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Claudio Pelizzeni - Sempre Dalla Parte Dei Sogni
Claudio Pelizzeni - Sempre Dalla Parte Dei Sogni
Le prime due tappe sono state piacevoli. Sono passato dai 1.800 metri
sul livello del mare fino a circa 3.800, dalla foresta pluviale affollata di
scimmie fino ai boschi di montagna popolati di topolini che attraversano il
sentiero. Un percorso indubbiamente faticoso, ma, se fossi stato
maggiormente fortunato con il tempo, la fatica in realtà non si sarebbe fatta
sentire più di tanto.
Sposto lo sguardo verso la cima: le nuvole non lasciano intravedere
nulla, si può solo immaginare. La vetta mi appare ancora molto distante.
È certo che questo monte solletica, e non poco, la fantasia: sarà
probabilmente per il suo nome, Kilimangiaro. Il suo suono che sa di Africa
e ritmi tribali.
Sarà per come svetta sinuoso e ripido dalla piatta savana, ergendosi a
sfiorare i 6.000 metri di altezza con la sua cima spesso incappucciata di
neve, che si staglia libera da ogni altra catena montuosa, solitaria e unica.
Sarà perché è un vulcano, e uno tra i più belli del mondo, ma la vetta del
Kilimangiaro mi ha da sempre chiamato a sé.
La salita al Kilimangiaro è tecnicamente la più semplice sopra i 5.000
metri, nulla a che vedere con un’ascesa himalayana con corde e ferrate. Non
occorrono particolari capacità o conoscenze, servono solo un buon
allenamento, un fisico in forma e tanta determinazione quando poi
l’ossigeno sarà sempre più rarefatto.
L’allenamento… che cretino che sono…
Mi sono allenato una sola settimana, quella prima della partenza,
andando a correre tutte le mattine in spiaggia a Bondi. Mi trovavo a Sydney,
al termine di un viaggio su e giù per la terra infuocata dei canguri.
La forma fisica…
Mi guardo e so che ormai sono quasi cento chili: un quintale. Continuare
a viaggiare e spostarsi tra stagioni, fusi orari, climi e cucine diversi non
aiuta a rimanere in forma.
Scarso allenamento, scarsa forma fisica, non mi resta altro che la
determinazione a spingermi lassù.
La determinazione di certo non mi manca!
A volte sfocia in vera e propria cocciutaggine, come quella volta che,
partendo da casa, ho raggiunto l’oceano Atlantico a piedi con voto di
silenzio: quasi tre mesi e oltre 2.000 chilometri trascorsi senza parlare per
compiere il Cammino di Santiago dall’Italia, attraversando la Francia e la
Spagna.
«Ehi, sir.»
Innocent mi chiama, interrompendo il flusso dei miei pensieri, e mi
mostra il passaggio tra due sorte di dune.
«Siamo a 4.000 metri, proseguiremo in quel pianale e poi ci fermeremo a
pranzare dietro quella discesa, a circa 4.300 metri di altitudine.»
Ecco, quasi mi perdo il traguardo dei 4.000 metri.
Mi piace fantasticare e perdermi tra i pensieri e i ricordi mentre
cammino, mi dà forza in giornate come questa e mi permette di allontanare
le preoccupazioni: l’ascesa finale è infatti prevista per stanotte e queste
sono ore determinanti.
Nella mia testa c’è il timore di rientrare in quella minima percentuale di
persone che non riuscirà nel suo intento: preoccupazione che fa
letteralmente a botte con l’obiettivo di non vivere condizionato dal giudizio
altrui. La verità è che sono proprio terrorizzato di finire in quell’esigua
percentuale.
Innocent mi propone una pausa, ma poiché ho buon fiato e passo agile,
preferisco soprassedere e continuare. L’arrivo è previsto intorno alle due del
pomeriggio e, prima giungerò al campo, più tempo avrò a disposizione per
riposarmi. A mezzanotte è fissata la partenza successiva: dall’ultimo campo
base, Kibo Hut, a 4.720 metri, verso la sommità del cratere.
Il giorno dopo arriviamo a Moshi, dove tutto è iniziato sei giorni fa, e
passiamo nell’ufficio del parco, dove Innocent mi firma il certificato
ufficiale.
«Complimenti, sir.»
«Mi raccomando, Innocent, ci vediamo tra qualche mese. Ti prometto
che tornerò con una decina di persone e con qualche chilo in meno sulla
pancia!»
Ci abbracciamo e ci salutiamo mentre il van mi riporta alla guesthouse.
Finalmente ho di nuovo accesso a internet. Dopo vari giorni offline, la
voglia di condividere quanto ho appena compiuto è tanta. Scorro le
notifiche, posto una foto, avviso prontamente tutti dell’impresa, e poi
l’attenzione mi cade su un messaggio del direttore tecnico del mio tour
operator.
***
Negli ultimi anni condivido gran parte della mia vita sui social, ogni giorno.
In queste settimane sono stato tuttavia a lungo in silenzio, perché
incredulo. Non riesco a capacitarmi di ciò che vedo fuori dalla finestra: le
città chiuse, le strade deserte e il silenzio rotto unicamente dalle sirene delle
ambulanze. Strillano ogni dieci o quindici minuti; proprio ora ne sta
passando un’altra: la mia città è a oggi una delle più colpite d’Italia.
Si comincia con la notizia di un positivo nel quartiere, poi è il turno del
parente di qualcuno che si conosce, e infine il cerchio si stringe a tal punto
che tocca anche la mia famiglia.
Vivo questi giorni in quarantena isolato in casa, con l’angoscia di poter
essere stato contagiato o, peggio ancora, di essere stato proprio io a
contagiare mia nonna. Tra aeroporti, viaggi, assembramenti, quella dannata
notte al campo base del Kilimangiaro in cui non ho chiuso occhio a causa
dei colpi di tosse di alcuni escursionisti cinesi.
L’umore è a terra, ma voglio ancora trovare pensieri positivi: mi
immagino di nuovo in viaggio, in mercati affollati, a mangiare pad thai
sulle bancarelle di Bangkok, a visitare templi e buttarmi tra le onde
dell’oceano; a ritrovarmi la sera a bere una birra con sconosciuti e far festa
fino al mattino in una spiaggia di San Blas.
Tutto mi appare così lontano.
Stiamo vivendo un momento storico senza eguali, in cui la situazione
implora di fermarsi. Mi ritrovo bloccato, chiuso tra quattro mura in città
quando è sempre stata la natura a chiamarmi a sé e a regalarmi equilibrio e
consapevolezza.
Per fortuna, questa pausa forzata riesce proprio a mostrare il meglio che
la natura può offrire: cieli tersi, aria pulita, il cinguettio degli uccelli che
risuona nitido nel silenzio.
Chissà cosa passa per la testa di questi animali che tutto a un tratto
hanno visto il genere umano rinchiudersi nella propria tana…
Per un attimo vorrei essere uno di loro, mi chiedo se siano o meno felici
di averci visto abbandonare le strade e le piazze.
Sono immobile davanti alla finestra e il mio sguardo fisso si perde nel
vuoto.
Mi sembra tutto così esaurito, come se fossimo alla fine di qualcosa.
Scruto gli altri edifici e mi immagino le molteplici vite che li abitano,
ognuna chiusa in casa. Da un momento all’altro siamo diventati una
moltitudine di isole, vicine ma distanti. Un arcipelago grande come tutto il
mondo.
Moralmente siamo uniti, ma fisicamente non siamo mai stati così
lontani.
Tutta questa vicinanza, tutta questa solidarietà, quanto durerà?
I primi leoni da tastiera si stanno già scagliando gli uni contro gli altri,
contro i runner o chi porta fuori il cane a pisciare.
Sento odio dilagare e fare breccia. A volte noto una tale cattiveria e
infamia da rabbrividire.
Tante cose stanno succedendo, troppe, forse, tutte insieme: la più
importante, al momento, credo sia la consapevolezza del peso della singola
azione di ogni individuo e dell’importanza che la stessa ha sul collettivo. Si
sta iniziando a comprendere su larga scala che non possiamo rimanere
indifferenti a quello che succede in una piccola provincia dall’altra parte del
mondo, perché ora siamo realmente globalizzati e quello che capita laggiù
può accadere domani anche dietro casa.
È finito il momento delle scuse, del nascondersi dietro a un dito. Ognuno
di noi è responsabile, di sé stesso, della sua famiglia, della collettività, del
mondo intero. Non so quanto durerà questa consapevolezza, a volte sembra
solo che le persone stiano vivendo ancora tutto come un gioco,
sottovalutando l’impatto delle azioni individuali.
Non possiamo uscirne se non ragioniamo come comunità, abbandonando
gli interessi personali.
In pratica, utopia.
***
Ciao Claudio! Sto ascoltando il podcast Storie della quarantena e sono venuto a
conoscenza della tua storia. Sono un regista videomaker di Piacenza: lavoro
parecchio qui ma ho anche tempo libero, soprattutto in questi strani giorni. È un
momento pazzesco e speriamo ne rinasceremo migliori.
Ho sentito che hai parecchio materiale video arretrato che stai sbobinando in
questi giorni: se vuoi sono disponibile a montarlo insieme per darci una forma,
farne magari un film o una serie video per la tv o il web. Ciao, Roberto.
Ehi ciao, come stai? Senti, tra i tuoi innumerevoli viaggi sei mai stato al
Kumbh Mela? La prossima primavera vorrei andarci.
Stavo marciando da circa sei ore per raggiungere Puente la Reina quando
ricevetti questo messaggio. A mandarmelo non era uno dei miei amici
squinternati conosciuti negli innumerevoli viaggi in India o Nepal, o
qualche pazzo in cui ero incappato facendo festa a Cartagena, bensì una
cara amica con cui avevo viaggiato in Marocco durante la transumanza di
una famiglia nomade berbera sull’Atlante.
Non mi aspettavo mi parlasse proprio lei del Kumbh Mela.
Sì, è l’Ardh Kumbh Mela, quello che si svolge ogni sei anni, ma è
previsto che sia il Kumbh Mela più grande della storia, si attendono oltre
centocinquanta milioni di persone.
La prima volta che ne sentii parlare fu grazie a Giona, un caro amico con
cui abbiamo condiviso la straordinaria esperienza di aiutare dei bambini
nepalesi con la Onlus Human Traction.
Era l’estate del 2014, avevo lasciato da tre mesi la mia vecchia vita da
bancario per rincorrere il sogno del giro del mondo senza aerei. Mi trovavo
in Nepal durante l’estate, ovvero all’inizio del periodo dei monsoni. La sera
ci si ritrovava spesso a chiacchierare, con la pioggia battente fuori dalle
finestre a farci da colonna sonora.
Giona è più giovane di me, ma il suo curriculum di viaggiatore già allora
parlava chiaro e questo lo rendeva molto più maturo e indubbiamente colto
in tema di viaggi e spiritualità. Aveva trascorso lunghi periodi in India e, se
ho compreso tanto di quella cultura, lo devo a lui. Nonostante Giona amasse
il Nepal e avesse dedicato tante energie e buona parte della sua vita a quei
ragazzini, cui io stesso in quei giorni mi stavo sempre più affezionando,
l’India per lui era qualcosa di speciale, unico.
Io invece ero a zonzo per l’Asia da neanche due mesi e francamente
l’India mi intimoriva parecchio, per quanto ne subissi ovviamente il
fascino: quella moltitudine di persone sempre accalcate tra loro, le
condizioni igieniche drammatiche, la povertà e la miseria estrema, ma
anche la profonda sacralità, le usanze, i costumi di un popolo che nella
Storia ha avuto un ruolo importante, anche grazie a figure come Madre
Teresa di Calcutta e Gandhi.
A suscitare in me ancora più fascino erano poi i sadhu e i baba, quei
santoni dalla barba e i capelli lunghi, spesso con i dreadlocks, a metà tra
santoni e rockstar, con la fronte colorata e il chillum in mano. A volte nudi,
l’intero corpo cosparso di cenere sacra, con strani e colorati monili addosso,
collane di rudra, sciarpe arancioni con caratteri hindu, e poi bastoni con il
tridente, simbolo di Shiva.
Non ne sapevo nulla, ma in quei primi giorni nepalesi ne avevo già visto
qualcuno per le strade di Kathmandu e ne avevo subìto ancora di più il
fascino grazie a Charlie, un ragazzo irlandese divenuto baba proprio nella
capitale nepalese.
Chiacchierare con Charlie fu un’altra spinta verso l’India, perché a
spiegarmi tutte quelle sfaccettature era un ragazzo come me, anche se agli
occhi di molti si era solo fumato il cervello al punto da diventare un
santone.
Stavamo cenando insieme quando, parlando proprio del nostro amico
baba, Giona esordì:
«Tu pensa che Charlie è persino andato al Kumbh Mela!»
«Che cos’è il Kumbh Mela?» risposi io.
«Fra’, non conosci il Kumbh Mela? Hai presente le immagini di quei
baba che corrono nudi verso la Ganga per fare il bagno? Spesso, diverse
fazioni di baba finiscono a lottare per essere i primi a bagnarsi nelle acque
sacre; pensa che a volte sono arrivati persino a uccidersi tra loro! Be’,
quella scena avviene in quel raduno. E quel raduno si tiene ogni dodici
anni: do - di - ci anni, fra’!»
«Ogni dodici anni?»
«In realtà ogni tre, ma quelli più importanti si svolgono ad Allahabad e a
Haridwar, ogni sei e dodici anni, a ripetizione.»
«Deve essere estremo…»
«Lo è: immagina milioni di persone in riva alla Ganga ad accavallarsi gli
uni sugli altri in mezzo a tutto quel sozzume. Perché, non so se lo hai
capito, ma quello che ti aspetta in India è lo sporco vero, non ci farai più
caso una volta immerso tra le vie di Varanasi, ma non riuscirai mai ad
abituartici, perché tutto è fottutamente zozzo, fra’. Prova a immaginare
come deve essere la situazione a un raduno di quel genere.»
EDITH JOYCE
Dopo aver fatto colazione, compro un po’ di chapati per Giona e torno
sui ghat per rientrare in guesthouse, non prima però di essere passato in
agenzia viaggi.
«Mi dispiace, sir, non ci sono posti per il bus in direzione Sonauli, quel
giorno è Shivaratri.»
Benvenuto in India, il Paese che, grazie alla sua religione politeista e a
un numero indefinito di divinità (Shiva, Visnù, Ganesh, Parvati e tante
altre), ha sempre una scusa buona per trasformare un giorno come gli altri
in una giornata festiva.
Con questo aspetto della realtà indiana, così unico nel mondo, mi sono
scontrato bruscamente quando dovevo entrare per la prima volta in questa
nazione dal Nepal, al momento di chiedere il visto. Ero in coda
all’ambasciata quando lessi che per ottenerlo erano necessari dieci giorni
lavorativi, che però, complice il calendario indiano e le sue festività,
divennero ben presto oltre due settimane.
Nel caso specifico, Shivaratri è una delle festività più sentite dalla
popolazione indiana e anche da quella nepalese, tant’è che il principale
luogo dove celebrarla è Pashupatinath, il quartiere induista di Kathmandu.
Noi quel giorno avremmo voluto viaggiare proprio verso il Nepal: ottima
e tempestiva scelta, direi.
Quando rientro in stanza, Giona dorme pesantemente, così gli lascio il
chapati e un succo di frutta sul comodino mentre esco a farmi una doccia al
piano. Se le docce sono comuni, in questi paesi è meglio farle in mattinata,
quando il sole scalda maggiormente i pannelli solari e soprattutto nessuno
ha ancora consumato le riserve di acqua calda.
Mentre chiudo il rubinetto, sento che dal pianerottolo arriva una musica,
oltre a un chiaro odore di hashish, così esco con l’asciugamano ancora in
vita e mi ritrovo un cerchio di persone sedute in terra che stanno suonando e
fumando.
Tra di loro anche Giona, che mi fa cenno di sedermi.
«Ehi, fra’, grazie del chapati» bisbiglia.
La musica è davvero bella, un ragazzo indiano suona il sitar e un altro un
flauto. Si aggiunge una ragazza, picchiettando su un tamburello. La musica
va avanti per almeno una ventina di minuti in una jam session improvvisata,
uno dei regali più belli che un viaggiatore possa ricevere. Al termine,
scopro che il ragazzo che suonava il flauto è brasiliano, il suo nome è
Ricardo. Ho passato diversi mesi in Brasile e questa si rivela un’occasione
per parlare dei rispettivi Paesi, dato che lui ha fatto un’esperienza in Italia
simile alla mia.
Adoro queste situazioni da ostello: pura contaminazione internazionale,
vibrazioni, energie, melting pot, una miscela esplosiva!
«Giona, ho una cattiva notizia: non ci sono bus per Sonauli dopodomani,
il primo è fra tre giorni.»
«Cazzo, io ho l’aereo da Kathmandu fra quattro!»
«Mangiamo qualcosa e pensiamoci su. Andiamo da Karki: lui è
nepalese, potrebbe sapere come arrivare alla frontiera, magari con un
passaggio.»
«Ottima idea, prima ci beviamo un chai e poi andiamo a pranzo.»
***
Torniamo a piedi verso Assi Ghat, ma mancano ancora diverse ore prima
del tramonto e così passeggiamo sulle scalinate. Passiamo tra i naga baba, i
baba nudi se non per le collane di rudra, altri ancora che con il proprio pene
sollevano una sbarra su cui stanno altri baba o oggetti molto pesanti. Ma il
comune denominatore è sempre uno: chiedono soldi in cambio di foto.
Sembra che si mettano in vetrina, neanche fossero le prostitute nella
zona a luci rosse di Amsterdam. Francamente la cosa inizia a infastidirmi,
soprattutto quando noto, prestando maggiore attenzione, che tanti aspiranti
baba sono occidentali.
Mi torna in mente la storia di Charlie, ovviamente, ma non pensavo fosse
così frequente. Non sono nessuno per poter giudicare e tantomeno
comprendere il motivo di tali scelte, peraltro estremamente radicali.
Tuttavia, la massiccia presenza di questi adepti, gli iPhone nelle loro mani, i
Ray-Ban sugli occhi, anelli e collane da mercatino dei freak indosso, mi
fanno inevitabilmente sorgere qualche dubbio. Difficile comunque
giudicare questi sadhu, seguono una via incomprensibile all’uomo normale.
«Che ci sei venuto a fare in India, Mirko?»
«Credo nella medicina ayurvedica e pratico yoga e meditazione. Mi
capita spesso di venire in India.»
Parla con consapevolezza di principi ayurvedici e di pratiche meditative,
mi sembra una persona molto sveglia e soprattutto sensibile, sarà un ottimo
compagno di viaggio.
«Hai sentito delle tensioni tra Pakistan e India?» chiede.
«Ci sono sempre tensioni tra questi due Paesi. Pensa che qualche anno fa
andai a visitarne la frontiera, dove ogni sera fanno parate molto pittoresche
con l’esercito. Ero in Punjab, in una delle zone dove il confine è più
tranquillo. Fatto sta che era così tranquillo che cinque giorni dopo misero
una bomba e sospesero gli spettacoli, proibendo alle persone di
avvicinarsi!»
«Credo che sia successo da poco qualcosa di simile, a dir la verità, e
penso che sia colpa degli indiani stavolta.»
«Trovare colpe in queste situazioni è sempre poco opportuno; ma che è
successo?»
«In Kashmir, sembra siano morti una quarantina di soldati a causa di un
attentato rivendicato da terroristi pakistani.»
«Sì, ma è una notizia vecchia. Già durante il volo mi sono accorto che
qualcosa non andava, perché non abbiamo sorvolato il Pakistan.»
«Hai ragione, ma oggi il primo ministro indiano ha dichiarato che
l’attacco verrà vendicato e ha sospeso ogni rapporto commerciale.»
«Alla vigilia dello Shivaratri?! Caspita, non siamo nel posto
propriamente più tranquillo allora…»
«Sei preoccupato?»
«Non più di tanto, ma domani sarebbe saggio evitare la zona del tempio
Kashi Vishwanath.»
«Il tempio d’oro, quello piantonato da innumerevoli poliziotti?»
«Esattamente quello. È l’unico tempio di Varanasi vietato ai turisti: è un
luogo sacro induista e in passato è stato oggetto di pesanti minacce di
terrorismo. Pensa, io riuscii a entrarci la prima volta che arrivai a Varanasi.
Non me ne vanto, ma è stata un’esperienza pazzesca, sotto diversi punti di
vista.»
«Raccontami.»
«All’inizio ero più preoccupato per i miei oggetti di valore, a dirla tutta.
Ovviamente all’interno del tempio sono vietate le fotografie, così dovetti
lasciare telefono e GoPro in improbabili cassette di sicurezza lungo la
strada. Ero con una ragazza italiana conosciuta qui e un suo contatto
indiano ci propose di entrare, incredibilmente senza chiederci alcuna rupia!
Era un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire e così consegnai,
non senza timori, i miei effetti personali a uno sconosciuto per strada. Mi
diede una chiave scassata e ricordo che sperai credesse nel karma e non si
approfittasse della mia fiducia derubandomi.»
«Vai avanti, che ora sono curioso.»
«Lasciati gli oggetti, passammo il primo controllo della polizia: ci
avvisarono che l’ingresso era riservato ai soli induisti, ma noi facemmo
finta di non capire. Il secondo controllo fu ben più duro: ci chiesero il
passaporto e iniziarono a schedarci; ci fu mostrato un cartello in cui si
ribadiva a chiare lettere che l’ingresso al tempio era vietato ai non credenti.
Poi la fatidica domanda: siete induisti? Non ce la feci a mentire del tutto e
dichiarai che stavamo studiando l’induismo in un ashram e che eravamo di
passaggio a Varanasi; poteva essere la giusta occasione di visitarlo, perché
fortemente motivati. Ci venne quindi richiesto, in tono molto severo, di
parlare della religione e di mostrare che effettivamente l’avremmo voluta
abbracciare. Fortunatamente, il giorno prima ero venuto a conoscenza della
storia e del ruolo di Ganesh, così passai l’esame.»
«Ganesh, la divinità con la testa di elefante!»
«Proprio lui. Comunque, una volta dentro, ci sentimmo subito
profondamente in imbarazzo. Quel tempio è un posto davvero sacro e
bellissimo, ma eravamo gli unici occidentali al suo interno. Ci fissavano in
continuazione, in attesa di nostri inevitabili errori. Ricordo che seguimmo
pedissequamente i movimenti delle altre persone, cercando di imitarle. Non
fu semplice. Un paio di benedizioni e ci ritrovammo con la fronte colorata
in pochi minuti. Pregammo non so quali dèi e ripetemmo gesti innaturali. Il
gioco durò poco, perché si accorsero della nostra ignoranza e ci chiesero, in
tono educato ma severo, di uscire.»
«Che storia!»
«Vuoi la verità? Francamente non lo ripeterei. Mi sono sentito
irrispettoso di una cultura e di una religione e non ero a mio agio. Mi sono
giustificato dicendomi che era un’esperienza da provare, che stavo facendo
il giro del mondo… In realtà mentivo anche a me stesso.»
«Non essere troppo duro con te stesso. Ma… ho capito bene? Il giro del
mondo?»
«Sì, ma questa è un’altra storia, te la racconto domani in viaggio. Quello
che invece ho imparato quel giorno è che, nonostante avessi sempre portato
rispetto per qualunque credo religioso e mi fossi mosso all’interno di quei
luoghi di culto con la dovuta cura e attenzione, avevo comunque violato un
luogo sacro. Non me ne pento, ma non ne faccio un vanto. A casa spesso
chiediamo rispetto per i nostri luoghi e oggetti di culto, ma poi siamo i
primi a non prestare attenzione quando ci troviamo nella situazione opposta.
Avevo violato quel luogo per curiosità, è vero, ma più di tutto per avere
questa storia da raccontare.»
Le novità.
L’imprevisto.
Gli incontri.
I contrattempi.
I rituali.
Le leggende.
I racconti.
I tramonti come quello che appare davanti ai miei occhi.
Ora.
***
Tornare in Nepal è come tornare a casa, tutto è sempre uguale, al suo posto.
Non è forse questa la definizione di casa?
Giro il mondo e trascorro meno di due mesi all’anno, per giunta non
continuativi, in Italia: che cos’è casa?
È con ogni probabilità quel luogo dove riesco a muovermi a mio agio,
senza pensare.
È quel luogo dove ritrovo persone, colori, profumi e li riconosco al volo.
È quel luogo dove tutto appare esattamente come l’ho lasciato, come
quando si torna da una lunga vacanza, le tapparelle abbassate e un poco di
polvere sulle mensole. Sul comodino ancora quel libro che mi sono
ripromesso di leggere.
Guardo fuori dal finestrino e il Nepal mi appare esattamente così: i
bambini che salutano a bordo strada, i cappelli degli anziani che sono tra i
più brutti al mondo, i camion colorati, le campanelle che suonano a ogni
puja.
Durante il viaggio, Mirko si guarda intorno, mentre Giona finalmente
riesce un po’ a dormire. Credo che anche a lui l’aria di casa faccia bene,
sebbene sia estremamente inquinata.
Passano diverse ore, ci fermiamo a pranzare.
«Che si mangia in Nepal?» chiede Mirko.
Io e Giona ci guardiamo negli occhi e iniziamo a ridere.
«Benvenuto in uno dei posti peggiori al mondo!»
«Si, è vero, ma te ne accorgerai solo dopo qualche giorno. A ogni modo,
non credo che qui abbiamo tanta scelta, puoi scegliere solo dal bhat:
vegetariano o no.»
«Che cos’è il dal bhat?»
«Tipo il thali indiano, ma molto meno gustoso.»
Il dal bhat consiste di diversi elementi, di solito serviti – come il thali –
in un piatto di acciaio molto grande con tre divisori: la parte del dal è uno
stufato di lenticchie, molto brodoso e liquido, mentre la parte del bhat è il
riso bollito.
Quando si è fortunati viene cucinato anche un pane arrotolato, chiamato
roti, ma immancabile è un mix di verdure miste bollite chiamato tarkari.
La zuppa di lenticchie viene solitamente mangiata mescolata insieme al
riso, con le mani. Non mancano ovviamente le spezie: coriandolo, curcuma,
aglio, zenzero e garam masala, ovvero grani di pepe nero e bianco,
cardamomo verde e marrone, noce moscata, chiodi di garofano, cannella,
zenzero e semi di cumino.
Viene servito nel piatto anche il gundruk: verdure fermentate e foglie
verdi.
«Giona, che ti è successo? È la prima volta che ti vedo mangiare un dal
bhat con tanto gusto!»
«Hai ragione, fra’, credo di stare finalmente meglio, mi è tornato
l’appetito. Forse è stato il bagno nel Gange, dovevo buttare fuori tutto, stare
male per poi riprendermi e ripartire! L’India stessa a volte è così.»
Non ne sono del tutto convinto, ma l’importante è che stia meglio.
La sera in casa siamo in una decina seduti per terra intorno al tavolo.
Fortunatamente, il menu non prevede dal bhat.
«Se facciamo la guesthouse, promettetemi che cucinerete sempre gli
gnocchi. Sono buonissimi, bravo Dharma!» esclamo dopo aver assaggiato il
piatto.
I ragazzi sono cresciuti con noi e hanno imparato a fare gnocchi e
tagliatelle, proprio come Karki a Varanasi.
«I tuoi gnocchi diventeranno i più famosi del Nepal.»
Passiamo la serata così, insieme, a sognare traguardi futuri, ridere,
scherzare, giocare, semplicemente volendoci bene.
***
***
***
Come spesso mi succede quando faccio i viaggi di gruppo, non rientro in
Italia con chi ha viaggiato con me, mi concedo invece qualche giorno per
poter godere in solitaria del posto. In genere non faccio il turista, mi prendo
un appartamento e vivo come una persona del luogo.
Questi ultimi dieci giorni a Sydney mi hanno fatto innamorare per la
terza volta e adesso, dopo aver girato il mondo, a trentanove anni, quale
scusa voglio ancora trovare per non fermarmi qui?
TRENTANOVE giorni.
Sono rimasto chiuso in casa, senza nemmeno poter uscire a fare il giro
dell’isolato.
Un’eternità.
Qualche giorno fa ho fatto un rapido calcolo: l’anno scorso ho trascorso
trentasei giorni in Italia; il resto, in giro per il mondo. Settantadue aerei,
diciotto Paesi visitati.
Non è stato facile accettare questo isolamento domiciliare. Quattordici
giorni con l’ansia per ogni colpo di tosse, impossibilitato a trascorrere
anche solo pochi minuti con mia madre, per non causarle un possibile
contagio. Chi non è mai venuto a stretto contatto con queste situazioni
fatica a comprendere le ansie e le preoccupazioni di chi potrebbe essere
stato un asintomatico contagioso: i miei recenti viaggi, i tanti aeroporti
frequentati, quella notte prima di raggiungere la vetta del Kilimangiaro a
condividere una stanza piena zeppa di escursionisti cinesi con la tosse.
I sensi di colpa.
Angoscia quotidiana interrotta solo da quel provvidenziale sms.
Due settimane di quarantena precauzionale, poi l’attesa di poter
effettuare il tampone, e infine l’attesa dell’esito: trentanove giorni in totale.
E, nel frattempo, tutti i viaggi che avevo programmato che saltano:
Giappone, Corea del Sud, Cappadocia, Marocco, Indonesia, Sud Africa.
Ma oggi si esce, finalmente.
Controllo il frigorifero: non mi serve nulla. Controllo la dispensa: sta per
finire la pasta, motivo più che sufficiente per andare a fare la spesa. Mando
qualche messaggio agli amici per poterci almeno salutare, tra la corsia dei
biscotti e quella dei detersivi.
Mi faccio la doccia ed esco.
Avevo ragione, il mio aspetto è più trascurato, ma il sorriso mi illumina
il volto.
Le strade sono semivuote, certo non come qualche settimana fa, ma
sembra comunque il tipico traffico della città che si svuota a Ferragosto.
Parcheggio la macchina, infilo i guanti di lattice e indosso la mascherina.
Il sorriso, da che illuminava la faccia, è ora nascosto.
C’è una fila di persone in attesa di entrare al supermercato.
È surreale, nient’altro da aggiungere.
Chissà se, quando lo racconteremo ai nostri ai figli, queste storie saranno
come quelle sulla guerra dei nostri nonni: ho i miei dubbi, di sicuro saranno
più noiose, dato che il nostro contributo, al netto degli operatori sanitari e di
quelli che hanno lavorato durante il lockdown, è stato quello di sederci
comodamente sul divano e fare il pane in casa o gli aperitivi via zoom.
Chissà come sarà il mondo quando tutto questo finirà? Questa domanda
continua a ronzarmi in testa da un paio di giorni.
***
***
Il fiume che attraversa Porto riflette luci dorate che mi riportano alla
mente le puja sul Gange.
Centocinquanta milioni di persone in un pellegrinaggio… Oggi cosa
sarebbe? Forse ho vissuto l’ultimo Kumbh Mela, in un certo senso, liberi di
assembrarci in migliaia sulle rive di un fiume.
E non solo il Kumbh Mela: avrei voluto sapere che quella in Islanda era
l’ultima aurora boreale, che quello a Sonauli era l’ultimo chai, che quella
corsa a Bondi era l’ultima e che non avrei avuto la seconda chance di salire
in cima al Kilimangiaro.
Del resto, la nostra vita è determinata proprio da questi momenti
indelebili.
Se sai che è l’ultima volta che vivi qualcosa, te la gusti tremendamente.
Vedo le cose ben chiare dinnanzi a me e so che da un giorno all’altro
potrebbe cambiare tutto.
Mi faccio una promessa, solenne.
Appena tutto questo finirà, avrò come minimo quarant’anni ed è giusto
che pensi a un ultimo grande viaggio.
Non deve esserlo per forza, ma vorrei viverlo pensando che lo sia.
Come l’ultima stagione per uno sportivo. L’ultimo ballo.
Ce ne potranno essere altri, diversi, migliori o peggiori, ma non importa.
Quello sarà l’ultimo.
Gli stimoli e la determinazione non potranno essere che diversi e più
forti.
Voglio tornare a esplorare il mondo come se fosse l’ultima volta.
Cerco tra i miei taccuini, da qualche parte ho elencato i viaggi epici che
mancano nella mia vita.
La Via della Seta.
L’Antartide.
Da Capo Nord a Cape Town.
L’Alaska.
Devo sceglierne uno solo, l’ultimo.
***
Non ho grandi dubbi: avendo girato il mondo da est a ovest, è giunto ora il
momento di attraversarlo da nord a sud.
Voglio che non sia solo un viaggio fine a sé stesso, voglio che ne
rimanga traccia.
Voglio poter sensibilizzare sulle tematiche ambientali, così come su
quelle umanitarie e, dopo quello che ci è toccato, perché no, raccontare
come il mondo è cambiato dopo questa pandemia, dall’Europa all’Africa
nera, dal primo al terzo mondo.
Sento che il tempo è maturo.
Ho viaggiato senza aerei, ho camminato senza parlare per oltre 2.000
chilometri, ho attraversato mezza Italia in bicicletta.
La scelta del mezzo connota l’essenza stessa del viaggio. E tutte le scelte
della vita sono allo stesso tempo delle rinunce. Il viaggio non fa eccezione.
Scelgo di tornare on the road e voglio farlo stavolta con un mezzo
leggendario, un’icona: un kombi Volkswagen, oppure una Harley Davidson,
o ancora un vecchio Defender.
Ricordo che su internet ho visto alcuni Defender camperizzati, potrei
riprendere il progetto non realizzato in Colombia, ma per attraversare le
foreste lapponi e la savana africana in un unico viaggio. La scelta è ormai
chiara e definita.
Da oggi ho un obiettivo, si lavora duro per questa nuova partenza.
Ho di nuovo un limite da oltrepassare, frontiere da riconquistare.
L’ultimo tassello di questo mondo che mi manca, per chiudere.
Un viaggio vissuto come se fosse l’ultimo.
Una nuova avventura.
Capitolo 12
Il giorno dei saluti arriva ben prima che io me ne senta pronto, ma la mia
vita sta riprendendo a scorrere secondo i vecchi ritmi, e mi porterà tra
qualche giorno da Kathmandu a Stoccolma. Li abbraccio forte e sento
un’energia più matura rispetto al passato, d’altronde, hanno ormai quasi
tutti vent’anni, sono dei giovani uomini. E io, alla soglia dei quaranta, sto
un po’ invecchiando.
Mi interrogo sul fatto che non ho figli e se questa cosa inizi o meno a
pesarmi. La gente che vive di viaggi come me, e soprattutto che vive in
viaggio, a volte sembra comprendere meglio la realtà e la vita; altre volte,
invece, finisce per vivere con maggiore leggerezza, dato che ha sempre e
comunque una via di fuga. Il viaggio può essere anche fuga: dalla realtà,
dalle sue critiche e dai diversi punti di vista. Più passa il tempo e più mi
accorgo che le vite a casa sono sempre le stesse, ma contestualmente anche
la mia è sempre la stessa, in luoghi e latitudini diverse, a volte sembra non
portare ad alcuna destinazione. Passano gli anni e gli amici costruiscono e
disfano famiglie. E io? Continuo a ripetermi che non è questo il mio
momento. Trovare il senso dell’equilibrio è estremamente difficile.
Scendendo verso la capitale, mi commuovo ripensando alle tante serate
con i miei fratellini nepalesi trascorse giocando a carte, a ridere e a
scherzare come se fossimo in una bolla. Anche questa situazione che appare
banale è invece intrisa di significato e soprattutto un giorno resterà un
ricordo indelebile, figlio sì dei tempi bui che stiamo vivendo, ma allo stesso
modo sarà un bel ricordo, uno di quelli di cui andare orgogliosi.
Ho imparato: ci sono voluti sette anni in viaggio e una pandemia per
comprendere più chiaramente il senso del mio essere qui.
È vero, finalmente assaporo ogni singolo respiro e ogni singolo dettaglio
di quello che mi circonda, mi osservo e vedo una persona maggiormente
presente ed equilibrata. Mi sento finalmente bene, sereno e con pochi
pensieri.
Nonostante la vita continui a stravolgermi i piani, sono ancora qui a
giocare la mia partita e questo è ciò che più conta in questo momento.
***
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Inserto fotografico
Varanasi
Stare dalla parte dei sogni porta a un’esistenza molto più piena e gratificante che inseguire
quell’effimera chimera sociale dei soldi.
Varanasi
La strada è proprio lì davanti a te. Basta una piccola scintilla per accendere la luce che ti indica la
via.
Allahabad
Mi meraviglio a osservare le rive affollate: mi appare un caos di colori che incanta e quasi
commuove.
Varanasi
Non sono più un turista, neanche un viaggiatore, sono un semplice uomo che si stupisce ogni giorno
di più della bellezza che mi circonda, della complessità dell’animo umano, delle relazioni che
genera.
Varanasi
Io mi nutro letteralmente di questi incontri, dei paesaggi, delle città, dei templi, dei boschi, delle
persone, di tutto ciò che, a prima vista, mi appare diverso. Ne sento un bisogno vitale.
Allahabad
E qui, su questa piccola barca, la circolarità della vita mi appare chiara ed evidente.
Varanasi
L’India, per quanto è vera, è un pugno nello stomaco e un tuffo al cuore.
Islanda
Avrei voluto stare ancora qualche minuto al freddo a contemplare non solo quell’aurora, ma anche il
cielo, le stelle, le nuvole, le distese infinite, quell’ultimo grande inconsapevole privilegio di libertà.
Allahabad
Se c’è una cosa che ho imparato da questa pandemia, è che siamo tutti gocce del medesimo mare.
Voglio credere che ne usciremo più soli, ma con la voglia di stare insieme.
Namibia
Tornare sulla strada impolverata, staccarmi dal mondo multimediale e digitale, godere
semplicemente della bellezza che mi circonda.
Kilimangiaro
Non so ancora quale sia il mio posto nel mondo, anche se so per certo che esiste. Forse,
semplicemente non è un luogo da cercare o una meta da raggiungere.
India
Forse è proprio viaggiare in un certo modo, dormire in certi posti e tornare in quei luoghi che un
giorno ci ricorderà ciò che siamo stati e che non potremo più essere.
Portogallo del Nord
La scelta del mezzo connota l’essenza stessa del viaggio. E tutte le scelte della vita sono allo stesso
tempo delle rinunce. Il viaggio non fa eccezione.
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L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Inserto fotografico
Copyright