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Il libro

V iaggiare è allargare i propri orizzonti, abbracciare culture diverse. L’ anno


appena trascorso ha ristretto drasticamente i confini di tutti noi,
costringendoci in spazi angusti, vietandoci gli abbracci persino dei nostri
cari. Per chi ha fatto del viaggio una filosofia di vita o addirittura una professione,
questa contrazione radicale della geografia quotidiana non ha significato solo la
rinuncia a qualche vacanza, ma una battuta d’arresto totale della propria attività e
una messa in discussione sofferta delle proprie scelte.
Come nel caso di Claudio Pelizzeni, che anni fa ha mollato una carriera sicura per
inseguire un sogno: non vivere di routine, cambiare prospettiva ogni giorno,
conoscere il mondo. All’improvviso, passa dall’abbraccio caotico delle folle sul
Gange al deserto spettrale delle strade della sua città, una delle più colpite dalla
pandemia; unico punto di osservazione che gli resta sul mondo: la finestra di casa
sua. Da quelle quattro mura, ripercorre con la mente le esperienze di viaggio più
significative e le lezioni apprese; ridisegna i suoi orizzonti nell’immediato,
riconsiderando mete vicine ma non per questo meno preziose; si proietta con la
mente nel futuro, rivedendo obiettivi e priorità. Perché il senso del viaggio non sta
nel raggiungere una destinazione, ma nella sua capacità di metterti alla prova e
cambiarti durante il cammino, costringendoti a guardarti dentro fino a vedere la parte
migliore di te: ciò che vuoi essere davvero. E non c’è lezione di vita più grande.
L’autore

Nato nel 1981 a Codogno, è cresciuto a Piacenza. Laureatosi


alla Bocconi, ha lavorato per quasi dieci anni in vari istituti
creditizi a Milano prima di licenziarsi per fare il giro del
mondo senza aerei. Durante il viaggio, ha lanciato il blog
Trip Therapy e i suoi video sono diventati virali sul web. Al
suo ritorno ha autopubblicato il racconto di quell’avventura:
L’ orizzonte, ogni giorno, un po’ più in là, che ha riscosso
subito grande successo. Da allora, viaggiare è per Claudio
non solo una passione, ma la vita stessa.
È anche autore de Il silenzio dei miei passi, il diario del suo Cammino di Santiago
compiuto con voto di silenzio, e del podcast Tuk Tuk. Insieme ad altri travel blogger
e giramondo professionisti ha fondato il tour operator SiVola.
triptherapy.net
www.sivola.it
Facebook: triptherapy
Instagram: triptherapy
YouTube: Trip Therapy Claudio Pelizzeni
Claudio Pelizzeni

SEMPRE DALLA PARTE DEI


SOGNI
Il viaggio non fa eccezione
A Nonna Lidia
Capitolo 1

Kibo Hut (Kilimangiaro National Park, Tanzania), 26 gennaio


2020
IL passo è buono e agile nonostante l’altimetro mi indichi che mancano
pochi metri alla soglia dei 4.000. Il paesaggio intorno inizia inesorabilmente
a cambiare: da quella che viene definita zona della brughiera, costellata di
piante ad alto fusto – tra cui i dendroseneci, che pare provengano addirittura
dall’era preistorica –, si entra chiaramente in quello che Innocent, la mia
guida, chiama «deserto della montagna». Qui la vita vegetale è limitata
unicamente a specie erbacee caratterizzate dalla sviluppata capacità di
adattamento a queste condizioni ambientali poco favorevoli. Gli alberi veri
e propri li abbiamo salutati quando abbiamo oltrepassato i 2.700 metri. Mi
volto per un attimo e intravedo a valle ancora un po’ di verde, mentre
davanti a me, proseguendo sul sentiero, si scorgono ormai solo roccia e
pietre, oltre alle nubi dense che celano la vetta.
«Pioverà anche oggi?»
In mezzo a muschi e licheni, al lato del sentiero, coglie la mia attenzione
una piccola piantina priva di fusto, con foglie pelose e spinose disposte a
rosetta. Tra le pietre color talpa affiorano invece alcuni ciuffi isolati di
quella che la mia guida definisce erba del deserto.
La varietà e i cambiamenti repentini della flora sono uno degli aspetti più
interessanti dell’ascesa al Kilimangiaro, perlomeno in questi primi quattro
giorni.
Temevo la salita, me l’aspettavo molto impegnativa, ma fino a oggi si è
rivelata alquanto facile da affrontare. Sono partito da Moshi, una piacevole
cittadina africana, a circa 1.800 metri sul livello del mare, e in tre giorni
sono salito attraverso la Marangu Route fino alla destinazione fissata per
oggi dopo pranzo: Kibo Hut, a 4.720 metri, il campo base prima dell’ascesa
in vetta.
La Marangu Route è una delle otto vie per la salita alla cima del monte:
un sentiero che si inerpica dalla foresta pluviale alle conifere, da un deserto
di pietre al cratere innevato di uno dei più importanti vulcani del pianeta.
Nonostante il Kilimangiaro sia annoverato tra le sette sommità del
mondo, non sto realizzando una sorta di impresa individuale; la realtà è
molto meno eroica: sto semplicemente testando un itinerario per un futuro
viaggio di gruppo da coordinare con il mio tour operator. A tal fine ho
scelto la Marangu Route: si tratta di una delle vie di ascesa più semplici,
dove non è necessario dormire in tenda perché ci si può fermare in piccoli e
spartani rifugi.
Ammetto che, se fosse stato un viaggio personale, forse avrei provato
l’ascensione dormendo in tenda, considerata la voglia costante di mettermi
in gioco.

Le prime due tappe sono state piacevoli. Sono passato dai 1.800 metri
sul livello del mare fino a circa 3.800, dalla foresta pluviale affollata di
scimmie fino ai boschi di montagna popolati di topolini che attraversano il
sentiero. Un percorso indubbiamente faticoso, ma, se fossi stato
maggiormente fortunato con il tempo, la fatica in realtà non si sarebbe fatta
sentire più di tanto.
Sposto lo sguardo verso la cima: le nuvole non lasciano intravedere
nulla, si può solo immaginare. La vetta mi appare ancora molto distante.
È certo che questo monte solletica, e non poco, la fantasia: sarà
probabilmente per il suo nome, Kilimangiaro. Il suo suono che sa di Africa
e ritmi tribali.
Sarà per come svetta sinuoso e ripido dalla piatta savana, ergendosi a
sfiorare i 6.000 metri di altezza con la sua cima spesso incappucciata di
neve, che si staglia libera da ogni altra catena montuosa, solitaria e unica.
Sarà perché è un vulcano, e uno tra i più belli del mondo, ma la vetta del
Kilimangiaro mi ha da sempre chiamato a sé.
La salita al Kilimangiaro è tecnicamente la più semplice sopra i 5.000
metri, nulla a che vedere con un’ascesa himalayana con corde e ferrate. Non
occorrono particolari capacità o conoscenze, servono solo un buon
allenamento, un fisico in forma e tanta determinazione quando poi
l’ossigeno sarà sempre più rarefatto.
L’allenamento… che cretino che sono…
Mi sono allenato una sola settimana, quella prima della partenza,
andando a correre tutte le mattine in spiaggia a Bondi. Mi trovavo a Sydney,
al termine di un viaggio su e giù per la terra infuocata dei canguri.
La forma fisica…
Mi guardo e so che ormai sono quasi cento chili: un quintale. Continuare
a viaggiare e spostarsi tra stagioni, fusi orari, climi e cucine diversi non
aiuta a rimanere in forma.
Scarso allenamento, scarsa forma fisica, non mi resta altro che la
determinazione a spingermi lassù.
La determinazione di certo non mi manca!
A volte sfocia in vera e propria cocciutaggine, come quella volta che,
partendo da casa, ho raggiunto l’oceano Atlantico a piedi con voto di
silenzio: quasi tre mesi e oltre 2.000 chilometri trascorsi senza parlare per
compiere il Cammino di Santiago dall’Italia, attraversando la Francia e la
Spagna.

«Ehi, sir.»
Innocent mi chiama, interrompendo il flusso dei miei pensieri, e mi
mostra il passaggio tra due sorte di dune.
«Siamo a 4.000 metri, proseguiremo in quel pianale e poi ci fermeremo a
pranzare dietro quella discesa, a circa 4.300 metri di altitudine.»
Ecco, quasi mi perdo il traguardo dei 4.000 metri.
Mi piace fantasticare e perdermi tra i pensieri e i ricordi mentre
cammino, mi dà forza in giornate come questa e mi permette di allontanare
le preoccupazioni: l’ascesa finale è infatti prevista per stanotte e queste
sono ore determinanti.
Nella mia testa c’è il timore di rientrare in quella minima percentuale di
persone che non riuscirà nel suo intento: preoccupazione che fa
letteralmente a botte con l’obiettivo di non vivere condizionato dal giudizio
altrui. La verità è che sono proprio terrorizzato di finire in quell’esigua
percentuale.
Innocent mi propone una pausa, ma poiché ho buon fiato e passo agile,
preferisco soprassedere e continuare. L’arrivo è previsto intorno alle due del
pomeriggio e, prima giungerò al campo, più tempo avrò a disposizione per
riposarmi. A mezzanotte è fissata la partenza successiva: dall’ultimo campo
base, Kibo Hut, a 4.720 metri, verso la sommità del cratere.

Dopo l’Acatenango in Guatemala, mi ero ripromesso di non scalare mai


più un vulcano in vita mia. Ci salii cinque anni fa, quando arrivai per la
prima volta nella mia vita a sfiorare i 4.000 metri con le mie gambe,
partendo dalla città di Antigua Guatemala e raggiungendo la sommità di
quel vulcano in meno di ventiquattr’ore.
I vulcani sono davvero bastardi perché, a differenza dei trekking
himalayani pieni di salite e discese, non danno tregua, sono un continuo e
costante salire, con i polpacci che bestemmiano. Di quel giorno in
Guatemala ricordo che l’ascesa fu dura, ma riuscii a trascorrere la notte in
un plateau dove montai la tenda a circa 300 metri dalla vetta: era una vera e
propria posizione strategica e privilegiata, poiché la notte mi ritrovai ad
ammirare l’eruzione del vicino Volcán de Fuego. Ogni eruzione era
preceduta da un suono simile a tuoni; giusto il tempo di accendere la
macchina fotografica e gli zampilli iniziavano a schizzare nel cielo nero,
mentre la lava incandescente scendeva lenta.
Qualche settimana più tardi, mi trovavo invece in Nicaragua a tentare la
scalata proibita al vulcano Concepción. Proibita non perché difficile bensì
pericolosa, in quanto il vulcano è ancora ben attivo. In quel caso furono
2.000 metri di dislivello in poche ore, l’ennesima sfiancante salita con
annesse imprecazioni dei polpacci.
Fu lì che promisi a me stesso di non farlo mai più. Tuttavia, quella
promessa prevedeva una dovuta eccezione: come potevo precludermi di
scalare il Kilimangiaro?
La bellezza di questo luogo in primis e poi la possibilità tangibile di
sfiorare i 6.000 metri con le proprie gambe hanno da sempre catturato i miei
desideri, ma è stato solo qualche settimana prima dello scorso Natale che
l’opportunità di salire quassù si è concretizzata. Mi trovavo per pochi giorni
a casa e mio fratello, tra una chiacchiera e l’altra, mi ha suggerito di
organizzare un viaggio di gruppo in Tanzania.
L’idea era di includere anche l’ascesa al Kilimangiaro, oltre ovviamente
a un safari e a qualche giorno di relax in una delle mie isole preferite al
mondo, Zanzibar, dove mio fratello aveva aperto da poco un chiringuito in
spiaggia.
Fuoco alla miccia.
Mi sono informato subito e ho scoperto che la salita in vetta – e ritorno –
richiedeva solo sei giorni. Dato che avevo già toccato con mano cosa
significasse portare persone a 5.000 metri o poco più sulle Ande quando mi
trovavo in Perù, ho ritenuto saggio e prudente tentare autonomamente la
salita e soprattutto testare sulle mie gambe cosa stavo per proporre.
E ora eccomi qui. Da questo punto si intravede in lontananza il campo
base: a occhio e croce potrebbe essere sufficiente un’oretta di cammino, ma
Innocent mi ammonisce, confidandomi che adesso iniziano i problemi.
Innocent è un ragazzo di venticinque anni, fa la spola tra i safari a
Ngorongoro e Serengeti e le nevi del Kilimangiaro. Il suo inglese è di quelli
zoppicanti imparati lavorando con i turisti di mezzo mondo, ma
chiacchierare con lui mi mette di buonumore. È una persona molto
disponibile e gentile, sempre attenta alle mie esigenze, anche se talvolta un
po’ troppo premurosa.
Io invece scalpito e, dopo aver mangiato un panino fritto con uova e
formaggio, mi rimetto lo zaino sulle spalle e riprendo la marcia. Corvi
giganteschi prendono il nostro posto, piluccando briciole di cibo qua e là.
Questa immagine mi ricorda l’angosciosa litania della poesia Il Corvo di
Edgar Allan Poe: quei «mai più» infiniti che il corvo ripete al protagonista
della poesia, il cui unico scopo è cercare disperatamente di aggrapparsi a
qualcosa.
A volte mi sento così, mi interrogo sulla mia vita e i miei viaggi intorno
al mondo, curioso e spavaldo. A volte tutto questo viaggiare è
destabilizzante, e in questo momento mi sento in equilibrio precario.
Proprio come il protagonista di quella poesia, anch’io mi guardo intorno e
cerco risposte, o anche solo una consolazione, una qualche certezza. Ma a
volte la risposta che trovo è quella sentenza del corvo.
Mai più.
Perché nulla può andare diversamente.
La testa inizia a girarmi molto forte e di colpo sento una fitta allo
stomaco. Faccio un respiro profondo perché al capogiro seguono nausea e
senso di vomito. I passi si fanno lenti e pesanti, temo un’intossicazione
alimentare proprio quando sono a pochi metri dal campo base.
«Ma come vi viene in mente di darci da mangiare un panino fritto a
queste altitudini?» inveisco contro Innocent. «È difficile da digerire, il
sangue si concentra nello stomaco e si comincia a percepire freddo negli
arti, mani e piedi specialmente!»
Le mie invettive si trasformano presto in ira. Mi rendo conto che la mia
lucidità se n’è andata quando Innocent ribatte spiegando che si tratta
dell’altitudine, non del cibo.
Mi trascino letteralmente fino al termine della tappa odierna, tremo per il
freddo e, a suon di fitte costanti, il mal di testa terribile non mi lascia
nemmeno ragionare. Fisso il cartello di arrivo – «Kibo Hut, 4.720 metri sul
livello del mare» – ma non ho nemmeno la forza di scattare una foto, mi
limito a guardarmi indietro e a osservare il sentiero percorso, come sono
solito fare.
Anche se sono tra i primi a giungere al campo base, ci sono già tante
persone e tende montate, poiché è l’interbase tra l’ultima salita e la discesa
che il giorno dopo riporta al campo da cui sono partito oggi,
l’accampamento di Horombo, mille metri più in basso.
Nei giorni scorsi ha piovuto in abbondanza ma, nonostante sia a 1.200
metri dalla vetta, non c’è neve a questa altitudine. Significa che la
temperatura è al di sopra degli zero gradi, eppure sento un freddo terribile:
pessimo segno, perché indosso praticamente tutto quello che ho portato con
me nello zaino.
Mi infilo in fretta nel sacco a pelo e cado in un sonno profondo, quasi
intorpidito.
Quando mi sveglio qualche ora più tardi, la stanza inizia a popolarsi di
persone, perlopiù cinesi, che fanno un gran chiasso e tossiscono forte. Mi
alzo, sto decisamente meglio, anche se il mal di testa non mi dà tregua;
perlomeno mi sono riscaldato, e così esco. Ora il campo base è decisamente
affollato, ci saranno almeno duecento persone. Sebbene sullo sfondo si stia
aprendo uno squarcio nel cielo e i raggi del sole illuminino la valle, iniziano
a cadere i primi grandi fiocchi di neve.
Sono in Africa, in Tanzania, a quasi 5.000 metri. Quei raggi caldi
illuminano elefanti e giraffe. Alle mie spalle, invece, la neve copre la
sommità del suo monte più alto.
Mi fermo a osservare. Che vita strana e pazzesca mi sono creato.
Dieci giorni fa ero in Australia, per le vie della città che più amo al
mondo, a realizzare per una settimana uno dei miei più grandi sogni: vivere
di fronte all’oceano, a Sydney. Poi il viaggio di ritorno con scalo ad
Amsterdam, dodici ore in quella città, a girare per i canali all’alba prima di
rinchiudermi in un meritato coffee shop e rischiare di perdere il volo per
l’Italia addormentandomi sul tavolino. In Italia, giusto il tempo di rientrare
a casa e cambiare i vestiti nello zaino, una classica nebbia da Val Padana ad
attendermi e l’immancabile pizza dopo ogni viaggio. E poi via, in volo
ancora per Amsterdam, uno scalo stavolta di poche ore, e quindi in Africa.
Quattro giorni dopo sono qui, a osservare la neve che cade al campo base di
Kibo Hut.
Scoppio a ridere di gusto. Quanto è bello vivere queste emozioni?
I piedi che iniziano a ghiacciarsi e le preoccupazioni che riaffiorano mi
riportano ben presto alla realtà.
Come posso essere stato tanto stupido da prendere con me solo un
piumino così leggero per questa avventura? Sono in Africa, ma pur sempre
a 5.000 metri.
Mi maledico e stramaledico per la sfrontatezza che spesso denota le mie
scelte.
Prima o poi la pagherò, e ne sono certo: potrebbe essere questa la volta
buona.
Notando la gran quantità di rifiuti plastici nel campo, mi viene però
un’idea: chiedo a Innocent due buste di plastica e torno in camerata. Le
metterò tra la prima e la seconda calza, per evitare di bagnarmi e
congelarmi i piedi.

Il sole sta ormai tramontando quando è il momento di provare a dormire


le ultime ore prima della levataccia di mezzanotte. Mi aspettano 1.200 metri
di dislivello in circa otto ore; ho fatto di peggio nella vita, ma mai a questa
quota.
Faccio fatica a dormire: i continui colpi di tosse dei miei compagni di
stanza e la preoccupazione per la possibile ipotermia non mi fanno prendere
sonno. Alle 23.30 suona la sveglia, mi alzo e inizio il processo di
vestizione: indosso solo una delle due maglie termiche, in modo da
preservare l’altra asciutta; aggiungo due pile, il piumino e per ultimo il
guscio in goretex per bloccare vento e neve. Mi metto i guanti e le due paia
di calze separate dalla busta di plastica.
La glicemia nelle ultime ventiquattr’ore è incontrollabile, probabilmente
perché il freddo rende inefficace l’insulina. Fatto sta che, prima di fare
colazione, i valori sono piuttosto alti, quindi, considerando che solitamente
mi viene offerto del dolcissimo riso con latte, il porridge, mi inietto una
dose superiore al previsto in modo da poter gestire al meglio il diabete in
questa difficile salita.
Innocent arriva in stanza. «Claudio, come stai? Sei pronto? Ora fai
colazione e poi ti aspetto fuori a mezzanotte e mezza. Ricordati: passi lenti
ma costanti, non fermarti se non quando te lo dico io, e soprattutto non fare
mai durare le pause più di qualche minuto.»
Annuisco e finisco di prepararmi.
Entra Karl, un ragazzo sempre sorridente che mi serve da mangiare. Mi
ricorda il giocatore brasiliano Ronaldinho e proprio come lui riesce a
mettermi allegria, ma questa si spegne subito quando vedo la colazione che
mi aspetta, ovvero popcorn e tè caldo: semplicemente troppo poco cibo per
l’insulina che avevo iniettato e la salita che mi aspetta.
Oltre alle paranoie relative al freddo, al dislivello, alla salita,
all’ossigeno rarefatto, ora anche quella riguardante il diabete e la risposta
del mio fisico. Esco arrabbiatissimo e urlo a Innocent: «Questa la chiami
colazione? Te l’ho detto che sono diabetico, devo avere tutto sotto il
massimo controllo per gestire il mio fisico, e ora rischio di non salire in
vetta perché non mi hai detto che anziché la colazione avrei avuto solo
popcorn e tè!»
«Mi dispiace, sir…»
Lo guardo in cagnesco.
«Andiamo!»
Non siamo tra gli ultimi a partire dal campo base; quando mi volto verso
il fianco della montagna, intravedo una carovana di luci avanzare,
disegnando una lunga serpentina umana. Faccio un respiro profondo e mi
accerto di avere a disposizione alcuni zuccheri di emergenza: biscotti, un
succo e qualche caramella.

Il diabete mi accompagna dall’età di nove anni.


Una vita insieme a una patologia che anziché frenarmi mi ha sempre
dato l’opportunità di spingermi oltre. A conti fatti, credo che questa malattia
mi abbia addirittura migliorato: iniettarsi insulina tutti i giorni, quattro o
cinque volte al dì, è come farsi una piccola iniezione di vita. I diabetici
sanno che un errore può costare molto caro, il prezzo può addirittura essere
la vita e forse proprio questa consapevolezza mi ha sempre spinto a viverla
al massimo.
Certamente è una patologia che va gestita e affrontata con il giusto
raziocinio. Il rapporto fra le dosi di insulina e il cibo da ingerire è qualcosa
che durante un trekking assume un’importanza fondamentale, dato che non
ci si può approvvigionare di zuccheri e cibo come in un qualsiasi bar in
fondo alla strada.
A causare i pericoli maggiori sono le ipoglicemie improvvise, quelle
crisi in cui capita di colpo di impallidire, sudare freddo e perdere lucidità: si
può rischiare seriamente di morire. Boli di insulina e indici glicemici sono
sempre presenti nella mia testa. Convivere con il diabete può farti crollare,
ma io ne ho tratto una forza impensabile. Coniugare la vita in viaggio con
questa patologia non è oggettivamente semplice, tuttavia me la sono sempre
saputa cavare, dovendo fronteggiare da solo anche queste potenziali
situazioni critiche.
Una volta me la sono vista davvero brutta durante un trekking molto
impegnativo. Mi trovavo a Torres del Paine, nel profondo sud del Cile, in
quella zona del mondo chiamata Patagonia. Avevo dovuto pianificare una
camminata di quasi centocinquanta chilometri in nove giorni: sei, a volte
otto ore di cammino al giorno, con diciotto chili di zaino sulle spalle,
dislivelli spesso importanti e l’impossibilità apparente di reperire provviste.
La pianificazione era stata tosta, mai mi ero avventurato in qualcosa del
genere, ossia gestire scorte alimentari in funzione del peso dello zaino per
così tanto tempo. Avevo optato per colazioni energetiche a base di caffè e
biscotti, pranzi con panini e cene con riso, olio e formaggio. In linea di
massima la soluzione adottata era congeniale al peso e allo sforzo, tuttavia,
fin dal primo giorno, il consumo di energie si rivelò superiore alle
aspettative e dovetti abbassare drasticamente le unità di insulina, proprio
come in questi giorni sul Kilimangiaro. Ogni sera passavo mezz’ora a
programmare la giornata successiva e a valutare quando e quanto mangiare
regolando la quantità di questo ormone.
Non è semplice.
Una mattina mi aspettava una salita di tre chilometri con un dislivello di
800 metri. Sarei arrivato in cima a una vetta da cui godere di una splendida
vista e poi sarei tornato all’accampamento. Avevo pianificato due ore di
cammino. Partii scarico, senza zaino, solo con un succo di frutta in tasca per
sicurezza.
Mi sbagliai.
Ci misi quasi tre ore e mezzo e l’alto dislivello iniziale mi causò
un’ipoglicemia dopo una ventina di minuti di cammino. Il succo di frutta fu
provvidenziale, ma da quel momento in poi non avevo più soluzioni di
emergenza.
L’errata pianificazione fece il resto.
Arrivai in vetta con un valore di zucchero nel sangue al limite della
soglia di ipoglicemia. Il percorso di ritorno era di almeno un’ora e mezzo,
fortunatamente in discesa, ma non privo di consumo energetico. La mia
unica soluzione era non perdere la calma e gestire al meglio le energie.
Misurai ogni singolo passo e lavorai tanto con la mente. Mi muovevo con
passo lento e felpato. Dopo quasi un’ora, la glicemia era scesa sotto i livelli
di guardia. Ero in forte ipoglicemia e, proprio in mezzo alle montagne,
stavo iniziando a sudare freddo. Non ero solo, ma i miei compagni, come
me, erano partiti senza alcuna provvista.
Ricordo che mi sedetti, cercando di analizzare la situazione. Frugando
nel marsupio trovai briciole di biscotti e una vecchia confezione di noci.
Ribaltai tutte le tasche, qualsiasi residuo commestibile andava bene.
Ripartii, senza alternative.
Arrivai all’accampamento pallido e senza forze, precipitandomi nella
tenda per recuperare forze e zuccheri. Il dulce de leche che mangiai mi
sembrò il migliore del mondo!
Andò a finire bene, ma probabilmente è stata l’esperienza più difficile di
tutta la mia carriera di viaggiatore diabetico. Nonostante avessi pianificato a
fondo il percorso, purtroppo avevo commesso uno sbaglio.
Esattamente come stanotte: importante dislivello e troppa insulina
rispetto al cibo ingerito. La mia flebile speranza è che il freddo abbia ridotto
l’efficacia dell’iniezione.
Iniziamo a salire.

Le tenebre non offrono punti di riferimento. Sono concentrato sui miei


passi e sul ritmo da mantenere; seguo Innocent, che avanza lento e costante
in modo da non affaticarmi troppo. Il mio unico orientamento è l’altimetro,
che piano piano si avvicina ai 5.000 metri. Devo urinare praticamente ogni
mezz’ora, complice il diabete e il freddo, ma è un buon modo per riprendere
fiato e concedermi piccole pause.
Il sentiero appare nero come la pece, ma intorno è tutto candido, stiamo
decisamente salendo. Per fortuna non nevica e non tira il forte vento che di
solito contraddistingue l’ultima salita: sulla carta, le condizioni sono ideali.
Il respiro, tuttavia, si fa sempre più affannoso e le palpitazioni del cuore
aumentano. Facciamo una sosta per celebrare i 5.000 metri superati, il
punto più alto raggiunto nella mia vita con le mie gambe.
La serpentina di luci sembra un presepe, molti sono più a valle, ma tanti
anche più in vetta e la distanza tra gli uni e gli altri sembra sempre
maggiore. I pensieri che mi sfiorano in questi momenti sono molti e difficili
da decifrare: passo da attimi in cui maledico me stesso e le mie scelte per
essermi trovato su questa salita a stati di improvvisa euforia.
Il dislivello è costante ma non troppo ripido, tuttavia mi rendo conto di
non riuscire a camminare per più di qualche decina di metri senza dovermi
fermare. Il sensore che misura la glicemia non funziona e così aumentano
ancora di più le preoccupazioni e i pensieri. Mi chiudo in me stesso, cerco
la forza nell’anima e nel passato, in quello che ero, quello che sono e quello
che sarò una volta raggiunta quella vetta. I pensieri funzionano come una
bolla, proteggono e permettono di andare avanti senza continuare a
guardare l’altimetro o gli escursionisti più in quota.

Sento delle urla, all’improvviso.


Sono grida di gioia e capisco di non essere troppo lontano. Sono
trascorse cinque ore dalla partenza ed effettivamente Innocent mi aveva
pronosticato l’arrivo al cosiddetto Gilman’s Point per l’alba, intorno alle sei
del mattino. Manca poco, ma non sento più le gambe, si muovono solo ed
esclusivamente per inerzia, il respiro è estremamente affannato, il cuore ha
un battito molto sostenuto e l’unica cosa che mi spinge ad andare avanti è la
mente.
Vai, cazzo, dai!, continuo a ripetermi.
«Sei arrivato quasi in cima, da qui in poi non si torna più indietro» mi
informa Innocent. Non ho la forza di chiedergli il perché di tale notizia,
improvvisa e disarmante. Testa bassa e continuo a camminare.
Proprio la testa torna a farmi prepotentemente male, fitte fortissime alle
tempie e un pulsare continuo sulla fronte, ma vado avanti. Inizia a
intravedersi all’orizzonte un filo di luce, le tenebre non sono più così buie e
soprattutto mi rendo conto che, guardando in alto, la terra finisce. Non sento
urla di gioia o simili, per cui penso che sia solo un’illusione ottica, un
gradino di roccia e la prospettiva che mi impedisce di vedere oltre.
Seguo il sentiero, curvo a sinistra e poco dopo a destra. Per la prima
volta mi devo aiutare con le braccia, le alzate si fanno più grandi, ma
intravedo un cartello.
Sto crollando, letteralmente.
Non riesco a crederci, è la vetta!
Piango, come un bambino.
«Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta, ce l’ho fatta!» grido.
Il respiro è affannoso e costantemente interrotto.
«Congratulazioni, sir!»
Con la mano tocco il legno portante del cartello, mi appoggio e guardo
indietro: il sole sta per sorgere, la luce mostra con chiarezza che non ci sono
nubi intorno per la prima volta in questi cinque giorni. È un nuovo, grande
traguardo della mia vita e per un secondo torno a ripensare a quello che ero
prima di quella folle decisione di licenziarmi, mollare tutto per inseguire i
miei sogni. Ripenso al fatto che oggi è lunedì, e solitamente quest’alba la
vedevo sonnacchioso da uno scompartimento del treno, andando a lavorare
in giacca e cravatta, maledicendo una vita che odiavo e che, giorno dopo
giorno, mi faceva odiare sempre di più me stesso.
È la stessa alba, è lo stesso sole che sorge.
Ogni giorno, per sempre e da sempre.
Ma questa è ben diversa, questa ha gusto e sapore, questa è viva come i
miei respiri affannosi che mi fanno essere fottutamente grato della vita, di
quello che sto vivendo, delle emozioni che sto provando.
«Ehi, sir, dobbiamo continuare.»
Innocent interrompe il flusso dei miei pensieri e allora, prima di ripartire,
scatto qualche foto in quel punto, Gilman’s Point: un cartello di legno a
scritte gialle, quello che ogni giorno ha sancito la fine di ogni tappa, il
termine delle difficoltà, l’arrivo, il meritato riposo. Oggi quel cartello,
coperto in buona parte dalla neve, sancisce l’arrivo al cratere del
Kilimangiaro, a 5.880 metri.
Mancano solo quindici metri di dislivello per salire al picco più alto,
Uhuru, e Innocent mi sprona a raggiungere proprio quel punto. Sono in
estasi e contemporaneamente a pezzi, così lo seguo ma non senza qualche
remora. Alla nostra destra il magnifico cratere, gigantesco e ricoperto di
neve soffice: viene la tentazione di lanciarsi giù e abbandonarsi. Sul fianco
sinistro sorge il sole a illuminare la nostra vetta e la gigantesca pianura
sottostante.
Ma ci pensi? Lì sotto ci sono leoni, elefanti, zebre e rinoceronti!
E qui in vetta, tra queste nevi, la leggenda vuole che sia stata ritrovata la
carcassa congelata di un leopardo. Nessuno ha mai saputo spiegare cosa
cercasse il leopardo a questa altitudine, se lo chiese anche Hemingway. Il
pensiero che mi solletica è che quell’animale sia stato mosso da quello che
sto provando io in questo momento. Quassù, sulla vetta occidentale detta
Masai Ngàie Ngài, Casa di Dio, una sensazione anima il mio cuore e –
credo – quello di tutti gli esseri umani intorno: è davvero ciò che di più
simile alla pace dei sensi abbia mai provato.

Finalmente la pendenza diminuisce. Il bordo del cratere è un falsopiano e


Innocent mi mostra il punto da raggiungere: è piuttosto lontano e sento di
non averne la forza necessaria. Camminiamo nella neve battuta solo da chi
ci ha preceduto, pertanto in alcuni punti la gamba affonda. Sono i momenti
peggiori, quando succede mi prende un vero e proprio scoramento. Mi sento
debole, temo una grave ipoglicemia, perciò mi fermo a mangiare qualche
biscotto. Innocent mi ammonisce, sto andando troppo lento e mi fermo
troppo spesso, mi esorta a bere più acqua per combattere il mal di
montagna. Mi gira la testa e allo stesso tempo la sento pulsare fortissimo, le
gambe e le ginocchia sono molli e pesanti, non ce la faccio.
«Ehi, Innocent, vuoi la verità? Non me ne frega niente di andare a fare
una foto a un cartello! Sono arrivato a quindici metri dalla vetta, non è un
selfie o un numero a celebrare la grandezza di un’impresa.»
«Sir, devi continuare, puoi farcela, bevi acqua, una volta lassù capirai.»
Bevo, ma non ce la faccio.
Ormai mi fermo ogni dieci metri, le gambe sono pesantissime e mi sto
letteralmente trascinando. La pendenza sembra addirittura piegare verso il
basso, quindi per tornare indietro dovrò percorrerla in salita e il pensiero di
questa prospettiva mi sfianca. Senza contare il ritorno in discesa a valle:
devo tornare non solo a Kibo, ma anche a Horombo, ovvero scendere la
bellezza di 2.200 metri di dislivello prima del tramonto.
Il sole splende su un letto di morbide nubi quando arriviamo a quello che
viene chiamato Stella Point. Tuttavia, osservando il cartello, perdo
completamente le staffe.
«Ma come sarebbe a dire 5.756 metri? Mi hai preso in giro, dannato
Innocent, siamo scesi! E ora mi vuoi convincere a risalire ancora di 150
metri per una dannatissima foto a un cartello?! Io mi fermo qua, non vado
avanti! Tu vai, se vuoi, ti aspetto qui!»
Il cielo è azzurro, le poche rocce visibili sono nere come le spiagge
d’Islanda, la neve intorno si miscela con le nuvole candide.
Credo che Innocent non mi sopporti più. Lo insulto, ma lui sembra
magnanimo e comprensivo. Più inveisco e più è gentile con me e, a costo di
trascinarmi, mi spinge ancora un po’ avanti.
«Innocent, per l’ultima volta: tornerò qui con un gruppo il prossimo
novembre, ci sarà una seconda occasione, arriverò più allenato e soprattutto
sapendo cosa mi aspetta, conserverò le energie per quest’ultimo tratto. Ho
visto tante cose belle nella mia vita, non mi serve una foto in più sotto un
dannato cartello piantato quindici metri più in alto della vetta del cratere
che ho raggiunto. Tutti i giorni mi batto per considerare quello che vale
dentro di noi e non quello che fa piacere alla gente!»
«Sir, non sono quindici metri in più! Ora bevi dell’acqua, idratati, perché
il mal di montagna è pericoloso. E poi muoviti, non te ne pentirai, smettila
di fare il codardo. La verità è che non vuoi affrontare realmente l’ultimo
passo per raggiungere il tuo obiettivo. Questa potrebbe essere la tua unica
occasione e potresti rimpiangerla tutta la vita. Il futuro è imprevedibile, il
tuo momento è qui, ora!»
Testa bassa e camminare, passo dopo passo.
Raggiungo il punto fatidico, Uhuru Peak: il cartello dice chiaramente che
sono arrivato nel punto più alto d’Africa, una delle sette sommità del
mondo, 5.895 metri sul livello del mare, con le mie gambe.
«Grazie, Innocent!»
Lui sorride sornione, ha capito che la mia è stata solo perdita di lucidità
dovuta all’altitudine, chissà quante altre volte gli sarà capitato.
«Dai, scattiamo questa foto insieme!»
Quassù, dove posso ammirare tutta l’Africa, un punto tanto alto da far
venire i brividi.
Quassù è semplicemente pazzesco.
Mi dimentico in un batter d’occhio di tutta la fatica compiuta, di tutti gli
sforzi e le imprecazioni, mi limito come sempre a guardarmi indietro e a
fissare quel punticino da dove sono partito. Lo osservo e realizzo che, fin
qui, ci sono arrivato con le mie gambe ma ancor di più con la mia forza di
volontà, con caparbietà e determinazione.
È la testa a fare la differenza, sempre.

Dopo aver scattato qualche foto e girato alcuni video, riprendo il


cammino per la discesa. Il più grande obiettivo è stato raggiunto, ma la
giornata è ancora lunghissima. Ora il cratere è sul nostro fianco sinistro. Il
respiro è costantemente affannoso, ma finalmente riesco a camminare per
più di venti metri senza dovermi fermare.
Il cielo è coperto, le nuvole si sono alzate e tira un’aria gelida.
Quando torniamo al primo cartello, il Gilman’s Point, mi giro per
rivivere ancora un istante il momento in cui ho raggiunto la vetta. Il vento
adesso ha ripulito la scritta e noto che l’altitudine in quel punto è di 5.690
metri, non i 5.880 che pensavo: la differenza tra quel punto e la vetta è di
ben 200 metri!
«Scusami, Innocent, se ti ho insultato e mi sono arrabbiato con te: non
avevo capito, avevo letto male, l’altitudine mi ha dato alla testa.» Sono
mortificato, mi rendo davvero conto di aver esagerato nei suoi riguardi.
Innocent mi abbraccia. «Nessun problema, sir, succede spesso quassù.»
La discesa distrugge le ginocchia e sembra davvero infinita, tuttavia,
man mano che decresce l’altitudine, sia il fiato sia la mente tornano a livelli
accettabili.
Ripenso alla mia vita condensata in quei pochi giorni e in quelle poche
ore in vetta.
È vero, tornerò quassù tra qualche mese, ma la cosa più gratificante è
esserci riuscito oggi. La sfida, quando viene condivisa, è talvolta più
leggera perché ci si aiuta e ci si sostiene a vicenda.
Il 95% circa delle persone che tentano la salita del Kilimangiaro riesce
ad arrivare fino a Gilman’s Point; di queste, solo il 10% non arriva poi a
Uhuru Peak, principalmente perché impiegano troppo tempo a raggiungere
il primo cartello e a un certo punto si rende necessaria la discesa per non
tornare con l’oscurità.
Francamente, non mi sarei mai perdonato di finire in quel 10%, ma
questo la dice lunga su questa esperienza. La salita non è tecnicamente
difficile, il sentiero è semplice e fattibile. Ciò che può impedire l’ascesa è
solo il mal di montagna, e soprattutto la mente.
Scalare il Kilimangiaro è tutta una questione di testa, di determinazione.

Il giorno dopo arriviamo a Moshi, dove tutto è iniziato sei giorni fa, e
passiamo nell’ufficio del parco, dove Innocent mi firma il certificato
ufficiale.
«Complimenti, sir.»
«Mi raccomando, Innocent, ci vediamo tra qualche mese. Ti prometto
che tornerò con una decina di persone e con qualche chilo in meno sulla
pancia!»
Ci abbracciamo e ci salutiamo mentre il van mi riporta alla guesthouse.
Finalmente ho di nuovo accesso a internet. Dopo vari giorni offline, la
voglia di condividere quanto ho appena compiuto è tanta. Scorro le
notifiche, posto una foto, avviso prontamente tutti dell’impresa, e poi
l’attenzione mi cade su un messaggio del direttore tecnico del mio tour
operator.

Quando puoi sentiamoci. Air China ha cancellato i voli che avevamo


prenotato per il viaggio in Giappone di marzo, quello per l’hanami. Pare
che la Cina stia chiudendo le frontiere a causa di questo maledetto virus.
Capitolo 2

Piacenza, 25 marzo 2020


«LA Carretera Austral attraversa tutta la Patagonia cilena per oltre 1.200
chilometri, ma non è totalmente asfaltata. Nonostante questo aspetto, vi
consiglio comunque di percorrerla in bicicletta oppure in autostop
esattamente come ho fatto io. Le automobili sono poche, ma è prassi molto
comune dei cileni utilizzare questo metodo per spostarsi perché ci sono
pochi trasporti pubblici tra una destinazione e l’altra e le distanze sono
notevoli. Spesso questi bus non fanno nemmeno servizio tutti i giorni,
quindi è normale cercare un passaggio sulla strada.» Sposto lo sguardo sulla
telecamera frontale e continuo: «La sicurezza in Cile è molto buona,
tuttavia, siate sempre molto attenti. La zona che più mi è piaciuta è stata
quella del Parco nazionale del Corcovado dove, tra Palena e Futaleufú, ci
sono boschi bellissimi, ricchi di fiumi, ruscelli, laghi e cascate. La natura e
le sue fattorie sono le grandi protagoniste: qui potrete fare trekking, battute
di pesca o semplicemente perdervi tra le strade e i sentieri ad ammirare
questo paesaggio spettacolare e clamoroso.» Mi brillano gli occhi mentre
parlo di quei luoghi lontani dove ho trascorso alcuni dei momenti più felici
della mia vita.
«Un po’ più a sud si arriva fino al lago General Carrera, per metà cileno
e metà argentino, dove una formazione rocciosa scavata dalle acque dei
ghiacciai ed erosa dai venti riflette sulla sua pietra bianca l’azzurro
dell’acqua, creando effetti di luce degni di un pittore: si tratta delle famose
Catedral de Mármol, imperdibili!»
Una sirena in lontananza mi interrompe improvvisamente. Devo ripetere
l’ultima frase, perché in fase di montaggio ci perderei non so quanto tempo
a pulire la traccia audio. Attendo che il rumore finisca e non si senta nulla
nemmeno in lontananza.
Questo lockdown ha reso deserte le vie della città, cosicché nessun altro
rumore può rovinarmi il lavoro.
Ecco, posso riprendere. Dov’ero rimasto? Ah, giusto, le Catedral de
Mármol.
«Le famose Catedral de Mármol sono imperdibili! Se vi spingete oltre
Cochrane, la Carretera Austral è quasi terminata, e infatti resta unicamente
Caleta Tortel, un piccolo villaggio di palafitte direttamente sul mare, con
una storia quasi spettrale relativa agli antichi minatori di questa zona.»
Un’altra sirena a interrompermi; stavolta mi alzo e vado alla finestra.
La strada è vuota, desolata, sembra di vivere in una città fantasma. In
lontananza le sirene si accavallano, ne sento nitidamente almeno tre. Il sole
fuori è caldo, sembra una di quelle giornate di maggio. La voglia di uscire è
tanta, ma sono bloccato tra queste mura a causa di un nemico invisibile.
Non so se mi sto realmente rendendo conto di quello che sta succedendo:
due giorni fa nella mia città sono morte trentatré persone in un solo giorno
per questa nuova e sconosciuta malattia. Sul tavolo c’è una copia del
quotidiano locale della settimana scorsa, il titolo che campeggia in prima
pagina è tanto eloquente quanto disarmante: «Fermiamo la strage. Mai tanti
morti: 26».
Fino a quanti arriveremo?
Mi sale un groppo in gola, gli occhi si fanno lucidi: in quel quotidiano
c’è il necrologio di mia nonna, anche lei stroncata da questo infame virus.
La sua foto in mezzo a sei pagine di necrologi: non ne ho mai visti così tanti
tutti insieme, tutti i giorni. Mia nonna era una donna anziana, ma fino a una
settimana prima ci invitava ancora a pranzo nella casa dove viveva da sola,
indipendente. Mi si spezza il cuore ripensando a ogni volta che partivo: la
mia personale tradizione era pranzare da lei e mostrarle sull’atlante i luoghi
lontani che mi accingevo a visitare. Curiosa, mi faceva sempre un sacco di
domande e adoravo raccontarle storie di mondi lontani.
Era in gamba, qualche acciacco e fastidio dovuti all’età, ma in salute.
Eppure, in neanche ventiquattr’ore, questo dannato virus si è portato via
questa donna tanto speciale.
La nonna, i nonni: questo virus sta decimando una generazione che è
sopravvissuta alle guerre, ai cambiamenti del mondo. E noi inermi, qui, che
non possiamo uscire, con le televisioni e le dirette Instagram a dirci che
andrà tutto bene, se restiamo a casa. Io, abituato a saltellare da un aeroporto
all’altro, vorrei solo poter scendere in fondo alla via e abbracciare mia
madre, che ha perso la sua e non le ha potuto tenere la mano, non ha potuto
onorarla con un funerale, come nemmeno piangere sulla mia spalla, perché
eravamo con la nonna fino all’ultimo giorno e oggi siamo entrambi in
isolamento fiduciario, in quarantena obbligatoria.
È una situazione straziante, un incubo.
Ogni volta che sento di dover dare un colpo di tosse, ho paura a farlo
perché temo che sia il primo della fine.
E se mamma sta male ma non me lo dice?
In rete cerco di informarmi, ma non è semplice: troppe le teorie, anche
complottiste e negazioniste, troppe le sentenze scritte e dette da ignoranti.
«È solo una banale influenza» dicevano.
«È il principio di un’apocalisse.»
«La contagiosità è troppo elevata.»
«Si prende anche con la mascherina.»
«Andrà tutto bene.»

***

Negli ultimi anni condivido gran parte della mia vita sui social, ogni giorno.
In queste settimane sono stato tuttavia a lungo in silenzio, perché
incredulo. Non riesco a capacitarmi di ciò che vedo fuori dalla finestra: le
città chiuse, le strade deserte e il silenzio rotto unicamente dalle sirene delle
ambulanze. Strillano ogni dieci o quindici minuti; proprio ora ne sta
passando un’altra: la mia città è a oggi una delle più colpite d’Italia.
Si comincia con la notizia di un positivo nel quartiere, poi è il turno del
parente di qualcuno che si conosce, e infine il cerchio si stringe a tal punto
che tocca anche la mia famiglia.
Vivo questi giorni in quarantena isolato in casa, con l’angoscia di poter
essere stato contagiato o, peggio ancora, di essere stato proprio io a
contagiare mia nonna. Tra aeroporti, viaggi, assembramenti, quella dannata
notte al campo base del Kilimangiaro in cui non ho chiuso occhio a causa
dei colpi di tosse di alcuni escursionisti cinesi.
L’umore è a terra, ma voglio ancora trovare pensieri positivi: mi
immagino di nuovo in viaggio, in mercati affollati, a mangiare pad thai
sulle bancarelle di Bangkok, a visitare templi e buttarmi tra le onde
dell’oceano; a ritrovarmi la sera a bere una birra con sconosciuti e far festa
fino al mattino in una spiaggia di San Blas.
Tutto mi appare così lontano.
Stiamo vivendo un momento storico senza eguali, in cui la situazione
implora di fermarsi. Mi ritrovo bloccato, chiuso tra quattro mura in città
quando è sempre stata la natura a chiamarmi a sé e a regalarmi equilibrio e
consapevolezza.
Per fortuna, questa pausa forzata riesce proprio a mostrare il meglio che
la natura può offrire: cieli tersi, aria pulita, il cinguettio degli uccelli che
risuona nitido nel silenzio.
Chissà cosa passa per la testa di questi animali che tutto a un tratto
hanno visto il genere umano rinchiudersi nella propria tana…
Per un attimo vorrei essere uno di loro, mi chiedo se siano o meno felici
di averci visto abbandonare le strade e le piazze.

Sono immobile davanti alla finestra e il mio sguardo fisso si perde nel
vuoto.
Mi sembra tutto così esaurito, come se fossimo alla fine di qualcosa.
Scruto gli altri edifici e mi immagino le molteplici vite che li abitano,
ognuna chiusa in casa. Da un momento all’altro siamo diventati una
moltitudine di isole, vicine ma distanti. Un arcipelago grande come tutto il
mondo.
Moralmente siamo uniti, ma fisicamente non siamo mai stati così
lontani.
Tutta questa vicinanza, tutta questa solidarietà, quanto durerà?
I primi leoni da tastiera si stanno già scagliando gli uni contro gli altri,
contro i runner o chi porta fuori il cane a pisciare.
Sento odio dilagare e fare breccia. A volte noto una tale cattiveria e
infamia da rabbrividire.
Tante cose stanno succedendo, troppe, forse, tutte insieme: la più
importante, al momento, credo sia la consapevolezza del peso della singola
azione di ogni individuo e dell’importanza che la stessa ha sul collettivo. Si
sta iniziando a comprendere su larga scala che non possiamo rimanere
indifferenti a quello che succede in una piccola provincia dall’altra parte del
mondo, perché ora siamo realmente globalizzati e quello che capita laggiù
può accadere domani anche dietro casa.
È finito il momento delle scuse, del nascondersi dietro a un dito. Ognuno
di noi è responsabile, di sé stesso, della sua famiglia, della collettività, del
mondo intero. Non so quanto durerà questa consapevolezza, a volte sembra
solo che le persone stiano vivendo ancora tutto come un gioco,
sottovalutando l’impatto delle azioni individuali.
Non possiamo uscirne se non ragioniamo come comunità, abbandonando
gli interessi personali.
In pratica, utopia.

Negli ultimi giorni, quando mi sveglio al mattino, la prima cosa che


faccio è prestare attenzione al respiro, come non avevo mai fatto in vita
mia. Sentire quei respiri e non darli per scontati, perché non lo sono più.
Ringraziare in ogni momento di essere vivi.
Non avevo mai messo in atto la pratica della riconoscenza al mattino, ma
devo ammettere che è un piccolo esercizio mentale dagli effetti molto
concreti. In queste settimane mi ha aiutato a comprendere quanto io sia
fortunato ed è la spinta per guardare al futuro con ottimismo.

Ripenso a quando tutto ha avuto inizio.


Ricordo i primi giorni, le prime notizie sul web, i primi blocchi, le prime
conferenze stampa del premier, le prime volte al supermercato con guanti e
mascherine, le prime autocertificazioni.
Piano piano siamo entrati in una dimensione dove il mondo è
letteralmente fuori dalla nostra finestra.
Questa quarantena mi riporta alla mente i giorni trascorsi sulle navi
cargo mercantili: circondato di comfort, ma impossibilitato a uscire. Ci
viene giustamente richiesto di stare a casa e allora la vita inizia a modellarsi
come quelle giornate a solcare gli oceani: monotonia e pigrizia che
prendono la mano. La più grande differenza sta nel fatto che in mare non
avevo accesso a internet, ero ancora più disconnesso dal mondo.
Ho preso ben tre navi cargo durante il mio giro del mondo senza aerei,
per attraversare l’Oceano Pacifico e poi l’Atlantico. Avendo viaggiato
sempre con budget molto limitato, le cabine delle navi erano il miglior
alloggio in cui avessi mai dormito in quei tre anni da vagabondo. Sui cargo
vi erano a disposizione una libreria, una sala comune, una palestra e,
addirittura, nel transpacifico, anche una piccolissima piscina.
Non era poi così male, anche se ci ho trascorso rispettivamente dodici,
ventisei e infine undici giorni.
A bordo di quelle navi riuscivo a non annoiarmi troppo. Ricordo quando
andavo in giro per la barca a curiosare tra le varie sale, i ponti e i container,
e poi finivo a parlare con l’equipaggio. Ricordo le esercitazioni antipirateria
e quelle antincendio, graditi intermezzi a spezzare la monotonia delle
giornate. Ricordo con piacere la grigliata che facemmo tutti insieme,
ufficiali ed equipaggio, quando attraversammo la linea di cambio data e
celebrammo il fatto di poter vivere un giorno due volte. E poi i porti di
scalo, specialmente Suva, nelle Fiji. Era esattamente quello che mi
immaginavo come porto di naviganti.
Ho anche rischiato di perdere la nave ed essere lasciato a Suva!
Mi strappa un sorriso ripensare a quel giorno: avevamo attraccato al
mattino e il capitano mi disse che saremmo salpati intorno alle 18. Avevo a
disposizione tutta la giornata e così mi feci un giro per l’isola: un bagno
nell’oceano, una passeggiata nella giungla, un pranzo a base di un
gigantesco granchio.
Tornai al porto verso le 16 e, prima di risalire su quella barca dove poi
sarei rimasto chiuso per altri quindici giorni, decisi di finire gli ultimi
spiccioli cambiati facendomi una meritata bevuta. Cercai la peggior bettola
possibile, un po’ per vivere quelle situazioni da film stereotipate. Ne trovai
una che faceva al caso mio, salii delle scale di ferro ed entrai in una
stamberga sporca e fatiscente. Ordinai rum e patatine fritte e, dopo pochi
minuti, una prostituta si avvicinò chiedendomi se volessi fare un giro con
lei. Aveva una giarrettiera tatuata sulla coscia destra e il suo fiato puzzava
di alcol.
Gentilmente rifiutai, ma mi scappò anche una risata ironica, per come
quella situazione mi sembrava un cliché. Tuttavia, lei la prese sul personale
e iniziò a insultarmi. Capii che la situazione non si stava mettendo bene,
così trangugiai in un sorso il bicchiere di rum, pagai e me ne andai.
Uscendo frettolosamente, finii a sbattere contro un ragazzino filippino che
mi riconobbe: era un membro dell’equipaggio del cargo su cui mi ero
imbarcato. Mi disse di fare in fretta perché saremmo salpati a minuti. Non
diedi peso alle sue parole, dopotutto il capitano mi aveva detto di stare
tranquillo fino alle 18 e mancavano quasi due ore. Invece, quando arrivai al
porto, capii che la barca stava realmente salpando senza di me: tutto
l’equipaggio che mi si parava davanti era realmente preoccupato di non
trovarmi.
Le navi cargo hanno una sola priorità: il carico. Quando mi ero
imbarcato, avevo firmato un foglio in cui si declinava ogni responsabilità
nel caso in cui fossi rimasto a terra, e ora la barca stava proprio salpando
con tutto quello che avevo con me, tutto il mio bagaglio.
Rischiai seriamente di rimanere bloccato a Suva, senza soldi né
documenti, ma soprattutto senza insulina. La sera, dopo cena, salii sul ponte
per salutare e ringraziare il capitano che, quando mi vide, scoppiò a ridere.
Fu proprio quella sera, chiacchierando e confidandoci, che nacque il
titolo del mio primo libro: L’orizzonte, ogni giorno, un po’ più in là.

Si dice che per creare un’abitudine nel nostro comportamento quotidiano


occorra ripetere la medesima azione per ventun giorni: tre settimane
affinché quel determinato comportamento si traduca in una vera e propria
abitudine consolidata, di quelle difficili da perdere.
Solo una volta sono rimasto a bordo di una nave cargo così a lungo, ma
nessuna delle abitudini prese allora ha avuto qualche effetto duraturo sulla
mia vita.
Ora, qui, sono passate ben più di tre settimane. Non si intravede alcuna
luce in fondo al tunnel. Forse verso fine aprile, tutt’al più a maggio, dicono,
potremmo iniziare a uscire liberamente, quantomeno di casa.
A quel punto saranno trascorsi più di due mesi e, inevitabilmente,
avremo acquisito diverse e nuove abitudini, magari avremo abbandonato
alcune delle vecchie, il che potrebbe non essere un male.
Quale sarà il nostro futuro quando tutta questa emergenza sarà
terminata? – è il pensiero che mi assale in questi giorni.
Ci laveremo più spesso le mani, questo è poco ma sicuro, e
probabilmente starnutiremo per sempre nell’incavo del gomito. Le nostre
case saranno più pulite e in ordine e – sono pronto a scommetterci – la
prima moda che salterà fuori sarà quella di indossare vecchi vestiti ritrovati
negli armadi.
Mentre mi faccio un caffè, provo a immaginare il primo giorno di libertà:
mi farò una bella doccia e mi accorgerò di avere i capelli e la barba più
lunghi, un aspetto in disordine che cozzerà con un sorriso così grande da
non curarmi di tutto il resto.
In questo periodo mi auguro che tutti stiano imparando ad ascoltare il
proprio corpo, a dargli finalmente la giusta importanza, non per fattori
estetici, ma per il mero benessere psicofisico. Avremo imparato ad ascoltare
i respiri, i colpi di tosse, e a guardarci negli occhi per proteggere chi
amiamo? Non tutti, però tanti sì, perlomeno.
Forse ne usciremo anche con qualche conoscenza culinaria in più:
sapremo fare pane, pizza, focacce, ma anche pasta fatta in casa. Torneranno
in auge i cibi di una volta, quelle tradizioni del passato appartenenti alle
nostre nonne. Il virus ci ha tolto proprio i nonni, ma dall’altra parte ci ha
restituito la loro memoria e la consapevolezza che impastare il pane per la
famiglia è un momento che crea unione e appartenenza.
Che ne sarà invece della paura? Sarà quella l’abitudine più difficile da
estirpare, perché già prima del virus in troppi avevano timore del prossimo,
di qualche razza o etnia diversa. Ne avranno ancora di più.
O forse no. Perché, se c’è una cosa che ho imparato da questa pandemia,
è che siamo tutti gocce del medesimo mare. Voglio credere che ne usciremo
più soli, ma con la voglia di stare insieme.
In questi giorni ho capito che la vita è bella semplicemente perché si
vive, che sono fortunato ad avere un tetto, un pasto e acqua potabile che
sgorga dal mio rubinetto. Ho imparato anche che, spesso, il bene o il male
può arrivare da chi meno te lo aspetti e che magari con il mio affetto potrei
uccidere una persona cara.
Avremo paura a uscire e incontrare persone?
Non lo so, ma credo che la voglia di tornare a vivere il mondo prevarrà.
Avremo paura a dare la prima stretta di mano, i primi baci sulle guance,
i primi abbracci?
Avremo paura, ma la paura si combatte solo affrontandola.
Questa situazione paradossale mi fa vivere in un limbo, sospeso tra
buoni propositi e speranze, tra pensieri negativi e spiazzanti realtà.
Questo virus sta sbaragliando tanti pregiudizi e ci sta riportando con i
piedi per terra, facendoci comprendere quali sono le cose importanti della
vita.
Il mio pensiero va agli amici medici, infermieri e operatori sanitari.
Quando questa paradossale situazione finirà, vorrei che tutti questi
straordinari professionisti scendessero per le strade a farsi un giro: vorrei
che in quelle vie ora deserte risuonasse l’applauso che gli dedicheremo, che
gli dobbiamo.
Vorrei sentire tremare la città dal casino che faremo.
Non succederà.
Non succederà, nonostante tanti di loro abbiano famiglia, figli piccoli a
casa e stiano rischiando tutti i giorni in trincea contro questo nemico
invisibile. Tanti, troppi di questi eroi hanno perso la vita in una guerra che
sembra avere sempre più le sembianze di un martirio.
Medici, ma non solo. Il lavoro di un bravo insegnante non può essere
sostituito da uno schermo: la tecnologia aiuta, ma senza l’essere umano
sarebbe totalmente inutile. La stessa tecnologia è capace di salvare vite
umane, ma se usata male può fare danni irreparabili.
Ho compreso che, per quante battaglie facciamo per salvare il pianeta –
giuste, ci mancherebbe –, in realtà dobbiamo salvarlo solo da noi stessi. Se
il genere umano non dovesse sopravvivere, la natura ci dimostrerebbe di
essere molto più forte: si riprenderebbe il mondo velocemente, proprio
come sta facendo in questi giorni con l’acqua cristallina di Venezia, i tassi
in giro per le vie di Firenze, mamma papera con prole al seguito in un
centro commerciale di Milano, oppure i delfini nel porto di Cagliari. O, più
semplicemente, questa aria pura, leggera, fresca, priva di inquinamento. Le
fabbriche chiuse, le automobili spente.
Ce la ricorderemo a lungo questa strana primavera che abbiamo imparato
a osservare fuori dalla finestra, non vedendo l’ora di poter uscire e annusare
un fiore.

***

Chiudo quella finestra, torno in questa specie di set improvvisato dove mi


sono messo a registrare video su YouTube in cui do consigli e fornisco
itinerari di viaggi lontani.
Se non si può viaggiare con il corpo, nulla mi vieta di farlo con la
mente!
Devo finire di registrare il video sull’itinerario in Patagonia, il luogo che
più di ogni altro mi ha proprio permesso di equilibrarmi con la natura, dove
ho capito cosa significhi la vera essenza della Pachamama, Madre Natura,
che, a pensarci bene, proprio qualche giorno prima dell’inizio di questo
incubo mi ha regalato uno dei doni più emozionanti di tutta la mia vita.
Ultimamente mi capita spesso di trovarmi in Islanda, specie d’inverno. È
una terra pazzesca, quell’isola di ghiacci e terre nere che io preferisco
definire la terra delle luci. È un luogo dove le stesse cascate, i geyser e i
canyon con luci diverse sembrano incomparabili e di una bellezza inaudita.
La luce fioca dell’inverno a sbattere sulla candida neve. La luce brillante
che si riflette sulla superficie umida delle pietre nere. La luce calda e
morbida del sole a mezzanotte, nelle notti di giugno, quel lungo crepuscolo
che dura anche alcune ore.
E poi lei, la regina danzante del cielo: l’aurora boreale. Un drappo verde
che ondeggia nel cielo stellato e, contorcendosi, diventa rosso scarlatto e
poi, se si è fortunati, viola.
Se ci ripenso oggi, l’aurora boreale vista l’ultima notte prima di tornare
dal più recente viaggio in Islanda è stato un regalo tanto inatteso quanto
entusiasmante. È stato un viaggio strano, diverso da tutti quelli che ho
intrapreso in quelle terre artiche. In Islanda la natura è padrona come in
nessun altro luogo: custode di questa terra di ghiacci, spiagge nere e acque
sulfuree. Un luogo dove bisogna sempre fare i conti con lei, ma che ti sa
sorprendere come pochi altri al mondo, con luci che esaltano i paesaggi
desolati danzando nel cielo scuro del Nord.
Era la mia sesta volta in Islanda, la terza in pieno inverno, e ho avuto un
benvenuto per niente spiritoso: un uragano. L’Islanda è una terra dove,
viaggiando on the road, a ogni stazione di servizio vi è un monitor acceso
ventiquattr’ore al giorno sulle condizioni meteo e delle strade.
Non appena atterrato, ho visto cartelli di allerta dovunque e persino
l’autonoleggio si è raccomandato più volte di non mettersi alla guida il
giorno seguente, poiché erano attesi venti a oltre 180 km/h. Capitanavo un
gruppo e tutti i programmi sono saltati: anziché iniziare a esplorare subito
l’isola, siamo stati costretti a starcene a Reykjavík due notti.
La capitale islandese è una graziosa cittadina, ma credevo non avesse
granché da offrire. In realtà, l’avevo sottovalutata perché le avevo sempre
dedicato poco tempo: un pranzo a base di zuppa d’aragosta e qualche
spiedino di pesce in un ristorante al molo, un giro alla chiesa
Hallgrímskirkja – simbolo di culto luterano moderno che, imponente,
domina la collina sopra la città – e infine una passeggiata per ammirare i
tanti murales che colorano gli edifici islandesi.
Quella è stata quindi l’occasione per visitare anche l’Harpa, un centro
conferenze e teatro che incanta spesso i passanti con giochi di luci artificiali
e riflessi del sole sulle pareti esterne completamente vetrate. Un gioiello
architettonico dentro e fuori.
Il mare nel porto era agitato, ma la città aveva in quei giorni un ritmo
dolce e lento. Si è rivelato molto piacevole passeggiare tra le sue vie,
sebbene il vento ci trascinasse letteralmente via e avessimo rischiato varie
volte di scivolare e cadere sul ghiaccio.
Il giorno dopo, l’uragano si era calmato ma i venti continuavano a
soffiare fortissimo e mettersi in marcia poteva voler dire rischiare ancora
tanto. Abbiamo deciso di muoverci piano, cercando di raggiungere il posto
più a sud possibile per poi riuscire a visitare il resto dell’isola quando le
previsioni fossero migliori.
Di solito lascio le cascate di Skógafoss e Seljalandsfoss come gran finale
dei miei viaggi islandesi, ma questa volta si sono rivelate un ricco antipasto.
Tutto sembrava andare per il meglio quando, in prossimità di Vik, i venti
hanno ricominciato ad aumentare sensibilmente, raggiungendo i 35 m/s
ovvero la bellezza di 120 km/h. Abbiamo tenuto duro, guidando con
prudenza, e infine siamo giunti a Vik sotto una forte nevicata.
Di sicuro non è stato l’inizio del viaggio migliore in assoluto, ma la
caparbietà alla fine ci ha premiato. Ad attenderci, tre giorni di sole e
giornate terse a zonzo nel Sud Est delle coste islandesi, il luogo dell’isola
maggiormente scenografico.
Giornate intense trascorse a fotografare ogni possibile riflesso di luce tra
i ghiacci di Diamond Beach, le rocce basaltiche di Svartifoss, le lamiere del
relitto aereo C 117 e le onde che si infrangono sulla spiaggia nera di
Reynisfjara.
L’immensità, poi, che abbiamo respirato di fronte al ghiacciaio
Svínafellsjökull.
Non avevo mai visto l’Islanda tanto affascinante in inverno.
Quest’isola spesso restituisce ciò che ha tolto. Le ultime due notti,
infatti, le abbiamo trascorse a prendere freddo, con il naso all’insù, per
ammirare una delle più belle ed emozionanti visioni che Pachamama è in
grado di offrire: l’aurora danzante nel cielo, che ci ha salutato in abito da
sera verde smeraldo e a un certo punto è mutata in rosso scintillante.

Mi fanno male questi ricordi, in questo momento.


Esco in giardino, il mio ultimo pezzo di mondo libero, e scoppio in
lacrime. Vorrei davvero che ci fosse un modo per sapere quando si sta
vivendo quelli che poi ricorderemo come i bei vecchi tempi.
Vorrei saperlo, ricevere un segnale prima che arrivino momenti come
questi, prima di rimpiangerli.
Io, che ho sempre cercato di rifuggire i rimpianti, ora penso che avrei
voluto rendermene conto in quel momento e stare ancora qualche minuto al
freddo a contemplare non solo quell’aurora, ma anche il cielo, le stelle, le
nuvole, le distese infinite, quell’ultimo grande inconsapevole privilegio di
libertà.
Capitolo 3

Piacenza, 30 marzo 2020

Ciao Claudio! Sto ascoltando il podcast Storie della quarantena e sono venuto a
conoscenza della tua storia. Sono un regista videomaker di Piacenza: lavoro
parecchio qui ma ho anche tempo libero, soprattutto in questi strani giorni. È un
momento pazzesco e speriamo ne rinasceremo migliori.
Ho sentito che hai parecchio materiale video arretrato che stai sbobinando in
questi giorni: se vuoi sono disponibile a montarlo insieme per darci una forma,
farne magari un film o una serie video per la tv o il web. Ciao, Roberto.

STO ancora bevendo il caffè quando ricevo questa mail.


Effettivamente, non appena sono scattati i primi provvedimenti, ho preso
questo iniziale momento come l’opportunità di staccare un po’ e soprattutto
fare ordine in testa e negli svariati gigabyte dei miei hard disk.
Tra le mille cose da sistemare, da oltre un anno campeggia una cartella
gigantesca con oltre cento gigabyte di materiale chiamata «Kumbh Mela».
Roberto si riferisce proprio a quella cartella, che ho citato nell’intervista
podcast: si tratta di materiale che avevo raccolto a fine febbraio 2019,
quando ero finito in India per documentare il più grande raduno umano
della storia – il Kumbh Mela, appunto.

La storia era iniziata un bel po’ di tempo fa, mentre percorrevo il


Cammino di Santiago facendo voto di silenzio.

Ehi ciao, come stai? Senti, tra i tuoi innumerevoli viaggi sei mai stato al
Kumbh Mela? La prossima primavera vorrei andarci.
Stavo marciando da circa sei ore per raggiungere Puente la Reina quando
ricevetti questo messaggio. A mandarmelo non era uno dei miei amici
squinternati conosciuti negli innumerevoli viaggi in India o Nepal, o
qualche pazzo in cui ero incappato facendo festa a Cartagena, bensì una
cara amica con cui avevo viaggiato in Marocco durante la transumanza di
una famiglia nomade berbera sull’Atlante.
Non mi aspettavo mi parlasse proprio lei del Kumbh Mela.

Kumbh Mela? Ma è l’anno prossimo, di già?

Sì, è l’Ardh Kumbh Mela, quello che si svolge ogni sei anni, ma è
previsto che sia il Kumbh Mela più grande della storia, si attendono oltre
centocinquanta milioni di persone.

Mentre digitavo la risposta, iniziavano a frullarmi in testa diversi


pensieri: a volte basta una parola, un’idea per solleticare la mente di un
viaggiatore.

E tu sarai tra queste! Complimenti, ma purtroppo non posso aiutarti, ne


ho sentito tanto parlare, ma non ci sono mai stato.

Il Kumbh Mela, così come il Kilimangiaro, è uno di quei nomi che


riecheggiano nella mente dei viaggiatori e ci attraggono a sé con la capacità
di sedurci.
Si tratta di un pellegrinaggio Hindu di massa, durante il quale i fedeli si
ritrovano per immergersi nel fiume sacro. Si svolge a rotazione tra le città
indiane di Allahabad, Haridwar, Ujjain e Nashik.
Vi sono diversi Kumbh Mela: il Purna Kumbh Mela, il festival che viene
chiamato «completo», si celebra ogni tre anni a rotazione nelle quattro città;
l’Ardh Kumbh Mela, invece, si svolge in due luoghi, Haridwar e Allahabad,
ogni sei; il Maha Kumbh Mela, infine, che i fedeli definiscono «il Grande
Kumbh Mela», si celebra ad Allahabad dopo quattro Purna Kumbh Mela,
ossia ogni dodici anni.
Si dice che all’ultimo Maha Kumbh Mela, quello del 2013, abbiano
partecipato circa cento milioni di persone.
Nel febbraio 2019 erano attese oltre centoventi milioni di persone in
cinquantacinque giorni di raduno: un numero enorme, persino difficile da
immaginare.
Centinaia di milioni di persone che si riversano sulle rive di un fiume per
le loro abluzioni. Pensarle tutte insieme ora, quando invece gli
assembramenti sono proibiti, gli stadi e i cinema chiusi, i concerti sospesi,
appare ancora più impressionante.
Oltre al pellegrinaggio, vi è un rituale ben preciso da compiere durante il
Kumbh Mela, che ne costituisce in realtà il fine ultimo, ossia il processo di
purificazione dell’anima che deve avvenire restando almeno tre giorni alla
confluenza dei fiumi sacri, pregando sulle rive, facendo il bagno nei
momenti più propizi, come nei giorni di luna nuova, e porgendo delle puja
(offerte devozionali) alla Madre Ganga.
È questo uno dei modi con cui i fedeli possono aspirare in ultima istanza
a interrompere il Samsara, il ciclo delle morti e delle rinascite.

Bevo un caffè e mi appoggio alla finestra; guardo fuori: nessuno per


strada.
I giorni scorrono uguali, tra una puntata di Game of Thrones e qualche
sana lettura di mondi lontani.
Ha ragione Roberto, dovremmo montare un cortometraggio di questa
assurda esperienza.
Nella mia testa scorrono le immagini di questo antico pellegrinaggio
induista: un anno fa ci sono finalmente andato e mi sono ritrovato dentro
una vera e propria calca di persone, probabilmente il più grande raduno
della storia dell’umanità. Un evento che è un puro concentrato di India, un
autentico microcosmo con le sue regole e i suoi equilibri.
Quanto mi mancano quei luoghi, quelle sensazioni.
L’India, il Kumbh Mela.

La prima volta che ne sentii parlare fu grazie a Giona, un caro amico con
cui abbiamo condiviso la straordinaria esperienza di aiutare dei bambini
nepalesi con la Onlus Human Traction.
Era l’estate del 2014, avevo lasciato da tre mesi la mia vecchia vita da
bancario per rincorrere il sogno del giro del mondo senza aerei. Mi trovavo
in Nepal durante l’estate, ovvero all’inizio del periodo dei monsoni. La sera
ci si ritrovava spesso a chiacchierare, con la pioggia battente fuori dalle
finestre a farci da colonna sonora.
Giona è più giovane di me, ma il suo curriculum di viaggiatore già allora
parlava chiaro e questo lo rendeva molto più maturo e indubbiamente colto
in tema di viaggi e spiritualità. Aveva trascorso lunghi periodi in India e, se
ho compreso tanto di quella cultura, lo devo a lui. Nonostante Giona amasse
il Nepal e avesse dedicato tante energie e buona parte della sua vita a quei
ragazzini, cui io stesso in quei giorni mi stavo sempre più affezionando,
l’India per lui era qualcosa di speciale, unico.
Io invece ero a zonzo per l’Asia da neanche due mesi e francamente
l’India mi intimoriva parecchio, per quanto ne subissi ovviamente il
fascino: quella moltitudine di persone sempre accalcate tra loro, le
condizioni igieniche drammatiche, la povertà e la miseria estrema, ma
anche la profonda sacralità, le usanze, i costumi di un popolo che nella
Storia ha avuto un ruolo importante, anche grazie a figure come Madre
Teresa di Calcutta e Gandhi.
A suscitare in me ancora più fascino erano poi i sadhu e i baba, quei
santoni dalla barba e i capelli lunghi, spesso con i dreadlocks, a metà tra
santoni e rockstar, con la fronte colorata e il chillum in mano. A volte nudi,
l’intero corpo cosparso di cenere sacra, con strani e colorati monili addosso,
collane di rudra, sciarpe arancioni con caratteri hindu, e poi bastoni con il
tridente, simbolo di Shiva.
Non ne sapevo nulla, ma in quei primi giorni nepalesi ne avevo già visto
qualcuno per le strade di Kathmandu e ne avevo subìto ancora di più il
fascino grazie a Charlie, un ragazzo irlandese divenuto baba proprio nella
capitale nepalese.
Chiacchierare con Charlie fu un’altra spinta verso l’India, perché a
spiegarmi tutte quelle sfaccettature era un ragazzo come me, anche se agli
occhi di molti si era solo fumato il cervello al punto da diventare un
santone.
Stavamo cenando insieme quando, parlando proprio del nostro amico
baba, Giona esordì:
«Tu pensa che Charlie è persino andato al Kumbh Mela!»
«Che cos’è il Kumbh Mela?» risposi io.
«Fra’, non conosci il Kumbh Mela? Hai presente le immagini di quei
baba che corrono nudi verso la Ganga per fare il bagno? Spesso, diverse
fazioni di baba finiscono a lottare per essere i primi a bagnarsi nelle acque
sacre; pensa che a volte sono arrivati persino a uccidersi tra loro! Be’,
quella scena avviene in quel raduno. E quel raduno si tiene ogni dodici
anni: do - di - ci anni, fra’!»
«Ogni dodici anni?»
«In realtà ogni tre, ma quelli più importanti si svolgono ad Allahabad e a
Haridwar, ogni sei e dodici anni, a ripetizione.»
«Deve essere estremo…»
«Lo è: immagina milioni di persone in riva alla Ganga ad accavallarsi gli
uni sugli altri in mezzo a tutto quel sozzume. Perché, non so se lo hai
capito, ma quello che ti aspetta in India è lo sporco vero, non ci farai più
caso una volta immerso tra le vie di Varanasi, ma non riuscirai mai ad
abituartici, perché tutto è fottutamente zozzo, fra’. Prova a immaginare
come deve essere la situazione a un raduno di quel genere.»

Ero estremamente affascinato dall’idea di poter un giorno assistere a un


evento di quella portata, così quel messaggio ricevuto sul Cammino per
Santiago divenne il mio chiodo fisso per tutti i restanti dieci chilometri di
cammino della giornata.
Ci vado o non ci vado?
A marzo avrei avuto un paio di settimane libere, perché no?
Presi il telefono e iniziai a scrivere un messaggio, il destinatario non
poteva essere altro che Giona.
Senti, mi è venuta un’idea malata e solo tu potresti essere il mio
compagno d’avventura. Se ti dicessi Kumbh Mela a marzo, andiamo?

Vivo serenamente il rapporto con il telefono, non ho quasi mai sofferto


di ansie nell’attesa di una risposta, ma quella volta ero talmente gasato che
camminavo fissando lo schermo del telefono senza soluzione di continuità
in attesa della sua risposta che, ovviamente, arrivò il giorno dopo.
Capitolo 4

Buon viaggio, e che tu possa trovare


sul cammino storie, canzoni e nuove idee;
che tu possa lasciare indietro quelle vecchie,
che ti hanno trattenuto come catene;
che tu possa abbandonare tutto ciò
che ti ha distolto dal tuo fragile sognare.

EDITH JOYCE

New Delhi, 24 febbraio 2019


SENTO una strana sensazione mentre attendo in fila il mio turno per il
controllo dei visti all’aeroporto di Delhi. Sono tornato tre giorni fa dal
Myanmar ed essermi rimesso già in viaggio mi fa salire una sorta di
magone, un certo nodo in gola che in realtà, solitamente, è di buon auspicio,
perché tutte le volte che provo sensazioni del genere ciò che mi aspetta
supera spesso le migliori aspettative.
Tuttavia, non so cosa mi attenda davvero stavolta: sono partito con
poche informazioni e con l’idea di raccontare il Kumbh Mela attraverso un
reportage di foto e video, grazie al fatto che Giona, ottimo fotografo e
videomaker, ha accettato la mia proposta di imbarcarci in questa avventura.
Insieme potremmo tirar fuori del materiale molto interessante, ma, non
essendo antropologi, l’idea è di raccontare questo evento per quello che è,
soprattutto senza concentrarci unicamente sui fotogenici sadhu.
Fortunatamente il volo è stato rilassante, notturno, con un comodo posto
corridoio vicino alle uscite di emergenza; ho dormito tutto il tempo e mi
sono svegliato soltanto in fase di atterraggio, quando da poco in India era
sorto il sole.
Delhi è una città che non conosco. Subito dopo il viaggio in Nepal ho
trascorso quasi cinque mesi in India, percorrendola da est a ovest, da nord a
sud, ma nella capitale mi sono ritrovato solo a cambiare un treno nella sua
affollatissima stazione ferroviaria.
Non amo le città, tantomeno le megalopoli indiane.

«Dove alloggia, sir?»


«All’ostello New Hinduista in Paharganji.»
«Scopo della visita, sir?»
«Kumbh Mela.»
A quella risposta, l’ufficiale smette di fissare il mio passaporto, appoggia
la penna nera sulla scrivania e alza finalmente la testa guardandomi negli
occhi.
«Fa sul serio, sir?»
Annuisco.
«Benvenuto in India, sir.»
La fila al timbro passaporti è piuttosto lunga, così ritrovo il mio zaino già
sul nastro di riconsegna bagagli, lo afferro ed esco.
India, di nuovo.
Quando penso al concetto di viaggio in senso lato, l’India riveste sempre
un ruolo importante, è a tutti gli effetti una sorta di corso intensivo di
viaggio: una volta vista e visitata, con tutte le sue dinamiche, i suoi
inconvenienti, le sue assurdità, le sue contraddizioni, allora si è pronti a
viaggiare in qualunque altro angolo del mondo.
Vado verso il gabbiotto dei taxi condivisi, dove non c’è l’ombra di un
occidentale. Quattrocento rupie – non ho nemmeno voglia di negoziare –
per giungere a Paharganji, un quartiere che per i backpackers di tutto il
mondo rappresenta il vero ombelico dell’India, un luogo dove tutti i
viaggiatori sono stati almeno una volta, un po’ come Khao San Road a
Bangkok.
E ora tocca a me.
India, eccola.
Dai finestrini del taxi osservo le strade, le persone, i cavi elettrici
accumulati sui pali, spesso penzolanti. Lo smog, il traffico inaudito, i
clacson, i baracchini del chai, quelli delle sigarette e del tabacco sfuso.
L’odore del curry che mi pervade le narici, così come l’odore nefando della
sporcizia, del degrado, della miseria.
Fa caldo e quando arrivo all’ostello non vedo l’ora di levarmi i vestiti
invernali che indosso.
«Il tuo amico Giona è stato male stanotte, ora è uscito.»
Mi saluta così il ragazzo alla reception, con il solito inglese indiano,
ovvero incomprensibile finché non ci si riesce a fare il callo. Chiedo la
password del wi-fi, ma neanche il tempo di scrivergli un messaggio che
Giona si palesa all’ingresso a salutarmi.
«Ehi, fra’! Come stai?»
«Lo chiedo a te come stai, mi ha appena detto il tipo che sei stato male
stanotte.»
«Mah, io credevo di avere lo stomaco bello resistente e soprattutto ormai
ben allenato all’India e ai suoi batteri, ma evidentemente mi sbagliavo. A
un certo punto mi sono svegliato e ho iniziato a vomitare, ma ora pare
essere tutto ok, mi è rimasto solo un po’ di mal di testa.»
«Ottimo, andiamo a bere un chai?»
«Ovvio, intanto però vieni su e cambiati nella mia stanza, appoggia lo
zaino e le tue cose, stasera prendiamo il treno per Allahabad!»
«Mi dai il benvenuto così? Subito un treno sleeper class?»
Le ferrovie indiane sono tra le più estese al mondo, una rete
incredibilmente complessa in grado di raggiungere quasi ogni punto del
Paese in maniera relativamente efficiente, almeno per gli standard indiani.
La sleeper class è in sostanza la terza classe, gli scompartimenti più
economici per viaggiare in India, ma anche uno dei modi più interessanti
per entrare in contatto con la cultura indiana più autentica.
È anche vero, tuttavia, che viaggiare sui treni indiani può essere un
incubo per un turista: dalle carrozze sovraffollate agli sguardi perennemente
puntati addosso, passando per i ritardi e i problemi con la prenotazione,
muoversi in treno non è facile come in altri Paesi.
«Ma sì, dai, sarai talmente stanco stasera che crollerai di brutto, senza
nemmeno accorgertene, prima di tutto però dobbiamo andare in stazione a
fare i biglietti.»
«Non li avevi già fatti, visto che mi avevi chiesto il passaporto?»
«Sei in India, fra’, lo vogliono in originale; se non è uno sbattimento,
non è India!»
Ah, giusto! Effettivamente avevo dimenticato quanto fossero burocratici.

La stazione è a pochi passi dall’ostello. Camminando tra le vie mi


sembra di essere in un film già visto, tra venditori, cucine all’aperto,
mendicanti e poliziotti a ogni angolo.
«Non è cambiato nulla, vero?»
«L’India non cambierà mai, fra’, mai, certe cose sono troppo radicate.»
«Ma a Kathmandu sono riusciti a vietare i clacson, sembrava una
chimera e invece…»
«Quello è un piccolo miracolo, ma sono solo piccole cose. L’India, per
rimetterla a posto sul piano urbanistico, andrebbe rasa al suolo tutta e
ricostruita secondo criterio, eliminando queste costruzioni e tutto questo
cemento sviluppato senza alcun piano regolatore. Guardati in giro! L’India è
fondamentalmente un Paese che non ha nulla se non poche cose, ma quelle
poche stravolgono la vita delle persone.»
«Intendi la cultura, la spiritualità, il patrimonio artistico, quello
naturale?»
«Quello naturale è devastato dall’inarrestabile processo di
cementificazione in atto; quello artistico è magnifico e poi sì, fra’, la
spiritualità, quella cultura nata millenni fa e che già allora sapeva dare
risposte alla fisica e alla filosofia, cui l’Europa arrivò diversi secoli dopo.»
Ci fermiamo al primo chioschetto del chai.
«Cazzo se è buono, mi mancava terribilmente!»
«Dai, fumiamoci una sigaretta e poi andiamo in stazione.»
«Ho smesso, Giona!»
«Che figlio di puttana sei, davvero? Grande!» esclama dandomi una
forte pacca sulla spalla.

Arriviamo in stazione e saliamo al primo piano, dove si trova l’ufficio


prenotazioni. Occorre ritirare un numero, ma il bello è che poi le chiamate
vengono fatte casualmente a voce dall’incaricato.
Passano venti minuti e niente.
Passano trentacinque minuti e niente.
Scleriamo e ci piazziamo di fronte al tipo in attesa della chiamata.
«Dovete aspettare il vostro numero, sir, che numero avete?»
«Qual è il prossimo numero?» ribatte prontamente Giona.
«Il 19»
«Eccolo… Sir…» e ce la ridiamo sotto i baffi.
Mille sbattimenti per avere il biglietto, ma poi finalmente la missione è
compiuta. Rientriamo quindi in ostello, dove con ogni probabilità
trascorreremo il pomeriggio insieme, in quanto il treno è previsto per la
sera.
«Ma tu, nel concreto, cosa sai del Kumbh Mela?» gli chiedo.
«Poco, quello che ho visto su internet e nei film.»
«Dove dormiremo?»
«So che ci sono dei campi tendati, potremmo dormire lì.»
«Non sarebbe meglio dormire in città? Pensa anche ai computer, le
macchine fotografiche…»
«Sì, effettivamente serve un luogo dove sia semplice poter ricaricare le
batterie – anche le nostre, quelle del fisico. Io ho ripreso a sentirmi male.»
«No dai, Giona, ho bisogno del tuo aiuto, che tu sia in forze!»
«Non ti preoccupare, lo sarò! Senti, tu ti fermi molto a Varanasi? Io devo
salire in Nepal e ho l’aereo da là. Quindi, appena terminato il Kumbh, me
ne vado a nord.»
«Teoricamente sono stato invitato a un matrimonio qui a Delhi. Si tratta
di un tipo che anni fa mi aveva ospitato in couchsurfing nel suo
appartamento di Mumbai; l’idea di un matrimonio in India mi stuzzica non
poco. Si svolgerà però due giorni prima del volo che mi riporterà in Italia,
quindi stavo anche valutando seriamente l’ipotesi di fermarmi fino
all’ultimo a Varanasi, sai quanto ami quella città.»
«Ci andiamo per forza di cose, fra’, non passo in India senza fermarmi
almeno due notti a Varanasi, oltretutto è a soli cento chilometri dal Kumbh
Mela, quindi è una tappa obbligatoria. Anzi, ti dirò di più: secondo me,
essendo il raduno iniziato da diverse settimane, molti baba e sadhu sono già
là… immaginala come una sorta di afterhour!»
«Un after a Varanasi?»
«Pieno zeppo di baba e sadhu, fra’!»
«Ahahahahah!»
Ridiamo di gusto e ci abbracciamo davvero forte, felici di rivederci e
pronti a vivere una nuova, emozionante avventura insieme.

Mi faccio una doccia, dopodiché chiudo lo zaino e scendo. Per


percorrere i pochi isolati che ci separano dalla stazione ci muoviamo a
piedi; prendiamo un chai all’angolo e poi sulla strada recupero una sim
card. Ormai, da questo punto di vista, viaggiare è diventato molto più
semplice: si infila una scheda telefonica locale nello smartphone e lui ci
guida dove vogliamo andare. Niente più mappe cartacee, tantomeno
consigli e indicazioni per strada. Si è perso il gusto del contrattempo, ma si
sono guadagnate informazioni. Trovare un equilibrio anche in queste cose
da Wanderlust non è semplice.
All’arrivo in stazione, il microcosmo indiano è perfettamente disegnato
dinnanzi ai miei occhi: migliaia di persone accalcate in file disordinate
davanti alla biglietteria, altre che in centinaia dormono per terra, sguardi
che mi fissano stralunati, decine di venditori ambulanti, e poi grida, chiasso,
sporcizia e topi.
Cerchiamo il nostro binario, compriamo un paio di bottiglie d’acqua, due
samosa e una scatola di biscotti per il viaggio. Il treno è ovviamente in
ritardo, ma arriva prima che faccia buio; saltiamo su. Come prevedibile,
visto il periodo di pellegrinaggio, è incredibilmente affollato e quindi non
c’è nessun sedile libero. L’unica possibilità è lo spazio tra un vagone e
l’altro, accanto al bagno. Senza pensarci due volte, occupiamo proprio
quell’ultimo metro quadro libero e ci sediamo sul pavimento sporco.
L’odore del cesso è nauseabondo, ma per fortuna non siamo di fronte alla
porta, dove c’è un continuo via vai di persone; starò scomodo, ma
perlomeno potrò riposare appoggiando la testa al muro.
Quattro giorni fa ero in Myanmar, poi a Bangkok il tempo di un pad thai
in Khao San Road, infine meno di quarantott’ore in Italia.
E ora in India. Su un treno notturno. Sleeper class.
Seduto per terra, di fianco al bagno, odore di merda che neanche in una
stalla.
«Quanto ci è costato questo biglietto?» chiedo a Giona.
«Meno di due euro, credo.»
«Quanto dura il viaggio?»
«Dieci ore? Non lo so, arriviamo domani all’alba, se ricordo bene.»
«E quanto sarebbe costato un biglietto non dico di prima classe, ma
quantomeno di seconda, giusto per poterci almeno sedere comodi?»
«Non lo so, comunque meno di dieci euro, perché?»
Scoppio a ridere, Giona mi segue a ruota.
«Siamo dei malati, lo sai, vero?»
«Ahahahah, malati di cosa?»
«Di viaggi, di vita!»
«Potevamo permetterci qualsiasi biglietto, a dir la verità persino un aereo
low cost che in un’ora ci avrebbe portato a destinazione.»
«E invece no, non ce lo siamo nemmeno posti questo dubbio, vero?»
«Tu! Io! Già ce lo immaginavamo di trovarci in questa situazione di
merda, anzi, lo speravamo!»
«Ahahah, è vero, non vedevamo l’ora!»
«Perché? Perché siamo così?»
«Che poi non è che non ti conosco, lo so che ti piacciono i comfort e le
comodità.»
«Oh sì, ma anche a te piace l’acqua calda anziché quella cazzo di doccia
gelata.»
«E allora perché siamo qua?»
«Chaaaai, chaaaaai!» un venditore di chai si fa largo tra i passeggeri
accalcati a terra.
«Prendiamolo!»
«Offro io.»
Ci guardiamo negli occhi, entrambi sappiamo bene la risposta a quella
domanda.
Perché forse è proprio viaggiare in un certo modo, dormire in certi posti
e tornare in quei luoghi che un giorno ci ricorderà ciò che siamo stati e che
non potremo più essere.
Giona si accende una sigaretta, io porgo le rupie al venditore.
«Ma quanto cazzo è buono il chai, fra’?»
Capitolo 5

Mi parevano essere una sorta di garanzia


che l’India non potesse mai diventare
un paese come tutti gli altri,
perché fino a che ci sarà una società
che rispetta i santi mendicanti,
che si inchina ai loro piedi
per caricarsi di energia
e che dà loro da mangiare,
quella società non potrà mai diventare
sino in fondo materialista.
È una forma di vaccino.

TIZIANO TERZANI , LA FINE È IL MIO INIZIO

Allahabad, 25 febbraio 2019


«EHI, fra’, siamo arrivati.»
Sto sonnecchiando con la testa appoggiata alla porta dello
scompartimento quando arriva il momento di scendere dal treno. Non sono
riuscito a dormire a sufficienza durante la notte. Sono circa le sette del
mattino e la situazione in stazione è insolitamente calma e tranquilla,
nonostante la città sia da settimane l’epicentro della vita spirituale indiana.
Ci guardiamo intorno: siamo gli unici occidentali. Seguiamo delle transenne
volte a canalizzare il flusso di persone. Fuori dalla stazione fermiamo un tuk
tuk e chiediamo al conducente di portarci direttamente al Kumbh Mela.
Non è facile spiegarsi, perché nessuno sembra credere a quello che
stiamo facendo.
L’aria è piuttosto fredda, al punto che quasi maledico di esserci mossi
con un tuk tuk anziché in taxi.
«Ehi, ci siamo!» sveglio Giona, che nel frattempo si era assopito; non ha
dormito granché nemmeno lui.
Avvicinandoci al fiume iniziamo a vedere sempre più persone, ma
soprattutto scorgiamo corsi d’acqua che sembrano più paludi che affluenti
del Gange. Corriamo su veri e propri ponti fatti di barili galleggianti
sull’acqua. Intorno a noi compaiono dapprima enormi cartelloni
pubblicitari, poi vasti accampamenti.
Ci sono camion che trasportano persone, e fiumane di fedeli che
camminano tutte verso il fiume.
Il tuk tuk sta per raggiungere la fine della strada. Quando intravedo
un’ampia scalinata che conduce alle acque sacre, mi viene un’idea:
«Dovremmo prima passare in città e trovare dove dormire. Muoverci ora
con gli zaini pesanti e tutta l’attrezzatura non è prudente, oltre che essere
una gran faticaccia. Rischiamo di non trovare facilmente un passaggio di
ritorno».
«Hai ragione, non abbiamo dormito nulla, conviene riposarci e tornare
qui nel pomeriggio, potremmo stare fino al tramonto e assistere al Ganga
Aarti.»
Il Ganga Aarti è un rituale di grande importanza nell’induismo e di
valore folcloristico nella cultura indiana. Si tratta di una puja, un’offerta al
fiume che viene svolta due volte al giorno, all’alba e al tramonto, nei ghat
presenti sulle rive del Gange, uno dei più imponenti fiumi al mondo, che
taglia in due il subcontinente indiano e nasce dalla gigantesca catena
montuosa himalayana. È un rituale ricco di colori e di simbologia
espressiva, dedicato alle sacre acque della dea Ganga, raffigurazione
naturale del dio Visnù.
Quando visitai l’India per la prima volta, era purtroppo la stagione dei
monsoni e, soprattutto a Varanasi, non ebbi mai l’occasione di vedere
animarsi i ghat, le enormi scalinate che portano al fiume, icona di Varanasi
stessa. L’acqua del Gange era alta e sugli scalini c’erano perlopiù i bufali in
ammollo.
Riuscii invece a vivere appieno quelle cerimonie dedicate al fiume
quando mi trovavo ad Haridwar e Rishikesh.
Haridwar è una delle città indiane esteticamente più brutte che abbia mai
visto, ma la sua cerimonia è estremamente importante e ogni giorno
partecipano al rituale migliaia di persone, il che l’ha resa quindi una tappa
obbligata durante il mio periodo in India.
Rishikesh è invece un villaggio molto famoso per la pratica dello yoga e
pare che questa disciplina abbia trovato la sua origine proprio nelle fredde e
rapide acque del Gange, che in quel luogo non è altro che un torrente.

Osservo Giona, ha gli occhi lucidi ma non credo sia a causa


dell’emozione, anzi, probabilmente è febbricitante. Decidiamo quindi di
farci lasciare in una zona semicentrale, adatta a poter ritornare sul fiume in
poco tempo.
Per prima cosa ci fermiamo a un baracchino e beviamo una tazza di chai
utile a schiarirci le idee.
«Aspettami qua con i bagagli, cerco in zona un posto dove dormire: se ci
vedono con gli zaini, sono capaci di rincarare il prezzo!»
Entrambi conosciamo qualche parola locale, ma troppo poche per
riuscire a gestire una trattativa vera e propria. A ogni modo, l’idea di andare
solo e senza zaino pare abbia funzionato, infatti, qualche minuto dopo, ci
ritroviamo in una sorta di reception di fronte a un uomo con i capelli e la
barba colorati di arancione e una tikka sulla fronte. La camera è all’ultimo
piano, il bagno è in comune ma poco distante e ci sono appena tre camere a
quel piano, quindi potremo starcene relativamente tranquilli.
Ci buttiamo entrambi a letto e crolliamo in un sonno profondo.

Mi risveglio qualche ora dopo con un buco allo stomaco, così mi


affaccio alla tromba delle scale per chiamare un ragazzino. I ragazzini
indiani sono davvero svegli, e questo non fa eccezione: ha immediatamente
capito che avrebbe racimolato una mancia se si fosse prodigato per noi. Gli
chiedo di portarci un thali, il piatto tipico indiano.
L’etimologia della parola thali è molto interessante e spiega tanto della
cultura locale: rimanda infatti alla parola «piatto», quindi non si tratta di
una vera e propria ricetta tipica o specifica della cucina indiana, quanto
piuttosto di una sorta di rappresentazione del pasto ideale.
Il thali si può trovare in ogni angolo dell’India e non è altro che un
grande piatto di acciaio diviso in scomparti o con all’interno tante ciotoline
chiamate katori, colme di porzioni di cibi differenti, oltre a una dose di riso
e chapati, il pane indiano. Solitamente è un piatto vegetariano: vi si trovano
porzioni di legumi, spesso lenticchie, qualche verdura cotta, qualche fetta
cruda di rapa bianca, carote, cetrioli, cipolla rossa e lime, una cialda
croccante di farina di ceci detta papadum, uno stufato solitamente molto
piccante chiamato masala a base di verdure e formaggio paneer, e infine
una porzione di yogurt di bufala, detto curd. Non manca ovviamente il
dolce, che consiste in una pallina di gulab jamun fatta di latte in polvere e
farina, fritta e insaporita da uno sciroppo dolce, praticamente un’istigazione
al suicidio per un diabetico.
Giusto il tempo per il ragazzino di tornare con il cibo fumante in camera,
che anche Giona si sveglia. Sta evidentemente male, è pallido e suda
parecchio.
«Ti senti la febbre?»
«Macché, sono una roccia! Sono solo stanco dal viaggio, fra’. Ottima
idea un thali, è quello che ci vuole per rimettermi in forze.»
Adoro il cibo indiano, intensamente speziato, ricco di aromi e molto
piccante.
«Ho preso un palak paneer a e un dal makhani b, se vuoi lo dividiamo.»
«Gustoso come il dal bhat c nepalese, vero?»
«Ahahah, fra’, bello il Nepal, adoro la sua popolazione, ma il cibo… tra i
peggiori al mondo!» commento.
Pranziamo ricordando insieme i tempi trascorsi nella valle di
Kathmandu; sembra trascorsa una vita intera.
«Adesso ci vorrebbe un caffè.»
«E invece… chai!»
Scendiamo in strada e, mentre sorseggiamo l’ennesimo chai, fermiamo
un tuk tuk.
Ogni volta la solita storia, facciamo fatica a farci portare a destinazione
perché si continuano a stupire del fatto che vogliamo recarci al Kumbh
Mela.
In questa seconda esplorazione siamo ben più sul pezzo e andiamo dritti
verso il pontile dove salpano le barche.
È molto più affollato a quest’ora, sono migliaia i pellegrini che si
riversano sulle rive del fiume per compiere le abluzioni: persone di ogni
casta e origine, bambini dappertutto e donne bellissime nei loro sari
colorati, ornate da orecchini in oro anche al naso.
La storia del sari è pazzesca e affascinante: è l’abito tradizionale e le sue
origini risalgono addirittura al 100 a.C., rendendolo uno dei pochissimi
indumenti a essere stati tramandati per così tanti secoli.
È costituito da una larga fascia di stoffa, lunga fino a nove metri, che
viene avvolta intorno al corpo secondo diversi stili in base alla sua origine e
funzione. Lo stile più comune è il Nivi, originario dell’Andhra Pradesh: si
avvolge la stoffa intorno alla vita, con un’estremità che gira intorno alla
spalla. Il sari si indossa sopra una sottogonna e una camicetta corta, detta
choli. Anche le decorazioni della stoffa variano a seconda delle caste e delle
religioni.
Siamo in un raduno induista, ma è bene ricordare che in India convivono
diverse religioni, frutto dei diversi popoli che nei secoli l’hanno occupata.
Di queste religioni, quattro sono originarie proprio dell’India: l’induismo, il
buddhismo, il giainismo e il sikhismo. A queste si aggiungono quelle dei
colonizzatori: il giudaismo, il cristianesimo, l’islam e lo zoroastrismo.
La maggioranza della popolazione è induista e si tratta di quasi un
miliardo di fedeli. Seguono i musulmani, circa il 14% della popolazione, e i
cristiani, intorno al 2%. Infine, i sikh e i buddhisti, gli zoroastriani, gli ebrei
e i giainisti.
I numeri certificano come l’induismo sia alla base di tutta la cultura
indiana. Gli induisti credono nella reincarnazione, una serie di
trasmigrazioni dell’anima da un corpo a un altro dopo la morte che
terminano con la salvezza dell’anima, chiamata Moksha. Fondamentali a
questo scopo sono la ricerca di un buon karma e il compimento buone
azioni per poter ambire alla liberazione da questo ciclo di vita-morte-
rinascita, chiamato Samsara. Non ultimo, per liberarsi appieno da queste
rinascite in cui l’anima soffre costantemente, occorre morire e farsi cremare
in una delle città sacre, in modo che le proprie ceneri siano disperse nel
Gange.
La Costituzione indiana vieta la discriminazione religiosa e fa appello
alla libertà di culto, quindi, almeno ufficialmente, l’India è un paese laico.
La vita religiosa riveste un ruolo molto importante nella vita sociale
indiana e, anche se gli indiani appaiono tolleranti di fronte alla fede altrui, i
matrimoni tra religioni diverse sono rari e le tensioni tra comunità,
soprattutto tra quella indù e quella musulmana, spesso hanno provocato
sommosse e addirittura attentati.
A tal proposito, la situazione internazionale tra India e Pakistan in queste
ultime settimane è piuttosto tesa, per la prima volta mi trovo quindi in un
contesto che potrebbe rivelarsi un obiettivo sensibile.
Evitare i luoghi particolarmente affollati e le processioni religiose è uno
dei primi consigli – spesso disattesi dal sottoscritto – che si possono infatti
trovare sul sito della Farnesina.
Arriviamo in uno spiazzo piuttosto largo, vicino alla riva del fiume, e
appena scendiamo dal tuk tuk ci accolgono due ragazzini con maschere
colorate che vogliono venderci alcune figure votive.
Vorrei far volare il drone per riuscire a catturare delle immagini e capire
come muoverci, ma vige il divieto assoluto di utilizzo, come chiaramente
segnalato da un cartello a ogni palo della luce.
«Saliamo su una barca per orientarci meglio, perché francamente non ci
sto capendo nulla!»
«Mi sembra una buona idea, contratto il prezzo.»
Giona è un ottimo negoziatore, specialmente in questi Paesi. In realtà si
parla sempre di pochi spiccioli, ma da un lato è divertente, e dall’altro la
negoziazione del prezzo è proprio parte integrante della cultura. Puoi essere
bravo e sgamato finché credi, ma non riuscirai mai a strappare un prezzo da
indiano se sei straniero!

In barca, finalmente, la situazione appare per quella che è, ovvero


immensa.
Non si riesce a delimitare chiaramente un inizio e una fine, le persone si
accalcano sulle rive, entrano in acqua, si bagnano tre volte e poi escono.
Nel mentre, offrono piccole puja, in questo caso fatte di larghe foglie che
galleggiando trasportano candele, incensi e immagini religiose. Il Gange è
decisamente sporco in questo tratto, sulle sue acque fluttuano innumerevoli
petali gialli e arancioni e poi tanta, tantissima plastica – una delle piaghe
più gravi dell’India. L’inquinamento delle proprie risorse naturali è anche
una delle più grandi contraddizioni indiane: venerare un fiume come una
divinità e poi sporcare costantemente le sue acque riversandovi qualunque
tipo di rifiuto.
«Il Gange nasce sulle pendici dell’Himalaya, tra i ghiacciai sacri a Shiva,
e il suo delta è immenso, si estende per oltre trecentocinquanta chilometri»
inizia a raccontarci un signore molto composto sulla barca. È visibilmente
orgoglioso di sfoggiare il suo inglese per spiegarci le sue nozioni; molte già
le conosciamo, ma rimaniamo ugualmente ad ascoltare in silenzio: mai
interrompere un indiano che tiene la sua lezione su storia e divinità, la
prenderebbe come un’offesa personale.
«Qui, alla confluenza del Gange con lo Yamuna e il Sarasvati, ogni sei
anni i credenti nel Brahman si ritrovano per celebrare questa festa: l’Ardh
Kumbh Mela. Il culmine è rappresentato dalla cerimonia dello Shahi Snan,
il bagno purificatore nelle acque del grande fiume sacro.»
Mi permetto di ribattere che questa fondamentale pratica della credenza
induista ora rischia però di provocare gravi danni alla salute di questi
milioni di pellegrini, talmente tanto le acque sono inquinate e sporche.
«La Ganga, dea generatrice di tutte le acque, è una madre generosa che
disseta, purifica e guarisce» risponde lui.
Disseta, purifica e addirittura guarisce…
Le acque del fiume ricevono decine e decine di tonnellate di ceneri dalle
cremazioni, e non solo: anche resti umani che vengono gettati nel fiume,
soprattutto a Varanasi. A questo si aggiunge la situazione di tutte le fogne
cittadine, che defluiscono direttamente nel fiume, senza alcun tipo di filtro o
depurazione, oltre ovviamente a indefiniti liquami di scarto delle industrie,
altamente tossici.
Si dice che le acque del Gange una volta fossero di un colore tra il verde
e l’azzurro, così come vengono raffigurate in tante pitture; ora invece sono
rosso scuro, a volte marrone.
L’inquinamento del fiume è infatti non solo una miscela terrificante di
colibatteri fecali, il cui livello è ben oltre i limiti tollerabili, ma anche di
altri elementi inquinanti, come prodotti chimici impiegati per usi agricoli e
idroelettrici. In queste acque proliferano batteri, virus e parassiti che sono
all’origine di colera, epatiti, patologie gastrointestinali e parassitosi che
ogni anno colpiscono, e spesso uccidono, bambini e adulti che si cibano dei
prodotti agroalimentari irrigati con le medesime acque.
A conti fatti, oggi il Gange è il fiume più inquinato di questa zona del
mondo ed è ovviamente annoverato tra i più contaminati al mondo.
«La Ganga, figlia del dio della montagna e sorella di Parvati, moglie di
Shiva, era talmente bella che gli dèi decisero di non farla scendere sulla
terra. Ma quando il re Bhagiratha, dopo aver trascorso mille anni in
meditazione sottoponendosi a tutte le privazioni del corpo, chiese a Brahma
di far scendere le potenti acque purificatrice di Ganga sulla terra, il dio
acconsentì e concesse a Bhagiratha il suo desiderio.»
La barca, nel frattempo, ci porta fortunatamente in punto dove poterci
immergere in acque un po’ meno stagnanti.
«Ehi, fra’, che facciamo? Un bagno nel Gange nei giorni del Kumbh
Mela potrebbe essere indubbiamente di buon auspicio! È zozza, ma guarda
che diverse teorie dicono che in realtà nelle acque c’è un batterio che uccide
gli altri batteri.»
Effettivamente, il Gange e il suo inquinamento sono oggetto non solo di
studi, ma anche di leggende e teorie quantomeno bizzarre, secondo cui nelle
sue acque vi sarebbe una sostanza sconosciuta, che gli indiani chiamano
«disinfettante», che agisce su batteri e materiali organici uccidendoli.
Prima di rispondere all’invito di Giona, controllo su internet per capire
quale sia la teoria più valida, ma c’è più confusione che altro su questo
tema. Un articolo dice addirittura che la qualità auto-purificante del Gange
genera livelli di ossigeno venti volte superiori a qualsiasi altro fiume al
mondo. Trovo persino una leggenda che narra nello specifico come l’acqua
del Gange abbia poteri straordinari.
«L’imperatore indiano Akbar la definì l’acqua dell’immortalità e
viaggiava sempre con una sua scorta personale. Una compagnia mercantile,
la British East India Co., invece, ha usato solo acqua del Gange sulle sue
navi durante il viaggio di tre mesi verso l’Inghilterra, perché rimaneva
dolce e fresca.»
Purtroppo, queste credenze hanno una forte presa sulle menti della
popolazione, abbastanza da neutralizzare gli avvertimenti sui rischi per la
salute. Molti pellegrini rifiutano di credere che l’acqua santa possa essere
pericolosa, nonostante le prove.
La realtà, tuttavia, è che il fiume è già inquinato molto prima che
attraversi le grandi città con ospedali, fabbriche o fattorie: la sua purezza
diminuisce perché si riempie di un tipo virulento di batterio resistente ai
comuni antibiotici.
Tra chi si è immerso, o addirittura chi ha usato quest’acqua per lavarsi
anche i denti, è stato riscontrato un numero talmente alto di infezioni
farmacoresistenti da rappresentare uno dei problemi di salute pubblica più
urgenti al mondo.
«Ganga è mia madre, non potrebbe mai farmi del male.»
«Mami Ganga, Mami Ganga» replica un ragazzino.
Mi guardo intorno e forse comprendo che è proprio per il fatto che il
Gange è stato elevato a divinità che chiunque si sente autorizzato a
utilizzarlo come una discarica capace di ripulire tutto, evidentemente non
solo i peccati.
«Io, fra’, mi immergo! E quando mi ricapita?» sentenzia Giona.

Un tatuaggio recente, fatto qualche giorno prima di raggiungere l’India,


mi fa desistere dall’idea di bagnarmi in quelle acque; Giona, invece, si sta
già svestendo.
Lo guardo dalla barca scendere in acqua e risalire tre volte come da
rituale e un po’ invidio la sua sfrontatezza e incoscienza. Nella mia vita ho
fatto tante cose stupide e probabilmente bagnarmi nel Gange sarebbe una
delle minori, ma francamente non me la sento. In tanti lo fanno e non tutti
subiscono poi conseguenze, ma credo anche che in troppi, soprattutto
occidentali, esagerino nel darsi delle arie per questo. Forse sono solo un po’
troppo pragmatico.
Nel frattempo, il barcaiolo comprende i miei dubbi e mi propone di fare
in alternativa un rito previsto per chi non si vuole immergere: si tratta di
versare del latte e poi aspergersi il capo con le acque del fiume. Non è
un’abluzione completa, perciò acconsento, ritenendolo un compromesso più
che adeguato.
L’acqua fresca del Gange a bagnarmi i capelli e la nuca mi ricorda un
rituale simile, di religione animista, a cui avevo partecipato in Senegal.
Ormai nella mia vita sono riuscito a collezionare diverse e sufficienti
benedizioni in giro per il mondo, penso.
Giona intanto risale in barca infreddolito e tremante.
«È fredda, fra’, freddissima!»
Al di là dell’inquinamento, visto il suo stato fisico e la temperatura
dell’acqua, nutro seri dubbi sul fatto che questo bagno sia stata una buona
idea.
La barca inizia a rientrare verso il pontile e mi meraviglio a osservare le
rive affollate: mi appare un caos di colori che incanta e quasi commuove.
La devozione di questi pellegrini è davvero disarmante.

Quando scendiamo dalla barca, un gruppo di bramini sta cantando le odi


alle acque purificatrici. Ci spiegano che questa preghiera è volta a sciogliere
i dieci peccati e favorire la fine del ciclo delle reincarnazioni.
La luce intorno a noi si fa via via più calda, l’aria comincia a colorarsi, è
il preludio al tramonto.
Tramonto significa anche che a breve avrà inizio il Ganga Aarti.
Ci fermiamo in un baracchino a mangiare un paio di samosa e scopriamo
che, visto il quantitativo di partecipanti e l’eccezionalità dell’evento, i
Ganga Aarti sono diversi e vengono svolti in luoghi differenti. Il venditore
ci suggerisce di andare nella zona sette e così, senza pensarci un minuto,
volgiamo i nostri passi in quella direzione, unendoci a un’ampia folla.
Arriviamo in fondo a una strada che conduce a un palco di fronte alle
acque; ci saranno più di un centinaio di persone. Cominciamo a montare i
treppiedi e settare le videocamere, pronti per cogliere l’eccezionalità del
momento.
La cerimonia del Ganga Aarti è una delle più belle e colorate che si
possano vivere, non solo in India ma nel mondo intero: mi aspetto molto da
questo rituale.
«Qui strappiamo delle riprese super, fra’!»

Giona ha ragione. Inquadro il palco quando salgono i pandit, così sono


chiamati i sacerdoti induisti.
I loro abiti, detti pakistani, sono di colore giallo zafferano e rosso
mattone e simboleggiano rispettivamente l’energia vitale e la spiritualità.
La musica scompare, si avverte il tintinnio di piccoli archetti.
È il segnale di inizio.
Osservo quasi ipnotizzato i pandit mentre compiono i loro movimenti
precisi usando le lampade alimentate con oli sacri: vengono prima rivolte
verso la statua raffigurante la dea Ganga per sette volte, e poi verso i fedeli
per altre sette, fino a tornare verso la divinità. Altri quattro giri vengono
fatti verso i piedi della statua, due verso l’ombelico e tre al viso, infine sette
giri verso l’intera figura.
Si innalzano canti e preghiere e percepisco chiaramente i suoni delle
campane cerimoniali, dei gong, dei tamburi e delle inconfondibili
conchiglie sacre di Visnù. Il momento che preferisco è quando da queste
ultime risuona l’Om, il suono primordiale della creazione.
Il profumo di incenso di legno di sandalo è il simbolo della liberazione
dall’ego, che vola nell’aria una volta purificato, lo sento pervadermi le
narici.
Uso il teleobiettivo per inquadrare i più piccoli particolari: intravedo dei
vassoi di metallo cosparsi di fiori e la candela, chiamata diya, che, riempita
solitamente di olio di cocco, ardendo non lascia residui. Mi spiegano che
rappresenta l’ego che scompare senza lasciar traccia una volta raggiunta la
realizzazione spirituale.
I canti proseguono e i fedeli rispondono inchinandosi ai gesti coordinati
dei sette sacerdoti, in piedi sul palco come in attesa di abbandonarsi nel
seno della loro madre Ganga.
Giona è dall’altra parte del palco e mi fa segno di tenermi pronto.
Siamo quasi al temine del rituale quando le lanterne vengono fatte girare
tra la folla dei credenti, che avvicinano le mani sul fuoco per poi coprirsi il
volto in segno di purificazione. Appoggio la videocamera ed eseguo anch’io
questi gesti ancestrali.
Mi rendo conto che, per quanto ci siamo emozionati, abbiamo passato il
tempo principalmente a filmare e fotografare, perdendoci buona parte della
magia del rituale, così mi sovviene un’inevitabile riflessione che faccio
spesso durante i miei viaggi: troppe persone viaggiano unicamente per
scattare una foto, o semplicemente un selfie, solo per attestare la propria
presenza in quel luogo o in quella determinata situazione e poterla poi
raccontare sui social. Purtroppo, sempre più persone sono schiave di questo
consumismo digitale e si perdono la magia e le vibrazioni di luoghi e
momenti come questo. Per ragioni di lavoro ho sempre a portata di mano
una macchina fotografica e tutto il necessario per documentare anche sui
social le mie avventure; ormai condividere è diventata la mia attività
principale. Tuttavia, quando capitano situazioni come questa, dove ho
filmato materiale straordinario ma mi sono perso tutto il resto, mi rimane un
vero e proprio amaro in bocca. In un certo senso mi fa pensare di vivere
queste sensazioni come un lavoro, in modo quasi sterile, e tendo a non
darmene pace.
Nella mia vita ho sempre rifuggito tutto questo, ho sempre privilegiato
l’approfondimento alla superficialità: prima vivere un’esperienza e dopo,
semmai, raccontarla, non fotografare e postare come prima cosa. Stavolta
non sono con un gruppo e tantomeno in un viaggio solitario, ma mi trovo
con uno dei miei più cari amici a vivere un’avventura unica nel suo genere,
liberi di poter creare con queste immagini e sensazioni qualsiasi cosa, che
sia un’opera d’arte o più semplicemente il ricordo di questi giorni.
Liberi.
Non devo dipendere da un capo che mi ha affidato la missione di portare
a casa immagini e filmati di un certo tipo, no, sono libero di poter tirar fuori
da questa esperienza qualunque racconto in qualsiasi forma.
«Che giornata, fra’.»
«Hai ragione, sto a pezzi.»
«Andiamocene a dormire, domani ce ne aspetta un’altra bella lunga.»

Il giorno successivo ci svegliamo di buon’ora: è arrivato il momento di


dedicare un giorno intero al Kumbh Mela, dall’alba al tramonto.
Assistiamo subito a una cerimonia di bramini che si pongono in cerchio
vicino alle rive: sembrano danzare mentre eseguono continui movimenti in
su e in giù sulle ginocchia, toccandosi le orecchie e il naso.
Mi piacerebbe capirci di più, ma è difficile trovare persone con cui
dialogare che parlino un inglese comprensibile, nonostante sia una delle due
lingue ufficiali della nazione insieme all’hindi. La realtà è ben più
complessa: esistono almeno ventidue lingue nel Paese e un quantitativo
indefinito di dialetti locali. Probabilmente non basterebbe quindi nemmeno
conoscere la lingua locale. Comprendere l’India è estremamente difficile,
quello che un occidentale come me può fare è quindi semplicemente sedersi
in disparte e osservare.
Tuttavia, anche questo non è scontato: a questo raduno gli occidentali
sono molto rari, perciò vengo continuamente fermato per una fotografia,
oppure perché qualcuno vuole vendermi qualcosa, o chiedermi
un’elemosina.
Non riesco a godere della situazione, quindi cambio strategia e utilizzo il
teleobiettivo in modo da poter avere una visione ancor più privilegiata delle
persone, dei gesti e dei rituali. Scatto pochissime foto e registro ancor meno
video, tuttavia mi sembra, in qualche modo, di violare la sacralità del luogo
e del rito.
«Hai notato che ci sono pochi baba?»
«Me ne aspettavo molti di più, effettivamente. Forse sono già andati a
Varanasi.»
«All’after?»
«Beh, pensaci: con Varanasi a pochi chilometri, ha senso spostarsi in
quella città perché, a differenza di Allahabad, è piena di turisti e tu sai bene
come i baba possano raccogliere soldi in quei casi.»
«Ahahahah, i fotobaba!»
«Esatto, fra’!»

Fu da Charlie che sentii usare per la prima volta il termine «fotobaba», a


Kathmandu. Essendo i baba dei personaggi estremamente fotogenici e
iconici, chi visita l’India non aspetta altro che vederli dal vivo e
fotografarli. E postarli.
Nelle nostre esperienze ne abbiamo conosciuti tantissimi, ma proprio
perché ci ritroviamo al Kumbh Mela eravamo convinti di incontrare quelli
più autentici, quelli che scendono dalle montagne e provengono dalla
giungla solo per le abluzioni di questo periodo. Questi individui, alle volte
temuti, sono sempre e comunque rispettati. Dicono di non appartenere più a
questo mondo, pur vivendoci. Non sembrano soggetti alle stesse leggi
fisiche dei comuni mortali, si ritiene infatti che ne abbiano trasceso i limiti.
Spesso sono nudi, come i Naga Baba, e vestiti unicamente della cenere
sacra. In questo pellegrinaggio, nel giorno del bagno più propizio, sono loro
gli ospiti più attesi, ma si dice che nessuno li veda arrivare e tantomeno
ripartire. Semplicemente, compaiono per bagnarsi nelle sacre acque e poi
scompaiono.
Verità mista a leggende e credenze: un ambiguo mistero che affascina
qualsiasi occidentale.
Il problema è che ne stiamo incontrando ben pochi e la maggior parte di
questi sono proprio fotobaba: anche solo per una foto chiedono diverse
rupie e, quando vedono che siamo occidentali, alzano costantemente le
pretese.
Comprendo il fenomeno, ma non posso non avvertirne la contraddizione
intrinseca, dato che il baba asceta è invece una persona che ha rinunciato
non solo alla casta e alla posizione sociale, ma anche al denaro. La rinuncia
comprende anche l’autorità, tuttavia il baba occupa comunque un posto di
rispetto nella società. Sono a tutti gli effetti gli uomini santi dell’India,
coloro che ricercano la via per essere illuminati attraverso la meditazione e
una rigorosa pratica spirituale.
Tra India e Nepal se ne contano circa quattro milioni, organizzati in varie
sette, ma è curioso notare come sempre più siano occidentali.

«Secondo me semplicemente non sono qui al fiume, dovremmo provare


a vedere se ne troviamo qualcuno tra quelle tende dove dormono i
pellegrini.»
«Sembrano degli slum.»
«Non hai tutti i torti, ma che ci siano o meno i baba, direi che dobbiamo
buttarci anche lì in mezzo.»
«Andiamo!»
Lasciamo il fiume per dirigerci verso le colonne che sorreggono il ponte
Sastri, alla cui base avevamo notato diverse tendopoli. I fiumi in questo
periodo dell’anno sono in secca e la loro portata è molto modesta, motivo
per cui le varie comunità religiose si accampano nel letto sabbioso.
Attraversiamo luoghi di una povertà inimmaginabile: le condizioni
igieniche sono precarie, con bagni e orinatoi all’aperto. I bambini si fanno
la doccia utilizzando un tubo rotto per terra, nudi, a sguazzare nel fango. Le
donne su quella stessa terra puliscono i vestiti, mentre c’è chi dorme e chi si
guarda in giro, lo sguardo perso.
L’odore nell’aria è tremendo, rancido.
Un gruppo di bambini ci corre incontro, entusiasmati all’idea che gli
scattiamo delle foto. Tra un ritratto e l’altro, intravediamo poco più in là un
gruppo di baba.
Lasciamo i bambini e ci avviciniamo.
Riconosco certi sguardi insofferenti – chi frequenta i baba, spesso li
cerca solo per comprare del fumo – ma noi invece siamo a caccia di storie e
situazioni autentiche. E poi il fumo, quello buono, ce l’abbiamo già in tasca.
Anziché chiedere fumo, lo offriremo: siamo certi della buona riuscita del
piano.
Fortunatamente, un ragazzo di circa vent’anni parla qualche parola di
inglese e così gli spieghiamo il nostro intento.
«Venite, siete i benvenuti!»
Ci sediamo per terra, vicino al baba e ai suoi discepoli. È piuttosto
anziano, i lunghi capelli sono sporchi e bianchi, ci mostra una sua foto.
«È un baba molto rispettato» ci spiega il ragazzo.
Facciamo subito la nostra offerta, appoggiando il pezzo di fumo accanto
al fuoco sacro. Il baba lo prende in mano, lo osserva con attenzione, lo
annusa e poi si lancia in una danza euforica, incontrollata. Ride e si dimena
su sé stesso: lo abbiamo conquistato.
Trascorriamo un paio d’ore insieme e nel frattempo si riunisce un
manipolo di persone piuttosto numeroso. I ragazzi sono molto curiosi delle
nostre macchine fotografiche e così decido di metterne una in mano a uno
di loro. Scelgo quella più resistente a urti o danneggiamenti e gli chiedo di
filmare questo momento.
Ci ritroviamo con un cineoperatore locale che riprende secondo il suo
punto di vista: ovviamente concentrato su di noi, spavaldi occidentali in uno
slum, carichi di equipaggiamento fotografico prezioso e per nulla intimoriti
dalla situazione.
È proprio in queste situazioni che riconosco il popolo indiano:
premuroso, attento, curioso. Potrebbero tranquillamente lasciarci in
mutande senza che nessuno gli desse la caccia, ma non succede.
Una volta mi trovavo su un treno indiano, ovviamente in sleeper class,
quando mi svegliai senza trovare più il mio telefono. Cercai dappertutto,
nelle tasche e nello zaino, ma nulla. A un certo punto un ragazzo, che
dormiva nella cuccetta sotto la mia, sentendomi muovere si avvicinò e mi
porse il telefono, che mi era caduto nel sonno. Un telefono che valeva
quanto diversi mesi di salario per un indiano medio: poteva rubarmelo e
rivenderselo, invece lo avevo protetto e restituito.
Proprio per questo non sopporto chi mi chiede della sicurezza in viaggio:
«Ma non hai paura che ti succeda qualcosa?», «Non temi che ti possano
derubare o assalire?». Certo che lo temo, ma non mi faccio condizionare da
questo, anzi.
Quello che ho imparato nella mia vita di viaggiatore è che sono molte
più le persone che vogliono aiutarti rispetto a quelle che vogliono fregarti.
E, paradossalmente, il rapporto tra queste è molto differente a seconda che
si tratti di Paesi sviluppati o no. Negli stati più poveri non ho mai rischiato
nulla, mentre mi sono ritrovato in situazioni scomode quando ero nei Paesi
più ricchi, come Brasile o Stati Uniti.

A un certo punto, di fianco a noi, si siede un omone vestito d’arancio con


una lunga sciarpa di seta sulle spalle: non sembra appartenere a una casta
elevata, considerato dove siamo seduti, tuttavia è distinto e parla un inglese
corretto.
«Il concetto del baba trae ispirazione dall’immagine di Shiva, con i
capelli lunghi e il corpo coperto di cenere» inizia a raccontarci, e finalmente
ci godiamo una spiegazione autentica, non filtrata da qualche guida di
viaggio.
«Un baba non appartiene ad alcuna casta ed è libero di aderire a qualsiasi
strato della struttura sociale. Nella storia, ai baba è stata attribuita buona
parte dello sviluppo della cultura indiana: arte, architettura, musica, poesia e
letteratura. Hanno influenzato e formato il mondo che hanno abbandonato
con i loro infiniti viaggi da un sito sacro all’altro, cantando canzoni,
recitando poesie e portando icone, dipinti e altri oggetti santificati.»
«In passato forse» replica Giona.
«La globalizzazione» interviene serafico il baba, mentre raccoglie la
mista e carica il chillum.
Sulla sua fronte ha tre linee verticali disegnate in pasta di cenere, sono
simbolo del tridente. Sono possibili variazioni infinite di questi segni, a
seconda proprio della setta. I baba possono decorare i loro corpi con varie
linee e marcature, coprire tutto il torso con ceneri, portare un tridente di
metallo e indossare rosari.
Poiché hanno rinunciato ai beni terreni e troncato ogni legame con la
loro famiglia, possiedono poco o nulla, e così anche l’abbigliamento è
minimo ed essenziale; le tuniche possono essere bianche, gialle, zafferano o
arancione come in questo caso.

«Quelli come lui vivono di offerte e trascorrono la vita spostandosi in


piccoli gruppi sulle strade dell’India e del Nepal, da una meta di
pellegrinaggio all’altra e da un festival all’altro» spiega Giona.
Ciò che mi incuriosisce maggiormente sono le differenze tra le varie
sette, prima di arrivare non mi sono documentato a sufficienza. Tante sono
le diversità al riguardo e in taluni casi sono davvero importanti. Chiedo così
lumi all’omone.
«Ci sono tantissime differenze comportamentali tra le varie sette di baba:
alcune consumano regolarmente ganja e hashish come sorta di via per
comunicare con Shiva, altre addirittura bevono liquori, non hanno alcuna
inibizione al sesso e amano circondarsi di elementi che richiamano la
morte. Tutti comportamenti che tecnicamente sarebbero proibiti dalla legge
indiana e nepalese, ma che vengono comunque permessi agli asceti. Hanno
addirittura un vero e proprio patentino.»
«Ma come un patentino, davvero?»
«Quando te lo dicevo non mi volevi credere, fra’!»
«Attenzione, perché alcune sette, tuttavia, rifiutano questi
comportamenti giudicandoli immorali e contrari ai loro ideali. Vi spiego
meglio: ci sono tante sette differenti, per esempio la setta del Dasanami, che
ha circa dieci rami sparsi in tutta l’India: ognuno ha un braccio armato
chiamato Nagas. Seguono il tantrismo e lo shaktismo, mangiano carne,
prendono stimolanti e spesso sono criticati per le loro pratiche erotiche. I
Gorakhnathi sono invece asceti della scuola tantrica di Gorakhnath, e sono
famosi per i loro grandi orecchini chiamati kundala.»
La mia mente si perde tra queste descrizioni, adoro sentir parlare le
persone del posto che con entusiasmo si impegnano a raccontarmi la loro
storia, le loro origini, le loro leggende e tradizioni. È l’aspetto che più mi
incuriosisce in un viaggio.
«Ci sono poi gli Aghori Yogi, noti per i loro riti che hanno a che fare con
la morte, oppure quelli originari dell’India del Sud, che passano le giornate
meditando su Shiva, riconoscono l’uguaglianza tra i sessi e portano un
piccolo contenitore al collo.»
«Ma la storia delle liti: quando è il momento di bagnarsi qui al Kumbh
Mela?»
«È l’antica e annosa questione tra Vishnaiti e Shivaiti. I primi venerano
Visnù e non hanno abbracciato i comportamenti estremi degli asceti
Shivaiti; il loro segno di identificazione comune è una V bianca disegnata
sulla fronte, con una linea aggiunta in bianco o rosso al centro. Di solito
indossano tuniche bianche e portano perline di tulsi. Si dice, ma questo è il
tema della contesa, che i Vishnaiti si siano diffusi successivamente ai
Shivaiti. Da qui il diritto o meno a bagnarsi per primi nel Gange e le liti che
ne conseguono.»
«E chi ha ragione?»
«Fumati un chillum fra’, è meglio!»

Trascorriamo tutto il pomeriggio con loro a ridere, scherzare e imparare


nuove nozioni sulla società e la cultura indiana. Mentre salutiamo il gruppo
e rientriamo verso il centro della città, siamo silenziosi; abbiamo capito
entrambi di cosa si tratta: sentiamo conclusa la nostra esperienza a questo
Kumbh Mela e allo stesso tempo sentiamo crescere la voglia di andare a
Varanasi.
Mi fermo a osservare il fiume, con il sole pronto a tuffarsi nelle sue
acque.
Intorno a noi le abluzioni si susseguono senza sosta.
Persone e vite così apparentemente lontane e allo stesso tempo così
simili alle nostre.
Rifletto su quanto sia incredibile ciò che muove ogni dodici anni una tale
moltitudine di individui di ogni casta e origine.
Che sia il potere di una fede?
Indubbiamente, ma c’è molto di più.
Che sia invece l’amore?
L’amore è latente in India, altrimenti non si spiegherebbe una
convivenza pacifica tra oltre un miliardo di persone.
Forse la speranza di porre fine ai propri tormenti?
Qualunque sia la ragione, ciò che i miei sensi stanno percependo supera
ogni immaginazione.
Vedo quella che è una processione assumere a volte i tratti di
un’esibizione; vedo un rituale che trascende il sistema delle caste, e che
contemporaneamente lo sancisce ancora di più.
È vero, il Kumbh Mela è un’antica liturgia, ma cosa riesce a renderlo
così affascinante ai miei occhi? Forse è un evento talmente unico da
costituire un autentico sogno per tanti viaggiatori. Perché è un concentrato
di India, un autentico microcosmo con le sue regole e i suoi equilibri.
Allora perché l’India? Perché ai viaggiatori è sempre venuto un brivido
lungo la schiena nel sentir parlare di questo Paese? Perché è costantemente
capace di stupire e ammaliare in mezzo a tanta miseria e abbandono?
Perché l’India, per quanto è vera, è un pugno nello stomaco e un tuffo al
cuore.
Un ossimoro vivente: sacra, lurida, surreale e commovente. Odora di
incensi, fumo e ceneri. Affascinante come pochi Paesi al mondo e
contraddittoria perché lì in mezzo, nonostante la sporcizia e gli odori fetidi,
si respira sacralità ovunque. Morte e vita, e una moltitudine di divinità tale
che ogni luogo nasconde un racconto o un rito.
Un improvviso istante di presenza, capace di mostrarmi come la vita mi
scorra intensa davanti agli occhi, come scivoli inesorabile dalle mie mani.
Forse perché tra queste acque la vita si intravede per come appare
realmente: complessa, senza dubbio, ma carica di speranza e amore.
E come diceva Tolstoj, proprio la vita è a volte stretta, fredda, tranquilla
e limpida.

a. Formaggio paneer immerso in una purea di spinaci.


b. Zuppa a base di lenticchie, fagioli e burro.
c. Zuppa di lenticchie, accompagnata da riso.
Capitolo 6

Varanasi, 28 febbraio 2019


A mano a mano che passano i giorni, io e Giona ci rendiamo conto che
fondamentalmente siamo arrivati troppo tardi al Kumbh Mela di Allahabad
e stiamo vivendo una sorta di onda lunga. Nel frattempo, ci continuano ad
arrivare notizie di una Benares – l’antico nome di Varanasi – in gran
spolvero, proprio perché, come diceva Giona, sadhu e baba si sono spostati
da Allahabad a Varanasi.

Lasciamo quindi Allahabad e arriviamo in serata a Varanasi, dopo


l’ennesimo viaggio in treno, questa volta molto breve. Per entrambi questa
città è una sorta di luogo del cuore in India, perché tra questi ghat abbiamo
vissuto alcune tra le nostre esperienze più significative. Giona ci è stato
addirittura per mesi, io invece qualche settimana. Da un lato è molto
turistica, vista la sua fama, dall’altro è qualcosa di estremamente autentico
ed evocativo.
Prima di essere chiamata Varanasi o Benares, l’antico nome della città
era Kashi, una antica erba che pare crescesse da queste parti, quando le
acque del Gange erano cristalline.
Appena si giunge in città, la prima impressione è di esserne
immediatamente sopraffatti. È considerata una delle città più antiche del
mondo, oltre a essere la città di Shiva. Fin dal primo momento appare
chiaramente il contrasto tra la morte e la vita, tra la gioia e il dolore, tra
l’acqua e il fuoco. Il suo sviluppo urbano è quantomeno insolito a una
prima occhiata: a ovest del Gange vicoli stretti, oscuri e sporchi, mentre la
riva orientale è deserta perché considerata impura.
È nei suoi ghat, le scalinate che scendono al fiume, che batte il cuore
pulsante di questa città, luogo di pellegrinaggio per eccellenza. I ghat sono
circa un centinaio e dall’alba al tramonto pullulano di vita: pellegrini fedeli,
mendicanti, asceti, praticanti di yoga, venditori, mucche, bufali che si
abbeverano e rinfrescano, baba, fotobaba e tanti turisti che osservano
incuriositi questa città che appare letteralmente sospesa nel tempo.
Camminare su questi ghat dall’alba al tramonto, tra abluzioni e cremazioni,
significa fare una sorta di salto nel passato, assistendo a persone che
credono ciecamente in riti e miti e, nel farlo, rendono onore a un fiume atto
a lavare i peccati della vita oltre che a cremare i corpi dei defunti. Le prime
puja iniziano con il sole che sorge proprio da quella sponda del Gange
considerata impura, e continuano fino alla notte, quando il fuoco e la luce
vengono offerti al fiume, tra canti, liturgie, conchiglie suonate, cimbali e
migliaia di offerte votive luminose che fluttuano sulle acque.
I ghat sono scalinate secolari di pietra, originariamente pensate come
accesso al fiume per i pellegrini.
Esistono ghat specifici per ogni funzione: quelli sacri dedicati alle
abluzioni, quelli dove ci si pulisce il corpo, e quelli dove semplicemente si
lavano i panni. Famoso a tal proposito è il Dhobi Ghat di Mumbai,
specializzato nel lavaggio dei vestiti e conosciuto come la più grande
lavatrice del mondo.
I cosiddetti burning ghat sono invece quelli destinati al rituale della
cremazione. Non vi sono separazioni tra l’uno e l’altro ma, osservando con
attenzione la vita sul fiume, le differenze appaiono marcate.
Le rive si estendono per quattro chilometri, con ottantaquattro ghat e
oltre trecento templi dedicati a diverse divinità. Lungo le gradinate
principali, sotto grandi parasole, i sacerdoti, gli astrologi e gli indovini
prestano servizio per i credenti, impartendo mantra e responsi, officiando
riti e intercedendo con le divinità, mentre centinaia di sadhu meditano,
praticano yoga, fumano chillum o semplicemente trascorrono lungo il fiume
la loro vita ascetica.
Scendere questi gradoni che dalla foresta urbana di Varanasi portano alla
riva del Gange è un’esperienza che abbraccia pienamente tutti i miei sensi.
Il principale ghat di Varanasi è il Dashashwamedh Ghat: qui si concentra
la maggioranza della popolazione, poiché è il cuore del Chowk, il quartiere
commerciale antico. E qui si concentrano anche i turisti, perché ricco di
guesthouse ed è il luogo da dove partono le principali barche per le
escursioni sul Gange. La Ganga Aarti più fotografata della città e
probabilmente di tutta l’India si svolge proprio qui.
Se si procede verso nord si incontrano dapprima il Lalita Ghat, in stile
nepalese, e poi il Manikarnika Ghat, il centro principale per le cremazioni.
Quest’ultimo, secondo la religione induista, è uno dei luoghi più popolari e
più propizi per farsi cremare.
Verso sud invece si incontra il Munshi Ghat, riservato alla popolazione
musulmana, che usa il fiume unicamente per lavarsi, senza investire la
pratica di particolari significati religiosi.
Continuando, si susseguono l’Ahilya, il Darbhanga e il Dhobi Ghat,
dove lavorano invece i lavandai.
A un certo punto, sulla destra, vi è una grande torre rosa: un deposito per
l’acqua, che domina Narad e Chauki Ghat, sacri perché ricordano episodi
della vita del Buddha.
Camminando oltre, si scorgono poi altri ghat famosi, come il Raj Ghat,
dove sono marcate le piene del fiume, e Shamshan Ghat, il più sacro per le
cremazioni, nonostante sia molto meno popolare del Manikarnika.
Infine, Assi Ghat, il mio preferito. Si trova nel punto in cui il fiume Assi
confluisce nel Gange dando luogo a un sito particolarmente sacro: è uno dei
cinque ghat dove i pellegrini dovrebbero bagnarsi nello stesso giorno per
rendere efficaci le loro preghiere.

«Ci fermiamo a dormire ad Assi, vero?»


Non abbiamo neppure bisogno di parlarne e con il tuk tuk ci facciamo
portare direttamente in quella zona della città. La guesthouse dove ero
solito alloggiare non esiste più, così andiamo da Karki, un nepalese che
gestisce un ristorante nel quartiere. Avendo avuto una relazione con una
ragazza italiana, Karki ha imparato a cucinare sia la pizza sia le tagliatelle, e
ora i ragazzi che lavorano per lui le cucinano fresche ogni giorno. Avere a
che fare con un nepalese a Varanasi ha i suoi aspetti positivi, soprattutto per
persone come noi che hanno il Nepal come seconda casa.
Gli indiani che incontri a Varanasi hanno purtroppo l’eccessiva tendenza
a imbrogliarti, proprio perché è una città piena di visitatori sciroccati che si
bevono tutte le storie possibili e immaginabili sull’India.
Per prima cosa ci mangiamo proprio un piatto di tagliatelle al sugo di
pomodoro e poi chiediamo consiglio su dove dormire. Karki ci suggerisce
una guesthouse gestita da una famiglia di bramini poco distante, così
seguiamo il consiglio e, grazie alla sua intercessione, strappiamo pure un
ottimo prezzo per una stanza doppia con il bagno in camera e un balcone
che ci offre la vista sulla strada principale.
Ci riposiamo chiacchierando un po’ in stanza, ma Giona continua a non
stare bene.
Prima di andare a dormire decidiamo di farci una passeggiata sui ghat.
La luce è fioca e calda, regala una visione quasi filtrata, color seppia, è
magica.
Incrociamo poche persone, ma Assi Ghat è un luogo che la sera
acquisisce maggiore intimità, proprio poiché è abbastanza distante dai ghat
centrali.
Ci fermiamo su un gradone rialzato, di fronte ai nostri occhi le acque
docili del Gange, una leggera nebbia dovuta all’umidità; l’aria è fresca.
Passa un ragazzino che vende chai e ovviamente ne prendiamo un paio.
«Dai, ma perché non vieni con me su in Nepal? Pensaci, saliamo via
terra con un bus notturno, all’alba siamo a Sonauli, nel pomeriggio a
Kathmandu. Per cena riusciamo a fare una sorpresa ai nostri ragazzi a
Panauti! Ti immagini le loro facce quando ci vedranno arrivare?! E poi con
loro c’è Vittoria, da quanto tempo non la vedi?» mi incalza all’improvviso
Giona.
Il mio amico parla dei nostri fratellini nepalesi acquisiti, quei ragazzi che
aiutiamo dalla fondazione di Human Traction; Vittoria invece è sua sorella,
fondatrice del progetto.
«Hai ragione, ma tra qualche giorno ho l’aereo da Delhi. Vengo in Nepal
per starci quanto? Trentasei ore?»
«Fra’…»
«Dai, andare su a Sonauli a bordo di uno di quei bus scassati e ingolfati
di gente: lo sai che non arrivano mai all’orario previsto. Starei in ballo
almeno ventiquattr’ore per passarne poche di più con voi, comprare un
biglietto aereo per Delhi e poi ripartire. Lo sai anche tu che non ha senso!»
«Vabbè, fai come vuoi.»
«Ok, ma chi voglio prendere in giro? Vengo in Nepal anch’io!»
«Bravo, fra’, lo sapevo che ti bastava parlare un minuto con un nepalese
per farti salire la voglia di quel Paese!»
«È che l’India dopo un po’ mi fa venire voglia di Nepal.»
«Ahahahah!»
La verità è che sarei partito questa sera stessa, tanta è la voglia di
mettermi in viaggio verso la leggendaria frontiera di Sonauli, quella che
tantissimi backpackers hanno attraversato nel bene e nel male, in una
direzione e nell’altra. Sul mio passaporto ho ben due timbri di quella
frontiera, il terzo ci sarebbe stato bene.
«Godiamoci qualche giorno Varanasi e poi torniamo a casa.»
«Sì, dai, già la conosciamo, non dobbiamo fare nulla di turistico, non
abbiamo posti da esplorare, possiamo tranquillamente lasciarci cullare dagli
eventi.»

Il giorno dopo mi sveglio presto e di ottimo umore, ho voglia di fare


colazione con un lassi e di vivere un po’ l’atmosfera dei ghat all’alba. Mi
giro verso il letto di Giona, ha il respiro pesante.
«Tutto bene?»
«Sto a pezzi, fra’, penso di avere la febbre, stanotte mi sarò svegliato
cinque o sei volte: avevo caldo, poi freddo. Tremo, sudo. Sto a letto
stamattina, provo a riprendermi e ti raggiungo dopo.»
«Ok, se hai bisogno di qualcosa, scrivimi.»
«Cerca le informazioni per il bus diretto a Sonauli, accanto a Karki c’è
un’agenzia. Potremmo partire dopodomani.»
Scendo le scale della guesthouse e mi butto in strada. Anche se è solo
l’alba, le strade indiane sono già intasate e i clacson fanno da colonna
sonora. Mi faccio largo per arrivare il prima possibile sui ghat, in modo da
andare a Chowk passando per il fiume, molto più rapido e affascinante ma
soprattutto privo di traffico e clacson. Certamente Varanasi è molto simile a
qualsiasi altra città indiana in termini di rumore, confusione, guidatori di
risciò e bagarini, in fondo nulla di nuovo, ma non riesco mai ad abituarmici,
mi suscita costantemente una sorta di attrazione.
Varanasi è sporca e impoverita, in alcuni luoghi l’odore è talmente forte
e nauseante da sembrare un inferno, tra sterco e urina di mucca ovunque,
ma non solo, anche quelli di capre, topi, cani e persino umani. Eppure, è la
più santa delle città sacre dell’India. In fondo, non è un posto da visitare in
sé, perché non offre monumenti architettonici o siti archeologici particolari,
a parte alcuni templi, ma è affascinante grazie ai pellegrini e ai loro riti, è
un luogo da vivere, in cui fermarsi e semplicemente osservare.
Ora sto camminando in mezzo a ragazzini intenti a giocare a cricket. Più
mi avvicino ai ghat principali, più gli stessi mi appaiono affollati, e in
questo periodo lo sono sicuramente ancor di più. Giona aveva decisamente
ragione: non si contano le tende di sadhu, baba e asceti. All’alba alcuni
dormono, altri si lavano nel fiume, altri ancora iniziano il processo per
cospargersi il corpo nudo di cenere.
Non è semplice penetrare i molteplici significati di questi complessi
rituali, ma mi sento già privilegiato a poter assistere con i miei occhi a tutto
questo. In questo periodo di Kumbh Mela, in particolare, sembra che tra
questi ghat si concentri tutta la spiritualità che pervade l’India.
Ovviamente, anche i ghat sono controversi. La loro spiritualità fa a pugni
con la commercializzazione palese del sacro: i templi sono spesso
circondati da negozi di souvenir; per arrivarci si devono attraversare lunghe
vie di negozi, bancarelle, cianfrusaglie. Pubblicità di imprese di seta,
operatori telefonici, banche e occhiali da sole sono appese un po’ ovunque.
In tanti, troppi mi fermano. Vogliono vendermi qualcosa, oppure alcuni
baba si offrono di farsi ritrarre in foto, ovviamente dietro compenso di
qualche rupia.
Non cedo, il mio obiettivo è prima di tutto fare colazione. Raggiungo il
mio negozio di lassi preferito e ne ordino uno al mango. Il lassi è una
bevanda tipicamente indiana, della zona del Punjab, preparata mescolando
il dahi, lo yogurt, con acqua e sale. Aggiungendo zucchero, acqua di rose e
burro, oltre a pezzi di frutta ed estratti di zafferano, si ottiene quello che io
preferisco in assoluto: è una versione un po’ da turisti, ma è davvero
appetitoso.
Vi è anche un’ulteriore e divertente variante al lassi, chiamata bhang
lassi, che qui a Varanasi è una vera e propria trappola per turisti. Si tratta di
un lassi a base di cannabis, miele e spezie. È legale in molte parti dell’India
e si vende soprattutto durante alcune festività, come Shivaratri e il festival
dei colori, detto Holi, durante il quale si mangiano a volte anche pakora
(frittelle) contenenti anch’esse marijuana. Questa tradizione nasce dal fatto
che in Nepal e in India vi sono enormi piante di marijuana che crescono
spontanee e selvatiche a bordo strada. Una volta all’anno vengono tagliate
per ricavare queste bevande, che vengono offerte anche a bambini e anziani.
Questa storia del bhang lassi ha ormai assunto caratteri da leggenda
metropolitana, ma i commercianti indiani hanno capito subito come
sfruttarla a loro vantaggio: con tutti i turisti che girano per i vicoli della
città, è estremamente facile trovare chi voglia provarlo, e spesso viene
venduto sottobanco a un prezzo decisamente esorbitante, direi occidentale.

Dopo aver fatto colazione, compro un po’ di chapati per Giona e torno
sui ghat per rientrare in guesthouse, non prima però di essere passato in
agenzia viaggi.
«Mi dispiace, sir, non ci sono posti per il bus in direzione Sonauli, quel
giorno è Shivaratri.»
Benvenuto in India, il Paese che, grazie alla sua religione politeista e a
un numero indefinito di divinità (Shiva, Visnù, Ganesh, Parvati e tante
altre), ha sempre una scusa buona per trasformare un giorno come gli altri
in una giornata festiva.
Con questo aspetto della realtà indiana, così unico nel mondo, mi sono
scontrato bruscamente quando dovevo entrare per la prima volta in questa
nazione dal Nepal, al momento di chiedere il visto. Ero in coda
all’ambasciata quando lessi che per ottenerlo erano necessari dieci giorni
lavorativi, che però, complice il calendario indiano e le sue festività,
divennero ben presto oltre due settimane.
Nel caso specifico, Shivaratri è una delle festività più sentite dalla
popolazione indiana e anche da quella nepalese, tant’è che il principale
luogo dove celebrarla è Pashupatinath, il quartiere induista di Kathmandu.
Noi quel giorno avremmo voluto viaggiare proprio verso il Nepal: ottima
e tempestiva scelta, direi.
Quando rientro in stanza, Giona dorme pesantemente, così gli lascio il
chapati e un succo di frutta sul comodino mentre esco a farmi una doccia al
piano. Se le docce sono comuni, in questi paesi è meglio farle in mattinata,
quando il sole scalda maggiormente i pannelli solari e soprattutto nessuno
ha ancora consumato le riserve di acqua calda.
Mentre chiudo il rubinetto, sento che dal pianerottolo arriva una musica,
oltre a un chiaro odore di hashish, così esco con l’asciugamano ancora in
vita e mi ritrovo un cerchio di persone sedute in terra che stanno suonando e
fumando.
Tra di loro anche Giona, che mi fa cenno di sedermi.
«Ehi, fra’, grazie del chapati» bisbiglia.
La musica è davvero bella, un ragazzo indiano suona il sitar e un altro un
flauto. Si aggiunge una ragazza, picchiettando su un tamburello. La musica
va avanti per almeno una ventina di minuti in una jam session improvvisata,
uno dei regali più belli che un viaggiatore possa ricevere. Al termine,
scopro che il ragazzo che suonava il flauto è brasiliano, il suo nome è
Ricardo. Ho passato diversi mesi in Brasile e questa si rivela un’occasione
per parlare dei rispettivi Paesi, dato che lui ha fatto un’esperienza in Italia
simile alla mia.
Adoro queste situazioni da ostello: pura contaminazione internazionale,
vibrazioni, energie, melting pot, una miscela esplosiva!
«Giona, ho una cattiva notizia: non ci sono bus per Sonauli dopodomani,
il primo è fra tre giorni.»
«Cazzo, io ho l’aereo da Kathmandu fra quattro!»
«Mangiamo qualcosa e pensiamoci su. Andiamo da Karki: lui è
nepalese, potrebbe sapere come arrivare alla frontiera, magari con un
passaggio.»
«Ottima idea, prima ci beviamo un chai e poi andiamo a pranzo.»

***

L’atmosfera da Karki è completamente diversa rispetto alla sera prima, il


ristorante è pieno di persone, perlopiù stranieri.
«Namaste.»
Ci accomodiamo ai tavoli in cui ci si siede per terra e la mia attenzione
in quel momento si sposta verso l’ingresso, dove vedo entrare un baba che
sembra a tutti gli effetti una rockstar, per la precisione Slash, il chitarrista
dei Guns N’Roses: lunghissimi capelli corvini raccolti in dreadlocks che gli
adornano la testa, il turbante, molte collane, braccialetti, anelli e altri
gioielli che gli pendono da polsi, collo e dita. Al suo fianco, una ragazza
giovanissima, molto magra, dalla carnagione chiara e i capelli color carota.
Il baba saluta solo con un cenno e la ragazza si ferma a parlare con Karki. I
ragazzi al tavolo non se ne sono neanche accorti, ma il baba viene dritto
verso di noi e si siede vicino a una colonna a pochi metri da me.
Mi fissa.
«Quello è un baba silente» ci dice Karki.
Esistono una moltitudine di baba strampalati: gli standing baba, per
esempio, asceti che hanno fatto voto di passare il resto della propria vita in
piedi, giorno e notte fino alla morte, senza mai sedersi o stendersi. Per
dormire, sono sospesi a un’imbracatura che mantiene il peso del corpo sulle
gambe, e impedisce loro di cadere quando dormono.
Oppure i baba come Amar Bharati, che hanno passato buona parte della
loro vita con il braccio destro alzato.
Il fatto è che la pratica religiosa indù prevede molti rituali di forzatura
nei confronti del proprio corpo. In questo caso, il baba di fronte ai miei
occhi ha scelto la via del silenzio.
«Non parla da sette anni», mi confida Karki, «e non parlerà per altri
cinque, dodici in tutto!»
A questo punto la mia curiosità aumenta considerevolmente, dato che
solo tre mesi prima ho terminato il mio voto di silenzio durato settantadue
giorni per compiere il Cammino di Santiago dall’Italia.
Chiedo alla ragazza se posso rivolgermi a lui.
«Sono uno dei pochi in questa stanza che può comprendere il tuo
sacrificio, avendo taciuto per tanto tempo, quasi tre mesi. Certo, non è un
sacrificio pari al tuo, ma ti confido che sarei potuto andare avanti ancora a
lungo. In realtà, a pesarmi sono stati i chilometri di quel pellegrinaggio, più
che il silenzio. In silenzio si sta bene ed effettivamente si è come sotto
l’effetto di una meditazione costante.»
Intravedo un sorriso dietro la lunga barba. Mi prende la mano e me
l’appoggia sul petto, all’altezza del chakra del plesso solare, chiamato
Manipura, nel punto dove sorgono l’autostima, la fiducia, il coraggio – in
una parola, il potere personale.

La ragazza che accompagna il baba me ne racconta la storia. È stato il


suo guru a incoraggiarlo a fare voto di silenzio e a mantenerlo il più a lungo
possibile – nel frattempo il baba sorride –, certo, magari non immaginava
così a lungo. Oggi vive in una grotta sull’Himalaya vicino alla sorgente del
Gange e il suo silenzio è la preghiera costante per la Ganga.
«Nel 2024 terminerà il suo silenzio, forse.»
«Amico, io ho pensato tutti i giorni a cosa dire una volta che avrei
ripreso a parlare, e poi la vita è stata talmente beffarda che mi sono ritrovato
a non dire nulla di quello che avevo immaginato per settimane.»
A volte è così difficile credere che si tratti di pure coincidenze. Mi
chiedo cosa significhino questi incontri, mi arrovello e cerco di decifrare i
messaggi, ma spesso si raggiunge consapevolezza del loro significato
soltanto dopo lungo tempo. La cosa buffa è che, quando si rimettono in fila
i puntini e si analizzano questi incontri in una prospettiva più ampia, si
comprende che sono tutto tranne che coincidenze.
Il baba ride, ci salutiamo e torno al mio tavolo, Giona sta chiacchierando
con un ragazzo italiano.
«Ciao, io sono Mirko.»
«Anche Mirko vuole andare in Nepal, se siamo in tre a questo punto
potremmo valutare la possibilità di prenderci un’auto e un conducente:
partiamo dopo lo Shivaratri e raggiungiamo facilmente Sonauli dormendo
un po’ in auto, che ne dici?»
«Ci costerà molto più del bus.»
«Non credo più di tanto. Chiedo a Karki se ci può aiutare.»
Nepalesi o indiani non fa alcuna differenza: Karki è ben disposto ad
aiutarci, anche perché una commissione se la intasca di sicuro.
«Fra’, io sto ancora male, ho mangiato pochissimo e mi sento molto
debole, torno in stanza.»
Giona sta trascorrendo tutto il tempo a Varanasi a lottare contro la febbre
nella stanza di una guesthouse indiana, in pratica una delle situazioni
peggiori che possano capitare in viaggio.
«Mirko, vorrei fare delle riprese al tramonto dal lato del fiume, sui ghat.
Ho già preso accordi con un barcaiolo e ci costa poche rupie, vuoi venire
con me?»
«Volentieri!»

Torniamo a piedi verso Assi Ghat, ma mancano ancora diverse ore prima
del tramonto e così passeggiamo sulle scalinate. Passiamo tra i naga baba, i
baba nudi se non per le collane di rudra, altri ancora che con il proprio pene
sollevano una sbarra su cui stanno altri baba o oggetti molto pesanti. Ma il
comune denominatore è sempre uno: chiedono soldi in cambio di foto.
Sembra che si mettano in vetrina, neanche fossero le prostitute nella
zona a luci rosse di Amsterdam. Francamente la cosa inizia a infastidirmi,
soprattutto quando noto, prestando maggiore attenzione, che tanti aspiranti
baba sono occidentali.
Mi torna in mente la storia di Charlie, ovviamente, ma non pensavo fosse
così frequente. Non sono nessuno per poter giudicare e tantomeno
comprendere il motivo di tali scelte, peraltro estremamente radicali.
Tuttavia, la massiccia presenza di questi adepti, gli iPhone nelle loro mani, i
Ray-Ban sugli occhi, anelli e collane da mercatino dei freak indosso, mi
fanno inevitabilmente sorgere qualche dubbio. Difficile comunque
giudicare questi sadhu, seguono una via incomprensibile all’uomo normale.
«Che ci sei venuto a fare in India, Mirko?»
«Credo nella medicina ayurvedica e pratico yoga e meditazione. Mi
capita spesso di venire in India.»
Parla con consapevolezza di principi ayurvedici e di pratiche meditative,
mi sembra una persona molto sveglia e soprattutto sensibile, sarà un ottimo
compagno di viaggio.
«Hai sentito delle tensioni tra Pakistan e India?» chiede.
«Ci sono sempre tensioni tra questi due Paesi. Pensa che qualche anno fa
andai a visitarne la frontiera, dove ogni sera fanno parate molto pittoresche
con l’esercito. Ero in Punjab, in una delle zone dove il confine è più
tranquillo. Fatto sta che era così tranquillo che cinque giorni dopo misero
una bomba e sospesero gli spettacoli, proibendo alle persone di
avvicinarsi!»
«Credo che sia successo da poco qualcosa di simile, a dir la verità, e
penso che sia colpa degli indiani stavolta.»
«Trovare colpe in queste situazioni è sempre poco opportuno; ma che è
successo?»
«In Kashmir, sembra siano morti una quarantina di soldati a causa di un
attentato rivendicato da terroristi pakistani.»
«Sì, ma è una notizia vecchia. Già durante il volo mi sono accorto che
qualcosa non andava, perché non abbiamo sorvolato il Pakistan.»
«Hai ragione, ma oggi il primo ministro indiano ha dichiarato che
l’attacco verrà vendicato e ha sospeso ogni rapporto commerciale.»
«Alla vigilia dello Shivaratri?! Caspita, non siamo nel posto
propriamente più tranquillo allora…»
«Sei preoccupato?»
«Non più di tanto, ma domani sarebbe saggio evitare la zona del tempio
Kashi Vishwanath.»
«Il tempio d’oro, quello piantonato da innumerevoli poliziotti?»
«Esattamente quello. È l’unico tempio di Varanasi vietato ai turisti: è un
luogo sacro induista e in passato è stato oggetto di pesanti minacce di
terrorismo. Pensa, io riuscii a entrarci la prima volta che arrivai a Varanasi.
Non me ne vanto, ma è stata un’esperienza pazzesca, sotto diversi punti di
vista.»
«Raccontami.»
«All’inizio ero più preoccupato per i miei oggetti di valore, a dirla tutta.
Ovviamente all’interno del tempio sono vietate le fotografie, così dovetti
lasciare telefono e GoPro in improbabili cassette di sicurezza lungo la
strada. Ero con una ragazza italiana conosciuta qui e un suo contatto
indiano ci propose di entrare, incredibilmente senza chiederci alcuna rupia!
Era un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire e così consegnai,
non senza timori, i miei effetti personali a uno sconosciuto per strada. Mi
diede una chiave scassata e ricordo che sperai credesse nel karma e non si
approfittasse della mia fiducia derubandomi.»
«Vai avanti, che ora sono curioso.»
«Lasciati gli oggetti, passammo il primo controllo della polizia: ci
avvisarono che l’ingresso era riservato ai soli induisti, ma noi facemmo
finta di non capire. Il secondo controllo fu ben più duro: ci chiesero il
passaporto e iniziarono a schedarci; ci fu mostrato un cartello in cui si
ribadiva a chiare lettere che l’ingresso al tempio era vietato ai non credenti.
Poi la fatidica domanda: siete induisti? Non ce la feci a mentire del tutto e
dichiarai che stavamo studiando l’induismo in un ashram e che eravamo di
passaggio a Varanasi; poteva essere la giusta occasione di visitarlo, perché
fortemente motivati. Ci venne quindi richiesto, in tono molto severo, di
parlare della religione e di mostrare che effettivamente l’avremmo voluta
abbracciare. Fortunatamente, il giorno prima ero venuto a conoscenza della
storia e del ruolo di Ganesh, così passai l’esame.»
«Ganesh, la divinità con la testa di elefante!»
«Proprio lui. Comunque, una volta dentro, ci sentimmo subito
profondamente in imbarazzo. Quel tempio è un posto davvero sacro e
bellissimo, ma eravamo gli unici occidentali al suo interno. Ci fissavano in
continuazione, in attesa di nostri inevitabili errori. Ricordo che seguimmo
pedissequamente i movimenti delle altre persone, cercando di imitarle. Non
fu semplice. Un paio di benedizioni e ci ritrovammo con la fronte colorata
in pochi minuti. Pregammo non so quali dèi e ripetemmo gesti innaturali. Il
gioco durò poco, perché si accorsero della nostra ignoranza e ci chiesero, in
tono educato ma severo, di uscire.»
«Che storia!»
«Vuoi la verità? Francamente non lo ripeterei. Mi sono sentito
irrispettoso di una cultura e di una religione e non ero a mio agio. Mi sono
giustificato dicendomi che era un’esperienza da provare, che stavo facendo
il giro del mondo… In realtà mentivo anche a me stesso.»
«Non essere troppo duro con te stesso. Ma… ho capito bene? Il giro del
mondo?»
«Sì, ma questa è un’altra storia, te la racconto domani in viaggio. Quello
che invece ho imparato quel giorno è che, nonostante avessi sempre portato
rispetto per qualunque credo religioso e mi fossi mosso all’interno di quei
luoghi di culto con la dovuta cura e attenzione, avevo comunque violato un
luogo sacro. Non me ne pento, ma non ne faccio un vanto. A casa spesso
chiediamo rispetto per i nostri luoghi e oggetti di culto, ma poi siamo i
primi a non prestare attenzione quando ci troviamo nella situazione opposta.
Avevo violato quel luogo per curiosità, è vero, ma più di tutto per avere
questa storia da raccontare.»

Il tempo scorre molto più velocemente quando è limitato. Arrivato il


momento del tramonto, mi restano meno di ventiquattr’ore a Varanasi.
Insieme a Mirko recupero il barcaiolo, che ovviamente, prima di salpare,
tratta nuovamente sul prezzo. Gli indiani mi sfiniscono con le loro
estenuanti contrattazioni, ma ancor di più con i continui cambi di
programma: non appena strappo un nuovo prezzo di favore, il ragazzo ci fa
salpare su un’altra imbarcazione con un diverso barcaiolo, e così saremo
costretti a lasciare una nuova mancia, che farà inevitabilmente lievitare il
prezzo.
Non c’è niente da fare, sono sempre più furbi di noi. Sorrido perché, alla
fine, si tratta di pochi centesimi di euro e dargliela vinta o meno è più una
questione di principio e orgoglio.
Risalire la corrente e ammirare i ghat dal fiume al tramonto è uno degli
spettacoli più emozionanti al mondo, la via forse più privilegiata per
comprendere appieno la visione della morte in India. I defunti vengono
cremati in pubblico su una pira di legno, che brucia fino a quando le ceneri
sono fatte scivolare nel fiume.
«Lo sai che a differenza del comune indù, che viene cremato, il sadhu
viene sepolto?»
«Davvero?» mi risponde Mirko.
«Si crede che il sadhu sia immortale, la sua morte è considerata simile a
uno stato di trance. Il suo corpo non deve essere cremato, bensì seppellito in
posizione seduta con le gambe incrociate, quella della meditazione, e, come
potrai facilmente immaginare, il luogo di sepoltura diventa di solito un
luogo di culto. Anche le donne incinte e i bambini non vengono cremati: gli
si lega un sasso agli arti e vengono lasciati scivolare nel fiume. Non è raro,
infatti, veder galleggiare resti umani.»
Smetto di parlare, è il momento del rispettoso silenzio.
Lasciando qualche rupia in più di mancia al barcaiolo si possono anche
scattare foto dei fuochi e delle cerimonie, ma evito, perché riconosco la
sacralità e l’intimità del momento, si tratta pur sempre di un funerale.
Respiro a pieni polmoni l’odore acre delle cremazioni, dei corpi che
bruciano, degli oli e degli incensi. L’odore di Varanasi è unico al mondo. E
qui, su questa piccola barca, la circolarità della vita mi appare chiara ed
evidente.
Osservo il ghat: cinque grandi piattaforme a gradinate destinate a caste
diverse. Al centro, dietro le prime tre, brucia il fuoco dei fuochi, quello
dedicato a Shiva, che si dice arda incessantemente da più di tremila anni.
Poco più in alto c’è il tempio con la scultura del grande Linga di Shiva, il
pene antropomorfo che fuoriesce dallo Yoni, vulva della dea sua consorte,
che è l’espressione della sua potenza, dell’energia su cui si fonda il suo
operato.
I fuochi sono alti, vividi, immersi nel nero della notte.
I parenti sembrano rassegnati, accettano silenziosi questo momento,
accovacciati gli uni vicino agli altri. Tutto si svolge senza apparente dolore,
il volto angoscioso della morte pare non essere presente. Quanto meno, non
benvoluto. La morte si mostra indifferente.

Benché questo rituale restituisca un’immagine piuttosto malinconica e


triste, crea altresì un’atmosfera molto vivace e colorata, sicuramente
affascinante da osservare dal fiume.
Sento di godere di un punto di vista privilegiato per comprendere questa
città e ciò che ha da insegnarmi sulla vita. È come se fossi in un gigantesco
cinema e davanti ai miei occhi la pellicola mi mostrasse questo angolo del
mondo.
Il buio rotto dai canti dei sacerdoti che onorano la divinità del Gange.
Le fiamme, le luci fioche.
Le mucche e i cani randagi.
I mendicanti, i santoni e i turisti.
L’alba accolta dai fedeli che si bagnano, che compiono le abluzioni per
mondare e rinnovare l’anima.
Il giorno e la notte incessantemente scanditi dai crepitii delle pire che
trasformano in cenere i corpi di chi ha concluso il suo ciclo terreno al solo
fine di tornare ad abbracciare mamma Ganga.
Semplicemente, Varanasi.
Capitolo 7

Varanasi, 4 marzo 2019


ULTIMO giorno in India.
Non riesco ancora a capacitarmi del come e del perché, ma domattina ci
ritroveremo al confine di Sonauli, tra India e Nepal.
La mattinata inizia con un gran rumore in strada e i primi canti. Mi
affaccio sul balcone, il sole è sorto da pochi minuti. I raggi caldi del mattino
svegliano dal torpore.
C’è fermento in strada: automobili, tuk tuk, fiumane di gente, venditori
ambulanti che urlano. È la prima volta che mi ritrovo in India per uno
Shivaratri, quindi chiedo a Giona cosa aspettarmi.
«A parte berci un bhang lassi, intendi?»
Si è svegliato di buon umore nonostante sia ancora febbricitante.
«Shivaratri è una delle festività indù che si celebrano ogni anno in onore
del dio Shiva. Ascolta con attenzione le cantilene che si sentono per strada:
durante tutto il giorno, i devoti cantano Om Namah Shivaya, il sacro mantra
di Shiva.»
«È vero! Chissà perché mi accorgo dei mantra solo una volta che
qualcuno me li fa notare.»
Mentre siamo impegnati a infilare i nostri vestiti negli zaini, sotto il
balcone iniziano le processioni di statue della divinità su carri colorati e
decorati. Intravedo anche persone armate.
Scendiamo le scale e notiamo che c’è agitazione e via vai anche nel
tempio privato della famiglia che ci ospita. Qui il linga è adornato di fiori
gialli e arancioni. Incontriamo il capofamiglia, un bramino che, dopo aver
incassato i nostri soldi, ci invita a presenziare alla puja. Ci spiega che oggi è
il Maha Shivaratri, cioè si celebra l’apparizione di Shiva sulla Terra proprio
sotto forma di linga. In questo giorno, in tutti i templi di Shiva, viene quindi
eseguita la propiziatoria Lingodbhava puja.
Appoggiamo gli zaini, che recupereremo al tramonto per partire, e ci
ritroviamo seduti nel tempietto con una collana di fiori al collo e dei segni
rossi sulla fronte.
«Questo è uno di quei momenti, lo sai, fra’?»
Lo capisco al volo e valuto seriamente se chiedere il permesso di filmare
oppure no. Siamo in India allo scopo di realizzare un cortometraggio o una
sorta di documentario e questo potrebbe essere ottimo materiale, ma
combatto con il pensiero che ci hanno invitato a un rito privato e le
telecamere potrebbero rappresentare una seccante invadenza.
Mi convinco che ne valga comunque la pena e così opto per chiedere con
gentilezza se non sarebbe possibile filmare il rituale. Domandare, in fin dei
conti, è lecito.
«Certo, sir! Siete i benvenuti!»
La vanità della telecamera ha pesato più dell’invadenza.
Abbiamo fatto bingo: ospiti a un rituale privato, che di per sé è già un
grande onore per dei viaggiatori stranieri, e poi queste immagini uniche,
intime.

Intorno al linga sono seduti il capofamiglia, a torso nudo e con il cordino


a mezzo busto tipico dei bramini, il figlio maggiore con una tunica rosa
scuro e la moglie con un sari verde ornato di fiori gialli.
Il capofamiglia inizia a parlare con le mani conserte, il figlio e la moglie
pregano a bassa voce recitando dei mantra.
Distinguo una sorta di cantilena che si ripete e infatti la signora prende a
cospargere il linga di fiori e foglie. È il turno poi degli incensi e del fuoco,
che viene fatto ruotare al centro della scultura. Tra un mantra e l’altro, viene
infine versato del latte sulla statua.
Il lato religioso è probabilmente l’aspetto più interessante della cultura
indiana. A rendere particolarmente affascinanti i rituali sono i colori
utilizzati, gli incensi che penetrano nelle narici, la costante presenza
iconografica della natura, oltre al forte potere simbolico del latte, che in
questo rituale, e non solo, rappresenta la circolarità della vita.
In questo luogo e in questa città tutto assume connotati ancora più
mistici.

Terminato il rituale, usciamo in strada per bere un chai.


Anche il chai è diventato per me una sorta di rito, e berlo a Varanasi è
ancora di più un piacere perché qui è uno degli ultimi luoghi dove è
possibile sorseggiarlo negli originali vasettini di terracotta monouso.
Intorno a ogni chaiaro che si rispetti c’è una montagnetta di questi vasetti
rotti, che alla prima pioggia si sciolgono e defluiscono nel Gange. È infatti
costume e tradizione, dopo aver bevuto il chai, gettare a terra la tazzina.
In passato, in tutto il subcontinente indiano si beveva il chai in questi
vasetti, ma oggi la maggior parte di essi sono in plastica o, nel migliore dei
casi, in cartone. Il problema ecologico è disarmante e anche se è solo una
goccia in mezzo al mare di rifiuti plastici che dilania l’India, il fatto che non
si è perso il costume di gettare a terra la tazzina è segno di una cultura che
ancora non affronta tale questione in maniera responsabile. La plastica
ormai punteggia ogni strada e vicolo, è dappertutto e non è più tollerabile o
comprensibile, non al giorno d’oggi.
«Fosse solo questo il problema dell’India, fra’!»

L’India è un contrasto e una contraddizione unica.


A volte ti accarezza, altre ti piglia a schiaffi.
Forse perché mette a nudo tutti i limiti umani, il che a volte conforta, ma
spesso destabilizza.

«Fra’, ci andiamo a bere un bhang lassi? È Shivaratri, tocca pure a noi


festeggiare un po’, no?»
Ci ritroviamo qualche ora dopo a ridere su un muretto, ammirando per
l’ultima volta l’intensa vita dei ghat di Varanasi.
Fisso l’orizzonte: a destra le mura della città vecchia, dove si possono
intravedere gli aquiloni neri con cui giocano i bambini sui tetti, i gradini, le
mucche, i sadhu, i turisti, i barbieri.
A sinistra le acque placide del Gange e l’aria che si colora di rosa, le
barche, alcune puja che galleggiano con le candele accese.
Per un attimo sembra un intenso tuffo nel passato, un mondo che è
completamente diverso da quello in cui siamo abituati a vivere. Sembra
un’immagine di oltre mille anni fa, con l’aggiunta di t-shirt, smartphone e
occhiali da sole.
Le connessioni della vita.
Cosa ci faccio qui oggi?
Non sono più un turista, neanche un viaggiatore, sono un semplice uomo
che si stupisce ogni giorno di più della bellezza che mi circonda, della
complessità dell’animo umano, delle relazioni che genera.
Cosa sono venuto a cercare in India? Risposte?
L’India offre molte più domande che risposte.
La realtà è che ci sono finito quasi per caso. Stavolta mi rendo
prepotentemente conto che è stato il viaggio a richiamarmi a sé.

Incrocio le gambe, chiudo gli occhi e mi concentro sul respiro.


Il chiasso intorno a me si ovatta lentamente mentre inizio la meditazione.
La mente però è distratta, fatica a concentrarsi sulla respirazione.
Cosa mi spinge a inseguire tutto questo?
Più che le emozioni, forse la curiosità.
Osservo, studio, ricerco.
Mi faccio mille domande, che in situazioni come questa sembrano solo
piccole paranoie di un’anima fondamentalmente irrequieta.
Non trovo infatti risposte che non siano in realtà domande ben più
grandi.
Il desiderio di voler sapere tutto, quando costantemente mi rendo sempre
più conto di non sapere nulla, o quasi.
Ma non è forse questo a tenermi vivo? E come faccio a non perdere il
filo? Sballottato da una parte all’altra del globo, con tutta la vita che
accade intorno. Qual è il mio posto?
Cerco solo in un certo senso di lasciare un messaggio, tentando di offrire
sempre il meglio di me stesso.
Il momento è qui e ora.
Amo troppo il viaggio, forse al punto che prima o poi annegherò in
questo vortice di passione.

Le novità.
L’imprevisto.
Gli incontri.
I contrattempi.
I rituali.
Le leggende.
I racconti.
I tramonti come quello che appare davanti ai miei occhi.
Ora.

«Si va in Nepal, fra’?»


«Andiamo in Nepal, Giona! Andiamo a fare la sorpresa ai ragazzi!»
I nostri ragazzi, già…
Non li vedo da oltre un anno e soprattutto non ho ancora visto la nuova
realtà di Panauti, il villaggio newari dove abbiamo trasferito l’associazione
Human Traction negli ultimi mesi. Soprattutto non vedo da cinque anni
Vittoria, la sorella di Giona, colei che ha fondato questa grande famiglia.
Ricordo benissimo l’ultima volta che ci eravamo salutati al Funky
Buddha, un locale storico e divertente di Thamel, ritrovo di tanti viaggiatori
che passano da Kathmandu.
Ora al suo posto c’è un parcheggio.
Il terremoto del 2015 ha fatto sicuramente danni terribili, ma la
conseguente iniezione di liquidità monetaria ha portato il Nepal a cambiare
faccia con una velocità spropositata per quel piccolo Paese sull’Himalaya.
Le verdi colline e le risaie stanno pian piano cedendo all’urbanizzazione,
trasformando la bellissima valle di Kathmandu in un vero e proprio
hinterland.
Tra qualche ora sarò di nuovo lì.
Troviamo Mirko da Karki, ci mangiamo un piatto di tagliatelle e poi
partiamo, l’autista ci aspetta sotto il locale.
«Ehi, fra’, ci trattiamo bene stasera, facciamo i backpackers con
l’autista!»
«Ahahahah, dai, sali!»
Giona siede davanti, io e Mirko dividiamo gli ampi sedili posteriori,
niente male davvero: per una volta arriveremo al confine riposati e non con
la schiena a pezzi come sui bus indiani.
L’accordo è semplice: l’autista può portarci fino al confine, dopodiché
prenderemo un bus nepalese per Kathmandu e infine un altro bus per
Panauti.
In pratica, circa venti ore di viaggio.
Non ero così tranquillo la prima volta che affrontai questo percorso in
direzione opposta. Ero eccitato e preoccupato, ora invece sembra quasi la
normalità.

Iniziamo subito malissimo: l’autista ci porta poco distante, parcheggia,


scende dall’auto, scompare dietro un vicoletto e poi riappare con un
ragazzino che, nella migliore delle ipotesi, avrà diciotto anni.
Sarà lui, in realtà, il conducente.
Vedo Giona innervosirsi.
«Fra’, io lo so già che questo sbaglierà strada, chissà quando riusciremo
ad arrivare a Sonauli!»
In effetti, non passano che pochi minuti e ci ritroviamo a costeggiare il
Gange, chiaro segno di direzione sbagliata.
Dopo varie discussioni, il ragazzino accetta di seguire le indicazioni che
gli forniamo con i nostri smartphone e, aiutati da Google Maps, riusciamo a
uscire dalla città in direzione nord.
Piccolo particolare: il nostro autista non parla una parola di inglese.
Ci addormentiamo tutti e tre, così che le prime ore del viaggio scorrono
tranquille, quando improvvisamente la macchina inchioda.
«Oh, ma che, sei pazzo? Ci volevi uccidere?» urla Giona.
Sulla strada, una placida mucca. Intorno, il buio totale.
Proseguiamo qualche chilometro, finché Giona non si accorge che siamo
di nuovo nella direzione sbagliata.
«Ha sbagliato strada, sto’ coglione!»
Ennesima discussione e infine capisce che deve seguire le nostre
indicazioni. È una situazione surreale, per un momento mi chiedo dove
potrebbe condurci questa avventura se non avessimo le mappe satellitari.
Arriviamo in una pianura nebbiosa con piccoli canali di irrigazione ai
lati della carreggiata.
Nemmeno una luce, solo il buio e il suono della notte.
Il nostro conducente accosta e scende, mentre noi ci guardiamo
esterrefatti e ci chiediamo cosa abbia in mente.
«Ma siamo almeno nella direzione giusta?»
«Eh, non lo so fra’, qui non prende.»
Il ragazzino torna e si mette a sbraitare.
«No, sir, no!»
«Che cosa no?»
«Guidare, auto no telefono.»
«Si è perso e dà la colpa al telefono!»
A quel punto Mirko trattiene Giona, che sta dando in escandescenze, e io
provo a parlare con il ragazzino.
«Come non guidi? Dai, ti aiutiamo noi!»
«No, no, automobile.»
«Giona ha la febbre, è alta» sentenzia Mirko.
Per prima cosa c’è da capire se siamo o meno sulla strada giusta.
Consultando la bussola del telefono, ci conforta il fatto che stiamo andando
verso nord est, non troppo corretto, ma comunque in direzione.
Torno a convincere il ragazzino, tranquillizzandolo e offrendogli due
biscotti.
«Chai?»
«Chai!» e la sua testa che dondola con un sorriso.
«Tu, guidi automobile, questa direzione, chai beviamo! Ok?»
E un’altra volta la sua testa che ciondola da destra a sinistra. Può voler
dire sia sì che no, ma in questo caso mi sembra proprio una risposta
affermativa, dato che torna a sedersi.
«Oh, fra’, spera che non sbagli di nuovo strada, sennò guidiamo noi.»
Ho guidato una sola volta in vita mia sulle strade indiane, in moto, tra le
spiagge e le foreste di Gokarna. Mai di notte. E sono terrorizzato dalla
possibilità di investire una mucca, con tutto quello che ne può conseguire,
visto che è sacra.
«Giona, stai calmo, vedrai che stavolta non sbaglia più.»
Ripartiamo, ma Giona è a pezzi, e iniziamo a essere preoccupati.
Ci fermiamo a bere un chai caldo. Il ragazzino chiede indicazioni al
venditore, che lo rassicura sulla strada. Io frugo nello zaino e trovo qualche
medicina per Giona.
Siamo a metà strada.
Penso che il peggio debba ancora venire, ma in realtà il resto del viaggio
scorre tranquillo e io sono di nuovo elettrizzato per questa nuova avventura
verso il confine.

Sonauli e la sua frontiera.


Questo confine è uno dei timbri sul passaporto più comuni tra i
viaggiatori seriali, la porta che collega il Nepal all’India, Kathmandu a
Varanasi: una porta che ho già attraversato due volte. Tornarci mi dà un
gusto tutto nuovo, mi sembra come di ritrovare in televisione un vecchio
film tanto amato, visto e rivisto in videocassetta al punto da consumarla.
È tutto uguale a quattro anni fa: sporco e impolverato, tipico posto di
confine.
Paghiamo il ragazzino e ci avviciniamo alla frontiera, un piccolo ufficio
di fronte alla sbarra blu che regola gli accessi.
Sul muro è raffigurato il volto di Gandhi.
«Ehi, fra’, stiamo per passare il confine, si torna in Nepal.»
«Sai che penso?»
«Pensa al buon dal bhat che ti aspetta stasera!»
«Bleah, che schifo il cibo nepalese! Proprio per questo, non vogliamo
berci un ultimo chai prima di salutare l’India?»
«Te ci sei sotto, fra’!»
È l’alba, sono sporco, ho un bicchierino di chai caldo in mano, lo zaino
sulle spalle, uno dei miei più cari amici con me, un viaggiatore pescato a
Varanasi e il passaporto in mano.
Sono felice, vivo per questi momenti.
Sento un brivido lungo la schiena.
La frontiera, il timbro sul passaporto, i moduli da compilare, i
cambiavalute abusivi, i cani randagi, i primi cappellini nepalesi, le file di
camion coloratissimi con le immagini di Shiva, Ganesh o Buddha. E poi
ancora, un ulteriore ufficio, quindici dollari di visto, un altro modulo
firmato, un altro timbro sul passaporto, altri cambiavalute, altri cani
randagi.
Benvenuto in Nepal.

I primi bus partono tra un paio d’ore, ma Giona sta evidentemente a


pezzi, così chiedo in giro quanto costerebbe un passaggio diretto a Panauti
senza transitare da Kathmandu e soprattutto senza il trasporto sui terribili
mezzi nepalesi.
Ne trovo uno che offre un prezzo accettabile, così lo propongo a Mirko.
«Per te vuol dire spendere di più e non arrivare a Kathmandu. Però
possiamo ospitarti a Panauti qualche sera: risparmi il costo del
pernottamento, potresti conoscere i nostri ragazzi e sicuramente la cosa ti
verrà utile per comprendere meglio il Nepal, ti ritroveresti di colpo in una
vera casa nepalese! A Kathmandu, fai sempre in tempo ad andarci, al
massimo scendiamo insieme io e te domani!»
«Come domani?»
«Sì, dopodomani ho l’aereo per Delhi per poi tornare in Italia.»
«E ti sei fatto tutto questo sbattimento per stare quanto? Trentasei ore?»
«Vieni con noi a Panauti e scoprirai il perché!»

***

Tornare in Nepal è come tornare a casa, tutto è sempre uguale, al suo posto.
Non è forse questa la definizione di casa?
Giro il mondo e trascorro meno di due mesi all’anno, per giunta non
continuativi, in Italia: che cos’è casa?
È con ogni probabilità quel luogo dove riesco a muovermi a mio agio,
senza pensare.
È quel luogo dove ritrovo persone, colori, profumi e li riconosco al volo.
È quel luogo dove tutto appare esattamente come l’ho lasciato, come
quando si torna da una lunga vacanza, le tapparelle abbassate e un poco di
polvere sulle mensole. Sul comodino ancora quel libro che mi sono
ripromesso di leggere.
Guardo fuori dal finestrino e il Nepal mi appare esattamente così: i
bambini che salutano a bordo strada, i cappelli degli anziani che sono tra i
più brutti al mondo, i camion colorati, le campanelle che suonano a ogni
puja.
Durante il viaggio, Mirko si guarda intorno, mentre Giona finalmente
riesce un po’ a dormire. Credo che anche a lui l’aria di casa faccia bene,
sebbene sia estremamente inquinata.
Passano diverse ore, ci fermiamo a pranzare.
«Che si mangia in Nepal?» chiede Mirko.
Io e Giona ci guardiamo negli occhi e iniziamo a ridere.
«Benvenuto in uno dei posti peggiori al mondo!»
«Si, è vero, ma te ne accorgerai solo dopo qualche giorno. A ogni modo,
non credo che qui abbiamo tanta scelta, puoi scegliere solo dal bhat:
vegetariano o no.»
«Che cos’è il dal bhat?»
«Tipo il thali indiano, ma molto meno gustoso.»
Il dal bhat consiste di diversi elementi, di solito serviti – come il thali –
in un piatto di acciaio molto grande con tre divisori: la parte del dal è uno
stufato di lenticchie, molto brodoso e liquido, mentre la parte del bhat è il
riso bollito.
Quando si è fortunati viene cucinato anche un pane arrotolato, chiamato
roti, ma immancabile è un mix di verdure miste bollite chiamato tarkari.
La zuppa di lenticchie viene solitamente mangiata mescolata insieme al
riso, con le mani. Non mancano ovviamente le spezie: coriandolo, curcuma,
aglio, zenzero e garam masala, ovvero grani di pepe nero e bianco,
cardamomo verde e marrone, noce moscata, chiodi di garofano, cannella,
zenzero e semi di cumino.
Viene servito nel piatto anche il gundruk: verdure fermentate e foglie
verdi.
«Giona, che ti è successo? È la prima volta che ti vedo mangiare un dal
bhat con tanto gusto!»
«Hai ragione, fra’, credo di stare finalmente meglio, mi è tornato
l’appetito. Forse è stato il bagno nel Gange, dovevo buttare fuori tutto, stare
male per poi riprendermi e ripartire! L’India stessa a volte è così.»
Non ne sono del tutto convinto, ma l’importante è che stia meglio.

Ripartiamo e finalmente, dopo quasi otto ore, arriviamo nella piazzetta di


Panauti. La casa non è lontana, ma la voce che alcuni bideshi (stranieri)
sono arrivati al villaggio si è già sparsa.
Da lontano, sento i ragazzi che iniziano a urlare di gioia dal balcone.
È un’emozione fortissima, perché capisco che è davvero sincera: vedo i
loro occhi brillare, i loro sorrisi prendere forma. Dopo quasi cinque anni
rivedo Vittoria, corro ad abbracciarla prima ancora di darle il tempo di
salutare suo fratello.
Siamo di nuovo tutti uniti come nell’estate 2014, quando io ero ancora
un viaggiatore alle prime armi che si accingeva a scoprire il mondo.
Quanto è passato da quel momento, quanta vita, emozioni, avventure.
Riabbracciare Vittoria è l’ennesima conferma che stare dalla parte dei
sogni porta a un’esistenza molto più piena e gratificante che inseguire
quell’effimera chimera sociale dei soldi.
Che poi, alla fine, non bastano mai.
Ecco, mi ritrovo qui dove sto bene, sento che questo può essere un mio
posto nel mondo.
I ragazzi piangono emozionati, mentre ci siamo dimenticati di presentare
loro Mirko che, con molta discrezione, si è messo in disparte, lasciandoci
godere di quegli abbracci.
«Lui è Mirko, starà con noi qualche giorno, dategli il benvenuto!»
Aman, il nostro piccoletto di casa, gli prende la mano e lo porta di sopra
per mostrargli un grande appartamento che neppure io avevo ancora visto.
Mirko è visibilmente emozionato.
«Quei sorrisi sono incredibili. È evidente quanto vi amano questi
ragazzi, ti giuro che sono emozionato anch’io» mi confida.
Lo invidio un po’. Si sta affacciando a una nuova avventura conoscendo
questa piccola realtà nepalese. La piccola incoscienza di avventurarsi con
due sconosciuti sulla rotta del Nepal gli ha regalato una bella opportunità.
Decidiamo di andare a bere un caffè nel villaggio, occasione giusta per
incontrare anche Charlie il baba: da Kathmandu si è ormai trasferito anche
lui in pianta stabile a Panauti, iniziando un grande progetto di permacultura
chiamato Trees for Relief.
«Ehi, fratello, come stai?» mi saluta in un italiano zoppicante.
«Bene, Charlie, è stato un viaggio molto lungo, ma è sempre
emozionante tornare qui.»
«Da dove venite?»
«Siamo stati in India, al Kumbh Mela.»
«Ahahahah, il Kumbh Mela, quanti ricordi!» esclama mimando il gesto
con cui si fuma il chillum.
Ora ci siamo davvero tutti e insieme ricordiamo le serate trascorse nella
sua casa di Kathmandu: battichina, il termine nepalese per indicare
l’elettricità contingentata che andava giù, le candele, i racconti, i discorsi, le
risate.
Il mio Kumbh Mela è nato in una di quelle serate, metafore del mio
animo errante, con la voglia costante di conoscere, sperimentare, affrontare
con speranza l’ignoto e tentare di comprenderne i rituali.
Non era il Kumbh Mela che cercavo, bensì il viaggio e quelle emozioni.
Come aprire un vecchio cassetto e ritrovare quella foto stupida fatta in
una gita di classe con i compagni del tempo. Da una foto parte un film di
emozionanti ricordi, uno in fila all’altro.
Ogni tanto fa bene tornare così indietro nella memoria e chiedersi se si è
arrivati o meno dove si sarebbe voluto essere.
In questo momento non vorrei essere in nessun altro posto se non in
questo sottotetto nepalese, seduto per terra a bere un caffè con alcuni dei
miei più importanti compagni di viaggio.

«C’è un signore che forse è disposto a prestarci un po’ di terra.»


«Veramente?»
«Andiamo a vederla.»
Ci alziamo e ci dirigiamo verso le montagne, attraversando le risaie. Ora
sono secche, ma le ricordo verdi e stagnanti durante la stagione dei
monsoni: le mondine nepalesi colorate, gli uomini a discutere sulle piogge.
«Qui potremmo piantare insalata, carote, zucchine e pomodori. In
quell’angolo potremmo coltivare le piante aromatiche, tutto senza
pesticidi!» mi racconta Suman, uno dei nostri ragazzi più grandi.
«Non è molto grande, ma per iniziare va bene.»
«Quantomeno, se non sarà un raccolto sufficiente per vendere, voi
mangerete verdure sane!»
Il tema delle verdure contaminate da sostanze chimiche e pesticidi è
molto grave in Nepal, riuscire a trovare cibo biologico è davvero difficile e
dispendioso.
«La cosa buona è che potremmo farcelo tornare utile vendendo noi stessi
ortaggi biologici. Poi, se tutto va bene, potremmo iniziare il progetto della
guesthouse.» I ragazzi hanno voglia di fare, finalmente li vedo
intraprendenti e ciò mi rende molto orgoglioso.
Il sole sta tramontando dietro le montagne, mi ritrovo in una valle ai
piedi dell’Himalaya a parlare di coltivazioni biologiche con adolescenti che
sono in quella fase della vita in cui si sogna a occhi aperti.
Alla loro età ero molto più immaturo, pensavo solo a correre dietro alle
ragazze.
Li osservo, camminando verso casa: sono cresciuti.
E io sono invecchiato.

La sera in casa siamo in una decina seduti per terra intorno al tavolo.
Fortunatamente, il menu non prevede dal bhat.
«Se facciamo la guesthouse, promettetemi che cucinerete sempre gli
gnocchi. Sono buonissimi, bravo Dharma!» esclamo dopo aver assaggiato il
piatto.
I ragazzi sono cresciuti con noi e hanno imparato a fare gnocchi e
tagliatelle, proprio come Karki a Varanasi.
«I tuoi gnocchi diventeranno i più famosi del Nepal.»
Passiamo la serata così, insieme, a sognare traguardi futuri, ridere,
scherzare, giocare, semplicemente volendoci bene.

La giornata successiva inizia presto, con il canto dei galli prima


dell’alba. Mi alzo e osservo la vita contadina alla finestra: mi piace questa
semplicità, mi calma in un momento della vita in cui ho ripreso a correre
con frenesia, di qua e di là nel mondo.
Solo negli ultimi due mesi sono stato in Argentina, alle Maldive, in
Myanmar e ora qui. Ed è già tempo di rifare lo zaino, scendere a
Kathmandu e domani tornare in India e poi in Italia.
Mirko decide di trattenersi, mentre Vittoria scende con me nella capitale
per fare acquisti.
È già tempo di saluti.
A quelli non riuscirò mai ad abituarmi: il lato più negativo dell’essere
un’anima errante.
Quando questi abbracci sono sofferti valgono il viaggio stesso, perché
significano aver vissuto ancora una volta avventure che ricorderemo quando
riapriremo il cassetto dei ricordi.
«Fra’ ma che viaggio abbiamo fatto?» mi urla Giona dal balcone.
«Vi voglio bene!»

***

Dopo le inevitabili lacrime, eccomi di nuovo su uno stipato bus nepalese.


Solo poco più di trenta chilometri mi separano dalla capitale, ma a causa di
queste strade trafficate occorrono circa due ore. Saluto Vittoria all’entrata di
Thamel, sono sicuro che non lasceremo passare così tanto tempo prima di
riabbracciarci.

Questo viaggio non è ancora finito, stasera a Kathmandu mi aspetta un


altro di quei momenti emozionanti: incontrerò nuovamente Tiziano, il
ragazzo italiano con cui ho condiviso il Cammino di Santiago da Burgos.
Abbiamo camminato insieme per venti giorni senza mai rivolgerci la parola
a causa del mio voto di silenzio. Ma ci si capiva lo stesso ed è nata una forte
amicizia.
«Fa strano rivedersi qua!»
«Puoi dirlo, come è andato il trekking sull’Annapurna?»
«Avevi ragione tu, è stato meraviglioso! A parte il dal bhat.»
«Ahahahah, te l’avevo detto, anzi, scritto! A proposito, non puoi
nemmeno immaginare che incontro pazzesco abbia fatto a Varanasi: un
baba silente!»
Ci ritroviamo e la sensazione è che l’arrivo commovente alla Cattedrale
di Santiago di Compostela sia avvenuto solo ieri. Un altro di quei viaggi
che fortifica se stessi e i rapporti umani che si creano.
«Domani già te ne vai?»
«Sì, mi riposo un paio di settimane e poi a fine mese volo in Giappone
per la fioritura dei ciliegi.»
«Non ti fermi mai!»
«L’ho voluta fermamente, questa vita, l’ho bramata troppo e ora non
riesco più a farne a meno. A volte avrei voglia di rallentare, ma non ce la
faccio, sento che mi perderei qualcosa e che sto vivendo la vita che avrei
sempre voluto, viaggiando, conoscendo popoli, culture, religioni. Oggi sono
sull’Himalaya e tra qualche settimana al monte Fuji, ma ci pensi? Come
faccio a fermarmi?»
Capitolo 8

Venezia, 7 novembre 2019


IN stereofonia, ma a volume basso, passano Wonderwall nelle casse del
bistrot. Conosco le sue strofe a memoria, è una delle mie canzoni preferite
in assoluto e mi ricorda i primi anni del liceo, quando sognavo di diventare
un cantante Brit Pop. È tardi e sono praticamente l’unico cliente, così ho
approfittato dell’incantevole posto vicino alla finestra, dalla quale si può
godere della straordinaria vista sulla laguna. Si intravedono le luci della
Giudecca, così come qualche barca che fa la spola.
Mi ritrovo in uno degli hotel più belli e lussuosi al mondo, il Danieli di
Venezia, e trovo fuori luogo tanto l’essere qui quanto il sentire questa
canzone tra queste pareti opulente.
Chissà se i fratelli Gallagher avevano immaginato, mentre componevano
questa canzone, che passasse alla storia, al punto da diventare un classico
della musica quasi trent’anni dopo. Prima gli stadi pieni, la vita da rockstar,
ma il successo significa poi diventare tremendamente pop, così tanto da
finire nelle casse di un hotel di lusso a Venezia, frequentato perlopiù da
persone a cui le canzoni degli Oasis facevano il verso.
E cosa ci faccio io, backpacker di lungo corso, abituato a frequentare i
peggiori ostelli e guesthouse, in uno degli hotel più famosi e lussuosi del
mondo?
Bella domanda.
Quando lavoravo in banca, mi sentivo frustrato a causa di una vita fatta
tutti i giorni di noiosa monotonia e invocavo anche solo un piccolo cambio
alla routine: le volte in cui dovevo prendere l’auto aziendale per recarmi da
un cliente, fosse stato anche solo nelle tristi periferie di Milano, stavo già
meglio. Staccare dall’infinito ripetersi di azioni sempre uguali che in quegli
anni mi stavano lentamente, ma inesorabilmente, uccidendo lo spirito.
Ora invece non ho un ufficio, sono un cosiddetto nomade digitale, e
viaggiare è diventato il mio lavoro.
Proprio per ragioni lavorative mi trovo ospite in questo hotel a due passi
da piazza San Marco. Domani è prevista acqua alta e io dovrò andare al
Cinema Lido per raccontare sui miei canali social un evento di finanza
spirituale.
Finanza spirituale… forse un corso del genere avrei dovuto frequentarlo
proprio quando lavoravo in banca!
Mi sento stanco e demotivato, provo una sensazione di vuoto, come se
tutte le possibili avventure che sto vivendo non mi appaghino abbastanza.
Tre giorni fa ero in Guatemala con un gruppo, fra quattro giorni sarò in
Namibia. Il mese scorso ero in Islanda, Giordania e prima ancora alle
Hawaii. Tra un mese tornerò in Nepal e poi visiterò il Bhutan.
Che stia in realtà vivendo una specie di nuova comfort zone?
Si interpreta spesso la comfort zone come una situazione in cui tutto è
comodo, una sorta di prigione dorata. In realtà, si tratta più precisamente di
una condizione mentale: la tendenza ad agire in uno stato di routine,
familiarità e sicurezza tali da sentirsi del tutto a proprio agio, senza
percepire alcun rischio o minaccia.
Quindi questa è una comfort zone? Cosa succederebbe se dall’oggi al
domani non potessi più viaggiare e vivere secondo questo ritmo frenetico?
Pago il conto – paradossalmente non è neppure troppo salato, visto il
luogo – e scendo a fare due passi. Non piove più, ma stanno già montando i
rialzi per l’acqua alta prevista domani. Giro l’angolo e mi ritrovo in piazza
San Marco, in tutto il suo splendore: un luogo magico, emozionante.
Penso a quante ne ha viste questa piazza e che cosa dovesse essere una
volta.
Penso al fatto che per tante persone nel mondo Venezia è già di per sé un
sogno e, anziché stare a lambiccarmi il cervello su mille paranoie, dovrei
solo essere felice e soddisfatto di trovarmi in una delle piazze più famose al
mondo per lavoro, e per giunta ospite.
Vedi che anche questa è una prigione dorata?
Posso uscirne quando voglio, ma non lo faccio.
Mi mostro sempre sorridente e di buon umore, anche quando a volte,
come adesso, non lo sono proprio. Esattamente come quando lavoravo in
banca e le persone mi criticavano perché, avendo un lavoro fisso e una
carriera, non avevo il diritto di lamentarmi o anche solo riflettere sulla mia
condizione e realizzare di non essere felice.
Ora sono felice?
In questo preciso istante no, senza dubbio, ma ci sono tante cose della
mia vita che adesso finalmente mi permettono di avere a portata di mano la
felicità quasi ogni giorno.
Il dubbio che mi viene è che questa felicità non sia altro che una sorta di
droga, capace di creare assuefazione.
In realtà sono felice, ma non riesco a goderne. Come se non mi bastasse
più.
Di fronte ai miei occhi si staglia il campanile di San Marco con la
Loggetta del Sansovino, la cinquecentesca Libreria e poi il Palazzo Ducale,
un tempo sfarzosa residenza dei Dogi e sede delle principali magistrature
cittadine, clamorosa opera d’arte architettonica dalla delicata policromia,
ricca all’inverosimile di tesori d’arte.
Non riesco a capacitarmi di come mi senta a tratti spossato, vuoto, pur
vivendo una realtà all’opposto: l’anno sta quasi per terminare e ne ho
combinate più in questi undici mesi che in tutta la mia vita. Sono stato in
Argentina, alle Maldive, in Myanmar, in India al Kumbh Mela, in Nepal, in
Giappone a vivere la fioritura dei ciliegi. E poi il palco del TEDx, un libro
nuovo in libreria, un tour operator fondato insieme ad altri ragazzi come me
carichi di sogni e voglia di fare. E ancora: Dubai, di nuovo il Nepal, tutta
l’Italia in lungo e in largo per presentare il mio ultimo libro, il Madagascar,
le Hawaii, la Giordania, l’Islanda, il Guatemala.
Sognavo letteralmente una vita così e ora che l’ho conquistata sembra
non essere più sufficiente.
Che cosa mi sta facendo deviare così tanto dalle mie aspettative, dai
miei desideri?
Ancora qualche passo, ed ecco la Basilica di San Marco, in tutta la sua
imponenza: le enormi cupole, la facciata sfavillante di mosaici.
Mi giro verso la piazza, enorme e vuota, silenziosa.
Gli eleganti portici, ricchi di caffè storici, i ristoranti, le botteghe e gli
eleganti negozi.
Oggi qui, un mese fa a Petra, fra tre settimane al Tiger’s Nest.
Forse sono solo io che ho perso l’equilibrio, sento la necessità di staccare
per centrarmi nuovamente, devo decelerare in qualche modo.
Mi scappa un sorriso e, tra un pensiero e l’altro, torno nel mio
lussuosissimo hotel.

L’albergo è in un edificio storico, Palazzo Dandolo, e già la reception è


un’autentica opera d’arte: gli interni in stile moresco e orientaleggiante, i
dettagli dorati, i lampadari in vetro di Murano e tutti gli altri arredi sfarzosi
e opulenti. Senza contare poi la maestosa scalinata che accoglie i visitatori
al piano terra, simbolo iconico dell’hotel.
Attraverso la sala, salgo la scalinata e continuo nel corridoio. Mi viene
da ridere. Dormo dove hanno alloggiato personaggi come Marcel Proust,
Claude Debussy, Charles Dickens, Eugenio Montale e Johann Wolfgang
Goethe.
Come posso non sentirmi fuori luogo?

Il mattino seguente mi sveglio e vado a fare colazione in terrazza, con la


vista della laguna sotto una pioggia battente. Non riesco però a godermela,
sono ancora troppi i pensieri. A furia di non volermi precludere nulla e
vivere la vita al massimo, sto soffrendo lo stress. Come Icaro, che volando
troppo vicino al sole si bruciò le ali.
Possibile che rischi un esaurimento nervoso per realizzare i miei sogni?
Ho bisogno di una pausa.
Bisogna ascoltare il proprio corpo e le proprie sensazioni, ma come
faccio?
Troppe le cose programmate, non posso proprio permettermi una pausa
in questo momento.
Mi sembra di sentire parlare mio padre.

Tre giorni dopo mi ritrovo in aereo, direzione Namibia.


Con me Stefano, amico e socio, e un gruppo di ragazzi pronti a iniziare
un viaggio on the road tra le aree più remote di deserti e altopiani. Fuori dai
sentieri battuti, con le nostre esperte guide namibiane, ci attende
un’avventura che si preannuncia indimenticabile.
«Ste’, non sono proprio in forma, ti avviso.»
«Che ti è successo?»
«So che sembra strano, ma forse tu puoi capirmi: tutti questi viaggi, la
continua esposizione sui social, questa nuova avventura con il tour
operator… forse sono davvero stressato.»
«Cla’, facciamo una vita bellissima ma dura, la gente non se ne rende
conto. Si danno tante energie e se ne ricevono ancora di più, ma spesso
finiamo assorbiti.»
«Non ti seguo.»
«È incredibile come ci siano dei momenti nella vita in cui si perde
completamente la direzione. Non ci si riconosce più e le scelte fatte sono
totalmente distanti da quelle che avremmo preso in altri momenti. Eppure,
ci sono appigli che restano saldi dentro di noi. Come un porto sicuro per
una barca durante una tempesta.»
«Vai a cagare, Ste’!» provo a sdrammatizzare.
«Guarda che a volte anch’io attraverso questi momenti, smarrisco la
strada, perdo me stesso, mi sento confuso, insicuro, vulnerabile. È normale:
è facile che in questi momenti si abbia la mente offuscata. Per poi rendersi
conto, invece, che la strada è proprio lì davanti a te. Basta una piccola
scintilla per accendere la luce che ti indica la via. Per te questa miccia è il
viaggio, goditi questa nuova avventura e vedrai che starai meglio!»
«Qual è invece la tua scintilla?»
«Il viaggio, ovviamente, ma anche ascoltare la musica di sempre, parlare
con un amico che non si vede da tanto tempo o rileggere le righe di un libro
già letto e amato. Mi stupisco sempre di come possano cambiare le
situazioni e le sensazioni in piccolissimi istanti e questa meraviglia è molto
umana, perfetta nella sua imperfezione.»
«Ahahahah, filosofo ora?»
Però devo ammettere che ha ragione, anche una breve chiacchierata del
genere in aereo mi fa sentire molto meglio.

Arriviamo nella capitale, Windhoek, nel pomeriggio, giusto il tempo di


recuperare i mezzi per poi concederci una delle pochissime notti in un letto
d’albergo. Ci sta, la prima sera, dopo un lungo volo: è importante partire
pieni di carica ed energie.
Il gruppo è fantastico, io e Stefano ci alterniamo alla guida e, dopo aver
fatto un po’ di spesa, tra cui ovviamente il cappello da safari, in meno di
un‘ora siamo già in modalità off road. Le strade namibiane sono perlopiù
non asfaltate e imparo presto a mangiarne la polvere.
«Safari», dai più erroneamente riferito solo ed esclusivamente
all’avvistamento di animali, significa in realtà «in viaggio» e sento che
questo si potrebbe tradurre in una delle esperienze più belle, intense e
divertenti di tutta la mia vita.
La nostra primissima destinazione è il deserto del Sossusvlei, situato nel
pittoresco parco nazionale Namib-Naukluft, ovvero il luogo in cui si
trovano le iconiche dune di sabbia rossa del Namib.
I limpidi cieli blu contrastano con le gigantesche dune rosse, rendendola
una delle meraviglie naturali dell’Africa, oltre che un autentico paradiso per
i fotografi quanto a panorami. Una destinazione maestosa, con le sue dune
uniche che raggiungono quasi i quattrocento metri, tra le più alte del
mondo.
Arriviamo al campo tendato quando sta per calare il sole, accendiamo un
fuoco e ci beviamo una birra con il gruppo. Dietro di noi si staglia la
silhouette delle dune, illuminata dalla luna piena fino a brillare nel cielo
stellato.

Il mattino dopo ci svegliamo prima dell’alba per poter salire in cima a


quella chiamata Big Daddy, 385 metri circa di sabbia rossa. La salita è
lunga e divertente, sul crinale tira un forte vento che, modellando la sabbia,
crea morbidi disegni.
Mi fermo, osservo il sole sorgere dietro le dune e sento i suoi raggi di
luce accarezzarmi la faccia impolverata.
Chiudo gli occhi, è una sensazione di pace ed estasi.
«Dai, lanciamoci!»
Se c’è una cosa che amo delle dune nei deserti è che, una volta in cima,
correre giù è l’apoteosi del divertimento, mi fa tornare ogni volta bambino.
E così ci lanciamo in discesa, a correre verso il Deadvlei, un bianco deserto
di sale e argilla punteggiato da alberi secolari: per molti l’immagine
simbolo di tutto il territorio namibiano.
Un tempo, questa antica distesa di argilla era un’oasi costellata di acacie
e alimentata da un fiume che improvvisamente cambiò rotta, lasciando che
la terra si prosciugasse, insieme agli alberi che precedentemente sosteneva.
Il clima è così secco che questi alberi non si sono mai decomposti, ma
appaiono neri, completamente privati di umidità.
Quasi mille anni dopo, come sentinelle essiccate e annerite, punteggiano
la grande distesa bianca circondata dalle dune rosse, sotto un cielo blu privo
di nubi: uno spettacolo semplicemente surreale.
Visioni come queste mi fanno letteralmente dimenticare i cattivi pensieri
di qualche giorno fa a Venezia.

Lasciate le dune, la nostra avventura sposta l’orizzonte verso ovest, in


direzione dell’oceano Atlantico, fino a Swakopmund, la città situata lungo
la spettacolare costa. È nota per i suoi viali ampi, l’architettura coloniale e il
terreno circostante simile a un deserto ultraterreno.
La città gode di un mix eccentrico di influenze tedesche e namibiane.
Nelle sue acque si possono scorgere colonie di fenicotteri rosa e addirittura
foche, che infatti andiamo a scovare passeggiando sulla spiaggia.
Il giorno seguente rientriamo verso il cuore del Paese, attraverso sentieri
e strade off road non segnalate, alla ricerca del rinoceronte nero, raro e
purtroppo in via di estinzione. La nostra guida, Joahn, è un uomo che sa il
fatto suo. Alto, magro, biondo con i baffi, smilzo come il classico tedesco in
vacanza sulla riviera romagnola, un po’ burbero ma con tante storie da
raccontare.
Le ore in macchina scorrono veloci su strade difficili e impegnative, ma
senza dubbio divertenti da impazzire.
Il cellulare non prende, niente notifiche, solo la traccia dell’auto della
nostra guida da seguire a centinaia di metri di distanza.
Che bello…
Intorno a noi gli sconfinati paesaggi namibiani.
Musica, strada, natura, bella compagnia.
Forse lo stacco di cui avevo bisogno era semplicemente questo: tornare
sulla strada impolverata, staccarmi dal mondo multimediale e digitale,
godere semplicemente della bellezza che mi circonda.
Nel frattempo, nessun avvistamento di rinoceronte nero sulla strada per
giungere a Brandberg, il massiccio che con la sua punta più alta, il
Königstein, «la pietra del re», si erge a ben 2573 metri sul livello del mare.
Un’area remota di oltre un milione di ettari, con poche recinzioni; il nostro
camping è posto a lato del letto di un fiume che, in questa stagione, è
completamente secco. Appena arrivati, avendo a disposizione l’intero
pomeriggio, decidiamo insieme alla nostra guida di percorrerlo, anche
perché sembra che ci siano alcuni elefanti selvatici, di quelli che raramente
entrano in contatto con gli esseri umani.
Con i fuoristrada ci ritroviamo a volte impantanati o nel bel mezzo di un
bosco di erbe altissime, ma dopo circa mezz’ora, quando ormai è giunto il
momento di desistere, la nostra guida finalmente li adocchia e ci
apprestiamo a fotografarli.
Cinque elefanti bellissimi ma oltremodo seccati dalla nostra presenza:
sembra che uno voglia caricarci.
«Siamo troppo vicini, andiamocene!»
Il fuoristrada si pianta nella sabbia.
«Metti le ridotte e usciamo da questo casino!»
L’elefante dietro di noi ha iniziato a barrire e a muovere le orecchie,
dobbiamo scappare. Fortunatamente riusciamo a ripartire, anche se le
ragazze sedute dietro ci dicono che sia stato proprio l’elefante a darci una
piccola spinta.
Trovarsi in una situazione completamente fuori dal contesto dei parchi
nazionali, a tu per tu con questi animali selvatici, è un’esperienza
straordinaria. Mi sento vivo.
Le sorprese, tuttavia, non sono finite. Al nostro rientro, la guida ci
richiama per mostrarci alcune orme vicino alle tende: sono decine e
appartengono inequivocabilmente a leoni. Joahn a quel punto si consulta
con un ranger, che ci conferma la presenza di ben nove leoni di montagna.
Lì, a due passi da dove dormiremo.
Allestiamo un grande fuoco per tenerli a distanza.
Adoro i falò: perdersi a guardare le fiamme, raccontarsi storie, brindare,
sentirsi parte di un qualcosa.
«Mi ricorda quella volta in cui mi capitò di dormire vicino a una tigre!»
esclamo.
«Sì, una tigre… e poi chi c’era, anche lo yeti?»
«Ti giuro, è stata una notte terrificante, mi ha pure punto uno scorpione.»
«Ci prendi per il culo, vero?»
«Ve la racconto: era giusto un paio di anni fa, mi trovavo al Bardia
National Park, nella zona sud del Nepal. Durante la giornata, insieme alla
guida, giravamo a piedi nel parco con una canna di bambù per difenderci
dagli animali.»
«Una canna di bambù e nient’altro? Ci stai prendendo in giro, è
ufficiale!»
«Ve lo giuro! Si chiama walk safari e in alcune zone lo puoi fare anche
in Africa. In realtà è la stessa identica situazione a quella che stiamo
vivendo noi, in questo momento, potenzialmente vicini a un branco di
leoni.»
«Infatti io me la sto facendo sotto; continua la storia, ché almeno non ci
penso!»
«Quel parco è uno dei pochi luoghi al mondo dove si può avere la
concreta chance di vedere una tigre in libertà e quindi ho deciso di
affrontare il lunghissimo viaggio da Kathmandu per tentare di avvistarne
una. Quello che non avevo capito è che l’avremmo fatto a piedi,
camminando nella natura e dormendo in tenda vicino al fiume. È stata la
notte più terrificante della mia vita!»
«Se sei qui a raccontarcelo, vuol dire che è finita bene. Continua!»
«Poco dopo il calar delle tenebre, eravamo accanto al fuoco quando la
mia guida improvvisamente si alza puntando la luce verso il fiume. Era una
serata come queste, la luna non era piena ma grande nel cielo e illuminava i
profili della vegetazione. Il buio non era pesto e si vedeva chiaramente
stagliarsi la sagoma di un grande felino, attratto e incuriosito da noi. A
meno di trenta metri ho riconosciuto distintamente una tigre che,
ciondolando da una parte all’altra, continuava a osservarci. Pur estasiato dal
momento, ho iniziato anche a sentirmi indifeso e in pericolo, così la mia
guida mi ha tranquillizzato, dicendomi che la miglior difesa per questi
animali è proprio il fuoco stesso.»
«E allora anche noi siamo a posto!»
«Sono solito guardare le persone negli occhi e comprenderne la reale
preoccupazione, e in quel caso ho visto i suoi realmente rilassati, così me ne
sono fatto una ragione e sono tornato al mio fuoco, attento però a non dare
mai le spalle al felino. Dopo circa mezz’ora, mentre stavamo mangiando, la
tigre se n’era andata, ma ha fatto la sua comparsa a circa sessanta metri da
noi un gigantesco rinoceronte. Anche in questo caso le paranoie hanno
iniziato ad assillarmi e così ho deciso di non dormire in tenda bensì
all’aperto, proprio accanto al fuoco, perché preferivo una situazione più
facile da controllare e dove potessi sentirmi maggiormente al sicuro. Nella
spola tra la tenda, dove avevo preso il sacco a pelo, e il fuoco, ho sentito
qualcosa pungermi un piede: un dolore lancinante, fortissimo, non riuscivo
a capire cosa fosse. Il piede ha iniziato a sudare e a gonfiarsi. La mia guida
e i suoi due aiutanti sono andati alla ricerca di ciò che mi aveva punto: sono
tornati con in mano uno scorpione.»
«Come uno scorpione? Oddio, e come hai fatto?»
«Era piccolo in verità, ma pur sempre uno scorpione. E mentre io mi
immaginavo già con un piede amputato o a lottare contro un’improbabile
morte, loro sono scoppiati a ridere dicendomi che gli scorpioni così piccoli
sono velenosi ma per nulla pericolosi. Entro qualche ora sarebbero passati
anche il dolore e il gonfiore. Così è stato, ma gli occhi rilassati e tranquilli
delle persone con me si sono fatti molto più preoccupati quando invece
abbiamo iniziato a sentire dei forti rumori provenire dalla giungla: era un
gruppo di elefanti. Mi hanno allungato un ramo incandescente e mi hanno
detto di tenermi pronto: se fossero arrivati nelle vicinanze, avremmo dovuto
innalzare rapidamente la fiamma e tentare di tenerli alla larga agitando il
bastone infuocato.»
«Bene, magari stanotte ci viene a trovare quello che ci ha dato una spinta
oggi!»
«Non credo, andavano nella direzione opposta. Comunque, in Nepal,
quella notte, fortunatamente non si sono avvicinati. Sono riuscito a
addormentarmi e il risveglio, il giorno dopo, è stato incredibile ed
emozionante. Con il sole che sorgeva dietro gli alberi, la mia guida mi ha
portato nella zona in cui avevamo intravisto la tigre: vi erano centinaia di
orme. La consapevolezza di aver trascorso una notte senza alcuna
protezione, in balìa solo del fuoco e di un animale letale, mi ha pervaso il
corpo.»
«È per questo che hai una tigre tatuata sull’avambraccio?»
«Non proprio, in realtà. L’ho tatuata perché poi, il giorno dopo, ho visto
la tigre con i cuccioli! E ho le foto per dimostrarvelo, se non ci credete.»
«Questa ce la devi raccontare.»
«La mattina dopo abbiamo smontato le tende e ci siamo incamminati.
Dietro una collinetta ho intravisto una figura grande muoversi, ci siamo
avvicinati lentamente e ci siamo ritrovati faccia a faccia con un gigantesco
rinoceronte. Fortunatamente, la loro vista è scarsa e così ci siamo rifugiati
vicino agli alberi, pronti eventualmente ad arrampicarci nel caso il buon
Rino si fosse accorto di noi. Ero già al settimo cielo, immaginatevi, noi non
abbiamo visto ancora un rinoceronte e io lo avevo di fronte a poche decine
di metri! Abbiamo trascorso poi tutto il giorno appostati in luoghi fitti di
vegetazione, nella speranza di poter adocchiare il grande felino e riuscire a
fotografarlo. Ci muovevamo strisciando nel sottobosco per fare il minor
rumore possibile. Verso il tramonto, eravamo fermi tra gli alberi da circa
due ore quando la guida mi ha detto che in venti minuti saremmo dovuti
tornare. Ho tirato fuori una sigaretta dal pacchetto e, cercando in tasca
l’accendino, sono stato distratto da alcune forme rossicce all’orizzonte.
Anziché accendere la sigaretta, l’ho appoggiata e ho afferrato la fotocamera,
zoom al massimo e… Eccola lì, placida a prendere il sole dall’altra parte
del fiume. Un esemplare femmina, elegante e fiero, a fare da balia ai suoi
tre cuccioli. Potenzialmente era la situazione più pericolosa in assoluto, ma
eravamo dall’altra parte del fiume: se ci avesse notato se ne sarebbero
semplicemente andati. Invece sono rimasti lì davanti ai miei occhi. Che
bellezza, che emozione, che gioia! La potevo guardare negli occhi! Ora
però vi mostro le foto.»

Il fuoco, i racconti, gli amici, qualche birra, le risate.


Questo viaggio mi sta restituendo tanta adrenalina e mi sta permettendo
di staccare dai pensieri e dalle paranoie, mi fa vivere il presente e, piano
piano, sento di poter riuscire ancora una volta a centrarmi.
La mattina seguente ci svegliamo presto per raggiungere l’altro luogo
più famoso della Namibia: l’Etosha National Park, meta di safari per
antonomasia.
Ho un ricordo indelebile del mio primo safari, che feci all’interno del
parco Tsavo East in Kenya, con mio padre: il ricordo è ancora più dolce
perché fu il nostro ultimo viaggio insieme. Credo di non esagerare
ammettendo che l’emozione del primo safari non si scorda mai: enormi
elefanti a pochi passi da noi, ippopotami, leopardi in caccia, bufali e giraffe.
Quel safari tuttavia ci lasciò, più a lui in verità che a me, un po’ di amaro in
bocca, poiché non riuscimmo a scovare il leone, il re della savana.
Anche stavolta le attese sono ovviamente molto alte. Non passa giorno
che all’interno del gruppo non si parli tra noi del possibile avvistamento di
leoni e leonesse; il racconto di ieri sera sulla tigre, poi, li ha fomentati
ancora di più.
Raggiunto il parco nel primo pomeriggio, Joahn ci porta subito in giro,
regalandoci l’avvistamento di animali a profusione, tra cui il raro
rinoceronte nero, qui preservato con cura. Non solo, ovviamente anche tante
giraffe, elefanti, sciacalli e, per la prima volta nella mia vita, anche iene.
Manca ovviamente lui, ma non me ne sto curando troppo.
«Nonostante abbiate scelto la stagione migliore, la natura è beffarda e
non è ancora scesa una sola goccia di pioggia da quasi un anno: tutto
l’equilibrio della savana in questi giorni è stravolto. Gli elefanti la fanno da
padrone, mentre i grandi felini si spostano in aeree più remote» ci racconta
Joahn la sera davanti al fuoco.
Io e Stefano notiamo tra i ragazzi una certa delusione per non averlo
avvistato ed effettivamente anch’io sto iniziando a masticare amaro.
Il giorno dopo, Joahn ci lascia liberi di scorrazzare per il parco e allora ci
avventuriamo verso sud in un’area piena di pozze naturali nella speranza di
avere più fortuna. Le nostre possibilità sono a dire il vero ridotte al
lumicino, poiché sono io a guidare il gruppo dei fuoristrada e non ho certo
la vista acuta e allenata della nostra guida. Non solo, non abbiamo neppure
la radio che usano i ranger e le guide per poter eventualmente essere
informati della presenza di un leone.
La mattinata infatti inizia malissimo: le pozze che avevamo individuato
sulla mappa sono asciutte e aride, non c’è nemmeno l’ombra di una
antilope. Viriamo a nord quindi, verso alcune pozze artificiali che
garantiscono, quantomeno, un’attesa meno monotona.
Improvvisamente, ai lati della strada, scovo diversi rinoceronti e la
giornata inizia a svoltare. Raggiungiamo un’immensa pianura e un grande
branco di zebre ci si para di fronte, impedendoci di proseguire. Complici le
luci del mattino, è un’immagine di una bellezza sconvolgente e tutti noi
consumiamo la metà delle batterie per le fotografie.
Dopo una ventina di minuti procediamo e, al di là di una curva, spunta
un branco di oltre venti elefanti. Emozione pura e anche parecchia
preoccupazione, perché siamo soli sulla strada e, ancora una volta, sono io a
guidare il gruppo. Temo di essere caricato, così la nostra sosta si prolunga
ben più del tempo necessario a realizzare un servizio fotografico.
Dopo gli elefanti è il turno di tanti altri rinoceronti, ma soprattutto delle
giraffe, un animale già intravisto ma mai così da vicino come oggi. Scorgo
sulla strada diverse automobili appostate e immagino ci sia qualcosa di più
di una semplice antilope o di una iena. Infatti, davanti a noi scorgiamo un
ghepardo intento a gustarsi un meritato riposo all’ombra dopo aver
cacciato: i ragazzi mi passano le foto fatte con i teleobiettivi, che rivelano la
bocca sporca di sangue.
Incominciamo a gasarci realmente, ma inizia a farsi parecchio tardi,
pertanto decidiamo di fermarci a un’ultima pozza. In lontananza vedo
giraffe e branchi di antilopi, ma non faccio in tempo a mettere la freccia per
svoltare che sento una delle ragazze della mia auto urlare.
«C’è un leone! Fermati!»
È la verità: appena imboccata la stradina che porta alla pozza, sotto un
albero ecco il Re Leone intento a dormire.
Un’emozione pazzesca mi attraversa il corpo, una vera e propria scarica
di adrenalina.
La cosa più bella è che lo abbiamo scovato solo noi e quindi è una
situazione praticamente privata. A un certo punto vedo le giraffe scappare e
correre, così distolgo lo sguardo dal leone dormiente. Scorgo una bellissima
leonessa camminare elegantemente nel bel mezzo della savana.
Una giornata straordinaria, un’escalation di emozioni degna di un vero e
proprio film con un finale da applausi.

L’emozione della mattinata domina i discorsi e le chiacchiere fino a sera,


mentre il giorno dopo è già il momento di cambiare destinazione e
muoverci verso l’ultimo parco del viaggio: il Waterberg National Park.
Poco prima di uscire dall’Etosha, tuttavia, Joahn ferma improvvisamente
la macchina: un leone cammina tra le frasche all’orizzonte e poi, poco
distante, un intero branco di leoni e leonesse si sta godendo il riposo
all’ombra.
Quanta bellezza in una sola immagine. È la natura, un mondo che ci
attrae ma che massacriamo con i nostri comportamenti scellerati.
Appena stacco un po’ dai viaggi, vorrei dedicarmi alla tutela del pianeta,
penso tra me e me. Potrei provare a staccare completamente dal mondo
digitale e fare il volontario in qualche riserva o parco naturale. Oppure
potrei imbarcarmi su una nave dedita alla pulizia degli oceani. In realtà
basterebbero anche piccoli cambiamenti sul fronte individuale e personale
per iniziare a prendermi cura del pianeta: ridurre drasticamente il consumo
di plastica, evitare cibi derivanti da coltivazioni e allevamenti intensivi,
riciclare il più possibile.
Questo crescendo di emozioni mi sta facendo sentire nuovamente felice
e molto più calmo e tranquillo.
Verso il parco di Waterberg la strada scorre leggera, siamo tutti
consapevoli di aver vissuto un viaggio clamoroso.
Arriviamo su un altopiano appoggiato su una sorta di monolite: è il
regno indiscusso di babbuini, bufali, rinoceronti e giraffe.
Eccolo lì, proprio un rinoceronte: quasi possiamo toccarlo da quanto è
vicino. Poco dopo se ne avvicina un altro e sembra mettersi in posa per le
foto, nemmeno fosse un fotomodello.
È il tramonto di un viaggio straordinario quando scorgiamo le giraffe
correre e amoreggiare tra le luci arancioni e rosse della savana.
Capitolo 9

Volo KLM Sydney - Amsterdam, 19 gennaio 2020


FUORI dal finestrino osservo malinconico la baia di Sydney allontanarsi.
Nonostante tra due giorni sarò nuovamente in viaggio verso l’Africa per
tentare di scalare il Kilimangiaro, mi sento triste, ho il magone.
L’Australia è uno di quei viaggi da cui non vorrei tornare mai.
Mi soffermo a riflettere su quanto sia fottutamente innamorato del
viaggio: è qualcosa che rende la mia vita migliore, mi mette sempre di
fronte a nuovi orizzonti.
Chissà quando è realmente iniziato tutto?
Sono solo, come spesso nelle tratte aeree, guardo fuori dal finestrino e la
malinconia mi assale. La mente corre indietro nel tempo, a quando per la
prima volta in vita mia presi un aereo da solo, verso quello che fu il mio
primo orizzonte di libertà: la California.

***

Nell’estate del 2003 avevo deciso di migliorare seriamente il mio inglese


facendo una sorta di exchange program con la mia università: avrei
frequentato per due mesi l’Università di Berkeley, sostenendo un esame
universitario che avrei poi convertito nella mia facoltà una volta rientrato in
Italia. Ero determinato, ma fino a un certo punto: non ero infatti animato da
chissà quale desiderio se non fare qualcosa di diverso e sfidante durante
l’estate anziché sollazzarmi al mare della Grecia o delle Baleari con gli
amici. Avevo voglia di misurarmi con qualcosa di insolito e la California
sarebbe stato il mio primo vero viaggio in solitaria.
Tante persone sono impaurite all’idea di viaggiare da sole, ma io ne resto
costantemente attratto e sedotto: la solitudine che cerco è ben distante
dall’idea di abbandono e malinconia, sconforto o tristezza, è un’occasione
di riflessione e riscoperta del mio io più puro e genuino.
Certo, non è stato così fin dall’inizio, anzi, ricordo perfettamente il
giorno della partenza: me la stavo facendo letteralmente sotto.
Primo volo intercontinentale da solo: Milano Malpensa, scalo a Monaco
e poi via verso l’assolata California, destinazione aeroporto di San
Francisco.
Quel giorno, esattamente come oggi, ero malinconico mentre osservavo
il cielo fuori dal finestrino.
Come posso essere così innamorato dei viaggi se talvolta mi fanno
sentire male? Perché in realtà questa malinconia è preludio di emozioni
positive, sia nel compiersi del viaggio stesso, sia nei ricordi.
Quel giorno all’aeroporto c’erano i miei genitori: scendere dalla scala
mobile degli imbarchi e vederli scomparire fu un momento di distacco
difficile, sentivo che qualcosa dentro di me stava cambiando.
L’arrivo in aeroporto a San Francisco, la dogana americana, il terrore che
il bagaglio non arrivasse. Uscendo dall’aeroporto, mi accesi una sigaretta e
mi fermai a contemplare semplicemente l’America.
Tutta la malinconia di colpo scomparve.
Al suo posto: energia, tantissima nonostante il viaggio e il fuso orario.
Ero elettrizzato. Mi infilai in un taxi e, mentre il conducente parlava e io
non capivo nulla, continuavo a fissare il mondo oltre il finestrino.
Quel mondo che avevo conosciuto tramite film e serie televisive era di
colpo davanti ai miei occhi. Vedevo il sole che, tramontando, dipingeva le
sagome dei montacarichi della baia di San Francisco e poi, a sinistra, per un
attimo intravidi persino il famoso ponte Golden Gate. Giunsi
all’International House, il dormitorio dove avrei soggiornato in quei mesi,
quando ormai era buio. Presentai i miei documenti a una signora che iniziò
a spiegarmi come funzionava il dormitorio, ma ovviamente non capii nulla.
Ricordo che entrai in camera, sentii che puzzava tremendamente di
chiuso e mi accorsi che non c’erano lenzuola né coperte.
Troverò una soluzione dopo, pensai.
Appoggiai le valigie e per prima cosa mi precipitai in una cabina
telefonica per sentire casa e rassicurare i miei che era andato tutto bene.
Quando rientrai, mi resi conto che la camera era fredda e l’odore di chiuso
non se n’era andato. Soprattutto, quella sorta di reception non era più
aperta, quindi niente lenzuola e niente coperte.
Mi addormentai così, vestito, sul materasso, non avevo altro che una
felpa per coprirmi.
La sveglia il mattino seguente era presto ma, complice il fuso orario, mi
destai quasi due ore prima. Infilai un paio di bermuda, una maglietta e una
felpa, e uscii alla ricerca della mia classe nel gigantesco campus di
Berkeley.
Ricordo che mi prese un colpo perché c’era una nebbia molto fitta e una
temperatura decisamente fredda.
Ma dove sono capitato?
Tremavo dal freddo e, quando raggiunsi la facoltà, la trovai ancora
chiusa.
Dopo circa mezz’ora aprirono le porte e riuscii ad andare prima in bagno
e poi in aula: stava iniziando la mia prima lezione di Matematica
Finanziaria 2, o almeno così credevo. In realtà si rivelò essere un esame di
finanza, ma al pari di un corso che avevo frequentato nel primo semestre
quell’anno in Italia. La cosa mi avvantaggiò non poco, perché conoscevo
già bene l’argomento e si trattava unicamente di impararne i concetti in
inglese.
Di fianco a me sedevano due ragazzi spagnoli che facevano un gran
vociare e venivano spesso richiamati dall’insegnante: ovviamente mi
stavano già simpatici.
Ricordo che proprio uno di loro si avvicinò durante la pausa.
«Ciao, da dove vieni? Io sono Esteban, da Barcellona! Lui invece è
Kike.»
Rimasi colpito da questa facilità a presentarsi e chiacchierare fin da
subito, sembrava che ci conoscessimo da tempo.
«Anche tu pensavi che la California in estate fosse tutta spiaggia e mare?
Temperature calde e ragazze in bikini? È davvero così, ma non a San
Francisco, qui la sera e la mattina fa freddo e poi c’è la nebbia della baia.
Una volta Dickens disse che l’inverno peggiore della sua vita fu l’estate a
San Francisco!» mi incalzò Esteban.
«Era Marc Twain, cabrón!» replicò Kike.
Mi presero subito in giro, ma mi sentivo già molto più a mio agio.
Quando si viaggia in Paesi stranieri ci si tuffa in un’altra realtà e
prendere le misure non è immediato. Fare conoscenze di questo tipo aiuta
fin da subito a sentirsi meno soli.
Diventammo presto grandi amici. Oltre a loro c’era un nutrito numero di
altri spagnoli nel campus, quasi tutti provenienti proprio da Barcellona.
Complice la loro contagiosa simpatia e il fatto che parlavo un po’ di
spagnolo, inevitabilmente finii con il frequentare sempre quella compagnia.
La cosa si rivelò molto utile per migliorare il mio inglese perché,
conversando tra noi in inglese, ci aiutavamo spesso, completandoci le frasi
a vicenda, con parole a volte italiane, a volte spagnole.
L’estate a Berkeley significò anche il mio primo approccio al mondo dei
viaggiatori: Esteban aveva già girato mezzo mondo e i suoi racconti di
luoghi lontani mi affascinavano terribilmente. Esperienze in Australia,
volontariato in Sudamerica, viaggi nel Nord Europa: invidiavo le sue decine
di aneddoti.
Kike era invece più simile a me, piuttosto borghese e un gran fanatico
del calcio. Mi colpì il fatto che, pur provenendo da Barcellona, tifasse
Espanyol. Quello era l’anno in cui il Milan vinse la finale di Champions
contro la Juventus a Manchester, e con Kike non si parlava d’altro; voleva
sapere tutto del calcio italiano ed era persino a conoscenza del fatto che la
squadra della mia città natale, il Piacenza, fosse composta da soli italiani.
Mi divertivo, avevo ventidue anni e i giorni in California erano
decisamente spensierati.
Le settimane passavano, e mi sentivo sempre più a mio agio in quel
luogo lontano. Iniziavo a comprendere maggiormente l’inglese e nei
weekend facevamo viaggi on the road verso Los Angeles, San Diego e lo
Yosemite National Park.
Presi anche una bella cotta per Greta, due gambe lunghissime e una posa
da danzatrice di tango. Neanche a dirlo, anche lei di Barcellona.
Spesso prendevo il treno e andavo da solo a esplorare i vari quartieri di
San Francisco. Fortunatamente non dovevo ammazzarmi di studio, e poi
con Kike avevamo fatto un patto: io gli spiegavo gli esercizi e in cambio lui
mi passava i compiti. In quelle giornate in città, mi perdevo tra il centro
finanziario e i suoi grattacieli, il quartiere di Mission, i grandi parchi
cittadini, i leoni marini a Fisherman’s Wharf, la colorata e iconica Lombard
Street, i negozi hippie, i tram replica di quelli milanesi che usavo per andare
all’università: ero un bambino nel paese dei balocchi.

L’ultima sera, poi, fu epica. Affittammo una limousine; eravamo italiani,


spagnoli, cileni e messicani, un concentrato di latinità per vivere la notte di
San Francisco. Cenammo in un bel ristorante, prendemmo qualche drink in
un bar e finimmo in una discoteca a far baldoria.
All’alba eravamo sbronzi al Golden Gate Bridge.
Avevo poco più di vent’anni e non avevo la minima idea di quello che
sarebbe successo dopo. Però mi sentivo padrone della mia vita. Avvertivo
per la prima volta la sensazione che, se avessi voluto qualcosa, mi sarebbe
bastato afferrarla e prenderla. E mi dava un brivido pazzesco.

Rientrato a casa, avevo il chiodo fisso di quelle avventure e della facilità


con cui avevo vissuto momenti memorabili. Sentivo un’attrazione smisurata
per l’estero, per tutto ciò che non fosse l’Italia. Il mio rapporto con Milano,
la città dove vivevo in quegli anni, non aiutava: non mi aveva accolto, non
mi sentivo a mio agio in quel freddo cemento grigio. Era una città dura
all’epoca, sempre indaffarata, sorda ai bisogni degli individui; i primi anni
zero hanno segnato un cambiamento e io forse non sono mai stato in grado
di coglierlo.
San Francisco invece mi sembrava così accogliente, calorosa, umana.
Nebbia a parte, che la accomunava a Milano e che non mi portava a
sceglierla come meta post-laurea.
Dato che sentivo di aver trovato un equilibrio in California, pensai che il
posto migliore per schiarirmi le idee dopo la laurea fosse il luogo più
lontano al mondo dove si parlasse inglese: l’Australia.
Sydney.
Mi ero anche informato: la nebbia e il freddo sono eventi estremamente
rari laggiù.
In realtà, Sydney mi frullava in testa già da parecchio, complice mio
fratello, che aveva trascorso un anno della sua vita in Australia, ed Esteban,
che mi aveva parlato delle innumerevoli possibilità di realizzarsi e trovare
un lavoro con un visto working holiday.
Era tuttavia subentrato un problema non da poco: l’avventura americana
mi era costata un sacco di soldi e, sebbene lavorassi nei locali il weekend
come pr e barista, non avevo messo via abbastanza per una nuova avventura
oltreoceano.
Mi feci forza e provai a chiedere l’aiuto di mio padre, che non era troppo
d’accordo, ma lo convinsi promettendogli di partire solo se mi fossi
laureato in anticipo di sei mesi rispetto all’ultimo appello disponibile.
Quando glielo promisi era una sfida bella tosta, ma fu anche il modo
migliore per testare realmente la mia tenacia, messa a dura prova in quegli
anni milanesi.
«Così non perdo tempo sul mercato del lavoro, utilizzo quei sei mesi per
migliorare ancora di più l’inglese» gli dissi.
Lui acconsentì e, come regalo di laurea, mi pagò il biglietto aereo e un
corso di Business English all’Università di Sydney; al resto avrei dovuto
pensare io: compromesso più che ragionevole dal mio punto di vista.

Sydney, l’Australia. Il Paese da cui proprio ora sto volando via.


Se l’avventura in California aveva iniziato a far luce sui miei orizzonti,
l’Australia fu lo schiaffo che mi risvegliò definitivamente dal torpore.
Ricordo come fosse ieri anche il giorno di quella partenza: in aeroporto,
mia mamma mi aveva regalato una barchetta di carta con un pensiero,
lasciandomela nello zaino.
Porto quella barchetta sempre con me, anche adesso.
I viaggiatori sono sempre legati a piccoli oggetti che rappresentano un
mondo intero, fatto di relazioni e legami: mi basta avere questa barchetta di
carta con me per sentire mia madre vicino anche a decine di migliaia di
chilometri di distanza.
Anche quel volo diretto in Australia era iniziato con una certa
malinconia, ma sentivo di avere un piglio diverso, perché per la prima volta
nella vita non avevo vincoli di alcun tipo. Mi ero laureato quattro giorni
prima e stavo per sbarcare nella città che più di ogni altra sognavo mi
cambiasse la vita.
E me la cambiò.
Atterrai a Sydney in mattinata, dopo un volo infinito via Dubai.
Avevo con me due grandi valigie e mi ero stampato le indicazioni per
raggiungere l’hotel dove avrei passato le prime cinque notti, in attesa di
trovare una stanza dove vivere durante i primi due mesi del corso.
Era l’ottobre del 2004 e a Sydney faceva già un gran caldo, così, quando
arrivai al mio hotel nel quartiere di Newtown, ero uno straccio. Mi accolse
un tipo strano, abbastanza burbero, in jeans e canottiera nera, un braccio
completamente tatuato e un cappello da camionista. Bofonchiò qualcosa
che non compresi e mi fece accomodare.
La stanza era veramente brutta: non sporca o poco accogliente, no,
semplicemente brutta. C’era un letto a una piazza e mezzo, dal materasso
molle e cigoloso, una libreria di ferro con un tostapane, un bollitore e un
forno a microonde. Attaccate alla libreria, tre grucce per appendere gli abiti.
Il bagno era in stanza, verde chiaro, con i mobili ingialliti, lo specchio di
plastica.
Newtown non era proprio il massimo in quegli anni, era uno dei quartieri
peggiori e malfamati di Sydney, tuttavia si stava pian piano riqualificando,
perlomeno nell’area che dalla stazione porta verso George Street. Io
alloggiavo dalla parte opposta, nella zona ancora pericolosa.
È la zona dove è nata tanta subcultura di Sydney negli ultimi anni, un
quartiere di artisti e rockabilly, prostitute e tatuatori, negozi vintage e
hippie. Ora è il quartiere più eclettico della città. Al giorno d’oggi,
camminare lungo King Street significa stupirsi della natura vivace dei suoi
negozi di articoli di seconda mano, dei locali e delle gallerie. Significa
incrociare dopo il tramonto vere e proprie orde di studenti della vicina
università che si godono la vita notturna, passando da concerti punk al
cinema avant-garde, fino a scolarsi litri di birra nei numerosi pub che tutte
le sere offrono serate di musica dal vivo.
Già all’epoca Newtown era decisamente anticonformista e piena zeppa
di gente ubriaca dopo una certa ora. Però io ci andavo matto, mi piaceva
quell’aria in stile Camden Town.
Senza considerare che, negli anni, alcuni tra i locali più ricercati e
particolari del mondo li ho trovati proprio in questo quartiere.
Quei sei mesi in Australia furono il momento chiave della mia esistenza,
a posteriori lo riconosco nitidamente.
All’epoca non avevo alcuna idea di cosa fare nella vita, e andarmene via
fu la scelta migliore. Dall’altra parte del mondo potevo vivere in assoluta
libertà e decidere cosa ne sarebbe stato del mio futuro.
I primi mesi a Sydney volarono letteralmente, stavo benissimo in quella
città che mi stava offrendo tutto: tecnologia, opere d’arte, grandi parchi
cittadini, persone prese bene, le spiagge, l’oceano.
Sydney era soprattutto la città delle opportunità e dei grandi viaggiatori,
crocevia di tante vite. Avevo ventitré anni ed ero ancora tutto fuorché un
viaggiatore. La prima volta che ho dormito in un ostello è stato proprio in
quel viaggio quando, un weekend, decisi di visitare le vicine Blue
Mountains. Ricordo che mi preoccupai di mille cose, a partire dal terrore
sulla pulizia del bagno, al fatto di dover condividere la stanza, passando per
la paura che mi potessero rubare qualunque effetto personale.
Trovai invece un’atmosfera calda e accogliente, tanti letti a castello di
legno e una cucina comune dove tutti stavano preparando qualcosa: pad
thai, pollo al curry, un po’ di riso, noodles vari. Ricordo che mi rimase
impressa la scena di almeno quindici nazionalità diverse nella stessa stanza:
un autentico ombelico del mondo. Questa vista mi causò una sorta di
sindrome di Stendhal.
Chiacchierai con chiunque e mi sentii immediatamente a mio agio.
Quando lasciai Sydney, qualche settimana dopo, lo feci con uno zaino,
lasciando in un deposito bagagli tutte le mie valigie. Fu proprio quella
l’ultima volta della mia vita in cui viaggiai con valigie appresso, ma fu
soprattutto la prima con uno zaino in spalla.
Visitai il Red Centre, il bush australiano, l’outback, mi emozionai al
tramonto di fronte alla roccia sacra Uluru, mi appassionai alla cultura e alla
storia degli aborigeni, iniziai a leggere Bruce Chatwin e Marlo Morgan; mi
ritrovai nella foresta pluviale a Cairns e poi giù nella magia di Magnetic
Island, fino alle candide isole Whitsunday. E poi Noosa, il lago McKenzie a
Fraser Island, la vivace Brisbane e l’intramontabile Byron Bay.
Dormivo sempre in ostello, scroccavo passaggi, noleggiavo auto e
talvolta prendevo aerei, come quando, dopo la costa est, rivolsi le mie
attenzioni alla costa ovest.
Raggiunsi Daniele, il mio coinquilino di Sydney con cui nacque
un’amicizia fraterna, e Luca, un altro ragazzo delle nostre parti. Ci
ritrovammo a Broome e l’idea era di scendere a Perth on the road.
All’epoca l’Australia non era così costosa, ma avevo comunque già
dilapidato i miei risparmi e non ero in grado nemmeno di dividere i costi
per il noleggio di un’auto. Francamente, non avevo neppure i soldi
sufficienti per dormire in ostello, se non per qualche sera ancora.
«Affittiamo un camper e ci dormiamo e cuciniamo dentro!»
«Sì, bravo, hai idea di quanto costi noleggiare un camper? Poi ricordati
che lo dobbiamo prendere qui a Broome e lasciarlo a Perth: ci viene
addebitata la one way fee, che è una bella botta!»
«Ho un’idea, l’ho sentita da alcuni ragazzi in un ostello a North
Stradbroke: qualcuno deve riportare camper e automobili da dove sono stati
noleggiati, giusto?»
«Quindi?»
«Noi potremmo essere chi gli riporta i mezzi!»
Il giorno dopo bussammo a tutti gli autonoleggi del Paese e scoprimmo
l’esistenza della relocation.
In un paese vasto come l’Australia, la maggioranza dei viaggiatori e dei
turisti noleggiano un automezzo riconsegnandolo in una città diversa dal
luogo di ritiro, il che comporta appunto il pagamento della commissione
detta one way fee. Scoprimmo che alcune compagnie di noleggio offrivano
a prezzi stracciati – da uno a cinque dollari al giorno – automezzi da
riportare entro una data prestabilita in una certa località. Solitamente veniva
addirittura incluso un bonus carburante per coprire i costi di benzina o
gasolio.
Le strade in Australia sono gratuite, pertanto, le uniche spese che
avremmo dovuto sostenere sarebbero state il ridicolo costo giornaliero di
noleggio ed eventualmente, poiché non obbligatoria, l’assicurazione.
Ora, con l’avvento di smartphone e app, è facile trovare opportunità di
questo tipo, ma in quegli anni eravamo sicuramente una sorta di precursori.
Trovammo un camper 4x4 con tetto a soffietto che, se lo avessimo
restituito in dieci giorni, ci sarebbe costato solo cinquanta dollari.
Iniziò in quel momento l’avventura on the road più divertente ed
emozionante della mia vita. Fino ad allora non avevo mai dormito in un
camper e anzi, quando ne vedevo passare uno in autostrada, pensavo fosse
proprio un modo di viaggiare da sfigati. Quanto ero io, invece, sfigato a
pensare queste cose?
Uno degli effetti più forti e genuini del viaggio è che ti apre la mente:
provare nuove esperienze disintegra spesso ogni pregiudizio.
Ci divertimmo come dei pazzi, prima sulle strade sterrate, verso Cape
Leveque, e poi giù a sud verso Perth, passando per Monkey Mia, Shark Bay
e il deserto dei Pinnacoli. I tramonti infuocati del bush, il rosso del deserto,
il blu del cielo e il bianco delle nuvole.
Ci imbucavamo negli ostelli per scroccare la doccia e cucinare spaghetti
con gamberoni giganti, avvistavamo serpenti e canguri tutti i giorni,
riuscimmo a dar da mangiare ai delfini. Una volta ci impantanammo nella
sabbia. Ridevamo, scherzavamo, guidavamo per giorni e giorni. Feste,
sbronze, stelle: spensierati.
La strada sempre diritta, i road trains, il saluto al volante sollevando solo
l’indice: mi sentivo come dentro un film.
Quel viaggio mi fece amare la natura e i paesaggi sterminati, mi fece
capire che avrei voluto essere un uomo dai grandi sogni e che quei sogni
avrebbero dovuto includere anche tanta natura, uno stile di vita libero e
creativo. Mi resi conto realmente di chi non sarei mai voluto diventare.
E prontamente, una volta tornato a casa, lo diventai. Perché spesso va
così: nel viaggio comprendi dinamiche che non riesci poi ad applicare nella
vita quotidiana.
O forse questo non è altro che quel seme di irrequietezza che germoglia
nell’animo del viaggiatore?
A onor del vero, ci fu un momento in cui presi seriamente in
considerazione l’idea di non tornare: mi trovavo proprio a Sydney, in una
cabina telefonica di Newtown, e stavo per chiamare casa. Volevo dire ai
miei che non sarei tornato, che me la sarei provata a giocare laggiù.
Come? All’inizio non ci sono tutte queste grandiose opportunità: le
uniche professioni facilmente percorribili sono il muratore, il barista, il
cameriere, oppure la raccolta della frutta nelle fattorie. Tutti partivano da
quei lavori e chi voleva rimanere faceva carriera in fretta, anche in pochi
mesi. Con il senno di poi, l’Australia era in pre-boom economico e se me la
fossi giocata bene sarei riuscito tranquillamente a fermarmi a vivere lì.
Ma il primo passaggio sarebbe stato proprio accettare uno di quei
mestieri. Niente da obiettare, anzi, quelle realtà mi attiravano tantissimo,
ma mi sentivo un verme a dover dire ai miei genitori che buttavo via una
laurea in economia per fare il cameriere a Sydney.
A pensarci ora… che discorso del cazzo.
Forse avrebbero anche capito, ma la verità è che non riuscii a trovare il
coraggio di fare quella telefonata e tornai in Italia. Fui assunto da una
multinazionale della cosmetica e, dopo neanche un anno, finii a lavorare in
banca per altri nove.
La mia vita, da felice e serena com’era in Australia, in viaggio, diventò
una banale routine in ufficio. Accadde lentamente, perché i buoni propositi
ce li misi proprio tutti, ma il tarlo di quella scelta in Australia mi
attanagliava.
In quegli anni compresi quanto peso abbiano i rimpianti nella vita, ben
più dei rimorsi.
L’economia australiana galoppava e tutte le persone con cui ero in
contatto avevano una vita di successo, mentre io ero tornato nel grigiore di
Milano a svolgere un lavoro che, giorno dopo giorno, odiavo.
Solo ora, su questo aereo che mi riporta in Europa, diciassette anni dopo,
mi perdono quell’errore. Con la maturità si comprende appieno la portata
degli eventi nella vita, e adesso sento che quello non fu un errore da
rimpiangere. Quella scelta mi ha portato a essere ciò che sono, ma
soprattutto mi ha portato dove avrei voluto essere ora.

A ventitré anni mi innamorai di Sydney, ma non avevo ancora visto il


mondo e la mia fame era troppa per fermarmi.
Dieci anni dopo, riuscii ad arrivare in Australia senza prendere aerei
durante il giro del mondo.
Ci sono tornato ora, con un viaggio che io stesso ho organizzato,
mostrando al gruppo che era con me questo Paese che tanto mi ha sedotto.
Fino a qualche giorno fa me ne stavo in un appartamento vista oceano a
Bondi Beach, e ogni mattina mi allenavo correndo sulla spiaggia per
affrontare al meglio la scalata al Kilimangiaro.

***
Come spesso mi succede quando faccio i viaggi di gruppo, non rientro in
Italia con chi ha viaggiato con me, mi concedo invece qualche giorno per
poter godere in solitaria del posto. In genere non faccio il turista, mi prendo
un appartamento e vivo come una persona del luogo.
Questi ultimi dieci giorni a Sydney mi hanno fatto innamorare per la
terza volta e adesso, dopo aver girato il mondo, a trentanove anni, quale
scusa voglio ancora trovare per non fermarmi qui?

Tra l’altro, questa volta, è anche avvenuto un incontro molto particolare.


Ero andato di proposito a Newtown perché avevo intravisto a un incrocio
una piccola libreria di strada dove le persone lasciano e prendono libri. Ho
l’abitudine di abbandonare una copia del mio romanzo sul giro del mondo
in ogni luogo che mi sta a cuore, per donarlo alla prima persona cui capiti
tra le mani. Il concetto che il mio libro viaggi mi fa stare bene, è come se
una parte di me fosse in tanti luoghi diversi nello stesso tempo.
Spesso succede poi che mi contattino, ed è qualcosa di meraviglioso. Il
fine ultimo di una storia non è quello di essere letta? Scrivere i propri
pensieri è un dono incondizionato verso gli altri. Una volta che un racconto
è scritto, ha vita propria negli occhi e nelle menti di chi legge. Lasciarlo a
Newtown, dove in qualche modo tutto è iniziato, rappresentava tanto per
me.
Nella mia mente, per un attimo, scorreva il film della mia vita.
«Ehi, tu! Stai lasciando o prendendo un libro?»
«Sto lasciando un libro che ho scritto, lo lascio qui perché questo
quartiere significa tanto per me, qui in un certo senso è iniziata tutta la
storia.»
«Tu sei l’autore del libro?»
«Sì…»
«Io sono un volontario che tiene pulita la libreria, controllo che tutto sia
in ordine e fili liscio. Non mi era mai capitato di incontrare un autore!»
«Piacere di conoscerti, come ti chiami?»
«Il nome non ha alcuna importanza. Tu, piuttosto, perché?»
«Perché, cosa?»
«Perché sei qui ora? Cosa stai facendo nella tua vita per lasciare il
segno?»
«Ehm, è un discorso un po’ complicato così su due piedi.»
«Andiamo a berci un caffè, me lo offri tu?»
Era un tipo bassino, pantaloni larghi e giubbotto di jeans, capelli bianchi
e barba folta.
Che vuole da me?
Era un incontro di quelli che non potevo sottovalutare, dovevo seguirlo e
capirne di più.
«Cosa fai, cosa cerchi nella vita?» mi incalzava, e quasi non mi lasciava
il tempo di rispondere.
«La verità, l’amore, la felicità.»
«A che punto sei?»
«Direi sulla strada!»
«Lascia stare le stronzate, ascoltati dentro, segui il tuo cuore!»
Per un attimo, in quei botta e risposta ho intravisto qualcosa di mistico,
come se quella persona non esistesse veramente. Chi era? Che cosa
rappresentava?
Un messaggio, sicuramente.
Domande, anche.
Risposte, meno.
Non abbiamo fatto nemmeno in tempo a ordinare il caffè che se n’è
andato, ammonendomi ancora una volta di seguire il mio cuore e cercare in
tutti i modi di significare qualcosa per me e per gli altri.
Che sia Sydney il mio posto nel mondo?
Effettivamente, potrei davvero provare a giocarmela quaggiù, stavolta.
Potrei lavorare duro per tutto il 2020 e l’anno dopo, cascasse il mondo,
tornare in Australia.
Sono un nomade digitale, potrei sfruttare il fuso orario a favore per
continuare a sostenermi lavorando con l’Italia.
Una sfida.
La vita che nuovamente chiude un cerchio.

«Excuse me, sir, chicken or fish?»


I miei progetti di vita interrotti dal pasto a bordo del volo KLM.
Prendo il pollo e decido che è arrivato il momento di staccare, spegnere
il cervello.
Accendo il monitor e cerco un film che, unito alla cena, mi concili il
sonno.
Premo il tasto play su The Tourist e quasi mi va di traverso il pollo
teriyaki quando vengono inquadrate la hall e la scalinata dell’hotel Danieli
a Venezia.
Capitolo 10

Piacenza, 22 aprile 2020


Accertamenti conclusi con esito favorevole. Si comunica che la sua
quarantena è terminata. Seguirà lettera formale. AUSL Piacenza.

TRENTANOVE giorni.
Sono rimasto chiuso in casa, senza nemmeno poter uscire a fare il giro
dell’isolato.
Un’eternità.
Qualche giorno fa ho fatto un rapido calcolo: l’anno scorso ho trascorso
trentasei giorni in Italia; il resto, in giro per il mondo. Settantadue aerei,
diciotto Paesi visitati.
Non è stato facile accettare questo isolamento domiciliare. Quattordici
giorni con l’ansia per ogni colpo di tosse, impossibilitato a trascorrere
anche solo pochi minuti con mia madre, per non causarle un possibile
contagio. Chi non è mai venuto a stretto contatto con queste situazioni
fatica a comprendere le ansie e le preoccupazioni di chi potrebbe essere
stato un asintomatico contagioso: i miei recenti viaggi, i tanti aeroporti
frequentati, quella notte prima di raggiungere la vetta del Kilimangiaro a
condividere una stanza piena zeppa di escursionisti cinesi con la tosse.
I sensi di colpa.
Angoscia quotidiana interrotta solo da quel provvidenziale sms.
Due settimane di quarantena precauzionale, poi l’attesa di poter
effettuare il tampone, e infine l’attesa dell’esito: trentanove giorni in totale.
E, nel frattempo, tutti i viaggi che avevo programmato che saltano:
Giappone, Corea del Sud, Cappadocia, Marocco, Indonesia, Sud Africa.
Ma oggi si esce, finalmente.
Controllo il frigorifero: non mi serve nulla. Controllo la dispensa: sta per
finire la pasta, motivo più che sufficiente per andare a fare la spesa. Mando
qualche messaggio agli amici per poterci almeno salutare, tra la corsia dei
biscotti e quella dei detersivi.
Mi faccio la doccia ed esco.
Avevo ragione, il mio aspetto è più trascurato, ma il sorriso mi illumina
il volto.
Le strade sono semivuote, certo non come qualche settimana fa, ma
sembra comunque il tipico traffico della città che si svuota a Ferragosto.
Parcheggio la macchina, infilo i guanti di lattice e indosso la mascherina.
Il sorriso, da che illuminava la faccia, è ora nascosto.
C’è una fila di persone in attesa di entrare al supermercato.
È surreale, nient’altro da aggiungere.
Chissà se, quando lo racconteremo ai nostri ai figli, queste storie saranno
come quelle sulla guerra dei nostri nonni: ho i miei dubbi, di sicuro saranno
più noiose, dato che il nostro contributo, al netto degli operatori sanitari e di
quelli che hanno lavorato durante il lockdown, è stato quello di sederci
comodamente sul divano e fare il pane in casa o gli aperitivi via zoom.
Chissà come sarà il mondo quando tutto questo finirà? Questa domanda
continua a ronzarmi in testa da un paio di giorni.

Queste settimane mi hanno fatto riflettere nuovamente sulla mia vita e


sulla strada che ho intrapreso. Troppe variabili sono saltate, è difficile ora
come ora dar seguito all’idea di trasferirmi a Sydney. Verosimilmente dovrò
abbandonare l’idea di andare all’estero per un bel po’, ma in compenso, non
appena le regioni riapriranno i confini, potrò dedicarmi al mio Paese.
Amo l’Italia, e senza peccare di eccessivo campanilismo posso
tranquillamente affermare che si tratta del Paese più bello del mondo.
Nessuno stato può vantare il nostro patrimonio artistico unito a una tale
varietà e bellezza paesaggistica in uno spazio così contenuto. Non parliamo
poi del cibo, del vino e di tutta l’eccellenza derivante dalle sapienti mani
degli artigiani.
A costo di sembrare banale, quello che non mi piace dell’Italia sono gli
atteggiamenti di tanti italiani: remissivi, arroganti, maleducati, e poi c’è
tanta, troppa invidia e ignoranza.
La mia generazione è quella che mi spaventa di più: vedo i quarantenni,
che oggi dovrebbero iniziare a essere il tessuto dirigente della nazione,
disillusi e senza energie, sento molta negatività.
I social, poi, sembrano dar sfogo al peggio degli esseri umani, sia in
termini di narcisismo e superficialità, sia per l’odio che traspare nei
commenti o nei post. Volente o nolente, io ne faccio parte. Provo a creare
contenuti di qualità e approfondimenti, ma quanto mi demoralizza
constatare che paga ben di più uno stupido selfie.

Questo stop forzato fa a pugni con la voglia di trasferirmi in Australia


dove, al contrario, ogni volta che avevo a che fare con coetanei o ragazzi
più giovani respiravo intraprendenza e voglia di mettersi in gioco.
Vorrei mollare tutto e partire ora, iniziare a giocarmi questa nuova
partita. Ma purtroppo, almeno per tutto il prossimo anno, l’Australia ha
serrato le proprie frontiere.
Tutto parcheggiato, in stand by per un bel po’.
Forse questa pandemia ci porterà a rimodulare anche le prospettive di
vita: è giusto pianificare a lungo termine, ma dobbiamo pensare
maggiormente al presente, perché il futuro ci ha dimostrato di essere
completamente imprevedibile.

Stare chiuso in casa mi ha fatto sentire terribilmente la mancanza della


natura.
Ho voglia di fare lunghe camminate nei boschi, di perdermi tra i monti,
di godere di paesaggi incontaminati. Focalizzarmi lentamente sulla mia
Italia, i piccoli borghi, le botteghe, le piccole perle di arte nascoste.
Sento che devo cambiare qualcosa nella mia routine, introdurre qualcosa
di nuovo nella mia vita.
Complici un paio di interviste sul mio podcast a cicloviaggiatori, mi
sono convinto che dovrei provare un nuovo modo di viaggiare: la bicicletta.
Quando ho queste intuizioni fatico a portare pazienza e ponderare le
scelte: sento nuovi stimoli e tanta energia e vorrei già essere in sella a
pedalare.
Ma prima mi sarei dovuto allenare.
Difficile, quando ci vuole un’autocertificazione per andare a fare la
spesa.
Mentre mi ritrovo in fila alla cassa, mi perdo tra questi pensieri, in attesa
di pagare.
Torno a casa: pollo e patate al forno, maratona di Game of Thrones.
I giorni che scorrono uguali gli uni agli altri.

***

Quando le restrizioni nazionali vengono allentate, finalmente posso iniziare


con gli allenamenti e cambiare le mie giornate. Torno a respirare aria pulita
di campagna, i campi di grano, i fiori, le piante rigogliose, la Trebbia
azzurra come mai l’ho vista.
Ho recuperato in casa una mountain bike che apparteneva a mio padre,
un modello di quelli economici, molto pesanti ma ideali per farsi la gamba.
La bicicletta libera i pensieri, è un modo di viaggiare molto piacevole: è
faticoso, a sforzo prolungato, sono rari gli strappi, le salite vanno prese con
ritmo costante e va gestito il passo. È uno sport di testa, le energie devono
essere attentamente calibrate, ancor più per una persona diabetica come me.

Mi alleno tre volte a settimana, trascorrendo ogni volta mezza giornata in


sella. Non cerco la competizione, anzi, voglio pedalare al solo fine di
godermi i paesaggi e le distanze, ma è essenziale trovare un equilibrio tra il
proprio corpo e la testa, dato che la mia idea è quella di intraprendere un
viaggio dove pedalerò dalle sei alle otto ore al giorno.
Ormai non ci sto più dentro e attendo con ansia il via libera all’apertura
delle regioni per poter nuovamente tornare in viaggio.
Fortunatamente ho trovato uno sponsor e quantomeno posso contare su
una bicicletta di ottima fattura per questa nuova avventura. L’idea è
piuttosto semplice: pedalare e fermarmi quando voglio, nessun limite né
direzione. Il progetto è di arrivare fino a Roma. Il percorso si potrebbe
snodare sugli Appennini: non amo le tappe troppo in pianura, ho sempre
avuto un debole per le salite e le successive discese.
Parto da Piacenza qualche settimana dopo, in un caldo sabato
pomeriggio di giugno, con l’obiettivo di raggiungere Salsomaggiore Terme,
circa cinquanta chilometri in falsopiano con leggera e costante salita. Ho
appuntamento con un caro amico che mi ha promesso una notte in tenda tra
i boschi parmigiani.
La bicicletta è ottima, leggera e agile, ma ho fatto un grosso errore da
principiante di cui inizio immediatamente a rendermi conto: ho caricato
tutti i miei bagagli sulla ruota posteriore e faccio molta fatica a spingere,
soprattutto in salita.
Giungo a destinazione in circa due ore. Ad attendermi ci sono Nadir e il
suo cane Shiva, bellissimo esemplare di pastore belga Malinois, oltre a un
bel trekking nei boschi: l’idea è di raggiungere un crinale, goderci il
tramonto e accamparci nel bosco attiguo.
Torno a dormire in tenda dopo tanti mesi, torno nei boschi, torno a
emozionarmi per un tramonto sulle montagne.
Sembra passata un’eternità.
L’indomani decido di raggiungere un altro amico, Federico, a Ciano
d’Enza, spostandomi al confine tra le province di Parma e Reggio Emilia.
Nadir sceglie di unirsi alla scampagnata in bicicletta, dato che avevamo
viaggiato tutti e tre insieme in Marocco. Lo raggiungiamo, pranziamo e nel
pomeriggio pedaliamo verso Scandiano. Raggiungiamo un bed & breakfast
e, dopo tanti mesi, finalmente ci sentiamo in viaggio, seppur a due passi da
casa.
C’è chi dice che il viaggio è un assetto mentale, si può viaggiare anche
stando fermi. È possibile, ma credo che un piccolo principio di mobilità e
cambio delle abitudini sia necessario per attivare quelle sinapsi che poi
portano alla sensazione vera e propria di sentirsi in viaggio.
Di sicuro, quello che più mi mancava è una bella cena tra vecchi amici.
Tra brindisi, chiacchiere e ricordi, i mesi terribili appena trascorsi
sembrano un po’ più lontani.
Il giorno dopo saluto Nadir e Federico e inizio a fare sul serio, dopo i
primi giorni piuttosto facili e poco impegnativi: a Maranello devo voltare
verso il valico e dirigermi in Toscana.
Le strade e la natura intorno iniziano a sedurmi, la bellezza che mi
circonda insieme alla ritrovata sensazione di libertà che solo il viaggio è
capace di restituirmi mi fanno tornare a sentirmi vivo per davvero.
Il tempo, tuttavia, non è dei migliori e sulla strada per Serramazzoni
vengo colto di sorpresa da un forte temporale, così decido di fermarmi dopo
neanche due ore in un bed & breakfast sulla strada. L’entrata in Toscana è
solo rimandata, ma mi permette ugualmente un passaggio fondamentale:
Orsigna.
Dalla mia partenza custodisco nelle borse una copia del mio primo libro,
che vorrei lasciare proprio lì per offrire un metaforico tributo a un mio
grande maestro ispiratore: Tiziano Terzani.
Orsigna è dove Terzani ha trascorso i suoi ultimi giorni.
Devo oggettivamente tanto a questo scrittore: l’idea del giro del mondo
senza aerei mi venne dopo aver letto il suo libro Un indovino mi disse, nel
quale narra di un intero anno trascorso nel Sud Est asiatico senza prendere
nemmeno un aereo a causa della profezia ricevuta da un indovino cinese. Il
modo in cui Terzani descrive l’attraversamento delle frontiere e i piccoli
villaggi di confine mi ha fatto innamorare del concetto stesso di viaggio
lento.
Non posso esimermi, passando qui vicino, dal tributargli un saluto e,
perché no, lasciare il mio primo libro a casa sua. Sono fortunato, perché
trovo ad aprirmi le porte di casa suo figlio Folco, un’anima estremamente
generosa e affabile. Chiacchieriamo per qualche ora e sento le vibrazioni
positive di quel luogo magico.
Non posso fermarmi troppo a lungo, perché la strada è ancora lunga per
giungere a Firenze, la mia prossima destinazione.
Fin dalla partenza sto costantemente cercando di evitare località
conosciute, voglio consapevolmente riappropriarmi del viaggio come
scoperta, libero di scegliere dove andare e cosa mangiare, senza un
itinerario prestabilito.
Ma per Firenze è ovviamente dovuta un’eccezione. La lunga discesa che
da Pistoia porta al capoluogo toscano si trasforma infatti in un’occasione
privilegiata di visitare questa meravigliosa città: è un giorno feriale e il suo
famoso centro storico mi appare mestamente deserto.
Arrivo in piazza della Signoria e ci sono meno di venti persone. Di
fronte a Santa Maria del Fiore, nemmeno dieci. Non ho mai amato i luoghi
troppo frequentati e da viaggiatore ho sempre evitato i posti più turistici,
quindi è un’occasione unica. Tuttavia, non riesco a godere appieno di tale
bellezza. Questa sorta di visita privata ha il sapore di un privilegio
agrodolce, è lo specchio del periodo triste che tutto il mondo sta vivendo.
Io stesso, che ormai vivo del lavoro nel settore turistico, ho tutte le mie
attività ferme da mesi, con la preoccupazione di aver fondato un tour
operator poco prima di questa sciagura mondiale. Di fronte ai miei occhi,
ristoranti, bar e negozi che basavano tutta la loro vita su migliaia di turisti
sono ora vuoti.

Il giorno dopo lascio Firenze e mi dirigo verso la zona del Casentino e il


Passo della Consuma. Mi aspetta un forte dislivello e un meteo decisamente
variabile, rischio pioggia prima di poter valicare. Le gambe sono molto
pesanti, fatico a trovare il ritmo, spesso mi fermo a bordo strada per
riprendere fiato.
Incrocio un piccolo paese con diverse locande e inizio a chiedere se ci
sia la possibilità di dormire. Molte di queste attività sono chiuse e le poche
aperte mi offrono la stanza a cifre decisamente troppo elevate.
«Il peggio è passato, da qui in poi la salita è lunga ma meno ripida.
Buona fortuna, ragazzo!» mi informa un uomo sulla strada.
Mi faccio forza e proseguo.
Dopo qualche chilometro più simile a una pianura che a una salita,
iniziano i tornanti e la pendenza riprende a farsi sentire, tuttavia le gambe
sembrano girare meglio e, senza soffrire troppo, raggiungo il passo a 1.050
metri sul livello del mare. Prima di avventurarmi in discesa, appoggio la
bicicletta e mi guardo indietro.
È un’abitudine che non perdo mai: alla fine di ogni salita mi godo ancora
di più la discesa se mi fermo ad assaporare a pieni polmoni la
consapevolezza di avercela fatta. Bastano pochi respiri o anche solo qualche
minuto di semplice riflessione: un atto conoscitivo che potrebbe sembrare
banale e scontato, ma che permette allo spirito di ritornare a sé, prendere
coscienza.
Questi sono i momenti che troppo spesso si fatica a concedersi.
Fermarsi.
Assaporare.
Guardarsi indietro e poi avanti.
Comprendere il ruolo che si gioca nella nostra vita e in quella degli altri.
Poche cose come le vette sanno restituirmi questo equilibrio, questa
grande visione d’insieme.
La poesia lascia poi il campo alla pratica perché, se non salto
nuovamente in sella, rischio di arrivare a Poppi che il sole sarà già
tramontato.

Il Casentino è una zona d’Italia che non conoscevo: è costellato di


antichi borghi meravigliosi, tra cui Poppi e Anghiari, e le sue colline sono
morbide e ricche di vigneti, l’atmosfera è rilassata.
Lo sono un po’ meno io, dato che il freno posteriore inizia a fischiare
forte. Quando arrivo vicino a Città di Castello, per prima cosa cerco
un’officina di biciclette. Ne trovo una che mi cambia le pastiglie del freno
posteriore ma anche il disco stesso, perché fino a oggi ho completamente
sbagliato il modo di frenare: nelle discese appenniniche tenevo sempre
premuto il freno posteriore.
La faccia del meccanico è abbastanza eloquente, mi vede come un
principiante che si avventura in qualcosa di più grande. Ed è
fondamentalmente vero, lo faccio spesso.
Anche quando sono partito per il giro del mondo, ero un principiante che
sfidava qualcosa di più grande di lui: è il mio eterno conflitto tra
cocciutaggine e determinazione, quella sottile linea che determina tante mie
scelte, ma che, per fortuna, mi ha permesso di non avere rimpianti e di aver
vinto tante scommesse.
Dopo aver fatto riparare la bicicletta, passo per la splendida Urbino,
resto ammaliato dall’Oratorio San Giovanni e dai suoi ricchi affreschi, fino
poi a scendere nelle Marche, ritrovandomi a pedalare per le strade di
Ancona. Il mio trentanovesimo compleanno è alle porte e vorrei
festeggiarlo dormendo al Conero, uno dei luoghi più belli d’Italia.
Vorrei piazzare la tenda in spiaggia, ma in questa riserva naturale è
vietato e i controlli sono serrati, per cui ripiego su un grazioso campeggio.
Mi sveglio poco prima dell’alba e, dopo aver impacchettato tutto sulla
bicicletta, mi sposto sulla spiaggia di Portonovo.
È deserta, l’aria è sottile e piuttosto fredda, il mare è calmo e tranquillo,
di un blu unico che non si vede spesso nell’Adriatico.
L’acqua è gelata, ma senza pensarci mi ci butto: è una sensazione
bellissima potersi svegliare e bagnarsi nel mare.
Sto entrando nell’ultimo anno dei trenta, fra dodici mesi dove sarò a
celebrare questo passaggio così simbolico? E se dovessi morire ora, cosa
avrò lasciato su questa Terra?
È una domanda che non mi faccio spesso, ma ricordo perfettamente un
momento della vita in cui ho capito che avevo qualcosa da dire.
Mi trovavo nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, a bordo di una nave
cargo mercantile che dal Brasile faceva rotta verso il Senegal.
Ero sul ponte a fumarmi una sigaretta e finire una bottiglia di vino.
Senza pensarci troppo, andai in cabina a recuperare carta e penna: volevo
chiudere un messaggio nella bottiglia e lanciarla in mare. Il foglio bianco e
trovare a fatica le parole.
Fu un esercizio molto difficile, un po’ come scrivere una specie di
testamento personale, quello che avrei lasciato al mondo.
È più semplice, paradossalmente, scrivere un libro o una storia sapendo
che tante persone lo leggeranno, anziché un biglietto in una bottiglia che
nessuno troverà mai. Il destinatario non è qualcuno da compiacere, è il
proprio messaggio al mondo.
Mi sono sempre detto di ripensare a quel foglio di carta e a quella
bottiglia per comprendere se sto vivendo o meno dalla parte giusta, quella
delle speranze e dei sogni più autentici.

Fisso nuovamente il mare e mi preparo un caffè.


Sono felice?
Sì, e me ne sto rendendo terribilmente conto.
Che sia il mare il segreto?
Di sicuro custodisce il mio.
Capitolo 11

Tagliacozzo, 30 giugno 2020


«DIMMI un po’, iniziano a vedersi tante persone da queste parti per il
Cammino dei Briganti, ma finora nessuno era arrivato in bicicletta per poi
mettersi a fare un trekking di cinque giorni. Ti piace di più camminare nei
boschi o andare in bicicletta?» mi chiede il proprietario dell’albergo.
«Francamente non saprei scegliere, amo entrambi.»
Ammetto che quella domanda mi ha un po’ spiazzato e non smetto di
pensarci in questi ultimi chilometri di salita prima della lunga discesa verso
Roma, il termine di questa prima avventura di viaggio in bicicletta.
Viaggiare pedalando mi sta dando tanto ma, effettivamente, avere appena
terminato i cinque giorni di Cammino dei Briganti mi fa rivalutare ancora
una volta il viaggio a piedi, in solitaria.
Ho rivissuto così tante emozioni: dormire nella natura, sentirmi parte di
essa, emozionarmi davanti a scenari come l’apertura sul Vallone di Teve
provenendo dal Lago della Duchessa.
Il Cammino dei Briganti era uno degli obiettivi più grandi e stimolanti di
questo personale giro d’Italia, per questo ho lasciato la bicicletta qualche
giorno a Tagliacozzo e ho iniziato a percorrere a piedi il famoso Cammino.
Cinque giorni trascorsi tra sentieri nei boschi, piccoli paesi, danzando tra
il Lazio e l’Abruzzo in quella vecchia terra proprio di briganti. Circa
centocinquant’anni fa, questa zona era territorio di confine tra Stato
Pontificio e Regno Borbonico. I briganti vivevano sul confine e passavano
da una parte all’altra a seconda della minaccia. Il termine «brigante» evoca
in primis il senso di «malintenzionato», ma c’è chi dice che, in realtà, questi
uomini lottassero contro l’invasione dei sabaudi che avevano costretto il
popolo a entrare nell’esercito. Certo, non mancarono episodi di violenza e
rapimenti, ma di fondo erano perlopiù uomini liberi, dallo spirito indomito,
e per questa ragione cercavano nascondiglio tra quei boschi.
Amo visitare i luoghi che offrono queste storie e leggende perché,
camminando, la mia fantasia può letteralmente viaggiare non solo nello
spazio ma anche nel tempo.
Tra queste montagne ho incontrato due persone molto diverse tra loro
che mi hanno dato tanto in termini di stimoli ed energie. Il primo è stato
Fabio, il gestore del campeggio di Cartore: una persona buona che cresce i
suoi figli nella natura, con un bel cagnone gigantesco a fare la guardia a
cavalli e asini.
La sua ospitalità è stata impressionante, così come la sua simpatia. Tante
le chiacchiere davanti al fuoco e decine i racconti di quei luoghi. Fabio è un
uomo semplice che lotta costantemente per la valorizzazione di questi
luoghi, e la sua strenua volontà è una qualità che gli invidio molto.

E poi Americo, il pastore.


Quel giorno ero partito da Cartore verso il Lago della Duchessa intorno
alle nove del mattino. Essendo sabato, il sentiero che conduce al lago era
già piuttosto affollato, poiché è una scampagnata molto comune a Roma,
che dista poco più di un’ora d’auto.
I primi metri spingono forte in salita: sono infatti 860 metri di dislivello
in circa sei chilometri.
Per giungere a destinazione si sale nel fitto bosco con passaggi a tratti a
strapiombo. Quel mattino sono partito di buon passo perché sapevo che
oltre il bosco la salita è morbida e piacevole, con un panorama mozzafiato.
Quando la vista si apre è uno splendore, non sembra di essere tra gli
Appennini centrali ma sulle vette dolomitiche: ampie radure, grandi
montagne, pecore, mucche e cavalli al pascolo. Un vero e proprio idillio che
fa a botte con l’amara realtà che si scopre parlando con Americo.
Lui si batte da sempre per la salvaguardia del Lago della Duchessa, la
cui preservazione è minacciata dai pastori stessi. Purtroppo, per ragioni
meramente economiche, tanti pastori lasciano i propri animali al pascolo
nella zona del lago senza alcun controllo, anche per diverse settimane. La
presenza di ovini, bovini ed equini tra queste radure, soprattutto intorno e
dentro al lago, determina una costante ed energica azione di calpestio che,
abbinata all’intenso pascolamento e all’abbeveraggio, può compromettere
non solo la conservazione di questo ambiente ma anche delle specie
autoctone presenti. Senza poi considerare l’aumento del carico organico
dovuto alle deiezioni animali, che produce un collasso della qualità
chimico-fisica delle acque, con un effetto di eutrofizzazione. Oltre al fatto
che l’ammoniaca delle urine e degli escrementi renderà il lago inutilizzabile
anche dallo stesso bestiame.
Americo è l’unico pastore che nella stagione estiva vive in pianta stabile
tra queste montagne, e l’unico che rispetta il lago: le sue pecore si
avvicinano, bevono e vengono subito riportate lontano dalle acque. Difende
il lago, conscio che è l’unica salvezza di questo territorio.
A forza di denunciare il problema, nel 2011 gli hanno avvelenato
ventiquattro cani, un atto di intimidazione di non poco conto.

Appena giunto al capanno di Americo, l’ho visto scambiare quattro


chiacchiere con tre camminatori. Lui, intravedendomi, mi ha fatto cenno
con il capo di avvicinarmi. Mi ha invitato a entrare e mi sono ritrovato con
una tazzina di caffè in mano. Gli ho chiesto della situazione del lago e di
come stava andando la stagione anche in conseguenza del Covid-19.
«La stagione è iniziata tardi, anche quella dei camminatori. Nelle ultime
settimane si stanno ripopolando sia il Cammino sia il lago. Quella che però
rimane uguale è la terribile situazione dei pascoli selvaggi! Ogni anno
sempre peggio! E la maggior parte delle persone che vengono qui si fanno
una foto senza la consapevolezza che, se le cose non cambiano, tra qualche
anno non esisterà nemmeno più un lago da fotografare!»
Mentre preparo la videocamera per registrare un’intervista, è arrivato
Giulio, un ragazzo che sta realizzando un reportage proprio su Americo.
Quest’ultimo ha preso un pentolone di acqua e si è messo ai fornelli:
eravamo ufficialmente invitati a pranzo. Non sono passati neanche venti
minuti e sono arrivati altri gruppi di camminatori, chi per conoscerlo, chi
per comprare un po’ del suo formaggio, chi per fare le foto con gli
agnellini.
In men che non si dica, ci siamo ritrovati al tavolo in una quindicina a
mangiare e brindare.
Osservavo curioso Americo, il suo sorriso sincero e gli occhi lucidi,
mentre apriva le porte della sua casa, della sua vita e dei suoi ricordi.
Con gli ultimi mesi trascorsi nell’isolamento del lockdown, poter tornare
a incontrare persone come questo umile ma coraggioso pastore è stata una
vera e propria fortuna.
Le immagini di questi ultimi giorni mi scorrono in testa mentre cerco di
evitare auto e camion sulla strada che mi porta a Roma. Dopo un lungo
rettilineo, superata Tivoli, eccola lì, a meno di cinquanta chilometri:
all’orizzonte appare la capitale, ancora orfana di turisti e visitatori e per
questa ragione, proprio come Firenze, tappa privilegiata di chi può godere
della città nel suo periodo migliore e senza affollamenti.
È pomeriggio e fa caldo quando mi ritrovo a pedalare per le periferie
romane prima, e tra i viali del centro poi. Ho scelto di passare dal suo
simbolo, il Colosseo, e poi chiudere questa prima avventura in bicicletta
della mia vita in Piazza San Pietro.
Quando arrivo al Colosseo, l’emozione che mi pervade maggiormente è
quella della soddisfazione per il traguardo raggiunto.
È da un mese che pedalo, non mi ero dato tempistiche, non era una sfida
sportiva, cercavo solo il massimo godimento possibile da un’avventura nel
mio Paese, dopo aver trascorso così tanto tempo e dedicato così tante
energie all’estero.
Solo due mesi fa ero chiuso in casa con le sirene in sottofondo e ora sono
arrivato in bicicletta fino a Roma. Il Colosseo è magnifico, così come i Fori
Imperiali e l’Altare della Patria. La città è semi vuota, posso girare
tranquillamente con la bicicletta da un monumento all’altro.
Passo da piazza di Spagna e poi dalla Fontana di Trevi: quanta immensa
bellezza!
Diversa invece l’emozione all’arrivo in piazza San Pietro, che mi appare
praticamente deserta; la sua magnificenza rende ancora più palese il senso
di vuoto.
Entro nel colonnato, scatto una foto all’obelisco. Il mio viaggio è giunto
al termine in questa piazza vuota.
Mi appare sempre più evidente il dramma che stiamo vivendo e
inevitabilmente mi torna alla mente quell’immagine così iconica
dell’indulgenza plenaria, urbi et orbi, di Papa Francesco: lui, solo in questa
piazza, sotto una pioggia battente.
«Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città. Ci
siamo trovati impauriti e smarriti. Ci siamo resi conto di trovarci sulla
stessa barca, tutti fragili e disorientati.»
Il clima oggi è decisamente migliore, il cielo è azzurro e le nubi
scarseggiano.
Vorrei solo svegliarmi da questo brutto incubo.
Queste piazze vuote come nei film apocalittici.
Queste piazze come un monito, affinché non si ripeta.
Ne siamo usciti davvero migliori come ci auguravamo? – rifletto
amaramente, conoscendo già la risposta.

Qualche settimana dopo il compimento di questa avventura, mi ritrovo in


aereo diretto in Portogallo. I piani iniziali erano di trascorrere agosto in
Sudafrica, ma le frontiere di quel Paese sono chiuse per tutto il 2020. Mi
ero convinto a visitare la Georgia in van, ma la quarantena imposta al
ritorno mi ha fatto desistere. L’idea del viaggio in van, tuttavia, mi è rimasta
in testa. Un vero e proprio viaggio così non lo faccio da tanto tempo, e ho
optato quindi per la regione nord lusitana.
Un viaggio senza aver definito l’itinerario, lento e libero, di nuovo on the
road.
Sono anni che penso a una nuova scelta radicale che mi porti a vivere su
quattro ruote. È una scelta di vita basata sul minimalismo, ma piena di
emozioni, vita e dal sapore unico di libertà.
Il Portogallo in questo senso rappresenta una meta perfetta, perché è uno
dei Paesi che più amo in Europa: i ritmi sono più lenti, si mangia benissimo,
le persone godono di una energia positiva e il clima è davvero piacevole.
E poi… di nuovo l’Oceano Atlantico, i faraglioni, le spiagge, le onde, il
surf.

Qualche giorno dopo, svegliandomi a Nazaré, fisso il mare e comincio


seriamente a valutare di tornare in viaggio con un mezzo camperizzato.
Forse, in questi tempi così imprevedibili, è la soluzione migliore per
continuare a godere sia del viaggio sia del mondo.
Già una volta avevo considerato seriamente questa opzione: dovevo
attraversare tutto il Sudamerica e un fuoristrada in cui poter dormire
sarebbe stata un’ottima soluzione, anche perché avevo trovato il mezzo
giusto in Colombia. Non se ne fece nulla perché, grazie a un amico
colombiano, scoprii che il mezzo che stavo per acquistare aveva addirittura
i vetri antiproiettile ma per perfezionare l’acquisto c’era bisogno di una
carta che attestasse che non fossi affiliato al narcotraffico. Rotture
burocratiche che mi avrebbero fatto perdere tempo e denaro e che
soprattutto non davano garanzia di esito positivo.
Esco e mi guardo intorno: da ogni parte in questa spiaggia sono
parcheggiate decine di van, una sorta di tribù. Nella mente affiorano i
ricordi australiani di quella costa ovest attraversata con un camper, a oggi
ancora uno dei viaggi più emozionanti della mia vita.

I giorni portoghesi scorrono tranquilli, qui la popolazione è molto


disciplinata quanto a distanziamenti e restrizioni varie. C’è una sorta di
normalità, nemmeno troppo velata.
Che si possa davvero tornare a viaggiare presto?
Sto camminando sul lungofiume di Porto quando ricevo alcuni messaggi
dei miei soci riguardo alle misure appena imposte dall’Islanda: una
quarantena obbligatoria tra il primo e il secondo tampone all’arrivo, quindi
tutti i viaggi di gruppo pianificati per l’autunno sono saltati.
E con essi i miei piani, nuovamente.
Occorre ripianificare tutto, la mia vita e i miei progetti, soprattutto
perché stanno giungendo notizie poco rassicuranti dalla Spagna: si teme
l’arrivo già a settembre di una seconda ondata.
Sembra di entrare nuovamente in un mondo parallelo e, anche se le
preoccupazioni non si erano mai dissipate del tutto, ora queste ansie sono
più vivide di quanto pensassi.
Abbiamo appena fatto in tempo a riappropriarci timidamente delle nostre
belle abitudini che l’ombra di nuove chiusure torna con prepotenza a farsi
sentire.
Guardo le acque del fiume scorrere docili e quiete. Il sole che scende al
tramonto incendia la sua luce sui palazzi colorati e pieni di azulejos. È un
altro di quei momenti che avrei sperato non fosse l’ultimo prima di un
nuovo periodo buio.
Mi pervade un’infinita tristezza, oltre a una rabbia istintiva per tutte le
energie e il tempo sprecato a pianificare questi mesi.
Di nuovo le preoccupazioni, le paure, l’angoscia verso il futuro.
Cosa stiamo vivendo?
Chissà se un giorno, in un futuro lontano, ci capiterà di infilare la mano
in una vecchia giacca e ritrovare una mascherina. Chissà come la
guarderemo e soprattutto chissà se, alla sua vista, penseremo che, pur
essendo stati tempi duri, sono stati comunque dei gran bei vecchi tempi. Le
cene a casa con gli amici, le giornate trascorse in famiglia, il tempo che
volenti o nolenti abbiamo comunque destinato a noi stessi.
Non sono stati anche momenti emozionanti?

***

Cammino scuotendo il capo; sono in viaggio, ma mi sento già tornato a


casa.
Mi sento esaurito, dominato dallo scetticismo.
Quando finirà questo incubo? Quando potrò tornare su un bus
sgangherato? O a dormire in un treno indiano? Quando potremo tornare
ad abbracciarci e a conoscere nuove culture?
Ad alcuni forse sembrerà solo un vezzo, o addirittura un capriccio, ma
non lo è quando si vive il viaggio con bramosia. Io mi nutro letteralmente di
questi incontri, dei paesaggi, delle città, dei templi, dei boschi, delle
persone, di tutto ciò che, a prima vista, mi appare diverso. Ne sento un
bisogno vitale. La mia testa è un casino, così irrequieta e piena di
contraddizioni, proprio come un Kumbh Mela.

Il fiume che attraversa Porto riflette luci dorate che mi riportano alla
mente le puja sul Gange.
Centocinquanta milioni di persone in un pellegrinaggio… Oggi cosa
sarebbe? Forse ho vissuto l’ultimo Kumbh Mela, in un certo senso, liberi di
assembrarci in migliaia sulle rive di un fiume.
E non solo il Kumbh Mela: avrei voluto sapere che quella in Islanda era
l’ultima aurora boreale, che quello a Sonauli era l’ultimo chai, che quella
corsa a Bondi era l’ultima e che non avrei avuto la seconda chance di salire
in cima al Kilimangiaro.
Del resto, la nostra vita è determinata proprio da questi momenti
indelebili.
Se sai che è l’ultima volta che vivi qualcosa, te la gusti tremendamente.
Vedo le cose ben chiare dinnanzi a me e so che da un giorno all’altro
potrebbe cambiare tutto.
Mi faccio una promessa, solenne.
Appena tutto questo finirà, avrò come minimo quarant’anni ed è giusto
che pensi a un ultimo grande viaggio.
Non deve esserlo per forza, ma vorrei viverlo pensando che lo sia.
Come l’ultima stagione per uno sportivo. L’ultimo ballo.
Ce ne potranno essere altri, diversi, migliori o peggiori, ma non importa.
Quello sarà l’ultimo.
Gli stimoli e la determinazione non potranno essere che diversi e più
forti.
Voglio tornare a esplorare il mondo come se fosse l’ultima volta.
Cerco tra i miei taccuini, da qualche parte ho elencato i viaggi epici che
mancano nella mia vita.
La Via della Seta.
L’Antartide.
Da Capo Nord a Cape Town.
L’Alaska.
Devo sceglierne uno solo, l’ultimo.

***

Non ho grandi dubbi: avendo girato il mondo da est a ovest, è giunto ora il
momento di attraversarlo da nord a sud.
Voglio che non sia solo un viaggio fine a sé stesso, voglio che ne
rimanga traccia.
Voglio poter sensibilizzare sulle tematiche ambientali, così come su
quelle umanitarie e, dopo quello che ci è toccato, perché no, raccontare
come il mondo è cambiato dopo questa pandemia, dall’Europa all’Africa
nera, dal primo al terzo mondo.
Sento che il tempo è maturo.
Ho viaggiato senza aerei, ho camminato senza parlare per oltre 2.000
chilometri, ho attraversato mezza Italia in bicicletta.

La scelta del mezzo connota l’essenza stessa del viaggio. E tutte le scelte
della vita sono allo stesso tempo delle rinunce. Il viaggio non fa eccezione.
Scelgo di tornare on the road e voglio farlo stavolta con un mezzo
leggendario, un’icona: un kombi Volkswagen, oppure una Harley Davidson,
o ancora un vecchio Defender.
Ricordo che su internet ho visto alcuni Defender camperizzati, potrei
riprendere il progetto non realizzato in Colombia, ma per attraversare le
foreste lapponi e la savana africana in un unico viaggio. La scelta è ormai
chiara e definita.
Da oggi ho un obiettivo, si lavora duro per questa nuova partenza.
Ho di nuovo un limite da oltrepassare, frontiere da riconquistare.
L’ultimo tassello di questo mondo che mi manca, per chiudere.
Un viaggio vissuto come se fosse l’ultimo.
Una nuova avventura.
Capitolo 12

Piacenza, 7 marzo 2021


È PASSATO poco più di un anno.
Non avrei mai pensato che questa situazione potesse continuare così a
lungo. La scorsa estate, a Roma, avevo persino creduto che il peggio ce lo
fossimo finalmente lasciati alle spalle.
Mentre saltavano tutti i viaggi autunnali, speravo ancora che potessimo
viaggiare almeno a Natale.
E invece il peggio doveva ancora arrivare.
I lockdown e le regioni colorate in autunno e poi per tutto l’inverno, la
seconda e la terza ondata, la mortalità in costante aumento, gli ospedali
nuovamente al collasso: sono stati gli ultimi colpi inferti al mio stato
d’animo, al mio spirito d’avventura. Giorno dopo giorno mi sono spento
dentro, in mezzo a giorni tutti uguali. In casa, o al massimo a zonzo per la
regione.
Preso da un ottimismo che a posteriori posso ritenere sciagurato, lo
scorso ottobre ho acquistato il mezzo leggendario che mi avrebbe dovuto
portare a esplorare il mondo da Capo Nord fino a Cape Town: un Defender
110 verde scuro del 2010, in ottimo stato.
Certo della bontà del progetto e illuso che la situazione internazionale
migliorasse, l’idea era di camperizzarlo e partire proprio in primavera,
compiendo i miei primi quarant’anni in viaggio tra la savana africana. La
situazione attuale invece mi ha costretto a parcheggiare il Defender e
posporre ogni piano velleitario: troppi i dubbi, troppe le incertezze e troppe
ancora le regole che cambiano ogni giorno. Mi conforta solo il fatto che
forse non è ancora arrivato il momento di appendere lo zaino al chiodo.
Ho finalmente un mezzo che mi potrebbe permettere di conquistare il
mondo. Ma il mondo, settimana dopo settimana, appare sempre più chiuso e
proibito.

Senza rendermene conto, tuttavia, perso a vivere giornate sempre uguali,


sono ora di fronte allo specchio a mettere in ordine la barba: oggi forse
potrebbe essere realmente il mio ultimo giorno in questa terribile situazione.
A febbraio si è capito che si poteva viaggiare, quantomeno in Europa, e
non ho perso tempo: ho organizzato un viaggio di gruppo alle Canarie e uno
in Lapponia per Pasqua. Nonostante il periodo, era evidente la voglia di
tornare a vivere la normalità, tanto che i posti sono andati tutti esauriti e
così mi ritrovo a poche ore da un nuovo decollo con un gruppo, il primo
dopo oltre un anno, il primo dopo quel viaggio in Islanda in cui non mi ero
concesso abbastanza tempo per ammirare quell’aurora boreale.
Ora serve consapevolezza, mi ripeto.
Questo è uno di quei momenti da comprendere e interiorizzare, oggi
torno a fare ciò che più mi è mancato, ciò che amo: viaggiare.
Mi muovo lento, quasi anestetizzato.
Già da qualche tempo non stavo più nella pelle e il mio entusiasmo era
davvero contagioso, ma quello stesso entusiasmo è stato bruscamente
interrotto da una drammatica notizia, giunta circa dieci giorni fa: Dharma,
uno dei ragazzi nepalesi che aiuto con Human Traction, ha avuto un
problema di salute e si è trovato a lottare tra la vita e la morte in un piccolo
ospedale della periferia di Kathmandu, nel bel mezzo di una pandemia
globale.
Sono in partenza per le isole Canarie e, paradossalmente, mai meta fu
più azzeccata: se dall’Italia non è permesso partire verso il Nepal, dalla
Spagna sì, e la presenza dell’ambasciata nepalese a Madrid mi fa ben
sperare di riuscire a ottenere il visto e raggiungere i ragazzi, che mai come
in questo momento hanno bisogno di me.
Il Nepal ancora una volta all’orizzonte.
Ora dopo ora, il viaggio inizia a strutturarsi: durerà almeno un mese e
mezzo, dalle Canarie al Nepal, via Qatar, e poi infine in Svezia. Uno zaino
da preparare e i dubbi sul fatto che, in questo momento così drammatico e
problematico, tutti i tasselli si incastrino nel modo giusto.
Il piano è semplice: porto il gruppo a zonzo per Fuerteventura e, quando
loro torneranno in Italia, io volerò a Madrid, dormirò una notte nella
capitale e il mattino seguente correrò in ambasciata per poi raggiungere
l’aeroporto di Barajas e imbarcarmi su un volo diretto a Doha prima, e a
Kathmandu poi. Il tutto di corsa, per via della validità del test molecolare,
che non può superare le quarantotto ore: lo farò il giorno della partenza da
Fuerteventura.
Al ritorno: la Svezia, che fortunatamente non impone alcuna quarantena,
così potrò condurre un nuovo gruppo alla ricerca di aurore boreali in
Lapponia.
Totale: oltre un mese, tre destinazioni e climi diversi, finalmente una
partenza seria da preparare e uno zaino da impacchettare proprio come
piace a me.

Non immaginavo che questo giorno arrivasse così repentino e


disarmante. Oggi lascio casa e, se tutto va bene, la rivedrò quando, tra la
bella stagione e l’avanzamento della campagna vaccinale, dovremmo
esserci lasciati alle spalle il momento più grigio.
Mi guardo intorno e cerco di assimilare ogni immagine, ogni istante,
consapevole che potrò ricordare questa giornata come la fine di un incubo e
un nuovo inizio.
Che mondo mi aspetterà realmente?
Ho il privilegio di essere uno dei primi a poter evadere da questa realtà,
eppure non immaginavo di avere quel nodo stretto in gola che mi ha
accompagnato in tutti quei primi viaggi, a San Francisco come a Sydney.
Una nuova prima volta, con quel magone che è stato tante volte di buon
auspicio, preludio di avventure entusiasmanti e grandi cambiamenti.
Vedo di fronte a me l’autostrada vuota, mentre sento la preoccupazione
di mia madre, che ha deciso di accompagnarmi, nel suo tono di voce.
D’altronde, da diabetico, ritrovarmi tra qualche settimana in Nepal nel bel
mezzo di una pandemia non è proprio una prospettiva rassicurante, specie
per una madre.
Guardo fuori dal finestrino, ho voglia di piangere e non so francamente il
perché.
Dovrei essere felice come un bambino, e invece sento che sto lasciando
qualcosa.
Non riesco ad avere il tempo di rendermene conto che è già il momento
di varcare le porte d’ingresso dell’aeroporto, conoscere il gruppo di
viaggiatori e immergermi nuovamente nella modalità viaggio – check-in
bagagli, controlli di sicurezza, duty free, gate –, che ora prevede però uno
step iniziale che mai ci saremmo aspettati un anno fa: la verifica tamponi e
autocertificazioni.
Quando finalmente, dal mio posto finestrino, osservo ammaliato l’aereo
staccarsi da terra, stento ancora a credere di essere tornato in volo.
La settimana con il gruppo a Fuerteventura scorre via piacevolissima.
L’isola nasconde dei veri e propri gioielli paesaggistici e la voglia di tornare
a godere della libertà prende il sopravvento, ci lasciamo cullare dai ritmi
morbidi e rilassati spagnoli per scoprirne insieme ogni anfratto. Che bello
ritrovarsi la sera a cena, anche se con varie limitazioni, di fronte a una
paella e un calice di sangria. Ritrovarsi semplicemente spensierati.
Nel frattempo, mi arrivano buone notizie sia dal Nepal, dove Dharma è
uscito dalla terapia intensiva, sia dall’ambasciata nepalese, disposta a
rilasciarmi un visto turistico di un mese. Non mi sembra vero: solo qualche
settimana fa mi arrovellavo sulle sterili polemiche su restrizioni e
mascherine e ora mi ritrovo a un passo dal ritorno in Asia, addirittura in
Nepal.
Tampone PCR, esito negativo e poi via verso l’aeroporto: saluto i ragazzi
che se ne tornano in Italia, mentre io volo a Madrid. In questo periodo la
capitale spagnola è una piccola isola felice, infatti, nell’area metropolitana,
vi sono pochissime restrizioni in atto. Riesco così a cenare fuori in un
succulento tapas bar: quanto mi mancavano queste sensazioni, che gioia
poter tornare a viverle. Esplorare una città, perdersi tra le sue vie,
assaggiare piatti del posto. Un piacere che forse prima davamo per scontato
e che ora riassaporiamo con maggiore consapevolezza.

Non riesco tuttavia a essere totalmente spensierato, mi preoccupano i


tempi serratissimi che mi aspettano il giorno dopo: l’ambasciata nepalese
apre alle 10 e il mio aereo decolla alle 15; ho ottenuto via mail tutte le
rassicurazioni possibili, ma temo la lentezza burocratica nepalese.
Viaggiare di questi tempi restituisce il gusto della sana avventura e
richiede una buona dose di inventiva nel far quadrare partenze, tamponi e
visti. Mi sembra di essere tornato nel lungo viaggio intorno al mondo senza
aerei, rivivo per un attimo quelle sensazioni, intorpidite da anni, che mi
assalivano ogni volta che pensavo a una frontiera e al modo per
attraversarla. Come allora, anche oggi è fondamentale la determinazione.
Per fortuna, gli sbattimenti burocratici si esauriscono in meno di
mezz’ora e così ho il tempo di arrivare con calma in aeroporto. Tiro un
sospiro di sollievo quando mi ritrovo a bordo del volo intercontinentale e
realizzo che, in meno di ventiquattr’ore, sarò nuovamente tra le strade
inquinate e polverose di Kathmandu.

All’arrivo, quando scendo dalla scaletta dell’aereo, mi accorgo di essere


l’unico straniero sul volo e ne ho la riprova quando, per la prima volta,
trovo il banco immigrazione senza fila.
In pochi minuti recupero lo zaino e arrivo a riabbracciare Suman e
Sazan, che sono venuti a prendermi. È oltre un anno che non li vedo e li
trovo bene, nonostante siano provati psicologicamente e per la fatica delle
tante notti di guardia a Dharma in ospedale. Siamo emozionati e, senza
accorgercene, ci ritroviamo con gli occhi lucidi.
Saliamo su un fuoristrada e partiamo subito alla volta del nostro piccolo
villaggio: Panauti.
L’aria è irrespirabile, c’è molta polvere e i cieli sono ingialliti. Sconvolge
il fatto che praticamente nessuno utilizzi la mascherina e ci siano
assembramenti a ogni angolo di strada. Viaggiare in questi Paesi appare
spesso come un viaggio indietro nel tempo, ma in questo caso mi sembra
più una dimensione parallela, dove questa pandemia sembra non essere mai
esistita.
Mi sento davvero disorientato e, per la prima volta da quando tutto
questo è scoppiato, inizio a pormi certe domande, cedendo a ipotesi poco
razionali. Finché non mi rendo conto che la situazione attuale in Nepal non
è dissimile dalla scorsa estate italiana. Il problema potrebbe presentarsi nei
mesi a venire, quando arriveranno i monsoni, ma fino ad allora potrei essere
ragionevolmente tranquillo, anche se la scelta migliore sarà starmene
lontano dalla capitale ed evitare ogni assembramento.
Detto fatto, dopo cinque giorni di quarantena in casa, arriva il giorno
dell’Holi festival, il festival dei colori, una delle festività più belle,
divertenti, originali e folkloristiche di tutto il subcontinente indiano. Negli
anni scorsi, sulle bacheche Instagram dei viaggiatori di mezzo mondo,
pullulavano le immagini vivaci di questa giornata, in cui ci si tira addosso
polvere colorata e gavettoni di acqua ghiacciata. Ho sempre sognato di
ritrovarmi in questo festival, ma solitamente in questo periodo trascorro le
primavere in Giappone, per ammirare un altro evento che ha pochi eguali
nel mondo: l’hanami, la fioritura dei ciliegi.
Negli ultimi giorni sono arrivate notizie poco rassicuranti dall’India,
dove è in corso il Kumbh Mela e la curva dei contagi pare si stia
impennando. Considerando la portata religiosa dell’evento e il fatto che le
frontiere tra i due Paesi sono libere, le autorità di Kathmandu hanno
imposto restrizioni e richiesto di celebrare l’Holi tra le mura domestiche.
Stento a credere, però, che nel piccolo villaggio di Panauti non festeggino
questa giornata così speciale.
Esco di casa, in sospeso tra una ragionevole preoccupazione e la
curiosità del viaggiatore, accompagnato dai ragazzi. Appena entro nel
centro storico, incrocio una piccola parata e poi, poco distante, un vero e
proprio corteo: le donne sono vestite di rosso e portano in dono delle
offerte. Giovani nepalesi in abiti tradizionali innalzano canti e musica.
Incuriosito, seguo il corteo, che arriva a offrire le puja in un tempio induista
oltre le rive del fiume. Mi ritrovo a essere l’unico occidentale nel bel mezzo
di un festival famoso in tutto il mondo.
Panauti, centro commerciale lungo l’antica rotta del sale tra Tibet e
India, è un villaggio storico del Nepal: situato alla confluenza dei fiumi
Rosi e Punyamati, è considerato un importante sito religioso sin dai tempi
più remoti, in quanto i due fiumi sono ritenuti sacri. Una visita o anche solo
un’abluzione in tali luoghi consente al pellegrino di essere liberato da molti
peccati. La cosa più curiosa è che qui converge anche un terzo fiume,
chiamato Lilawati, ma si crede che questa convergenza avvenga unicamente
ogni dodici anni e in quell’occasione si celebra una sorta di Kumbh Mela
chiamato Makar Mela, che attira milioni di fedeli. L’evento si terrà proprio
il prossimo febbraio, per cui sto già seriamente pensando di tornare in
queste terre. L’eterna irrequietezza del viaggiatore.
Quando arriviamo al tempio, noto che ci sono almeno duecento persone
e non viene rispettata alcuna precauzione, anzi. Finita la processione, si
iniziano a vedere i primi lanci di polvere di colore, ma ancora troppo pochi
per entusiasmarmi; probabilmente le richieste delle autorità sono state
rispettate e, a parte questi piccoli cortei, si festeggia in maniera morigerata.
Insieme ai ragazzi vado a cercare da mangiare e ci ritroviamo in una
bettola che ci offre il piatto tipico del festival: stufato di bufalo. Niente di
che, come gran parte della cucina nepalese.
A un certo punto iniziamo a sentire dei tamburi in lontananza. Ci
precipitiamo in strada e vediamo un sacco di gente concentrarsi intorno alla
jatra, una sorta di altare votivo che viene trasportato in spalla per le vie del
villaggio durante le festività. L’aria in strada ora è tutta colorata, rossa,
verde, blu e bianca. I ragazzi si lanciano gavettoni e gli anziani preparano la
jatra abbellendola con fiori e candele. La festa è iniziata, con canti e balli
intorno alla piazza, in pochi minuti sono ricoperto di colori e la schiena è
fradicia di gavettoni.
Indosso la mascherina, cerco di tenermi a debita distanza, ma allo stesso
tempo sento l’energia nelle braccia e nelle gambe, ho voglia di ballare, di
far casino, di vivere normalmente. Penso ad affetti e amici a casa, confinati
tra regioni rosse e arancioni, mentre mi trovo libero in un luogo che mi
appare decontestualizzato.
Nella mente non possono che scorrermi in testa le immagini del Kumbh
Mela vissuto insieme a Giona, quell’ultimo gigantesco raduno prima di
tutto questo. Ecco, qui sembra che nulla sia cambiato nel frattempo.
Ritmi, tamburi e danze continuano per qualche ora, tutta la popolazione
del villaggio è in strada a ballare e cantare.
Mi sento un privilegiato, non tanto per aver avuto l’occasione di viverlo
in una maniera così autentica e genuina, ma soprattutto per aver potuto
rivivere con piena consapevolezza la sensazione di meraviglia e scoperta
che si prova in viaggio. L’avevo quasi dimenticata, è una sottile linea di
emozione che si percepisce unicamente quando il viaggio è entrato dentro
di te e ne hai assorbiti i ritmi. Non sono venuto qui allo scopo di vivere
questo festival induista come mi sarebbe capitato negli ultimi anni, mi ci
ritrovo senza averlo preventivato, catapultato a viverlo, per di più come
unico invitato.
***

I giorni in Nepal scorrono veloci, insieme ai ragazzi studiamo come


realizzare dei progetti di permacultura e ospitalità responsabile, in vista
anche del Makar Mela, che l’anno prossimo rappresenterà per loro una
grandiosa opportunità di emanciparsi.
A tal fine, memore degli insegnamenti ottenuti nel mio cammino
silenzioso fino a Santiago di Compostela, ho utilizzato queste settimane per
dedicarmi all’ascolto dei ragazzi. Prima di iniziare qualsiasi progetto, è
necessario sapere quali siano i loro sogni più autentici e quali le loro reali
passioni. Credo fermamente che ognuno di noi abbia un talento o una
passione da esplorare, tanto da permetterci di realizzarci nella vita, in
qualunque senso lo si intenda. I ragazzi si sono aperti in maniera clamorosa,
senza filtri, raccontandomi ogni più piccolo segreto. Questo mi ha insegnato
che, se ci poniamo realmente all’ascolto delle persone, senza pregiudizi,
possiamo realmente costruire dialoghi costruttivi, volti a vivere una vita più
piena. E mi ha fatto sentire fiero come non mi capitava da tanto tempo.

Il giorno dei saluti arriva ben prima che io me ne senta pronto, ma la mia
vita sta riprendendo a scorrere secondo i vecchi ritmi, e mi porterà tra
qualche giorno da Kathmandu a Stoccolma. Li abbraccio forte e sento
un’energia più matura rispetto al passato, d’altronde, hanno ormai quasi
tutti vent’anni, sono dei giovani uomini. E io, alla soglia dei quaranta, sto
un po’ invecchiando.
Mi interrogo sul fatto che non ho figli e se questa cosa inizi o meno a
pesarmi. La gente che vive di viaggi come me, e soprattutto che vive in
viaggio, a volte sembra comprendere meglio la realtà e la vita; altre volte,
invece, finisce per vivere con maggiore leggerezza, dato che ha sempre e
comunque una via di fuga. Il viaggio può essere anche fuga: dalla realtà,
dalle sue critiche e dai diversi punti di vista. Più passa il tempo e più mi
accorgo che le vite a casa sono sempre le stesse, ma contestualmente anche
la mia è sempre la stessa, in luoghi e latitudini diverse, a volte sembra non
portare ad alcuna destinazione. Passano gli anni e gli amici costruiscono e
disfano famiglie. E io? Continuo a ripetermi che non è questo il mio
momento. Trovare il senso dell’equilibrio è estremamente difficile.
Scendendo verso la capitale, mi commuovo ripensando alle tante serate
con i miei fratellini nepalesi trascorse giocando a carte, a ridere e a
scherzare come se fossimo in una bolla. Anche questa situazione che appare
banale è invece intrisa di significato e soprattutto un giorno resterà un
ricordo indelebile, figlio sì dei tempi bui che stiamo vivendo, ma allo stesso
modo sarà un bel ricordo, uno di quelli di cui andare orgogliosi.
Ho imparato: ci sono voluti sette anni in viaggio e una pandemia per
comprendere più chiaramente il senso del mio essere qui.
È vero, finalmente assaporo ogni singolo respiro e ogni singolo dettaglio
di quello che mi circonda, mi osservo e vedo una persona maggiormente
presente ed equilibrata. Mi sento finalmente bene, sereno e con pochi
pensieri.
Nonostante la vita continui a stravolgermi i piani, sono ancora qui a
giocare la mia partita e questo è ciò che più conta in questo momento.

Arrivo a Kathmandu in tarda mattinata e, dopo aver posato lo zaino in


guesthouse, mi precipito a mangiare una fetta di torta da Snowman in Freak
Street. È un locale storico fin dagli anni Settanta, e passare di lì mi fa
tornare alla memoria tanti ricordi di pomeriggi trascorsi a raccontarci storie
di posti lontani tra backpackers: oggi è frequentato perlopiù da studenti
universitari; di viaggiatori zaino in spalla, nemmeno l’ombra.
È un pomeriggio nostalgico a Kathmandu ed è proprio ciò di cui ho
bisogno.
Scendendo da Thamel ho appuntamento con due amiche italiane e
insieme andiamo verso Durbar Square. Un saluto è ovviamente d’obbligo
alla statua di Bhairava, per me simbolo di Kathmandu, divinità che
rappresenta talmente tanto bene il contrasto tra il bene e il male che mi sono
comprato un anello raffigurante il suo viso. Mi faccio lasciare una tikka in
fronte, giro intorno alla statua come da tradizione e poi proseguo fino ad
arrivare davanti al tempio della dea Kumari: vista l’assenza di turisti,
decidiamo di entrare.
La dea Kumari è una dea bambina, l’unica divinità vivente tra le
religioni moderne. È dea fintantoché non perde una goccia di sangue come
simbolo della perdita di purezza, in pratica, quindi, al primo ciclo
mestruale.
Ci sono molte polemiche circa le modalità con cui vengono scelte queste
Kumari, ma ancora di più in merito a quanto succede loro dopo aver
terminato la vita da dee: vengono abbandonate e non riescono a trovare
marito, poiché si crede che sposare una ex dea sia di terribile auspicio.
Questa piccola e bellissima bambina vive, con i suoi rituali abiti rossi e
con l’occhio di fuoco sempre disegnato sulla fronte, nel suo lussuoso
palazzo, circondata solo da persone selezionate e appartenenti alla sua
casta. Per tradizione non può incontrare i suoi genitori se non in occasioni
ufficiali, non va a scuola e non ha ovviamente contatti con altri bambini.
Inoltre, la Kumari non esce dal palazzo se non per rare occasioni e, in
questi casi, viene portata su una lettiga perché i suoi sacri piedi non possono
toccare terra, né tanto meno portare scarpe: il suo compito è unicamente
farsi adorare.
Sono stato otto volte in Nepal nella mia vita e almeno una dozzina sono
entrato in quel palazzo, tuttavia, mai ho avuto la fortuna di vedere la dea
Kumari. Si dice che ricevere il suo sguardo porti fortuna e cambiamento, e
proprio lì, in quel momento, lei si mostra al balcone e posa lo sguardo
unicamente su di noi. Benché non sia uno che crede ciecamente a queste
leggende, non nego che ho sentito un brivido.

Con le ragazze termino la serata cenando in un ristorante libanese e, tra


un hummus, una birra e tante chiacchiere arriva il momento di
addormentarmi per l’ultima volta a Kathmandu.
Mi giro nel letto senza riuscire a prendere sonno, continuo a interrogarmi
sullo sguardo posato dalla dea.
Ecco, sono diventato uno di quei viaggiatori sciroccati che si bevono
tutte queste stronzate!
Non è così e ne ho piena consapevolezza: il cambiamento è davvero già
in atto, solo che probabilmente non me ne rendo conto. Sono di nuovo in
partenza, una nuova destinazione mi aspetta, quella vita da viaggiatore, da
nomade digitale che torna lentamente a girare. Quella vita che mi ha fatto
esaltare, ma anche stare male. Quella vita che è un ottovolante di emozioni,
capace di amplificare qualunque sensazione. Una vita che ora ho imparato
ad apprezzare per i tanti, semplici dettagli che la rendono unica: un chai in
stazione, un mate osservando il tramonto, il suono di una campana tibetana
o il fragoroso rumore di una cascata islandese.
Tutte queste bellezze e tutte queste emozioni mi sono state tolte dall’oggi
al domani, proibite a causa di un nemico invisibile. Ma è questa precarietà a
farmele nuovamente gustare.

***

Il giorno dopo mi sveglio, mi sciacquo la faccia e mi guardo allo specchio:


mi accetto e mi comprendo. Sono grato a questa vita, faccio il lavoro che
amo e sono costantemente a contatto con le realtà più diverse del mondo,
sentirsi disorientato ogni tanto è normale. Qualche ora più tardi, al solito
posto finestrino dell’aereo, osservo l’Himalaya allontanarsi. Mi guardo
indietro come faccio quando sono in cima a una salita e ripenso alla strada
che ho percorso.
«Per l’anima di un uomo avventuroso non esiste nulla di più devastante
di un futuro certo» scriveva Christopher McCandless.
Ci voleva il viaggio, con le continue incertezze, quelle sensazioni, a
restituirmi il senso di tutto ciò.

Cosa mi aspetta nel futuro? Quale sarà il grande cambiamento auspicato


dallo sguardo della dea Kumari? Forse non siamo mai pronti a un vero
cambiamento, ma essere consapevoli del processo in atto può offrire
un’opportunità incredibile. Forse quello sguardo è stato proprio il segnale
che mi serviva per rendermi vigile e comprendere.
«Chicken or fish, sir?»
Vada per il pesce stavolta. Vorrei iniziare a guardare un film, ma non
smetto di pensare a tutto quello che è successo nella mia vita e nel mondo
negli ultimi due anni.
Complice il contesto storico, ho ancora più chiaro in testa quanto conti il
presente, il momento, il sentirsi realmente qui e ora. È del passato che
dobbiamo liberarci, bisogna conservarne solo gli insegnamenti in modo da
pensare con coscienza al futuro: è evidente ormai come la nostra esistenza
non si esaurisca con il tempo trascorso su questa terra.
Ho compreso tutto questo, ma ho quasi quarant’anni e non so ancora
quale sia il mio posto nel mondo, anche se so per certo che esiste. Forse,
semplicemente non è un luogo da cercare o una meta da raggiungere.
Il viaggio non è dove vado, dove sono diretto, o da dove torno.
È piuttosto un momento, come questo, in cui mi rendo conto di far parte
delle vite che ho incrociato, della natura in cui ho dormito o dei sentieri che
ho solcato.
A volte si deve arrivare fino in fondo alle cose per poter capire quanto
siano uniche e speciali.
Perché, se poi si comprende, un viaggio come questo dura per sempre.
Se volete scoprire cosa è venuto fuori
dal viaggio in India per il Kumbh Mela,
guardate il video «Indianistic» realizzato dall’autore
insieme a Giona Granatello
e montato da Roberto Dassoni.

https://linktr.ee/triptherapy
Inserto fotografico
Varanasi
Stare dalla parte dei sogni porta a un’esistenza molto più piena e gratificante che inseguire
quell’effimera chimera sociale dei soldi.
Varanasi
La strada è proprio lì davanti a te. Basta una piccola scintilla per accendere la luce che ti indica la
via.
Allahabad
Mi meraviglio a osservare le rive affollate: mi appare un caos di colori che incanta e quasi
commuove.
Varanasi
Non sono più un turista, neanche un viaggiatore, sono un semplice uomo che si stupisce ogni giorno
di più della bellezza che mi circonda, della complessità dell’animo umano, delle relazioni che
genera.
Varanasi
Io mi nutro letteralmente di questi incontri, dei paesaggi, delle città, dei templi, dei boschi, delle
persone, di tutto ciò che, a prima vista, mi appare diverso. Ne sento un bisogno vitale.
Allahabad
E qui, su questa piccola barca, la circolarità della vita mi appare chiara ed evidente.
Varanasi
L’India, per quanto è vera, è un pugno nello stomaco e un tuffo al cuore.
Islanda
Avrei voluto stare ancora qualche minuto al freddo a contemplare non solo quell’aurora, ma anche il
cielo, le stelle, le nuvole, le distese infinite, quell’ultimo grande inconsapevole privilegio di libertà.
Allahabad
Se c’è una cosa che ho imparato da questa pandemia, è che siamo tutti gocce del medesimo mare.
Voglio credere che ne usciremo più soli, ma con la voglia di stare insieme.
Namibia
Tornare sulla strada impolverata, staccarmi dal mondo multimediale e digitale, godere
semplicemente della bellezza che mi circonda.
Kilimangiaro
Non so ancora quale sia il mio posto nel mondo, anche se so per certo che esiste. Forse,
semplicemente non è un luogo da cercare o una meta da raggiungere.
India
Forse è proprio viaggiare in un certo modo, dormire in certi posti e tornare in quei luoghi che un
giorno ci ricorderà ciò che siamo stati e che non potremo più essere.
Portogallo del Nord
La scelta del mezzo connota l’essenza stessa del viaggio. E tutte le scelte della vita sono allo stesso
tempo delle rinunce. Il viaggio non fa eccezione.
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Sempre dalla parte dei sogni


di Claudio Pelizzeni
Proprietà Letteraria Riservata
© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Foto dell’inserto: © Claudio Pelizzeni
A eccezione delle numero 2 (Varanasi), 7 (Varanasi), 9 (Allahabad): © Giona Granatello
Pubblicato per Sperling & Kupfer da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788892741683

COPERTINA || FOTO © BARBARA PITTELOUD INSTAGRAM: GLISCATTIDIBARBARA | ART DIRECTOR: FRANCESCO


MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: LAURA DE MEZZA
«L’AUTORE» || FOTO © FRANZ SOPRANI
Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Inserto fotografico
Copyright

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