiacciava, fuori, tutto il Carso. Balzai in piedi, stetti in ascolto. Mi pareva di non aver mai sentito un silenzio cos impressionante, cos incredbile. Corsi su per la scaletta. La tenebra era fitta e paurosa. La pioggia continuava a scendere minuta con un brusio che sembrava fatto apposta per soffocare ogni altro rumore. E in mezzo a quel brusio le mie orecchie, o la mia trepidazione, avvertivano qualche cosa di misterioso e di insolito. Le buche nella trincea parevano pi profonde di sempre, e ci sprofondavo fino a mezza gamba, impiastricciandomi di fango le mani quando mi appoggiavo ai parapetti. Le vedette tossivano piano per mostrarmi che erano sveglie. Non vedi niente? C' nero come nella bocca del diavolo, signor tenente. Spara un razzo. Le ombre dei morti e gli scheletri dei reticolati. Ma dov' il tenente? Pi in gi. Trovai uno dei due ufficiali di vigilanza. Era accucciato contro il parapetto e discorreva minuto con un sergente, fumando, cautamente, una sigaretta. Niente di nuovo: tutto tranquillo. Non sono quieto, stanotte. Mi pare che facciano troppo silenzio.

Con questo tempo, faranno anche loro quello che facciamo noi. Stai attento, mi raccomando. Chi di servizio con te, sulla destra? Giani. L'hai visto? Era qui mezz'ora fa. Sara gi, all'angolo di collegamento. Andai fino all'angolo di collegamento: ma il sottotenente non c'era. Trovai il sergente di guardia. Niente di nuovo, signor tenente. Tutto tranquillo. E il tenente dov'? Era qui pochi minuti fa. Dev'essere salito verso gli altri plotoni. Ritornai indietro. Giani aveva il suo ricovero in un mozzicone di camminamento che si apriva a mezzo della linea : ci corsi, sollevai la tenda. Era sdraiato sotto un cumulo di coperte, con una sigaretta in bocca, intento a leggersi beato una rivista. Gli strappai via irosamente le coperte. S'era levato anche le scarpe! E allora la mia collera non ebbe freno. Lo ghermii per il petto, lo scossi come un fantoccio, parlandogli, quasi soffiandogli le parole sulla faccia. Animale! E cos che tu fai il tuo dovere? E cos che vigili sulla sicurezza della linea? Anche le scarpe ti levi, farabutto! Da nove giorni siamo in linea, ed io e i tuoi colleghi non ce le siamo tolte un minuto solo... Sai che cosa sei tu? Lo sai?... Non feci a tempo a dirgli quello che mi pareva che fosse in quel momento d'ira: qualcuno mi chiamava affannosamente, fuori. Corsi. Era un caporale del quarto plolone che veniva tutto affannato dall'angolo di collegamento. Una vedetta, e poi anche il sergente, appena io m'ero allontanato, avevano avvertito nella dolina neutra un rotolio di pietre e poi un piccolo gemito subito soffocato. In un baleno fui all'angolo, mi sporsi fuori dal parapetto a guardare, nella notte densa. Su un razzo ! Il razzo sal, s'accese. Spalancai gli occhi nel chiarore spettrale. La dolina neutra si vedeva solo per met : e su quel versante non c'erano che le poche ombre dei morti. Ma quando la luce stava spegnendosi, mi parve di scorgere una di quelle ombre muoversi sui sassi. Feci lanciare altri razzi. Qualche vedetta cominci a sparare. In un attimo tutte le vedette spararono. I nemici risposero. Una fucileria infernale si scaten per tutto il Carso. Ma se una pattuglia nemica era in fondo alla dolina neutra, che cosa valeva quella fucileria? Bisognava, se mai, affrontarla alla baionetta e colle bombe a mano. Sentivo alle mie spalle ansimare inquieto e confuso il sottotenente. Mi volsi di scatto. Appena il fuoco s' quietato, prendi dieci uomini e vai di pattuglia nella dolina. Volentieri si affrett a rispondermi, concitato.

Entrava in gioco anche una mitragliatrice nemica : e mi parve che battesse proprio l'orlo della dolina neutra. Evidentemente era un falso allarme, che aveva messo l'inquietudine addosso a tutti: a noi e a loro: e gli stessi nemici dovevano pensare che nella dolina sospetta si fosse annidata una nostra pattuglia. Il baccano innocuo cess a poco a poco, si spense del tutto. Il comando di battaglione aveva mandato un caporale in linea per vedere quello che accadeva. Arrivarono portaordini anche dal reggimento, direttamente. Mi ci vollero quattro rapporti e non so quanti biglietti per quietare il nervosismo che s'era risvegliato nei comandi. Poco prima dell'alba mi vidi comparire davanti il sottotenente. Io esco di pattuglia. Lascia stare. Vado io. Ti prego. Di te non mi posso fidare. Vai a dormire. l'unica cosa che sai fare. Era un buon ragazzo, scrupoloso e preciso. Non avevo mai dovuto dolermi del suo zelo e della sua attivit. In fondo, mi rincresceva umiliarlo cos; ma la mancanza che aveva commessa mi pareva addirittura enorme. E non mi lasciai commuovere neanche quando gli vidi gli occhi inumiditi di lacrime. Lo salutai freddamente; feci chiamare D'Antonio e Sevorani, strisciammo fuori per un varco dei reticolati e ci calammo nella deserta dolina. A mezzogiorno usavo riunire tutti gli ufficiali nella mia cavernetta per la colazione. Giani non comparve; n io domandai di lui. Ma c'era nei suoi tre colleghi un imbarazzo e un cruccio evidenti; e fu Pieretto che a un certo punto scoppi a dire : Senti. Giani l'ha fatta grossa; ma la sta scontando duramente. Era meglio allora... Ti prego, Pieretto: su queste cose non mi piace scherzare. Ma io non scherzo. Questa una famiglia : tu ci hai abituati cos; e si sta bene perch siamo con te come tanti fratelli. Ripeto che Giani l'ha fatta grossa: e ne siamo tutti quanti persuasi e convinti; e io stamattina non l'ho preso a pugni solamente perch c'erano anche gli attendenti. Ma prova a pensarci un momento, e vedrai che, in fondo, sei persuaso anche tu che, da questo momento, Giani sar il migliore dei tuoi ufficiali. Tanto fecero e tanto dissero, insomma, che mi lasciai smuovere. Andarono a chiamare Giani, me lo portarono davanti. Ci voleva poco a capire che misurava esattamente la gravit della debolezza che lo aveva colto la notte, e che lo crucciava non tanto la secca e dura ramanzina ricevuta quanto il pensiero d'aver perduta la mia amicizia. Ma ci volle poco anche a convincerlo che gliela restituivo intatta perch lo sentivo perfettamente consapevole della sua mancanza.

E questo fu l'unico incidente che turb, per lo spazio di una notte, la fraternit che ci univa. *** Al riposo destinavo, di solito, le prime ore del mattino. Quando il cielo, verso Trieste, incominciava a schiarire, mi ritiravo nella mia cavernetta, e mi cacciavo sotto le coperte. In cima alla scaletta il mio attendente vigilava perch, salvo casi assolutamente urgenti, nessuno venisse a rompere il mio sonno che durava, press'a poco, fino alle dieci del mattino. Erano le ore pi tranquille e innocue della giornata. I soldati attendevano alla pulizia personale e della trincea (e naturalmente questa parola "pulizia" aveva un senso molto sommario e approssimativo). I nemici dovevano fare altrettanto. I colpi di fucili erano radi come nei capanni, le mattine di nebbia. Poco prima del mezzogiorno si risvegliava un po' d'artiglieria, qualche vedetta sparacchiava, poi di nuovo silenzio, o quasi, fino al tramonto. Ma le ore quiete per eccellenza erano pur sempre quelle del mattino. Era allora infatti che per le trincee venivano a gironzolare i pezzi grossi. Il nostro nuovo comandante di brigata, venuto a sostituire quel perfetto gentiluomo ch'era stato il povero Bagnani, morto di polmonite fulminante durante una breve licenza che aveva: voluto trascorrere a Londra, s'era fatto vivo a Vermegliano con delle visite improvvise nei baraccamenti, alle quali eran seguiti arresti e cicchetti a comediolamanda ; ma in trincea, almeno nella mia trincea, non s'era mai visto. E di questo, sinceramente, gli ero grato. Poi la fama di quelle ore tranquille dovette arrivare fino alla Brigata, perch una mattina, verso le sette, il mio attendente corse gi a trarmi di sotto la montagna delle mie coperte, dicendomi tutto affannato che il signor generale mi cercava e mi aspettava. Mi strappai con fatica dal sonno, salii su sbuffando, e davanti al vano della cavernetta trovai il generale. Era buio in faccia e mi guard con cipiglio fierissimo. Non amo trovare gli ufficiali addormentati in trincea, tenente. Se non si riposa qualche ora alla mattina, signor generale... Mi faccia vedere la sua linea. Lo accompagnai per la trincea. La mattina andava rasserenandosi a poco a poco: un fresco vento rompeva gli ammassi delle nuvole bigie e discopriva a poco a poco il cielo lucido. Perch questo soldato ha il fucile cos sporco? Da due settimane non ci distribuiscono il petrolio per la pulizia; e con tutto il piovere che ha fatto e con questo fango... Ragioni puerili. Il buon soldato trova sempre il modo di tener pulito il suo fucile; cos come il buon ufficiale cura che i suoi uomini

abbiano del loro novantuno qualcosa come una religione. Le sa queste cose, lei? Da due anni, gli risposi seccamente. E perch non le mette in pratica? Perch in trincea materialmente impossibile. La trincea, la trincea : sempre con questa parola sulla bocca... Mi pare che non sia quell'inferno che lei mi vorrebbe far credere. E tu domand fermandosi davanti a una delle vedette infagottate dentro il telo da tenda perch adoperi il telo da tenda come mantellina? Non hai la tua mantellina? Signor generale, colla pioggia di questa notte.... Lasci rispondere al soldato! Animo, rispondimi. Non hai la tua mantellina? S, ma... questo non lascia passare l'acqua. E adesso piove, secondo te? Ma adesso non posso lasciare il mio posto di vedetta. un'abitudine che non mi piace, questa, precis, rivolgendosi a me, sempre colla fronte aggrottata. poi cos che si perdono i teli da tenda. Sai almeno come mi chiamo io? continu riprendendo di mira il soldato. Il fante divent rosso, abbass gli occhi a terra e stette in silenzio. Lei non ha insegnato ai suoi soldati il nome del loro generale? Sar la timidzza che lo confonde, signor generale. Un buon soldato non deve essere timido. Timido deriva da timre; e timere lo stesso che aver paura. Cercai di volgere la cosa in lieve scherzo, e dissi sorridendo : Aver paura d'un generale non significa aver paura del nemico. Non l'avessi mai fatto. Mi piant gli occhi negli occhi, accentuando il cipiglio, e mi fece secco : Lei troppo spiritoso. Sarebbe meglio che curasse di pi la sua compagnia. Questa non una trincea: un letamaio. Se piove non colpa mia. La pulizia non c'entra colla metereologia. E questo caporale, questo caporale proruppe con un risolino trionfante si pu sapere perch ha il distintivo cucito sopra una manica sola? X qu, signor generale si affrett a rispondergli il caporale, tirando fuori da una cartucciera il gallone. Co g un fi de respiro, lo taco subito. E questo il rispetto che i suoi graduati hanno per il loro generale? Intanto faccia dare subito dieci e venti a questo caporale, e lei, naturalmente, tenga gli arresti. Continuammo in silenzio l'amena passeggiata per la trincea. Arrivati all'angolo del collegamento, si ferm, e riassunse le sue

impressioni. Non mi sarei mai aspettato tutto questo da lei. Bisogna rimediare, caro tenente, se tiene a riavere la mia stima. Io verr spesso a trovarla, perch a me piace controllare direttamente se i miei ordini sono eseguiti. Poco importa se in trincea o in guarnigione. Di questo si persuada: non la trincea che mi terr lontano dalla truppa. Se ne and. A mezzogiorno, arriv la busterella gialla degli arresti: sei giorni di rigore. E l'indomani mattina alle sei e mezzo il generale era ancora nella dolina della Ghirba davanti all'ingresso della mia cavernetta; e ricominciava la storiella dei cicchetti, delle osservazioni, delle sdegnate meraviglie. I miei fanti lo guardavano passare con una rispettosissima voglia di ridere tremolante negli occhi, e lo salutavano con degli scatti nelle pozzanghere di fango che facevano schizzar pillacchere dieci metri all'intorno. Dur cos per quattro giorni di fila; e al quarto non c'era graduato che non fosse stato punito, e ai miei arresti s'erano aggiunti quelli di tutti e quattro i miei ufficiali. Ma la quinta mattina avvenne un piccolo fatto che fece cessare le abitudini del generale. Era arrivato in linea anche pi presto del solito; ed io avevo passata una nottata d'inferno, seminata d'allarmi. Quando l'attendente venne ad avvisarmi che il generale mi aspettava nella dolina, ero d'un umore cos nero che avrei ammazzato a sangue freddo chi mi avesse pestato un piede. Il generale viceversa pareva allegrissimo. Certo aveva dormito saporitamente otto ore di fila; e quella innocua passeggiatina al fresco della mattina gli doveva tornare di pieno gradimento. Sa a che cosa pensavo venendo su per il camminamento? Che si potrebbe, con poca spesa, correggere il saliente formato dalla estrema destra della sua linea e dalla estrema sinistra della linea della decima. Una breve preparazione di artiglieria, mezz'ora di bombarde, e un piccole sbalzo in avanti... Eh? E s'era affacciato a una feritoia binocolando per il Carso. Ma in quel preciso momento, una serie di scoppi cupi e sordi si sgran per la linea, intensificandosi verso l'estrema sinistra della mia compagnia, e una violentissima fucileria si accese e si propag, con la usata rapidit, per la catena delle vedette. Il generale s'era voltato a guardarmi perplesso. Che cos' quest'allarme? Le solite cose, signor generale. Ad ogni modo corro subito a vedere. Vada, vada... E tutta la compagnia in linea, mi raccomando. Fece un rapido dietrofront; e se ne and col suo ufficiale in gran fretta verso il camminamento, commentando. Non capisco. sempre cosi quieto alla mattina. Che si siano accorti che c'era un generale in linea?

Naturalmente, nessun austriaco s'era accorto che c'era un generale nella linea italiana. Erano semplicemente i miei soldati che, per metter fine a quello che essi chiamavamo il mio martirio mattutino, avevano improvvisato quell'allarme, destinato a suggerire un po' di prudenza al signor generale. E riuscirono. *** Una mattina un cuciniere port, colle marmitte del caff, la notizia che era imminente un'azione. L'aveva saputa da un suo amico, ciclista al comando del Corpo d'armata a Turriaco. Domandai al comando di battaglione; ma il nostro buon tenente colonnello Linati non ne sapeva nulla, per quanto comandasse interinalmente anche il reggimento. Fu fatta una piccola indagine fino alla Brigata : non se ne sapeva nulla. Ma evidentemente il cuciniere doveva saperne pi del nostro generale, se pochi giorni dopo la notizia fu confermata e precisata. Si trattava per d'una piccolissima azione: stordire con una mezz'ora di bombardamento intensissimo, sopra un tratto di duecento metri di linea, il nemico, e poi piombare di sorpresa con una compagnia a far razzia di armi e di prigionieri, per ritornar svelti in trincea prima che si risvegliassero le artiglierie nemiche. Il disegno era addirittura perfetto, tanto era semplice. Le complicazioni, se mai, le avrebbe offerte la realt. Ma la realt , nella maggior parte dei casi, il "senno di poi". Inutile tenerne conto. Se la sarebbe sbrigata il comandante della compagnia destinata all'azione. In un primo tempo, la compagnia scelta dal reggimento fu la mia, come quella che fronteggiava proprio il tratto di linea nemica che appariva il pi propizio alla incursione. Poi la presenza delle due doline neutre fra le linee consigli di spostare l'obbiettivo un poco a destra; e allo sbalzo fu destinata la decima compagnia. Alla mia non rest che il compito di proteggere da un eventuale contrattacco la decima. Dovevo, insomma, restare nelle quinte. Io non sapevo se esserne contento o scontento. Tanto pi che dalla brigata avevano avvisato che il Comando supremo teneva in modo particolare a quell'azione, destinata a trarre dal lungo letargo invernale le truppe e a dimostrare agli alleati che anche sul Carso non si sonnecchiava, come qualcuno che, evidentemente, conosceva il Carso solamente da quello che gliene avevano detto le carte topografiche pareva che avesse disdegnosamente affermato. Tutto questo per aggiungere che c'erano cinque medaglie d'argento e dieci di bronzo, oltre un bel pacchetto di fogli di licenza in bianco, a disposizione della compagnia che avesse operato lo sbalzo. Venne il giorno fissato.

Poco sole tra la nebbia fin verso il meriggio; poi un nebbione fitto fitto, come una tenebra bigia. L'ora dello sbalzo, le quindici. Alle quattordici e trenta incominci l'inferno del bombardamento. Avevo disposto tutta la mia compagnia in linea, pronto a buttarla fuori in caso d'un contrattacco; e mi avevano arricchito la trincea di quattro mitragliatrici, a mia disposizione. Io mi tenevo in una delle quattro improvvisate piazzole, nel punto dove la mia linea descriveva un lieve saliente ad angolo acuto verso la dolina neutra. Dalla feritoia avrei potuto dominare tutto il tratto di trincea nemica che doveva essere attaccato, se la nebbia non mi avesse impedito di vedere, al di l dei miei reticolati, altro che gli sprazzi sanguigni delle granate e le grosse e basse vampe gialle delle bombarde che si rompevano, con spaventosi schianti, addosso ai reticolati austriaci. I minuti non passavano pi. Mi pareva che il bombardamento durasse da lunghe ore, e guardavo nervosamente l'orologio ogni due o tre minuti. A un certo punto dovetti spedire un sergente nella dolina delle bombarde pregando che allungassero il tiro, perch gi qualche pentolone era scoppiato sull'orlo dei nostri reticolati. Ma il sottufficiale non era ancora partito che una gigantesca fiammata si apr a pochi passi da noi, spalancando una voragine nella trincea, facendone crollare per qualche metro! il parapetto, mentre una tempesta di pietre e di scheggio sibilanti ci pioveva addosso. Accorremmo. Il sergente e due soldati giacevano sanguinanti in mezzo ai rottami. Mi avventai inferocito gi per il camminamento, piombai sul tenente d'artiglieria bestemmiando e urlando minaccie tremende: quello mi giur che era il vento, che era la nebbia, che lui non c'entrava per niente; finch non ci sorprese il colonnello che, svelto svelto, con un beato risolino sulla faccia, era incamminato verso la trincea. Mi prese per un braccio, mi trasse su con lui, ammonendomi a restar calmo, e poi mi confid, sottovoce, che da un pezzo lui sognava un'azione, che solamente per quello aveva fatta domanda, ad onta della et assai avanzata, di venire al fronte a comandare un battaglione. Voleva conquistarsi una medaglia d'argento sul serio, come un buon fante: per questo sarebbe uscito colla compagnia, con un fucile in mano e le saccoccie gonfie di Sipe. Davanti alla trincea della decima i soldati erano pronti, coi loro ufficiali. Il bombardamento continuava violentissimo. A un tratto tutto tacque. Il silenzio pi strano e illogico cal sul Carso vestito di nebbia. Il colonnello sal sopra un sasso, grid: "Soldati della decima! l'ora! Pensate che da Quarto partirono in mille per conquistare un regno intero! Lo spirito dei vostri padri con voi in questo momento; ed con voi anche il vostro colonnello... Avanti!" I soldati ascoltavano stupiti quel vecchio colonnello che, in trincea, un minuto prima di uscire all'attacco, parlava di Garibaldi e dei Mille. Ne

avrebbero riso, se non avessero avuto per lui tanto affetto e tanto rispetto. Piuttosto, ci volle del bello e del buono a trattenerlo dall'uscire dalla trincea all'assalto con un novantuno in pugno; e valse a dissuaderlo dall'impresa solo la minaccia del capitano della decima che gli dichiar seccamente che non sarebbe uscito se insisteva in quell'eroico ma inopportuno proposito. La compagnia si butt fuori per i quattro varchi aperti nei reticolati. La seguii cogli occhi dalla mia feritoia e vidi attraverso la densa nebbia sparire quegli urlanti fantasmi. Poi aguzzavo invano gli sguardi e mi domandavo inquieto come avrei potuto distinguere, in quel tenebrore, i nostri dai nemici che fossero mossi al contrattacco. Per prudenza; feci puntare due delle mitragliatrici verso la nostra sinistra e ordinai un fuoco a raffiche che tenesse a bada il nemico e ne ostacolasse un attacco sui fianchi. Dalla trincera nemica venivano un confuso gridio e i tonfi caratteristici delle bombe a mano. Ma quel che vi accadesse di preciso, nessuno poteva sapere e vedere. Il colonnello, umiliato e irritato di non aver potuto effettuare il suo personale progetto, pareva non accorgersi di niente, e, sdegnoso, seduto contro la trincea, il mento affondato nel bavero della mantellina, ruminava tra s e s la sua innocente e santa indignazione. Stavo gi per accordarmi coll'aiutante maggiore e mandare una pattuglia dei miei fanti verso la trincea attaccata, quando rotol gi dal parapetto uno dei subalterni della decima con una Schwarlose sulle spalle; e dietro di lui, punti alle reni dalle baionette di tre o quattro soldati, un nugolo di prigionieri istupiditi. Un quarto d'ora dopo tutta la decima era rientrata, con un bottino di circa duecento prigionieri, due mitragliatrici e un cannoncino da trincea. Perdite nostre: il mio sergente morto, i miei due soldati feriti : e nient'altro. Ma la mia compagnia era rimasta tra le quinte : inutile far proposte di medaglie o domande di licenze premio. La piccola pioggia dei nastrini cadde tutta quanta sulla decima. Un solo nastrino prese un'altra strada, e and a fermarsi sulla giubba del nostro caro colonnello : e non ci fu neanche un piantone che non lo trovasse al suo posto giusto. Una grossa sorpresa ci attendeva poi l'indomani; che ci fece restare tutti quanti di stucco. Il bollettino di Cadorna diceva testualmente che "un reparlo del 117, con ardito sbalzo, era penetrato nelle trincee nemiche di sorpresa, catturandovi armi e prigionieri in gran copia...". L'onore del Bollettino? Ma chi l'avrebbe mai sognato? osato di sognare? E allora i fanti sentenziarono che per far voltar la testa agli alleati, sordi al punto di non sentire neanche le cannonate che giorno e notte rimbombavano dal Tonale a Monfalcone, ci volevano proprio le "dichiarazioni" del Bollettino. Naturalmente, invece di "dichiarazioni" i fanti usarono un altro vocabolo.

*** Qualche volta si parlava dell'avvenire. Ma era difficile immaginarci staccati da quella nostra vita, da quei nostri piccoli e grandi doveri di tutti i giorni: dalla compagnia, dal battaglione, dalla trincea. S'era creduto che la guerra dovesse essere una parentesi aperta nel corso della nostra vita; ed ecco che quella parentesi pareva che non dovesse chiudersi pi, e che fosse logico che non si dovesse chiudere pi: e la guerra, il destino, tutto il destino della nostra vita. E allora anche l'avvenire era una cosa incerta : come una favola. Una favola che aveva i colori e la forma di quella triste realt che ci aspettava, nei quindici giorni di licenza, in Italia. Pieretto usava dire, veramente, che l'Italia era venuta a star di casa davanti ai nostri reticolati, e che era dunque un'impropriet morale chiamare Italia tutto il resto. Barba d'oro, meno poeta e pi pratico, vagheggiava un rapporto da mandare al Comando Supremo sulla opportunit di inviare in licenza invernale i reggimenti inquadrati. Uno per ogni citt italiana, a turno: con l'incarico preciso di far piazza pulita di tutte le carogne. Retorica anche questa: la nostra retorica. Poi ci si beveva sopra : e tutto finiva l. Nel vino si annegavano anche i fantasmi dell'avvenire: che era l'unico modo per non guastare i nostri vent'anni. Sai mi diceva una notte Pieretto, che si stava seduti fuor della mia cavernetta, nella dolina della Ghirba, a fumare, e c'era un gran silenzio, sotto le stelle, che pareva d'essere in campagna : ho trovato un paragone che, se te lo dico, lo metti subito in un articolo per il tuo giornale di Pavia. Fuori. Se buono, te lo pago una bottiglia di cognac. Parola? Parola. Senti. Da ragazzo ero innamorato cotto di una mia cugina di Mestre : una bella bionda, gi sposata. Un amore di quelli pazzi, di quando s'ha quindici anni. Lontano da lei, smaniavo e mi pareva che avrei fatto a pugni con Raicevich per poterle dare un bacio sulla mano; e ai miei compagni di scuola contavo un sacco di frottole, su quella donna, e lasciavo credere d'essere arrivato chiss dove. Quando veniva da Mestre a trovare la mamma e la vedevo l, davanti a me, cos bella, tutta un sorriso, non riuscivo pi neanche a parlare, per la confusione; e un giorno che, presenti tutti, mi prese la testa tra le mani e, con una risata festosa, mi baci sulle guancie, dovetti scappare con la gola stretta da un'emozione tremenda. Ecco. cos anche con certe cose... con certe parole... In Italia, l'han tutti sulle labbra, la portano in giro come... come una cravatta. Qui, nella dolina della Ghirba, prova a dire, se sei capace, la parola... "patria". Ti senti diventar rosso di vergogna ; e poi ti pare che anche i morti saltino

su a dirti di non fare il fesso. Eppure, per Cristo... Gi. Restammo un pezzo in silenzio, col cuore gonfio.

X. OSPEDALE (estate 1917) Una mattina, scendendo dal Carso verso Vermegliano, dopo un cambio, preso da uno strano presentimento, arrivato alla Dolina del Carretto, mi fermai, mi guardai in giro subitamente commosso; poi mi volsi verso il sergente che mi seguiva e dissi : Sai, D'Antonio, ho l'impressione che questi sassi io non li vedr pi. D'Antonio sorrise rispettosamente e mi rispose: Dio lo voglia, signor tenente : n lei n noi. Ma poi aggiunse subito, quasi con severit : Per, se sar necessario, ci torneremo tutti, con lei. Il presentimento era esatto. Pochi giorni dopo ch'eravamo a Vermegliano, incominci la dissenteria: violentissima; e, colla dissenteria, una tosse cupa, profonda, che mi pareva scuotesse, dentro di me, e cercasse di strapparmi, che so io, le radici della vita. Il tenente medico del reggimento mi prescrisse il riposo pi assoluto, la dieta e certe pillole misteriose che avrebbero dovuto farmi sonnecchiare tutto il giorno. Ma non riuscivo a chiudere occhio; e mi sentivo, a poco a poco, svuotare d'ogni energia, d'ogni volont di vivere. Una mattina, un furibondo bombardamento di grossi calibri uno dei quali, il primo, venne a schiantarsi sulla filanda ove erano addensate le tre sezioni mitragliatici del reggimento, e ne men strage ci costrinse a trasferirci d'urgenza a Soleschiano; e quei pochi chilometri di marcia, sotto il sole, mi costarono una fatica indicibile. La sera avevo la febbre alta. Il tenente medico, visitandomi, si lasci scappare la parola "ospedale". Mi ribellai. Pensavo che se un giorno avessi dovuto entrare in un ospedale, non ne sarei uscito vivo. Avevo paura di quell'oscuro male che s'era annidato nelle mie viscere e nei miei polmoni. Ma quando un giorno arriv al battaglione l'ordine di tenersi pronti per ritornare a quota 208 perch era imminente una grande avanzata, dovetti arrendermi alla precisa volont del colonnello: o mi sentivo di restare colla mia compagnia, portarla in trincea e guidarla nell'azione, o dovevo entrare all'ospedale. Provai ad alzarmi, a scendere nel breve piazzale alberato davanti alla cascina dov'era la mensa. Quando fui tra i miei colleghi che fingevano di non vedere la mia faccia terrea ed affilata e i miei occhi smarriti, mi prese un capogiro violentissimo, e caddi tra le braccia d'un capitano che mi stava vicino. I colleghi salirono a salutarmi prima di partire, quella sera. Gli ufficiali della mia compagnia mi baciarono e mi abbracciarono. Restai solo, nella stanzetta nuda, col mio attendente che, accanto alla finestra, sbocconcellando la pagnotta, guardava partire il battaglione. Lo sentii

andare, compagnia per compagnia, riconoscendo le voci di tutti; lo sentii allontanarsi a poco a poco. La parete bianca, davanti a me, divent scura quasi all'improvviso. L'attendente usc in punta di piedi. Restai solo. Logico che piangessi: d'amarezza, di umiliazione, di sconforto. L'autolettiga venne a notte alta. La traudii, nel sopore della febbre che mi dava strane allucinazioni, fermarsi davanti alla cascina. Una voce forte domand : "Dove si sar cacciato questo ufficiale?". Vidi il mio attendente, e poi altri soldati sconosciuti. Chiusi gli occhi, sentendomi affondare in una vertiginosa caduta... Quando la coscienza riaffior dal lungo delirio, mi trovai in un letto bianco, in una gran camera chiara, dove c'erano altri letti bianchi e occhi lucidi che mi guardavano, e una donna vestita di bianco, con una croce rossa sul petto, che andava e veniva, andava e veniva, leggera, come se non toccasse nemmeno il pavimento. Le finestre erano piene di cielo; il cielo era pieno di luce. Passavano delle rondini ogni tanto ; e il loro guizzo nero mi faceva chiudere gli occhi in un piccolo capogiro. Ma capivo d'essere salvo. Debole da non potere sollevare la testa sul guanciale; ma se respiravo sentivo che i polmoni mi si riempivano di azzurro. Vivere, vedere il cielo e le rondini, sentire sotto le palme delle mani il petto sollevarsi nel respiro lento, sentir scendere in gola il tepore del latte, come una carezza, vedere il sorriso della infermiera vestita di bianco, udirne la dolce voce, seguire i gesti delle sue mani, attenderne con ansia la fresca carezza sulla fronte: tutto questo era cos nuovo che mi gonfiava il cuore di non so quale struggente tenerezza. Una mattina all'alba fummo risvegliati bruscamente da un sordo fragore. Tutti i vetri dell'ospedale tintinnavano ai colpi delle batterie pesanti appiattate nella campagna intorno. Era incominciata l'offensiva. Prima del tramonto fui smistato. L'infermiera, un po' commossa, volle a tutti i costi inginocchiarsi davanti a me per allacciarmi le scarpe e cingermi le mollettiere. Mi annod la cravatta bianca, si caric della borsa di cuoio dove tenevo i miei libri, del cinturone, del tascapane, li port fino all'autoambulanza; poi risali, svelta e leggera, mi cinse con un braccio sotto le ascelle, mi sostenne, e, piano piano, gradino per gradino, lungo le scale, poi nel cortile sfavillante di sole, mi condusse fino alla grossa macchina grigia. Tanta era la luce che dovetti, come abbacinato; chiudere gli occhi e lasciarmi quasi portare dall'infermiera e poi farmi ghermire dal conducente che mi iss sul seggiolino accanto al volante. Allora la crocerossina si drizz sulle punte dei piedi, si appese colle piccole mani al fanale e guardandomi con un sorriso di tenerezza. Guarisca bene, tenente; e non mi dimentichi del tutto. Le devo la vita. Esagerato!

E aveva alzato il viso per essere pi vicina col suo sorriso alla mia bocca. Mi curvai per baciare le sue mani che stavano ancora aggrappate al fanale; ma la macchina si avviava. Buona fortuna, tenente! Un rombo; la macchina part. Avevo il vento in faccia. Prima fu come un turbine, e credetti di non poter resistere, tanto mi costava fatica il respirare. Poi, a poco a poco, mi abituai. E fu una gioia vedere la campagna ai lati della strada; incolta ma tutta verde; devastata ma tutta verde; e i fiori gialli e blu sul ciglio dei fossi; e qualche allodola che sprizzava su di terra e saliva saliva saliva, come succhiata da un gorgo azzurro di paradiso, cantando; e le case bianche e silenziose che fuggivano via. Mi pareva di non avere mai viste margherite cos gialle, fiordalisi cos azzurri; n un cielo cos luminoso, n alberi cos verdi. Avrei voluto parlare col conducente, raccontargli della mia casa lontana, sentirlo parlare della sua famiglia e della sua vita. Mi pareva che dovesse essere l'uomo pi buono del mondo, e che saremmo stati amici, quasi fratelli. Avrei voluto che quel veloce andare non finisse mai p. Intenerito da quell'impeto di gioia, protesi le due mani in avanti come se avessi voluto abbracciare la vita che ritornava verso di me. E gli occhi mi si incantarono allora sulle mie due povere mani pallide, magre, incerte, cos incerte che a stringere le dita a pugno mi dolevano come se le obbligassi a uno sforzo eccezionale. La luce rossa del sole morente me le illuminava. Sentivo quel morbido tepore salire su per il braccio, sotto la manica troppo larga della giubba, perdersi in tanti piccoli brividi che mi guizzavano per la pelle e mi davano un sottile stordimento. All'improvviso un rombo lontano parve rincorrersi all'orizzonte. Sentii come un tuffo al cuore, e poi un inquieto senso di umiliazione mi fece abbassare le palpebre sugli occhi come se qualcuno mi stesse a guardare con severit. Dovevano essere le artiglierie nemiche, che si risvegliavano, tutte insieme, nelle doline del Carso. Forse, in quello stesso momento, la mia compagnia, i miei soldati, i miei compagni stavano strisciando sui sassi, verso i reticolati ancora intatti di quota 231... Come, come avrebbero potuto arrivare fino alla quota? Chi li proteggeva da quell'inferno di granate e di srapnel che in stormi fulminei venivano a rompersi su di loro? Se ci fossi stato io, forse, li avrei portati dentro la dolina neutra, dove c'erano delle cavernette profonde, dove avrebbero potuto aspettare che l'artiglieria si quietasse un poco. Il rombo continuava, cresceva di intensit, si allungava fino all'estremo punto dell'orizzonte. Ma allora il pensiero di essere lontano da quell'inferno, al sicuro, sopra una strada tranquilla, in mezzo alla campagna, fu pi forte in me d'ogni altra sensazione, mi dilag per tutte le vene irresistibilmente ; e

tutta la mia carne trionf, sull'angoscia che mi pungeva il cuore, sferzata dall'istinto prepotente. Una tromba url, rauca, dietro la nostra macchina, chiedendo imperiosa il passo. Il conducente rallent, piegando verso destra, e una grossa automobile grigia pass velocissima. Vidi di sfuggita due soldati e, dietro, sola, una signora vestita col manto azzurro delle dame infermiere, il soggolo bianco intorno al viso e due mani guantate sul petto a reggere il velo che il vento strappava. Una visione fuggente, inghiottita da un turbine di polvere. Una donna. Da quanto tempo non vedevo pi una dolce bocca sorridere ? Da quanto tempo le mie braccia non stringevano pi sul mio cuore una donna, viva, palpitante, tiepida, che mi prendesse il capo tra le mani e mi baciasse sulla bocca? che mi accarezzasse sui capelli? Le mani delle donne, le dolci mani delle fanciulle che avevo amate e baciate, le piccole mani innocenti dal polso esile... Palpitavano esse davanti a me come bianche farfalle silenziose. Anche la dama che era volata via nella sua automobile grigia, senza guardarmi, senza nemmeno vedermi, doveva avere delle bellissime mani. Le teneva in croce, serrate contro il petto, chiuse nei guanti. Ma, forse, tra l'orlo azzurro della manica e il guanto c'era un roseo cerchio di polso ignudo. Il giorno declinava e la luce si ritraeva a poco a poco dalla strada, dalla campagna e dal cielo. L'aria era pi fresca, quasi fredda. Ed io sentivo rinascere dentro di me la febbre. La sentivo brulicare, formicolare ai polsi, alle tempie dove il battito delle vene accelerava il suo ritmo. Gli occhi mi si facevano pesanti; il respiro pi corto e faticoso. C' molta strada ancora? L. Vede? e mi accennava, allungando un braccio, una casa celeste colle finestre incorniciate di bianco e un ciuffo d'alberi di guardia. Mi parve una casa triste, silenziosa, quasi abbandonata sull'orlo della strada polverosa. Il conducente suon la tromba. Da una porticina accanto al cancello chiuso usc un soldato, svogliato e insonnolito. Tutto qui? chiese. Fai presto, che devo ritornare a Turriaco. Il soldato rientr, il cancello si apr cigolando e la macchina invase il giardinetto. Vidi qualche ciuffo di iridi insanguinate dal tramonto, qualche pallido viso alle finestre, un piccolo pozzo in fondo a un vialetto di acacie polverose, due baracche laccate di bianco. Qualcuno usc da una porta, si avvicin, brontolando delle incomprensibili parole. Mi pareva di sognare e che tutto quello che mi circondava fosse irreale. Pensai che non avrei avuta la forza di scendere a terra. I denti mi battevano; avevo freddo; delle grosse goccie di sudore mi colavano dalla fronte per le guancie. Il conducente parlava, ma la sua voce mi giungeva come da una

distanza infinita. Indovinai che mi invitavano a scendere, vidi due braccia protese; mi alzai cercando di sorridere, mi aggrappai al volante, mi drizzai in piedi... poi mi lasciai andare... *** Seguirono giorni d'alta febbre, nel piccolo ospedale di Muscoli; e quando la febbre dilegu, mi trovai tutto pesto e fiaccato nel tettuccio di ferro, sotto un finestrone quadrato, spalancato sul giardino. Accanto al mio c'era un altro lettuccio dove un capitano d'artiglieria stava a poco a poco risuscitando da un terribile tifo. Ogni tanto mi parlava della sua vecchia mamma che lo aspettava a Livorno, e della sua batteria che aveva lasciata annidata tra i sassi dell'altipiano di Doberd. Un giorno potei alzarmi e uscire nel giardinetto. Di notte era piovuto, i pochi fiori e le acacie eran fresche e mandavano un profumo acutissimo. Mi sedetti sopra una panchina, all'ombra, accanto a un ciuffo di iridi splendenti; e mi perdetti a contemplare l'affaccendarsi delle formiche tra i sassi. Pareva che ognuna andasse per la sua strada, senza meta e senza perch; ma, dopo un poco, mi accorsi che avevano tutte la stessa direzione, e che tutti i loro cammini, anche di quelle che sembrava si perdessero lontano, convergevano verso lo stesso punto. Poi mi stancai; mi parve che tutto quell'andare e venire tra i sassi, quel rincorrersi minuto e silenzioso, fossero una fatica mia. Mi alzai dalla panchina, feci per avviarmi; ma dovetti appoggiarmi a un albero e chiudere gli occhi stordito; poi rientrare piano piano nella mia stanzetta, sdraiarmi sul letto e chiuder gli occhi. Avrei voluto dormire. Non ci riuscii per un pezzo. Il mio pensiero non poteva staccarsi da quel frenetico nero formicolio che mi esasperava, che mi faceva smaniare, i nervi prigionieri d'una sottile disperazione. *** Comandava l'ospedaletto un maggiore medico di complemento, richiamato in servizio al fronte da pochi mesi. Rumoroso, gesticolatore, d'una cordialit espansiva, trattava i suoi ammalati come se fossero dei vecchi clienti, dei "maledetti clienti che non pagavano nessuna specifica mai", e li investiva con una affettuosa scarica di bestemmie ogni volta che non eseguivano a puntino le sue prescrizioni. Mi parve che avesse subito per me una specie di preferenza sentimentale; ma forse era questa l'impressione di tutti i nuovi arrivati. Si accorse che, forse, pi i miei nervi che il mio fisico dovevano essere curati e guariti; e ogni mattina, visitandomi nella baracca bianca, dava egli stesso gli ordini per la mia colazione e il mio pranzo, obbligando poi l'infermiere ad assistere ai miei

pasti e a riferirgli se avessi rifiutato qualche cosa. Dovevo cos mangiare assai pi di quanto non mi sentissi, almeno i primi giorni. Mi aveva poi sequestrati tutti i libri, giurando che aveva recato maggior danno alla umanit la carta stampata che non tutte le guerre; ma una sera, inaspettatamente, mi confid d'aver sempre avuto un debole per la letteratura, e che anche adesso non riusciva a prender sonno, la notte, se prima non si fosse sorbito una bella pagina di prosa italiana. Tu, per s'era affrettato ad aggiungere se ti fai cogliere con un libro in mano, sei finito, ricordatelo. Ti smisto subito per un altro ospedale. E mettiti bene in mente che un ospedale come questo mio, con un fesso di maggiore come il sottoscritto, non lo trovi neanche tra gli americani. E a poco a poco le forze ritornavano. Dolcezze di certe sere, quando mi sdraiavo, solo, lontano dai colleghi, in un angolo del giardino, sulla poca erba, sotto il cielo, e lasciavo errare la mia fantasia per i sentieri dei sogni! Che lunghi, muti colloquii con le piccole stelle, gli steli d'erba, le foglie degli alberi. La mia sensibilit, raffinata dalla lunga febbre, fremeva per un nonnulla. La forma d'una nuvola, il trepido scintillio di una stella, il fruscio d'una foglia nel respiro della notte, il profumo d'un fiore, lo stridio d'una invisibile rondine in cerca del nido smarrito, tutto mi stupiva, mi commuoveva; tutto pareva vicino al mio cuore, partecipe della mia vita, della mia gioia di vivere; tutto mi pareva che convergesse verso di me, spinto da una tenerezza universale. Non ero che una creatura : e il creato, con sollecitudine materna, si piegava su di me. Giugno volgeva ormai alla fine, e i prati intorno all'ospedaletto mandavano un profumo d'erba che si faceva inebbriante alla sera. Dal muro di cinta verso lo stradale salivano, a ogni passare d'autocarro, nembi d'arida polvere che si abbatteva, mortifera e silenziosa, sugli oleandri rosa e le iridi lilla; e quei poveri fiori, riarsi, parevano aspettare come moribondi il tramonto e la fresca acqua dell'innaffiatoio. Il maggiore medico aveva affidato a me quell'incarico "l'unico adatto per uno studente di belle lettere". E ogni sera, dopo la cena, io portavo a quei fiori la gioia dell'acqua. Li vedevo luccicare, e grondare a poco a poco, ebbri, sotto la fredda percossa della dolce pioggia, fremere e tremare come creature vive. Poi i grilli incominciavano a cantare, vicini e lontani, nella oscura campagna, e le stelle scendevano una ad una, e poi a grappoli, dalle immensit. Qualche volta si sentiva passare, altissimo, un aeroplano; e la sua piccola lampada di prua pareva una lucciola sperduta in mezzo alle stelle. I miei compagni amavano raggrupparsi nelle stanzette intorno ai tavoli del pocher; ma io non giocavo pi. E allora uscivo, per una porticina che si apriva dietro il giardino, e mi perdevo dietro le mie fantasticherie, passeggiando per i prati.

C'era un boschetto di giovani pioppi, poco pi alti d'un uomo, tra i quali correva, capriccioso e quasi senza letto, un ruscello. Le sue acque si disperdevano e si rincorrevano sull'erba, gi per breve pendio, in fondo al quale si ricomponevano, come se volessero dare una piccola dignit allo scapestrato ruscelletto. Quello divent il mio angolo preferito, il mio rifugio, dove nessuno poteva venire a importunarmi. E anche di giorno, nelle ore dell'alto sole, quando i compagni dormivano sui loro lettucci con le tende tese davanti alle finestre aperte, e le cicale strillavano a perdifiato, attraversavo zitto il giardino, correvo al boschetto dei miei pioppi e mi sdraiavo su quell'erba sempre fresca, accanto a quel dilagante ruscello che, sotto il cielo, pareva una gran capigliatura d'argento, screziata di mole, sfatta e distesa ad asciugare tra i chiari alberelli. *** Un giorno, da un ciclista del mio battaglione che venne a portarmi la posta, seppi che il mio reggimento doveva essere sostituito in linea l'indomani e che sarebbe sceso ad accamparsi a Molini da Ponte, presso il mio ospedaletto, per due settimane di riposo. Un'ora dopo, un tramestio di truppe che passavano mi trasse al cancello. Era il reggimento avviato a sostituire il mio lass. Se ne andavano lenti su due file, di qua e di l della strada. Faccie arse, incipriate di polvere, sotto la quale il sudore pareva essersi incrostato ; spalle curve sotto lo zaino affardellato ; scarpone deformi che pareva costasse una eroica fatica sollevarle e portarle, a ogni passo, mezzo metro pi in l. Nessuno cantava. Si sarebbe detto che i fanti avessero dimenticate tutte le loro canzoni. E non c' nulla di pi triste di una colonna di soldati che vanno senza cantare. Era un reggimento glorioso, Ritornava sul Carso per la ventesima volta. Forse, ognuno di quei fanti oscuramente pensava che quella era l'ultima e che non ne sarebbe disceso mai pi. Qualcuno doveva avere nel cuore la visione quieta e verdissima del cimitero del suo paese lontano. Lo stradale era bianco : abbacinante di polvere e di sole. Nemmeno la neve bianca come son bianche le strade che conducono al Carso nei meriggi d'estate. Un bianco senza piet. Ogni altro colore si dissolve in quel candore crudele. Perfino l'azzurro del cielo si liquefa, si strugge in un accecante biancore, e la luce del sole un pulviscolo incandescente. E si va, si va, senza pensiero, senza volont, senza speranza. Se un'immagine rimasta nel cuore vi si aggrumata come una ferita. Non c' che un corpo, fatto di carne pesante e d'ossa indolenzite, che bisogna portare, sotto la giubba che impaccia, dentro le cinghie che incatenano, sotto l'elmetto che schiaccia, che bisogna portare pi in l, sempre pi in l, fino a quei colli senz'erba, sopra quella gradinata di pietre che saranno, forse, i nostri sepolcri. E se una tromba, rauca, urla le note dell'alt, in testa della

colonna, si crolla a terra con fracasso di ferraglie, nella polvere, accanto ai fossi, dove la terra dura come il sasso, e si giura, con forsennata energia, che nemmeno Iddio ci sapr trar su da quel fosso e risospingere in cammino. Ma quando la tromba suona l'avanti, ci si risolleva, puntandoci con le due mani sul fucile, per riprendere sull'arso stradale la marcia verso le doline del Carso, lucide tombe di sole. *** Una mattina mi svegliarono all'alba, mi dissero di vestirmi subito, in fretta. Nel giardinetto aspettava un autocarro della Sanit che doveva portarmi a Udine alla visita medica collegiale. Udine. Una caserma grandissima, quasi livida, in una strada silenziosa. Macchie d'alberi impolverati sull'orlo di un muro. Nel cortile, la pompa dell'acqua cigolante e un soldato in mutandine che guizza beato sotto il getto cristallino. In un lungo corridoio lastricato di lucide piastrelle bianche e rosse, su poche panche, ammucchiati contro le finestre aperte, duecento ufficiali aspettavano d'essere visitati dalla Commissione. Erano duecento ufficiali che il fango della trincea aveva macerati, consunti, corrosi. Molti avevano sulla giubba afflosciata le striscette azzurre del valore; moltissimi, sulla manica, le sbarrette argentee delle ferite. Il corridoio risuonava ininterrottamente di colpi di tosse secchi, cavernosi, gorgoglianti: aspri come un singulto, disperati come rantoli, cupi come schianti. Quasi tutti erano ammalati di petto. Gli occhi avevano un folgorio lucido e febbricoso. Erano duecento visi pallidi, bui, pieni d'ombra, che chiss da quanto tempo avevano disimparato il sorriso. Erano quattrocento mani incerte e smarrite, con quattromila unghie pulite, troppo pulite, che brancivavano su duecento giubbe sdrucite e gonfie di vuoto. I rifiuti della trincea. Il risucchio di duecento reggimenti. Quasi tutti avevano resistito per due anni, tra nembi di mosche dorate e sitibonde, senz'acqua, senz'erba, senz'ombra: e poi erano caduti gi, ghermiti dall'etisia, dal tifo, dal colera. Contro le ferite le belle e sante ferite che squarciano la carne e aprono una breccia al sangue vivo e caldo avevano resistito sorridendo : scherzando quando il ferro del chirurgo si immergeva nel loro strazio. Ora erano ammalati : non sapevano scherzare pi. Aspettavano con rassegnazione. Sapevano che la Commissione "non scherzava" : dove rintracciava un briciolo di vita, inesorabile affondava la sua necessaria sentenza : che poteva essere di morte. Correvano voci sinistre, pi suggestive perch nessuno poteva controllarle. Tremende menzogne che l'umiliata disperazione rivestiva di verosimiglianza. Io guardavo ed ascoltavo con un senso d'angoscia soffocante. Il

brusco risveglio, il lungo viaggio sul traballante autocarro, tutta quella povera carne malata che esalava un sottile sentore di febbre, di sudore e di disinfettante, mi schiacciavano il respiro in gola, mi serravano il cuore. Il cigolio della pompa dell'acqua nel cortile mi trasse alla finestra. E allora pensai con un desiderio struggente alla frescura di quel bel getto cristallino e violento; immaginai di essere nudo e otto la cascatella scrosciante, di sentirmi i rivoli gelidi scorrere veloci sulle spalle, sul petto, sulle coscie; e dovetti serrare i denti per non scoppiare a piangere. Un improvviso scalpiccio in fondo al corridoio, un mormorio diffuso, uno scattar sull'attenti. La Commissione. Passarono in mezzo alla piccola folla di ammalati senza guardare, senza rispondere ai saluti. Due colonnelli, un maggiore e, ultimo, piccolino, il berretto piantato di traverso sulla nuca, i baffetti spioventi sulla bocca piegata in una sottile smorfia di disgusto, il generale. Quando fu per entrare nella stanza e i due colonnelli e il maggiore lo aspettavano ossequiosi davanti alla porta gi aperta si ferm di fronte a un ufficiale, gli pos una mano sulla spalla, gli sorrise. Coraggio, giovanotto, coraggio. Fra i duecento ammalati corse una subitanea ondata di speranza. Tutte le faccie si illuminarono come davanti a un miracolo. Il generale aveva sorriso, era di buon umore. E fiorirono subito e serpeggiarono di bocca in bocca cento episodi di generosit della Commissione. Un maggiore dei bersaglieri, solo per un poco di nevrastenia, aveva avuto sei mesi di servizi sedentari. Un tenente d'artiglieria tre mesi di licenza per qualche dolore reumatico. Un aspirante delle bombarde s'era buscato due mesi di riposo per un raffreddore. L'importante sarebbe poter entrare per il primo: se no il generale si secca, e allora siamo fritti. Entrai per il primo. Vincere al lotto. Al lotto, forse, della vita. Un tenente del genio calcol che per visitare tutti e duecento gli ammalati ci volevano almeno trentaquattro ore: l'ultimo chiamato avrebbe dovuto aspettare cos qualcosa come duemila minuti. Quel numero, buttato l a mezza voce, divent per me una minaccia spaventosa. Avevo dimenticato tutto: non c'era pi in me che quella parola pesante come un macigno. Duemila... che cosa? Non sapevo pi nemmeno a che cosa si riferisse. Giorni? settimane? anni? L'eternit. Intorno alla mia smarrita stanchezza s'era fatto un vuoto vertiginoso. Le voci, i colpi di tosse, i rumori del cortile mi venivano da distanze incalcolabili Pensai che non sarei uscito vivo mai pi da quel corrdoio, lastricato di piastrelle lucide, come il sotterraneo di un cimitero cittadino. Mi pareva che la vita si stesse allontanando a poco a poco da me inesorabilmente. Qualcuno disse un nome, a bassa voce; poi pi forte: il mio nome. Qualcuno rispose in fretta, forte: "Non c'... " Scattai su, mi mossi verso

quell'uscio, rigido, coi denti serrati. Entrai. Vidi degli ufficiali col camice bianco e il piccolo generale che mordicchiava un lungo sigaro. Ma davanti a me c'era una gran finestra spalancata, urlante di crudelissima luce. Tentai di fare un passo, mi portai le mani agli occhi abbacinati da quel chiarore; mi si piegaron le ginocchia; mi lasciai andare. Quando rinvenni ero seduto sopra una sedia e, curvo, su di me, era uno di quegli ufficiali: Va meglio? Mi guardai intorno, mi ricordai, cercai di alzarmi. Che cosa si sente? Ma il camice bianco fu scostato bruscamente, e mi vidi innanzi il generale. Fermo, colle secche gambette divaricate, il lungo sigaro spento penzolante dal cespuglietto dei baffi color pepe, mi guard incuriosito. Mi alzai, abbastanza rinfrancato, abbozzai un attenti. Si pu sapere perch svenuto? Per impressionarmi, forse? No, signor generale. Deve essere stata la stanchezza del viaggio. Non siete arrivati a Udine ieri sera? Non avete riposato tutta la notte in ospedale? Siamo arrivati un'ora fa. E poi dicono che sono io che fa crepare gli ufficiali. I due colonnelli e il maggiore, in un angolo, aspettavano in silenzio. Il generale incominci a passeggiare per la stanza colle mani intrecciate dietro la schiena. Il maggiore si stacc dall'angolo, mi si avvicin, mi ordin a bassa voce: Si spogli, presto! Nossignore scatt il generale, fermandosi di botto in mezzo alla stanza. Poi torn a guardarmi curiosamente, mi si avvicin fino a toccare colla punta del sigaro la mia giubba, e mi domand : Quanti mesi di trincea? Dall'ottobre del quindici. Carso? S, salvo la parentesi trentina di Passo Buole e del Magnaboschi. Ferito? Mai. Che fa da borghese? Studente Di che cosa? Lettere. Bella roba... Fratelli? Una sorella. Pap... mamma...? Pap solamente: la mamma morta l'anno passato, in maggio. Il generale riprese a passeggiare in silenzio. Uno dei colonnelli prese

a leggere la relazione del maggiore del mio ospedaletto sulle mie condizioni di salute. Nomi strani e misteriosi passarono e rimbalzarono, nel silenzio della stanza, come ciottoli sull'acqua. Un gesto brusco del generale; la lettura si interruppe. Troppa roba, per cinquanta chili di tenente. Faccia un frego blu e scriva sotto : grave esaurimento. Tenente e mi guard negli occhi severo, vuole andare a casa? Magari! mi scapp detto; e subito mi pentii dell'audacia. Ma il generale mostr di non aver sentito, mi addit l'uscio bruscamente: Esca. Uscii incerto. Fuori, i compagni mi si buttarono addosso ansiosi, trepidanti, tempestandomi di domande, alitandomi sulla faccia i loro respiri grevi e caldi di febbre. Uno squillo di campanello imperioso; rientrai nella stanza. Il generale stava curvo al tavolino a firmare una carta. Si raddrizz di scatto. Tenente, le ho dato due mesi di convalescenza : uno per riprendersi la carne che ha perduta e l'altro per divertirsi. Se ne vada e se li goda. Ma si ricordi... si ricordi che fra due mesi ci sar bisogno anche di lei, al suo battaglione. E allora, bisogner star bene a tutti i costi, perch ci sono dei momenti, caro tenente, nei quali crepare sta bene, e ammalarsi da vigliacchi. Se ne vada.

XI. RISALENDO LA CORRENTE (ottobre 1917) La prima notizia della battaglia perduta me la port una mattina il pap entrando nella mia stanza da letto, a Bonate, ch'io stavo ancora beatamente dormendo. L per l, leggendo il comunicato di Cadorna, non colsi tutta la proporzione della sconfitta. Lo rilessi con attenzione, cercando di vedere tutta la possibile verit dietro le parole; e improvvisamente pensai al grande arco del nostro fronte, schiantato davanti a Caporetto; ripensai alle mie notti d'ansia a quota 208 ("basta che sfondino qui, su questi trecento metri, perch tutto sia perduto..."). Misurai tutto il pericolo. Ero a casa in una breve licenza concessami dal comandante del deposito di Padova, dove stavo finendo un mese di servizio sedentario concessomi dalla Commissione medica allo spirare dei due mesi di convalescenza. Salutai in fretta la mia dolce fidanzata. Il pap mi accompagn fino alla stazione di Ponte San Pietro, si ferm sul marciapiedi fino a che il treno part. Aveva le lacrime agli occhi; ma non osava dirmi nulla. Capiva che era giusto ch'io partissi; che avrei dovuto partire anche con la febbre, anche appoggiato sulle stampelle. Quando il treno si mosse protese le braccia verso il mio finestrino, e le tenne cos per un pezzo: fino a che scomparve ai miei occhi dietro il manto verde dell'edera che copriva il casello fuor della stazione. A Padova mi presentai subito, con altri colleghi, al colonnello che comandava il deposito. Il buon vecchio piangeva e non cercava nemmeno di contenere le lacrime. Le notizie diventano sempre pi gravi, ragazzi. Speravo d'essere buono anch'io a qualche cosa; ma devo restare colle mie scartoffie, e prepararmi a portarle pi in gi. Addio, ragazzi. Pensate che la patria in pericolo e... Addio, addio... Non pot dire altro, e ci volle baciare tutti quanti. Poi rest dietro il suo tavolo, aggrappandoci con tutte e due le mani, a guardarci uscire dal suo ufficio, mormorando macchinalmente, mentre le lacrime scendevano copiose lungo le sue guancie: Iddio assista la nostra Italia. Appena fuori da quell'ufficio dovemmo entrare in quello dell'aiutante maggiore: un capitano che, senza cordialit, ci comunic la nostra destinazione: Pasian Schiavonesco. L, da quel comando di tappa, avremmo avuto ordini pi precisi. Aggiunse, senza guardarci: Inutile avvisarli che, data la gravit del momento, loro devono presentarsi a quel comando non oltre il mezzogiorno di domattina. Buon viaggio e buona fortuna.

Alla stazione di Padova spedimmo le nostre cassette a Pasian Schiavonesco, e ci caricammo in un lungo treno gi gonfio di ufficiali di ogni arma. Cercavamo di essere allegri; ma il pensiero dell'incerto destino che ci attendeva ci lasciava perplessi. Dov'era il nostro reggimento? L'avremmo trovato a Pasian Schiavonesco? E la terza armata si stava ritirando in ordine? E dove si sarebbe schierato l'esercito? Sul Tagliamento? Sulla Livenza? Sul Piave? O addirittura sull'Adige? Io non riesco a capire come si siano potute abbandonare delle linee cos fortificate. Basta un minuto di panico, nella notte o nella nebbia, si rompono i collegamenti ; e sei bell'e fritto. In prima linea; ma e dietro? Le seconde e le terze linee? costruite in cemento, colle piazzole per le mitragliatrici? e i tre ordini di reticolati? . Un capitano, seduto in mezzo a noi, leggeva un fascicolo della Nouvelle Revue Francaise e taceva, come se non ci udisse neppure. Dopo Mestre incominciarono a comparire i segni della ritirata. Prima qualche soldato isolato che andava errando per i campi, di gelso in gelso, come una lepre inseguita; poi gruppi di soldati pi franchi, pi vicini alla linea ferroviaria; e poi finalmente, una doppia fila di soldati, di qua e di l dalle rotaie, che scendevano, senza fretta,. senza ufficiali, senza fucili. Dove andate? A casa. Dov' la vostra compagnia? Hanno dato il "rompete le righe", signor tenente. Che fare? Rispondere a colpi di rivoltella? Ne sarebbero caduti due, tre, dieci: e poi? Gli altri avrebbero scavalcati i morti e noi, e avrebbero continuato il loro cammino. Il capitano leggeva sempre con grande attenzione. Il cielo era basso e pieno di nuvole. Il treno andava lentamente, risalendo per quella corrente di soldati laceri e disarmati. Ogni tanto a qualche casello ferroviario c'era un ufficiale e qualche carabiniere che cercavano di arginare quel torrente lento e ininterrotto, coi moschetti puntati. Dietro front! Non si pu, signor capitano. Fermati. Dov' il tuo reggimento? Non c' pi: hanno dato ordine di ritirarsi. L'ufficiale incanalava fuor della ferrovia i soldati, un carabiniere li ammassava dietro il casello, in plotoni. Ma quelli che sopravvenivano giravano al largo, seguiti da tutta la fila. E la grossa biscia umana descriveva allora un grande arco di cerchio intorno al casello dei

carabinieri e rientrava sul sentiero della ferrovia trecento metri pi in gi. Ogni tanto un colpo di fucile, nella campagna : un grido : pi nulla. La nostra perplessit andava tramutandosi a poco a poco in una pesante tristezza che ci schiacciava il respiro in gola. Rientrai bruscamente nello scompartimento, mi lasciai cadere al mio posto, davanti al capitano. Leggeva sempre. Non potei trattenermi; proruppi, quasi iroso : Ma come fa lei, capitano, a restare cos tranquillo in un momento come questo? Lev il viso dal libro, mi guard seriamente. E lei, perch cos turbato? Siamo in guerra, no? E tra le eventualit della guerra non c' anche quella di perdere una battaglia? Questa, l'abbiamo perduta. Ne guadagneremo un'altra. Qui mi pare che si stia perdendo la guerra. Lei dice una sciocchezza, tenente. Non c' esercito nella storia che non abbia provata una sconfitta. Lasciarsi prendere dalla suggestione del panico o della sfiducia, che poi la stessa cosa, pi pericoloso ancora di questa fuga. E lei crede che questi soldati si potranno ancora riprendere? E che con questi soldati si potr fermare l'avanzata del nemico? Con questi o con altri. I soldati sono tutti uguali. Agli effetti del numero sono eccezioni trascurabili gli entusiasti: gli eroi. Tutti gli altri combattono perch non possono farne a meno, e costerebbe troppo caro cercar di svignarsela. Poi, una volta che ci sono, tolta un po' di paura e qualche cruccio personale, si accorgono che la guerra non cos brutta come la si vuol dipingere, e ha i suoi momenti di allegria. Ma questi vanno alle loro case! Qualcuno ci arriver. Ma e dopo? I carabinieri li rimanderanno s. L'importante, adesso, di creare una linea precisa di difesa, e raccogliervi i reparti intatti. Ma i comandi e i generali ci sono pure per qualche cosa. Bisogna essere tranquilli, credetemi. La serenit, in momenti come questi, gravi senza dubbio, non solamente un dovere, ma una necessit. Le parole del capitano, che sulle prime parevano offendere la nostra angoscia, finirono per riuscirci di conforto. Dietro quella calma quasi fredda, quella serenit quasi indifferente, non era difficile sentire lo sforzo virile di un'anima che soffriva e reagiva, in nome del dovere, alla sofferenza. Ma noi, intanto, non si potrebbe tentare di fare qualche cosa? propose un aspirante. Saremo un centinaio di ufficiali, sul treno. Ho visto due o tre colonnelli, dei maggiori. Se scendessimo e cercassimo di arginare questi soldati?

L'avevo pensato anch'io fece il capitano. Ma mi sono persuaso che sarebbe poco utile. Riusciremmo a fermarne un migliaio. Siamo in aperta campagna: ci sguscerebbero dalle mani come granelli di farina. Pi in su, forse, troveremo dei comandi, dei reparti ancora in ordine: pu darsi che manchino degli ufficiali. Senza contare che abbiamo avuto l'ordine di recarci tutti a Pasian Schiavonesco ; e l ci devono aspettare. La doppia fila dei soldati ai due lati del treno s'andava intanto infittendo sempre pi, frammischiata ora di donne e vecchi e bambini carichi di fagotti e di grosse valigie. Nel fossetto, contro la bassa siepe, si vedevano ogni tanto corpi disfatti dalla stanchezza rovesciati sull'erba. Qualcuno cadeva anche sul sentierino accanto al binario : e quelli che lo seguivano lo scavalcavano in silenzio e proseguivano nel loro andare. Ero tornato al finestrino: e non riuscivo a staccarmene. Era una faccia nuova della guerra, come non me l'ero sognata mar, neanche nei momenti di pi intensa malinconia. E dovevo chiudere talvolta gli occhi e poi riaprirli d colpo per convincermi che non stavo sognando un terribile sogno. Poi ripensavo alle parole del capitano, mi voltavo a guardarlo, tranquillo, gli occhi sulle pagine del fascicolo, e allora accendevo una sigaretta e miravo con studiata seriet lo sfilare di quella folla. Cento quadretti diversi: cento episodi fuggenti. Una vecchia signora coperta da una pelliccia nera sdraiata nel fosso : accanto una giovanetta in ginocchio, scarmigliata, colle braccia protese verso i soldati che vanno, e non guardano, e qualche cosa luccica sopra il palmo della piccola mano aperta. Un fante si porta al collo un maialetto che strilla come un bambino. Un caporale cammina con un ombrellino rosa aperto e un boa di penne di struzzo bianco intorno alla vita. Dietro la siepe alcuni soldati stanno intorno a un fuoco improvvisato e tengono sulle fiamme infilzati sopra le baionette dei brandelli sanguinolenti di carne. Una vecchia contadina cammina tenendosi due bambini stretti contro il seno e una fanciulletta che zoppica coi piedini insanguinati aggrappata alla sua sottana. Seduto nel fosso, colla lucerna grigioverde schiacciata sulla faccia, un carabiniere. Non si capisce se dorme o sia morto. Una donna corre attraverso i campi, agitando le braccia verso il treno e grida come una pazza, come se fosse inseguita; poi cade di schianto, e sta immobile, colle braccia spalancate, come una crocifissa, sulla terra bruna. Un soldato che passa, canta, con voce stridula di ubbriaco : Se vuoi veder Trieste te la mando in cartolina... Mi vede, fa un gesto osceno, grida una parola che non afferro. No, no, capitano: sar sereno anch'io, sar tranquillo. Chiuder gli

occhi per non vedere, per non soffrire: forse, per non uccidere e per non morire. Eppure io l'ho guardato negli occhi, quel soldato che cantava, colla giubba sbottonata : e potrei giurare che non un vigliacco. Una follia momentanea lo ha preso, come ha preso questi suoi compagni che vanno, non sanno dove, non sanno perch ; e se gridano "la guerra finita!" sono i primi a non crederci, nel profondo del loro cuore. E basterebbe prenderli per il petto, ad uno ad uno, occhi negli occhi, e gridare : "Pensa ai tuoi compagni che hai lasciato lass, e non far la carogna" per vederli impallidire e poi fare dietrofront. Ma dov'era in quel momento la mia compagnia, la mia bella "terza", con Pieretto e Barba d'oro? coi miei sergenti e i miei caporali? Il reggimento faceva parte della terza armata: logico che si stesse ritirando in ordine, combattendo metro per metro, squadra per squadra. Perch Iddio non mi aveva concesso di essere in quel momento con i miei soldati, i miei vecchi fanti veneti del quindici? Li avrei sentiti intorno a me, come figlioli e fratelli, tutti quanti: e in mezzo a loro non avrei temuto d'una ritirata. Fino al Piave? Sta bene. Ci fermeremo al Piave. Fino all'Adige? Sta bene. Ci fermeremo all'Adige. Ma dovunque ci avessero detto di fermarci, non ci saremmo poi mossi di un palmo, a costo della vita. Arrivammo a Pordenone. La stazione era cos gonfia, che il nostro treno usc e si ferm trecento metri di l dalla stazione. Scendemmo in folla: in tempo per vedere una locomotiva partire di gran carriera, sbuffando, tutta un grappolo di soldati urlanti. Nella stazione, nessuno che sapesse nulla. Un sergente del genio ferrovieri ci assicur che Pasian Schiavonesco era caduto quella mattina stessa nelle mani degli austriaci. La notizia ci venne confermata da un maggiore di artiglieria. E allora che fare? Intorno a noi, una baraonda di soldati e di borghesi. In tre o quattro ci teniamo stretti intorno al capitano. Arriva un colonnello che viaggiava sul nostro stesso treno. Cerchiamo di stare vicini almeno noi. Qualche cosa si far. Ci diamo a raggranellare ufficiali; ci contiamo: siamo in diciotto. Il capitano compila una specie di ruolino, ne fa una copia per il colonnello, Benissimo un principio d'ordine. Venite con me. Lo seguiamo nella borgata, aprendoci un passaggio a fatica fra la ressa tumultuosa che ne gonfia le strade e s'ingorga sotto i portici, schiumeggiando davanti alle botteghe ancora aperte. Cerchiamo qualche comando che funzioni. Non troviamo che una moltitudine di soldati, torrente uscito dall'alveo che dilaga dapertutto e tutto travolge. Il colonnello, massiccio e aitante, ci precede, col frustino in pugno, fendendo con sicura violenza la folla. A un certo punto qualcuno brontola nella ressa, dietro di noi. Il colonnello si ferma di scatto, si volge: "Che c'?" Un breve, improvviso silenzio cala intorno a noi, dentro il clamore confuso che ci circonda da ogni parte. Nessuno dei fanti che ci premono ai

fianchi osa fiatare; ma una voce non molto lontana grida stentorea. "Oh, basta con la prepotenza!". Il colonnello leva in alto lo scudiscio, si avventa verso la voce, e noi dietro, serrati, compatti, la destra sul calcio della pistola. Trova un mitragliere colla giubba a brandelli e la bocca piena di salsiccia. "Sei stato tu?!" Il mitragliere sgrana gli occhi, diventa paonazzo, qualcuno scoppia a ridere; il frustino del colonnello sibila nell'aria, schiocca secco sulla guancia del mitragliere che sputa fuori la salsiccia e urla : Cristo, non sono stato io! Nessuna intorno osa un gesto. Finalmente, davanti alla stazione, sopra una automobile, troviamo un generale. Sta parlando con un capitano dei carabinieri, agita un braccio con furia, scatta su in piedi, agita tutte e due le braccia. Il colonnello accorre, si presenta. Che cosa vuole, lei? Dove ha il suo reggimento? Noi veniamo da Padova, signor generale. Siamo in diciotto, e siamo tutti a sua disposizione. Il generale ha un gesto di sconforto, ricade a sedere nella macchina, si passa una mano sulla fronte. Non ne posso pi. Si riprende, ha un breve sorriso. E' terribile, colonnello... Ma non importa. L'importante, adesso, rimediare, in qualche modo, a questo disordine, a questo tumulto. Mi basterebbero quattro autoblindate, vivaddio... Vengono tutti da Padova loro? Tutti, generale. Eravamo diretti a Pasian Schiavonesco... Allora vadano a Conegliano. Qui inutile: non c' niente da fare. A Conegliano qualcosa funziona ancora; e diciotto ufficiali possono servire. Credo che ci fermeremo sul Piave. Si presentino al comando tappa di Conegliano. E tengano presente tutti che, in momenti come questi, la debolezza e la piet son peggio che la diserzione. Sparare, sparare senza pensarci due volte. Hanno capito? Vadano, vadano presto. Addio, colonnello. Ci buttammo dentro la stazione, prendemmo d'assalto un treno, ci cacciammo dentro gli scompartimenti, facendoci largo a fatica fra la ressa dei soldati e dei borghesi; e poco dopo scendevamo tutti e diciotto alla stazione di Conegliano. Anche qui un tumulto confuso, un dilagar di soldati d'ogni arma, affamati e sperduti. Ma si sentiva nell'aria qualche cosa di diverso. Qualche soldato salutava, qualcuno domandava dov'era il comando di tappa, qualche altro chiedeva dove fossero le cucine. Si capiva, insomma, che in qualche angolo della cittadina doveva esserci qualcheduno colla testa sulle spalle che dava degli ordini; e si capiva che la maggior parte di

questi soldati non fuggivano pi. Si ritiravano, senza ufficiali, e senza armi; ma, istintivamente, cercavano altri ufficiali e altre armi. Era gi una piccola luce, in mezzo a tanta tenebra. E ne fummo consolati come del principio d'una vittoria. Sul viale della stazione c'era ancora aperto un albergo. Le sue sale erano gonfie di truppa e di ufficiali. Prendemmo posto intorno a un bigliardo: riuscimmo ad avere delle uova, delle mele, qualche fiasco di vino. Un paradiso, dopo tanti giorni di pagnotta e di caff! Domandai a un cameriere, vecchio e con una pezzuola nera sopra un occhio, se poteva procurarmi delle sigarette. Fece una smorfia. " A qualunque prezzo" gli aggiunsi. Disparve : ritorn dopo qualche minuto con cinque bustine. Gliele strappai dalle mani. "Vogliono cinquanta lire", mi sussurr fingendo uno sdegnato sgomento. Gli cacciai tra le mani due biglietti da dieci lire. "E il resto d che vengano a prenderselo da me!". Mi guard con l'unico occhio sfavillante di collera, e poi se ne and borbottando delle ingiurie. Rifocillati, ci recammo tutti e diciotto alla caserma del comando. Il gran cortile rigurgitava di soldati, che alcuni sottufficiali e molti carabinieri distribuivano in grossi plotoni. Meravigliati di non vedere nemmeno un ufficiale, domandammo a un brigadiere dov'era la sede del comando : ci indic una sala, e ci disse che il signor generale stava tenendo gran rapporto agli ufficiali. Salimmo. Era una sala vasta e buia, piena di ufficiali di tutte le armi. In fondo, in alto, sulla piccola folla delle teste, sotto un grande ritratto del Re, si vedeva una faccia paonazza incorniciata dai capelli bianchi : il generale. Stava parlando, vide entrare il nostro gruppo, si ferm. Il nostro colonnello fend rapido la calca, si present al generale. Si conoscevano, si strinsero la mano a lungo. Poi il generale riprese a parlare. Parlava a scatti : la sua voce faceva pensare a una mitragliatrice che sparasse gruppi di parole secche, precise, fulminee. Faceva appello al nostro senso di dignit e d'onore di uomini, prima ancora che al nostro patriottismo. Non fuggono che i vili. Se si pu, fino a un certo punto, capire un soldato che fugge, non si pu capire un ufficiale che fugga. Una cosa mostruosa. Se ne avesse scorto uno lui, non lo avrebbe n denunziato n fatto fucilare dai carabinieri: lo avrebbe ammazzato lui stesso, con la sua pistola" Adesso bisognava metterci subito per le strade di Conegliano a ripulire il paese, e a smistare i soldati per i vari campi di concentramento che si andavano creando di l dal Piave. Il momento era gravissimo. Non che la battaglia si potesse vincere l a Conegliano ; ma a Conegli ano si poteva incominciare a fare qualche cosa di utile e di positivo per la salvezza dell'esercito e la ricostituzione d'una linea di difesa. Era sicuro di poter contare su di noi. Quanto a lui... Si ferm un secondo, frenando un impeto di singhiozzi che gli aveva

fatto tremar la voce in gola. Si riprese e grid rauco : Se sapessi che morendo, qui, su questo tavolo, davanti a loro, potrei essere in qualche modo utile al mio Re e alla mia patria, mi farei saltare subito le cervella ! Sentimmo che era sincero e che l'avrebbe fatto: e gridammo "viva l'Italia" cos forte da far tremare i vetri della stanza. Trovatici tutti nel cortile, il colonnello ci divise in tante pattuglie di dieci ufficiali ciascuna; e ci buttammo per le strade di Conegliano a svuotare i negozi, le case e i cortili gonfi di soldati. Fu necessario, qua e l, sparare qualche colpo di rivoltella; ma al sorgere dell'alba, Conegliano era abbastanza ordinata, e le colonne dei soldati avviate regolarmente verso i campi di concentramento di l dal Piave. Rallestravamo a poco a poco tutti gli sbandati conducendoli, come un gregge, dentro la caserma, dove una torma di cucinieri distribuiva del brodo caldo, del caff e delle pagnotte. Poi i soldati venivano ammassati in tante centurie, al comando d'un subalterno : ogni cinque centurie, un tenente anziano o un capitano: e i cinquecento uomini, quasi per quattro, partivano verso il ponte della Priula. S'era organizzato anche un servizio di ufficiali addetti allo "smistamento", per tutte le strade del borgo che conducevano al Piave. Si trattava di dividere per arma i soldati che affluivano a Conegliano: fermare tutti i fanti, e avviare al ponte genio, artiglieria e cavalleria. A me venne affidata la strada principale : e mi divisi le ventiquattr'ore della giornata con altri tre subalterni, riserbando per me il turno dalla mezzanotte alle sei. Di fronte al fanale dov'ero di fazione, si apriva la larga aia di una casa, tutta cinta di basse stalle : era l che facevo entrare tutti i fanti, che, a mattino inoltrato, altri ufficiali dividevano poi in centurie e portavano verso il ponte. Ma i soldati che arrivavano ancora a frotte intermittenti a Conegliano non erano gi pi i soldati che avevamo incontrati dal treno il primo giorno. Stanchi e affamati, laceri e colle divise a brandelli, non domandavano altro che una pagnotta e una bracciata di paglia per dormire. La mattina dopo si sarebbe potuto armarli e portarli in s, contro il nemico che calava verso di noi, sicuri che avrebbero combattuto come prima, come sempre. Non manc, s'intende, qualche episodio di ribellione; ma era la disperazione della stanchezza e della fame a buttarci contro quei poveri smarriti che bastava una pagnotta o una parola buona per far sorridere. Una notte ero sotto i portici, nell'ombra d'una colonna e guardavo la pioggia fitta e gelida che scendeva senza interruzione dalla mattina. Ogni tanto arrivavano dei soldati a gruppi o isolati, mi facevo innanzi, nella luce lacrimosa d'un fanale, quelli si fermavano, poi proseguivano o entravano in silenzio nell'aia. All'improvviso, vedo un'ombra venire

innanzi sotto i portici, barcollante, con un gemito a ogni passo. Quando a dieci metri da me si ferma, si lascia andare a terra, contro una porta. Accorro. E' una donna giovane, con due grosse valigie, i capelli sciolti sotto una sciarpa rossa, un soprabito a brandelli, le dita d'un piede che occhieggiano livide fuori dalla punta scucita d'una scarpetta. Mi curvo su di lei: tiene gli occhi chiusi, si rianima, sospira a lungo, due macchioline rosse affiorano sul pallore delle guancie, apre gli occhi, mormora : "Non fatemi del male..." La rassicuro, le parlo con dolcezza. Si riprende a poco a poco, e mi racconta che scende a piedi da un paese sopra Belluno; che ha camminato come in sogno, che non ricorda pi niente, che non sa pi niente. una professoressa di francese; era in campagna, in casa di amici. scoppiata la tragedia. Non ha avuto il coraggio di aspettarli lass. Sola, si messa in cammino; vuole arrivare fino a Padova, dove la sua mamma l'aspetta e chiss com' in ansia; ma ha paura di morire per la strada. Mi supplica di trovarle un'automobile, una carrozza, un angolino in un treno di soldati. disposta a pagare; ha duemila lire nascoste sotto la camicetta. Si fruga con furia, cogli occhi improvvisamente sfavillanti d'ansia. Riesco a calmarla, le accomodo dietro alle spalle il mio cappotto, le prometto che appena far giorno cercher di trovarle un mezzo di trasporto. Mi risponde con un sorriso piccolo piccolo, come quello d'una bambina, si addormenta di colpo, pesantemente, rovesciando indietro la testa. Viene l'alba sul cielo rannuvolato e piovigginoso. Lo stillicidio dei soldati continua, lento e pesante. Nell'aia si accendono i grossi fuochi rossi delle cucine improvvisate per preparare il caff ai soldati. Improvvisamente, vedo venire innanzi una carretta da battaglione: un carabiniere tiene per la cavezza un piccolo mulo magro, tutto una chiazza di cicatrici bianche: due altri carabinieri sono seduti, rigidi, col sottogola abbassato, sopra un asse: forme confuse occupano il fondo della carretta. Li fermo. Uno dei due carabinieri scende a terra, mi spiega che scorta due donne e un vecchio dalle carceri di Codroipo a quelle di Treviso. Le due prigioniere, madre e figlia, sono accusate di avere ucciso un caporale del genio che ospitavano nella loro casetta, il vecchio d'aver rubato da una cassetta di elemosine in una chiesa. Le due donne dormono profondamente, la figlia tra le braccia della madre; il vecchio mi guarda e mi strizza l'occhio furbescamente mostrandomi le sue mani legate da una catenella. Mando uno dei carabinieri a riempirsi la gavetta di caff nell'aia. Quando torna, anche le due donne si svegliano e bevono avidamente qualche sorsata del liquido caldo ; poi la vecchia mi fa "Dio la benedica, signor tenente". La ragazza non parla, mi guarda con due occhi fissi, quasi sgomenti, poi nasconde la faccia in seno alla madre. Insisto perch il brigadiere si prenda sulla carretta anche la professoressa di francese. "Se qualche superiore vi domanda qualche cosa, le direte che ve l'ha consegnata un tenente a Conegliano". Il brigadiere esitante. Corro a

risvegliare la giovane che si trae con un gemito dal sonno profondo, si guarda intorno, si frega gli occhi con una mano, scatta su come impaurita, poi mi vede, mi sorride "grazie, signor tenente". Il brigadiere ci raggiunge; ha nella gavetta ancora un po' di caff caldo, e la professoressa lo beve avidamente. Poi, all'improvviso, vede in mezzo alla strada la carretta, spalanca gli occhi, come se non credesse a quel miracolo, mi guarda, si illumina tutta d'un sorriso beato e, rapidissima, mi prende una mano, se la porta alle labbra. "Lei un santo, tenente!" "Ma dovr viaggiare insieme con quei tre prigionieri, badi..." "Che importa!" Ha ripreso di colpo l'energia: in piedi, si prende le due valigie, fa per avviarsi. Il brigadiere ha ancora delle esitazioni, mi parla di "possibili conseguenze" per lui. La professoressa lo sta ad ascoltare con una ruga fonda tra i sopracigli; poi di colpo lascia cadere le due valigie e protende le mani scarne, dicendo con seriet : "Mi metta le manette, anche a me. Dir che sono quattro i prigionieri invece di tre; e poi penser io a cavarmi d'impaccio". Il brigadiere sorride e, con un gesto cortese, scosta le due mani della professoressa, che lascia cadere avvilita le braccia. Finisco per convincere il graduato che, sospirando, aiuta la "prigioniera" volontaria a salire sulla carretta, mi saluta, e riprende a fianco del mulo, il cammino. Per un pezzo la professoressa, accosciata fra il ladro di elemosine e le due assassine, mi saluta colla mano bianca; poi scompare. Ogni tanto arrivavano e circolavano voci incontrollabili che ci mettevano un'ansia angosciosa nel cuore. Cadorna stato destituito e sar deferito a un tribunale di guerra. Il Duca d'Aosta ha preso il comando di tutto l'esercito. A Milano scoppiata la rivoluzione. A Padova hanno fucilato un generale e due colonnelli. Questa notte passato un treno pieno di ufficiali tutti ammanettati. L'hai visti tu? No, me lo hanno detto. Chi ? Un caporale che passava. E non ti vergogni a ripetere queste stupide bugie? Non senti che sono delle bestemmie? come se dicessi che la tua donna s' presa un altr'uomo intanto che tu eri in trincea? Non lo capisci? Lo capivano subito, e chinavano confusi la faccia. Ma ci doveva essere qualcheduno che spargeva ad arte queste notizie tra i soldati : e forse erano degli austriaci vestiti colle nostre divise che s'erano cacciati in mezzo a noi, nella confusione. Poterne cogliere uno, uno solo. Con quale volutt l'avremmo impiccato a un fanale della strada, davanti a quei poveri fanti nostri creduli e smarriti. Una mattina si seppe che bisognava filare in fretta perch avrebbero fatto saltare i ponti sul Piave. L'aia fu svuotata in furia, e un gruppo di ufficiali si trasse dietro l' ultima colonna di fanti. Il colonnello, un

maggiore ed io trovammo una automobile e poche ore dopo eravamo a Padova. Qui mi congedai dal colonnello, e proseguii in treno per Rovigo, dove si concentravano le fanterie. Un maggiore che funzionava da aiutante maggiore mi assegn a una colonna di marcia : mille uomini e diciotto ufficiali. Quella sera stessa ci mettemmo in cammino, due di qua e due di l, ai lati d'uno stradale, e andammo cos, senz'armi, fino a Spilamberto, nel modenese.

XII. DA ALONTE AL GRAPPA (gennaio-ottobre 1918) Il 46 Reggimento di marcia aveva i suoi grossi battaglioni accantonati intorno a Spilamberto. Dopo qualche giorno passato a Sant'Eusebio dove ebbi l'indicibile conforto d'una improvvisa visita della mia fidanzata capitata fino laggi con la mamma per poter vedermi e restare con me un pomeriggio fui destinato al VI battaglione, di stanza a Spilamberto. Lo comandava un maggiore dei bersaglieri, contegnoso ed aristocratico che, facendosi vedere il meno possibile da noi e dai soldati, riusciva a circondarsi d'una certa aureola di autorit e di infallibilit. Peccato che non avesse troppa trincea dietro di s e fosse pi un teorico che un realizzatore. Comunque, in quei due mesi di ferrea disciplina e di istruzioni intensive, si riusci a mettere insieme un battaglione abbastanza presentabile: tanto presentabile, anzi, che venne prescelto per costituire in Alonte presso Lonigo, la Scuola Istruzione della IV Armata. Un giorno arriv infatti l'ordine di partenza. Le tre compagnie di fanti e la mitragliera si ammassarono sulla piazza; sopraggiunse il maggiore a cavallo, caracoll un po' di qua un po' di l, alz, con un tantino di teatralit, il frustino; e cominci la lunga marcia, Il capitano della mia compagnia, un simpatico sardo paffuto e gioviale ma d'una fermezza esemplare nell'esercizio del suo comando, proprio la vigilia della partenza aveva dovuto entrare all'ospedale per una dolorosa infezione; e il maggiore mi aveva affidato, senza troppo entusiasmo, la compagnia. Non c'era una grande armonia fra il maggiore e me. Capivo che era molto intelligente : intuivo ed ammiravo il suo quadrato, quasi romano senso di equilibrio; la sua fiducia in s stesso; ma poi mi pareva che su tutte quelle virt ci fosse stesa una specie di ombra che mi lasciava perplesso. Una cosa, per esempio, che non gli riusciva di approvare era la rapida "carriera" degli ufficiali di complemento. "Lei mi diceva ha ventitr anni e tra poche settimane dovrebbe essere capitano. Venticinque mesi di spalline : e nient'altro. Per arrivare a questo grado io ho atteso quattordici anni; e quando diventai capitano a trentasette, ero tra i pi giovani del mio corso. Le par logico?" Rispondevo che, se non logico, mi pareva, dato il momento, necessario. E la risposta lo irritava. Quando poi seppe che ero laurendo in lettere e che scrivevo, per un quotidiano di Pavia, degli articoli sulla guerra, si allarm. Aveva una curiosa, quasi trepida preoccupazione dei posteri. Mi trasse in disparte, una mattina, e mi domand di interrompere quelle mie corrispondenze. "Pu essere pericoloso. Non si deve anticipare la storia. Domani, a guerra finita, quando si scriver di Caporetto, questo nostro battaglione sar

certamente ricordato, come un modello di ricostruzione. Non ne persuaso lei?" "Persuasissimo " "E allora... lasciamo fare ai critici. Noi accontentiamoci di agire. Scrivo degli articoli anch'io : ma solamente di carattere tecnico. Mi guardo bene dall'esprimere giudizi e dal far nomi. Faccia come me". Promisi; e mantenni la promessa. Ma allora egli si ficc in testa ch'io tenessi un diario aggiornatissimo della vita del battaglione, con chiss quali giudizi ed allusioni sul suo conto; e non riusc mai a persuadersi che il solo mio diario di guerra erano le lettere e le cartoline in franchigia che scrivevo, tutte le sere, a mio padre e alla mia fidanzata. Una particolare predilezione mostrava invece per Mario Carli, tenente come me e della mia stessa compagnia ; e forse gli rincresceva di dover constatare come fra Carli e me si fosse rapidamente creata un'amicizia spontanea e fraterna. La lunga marcia da Spilamberto ad Alonte si comp senza alcun incidente. Le compagnie erano inquadrate saldamente ; ottimi i graduati ; sceltissimi i sottufficiali. Quanto a noi ufficiali, eravamo legati da una schietta fraternit. Ciascuno di noi, forse, pensava con acuta nostalgia al proprio battaglione lontano, quello autentico, quello della trincea, quello del Quindici e del Sedici. Ma, dopo la tempesta che ci aveva buttati fino nelle campagne del Modenese, con dei branchi di soldati provenienti da tutti i reggimenti e da tutte le direzioni, eravamo riusciti, con la forza della nostra fede e la appassionata energia della nostra giovinezza, a creare un battaglione che, per la sua nuova destinazione, mostrava d'essere ritenuto un modello. Ecco perch gli si voleva bene come a una famiglia. Gli avevamo dato, in fondo, il meglio di noi stessi: avevamo saputo infondere in quei mille soldati stanchi e dubitosi la certezza ch'era rimasta intatta dentro di noi. Poco prima di arrivare alla nuova meta, il capitano della mia compagnia rientr dall'ospedale, e riprese il comando. Quando comparve alla mensa, quella sera s'era a Gonzaga, tappa di un giorno e mezzo il maggiore gli tese la mano con un sorriso cordialissimo ed esclam: Ben tornato, Cusmano. Si sentiva la sua mancanza. Il capitano si scherm scherzoso. Lei esagera, signor maggiore. Ve la sarete spassata allegramente anche senza di me. Intendevo alludere alla sua compagnia, capitano. La frecciata mi colp in pieno. Arrossii violentemente; poi, non sentendomi di meritare un rimprovero siffatto, piantai risoluto gli occhi in faccia al maggiore; ma non ebbi il tempo di aprir bocca, perch il capitano, che stava vicino a me, mi pass un braccio intorno alle spalle e, sempre scherzosamente, disse ad alta voce : La mia mancanza l'avrai sentita tu, che hai dovuto lavorare il doppio. Ma mi hai fatto trovare in compenso la pi bella compagnia degli

eserciti alleati. Tanto vero che, se il signor maggiore permette, offro sei bottiglie di Lambrusco. Mi dava del tu per la prima volta; e ne godetti come d'un premio. Il maggiore si tenne la botta; ma la sera stessa mi chiam al comando e, con un grosso sospiro, mi dichiar che, in coscienza, non poteva dar parere favorevole alla mia promozione a capitano. Perch? gli domandai. Perch non maturo. E del resto non si pu pretendere che uno studente di Lettere di ventitr anni possegga tutti i requisiti necessari per il comando della compagnia. Le faccio osservare che ho comandato la compagnia per un anno in trincea. In trincea basta poco : qualche volta saper morire. Il mio attendente potrebbe allora comandare un reggimento: stato ferito sette volte. Ma occorre altro, caro tenente. Mi rincresce, le ripeto; ma... A me niente affatto. Sono un ufficiale di complemento. L'importante far la guerra. Ci sto benissimo anche da tenente. La carriera non mi interessa. Allora aggiunger gli arresti, per irrispettosa risposta. Va bene? Benissimo. Ha altri ordini? Per adesso no, e se ne pu andare. Ma ad Alonte un paesino di poche case, come sperdute ai piedi di una serie di dolci collinette non ci resse che qualche giorno. Una mattina port il battaglione in un prato. Poco dopo arriv una motocarrozzetta velocissima, dalla quale discese un piccolo, tozzo alpino, con una penna bianca sul cappello e un sorriso argutissinio sul viso secco e angoloso: il tenente colonnelo Neri, che il Comando della IV Armata aveva destinato a reggere la "Scuola" di Alonte. Il bersagliere part la sera stessa. Stringendomi la mano, all'atto di andarsene, mi disse: Mi duole d'aver dovuto essere severo con lei; e mi auguro d'aver sbagliato. Anch'io, gli risposi. Cominci, con il colonnello Neri, la Scuola. Ogni mese, le Accademie e le Scuole allievi ufficiali di Modena e di Parma scodellavano ad Alonte alcune centinaia di aspiranti tutti quelli assegnati alla IV Armata che noi dovevamo "erudire" praticamente, avviare alla conoscenza e alla esperienza della trincea. Raccolti in centocinquanta per ogni compagnia, quegli ufficiali-ragazzi imparavano dalla nostra passione e dalla nostra esperienza quello che difficilmente si poteva insegnare a Parma o a Modena: imparavano a combattere. Per le colline e nelle campagne intorno ad Alonte, ognuno di noi quattro si portava la sua compagnia eccezionale; e un giorno si improvvisava una difesa con fossati e reticolati intorno a un cocuzzolo; un altro giorno si attaccava un bosco sotto il fuoco

delle mitragliatrici che sventagliavano le loro raffiche sibilanti sopra le teste degli assalitori; un altro ancora si assaliva un cascinale con lancio di petardi fumogeni e con i lanciafiamme. E quei ragazzi si abituavano cos alla grande orchestra della trincea, si famigliarizzavano con le armi e le bombe pi diverse; e imparavano dalla nostra "sapienza" di vecchi fanti del Carso quello che nessun libro e nessuna teoria avrebbero mai potuto insegnare. Era una piccola anticipazione della guerra: tanto vero che quasi ogni giorno c'era qualche aspirante che riportava delle ferite o delle contusioni o si strappava la pelle delle mani contro i fili di ferro dei reticolati. Erano tutti del Novantanove. Guardavano a noi che avevamo ventitr anni come a dei padri; e noi ci sentivamo di fronte a loro addirittura degli antenati. Tutto il periodo dell'avvicendamento lo trascorsi ad Alonte; dove la nostra "Scuola" era diventata la meta di visitatori anche illustri, e spessissimo, di ufficiali alleati che assistevano alle nostre "tattiche" e prendevano appunti. Frequentatore assiduo ed ospite graditissimo di Alonte era anche il Sottocapo di Stato Maggiore dell'Armata, colonnello Gariboldi, alla cui appassionata e intelligente vigilanza era affidata la Scuola. Tra noi ufficiali s'era poi stretta una fraternit che ricordava quella dei nostri vecchi battaglioni del Quindici e del Sedici. Mario Carli, Mario Gastaldi, volontario l'uno, mitragliere l'altro, i capitani Cusmano e Led d'Ittiri, il tenente Cimino ed io, fratelli pi che amici, si ravvivava la mensa con le nostre accese discussioni e le nostre allegre trovate, che le poesie futuriste di Mario Carli condivano fantasiosamente tra le clamorose proteste dei "ben pensanti" e le ardenti difese di due o tre "rivoluzionari". Ai primi di giugno Carli part volontario per un Reparto d'assalto; pochi giorni dopo era ferito e correvo a trovarlo all'ospedale di Montagnana. Pomeriggio caldissimo, ardente di sole, negli stanzoni silenziosi e luccicanti. Per restare un poco soli, ci ritirammo sopra un balcone, all'ombra dorata d'una gran tenda rossa. Lo aiutai a dispiegare un fascicolo di cartelle manoscritte (aveva un braccio fasciato e appeso al collo) : e, a voce bassa, mentre nella strada sottostante passava ogni tanto qualche autocarro che levava nembi di polvere bianca, mi lesse due capitoli del romanzo che stava scrivendo. Verso sera uscimmo per cenare in una piccola trattoria, in fondo alla piazza; e l ci raggiunse Enrico Somar, soldato motociclista, testa rapata come un forzato, che, sopra alcune cartoline in franchigia, "improvvis", mentre un vecchio cameriere zoppo e monocolo si affannava intorno a noi, delle brevi liriche piene d'angeli e di cirri d'argento, grondanti di un innocente bodlerismo. Per rompere

l'incantesimo semiroinantico che ci aveva presi, Carli ci fulmin con la "Presa di Adrianopoli". Poi Somar balz in sella alla sua polverosa e puzzolente motocicletta, io mi infilai nella motocarrozzetta del mio colonnello e Carli stette a salutarci in mezzo alla piazza, con la macchia bianca del braccio fasciato sul petto, e l'altro braccio alzato verso il cielo che, tutto sereno compera e con le prime stelle che v'erano sbocciate, pareva proprio una sfida al futurismo antiromantico. Alla fine di giugno, conchiuso il periodo del mio avvicendamento, ini arriv la nuova destinazione: il comando della 52 B. Compagnia presidiaria, a Col Moschin. Per un fante del Carso, era un terno al lotto. Duecento quaranta territoriali disseminati, squadra per squadra, su due chilometri di fronte, nelle seconde linee, a lavorare per questo o quel reparto; una bella e solida caverna, dietro le trincee; una complicata contabilit cui avrebbe accudito un ottimo sergente maggiore; quattro subalterni in giro a ispezionare le squadre; e il comandante, Cornali signor Gino, seduto al suo tavolino, a leggere dei bei libri e a preparare i suoi esami. La sera, interminabili partite con i colleghi delle batterie vicine, della Sanit o del Genio. Ma era mai possibile che a un fante del Carso dovesse toccare tanto paradiso? Eppure l'ordine era esplicito; non avrei dovuto dubitare. Invece salii a Col Moschin con l'impressione di salire verso il regno delle favole; impressione che divent precisa sensazione di certezza quando fui nella caverna del "mio" comando. Una Reggia! Il collega che avrei dovuto sostituire aveva persino incastrato degli scaffali nelle cavit della roccia e s'era adattato un minuscolo gabinetto da bagno. Mi accolse per come un importuno e poi, quando fu il momento della consegna, mi disse press'ai poco cos: "Caro mio, io non mollo la mia compagnia; Mi toccherebbe l'avvicendamento, e scendere a Vicenza, dove si sta certo meglio di quass. Ma se poi da Vicenza, per un'offensiva improvvisa, mi richiamano in linea, dovrei ritornare in un reggimento di fanteria. E in trincea io ci sono stato tre settimane solamente, ma ho giurato di non rimetterci pi piede. Mi rincresce per te; rifiuto l'avvicendamento". Che fare? Tirargli un colpo di rivoltella? Mi attaccai al telefono, chiamai il Comando di Divisione, e se ne lavarono le mani; il comando di Corpo d'Armata: e qui il gesto di quel tenente parve eroico e promisero che a me avrebbero provveduto senza indugio. Due ore dopo arrivava infatti il fonogramma con la nuova mia destinazione: 21 Reggimento Fanteria, nelle trincee di Monte Coston. Salutai l'eroe al quale predissi l'imminente concessione di una medaglia d'argento al valor militare, e, a piedi, mi avviai verso la meta. ***

Arrivai al reggimento ch'era quasi notte. Il colonnello mi ricevette con paterna cordialit e mi destin al secondo battaglione, ch'era di rincalzo, annidato sul pendio di Monte Oro e si stava rimpolpando dopo il macello subito sul Pertica il 15 giugno. Mi presentai subito al maggiore che, tutto sonnacchioso e tra una serie di sbadigli lamentosi, rimand all'indomani il piacere di conoscermi meglio, e, l per l, mi assegn alla quinta compagnia. Qui trovai il tenente che la comandava tuffato in una pensosa partita di scacchi; lev appena appena la testa, mi augur il benvenuto, chiam un sergente, gli ordin di procurarmi una cavernetta in mezzo al terzo plotone, e si rigett nella contesa. L'indomani mattina si scopriva ch'ero il tenente pi anziano di tutto il battaglione, e il maggiore mi affidava il comando della sesta compagnia. E ricominci cos la vecchia vita. Ma se ripensavo alle trincee di Monfalcone, al Budello di Castelnuovo, al Passo di Buole, al Magnaboschi, a quota 208; se ripensavo alla mia bellissima Terza, al mio maggiore, al mio battaglione del Quindici, mi pareva quasi impossibile che quella che stavo vivendo ora fosse ancora la guerra. Qui si camminava per profonde e ben munite trincee, a testa alta; qui ci si poteva difendere dai pidocchi; qui si poteva passeggiare la notte, al lume della luna, e scendere di pattuglia in val Cesilla. Non ci si batteva pi con le unghie e coi denti; non c'era pi il terribile pensiero "se sfondano qui, sono in pianura" ; non c'era pi il dubbio se si sarebbe potuto resistere fino alla fine; c'era, luminosa, irrefutabile, la certezza che avremmo vinto. Ci sentivamo ascoltati dai Comandi superiori, che, anzi, sollecitavano spesso il nostro giudizio: e l'anima dei soldati era vicina alla nostra certezza. E un giorno che, dopo uno dei soliti tentativi di pace accennati dai nemici e dei quali i giornali avevano a lungo discorso, mi adunai la compagnia e volli spiegare a quei duecento soldati perch non si poteva e doveva accettare quella offerta, ebbi la sensazione esatta d'aver fatto breccia in quei cuori, d'averli persuasi veramente. Qualche cosa di nuovo era nato, dalla sconfitta di Caporetto e dalla gloriosa resistenza del giugno : qualche cosa che era nella volont, nelle anime di tutti. Scarse anche le perdite, in quei mesi trascorsi, quindici giorni in linea, quindici giorni d rincalzo a Monte Oro e quindici a Crespano, nelle baracche, a riposare. Una volta sola, un bombardamento furibondo concentrato sopra il tratto di trincea che presidiavo con la mia compagnia, sotto l'Asolone. Era un segmento di linea perpendicolare alla fronte e dalla quale si sarebbe dovuta arginare una eventuale sorpresa nemica nella selletta tra l'Asolane e il Coston, Il cambio s'era prolungato oltre il previsto; osservatori nemici avevano dovuto credere a un ammassamento di truppe per un attacco; e avventarono le loro batterie contro quel tratto

di trincea, con un accanimento che ricordava i bombardamenti carsici. Tre ore di inferno; tre ore nell'attesa di quella granata che sarebbe stata la fine di tutto e mi avrebbe seppellito sotto il mio baracchino. Quella granata non venne; ne venne un'altra, invece, a pochissimi metri dal mio ricovero, che scav una piccola voragine bianca nel pendio e schiacci sotto una grossa fetta di montagna una intera squadra: undici uomini e un caporale. Non uno che si potesse salvare; non uno che si potesse dissotterrare. Ma mezz'ora dopo il Pertica e l'Asolone fumigavano sotto la tempesta delle nostre artiglierie lanciate alla rappresaglia. Fu l, in quella zona che, in quei giorni, venne colto, come mi raccontarono, un capitano di artiglieria ungherese, vestito da ufficiale italiano. Agile, sorridente, elegante, perfettamente padrone della nostra lingua, era salito su da Val Cesilla, era entrato nelle nostre linee, era sceso ai comandi, conversando amabilmente con questo e con quello, soffermandosi a discorrere presso le batterie e ai comandi di battaglione. In uno di questi aveva anzi fatto colazione, spacciandosi per un ufficiale inviato dal Corpo d'armata. Verso sera, con la zona fotografata, batteria per batteria, comando per comando, nel cervello, s'era accinto a ritornare. Colto un attimo di disattenzione, era balzato fuori dalla trincea, avviandosi gi per il pendio. Capitano, dove va? gli aveva gridato una vedetta. Forse, l'agitazione naturale in chi aveva per tutto il giorno osato tanto e giocato con la morte minuto per minuto, lo trad. Scendo ai piccoli posti. Il soldato ebbe un dubbio, imbracci il fucile, lo punt. La parola d'ordine. Tent di scherzare: A un capitano, domandi la parola d'ordine? La parola o sparo! Non os buttarsi di galoppo gi per il prato; rest un attimo interdetto; bast quell'attimo. Corsero degli ufficiali. Si lasci prendere senza dir nulla; comparve sorridendo davanti a un colonnello e a due maggiori, dopo aver ricusato di rispondere a un generale; e sorridendo guard in faccia i dodici fanti che lo prendevano di mira con i loro novantuno. Un eroe. Era arrivata intanto anche la mia promozione a capitano; e ci fu una piccola festa al reggimento, tra noi ufficiali, per festeggiare in me il pi giovane capitano della brigata. Poco dopo il maggiore se ne and; e a sostituirlo capit un libraio fiorentino, prossimo a diventar maggiore. Ma il mio vecchio battaglione della Verde-Nero mi stava sempre nel cuore; e, periodicamente, con grande dispetto del Reggimento, inoltravo inutili domande al Corpo d'armata perch mi trasferissero al mio 117. Per

quanto facessi, non riuscivo a distruggere in me quella strana sensazione che mi faceva stare tra i miei ottimi fanti e i miei buoni colleghi del 21 come un camerata di passaggio e sempre in procinto di andarmene. Arriv ottobre. Una mattina, col comandante di battaglione ci portammo sul Grappa e, da un piccolo posto, studiammo con i binoccoli il Prasolan che l'indomani avremmo dovuto attaccare. L'ultima battaglia. Ma gi da due o tre giorni sentivo la febbre formicolare nelle mie vene e stringermi in un cerchio di ferro la fronte. Mentre guardavo attentamente, reggendomi il binoccolo davanti agli occhi, la rossa montagna che mi stava di fronte, il collega comandante del battaglione mi prese per un braccio. Che cos'hai? Perch? Ti tremano le mani. Guarda. Guardai: tremavano fitto fitto. Eppure mi pareva di star bene. Usciti dalla galleria, al posto di medicazione mi feci dare un termometro e un grappino; poi un secondo grappino; ma la febbre era piuttosto alta: trentotto e tre. Erano i giorni che la spagnola cominciava la sua mietitura micidiale. Tornai al battaglione, mi cacciai sotto le coperte, dentro la mia tenda. Verso sera volli alzarmi, mi avviai solo, a piedi, verso il Grappa. Contavo di riposare la notte al posto di medicazione, per essere pronto l'indomani all'alba per l'azione. Ma non riuscii a chiudere un occhio. Battevo i denti. Un giornalista romano, venuto su per assistere all'avanzata, cercava di confortarmi, raccontandomi barzellette intorno alle febbri "effimere". Poco prima di mezzanotte, uscii all'aperto. Arrivava il mio battaglione, imboccava la Galleria. Qualcuno mi strinse le mani; il mio attendente mi infil a tracolla un tascapane; poi... pi nulla. Come un sogno. Un piccolo autocarro che corre gi per la ripida strada ; un cortile alberato ; una voce che dice "non c' posto"; un'altra galoppata, tutta scossoni, per un interminabile stradale; e finalmente il refrigerio d'un letto bianco, fresco, e un sonno profondo che mi inghiotte. *** Oh! tristezza del vecchio fante che il quattro novembre ancora a fetto, senza febbre ma ridotto come uno straccio, e pensa ai suoi soldati, e pensa ai suoi compagni in cammino verso Trento; e poi pensa all'avvenire che adesso vicino, terribilmente vicino, e gli pare un deserto. *** Seguirono malinconiche peregrinazioni per i campi di concentramento degli ex-prigionieri disseminati nella Toscana, al servizio

dello Stato maggiore; e poi quattro mesi di universit a Pavia, per finirvi gli esami e la laurea. E qui i primi umilianti contatti con la realt ; e la visione dei rancori che scoppiano per le strade, dominate da quattro giovincelli pallidi e dai cipigli fierissimi, orgogliosi d'aver disertato; e la vergogna degli ordini che ci impongono di girare disarmati e di restar chiusi nelle caserme durante gli scioperi per non "provocare" disordini ; e i profittatori che ostentano la loro ricchezza improvvisa disperdendo sotto i nostri occhi smarriti fasci di quei biglietti da mille che avrebbe dovuto essere cos arduo e penoso per noi di guadagnare onestamente; e il senso, ogni giorno pi preciso, d'aver vinto la guerra e perduta la pace... Alla fine di giugno ritornai a Massa Carrara, dov'era il deposito del mio ultimo reggimento. A pochi passi, Viareggio : che riboccava di femmine troppo nude e di uomini troppo ricchi. E allora riuscii a meritarmi una punizione: la pi grave, la pi bella di tutte le punizioni : partire per la linea d'armistizio. Non era pi la guerra; ma non era ancora, vivaddio, quella tristissima pace.

XIII. L'ULTIMO GIORNO Nel settembre del 1919 comandavo un battaglione a Rovte, sulla linea di armistizio, di fronte a Lubiana. La fortuna mi aveva concesso di avere ai miei ordini proprio il mio vecchio battaglione del Carso, che era stata la mia grande famiglia grigioverde fino all'estate del 1917. Non c'era ormai quasi pi nessuno dei vecchi colleghi, tranne Pieretto e Barba d'oro; e l'uno e l'altro, li avevano finalmente "imboscati", Pieretto al carreggio reggimentale e Barba d'oro al comando, ufficiale a disposizione. Inutile aggiungere che lo stesso giorno ch'io arrivai a Rovte ad assumere il comando del nostro battaglione, tutti e due mi capitarono alla mensa, avvisandomi che non si sarebbero mossi da Rovte per scendere a Longatico o a Planina, dove si trovavano i loro "uffici" e il loro reparto, neanche per un ordine scritto del comandante del Corpo d'armata. Anche i soldati erano quasi tutti nuovi e sconosciuti; ma, nelle compagnie, e soprattutto nella terza, il mio nome era rimasto, come erano rimasti quelli dei miei vecchi colleghi, insieme con quella specie di mito che la spesso incredibile ma sempre autentica cronaca di tutti i battaglioni. Ogni giorno, qualche gruppo di fanti se ne andava in congedo; e affluivano tutti, coi tascapani gonfi e la barba fatta, al mio comando, che era in una casetta accanto al cimitero, a salutarmi e ad ascoltare il mio saluto. Pieretto, Barba d'oro ed io non si riusciva ad essere allegri come avremmo voluto. Tutte quelle partenze, in fondo, ci mettevano di mal umore. Il battaglione si sfaldava a poco a poco, si cancellava, squadra per squadra. La guerra era finita da un pezzo; ma la pace... la pace non si sapeva, non si riusciva a indovinare quando sarebbe incominciata. E poi c'era l'avvenire : questa terribile parola davanti alla quale ci sentivamo smarrire. Io ero il pi vecchio, dei tre; e il mio congedo fu il primo ad arrivare. Era una busta gialla, grande, col timbro del reggimento. La lasciai sul tavolo del comando, senza aprirla, e continuai a rivedere gli specchietti che mi andava passando il mio aiutante maggiore. Finche non mi disse, esitante: Signor capitano, deve essere il suo congedo. Gi. Non lo apre? Tanto... Ha finito? Lo congedai; congedai il sergente contabile e lo scritturale; restai solo, davanti alla busta gialla. Inutile aprirla : sapevo quel che c'era dentro : il foglio di congedo provvisorio, il foglio di viaggio per Padova, e, forse, una lettera del

colonnello. Avevo l'impressione che qualche cosa di irreparabile e di definitivo fosse accaduto. Contento? S, anche contento: forse, molto contento ; ma non riuscivo a "vedere" la mia contentezza; a fermarmici sopra col pensiero. Quattro anni e mezzo, e tutta la mia giovinezza. Molto. Troppo per buttarmeli alle spalle e poi dire "sono contento". S ; avrei finalmente potuto fare un mondo di cose che d un pezzo mi parevano impossibili: un bagno tutte le mattine, biancheria sempre pulita, il mio capanno. Dovevano giusto incominciare a passare i tordi. E poi i miei libri, la mia casa, mio padre. E poi la mia fidanzata, la mia dolce fidanzata. Avrei potuto lavorare, finalmente. A che cosa, non sapevo, non immaginavo nemmeno; ma a qualche cosa, certamente... S, s: tutto questo era bello e suggestivo. Ma, in fondo, sarebbe stato pi bello che in quella busta gialla fosse stata una licenza : lunga, lunghissima: lunga come il mio desiderio; per ritornare, poi, al mio battaglione, con tutti i miei vivi e tutti i miei morti. Non avrei mai potuto trovare, laggi, compagni come quelli che dovevo lasciare : che bastava guardarci negli occhi per leggerci fino in fondo, e stringerci la mano in silenzio per confessarci come davanti al Signore. S, ci saremmo incontrati, vestiti da borghesi, ci saremmo abbracciati commossi, e poi nascosti in qualche angolo tranquillo per ricordare. Ma sarebbe stata un'altra cosa; ognuno di noi avrebbe avuta una sua vita, una sua famiglia e altri amici necessari e altri doveri e altre responsabilit. Noi, come eravamo stati fino a quel giorno, con i nostri vent'anni e la nostra superba serenit, saremmo forse rimasti, fantasmi d'un passato che non avremmo avuto neanche il coraggio di rimpiangere ad alta voce, chiusi dentro gli armadi, con le nostre vecchie uniformi gualcite e scolorite, in un'atmosfera acida di naftalina. Eppure ritornavo a casa, dal mio pap, dalla mia fidanzata... il congedo? domand Pieretto entrando nel comando. Eccolo. Busta gialla, come per gli arresti. Non l'apri? Chiusa o aperta, la stessa cosa. Gi. E... parti subito? Vedr. Domani, se mai... Sedette davanti a me. Accendemmo le sigarette. Stemma un pezzo a fumare in silenzio. E cos... finita. Eh.... Fra un paio di mesi arriver anche il mio... Due mesi... son gi qualcosa. Domani io torno gi al Carreggio. Anche Barba d'oro credo che torni al comando. Non c' pi sugo, capirai. Addio primo battaglione.

Morto. Non esagerare, adesso. Per me, per te, per noi, insomma, morto. Non resta pi nessuno. Resta con noi, nel nostro ricordo, nel nostro orgoglio. Vedrai come se ne fregano, in Italia, del nostro orgoglio! Questo positivo. Sar difficile adattarci a vivere. ... e trovare da lavorare. Tutto laggi continuato come se non ci fosse la guerra. Ed era giusto che fosse cos. Ma per noi... sentirai che musica ! Ho l'impressione che saremo buoni solamente per le cerimonie. Neanche per quelle, mio caro Pieretto. Siamo dei fanti senza neanche una straccio di medaglia di bronzo. Basta... Andiamo a fare due passi? Fuori, incontrammo Barba d'oro che arrivava di carriera. La voce s'era sparsa, negli accantonamenti, del mio congedo; e Barba d'oro l'aveva sentita in casa d'una maestra slava dove, colla scusa che si sospettava in quella bionda fanciulla generosa una spia, passava i pomeriggi interi e qualche volta le notti. Evviva! arrivata la donna colle poppe d'acciaio, vero? Arrivata! E sei allegro come un condannato a morte, naturalmente ! Naturalmente. Benone! Andammo fuori del paese, dietro la chiesa, verso i boschi. Non si riusciva a tenere in piedi la conversazione. Vai subito a casa, o giri un poco? Vado a casa. Ho mio padre che m'aspetta; la mia fidanzata... Giusto. E poi ho bisogno di prender subito la laurea e mettermi a lavorare. Che divertimento. Tutti con le braccia spalancate ad offrirci posti e stipendi principeschi. Vedrai. A casa mia, perfino il letto m'han preso, per darlo a un cugino ingegnere che ha fatto la guerra dai Pirelli. S, ma a poco a poco, le cose si accomoderanno. Speriamo; se no, son botte, per Dio santissimo. Cose che si dicono. Alla mensa, naturalmente, vollero festeggiare il mio congedo; e dovetti offrire non so quante bottiglie di spumante. Il tenente pi anziano pronunzi anche un discorso; ma non era dei "vecchi"; e ascoltandolo, mi pareva che parlasse di un altro. Pieretto e Barba d'oro tacevano e bevevano. Alla fine restammo soli noi tre. E allora Pieretto si alz di scatto, e levata in alto la coppa colma grid: Abbasso il congedo e viva la guerra! Uscimmo. La strada alberata era buia e silenziosa. Mi accompagnarono per un poco in silenzio; poi Pieretto mi chiese:

Parti proprio domani? Capirai... Davanti alla porta della casa del curato dove io alloggiavo, ci fermammo. Bisognava salutarci. Nessuno trovava le parole. Allora... arrivederci. Domattina ci si vede ancora. Buona notte. Buona notte. Un momento: a che ora vai via? Non so. Verr io da voi. Ci lasciammo. Li guardai allontanarsi verso la piazzetta. Sentivo che parlavano a bassa voce. Forse, parlavano di me. Non li vedevo gi pi. Udivo solamente i loro passi nella notte. Allora, senza pensarci, gridai: Pieretto! Barba d'oro! Ho deciso. Domani resto. Partir dopodomani. Un breve silenzio ; poi Pieretto rispose : Fai bene; tanto... la pace non scappa. *** La mattina dopo scesi a Longatico per salutare il colonnello e il generale; ma proprio sulla porta del Comando mi imbattei con un tenente d'artiglieria nel quale riconobbi un compagno di scuola, mio compaesano, che avevo perduto di vista da un pezzo. L'incontro fu naturalmente affettuoso; e un minuto dopo eravamo seduti al tavolino di un caff occupatissimi a trarre dal fondo della nostra memoria gli episodi pi lontani e i nomi pi remoti della nostra vita di scolari. A un certo punto il tenente mi confid d'avere a Longatico, nascosta in una stanzetta, una bella donnina e mi propose di risalire su a Rovte tutti e tre, dove saremmo stati al sicuro d'ogni pezzo grosso. Avremmo cenato alla mensa; si sarebbe fatta un po' di musica; Mariuccia era una cantante. Chiss che festa per tutti. E poi, con mezze parole e pause sapienti, mi fece intendere che, in omaggio al mio grado e per festeggiare l'improvviso incontro, mi avrebbe lasciata Mariuccia tutta per me, fino al mattino dopo. Non mi sentii di rifiutare; e mezz'ora dopo eravamo tutti e tre sulla mia carrozzella. Mariuccia, coi riccioli nascosti sotto un berretto da tenente d'artiglieria e un grosso pastrano addosso, stava seminascosta fra noi due. Zanaga, il conducente, volgeva ogni tanto il suo testone verso di noi con l'ombra d'un sorriso sotto i grossi baffi spioventi. Una volta, si permise perfino di strizzarmi l'occhio. Il tenente era allegrissimo; Mariuccia cercava di darsi un'aria da signora per bene, mormorando dei pardon ogni volta che mi toccava col suo piedino le scarpe. Io la guardavo tratto tratto di sfuggita; e mi pareva carina. Ma da quasi due mesi non stavo con una donna; e bastava il sottile

profumo, un po' acre, di cipria volgaruccia che spirava da quel corpo femminile nascosto nel largo pastrano per mettermi un'inquieta ansia di baci per tutte le vene. Di Mariuccia poi mi piaceva la bocca che mi pareva infantile e mi faceva pensare all'innocenza. A un certo punto il tenente gliela baci rumorosamente. Mariuccia protest, diventando rossa; poi mi si cacci addosso tutta, infilandomi una mano sotto il braccio. Anche le sue mani avevano non so qual grazia infantile. Gliela presi con dolcezza e me la portai alle labbra, baciandogliela con compiaciuta lentezza. Mi sorrise felice, mi appoggi la testa sulla spalla. E' stanca, signorina? Non sono mai stata cos bene. Il tenerne mi lanci al di sopra della testa di Mariuccia, un sorrisetto di intesa. Quando entrammo alla mensa, l'apparizione della ragazza sollev un entusiasmo strepitoso. Solamente Pieretto e Barba d'oro restarono impassibili ai loro posti. B, voi non siete contenti? Per me, tu lo sai, me ne frego. Gi, tu hai la tua Mata Hari. Ed io, caro il mio signor capitano, se sapevo che l'ultima cena andava a finire cos, andavo a Gorizia, dove almeno avrei trovato qualche cosa di meglio. Siete dei fessi. In una compagnia come questa, gi una distinzione! A mezzanotte eravamo ancora a tavola. Erano comparse due chitarre e un mandolino; Mariuccia cantava. Il suo tenente aveva trovato da combinare un pocher. Pieretto e Barba d'oro giocavano agli scacchi, bestemmiando quando gli acuti di Mariuccia laceravano con troppa crudelt i timpani. Era in piedi sul tavolo, in mezzo alle bottiglie vuote e ai bicchieri rovesciati. Qualcuno a un certo punto grid : "la vogliamo nuda". Cercai di resistere all'ondata che minacciava di travolgermi. Mariuccia un po' ebbra, si slacciava la camicetta rossa, si scopriva una spalla liscia e bianca come la gola d'una colomba. Intorno s'era fatto un gran silenzio. Poi all'improvviso, gli occhi della ragazza si fermarono nei miei; fu un attimo. Mariuccia si riagganci di furia la camicetta, scese dalla tavola. Non sorrideva pi. Il suo tenente le url dal suo tavolino : Non far la stupida. Svestiti. Intorno s'era levato un clamore indistinto di proteste e di esortazioni. Pieretto e Barba d'oro si alzarono e se ne andarono senza salutarmi. Non resistetti pi; uscii anch'io sul viale. Ma i due erano gi lontani. L'aria fredda della notte mi bagnava le tempie che mi battevano a martello, mi alleggeriva le palpebre sugli occhi indolenziti. Ero scontento. Pensavo che avrei dovuto essere gi a Padova, sulla via di casa; e mi

domandavo perch mai ero rimasto. Ero seduto sapra una panchina; ed aspettavo. Non sapevo chi. Forse Mariuccia. Me la trovai accanto all'improvviso, che nemmeno l'avevo sentita uscire dalla mensa. Mi pass una mano sotto il braccio, leggera. Si sono calmati. Giocano tutti, adesso. Non le dispiace, signor capitano, che io resti qui con lei? Mi voltai, le presi il viso tra le mani, la baciai sulla bocca, un po' commosso e molto ingolosito. Mariuccia mi restitu il bacio, rannicchiandosi tutta contro di me e soffiandomi nelle orecchie un professionale "mi piaci" che non so qual timidezza trepidante travestiva d'innocenza. Poi, a bassa voce, mi raccont una lunga storia noiosa e inverosimile ; ma non osai interromperla perch la sua voce mi pareva una preghiera. La lasciai raccontare finch, cintala alle spalle e rovesciatale la testa all'indietro, le schiacciai la bocca sotto la mia in un bacio avido. Poi me la portai a casa. Il mio attendente sonnecchiava in anticamera, accanto a una bottiglia. Si svegli di soprassalto, incominci a dirmi qualche cosa; poi, passatasi una mano sugli occhi, come se non credesse all'inaspettato spettacolo che gli era davanti, si ferm incerto. Mariuccia incominci a svestirsi piano piano, interrompendosi ogni tanto per farmi delle piccole domande infantili. Avevo aperte tutte e due le finestre, e la notte entrava, col suo respiro fresco. L'orto del curato mandava un acuto profumo umidiccio di crisantemi e qualche sospiroso fruscio di foglie. Hai freddo, Mariuccia? Mi riscalderai tu. Nuda era bella: d'una bellezza che dava ancora la sensazione della integrit. Ma non volle che io la guardassi cosi. Diceva che i miei occhi li sentiva sulla pelle strisciare come due labbra e le davano il solletico. Volle ch'io le prestassi un pigiama; poi si infil in fretta sotto le lenzuola. Mi sedetti sul letto, contro di lei; le tenni le due mani in una mia, senza parlare, godendo di quel suo aguardo un poco invitante e un poco smarrito, di quella sua bocca rossa dove pareva essersi fermato un piccolo sorriso, di quella sua gola rotonda e liscia. Non vieni a letto anche tu? Ho freddo. Chiusi le imposte, mi svestii rapidamente; e per un pezzo me la tenni sul petto, in silenzio, chiusa tra le mie braccia, che la serravano forte. Sai perch sono cos contenta? Perch mi vuoi un po' di bene. Non questo. Tu domani vai in congedo, e come tutti quelli che vanno in congedo, sei mezzo contento e mezzo scontento. Non vero? vero ; ma che cosa c'entri tu col mio congedo? Niente: l'ultima tua notte da soldato. Per merito di Mariuccia, la

ricorderai con un po' di dolcezza. Se ne and la mattina dopo al levar del sole, perch il suo tenente doveva trovarsi in batteria per tempo. Il tenente era allegrissimo, come sempre. Aveva vinto al pocher, poi erano stati, in massa, a trovare la Mata Hari di Barba d'oro. Insomma, caro capitano, una nottata deliziosa, per merito tuo. A te non domando per... delicatezza. Ma, sai, io non come dire non so pi che farmene di Mariuccia. troppo sentimentale per me. E poi a Longatico c' un sacco di comandi. Un bel rischio e una bella seccatura. Se, almeno, tu non avessi avuto il congedo, potevo lasciartela quass. Mariuccia fatta apposta per dei paesi come questo tuo, solitari, pieni di boschi, dove non c' caso di vedere un colonnello neanche alla domenica. Un paradiso... Proprio peccato. Peccato, s. E lo dissi anche a Mariuccia, aiutandola a salire nella carrozzella, accomodandole le falde del grosso pastrano intorno alle caviglie sottili. Mariuccia rispose con un lungo sospiro, e poi mi tese le due mani che scaturivano, piccole e bianche, fuori dalle grandi maniche del pastrano. Gliele baciai, lentamente. Addio, Mariuccia. Addio, capitano. Ma aveva sonno, povera piccola : un gran sonno, contro le palpebre che non riuscivano a restare sollevate; e non appena la carrozzella si mosse, la vidi abbandonare la testa sulla spalla del tenente. Allora io mi avviai verso la drogheria, dove alloggiavano Pieretto e Barba d'oro. Salii, entrai in punta di piedi nella loro stanza. Dormivano. Barba d'oro russava. Dalle imposte socchiuse entrava un raggio di sole che tracciava una riga bianca e diritta sul pavimento. Mi distesi sopra un divanetto e attesi fumando. I ricordi salivano, uno dietro l'altro, poi in folla, dentro di me... e di quando Pieretto si present per la prima volta alla mensa con un fazzoletto di seta bianca che gli occhieggiava dal taschino della giubba, la caramella e gli stivaletti gialli sotto le mollettiere Fox; e di quando Barba d'oro scov una gran biscia e ce la trovammo a turno, per una intera settimana, arrotolata sotto le coperte nei nostri ricoveri, finche una sera, mescola e rimescola una deliziosa insalata novella, il maggiore stesso non se la trov infilzata sulla forchetta, e Barba d'oro dovette svignarsela di galoppo e non farsi vedere per tre giorni alla mensa e poi pagare diciotto bottiglie per esservi riammesso; e di quando Pieretto giocando al pocher, nella mia galleria della dolina della Ghirba, cap che un collega barava e gli fece mangiare per punizione l'asse di cuori tagliato in otto quadratini inzuppati nell'anice; e di quando Barba d'oro non si port una donnettina a Marani, sotto Passo di Buole, e l'aveva vestita da soldato della Sanit, e

l'andava a raggiungere di soppiatto tra un attacco e l'altro, finch un giorno due carabinieri non fermarono il misterioso soldatino e non lo portarono, con fior di manette ai polsi troppo piccoli, al comando di divisione, e ci volle poi tutta la diplomazia di Barba d'oro per salvare l'innocente ragazza e se stesso... Ricordi, ricordi... Accorrevano a stormi, come passere richiamate dalla sera al nido; e il mio cuore n'era gonfio, cosi gonfio che mi pareva dovesse scoppiarne. Barba d'oro russava sempre; Pieretto dormiva con un respiro tranquillo di fanciullo. La striscia : di sole si allungava, divideva in due zone d'ombra tutto il pavimento, incominciava a salire per la parete opposta alla finestra. Ed io pensavo che, forse, non avrei incontrato mai pi quei miei due fratelli, che la vita me li avrebbe rapiti, portati lontano, ciascuno nel suo piccolo mondo. E mi domandavo come saremmo vissuti. Chi erano? donde venivano? chi c'era dietro di loro ad aspettarli? Nessuno di noi s'era mai interessato troppo del "passato" dell'altro. Nessuno sapeva bene quello che fossero le famiglie lontane, i pap, le mamme, le fidanzate, le spose. Ma c'era, laggi, qualcuno pronto ad amarli e a difenderli, pronto a morire per loro? S, anche a morire; perch ciascuno di noi sarebbe stato pronto, senza il pi piccolo dubbio, a mettersi col proprio petto, di fronte all'amico in pericolo: e l'avrebbe fatto colla istintiva semplicit d'un gesto necessario e comune. Domani, per le strade e negli uffici d'una citt, forse, noi stessi saremmo diventati aridi, senza fede; svestendo il grigioverde, ci saremmo strappati dai cuore questa purezza, questo senso di umanit pi forte d'un istinto; e se ci avessimo ripensato, ne avremmo sorriso come d'un sentimentalismo di adolescenti. Ma, in fondo, a che valeva arrovellarsi cos, e spinger nembi di malinconie dietro il fumo azzurro della sigaretta? S'erano ammazzati a milioni gli uomini, s'erano distrutte citt, devastate contrade intere, inabissate navi gonfie di madri e di bambini; e il sole non aveva deviato di un millimetro il suo corso, e le allodole avevano fatto il loro nido a primavera sotto i reticolati, e le viole erano spuntate sui cigli dei fossati colmi di sangue. Era quella, dunque, la terribile esperienza che i nostri cuori avevano raccolto? quella la nuova certezza scaturita dall'avventura sanguinosa della trincea? Pieretto, Barba d'oro ed io: tre amici , tre fratelli per la vita e per la morte, quass; ma sarebbe dunque bastato, domani, che il sorriso d'una donna fosse balenato in mezzo a noi o che un biglietto da mille fosse caduto in terra, tra le punte delle nostre scarpe, perch i nostri occhi si dovessero guardare con un lampo di collera assassina? No, no! Non era possibile! Pieretto! Barba d'oro! Voi lo sapevate! Voi lo sentivate come lo sapevo e lo sentivo io. C'era qualche cosa di nuovo nel

profondo del nostro cuore, qualche cosa di indicibile e di purissimo, che s'era annidato tra le radici stesse della nostra vita, per l'eternit : una verit divina, una fede struggente che nulla e nessuno al mondo ne avrebbero potuto strappare mai pi. Forse, il fumo della mia sigaretta era passato contro i miei occhi. Come spiegare diversamente quell'improvviso umido bruciore sotto le palpebre? Pieretto e Barba d'oro dormivano sempre. Forse, avevano fatto tardi, la notte. Decisi di non risvegliarli : e di partire. Subito. C'era un direttissimo che passava da Longatico poco prima di mezzogiorno ; sarei partito con quello. Giusto il tempo di dar la consegna al capitano della prima, che avrebbe dovuto assumere provvisoriamente il comando del battaglione. Mi alzai dal divano; feci un passo. No, non li volevo svegliare. Tanto non avremmo saputo trovare le parole necessarie. Meglio partire cos. A mezzogiorno, alla mensa, avrebbero domandato di me: " partito..." Avrebbero fatta la faccia scura, ina poi avrebbero pensato : "Ha fatto bene. Le chiacchiere sono sempre inutili. " Tutt'al pi avrei potuto lasciare un saluto scritto, sopra quel tavolino. Cercai un pezzo di carta; mi curvai colla matita. Che cosa scrivere?... "Addio" era troppo; "arrivederci" troppo poco ; "buona fortuna" una sciocchezza... E poi, tutte parole, piccole, fredde, vuote... No: il mio nome: cos: Gino Cornali e nient'altro. Solamente il mio nome. Come il loro, anche il mio nome non stava scritto sopra una delle tante croci dei cimiterini del fronte proprio per un capriccio della sorte. *** E il nostro cuore, Pieretto e Barba d'oro, pareva che dovesse non avere mai il suo congedo, e restar sempre lass, con i nostri vent'anni. Ma un giorno un Fante dello Javorcec e di quota 144, Colui che aveva gi guarite le nostre malinconie, spenti i nostri dubbi tormentosi, data una certezza santa alla nostra passione, gett un grido "A noi!"; e noi siamo andati a riprenderli, cuore e vent'anni, perch difendessero i nostri Morti e salvassero i nostri figlioli.

Potrebbero piacerti anche