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riconquistato un rapporto sano col mio corpo a cui sono estremamente grata
per non avermi mai tradita e per avermi sempre messa nella condizione di
godere al massimo di ogni avventura. Viaggiare sola mi ha aiutata a
costruire una versione migliore di me, più simile alla mia autentica natura,
più genuina rispetto a desideri e aspettative etero-indotte. È cominciato tutto
con un “prendo il treno” e pian piano si sono delineati viaggi, itinerari,
fughe più o meno lunghe. I giorni sono diventati settimane. E questo è solo
il viaggio fisico, visibile a occhio nudo. Il viaggio delle fotografie e dei
ricordi concreti dentro cui rifugiarsi quando si torna a casa per proteggerlo
dal logorio del tempo. Il viaggio fisico ne contiene altri due legati
all’immaginario. Ogni viaggio nasce dentro di noi in un momento preciso -
il momento in cui il luogo ci sceglie – e non termina svuotando la valigia al
ritorno. No, a volte non termina mai perché qualcosa continua a muoversi
dentro di noi senza fine. Questi due viaggi – esclusivamente legati
all’immaginario – sono altrettanto intensi di quello fisico, benché meno
evidenti.
vedermi tornare con gli occhi lucidi. A ogni ritorno, mi accoglie piangente
sulla solita panchina e lascia che il vento mi porti l’odore dei suoi prati.
Quindi, se viaggiate, diventerete più forti, ma rischierete di spezzarvi con
maggior facilità sotto la spinta delle contraddizioni, delle emozioni e dei
sentimenti che si agiteranno dentro il vostro cuore nomade.
Una cosa che ho imparato andando via dal luogo in cui ero nata e
vissuta fino alla fine del liceo è che nessuna partenza è neutra. È pura
illusione quella di andar via da un luogo e tornarvi come se nulla fosse
accaduto. Forse qualcuna riesce a farlo, ma non l’ho mai incontrata.
Solitamente, trasferirsi altrove crea una spaccatura insanabile e nel mio caso
ha fatto sì che cominciassi ad abitare la zona grigia. Un non-luogo dalle
coordinate geografiche inesistenti, uno stato d’animo che mi condanna
all’inquietudine esistenziale perenne, una condizione per cui non sarò mai
pienamente a casa in nessun luogo, ma potrò temporaneamente esserlo
ovunque. Una strana mancanza di radici che tornano a manifestarsi quando
meno me l’aspetto e che mi lascerà attecchire ovunque, regalandomi
un’intima gioia in qualsiasi luogo mi trovi. A un tratto, però, la fame del
mondo tornerà, l’inquietudine non mi lascerà dormire serena e un luogo
nuovo mi chiamerà. Allora, il ciclo ricomincerà. Non so se questi sentimenti
siano universali o quantomeno mediamente condivisi, ma so per certo che
consiglierei a ogni donna di superare la soglia di casa e della paura per
sperimentare l’emozione di viaggiare da sola.
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stipendio più basso di quello che qualsiasi tedesca avrebbe chiesto al posto
mio e con le mie qualifiche. Ma a me non serviva solo uno stipendio: avevo
bisogno di una chance per cambiare tutto. Quindi ce l’ho messa tutta, ho
passato la selezione e mi sono trasferita. Tutto nel giro di un mese e con la
pandemia che si allargava a macchia d’olio. Già mi immaginavo viaggiare
per il sud della Germania, riprendere la buona abitudine dei weekend fuori e
delle esplorazioni in solitaria. Prima ancora di partire avevo acquistato i
biglietti del Cirque du Soleil e quelli per andare a Salzburg e Ratisbona. Qui
non sarei mai andata, mentre Salzburg sarebbe rimasta la mia ultima
escursione. Quando è diventato chiaro che la pandemia avrebbe messo in
discussione il nostro perimetro esistenziale, contraendolo all’osso, mi sono
consolata pensando che potevo comunque scoprire Monaco. Una prospettiva
che mi ha salvata dallo scivolare nello sconforto più profondo.
pelle del viso diafana. Il braccio sinistro è intrecciato come una vite
rampicante a quello del marito che sembra guidarla. In verità, non ho idea se
sia il marito l’uomo che la accompagna e nel corso del tempo ho
immaginato mille storie diverse per questa singolare coppia. Per oltre tre
mesi, li ho incontrati quotidianamente. Non ricordo molto dell’uomo.
Ricordo la sua presenza, la sua fisionomia, ma null’altro. Al contrario, lei la
ricordo bene con quella sua aria ultraterrena e lo sguardo verso un
imprecisato altrove. Per mesi hanno allenato la mia fantasia atrofizzata
costringendomi a inventare storie che si addicessero loro. Per mesi ho
ricordato a me stessa che viaggiare è soprattutto un’attitudine alla vita, non
solo l’azione in sé e per sé. Non si tratta di spostarsi, ma di mantenere
accese le antenne che ci connettono al mondo alla ricerca della meraviglia,
della magia che ci circonda costantemente.
che mi portavo dentro. Era come venire al mondo con addosso pesanti
cappotti che – oltre a soffocarmi – non crescevano insieme a me e dunque
per starci dentro dovevo comprimermi, reprimermi e rinunciare a porzioni
della mia personalità. Andar via per molti anni mi ha permesso di plasmare
un percorso solo mio inaugurando un cammino lungo e tortuoso. Non sono
bastati tre anni a Palermo e sei a Roma per spiccare il volo. Avevo bisogno
di trasferirmi in Germania per aprirmi al mondo. Nel suo accogliente
grembo, mi sono sentita sicura e pronta a mollare gli ormeggi. Fra le sue
strade, sui suoi treni, ho conosciuto me stessa e ho amato ogni luogo.
Ciascun borgo, ciascuna stazione conservano frammenti della mia rinascita.
Questo libro è quindi anche un canto di ringraziamento alla mia zweite
Heimat, la mia seconda patria, la patria della sicurezza, della libertà,
dell’autostima. Gradualmente ho riconquistato il mio spazio nel mondo,
liberandomi da decine di catene e zavorre, affrancandomi da molti
condizionamenti. Viaggiare è inevitabilmente una questione di spazio e lo
spazio mi aspetta sempre oltre la paura e i pregiudizi. Il viaggio sarebbe
stato il mio abito su misura, modellato su sentieri mai battuti prima. Dal mio
trasferimento a Bonn, la parola solitudine ha assunto un significato del tutto
diverso da qualsiasi sentimento io avessi provato prima di allora.
mediare con nessuno. Quello che mi auguro dal profondo del cuore è che,
una volta chiusa l’ultima pagina, tu che lo leggi avrai voglia di preparare
uno zaino o un trolley per camminare il mondo. Non importa se la meta sarà
vicina o lontana. Ciò che conta è che tu decida di camminare il mondo per
conto tuo, al tuo ritmo, col tuo passo e scoprendo la tua voce nel silenzio
intorno. Questo libro è un modo come un altro per dirvi: se ce l’ho fatta io,
può farcela chiunque. Dunque, se vi attira l’idea, fatelo e basta.
Per tre mesi con il sole o con la pioggia ho attraversato ogni giorno
feriale il Kennedybrücke che collega il centro di Bonn col quartiere
chiamato Beuel dove ho vissuto per quattro anni. Ancora adesso, ogni volta
che ritorno in città, abito nella stessa zona tanto sono affezionata alle sue
strade. Da metà febbraio a fine maggio 2013, ogni giorno, ho percorso a
piedi i chilometri che separavano il mio ufficio dalla scuola di tedesco in
pieno centro. Alle diciassette circa, mi chiudevo la porta dell’ufficio alle
spalle e mettevo un piede dietro l’altro svuotando lentamente la testa dalle
incombenze della giornata. Quarantacinque minuti di camminata a passo
veloce per arrivare in tempo per le mie tre ore quotidiane di lingua tedesca.
Non so perché non prendessi i mezzi. Da un lato, non volevo interagire in
una lingua che non conoscevo ancora. Dall’altro credo avessi bisogno di
quel tempo e quel movimento per scaricare l’enorme tensione che
accumulavo quotidianamente e familiarizzare col paesaggio. Avrei potuto
finire per odiarlo quel ponte e invece ancora oggi ci lega un rapporto intimo
e speciale. Per anni l’ho paragonato a un fidanzato nuovo verso cui si prova
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Bonn non era solo una città o un lavoro. Bonn era la vita nuova, un
capitolo pronto a far fruttare il mio talento. Io avevo bisogno di una seconda
chance e Bonn me la offriva per dimostrare quanto valessi. Finalmente
potevo mettermi concretamene alla prova. Oltre alla carriera, mi veniva
offerta una pagina bianca immacolata da cui cominciare a scrivere la mia
storia. Percorrendo l’Altstadt, incantandomi di fronte ai ciliegi in fiore per
annunciare la primavera, gustando un boccale di birra in un Biergarten sul
Reno, mi appropriavo della città e muovevo i primi passi per conquistarmi
un posto nel mondo. Non potevo lasciarmi fermare dalla condizione di
ragazza sola che non parlava la lingua. Non potevo sprecare una chance
irripetibile di riprendere in mano il mio futuro per plasmarlo in base ai miei
desideri. Una strada dopo l’altra, si profilava la geografia del cuore. È così
che i luoghi diventano indelebili: camminandoli, vivendoli, percorrendoli,
facendosi ricordo. Ci sarà sempre un luogo che rievocherà una telefonata,
una gioia, un dolore, una pioggia improvvisa. La mia personalissima mappa
emotiva avrebbe contenuto tutte le sfumature di quegli anni. Un balcone
smetterà di essere anonimo e diventerà un rifugio dalla pioggia, se in un
giorno d’estate stavi andando in costume a prendere il sole quando il cielo si
è spaccato a metà facendo scrosciare un acquazzone impressionante. Quel
balcone susciterà tenerezza ogni volta che, oltrepassato il ristorante Canal
Grande, me lo troverò lì immutato e rassicurante lungo il percorso per
tornare a casa.
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della mia lista (sì, ero nella fase delle liste in quel momento!) che per
convinzione e trovai due amabili signori settantenni che chiacchieravano fra
loro. Vedendomi entrare, si sono illuminati e mi hanno accolta col sorriso
delle grandi occasioni. Il mio pessimo tedesco non era di aiuto nella
comunicazione, ma loro mi hanno accompagnata durante tutto il percorso
del museo. Mi hanno spiegato le foto, arricchendo qualsiasi reperto di
aneddoti che ero purtroppo incapace di apprezzare a pieno. Tuttavia, otto
anni dopo, io loro due me li ricordo ancora. Non so cosa mi abbiano
raccontato, ma ricordo perfettamente il calore del loro benvenuto e conservo
nella mia libreria un libro sul carnevale a Mainz che non ho mai letto.
L’importante è che stia lì. Ad aspettarmi. Come i due amici della domenica
che me l’hanno venduto salutandomi con affetto.
BERLINO FERNWEH
men che non si dica una ragazza controlla il mio biglietto, posiziona un
braccialetto sul mio polso sinistro e mi augura buon divertimento
indicandomi una enorme porta anti-panico cui accedere alle ex piste
d’atterraggio e decollo. L’area esterna è immensa ma perfettamente
organizzata. Camioncini con cibo di tutto il mondo sfamano le migliaia di
persone presenti. E poi ci sono io che non ho idea di quale sia il palco dove
suonerà Bjork ma ho la certezza che – un piede dopo l’altro – ci arriverò.
Come sempre, basterà non farsi scoraggiare dalla stanchezza o limitare dalla
paura. Mi immergo nell’umanità che balla e suda e canta e si abbraccia.
Vedo amiche stringersi in un saluto che da solo esprime tutta la mancanza e
la gioia nel rivedersi. Mi sento minuscola nella folla che non diventa mai
calca viste le dimensioni del posto. Mi sento potente e padrona dei miei
giorni. A fine luglio ho firmato il mio primo contratto a tempo
indeterminato: ora posso veramente considerare la Germania casa mia. È
finita l’incertezza della sostituzione per maternità. Sono qui per restare.
Archiviati i dubbi, abbandonate le paure, sono pronta a inserirmi nella mia
nuova patria. Ora sono qui, nella capitale. In fila per un curry indiano
richiamata dall’odore squisito che arriva dal camioncino dove lo preparano.
Il suo profumo mi consola immediatamente, assaggiandolo dimentico la
tristezza della mattinata.
seguente. Mi sveglio presto e non vedo l’ora di perdermi per le vie dell’isola
dei musei. Non c’è quasi nessuno in giro e mi godo il silenzio di Berlino al
risveglio mentre percorro i canali dietro il Bodenmuseum. In un’area
abbastanza grande stanno montando stand e bancarelle. C’è ancora tempo
per scambiare due parole nel mio tedesco traballante mentre osservo il
mercato delle pulci in allestimento. La domenica in Germania e in Olanda
era spesso il giorno dei mercati delle pulci. L’arte dello sbaratto elevata a
maggior dignità. Da vecchi cartoni impolverati e valigie mezze scassate
tornavano a nuova vita servizi di piatti, vinili, capi d’abbigliamento,
fotografie, cornici, oggetti indecifrabili, cimeli della Seconda Guerra
Mondiale. Fra due bancarelle, un ragazzo ha steso un ampio lenzuolo bianco
su cui ha collocato un numero imprecisato di bicchieri più o meno pieni da
cui ricava una musica sottile e armonica che si sprigiona nell’atmosfera
molle del mattino. Continuo a camminare senza una meta. Sto andando in
direzione della sinagoga ma senza seguire un tragitto preciso. Non ho fretta
e sono disposta a perdermi più e più volte. Sono pronta a riavvolgere i miei
passi fra i vicoli della città che si stiracchia per iniziare un nuovo giorno.
Con la coda dell’occhio, vedo dei gradini che sembrano portare in
prossimità della Sprea, il fiume che attraversa la città. M’incuriosiscono e
decido di seguirli. Non ho nemmeno il tempo di finirli che mi trovo
catapultata in una scena da film, un quadro dal vivo con sottofondo di
musica francese. Nell’aria si perdono le note de La Valse d’Amélie e una
dozzina di persone balla in coppia. Sono tutte vestite di bianco, alcune
indossano un piccolo accessorio colorato. Un fiore giallo fra i capelli, una
cintura verde smeraldo, un bracciale scarlatto. Mentre il volume della
musica aumenta d’intensità, il cuore perde un battito. Tutta questa bellezza è
lì per me. Questa domenica mattina mi stava aspettando e io sono arrivata in
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tempo per goderne. Il sole nel frattempo è alto in cielo e fa più caldo. Sono
come congelata a osservare ogni dettaglio. Da questo momento, il mio
viaggiare avrà una consistenza diversa e più radicata all’origine dello
stupore. Sta nascendo in me un sentimento nuovo – o forse antichissimo –
che avrei impiegato anni a definire perché nella mia lingua non esiste una
parola che lo connoti. Dovrò aspettare che quella parola mi venga offerta dal
tedesco: Fernweh. Letteralmente il dolore per le cose lontane.
Concretamente, la nostalgia provata verso luoghi mai visti. Al suo opposto,
l’Heimweh simile all’homesickness dell’inglese. Solitamente tradotti come
nostalgia di casa, credo sia difficile cogliere a pieno la loro profondità.
Temo non emerga la dimensione del dolore, della malattia che quasi abita
questi stati d’animo. A Berlino, sul lungofiume, in riva alla Sprea, con la
Valse d’Amélie in sottofondo ho capito di essere nata imbevuta fino al
midollo di nostalgia del mondo. Un dolore che risale all’origine stessa del
mio io.
Una delle poche certezze che ho è che la mia vita soltanto non mi è
mai bastata, né mi basterà. Troppo poco, troppo insignificante rispetto
all’infinito dedalo di possibilità che esistono. D’estate la mia famiglia si
trasferisce in una casa in campagna e questo piccolo trasloco ha sempre
denotato l’inizio ufficiale della stagione del mare, della granita e delle cene
fuori fino a tardi. I pomeriggi trascorrevano soffici leggendo un libro dopo
l’altro, fin quando non arrivava l’ora del tramonto. A quel punto, prendevo
il libro del momento, l’immancabile diario segreto e salivo in terrazza. In
questo modo, frapponevo una distanza fisica ed emotiva dal quotidiano per
avventurarmi in una dimensione diversa. Quella scala era la dichiarazione
d’intenti di una bambina di otto anni innamorata tanto della compagnia
quanto della solitudine. Trent’anni dopo, sono ancora alla ricerca della
giusta distanza. L’umanità mi distrae e confonde, mi fa perdere il baricentro.
Mi manco e mi ritrovo allenando lo sguardo ad allungarsi altrove, oltre
l’orizzonte. Anche per questo viaggio: per oltrepassare limiti fisici ed
emotivi, per mettermi alla prova, per capire ancora meglio di che pasta sono
fatta. Ho la fisiologica necessità di coltivare più vite e nutrire molteplici
versioni di me stessa. Solo una vita, una lingua, una casa, un luogo, una me
non mi bastano. Così continuo a ricercare, agognare, bramare, rincorrere,
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La mia poesia più bella?
Io non la scrissi.
Emerse dal profondo delle profondità.
La tacqui. + Prendi la tua ombra come compagna
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Norimberga Weltschmerz
FOTO
dispersa. Tutto a un tratto, lo vedo: un uomo sta pescando sugli scogli, sullo
sfondo dell’orizzonte. Immagino di intravedere perfino il sottile filo della
canna da pesca immersa nel mare e percepisco i movimenti flessuosi del
corpo che asseconda la presa. Non lo guardo in volto. È solo un profilo con
un cappello, un elemento del creato in piena armonia con esso.
luogo saprà svelarci qualcosa di noi stesse che ignoriamo o evitiamo. Quindi
se la domanda è: come si fa a sopravvivere ammirando una meraviglia senza
poterla condividere, la mia risposta è semplice. Aspettando. Lasciando che
le sensazioni si sedimentino dentro di noi, che scavino tunnel e guadagnino
spazio per fiorire. Le esperienze vissute da sole – senza poterle
immediatamente mescolare col sentire altrui – si sedimentano e
cristallizzano in modo diverso. Superata la fase dello sconcerto e il
dispiacere, mi sono semplicemente lasciata travolgere dalla meraviglia
dandomi il tempo per metabolizzare l’esperienza e trasformandola in
ricordo. Mi rigiravo ogni istante in mente – come una caramella
particolarmente succosa sulla lingua – e lo guardavo crescere, definirsi,
adagiarsi. Se ripercorro gli attimi memorabili in cui sono sola di fronte a
un’esperienza che mi spiazza per la sua bellezza, emergono particolari e
colori che sarebbero facilmente potuti scivolare nel dimenticatoio. Alcuni si
perdono comunque, piccoli dettagli irrilevanti si annacquano nella mente
mentre altri si aggrappano con ostinazione alle pareti della memoria e
permangono negli anni. Alcuni sopravvivono senza particolari meriti,
conquistando un’insospettabile eternità. Altri fluttuano di fronte allo
sguardo finché non trovo il tempo necessario per fissarli sulla carta. È come
se avessero paura di sbriciolarsi e mi pregassero di farli rimanere. Come i
cammelli al tramonto. Pur non essendo sola in quell’istante, sono stata
sopraffatta da una gioia privata e incommensurabile che ha continuato ad
affollarmi la testa fin quando – finalmente sola in camera – non ho avuto
tempo e modo di fissarla nero su bianco. Ora erano salvi, potevo andare a
dormire e una volta a letto mi è tornata in mente la donna che camminava
sul bordo della strada che stavamo percorrendo. Anche lei rivendicava una
porzione di eternità insieme ai suoi due figli, alla cesta coi panni in
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ultimo sguardo e poi proseguo. Otto anni dopo quel fotogramma è rimasto
inalterato nella mia memoria, conquistando una sorta di sacralità
intoccabile, nonostante non abbia mai più rintracciato quell’angolo. Nel
ricordo so bene come ci sono arrivata, ma nella pratica non esiste più.
Svanito. Forse soltanto sognato e immaginato. Ho cercato su Google, ho
provato a scrutare varie vedute aeree, a passare e ripassare nei dintorni del
municipio ma nulla. Mi sono consolata però con la fastosa imponenza di
quest’ultimo: le imposte carminio e i decori color oro meritano almeno una
menzione per la loro bellezza, soprattutto se colpiti dal sole che sparge nella
piazza del mercato antistante decine di preziosi riflessi.
scorre, un libro poggiato sul tavolino bianco, la cena in forno oltre la porta
color miele, nell’aria le note profumate dei fiori lilla.
Negli anni sono tornata varie volte a Delft, sola, in coppia, con
un’amica. Andando spesso a Rotterdam, cercavo di fare sempre anche solo
una breve pausa qui. Il municipio con le imposte rosse su piazza del mercato
non è l’unico ricordo che ho conservato. Ci sono anche le famiglie riunite a
tavola in sala da pranzo che scrutavo camminando per strada. Amo questa
possibilità di partecipare per pochi secondi alle vite altrui. Una volta stavo
percorrendo una via lunghissima, intervallata da vari ponti a unire i due lati
del canale. Tutto è immobile, statico e perfetto avvolto in quella misteriosa
luce che porta con sé un insondabile segreto. Alla fine della strada, fra due
edifici che in prospettiva sembrano sfiorarsi, il sole arancione del tramonto
sembra incastrato fra le facciate. Arrivo da un vicolo laterale e non sono
pronta a questo spettacolo quando svolto l’angolo trovandomi quel cerchio
infuocato sospeso fra i palazzi. Sono costretta a fermarmi per assorbire
meglio questo momento: la meraviglia accade, senza farsi annunciare o
intuire da alcunché. Mi torna in mente un’alba in viaggio per Bruxelles, un
ricordo del periodo in cui ogni weekend salivo su un treno per una meta
nuova. Per mesi, ho preferito il Belgio approfittando dei collegamenti veloci
e confortevoli da Colonia.
Una mattina di marzo mi sono svegliata nella mia casa a Bonn ed era
come se il tetto si fosse abbassato fino a sfiorarmi il naso in procinto di
schiacciarmi. È un periodo terribile, uno di quelli in cui il passato torna a
tormentarti e una storia chiusa si ripresenta con prepotente ossessione a
bussare alla porta. Da mesi fatico ad andare avanti con la mia vita ordinata,
a mantenermi in equilibrio fra lavoro e incubo privato. Così una mattina –
credo fosse un mercoledì – mi sveglio con un pensiero fisso: devo vedere il
mare, ho bisogno del mare. Sarei voluta rimanere a letto sepolta sotto le
coperte, inventandomi pretesti per non avventurarmi fuori casa, per eludere
le mie responsabilità lavorative. Ma ovviamente non posso e trovo la forza
per affrontare il mio cuore in tumulto, costringendolo a rimanere
intrappolato dentro la cassa toracica recuperando un ritmo più calmo.
Decido di ignorare l’ansia che mi stritola i polmoni. Resisto pensando al
mare e un nome si materializza fra i miei ricordi: Zandvoort. Non ci sono
mai stata, l’ho solo letto da qualche parte e so che si trova vicino Haarlem
che da tempo vorrei visitare dove aver scoperto la sua storia di roccaforte
della resistenza contro i nazisti. Questi pensieri mi distraggono, consentendo
alla morsa di acciaio di allentarsi e di arrivare fino a sera dopo la giornata in
ufficio. Rientrata a casa, controllo i passaggi disponibili per Amsterdam e ne
trovo uno che parte da Bonn. Solitamente devo andare da qualche parte a
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sguardo alla luna che trionfa sopra di me. Sono felice del calduccio che mi
accoglie in camera e mentre attraverso il ventre dell’albergo realizzo che
somiglia a un’imponente nave. Gli incubi mi lasciano in pace e al risveglio
mi affaccio sul piccolo balcone vista mare, immergendomi nella pungente
aria del mattino. Noto qualcosa di diverso nella spiaggia, ma non metto a
fuoco cosa e corro a prepararmi per la colazione. L’area è enorme e c’è
molta più gente di quanto avrei immaginato. Mi metto in fila per le uova
strapazzate (che vacanza sarebbe senza?) e scelgo un tavolo isolato accanto
a un’enorme vetrata che affaccia sul mare. Improvvisamente, mentre gusto
la mia frutta appena tagliata, visualizzo cosa c’è di diverso nella spiaggia: ne
mancano vari pezzi e al loro posto si vede l’acqua. Accanto alle pozze,
simili a piccoli laghetti superficiali, compaiono dei grossi macchinari che
ricompattano la sabbia, ripristinando l’aspetto della battigia. Li avevo notati
anche il giorno prima, ma non mi ero soffermata per capire a cosa
servissero. Mi torna subito in mene il motto che avevo imparato a
Kinderdijk, un altro dei miei luoghi del cuore: Dio ha creato la terra, ma gli
olandesi hanno fatto l’Olanda. Ora so perché sono qui: per interiorizzare la
magia implicita nei luoghi e nelle persone di disfarsi e ricostruirsi. Di
perdersi e ritrovarsi. Di lasciarsi consumare dalle onde aspettando che ci
restituiscano o riformino i pezzi mancanti. C’è sempre un segreto di
rinascita in ogni disperazione. C’è una promessa di resurrezione anche dopo
la notte più buia. Imparare a stare al mondo non vuol dire evitare la
mezzanotte ma attraversarla con la fiducia necessaria ad accogliere l’alba.
Significa ascoltare il nostro ineludibile bisogno di consolazione e affidarci
alla geografia della salvezza. Significa, in breve, riprenderci lo spazio a noi
dovuto.
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Fra tutte le città olandesi che ho visitato negli anni, Rotterdam è quella
che mi piace meno. Eppure, è quella dove sono tornata più spesso. Dopo
Eindhoven che detiene la medaglia dell’orrore in cemento, Rotterdam è
quella che mi affascina meno proprio per quelli che sono considerati i suoi
punti di forza: architettura avanguardista, modernità a ogni costo, vitalità e
frenesia. Rotterdam è una città vivace dove sembra in corso qualcosa di
grandioso e scoppiettante. Siccome però io prediligo l’Olanda bucolica,
idilliaca (e sì, lo ammetto, anche molto stereotipata), Rotterdam non mi
intriga coi suoi grattacieli, con le sue stravaganti architetture e i suoi palazzi
futuristici. Ma qualcosa mi ha legata a sé dalla prima visita spingendomi a
tornare più e più volte e a usarla come punto di partenza per le mie
esplorazioni. Creo una routine in questa città che vibra come percorsa da
un’energia incontenibile e scelgo un albergo come culla dei miei passi. Si
chiama Bazar ed è collocato sulla via più cool della città. Il nome la dice
lunga su cosa ci si possa aspettare al suo interno. In ogni dettaglio, infatti,
richiama un bazar stracolmo di strani oggetti e una miriade di colori.
Oltrepassando la soglia della hall, mi ritrovo immersa nella luce soffusa e
rotonda che mi catapulta a latitudini ben più meridionali. Non importa se
tre passi fa c’era freddissimo e un vento insidioso strisciava come una lama
colpendomi la pelle. Qui dentro sembra di stare in Marocco con
quell’abbondanza di mobilio, di legno scuro e profumato, di pesanti
lampadari in argento con inserti colorati che pendono dal soffitto, di
massicci servizi da tè lucidati di fresco.
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Le stanze del Bazar sono tutte diverse, soprattutto le suite che credo di
aver provato tutte a rotazione. Con o senza baldacchino, con doccia o vasca
idromassaggio. Una in particolare la ricordo per esserci rimasta a mollo
oltre un’ora insieme a Gaia che si era appena laureata e si era lasciata
trascinare in giro per l’Olanda. Di ritorno da Keukenhof e Leida, dopo
chilometri e chilometri di camminate, ci siamo fiondate nell’acqua tiepida a
chiacchierare prima di trovare la forza per vestirci e andare a cena al
ristorante dell’albergo, altra chicca imperdibile. Il motto è: “Bazar incontra
il mondo” e il personale di sala sembra provenire da vari angoli del globo. Il
ristorante è un sogno multietnico a tre piani in legno massiccio con decine di
lampade pendenti. La luce che diffondono si mescola in un carosello di
colori che avvolgono chiunque si trovi al suo interno. Il locale è sempre
frequentato – dalla colazione alla cena – ma il weekend di sera è
praticamente impossibile trovare posto. Siamo grate di essere clienti
dell’albergo e di avere una corsia preferenziale nell’assegnazione del tavolo.
Ecco il momento più atteso, il vero pezzo forte del Bazar: il cibo. Che si
tratti dei pancake mille buchi serviti a colazione con miele, formaggi, yogurt
e frutta fresca o del menù alla carta, è tutto squisito. Sono tutti piatti della
tradizione mediorientale, dal Nord Africa al Libano, alla Giordania.
L’hummus ha una consistenza di velluto, si scioglie con un sentore speziato
che permane a lungo sul palato spingendoti a individuare quale sia
l’ingrediente responsabile di quell’alchimia. Le prelibatezze vengono servite
su piatti riccamente decorati a mano e portate ai tavoli su enormi vassoi che
sembrano pesare una tonnellata.
Un altro dei punti forti del coffee shop anonimo cui mi sono subito
affezionata, era proprio la sua collocazione in prossimità dell’albergo e del
suo impareggiabile ristorante. Appena inizio ad avere fame, basta scendere
la scala, uscire, percorrere la via fino alla fine e sedermi a uno dei vari
tavolini. A seconda dell’orario e man mano che si fa tardo pomeriggio o
sera, il percorso si affolla di la gente che si accalca fra i locali attaccati uno
all’altro fino al mio hotel. Witte de Withstraat riecheggia del vociare di
centinaia di ragazzi e ragazze cui si mischiano canzoni e strumenti dal vivo.
Se mi manca il mare, basta spingermi oltre la fine della via, svoltare qui e lì
e arrivare alle case galleggianti. Mi avventuro spesso fin lì: una ha dei fiori
vermigli sul davanzale ed è pitturata di azzurro. C’è un vaso vuoto nel lato
interno della finestra. Me ne accorgo perché viene colpito da un raggio di
sole che – trafiggendo il vetro – sparge riflessi colorati tutto intorno.
della mia età, gli avventori sono tutti molto più grandi. È ancora mattina
presto. L’atmosfera è sonnolenta e rilassata, i bar sono vuoti e i tavolini
rimangono in attesa di clienti. Nella quiete del mattino, mi spingo fra ponti e
canali lungo la via del mercato: è il commiato perfetto da una città dove
sono tornata spesso in cerca di consolazione e adrenalina. Mentre ne scrivo,
rievocando i giorni felici che vi ho trascorso, mi rendo conto di quanto
Rotterdam sia stata cruciale durante i miei anni da expat, nella mia
evoluzione come persona e come viaggiatrice. Mi manca: devo rivederla al
più presto.
Esiste una bellezza oggettiva dei luoghi che si manifesta nel paesaggio
e nella cultura. Espressioni artistiche, paesaggi mozzafiato, architetture
imperdibili che connotano l’anima di una città. Ogni luogo ha un corpo che
lo distingue dagli altri, benché a renderlo veramente speciale sia lo sguardo
di chi lo attraversa. Una collina è solo un pezzo di terra rialzata e
potenzialmente sdrucciolevole senza l’anima di chi la percorre. Ed è proprio
la compenetrazione coi luoghi che visitiamo a renderli speciali. Più che
altrove questa cosa l’ho imparata ad Hannover, una città comunemente
considerata insulsa. Ancora adesso i colleghi mi prendono in giro per questa
mia fascinazione nei confronti di Hannover. Ancora oggi, dopo molti anni
dal weekend che ho trascorso lì, conservo svariati ricordi. Uno su tutti: la
felicità. Quando visito Hannover, sono felice e quella gioia me la porto
ancora dentro a distanza di anni. Il tempo non è dei migliori. È novembre, il
cielo è basso e grigio. Mi guasta la festa di colori che altrimenti avrei avuto
sul lungofiume con le Nana di Niki de Saint Phalle. Le statue catturano
l’attenzione di chi passa con le loro abbondanti curve e le tonalità sgargianti.
Sta per cominciare a piovere e sento il morso prepotente della fame che
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viaggiatori. Alcuni dei luoghi che visitiamo sono così remoti che saremo gli
unici ospiti in tutto l’anno. Il progetto del giardino nasce per aiutare le
donne a gestire meglio la vita familiare e lavorativa: casa e cura dei bambini
- qui come ovunque nel mondo – pesano inevitabilmente sulle spalle delle
madri. In questo modo hanno la possibilità di organizzare il proprio tempo
al meglio.
controllare il peso dei figli ed evitare ricadute. Quasi tutti i bambini sono
stati ricoverati per casi di malnutrizione più o meno grave. Veniamo
presentati al gruppo di donne in attesa del proprio turno nel cortile interno,
alle spalle del dispensario che vede incrementare costantemente il numero di
pazienti in arrivo. Suor Augustine ci aiuta a intervistare queste madri che
spesso ignorano la propria età, ma descrivono con dovizia di particolari
l’esperienza vissuta qui alla struttura. Le suore e lo staff medico hanno
salvato centinaia di vite umane e la gratitudine è evidente sui volti delle
donne presenti. Hanno fra i venti e i quarantacinque anni. Una di loro si
chiama Zonabo, ha meno di trent’anni e ha già perso un figlio per
malnutrizione, mentre le altre tre bambine – che oggi sono qui con lei e non
stanno ferme un secondo – sono state ricoverate in tempo. Sono rimaste un
mese intero al centro sanitario. In bilico fra la vita e la morte. A giudicare
dal baccano che fanno adesso, però, sembrano perfettamente ristabilite
come confermerà anche la visita a seguire. Finita l’emergenza vengono
prescritti controlli regolari cui le bambine si sottopongono senza troppe
storie. Insieme alla donna ci sono due bambine approssimativamente di sette
e dieci anni che dovrebbero essere a scuola ma hanno dovuto accompagnare
la donna per aiutarla a gestire le figlie.
riservata, in netto contrasto con la frenesia della veranda dove c’è un viavai
continuo di persone di ogni età. Loro due sembrano avulse dal contesto in
cui si trovano. La ragazza sorride alla bambina sfiorandole la fronte con un
gesto dolcissimo che custodisce in sé il filo rosso che lega una madre a sua
figlia. Ad un tratto, si accorge di me e sorride sollevando piano la mano
libera, quella con cui un attimo prima accarezzava dolcemente la piccola.
Subito dopo ritorno alla realtà, continuando a chiedermi chi sarei stata se
fossi nata e vissuta in circostanze totalmente diverse. Osservo l’ambulatorio
dove si effettuano le visite. Forse anche io sarei venuta qui con un figlio o
una figlia sull’orlo della morte perché non posso nutrirli a sufficienza. Prima
si verifica il peso trattenendo il sospiro finché la lancetta della bilancia non
decreta che siamo fuori pericolo. Dopo è il momento dei sorrisi o dei visi
corrugati (pochi, forse nessuno quel giorno): le terapie stanno funzionando.
Il peso viene annotato da un’altra suora che compila la cartella clinica
stabilendo la data per la prossima visita di controllo. Questa è casa loro, mi
dico, quando le vedo abbracciarsi per la felicità. Casa loro è un posto dove si
muore da un momento all’altro perché non sai come dar da mangiare ai tuoi
figli. Non c’è una guerra, eppure muoiono come mosche senza le giuste
cure. Un’esperta di malnutrizione spiegherà che il dramma vero è che si
muore soprattutto per ignoranza, più che per effettiva carenza. Il nutrimento
lo avrebbero anche a disposizione, ma mancano i fondi per organizzare
workshop itineranti che spieghino alle famiglie come usare gli alimenti
reperibili al meglio per creare pasti arricchiti. Ecco casa loro, quella
sbandierata in Europa come argomentazione per chi tenta di trovare una vita
migliore. Eccoli i potenziali migranti economici, un’etichetta vuota che
serve solo a sminuire il dramma di milioni di persona in fuga per motivi che
noi non riusciamo nemmeno a immaginare.
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chi mangia patatine e beve coca-cola anche se non sono nemmeno le nove
del mattino. È un tutto un andirivieni di persone e io sono felice di avere
qualcuno che si occupi delle cose pratiche per non commettere errori in quel
marasma. L’autista ci dice dove aspettarlo e torna poco dopo con biglietti e
bagagli su cui ripone una etichetta col nome dell’isola dove siamo dirette. Io
vado a Gili Meno, Courtney a Gili Air mentre la prima tappa sarà Gili
Trawagan (l’isola dei party e dei surfisti). A bordo del traghetto
chiacchieriamo e scopro che anche lei viaggia sola. Ha una voce allegra e
nessuna ritrosia nel dirmi di essersi laureata qualche mese fa. “Ho capito che
era il momento di mettermi in viaggio, lasciare le poche sicurezze che avevo
a casa, mollare il lavoro e fare la valigia”. La invidio enormemente. Mi
sento vecchia per questo tipo di scelte, benché sappia che l’età è solo una
scusa. Mentre le persone andavano in una direzione di stabilità
preconfezionata, lei ha deciso di mettere qualsiasi progetto in pausa e partire
in giro per il mondo. Adesso è di ritorno dallo Sri Lanka dove l’ha raggiunta
un’amica e dove hanno vissuto giorni intensi e appaganti. Dopo l’attentato
era tutto vagamente spettrale, ma la cordialità della gente del posto risolveva
ogni problema. Una sera si sono trovate in una località sperduta senza
sapere dove dormire finché il proprietario del ristorante dove stavano
cenando non ha capito la loro difficoltà e ha chiamato un amico. Poco dopo
è arrivato un uomo che ha aperto il suo albergo temporaneamente chiuso per
ospitarle. È una di quelle situazioni a rischio in cui se succedesse qualcosa
di brutto, le vittime verrebbero accusate di stupidità, superficialità e chissà
cos’altro. Eppure, viaggiare sole significa allenare i sensi e le antenne per
captare anche i minimi segnali di pericolo. La pancia non è un organo
totalmente affidabile, ma spesso ci azzecca. Viaggiare sole significa fidarsi.
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Fra i molti luoghi comuni su una donna che viaggia sola ce ne sono
due opposti fra loro. Da un lato, lo spauracchio della solitudine che diventa
sinonimo di noia e tempi morti. Dall’altro, il viaggio come flirt continuo con
uomini diversi tutti pronti a offrire la propria compagnia. Nessuno dei due
corrisponde al vero per quanto mi riguarda. Mai collezionato flirt come
souvenir durante i miei viaggi sola. Mai corso il rischio di annoiarmi in
compagnia di me stessa. Semmai il contrario. Semmai ho patito la mancanza
di solitudine. Fin dai primi spostamenti in Germania, ho potuto scardinare i
luoghi comuni sui suoi abitanti e non c’era modo di sottrarmi all’irruenza
dei nonni tedeschi che incontravo. Nonostante evitassi di entrarci in contatto
per via della lingua che parlavo poco e male, dovevo arrendermi al fatto che
loro volessero comunicare. Pur denunciando subito la mia provenienza nella
speranza capissero che era inutile provare a parlare con me, di solito sortivo
l’effetto opposto. Scoperte le mie origini, partivano i racconti nostalgici
delle loro vacanze, di tutti i cibi mangiati, di tutti i corsi di italiano iniziati e
mai finiti. E poi piovevano i complimenti per il mio tedesco: una bugia che
ho sempre trovato adorabilmente utile. Nove anni dopo posso affermare con
certezza che devo soprattutto a loro l’apprendimento di questa lingua
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A differenza di tutti gli altri posti che erano in città, la casa di Dotty si
trova in campagna, immersa fra le verdi risaie. Improvvisamente mi chiedo
come farò a trovare un centro estetico per il massaggio quotidiano che è
divenuto parte integrante della mia routine. Dotty viene in mio aiuto e dieci
minuti dopo si palesa una sua conoscente con tanto di materassino sotto
braccio. Non parla inglese se non a monosillabi e mi regalerà un’ora e
mezzo di pura estasi al punto da farmi addormentare. Mi sveglio poco prima
del tramonto. A quel punto, la mia host mi incoraggia a fare un giro vicino
casa verso i campi di riso. I templi sono ricolmi delle immancabili offerte
votive. Se ne trovano ovunque in un costante ringraziamento agli antenati e
alla terra. Fiori, foglie intrecciate per farne cestini, piccoli cracker rotondi,
caramelle e riso. Davvero sorprendente la fame delle divinità balinesi. La
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ostinata a voler andare avanti con la sua vita dopo un divorzio. “Non è da
tutte ricominciare a cinquant’anni trasferendosi in un posto nuovo” spiega
mentre il sapore del suo riso speziato al curry invade ogni angolo del mio
palato. Ci abbracciamo forte. Siamo due donne sole che casualmente la vita
ha fatto incontrare su un’isola incantata per infondersi coraggio a vicenda. È
il momento della buonanotte quando mi ritiro in camera con l’anima in
pace. Come una stoffa stropicciata che viene distesa e rimessa in forma col
calore delle mani che la sfiorano. Faccio un’ultima doccia sotto il cielo
stellato: nuda, sazia, felice, tocco la terra con una consapevolezza diversa. E
mi ripeto orgogliosa: sono sola dall’altra parte del mondo. È magnifico.
Trabocco gratitudine e ottimismo per non aver ceduto alle paure e aver
mantenuto intatta la capacità di sperare nel buono che avrebbe portato il
futuro. Mi congratulo per aver scovato Dotty e la sua casa che mi accoglie
come un tiepido nido mentre la doccia compie l’ultimo incantesimo,
preparandomi al sonno ristoratore della notte.
varietà che è l’elemento che soffro maggiormente della mia vita in Sicilia.
Come per la lingua e la geografia, ho bisogno di cambiare, provare,
assaggiare, sperimentare. Sono un’appassionata di spezie e credo nel potere
di un soffritto fatto a regola d’arte. Vivere in Sicilia però mi costringe a
limitare le mie alternative e non vedo l’ora di fuggire a Bonn, Barcellona o
altre grandi città dove posso scegliere ogni giorno una cucina diversa. In
Sicilia, invece, convinti di avere il miglior cibo del mondo e di essere gli
unici a saper cucinare, non c’è varietà. Poter sperimentare gusti nuovi è un
altro elemento cruciale che mi spinge a viaggiare sola. Le rivoluzioni
alimentari della mia vita sono avvenute sempre lontano da casa. Le
principali scoperte sono state l’avocado assaggiato per la prima volta in
Grecia a diciott’anni e il latte di cocco mescolato al curry provato a Bonn e
mai più lasciato. Credo di aver assaggiato qualsiasi variante vegetariana
disponibile nei ristoranti. Thailandesi e vietnamiti soprattutto. Anche se
ricordo una cena himalayana squisita in un ristorante minuscolo dalle pareti
arancioni non lontano dall’Altstadt di Bonn. A proposito di contaminazioni
e nuove scoperte, negli anni le lenticchie rosse cotte nel latte di cocco al
curry sono diventate uno dei miei comfort food preferiti benché non si possa
certo dire che siano legate alla mia infanzia o ai ricordi di famiglia. L’ho già
detto, ma vale la pena ripeterlo: una sola vita non mi basta. Un solo luogo,
una sola lingua, una cucina, una cultura non sono sufficienti a soddisfare la
mia insaziabile curiosità. Ho fame del mondo. Voglio mescolarmi alle
moltitudini che contiene, assorbire nuove prospettive, sfiorare nuove culture
lasciandomi contaminare da esse. Mi terrorizza cadere nella trappola
dell’univocità, del pensiero unico, del “come noi nessuno mai”. Voglio
prendere il meglio da ciò che la vita offre. E col cibo funziona allo stesso
modo. Per quanto ricca e prelibata sia la cucina della mia terra d’origine,
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non basta a saziarmi. Ci sono troppi popoli per accontentarsi di ciò che
offrono le ricette tramandate nel tempo in una sola terra. Chi mi garantisce
che il cibo più buono non si trovi in qualche luogo remoto che non mi ha
ancora chiamata a sé? Se non fossi stata a Bali o non avessi provato tutti i
ristoranti asiatici a tiro, avrei continuato a pensare che il tofu sa di cartone e
mi sarei persa un ingrediente che mi piace moltissimo quando viene
adeguatamente cucinato. Di fronte alle risaie di Tegallagang, in un giorno di
afa e umido soffocanti, ho mangiato il miglior scrumbled tofu di sempre e
tornerei domani stesso in quel ristorante scovato per caso salendo delle scale
attirata da una terrazza che sporgeva sulla via principale dove mi trovavo io.
Ordinerei lo stesso frullato di anguria e sfiorerei il suicidio con la medesima
zuppa al curry bollente. Commetterei lo stesso errore: mangerei fino
all’ultima briciola, cederei all’ingordigia più sfrenata e poi mi trascinerei
fino al primo taxi disponibile per farmi accompagnare alla mia pensione per
una pennichella.
in Italia. Ho lasciato Bonn che amo con tutto il mio cuore e che mi spezzerà
sempre il fiato, costringendomi a ricordare perché sono andata via. Anche
io, Putu, ho seguito l’istinto che mi diceva che il mio posto era a casa. Sulla
banchina del porto, nei centri di accoglienza dove arrivavano migliaia di
persone in fuga. Ho seguito sogni, desideri, ideali. Ho ascoltato la parte più
autentica e genuina di me e assecondato il bisogno di una qualità della vita
diversa. Non c’era nulla che non andasse a Bonn, ma la mia carriera era a un
punto morto e sapevo che non sarebbe mai stato solo il lavoro a tenermi in
un luogo piuttosto che in un altro. Era arrivato il momento di smettere di
essere sola e i rapporti umani intessuti qui non bastavano a far tacere
l’inquietudine. Nessuno – tantomeno io – avrebbe potuto immaginare che
sarei stata felice in un posto come Augusta, ma era finita l’era della
solitudine. I ritorni non sono mai uguali per tutti, ma il mio è stato un vero
toccasana nonostante gli inevitabili limiti di vivere in un posto arretrato e
con una mentalità atroce per certi aspetti. Mi salvo solo perché continuo a
lavorare con l’estero. Il nocciolo della questione è che un giorno anche io
come Putu ho smesso di credere nella favola della carriera da inseguire e
coltivare a ogni costo. Ho capito che non sarei mai andata oltre una certa
soglia e che quella soglia non giustificava il peso dei giorni lontana da casa.
L’estero era stato un ottimo investimento ma nel lungo periodo non valeva
più la pena continuare. Così, dopo quattro anni in giro per la Germania,
l’Olanda, il Belgio, ho scoperto di possedere delle radici. All’improvviso,
ho realizzato di non essere più nel mio posto nel mondo: era giunta l’ora di
ripartire. O di ritornare. In quell’occasione, ho imparato una delle lezioni più
significative del mio nomadismo: abbandonare il castello in fiamme al
primo sentore di incendio senza preoccuparsi mai dei tesori al suo interno.
Senza mai guardarsi indietro. Dopo diciassette traslochi e innumerevoli città
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centrale dove mollo il bagaglio in un locker prima di tuffarmi nelle vie del
centro. Mentre sto per lasciare l’Hauptbahnof, su un binario vedo un treno
in partenza per Dachau e senza pensarci due volte salgo a bordo. Voglio
togliermi questo dente prima possibile. So di doverlo fare, di dover visitare
il campo di concentramento o almeno ciò che ne resta. Ci vogliono una
ventina di minuti per arrivare nella piccola città poco fuori Monaco e
quando arrivo io la banchina pullula di ragazzi e ragazze di varie età
all’uscita dalla scuola. È una tratta qualsiasi, un percorso ordinario e
comune per chi vive qui. Io la affronto con una solennità riconducibile
all’importanza che attribuisco a questo luogo. Per chi ci vive è solo un posto
come un altro. L’abitudine corrode e sbiadisce, normalizza e riduce. Sono
una turista e tutto mi sembra nuovo. Una signora sulla settantina mi nota e
inizia a parlarmi. Il mio tedesco è poco più di un balbettio peggiorato dal
nervosismo di non saperlo parlare e dalla paura di non capire. “Io vivevo
qui. Ho sempre vissuto qui. Abito a qualche fermata dal campo di
concentramento” commenta riferendosi alla guida che tengo in mano aperta
alla pagina su Dachau Konzentrationslager. Sta aprendo un cassetto della
memoria che chiunque preferirebbe tenere chiuso. “Lo sapevamo. O
comunque lo intuivamo. Io ero solo una ragazzina ma all’improvviso sono
arrivati qui tantissimi uomini in divisa”. Fa una pausa mentre fuori dal
finestrino iniziano a scorrere edifici grigi tutti uguali, ora riconvertiti ma un
tempo usati come abitazioni delle S.S. e delle loro famiglie. “Ero solo una
ragazzina” ripete con una tristezza profonda e tagliente.
Dachau non sarà l’unico che vedrò negli anni. Quando visitai
Hannover, salii su un autobus per andare fino al campo di lavoro e
smistamento di Neugamme. Disperso nel nulla della campagna tedesca, era
un unicum nel suo genere. A Norimberga ho visitato i luoghi del
nazionalsocialismo fino alla celebre aula sei del Tribunale dove si è svolto il
noto processo durante cui si introdusse il concetto di crimini contro
l’umanità. Inizia dunque così il mio incontro con Monaco: con un tuffo nella
storia più dolorosa, con un salto nelle sue pagine più buie, col privilegio di
poter ripercorrere la memoria di un popolo che mi sta adottando e di un
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intero continente che fatica a essere all’altezza degli ideali cui aspira. Il
giorno seguente, nonostante il cielo basso e plumbeo, mi reco in uno dei
luoghi che avrei amato a prima vista: Nymphenburg. Le lunghe passeggiate
qui durante la pandemia di sette anni dopo mi avrebbero tenuta a galla dal
pericolo di sprofondare nell’angoscia e mi avrebbero riportata indietro nel
tempo ai miei primi viaggi. C’è una felicità nei luoghi che rimane e risorge
al momento opportuno. Castello e giardini infatti sono indiscutibilmente una
tappa imperdibile non solo per l’architettura e il valore estetico, ma per
l’atmosfera di pace che emanano. Il parco si estende per XXX chilometri ed
è sempre attraversato da persone che fanno jogging, famiglie in cerca di
fresco o di natura, turisti di ogni parte del mondo. L’ho visto in varie
stagioni dell’anno, sola o in compagnia, spensierata durante una vacanza o
piena di interrogativi dopo l’inizio delle restrizioni. Fortunatamente in
Germania non sono mai stati adottati provvedimenti che impedivano di
uscire per l’attività fisica, dunque non ho subito la staticità di giorni senza
fine chiusa fra quattro mura. Potevo sempre infilare le scarpe e andare in
giro a scoprire nuovi angoli della città. Un giorno di particolare angoscia, ad
esempio, sono scesa nel tardo pomeriggio al parco sotto casa, scoprendone
una sezione che non avevo ancora mai visto. Sembrava uscita direttamente
da un libro di favole, dalla mente di una fata o da un cartone animato.
Imbocco un viale che taglia a metà il bosco stracolmo di alberi dalle chiome
rigogliose color smeraldo. In un punto il viale si allarga sfociando in una
sorta di spiazzo con delle panchine e proseguendo si scorge un ponticello
che sovrasta un fiumiciattolo ingrossato dalla recente pioggia. L’odore di
terra bagnata penetra nelle narici e sovrasta tutto. Improvvisamente mi
rendo conto di trovarmi all’interno di un filare di alberi le cui chiome quasi
si congiungono sopra di me. Sembra un tunnel vegetale. Nelle pozzanghere
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continuano a cadere piccole gocce tonde. Qui sotto la pioggia non è ancora
finita perché continua a cadere dalle fronde degli alberi. Le foglie, i rami
trattengono e rilasciano le gocce a loro piacimento come in un lungo
strascico liquido. Accade lo stesso coi viaggi e con molte altre esperienze
della vita: benché finiscano, continuano a trascinarsi, evolversi, dipanarsi
dentro di noi. Non tutto finisce nel momento in cui si interrompe.
in testa e mi dico: Prenota. Trova un’isola e vai. Non sapevo nulla di questo
strano paese fatto di atolli e lembi di terra emersi dalle profondità marine.
Nulla eccetto il concept per cui a un resort corrisponde un’isola. Dovranno
pure esserci delle persone che vivono normalmente, mi ripeto. Esisteranno
isole abitate dai locali senza resort e boutique hotel. Ignoravo che fino a una
decina di anni fa le uniche Maldive aperte ai turisti erano proprio quelle dei
resort e che solo di recente le isole abitate accolgono viaggiatori in cerca di
esperienze più genuine e autentiche. Da circa un decennio sono nate
strutture alternative a quelle di lusso tipiche di questa destinazione, sono
fiorite le guesthouse e sempre più alberghi offrono opzioni per i nomadi
digitali, incentivando lo smart-working nel bel mezzo dell’Oceano Indiano.
“Se non sei a piedi nudi, sei troppo vestita” è il motto dell’ecohotel
dove soggiornerò. L’ha scovato Laura, la mia preziosissima agente di
viaggio, che anche questa volta non ha deluso le mie aspettative ma ha
trovato un modo per conciliare randagismo e sicurezza. Rimetterò le scarpe
piangendo il giorno della partenza, come rompendo un incantesimo in cui ho
capito perché le Maldive mi hanno chiamata. Dovevo superare un
pregiudizio, tornare nuda di fronte alle necessità della vita che mi stava
stritolando, prendermi una pausa dalla tossicità della quotidianità
performativa, ascoltare il mio corpo e lasciare che la mia mente si concentri
solo sul respiro. Mio e dell’oceano. Mi hanno chiamata con la promessa
della conciliazione fra la paura e il desiderio di avventura. Mi hanno
dimostrato che potevo ricominciare a viaggiare sola, che ero pronta. Che
dopo due anni trascorsi nel guscio protettivo della mia casa era tempo di
percorrere il mondo. La fame era ancora lì, non si era estinta, non era stata
dimenticata, ma solo momentaneamente accantonata. O meglio: la fame era
stata saziata altrimenti. Nei due anni di prigionia casalinga, sono tornata coi
ricordi a tutti i luoghi visitati dal 2013 e in ognuno di essi ho trovato un
tassello del mio mosaico personale. Le foto di Bali hanno continuato ad
alimentare la memoria di ciò di cui sono stata capace, ma adesso non
bastava più. Una volta immersami sotto la superficie dell’acqua, andando a
caccia di idoli moreschi e di pesci pagliaccio, ho capito che mi stavo
scolorendo come i coralli sopra cui galleggiavo.
che non voglio più trascinarci dietro. Vado incontro a un’altra corrente
ghiacciata: di nuovo ho le gambe al caldo e le braccia al freddo.
Contemporaneamente, coesistono due condizioni opposte.
felice di sapere che la mia scelta di venire qui crei delle opportunità di
lavoro. Dall’altro provo un profondo senso di ingiustizia che aumenta man
mano che scavo sotto la superficie. È reale il paradiso? O ogni luogo può
contemporaneamente essere paradiso e inferno? La realtà è duale ovunque?
Siamo noi a plasmarla in base al mondo che ci portiamo dentro e che
lasciamo emergere a contatto con altre persone? Quel luogo che io
percepisco come un paradiso terrestre, come un angolo dove lasciar
pascolare l’ansia in modo che si dissolva può essere il limbo di qualcun
altro? Mi guardo intorno e mi chiedo se Nafiz sia felice su un’isola di
nemmeno sette chilometri di lunghezza e manco uno di larghezza. Mi
chiedo dove vada per evadere dal suo reale che – non ne dubito – sarà
travagliato come o più del mio. Si sentirà mai in gabbia osservando l’oceano
sconfinato dove io mi sento incredibilmente libera? Anche lui si preoccupa
per la sua famiglia. Si chiede se potrà costruire un tetto più solido prima
dell’arrivo della stagione delle piogge ormai alle porte, se riuscirà a far
curare sua sorella e suo fratello che dovranno recarsi in India. Si angoscia
all’idea che tutto questo prosciugherà i suoi risparmi e che nemmeno
quest’anno riuscirà a venire in Europa come sogna da moltissimo tempo.
Proprio adesso che avrebbe avuto qualcuno a firmargli una lettera di invito,
aiutandolo nella cinica corsa a ostacoli della burocrazia. Io e lui rimarremo
in contatto, ci scriveremo per mesi, impareremo a conoscerci nonostante la
distanza. E mi renderò conto – una volta di più - con inequivocabile certezza
che viaggio per scoprire l’umanità, per ricordarmi che le differenze sono
tutte nella nostra mente e nei nostri pregiudizi. E che ogni donna e ogni
uomo su questo pianeta cercano grammi crescenti di felicità, qualsiasi cosa
sia. Che ciascun essere umano sentirà in momenti diversi della vita le radici
tirare più forte o anelerà a qualcosa di più, di diverso. Di altro. Nafiz
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Ogni giorno lo vedo fermarsi per onorare il rito del tramonto prima di
andare a casa dalla sua famiglia a rompere il digiuno. Il due aprile, subito
dopo il mio arrivo, inizia il Ramadan ma i tramonti continuano anche al mio
rientro. Per almeno tre settimane, le Maldive tornano sul mio cellulare
quotidianamente la mattina e la sera. Augusta e Hanimaadhoo confinano
due volte al giorno grazie al filo rosso che unisce la mia fame a quella di
Nafiz. Così vicini, così lontani. Così diversi, così uguali nel desiderio di
divorare il mondo. Eppure, uguale è la fame ma diverso sarà il nutrimento.
A me basterà decidere di partire, controllare di avere abbastanza fondi sul
conto corrente, verificare la validità del mio passaporto e scegliere quale
paradiso visitare. Nafiz avrà un potere d’acquisto e decisionale totalmente
diverso dal mio e se vorrà venirmi a trovare, non potrà contare su un
rapidissimo visto all’arrivo come me. L’area Schengen non garantisce
alcuna reciprocità agli abitanti delle Maldive dove pure ogni anno si recano
circa 800.000 cittadini europei senza dover affrontare procedure o spese
legate all’emissione del visto.
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lui devo molte ore di snorkeling paziente a pelo d’acqua. Senza la sua
presenza rassicurante mi sarei persa molte meraviglie, a partire dalla razza
perfettamente mimetizzata sotto la sabbia di cui si indovinava solo la forma.
Ci stavo nuotando sopra, ma i miei occhi non sono abbastanza allenati
evidentemente. Così lui me la indica. Prima di tuffarci, mi dice sempre di
stare vicino a lui in modo da sapere subito se qualche animale strano ci
degna del suo passaggio. Senza Afeef non avrei visto due delle tre
tartarughe palesatesi durante l’escursione (una era stata così gentile da
staccarsi dal bordo del reef proprio davanti ai miei occhi prima di scivolare
velocemente nel blu più profondo). Durante le sessioni di snorkeling con lui,
non sentivo più soltanto il mio respiro confondersi dentro l’oceano, ma
anche la sua voce che allertava il gruppo. Mi sarei certamente persa il
piccolo squalo nero nascosto sotto una formazione rocciosa che stavamo
attraversando a nuoto. Era mimetizzato così bene da non riuscire a scorgerlo
senza un occhio davvero esperto. Tuttavia, io non potrò mai fargli ammirare
il profilo inconfondibile dell’Etna alla fine della scogliera che si snoda di
fronte al mio luogo del cuore. Non potrò mai raccontargli di come quello
scorcio abbia tenuto in allenamento la mia fantasia durante gli interminabili
mesi di restrizioni. Quell’insenatura ha fatto sì che non perdessi l’abitudine
a immaginare l’altrove anche nei momenti in cui il mondo si riduceva al
perimetro della mia casa. Anche volendo non potrei farlo nessuna delle
persone che hanno incrociato il mio cammino aiutandomi a scoprire
meglio casa loro.
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L’arte di farmi conchiglia, benché sia antica quanto me, l’ho messa
veramente a fuoco nell’aprile del 2022. È il secondo giorno sull’isola di
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loro. Dove con loro si intende chiunque non condivida o sperimenti il nostro
sistema valoriale che per forza di cose è il migliore. Capitalismo o barbarie,
per parafrasare ironicamente Rosa Luxembourg che aveva capito abbastanza
precocemente come questo finto benessere non costituisse la strada verso
uno sviluppo armonico e duraturo.
Sono anni ormai che – nei limiti del possibile – ho preso le distanze
dalle forme tipiche del successo in una società consumistica. Ho
abbandonato la città per tornare a vivere in un paese decisamente più
piccolo, ho messo in discussione la mia vita lavorativa almeno quattro volte
da allora, cerco tuttora di stare in equilibrio sui disastri che si susseguono a
ritmo continuo nella nostra società. Tornare a vivere in un posto come
Augusta dopo tredici anni di lontananza è un’autentica rivoluzione che
personalmente riesco ad affrontare con la tecnica della conchiglia. O
meglio: senza necessariamente dover vivere dentro un carapace tutto il
tempo, ma adottando la giusta distanza. Vivo qui geograficamente parlando,
ma mi tengo ben lontana dalla mentalità ristretta e dai soffocanti
conformismi della maggior parte dei suoi abitanti. Non ho mai partecipato ai
rituali sociali per ribadire la mia appartenenza al gruppo dominante:
aperitivo, abiti firmati, messa in piega impeccabile. Non lo facevo da
adolescente, non lo faccio adesso. E così posso vivere qui prendendo il
meglio e lasciando il resto. Oltre ad avere abbandonato la città, mi sono
staccata da un’idea di successo basata sulla disponibilità economica e un
concetto di carriera vorace che mi aiuti a conquistare sempre più cose
materiali per trovarmi comunque scontenta. Rassegnando le dimissioni dal
lavoro che facevo a Bonn, ho capito che se ero riuscita a lasciare quella
dimensione cui ero emotivamente legata avrei potuto lasciare qualsiasi
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luogo. Bonn non mi aveva donato solo uno stipendio, ma aveva inaugurato
una nuova vita. Adoravo la città, ma sentivo che non era più sufficiente.
Dovevo tornare a casa. Benché pensassi di essere una creatura priva di
radici, un giorno d’improvviso, quelle radici hanno cominciato a tirare e a
richiamarmi a casa. Contemporaneamente, la certezza di potermi fare
conchiglia mi tranquillizzava rispetto all’immediato futuro. Solo che avrei
dovuto aspettare altri sei anni per imparare a dire ciò che stava accadendo.
Avrei dovuto aspettare di trovarmi su una spiaggia bianca circondata dal
verde di foglie ampie e carnose che a tratti si staccavano dagli alberi
scrocchiando una volta toccato il suolo. Avvolta da un bozzolo di meraviglia
e stupore, mentre rinascevo dopo la pandemia, imparavo a raccontare la
primavera. Trovavo le parole per esprimerla esercitando la gratitudine e
lasciandomi curare dalla bellezza disseminata ovunque sul cammino.
Isola: lembo di terra circondata dal mare, luogo mistico dove la vita ha
un peso e una consistenza diversa. Dove si scruta l’orizzonte con timore e
devozione. Il mare nutre le isole e i suoi abitanti, ma può travolgerli e
inghiottirli. Isola. Isolamento. Isolata. Essere isola è la certezza dei nuovi
approdi che moltiplicano l’attesa e spalancano le braccia per accogliere.
Essere isola è mare che divide, circonda e unisce. Ho vissuto dieci anni sulla
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