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1. Da dove nasce questo libro 2


2. Bonn: gemütlichkeit – first steps 11
3. BERLINO FERNWEH 21
4. Norimberga Weltschmerz 29
5. Copenhagen: sopravvivere alla solitudine - Sehnsucht 29
6. DELFT: COME IN UN DIPINTO 39
7. ZANDVOORT AAN ZEE 45
8. ROTTERDAM E L’IMPORTANZA DI UN PORTO SICURO 52
9. Burkina Faso e la difficoltà del ritorno 59
10. GILI MENO – COURTNEY 69
11. Dotty, la differenza fra cibo e nutrimento - Seelenmassage 75
12. MONACO: da turista a rifugio durante la pandemia 86
13. HANIMAADHOO E LE MALDIVE INIMMAGINABILI 91
14. Nuovo capitolo? CONCHIGLIA 101
15. AUGUSTA: VIVERE SULLA FRONTIERA 108
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Da dove nasce questo libro


Nella mia famiglia nessuno aveva viaggiato. Io ho cominciato per
spirito di sopravvivenza e totalmente inconsapevole di cosa stessi facendo.
Non avevo riferimenti o parametri, non avevo esperienze pregresse alle
spalle. Fra le mie amiche nessuna aveva fatto la valigia ed era partita da sola
a esplorare posti nuovi per il puro gusto di farlo. Altre, come me, avevano
traslocato per motivi di lavoro o studio in città con cui avevano pian piano
familiarizzato, ma nessuna viaggiava da sola. Ad oggi le cose non sono
cambiate: le uniche donne che viaggiano sole le ho conosciute lungo il
cammino, mai dietro l’angolo.

Quando parlo di questa mia passione riscontro sempre un misto di


ammirazione e incertezza. Poche persone hanno realmente idea di cosa
significhi davvero oltre gli stereotipi e i luoghi comuni. Nel capitolo legato
alle paure, ho riportato quelle che mi sono state raccontate più
frequentemente. Di solito si legano a immaginari catastrofici in cui il
destino avverso sembra aspettarci al varco per guastarci la festa. In questi
dieci anni, sono state molte le città che ho visitato e in ognuna di esse ho
lasciato qualcosa dell’angoscia e della felicità che mi portavo dentro. Ogni
luogo ha conservato traccia del mio passaggio, anche se nulla lo rivela. Ho
preso decine di treni, aerei, autobus, metropolitane, taxi e macinato centinaia
di chilometri per scoprire la migliore birreria o il punto più adatto per
dominare il paesaggio circostante.

Ho iniziato per caso, ho continuato per convinzione. Sono maturata


negli anni mentre mi riappropriavo di me stessa. Percorrendo il mondo, ho
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riconquistato un rapporto sano col mio corpo a cui sono estremamente grata
per non avermi mai tradita e per avermi sempre messa nella condizione di
godere al massimo di ogni avventura. Viaggiare sola mi ha aiutata a
costruire una versione migliore di me, più simile alla mia autentica natura,
più genuina rispetto a desideri e aspettative etero-indotte. È cominciato tutto
con un “prendo il treno” e pian piano si sono delineati viaggi, itinerari,
fughe più o meno lunghe. I giorni sono diventati settimane. E questo è solo
il viaggio fisico, visibile a occhio nudo. Il viaggio delle fotografie e dei
ricordi concreti dentro cui rifugiarsi quando si torna a casa per proteggerlo
dal logorio del tempo. Il viaggio fisico ne contiene altri due legati
all’immaginario. Ogni viaggio nasce dentro di noi in un momento preciso -
il momento in cui il luogo ci sceglie – e non termina svuotando la valigia al
ritorno. No, a volte non termina mai perché qualcosa continua a muoversi
dentro di noi senza fine. Questi due viaggi – esclusivamente legati
all’immaginario – sono altrettanto intensi di quello fisico, benché meno
evidenti.

Viaggiare per me significa predispormi alla meraviglia che è l’origine


di ogni scoperta. Se non mi meravigliassi, se non fossi curiosa, vivrei
pacificamente dentro un perimetro prestabilito. Viaggiare implica la scelta
di oltrepassare la mia comfort zone per avventurarmi nel vasto mondo.
Pronta a sbalordirmi e a mettermi in discussione dalle fondamenta. Pronta
ad affrontare la depressione del rientro quando resto sola col mio
quotidiano, le bollette da pagare e le incombenze che avevo sperato
potessero svanire durante l’assenza. Il cambiamento è la conditio sine qua
non del viaggio: se non si torna cambiate ci siamo solo spostate da un punto
all’altro del globo. Più profondo è il viaggio, più drammatico sarà il rientro.
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Tornare da qualche giorno a Rotterdam non mi rivoluzionerà come dieci


giorni in Burkina Faso. Una settimana a Berlino non è paragonabile alla
permanenza ad Hanimaadhoo dove i miei occhi potevano allungarsi
all’infinito senza mai scorgere la fine della costellazione di piccole isole
intorno. Viaggiare è rischioso, è una dichiarazione di intenti con cui dichiaro
che la vita quotidiana non basta. Un po’ come per i libri: il mondo intorno,
la routine, i luoghi noti, le persone amate non bastano. E non basteranno
mai. Questa fame di mondo non si sazierà mai, questo desiderio di scoprire
ogni luogo non si placherà tornando a casa o col susseguirsi dei compleanni.
No, non solo non si placherà, ma crescerà per paura di aver sprecato tempo
senza aver viaggiato abbastanza.

Viaggiare significa decostruirmi, scompormi e temporeggiare prima di


rimettere insieme i pezzi per capire bene cosa lasciare e cosa gettare via,
cosa rimane intatto e cosa diventa incredibilmente pesante. Non esistono
due viaggi identici, nemmeno se visitassimo i medesimi luoghi a distanza di
anni. Perché nel frattempo saremo cambiate noi. Eppure alcune cose
potrebbero rimanere identiche e metterci in crisi allo stesso modo ogni
volta. Come quando torno a Bonn. Una città che ho vissuto per viaggio, per
piacere e per lavoro. Una città che per quattro indimenticabili anni è stata la
mia casa. Bonn sarà sempre in grado di mettermi in crisi, scatenando la
domanda irrisolta: perché sei andata via? Non stavi bene qui? Gliel’ho
spiegato mille volte cosa è successo e che non mi sono mai pentita di quella
scelta, ma lei – con le sue rive morbide e sassose – mi conosce. Lei mi ha
vista crescere sul Kennedybrücke e conosce tutte le mie angosce, le mie
gioie, le mie soddisfazioni ma anche le mie paure. Lei sa di mancarmi
sempre e sa di dovermi lasciare andare per poi – irrimediabilmente –
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vedermi tornare con gli occhi lucidi. A ogni ritorno, mi accoglie piangente
sulla solita panchina e lascia che il vento mi porti l’odore dei suoi prati.
Quindi, se viaggiate, diventerete più forti, ma rischierete di spezzarvi con
maggior facilità sotto la spinta delle contraddizioni, delle emozioni e dei
sentimenti che si agiteranno dentro il vostro cuore nomade.

Una cosa che ho imparato andando via dal luogo in cui ero nata e
vissuta fino alla fine del liceo è che nessuna partenza è neutra. È pura
illusione quella di andar via da un luogo e tornarvi come se nulla fosse
accaduto. Forse qualcuna riesce a farlo, ma non l’ho mai incontrata.
Solitamente, trasferirsi altrove crea una spaccatura insanabile e nel mio caso
ha fatto sì che cominciassi ad abitare la zona grigia. Un non-luogo dalle
coordinate geografiche inesistenti, uno stato d’animo che mi condanna
all’inquietudine esistenziale perenne, una condizione per cui non sarò mai
pienamente a casa in nessun luogo, ma potrò temporaneamente esserlo
ovunque. Una strana mancanza di radici che tornano a manifestarsi quando
meno me l’aspetto e che mi lascerà attecchire ovunque, regalandomi
un’intima gioia in qualsiasi luogo mi trovi. A un tratto, però, la fame del
mondo tornerà, l’inquietudine non mi lascerà dormire serena e un luogo
nuovo mi chiamerà. Allora, il ciclo ricomincerà. Non so se questi sentimenti
siano universali o quantomeno mediamente condivisi, ma so per certo che
consiglierei a ogni donna di superare la soglia di casa e della paura per
sperimentare l’emozione di viaggiare da sola.

Viaggiare sola è stato l’inizio di un percorso di autocoscienza


profondo e articolato. Non ero sola perché sceglievo di rilassarmi a casa
evitando amici e amiche. Non era un vezzo. Era una condizione strutturale
che derivava da una delle scelte più importanti della mia vita: cambiare vita,
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carriera, paese e lingua. Ri-partorirmi. La solitudine era la diretta


conseguenza della mia decisione di allontanarmi dall’Italia, gettarmi alle
spalle la frustrazione di vivere in un paese dove non avevo chance lavorative
e ricominciare da zero. Avevo deciso di rinunciare a qualsiasi cosa avessi
realizzato fino ad allora per fare un salto nel vuoto. Tutto ciò che avevo
studiato all’università non valeva nulla. Ero interprete e traduttrice in
inglese e francese, ma trasferirmi in Germania significava ripartire
dall’inizio: sillabare, esprimere concetti semplici perché non so dire altro,
fluttuare sulla superficie degli eventi quotidiani perché mi mancano gli
strumenti per nuotare in profondità. Non era la prima volta che mi trasferivo
in un luogo sconosciuto. Lo avevo fatto a diciotto anni per frequentare la
scuola per mediatori linguistici di Palermo, ma non era stato traumatico.
Una parte di famiglia viveva lì ed era la mia àncora, la facoltà era minuscola
e somigliava a una classe di liceo. Non ci misi molto a fare amicizia.
Quando mi trasferii a Roma, le cose andarono diversamente. Mi sono sentita
così isolata e smarrita, incapace di sviluppare un sentimento di affetto nei
suoi confronti. Con le città, come con le persone, si innescano reazioni
immediate di sintonia o distacco. Il 31 dicembre 2012 le dissi finalmente
addio per volare in Germania con un sollievo inspiegabile. Iniziava una
nuova fase della mia vita. Un viaggio da cui non sarei mai tornata indietro.

***

Quando nel marzo 2020 il mondo si è fermato, ero appena arrivata a


Monaco di Baviera con un lavoro e una vita nuova di zecca. Mi ero
nuovamente lasciata alle spalle la precarietà, l’incertezza, la frustrazione e il
senso di inutilità che ormai associo all’Italia per tornare nella mia seconda
patria. Avevo lottato per ottenere quel posto: sapevo di aver chiesto uno
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stipendio più basso di quello che qualsiasi tedesca avrebbe chiesto al posto
mio e con le mie qualifiche. Ma a me non serviva solo uno stipendio: avevo
bisogno di una chance per cambiare tutto. Quindi ce l’ho messa tutta, ho
passato la selezione e mi sono trasferita. Tutto nel giro di un mese e con la
pandemia che si allargava a macchia d’olio. Già mi immaginavo viaggiare
per il sud della Germania, riprendere la buona abitudine dei weekend fuori e
delle esplorazioni in solitaria. Prima ancora di partire avevo acquistato i
biglietti del Cirque du Soleil e quelli per andare a Salzburg e Ratisbona. Qui
non sarei mai andata, mentre Salzburg sarebbe rimasta la mia ultima
escursione. Quando è diventato chiaro che la pandemia avrebbe messo in
discussione il nostro perimetro esistenziale, contraendolo all’osso, mi sono
consolata pensando che potevo comunque scoprire Monaco. Una prospettiva
che mi ha salvata dallo scivolare nello sconforto più profondo.

Stanotte ha piovuto. L’aria è molle e carica di umidità. Piccole


goccioline di rugiada ricoprono il manto erboso del prato. Sono le otto del
mattino e sono scesa al parco di fronte casa per la consueta passeggiata
quotidiana. Un rito che ripeto varie volte al giorno per sfuggire alla
prigionia di vivere in una stanza minuscola. Imbocco il sentiero principale e
prima di addentrarmi nei suoi meandri vado a controllare se ci sono nuovi
sassi colorati intorno a un albero dal fusto imponente. Scovo una grande
fragola glitterata su una pietra piatta e un arcobaleno con scritto Alles wird
gut che mi riaccende una speranza affinché davvero tutto vada bene.
Accelero il passo e mi preparo al solito giro. Improvvisamente, dal nulla, si
materializza una coppia anziana dall’età indefinibile ma verosimilmente
oltre la settantina. Lei indossa un cappotto bianco e uno sguardo oltremodo
smarrito. Sembra una creatura fatata ed effimera con lunghi capelli neri e la
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pelle del viso diafana. Il braccio sinistro è intrecciato come una vite
rampicante a quello del marito che sembra guidarla. In verità, non ho idea se
sia il marito l’uomo che la accompagna e nel corso del tempo ho
immaginato mille storie diverse per questa singolare coppia. Per oltre tre
mesi, li ho incontrati quotidianamente. Non ricordo molto dell’uomo.
Ricordo la sua presenza, la sua fisionomia, ma null’altro. Al contrario, lei la
ricordo bene con quella sua aria ultraterrena e lo sguardo verso un
imprecisato altrove. Per mesi hanno allenato la mia fantasia atrofizzata
costringendomi a inventare storie che si addicessero loro. Per mesi ho
ricordato a me stessa che viaggiare è soprattutto un’attitudine alla vita, non
solo l’azione in sé e per sé. Non si tratta di spostarsi, ma di mantenere
accese le antenne che ci connettono al mondo alla ricerca della meraviglia,
della magia che ci circonda costantemente.

Viaggiare allena ogni giorno la mia capacità di cogliere il mondo,


memorizzarlo, manipolarlo tramite il ricordo e la fantasia. Senza alcuna
retorica e nostro malgrado, il mondo riesce a schiudere meraviglie, molte
delle quali non vengono colte. Annoiati, schiacciati dall’abitudine non
vediamo nulla. In questo libro, dipanerò il percorso che dieci anni fa mi ha
portata a viaggiare sola. Dai primi venti minuti di treno per raggiungere
Brühl da Bonn ne ho fatta di strada. Prima ho esplorato la Germania, poi mi
sono spinta ai paesi confinanti: Belgio e Olanda. In quegli anni ho allenato
le ali e l’autostima fino a svegliarmi un giorno pronta ad andare sola
dall’altra parte del mondo. Sono nata e cresciuta ad Augusta, un paese sul
mare in provincia di Siracusa e da adolescente ho patito la cappa di
convenzioni sociali che si trascinano dalla notte dei tempi. All’epoca non
avevo le parole per esprimere il groviglio pulsante di frustrazioni e angosce
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che mi portavo dentro. Era come venire al mondo con addosso pesanti
cappotti che – oltre a soffocarmi – non crescevano insieme a me e dunque
per starci dentro dovevo comprimermi, reprimermi e rinunciare a porzioni
della mia personalità. Andar via per molti anni mi ha permesso di plasmare
un percorso solo mio inaugurando un cammino lungo e tortuoso. Non sono
bastati tre anni a Palermo e sei a Roma per spiccare il volo. Avevo bisogno
di trasferirmi in Germania per aprirmi al mondo. Nel suo accogliente
grembo, mi sono sentita sicura e pronta a mollare gli ormeggi. Fra le sue
strade, sui suoi treni, ho conosciuto me stessa e ho amato ogni luogo.
Ciascun borgo, ciascuna stazione conservano frammenti della mia rinascita.
Questo libro è quindi anche un canto di ringraziamento alla mia zweite
Heimat, la mia seconda patria, la patria della sicurezza, della libertà,
dell’autostima. Gradualmente ho riconquistato il mio spazio nel mondo,
liberandomi da decine di catene e zavorre, affrancandomi da molti
condizionamenti. Viaggiare è inevitabilmente una questione di spazio e lo
spazio mi aspetta sempre oltre la paura e i pregiudizi. Il viaggio sarebbe
stato il mio abito su misura, modellato su sentieri mai battuti prima. Dal mio
trasferimento a Bonn, la parola solitudine ha assunto un significato del tutto
diverso da qualsiasi sentimento io avessi provato prima di allora.

La solitudine sarebbe diventata un’entità viva e pulsante. Non sarebbe


più stata una scelta ma sarebbe diventata una condizione strutturale della
mia esistenza fino a trasformarsi in una sana abitudine. Non era un vezzo.
Era una condizione strutturale che derivava dalla scelta di cambiare vita,
carriera, paese e lingua. La solitudine era la diretta conseguenza della
decisione di ricominciare da zero e di assecondare l’ambizione che mi
portavo dentro. Conteneva in sé inferno e paradiso, condanna e salvezza. A
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me la scelta. E ogni scelta avrebbe contenuto in sé qualcosa di ciò che


scartavo. Nello spazio vuoto della mia casa – e per estensione della mia vita
– si celava il mistero dei nuovi inizi. Il mondo era tutto lì davanti a me,
dipanandosi come una promessa appena sussurrata. Ero pronta a
mantenerla? Ero all’altezza di accoglierla?

Io le capisco le persone che hanno paura di viaggiare sole e scelgono


di non farlo. Può rivelarsi un passo irrimediabile, un processo irreversibile.
Viaggiando ho dato voce al silenzio offrendogli le mie parole. Essere sola
non è un’esperienza salvifica di per sé. Guardarsi dentro fino a scivolare sui
bordi limacciosi della propria coscienza è doloroso. Rimestare a mani nude
nelle proprie debolezze e fragilità è destabilizzante. Spesso mi sono
raccontata storie rassicuranti, infondendomi un coraggio che non troverei da
nessun’altra parte al di fuori di me stessa. Quelle come me si salvano
sempre da sole. Su un treno, un aereo, un’isola o in una città. Quelle come
me si riprenderanno sempre e comunque il mondo a loro dovuto.

Questo libro non è una guida canonicamente intesa, né soltanto una


raccolta di memorie di viaggio. È innanzitutto un invito a camminare il
mondo in compagnia di se stesse: per la prima o per l’ennesima volta. È
l’elaborazione di una geografia sentimentale che si rende viva e immortale.
È la speranza di persuadere anche solo una donna (o un uomo, perché no) a
preparare il proprio bagaglio e cominciare l’avventura. È un
incoraggiamento per chiunque voglia cimentarsi con un’esperienza che
inevitabilmente cambierà la vita. Non è detto che dopo la prima volta si
debba continuare: basta una sola volta, purché accada. Almeno una volta
nella vita dovremmo trovarci sole con noi stesse per scelta, senza
condizionamenti esterni. Puro corpo guidato da bisogni e desideri da non
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mediare con nessuno. Quello che mi auguro dal profondo del cuore è che,
una volta chiusa l’ultima pagina, tu che lo leggi avrai voglia di preparare
uno zaino o un trolley per camminare il mondo. Non importa se la meta sarà
vicina o lontana. Ciò che conta è che tu decida di camminare il mondo per
conto tuo, al tuo ritmo, col tuo passo e scoprendo la tua voce nel silenzio
intorno. Questo libro è un modo come un altro per dirvi: se ce l’ho fatta io,
può farcela chiunque. Dunque, se vi attira l’idea, fatelo e basta.

Bonn: gemütlichkeit – first steps

Per tre mesi con il sole o con la pioggia ho attraversato ogni giorno
feriale il Kennedybrücke che collega il centro di Bonn col quartiere
chiamato Beuel dove ho vissuto per quattro anni. Ancora adesso, ogni volta
che ritorno in città, abito nella stessa zona tanto sono affezionata alle sue
strade. Da metà febbraio a fine maggio 2013, ogni giorno, ho percorso a
piedi i chilometri che separavano il mio ufficio dalla scuola di tedesco in
pieno centro. Alle diciassette circa, mi chiudevo la porta dell’ufficio alle
spalle e mettevo un piede dietro l’altro svuotando lentamente la testa dalle
incombenze della giornata. Quarantacinque minuti di camminata a passo
veloce per arrivare in tempo per le mie tre ore quotidiane di lingua tedesca.
Non so perché non prendessi i mezzi. Da un lato, non volevo interagire in
una lingua che non conoscevo ancora. Dall’altro credo avessi bisogno di
quel tempo e quel movimento per scaricare l’enorme tensione che
accumulavo quotidianamente e familiarizzare col paesaggio. Avrei potuto
finire per odiarlo quel ponte e invece ancora oggi ci lega un rapporto intimo
e speciale. Per anni l’ho paragonato a un fidanzato nuovo verso cui si prova
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uno spiazzante innamoramento. Un sentimento totalizzante tipico degli inizi


in cui basta vedersi per dimenticare ogni inquietudine.

Bonn non era solo una città o un lavoro. Bonn era la vita nuova, un
capitolo pronto a far fruttare il mio talento. Io avevo bisogno di una seconda
chance e Bonn me la offriva per dimostrare quanto valessi. Finalmente
potevo mettermi concretamene alla prova. Oltre alla carriera, mi veniva
offerta una pagina bianca immacolata da cui cominciare a scrivere la mia
storia. Percorrendo l’Altstadt, incantandomi di fronte ai ciliegi in fiore per
annunciare la primavera, gustando un boccale di birra in un Biergarten sul
Reno, mi appropriavo della città e muovevo i primi passi per conquistarmi
un posto nel mondo. Non potevo lasciarmi fermare dalla condizione di
ragazza sola che non parlava la lingua. Non potevo sprecare una chance
irripetibile di riprendere in mano il mio futuro per plasmarlo in base ai miei
desideri. Una strada dopo l’altra, si profilava la geografia del cuore. È così
che i luoghi diventano indelebili: camminandoli, vivendoli, percorrendoli,
facendosi ricordo. Ci sarà sempre un luogo che rievocherà una telefonata,
una gioia, un dolore, una pioggia improvvisa. La mia personalissima mappa
emotiva avrebbe contenuto tutte le sfumature di quegli anni. Un balcone
smetterà di essere anonimo e diventerà un rifugio dalla pioggia, se in un
giorno d’estate stavi andando in costume a prendere il sole quando il cielo si
è spaccato a metà facendo scrosciare un acquazzone impressionante. Quel
balcone susciterà tenerezza ogni volta che, oltrepassato il ristorante Canal
Grande, me lo troverò lì immutato e rassicurante lungo il percorso per
tornare a casa.

Pian piano scoprivo piccoli bistrot o ristoranti esotici che


all’apparenza non ispiravano alcuna fiducia, ma che entrando si rivelavano
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piccole gemme. Se non avevo voglia di andare in centro, mi rifugiavo in


un’adorabile caffetteria a Beuel, Mayras Wohzimmer, per una cioccolata
calda e una fetta di torta. Quando la primavera risvegliava la natura con
mille colori, trovavo sempre nuovi scorci per ammirare il Reno e intanto
cominciavo ad ampliare il mio perimetro. Acquisita dimestichezza con
Bonn, ho iniziato a esplorarne i dintorni. Non lo sapevo ancora, ma a breve
avrei scoperto una vera e propria vocazione a viaggiare da sola. Inoltre, non
avrei mai immaginato quanto la conquista dello spazio pubblico tramite il
viaggio sia legata al femminismo.

***

Sono atterrata all’aeroporto di Colonia-Bonn alle 18:30 con un’amica


e abbiamo avuto giusto il tempo di posare le valigie in albergo prima di
avventurarci in centro. A due passi dalla stazione centrale, ci siamo dette:
vediamo se riusciamo a trovare un posto per cenare e celebrare l’arrivo del
nuovo anno! Non avrei mai immaginato che proprio quel ristorante sarebbe
diventato uno dei miei preferiti in città, una certezza qualora avessi voglia di
mangiare messicano. Il primo posto dove sono tornata dopo tre anni di
assenza. Allo scoccare della mezzanotte, ci trovammo per strada con
centinaia di sconosciuti che fra grida, fiaccole e bottiglie appena stappate
accoglievano il 2013. Con loro inauguravo il mio primo anno di vera e
assoluta indipendenza e mi preparavo a vivere la più grande storia d’amore.
Da allora, Bonn è rimasta insuperabile. Nessuna città mi ha cullata fra le sue
vie, i suoi ponti, i suoi ristoranti come lei. Nessuna città mi ha vista crescere
come Bonn. In nessun luogo ho sperimentato quell’impareggiabile senso di
sconfinata libertà che la Germania mi ha donato. Da allora, ho iniziato a
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costruire una geografia sentimentale che resiste al logorio del tempo e si


rafforza a ogni ritorno. Fisicamente o col pensiero.

Ma cosa c’entra il femminismo con Bonn e il mio legame affettivo


con la città? C’entra, eccome! Benché all’epoca non lo sapessi, camminare
il mondo è un atto femminista. Impossessarsi delle vie, percorrere le strade
delle città è una ribellione contro millenni di limitazioni. Diventare parte di
un flusso vivo e pulsante di persone che animano un luogo significa
disubbidire a chi agita paure per dissuaderci dal farlo. Avremo pure
conquistato diritti e migliorato la nostra condizione generale, ma le
rivendicazioni sono ancora moltissime e gli obiettivi raggiunti rimangono
incerti. Le differenze geografiche (DATI) sono rilevanti e numerose le
donne in cammino da sole. Ma nel mio microcosmo si tratta ancora di
esperienze residuali. Non conosco nessun’altra donna che viaggia sola. Fra
amiche e conoscenti sono l’unica. Agli esordi, i miei colleghi mi
osservavano affascinati e non mancavano di incoraggiarmi. Il lunedì
aspettavano i racconti dei miei weekend a zonzo per il loro paese che pian
piano diventava anche mio. Non ci scoraggiavamo di fronte alla violenza
che facevo alla lingua e a forza ricavavamo significato dalle mie frasi
sconnesse. Il tedesco l’ho imparato soprattutto per strada. Ho seguito corsi
intensivi, ho superato esami, ho comprato libri e svolto diligentemente
esercizi. Ma poi ho veramente imparato parlandolo per desiderio o necessità.
Sui treni coi signori tedeschi che vedendomi sola mi rivolgevano domande e
quando scoprivano che ero italiana, si premuravano a raccontarmi tutte le
loro vacanze nel Bel paese. Nei musei deserti di piccoli paesini dove a volte
ero l’unica visitatrice per ore e ore. Come quella volta a Mainz in cui varcai
la soglia del museo del carnevale più per senso del dovere nei confronti
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della mia lista (sì, ero nella fase delle liste in quel momento!) che per
convinzione e trovai due amabili signori settantenni che chiacchieravano fra
loro. Vedendomi entrare, si sono illuminati e mi hanno accolta col sorriso
delle grandi occasioni. Il mio pessimo tedesco non era di aiuto nella
comunicazione, ma loro mi hanno accompagnata durante tutto il percorso
del museo. Mi hanno spiegato le foto, arricchendo qualsiasi reperto di
aneddoti che ero purtroppo incapace di apprezzare a pieno. Tuttavia, otto
anni dopo, io loro due me li ricordo ancora. Non so cosa mi abbiano
raccontato, ma ricordo perfettamente il calore del loro benvenuto e conservo
nella mia libreria un libro sul carnevale a Mainz che non ho mai letto.
L’importante è che stia lì. Ad aspettarmi. Come i due amici della domenica
che me l’hanno venduto salutandomi con affetto.

Viaggiare è stato un elemento imprescindibile della mia crescita


umana e la tessera della Deutsche Bahn ha sancito la mia volontà di restare.
Il giorno in cui ho firmato il contratto a tempo indeterminato sono andata in
stazione centrale e tutta impettita ho chiesto di poter fare la tessera della
ferrovia. “Ich werde hier bleiben”, ho detto. “Io rimango qui”. E inizierò a
viaggiare. Percorrerò il vostro paese in lungo e in largo e in questo modo lo
renderò anche mio. Ogni anno, puntualmente, l’ho rinnovata e non la
ringrazierò mai abbastanza per i meravigliosi viaggi che mi ha permesso,
per le offerte che mi ha riservato e per il nomadismo che ha incentivato. Ci
sono stati periodi in cui ero via ogni fine settimana: c’era sempre un posto
da scoprire, un’offerta da non perdere, un prezzo stracciato di cui usufruire.
Pian piano ho fatto pace anche col tempo. Essendo nata e cresciuta in
Sicilia, è come se il mondo finisse quando piove, una paralisi da meteo
avverso. Siamo talmente abituati al bel tempo da darlo per scontato. Così,
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un giorno di pioggia stravolge facilmente i nostri piani. In Germania ho


imparato a non farmi scoraggiare dal vento che sembrava tagliarmi la faccia
congelandomi le lacrime ai lati del viso e ho patito l’eccesso di zelo
nell’indossare maglioni fin troppo pesanti per la temperatura reale. Come ad
Amburgo dove per disperazione sono entrata in un negozio qualunque per
comprare un maglione più leggero di quello che avevo scelto immaginando
come minimo una tormenta di neve. Per forza. Altrimenti non si spiega
perché mi fossi imbacuccata in quel modo. Ero partita piena di incertezze,
convinta che il brutto tempo e il freddo mi avrebbero rovinato l’avventura e
invece ricordo il cielo del tramonto quando – un attimo prima del blu della
notte – il rosso cede il passo a un azzurro denso e corposo. Nutrivo grosse
aspettative verso Amburgo, ma non mi ha affascinata particolarmente. Una
cosa però è valsa l’intero viaggio: il mercato all’alba. Un’esperienza
imperdibile che ho vissuto insieme ad alcune ragazze incontrate all’ostello
dove alloggiavo. Ci eravamo conosciute la sera prima alla reception e ci era
sembrata una buona idea andare insieme. Le mani semicongelate si
salvavano solo grazie al mega latte macchiato afferrato al volo prima di
uscire dalla metropolitana. L’alba annunciava il proprio chiarore sul silenzio
che fremeva di voci acquattate nella notte in dissolvenza. Un brulicare
svelto animava il litorale, la banchina si riempiva di avventori che si
sarebbero contesi qualsiasi cosa spuntando il miglior prezzo. I venditori che
frantumavano la quiete declamando prezzi e mercanzie. Ovunque l’odore
pungente e nauseabondo del pesce. Man mano che il sole avvolgeva di luce
la banchina, la magia finiva e nella cruda luce diurna, i pesci erano solo
pesci, i cesti ripieni di cianfrusaglie erano solo cesti pieni di cianfrusaglie.
Era ora di andar via. Era ora di scoprire il museo delle miniature.
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Se fossi nata altrove, in Australia ad esempio, forse tutto sarebbe stato


più semplice. Culturalmente, sarei stata pronta a prendere uno zaino e
andare in giro per il mondo. Allo stesso tempo, non posso ignorare che
troppe donne ancora oggi – per vincoli geografici, sociali, culturali – sono
imbrigliate in recinti angusti. Il fatto che non ci venga esplicitamente
impedito di viaggiare non è una condizione sufficiente per farci spiccare il
volo. Le gabbie non sono soltanto fisiche, ma anche e soprattutto
immaginarie. Millenni di donne dipinte come angeli del focolare non si
cancellano con un colpo di spugna, rendendo disponibili determinate
possibilità. Non basta poter viaggiare per farlo realmente. Soprattutto se la
società continua a dipingere il mondo come un luogo ostile e pieno di
pericoli specialmente per te che sei una donna. Soprattutto se continui a
essere vista come debole, bisognosa di protezione, esposta a mille pericoli.
E se, qualsiasi cosa negativa ti succeda, te la sei andata a cercare. La paura è
subdola e ti fa attraversare luoghi deserti e bui col cuore in gola. La paura
restringe il pianeta e soffoca, dissuade, inchioda. Per questo, comprare la
Bahn Card, sottolineare la Lonely Planet, comprarne una per ogni paese che
intendo visitare, significa riappropriarmi delle mie ali. Significa ribellarmi
alla paura, scegliere il buonsenso e rafforzare la mia individualità. Quando
viaggio, mi affermo nel mondo. Dico: io ci sono, io esisto, io sono qui.
Mondo, io ti appartengo e tu appartieni a me. Non in un senso di possesso,
quanto di compenetrazione. Ogni donna viaggerà in modo diverso. Sola, in
compagnia, coi figli, coi genitori. Ogni donna sperimenterà i luoghi che
visita in modo irripetibile. E conoscendo il mondo, quella donna conoscerà
se stessa.
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Se rimanessimo in casa, preda delle paure che ci vengono istillate, le


strade sarebbero degli uomini. Tutto apparterrebbe a loro in maniera ben più
marcata di adesso. Non avremmo scampo. Non avremmo mai fatto progressi
verso la liberazione dei nostri corpi. Femminismo è anche camminare la
terra, entrare in connessione coi suoi abitanti, sfidare la paura con ragionata
cautela, non privarsi di fare qualcosa che ci piace solo perché non c’è nessun
altro insieme a noi. Negli anni, ho sviluppato una fame sempre più profonda
nei confronti del pianeta e mi sono sfamata inventando, improvvisando. Ho
costruito la mia alimentazione per tentativi, accettando di commettere errori
e mettendo in conto di non poter sempre trarre il meglio. A volte, non sei al
top e non lo sarà nemmeno il tuo viaggio. Rimarrai con la fame o esagererai
e ti sentirai ingolfata dalla vita. A volte, perderai un treno o avrai paura di
non riuscire a prendere la coincidenza per tempo. Ma progressivamente
svilupperai degli automatismi in grado di tenere a bada l’ansia e
disinnescare le trappole del disfattismo. Nonostante io venga considerata
una persona coraggiosa, sono molto cauta e immagino costantemente
scenari apocalittici. Non mi prende mai il desiderio di trasgressione e di
avventura fine a se stesso e cerco di essere quanto più attenta possibile.
Femminismo è anche e soprattutto responsabilità, assumersi per intero il
peso delle proprie scelte senza poter contare su nessun altro e – partendo da
queste premesse – ci vuole poco a trasformare il viaggio perfetto in una
catastrofe. Finora mi ha costantemente protetta la mia buona stella e non ho
mai vissuto inconvenienti di alcun tipo, al massimo piccoli intoppi. Con
l’esperienza ho acquisito dimestichezza e il mio cervello mi viene in
soccorso già ai primi segnali di allerta senza alimentare ulteriori drammi.
Questa capacità, come un muscolo, si è allenata durante anni di viaggi
solitari in Europa prima di atterrare dall’altra parte del mondo.
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A novembre del 2016, l’ultimo viaggio prima di rientrare in Sicilia e


abbandonare la Germania lo feci ancora una volta in Olanda. Andai ad
Alkmaar e uno dei ponti che ho dovuto attraversare per muovermi in città
sembrava uscito da una cartolina immerso com’era nei tenui colori del
tramonto. Era novembre e non faceva estremamente freddo tanto che il
giorno dopo decisi di avventurarmi nella punta settentrionale dei Paesi
Bassi. Raggiunsi così Den Helder e senza scoraggiarmi seguii le indicazioni
dell’area traghetti che mi sembrò immensa. Acquistai il mio biglietto e mi
sedetti in attesa di salire a bordo. La traversata durò poco e all’arrivo non
avevo idea di dove andare. Armata di cartina domandai come raggiungere la
spiaggia e un bus dopo l’altro mi trovai a bordo di una strada asfaltata in
mezzo al nulla. Di fronte a me si aprivano alcuni sentieri laterali che –
percorrendoli – sembrano sempre più surreali. Dune di sabbia beige
occupavano la distesa di fronte con la promessa del mare. E il mare – si sa –
non delude mai. Il mare è sempre lì che ti aspetta, ti cura e ti rimette in
sesto. Finito il sentiero, rimaneva solo una lunghissima distesa di sabbia, un
litorale deserto che si estendeva a perdita d’occhio. A sinistra una
costruzione in legno con un’enorme veranda aveva tutta l’aria di essere un
ristorante. Il vento accarezzava la vegetazione intorno, infilandosi a tratti
sotto il piumino e facendomi sentire immensamente viva e presente a me
stessa. Varcando la soglia, venni accolta da un intenso aroma speziato con
note di arancia, cannella e vaniglia. Il locale era quasi vuoto. Era un giorno
di settimana, era inverno. Dei turisti nemmeno l’ombra: a parte me
sembravano conoscersi tutti. Ordinai un tè caldo al caramello e un
gigantesco pancake che consumai lentamente nel tepore della sala. Di fronte
a me, oltre la vetrata affacciata sul litorale, il moto ondoso del mare lasciava
conchiglie e altri piccoli doni. Su quella spiaggia erano soliti ritrovarsi i
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leoni marini durante la stagione dell’accoppiamento, ma la fortuna non mi


aveva assistita fino a quel punto. L’idillio finì quando – sola alla fermata del
bus direzione porto – non trovai nessuno, tantomeno il bus. Intorno a me
non c’era anima viva e l’ansia di rimanere bloccata lì mi rovinò lo
spettacolo del sole che iniziava a calare. “Mal che vada dormo qui”, mi dissi
un attimo prima di veder spuntare il mezzo che mi avrebbe portata in tempo
per il prossimo traghetto. Quando salii a bordo, il buio aveva già inghiottito
ogni cosa. Il treno per tornare ad Alkmaar era pieno di chiassosi adolescenti
che ascoltavano musica e fui grata di chiudermi la porta di casa alle spalle,
una volta giunta a destinazione. Andai a dormire con l’odore della salsedine
nel naso. Stavo andando via anche dall’Olanda, ma lei sarebbe rimasta con
me per sempre.

BERLINO FERNWEH

Sono appena uscita dalla metro ed è buio intorno. Mi trovo in una


zona periferica e all’apparenza degradata. È la mia prima volta a Berlino.
Ho iniziato a viaggiare sola circa un mese fa e non ho ancora sviluppato
alcuna consapevolezza di ciò che faccio. Lo faccio e basta. Ufficialmente
sono venuta a trovare una conoscente, approfittando di un festival che si
terrà nel weekend all’ex aeroporto di Tempelhof dove suonerà Bjork. Sono
circondata da decine di persone anch’esse dirette verso la stessa meta. Si
muovono in gruppi, affaticati dall’afa che avvolge edifici, piante e persone.
Nonostante sia sera, fa ancora piuttosto caldo e l’umido peggiora la
situazione attirando nugoli di zanzare. In pochi minuti, raggiungo l’entrata e
mi dispongo in fila. A quell’ora siamo in pochi a entrare, il festival va avanti
da tutto il giorno e la maggior parte degli spettatori si trova già dentro. In
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men che non si dica una ragazza controlla il mio biglietto, posiziona un
braccialetto sul mio polso sinistro e mi augura buon divertimento
indicandomi una enorme porta anti-panico cui accedere alle ex piste
d’atterraggio e decollo. L’area esterna è immensa ma perfettamente
organizzata. Camioncini con cibo di tutto il mondo sfamano le migliaia di
persone presenti. E poi ci sono io che non ho idea di quale sia il palco dove
suonerà Bjork ma ho la certezza che – un piede dopo l’altro – ci arriverò.
Come sempre, basterà non farsi scoraggiare dalla stanchezza o limitare dalla
paura. Mi immergo nell’umanità che balla e suda e canta e si abbraccia.
Vedo amiche stringersi in un saluto che da solo esprime tutta la mancanza e
la gioia nel rivedersi. Mi sento minuscola nella folla che non diventa mai
calca viste le dimensioni del posto. Mi sento potente e padrona dei miei
giorni. A fine luglio ho firmato il mio primo contratto a tempo
indeterminato: ora posso veramente considerare la Germania casa mia. È
finita l’incertezza della sostituzione per maternità. Sono qui per restare.
Archiviati i dubbi, abbandonate le paure, sono pronta a inserirmi nella mia
nuova patria. Ora sono qui, nella capitale. In fila per un curry indiano
richiamata dall’odore squisito che arriva dal camioncino dove lo preparano.
Il suo profumo mi consola immediatamente, assaggiandolo dimentico la
tristezza della mattinata.

Il 7/09/2013 non è solo il giorno in cui Bjork si è esibita al Berlin


Festival a Tempelhof. Stamane di buon’ora ho lasciato la città per
avventurarmi con la S-Bahn in una zona periferica per vedere di persona il
luogo dove nel gennaio 1942 venne decisa la soluzione finale della
questione ebraica. Quando arrivo alla stazione di Wannsee, tutto ricorda un
ameno luogo di villeggiatura dal momento che il lago è un punto di ritrovo
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soprattutto in giornate calde e assolate come questa. Decine di persone


scendono dal treno insieme a me e si disperdono in direzione della riva dove
trascorreranno la giornata. Io invece devo capire dove andare per visitare la
casa museo dove si conservano i documenti originali di quella riunione
tristemente famosa. Soluzione finale – Endlösung – è una dicitura piuttosto
sterile, quasi innocua offerta dalla terminologia burocratica per occultare lo
sterminio che si sarebbe consumato in suo nome. Mi informo e capisco
quale autobus prendere e dove scendere. Una volta arrivata, devo passare
varie volte davanti al cancello della villa per capire che è quella che sto
cercando. Ha un aspetto così anonimo da camuffarsi con le residenze
intorno. Suono il campanello e aspetto che qualcuno venga ad aprirmi.
Oltrepasso il cancello e attraverso un atrio curatissimo. C’è una grande
aiuola verde con grandi rose bianche che un inserviente sta annaffiando
prima di distrarsi per salutarmi frettolosamente. Lì per lì sono l’unica
visitatrice, più tardi arriverà qualche sparuto turista. Il salone indicato come
il luogo in cui si è tenuta la conferenza è riccamente decorato. Trasuda
innocenza. Chi potrebbe mai dire che su questi preziosi pavimenti siano
riecheggiati i passi dei carnefici che hanno architettato lo sterminio di
milioni di persone. Circondati dalla silenziosa quiete del lago in inverno,
come è stato possibile mettere a punto simili efferatezze? La villa –
espropriata a Oppenheim, un ricco mercante ebreo – affaccia direttamente
sul lago garantendo una vista idilliaca. Nonostante ciò, qui si è decretato
l’orrore. Si è verbalizzato l’Olocausto e sono stati stilati i protocolli
custoditi nelle teche di vetro. Quei pezzi di carta ingialliti dall’aria così
innocente – unici nel loro genere - mi sono tornati varie volte in mente nel
corso degli anni. Ogni volta che il discorso politico ha liquidato come
irrilevanti le vite di persone ritenute problematiche o non degne di tutela.
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Migranti. L’epoca degli sbarchi e della vergogna. In Germania ho visitato


qualsiasi monumento alla memoria capitasse sul mio cammino e ho provato
smarrimento di fronte alle atrocità descritte sui pannelli esplicativi. Ho
pianto la disperazione di chi non si sentirà mai al riparo dalla possibilità di
rivivere quelle aberrazioni.

Da adolescente, a scuola, vedevo quei momenti come irripetibili


deviazioni dalla norma. A Waansee con la brezza del lago a dar sollievo in
una giornata caldissima, so con certezza che può succedere ancora. È
successo e succederà in forme e proporzioni diverse. Sta già succedendo.
L’orrore cambierà d’abito, ma troverà sempre terreno fertile su cui
attecchire. Ciò che il mondo preferisce vedere come il male assoluto e che
Arendt ha concettualizzato come banalità del male, tornerà continuamente
sotto altre forme. Noi chiuderemo ancora gli occhi, fingeremo di non vedere
e non sapere per rimanere ostinatamente aggrappati alle nostre fragili vite.
Mentre penso a tutte queste cose, ho finito il mio curry e ho giusto il tempo
di piazzarmi in prima fila. C’è talmente tanto spazio che non si deve
nemmeno sgomitare: posso cantare, ballare, commuovermi immersa in una
catarsi collettiva. Sono libera, sono sola e sono grata di essere venuta al
concerto da sola. Sono felice di tornare da Sara al ritorno senza aver paura
di camminare per le strade di Berlino, prendere la metro, cambiare linea,
raggiungerla al parco per un’ultima birra. Ho davvero la sensazione che il
mondo sia nelle mie mani. Domani mattina vagherò nelle sonnolente strade
della città sondando vicoli e canali alla ricerca di nuovi spunti. Adesso è ora
di andare a letto.

L’indomani mattina, il cielo è terso e di un azzurro così nitido che


nulla lascia presagire il repentino cambio di temperature del giorno
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seguente. Mi sveglio presto e non vedo l’ora di perdermi per le vie dell’isola
dei musei. Non c’è quasi nessuno in giro e mi godo il silenzio di Berlino al
risveglio mentre percorro i canali dietro il Bodenmuseum. In un’area
abbastanza grande stanno montando stand e bancarelle. C’è ancora tempo
per scambiare due parole nel mio tedesco traballante mentre osservo il
mercato delle pulci in allestimento. La domenica in Germania e in Olanda
era spesso il giorno dei mercati delle pulci. L’arte dello sbaratto elevata a
maggior dignità. Da vecchi cartoni impolverati e valigie mezze scassate
tornavano a nuova vita servizi di piatti, vinili, capi d’abbigliamento,
fotografie, cornici, oggetti indecifrabili, cimeli della Seconda Guerra
Mondiale. Fra due bancarelle, un ragazzo ha steso un ampio lenzuolo bianco
su cui ha collocato un numero imprecisato di bicchieri più o meno pieni da
cui ricava una musica sottile e armonica che si sprigiona nell’atmosfera
molle del mattino. Continuo a camminare senza una meta. Sto andando in
direzione della sinagoga ma senza seguire un tragitto preciso. Non ho fretta
e sono disposta a perdermi più e più volte. Sono pronta a riavvolgere i miei
passi fra i vicoli della città che si stiracchia per iniziare un nuovo giorno.
Con la coda dell’occhio, vedo dei gradini che sembrano portare in
prossimità della Sprea, il fiume che attraversa la città. M’incuriosiscono e
decido di seguirli. Non ho nemmeno il tempo di finirli che mi trovo
catapultata in una scena da film, un quadro dal vivo con sottofondo di
musica francese. Nell’aria si perdono le note de La Valse d’Amélie e una
dozzina di persone balla in coppia. Sono tutte vestite di bianco, alcune
indossano un piccolo accessorio colorato. Un fiore giallo fra i capelli, una
cintura verde smeraldo, un bracciale scarlatto. Mentre il volume della
musica aumenta d’intensità, il cuore perde un battito. Tutta questa bellezza è
lì per me. Questa domenica mattina mi stava aspettando e io sono arrivata in
25

tempo per goderne. Il sole nel frattempo è alto in cielo e fa più caldo. Sono
come congelata a osservare ogni dettaglio. Da questo momento, il mio
viaggiare avrà una consistenza diversa e più radicata all’origine dello
stupore. Sta nascendo in me un sentimento nuovo – o forse antichissimo –
che avrei impiegato anni a definire perché nella mia lingua non esiste una
parola che lo connoti. Dovrò aspettare che quella parola mi venga offerta dal
tedesco: Fernweh. Letteralmente il dolore per le cose lontane.
Concretamente, la nostalgia provata verso luoghi mai visti. Al suo opposto,
l’Heimweh simile all’homesickness dell’inglese. Solitamente tradotti come
nostalgia di casa, credo sia difficile cogliere a pieno la loro profondità.
Temo non emerga la dimensione del dolore, della malattia che quasi abita
questi stati d’animo. A Berlino, sul lungofiume, in riva alla Sprea, con la
Valse d’Amélie in sottofondo ho capito di essere nata imbevuta fino al
midollo di nostalgia del mondo. Un dolore che risale all’origine stessa del
mio io.

Il pianeta mi manca tutto. Mi manca ogni giorno benché lo conosca


così poco. Mi manca e questa mancanza scava solchi. Mi mancano le gelide
notti in Afghanistan sotto un cielo stellato impossibile da descrivere e le
albe sulle rive delle isole Andamane. Mi manca nuotare con le tartarughe al
largo delle isole Galapagos e darei qualsiasi cosa per vedere Dakar al
tramonto. Tornando sulla strada principale per riprendere il percorso verso
la sinagoga, comprendo di amare intensamente la mia vita in Germania.
Adoro questo paese che mi ha regalato una seconda vita. Piango la
gratitudine di chi sa di avercela fatta per ostinazione e fortuna. Per essersi
trovata al posto giusto nel momento perfetto con la necessaria
determinazione. Qui sono diventata una donna veramente libera che scopre
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di avere una vocazione, logorando un paio di scarpe dopo l’altro. A Berlino


ho messo a fuoco il ventaglio di meravigliose sorprese che il mio coraggio
può regalarmi ogni volta io accetto di perdermi nel mondo, di smarrire la
rotta prestabilita, di saltare nel vuoto, di cogliere le occasioni che il destino
mi offre. Di giocare a modo mio. Sfidando nostalgie di luoghi mai visti e di
luoghi natali, le radici doloranti sembrano spezzarsi nell’impresa di
trasformarsi in ali.

Dopo quella prima indimenticabile volta, sono tornata in città varie


volte. Mi sono persa in un quartiere popolare di cui non sono mai riuscita a
conoscere il nome mentre osservavo i murales delle fondamenta di
palazzoni orribili e sgraziati. Quei colori, quelle figure riscattavano la
bruttezza degli edifici. Ho tremato camminando sui volti metallici e
agonizzanti all’interno del Museo dell’Olocausto e – al cospetto dell’orrore
– ho sempre e solo sentito l’urgenza di credere nell’amore. Di lottare per
esso. Ho trascorso ore nei musei ammirando inestimabili capolavori e opere
di artisti sterminati durante la Shoah. La storia solo in piccola parte si trova
nei libri. Il resto è nelle vite delle persone e in ciò che sopravvive di esse.
Non tutto ciò che viene trascurato o dimenticato smette di esistere. A volte
aspetta solo di essere scoperto. Come il museo della resistenza tedesca.
Stando ai libri su cui avevo studiato, il popolo tedesco era un blocco unico e
compatto di umani incapaci di esprimere dissenso di fronte alla barbarie.
Tutti complici. I più fortunati, al massimo, indifferenti. Unica eccezione –
pressoché sconosciuta – il movimento della Rosa Bianca incarnato nella sua
leader Sophie Scholl uccisa a ventitré anni per aver distribuito volantini
all’Università di Monaco dove ancora oggi viene ricordata. L’arte dissipa la
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tristezza e così un giorno mi imbatto in Mascha Kaleko 1, una poeta ebrea


che ha celebrato questa città incredibile, pulsante ed eclettica. Una città
dove la storia si racconta da sola, dipanandosi un quartiere dopo l’altro. E
per citare i suoi versi sulla poesia più bella che lei ha taciuto, posso
affermare con sicurezza che io il viaggio più bello non l’ho ancora fatto.

Una delle poche certezze che ho è che la mia vita soltanto non mi è
mai bastata, né mi basterà. Troppo poco, troppo insignificante rispetto
all’infinito dedalo di possibilità che esistono. D’estate la mia famiglia si
trasferisce in una casa in campagna e questo piccolo trasloco ha sempre
denotato l’inizio ufficiale della stagione del mare, della granita e delle cene
fuori fino a tardi. I pomeriggi trascorrevano soffici leggendo un libro dopo
l’altro, fin quando non arrivava l’ora del tramonto. A quel punto, prendevo
il libro del momento, l’immancabile diario segreto e salivo in terrazza. In
questo modo, frapponevo una distanza fisica ed emotiva dal quotidiano per
avventurarmi in una dimensione diversa. Quella scala era la dichiarazione
d’intenti di una bambina di otto anni innamorata tanto della compagnia
quanto della solitudine. Trent’anni dopo, sono ancora alla ricerca della
giusta distanza. L’umanità mi distrae e confonde, mi fa perdere il baricentro.
Mi manco e mi ritrovo allenando lo sguardo ad allungarsi altrove, oltre
l’orizzonte. Anche per questo viaggio: per oltrepassare limiti fisici ed
emotivi, per mettermi alla prova, per capire ancora meglio di che pasta sono
fatta. Ho la fisiologica necessità di coltivare più vite e nutrire molteplici
versioni di me stessa. Solo una vita, una lingua, una casa, un luogo, una me
non mi bastano. Così continuo a ricercare, agognare, bramare, rincorrere,
1
La mia poesia più bella?
Io non la scrissi.
Emerse dal profondo delle profondità.
La tacqui. + Prendi la tua ombra come compagna
28

spesso senza mai raggiungere. Tutto ciò ha un prezzo, ovviamente. E per


spiegarlo mi torna sempre in mente un episodio del mio soggiorno a
Copenhagen2.

Norimberga Weltschmerz

Copenhagen: sopravvivere alla solitudine – Sehnsucht

Pasqua 2014. Sono a Copenhagen per quattro giorni approfittando del


ponte pasquale. Questa volta non mi sono ridotta all’ultimo minuto, ma ho
prenotato subito dopo il rientro dalle ferie natalizie. Nel 2013, complici il
tempo orribile e gli esami di tedesco alle porte, ero rimasta per lo più
rintanata in casa senza contatti umani o distrazioni. Il peso della mia scelta e
di ricominciare una nuova vita all’estero si era mostrato
inequivocabilmente. Spinta dalla grigia oppressione di quei giorni, promisi a
me stessa di organizzarmi diversamente l’anno seguente. E dunque eccomi
qui in visita dalla sirenetta. Deludente come quasi tutte le cose acclamate.
Nel 2014, quindi, il venerdì mattina sono andata in aeroporto a Colonia e
sono salita su un aereo diretto a Copenhagen dove, una volta atterrata, ho
subito trovato il treno che mi avrebbe portata in centro. Dalla stazione in
dieci minuti sono arrivata all’albergo, il meno caro che avessi trovato. Uno
di quei posti anonimi e senza staff dove ricevi un codice via mail da inserire
per accedere alla struttura augurandoti di aver capito tutti i passaggi
correttamente. Mollato il bagaglio, corro a immergermi nella città che
pullula di persone. Turisti ma anche persone del posto spinte fuori casa dalla
temperatura mite. Il tempo sarebbe stato così bello anche nei giorni seguenti
2
Cap XX
29

che durante le mie gite in battello mi è capitato varie volte di scorgere


persone sdraiate il sole in bikini sulle banchine in giro per la città. Mentre io
ero saldamente e convintamente avvolta nel mio piumino che risultava
eccessivo solo nelle ore più calde e sotto il sole diretto.

Le strade sono piene di gente, c’è un vociare confuso in cui si


accavallano molte lingue intrecciandosi con la musica degli artisti che
intrattengono la folla. Un minuscolo camioncino rosso offre crêpes dolci
ripiene con qualsiasi leccornia e riempie l’aria del suo aroma zuccherino. Mi
godo le ultime ore di luce naturale e solo prima del tramonto compro un
biglietto per una crociera fra i canali. Alcuni scorci mi ricordano
inequivocabilmente Amsterdam e mi afferra una profonda nostalgia
dell’Olanda. Mi riprometto di tornarci presto. Quando il battello rientra al
molo, è già quasi buio e mi avvio verso l’albergo in cerca di un posto dove
cenare. Un’altra regola d’oro dei miei viaggi (della mia vita, in verità) è
andare a dormire presto ed evitare rischi inutili addentrandomi per le città da
sola di notte. Più che una precauzione è uno stile di vita vero e proprio visto
che non sono un’amante della movida notturna. L’impatto con la città è
piacevole, sono entusiasta di essere venuta qui. Vado a letto soddisfatta e
riguardo velocemente la guida per valutare cosa potrei fare l’indomani.
Sabato è un giorno di esplorazione, di musei, di castelli, di parchi mentre la
domenica di Pasqua sarà un momento intenso di autentica autocoscienza.

Al risveglio scelgo un caffè dove fare una lunga e abbondante


colazione prima di partire in esplorazione. Rimango stupita dall’incredibile
quantità di biciclette sparse ovunque e dall’arroganza con cui ti tagliano la
strada e ti travolgono al primo passo falso. Cammino per la città beandomi
del sole, della primavera e della placida atmosfera che circonda ogni cosa.
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Osservo le famiglie che si affrettano verso la loro destinazione, gruppi di


adolescenti che cantano chiassosi, uccelli librarsi in volo e allontanarsi
all’orizzonte. La giornata scivola velocemente e si fa sera senza che nulla
diventi memoria. Al contrario del giorno successivo quando per puro
caso, leggendo le indicazioni stradali, capisco di trovarmi nei pressi del
museo ebraico e decido di farci un salto senza avere idea di cosa aspettarmi.
Nulla del giardino colmo di rose e tovaglie da picnic mi rivela che sarei
rimasta lì oltre due ore. Nulla dei cespugli perfettamente in ordine mi
avverte che sto per vivere momenti cruciali. Nella sua semplicità lo ricordo
tutt’oggi come uno dei musei più significativi che io abbia mai visitato e mi
colpiscono nel profondo le storie delle famiglie danesi che a seguito
dell’invasione nazista decidono di nascondere i figli degli ebrei deportati per
salvarli da una morte certa. Si vedono foto e spezzoni di filmini, feste di
compleanno, banchi di scuola. Ci sono nomi e cognomi, piccoli frammenti
di storia riscattati dall’oblio. Tutte le volte che ritorno a quella visita non
manco di commuovermi. Quando finisco, mi incammino ancora per la città
lasciandomi guidare dalle suggestioni che mi invia. Ad un tratto, mi trovo
ad un incrocio: di fronte a me un ponte solca il fiume congiungendo due
parti della città, all’angolo un bar dall’aspetto per nulla curato. Realizzo di
avere fame e mi unisco alla piccola fila ordinata lì fuori. Quando arriva il
mio turno, scelgo velocemente un panino con halloumi, avocado e hummus
talmente buono da meritare una menzione speciale anche otto anni dopo.
Vado a sedermi sul ponte in direzione del sole la cui intensità diminuisce
gradualmente man mano che cala. La città intorno si muove frenetica, vedo
arrivare ragazzi e ragazze di ogni età in bicicletta, skateboard o a piedi.
Alcuni hanno delle birre, altre delle bevande indecifrabili. Il sole è ancora
abbastanza alto, esattamente di fronte a me. Il suo riverbero ricopre ogni
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cosa. È un momento di stupefacente bellezza che avrei rievocato anni dopo


durante il primo tramonto in Burkina Faso quando sulla strada per tornare a
Ouagadougou incontriamo un paio di cammelli e i loro padroni accettano di
farsi fotografare insieme ai loro fedeli compagni di viaggio. In
quell’occasione ho scattato una delle foto più fortunate di sempre in cui si
vede uno dei due animali che sbadigliando sembra in procinto di fagocitare
il sole.

FOTO

Tornando al pranzo pasquale sul ponte di Copenhagen, a colpirmi non


è solo un sentimento di estatica meraviglia. Posso rievocare così nitidamente
il tepore giallo sulla pelle perché quella è stata l’unica occasione in cui
durante uno dei miei vagabondaggi mi sono sentita sola. Quel giorno sul
ponte sospeso sopra il canale inondato dalla primavera imminente, per un
istante, ho invidiato le persone intorno a me per il semplice fatto che
avessero qualcuno con cui condividere lo spettacolo che si manifestava
davanti ai nostri occhi. Sono immersa in uno stato di indicibile grazia e non
ho nessuno con cui condividerlo. Le radici a quel punto hanno iniziato a
tirare, benché ci abbia messo anni a individuare con chiarezza quel clic.
Ogni viaggio inizia con un semplice passo, con un primo unico movimento
verso la direzione prescelta. Un mese dopo quella pasqua danese, sarei
tornata a casa andando incontro al mio destino. Un mese dopo sarei entrata
per la prima volta nella mia scuola elementare, momentaneamente adibita a
centro di prima accoglienza per minori stranieri non accompagnati. Avrei
avuto bisogno di altri due anni e mezzo per comprare un biglietto di sola
andata verso casa contro ogni aspettativa. Eppure, il primo passo verso
quella meta, verso quella sorta di bizzarra chiusura del cerchio, l’ho
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compiuto da ferma mangiando un panino e sentendo che la libertà fine a se


stessa non mi bastava più. Presto sarebbe arrivato il tempo della
condivisione. Non si trattava solo di solitudine, bensì di voglia di
condividere esperienze e stati d’animo dopo oltre un anno trascorso per lo
più da sola. Anche dopo questa rivelazione, ho continuato a viaggiare
godendomi ogni attimo delle mie fughe, ma l’incontro con rifugiati e
migranti mi avrebbe costretta a pormi molte domande, alcune decisamente
scomode. In che modo intendevo vivere la mia vita? Qual era il senso del
mio stare al mondo? Cosa importava davvero nella vita quotidiana? Quali
erano le priorità? Impercettibilmente, il mio asse interiore ha iniziato a
ruotare verso il luogo di partenza. Il seme era piantato: si apriva una nuova
fase dalle conseguenze incerte ma che sono grata di aver assecondato perché
con molti giri mi ha portata dove sono adesso.

Il lunedì ho il volo del ritorno e, presa dalla smania di mettere


simboliche bandierine in posti nuovi, osservo meglio la cartina: l’aeroporto
si trova a circa metà strada fra Copenhagen e Malmö. Questa città fino a un
attimo prima sconosciuta diventa il fulcro del mio interesse: devo andarci
subito. Quaranta minuti di treno fino alla stazione dove avrei posato il
bagaglio per andarmene un po’ in giro prima di dirigermi in aeroporto per il
rientro. Salita a bordo mi preparo a vivere una scena in cui i contorni fra il
reale e l’onirico sfumano perdendosi l’uno nell’altro. In quel tratto,
Danimarca e Svezia sono collegate da un ponte sospeso sul mare circondato
da un paesaggio liquido e roccioso. Ci stiamo avvicinando alla costa il cui
profilo frastagliato si fa improvvisamente più nitido. Sono lontana dalla
terraferma: cielo, mare, scogliera hanno contorni appena accennati e avvolti
in una bruma sottile, retaggio della notte che non si è ancora totalmente
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dispersa. Tutto a un tratto, lo vedo: un uomo sta pescando sugli scogli, sullo
sfondo dell’orizzonte. Immagino di intravedere perfino il sottile filo della
canna da pesca immersa nel mare e percepisco i movimenti flessuosi del
corpo che asseconda la presa. Non lo guardo in volto. È solo un profilo con
un cappello, un elemento del creato in piena armonia con esso.

Non so cosa scatti in me, ma in quel preciso istante si materializza la


consapevolezza che non proverò mai per molto tempo la quiete che trasuda
quel frammento di vita spiata. Non conoscerò pace o tregua definitive. Solo
soste, brevi parentesi fra un viaggio e l’altro perché nulla placherà mai a
lungo l’inquietudine che mi abita come una salvezza e una condanna.
Arderò costantemente di nostalgia, mi consumerò perennemente nella
Sehnsucht, più che una parola, un rifugio che mi aiuta a sentirmi meno sola
nella ricerca dell’altrove. Sehnsucht è la nostalgia di cose perdute, ma anche
di cose mai avute. È un sentimento di viscerale struggimento nei confronti
di un’interezza perduta. Nella fattispecie, non so cos’abbia perduto, ma so di
essere sempre alla ricerca. Ho bisogno di nuove lingue, nuovi suoni, nuovi
posti e nuovi cieli. Ho bisogno di lanciarmi verso una costa mai vista su un
treno mai preso. Devo smarrirmi regolarmente per sapere chi sono,
straziarmi in un dolore senza inizio né fine e lasciarmi percorrere dal
desiderio di luoghi sconosciuti. Mi serve la distruzione per ricostruirmi e
accetto con gratitudine ogni dono elargitomi dalla vita quando scelgo di
rinunciare alla quiete dell’uomo che pesca per immergermi nel vasto e
caotico mondo.

All’arrivo in stazione mollo la valigia e cerco un locale per fare


colazione lasciandomi guidare dall’olfatto. Una pioggia sottile inzuppa
l’asfalto e acuisce l’odore del mare che domina l’intero piazzale. Le costole
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si spalancano accogliendo la salsedine e in quell’attimo mi sembra di poter


guarire da qualsiasi pena. Nel frattempo, trovo il posto che fa per me:
richiamata dall’odore di cannella, mi intrufolo in un piccolo bistrot arredato
in legno scuro e mi lascio avvolgere dall’atmosfera vellutata. È praticamente
vuoto. Ci siamo io e la cameriera che sorride illustrandomi le torte
disponibili. Alla fine opto per un enorme cinnamon roll e un tè all’arancia
speziata che mi scalda a dovere. Terminata la colazione, torno a esplorare i
vicoli del centro senza farmi scoraggiare dal cielo plumbeo. Ci sono aiuole
colme di fiori colorati e statue di bambini che danzano con una lieve patina
verdastra sulla superficie. Incrocio alcuni turisti a zonzo, li riconosco per
quello sguardo inconfondibile in bilico fra stupore e smarrimento. Non
sapendo cosa aspettarci da un posto che vediamo per la prima volta, gli
occhi si colmano di interrogativi e di una maggiore predisposizione alle
soprese. Lo spessore di quegli sguardi è totalmente diverso da chi le città le
vede e le vive ogni giorno senza osservare più nulla, soffocato dalla frenesia
e dalla routine. Anche a questo serve viaggiare: a conservare l’acutezza
dello sguardo coltivando la meraviglia.

L’equilibrio è solo una questione di scelte e di riposizionamenti, di


ripensamenti. Di decisioni, in definitiva. Uno degli errori principali che
avrei potuto commettere era ostinarmi a preservare quanto raggiunto con
fatica a Bonn anche dopo aver capito che non mi avrebbe più soddisfatta
pienamente. Otto anni dopo, so che quel panino consumato da sola nel
giorno di Pasqua nella capitale danese ha piantato il seme del ritorno che
avrebbe impiegato anni a germogliare. Sono grata per il coraggio di
abbandonare tutto alle spalle quando tutto era diventato troppo poco. Ogni
luogo ha la sua voce. Ogni luogo saprà chiamarci al momento giusto. Ogni
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luogo saprà svelarci qualcosa di noi stesse che ignoriamo o evitiamo. Quindi
se la domanda è: come si fa a sopravvivere ammirando una meraviglia senza
poterla condividere, la mia risposta è semplice. Aspettando. Lasciando che
le sensazioni si sedimentino dentro di noi, che scavino tunnel e guadagnino
spazio per fiorire. Le esperienze vissute da sole – senza poterle
immediatamente mescolare col sentire altrui – si sedimentano e
cristallizzano in modo diverso. Superata la fase dello sconcerto e il
dispiacere, mi sono semplicemente lasciata travolgere dalla meraviglia
dandomi il tempo per metabolizzare l’esperienza e trasformandola in
ricordo. Mi rigiravo ogni istante in mente – come una caramella
particolarmente succosa sulla lingua – e lo guardavo crescere, definirsi,
adagiarsi. Se ripercorro gli attimi memorabili in cui sono sola di fronte a
un’esperienza che mi spiazza per la sua bellezza, emergono particolari e
colori che sarebbero facilmente potuti scivolare nel dimenticatoio. Alcuni si
perdono comunque, piccoli dettagli irrilevanti si annacquano nella mente
mentre altri si aggrappano con ostinazione alle pareti della memoria e
permangono negli anni. Alcuni sopravvivono senza particolari meriti,
conquistando un’insospettabile eternità. Altri fluttuano di fronte allo
sguardo finché non trovo il tempo necessario per fissarli sulla carta. È come
se avessero paura di sbriciolarsi e mi pregassero di farli rimanere. Come i
cammelli al tramonto. Pur non essendo sola in quell’istante, sono stata
sopraffatta da una gioia privata e incommensurabile che ha continuato ad
affollarmi la testa fin quando – finalmente sola in camera – non ho avuto
tempo e modo di fissarla nero su bianco. Ora erano salvi, potevo andare a
dormire e una volta a letto mi è tornata in mente la donna che camminava
sul bordo della strada che stavamo percorrendo. Anche lei rivendicava una
porzione di eternità insieme ai suoi due figli, alla cesta coi panni in
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equilibrio sulla testa. Incuriosita si era fermata a guardarci fotografare i


cammelli e si era lasciata ritrarre anche lei, con un sorriso serafico sul volto
e il profilo dei figli stagliato sull’orizzonte vermiglio. Dopo qualche minuto
ci saremmo accomiatati riprendendo il cammino, ognuna di noi sarebbe
tornata alle proprie vite. Eppure, dopo quasi quattro anni, complice la
fotografia che scattai e le pagine di diario che scrissi, riesco a rievocare
moltissimi dettagli di quel momento magico.

Anche appena atterrata a Hanimaadhoo (atollo di Haa Dhaalu,


Maldive) ho provato la sensazione di andare incontro a un momento che
sarebbe rimasto indelebile e ho lottato contro la stanchezza e ogni altra
distrazione per preservare un singolo grammo di vita. Mentre attraversavo
l’isola in direzione nord per andare all’ecohotel, all’angolo di una strada
anonima e vuota, sono comparse tre ragazzine. Avranno avuto dodici o
tredici anni e vestivano lunghi abiti scuri. Fermatesi all’angolo, si sono
strette l’una all’altra, quella nel mezzo reggeva un piccolo specchio e tutte si
affrettavano a sistemarsi il velo. Giravano lo specchio per cogliere varie
angolazioni di se stesse, ridevano coprendosi la bocca e scambiandosi
sguardi complici. La civetteria tipica dell’adolescenza – identica a ogni
latitudine – era una cosa viva e palpabile come risate e bisbigli che avevo
l’impressione di percepire fin dentro la macchina. Se avessi avuto un’amica
con me gliele avrei fatte notare, avremmo riso insieme e magari poi
sarebbero scivolate via. Invece, da sola, ho continuato a pensare a loro fino
alla sera. Fino a quando non ho avuto la concentrazione per immortalare
quella scena. All’arrivo ero troppo stanca, ho solo avuto la forza di buttare
via le scarpe, fare una doccia, mangiare, piangere di gioia e dormire come
un sasso. L’indomani era troppa la meraviglia intorno per riuscire a fermare
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qualcosa in particolare. L’intera giornata l’ho trascorsa come una spugna,


assorbendo ogni minuzia: i passi intorno, le foglie che cadevano, i versi di
animali a me sconosciuti, le storie dell’oceano che ondeggiava venendomi
incontro. Solo due giorni dopo, sono riuscita a placare il mio battito
impazzito per tutto quel mondo nuovo intorno a me e a tributare il giusto
valore a quelle adolescenti vanitose. Adesso sono salve e non verranno
dimenticate.

DELFT: COME IN UN DIPINTO

La prima volta che da Rotterdam sono arrivata a Delft ho pensato di


capire meglio il segreto della luce tanto decantata nei dipinti di Vermeer e
degli altri maestri olandesi della Golden Age. Ovunque – dai libri di storia
dell’arte ai musei – la qualità sopraffina e particolarissima della luce viene
presentata come una caratteristica imprescindibile della pittura olandese ed
effettivamente possiede un che di magico: eterea, impalpabile, soffusa o
nitida, la luce è sempre la protagonista indiscussa delle tele di quel periodo
storico-artistico. A prescindere che illumini la veduta del porto di Delft o
una domestica che legge assorta una lettera, la luce è viva e vibrante in ogni
quadro di cui costituisce la vera protagonista anche quando un orecchino di
perla ci distrae. La stazione ferroviaria ha solo due binari con una piccola
sala d’attesa cui posso accedere percorrendo un sottopassaggio e si trova a
due passi dal centro. Nell’area antistante, centinaia di biciclette sono in
attesa che i proprietari vengano a riprendersele. La luca pomeridiana è
morbida, rotonda, assolutamente priva di spigoli e rende ancora più
piacevole camminare verso il cuore pulsante della città. Il chiarore dolce del
sole pomeridiano abbraccia ogni cosa ed è ancora abbastanza alto da posarsi
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sul municipio che troneggia su un lato della piazza centrale. Ci arrivo


seguendo le indicazioni sparse sul tragitto, senza lasciarmi distrarre dai
canali, dalle persiane spalancate a svelare la vita intima delle case.
Improvvisamente, la piazza che cercavo si spalanca davanti ai miei occhi:
non è molto affollata, ma su un lato ci sono decine di tavolini e gli avventori
del primo pomeriggio non mancano. Sembrano girasoli che bramano un po’
di calore. Vivo da oltre un anno a Bonn e ho smesso di burlarmi di chi il
sole lo vede raramente. Adesso capisco meglio il desiderio, così simile a un
bisogno fisico, che spinge a sfruttare anche il più piccolo raggio di sole.
All’inizio, ridevo di questa rincorsa al bel tempo. Poi l’ho capita. Prima
sorridevo vedendo intere famiglie tedesche sedute all’aperto con un gelato
anche a dicembre purché ci fosse il sole. Poi anche io ho iniziato a
mangiarlo fuori stagione.

Mentre i girasoli umani si godono gli ultimi raggi, oltrepasso un


imponente palazzo che ospita il municipio e mi avventuro nel dedalo di
viuzze e canali che si snodano dietro di esso. C’è un intenso aroma floreale
che proviene da un tavolino alla mia destra. Non è di un locale, ma di una
casa e infatti si trova proprio davanti la porta di ingresso color miele.
Quell’angolo sembra surreale, disegnato. Sembra emergere da una cartolina:
la sfumatura miele della porta si intona a meraviglia con il lilla del tavolino
accompagnato da due sedie della stessa tonalità e sormontato da un vaso
bianco con dei fiori. Sono loro ad aver attirato il mio olfatto lasciandomi
scoprire quel piccolo angolo di pace cui si accede scendendo alcuni gradini
e portandosi più vicino al livello del canale che scorre proprio davanti casa.
La superficie dell’acqua riflette l’intero quadro con leggere increspature qui
e lì. Mi trattengo dal commettere una qualche violazione di domicilio, do un
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ultimo sguardo e poi proseguo. Otto anni dopo quel fotogramma è rimasto
inalterato nella mia memoria, conquistando una sorta di sacralità
intoccabile, nonostante non abbia mai più rintracciato quell’angolo. Nel
ricordo so bene come ci sono arrivata, ma nella pratica non esiste più.
Svanito. Forse soltanto sognato e immaginato. Ho cercato su Google, ho
provato a scrutare varie vedute aeree, a passare e ripassare nei dintorni del
municipio ma nulla. Mi sono consolata però con la fastosa imponenza di
quest’ultimo: le imposte carminio e i decori color oro meritano almeno una
menzione per la loro bellezza, soprattutto se colpiti dal sole che sparge nella
piazza del mercato antistante decine di preziosi riflessi.

Succede anche questo. Fa parte del processo di sedimentazione dei


ricordi e del loro peculiare modo di innestarsi nella memoria, germogliando
a piacimento. Il tavolino lilla coi fiori bianchi, la porta miele, la loro
immagine riflessa sulla superficie screziata del canale hanno smesso di
appartenere alla geografia fisica di Delft. Non li cerco nemmeno più, mi
sono arresa al fatto che esistano soltanto nella mia memoria. Ho accettato di
non poter mai più rivedere quel piccolo angolo di quiete, ma allo stesso
tempo ho conquistato il diritto di potermi idealmente accucciare al suo
interno ogni volta che lo voglio. Da lì posso ammirare tramonti, dialogare
con Vermeer sulla qualità della luce, interagire con turisti e residenti.
Viaggiare è anche questo: impossessarsi nel profondo di alcuni luoghi,
plasmarli nell’immaginario, renderli solo nostri e avulsi da ogni vincolo
fisico. Si trasformano così in non-luoghi o forse in super-luoghi, entità
astratte non rintracciabili con una mappa ma accessibili solo abbandonando
il reale per riparare nell’onirico. A fine giornata nessuno può vietarmi di
sorseggiare un bicchiere di vino bianco, coi piedi immersi nell’acqua che
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scorre, un libro poggiato sul tavolino bianco, la cena in forno oltre la porta
color miele, nell’aria le note profumate dei fiori lilla.

Negli anni sono tornata varie volte a Delft, sola, in coppia, con
un’amica. Andando spesso a Rotterdam, cercavo di fare sempre anche solo
una breve pausa qui. Il municipio con le imposte rosse su piazza del mercato
non è l’unico ricordo che ho conservato. Ci sono anche le famiglie riunite a
tavola in sala da pranzo che scrutavo camminando per strada. Amo questa
possibilità di partecipare per pochi secondi alle vite altrui. Una volta stavo
percorrendo una via lunghissima, intervallata da vari ponti a unire i due lati
del canale. Tutto è immobile, statico e perfetto avvolto in quella misteriosa
luce che porta con sé un insondabile segreto. Alla fine della strada, fra due
edifici che in prospettiva sembrano sfiorarsi, il sole arancione del tramonto
sembra incastrato fra le facciate. Arrivo da un vicolo laterale e non sono
pronta a questo spettacolo quando svolto l’angolo trovandomi quel cerchio
infuocato sospeso fra i palazzi. Sono costretta a fermarmi per assorbire
meglio questo momento: la meraviglia accade, senza farsi annunciare o
intuire da alcunché. Mi torna in mente un’alba in viaggio per Bruxelles, un
ricordo del periodo in cui ogni weekend salivo su un treno per una meta
nuova. Per mesi, ho preferito il Belgio approfittando dei collegamenti veloci
e confortevoli da Colonia.

Avevo deciso di partire il sabato mattina presto per evitare di pagare


una notte in più e così fuori dal finestrino mi sono goduta un meraviglioso
spettacolo con l’aurora che imporporava il cielo sopra la campagna tedesca.
Dall’indaco al rosa, i campi scorrevano a velocità forsennata dentro
un’aurea pastello. Mi sono tornati spesso in mente quei momenti e più volte
ho tentato di descriverli nel vano tentativo di non trascurare alcun dettaglio.
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C’erano le mucche che pascolavano beate e inconsapevoli, le stalle in


dissolvenza insieme alle staccionate dei recinti, i filari di alberi al limitare
delle varie tenute. C’era tutto un microcosmo che reclamava attenzione e
che speravo di riprodurre fedelmente almeno con le parole. Alla fine, credo
che si sia formata nella memoria un’immagine statica e fortemente
idealizzata che non so collocare nero su bianco. Non ho la minima idea di
dove ci trovassimo quando il sole si è alzato in cielo. Anche la questione
dell’aurora a ben vedere è piuttosto bizzarra. Per quanto presto io mi sia
potuta svegliare, non ricordo che fosse buio quando sono uscita di casa.
Dunque, è abbastanza inverosimile che io abbia veramente visto l’alba. Né
so per quanto tempo potrebbe essere logico immaginare che il mondo
rimanga avvolto da quei colori. Di fatto, l’unica certezza che ho riguardo
questo ricordo è il ricordo stesso. So che quell’istante è esistito, che io l’ho
vissuto al massimo della mia consapevolezza, che qualsiasi cosa stessi
facendo è stata interrotta dallo stupore provocato dallo spettacolo rosa fuori
dal finestrino. Allo stesso modo, ero sicura che quell’istante sarebbe stato
mitizzato dalla memoria e conservato gelosamente per proteggerlo dal
logorio del tempo. Ciò che ignoravo, invece, è che quel weekend mi avrebbe
regalato altri due frammenti indimenticabili alla galleria XXX.

Il primo riguarda una donna impegnata a mettere a punto la


coreografia di un negozio di praline la cui vetrina si affacciava proprio sulla
galleria che stavo attraversando. Il secondo una vetrina poco oltre, sul lato
opposto della galleria, all’interno di un negozio di guanti e cappelli in cuoio
finemente esposti per catturare l’attenzione dei passanti. La donna delle
praline era tutta presa dalla sua attività di riordino delle numerose varietà di
cioccolata: praline tonde di varie misure, con o senza decorazioni, al
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cioccolato fondente o al cioccolato al latte, striate con colori diversi,


ricoperte di granella. Il trionfo della golosità in versione mignon. La donna
era tutta assorta nell’impresa di ricollocare confezioni di latta colorata,
piccole buste trasparenti che lasciavano indovinare il contenuto al proprio
interno e venivano chiuse da nastri colorati per conservarne la freschezza.
Nonostante la folla che transitava lì davanti e le persone che si fermavano a
fotografare quella memorabile vetrina, la donna sembrava trovarsi in una
dimensione aliena e lontana. La sua aria sognante la rendeva piacevolmente
distaccata dal mondo esterno. La seconda vetrina invece – quella dei guanti
e dei cappelli – aveva un che di surreale: sembrava un quadro esposto in un
museo: tutte quelle mani perfettamente inguainate dentro cuoio di ottima
fattura, mirabilmente ritagliato e colorato sembravano puntare al cielo. Le
dita gialle, blu petrolio, grigio antracite indicavano un angolo del soffitto
non meglio precisato e aprivano a varie suggestioni. Sembravano una
preghiera o una carezza eternamente mancata. Un altro piccolo dettaglio che
ricordo di questa vetrina è il riflesso di quella di fronte piena di macaron
color pastello disposti in astucci bianchi come fossero gioielli.
Probabilmente se non fossi stata sola, non avrei notato questi dettagli.
Magari sarei stata intenta a conversare, a decidere cosa fare di lì a poco
oppure altro avrebbe attirato la mia attenzione. Ma in quell’istante ero
predisposta a carpire qualsiasi meraviglia mi si parasse intorno. Terminata la
galleria, ritornai a una dimensione più terrena e andai alla ricerca di una
birreria dove mi dedicai a una squisita quadruplo malto prima di ragionare
su cosa mangiare per cena. Per anni, il Belgio ha detenuto lo scettro per i
weekend a base di scorrettezze alimentari. Era un continuo pommes frites,
birre di ogni sorta, croissant, cioccolato, fragole immerse nel cioccolato,
formaggi, senape, miele, quiche con dentro la qualsiasi. Bastavano
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quarantott’ore per bramare un minestrone. Pensavo che avrebbe mantenuto


questo prima per sempre, ma ancora non ero stata a Barcellona. Lì me ne
sarebbero bastate ventiquattro con almeno tre giri di tapas per avere le
allucinazioni a base di zuppe e vellutate detox.

ZANDVOORT AAN ZEE

Una mattina di marzo mi sono svegliata nella mia casa a Bonn ed era
come se il tetto si fosse abbassato fino a sfiorarmi il naso in procinto di
schiacciarmi. È un periodo terribile, uno di quelli in cui il passato torna a
tormentarti e una storia chiusa si ripresenta con prepotente ossessione a
bussare alla porta. Da mesi fatico ad andare avanti con la mia vita ordinata,
a mantenermi in equilibrio fra lavoro e incubo privato. Così una mattina –
credo fosse un mercoledì – mi sveglio con un pensiero fisso: devo vedere il
mare, ho bisogno del mare. Sarei voluta rimanere a letto sepolta sotto le
coperte, inventandomi pretesti per non avventurarmi fuori casa, per eludere
le mie responsabilità lavorative. Ma ovviamente non posso e trovo la forza
per affrontare il mio cuore in tumulto, costringendolo a rimanere
intrappolato dentro la cassa toracica recuperando un ritmo più calmo.
Decido di ignorare l’ansia che mi stritola i polmoni. Resisto pensando al
mare e un nome si materializza fra i miei ricordi: Zandvoort. Non ci sono
mai stata, l’ho solo letto da qualche parte e so che si trova vicino Haarlem
che da tempo vorrei visitare dove aver scoperto la sua storia di roccaforte
della resistenza contro i nazisti. Questi pensieri mi distraggono, consentendo
alla morsa di acciaio di allentarsi e di arrivare fino a sera dopo la giornata in
ufficio. Rientrata a casa, controllo i passaggi disponibili per Amsterdam e ne
trovo uno che parte da Bonn. Solitamente devo andare da qualche parte a
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Colonia per incontrare il guidatore, ma questa volta ho fortuna e si parte


direttamente dalla stazione centrale. Sta andando a trovare la sua ragazza,
mi racconta quando partiamo, aggiungendo che in effetti lei abita ad
Haarlem ma aveva scritto Amsterdam perché si trovano più persone
interessate a quella meta. Si offre di lasciarmi direttamente lì così posso
prendere subito il treno per il mare. Ho fatto bene a fidarmi di questo
simpatico insegnante di inglese con cui il viaggio in auto scorre
velocemente. Arrivati a destinazione, ci mettiamo d’accordo per il rientro
del giorno dopo e ci auguriamo buon sabato. Una volta lì, decido di
approfittare della bellissima giornata per visitare il centro della città e il
museo della resistenza, felice di essermi portata giusto uno zainetto. Non mi
serve molto per stare fuori una notte. Devo solo vedere il mare e tornare a
casa. Non ho prenotato nulla.

In stazione faccio un biglietto per Zandvoort e scopro che il primo


treno è già in partenza. Con in mente la promessa delle onde, il tragitto vola
in un battibaleno e arrivata a destinazione mi affretto verso il lungomare
affollato di persone. La battigia brulica di famiglie, cani, bambini e il cielo è
punteggiato di aquiloni. Siamo tutti intenti a farci inondare dal tepore
confortante del sole dopo il lungo inverno. Molte delle case intorno hanno
targhette con numeri di telefono. È evidente che mi trovo in una località
turistica che vive solo durante i mesi d’estate benché tutto appaia
perfettamente curato anche adesso. Le case hanno l’aspetto di bomboniere
impolverate in attesa di essere restituite al loro splendore. Continuo a
camminare e spero di trovare un albergo dove dormire perché preferirei non
dover tornare ad Haarlem per la notte. Qualche minuto di camminata a
passo svelto sul lungomare e sulla destra mi trovo un’enorme struttura
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dall’aria decisamente retrò e piuttosto pacchiana. Tutto è esagerato nei


colori sgargianti e nelle dimensioni eccessive, ma non è il momento di
essere schizzinosa dato che potrebbe essere l’unica aperta. Ogni cosa –
dall’arredamento all’architettura – rievoca il mare. Sembra di stare in Grecia
immersa nel bianco e blu intorno. Alcune finestre hanno la forma di oblò e
alle pareti troneggiano quadri e stampe con paesaggi marini. La stanza che
mi hanno assegnato è fra le più assurde mai viste: grande, ma stracolma di
mobili da sembrare angusta, di fronte al letto c’è un enorme armadio a muro
che al proprio interno nasconde una cucina. Ora si spiega la buffa valigetta
in plastica verde che mi hanno dato in dotazione alla reception subito dopo
il check-in. Oltre a varie mappe e istruzioni per orientarsi all’interno
dell’enorme struttura, conteneva alcune bustine di indecifrabili
pseudoalimenti. Dopo aver mollato lo zaino, mi sono precipitata in spiaggia
con un libro e mi sono lasciata conquistare dall’inconfondibile odore di
pommes frites che mi spinge diligentemente in fila per accaparrarmene una
porzione.

Trovo un angolo riparato e mi siedo sul muretto a contemplare il


mare: il suo moto ondoso e millenario mi restituisce immediatamente la
pace che cercavo. Forte dell’anonimato lascio andare le lacrime che col
vento si asciugano ai lati degli occhi. Man mano che passano le ore, il calore
del sole diminuisce e il vento si fa più affilato. Dopo aver percorso un lungo
tratto di spiaggia, scansando i rivoli d’acqua che si intrufolavano fra le dune
di sabbia, sono rientrata per godermi il tramonto al calduccio della mia
vistosissima stanza. E ho ringraziato la mia tenacia e la mia intuizione di
venire fin qui, la decisione di ascoltare il bisogno di curarmi senza cedere
alla tentazione di far finta di nulla. Non avevo intenzione di far finta di
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essere forte quando dentro andavo in pezzi. Zandvoort avrebbe custodito il


mio segreto senza giudicarmi. Su quella spiaggia sarebbe rimasto per
sempre qualcosa della mia inquietudine, del mio smarrimento e forse un
giorno ci tornerò per vedere che effetto faccia. Contrariamente alla Pasqua
del 2014 in cui avevo accusato la solitudine sul ponte di Copenhagen,
adesso ero grata e sollevata al pensiero di essere sola con me stessa. Volevo
frantumarmi e ridurmi in polvere, abbandonarmi alla sensazione di sentirmi
così miserabile e sperduta per la violenza psicologica che continuavo a
subire ingiustamente. Non volevo che qualcuno sapesse come da mesi
vivessi sotto scacco e col fiato corto per colpa di un uomo che non si
arrendeva alla fine della nostra relazione. Ho pianto a lungo, finché non si è
fatto buio e mi è sembrato di non avere più lacrime e di essermi riparata
almeno un po’, sono andata a fare una doccia. L’acqua calda ha fatto il resto
e una volta finito mi sono preparata per uscire a cena. Non vedevo l’ora di
avventurarmi per le strade silenziose e ormai deserte di Zandvoort aan Zee.

Quando esco nel piazzale della struttura alberghiera, il paesaggio


intorno è totalmente mutato. Non resta nulla del caos di qualche ora prima,
la battigia è deserta ad eccezione di qualche coppia che si attarda o di
qualcuno che porta a spasso il cane. Ha un’aria vagamente spettrale e
bohémienne nell’incedere placido della sera. Adesso ha davvero l’aria di
una località turistica fuori stagione. Tutto è immerso nel silenzio, mentre
cammino in direzione della stazione centrale ripercorrendo a ritroso la strada
che avevo fatto all’arrivo. Sono l’unica persona in giro e mi fermo divertita
a osservare le vetrine delle boutique chiuse. Ho l’impressione di essere a
Ortigia con tutti quei negozi che vendono cappelli di paglia, costumi, ampi
abiti bianchi o colorati, leggeri, impalpabili. Noto dei sandali bellissimi che
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avrei comprato immediatamente. Non rimane nulla dell’angoscia che mi ero


portata dietro. Il mare ha fatto il suo incantesimo. Finalmente trovo ben due
ristoranti aperti, uno messicano e l’altro caraibico. Decido di provare il
secondo e vengo avvolta da una sorridente ragazza con foltissime ciglia
perfettamente curvate. Appurate le opzioni vegetariane, mi fanno
accomodare in una saletta leggermente più appartata. L’arredamento è
stravagante, ovunque ci sono candele e fiori o piante che pendono persino
dal soffitto. Cibo e vino sono ottimi. Mi sento leggera e tutto ciò che mi
dava il tormento da giorni sembra essersi smaterializzato. Le uniche cose
reali adesso sono il profumo del mare che mi invade i polmoni, la bontà del
cibo che sto consumando, la serena gioia dei commensali nella sala accanto
dove c’è un compleanno. E il brindisi con lo chef venuto appositamente per
verificare che avessi gradito la cena. Mi chiede da dove vengo come mai mi
trovi lì, scambiamo due chiacchiere approfittando della calma in sala. Mi
mancava il mare, glielo dico così, semplicemente e lui annuisce. Il mio
estremo bisogno di consolazione ha fatto sì che un luogo mai visto prima mi
chiamasse a sé con la promessa della guarigione. Ma non si tratta solo di
questo.

Per avere un quadro completo avrei dovuto aspettare l’indomani a


colazione. Per posizionare l’ultimo prezioso tassello, avrei dovuto attendere
la mattina seguente. Terminata la cena, faccio un ultimo giro per le strade
deserte e silenziose dove l’unico rumore è l’incedere delle onde. In tasca
continuo a rigirarmi come un amuleto una conchiglia raccolta sul litorale.
Piccoli granelli si infilano sotto le unghie, altri mi solleticano l’epidermide.
L’aria è fredda, il calore diurno è solo un vago ricordo. Anche l’umido
sembra aggredire la pelle scoperta e affretto il passo, dando un ultimo
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sguardo alla luna che trionfa sopra di me. Sono felice del calduccio che mi
accoglie in camera e mentre attraverso il ventre dell’albergo realizzo che
somiglia a un’imponente nave. Gli incubi mi lasciano in pace e al risveglio
mi affaccio sul piccolo balcone vista mare, immergendomi nella pungente
aria del mattino. Noto qualcosa di diverso nella spiaggia, ma non metto a
fuoco cosa e corro a prepararmi per la colazione. L’area è enorme e c’è
molta più gente di quanto avrei immaginato. Mi metto in fila per le uova
strapazzate (che vacanza sarebbe senza?) e scelgo un tavolo isolato accanto
a un’enorme vetrata che affaccia sul mare. Improvvisamente, mentre gusto
la mia frutta appena tagliata, visualizzo cosa c’è di diverso nella spiaggia: ne
mancano vari pezzi e al loro posto si vede l’acqua. Accanto alle pozze,
simili a piccoli laghetti superficiali, compaiono dei grossi macchinari che
ricompattano la sabbia, ripristinando l’aspetto della battigia. Li avevo notati
anche il giorno prima, ma non mi ero soffermata per capire a cosa
servissero. Mi torna subito in mene il motto che avevo imparato a
Kinderdijk, un altro dei miei luoghi del cuore: Dio ha creato la terra, ma gli
olandesi hanno fatto l’Olanda. Ora so perché sono qui: per interiorizzare la
magia implicita nei luoghi e nelle persone di disfarsi e ricostruirsi. Di
perdersi e ritrovarsi. Di lasciarsi consumare dalle onde aspettando che ci
restituiscano o riformino i pezzi mancanti. C’è sempre un segreto di
rinascita in ogni disperazione. C’è una promessa di resurrezione anche dopo
la notte più buia. Imparare a stare al mondo non vuol dire evitare la
mezzanotte ma attraversarla con la fiducia necessaria ad accogliere l’alba.
Significa ascoltare il nostro ineludibile bisogno di consolazione e affidarci
alla geografia della salvezza. Significa, in breve, riprenderci lo spazio a noi
dovuto.
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ROTTERDAM E L’IMPORTANZA DI UN PORTO SICURO

Fra tutte le città olandesi che ho visitato negli anni, Rotterdam è quella
che mi piace meno. Eppure, è quella dove sono tornata più spesso. Dopo
Eindhoven che detiene la medaglia dell’orrore in cemento, Rotterdam è
quella che mi affascina meno proprio per quelli che sono considerati i suoi
punti di forza: architettura avanguardista, modernità a ogni costo, vitalità e
frenesia. Rotterdam è una città vivace dove sembra in corso qualcosa di
grandioso e scoppiettante. Siccome però io prediligo l’Olanda bucolica,
idilliaca (e sì, lo ammetto, anche molto stereotipata), Rotterdam non mi
intriga coi suoi grattacieli, con le sue stravaganti architetture e i suoi palazzi
futuristici. Ma qualcosa mi ha legata a sé dalla prima visita spingendomi a
tornare più e più volte e a usarla come punto di partenza per le mie
esplorazioni. Creo una routine in questa città che vibra come percorsa da
un’energia incontenibile e scelgo un albergo come culla dei miei passi. Si
chiama Bazar ed è collocato sulla via più cool della città. Il nome la dice
lunga su cosa ci si possa aspettare al suo interno. In ogni dettaglio, infatti,
richiama un bazar stracolmo di strani oggetti e una miriade di colori.
Oltrepassando la soglia della hall, mi ritrovo immersa nella luce soffusa e
rotonda che mi catapulta a latitudini ben più meridionali. Non importa se
tre passi fa c’era freddissimo e un vento insidioso strisciava come una lama
colpendomi la pelle. Qui dentro sembra di stare in Marocco con
quell’abbondanza di mobilio, di legno scuro e profumato, di pesanti
lampadari in argento con inserti colorati che pendono dal soffitto, di
massicci servizi da tè lucidati di fresco.
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Le stanze del Bazar sono tutte diverse, soprattutto le suite che credo di
aver provato tutte a rotazione. Con o senza baldacchino, con doccia o vasca
idromassaggio. Una in particolare la ricordo per esserci rimasta a mollo
oltre un’ora insieme a Gaia che si era appena laureata e si era lasciata
trascinare in giro per l’Olanda. Di ritorno da Keukenhof e Leida, dopo
chilometri e chilometri di camminate, ci siamo fiondate nell’acqua tiepida a
chiacchierare prima di trovare la forza per vestirci e andare a cena al
ristorante dell’albergo, altra chicca imperdibile. Il motto è: “Bazar incontra
il mondo” e il personale di sala sembra provenire da vari angoli del globo. Il
ristorante è un sogno multietnico a tre piani in legno massiccio con decine di
lampade pendenti. La luce che diffondono si mescola in un carosello di
colori che avvolgono chiunque si trovi al suo interno. Il locale è sempre
frequentato – dalla colazione alla cena – ma il weekend di sera è
praticamente impossibile trovare posto. Siamo grate di essere clienti
dell’albergo e di avere una corsia preferenziale nell’assegnazione del tavolo.
Ecco il momento più atteso, il vero pezzo forte del Bazar: il cibo. Che si
tratti dei pancake mille buchi serviti a colazione con miele, formaggi, yogurt
e frutta fresca o del menù alla carta, è tutto squisito. Sono tutti piatti della
tradizione mediorientale, dal Nord Africa al Libano, alla Giordania.
L’hummus ha una consistenza di velluto, si scioglie con un sentore speziato
che permane a lungo sul palato spingendoti a individuare quale sia
l’ingrediente responsabile di quell’alchimia. Le prelibatezze vengono servite
su piatti riccamente decorati a mano e portate ai tavoli su enormi vassoi che
sembrano pesare una tonnellata.

A parte mangiare e dormire, il motivo per cui vado spesso a


Rotterdam pur non amandola particolarmente da un punto di vista estetico è
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dato dai collegamenti. Usando la città come base di partenza, è semplice


spostarsi praticamente ovunque. Dato che l’ho visitata parecchie volte negli
anni, è un ottimo esempio di come il mio approccio al viaggio sia mutato nel
tempo. La prima volta sono arrivata con la mia solita lista di cose da fare e
luoghi da vedere, ho trascorso ore fra un museo e l’altro senza che nulla si
conquistasse un fotogramma per l’eternità. L’unica cosa che rimane dalla
prima visita in città è il coffee shop in cui mi imbatto di ritorno all’albergo.
Questo luogo sarebbe diventato parte della geografia sentimentale legata a
Rotterdam. A scanso di equivoci, lo preciso: non ha niente di particolare o
degno di nota. L’arredamento lasciava molto a desiderare con quelle pareti
bianche e i tavoli di legno privi di qualsiasi attrattiva. Tuttavia, qui ho
passato ore a leggere, scrivere, bere tè alla pesca o al limone e osservare gli
avventori presenti. Un sabato pomeriggio, m’imbatto in una chiassosissima
comitiva di ragazzi e ragazze appena maggiorenni che rendono impossibile
concentrarsi. Quando sono andati via, tutta la sala ha tirato un sospiro di
sollievo. Un’altra volta, invece, accanto a me c’era un ragazzo che avrà
avuto poco più di diciott’anni e una donna dal ruolo indefinito. Anche
volendo farmi i fatti miei, era impossibile non ascoltare la conversazione e
iniziare a fare congetture. Dopo mezz’ora di elucubrazioni e spionaggio da
quattro soldi, ho concluso che si trattava della nuova compagna del padre
del ragazzo che ricorreva continuamente nella conversazione come un
semplice “he” o più raramente come “your father”. Ho cercato di ambientare
altrove quella stessa scena senza riuscire a trovare alternative credibili. Così
ho concluso che ci sono cose che non puoi astrarre dal luogo in cui si
verificano senza renderle ridicole o grottesche.
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Un altro dei punti forti del coffee shop anonimo cui mi sono subito
affezionata, era proprio la sua collocazione in prossimità dell’albergo e del
suo impareggiabile ristorante. Appena inizio ad avere fame, basta scendere
la scala, uscire, percorrere la via fino alla fine e sedermi a uno dei vari
tavolini. A seconda dell’orario e man mano che si fa tardo pomeriggio o
sera, il percorso si affolla di la gente che si accalca fra i locali attaccati uno
all’altro fino al mio hotel. Witte de Withstraat riecheggia del vociare di
centinaia di ragazzi e ragazze cui si mischiano canzoni e strumenti dal vivo.
Se mi manca il mare, basta spingermi oltre la fine della via, svoltare qui e lì
e arrivare alle case galleggianti. Mi avventuro spesso fin lì: una ha dei fiori
vermigli sul davanzale ed è pitturata di azzurro. C’è un vaso vuoto nel lato
interno della finestra. Me ne accorgo perché viene colpito da un raggio di
sole che – trafiggendo il vetro – sparge riflessi colorati tutto intorno.

La luce rimane un mistero in Olanda. Ha consistenza e carattere


propri. Nulla a che vedere con la luce cui sono abituata io in Sicilia dove
ogni cosa appare più netta, vivida e sfrontata. I contorni dei miei paesaggi
natali sono tagliati con lama affilata e precisione chirurgica. Nei Paesi Bassi
tutto appare sfumato, morbido, sinuoso, evanescente ed effimero. Finché
qualcosa emerge prepotente dalla quiete intorno come il vaso che si impone
al mio sguardo dal riservato angolo della sua esistenza. Fra il 2014 e il 2016
sono tornata svariate volte a Rotterdam usandola sempre come punto di
partenza per ulteriori esplorazioni. Da qui sono arrivata a Gouda e al suo
adorabile mercato del sabato mattina dove la piazza centrale si trasformava
nel paradiso dei latticini. Sono andata a Leida dove ho mangiato le
stroopwaffel al caramello su un lungofiume stracolmo di bancarelle. Sempre
da Rotterdam ho raggiunto Kinderdijk che coi suoi mulini si è guadagnato la
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nomina a patrimonio dell’Unesco. Sono andata a Utrecht un venerdì


pomeriggio in cui il bel tempo aveva spinto centinaia di persone a godersi il
sole su uno degli innumerevoli canali e a bere con gli amici. Mi sono spinta
a Dordrecht col water bus in una mattina di pioggia e vento che sembravano
infastidire solo me. Arrivata a destinazione, attenta a non scivolare in acqua,
tutta traballante, mi sono avventurata fra varie stradine fino ad arrivare a
un’imponente chiesa e a trovare riparo in un caffè che odorava di vaniglia.
Fatto sta che – fino alla fine – non conosco quasi nulla della città e una volta
date le dimissioni in Germania, decido che devo tornarci per accomiatarmi
dai suoi vicoli e dai suoi grattacieli. Devo ringraziarla per le fughe che mi ha
assicurato senza mai deludermi, per essere diventata il mio rifugio
incrollabile e un porto da cui partire per nuove esplorazioni. Questa volta
non andrò molto in giro, ma mi dedicherò a lei. Glielo devo.

Casualmente scopro la parte vecchia di un luogo che sa ancora


stupirmi, regalandomi scorci inaspettati. Non so perché non abbia prestato
attenzione a questo quartiere in precedenza: avrebbe dovuto essere in cima
alla lista del mio periodo di schemi e segnalibri sulla guida. Invece ci ho
messo due anni per arrivare a Delfshaven una domenica mattina tiepida
nonostante sia novembre. Vengo catapultata in una dimensione lontana dal
caos mondano di Witte de Withstraatt: eccomi nell’Olanda che preferisco,
dalle fattezze un po’ retrò, coi suoi romantici canali, le sue case inclinate e
le facciate pastello. C’è il mercato e molte delle persone presenti indossano
abiti tradizionali. Le donne hanno ampie gonne beige con abbondanti
grembiuli bianchi e velette in testa. Portano al braccio dei panieri di vimini
per gli acquisti. Le bancarelle offrono ogni ben di dio: formaggi di varie
forme e gusti, confetture, miele, tessuti ricamati sul momento. Sono l’unica
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della mia età, gli avventori sono tutti molto più grandi. È ancora mattina
presto. L’atmosfera è sonnolenta e rilassata, i bar sono vuoti e i tavolini
rimangono in attesa di clienti. Nella quiete del mattino, mi spingo fra ponti e
canali lungo la via del mercato: è il commiato perfetto da una città dove
sono tornata spesso in cerca di consolazione e adrenalina. Mentre ne scrivo,
rievocando i giorni felici che vi ho trascorso, mi rendo conto di quanto
Rotterdam sia stata cruciale durante i miei anni da expat, nella mia
evoluzione come persona e come viaggiatrice. Mi manca: devo rivederla al
più presto.

Esiste una bellezza oggettiva dei luoghi che si manifesta nel paesaggio
e nella cultura. Espressioni artistiche, paesaggi mozzafiato, architetture
imperdibili che connotano l’anima di una città. Ogni luogo ha un corpo che
lo distingue dagli altri, benché a renderlo veramente speciale sia lo sguardo
di chi lo attraversa. Una collina è solo un pezzo di terra rialzata e
potenzialmente sdrucciolevole senza l’anima di chi la percorre. Ed è proprio
la compenetrazione coi luoghi che visitiamo a renderli speciali. Più che
altrove questa cosa l’ho imparata ad Hannover, una città comunemente
considerata insulsa. Ancora adesso i colleghi mi prendono in giro per questa
mia fascinazione nei confronti di Hannover. Ancora oggi, dopo molti anni
dal weekend che ho trascorso lì, conservo svariati ricordi. Uno su tutti: la
felicità. Quando visito Hannover, sono felice e quella gioia me la porto
ancora dentro a distanza di anni. Il tempo non è dei migliori. È novembre, il
cielo è basso e grigio. Mi guasta la festa di colori che altrimenti avrei avuto
sul lungofiume con le Nana di Niki de Saint Phalle. Le statue catturano
l’attenzione di chi passa con le loro abbondanti curve e le tonalità sgargianti.
Sta per cominciare a piovere e sento il morso prepotente della fame che
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insieme al sonno è l’unica autorizzata a dettare legge durante le mie fughe.


Attraversando un viottolo angusto, arrivo su una piazza stracolma di piante,
grossi vasi, aiuole, fiori, supporti in legno per rampicanti. Sulla sinistra
vedo una targa che mi incuriosisce e mi fa entrare in un'altra viuzza
laterale fra edifici color pastello ricostruiti dopo i bombardamenti della
guerra. Poco oltre, scorgo un memoriale che indica i biscotti Leibniz
divenuti nel tempo uno dei simboli della città. Nulla di importante, in
definitiva. Solo una piccola curiosità che sconoscevo. Trovo un posto per
cenare anche se è ancora presto e quando finisco mi avvio verso l’albergo
con una strana contentezza nel cuore. No, Hannover non è solo una città
grigia e noiosa. È una delle prime tappe del mio nomadismo itinerante, una
delle prime sperimentazioni del viaggiare sola. I primi passi in attesa di
spiccare il volo.

Burkina Faso e la difficoltà del ritorno

Quando arriviamo al Giardino delle Donne il sole è alto in cielo e il


sonno del post-pranzo mi chiude gli occhi. Ho esagerato col platano fritto e
ora vorrei dormire al fresco. Invece ci mettiamo in macchina e affrontiamo
il tragitto verso XXX. Il paesaggio di terra rossa è puntellato di solitari
baobab che si stagliano contro il cielo azzurro. Uso il finestrino come fosse
lo schermo di una tv, interamente assorta nei miei pensieri mentre gli altri
due passeggeri parlottano fra loro. Oltre il vetro, scorre frenetica la vita,
soprattutto in prossimità dei villaggi e dei punti di sosta ai margini
dell’autostrada. Alcuni snodi ricordano i nostri caselli, ad eccezione delle
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decine di venditori e venditrici che si accalcano tutto intorno ai veicoli


fermi. Non so quanti bambini si avvicinano a noi per venderci qualsiasi
cosa, mentre poco più distanti donne avvolte in stoffe colorate friggono in
enormi pentoloni anneriti. Altre ridono di gusto reclinando la testa e
svelando una dentatura perfetta, altre ancora transitano a piedi di lì con la
loro cesta di panni sospesa sul capo. Gli affari vanno avanti: c’è chi compra
gasolio in bottiglie di vetro da un litro, chi negozia il prezzo dei manghi e
chi spacchetta biscotti al sesamo. I bambini corrono speranzosi verso ogni
nuova macchina che si ferma e alla fine anche noi ci facciamo tentare dai
biscottini. Ogni mercanzia è avvolta nella plastica. Tremo al pensiero di
come si disperderà nell’ambiente soprattutto perché la vedo ovunque. Anche
l’acqua è porzionata in piccole bustine di plastica che equivarranno a uno,
massimo due bicchieri. Arrivati a destinazione veniamo accolti da una
ventina di donne che hanno riscattato un terreno considerato brullo e non
redditizio per coltivarlo e sfamare le proprie famiglie. Gli appezzamenti di
terra sono diventati la principale fonte di reddito del loro nucleo familiare e
un sostentamento per l’intera comunità fino ai villaggi vicini. Una donna si
fa avanti. È la rappresentante del gruppo ed è incaricata di illustrare origine
e finalità di questo progetto di agricoltura sostenibile. Si tratta di un unicum
in un paese come il Burkina Faso dove alle donne non è consentito
possedere la terra, monopolio esclusivo degli uomini che in questo caso
hanno dovuto acconsentire espressamente affinché si utilizzassero i fondi
destinati all’agricoltura sostenibile di Amani Nyayo (la onlus con cui sono
partita e che da anni finanzia attività agricole e sanitarie). Le osservo una
per una e ci scambiamo timidi sorrisi. Quasi tutte hanno con sé almeno un
figlio che dorme sulla schiena o poco lontano all’ombra di un maestoso
albero. Altri bambini giocano intorno a noi, incuriositi da questi strani
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viaggiatori. Alcuni dei luoghi che visitiamo sono così remoti che saremo gli
unici ospiti in tutto l’anno. Il progetto del giardino nasce per aiutare le
donne a gestire meglio la vita familiare e lavorativa: casa e cura dei bambini
- qui come ovunque nel mondo – pesano inevitabilmente sulle spalle delle
madri. In questo modo hanno la possibilità di organizzare il proprio tempo
al meglio.

Mentre percorriamo i sentieri di terra compatta che delimitano i


singoli appezzamenti, con l’aiuto di Suor Augustine, ogni donna cerca di
affidarmi un pezzo della propria storia e mi mostra orgogliosa il frutto dei
propri sacrifici. Si coltivano soprattutto piante usate per fare sughi e verdure
utili per preparare i pasti quotidiani o per venderle al mercato. Helene,
trent’anni, alla fine del sopralluogo, mi mostrerà orgogliosa la capra che ha
comprato coi risparmi racimolati grazie alla vendita delle sue cipolle. “Non
avrei mai pensato che un giorno avrei avuto dei soldi miei” confessa ridendo
con evidente timidezza. Ma non si tratta solo di soldi e cibo. Questo
progetto rafforza lo spirito di solidarietà all’interno dei villaggi coinvolti, le
donne si aiutano e supportano fra loro, stabilendo in autonomia quanto e
quando lavorare. Inevitabilmente mi domando cosa ne sarebbe stato di me
se fossi nata qui. Avrei scritto una storia totalmente diversa, anzi
probabilmente qualcuno l’avrebbe scritta per me. Devo sembrare ben strana
da sola con quattro uomini in giro per il paese. Il sole comincia ad
abbassarsi all’orizzonte e ci avviamo nell’area della diga dove ci
sorprenderà uno dei tramonti più spettacolari che io ricordi. Lungo il
sentiero per arrivarci, siamo immersi fra alberi e arbusti mentre una
processione di donne coloratissime cammina nella direzione opposta alla
nostra. Sulle schiene hanno quasi tutte delle creature che dormono, in
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equilibrio sulla testa portano lunghissimi rami tagliati di fresco. I campi si


snodano intorno a noi. Arrivati al pozzo, è la golden hour e tutto viene
avvolto in colori pastello. Dominano il rosa e l’indaco. Sembra di stare
dentro un miracolo che avvolge ogni creatura – animale, vegetale, umana –
in un’atmosfera soffice e rarefatta.

Arriva il momento di accomiatarci, il viaggio del ritorno sembra più


lungo e il blu della notte pian piano cala sul paesaggio circostante. Andando
a letto, come ogni giorno, ho bisogno di tempo per rielaborare gli
avvenimenti della giornata. Non essendo sola e soprattutto seguendo col
gruppo una scaletta fitta di impegni e spostamenti, le giornate sembrano un
frullatore dentro cui butto ingredienti di vario genere. Prendo note, spargo
appunti, faccio foto per ripercorrere le tappe del viaggio. Alcune immagini
si imprimono nella memoria e mi danno il tormento finché non ne scrivo
compiutamente. In varie occasioni, mi servono giorni per recuperare la
giusta distanza dalle cose ed elaborare la tempesta interiore che impazza
dentro di me. Il leitmotiv del viaggio sarà la costante oscillazione fra baratro
e meraviglia, fra speranza e disperazione, fra fiducia e sconforto. Non
volendo scrivere in uno stato emotivo disperante o estatico, rifuggendo gli
estremi per tentare un minimo di equilibrio, devo attendere che le emozioni
si sedimentino. La visita al centro di salute materna e infantile, ad esempio,
mi metterà a dura prova in occasione delle visite ambulatoriali. Il mercoledì
è il giorno in cui si possono effettuare i controlli di follow-up e ritirare
eventuali medicine prescritte ma introvabili altrove. Si cammina per ore pur
di arrivare in tempo dai villaggi. La vita di interi nuclei familiari viene
alterata per questo evento. Le pazienti sono soprattutto donne, pochissime
vengono accompagnate dai mariti impegnati al lavoro. Sono qui per far
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controllare il peso dei figli ed evitare ricadute. Quasi tutti i bambini sono
stati ricoverati per casi di malnutrizione più o meno grave. Veniamo
presentati al gruppo di donne in attesa del proprio turno nel cortile interno,
alle spalle del dispensario che vede incrementare costantemente il numero di
pazienti in arrivo. Suor Augustine ci aiuta a intervistare queste madri che
spesso ignorano la propria età, ma descrivono con dovizia di particolari
l’esperienza vissuta qui alla struttura. Le suore e lo staff medico hanno
salvato centinaia di vite umane e la gratitudine è evidente sui volti delle
donne presenti. Hanno fra i venti e i quarantacinque anni. Una di loro si
chiama Zonabo, ha meno di trent’anni e ha già perso un figlio per
malnutrizione, mentre le altre tre bambine – che oggi sono qui con lei e non
stanno ferme un secondo – sono state ricoverate in tempo. Sono rimaste un
mese intero al centro sanitario. In bilico fra la vita e la morte. A giudicare
dal baccano che fanno adesso, però, sembrano perfettamente ristabilite
come confermerà anche la visita a seguire. Finita l’emergenza vengono
prescritti controlli regolari cui le bambine si sottopongono senza troppe
storie. Insieme alla donna ci sono due bambine approssimativamente di sette
e dieci anni che dovrebbero essere a scuola ma hanno dovuto accompagnare
la donna per aiutarla a gestire le figlie.

Ci fissiamo a lungo mentre le suore pesano le bambine infilandole


dentro un’imbracatura blu che sembra un’altalena, non fosse per il grosso
cerchio che fa da bilancia. La grande ha uno sguardo intriso di tristezza.
Vorrei accarezzarla e chiederle cosa sogni per il futuro. Vorrei sapere se le
piacerebbe studiare invece di fronteggiare le drammatiche conseguenze di
una situazione di cui non ha colpa. Appartata, poco lontana da noi, noto una
ragazza dall’aspetto giovanissimo che allatta la figlia: è una scena intima e
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riservata, in netto contrasto con la frenesia della veranda dove c’è un viavai
continuo di persone di ogni età. Loro due sembrano avulse dal contesto in
cui si trovano. La ragazza sorride alla bambina sfiorandole la fronte con un
gesto dolcissimo che custodisce in sé il filo rosso che lega una madre a sua
figlia. Ad un tratto, si accorge di me e sorride sollevando piano la mano
libera, quella con cui un attimo prima accarezzava dolcemente la piccola.
Subito dopo ritorno alla realtà, continuando a chiedermi chi sarei stata se
fossi nata e vissuta in circostanze totalmente diverse. Osservo l’ambulatorio
dove si effettuano le visite. Forse anche io sarei venuta qui con un figlio o
una figlia sull’orlo della morte perché non posso nutrirli a sufficienza. Prima
si verifica il peso trattenendo il sospiro finché la lancetta della bilancia non
decreta che siamo fuori pericolo. Dopo è il momento dei sorrisi o dei visi
corrugati (pochi, forse nessuno quel giorno): le terapie stanno funzionando.
Il peso viene annotato da un’altra suora che compila la cartella clinica
stabilendo la data per la prossima visita di controllo. Questa è casa loro, mi
dico, quando le vedo abbracciarsi per la felicità. Casa loro è un posto dove si
muore da un momento all’altro perché non sai come dar da mangiare ai tuoi
figli. Non c’è una guerra, eppure muoiono come mosche senza le giuste
cure. Un’esperta di malnutrizione spiegherà che il dramma vero è che si
muore soprattutto per ignoranza, più che per effettiva carenza. Il nutrimento
lo avrebbero anche a disposizione, ma mancano i fondi per organizzare
workshop itineranti che spieghino alle famiglie come usare gli alimenti
reperibili al meglio per creare pasti arricchiti. Ecco casa loro, quella
sbandierata in Europa come argomentazione per chi tenta di trovare una vita
migliore. Eccoli i potenziali migranti economici, un’etichetta vuota che
serve solo a sminuire il dramma di milioni di persona in fuga per motivi che
noi non riusciamo nemmeno a immaginare.
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Anche a questo serve viaggiare: smontare falsi miti, pregiudizi, vane


retoriche. Benché la missione duri solo dieci giorni, sono sufficienti a capire
con maggior profondità la mia fortuna e l’ingiustizia subita da altri. A fine
mattinata, quando i controlli si sono conclusi e anche la fila al dispensario si
è diradata, ci rimettiamo in strada. Non prima di un ultimo pugno allo
stomaco, però. Suor Augustine mi chiama, facendomi cenno di raggiungerla
al reparto maternità. È un edificio basso con qualche stanza identica a quella
usata per le visite di poco prima. Sulla parete della saletta all’ingresso
campeggiano varie foto di neonati e mamme in varie fasi della gravidanza.
In molte ci sono le suore del centro che fiere sorridono davanti all’obiettivo
coi piccoli in braccio. Rimango qualche istante da sola e ho il tempo di
allungare lo sguardo fino a una stanza laterale che funge da studio. Sulla
modesta scrivania ci sono vari registri contabili e si istruiscono le pazienti
sul da farsi. Mi domando quante donne o ragazze siano passate di qui con la
propria gioia o la propria disperazione. Chissà se qualcosa rimane
avvinghiato alle pareti o permea il terreno in modo da conservare traccia del
loro passaggio. In centinaia, dall’apertura del centro sanitario, hanno
usufruito dei suoi servizi e molte di più ne avrebbero bisogno ma non sanno
come arrivare. Questo posto ha salvato la vita a un numero imprecisato di
madri e bambini grazie alle amorevoli cure di tutto lo staff sanitario.

La voce di suor Augustine mi riporta alla realtà, chiamandomi dal


corridoio della nursery e invitandomi a seguirla. Ha una strana felicità negli
occhi e dopo qualche passo capisco il perché: qualche ora fa è nata una
bimba e noi siamo nella camera dove riposa la puerpera vegliata dalla
madre. Fra loro, dentro una cesta come fosse una bambola, dorme silenziosa
e beata la nuova creatura nel tentativo di riprendersi dalla fatica di venire al
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mondo. La neomamma mi rivolge un sorriso stanco, prima di chiudere gli


occhi, mentre la nonna mi accoglie con calore prima di seguire suor
Augustine nel corridoio. Le osservo entrambe, la ragazza è giovanissima, la
piccola sembra disegnata da quanto è perfetta: nonostante tutto, è il
miracolo della vita a chiudere il cerchio di questa mia prima visita. Quando
la nonna ritorna al suo posto, lascio la stanza ed è davvero il momento di
proseguire il viaggio. “A stasera” mi dice fiduciosa la suora prima di tornare
alle sue incombenze. Lei e le altre sorelle ci avrebbero preparato la cena,
ospitandoci in una piccola struttura a due passi dal centro e quasi adiacente
alla gendarmeria locale. Proprio in quella stazione di polizia ci saremmo
registrati il giorno dopo l’arrivo. Proprio quella stazione di polizia sarebbe
stata barbaramente assalita da dieci attentatori il marzo successivo,
uccidendo un ufficiale locale. Ma adesso tutto scorre tranquillo.

I giorni di missione scorrono frenetici, le immagini si accumulano


nella memoria, le pagine che scrivo aumentano a dismisura, non ho il tempo
necessario a metabolizzare ogni esperienza. Verso la fine della permanenza,
prima di rientrare a Ouagadougou per i voli verso casa, ci spostiamo a sud in
una località quasi al confine col Ghana che si chiama Léo. Durante il tragitto
– piuttosto lungo – il paesaggio cambia radicalmente e compare una
vegetazione rigogliosa impensabile nella brulla terra rossa del nord. Non più
solo sparuti arbusti e baobab, ma imponenti alberi dai tronchi robusti e le
fronde rigogliose. All’arrivo soggiorniamo in un albergo che ci sembra
super lussuoso dopo una settimana di dimore spartane. Qui abbiamo
addirittura acqua calda e aria condizionata, nell’area comune c’è addirittura
una piscina che non abbiamo il tempo di provare. Nella parte adibita al
ristorante, incontriamo i referenti locali che accolgono con affetto e
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cordialità. In sottofondo, immancabile, il parlottio dei gechi canterini che


sembrano costantemente produrre una sorta di schiocco. L’indomani
avremmo partecipato a un workshop di sensibilizzazione per insegnare a
preparare pasti arricchiti, ma per adesso ci vengono spiegati progetti,
modalità e punti deboli, fra cui –manco a dirlo – una costante mancanza di
fondi. Dopo cena, si va subito a letto. In camera con me c’è Ilaria,
un’infermiera toscana che ha fatto un mese di volontariato dalle suore di
Tougouri e rientrerà insieme a noi in capitale. Prima di sprofondare nel
sonno, abbiamo il tempo di scambiarci qualche impressione e confidenza.
Soprattutto sono curiosa di conoscere la sua esperienza ben più lunga,
profonda e intensa della mia.

Al workshop ci sono mamme e bambini ovunque. Hanno varie età, da


pochissimi mesi e tre, quattro o cinque anni. Alcuni dormono, altri giocano
con qualsiasi cosa capiti a tiro, altri sono in dormiveglia accoccolati sulle
schiene materne. Tutti avranno la loro merenda iper-nutriente distribuita a
fine dimostrazione. La struttura dove si tiene il workshop è anch’essa un
centro sanitario, ma molto più malandato di quello visitato a Tougouri. Il
direttore del centro ci riceve e facciamo una lunga chiacchierata insieme
dove ci spiega attività e problemi legati alla gestione del centro. Nemmeno a
dirlo, la strutturale mancanza di risorse è fra le prime spine nel fianco cui
vanno ad aggiungersi criticità quali sfollamento e terrorismo. Nonostante la
parte meridionale del paese sia decisamente meno in subbuglio del nord che
– confinando col Mali – è esposto a continui flussi di disperati e attacchi più
frequenti e violenti, l’instabilità non manca nemmeno qui. Non rimaniamo a
lungo: terminato il workshop, ci mettiamo in viaggio verso la capitale da cui
ci separa qualche ora di macchina. La sera successiva, inizieremo il
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turbolento rientro che a Istanbul subirà una notevole interruzione perché


perdiamo la coincidenza.

Non so se sia l’effetto della prima volta in Africa, l’intensità delle


esperienze vissute, le tematiche dei progetti supervisionati. Non so se sia
colpa dell’intollerabile atmosfera natalizia. Forse sono solo io a trovarmi a
un bivio della mia vita ulteriormente amplificato da quella missione sul
campo. Sta di fatto che per la prima volta, nonostante io sia una grande fan
del Natale, quell’anno lo detesto. Tutte quelle luci scintillanti, le canzoni di
festa, i pranzi e le cene eccessive e sconsiderate, i discorsi futili, i propositi
delle diete a gennaio, le navi dei sopravvissuti abbandonate a languire di
fronte casa ed esibite in tv come cotechini in vendita. I valori cristiani e la
crudeltà di negare un porto di sbarco nella mia città. È difficile isolare un
unico elemento che provoca il corto circuito dentro cui ho vissuto per oltre
un mese dal rientro senza riuscire a tornare al mio posto. I primi tre giorni
non mi immergo nemmeno nella città addobbata, vedo pochissime persone e
non provo a camuffare il mio malessere. Devo riabituarmi lentamente a
quello che mi sembra un circo opulento e insensato a fronte della gente che
muore di fame. Letteralmente. Per mesi continuo a valutare opzioni per
tornare in Burkina Faso, dalle suore possibilmente, e rendermi utile, ma non
si concretizzano e intanto la situazione di sicurezza interna al paese si
deteriora al punto da esplodere. Nel frattempo, sono disoccupata. Il periodo
più lungo senza un lavoro dall’esordio della mia carriera: un incubo di
instabilità e incertezza. Faticosamente, lentamente torno alla mia vita e a
giugno parto per Bali senza sapere che nemmeno un anno dopo sarebbe
arrivata la pandemia a imporre al mondo un’immobilità forzata e a me una
pausa dai viaggi lunga due anni.
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GILI MENO – COURTNEY

Quando conosco Courtney è da poco sorto il sole e il mondo fatica a


svegliarsi, avvolto nei drappi pastello dell’aurora. L’autista mandato da
Agung era arrivato leggermente in anticipo e io stavo finendo di prepararmi.
Mi sono accorta della sua presenza perché la donna che mi ospitava ha
bussato tutta esagitata alla mia porta indicandolo. Non era tanto lui il
problema, quanto il fatto che non sarei arrivata a fare colazione. Oltraggio.
Non scherziamo. Li osservo discutere per bilanciare due necessità
imprescindibili: arrivare in tempo al traghetto per le isole Gili e nutrirmi
adeguatamente. Io nel frattempo chiudo la valigia e lascio a loro il mio
destino: accordo trovato. Al povero autista viene offerta una tazza di caffè
cui sarebbe maleducazione dire di no. Mentre lo beve e carica in macchina i
miei bagagli, la donna premurosa e ciarliera impacchetta il mio cibo da
asporto. Solo allora e dopo vari inchini siamo autorizzati a lasciare la
dimora accogliente che ho chiamato casa a Ubud. Mi scende una lacrima
mentre saluto questa signora dolcissima e il resto della famiglia che si
appresta a riempire gli altari, pronunciando le prime preghiere. Si tratta di
un rito affascinante e misterioso ripetuto varie volte al giorno per
compiacere gli dei. In cuor mio conservo la speranza di tornarci in futuro e
gustare ancora i deliziosi dolcetti che quella donna mi preparava a
colazione.

Dopo circa quindici minuti in macchina, l’autista senza proferire


verbo si ferma davanti una porta alquanto anonima che però lascia presagire
la presenza di un centro yoga. Qualche minuto dopo, mentre l’uomo sistema
il suo trolley, Courtney sale a bordo e con un tono eccessivamente squillante
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si presenta, facendomi temere il peggio. Le viaggiatrici moleste mi


terrorizzano col loro continuo parlare – spesso a voce alta – e con la loro
fobia del silenzio. Io sono profondamente innamorata del silenzio e lo
ricerco, lo proteggo, lo custodisco e lo rispetto. Le do il benvenuto con
gentilezza e la prendo subito in simpatia. A pelle, capisco che non si tratta di
un’esemplare di viaggiatrice molesta, ma solo di una donna entusiasta della
vita. Schietta e amichevole nei modi. Racconta di essere stanchissima, di
non riuscire a trovare un ritmo veglia-sonno accettabile, di non aver quasi
chiuso occhio tutta la notte. “Sono sfinita”, confessa prima di abbandonarsi
a un placido sonno che durerà fino a destinazione. Fortunatamente non ho
patito troppo il jet-lag e non ricordo notti insonni. Certo, qualche orario
strano l’ho sperimentato anche io ma siccome in vacanza torno a uno stato
semi-animale non me ne sono preoccupata. Quando avevo sonno, dormivo.
A prescindere dall’ora. Così pian piano recuperavo. Avrei pagato tutto al
ritorno e con gli interessi. Al rientro riprendermi dal jet-lag sarebbe stato
ben più complicato.

L’irruenza di Courtney si placa nel giro di qualche minuto e la osservo


dormire dallo specchietto retrovisore. L’autista col suo immancabile
frangipane all’orecchio sorride annuendo quando se ne accorge. Il resto del
tempo, fischietta sommessamente e rimane concentrato sulla guida. Le
strade cominciano ad affollarsi: macchine, motorini, persone che ferme agli
incroci si accorgono di me e mi salutano sorridendo. Non so quanto duri il
tragitto, credo di essermi addormentata anche io a onor del vero, ma una
volta giunte a destinazione ci svegliamo entrambe di botto a causa della
confusione intorno. Ci sono decine e decine di persone, sole o con autisti
che si occupano dei biglietti come nel nostro caso. C’è chi grida, chi litiga,
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chi mangia patatine e beve coca-cola anche se non sono nemmeno le nove
del mattino. È un tutto un andirivieni di persone e io sono felice di avere
qualcuno che si occupi delle cose pratiche per non commettere errori in quel
marasma. L’autista ci dice dove aspettarlo e torna poco dopo con biglietti e
bagagli su cui ripone una etichetta col nome dell’isola dove siamo dirette. Io
vado a Gili Meno, Courtney a Gili Air mentre la prima tappa sarà Gili
Trawagan (l’isola dei party e dei surfisti). A bordo del traghetto
chiacchieriamo e scopro che anche lei viaggia sola. Ha una voce allegra e
nessuna ritrosia nel dirmi di essersi laureata qualche mese fa. “Ho capito che
era il momento di mettermi in viaggio, lasciare le poche sicurezze che avevo
a casa, mollare il lavoro e fare la valigia”. La invidio enormemente. Mi
sento vecchia per questo tipo di scelte, benché sappia che l’età è solo una
scusa. Mentre le persone andavano in una direzione di stabilità
preconfezionata, lei ha deciso di mettere qualsiasi progetto in pausa e partire
in giro per il mondo. Adesso è di ritorno dallo Sri Lanka dove l’ha raggiunta
un’amica e dove hanno vissuto giorni intensi e appaganti. Dopo l’attentato
era tutto vagamente spettrale, ma la cordialità della gente del posto risolveva
ogni problema. Una sera si sono trovate in una località sperduta senza
sapere dove dormire finché il proprietario del ristorante dove stavano
cenando non ha capito la loro difficoltà e ha chiamato un amico. Poco dopo
è arrivato un uomo che ha aperto il suo albergo temporaneamente chiuso per
ospitarle. È una di quelle situazioni a rischio in cui se succedesse qualcosa
di brutto, le vittime verrebbero accusate di stupidità, superficialità e chissà
cos’altro. Eppure, viaggiare sole significa allenare i sensi e le antenne per
captare anche i minimi segnali di pericolo. La pancia non è un organo
totalmente affidabile, ma spesso ci azzecca. Viaggiare sole significa fidarsi.
68

Aprirsi al mondo, accogliere e farsi accogliere. Spalancare le braccia con


speranza.

Courtney ha dieci anni in meno di me che bonariamente la ascolto


come una vecchia zia. Durante la traversata – che dura circa due ore – ci
schiudiamo l’una all’altra, dando voce e consistenza alle nostre solitudini. Il
racconto parla di sofferenza e conquista, cuce ricordi e scioglie dolori. Mi fa
sorridere quando mi parla della sua insofferenza verso chi le chiede
continuamente quando intende trovarsi un fidanzato con cui sposarsi e
metter su famiglia. La rassicuro che fra qualche anno si rassegneranno e
smetteranno di chiederlo. Un attimo dopo, come un lampo, spezza il
silenzio: “Io non voglio un uomo. Io voglio biglietti aerei”. Anche io,
Courtney. Anche io. Perché nessun luogo mi ha mai delusa. Nessun viaggio
mi ha ferita, umiliata o spezzata. E non posso dire la stessa cosa degli
uomini. Ai luoghi posso affidare la mia solitudine nella certezza che la
dissiperanno almeno temporaneamente. Agli uomini non c’è davvero nulla
che io possa affidare senza il timore di vederlo frantumato. Il tempo vola e
ci scambiamo numeri e profili social per rimanere in contatto. La seguirò
per mesi nella speranza di incontrarla nuovamente in Europa, ma la
pandemia altererà i suoi piani costringendola a tornare a casa. Fino ad allora
però le sue foto piene di donne in viaggio da sole hanno continuato ad
alimentare la speranza di un mondo più a misura dei nostri desideri. Credo
molto in questo nuovo femminismo itinerante che forse ha poco in comune
con quello teorico almeno nelle forme esteriori. Ma che in fondo continua la
stessa lotta di riappropriazione dello spazio e del corpo: un passo dopo
l’altro costruiamo il futuro, rendiamo il pianeta un posto più sicuro per chi
lo attraversa e superiamo stereotipi. Abbattiamo preconcetti, limiti e ostacoli
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avventurandoci sole in luoghi considerati pericolosi o remoti. Prepariamo i


nostri bagagli e rinunciamo alla protezione da parte di un uomo per
esplorare posti mai visti. La libertà è un concetto molto concreto e
pragmatico: ci scambiamo consigli e suggerimenti, oltre che confidenze, ci
predisponiamo a incontri casuali e brevi ma significativi. Accettiamo che il
tempo assuma un peso e un valore diversi nelle relazioni che viviamo.
Rompiamo lo stereotipo della donna come creatura fragile e volubile così
congeniale al patriarcato.

Fra i molti luoghi comuni su una donna che viaggia sola ce ne sono
due opposti fra loro. Da un lato, lo spauracchio della solitudine che diventa
sinonimo di noia e tempi morti. Dall’altro, il viaggio come flirt continuo con
uomini diversi tutti pronti a offrire la propria compagnia. Nessuno dei due
corrisponde al vero per quanto mi riguarda. Mai collezionato flirt come
souvenir durante i miei viaggi sola. Mai corso il rischio di annoiarmi in
compagnia di me stessa. Semmai il contrario. Semmai ho patito la mancanza
di solitudine. Fin dai primi spostamenti in Germania, ho potuto scardinare i
luoghi comuni sui suoi abitanti e non c’era modo di sottrarmi all’irruenza
dei nonni tedeschi che incontravo. Nonostante evitassi di entrarci in contatto
per via della lingua che parlavo poco e male, dovevo arrendermi al fatto che
loro volessero comunicare. Pur denunciando subito la mia provenienza nella
speranza capissero che era inutile provare a parlare con me, di solito sortivo
l’effetto opposto. Scoperte le mie origini, partivano i racconti nostalgici
delle loro vacanze, di tutti i cibi mangiati, di tutti i corsi di italiano iniziati e
mai finiti. E poi piovevano i complimenti per il mio tedesco: una bugia che
ho sempre trovato adorabilmente utile. Nove anni dopo posso affermare con
certezza che devo soprattutto a loro l’apprendimento di questa lingua
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complicatissima che non padroneggerò mai in fondo. Finora, la mia


condizione di donna che viaggia sola ha sempre generato grande curiosità,
avvolgendomi in una bolla di spontanea protezione e gentilezza. Nei
camerieri invece per lo più genera confusione perché automaticamente –
quando chiedo un tavolo per una persona – allungano lo sguardo per vedere
chi mi accompagni. Finora nessuno si è mai sentito autorizzato a interpretare
la mia solitudine come un invito al flirt. Al massimo ho guadagnato la
compagnia di altre simili che hanno condiviso più cene di quante avrei
spontaneamente desiderato. Tuttavia, degna di nota è la sintonia immediata
che si instaura e spinge alle confidenze. Ero una sorta di campo neutro e io
stessa ho provato la sensazione liberatoria di poter affidare pezzi della mia
storia a persone che verosimilmente non rivedrò mai più. Qualche giorno
dopo, rientrata sull’isola degli dei e programmata un’escursione per vedere i
delfini, a Lovina – il posto più desolato del mio percorso balinese – avrei
incontrato Claudia e Nayla dal Messico. Madre e figlia di sei anni in viaggio
per due mesi in sud-est asiatico che trovo in compagnia di un’altra donna:
Claudia, dal Cile, che parla pochissimo inglese ma trascorrerà tutta l’estate
fra Malesia, Bali e Tailandia. Anche con loro sarebbe nata una splendida
intesa che rimane tutt’oggi e avrebbero fatto da preludio all’ultimo
frammento del mio puzzle di amicizie femminili. A Changgu, infatti, avrei
incontrato Dotty che mi avrebbe ospitata nella sua villetta cucinando per me
una squisita cena tipica dell’isola di Java da cui proviene. Quella sera, dopo
innumerevoli pasti in solitaria, mi ricorderò della differenza fra cibo e
nutrimento.

Al netto della mia esperienza, posso affermare con certezza che la


solitudine è solo l’ennesimo spauracchio da agitare contro il desiderio di
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libertà delle donne. È funzionale a mantenerci mansuete, vagamente


sottomesse e addomesticabili per non alterare la posizione dominante degli
uomini. Riprenderci lo spazio pubblico – strappandolo alla retorica del
pericolo – e camminare sentieri diversi sperimentando un ritmo solo nostro
è una cruciale forma di liberazione personale e collettiva. Solo
sperimentando vari cammini troveremo la nostra voce e conquisteremo il
nostro posto.

Dotty, la differenza fra cibo e nutrimento - Seelenmassage

Quando Leni viene a prendermi alla guesthouse dove ho dormito non


mi sembra una follia salire sul motorino con zaino e trolley. La ragazza
parla pochissimo inglese, ma ha un sorriso talmente affabile che mi
convinco seduta stante che tutto andrà bene. Tre minuti dopo – mentre
serpeggia a velocità suicida nel traffico incomprensibile di Changuu – non
ne sono più così sicura. Ripenso alla mia assicurazione di viaggio e prego di
non averne bisogno. Con lei in bilico agli incroci e il mio trolley sempre sul
punto di schiantarsi a terra, decido di fregarmene dello spavento e godermi
il viaggio fino alla casa della mia prossima host. Ho scelto Dotty con
estrema cura fra chi offriva esperienze sull’isola degli dei e presento già che
andrà tutto a meraviglia. A condizione di arrivare viva a destinazione. L’ho
selezionata perché propone una cena tipica dell’isola di Giava da cui
proviene e perché le recensioni non fanno che sottolineare il lato umano
oltre che culinario dell’esperienza. Chiunque vada a cena da Dotty viene
coccolato dalla sua dolcezza e quando la trovo sulla soglia ad accogliermi, il
suo abbraccio diventa casa. Le sue braccia si trasformano nel nido che
cercavo per ripararmi dalle turbolenze del periodo che sto affrontando a
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livello umano e professionale. Senza contare che vengo da una notte di


sonno pessimo. Mi sento al riparo nella stanza al pianoterra che per un caso
fortuito è libera. “Di solito non ho mai posto perché ospito sempre nomadi
digitali”, confessa mentre entriamo in casa. “Per mesi nella tua stanza ha
vissuto una ragazza tedesca che si occupava di marketing digitale. È partita
ieri”. Fluttua, Dotty. Sembra non toccare il suolo mentre mi guida nel
soggiorno e mi fa accomodare nella mia stanza immacolata. Sono dove devo
essere. Il letto col baldacchino sarà la cuccia dove placare l’ansia che mi
aggredisce il respiro. È minimalista, ma confortevole. Ha un’enorme finestra
che occupa quasi per intero una parete che affaccia sul giardino intero con la
piscina. Tutto questo è per me. Gli enormi cuscini sotto il gazebo in legno
che riparano dal sole ancora alto, l’acqua fredda dentro cui immergermi e
nuotare indisturbata, gli odori e lo sfrigolio del soffritto che arriva dalla
cucina offrendomi un anticipo della cena.

A differenza di tutti gli altri posti che erano in città, la casa di Dotty si
trova in campagna, immersa fra le verdi risaie. Improvvisamente mi chiedo
come farò a trovare un centro estetico per il massaggio quotidiano che è
divenuto parte integrante della mia routine. Dotty viene in mio aiuto e dieci
minuti dopo si palesa una sua conoscente con tanto di materassino sotto
braccio. Non parla inglese se non a monosillabi e mi regalerà un’ora e
mezzo di pura estasi al punto da farmi addormentare. Mi sveglio poco prima
del tramonto. A quel punto, la mia host mi incoraggia a fare un giro vicino
casa verso i campi di riso. I templi sono ricolmi delle immancabili offerte
votive. Se ne trovano ovunque in un costante ringraziamento agli antenati e
alla terra. Fiori, foglie intrecciate per farne cestini, piccoli cracker rotondi,
caramelle e riso. Davvero sorprendente la fame delle divinità balinesi. La
73

risaia dietro casa è lo scenario perfetto per questo tramonto. Il silenzio è


quasi totale. Arrivano un papà con la figlia per giocare con un aquilone
arancione che si libra nell’aria. Mi salutano con dolcezza e mi vengono in
aiuto quando dal nulla si materializzano vari cani randagi che ci abbaiano
contro. Usciamo insieme dal campo di riso, pronti a rientrare a casa con
l’umore guastato dai latrati che si sentono in lontananza dietro di noi. Ho
giusto il tempo di sistemarmi che la cena da Dotty è servita su una ricca
tavola imbandita. L’odore che sprigionano le pietanze è squisito, il
languorino che avevo presentito si trasforma in fame vera e non vedo l’ora
di assaggiare tutto. Cerco di mangiare più lentamente possibile per non
saziarmi subito. Ardua impresa. Beviamo l’acqua di cocco che lei stessa
produce e rivende. Nel frattempo mi fa varie domande e la conversazione
fluisce leggera.

Le confesso di essere allo sbando: disoccupata, senza prospettive


concrete di lavoro, temo di dovermi trasferire ancora una volta in un luogo
diverso. Sono stanca, mi trema la voce pensando al fallimento che mi
devasta. Nel frattempo Dotty, come una mamma o un’amica qualunque,
annuisce brevemente e riempie il mio piatto di nuove prelibatezze. Il cibo ha
un ruolo curativo a ogni latitudine. Va bene soffrire, ma almeno con la
pancia piena. Approfitta delle pause per elencarmi i nomi dei piatti e degli
ingredienti usati per prepararli. Ecco la differenza fra cibo e nutrimento, in
fondo: Dotty non sazia solo la mia fame fisica, ma nutre anche la mia
inquietudine scendendo a un livello più profondo. Le sue parole sono un
balsamo spesso che si posa sul mio cuore e a un certo punto si apre,
raccontandomi la sua storia. Mi parla del coraggio che ha avuto per
ricominciare da zero anche quando tutto sembrava perduto, di come si sia
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ostinata a voler andare avanti con la sua vita dopo un divorzio. “Non è da
tutte ricominciare a cinquant’anni trasferendosi in un posto nuovo” spiega
mentre il sapore del suo riso speziato al curry invade ogni angolo del mio
palato. Ci abbracciamo forte. Siamo due donne sole che casualmente la vita
ha fatto incontrare su un’isola incantata per infondersi coraggio a vicenda. È
il momento della buonanotte quando mi ritiro in camera con l’anima in
pace. Come una stoffa stropicciata che viene distesa e rimessa in forma col
calore delle mani che la sfiorano. Faccio un’ultima doccia sotto il cielo
stellato: nuda, sazia, felice, tocco la terra con una consapevolezza diversa. E
mi ripeto orgogliosa: sono sola dall’altra parte del mondo. È magnifico.
Trabocco gratitudine e ottimismo per non aver ceduto alle paure e aver
mantenuto intatta la capacità di sperare nel buono che avrebbe portato il
futuro. Mi congratulo per aver scovato Dotty e la sua casa che mi accoglie
come un tiepido nido mentre la doccia compie l’ultimo incantesimo,
preparandomi al sonno ristoratore della notte.

Al risveglio trovo la mia host già all’opera, indaffarata in cucina a


spignattare per la colazione e per chissà quante altre ricette da distribuire su
commissione. Abbiamo un’ora insieme prima che la guida venga a
prendermi per visitare le cascate di XXX, il tempio di Pura Besakih da dove
si scorge il monte Agung (check again) e il Tirta Gaanga dove abbiamo
pranzato affacciati sui giardini d’acqua. La cena a casa di Dotty è stata
indiscutibilmente uno dei momenti migliori del viaggio a Bali,
un’esperienza di intimo raccoglimento fra i più toccanti sull’isola degli dèi.
È stato il momento del nutrimento spirituale più corposo, ma anche di
scoperta di nuovi sapori. Il cibo, infatti, rappresenta un elemento cruciale
nella mia vita da adulta. Amo mangiare, ma non sopporto la mancanza di
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varietà che è l’elemento che soffro maggiormente della mia vita in Sicilia.
Come per la lingua e la geografia, ho bisogno di cambiare, provare,
assaggiare, sperimentare. Sono un’appassionata di spezie e credo nel potere
di un soffritto fatto a regola d’arte. Vivere in Sicilia però mi costringe a
limitare le mie alternative e non vedo l’ora di fuggire a Bonn, Barcellona o
altre grandi città dove posso scegliere ogni giorno una cucina diversa. In
Sicilia, invece, convinti di avere il miglior cibo del mondo e di essere gli
unici a saper cucinare, non c’è varietà. Poter sperimentare gusti nuovi è un
altro elemento cruciale che mi spinge a viaggiare sola. Le rivoluzioni
alimentari della mia vita sono avvenute sempre lontano da casa. Le
principali scoperte sono state l’avocado assaggiato per la prima volta in
Grecia a diciott’anni e il latte di cocco mescolato al curry provato a Bonn e
mai più lasciato. Credo di aver assaggiato qualsiasi variante vegetariana
disponibile nei ristoranti. Thailandesi e vietnamiti soprattutto. Anche se
ricordo una cena himalayana squisita in un ristorante minuscolo dalle pareti
arancioni non lontano dall’Altstadt di Bonn. A proposito di contaminazioni
e nuove scoperte, negli anni le lenticchie rosse cotte nel latte di cocco al
curry sono diventate uno dei miei comfort food preferiti benché non si possa
certo dire che siano legate alla mia infanzia o ai ricordi di famiglia. L’ho già
detto, ma vale la pena ripeterlo: una sola vita non mi basta. Un solo luogo,
una sola lingua, una cucina, una cultura non sono sufficienti a soddisfare la
mia insaziabile curiosità. Ho fame del mondo. Voglio mescolarmi alle
moltitudini che contiene, assorbire nuove prospettive, sfiorare nuove culture
lasciandomi contaminare da esse. Mi terrorizza cadere nella trappola
dell’univocità, del pensiero unico, del “come noi nessuno mai”. Voglio
prendere il meglio da ciò che la vita offre. E col cibo funziona allo stesso
modo. Per quanto ricca e prelibata sia la cucina della mia terra d’origine,
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non basta a saziarmi. Ci sono troppi popoli per accontentarsi di ciò che
offrono le ricette tramandate nel tempo in una sola terra. Chi mi garantisce
che il cibo più buono non si trovi in qualche luogo remoto che non mi ha
ancora chiamata a sé? Se non fossi stata a Bali o non avessi provato tutti i
ristoranti asiatici a tiro, avrei continuato a pensare che il tofu sa di cartone e
mi sarei persa un ingrediente che mi piace moltissimo quando viene
adeguatamente cucinato. Di fronte alle risaie di Tegallagang, in un giorno di
afa e umido soffocanti, ho mangiato il miglior scrumbled tofu di sempre e
tornerei domani stesso in quel ristorante scovato per caso salendo delle scale
attirata da una terrazza che sporgeva sulla via principale dove mi trovavo io.
Ordinerei lo stesso frullato di anguria e sfiorerei il suicidio con la medesima
zuppa al curry bollente. Commetterei lo stesso errore: mangerei fino
all’ultima briciola, cederei all’ingordigia più sfrenata e poi mi trascinerei
fino al primo taxi disponibile per farmi accompagnare alla mia pensione per
una pennichella.

Rimanendo in tema Bali e cibo, una delle esperienze che ricordo


vividamente è il tour gastronomico che ho fatto insieme a Putu. Ero sicura
che mi sarei presa un accidente mangiando e bevendo ovunque senza
scrupoli. E invece sono sopravvissuta indenne anche a questa prova. Putu
non sarà solo una guida, ma anche quanto di più vicino a un amico potessi
incontrare. È il primo vero tour che Agung organizza per me dopo
l’escursione al tempio di Uluwatu e a Melasti Beach qualche giorno dopo il
mio arrivo. L’avevo letto online e abbiamo fatto insieme delle modifiche per
renderlo vegetariano e più affine ai miei interessi. Per prima cosa, Putu mi
porta al mercato. Entriamo in un grosso edificio dall’aria sciatta che dentro
pullula di bancarelle stracolme di frutta, verdura, offerte votive e altri
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ninnoli. Lui si incarica di scegliere fra la frutta gli esemplari migliori da


comprare e farmi assaggiare, mentre parte una specie di gara fra i venditori
affinché io provi tutto. Manghi gocciolanti e tagliati a fettine aspettano solo
di essere addentati sotto gli sguardi compiaciuti delle signore che me li
offrono. Al momento sono l’unica turista e sembra che tutte vogliano
impressionarmi con frutta che non saprei nemmeno nominare. Mi sento a
casa, avvolta nei sorrisi zuccherini delle persone intorno a me che
sbucciano, tagliano, puliscono la merce più succosa. Putu contratta, negozia,
paga e avvolge il bottino nella carta che riporremo dentro una busta. Siamo
pronti alla seconda tappa. Parcheggiamo davanti un piccolo ristorante cui si
accede passando per un arco verdissimo e ricco di vegetazione: foglie
carnose e fiori di ogni colore sovrastano le nostre teste mentre ci
avventuriamo all’interno. La vegetazione che fa praticamente da tetto
lenisce il caldo e dà sollievo dal caldo che aumenta col trascorrere delle ore.
Ci fanno accomodare al centro dell’area e Putu si incarica di decidere le mie
portate, specificando che sono vegetariana. Poco dopo arriva una prima
portata della pietanza che mangerò più spesso: il nonsoche. Se solitamente
sono sempre ben disposta al nonsoche, questa volte l’aspetto e il sapore mi
mettono in allarme. Ho l’impressione di mangiare pollo. Dopo ripetute
domande e un vivace scambio di battute in lingua locale di cui ho compreso
solo il tono piccato della donna che aveva preso la comanda, si scopre che
sono dei funghi. Che sì effettivamente è possibile scambiare per pollo, ma
non lo sono affatto. Mentre io mi godo il mio primo nonsoche, Putu si
allontana per parlare al telefono. Sembra agitato, gesticola, cammina avanti
e indietro. Quando torna al tavolo, si scusa dicendomi che ha da poco
scoperto che la sua compagna è incinta. L’indomani hanno un’importante
visita in una clinica e stavano aspettando che un caro amico arrivasse da
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Dubai. Inizialmente era un cliente, ma negli anni è ritornato spesso


stringendo un legame di affetto così profondo con la coppia da volerci
essere in quell’occasione speciale. Purtroppo però sono stati segnalati ritardi
e cancellazioni che mettono a rischio il piano. Sorrido e aspetto paziente il
resto del racconto. Perché so benissimo che c’è un resto. Allo stesso modo
in cui so che l’anima di Putu si è immediatamente allineata alla mia e che
non vede l’ora di conoscere persone nuove con cui scambiarsi confidenze.
Così vengo a sapere che prima aveva un altro lavoro: per molti mesi
lavorava imbarcato a bordo delle navi, con solo il mare intorno e un’ottima
busta paga. A un certo punto però il denaro non è bastato più per farlo
rimanere immobile. Messo alle strette dalla compagna che non ne poteva più
di distanze infinite, si è licenziato e ha optato per un lavoro meno retribuito,
ma che può fare dall’isola senza dover star via mesi. Così mi racconta di
Agung, l’uomo che ci ha messi in contatto, e di come gli sia grato per la sua
capacità di spingerlo a superare sempre i propri limiti. Me lo confessa
timidamente e lo rassicuro che so benissimo quanto sia importante avere
qualcuno che creda in noi. Anche in momenti in cui non ci crediamo
neppure noi stessi. Sto centellinando il mio succo di mango nella
consapevolezza che fra poco toccherà a me aprirmi, schiudere una parte
della mia vita per affidarla a uno sconosciuto che – spero – ne farà buon uso.
Come io farò buon uso delle sue parole. La domanda di Putu non tarda ad
arrivare: chi sono io veramente?

Anche io, come te, Putu, ho lasciato un lavoro stabile, sicuro e a


tempo indeterminato in una terra cui non smetterò mai di essere grata per
tornare nel luogo in cui sono nata. Anche io, ho mollato la prospettiva di
una vita ordinata in un paese che mi avrebbe concesso un mutuo impossibile
79

in Italia. Ho lasciato Bonn che amo con tutto il mio cuore e che mi spezzerà
sempre il fiato, costringendomi a ricordare perché sono andata via. Anche
io, Putu, ho seguito l’istinto che mi diceva che il mio posto era a casa. Sulla
banchina del porto, nei centri di accoglienza dove arrivavano migliaia di
persone in fuga. Ho seguito sogni, desideri, ideali. Ho ascoltato la parte più
autentica e genuina di me e assecondato il bisogno di una qualità della vita
diversa. Non c’era nulla che non andasse a Bonn, ma la mia carriera era a un
punto morto e sapevo che non sarebbe mai stato solo il lavoro a tenermi in
un luogo piuttosto che in un altro. Era arrivato il momento di smettere di
essere sola e i rapporti umani intessuti qui non bastavano a far tacere
l’inquietudine. Nessuno – tantomeno io – avrebbe potuto immaginare che
sarei stata felice in un posto come Augusta, ma era finita l’era della
solitudine. I ritorni non sono mai uguali per tutti, ma il mio è stato un vero
toccasana nonostante gli inevitabili limiti di vivere in un posto arretrato e
con una mentalità atroce per certi aspetti. Mi salvo solo perché continuo a
lavorare con l’estero. Il nocciolo della questione è che un giorno anche io
come Putu ho smesso di credere nella favola della carriera da inseguire e
coltivare a ogni costo. Ho capito che non sarei mai andata oltre una certa
soglia e che quella soglia non giustificava il peso dei giorni lontana da casa.
L’estero era stato un ottimo investimento ma nel lungo periodo non valeva
più la pena continuare. Così, dopo quattro anni in giro per la Germania,
l’Olanda, il Belgio, ho scoperto di possedere delle radici. All’improvviso,
ho realizzato di non essere più nel mio posto nel mondo: era giunta l’ora di
ripartire. O di ritornare. In quell’occasione, ho imparato una delle lezioni più
significative del mio nomadismo: abbandonare il castello in fiamme al
primo sentore di incendio senza preoccuparsi mai dei tesori al suo interno.
Senza mai guardarsi indietro. Dopo diciassette traslochi e innumerevoli città
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visitate, so che il mondo è un posto troppo grande per non custodire un


luogo adatto ad acquietare la mia irrequietezza. Ci sarà sempre una spiaggia,
un ponte, un fiume, un oceano in grado di disperdere i roditori che mi
lacerano dall’interno nei momenti di maggior tumulto. Se non sono felice
qui e ora, posso essere felice domani e altrove. E per esserlo tocca barattare
il quieto vivere con una nuova sfida, una nuova avventura, una nuova
opportunità. Arriva il momento di sostenere i costi pratici ed emotivi
dell’inquietudine tenendo a mente l’unico vero compenso che conti: la gioia
di vivere. L’intima felicità collegata al nostro stare al mondo. La profonda
consapevolezza di sé nonostante i cambiamenti continui. Quindi, sì, Putu, io
ti capisco e avrei fatto esattamente la stessa cosa. Perché è solo di questo
che vale la pena vivere: di amore, di intimità, di legami, di connessioni, di
brevi istanti in cui alleggeriamo la nostra solitudine nell’incontro con l’altro
da sé. Di anime che si allacciano nel lungo e articolato cammino della vita.
L’errore sarebbe ignorare ciò che si agita dentro di noi, silenziando il
genuino bisogno di autenticità che proviamo di fronte a luoghi o prospettive
cui sentiamo di appartenere.

Succede, Putu. Succede anche che ci raccontiamo storie ogni giorno


pur di non agire e procrastinare e rimandare il momento della verità,
l’istante in cui non sarà più possibile fingere di essere a posto con noi stesse.
Arriva un mattino e siamo crepate dentro. Una frattura immensa e profonda
che rischia di ingoiarci e risputarci a pezzetti. Una spaccatura dove sarebbe
così semplice precipitare, ma da cui inevitabilmente entra la luce.

Viaggiare sola e trasferirmi in città diverse per studio o lavoro mi


hanno insegnato che il tempo è spesso il paravento dietro cui ci
nascondiamo per non agire. “Ci ho messo anni a costruirlo. Non posso
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buttare tutto alle ortiche”. “Stiamo insieme da anni, non me la sento di


ricominciare”. E invece si può ricominciare da zero nella speranza di
raggiungere mille. Mentre io e Putu scandagliamo le nostre vite, vengo
pervasa da un sentimento inebriante. Mi sento potente: sono arrivata fin qui,
posso arrivare ovunque. Oltre ogni retorica. Non ho nulla di certo nella mia
vita attuale, sono allo sbando ma troverò un altro porto e ho ancora me
stessa, la mia determinazione, la mia volontà. La mia capacità di sorellanza
universale che mi strappa al baratro di solitudini disperanti. Il mio istinto a
fiutare l’incendio alla prima scintilla e la mia indole a fuggire senza
rimpianti, abbandonando ogni zavorra. La mia smania di ricostruire oltre
ogni distruzione. Ed è per questo che sono qui: per ricostruire me stessa, i
miei sogni e tutto ciò che sembra perduto ora come ora.

MONACO: da turista a rifugio durante la pandemia

Monaco di Baviera è una di quelle città che ho vissuto in molti modi


nonostante non ci sia andata così spesso. Prima di trasferirmici a fine
febbraio 2020 (tempismo perfetto!), ci ero andata solo due volte. La prima
da sola come turista, la seconda con la compagnia sbagliata per il mio
trentesimo compleanno. A onor del vero, in quell’occasione siamo solo
passati da Monaco per poi proseguire verso Neuschwanstein. Monaco ha
sicuramente richiesto il più intenso sforzo immaginativo per adattarmi alle
situazioni che vivevo. La prima volta che l’ho visitata è il 2013, il mio
primo anno di expat e non ho calcolato bene il periodo. Così senza volerlo
mi ritrovo in città in concomitanza con l’ultimo weekend dell’Oktoberfest.
Poco male alla fine, dato che l’ho evitato e ho proseguito coi miei giri
normalmente. Arrivo in treno e mi colpisce l’enormità della stazione
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centrale dove mollo il bagaglio in un locker prima di tuffarmi nelle vie del
centro. Mentre sto per lasciare l’Hauptbahnof, su un binario vedo un treno
in partenza per Dachau e senza pensarci due volte salgo a bordo. Voglio
togliermi questo dente prima possibile. So di doverlo fare, di dover visitare
il campo di concentramento o almeno ciò che ne resta. Ci vogliono una
ventina di minuti per arrivare nella piccola città poco fuori Monaco e
quando arrivo io la banchina pullula di ragazzi e ragazze di varie età
all’uscita dalla scuola. È una tratta qualsiasi, un percorso ordinario e
comune per chi vive qui. Io la affronto con una solennità riconducibile
all’importanza che attribuisco a questo luogo. Per chi ci vive è solo un posto
come un altro. L’abitudine corrode e sbiadisce, normalizza e riduce. Sono
una turista e tutto mi sembra nuovo. Una signora sulla settantina mi nota e
inizia a parlarmi. Il mio tedesco è poco più di un balbettio peggiorato dal
nervosismo di non saperlo parlare e dalla paura di non capire. “Io vivevo
qui. Ho sempre vissuto qui. Abito a qualche fermata dal campo di
concentramento” commenta riferendosi alla guida che tengo in mano aperta
alla pagina su Dachau Konzentrationslager. Sta aprendo un cassetto della
memoria che chiunque preferirebbe tenere chiuso. “Lo sapevamo. O
comunque lo intuivamo. Io ero solo una ragazzina ma all’improvviso sono
arrivati qui tantissimi uomini in divisa”. Fa una pausa mentre fuori dal
finestrino iniziano a scorrere edifici grigi tutti uguali, ora riconvertiti ma un
tempo usati come abitazioni delle S.S. e delle loro famiglie. “Ero solo una
ragazzina” ripete con una tristezza profonda e tagliente.

La conversazione va avanti nonostante le mie difficoltà linguistiche


finché a un certo punto le sento dire qualcosa che smonta il modo in cui da
italiana ho sempre considerato la questione. In buona sostanza non va per il
83

sottile con le differenze fra nazismo e fascismo, fra Hitler e Mussolini. Li


colloca più o meno sullo stesso piano e io mi sento punta sul vivo perché
sono abituata all’idea che in fondo noi italiani non possiamo essere
paragonati ai tedeschi. “Mussolini ha fatto un solo errore: allearsi con
Hitler”. Benché non abbia mai sposato questa prospettiva, qualcosa devo
aver interiorizzato se mi sembra assurdo minimizzare come sento fare alla
donna che alla fine mi dice come sia inutile fare differenze fra chi uccide di
più e chi lo fa di meno. Non sta nemmeno parlando con me, sta parlando a
se stessa. Il suo sguardo vaga oltre i casermoni e le recinzioni che
delimitano l’area. La mia interlocutrice non distribuisce colpe, non solleva
dagli errori. Quella donna soffre per essere stata presente quando accadeva.
Anche se era “solo una ragazzina”, continua a soffrire per il male inflitto a
milioni di innocenti e vuole solo farmi notare come qualsiasi vita perduta
abbia lo stesso peso delle altre. Sminuire o minimizzare l’orrore non solleva
dalle colpe storiche, ma crea solo il terreno fertile perché si ripetano.

La conversazione durerà poco, ma raggiunge subito una rara


profondità. Ricordo vagamente il volto della donna, ma ho ben presente la
sua voce, il tono gentile, le mani che si stringono nelle mie per salutarmi
quando arriva il momento di scendere per attraversare il viale che conduce
alla mia meta. Prima di arrivare all’entrata del campo, tocca fare una
deviazione in biglietteria: un edificio molto moderno con annesso un
negozio e un piccolo bar. Sembra un posto normalissimo, quasi banale.
Nulla rivela che mi trovo in un luogo di strazio dove si è scritta una delle
peggiori pagine della storia umana. Qui è iniziato lo sterminio, qui si è
partiti dai trattamenti speciali a prigionieri e dissidenti politici fino a perdere
il senso e la dimensione stessa della vita. Acquisto il biglietto e mi avvio
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all’entrata fin quando non mi ritrovo davanti il celebre cancello con


l’indimenticabile scritta “Arbeit macht frei”. Il sole scompare dietro spessi
banchi di nuvole incupendo il paesaggio e aumentando il senso di
oppressione. Delle baracche rimangono solo le ricostruzioni delle prima
due, il resto vanno immaginate a partire dal perimetro segnato per terra. C’è
una mostra permanente all’interno di un edificio basso e squadrato e una
scultura angosciante troneggia proprio al centro del piazzale degli appelli.
La parte riservata alle baracche si estende fino ai memoriali delle vittime
suddivisi per religione. C’è quello ebraico, quello cristiano e lateralmente,
nella parte più nascosta e adiacente alle camere a gas, c’è il memoriale
ortodosso. Le camere a gas sono una ricostruzione delle originali che furono
fatte saltare in aria nel vano tentativo di occultare i crimini commessi. La
natura intorno è verde e rigogliosa, nulla fa presagire gli orrori che si sono
consumati qui. A guardarsi intorno tutto sembra pace. Nessun indizio rivela
gli orrori del passato che verrebbero dimenticati senza l’impegno alla
memoria. Uscendo dalle camere a gas, spunta il sole e mi avvio al cancello
per tornare alla fermata del bus col cuore che pesa una tonnellata.

Dachau non sarà l’unico che vedrò negli anni. Quando visitai
Hannover, salii su un autobus per andare fino al campo di lavoro e
smistamento di Neugamme. Disperso nel nulla della campagna tedesca, era
un unicum nel suo genere. A Norimberga ho visitato i luoghi del
nazionalsocialismo fino alla celebre aula sei del Tribunale dove si è svolto il
noto processo durante cui si introdusse il concetto di crimini contro
l’umanità. Inizia dunque così il mio incontro con Monaco: con un tuffo nella
storia più dolorosa, con un salto nelle sue pagine più buie, col privilegio di
poter ripercorrere la memoria di un popolo che mi sta adottando e di un
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intero continente che fatica a essere all’altezza degli ideali cui aspira. Il
giorno seguente, nonostante il cielo basso e plumbeo, mi reco in uno dei
luoghi che avrei amato a prima vista: Nymphenburg. Le lunghe passeggiate
qui durante la pandemia di sette anni dopo mi avrebbero tenuta a galla dal
pericolo di sprofondare nell’angoscia e mi avrebbero riportata indietro nel
tempo ai miei primi viaggi. C’è una felicità nei luoghi che rimane e risorge
al momento opportuno. Castello e giardini infatti sono indiscutibilmente una
tappa imperdibile non solo per l’architettura e il valore estetico, ma per
l’atmosfera di pace che emanano. Il parco si estende per XXX chilometri ed
è sempre attraversato da persone che fanno jogging, famiglie in cerca di
fresco o di natura, turisti di ogni parte del mondo. L’ho visto in varie
stagioni dell’anno, sola o in compagnia, spensierata durante una vacanza o
piena di interrogativi dopo l’inizio delle restrizioni. Fortunatamente in
Germania non sono mai stati adottati provvedimenti che impedivano di
uscire per l’attività fisica, dunque non ho subito la staticità di giorni senza
fine chiusa fra quattro mura. Potevo sempre infilare le scarpe e andare in
giro a scoprire nuovi angoli della città. Un giorno di particolare angoscia, ad
esempio, sono scesa nel tardo pomeriggio al parco sotto casa, scoprendone
una sezione che non avevo ancora mai visto. Sembrava uscita direttamente
da un libro di favole, dalla mente di una fata o da un cartone animato.
Imbocco un viale che taglia a metà il bosco stracolmo di alberi dalle chiome
rigogliose color smeraldo. In un punto il viale si allarga sfociando in una
sorta di spiazzo con delle panchine e proseguendo si scorge un ponticello
che sovrasta un fiumiciattolo ingrossato dalla recente pioggia. L’odore di
terra bagnata penetra nelle narici e sovrasta tutto. Improvvisamente mi
rendo conto di trovarmi all’interno di un filare di alberi le cui chiome quasi
si congiungono sopra di me. Sembra un tunnel vegetale. Nelle pozzanghere
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continuano a cadere piccole gocce tonde. Qui sotto la pioggia non è ancora
finita perché continua a cadere dalle fronde degli alberi. Le foglie, i rami
trattengono e rilasciano le gocce a loro piacimento come in un lungo
strascico liquido. Accade lo stesso coi viaggi e con molte altre esperienze
della vita: benché finiscano, continuano a trascinarsi, evolversi, dipanarsi
dentro di noi. Non tutto finisce nel momento in cui si interrompe.

HANIMAADHOO E LE MALDIVE INIMMAGINABILI

Il cielo sopra di me è velato e carico di pioggia. Nell’aria si sente


l’elettricità accumulata dentro le nuvole che incombono sopra l’isola. L’aria
intorno è pesante. Sono ad Hanimaadhoo, atollo di Haa Dhaalu, alle
Maldive. Ho viaggiato circa ventiquattro ore e sono arrivata due giorni fa.
Sono incredula e non ho superato l’enorme commozione per essere riuscita
a vincere la paura. Dopo due anni di cattività, di reclusione forzata, di
impossibilità di programmare un viaggio con serenità, sono fuori dal guscio.
Sono di nuovo nel mondo: posso tornare a camminare la terra liberamente. I
polmoni mi si riempiono dell’aroma salmastro dell’oceano che si spalanca
immenso di fronte a me. Mi separano da lui solo pochi passi, quelli che devo
fare per abbandonare il letto, scendere dalla veranda di fronte la mia camera
e percorrere la sabbia bianca. Non avevo mai pensato alle Maldive come
meta di un viaggio. Troppo artefatte, troppo costose, troppo lontane dal mio
stile on the road. Non le avevo mai prese nemmeno in considerazione
immersa negli stereotipi che le caratterizzano. E invece – con la pandemia
che mi costringe a rivedere alcune abitudini – sono loro a scegliermi un
giorno di fine gennaio. Le vedo comparire fra le foto della luna di miele di
una conoscente. Sono le classiche cartoline da resort, ma qualcosa mi scatta
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in testa e mi dico: Prenota. Trova un’isola e vai. Non sapevo nulla di questo
strano paese fatto di atolli e lembi di terra emersi dalle profondità marine.
Nulla eccetto il concept per cui a un resort corrisponde un’isola. Dovranno
pure esserci delle persone che vivono normalmente, mi ripeto. Esisteranno
isole abitate dai locali senza resort e boutique hotel. Ignoravo che fino a una
decina di anni fa le uniche Maldive aperte ai turisti erano proprio quelle dei
resort e che solo di recente le isole abitate accolgono viaggiatori in cerca di
esperienze più genuine e autentiche. Da circa un decennio sono nate
strutture alternative a quelle di lusso tipiche di questa destinazione, sono
fiorite le guesthouse e sempre più alberghi offrono opzioni per i nomadi
digitali, incentivando lo smart-working nel bel mezzo dell’Oceano Indiano.

Le onde lambiscono i miei piedi nudi e mi riportano alla realtà. Sono


di nuovo sola dall’altra parte del mondo. Rido e piango
contemporaneamente. Sono felice di non essermi fatta scoraggiare da chi mi
diceva che le Maldive sono noiose per una come me, che non si può entrare
in contatto con le persone originarie del posto, che me ne sarei pentita. Non
ci si pente mai di incontrare i luoghi che ci scelgono. Se un posto mi sta
chiamando, ci sarà un motivo e solo andandoci scoprirò quale sia.
Assecondare il richiamo è essenziale per crescere nel viaggio dentro e fuori
di me. Se mi fossi opposta, lasciando vincere i pregiudizi, mi sarei persa una
rinascita potente. La rinascita necessaria dopo una stasi forzata di due anni.
Non ero pronta a perdermi fra le strade di mete lontane, esponendomi
oltremodo al rischio di contrarre il virus e rimanere bloccata in qualche
luogo remoto, ma era necessario tornare al mondo. Abbandonare le scarpe
all’arrivo è il primo passo verso la guarigione.
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“Se non sei a piedi nudi, sei troppo vestita” è il motto dell’ecohotel
dove soggiornerò. L’ha scovato Laura, la mia preziosissima agente di
viaggio, che anche questa volta non ha deluso le mie aspettative ma ha
trovato un modo per conciliare randagismo e sicurezza. Rimetterò le scarpe
piangendo il giorno della partenza, come rompendo un incantesimo in cui ho
capito perché le Maldive mi hanno chiamata. Dovevo superare un
pregiudizio, tornare nuda di fronte alle necessità della vita che mi stava
stritolando, prendermi una pausa dalla tossicità della quotidianità
performativa, ascoltare il mio corpo e lasciare che la mia mente si concentri
solo sul respiro. Mio e dell’oceano. Mi hanno chiamata con la promessa
della conciliazione fra la paura e il desiderio di avventura. Mi hanno
dimostrato che potevo ricominciare a viaggiare sola, che ero pronta. Che
dopo due anni trascorsi nel guscio protettivo della mia casa era tempo di
percorrere il mondo. La fame era ancora lì, non si era estinta, non era stata
dimenticata, ma solo momentaneamente accantonata. O meglio: la fame era
stata saziata altrimenti. Nei due anni di prigionia casalinga, sono tornata coi
ricordi a tutti i luoghi visitati dal 2013 e in ognuno di essi ho trovato un
tassello del mio mosaico personale. Le foto di Bali hanno continuato ad
alimentare la memoria di ciò di cui sono stata capace, ma adesso non
bastava più. Una volta immersami sotto la superficie dell’acqua, andando a
caccia di idoli moreschi e di pesci pagliaccio, ho capito che mi stavo
scolorendo come i coralli sopra cui galleggiavo.

Anche io stavo perdendo i miei colori, sbiancandomi un po’ alla volta.


Avevo bisogno di nuovo nutrimento, di vedere posti nuovi per guardare con
rinnovata meraviglia anche quelli vecchi. Dovevo incontrare persone
diverse da me, parlare altre lingue, allontanarmi dal mio porto sicuro per
89

consegnarmi all’umanità con fiducia e speranza. Adesso lo so. Con le


nuvole incombenti sopra la testa e il sole che a tratti apre varchi fra i banchi
grigi, ho scoperto il motivo per cui mi trovo lì. Rinascere ancora. Riemergo
per controllare la distanza dalla riva: la spiaggia bianca è ancora semi
deserta. Il silenzio intorno è irreale. Il verde di cespugli e palme mi
rassicura. Sono dentro una cartolina, precipitata in uno di quei quadri da
centro benessere con spiagge immacolate e acque cristalline. Ecco, sono
arrivata fin qui per sincerarmi che non si trattasse solo di raffigurazioni
dozzinali per abbindolare gente stressata dalla vita in una metropoli. Ora
posso affermare con certezza che non è pubblicità ingannevole: le Maldive
sono esattamente come le abbiamo sempre viste raffigurare. Un sogno
verde, azzurro, bianco. Una chimera le cui tonalità mutano col sole e le
correnti durante l’arco della giornata. Il cielo precipita nell’oceano senza
stacchi, l’orizzonte si fonde e solo la presenza di un’altra isola misura la
profondità dello sguardo. Torno a immergermi, torno ad ascoltare il respiro
lasciando che riempia tutto lo spazio intorno. Sott’acqua lo sento con una
consapevolezza impossibile sulla terraferma da cui nel frattempo mi
allontano sempre di più. Certa di trovare altri coralli, altri banchi di pesci,
altre praterie sottomarine.

Le conquiste migliori, i successi più autentici li ho ottenuti solo e


soltanto mollando gli ormeggi. E lo snorkeling non fa eccezione in questo.
Più mi allontano dal pontile verso il mare aperto, più il fondale si arricchisce
di vita, pullula di creature indaffarate e incuranti della mia presenza. Emerge
nitida di fronte a me una vasta costellazione di coralli: formazioni
all’apparenza rocciose o simili a enormi spugne calcaree dove si affollano
creature di cui ignoro i nomi. I meno timidi sono i pesci chirurghi
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pentastriati che si lasciano cautamente avvicinare. Hanno un corpo quasi


trasparente con un’evidente sfumatura gialla e attraversato da sei strisce
verticali nere. Solitario e veloce, compare l’idolo moresco con la sua
particolarissima forma da totem africano e un pennacchio buffo a
sormontare il corpo schiacciato. Scattano rapidi da un punto all’altro,
inseguendo chissà cosa.

Inizialmente commetto sempre lo stesso errore: mi muovo troppo.


Dopo i primi due giorni di snorkeling ho braccia e schiena doloranti. Senza
rendermene conto le muovo di continuo invece di lasciarmi trasportare dalla
combinazione di corrente e spinta delle pinne. Mi ostino a voler imprimere
la direzione alla mia gita sottomarina quando la cosa più saggia è senza
dubbio abbandonarmi e rimanere vigile per evitare di andare alla deriva.
Nulla di più. Iniziare a nuotare, cominciare a scorgere le vallate via via più
rigogliose sotto di me, affrettarmi verso altri banchi di pesci senza mai
andare controcorrente. Non è uno slogan facile, non si tratta solo di
assecondare il flusso liquido che mi trasporta secondo una volontà a me
sconosciuta. Si tratta – ancora una volta – di fiducia. Di predisposizione allo
smarrimento. Si tratta della possibilità di perdermi rinunciando a controllare
ogni cosa, di evitare di imprimere la mia direzione a tutto e di accogliere la
direzione che il mondo mi suggerisce assecondandolo. È una questione di
predisposizione al cambiamento. Bisogna riconoscerlo, accettarlo,
abbracciarlo mettendo in discussione anche e soprattutto ciò che diamo per
scontato. Vivere in un luogo, crescere al suo interno implica l’adozione di
una prospettiva. Gradualmente introietteremo un punto di vista. Viaggiare
affidandomi con docilità alla corrente serve ad adottarne di nuovi, a
scardinare gli sguardi univoci cui sono abituata, a spogliarmi di convenzioni
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che non voglio più trascinarci dietro. Vado incontro a un’altra corrente
ghiacciata: di nuovo ho le gambe al caldo e le braccia al freddo.
Contemporaneamente, coesistono due condizioni opposte.

Al rientro dall’escursione, mi fermo a osservare i ragazzi che ci hanno


accompagnate. Sono tutti di qui, alcuni hanno lavorato in altre isole in
passato, nei famosi resort. Undici mesi chiusi nello stesso posto, fissi dentro
il perimetro del paradiso dei vacanzieri senza poter uscire da lì e un mese di
ritorno a casa dove si sentivano sempre un po’ fuori posto. Parvaz invece
viene dal Bangladesh. Le prime volte che mi preparava i cocktail pensavo
fosse un po’ scorbutico, poi una volta gli ho chiesto una penna perché
l’avevo dimenticata e me l’ha regalata con un sorriso che spiegava ogni
cosa: era solo timido. Rotto il ghiaccio, Parvaz mi dice che preferisce stare
qui a Hanimaadhoo perché è un’isola abitata quindi dopo lavoro o nel
giorno libero può andare nel centro abitato, parlare con qualcuno, pregare
alla moschea e non dover vivere rintanato dentro un resort. Mi spiega che
aveva già lavorato qui ed è stato felice di poterci ritornare. Non sa quando
riuscirà a volare dalla sua famiglia in Bangladesh, ma è soddisfatto di poter
mandare mensilmente parte del suo stipendio. Quando mi avvio verso il
pontile col mio squisito cocktail di frutta e miele – l’alcol è illegale sulle
isole abitate maldiviane – mi fa un ultimo cenno con la mano e mi chiedo
che prezzo abbia la mia felicità. Questa domanda io me la pongo sempre e
mi attanaglia il dubbio di essere anche io parte di quell’Occidente che ha
bisogno di trasformare alcune parti del mondo nei propri paradisi a buon
prezzo lasciando che il fardello pesi su chi ci vive. Mi chiedo fino a che
punto sia lecito questo desiderio di evasione in luoghi paradisiaci che
verranno irrimediabilmente alterati dal nostro passaggio. Da un lato, sono
92

felice di sapere che la mia scelta di venire qui crei delle opportunità di
lavoro. Dall’altro provo un profondo senso di ingiustizia che aumenta man
mano che scavo sotto la superficie. È reale il paradiso? O ogni luogo può
contemporaneamente essere paradiso e inferno? La realtà è duale ovunque?
Siamo noi a plasmarla in base al mondo che ci portiamo dentro e che
lasciamo emergere a contatto con altre persone? Quel luogo che io
percepisco come un paradiso terrestre, come un angolo dove lasciar
pascolare l’ansia in modo che si dissolva può essere il limbo di qualcun
altro? Mi guardo intorno e mi chiedo se Nafiz sia felice su un’isola di
nemmeno sette chilometri di lunghezza e manco uno di larghezza. Mi
chiedo dove vada per evadere dal suo reale che – non ne dubito – sarà
travagliato come o più del mio. Si sentirà mai in gabbia osservando l’oceano
sconfinato dove io mi sento incredibilmente libera? Anche lui si preoccupa
per la sua famiglia. Si chiede se potrà costruire un tetto più solido prima
dell’arrivo della stagione delle piogge ormai alle porte, se riuscirà a far
curare sua sorella e suo fratello che dovranno recarsi in India. Si angoscia
all’idea che tutto questo prosciugherà i suoi risparmi e che nemmeno
quest’anno riuscirà a venire in Europa come sogna da moltissimo tempo.
Proprio adesso che avrebbe avuto qualcuno a firmargli una lettera di invito,
aiutandolo nella cinica corsa a ostacoli della burocrazia. Io e lui rimarremo
in contatto, ci scriveremo per mesi, impareremo a conoscerci nonostante la
distanza. E mi renderò conto – una volta di più - con inequivocabile certezza
che viaggio per scoprire l’umanità, per ricordarmi che le differenze sono
tutte nella nostra mente e nei nostri pregiudizi. E che ogni donna e ogni
uomo su questo pianeta cercano grammi crescenti di felicità, qualsiasi cosa
sia. Che ciascun essere umano sentirà in momenti diversi della vita le radici
tirare più forte o anelerà a qualcosa di più, di diverso. Di altro. Nafiz
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desidera un migliore equilibrio fra lavoro e vita privata. Ha ricevuto


proposte di lavoro per abbandonare le Maldive, ma non le ha mai prese sul
serio. E me lo dice mentre percorriamo una porzione di sabbia bianca
emersa nel mezzo del verde oceano che lui solca con la barca regalandomi
ricordi indimenticabili. Si ferma a raccogliere un granchio bianco e giallo
che libera subito dopo avermelo fatto vedere, ha un buffo muso da coniglio
pasquale ed è mezzo morto di paura. “Tutto questo è mio ogni giorno”, mi
dice. Ma non provo invidia, solo inquietudine. Riconosco la fame. Nafiz è
affamato come me.

Ogni giorno lo vedo fermarsi per onorare il rito del tramonto prima di
andare a casa dalla sua famiglia a rompere il digiuno. Il due aprile, subito
dopo il mio arrivo, inizia il Ramadan ma i tramonti continuano anche al mio
rientro. Per almeno tre settimane, le Maldive tornano sul mio cellulare
quotidianamente la mattina e la sera. Augusta e Hanimaadhoo confinano
due volte al giorno grazie al filo rosso che unisce la mia fame a quella di
Nafiz. Così vicini, così lontani. Così diversi, così uguali nel desiderio di
divorare il mondo. Eppure, uguale è la fame ma diverso sarà il nutrimento.
A me basterà decidere di partire, controllare di avere abbastanza fondi sul
conto corrente, verificare la validità del mio passaporto e scegliere quale
paradiso visitare. Nafiz avrà un potere d’acquisto e decisionale totalmente
diverso dal mio e se vorrà venirmi a trovare, non potrà contare su un
rapidissimo visto all’arrivo come me. L’area Schengen non garantisce
alcuna reciprocità agli abitanti delle Maldive dove pure ogni anno si recano
circa 800.000 cittadini europei senza dover affrontare procedure o spese
legate all’emissione del visto.
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La consapevolezza del valore del mio passaporto mi ha sempre messa


a disagio dalla prima volta in Burkina Faso, passando per Bali e arrivando
qui. Rappresenta l’evidenza di un punto di vista malsano di concepire il
mondo, una prospettiva che abbiamo interiorizzato e messo in pratica senza
porci domande. Io invece quelle domande me le pongo tutte le volte che
cedo alla fame del mondo o alla necessità di allontanarmi da casa per un
motivo qualsiasi. Come Putu a Bali, anche Nafiz vorrebbe visitare l’Europa
e osservare i luoghi da cui provengono le persone a cui lui regala vacanze
indimenticabili. Quelle persone – me compresa - transitano nella sua vita
avvolte in un’aurea di intoccabilità aggravata da impedimenti economici o
burocratici spesso invalicabili. E così entro nelle loro vite in punta di piedi,
ce le raccontiamo per quanto possibile nel poco tempo a disposizione e poi
riparto. Sparisco mentre loro continuano in un cerchio infinito di arrivi e
partenze senza che nessuno possa facilmente restituire il favore. Vivere ad
Augusta – per anni primo porto di sbarco dopo i salvataggi in mare – e
viaggiare mi hanno resa maggiormente sensibile al diritto al viaggio e a una
sorta di giustizia geografica. Perché viaggiare è anche una questione di
diritti e di giustizia dato che il mondo è lì per essere esplorato e ammirato da
tutti i suoi abitanti, non solo da un gruppetto di privilegiati. La natura non sa
nulla delle frontiere che costruiamo noi.

Mi tuffo un’ultima volta per oggi. Un banco di grossi pesci trasparenti


screziati coi colori dell’arcobaleno si affrettano davanti a me. Nemmeno
loro hanno idea di cosa siano le frontiere. Li osservo e mi ripeto che uno dei
diritti per cui lottare oggi è il diritto al viaggio. Il diritto a camminare il
mondo in sicurezza. Diritto. Non privilegio. Quando esco dall’acqua è quasi
buio e trovo Afeef vicino la mia veranda che mi saluta affettuosamente. A
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lui devo molte ore di snorkeling paziente a pelo d’acqua. Senza la sua
presenza rassicurante mi sarei persa molte meraviglie, a partire dalla razza
perfettamente mimetizzata sotto la sabbia di cui si indovinava solo la forma.
Ci stavo nuotando sopra, ma i miei occhi non sono abbastanza allenati
evidentemente. Così lui me la indica. Prima di tuffarci, mi dice sempre di
stare vicino a lui in modo da sapere subito se qualche animale strano ci
degna del suo passaggio. Senza Afeef non avrei visto due delle tre
tartarughe palesatesi durante l’escursione (una era stata così gentile da
staccarsi dal bordo del reef proprio davanti ai miei occhi prima di scivolare
velocemente nel blu più profondo). Durante le sessioni di snorkeling con lui,
non sentivo più soltanto il mio respiro confondersi dentro l’oceano, ma
anche la sua voce che allertava il gruppo. Mi sarei certamente persa il
piccolo squalo nero nascosto sotto una formazione rocciosa che stavamo
attraversando a nuoto. Era mimetizzato così bene da non riuscire a scorgerlo
senza un occhio davvero esperto. Tuttavia, io non potrò mai fargli ammirare
il profilo inconfondibile dell’Etna alla fine della scogliera che si snoda di
fronte al mio luogo del cuore. Non potrò mai raccontargli di come quello
scorcio abbia tenuto in allenamento la mia fantasia durante gli interminabili
mesi di restrizioni. Quell’insenatura ha fatto sì che non perdessi l’abitudine
a immaginare l’altrove anche nei momenti in cui il mondo si riduceva al
perimetro della mia casa. Anche volendo non potrei farlo nessuna delle
persone che hanno incrociato il mio cammino aiutandomi a scoprire
meglio casa loro.
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Nuovo capitolo? CONCHIGLIA

Credo di essermi sempre fatta conchiglia, ma non sapevo dirlo. Le


cose esistono a prescindere dai nomi che diamo loro, ma solo quando
assegniamo loro dei nomi iniziano a vivere realmente. Non a caso il
linguaggio decodifica il reale cui si lega profondamente. La metafora della
conchiglia si è profilata meno di un anno fa e sto ancora imparando cosa
voglia dire davvero, come possa essere descritta e a cosa serva. Un giorno
anonimo del maggio 2021, andando a letto dopo l’ennesima giornata
sfiancante, ho visualizzato un’immagine cruciale per arrivare alla
conchiglia. Avrei solo desiderato un modo per sfuggire alla quantità
micidiale di fardelli che mi gravavano addosso fra salute, vita privata e
nuovi lavori. Era uno di quei giorni in cui stare al mondo sembra richiedere
una fatica eccessiva e avevo aspettato solo il momento di abbandonarmi al
sonno per sfuggire alla tirannia della veglia. È un istante. Un attimo
infinitesimale in cui la visualizzo. Ecco la tana vellutata dove avviene la
salvezza. Un luogo magico dove inconsapevolmente si curano le mie ferite:
un vortice elicoidale che offre rifugio fra le sue pieghe così blu da virare al
nero. Intuisco venature più chiare che attraversavano il mio santuario a
forma di chiocciola. Lì dentro il respiro torna regolare, i polmoni contratti a
lungo per la tensione quotidiana finalmente si rilassano e si concedono il
lusso di respirare fino in fondo. Era come ritornare dentro un utero che offre
protezione, come ripetere un esercizio che faccio da sempre per
allontanarmi dalle tenaglie del reale. Era un escamotage senza nome.

L’arte di farmi conchiglia, benché sia antica quanto me, l’ho messa
veramente a fuoco nell’aprile del 2022. È il secondo giorno sull’isola di
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Hanimaadhoo e hanno annullato l’escursione del pomeriggio. Sono quindi


libera di rimanere a poltrire nell’angolo più remoto della spiaggia a leggere
e scrivere. Il pomeriggio trascorre con lentezza e sono pronta a godermi lo
spettacolo del tramonto: una delle esperienze che in assoluto mi commuove
di più. Un ragazzo ha appena ormeggiato una barca di legno al pontile di
fronte e la pulisce scrupolosamente. Ad un tratto si ferma come richiamato
da qualcosa di invisibile: il cielo cambia colore, il tramonto si appresta a
conquistare tutto il paesaggio, un silenzio irreale viene interrotto dal
richiamo alla preghiera. Improvvisamente, percepisco dei movimenti sulla
battigia attraversata da linee che sembrano ricami e intervallata da buchi di
varia grandezza. Finalmente capisco di cosa si tratta: dalle loro piccole tane,
iniziano a uscire decine e decine di paguri che però si fermano bruscamente
ogni volta che percepiscono un pericolo intorno. Basta una foglia che cade,
un passo che vibra sulla battigia, un sassolino lanciato per sbaglio. Non ci
avevo mai fatto caso e adesso l’intera superficie sabbiosa della spiaggia mi
sembra pullulare di questi piccoli animali che al minimo rumore si
immobilizzano e rintanano all’interno del proprio guscio. Il ragazzo al
pontile si accorge della mia presenza mentre mi avvio in direzione
dell’oceano. L’ultima cosa che vedo prima di tuffarmi è la sua mano che
ondeggia nell’aria per salutarmi. Quando torno a riva, non c’è più ma lo
spazio intorno vibra di vita silenziosa e impercettibile. Intorno sembra solo
un deserto di sabbia e gusci dall’aspetto abbandonato. Finalmente afferro il
segreto della mia inconsapevole tecnica di sopravvivenza: anche io nei
momenti drammatici mi sono raggomitolata dentro un guscio impenetrabile,
sono sembrata perduta e smarrita. Un’onda avrebbe potuto trascinarmi via
senza che io potessi opporre resistenza. Tuttavia, poi, rimettevo la testa fuori
dal guscio e ricominciavo a disegnare la sabbia, imprimendo il mio
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passaggio su di essa. Niente di definitivo o duraturo. Solo una traccia


facilmente trascurabile, benché innegabile.

Ripercorrendo i momenti peggiori della mia vita, capisco di aver


sempre fatto la stessa cosa: isolarmi, chiudermi nella conchiglia, scendere a
un livello vitale minimo, iniettarmi una sorta di anestesia graduale che mi
sollevasse dal peso del reale. Viaggiare spesso è una diversa modalità di
farmi conchiglia per sfuggire alle grinfie di una società avvelenata dal
capitalismo. Riconosco il privilegio di essere nata in Occidente: da donna
indipendente non potrei fare altrimenti. Ma non posso negare la fatica che
comporta la libertà in un sistema così viziato e dunque anche un’isola di
sabbia bianca può diventare motivo per rifiorire. I diritti che mi spettano per
nascita, gli spazi che mi sono faticosamente conquistata sarebbero stati
molti meno o forse addirittura nulli altrove. Senza un passaporto italiano,
sarebbe stato più macchinoso – o perfino impossibile – visitare determinati
paesi. Tuttavia, sempre più spesso e soprattutto nel confronto con luoghi
molto diversi dal mio di provenienza, mi chiedo quanto costi ciò che chiamo
benessere. Non si tratta di una riflessione semplicistica del tipo “mollo tutto
e vado via”, quanto piuttosto di una valutazione critica che mi aiuti a uscire
dal soffocante eurocentrismo che respiro ogni giorno.

Ho sempre l’impressione che esistano solo Europa e Stati Uniti. Il


sacro mito dell’Occidente da cui filtrare ogni cosa, un criterio
universalmente valido per giudicare il resto del mondo. Quello che funziona
per noi è necessariamente ottimale e andrebbe esportato ovunque. Anche
con le bombe. Noi la sappiamo sempre più lunga di chiunque. Qualsiasi
evento accada sul pianeta genera sempre la stessa domanda: e ora che
facciamo? Il centro del discorso siamo sempre noi, per lo più contrapposti a
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loro. Dove con loro si intende chiunque non condivida o sperimenti il nostro
sistema valoriale che per forza di cose è il migliore. Capitalismo o barbarie,
per parafrasare ironicamente Rosa Luxembourg che aveva capito abbastanza
precocemente come questo finto benessere non costituisse la strada verso
uno sviluppo armonico e duraturo.

Sono anni ormai che – nei limiti del possibile – ho preso le distanze
dalle forme tipiche del successo in una società consumistica. Ho
abbandonato la città per tornare a vivere in un paese decisamente più
piccolo, ho messo in discussione la mia vita lavorativa almeno quattro volte
da allora, cerco tuttora di stare in equilibrio sui disastri che si susseguono a
ritmo continuo nella nostra società. Tornare a vivere in un posto come
Augusta dopo tredici anni di lontananza è un’autentica rivoluzione che
personalmente riesco ad affrontare con la tecnica della conchiglia. O
meglio: senza necessariamente dover vivere dentro un carapace tutto il
tempo, ma adottando la giusta distanza. Vivo qui geograficamente parlando,
ma mi tengo ben lontana dalla mentalità ristretta e dai soffocanti
conformismi della maggior parte dei suoi abitanti. Non ho mai partecipato ai
rituali sociali per ribadire la mia appartenenza al gruppo dominante:
aperitivo, abiti firmati, messa in piega impeccabile. Non lo facevo da
adolescente, non lo faccio adesso. E così posso vivere qui prendendo il
meglio e lasciando il resto. Oltre ad avere abbandonato la città, mi sono
staccata da un’idea di successo basata sulla disponibilità economica e un
concetto di carriera vorace che mi aiuti a conquistare sempre più cose
materiali per trovarmi comunque scontenta. Rassegnando le dimissioni dal
lavoro che facevo a Bonn, ho capito che se ero riuscita a lasciare quella
dimensione cui ero emotivamente legata avrei potuto lasciare qualsiasi
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luogo. Bonn non mi aveva donato solo uno stipendio, ma aveva inaugurato
una nuova vita. Adoravo la città, ma sentivo che non era più sufficiente.
Dovevo tornare a casa. Benché pensassi di essere una creatura priva di
radici, un giorno d’improvviso, quelle radici hanno cominciato a tirare e a
richiamarmi a casa. Contemporaneamente, la certezza di potermi fare
conchiglia mi tranquillizzava rispetto all’immediato futuro. Solo che avrei
dovuto aspettare altri sei anni per imparare a dire ciò che stava accadendo.
Avrei dovuto aspettare di trovarmi su una spiaggia bianca circondata dal
verde di foglie ampie e carnose che a tratti si staccavano dagli alberi
scrocchiando una volta toccato il suolo. Avvolta da un bozzolo di meraviglia
e stupore, mentre rinascevo dopo la pandemia, imparavo a raccontare la
primavera. Trovavo le parole per esprimerla esercitando la gratitudine e
lasciandomi curare dalla bellezza disseminata ovunque sul cammino.

Nel silenzio rosa del crepuscolo, trovo consolazione e sollievo dalla


solitudine che a volte diventa troppo ingombrante. Scivola lentamente
nell’oceano, liberandomi. La bellezza è una medicina senza
controindicazioni, è potente e vale ogni sforzo necessario per coglierla. Fare
la valigia, abbandonare temporaneamente il luogo che chiamo casa,
rimescolare le carte: tutto questo aiuta ad allenare la vista acuendo i sensi
intorpiditi dalla routine. Non so se sia una verità universale, ma i miei occhi
funzionano come muscoli da allenare regolarmente. Posandosi ogni giorno
sugli stessi paesaggi, iniziano a perdere i colori, impallidiscono come me.
Non esiste un luogo in grado di contenermi tutta. Nessun luogo ha mai
potuto estinguere definitivamente la mia fame, placare la mia voglia di
mondo, mettere a tacere frustrazioni o incertezze. Posso sperimentare
l’equilibrio solo muovendomi. Posso continuare a vedere solo oltrepassando
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il recinto del quotidiano, assecondando il richiamo dei luoghi e accettandone


la voce.

La luce gentile del primo tramonto mi ha accolta sull’isola dopo un


giorno di viaggio. Scendendo dalla scaletta di un piccolo aereo della
Maldivian air, vengo sopraffatta dall’emozione. Mi tremano le gambe per la
stanchezza: sono di nuovo dall’altra parte del mondo. Su un minuscolo
lembo di terra che mi ricorda quanto pretenziosa sia ogni idea di stabilità. La
notte sta per inghiottire ogni cosa, ma non ha fretta e il buio mi usa la
gentilezza di temporeggiare affinché io possa godere di questi primi
indimenticabili istanti. L’autista cerca di fare conversazione, ma sono troppo
stanca perfino per parlare e troppo intenta ad assorbire ogni fotogramma del
panorama fuori dal finestrino. Lascio che quest’isola diventi la mia casa per
i prossimi sette giorni, che mi parli, che si sveli, che si conceda ai miei occhi
assonnati con frammenti di vita ordinaria. Bambini che giocano, donne
velate che spazzano il marciapiede davanti casa o ritirano i panni, uomini in
scooter coi figli poggiati al manubrio. Ad un tratto la strada sembra
allargarsi fra gli alberi ed emerge un campo da baseball dove giocano vari
ragazzi ricoperti di polvere e sudore. In fondo alla strada che stiamo
percorrendo, svoltiamo a sinistra e costeggiamo un complesso con alcuni
edifici a un piano di un azzurro acceso. È la scuola dell’isola: classi miste
fino alle medie. Poi per continuare si cambia isola, mi dicono. Qui ci sono
meno di duemila abitanti, anche se nessuno sa darmi un dato preciso. Negli
ultimi anni Hanimaadhoo ha accolto gli abitanti di altri due isole –
Hathifushi e Hondaidhoo – costantemente minacciate dal cambiamento
climatico e dall’innalzamento del livello del mare. Nei prossimi
cinquant’anni, secondo le stime, potrebbe scomparire la maggior parte delle
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isole delle Maldive e proprio in un’ottica di monitoraggio del clima


Hanimaadhoo ospita un osservatorio meteorologico. L’isola è fra le più
remote, dista circa 290 chilometri dalla capitale Male e può essere raggiunta
in aereo con un volo nazionale come quello che ho preso io. Sarà pure
lontana ma vale ogni minuto speso nel tentativo di raggiungerla. Mi ha
chiamata a sé e sono felice di averla ascoltata.

AUGUSTA: VIVERE SULLA FRONTIERA

La balata liscia è letteralmente un pezzo di scogliera piatto che sembra


essere stato adagiato sulla superficie del mare che lo abbraccia come un
gioiello dimenticato. Osservato dalla curvatura sulla strada che porta al Faro
Santa Croce, quel lembo di costa rocciosa si estende fino all’orizzonte dove
cede il posto all’Etna nel punto esatto in cui cielo e mare si congiungono e
fondono. Per spiegare cosa ci sia di bello ad Augusta – una città altrimenti
spietatamente priva di grazia – bisogna per forza partire da qui. Bisogna
andare al Monte Tauro e seguire le indicazioni per arrivare al Faro, ma alla
fine della strada principale – di fronte alla Madonnina che da decenni
osserva il viavai di persone desiderose di andare al mare – bisogna svoltare
a sinistra. Si può anche lasciare la macchina e proseguire a piedi fino al
punto da cui lo sguardo si spalancherà su uno degli scorci più belli che
vedrete in tutta la vita. A quel punto, lo sguardo sarà rapito dal “mare color
dei pavoni” che lambisce il costone rocciosa erodendolo lentamente. Le
stagioni determinano vegetazione e colori della macchia mediterranea che in
primavera regala un incredibile mix di profumi. Mentre scrivo, l’estate sta
congedando la primavera per farsi strada tra gli arbusti che soffriranno la
sete e la calura estiva. Il verde non è più brillante come qualche giorno fa, la
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natura si prepara a una morte apparente. Gialla, marrone e arancione. La


superficie del mare brilla come se qualcuno le avesse steso un telo dorato
sopra per farlo luccicare al sole. Il lucore intorno fa fremere e vibrare l’aria
morbida e umida.

Ad Augusta sono nata. Ad Augusta sono cresciuta. Ad Augusta sono


ritornata dopo essere scappata per sfuggire a un perimetro troppo ristretto
per una diciottenne affamata di mondo. Tredici anni lontana da qui. Dieci
fuori dall’isola. Sulla terraferma. Senza il mare a circondarmi. L’isola entra
nelle ossa. Me la porto dentro il sangue. Viene con me, l’isola. Ovunque io
vada, anche quando non vorrei, anche quando mi piacerebbe essere
terraferma ancorata a qualcosa di più grande e solido per non andare alla
deriva. Isola sono nata e isola morirò. Isola è uno stato d’animo e un modo
di essere. E la Sicilia non è nemmeno un’isola qualunque. La Sicilia è un
pezzo di terra adagiata sul mare di fronte l’Africa. Non è un luogo finito,
compiuto o risolto. Qui tutto si muove, tutto si agita, tutto pulsa. Tutto cede
all’arrendevolezza della routine. Non sarei la stessa se non fossi nata in
Sicilia, se non ci avessi vissuto per diciotto anni assorbendo insanabili
contraddizioni e strazianti ferite. Vivendo qui e trasferendomi altrove, ho
trovato la mia vera dimora nella terra di mezzo. Né Africa, né Europa. Un
po’ l’una, un po’ l’altra. Con inevitabili pennellate di Medio Oriente.

Isola: lembo di terra circondata dal mare, luogo mistico dove la vita ha
un peso e una consistenza diversa. Dove si scruta l’orizzonte con timore e
devozione. Il mare nutre le isole e i suoi abitanti, ma può travolgerli e
inghiottirli. Isola. Isolamento. Isolata. Essere isola è la certezza dei nuovi
approdi che moltiplicano l’attesa e spalancano le braccia per accogliere.
Essere isola è mare che divide, circonda e unisce. Ho vissuto dieci anni sulla
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terraferma, ma sono veramente me stessa solo su un’isola. Col mare intorno,


la precarietà dentro al cuore e la nostalgia nelle vertebre. Sarei diversa se
fossi nata ancorata alla terraferma, salda fra le montagne o rigogliosa fra le
pianure. Invece sono nata su un’isola perennemente in bilico su ogni cosa.
In bilico sul tempo e sullo spazio. In costante attesa di una rivelazione, di
una salvezza o di un arrivo. Nello struggimento dei naufragi e nell’amarezza
degli addii. Il mare cuce, il mare dilania. Il mare inghiotte, il mare sfama. Il
mare consola e in un istante tradisce. Non fidarsi mai del mare oppure
fidarsi solo di esso. Tutto questo l’ho imparato sull’orlo di una scogliera
bianca, ad Augusta, respirando il veleno del petrolchimico costruito sulle
rovine di meraviglie archeologiche ormai perdute. Ho preso atto che la vita
sia piena di contraddizioni. Che nulla esclude il suo opposto. Che montagne
di spazzatura accompagnino luoghi incantevoli. Ho accettato di non capire
questa terra e – dopo averla abbandonata sperando di dimenticarla – sono
tornata e mi sono disposta ad amarla nonostante tutto. Mi sono arresa ad
amarla col trasporto degli amori ineluttabili. Da Augusta sono fuggita dopo
il liceo per conquistare spazio dentro e fuori di me. Ero convinta che non
sarei mai più tornata e non mi sono mai pentita della lontananza. Era
necessaria al ritorno. I giorni dell’abbandono mi hanno liberata dalle catene
dei tabù e dei luoghi comuni. Non sono la donna che sarei stata se fossi
sempre rimasta qui. Per fortuna. Sono la donna che ho costruito io stessa
ogni giorno. Ho avuto bisogno di andare per poi tornare, per scoprire la
vastità del mondo e la sua infinita miriade di possibilità che mi aspettano
oltre la soglia del conformismo e dell’abitudine. Se fossi rimasta qui, avrei
continuato per sempre a sentirmi sbagliata e fuori posto. Avrei vissuto una
vita non mia, nella pelle di una donna a me estranea.
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Viaggiando, camminando il mondo e incontrandone i figli e le figlie,


ho scoperto che – se anche non esistesse il mio posto nel mondo – è il
mondo stesso il mio posto. Tutto intero. Ovunque. Io appartengo al mondo
che è il mio habitat. La mia casa sarà in ogni luogo. Io sono l’isola, il
margine, il confine, la frontiera, l’orlo instabile delle cose, il vulcano. Io
sono ognuna di queste cose che mi porto dentro e fuori ovunque vada. Sono
fuggita e sono tornata, affascinata da una città che diventava approdo sicuro
per l’umanità in fuga da luoghi feroci. Quando Augusta è diventata primo
porto di sbarco, è stato il momento di tornare, di percorrere la strada al
contrario, di invertire la rotta per abbracciare gli esseri umani in cammino
verso un futuro migliore, alla ricerca di un luogo da chiamare casa. Gli anni
degli sbarchi senza sosta, dei sommersi e dei salvati, dei porti aperti sono
stati l’unico barlume di speranza in una terra che speranza non ne ha. Terra
disgraziata e ingrata coi suoi figli migliori. Sono tornata per accogliere e ho
finito per essere accolta a mia volta da decine di adolescenti che mi
affidavano pezzi della loro vita. Ho capito che il mio posto era qui e che
avrei potuto continuare a esplorare il mondo fra una pausa e l’altra. La
speranza degli approdi è ormai svanita: abbiamo fallito come terra e come
popolo nel dovere di accogliere e offrire rifugio a chiunque lo cerchi.
Abbiamo perso un’occasione unica di migliorarci nell’incontro con l’altro.
Eppure, io resto ancora qui. A scrutare l’orizzonte chiedendomi se qualcuno
abbia bisogno di aiuto. A navigare nella mia inquietudine ascoltando il
docile canto della natura al tramonto quando tutto si placa. A veleggiare
nella mia solitudine chiedendomi se prima o poi qualcuno vi attracchi.
Anche per poco, anche per sbaglio. O se continuerà a essere per sempre una
landa desolata e deserta.
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