Sei sulla pagina 1di 120

Fritz Zorn

IL CAVALIERE, LA M ORTE
E IL DIAVOLO
Traduzione di Amina Pandolfi

ARNOLDO MONDADORI EDITORE


Il cavaliere, la morte e il diavolo

© Copyright 1977 by Kindler Verlag GmbH, München,


© 1978 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
Mars
I edizione luglio 1978
Prima parte
L’io in esilio

I
Sono giovane, ricco e colto; e sono infelice, nevrotico e solo.
Provengo da una delle migliori famiglie della riva destra del
lago di Zurigo, chiamata anche la costa d ’oro. Ho avuto una
educazione borghese e mi sono portato bene per tutta la vita.
La mia famiglia è alquanto bacata e anch’io porto probabil­
mente tare ereditarie e conseguenze di danni ambientali. Na­
turalmente ho anche il cancro, il che, per la verità, dopo
quanto ho detto, mi pare una conseguenza abbastanza na­
turale. La faccenda del cancro ha però un duplice aspetto: da
un lato si tratta di una malattia organica di cui con molta pro­
babilità morirò quanto prima, ma alla quale potrei però anche
sopravvivere; dall’altro è una malattia psichica, e posso con­
siderare una fortuna che sia finalmente esplosa. Intendo dire
che fra tutte le cose sgradevoli che mi sono portato appresso
nella mia esistenza, avere un cancro è stata di gran lunga la
cosa più intelligente ch’io abbia fatto. Con questo non voglio
naturalmente affermare che il cancro sia una malattia che fa
molto piacere. Ma poiché la mia vita non si è mai distinta
per le gioie e i piaceri, dopo un attento esame e facendo i
debiti confronti devo concludere che da quando sono malato
sto molto meglio di prima di ammalarmi. Ovviamente ciò
non significa che io consideri la mia situazione particolarmente
fortunata. Dico soltanto che fra una situazione molto infelice
e una soltanto infelice, la seconda è da preferire alla prima.
Ora mi sono deciso a mettere sulla carta i miei ricordi. Non
si tratterà però di memorie, nella comune accezione del ter-

7
mine, ma piuttosto della storia di una nevrosi, o per lo avuto problemi, non sapevo che cosa fossero i problemi. Ciò
meno di alcuni dei suoi aspetti. Quella che ora tento di scri­ che mi è stato risparmiato nella mia giovinezza non fu il do­
vere non sarà quindi la mia autobiografia, ma soltanto la lore o l’infelicità, ma piuttosto i problemi, e quindi anche la
storia e Pevoluzione di un solo aspetto della mia vita, quello capacità di affrontarli. Si potrebbe paradossalmente dire che
finora dominante, vale a dire la mia malattia. Cercherò dunque proprio il fatto di nascere nel migliore dei mondi sia stata la
di ricordare quanto più mi è possibile tutto ciò che, fin dalla mia rovina; il fatto appunto che in questo migliore dei mondi
mia infanzia, mi appare di essa caratteristico e significativo. tutto fosse sempre boriosa soddisfazione, armonia e felicità,
questo fu il disastro. Un mondo sempre e soltanto felice e
Se ripenso alla mia infanzia, per prima cosa devo dire che armonioso non esiste; il fatto che il mondo della mia giovi­
sono cresciuto nel migliore dei mondi. Da questa afferma­ nezza sia stato sempre e soltanto armonico e felice dimostra
zione il lettore attento capirà subito che la cosa doveva ne­ che non poteva che essere falso, basato su presupposti sba­
cessariamente finire male. A quanto ho sentito raccontare dei gliati e sulla finzione. Si potrebbe spiegare la cosa così: non
miei primi anni, devo esser stato un bambino molto carino, vi­ sono cresciuto in un mondo infelice, ma in un mondo falso.
vace, allegro, un raggio di sole addirittura; si può quindi de­ E quando una cosa è veramente falsa, non occorre aspettare
durne che la mia è stata un’infanzia felice. A questo proposito molto per veder comparire l’infelicità; arriva da sola.
mi torna alla mente un articoletto che ho trovato nella ru­ A proposito dei miei ricordi infantili vorrei dire ancora una
brica psicologica di una rivista, in cui un giovanotto lamen­ cosa: temo che nel mio racconto mancherà quasi completamen­
tava di non riuscire a venire a capo della propria vita e di te una ricostruzione cronologica dei fatti. Non cercherò cioè
sentirsi totalmente incapace di darsi un indirizzo per il fu­ tanta di raccontare singoli eventi (che sarebbe assai facile an­
turo, cosa tanto più sorprendente in quanto aveva avuto un’in­ notare in ordine cronologico), quanto piuttosto di chiarire
fanzia molto felice. Il commento dello psicologo era molto sem­ a me stesso i diversi stadi della mia presa di coscienza; nella
plice: se il giovanotto si trovava ora in questa situazione, non maggior parte dei casi non riesco a ricordare quando si è trattato
potevano esserci dubbi che anche la sua infanzia doveva esser di semplici intuizioni o di un’evoluzione più o meno nebulosa
stata infelice. Ma se penso a come io sono, o meglio non sono o quando invece di una vera certezza. Per di più, negli anni del­
affatto, venuto a capo della mia esistenza, almeno fino a oggi, la mia gioventù non sarei affatto stato capace di formulare
devo supporre che anche la mia infanzia non sia stata così le mie impressioni e rendermi veramente conto delle mie rea­
felice come immagino. zioni. Molte cose quindi oggi le colloco nel tempo molto di­
Naturalmente non sono ora in grado di ricordare momenti versamente da quanto avrei fatto quando le vivevo nella realtà
particolarmente dolorosi della mia età infantile; ciò che mi è e perciò vi sono molti particolari di cui oggi non so più dire
rimasto degli anni dell’infanzia mi appare, al contrario, per lo in che anno della mia vita sono realmente accaduti.
più molto bello e mi parrebbe ora esagerato mettere in evi­ L’elemento più importante del mio mondo giovanile, il leit­
denza singoli momenti di infelicità infantile, dando loro un motiv t è indubbiamente quell’armonia di cui ho già detto. De­
rilievo che non meritano. No, tutto andò sempre bene, anzi gli anni dell’infanzia vera e propria - gli anni in cui si è sol­
molto bene. Credo che il guaio sia stato proprio questo: che tanto bambini - preferisco non parlare, per non correre il ri­
tutto andava troppo bene. Nella mia giovinezza sono sempre schio di proiettare nella mia infanzia qualcosa che oggi mi ap­
stato al riparo da quasi tutte le piccole infelicità e soprattutto pare ^plausibile e assai probabile, più di quanto possa in realtà
da qualsiasi problema. Devo essere più chiaro: non ho mai concre a nenie ricordare. Passo quindi subito al mondo in cui

8 9
ho vissuto quando ero un ragazzino. Un mondo armonioso al Oggi so che nella mia giovinezza non ho mai imparato ad
di là di ogni possibile immaginazione. È difficile dare qui un’idea avere una mia opinione personale; ho imparato soltanto a non
sufficientemente globale di questa armonia. L’armonia del averne affatto. In effetti da ragazzo e anche da giovanotto non
mondo nel quale sono cresciuto era così perfetta da far fug­ ho mai avuto delle opinioni.
gire inorridito anche l’essere più armonico della terra. L’atmo­ Dubito di aver imparato dai miei genitori la parola "no”
sfera della mia casa paterna era armoniosa in maniera addirit­ (è invece probabile eh’essa sia entrata nel mio vocabolario per
tura proibitiva. Voglio dire che a casa nostra tutto doveva es­ caso, negli anni della scuola), perché in casa nostra non ve­
sere perfettamente armonico, non poteva essere altro che ar­ niva usata, essendo perfettamente superflua. Il fatto di dir
monico, per meglio dire non esisteva il concetto o anche sol­ sempre di sì a tutto non era però sentito come una necessità
tanto la possibilità di qualcosa di disarmonico. Mi si potrà sgradevole, peggio, una costrizione; era un bisogno diventato
obiettare che l’armonia totale non esiste, che vi può essere istintivo, la cosa più naturale del mondo. Era l’espressione
luce solo là dove ci sono ombre e che in una luce che non sop­ dell’armonia totale. In fondo però il nostro continuo dire di
porta né vuol saperne di ombre ci deve per forza essere qual­ sì era effettivamente una necessità (anche se non consapevol­
cosa che non va. Su questo sono perfettamente d ’accordo. mente avvertita): perché che cosa sarebbe mai accaduto se
Il dubbio amletico che gravava su casa mia era: armonia o qualcuno avesse detto di no? Il nostro armonico universo
non essere? Tutto doveva essere armonioso; situazioni proble­ si sarebbe trovato di fronte un orizzonte al quale non era
matiche non ne dovevano esistere, perché in tal caso il mondo preparato e che bisognava tener "fuori”, a qualunque prezzo.
si sarebbe inabissato. Tutto doveva essere senza problemi; o Così dicevamo di sì. Suppongo che non si possa venire al
se non lo era, si doveva fare in modo che lo diventasse. mondo con il sì obbligato, così non posso neppure definirmi
Su ogni argomento ci doveva essere sempre una sola opinione, un "nato a dire di sì”; vorrei però sottolineare che sono stato
una discordanza di vedute sarebbe stata la fine di tutto. Oggi educato in modo perfetto a dire di sì.
capisco anche perché una divergenza di opinioni a casa nostra Oggi mi riesce difficile dire fino a qual punto noi - o forse
sarebbe equivalsa a una piccola fine del mondo: non avevamo anche soltanto: fino a qual punto io - abbiamo vissuto quel
la possibilità di litigare. Voglio dire che non sapevamo come "no” eternamente taciuto come lo scheletro dell’armadio.
si fa a litigare, esattamente come uno può non sapere come Qualche volta e in qualche modo quello scheletro deve pur
si suona la tromba o si fa la maionese. Non conoscevamo la essersi mosso, ma non me ne posso ricordare. Certo deve es­
tecnica del litigio e perciò ci astenevamo, come chi non sa sersi mosso con estrema cautela. I miei genitori comunque non
suonare la tromba si astiene dal dare concerti di tromba. Era­ pensavano volentieri agli scheletri e non potevano certo sen­
vamo quindi costretti a non metterci mai in situazioni che por­ tire ciò che non pensavano. Io avevo il gusto del macabro
tassero al litigio. Le conseguenze erano catastrofiche: tutti molto più di loro; forse da ragazzino l’avrò anche sentito, senza
eravamo sempre della stessa opinione. Così, se si dava qualche peraltro rendermene conto.
volta il caso che le cose potessero apparire diverse, era ovvio A questo proposito va anche detto che non soltanto dir di
che per noi non poteva logicamente trattarsi che di un malin­ no era assolutamente impensabile: spesso diventava terribil­
teso. Era semplicemente sembrato che ci fosse una diver­ mente difficile anche solo fare una enunciazione. Chi diceva
genza; le opinioni erano state solo apparentemente divise, e una cosa era pur sempre almeno in parte consapevole che gli
una volta eliminato il malinteso, si faceva evidente che tutte altri avrebbero dovuto o voluto rispondere di sì alle sue af­
le nostre opinioni in realtà erano perfettamente identiche. fermazioni, così per delicatezza evitava di dire qualsiasi cosa

10 11
che avrebbe potuto eventualmente rendere difficile il natu­
jazz era cattivo, ma notavo che tutti i miei compagni di classe
rale consenso da parte degli altri. Quando si trattava di dare
e in generale tutti i ragazzi della mia età ascoltavano volen­
un giudizio dicendo quanto era piaciuta una cosa, poniamo un tieri musica jazz e anche canzonette e ogni sorta di "cattiva”
libro, bisognava prima, come quando si gioca alle carte, va­ musica, e allora arrivai alla seguente conclusione: io avevo
lutare quali sarebbero state le eventuali reazioni degli altri, capito ciò che era "giusto” ed ero arrivato alle cose più "ele­
per non correre il rischio di esprimere un giudizio senza la vate”; avevo già imparato a distinguere ciò che era buono da
certezza del generale consenso. Oppure si tirava per le lunghe, ciò che era cattivo. I miei compagni di scuola, un po’ ritardati,
fino a quando si poteva sperare che un altro osasse farsi avanti erano rimasti ancora allo stadio della "cattiva” musica, mentre
per primo a dire la sua opinione, alla quale poi ci saremmo io ero già assurto alle altezze della "buona” musica. Del fatto
tutti logicamente uniti. Insomma, aspettavamo sempre che di non possedere alcun termine di paragone e non aver quindi
fosse un altro a tirar fuori la castagna dal fuoco, facendo la maturato una scelta fra l’una e l’altra musica, ma di essermi
sua brava affermazione, dicendo di una cosa, ad esempio, che ciecamente affidato al pregiudizio della "buona” musica clas­
era "bella”, o magari addirittura " magnifica” o persino "stra­ sica e della "cattiva” musica moderna, non mi ero assoluta-
ordinaria”. Che se poi colui che aveva parlato per primo avesse mente reso conto. Non avevo fatto un solo passo avanti oltre
detto invece che era "brutta”, tutti ci saremmo sentiti in do­ l’assioma che in arte tutto ciò che è vecchio è per principio
vere di unirci a quel "brutta” o magari anche "orribile”. "buono” mentre tutto ciò che è moderno è per principio "cat­
Così mi abituai a non dare mai un mio giudizio personale, tivo”; Goethe e Michelangelo erano "buoni” perché erano
ma ad unirmi sempre al giudizio degli altri. Mi abituai a non morti; ma Brecht e Picasso erano "cattivi” perché erano mo­
valutare io stesso le cose, ma ad apprezzare sempre e soltanto derni. Ero convinto di aver saltato un ostacolo e di essermi
le cose che gli altri dicevano "giuste”: ciò che gli altri trovavano elevato ad amatore della musica classica, quando in realtà non
giusto piaceva anche a me, e ciò che gli altri non trovavano mi ero mai sognato di azzardarmi a affrontare un ostacolo,
giusto non incontrava mai il mio gradimento. Leggevo "buo­ al contrario, lo avevo aggirato. In questo modo avevo appalta­
ni libri” e mi piacevano perché sapevo che erano "buoni”; to per mio uso un po’ di quanto era "elevato” e da quell’altezza
ascoltavo "buona musica” e mi piaceva per lo stesso motivo. potevo guardare in basso, verso gli altri, senza rendermi as­
Ma che cosa fosse "buono” erano sempre gli altri a deci­ solutamente conto di quanto fosse vuota in realtà questa mia
derlo, mai io. Persi così ogni capacità di reazioni spontanee, apparente superiorità.
di simpatie o preferenze. Avevo imparato che la musica clas­ Il primo disco che comperai con il mio denaro fu quindi
sica era "buona”, ma che le canzonette e il jazz erano "cat­ qualcosa di assolutamente classico e "giusto” - probabilmente
tivi”. Perciò ascoltavo musica classica, come facevano i miei qualche noioso pezzo di Mozart o di Beethoven - ed ero
genitori e la trovavo "buona”, e detestavo il jazz, di cui sapevo molto fiero del mio "giusto” acquisto. Il primo disco che mio
che era "cattivo”, sebbene non avessi mai ascoltato del jazz e fratello, di tre anni minore di me, si comperò con i suoi soldi
non avessi la più pallida idea di che cosa fosse in realtà. Avevo poco tempo dopo, fu l’allora popolarissimo Criminaltango. Io
soltanto sentito dire che era "cattivo”, e ciò mi bastava. sorrisi con sufficienza della scelta del mio fratellino, perché
A questo proposito mi viene in mente un’altra mia assai sapevo che il Criminaltango era un orribile "kitsch”; ci vol­
dubbia propensione giovanile: quella per tutto ciò che era lero molti anni prima che riuscissi a capire che mio fratello
"elevato” e di questo avrò qui ancora largamente occasione aveva però scelto in base al suo gusto personale, senza sotto­
di parlare. Sapevo - tanto per restare nell’esempio - che il stare alla censura di un esangue e puramente teorico "buon

12 13
gusto”, e che quindi la sua scelta, essendo la più spontanea, naturalmente lo avevo trovato "buono”. Una ragazza della mia
era anche la più "giusta” nel vero senso del termine. età, che vide il volume nello scaffale della mia libreria, mi
A quel tempo non avevo alcuna capacità di giudizio, nes­ domandò un giorno se il libro mi era piaciuto. Dentro di me
suna personale predilezione, nessun gusto individuale, ma se­ pensai: "Che domanda stupida - si sa che è un ‘buon’ libro”,
guivo supinamente l’opinione degli altri, l’unica che poteva una cosa tanto ovvia che non la si chiedeva neppure. Natural­
esser giusta, l’opinione di un consesso di persone che consi­ mente risposi di sì. Quando poi in risposta mi disse che a lei
deravo capaci di giudicare, che rappresentavano l’opinione pub­ non era piaciuto affatto, non riuscivo a riavermi dallo stu­
blica e sapevano ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. E pore, perché l’idea che un "buon” libro potesse non piacere,
ogni volta che pensavo di aver raggiunto anch’io il livello di era qualcosa che andava troppo al di là del mio orizzonte. In se­
questo immaginario ordine giudicante, ne ero felice e mi sen­ guito tornai a riflettere sulla cosa e arrivai alla conclusione
tivo orgoglioso. Come avevo appreso nella mia famiglia, ciò che, dal momento che a quella ragazza non era piaciuto, quel
che contava nella vita non era l’opinione del singolo, ma l’opi­ libro doveva essere considerato "cattivo”.
nione dei più, e soltanto colui che era in grado di condividere, Piccoli ricordi infantili come questi possono naturalmente
in maniera il più possibile illimitata, l’opinione dei più, solo apparire insignificanti e ridicoli e non ho difficoltà ad am­
quello era al giusto posto nella vita. Naturalmente questo co­ mettere che in sé non dicono ancora molto. Sono convinto però
stante, perpetuo inseguire l’opinione giusta, l’unica veramente che questi piccoli esempi di carattere aneddotico contengano
valida, mi portò molto presto a una grande vigliaccheria in già tutta la rovina che doveva poi abbattersi su di me. Voglio
tutte le questioni di giudizio, così che il mio ormai smisurato dire la coercizione della mia piccola, o per meglio dire, già fin
orrore per ogni forma di coraggio mi rendeva totalmente d ’allora atrofizzata personalità, in cui non ci doveva essere
impossibile ogni presa di posizione spontanea. Alla maggior nulla di personale, proprio perché tutto doveva adeguarsi al
parte delle domande che mi venivano fatte usavo rispondere giusto e al genericamente valido, perché altrimenti 1’" armo­
che non sapevo, non ero in grado di valutare, oppure che la nia” avrebbe corso il rischio di essere intaccata e questo, lo
cosa mi era indifferente; a dare una risposta ci arrivavo sol­ sapevo, non poteva, non doveva accadere. La fine dell’ar­
tanto quando sapevo in anticipo che sarebbe stata quella che ci monia sarebbe stata la fine di tutto. Devo però qui ancora
si aspettava, conforme cioè ai canoni previsti. Credo di essere una volta ripetere che quel periodo giovanile per me non fu
stato allora davvero un piccolo, spaventatissimo Kant, che rite­ affatto infelice; era semplicemente "armonico” e questo era
neva sempre e soltanto di poter agire in modo rispondente molto, molto peggio.
alla legge generale. Da un lato la convinzione di fare e dire sempre la cosa
Da tutto ciò nacque per me un mondo singolare di cui giusta mi dava una certa sensazione di sicurezza; dall’altro però
oggi potrei anche ridere, se non sapessi quanto è stato in se­ mi si apriva davanti un campo denso di pericoli, non appena
guito rovinoso per me. Leggevo dunque "buoni” libri, vale a mi ritrovavo a non sapere esattamente che cos’era il giusto e
dire non ne possedevo altri; non avevo la minima idea di co­ mi vedevo nella situazione di dover fare affidamento sul mio
me fossero i *cattivi” libri. Sapevo soltanto che erano wrobac­ personale giudizio, l’unico che mi preoccupavo con tutte le
cia”, ma non sapevo in che cosa consistesse questa robaccia. Fui mie forze di soffocare. Ricordo una conversazione con un com­
assolutamente sbalordito quando mi resi conto che esisteva an­ pagno di scuola che mi chiedeva che cosa mi interessasse in
che la possibilità che un "buon” libro in determinati casi po­ particolare. Non sapevo che cosa rispondergli e lui allora
tesse anche non piacere. Avevo letto YEkkehard di Scheffel, e cominciò a interrogarmi su questo o su quell’altro argomento

15
14
che avrebbe potuto eventualmente interessarmi. Era chiaro che tavo di dire la mia, avevo sempre a disposizione una quantità
dovevo comunque dire di no, anche se mi era terribilmente di tecniche di aggiramento.
sgradevole, dal momento che non ci ero abituato e non mi pia­ Uno degli ausili favoriti per cavarsi d ’impaccio quando si
ceva dire di no e oltre a tutto intuivo che l’altro si interes­ trattava di avere un po’ di coraggio, era nella mia famiglia la
sava proprio alle cose per le quali io dicevo di non aver alcun parola "difficile”. "Difficile” era la parola magica, la parola
interesse. Vedevo già farsi avanti, a proposito dell’interesse per chiave per mettere in disparte tutti i problemi che si potevano
tutte quelle cose, lo spettro di una divergenza di opinioni, cosa presentare, e in tal modo tener fuori dal nostro intangibile
che ero da sempre abituato ad evitare ad ogni costo. Final­ mondo tutto ciò che poteva costituire un elemento di di­
mente mi domandò se anch’io amavo gli animali. Sebbene io sturbo o di disarmonia. Quando a casa nostra, ad esempio
di tutti gli animali avessi invece una tremenda paura, non ebbi in una conversazione a tavola, minacciava di introdursi una
il coraggio di deluderlo, mentii e dissi di sì, anche se intima­ questione delicata, subito si diceva che la cosa era, appunto,
mente ero convinto che quel sì avrebbe avuto conseguenze disa­ "difficile”. Questo serviva a chiarire subito che il problema in
strose e che lui avrebbe potuto invitarmi a giocare con i suoi questione era tanto complesso e ricco di implicazioni assoluta-
animali. Forse perché il mio sì non era suonato molto convin­ mente inconcepibili, che si escludeva automaticamente la pos­
cente, volle ancora sapere se per caso mi piacevano le automo­ sibilità di discuterne, quasi che il problema andasse al di là
bili. Ma questa volta ero io che mi facevo un punto d ’onore della capacità di comprensione, del vocabolario e dello spirito
di essere della sua stessa opinione, così mentii e affermai che umano. La parola "difficile” portava in sé qualcosa di assoluto.
le automobili mi piacevano molto. Lui allora replicò che, per­ Come non è facile parlare dell’assoluto perché l’uomo, in
sonalmente, delle automobili non sapeva che farsene. Così quanto essere finito, non ha sufficienti capacità di fantasia per
avevo sbagliato due volte: la prima volta avevo mentito per questo, così anche le cose "difficili” parevano muoversi nella
cortesia e non mi aveva creduto; la seconda avevo ancora men­ sfera di ciò che resta inaccessibile all’uomo. Bastava arrivare a
tito per cortesia e avevo completamente fallito lo scopo, che capire che una cosa era "difficile” e già era diventata tabù. A
era quello di essere della sua stessa opinione. Il fatto è che questo punto si diceva: ah, questo è davvero difficile, quindi
volevo a tutti i costi essere cortese e contemporaneamente della non ne parliamo e lasciamo perdere. Allora si poteva non par­
sua stessa opinione; l’unica cosa che non potevo fare era essere larne più; forse era persino lecito non farvi più cenno, perché
sincero. Ma da quell’esperienza non imparai nulla. Anzi, credo "non è bene per la gente parlare di cose difficili”. Vorrei quasi
di essermi guastato in questo modo molte amicizie, e per molti dire che la parola "difficile” aveva un valore magico; quando
anni, solo perché avevo paura di poter un giorno trovarmi ad di una cosa si diceva che era "difficile”, era come pronunciare
essere di parere diverso o che qualcosa potesse non essere una formula magica, la cosa era sparita.
"giusto”. Se volevo continuare a ballare sulle uova in quel Fra le cose "difficili” c’erano però quasi tutti i rapporti
modo non potevo permettermi di essere sincero. umani, la politica, la religione, il denaro e, naturalmente, il
Il fatto che io non sia mai riuscito ad avere una mia sesso. Oggi credo che tutto ciò che è interessante fosse a casa
personale opinione può anche apparire un po’ esagerato; sem­ nostra "difficile” e di conseguenza non se ne parlava. Se però
bra impossibile che per me non siano mai sorte situazioni di cerco di ricordare di che cosa si parlava, devo dire che non mi
conflitto più profonde, tali da costringermi a prender partito. viene in mente granché. Il cibo, probabilmente, quasi certa­
Ma devo dire che nell’arte di sfuggire ero davvero prepara­ mente il tempo, la scuola, naturalmente e, ovvio, la cultura (an­
tissimo e davanti alle domande sgradevoli, quando non rifiu- che se soltanto quella classica e riguardante persone trapassate).

16 17
Per contro, mi ricordo ancora di quando per la prima volta
anch’io un livello di più profonda consapevolezza fino a ve­
nella mia giovane vita venni a sapere che si poteva anche
dere anch’io che le cose erano davvero "difficili”. Così mi
parlare di cose interessanti e addirittura eccitanti. Fu in occa­
abituai anche, come avevo imparato dai miei genitori, a non
sione di una gita scolastica, durante la quale passammo la
riflettere più su niente e a crogiolarmi alla luce delle scoperte
notte in un rifugio in montagna. Di questo, per la verità,
difficoltà. A quel tempo naturalmente non mi passava nep­
avevo avuto un po’ paura, perché mi ero immaginato che i pure per la testa che prima di raggiungere quello stato di
miei compagni si sarebbero accorti della mia paura e mi avreb­ elevazione spirituale, di tipo buddista, in cui non è più neces­
bero tormentato con i loro stupidi scherzi. Contrariamente alle sario lambiccarsi il cervello sulle cose, bisogna aver fatto un
mie previsioni, dovetti constatare che gli altri ragazzi, una volta lungo tirocinio di pensiero. (E a questo proposito bisogne­
spente le luci, continuavano a chiacchierare fra di loro delle rebbe aggiungere che un simile Budda sarebbe portato a vedere
cose più interessanti del mondo e mi avvidi di venire ben tutto come "semplice” piuttosto che come "difficile”.) Ma
presto coinvolto anch’io nella conversazione. Si trattava di questa elevatezza che io postulavo per il mio comportamento
problemi religiosi e dei pregi e valori di una particolare setta era per me oltretutto estremamente comoda, come lo era per
religiosa, alquanto bizzarra, alla quale apparteneva un mio tutti noi: non avevamo bisogno di impegnarci, né di esporci;
compagno. Per me era un avvenimento straordinario trovarmi l’unica cosa che dovevamo fare era di trovare tutto "difficile”.
d ’un tratto a parlare di cose così interessanti; era un’espe­ Se nel mio ricordo il "difficile” era soprattutto prerogativa
rienza che in vita mia non avevo mai fatto. della mia povera mamma, mio padre era invece maestro nel­
Sebbene oggi debba pensare che quella conversazione not­ l’arte del "senza confronto”. Nella maggior parte dei casi mia
turna nel rifugio di montagna non può essere stato l’unico di­ madre si contentava di trovare le cose "difficili”; mio padre
scorso appassionante della mia vita giovanile e certo deve es­ invece faceva volentieri un passo più in là e dava alle cose
sermi capitato una quantità di altre volte di trovarmi in cir­ il colpo di grazia, strappandole dal loro naturale contesto e di­
costanze analoghe, tuttavia devo dire che negli anni della chiarandole "senza confronto”. Non si sentiva mai in grado di
mia adolescenza non mi accadde mai di avvertire la totale mettere cose diverse in rapporto fra loro e usava dire che
mancanza di discussione, la povertà del discorso come una "non era possibile fare un confronto”, abbandonandole così
carenza vera e propria. Conoscevo cioè altri luoghi dove le a mezz’aria, nel vuoto più assoluto. Questa sua arte si eser­
cose erano più interessanti che a casa mia, ma non sentii citava peraltro spesso su cose molto simili, che avrebbero sti­
mai l’atmosfera della mia casa paterna come insulsa. Al con­ molato chiunque al confronto. Ma in questo modo era tanto
trario. Consideravo merito particolare dei miei genitori quello più facile evitare ogni discussione sul valore o sul non va­
di trovare tutto "difficile”, perché ciò mi appariva come una lore delle cose, poiché una cosa acquista un vero valore solo
chiara dimostrazione di superiorità: nella mia limitatezza io se confrontata con altre, così come la luce può essere chiara
vedevo tutte le cose ancora tanto semplici da poterle senz’al­ solo se confrontata con il buio.
tro tradurre in parole. I miei genitori invece, tanto più Se questa caratteristica di mio padre nel campo estetico
esperti e saggi, avevano già raggiunto un livello più alto, dal restava una innocua bizzarria, trasferita su altri piani, spe­
quale vedevano chiaramente che le cose "non erano così sem­ cialmente sul terreno politico, assumeva forme grottesche.
plici”, ma al contrario, appunto, "difficili”, tanto difficili, Così, ad esempio, quando la Svizzera fu chiamata a votare
persino, da non poterne neppure parlare. Nel mio infelice bi­ l’introduzione nel Paese del diritto di voto alle donne, mio
sogno di tendere a quella superiorità, tentavo di raggiungere padre era perfettamente d ’accordo che tutti i Paesi del mondo

18 19
aU’infuori della Svizzera avessero dato il voto alle donne, ma perché le cose del mondo scivolavano via senza scontrarsi, in
ciò era per lui ben lungi dal significare che la Svizzera era un sistema di assoluta assenza di rapporti. Ovviamente questa
arretrata rispetto agli altri Paesi perché non lo aveva ancora totale assenza di attrito era una cosa positiva: dove non c’è
introdotto, in quanto il diritto di voto alle donne negli altri attrito c’è armonia, e dove c’è armonia tutto è nell’ordine più
Paesi non lo si poteva naturalmente confrontare con quello perfetto. Naturalmente io non sapevo di non stare al di sopra
della Svizzera, cosicché non si poteva affatto dedurne che il di questo mondo pieno di attriti, ma di essere io stesso un
voto alle donne fosse un bene per la Svizzera. Anche mia madre, oggetto in un gelido spazio irreale. Al contrario, anche questa
poverina, fece immediatamente suo questo insegnamento e di­ incapacità a mettere le cose in rapporto fra loro, a confrontarle,
ventò nemica giurata del voto alle donne. Persino quando tale mi pareva, esattamente come la valutazione del "difficile”,
diritto venne realmente introdotto nel Paese, mia madre con­ soltanto l’espressione di un più alto livello intellettuale. Capivo
tinuò a restare della sua opinione, ripetendo senza posa quanto che non fare confronti era segno di intelligenza. Chiaramente
le ripugnava quel diritto indesiderato e quanto continuasse ad a quel tempo le mie nozioni di etimologia erano ancora troppo
esservi contraria. scarse e non sapevo che la parola "intelligente” viene da "intel-
In casa nostra appariva evidente che era assolutamente di­ legere” e significa quindi esattamente il contrario di ciò che
sdicevole fare dei confronti fra la giustizia russa e quella spa­ cominciava a configurarsi in me come la quintessenza di ogni
gnola, dal momento che i russi erano comunisti, e perciò capacità intellettiva.
era delittuoso che uccidessero la propria gente per ragioni po­ Tutto ciò che non era "difficile” o "non confrontabile” e
litiche: il governo spagnolo invece era contro il comuniSmo e quindi non sopprimibile in questo modo, veniva a casa nostra
perciò non era affatto male che perseguitasse i suoi cittadini. semplicemente rimandato all’indomani, il "domani”, questa
Inoltre il regime di terrore per gli spagnoli era in realtà una data prediletta di tutti i deboli, ai quali promette consolazione
vera "fortuna”, perché così avevano "ordine e tranquillità”. e conforto, dal momento che "domani” di solito significa "mai”.
(Il sottile confronto con l’Unione Sovietica, che è senza dub­ Ma quanti modi, quante formule c’erano per dire di no sotto la
bio lo Stato in cui maggiormente regna "l’ordine e la tran­ copertura del "domani”!
quillità”, nessuno pensava di farlo.) Ma anche un confronto Questo è davvero un problema interessante; me ne occu­
fra i campi di concentramento spagnoli e quelli tedeschi del però volentieri nei prossimi giorni.
periodo nazista non era possibile; il fatto che il fascismo di La sua offerta ci invoglia molto; la studieremo con piacere
Hitler fosse cattivo, non autorizzava minimamente a dedurre domani o dopodomani.
che anche il fascismo di Franco fosse cattivo, perché le due In casa dei miei genitori il motto era: mai precipitare le
cose non erano, per l’appunto, paragonabili. cose! Questo non precipitare però consisteva di norma nel non
Pareva proprio che le cose di questo mondo non fossero in affrontarle mai.
sé e per sé paragonabili. Ma le cose non paragonabili sono Innumerevoli volte mi sono trovato testimone, ogni volta
sempre per loro natura prive di valore e se ne stanno isolate sbalordito, di una scena che si ripeteva sempre secondo sche­
e incomprese in un gelido spazio irreale. Non stimolano alla mi precisi: i miei genitori ricevevano una proposta o un’of­
critica né al consenso; non impegnano, non hanno alcuna ri­ ferta che, lo sapevo con sicurezza, non li interessava mini­
sonanza; sono, appunto, al di là di ogni confronto. mamente; ma per cortesia non si arrischiavano mai a dire
Questa era l’immaginé che anch’io avevo del mondo. I conflit­ chiaramente di no e, proprio per questo, si sprecavano in
ti non esistevano, e non avrebbero neppure potuto esistere, grandi gentilezze e ringraziamenti, con la promessa che ci

20 21
avrebbero pensato "con molto piacere”. E a fondo, natural­ cidesse magari completamente con ciò che affermava mio pa­
mente. Perché ogni decisione doveva essere valutata molto dre; una volta che lui aveva detto la sua, lei sapeva di poter
"a fondo”, quanto più a fondo tanto più a lungo, così che dire di sì con tutta tranquillità, senza pericoli. Il giorno che
questo "a lungo” diventava facilmente un "troppo a lungo” e questo sistema del perfetto accordo avesse dovuto per disgra­
finiva in un "mai”. Ma anche di questo avevo imparato a nu­ zia non funzionare come d ’abitudine, la mia povera mamma
trire un grande rispetto; anche qui ammiravo il dignitoso scet­ era pronta a intervenire con le necessarie correzioni.
ticismo dei miei genitori, la loro eterna paura che si potesse Tanto per fare un esempio, se vogliamo immaginare che
alla fine non fare la scelta "giusta”, vi vedevo una sorta di su­ ci fosse da fissare una data per fare una determinata cosa,
periorità che significava assai più della primitiva capacità poteva accadere che mia madre, per imprudenza, proponesse,
di fare anche per una volta le cose "non a fondo”, e dire sem­ diciamo, il martedì. Se però mio padre trovava che la gior­
plicemente di sì o di no. La parola "spontaneità” non faceva nata più adatta era invece il venerdì (che a mia madre però,
parte del nostro vocabolario. senza che lui lo sapesse, non tornava comodo), per mia madre
Mi rendo conto che qui sfioro un tema filosofico che ov­ era la cosa più semplice del mondo farsi improvvisamente ve­
viamente travalica il limitato spazio dei miei personali ricordi. nire in mente che il venerdì andava senz’altro molto, molto
Per il filosofo è infatti possibile che il vero intellettuale sia meglio, le era infinitamente più comodo del martedì, anzi, ri­
colui che riflette su una cosa valutandone tutti i possibili pensandoci, il martedì non era proprio la giornata giusta,
aspetti e come conseguenza di ciò finisce per non decidersi e il venerdì era preferibile sotto tutti i punti di vista. La cosa
non agire mai. Ciò può essere perfettamente comprensibile veramente ridicola in tutto ciò è che nella maggioranza dei casi
sul piano filosofico. Ma altrettanto vero mi sembra che colui per entrambi un altro giorno della settimana, per esempio il
che nella vita passa il suo tempo a riflettere e per troppa in­ mercoledì, sarebbe stato di gran lunga più comodo, di modo
telligenza non si decide mai ad agire, in realtà è un fallito. che la scelta del mercoledì avrebbe rappresentato un ragione­
Chi passa la vita a "riflettere a fondo” ed evita accurata­ vole compromesso senza sacrifici da parte di nessuno. Quindi
mente di prendere una decisione, deve concludere che, alla la negazione delle loro reali preferenze e la rinuncia di mia
fine, tutte le riflessioni non hanno alcun valore e da ultimo madre non avevano avuto alcun significato. Ma lei aveva vo­
crollano come un castello di carte. Ma come avrei potuto da luto salvare l’armonia, e per far questo aveva dovuto ricorrere
ragazzino rendermi conto che vivevo in un castello di carte? a una inutile e stupida bugia. In questo caso i miei genitori
Qui naturalmente mi si potrà obiettare che non è pratica- non erano stati effettivamente "d’accordo”; avevano semplice-
mente possibile che in casa dei miei genitori vi sia stata sempre mente evitato con cura di discutere. Se oggi ripenso agli innu­
una così totale assenza di opinioni come io ho ora descritto; merevoli sacrifici inutili di questo genere che sono stati fatti
qualcuno deve pur aver dato una certa direttiva alla vita della nella mia famiglia in nome della perfetta armonia, posso solo
famiglia. Certo, qualcuno lo faceva, ed era naturalmente mio concludere che non si trattava affatto di generosità, ma di vi­
padre. Che fosse il padre a stabilire quale doveva essere l’opi­ gliaccheria.
nione della famiglia era "giusto”, appunto. Di solito era mio Per quanto io possa ricordare, i miei genitori, il cui ma­
padre che diceva come stavano le cose e noi tutti assentivamo, trimonio è durato trent’anni, hanno litigato fra loro una sola
perché lui naturalmente doveva saperlo meglio di noi. Mia volta. L’inconsueta situazione di dissenso fra i genitori fu, ri­
madre seguiva con assoluta fedeltà questa linea. Evitava ogni cordo, dolorosissima per tutta la casa, ma per quanto riguarda
enunciazione diretta, per non correre il rischio che non coin- lo scontro alla fine non se ne fece nulla: i miei genitori non

22 23
sapevano litigare e così, dopo aver passato un’intera giornata e da ragazzo devo essere stato sicuramente dalla parte dei
senza parlarsi, conclusero l’esperimento senza averne fatto miei genitori e specialmente di mia madre, e devo aver sperato
nulla. L’esperimento peraltro non fu più ripetuto, perché i con lei che fosse possibile sistemare nella maniera più dolce
miei genitori si erano accorti di mancare delle necessarie ca­ e senza ombra di conflitti qualsiasi divergenza d ’opinione che
pacità per portarlo a termine. potesse mai minacciarci; col tempo però la menzogna di questa
A questo proposito mi viene in mente una stranissima scena, eterna armonia familiare cominciò a disturbarmi. Non potrei
che voglio raccontare come rappresentativa di centinaia e dire quando sia stato; i primi segni devono risalire ancora
centinaia di altre simili. Una zia molto colta fu un giorno alla mia infanzia, ma della globalità della patologia del mio
invitata a casa nostra per il tè e si mise a raccontare di una mondo mi resi conto tardi, molto, molto tardi. Da un lato
mostra di quadri del pittore Hans Emi, che aveva appena mi urtavano le espressioni false di mia madre, dall’altro però
visitato. Quel pittore era per i miei genitori un personaggio ero io stesso ancora pervaso dal bisogno di armonia e troppo
sospetto, perché temevano che fosse comunista; non foss’altro vile per osare io stesso mettermi in una situazione di conflitto
che per questo i suoi quadri non potevano essere belli. La zia e preoccuparmi seriamente di capire perché queste cose mi
però affermò che la mostra era "stupenda”. Mia madre, in urtavano. Così consideravo il modo di fare di mia madre come
quel momento occupatissima a versare il tè, non sentì bene e una debolezza un po’ ridicola, quasi una amabile bizzarria, di cui
invece di "stupenda” capì "orrenda”, cosa che del resto si vai meglio sorridere che arrabbiarsi. Il concetto della "amabile
era effettivamente aspettata, visto che questo Emi era in odor bizzarria” lo avevo letto in un libro e me ne ero subito appro­
di comuniSmo. Così si affrettò a dichiararsi d ’accordo con la zia priato. Trovavo che mi andava benissimo, lo avrei potuto usare
e a sostenere con ardore quanto anche lei trovasse Emi orrendo. molto bene per "stuccare” nella mia visuale del mondo tutte
Naturalmente la zia a questo punto insisté più che mai nella quelle fessure che potevano eventualmente esserci. Cominciai
sua opinione, ripetendo accanitamente il suo "stupendo”, così persino a intuire di avere dei difetti e che il mio mondo era
che mia madre, che finalmente aveva capito, si affrettò a ribal­ sbagliato e dannoso, ma rifuggivo dalla parola "difetto”, che
tare la sua affermazione e trovò anche lei che quell’Erni era mi pareva compromettente e preferivo tenermi stretto alle
davvero "stupendo”. "amabili bizzarrie”, naturalmente perché nella parola "difetto”
In generale mia madre aveva una straordinaria predilezione c’era già, inespresso, l’invito a un riconoscimento della realtà,
per il vocabolo "oppure”. Faceva un’affermazione e poi a una presa di posizione e alla necessità di riparare, mentre la
proseguiva: oppure è un’altra cosa. Usava dire: il prossimo bizzarria, e specialmente una "amabile bizzarria” era invece
venerdì vado a Zurigo, oppure resto a casa. Questa sera per qualcosa che si poteva mantenere in vita, anzi coltivare, ma­
cena avremo spaghetti, oppure insalata di pesce. gari ci si poteva un po’ sorridere, ma in ogni caso la si poteva
Bisogna chiedersi: dov’è la realtà? Io vado via oppure resto tranquillamente conservare.
a casa. Sono qui oppure sono altrove. La terra è rotonda op­
pure triangolare. Con troppi "oppure” ogni parola perde
peso e significato; la lingua si dissolve, si decompone in una
massa amorfa di particelle prive di senso; nulla più è con­
creto, tutto diventa irreale.
Oggi non mi è possibile ordinare cronologicamente le mie
reazioni di allora all’ambiente nel quale vivevo. Da bambino
25
24
to anche questi figli non sono degli esseri perfetti. Tutto ciò
fa parte dell’accettato principio che il mondo, appunto, non è
perfetto. Il male non furono i miei genitori, perché i miei ge­
nitori non erano cattivi; oggi pensando a loro non posso pro­
vare altro che compassione. La cosa grave fu che il mondo nel
quale sono cresciuto non poteva permettersi di essere imper­
fetto, e che la sua armonia e la sua perfezione erano dei dati
obbligatori. Io non dovevo accorgermi che il mondo non era
perfetto; lo scopo principale della mia educazione era da ri­
cercare proprio nel rendere impossibile l’attuarsi del momento
II
in cui avrei potuto dire: alt!, perché ero stato educato a non
Considerando ciò che ho scritto sin qui, si potrebbe facilmente accorgermene. In questo senso la mia educazione era perfet­
trarne l’impressione che l’unica cosa che mi sta a cuore sia di tamente riuscita. La si può ritenere senz’altro un successo, dal
elencare malignamente le debolezze dei miei genitori per met­ momento che per ben trentanni non mi sono accorto di nulla.
terli in cattiva luce, indicarli come i cattivi che mi hanno ro­ Sono stato educato a dire sempre di sì e ho "fatto uso di ciò
vinato e ai quali è di conseguenza da ascriversi tutta la mia che ho imparato”, tanto che ho continuato sempre e dovunque
infelicità. Io credo piuttosto che il mio racconto vada ben al a dire di sì. L’esperimento della mia educazione era perfetta­
di là del dare semplicemente ai miei genitori la colpa di ciò mente riuscito. Purtroppo.
che io stesso avrei dovuto sapere e fare ben diversamente. Oggi Dove questo racconto va al di là del fatto puramente indi­
riesco a vedere i miei genitori assai meno come "colpevoli” viduale è che il mio caso —anzi, per meglio dire, il nostro caso
che come vittime coinvolte in una medesima situazione sba­ —non è, appunto, un caso singolo e non può essere considerato
gliata. Non sono stati loro a inventare quell’errato modo di totalmente isolato dagli altri. Fino a qual punto i miei genitori
vivere; piuttosto sono stati anche loro - come lo sono stato abbiano avuto colpa o fino a qual punto siano stati essi stessi
io - ingannati da un sistema di vita errato, accettato acriti­ soltanto le vittime di una colpa più grande, lo posso soltanto
camente. A questo punto dei miei ricordi si potrebbe imma- immaginare. Da quanto so dei miei genitori, mi pare che an­
ìginare si presenti il grande momento in cui io mi risveglio che loro non abbiano avuto dei buoni rapporti con i loro
alla realtà dalla illusoria fallacia della mia vita familiare e genitori, non comunque un rapporto "armonico”. Forse è sta­
dico: alt! Così non può andare avanti. ta appunto la mancata armonia della loro infanzia a spingerli
Questo momento invece non venne. Questa è stata la tra­ a voler realizzare, per compensazione, un modo di vivere a
gedia, che il momento non sia venuto e che in effetti non po­ tutti costi armonico. Forse volevano così cancellare tutto ciò
tesse venire. La cosa grave non furono le piccole o le grandi che di disarmonico pensavano di avere sofferto. Può darsi che
debolezze o manchevolezze dei miei genitori; dal momento che il loro atteggiamento sia da vedere come una reazione con­
nessuno è perfetto, nessuna educazione può condurre a risul­ sapevole all’atteggiamento dei loro genitori; un atteggiamento
tati perfetti, questo è ovvio e naturale, come è ovvio e na­ che fa nascere in me, a mia volta, un atteggiamento di rea­
turale che tutti i genitori nel loro ruolo di educatori si trovino zione aggressiva. Naturalmente si può anche vedere tutta
una volta o l’altra a fare qualcosa di negativo per i loro figli, questa storia generazionale come un ripetersi ininterrotto della
qualcosa di cui i figli avranno in seguito a soffrire; d ’altro can- medesima situazione, in cui i genitori vogliono sempre "far

26 27
bene” con i loro figli e li educano nella maniera più sbagliata, quelli che hanno ricevuto un’educazione sbagliata finiscono
così che i figli reagiscono poi cadendo nelFestremo opposto; con un cancro. Direi piuttosto che i danni causati da questa
a loro volta vogliono riparare i guasti dell’educazione ricevuta educazione possono diventare così gravi che nelle forme più
e educano i figli diversamente, creando così un circolo vizioso estreme (come pare sia ora il mio caso) possono anche mani­
che può andare avanti all’infinito. O in altre parole: comunque festarsi come malattie organiche condizionate da uno stato
si faccia, si sbaglia. Seguendo questa logica si arriverebbe ben nevrotico, ad esempio il cancro. Oggi non posso dire se so­
presto a rendersi conto che i problemi educativi sono ap­ pravviverò a questa malattia. Se ne dovessi morire, di me si
punto "difficili” e con ciò si dovrebbe ritenere l’intera fac­ potrà dire che sono stato educato alla morte.
cenda insolubile e metterla da parte, ad acta. D ’altro canto si può anche pensare che io in un certo senso
Ma per non cadere in questo errore e vedere solo l’aspetto almeno ho avuto fortuna: essendo stato educato al cancro, ora
comunque "difficile” di tutto il problema, sarei portato ad ho anche una possibilità di reagire al male, e sono quindi in
affermare che la mia educazione fu guastata da una reale pa­ una condizione molto migliore di migliaia di altri, per i quali
tologia; gli errori dei miei genitori non erano semplicemente le cose non hanno assunto proporzioni così enormi e che però
una reazione agli errori dei miei nonni. Non credo cioè che oggi, senza cancro, possono continuare a languire nell’infelicità
in casa nostra si vivesse semplicemente in una banale casa della tradizionale frustrazione nevrotica; che quindi stanno
di vetro, del tutto irreale, destinata a cadere al primo colpo solo un pochino meno male di me, ma appunto a causa di
di vento; penso piuttosto che ciò che ho fin qui raccontato questo "pochino meno” hanno anche molto meno chances di
della mia casa paterna sia emblematico per moltissime altre affrontare il male. Dopotutto ogni zurighese ricco ha la sua
famiglie dove le cose non devono essere poi andate molto di­ brava ulcera duodenale o il suo infarto; solo che questo non
versamente. Può darsi che il nostro caso fosse forse più accen­ gli fa venire in mente niente di intelligente. Del fatto che
tuato di altri, più estremo, ma in linea di principio la mia non c’è del marcio in Danimarca (e anche negli altri Stati europei)
era poi tanto diversa da tante altre famiglie borghesi. Si po­ ci si accorge evidentemente soltanto quando la malattia è an­
trebbe obiettare che è stato invero molto triste per quanto mi cora più grave.
riguarda personalmente, ma in realtà ciò che mi ha danneg­ Dove però credo di vedere più chiaro ed evidente l’errore
giato è stato un eccesso di errori educativi rivelatosi troppo nella mia educazione è nella costruzione falsa e dogmatica di
gravoso per il mio caso individuale, ma che quasi tutti i miei un mondo sano e perfetto; in questo senso il mondo della
contemporanei hanno avuto una educazione infelice quanto mia giovinezza è uguale a quello di tutti coloro che sono nati
la mia, senza per questo averne il danno che ne ho avuto io. O, e cresciuti non solo sulla riva destra ma anche sulla riva "giusta”
per dirla più semplicemente: ogni educazione è sbagliata, ma del lago di Zurigo, sulla cosiddetta costa d ’oro, nella società
questo non significa molto, perché la maggior parte dei figli borghese di Zurigo, della Svizzera, d ’Europa o, se si vuole,
riesce ugualmente a venirne fuori bene. Se, in via eccezionale, del cosiddetto mondo libero. Non voglio con ciò fare della
uno finisce male, vuol dire soltanto che ha avuto sfortuna e mia storia una dissertazione politica, non ne ho nessuna voglia
va considerato come caso limite o, appunto, come quella tale e neppure la necessaria preparazione, ma voglio soltanto limi­
eccezione che serve a confermare la regola. tarmi ai miei personali ricordi, anche se mi rendo conto che
Il fatto è però che io non credo a questa eccezione. Gli ef­ questo mio casp personale non è unico, ma probabilmente
fetti estremi scaturiti per me da questo danno possono forse rappresentativo per molti. E quindi, in questo senso, diventa
anche rappresentare una eccezione, perché dopotutto non tutti forse anche un fattQ politico.

28 29
Espressa dunque la convinzione che la mia famiglia non perché qui non c’erano comunisti, o per lo meno erano molto
rappresentava un caso eccezionale, ma essendomi finora limi­ pochi. E anche quei pochi erano lontanissimi da noi, e cioè
tato a descrizioni della mia vita familiare nell’ambito del quo­ nel Cantone più lontano dalla mia casa paterna, e precisa-
tidiano, ad esempio nei discorsi che si fanno intorno a una mente a Ginevra, che si poteva probabilmente immaginare
tavola apparecchiata, voglio ora tentare di inserire nel discorso come una Babele del peccato politico.
anche il mondo esterno. Da bambino naturalmente tutti i rapporti di natura politica
Se oggi cerco di ricordare come erano le altre persone al- erano per me assolutamente oscuri; ma ricordo ancora quanto
l’infuori della mia famiglia, vorrei dire: ridicole e rispettabili. dispiacque ai miei genitori una mia prima, timidissima presa
Raramente raggiungevano l’estremo del ridicolo totale, più di coscienza politica quando ero studente. Una volta, a tavola,
facilmente quello della totale rispettabilità; il più delle volte si lamentava la sorte di un conoscente che i cattivi di sinistra
però possedevano le due qualità insieme, qualità che solo appa­ ostacolavano nella carriera a causa del suo passato nazista (che
rentemente si escludono a vicenda. in Svizzera naturalmente non si chiamava passato nazista, ma
Rispettabili erano naturalmente tutti coloro che avevano “passato di guerra”). Quando io in proposito citai come
un ruolo degno di rispetto come insegnanti, medici, sacer­ esempio il caso di un insegnante di scuola media che, essendo
doti, direttori, dottori, professori, militari e in generale tutte socialista, non poteva avere il posto in una scuola di stampo
le persone ricche. Credo che anche per noi valesse la frase: chi conservatore, raccolsi indignazione e malcontento, perché queste
è ricco è anche per bene. Naturalmente non si diceva “per be­ due cose “non si potevano assolutamente paragonare”. È chiaro
ne”, ma “giusto”, l’espressione tanto in uso nel nostro Paese. che tali audacie politiche per me non erano la regola, ma che
La gente “giusta” era la gente ricca. Anche “ricco” natural­ in generale anche quando ero già studente in politica sono stato
mente non lo si diceva mai. Si diceva: “ha mezzi”. La gente un onesto figlio dei miei genitori e, da bravo ragazzo, tro­
non era mai “avara” ma “agiata”. I poveri non erano "pove­ vavo “buono” tutto ciò che era di destra e “cattivo” tutto
ri” ma “modesti”, Le cose - ma soprattutto i loro possessori - ciò che era di sinistra. Ero quel che si dice un ragazzo di
non erano “costose” ma piuttosto “non a buon mercato”. Per­ "buon senso”.
ché dopotutto del denaro non si parla; lo si ha e basta. In questo senso venni educato quindi a vedere in tutti gli
C’è un’importante categoria di persone di rispetto che meri­ estranei delle persone di rispetto. Dico estranei perché già da
ta qui una particolare attenzione: i politici. Per principio erano bambino sentivo che si trattava di persone che non appartene­
anche loro rispettabili, ma veniva fatta una distinzione: dove­ vano alla nostra specie, non erano del nostro mondo. Bisognava
vano essere di destra. Quanto più a destra, tanto più rispet­ trattarle con riguardo e rispetto, non era da escludersi una
tabili; quanto più si spostavano a sinistra, tanto più perdevano certa cortesia, ma la cosa più importante era mantenere una
rispettabilità. L’unità di misura per le valutazioni politiche certa distanza. Cortesia sì, naturalmente, cordialità assoluta-
erano quei cattivi dei comunisti: quanto più uno era antico­ mente no - questa era la regola. Gli “altri” erano sempre
munista, tanto più ci si poteva fidare; quanto più nasceva il assai più potenziali nemici che potenziali amici. Se veniva a
sospetto che avesse qualcosa a che fare con il comuniSmo, casa nostra il signor dottore o il signor direttore, non era pos­
tanto più era infido. In casa nostra il quadro politico mon­ sibile esser contenti della visita; si doveva piuttosto aspet­
diale era quindi molto chiaro: c’erano i buoni e i cattivi e tarsi un elemento di disturbo della pace familiare, una sgra­
la linea di demarcazione fra i due estremi era chiara e ine­ dita intrusione che subito si cercava di neutralizzare e di ren­
quivocabile. La Svizzera, questo lo sapevo, era “buona” dere il meno sgradevole possibile sommergendo la persona di

30 31
cortesie e di premure, usando tutto il tatto possibile. A sotto- venivano trattati con eccessivo e ostentato rispetto. Anche in
lineare quanto particolare e dolorosa era la circostanza, tutto questo caso era evidentemente impossibile affrontare l’estraneo
in casa doveva essere un po’ diverso dal solito: le stanze dove­ con naturalezza; anche questi erano estranei, che bisognava tener
vano essere riordinate ancor più accuratamente, proprio solo lontano con l’affettazione. L’aspetto falso in questa specie di
quel tantino in più che non ci piaceva, perché questo disagio gentilezza era l’esagerazione. Mia madre esprimeva la sua lode
sottolineava appunto il carattere del cerimoniale. I miei ge­ e gratitudine per il più modesto servigio in toni così eccessivi
nitori si muovevano con gesti diversi dal solito, parlavano in che sia la lode che la gratitudine non potevano essere prese sul
un altro modo, dicevano cose e sostenevano opinioni del tutto serio e si dissolvevano nell’irreale. La mia povera mamma usava
diverse da quelle abituali e soprattutto in presenza della per­ dire al postino che era splendido, "straordinario”, "meraviglio­
sona di rispetto parlavano con me e mio fratello in maniera so” che lui portasse la posta e non voleva accettare l’idea che
del tutto diversa da come facevano abitualmente. Persino il quello di consegnare la posta, dopotutto, era il suo mestiere;
tono di voce fra genitori e figli di fronte a queste persone di lo si poteva ringraziare, ma la cosa non era meravigliosa.
riguardo doveva essere diverso, più forzato e innaturale. Cia­ Spesso inoltre mia madre parlava con i sottoposti come se
scuno doveva recitare una parte e perché anch’io e mio fratello fossero dei perfetti idioti. Si esprimeva con eccessiva chiarezza
recitassimo la nostra, i genitori parlavano con noi come se e parlava più lentamente del solito, perché quegli infelici potes­
fossimo dei figli diversi. sero anche loro comprendere il senso delle sue parole, e non ca­
Da bambino trovavo questo cerimoniale soltanto sgradevole piva che questi "infelici” non erano affatto tali e soprattutto non
ed ero contento quando la recita era finita e l’elemento di di­ così lenti di comprendonio al punto di non poter seguire un
sturbo se ne era andato. Oggi mi accorgo che proprio questo discorso fatto in modo normale. Una involontaria situazione
disagio aveva il suo particolare significato: evidentemente ser­ comica si verificava ogni volta che queste cosiddette "persone
viva a dare tanto al visitatore di riguardo quanto a tutta la modeste” si dimostravano più sveglie di mia madre e, mentre
famiglia l’impressione che l’intruso disturbava, che era un lei parlava con loro sforzandosi di tradurre il suo linguaggio in
estraneo e che con noi non aveva nulla a che vedere. E poiché una sorta di linguaggio seminfantile, a loro volta le raccontavano
l’impressione non poteva essere trasmessa con villania, con cose che lei non sapeva e di cui non capiva nulla. Gli inferiori,
maniere scortesi, la manovra di scoraggiamento si effettuava i sottoposti, le cosiddette "persone modeste” erano appunto
con l’eccesso di cortesia. L’estraneo era appunto la persona anche loro degli estranei, appartenevano a un mondo diverso
sgradita; non appena se ne era andato, il nostro mondo tor­ dal nostro, ma non erano soltanto diversi, erano anche da
nava a essere a posto e noi eravamo di nuovo fra noi. Io meno, meno intelligenti. E anche se non venivano mai trattati
questa impressione la sentivo molto intensamente: sapevo che in tono sprezzante, ma al contrario con l’estremo opposto, cioè
i due concetti " visita” e *sgradito” erano in realtà sinonimi e con riguardo eccessivo e quindi falso, per me proprio in questa
sapevo anche: "una visita è il momento in cui si deve fingere”. vuota e affettata forma di riguardo il disprezzo era ancora più
Accanto a queste persone di riguardo che già per profes­ chiaramente avvertibile che se fosse stato deliberatamente
sione o posizione, per ricchezza o altre prerogative infondeva­ espresso.
no rispetto, ce n ’era una quantità di altre, con le quali la si­ Detto così può sembrare che la nostra casa fosse perenne-
tuazione era esattamente all’opposto. Si trattava di persone in mente assediata da gente "diversa”, ostile o malintenzionata che
un modo o in un altro sottoposte, operai o impiegati o chiun­ si riusciva a tener lontano solo con la più cortese e gelida
que avesse a dare una qualsiasi prestazione. A casa nostra tutti diplomazia. Naturalmente i miei poveri genitori non avevano

32 33
soltanto nemici immaginari, ma anche degli amici, e posso sol­ la parte degli invitati. Come invitati si trovavano a muoversi
tanto sperare che non fossero anch’essi così immaginari. Voglio in un ruolo molto meno rituale di quello dell’ospite, erano
sperare, soprattutto per i miei genitori, eh’essi non abbiano quindi molto più esposti a partecipare al piacere della serata,
agli inizi guastato i rapporti con i loro amici, come spesso mi o per lo meno avrebbero dovuto esserlo. Perciò erano costretti a
parve di notare negli anni seguenti. Da bambino naturalmente identificarsi sempre più nell’altro ruolo, quello dell’invitato
non avevo una chiara idea degli amici dei miei genitori. Quando incessantemente grato di tutto, ringraziando sempre in ma­
avevano visite, io e mio fratello non c’eravamo. Prima di andare niera eccessiva e lodando esageratamente tutto ciò che gli ve­
a letto dovevamo però fare la nostra brava comparsa davanti niva offerto. Deve essere quindi capitato spesso che, esterior­
agli ospiti, dare la mano, salutare con garbo, dire quanti anni mente raggianti, trovassero tutto "splendido”, " straordinario”,
avevamo e che classe frequentavamo e affermare che ci pia­ mentre dentro di sé si sentivano malédettamente a disagio e
ceva andare a scuola. A ricompensa di queste informazioni, avrebbero tanto voluto tornare a casa. Il non potersi lasciare
loro ci assicuravano che ora, a dieci anni, eravamo davvero andare a essere tranquillamente se stessi era legato al bisogno
molto cresciuti da quando ci avevano visto l’ultima volta e ne che sentivano di fare in questo modo onore all’ospite. Starei
avevamo nove. Naturalmente era una cosa che detestavo. Una per dire che onoravano i penati del loro ospite comportandosi,
certa idea della cerchia di amicizie dei miei genitori però me la anche da invitati, secondo il loro cerimoniale della cortesia,
feci soltanto quando fui più grande e mi fu concesso di essere evitando di dare sgradevolmente nell’occhio. Così finivano per
presente quando i genitori ricevevano. non dare nell’occhio in alcun modo e se ne stavano seduti edu­
Devo ovviamente tener conto del fatto che questa cerchia di catamente in disparte, sentendosi a disagio e non partecipando
amici io la vivevo quasi sempre nella stessa situazione - certo alla generale conversazione. Fra di loro peraltro non faceva­
la più sfavorevole - vale a dire nei ricevimenti. Purtroppo nei no affatto mistero di non amare gli inviti; ogni volta accet­
ricevimenti, devo dire, perché in questo singolare modo di tro­ tavano per dovere e andavano con malcontento. Un malcon­
varsi insieme ci sono sempre due ruoli, quello dell’ospite e tento di cui naturalmente all’esterno non c’erano tracce.
quello dell’invitato, due ruoli fissi, nei quali i miei genitori Un trucco particolare, quando proprio non potevano fare
sapevano identificarsi fino a essere irriconoscibili. In effetti a meno di accettare un invito, era quello di accoglierlo con
erano entrambi ottimi ospiti, ma come invitati erano un vero un eccesso di entusiasmo e subito trasformarlo in un controin­
disastro. Come ospiti erano discreti e si davano da fare senza vito, proponendo che fossero gli altri a venire da loro, sem­
parere, preoccupati di mettere a loro agio gli invitati; così pre facendo uso di quell’infausto "oppure”. "Ma certo, veniamo
preoccupati che non avevano bisogno di dire niente che andas­ con molto, molto piacere, oppure... perché non venite voi da
se al di là del rituale dell’ospite e del formalismo della noi?” Così capitava che spesso per pura vigliaccheria, e per­
cortesia ufficiale. La perfetta cortesia in un ospite è indubbia­ ché la cosa non gli andava, i miei genitori invece di andare
mente un’ottima cosa, e se gli invitati si trovavano bene e in casa d ’altri non mollassero la presa fino a quando non
si divertivano non c’era ragione di notare che la cortesia dei erano riusciti a trasformare un invito ricevuto in un invito
miei genitori si esauriva e trovava il suo scopo nelle formule da parte loro. Gli altri per lo più interpretavano questo atteg­
anonime dell’ospite perfetto e che su quella scena loro in fondo giamento come disponibilità, generosità; ma io sapevo che
in fondo se ne stavano in disparte e recitavano solo la loro era soltanto comodità, egoismo. Un altro aspetto di questo
parte. tipo di cortesia consiste indubbiamente - in generale, non sol­
Ma il gioco cessava di funzionare quando toccava a loro far tanto nella mia famiglia - nel fatto che con ciò si evita di dover

35
34
poi essere grati a qualcuno. Se non si accetta mai nulla, non della cosa in sé, ma del fatto che lei doveva trovare ecce­
ci si trova neppure mai nell’occasione di dir grazie e si evita zionale tutto ciò che le veniva dall’ospite. Probabilmente
la situazione di gratitudine, il disagio di sentirsi in debito di l’ospite avrebbe potuto anche scotennare viva la mia povera
qualcosa. Questa forma di cortesia non è altro che egoismo. mamma e lei si sarebbe sentita in dovere di trovare che si
Sono sempre stato d ’avviso che - per lo meno nella nostra iper- trattava di una cosa *straordinaria”, soltanto perché aveva
nutrita società, dove non si conosce il bisogno materiale - il luogo in casa dell’ospite. L’entità della parola era inesistente,
dare è molto, ma molto più facile del ricevere. Perché chiun­ la verità di nessun conto, solo la formula di cortesia contava.
que sia milionario può dare (e sulla costa d ’oro ci sono sol­ Molti anni dopo, quando già non abitavo più con i miei
tanto milionari), ma accettare qualcosa con gratitudine senza genitori, la loro avversione ad andare in casa altrui aveva ormai
dover subito il giorno dopo ricambiare con un regalo dello assunto forme piuttosto macabre: andavano soltanto ai fune­
stesso valore, questo su tutta la costa, da Zurigo a Rapperswil, rali. Forse s’era anche parlato di andare a trovare questo o
sono ben pochi a saperlo fare. Una cosa che non parla a favore quel conoscente, o magari anche un carissimo amico, ma alla
della nostra società. Affatto. Ma per fortuna non c’è soltanto fine, per pigrizia o indecisione, la questione della visita era
la costa d ’oro, ci sono anche i negri e i cinesi e quelli, grazie a stata tirata talmente per le lunghe che la persona che avreb­
Dio, sono numericamente la maggioranza. bero dovuto andare a trovare era morta. Una volta morto però,
Che negli inviti dei miei genitori si esercitasse la solita i miei genitori ci andavano subito, perché quella era una que­
tecnica del rovesciamento dei valori, è più che comprensibile. stione di buone maniere. Andare ai funerali era una cosa che
Tutto ciò che essi offrivano come ospiti doveva essere prima da persone educate si doveva fare, era una cosa "giusta”; del
debitamente svalutato; soprattutto bisognava dire che era fatto che la persona che si sentivano in dovere di onorare
troppo poco, troppo modesto, insignificante, cattivo. Per con­ in quel modo ora non avesse più a godere della loro visita,
tro, tutto ciò che si riceveva in casa altrui era automaticamente quando invece gli si sarebbe fatto tanto piacere andandolo a
straordinario, meraviglioso, al di sopra di ogni confronto e trovare in vita, di questo non si dispiacevano, era un aspetto
comunque meglio di ciò che facevano loro. Ovviamente il va­ del tutto secondario della questione.
lore reale della cosa non aveva alcuna importanza; era il ruolo Ma dopo tutte queste persone rispettabili, sia che fossero
di ospite o di invitato a stabilire che cosa fosse assolutamente funzionari o invitati, oppure le cosiddette "persone modeste”,
degno di lode o assolutamente al di sotto di ogni critica. Come voglio ora parlare di un altro gruppo, ancora più importante,
sempre, le cose non avevano un valore effettivo; dovevano quello dei ridicoli, di tutte quelle persone che erano un po’
servire soltanto a soddisfare le formule della cortesia imperso­ diverse da noi e perciò un po’ ridicole. Devo premettere che
nale. Qui devo portare ad esempio un penoso particolare. uso l’espressione "ridicolo” solo ora, a posteriori. In casa
Quando la mia povera mamma era invitata, molto spesso, nostra nessuno avrebbe mai osato usare un simile vocabolo
non so se per preferenza o per falsa modestia, rifiutava il whisky neppure nei suoi più reconditi pensieri riferendosi ad altre
o il cognac che le veniva offerto, e chiedeva invece un sem­ persone. Quando si trovava qualcuno ridicolo, si trattava
plice bicchier d ’acqua. Ma poiché quest’acqua le veniva dal­ sempre di un processo inconscio. In altre parole: facevamo fin­
l’ospite, si sentiva in dovere di assicurare che era " straordina­ ta di non saperlo. Ho scritto più sopra che le persone erano
ria”. Il fatto che l’acqua minerale per la verità ha sempre ridicole perché erano diverse da noi. Vale a dire, non erano
lo stesso sapore, sia che venga dal proprio o dall’altrui fri­ "giuste” come noi. Ma ovviamente non si poteva pretendere
gorifero, non aveva per lei alcuna importanza. Non si trattava da chiunque che fosse "giusto” come noi, sarebbe stato pre-

36 37
tendere troppo. Era bene che fosse così, che non tutti fossero per questo restavamo sempre in disparte. Devo dire che non
proprio completamente "giusti”, era nella natura delle cose si può immaginare fino a qual punto fosse sottile e impercet­
che soltanto un paio di aristocratici potessero raggiungere il tibile questa perenne dicotomia fra noi in veste di spettatori
"giusto” delle cose e gli altri restassero molto al di sotto. e gli altri intesi come attori. Non credo che i miei genitori
Questi ultimi non si potevano certo chiamare cattivi; erano fossero consapevoli di tale dicotomia; comunque mai sa­
brava gente che si sforzava di fare il meglio che poteva nel­ rebbero riusciti a tradurla in parole, nemmeno nel caso ne
l’ambito del proprio ristretto orizzonte; non meritavano quindi avessero vagamente intuito l’esistenza. Delle cose veramente
in alcun caso di essere biasimati - soltanto non erano fra quelli importanti erano infatti completamente ignari, per esempio
"giusti”. del fatto di trovare gli altri ridicoli. Ridicolo sarebbe stata
Cominciai così a capire che l’imperfezione altrui era più l’ultima parola con cui avrebbero potuto caratterizzare il loro
simpatica che repulsiva, era divertente, era, appunto, ridicola. atteggiamento verso il mondo circostante, i loro rapporti umani
Notai che gli altri facevano ininterrottamente tutto ciò che erano improntati a un rispetto gerarchico, totalmente privo di
noi cercavamo sempre di evitare: scoprivano le proprie de­ umorismo e a un gelido e cortese rifiuto del prossimo. I mìei
bolezze, e queste debolezze ci divertivano. Gli altri facevano genitori si sarebbero entrambi ribellati con sdegno al rimpro­
sempre cose che erano un po’ ridicole e si comportavano in vero di sorridere del loro prossimo. Eppure era ciò che face­
generale in modo un po’ ridicolo. Era tutta gente che non vano. Che cosa era l’elemento veramente ridicolo in questo
aveva ancora capito che tutto era "difficile”; con tutta la loro rapporto fra i miei genitori e gli altri?
maldestrezza parlavano goffamente e apertamente di cose che Voglio tentare di spiegare questo "ridicolo” come il distacco
non toccava loro dire, appunto perché si trattava di cose "dif­ fra il perfetto e l’imperfetto; o, detto cinicamente, fra il ne­
ficili”; gente che su tutto e su tutti aveva - che cosa primi­ gativo e il positivo: il nulla è sempre perfetto, il qualcosa ha
tiva — una propria personale opinione e la esprimeva libera­ sempre dei difetti. Il meccanismo del mondo appare ridicolo
mente; che non sapeva confrontare le cose fra di loro e non alla serenità del Budda, perché lui non ci ha più nulla a che
sapeva quindi che non si potevano fare confronti. Io avvertivo fare. Il cinico trova ridicoli i sentimenti degli altri, perché lui
che era divertente sentire gli altri dare per buona la propria di sentimenti non ne ha più. Così, colui che non ama il calcio
opinione, un’opinione che, chissà, forse poteva anche essere vede come assolutamente ridicolo che un tizio possa faticare
pazzesca, probabilmente lo era, mentre io sapevo di essere per ore e ore dietro una palla; non si domanda se questo gioco
troppo distinto e intellettualmente troppo raffinato per avere può essere invece per qualcun altro terribilmente divertente,
un’opinione mia personale. C’erano dunque persone che corre­ ma ne vede soltanto l’aspetto ridicolo, vede cioè degli adulti
vano il rischio di esporsi, di mostrarsi per quello che erano e che si mettono a giocare come se fossero dei bambini. Proba­
ciò era ridicolo. Il mondo dei non "giusti” era così il nostro bilmente quello che fa qualcosa si rende sempre ridicolo agli
teatro, noi eravamo gli spettatori; infatti non facevamo nulla, occhi di chi non fa nulla. Chi agisce si espone sempre al rischio
stavamo semplicemente a guardare. di mettersi a nudo; chi non fa nulla non accetta neppure di cor­
Coloro che io qui chiamo gli "altri” erano, a voler ben rere questo rischio. Nello stesso modo si potrebbe affermare
guardare, tutti e ciascuno. Ciascuno era diverso, nessuno era che ciò che vive è sempre ridicolo, dal momento che soltanto
come noi; o, per essere più esatti: era soltanto la nostra in­ la morte è assolutamente al di là del ridicolo.
confessata, inattaccabile spocchia che ci faceva vedere l’uma­ Oggi credo che anche per noi fosse così: non facevamo nulla,
nità come gli "altri”; in realtà gli "altri” eravamo noi, e non dicevamo nulla, non sostenevamo nulla e non avevamo

38 39
opinioni e passavamo il nostro tempo a sorridere della gente di ginnastica o cantare in quella di canto corale o giocare ai
che - ridicolo! - faceva o diceva o addirittura credeva in qual­ birilli al club dei cultori dell’arte dei birilli no, questo non lo
cosa. Questi clowns nel nostro salotto erano del resto persino avrebbero mai fatto. La mia povera mamma, per pura abitu­
molto necessari alla nostra esistenza; dal momento che noi dine, era persino membro dell’associazione femminile, seb­
non ci rendevamo mai ridicoli, dipendevamo ovviamente dagli bene detestasse tale istituzione, non foss’altro per l’impegno
altri che lo facevano e in questo modo ci permettevano di con cui si batteva per il voto alle donne.
divertirci. Per questo li trovavamo così simpatici, perché ci fa­ Eravamo ben disposti verso la vita, molto ben disposti, si
cevano ridere, cosa che noi da soli non sapevamo fare. Che di può dire; stavamo di fronte alla vita con la stessa benevolenza
ridicolo non ci fosse penuria, è facilmente immaginabile; quan­ con cui allo zoo si può star di fronte a un ippopotamo o a una
to più è in una bottega di porcellane, tanto più sicuramente ogni giraffa. Basta del resto dire che stavamo di fronte alla vita.
estraneo ha la probabilità di apparire come un elefante. Quindi Solo starci dentro nella vita, questo no, questo non lo volevamo.
tutto quello che trovavamo ridicolo lo era specificamente per La vita peraltro ci piaceva, ma non la prendevamo come il
noi — per chiunque altro era perfettamente normale. Penso nostro mestiere, piuttosto come uno spettacolo al quale si
a questo proposito a un nostro vicino di casa che possedeva assisteva. Tutto ci piaceva, la gente, le strade, la fiera, ma
sempre molte fantastiche automobili e le usava con immenso sempre da spettatori. Per questo nessuno avrebbe mai potuto
piacere. Questo era un po’ ridicolo, faceva un po’ nuovo ricco, rimproverarci di essere ostili al nostro prossimo; in realtà
perché mio padre, molto più ricco del suddetto vicino, non andavamo verso il nostro prossimo, ma con lo stesso spirito
possedeva neppure un’automobile e non sapeva nemmeno con cui si va al cinema. La strada, per esempio, era una cosa
guidare; questo era molto distinto. Lo stesso vicino si dilet­ che ai miei genitori piaceva molto, specialmente nel sud, in
tava anche di modelli di aeroplani, ch’era in grado di far vo­ Italia o in Spagna; lì si poteva vedere la vita scorrere sotto gli
lare sopra metà della Svizzera; anche questo ovviamente era occhi. Ma ecco il punto: la vita passava davanti agli occhi.
un po’ ridicolo, un tipo di hobby abbastanza infantile. Mio Io stesso per anni e anni non ho capito quanto sia interessante
padre non aveva hobby, nelle sue ore libere faceva al mas­ la strada; sapevo soltanto che era pittoresca e che ci si potevano
simo un solitario (per la verità ne conosceva uno solo e nem­ vedere i tipi più strani. Non mi sfiorò mai la mente che per
meno dei più interessanti); questo naturalmente era molto la strada anch’io ero un tipo come gli altri. Spesso sono stato
distinto. a osservare la scena della strada con la gente tutta indaffa­
Intendo dire che le predilezioni del nostro vicino di casa rata, ciascuno intento ad andare per i casi suoi. Una volta a
non avevano in sé nulla di ridicolo; lo avevano soltanto per una sagra paesana, degli amici mi domandarono che cosa mi
noi, che di predilezioni non ne avevamo e ci gloriavamo di fosse piaciuto di più e io, con tutta naturalezza, risposi che ciò
essere "al di sopra” di queste cose. Quanto meno fai, tanto che più mi piaceva era osservare la gente. Dovetti fare un cer­
meno ti rendi ridicolo. Questa verità era un motto di casa to sforzo per lasciarmi guidare di buon grado da un diverti­
nostra e ha contribuito a fare di me un essere distinto e infe­ mento all’altro, perché l’idea che i divertimenti potessero
lice. Tale generale passività si vede bene in un esempio: i essere lì anche per me e non solo per gli altri mi era comple­
miei poveri genitori erano membri passivi di tutte le associa­ tamente nuova.
zioni in cui si poteva essere iscritti; non esserci "avrebbe fatto Per la strada incontravo tipi interessanti; ma non erano tipi
cattiva impressione fra la gente del paese” dove abitavamo. con cui avrei volentieri preso contatto. Era come un film che
Ma essere membri attivi, fare della ginnastica nell’associazione mi si dipanava sotto gli occhi con le sue immagini scintillanti

40 41
e cessava nel momento in cui mi alzavo dal mio posto di spet­ nema, dicendo che guardavamo la vita come un film, devo
tatore e me ne andavo. Per la strada vedevo belle donne, molto anche aggiungere che al cinema non ci lasciavamo mai "toc­
eleganti, o molto belle, ma che mi passassero davanti e fossero care” direttamente. I miei genitori ci andavano volentieri di
molto belle e eleganti anche per me, a quello non arrivavo a tanto in tanto; ma per principio suddividevano tutti i film in
pensare. Questa è certo la quintessenza del mondo nel quale due categorie: c’erano i film "fastidiosi” e quelli "assurdi”. Il
sono nato e che doveva diventare anche il mio: la vita è una senso era questo: un film era "fastidioso” quando mostrava
cosa molto bella, ma noi non siamo la vita, la vita sono gli altri. gli aspetti tristi, tragici, pessimistici, "disarmonici” della vita.
La concezione che avevo allora della strada come mio spet­ Ai miei genitori questi film non piacevano; pensavano che film
tacolo privato ebbe per me una terribile conseguenza. Poiché io di questo genere non si sarebbero dovuti fare, perché "la vita
la gente la osservavo soltanto, più con aria critica e dall’alto in non è così”. Partivano dal preconcetto che la vita non poteva
basso che con simpatia, ero automaticamente convinto che essere nera come appariva in certi film "fastidiosi” e che
anche gli altri facessero lo stesso con me. Ogni volta che quindi il film in questione era irreale e inutilmente pessimi­
qualcuno si voltava a guardarmi, per me era naturalissimo pen­ stico. Non era certo un merito per l’autore far vedere cose
sare che mi guardava con biasimo o con critica e che aveva brutte, cattive, tristi.
qualcosa da ridire. Interpretando in tal modo ogni sguardo, co­ Gli altri film erano "assurdi”, stravaganti, vale a dire erano
minciai a temere che effettivamente ci fosse in me una quan­ comici, ma in maniera irrealistica, esattamente come i film
tità di cose da biasimare. Temevo di non essere in ordine, "fastidiosi” lo erano in forma tragica. Anche qui "la vita non
di avere gli abiti sporchi, insomma di portare in giro, senza è così”. Entrambe le forme di cinema si caratterizzavano quindi
accorgermene, qualcosa di fastidioso per il pubblico. Da ra­ per essere totalmente irreali e rappresentare cose del tutto
gazzino definivo questo particolare stato d’animo dicendo che impossibili, nelle quali non ci si poteva in alcun modo identi­
mi sentivo come "con una cornacchia morta appesa al collo”. ficare. Una sottospecie dei film "fastidiosi” erano i "russi”.
Come se tutti quelli che passavano mi vedessero ballonzolare Anche questi non erano realistici, perché vi si discutevano
davanti al collo quella cornacchia morta e io soltanto non mi continuamente problemi interiori e "meno che mai la vita
rendessi conto di questa scandalosa realtà. La cosa peggiore è così”. Non essendo i miei genitori abituati a parlare di con­
era quando a guardarmi era una ragazza; poiché non mi era flitti interiori, ogni rappresentazione di individui che non fa­
mai venuto in mente di voltarmi a guardare con ammirazione cevano altro che questo, non poteva che apparire loro assurda,
una ragazza, e anche delle donne ciò che ero pronto a vedere addirittura inverosimile. I "russi”, questo popolo esotico e
era l’aspetto ridicolo, non mi sfiorava neppure lontanamente totalmente inimmaginabile sul nostro parallelo, parlavano
la mente che potessero guardarmi con approvazione. Non ero magari anche dell’anima, ma nel nostro mondo un tema simile
un ragazzo particolarmente bello né particolarmente brutto, non era assolutamente impensabile.
si poteva quindi escludere a priori che una ragazza mi rivol­ Solo molto più tardi doveva colpirmi quanto poco irreali
gesse uno sguardo di simpatia; ma anche gli sguardi più be­ erano i film che i miei genitori trovavano "fastidiosi” o "as­
nevoli erano per me solo espressione di critica e di disappro­ surdi” o "russi”. Tutti rappresentavano, naturalmente con
vazione. Ogni sorriso mi pareva ironico e di compatimento; diverso stile e impegno, sempre gli stessi fondamentali proble­
è chiaro e abbastanza naturale che a quel sorriso non rispon­ mi dell’uomo, quelli che si raccolgono sotto il nome comune
dessi con un sorriso. di vita. Le vicende dei personaggi erano magari accentuate in
Quando ho più sopra confrontato la nostra vita con il ci- senso teatrale, ma tutto ciò che in essi vi era di comico o di

42 43
tragico o di *russo” appunto, non era affatto assurdo; erano
tutte cose che potevano capitare a chiunque. Solo che a noi
non avrebbero mai potuto capitare: solo per noi tutto ciò do­
veva restare solo cinema. Amore, odio, passione, violenza,
follia, vizio, delitto, ma anche ridicolo, situazioni assurde o
penose, imbrogli, la presa in giro di uno stupido, vergogna,
seduzione, fascino, debolezze, errori, bohème, peccato, tutto
ciò per noi era solo cinema; nella vita non esisteva. Forse po­
teva anche darsi che i russi fossero così, ma noi no. Non faceva
differenza se vedevamo queste cose in un film o nelle persone III
che ci stavano intorno. L’effetto era lo stesso. Ciò che ve­
devamo non era mai, in nessun caso, un riflesso del nostro io. Dopo aver tentato di inquadrare qualche elemento determinan­
Guardavamo la vita come se fosse un film; ma nemmeno al te del mondo della mia infanzia e della mia adolescenza, vorrei
cinema volevamo pensare che il film parlasse della vita. ora occuparmi per un momento dei miei anni di scuola. Tralascio
le scuole elementari, che frequentai a K. e che rimasero
completamente nell’ombra dell’ambiente familiare e passo su­
bito a parlare degli anni della scuola superiore. Questo portò
un elemento nuovo nella mia vita, dal momento che dovevo
andare in città, a Zurigo, e ciò già allargava un po’ il mio oriz­
zonte, anche soltanto dal punto di vista geografico. Che
dovessi andare al liceo era un punto fermo, già stabilito con
anticipo. Prima di essere preparato all’esame di ammissione
mi avevano detto che ero intelligente e che la mia strada era
il liceo. Come al solito non avevo trovato nulla da obiettare.
All’inizio dell’anno scolastico, alla festa di benvenuto agli
alunni che entravano al liceo, il rettore, dopo averci spiegato
a grandi linee gli intenti di quello studio, ci disse che l’aspet­
to più bello della scuola superiore era che lì ci saremmo fatti
gli amici più cari e avremmo potuto mettere le basi di amicizie
destinate a durare tutta la vita. Mentre il rettore diceva queste
cose, non avevo la più pallida idea di quanto già fossi avvia­
to a far sì che quelle profezie non si avverassero. Alla domanda
se i miei anni di scuola sono stati un periodo felice, devo
ancora una volta rispondere che non mi resi comunque mai
conto che fosse un periodo infelice, o piuttosto, che anche su
questo periodo si era già posata la terribile patina di una
falsa e traditrice contentezza.

44 45
Non sono quindi stato il tipico scolaro infelice. Non ero senza possibilità di fuga nel mondo del "difficile” e della ne­
neppure un cattivo scolaro. Ero soprattutto ammodo e di­ gazione della vita. Questa estraneità del mio corpo che non
ligente e devo essere stato maledettamente noioso. Se oggi sentivo legato alla terra mi disturbava e si manifestava in un
penso ai miei scolari e cerco di fare un confronto fra loro e eccesso di timidezza. Evitavo non solo ogni contatto fisico,
me allora, posso solo immaginare di essere stato di una noia evitavo persino le parole che si riferivano al corpo e a quella
ai limiti della criminalità. E neppure si può dire che avessi che mi pareva la vergogna ad esso connessa. Non riuscivo
particolare interesse per ciò che facevo. In quasi tutte le a pronunciare non solo le espressioni davvero triviali, ma an­
materie apprendevo con diligenza, ma non perché quel che che le vicende più quotidiane del corpo mi apparivano come
studiavo mi interessava, semplicemente perché ero uno scolaro qualcosa di disgustoso e vergognoso. Parole come "seno” o
ammodo. Portavo a casa dei bei voti e che in condotta avessi "nudo” o "genitali” non riuscivo quasi a pronunciarle. Nella
sempre i voti migliori non può meravigliare nessuno. Siccome vittoriana pruderie assimilata in famiglia, evitavo persino di
non facevo mai scherzi stupidi, non c’era ovviamente ragio­ parlare di "gambe” e di "calzoni”. La stessa parola "corpo”
ne per castigarmi. È quindi molto probabile che, senza vo­ era tabù; la parola in cui si concentrava tutto ciò che mi fa­
lerlo e solo per pura stupidità, sia stato uno scolaro modello. ceva orrore non doveva nemmeno essere pronunciata. La ver­
Potevo quindi in tutta tranquillità lasciarmi rafforzare nella gogna più grande, però, la provavo davanti alla mia nudità.
convinzione di essere intelligente, poiché erroneamente si Questa era una delle ragioni per cui odiavo tanto la ginnastica;
usa presupporre che bravo scolaro e persona intelligente siano perché con la ginnastica, arte nuda, la nudità del corpo appariva
la stessa cosa. nella sua espressione più concreta, quella che bisognava a
Avvenne che io a scuola non mi trovai mai ad avere quelle ogni costo ignorare. Per fare ginnastica dovevo spogliarmi, nel
difficoltà che si verificano nella vita della maggior parte dei senso più letterale del termine, e mettere in mostra il mio
ragazzi. Non ebbi mai contrarietà o divergenze con gli inse­ corpo che trovavo tanto brutto. Naturalmente dopo la gin­
gnanti; li stimavo, qualche volta li temevo anche un po’ nastica non osavo andare a fare la doccia con i miei compagni,
e spesso li trovavo un tantino ridicoli; ma a un confronto perché mi vergognavo troppo della mia nudità. Nel corso di
aperto non si arrivò mai: Certo anche loro dovevano essere quegli anni di scuola a questa vergogna se ne aggiunse una se­
contenti di me. Ero un ragazzo tranquillo, gentile, senza pro­ conda: mi resi conto che i miei compagni non si vergognavano
blemi e per di più un buon allievo - non avevano quindi alcuna e avevano con il loro corpo un rapporto molto più naturale
ragione per non apprezzarmi. di me e capii che in questo senso erano più avanti di me,
C’era soltanto una materia in cui non riuscivo assolutamente capii di essere rimasto indietro e di non valere come loro.
a farmi onore: la ginnastica, naturalmente. Perché la ginna­ Come tutte le persone complessate, mi vergognavo anche
stica era qualcosa di molto diverso dalle materie scientifiche; ci terribilmente di arrossire continuamente, rendendo in tal modo
voleva forza, coraggio fisico, volontà, tutte cose che io non visibili a tutti le mie reazioni più intime. La paura di arrossire
conoscevo. Il mio stesso corpo mi era già del tutto estraneo, provocava ancor più il rossore e, ogni volta che in un discorso
non sapevo che farne. Ero molto versato nel mondo ambiguo o durante una lezione avvertivo farsi avanti un tema che mi
della "elevatezza”, ma avevo paura di ciò che di brutale e avrebbe fatto arrossire, cominciavo una lotta disperata con
primitivo appena vagamente intuivo del mondo fisico. Non mi il fazzoletto per asciugare un immaginario sudore o per simu­
piaceva muovermi, mi trovavo brutto e mi vergognavo del mio lare fantomatici starnuti. Una volta ipersensibilizzato a questo
corpo. Il corpo c’era, era semplicemente lì, senza vie d ’uscita, punto, gli incidenti tormentosi si verificavano sempre più fre-

46 47
quenti e cominciai ad arrossire anche in casi in cui neppure avevo rimosso dal mio mondo senza problemi, così artificio­
per me ci sarebbe stata ragione. Naturalmente cercavo di stare samente armonico. Non potevo guardare il sangue da spetta­
il più possibile alla larga da ogni tema scabroso, così che si era tore; era dentro di me, terribile e pauroso; viveva in me e io
allargato sempre più il campo degli argomenti di cui non vivevo di lui, il sangue ero io. Il sangue era la verità e da­
amavo parlare, cose per me davvero "difficili”. Ho già ac­ vanti alla verità io sprofondavo nel nulla. Tanto ero vulnera­
cennato al mio ripulitissimo vocabolario, che doveva poi per bile e tanta paura avevo della mia vulnerabilità, perché non
molti anni procurarmi grandi fastidi, anche quando, ad esem­ vi ero preparato, perché ero invece preparato soltanto a essere
pio, dovevo comperare dei calzoni o, peggio ancora, delle intatto, puro, intoccabile.
mutande, ed entravo in un negozio e non riuscivo a pronun­ Tutte queste debolezze avrebbero potuto molto facilmente
ciare quella terribile parola. Bestemmiare era ovviamente una suscitare l’ironia dei miei compagni di scuola; ma per la
cosa che non sapevo assolutamente fare e per la verità l’ho maggior parte essi vi reagivano con molta bonarietà. Se
imparato solo in questi ultimi anni. qualche volta mi capitava di esser preso in giro, ciò accadeva
Ma il corpo nascondeva anche altri terrori oltre la vergogna. senza cattiveria e senza disprezzo. Posso dire che nella classe
Avevo paura del dolore. Per molto tempo naturalmente la ero stato accettato bene, anche se in generale mi consideravano
personificazione del dolore era stata il medico, che disponeva un outsider, un debole, un compagno con cui non si poteva
di un tremendo arsenale di strumenti acuminati e dolorosissimi combinarne molte, ma che però non era particolarmente sgra­
con i quali avrebbe potuto tagliarmi o pungermi o in qualche dito. Le cose erano molto chiare: non ero un guastafeste per
modo ferirmi. Il pericolo più frequente erano le iniezioni, la le loro imprese, ma era scontato che non vi prendessi parte.
cosa che temevo di più. L’ago del medico non doveva pun­ Non che venissi escluso con intenzione, semplicemente non
germi la pelle, non doveva penetrare dentro di me. Come mi c’ero. Andavo d ’accordo con tutti e non avevo nemici, ma nep­
riparavo in tutti i modi dal mondo esterno e dalla vita, non pure amici. Ero piuttosto una figura incolore, che non susci­
potevo certo permettere che venisse toccata la pelle, che ser­ tava né speciali antipatie né particolari simpatie. Godevo di
viva anch’essa a difendermi dal mondo esterno. Come si sa, un certo rispetto perché ero abbastanza bravo; e che in gin­
l’epidermide è il simbolo' fisico della protezione di tutto ciò nastica le mie prestazioni fossero così disastrose era consi­
che vi è in noi di vulnerabile. Perciò non potevo sopportare derato da tutti piuttosto come un fatto curioso, una stranezza.
che qualcosa toccasse la mia preziosissima pelle. Non mi prendevano in giro perché non sapevo né volevo gio­
Ancor più che del dolore avevo paura del sangue. Non lo care al pallone: era semplicemente così, io non c’ero.
potevo vedere, non potevo neppure sentirne parlare, non lo Sotto un certo aspetto questo mio star fuori dalle cose mi
potevo assolutamente sopportare. Ogni volta che mi capitava, arrecava anche dei vantaggi. Era chiaro che mi muovevo in
mi sentivo male. Madido di sudore, ero colto dal panico, mi una sfera "elevata”. Questa elevatezza, naturalmente, si mani­
sentivo svenire e un velo nero mi si calava davanti agli occhi. festava per il momento soltanto nel fatto che ero più noioso
Dovevo subito andar via, correr fuori all’aria fresca, lontano degli altri; d ’altro canto deve avermi anche dato una certa
da dove c’era il sangue o si parlava di sangue, lontano anche aria di distinzione. Il fatto, per esempio, che non imprecassi
dal pensiero del sangue. Il sangue, sostanza stessa, della vita, mai, che mi tenessi lontano da ogni volgarità, che in tutte le
dell’esistenza fisica, era troppo per me, non ero in grado di situazioni disponessi sempre di un eccesso di buone maniere,
affrontarlo. Rappresentava tutto quello che non volevo sa­ veniva visto dai miei compagni non solo come ridicolo, ma
pere, che cercavo con ogni mezzo di evitare, tutto ciò che anche come originale. Se anche non mi potevano apprezzare
\
48 49
per singole qualità, apprezzavano però la singolare combinazione parte della gente è più importante non avere vizi che possedere
di tutte le mie qualità, quella combinazione che mi rendeva di­ determinate, concrete virtù.
verso dagli altri e faceva di me qualcosa, appunto, di speciale. Da scolaro ero orgoglioso di non provare interesse per tante
Uno speciale forse non particolarmente simpatico, ma miste­ cose interessanti e di essere quindi già come un adulto. Ero fie­
rioso, che nessuno riusciva a capire. Ero diverso, strano, imper­ ro di non giocare al flipper, di non divertirmi con il calcio da
scrutabile, era come se venissi da un mondo differente, ma tavola, di non andare al Café Maroc, tanto popolare fra i miei
tutte queste stranezze mi facevano apparire agli occhi dei com­ compagni, a spendere il mio denaro in modeste bisbocce; di non
pagni non tanto un tipo disprezzabile ma piuttosto una sorta di voler sapere chi era Elvis Presley e di non vivere con un minimo
bestia rara, un mostro di cui non era facile capire qual era di partecipazione i famosi dorati anni Sessanta. Che Elvis Presley
la testa e quali i piedi, ma di cui si sapeva però con certezza dovesse poi magari per il nostro tempo diventare cento volte
che era mansueto, assolutamente incapace di mordere. più significativo del solito Goethe, i cui prodotti letterari leg­
Oggi non mi è più possibile stabilire esattamente quando gevo e trovavo debitamente classici, allora non lo sapeva ancora
mi resi conto per la prima volta della singolarità e ambiguità nessuno. L’importante per me era semplicemente che io in
della mia situazione, ma indubbiamente era un’ambiguità che tutte quelle cose non c’ero, i miei compagni sì. In questo modo
esisteva già da molto tempo, dapprima del tutto inconscia, poi realizzavo quindi ciò che avevo imparato dai miei genitori:
piano piano facendosi strada fino alla coscienza. Da un lato ave­ escludersi da ogni cosa ed esserne anche orgogliosi.
vo preso in appalto le alte sfere, dall’altro ero ancora prigio­ Da parecchio tempo però questa illusoria superiorità era mi­
niero del mondo degli inferiori. Come ho già detto leggevo sol­ nata dalla consapevolezza sempre crescente di non essere sol­
tanto *buoni” libri, ascoltavo soltanto *buona” musica e tanto al di sopra delle cose, ma anche al di sotto; in confronto
ai miei compagni, cominciavo a restare indietro, a perder colpi,
"buono”, allora, significava per me naturalmente soltanto clas­
sico. Mi interessavo di letteratura, mi muovevo a mio agio nello anzi ero già rimasto indietro. Per molto tempo avevo potuto
spiegare la mia eccessiva timidezza, la mia paura dicendomi
stesso spazio culturale degli adulti e potevo quindi guardare un
che, se non il più piccolo, ero però il più giovane e inesperto
po’ dall’alto in basso i miei' compagni di scuola che si interes­
della classe, e che nel giro di pochi anni avrei ricuperato ciò
savano "soltanto” di sport, di pasticciare intorno ad apparec­
che mi mancava. Sapevo di essere ancora molto giovane e
chi radio, di stelle del cinema, di canzonette, di jazz. Ovvia­
ignorante e cercavo di immaginarmi come sarebbe stato una
mente allora credevo che tutta la musica non classica fosse jazz volta che "mi fossi tirato fuori” e avessi acquistato la stessa
o canzonette, ed entrambe erano "cattive”. Non avevo asso­ libertà di movimento degli altri. La sensazione di dovermi "ti­
lutamente idea di che cosa fosse il jazz, ma che fosse disprez­ rar fuori” presuppone già l’impressione di essere prigioniero
zabile lo sapevo con sicurezza; e quando gli adulti me lo chie­ di qualche cosa di cui ci si deve liberare e quindi la consa­
devano ero molto fiero di poter affermare che non mi pia­ pevolezza, più o meno chiara, di non essere libero. Da princi­
ceva il jazz. pio questa liberazione l’aspettavo semplicemente dal tempo,
Ho avuto modo di constatare che la gente di solito è molto che mi avrebbe automaticamente liberato, non appena fos­
più fiera delle cose che non sa e che neppure vorrebbe sapere, si uscito da quello stadio della prima giovinezza. Ma piano
che delle cose che sa; non ne voglio neppure sentir parlare; piano mi resi conto che a tenermi indietro non erano soltanto
non voglio averci nulla a che fare, in casa nostra non usa - i miei pochi anni, anche molte altre cose mi mancavano. I miei
questa è la tipica reazione del borghesuccio. Per la maggior compagni sapevano una quantità di cose che io non sapevo.

50 51
Erano in grado di discutere con i professori, mentre io dagli to ciò che possedevo consisteva in regali, non riuscivo neppure
insegnanti non sapevo far altro che apprendere. Erano in grado ad avere un’idea di quanto valesse ciò che possedevo. Di tutte
di esprimere spontaneamente simpatie e antipatie per inse­ le mie cose i miei compagni volevano sempre sapere quanto
gnanti, compagni o altre persone, mentre io non riuscivo a costavano, ma io non lo sapevo mai dire. Finivo per rispon­
tirar fuori che il mio eterno "non saprei”. Un paio di volte era dere sempre che erano regali, appunto, perciò non potevo sa­
accaduto che io definissi qualche singolo insegnante " simpati­ pere che cosa valessero. E anche quel non sapere mai il prezzo
co”, semplicemente perché era una persona di rispetto, susci­ delle cose mi appariva come un segno della mia famosa "ele­
tando così violente reazioni di rifiuto da parte dei compagni. vatezza”; per contro, mi rendevo conto che i miei compagni
Loro trovavano l’insegnante in questione niente affatto simpa­ erano informatissimi di cose di cui io non sapevo assolutamente
tico, al contrario, era odioso, falso, cattivo, cretino, vigliacco. nulla e ciò mi costringeva a dirmi che, appunto, non ero al
Anche se tentavo, alla mia maniera, di difendere l’insegnante passo con gli altri. Sempre di più dovevo difendermi dalla spia­
dicendo che non era poi "così male”, mi restava però dentro cevole constatazione che loro sapevano le cose e io no.
una spina: la consapevolezza di non esser stato in grado di ac­ In una cosa questa lotta mi diventò particolarmente difficile.
corgermi da solo che quei benedetti insegnanti erano odiosi o Molti dei miei compagni avevano delle amiche; io naturalmente
stupidi o falsi o cretini. Cominciai a intuire che mi mancavano non ne avevo. Che il non averne fosse per me naturale si spiega­
le capacità necessarie per trovare qualcuno stupido o cattivo; va con il fatto, appunto, che io anche in questo ero più indietro
o, in altre parole: lentamente cominciavo a capire che tutti degli altri. Pensavo che con il tempo ne avrei avuta una anch’io.
sapevano il valore di buono e cattivo, ma che io, a differenza A questo punto ebbe inizio per me un lunghissimo processo
degli altri, non lo sapevo, non distinguevo il buono e il cat­ in cui due posizioni si confrontavano, ostili. Cioè se semplice-
tivo, sapevo solo che tutto era "difficile”. mente non avevo ancora un’amica o se veramente non avevo
Del denaro per esempio non avevo la minima nozione. Intuivo un’amica. Fin dove mi era possibile cercavo di tenermi stretto
che mio padre doveva essere ricco, sebbene i miei genitori non alla prima ipotesi, cioè che non ero ancora arrivato al momento
ne parlassero volentieri e usassero tenersi anche a una certa di­ di avere un’amica. Ma era un punto di vista che mi diventava di
stanza dall’altra gente ricca. Molti ricchi conoscenti della mia giorno in giorno più difficile sostenere. Dovetti constatare che
famiglia ci tenevano a far sfoggio della loro ricchezza; ma non solo i miei coetanei e compagni di classe avevano un’amica,
questi erano degli "sciocchi spacconi”. Noi naturalmente era­ ma che l’avevano anche ragazzini delle classi inferiori alla
vamo sì ricchi, ma in tutt’altra maniera, la nostra era una ric­ nostra, e che a ogni anno che passava erano sempre più nume­
chezza pudibonda. A casa nostra nelle questioni finanziarie rosi i ragazzi minori di me che in questo campo avevano suc­
vigeva Vunderstatement tipicamente svizzero: si possiede ma cesso; che il tempo passava in fretta e che io non me ne ac­
non si mostra; si hanno solide basi economiche ma non si vive corgevo e restavo indietro. Era cioè già ampiamente venuto il
lussuosamente; tutto ha l’aria estremamente modesta, ma costa tempo in cui anch’io avrei dovuto avere un’amica; d ’improvviso
una montagna di soldi; non si mangia caviale in piatti d ’oro, la cosa non si chiamò più "non ancora” ma "già da un
ma una comune minestra in piatti che hanno l’aria di essere pezzo”. Compresi che l’evento non era più da considerare
comperati ai grandi magazzini, mentre poi si viene a sapere come qualcosa che si sarebbe verificato nel futuro, ma come
che valgono mille franchi l’uno. Tutto ciò che possedevo per qualcosa che avrebbe già dovuto avvenire da molto tempo. Non
me non aveva prezzo. Sapevo che quando si tratta di un esisteva quindi per me un nebuloso futuro in cui le cose do­
regalo non si deve mai sapere quanto è costato; e poiché tut- vevano avvenire, ma avevo già alle spalle un passato nel quale

52 53
avevo fallito. Per la prima volta in vita mia mi resi conto che nell’illusoria speranza che questo sarebbe stato molto meglio e
si trattava di una mia colpa, la colpa di aver mancato di fare mi avrebbe portato ciò che volevo. Non avevo il coraggio di
qualcosa che avrei dovuto fare. Solo molto lentamente arrivai confessare a me stesso che dipendeva da me se fallivo; che
a capire che anche in questo ero diverso; non era che non la colpa non era del corso di ballo o di una qualsiasi altra
avessi "ancora” un’amica, non ne #vevo affatto e basta. L’abis­ istituzione, se io non ne imbroccavo una; ma che la colpa era
so fra me e gli altri si faceva sempre più grande. da ricercare solo in me. Forse avvertii la verità, ma mi mancò
Un punto dolente, una prova di questa evoluzione fu la scuola la capacità di portarla a livello di coscienza.
di ballo. Come tutti sapevano, i ragazzi che andavano alla scuo­ Col tempo finii anche per abituarmici un poco: così come gli
la di ballo si facevano subito un’amica. Evidentemente il corso altri sapevano una quantità di cose di cui io non avevo la più
di ballo era proprio il luogo dove si avevano queste occasioni. pallida idea, così avevano anche le amiche, un’altra realtà di
Fin che non frequentai il corso avevo quindi una buona scusa, cui non avevo idea. Allora non lo sapevo ancora, ma ero, già a
una comoda spiegazione: non ero ancora stato nel posto adatto quel tempo, arrivato alla soglia della terribile cosa che doveva
per trovare un’amica; perciò io della cosa non avevo assoluta- cadere su di me.
mente colpa; mi era semplicemente mancata l’occasione. Ma
anche questo latente piacere dell’alibi non doveva durare in
eterno, perché alla fine arrivai anch’io alla scuola di ballo. Lì
constatai molto in fretta che c’erano dei ragazzi che sapevano
come comportarsi con le ragazze e che io invece non lo sapevo
affatto e me ne stavo sulla mia seggiola, imbarazzato e pieno
di inibizioni. Una volta di più gli altri erano quelli che sape­
vano e io quello che non sapeva. Portai al corso di ballo per­
fette buone maniere, ma nessuna sensibilità per il ritmo e
nessuno slancio nei movimenti e si vide subito che come bal­
lerino ero un completo fallimento. Ero distinto, ma assoluta-
mente incolóre. Non trovavo nulla da dire alle ragazze con
cui ballavo, non sapevo come comportarmi con loro e divenni
il muto testimone del processo che si svolgeva intorno a me:
dalle anonime ragazze appena conosciute piano piano venivano
fuori le amiche dei miei compagni. Così anche il corso di ballo,
che fino allora aveva fatto parte delle visioni del futuro era
diventato ora realtà. Ero arrivato al punto, il corso c’era,
adesso avrei dovuto giocare le mie carte; ma io non ero ma­
turo, io non c’ero, non giocai nessuna carta. La realtà era lì,
ma io fallivo. Oscuramente devo averlo avvertito fin d ’allora:
non era il corso che non funzionava, ero io che non funzionavo,
in tutto e per tutto. Ma allora ero ancora capace di mettere a
tacere la realtà e di lì a poco andai in un altro corso di ballo,

54 55
menti cristiani, ma anche che non era possibile tollerare alcun
dubbio sulla chiesa cristiana e sulle sue istituzioni. O meglio,
per tradurre la stessa cosa in una sorta di assai dubbio impe­
rativo categorico: si doveva essere contrari, ma bisognava
ugualmente trovarla buona. A casa mia non avevo fatto la
conoscenza di Dio e del suo singolarissimo figlio (per la preci­
sione figliastro) Gesù; entrambe queste ambigue figure mi
vennero presentate per la prima volta a scuola. E ben presto mi
resi conto di una cosa strana: non dovevo parlare di Dio di
fronte ai miei genitori, perché era una cosa che non potevano
IV
soffrire. Di più: soprattutto mio padre non voleva assolutamen­
Queste ultime considerazioni mi riconducono a un tema che te sentirne parlare, si infuriava addirittura, la situazione di­
non ho ancora trattato nel suo complesso. Ho già detto che in ventava insostenibile, si levava nell’aria vento di sciagura e
casa dei miei genitori tutti i temi di conversazione che avreb­ qualsiasi ulteriore accenno all’argomento si vietava da sé. Io
bero potuto avere qualcosa di interessante erano in effetti tabù. intuivo che Dio doveva essere qualcosa di molto discordante,
Che questi argomenti siano tabù nella vita di un bambino non che si sarebbe anche potuto valutare positivamente - era abi­
è ovviamente una cosa straordinaria; anzi, posso ben immagi­ tuale parlare del buon Dio - che peraltro i miei genitori non
nare che sia piuttosto normale. Niente affatto normale è, però, sopportavano neppure di sentir criticare o mettere in ridicolo,
la grande sofferenza che ne può venire per l’interessato; al e che solo a nominarlo mio padre andava su tutte le furie; insom­
contrario, essa è ogni volta una cosa tremenda. Tanto per fare ma, a casa nostra non era ben visto. Forse a quel tempo mi ero
un esempio: attualmente in Cile si torturano a morte migliaia anche messo nella mia testolina infantile che fosse anche lui uno
di persone. Il fatto però che siano migliaia è ben lungi dal dei nostri clowns, che recitava per noi una sua specialissima
rendere la cosa anche lontanamente normale. Anche l’edu­ commedia, della quale eravamo spettatori. Per tutti gli altri,
cazione sessuale —o per meglio dire l’educazione antisessuale - a quanto pare, Dio era invece una bellissima cosa; probabilmen­
che mi è stata impartita non è niente di speciale; migliaia di te era solo per cortesia e per finezza nei confronti degli stupidi
altri individui non sono stati più fortunati di me; immagino che non si doveva parlarne male. Oggi mi riesce più facile ca­
perciò che anche queste altre migliaia di individui non siano pire qual era il credo dei miei genitori e penso che lo si po­
meno infelici di me; soltanto non hanno scritto le loro memorie. trebbe definire così: Dio è male perché è una cosa di cui ci si
Non tutti quelli che non scrivono memorie sono persone felici.
deve occupare; ma la Chiesa è bene perché è una cosa rispet­
Come ho detto, di tutti i temi di una certa importanza in
tabile.
casa nostra non si parlava. L’educazione religiosa che ho ricevu­
to, non penso possa trovare confronto. I miei genitori erano I miei genitori naturalmente non andavano mai in chiesa,
profondamente areligiosi. Ma si sarebbero fatti tagliare la lin­ anche se in linea di principio andare in chiesa era una buona
gua piuttosto che ammetterlo. Personalmente non tenevano cosa. Probabilmente era una buona cosa per gli altri. Forse an­
affatto alla religione cristiana, ma in casa nostra la religione dare in chiesa era persino un po’ ridicolo, però non lo si dove­
cristiana era considerata una cosa senz’altro buona. Voglio dire va ammettere. I miei genitori non mi permisero mai di scherzare
che tutti sapevamo benissimo che nessuno di noi aveva senti- su questi argomenti, anche se immagino che in segreto loro lo

56 57
facessero. La cosa si poteva forse porre in questi termini: se mio padre era in linea di massima d ’accordo solo con le forme
un singolo individuo andava in chiesa, la faccenda era ridicola, esteriori della chiesa, non con la sua sostanza. Essere per la
perché questa singola persona era comunque sempre il nostro forma esteriore della chiesa faceva parte del bon ton: essere
clown; ma che in linea di principio si andasse in chiesa era una per i suoi contenuti, era ridicolo.
buona cosa, perché la chiesa era in sé qualcosa di buono. I miei Ho già scritto che i miei genitori andavano sempre a tutti
genitori quindi erano del parere che in linea di principio si i funerali di qualsiasi lontanissimo e oscuro parente o cono­
andasse in chiesa; loro però non volevano rendersi ridicoli scente, persone che in vita non erano mai andati a trovare,
andandoci come singoli individui. perché questa era, appunto, una cosa che si doveva fare. Le
Naturalmente però in chiesa poi ci andavano, e come. C’erano occasioni di festa erano per loro per principio una cosa odiosa,
pur sempre i tanti amici e conoscenti che morivano, e in oc­ ma contro le cerimonie funebri non avevano nulla da obiet­
casione delle esequie bisognava andare in chiesa. Ma quando tare. Anche se i miei poveri genitori facevano tutto il possibile
per una volta i miei genitori andavano in chiesa, allora, no, per evitare qualsiasi occasione mondana che li portasse a
allora era una questione di buone maniere; andarci era comme contatto con i vivi, nessun sacrificio era troppo grande per
il faut e ci andavano davvero come in pellegrinaggio, che Dio rendere l’ultimo omaggio, come si suol dire, al povero defunto.
abbia pietà di loro. E, una volta in chiesa, non c’era più niente Era un atteggiamento assai tipico del nostro mondo familiare:
che non gli andasse abbastanza bene: lodavano la chiesa, la sua quanto più morti, tanto meglio.
architettura, le decorazioni floreali, il parroco, la predica, l’or­ Di un altro aspetto del bizzarro rapporto di mio padre con
gano, il coro, l’atmosfera e quanto altro si può ancora lodare tutto ciò che riguardava la chiesa mi resi conto solo più tardi.
quando ci si sprofonda in lodi in nome di Dio. La chiesa gli Mio padre era architetto, non esercitava però la professione,
ma lavorava nell’azienda di suo suocero. Case non ne aveva
piaceva, perché era per bene. Una cosa sola pareva non piacere
costruite mai, ma si era invece sempre occupato della manu­
a mio padre: quando doveva alzarsi con gli altri al momento
tenzione di monumenti e soprattutto di chiese. Così conosceva
della preghiera, la testa gli si faceva paonazza dall’ira di ve­
molto bene quasi tutte le chiese della Svizzera per le quali
dersi lì in piedi in mezzo .agli altri a far finta di pregare. Ma
aveva anche notevole interesse. Per me l’elemento contraddit­
poi, finita la funzione, era subito di nuovo di buon umore e torio in questo suo interesse era che le chiese avevano tutte a
pieno di lode: il parroco aveva fatto una bellissima predica, che fare con Dio, che mio padre invece non poteva soffrire.
si era espresso in forma veramente eletta, con una perfetta pro­ Quando una volta egli mi mostrò la struttura delle navate di
nuncia da scuola di dizione. Mi colpiva soltanto che mio padre una chiesa, quella longitudinale e quella trasversale, mi accorsi
lodasse sempre lo stile della predica; se fosse o meno d ’accordo che le chiese hanno una navata longitudinale e una trasversale
anche con il contenuto, di questo non si parlava. Mi ricordo a indicare la forma della croce. La croce era però un simbolo
che in occasione di uno di questi riti funebri, io avevo pensato che mio padre detestava. Cominciai a chiedermi come mio pa­
fra me che il parroco avesse detto un sacco di stupidaggini. dre avesse potuto resistere con tutte quelle chiese che chiara­
Il commento del mio povero papà era invece stato che il parroco mente si basavano su qualcosa che lui odiava. Penso che come
aveva parlato molto bene. (E qui si potrebbe persino arrivare architetto l’unica cosa che apprezzava di una chiesa fosse la
a un sottile compromesso, perché è senz’altro possibile che forma, senza farsi interrogativi sul significato di questa forma.
il parroco avesse parlato molto elegantemente dicendo un sac­ Il suo interesse per le chiese mi appariva vagamente sospet­
co di stupidaggini.) Oggi me lo posso spiegare dicendo che to, come il suo compiacimento per le belle prediche. Come tro-

58 59
vava che i preti facevano sempre prediche ''bellissime”, persino considerata davvero come autenticamente cristiana, perché
"grandiose”, facendo però totalmente astrazione dal senso di che la sessualità fosse il fango, il pozzo di tutti i mali, su
ciò che dicevano, così anche le chiese erano "bellissime” e questo in casa nostra non c’erano dubbi, naturalmente. So be­
"grandiose” ma come costruite nel vuoto. Ma il fatto che le nissimo di non essere il solo ad avere avuto una educazione
chiese esistessero aveva pur il suo significato; esse assolvevano ambigua e assai dubbia sotto questo aspetto e di non dire quin­
un compito preciso: erano cioè testimonianza di Dio, di quel di nulla di nuovo. Ma a maggior ragione devo parlare di que­
Dio di cui mio padre non voleva neppure sentir parlare. Ma di sto argomento, proprio perché ha l ’aria di essere una di quelle co­
questo significato religioso delle chiese lui pareva non occuparsi se di cui non si parla abbastanza. Ancor oggi tutte le famiglie
affatto; in questo senso per lui era come se non ci fossero. Lui di una certa borghesia hanno un atteggiamento ostile alla sessua­
si trovava bene in quegli enormi spazi vuoti, ostili, defraudati lità, ma anche qui non si può dedurre che la cosa non sia im­
di ogni significato interiore, che per lui non irradiavano che portante solo perché è frequente. L’atteggiamento dei miei
un solo messaggio, quello di essere, appunto, "grandiose”, in genitori nei confronti della sessualità era naturalmente il con­
una maniera astratta e disumana. centrato e il coronamento di tutto il loro atteggiamento gene­
Anche quelle chiese mi appaiono oggi come un simbolo di rale nei confronti della vita: no. O se proprio non era possibile
tutto ciò che è morto, senza vita; anch’esse erano morte, come far diversamente - sì, ma solo per gli altri; non per noi.
quasi tutto in casa nostra. Se poi si comincia a chiedersi perché debba essere tanto
Io dunque non posso dire di aver avuto un’educazione cri­ ovvio che negli ambienti cristiani e borghesi il concetto di
stiana nel vero senso della parola - ma altrettanto poco ne ho sessualità sia considerato la quintessenza di ogni male, non è
avuta una anticristiana o per lo meno di atteggiamento critico facile dare una risposta. Non tocca del resto a me dare qui rispo­
nei confronti della religione. O meglio, per rendere attuale un sta a una domanda vecchia di duemila anni. Un paio di punti
noto passaggio biblico: chi non si schiera apertamente contro che potrebbero condurre a una risposta mi appaiono però chiari
Cristo, nel fondo del cuore è pur sempre per lui. Su questo se solo mi ripresento alla mente l’atmosfera generale della mia
argomento l’astensione non vale. Chi non dice nulla, non ha an­ casa paterna. Un aspetto borghese del problema è certamente
cora superato il cristianesimo, è ancora e sempre un cristiano. la consapevolezza della tradizione. Ciò che si è sempre consi­
I miei genitori speravano che anch’io diventassi non cristiano, derato valido continua a esserlo, sia nel bene che nel male; o,
ma non avevano il coraggio di esprimere ad alta voce questo espresso in termini borghesi: se è stato valido per tanto tempo,
desiderio. Sotto certi aspetti sono stato educato in un modo vuol dire che non può essere male, e perciò è certo bene. (In
che, anche se non consciamente cristiano, pure per sua intima questo contesto mi permetto di riferirmi al nostro esercito
natura si può ancora chiamare cristiano. Intendo qui le più svizzero.) Se già i bisnonni e i nonni dei bisnonni hanno trovato
comuni virtù cosiddette cristiane come l’astinenza, la rinuncia, giusto considerare la sessualità come una cosa sconveniente,
la mortificazione, la mitezza d ’animo, la sopportazione e soprat­ anche le nuove generazioni, fedeli alla tradizione, non devono
tutto l’inequivocabile "N o” a quasi tutti gli aspetti della vita. pensare diversamente, anche se con ciò evidentemente rinun­
O, in altre parole: la vita non va goduta, ma sopportata senza la­ ciano a pensare, poiché quando un pronipote commette gli
mentarsi; non essere in peccato, ma eternamente frustrati. stessi errori del suo antenato, è chiaro ch’egli considera questo
Questo conduce direttamente al secondo grande tema taciuto e errore già quasi come una virtù, non foss’altro che per la sua
impronunciabile della mia infanzia e giovinezza, la sessualità. veneranda età.
E su questo punto devo dire che la mia educazione può essere Penso che anche nel caso dei miei genitori si sia trattato in

60 61
parte di questo: non si sentivano chiamati a fare i rivoluzionari, di rifiuto. Qui ci ritroviamo alla favola della volpe e dell’uva:
quelli che all’improvviso scoprono una concezione del tutto quando qualcuno trova che gli costa troppa fatica ottenere
nuova della sessualità, diversa da quella delle generazioni che qualcosa, spesso e volentieri dice che, tutto sommato, la cosa
li hanno preceduti. L’altro aspetto di principio, essenzialmente non gli interessa poi granché. Rinunciare a qualcosa, nella mag­
cristiano, è anch’esso estremamente illuminante: se, secondo il gior parte dei casi, è molto semplice; volere qualcosa, spesso
concetto cristiano, si cerca la salvezza in ciò che è "elevato” e è invece molto faticoso. O, come ha detto uno dei miei amici:
spirituale, si ha anche bisogno di un contrappeso che simbolizzi naturale che il sesso sia e sia sempre stato peccato, perché per
il basso, l’inferiore, il corporeo, nel qual caso, naturalmente, la ciò che è proibito non occorre faticare.
prima cosa in cui si concretizza questo fattore inferiore e cor­ Un altro aspetto del problema è, però, che la sessualità rap­
poreo è certamente la sessualità e l’amore fisico. (La capacità presenta sempre la parte più sostanziale e vitale, quella più ca­
di capire la sessualità come un fatto tanto spirituale che fisico, rica di energie nella natura dell’individuo; mira sempre al tutto.
di vedere che corpo e spirito non possono essere intesi come Ma queste cose a casa nostra non ci stavano bene. Il sostanziale
elementi di contraddizione, ma come una sola entità è, temo, era una cosa odiatissima; noi non volevamo mai arrivare al noc­
mancata alla dottrina cristiana; il concetto è rimasto incompreso ciolo delle cose, ma piuttosto trovare invece che tutto era "dif­
alla sua ottusa caparbietà.) Chi vuole ovunque e a tutti i costi ficile”. Non volevamo mai essere noi a fare qualcosa; preferi­
l’elevatezza, alla fine trova certamente qualcosa da poter con­ vamo sorridere di quello che facevano gli altri. Non volevamo
siderare basso e per lodare qualcosa in cielo bisogna anche misurare le nostre forze, ma volevamo l’armonia e perciò
poter maledire qualcosa sulla terra. dovevamo neutralizzare tutte le divergenze, dissolvendole in una
Ora, 1’" elevatezza” a casa nostra era sempre ospite gradita. Ed sorta di roseo nulla che ritenevamo parente della felicità. Ma
era anche un’ospite comoda, perché con il concetto di elevato soprattutto ciò che non volevamo erano le cose per intero. Il
si può condire senza fatica tutto quello che si vuole. Si può "tu tto ” erano sempre gli altri; noi eravamo extra. Ma c’era di
anche starsene a casa propria in pantofole, sdraiati sul sofà e più a disturbarci: il sesso è sempre legato alla vergogna del
sentirsi "elevati”: non richiede nessuno sforzo. È sempre molto corpo, quel corpo che gli altri, quelli non elevati come noi, tro­
più faticoso trascinarsi nelle paludi della cosiddetta vita, o addi­ vavano tutt’altro che vergognoso, anzi, desiderabile; noi no,
rittura occuparsi del peccato. O per lo meno far qualcosa in naturalmente. Non si può fare a meno di riconoscere che la
questo senso. Del resto credo che la cosiddetta virtù valga sessualità è in effetti qualcosa che necessariamente mette a nu­
qualche cosa soltanto quando è conquistata con le lacrime; do, in tutti i sensi. E questo non lo volevamo proprio, a nes­
fintanto che consiste nella resistenza passiva, è virtù del de­ sun costo. Il nostro motto era: tutto, ma non scoprirci!
monio. E così, anche la tanto proclamata "elevatezza” può es­ Sarei quasi tentato di confrontarci con dei paguri, detti anche
sere una forma di resistenza passiva. In campo sessuale ciò "eremiti”. Il paguro davanti è ben protetto dalla sua robusta
significa: il matrimonio borghese e la fedeltà possono anche corazza, è solido e forte, ma dietro è nudo. Per questo deve
molto bene rappresentare semplicemente la soluzione più co­ nascondere questa sua vulnerabile parte posteriore in vuoti
moda; le storie scandalose sono infinitamente più scomode e gusci di lumaca, dai quali sbuca fuori soltanto la solida parte
faticose. Così si può certo definire la sessualità come qualcosa anteriore. Ma quando cresce, la dimora che si è così fatta, gli
da principio molto scomodo, perché crea problemi e mette si fa stretta, e deve per forza uscire fuori a cercarsene un’altra
alla prova. Ma quando uno preferisce star comodo piuttosto che più grande. Quali tormenti deve provare un povero paguro
scomodo, di fronte a tutte le problematiche si mette in posizione quando è costretto a esporsi in tutta la sua nudità posteriore

62 63
ai suoi nemici, mentre si butta fuori alla ricerca di un nuovo mondo del sesso, fui abbandonato a me stesso e maturai infatti
guscio! Quanto deve essere angoscioso per lui quel lasso di dei bellissimi risultati. Sapevo che i bambini venivano al mondo
tempo dopo l’abbandono della vecchia dimora protettrice, perché un uomo e una donna erano "stati insieme”, e sapevo
eh’esso lascia per sempre senza sapere dove potrà trovare un che i bambini nascono "dalla mamma”. Mi immaginavo che
nuovo rifugio adeguato alle sue nuove proporzioni! Penso che l’uomo e la donna avessero una traspirazione rispettivamente
anche noi eravamo dei paguri. Davanti eravamo ben protetti maschile e femminile, e che quando un uomo tocca una donna,
dalla tradizione, ma dietro la nudità ci minacciava. Solo che noi, il suo sudore filtra nella pelle della donna e di qui nel corpo,
come paguri, non eravamo molto coraggiosi e preferivamo star­ dove poi nasce il bambino. Ma siccome poi questo bambino
cene a soffrire al ristretto, nel guscio troppo piccolo. La parte deve anche "venir fuori”, e siccome avevo sentito dire che
superiore del corpo non era fonte di problemi; la parte inferiore " l’ombelico è il centro del mondo”, mi pareva logico che i
però doveva piuttosto atrofizzarsi nelle malsane angustie di un neonati uscissero dal corpo della madre appunto dall’apertura
guscio troppo piccolo, che cercare salvezza esponendo la propria delPombelico. Più tardi seppi anche che esistevano i bambini
nudità al pericolo degli sguardi altrui. Si capisce bene perché "illegittimi”, dei quali si diceva che "era successo”. Ciò, ov­
il paguro è chiamato anche "eremita”: non spogliarsi è aso­ viamente, significava soltantp che l’uomo sbadatamente aveva
ciale. toccato una donna probabilmente proprio mentre era molto
Oppure, tanto per dirla con le parole che qualunque bambino sudato così che, malgrado tutti "i riguardi”, un po’ del sudore
educato in modo borghese conosce: del sesso non si parla. dell’uomo doveva essere filtrato nel corpo della donna - magari
Nella matematica della frustrazione il quesito si pone in questi dal polso - così che poi "era successo”.
termini: "della sessualità non si parla, ergo non esiste” è Queste convinzioni rimasero però il mio segreto, perché
uguale a: "la sessualità non esiste, quindi non se ne parla”. In sapevo che non era bello parlare di queste cose. Una volta, nel
casa nostra quindi era come in tutte le altre famiglie della corso di una lettura, avevo incontrato la parola "casto” e non
stessa categoria: della sessualità non si parlava, il termine era ero riuscito a spiegarmene il significato. Quando lo chiesi a
stato cancellato dal nostro vocabolario. mia madre, la poveretta si trovò in un tremendo imbarazzo.
Con ciò posso passare sùbito a un altro bell’argomento, l’ahi- Io non capivo bene se era perché non lo sapeva o perché non
mè di ogni educazione, la cui definizione à già da sola un orrore: lo voleva dire. Mi era chiaro soltanto che le era estremamente
l’educazione sessuale. Come mai sia possibile spiegare ai bam­ sgradito trovarsi coinvolta nella situazione che io avevo creato
bini il mondo intero senza che il loro animo ne riceva danno, con quella domanda, cioè dovermi spiegare che cosa voleva
mentre quando si deve parlar loro del concepimento e della dire "casto”. Era una cosa molto, molto cattiva, che sarebbe
nascita ci vuole tutta una "educazione” che costa enormi sforzi stato assai meglio non nominare, uno di quegli argomenti che
e lascia una tremenda paura che le povere creature restino non si dovrebbero mai affrontare e che poi tutti tirano un gran
seriamente ferite nello spirito, è per me un mistero che non sono sospiro di sollievo quando si lasciano cadere. Purtroppo fui
ancora stato in grado di spiegare. Da bambino sapevo che i io a salvare la penosa situazione con la mia innocenza, avanzando
comunisti sono cattivi, ma che gli anticomunisti sono buoni; io stesso una proposta di spiegazione. Nel contesto nel quale
ero versato in cavilli teologici come ad esempio che la religione avevo trovato la parola incriminata, essa doveva avere qualcosa
e la sua chiesa erano buone, ma che Dio invece non lo era. Ma a che vedere con "onesto”, "per bene”, e confidai a mia madre
che cosa fossero un uomo e una donna, questo non lo sapevo, questa mia supposizione. In quel medesimo istante l’espressio­
appunto perché non ero stato "educato”. Nella scoperta del ne di opprimente disagio sparì dal suo volto e, sollevata, mi

64 65
disse, sì, sì, è proprio questo, e così l’elemento di disturbo fu fotografie di sifilitici nei diversi stadi di degenerazione. Questo
eliminato. Più tardi, quando seppi che cosa significava "casto”, dunque doveva essere il risultato dell’amore. Come conclusione
mi fu anche chiaro che non era un argomento di conversazione. il medico venne poi ancora a parlare di un particolare. In Ame­
Faceva parte delle cose "difficili”. rica, così rivelavano certe statistiche, pareva ci fosse un notevole
Evidentemente la sessualità non era armonica, ma appartene­ numero di ragazzi che si soddisfavano con l’autoerotismo; la co­
va alla categoria delle cose di cui non si parla, che quindi do­ sa era da considerare come una semplice curiosità, dato che,
vevano essere escluse dal piccolo orizzonte della nostra fami­ sempre stando alle statistiche, la percentuale dei ragazzi che
liare armonia. Così imparai a vedere tutto ciò che era ses­ si masturbavano pareva essere assolutamente minima, per cui
suale come qualcosa di ostile, una cosa cattiva di cui, ovvia­ non si poteva in realtà parlare di un problema significativo
mente, finii con l’avere anche paura. Naturalmente arrossivo (e dopotutto accadeva sempre solo in America). E con ciò noi
in maniera vistosa quando un discorso si avviava su argomenti eravamo "educati”.
sessuali e anche di questo avevo paura, perché mi vergognavo La lezione non aveva mutato di molto la mia visuale del
da morire del mio rossore. Quando poi scoprii realmente il mi­ mondo, bensì solo confermato la vecchia convinzione che la ses­
stero del concepimento e le mie fumose fantasie del polso ma­ sualità non era cosa buona, ma cattiva. Naturalmente in questo
dido si dissolsero, trovai l’atto del concepimento una cosa vera­ contesto di solito non vengono usate le espressioni "buono”
mente terribile e ripugnante ed ebbi l’impressione che non sarei e "cattivo”. Oggi nessuno osa più presentare la sessualità come
mai stato veramente capace di una cosa tanto orribile. Anche la quintessenza del male, come facevano i monaci del medioevo.
quando ebbi superato le iniziali paure, mi restò sempre un senso Al contrario, ci si tiene a fare gli "illuminati” e si concede vo­
sproporzionato di vergogna e persino negli ultimi anni del liceo lentieri che la sessualità è "persino molto importante”, gioca
continuai a soffrire le pene dell’inferno per il mio involontario un "ruolo enorme”, che senza di essa le cose non vanno, che
rossore, quando, ad esempio, mi trovavo a essere l’unico, du­ è persino "di vitale necessità per la conservazione della specie”;
rante la lezione, che arrossiva per dire cose di cui tutti i miei insomma, per farla breve, si ammette che "anche questo aspet­
compagni parlavano con la massima disinvoltura. to della vita esiste”, che ci si è quindi allontanati dall’antiquata
La scuola era anche la sede in cui, se pure con grave ritardo, concezione che la sessualità sia il demonio in persona. Nessuno
doveva svolgersi quella sporca faccenda dell’educazione ses­ però dichiarerebbe pubblicamente che è la cosa migliore che
suale (come i miei - e non soltanto i miei - genitori avevano ci sia al mondo.
tanto ardentemente sperato, per non doversi trovare loro nella Lo slogan degli hippies Make love, not war suona ancor
sgradevole necessità di farlo). Si trattò in particolare di una le­ oggi osceno alle orecchie dei buoni borghesi. Nessuno, cioè,
zione di carattere medico che aveva per scopo di spaventare, nega che la guerra sia un male anche se - purtroppo - neces­
e di conseguenza tener lontani, i ragazzi ormai adolescenti dai sario. Perché poi così assolutamente necessario, questo di so­
pericoli del rapporto sessuale. Il medico scolastico aveva proiet­ lito non lo si sa spiegare. Altrettanto poco si ama dire aperta­
tato sul muro una quantità di schemi e di disegni degli organi mente che l’amore è una cosa cattiva. Ma arrivare a dire fran­
genitali e poi, da ultimo, a coronamento del tutto, una enorme camente che l’amore non solo è una bella cosa, ma è persino
riproduzione a colori (con una coloritura orrenda) degli or­ meglio della guerra no, questa è una verità che la nostra società
gani genitali femminili e con voce concitata ci disse: "Sicuro, borghese non è ancora in grado di affrontare; continua tuttora
ragazzi, tanto orribile è in realtà la femmina; certamente nes­ a suonare quasi oscena. Dopotutto non si fa l’amante, si fa il
suno di voi ci vorrebbe entrare, nevvero?”. A questo seguirono soldato! E tanto più quando si è svizzeri! Come esempio tipico

66 67
di questo atteggiamento si può citare il cinema: i film di sesso le persone che si interessavano di queste cose c’erano, certo;
vengono ancor oggi vietati o sottoposti a tagli e a censure; ma ma erano gli altri, appunto. Gli altri facevano comunque ogni
un film di guerra, di assassinii e di violenze non ha da temere sorta di sciocchezze, non c’era quindi da stupirsi che, oltre a
alcuna censura. tutto il resto, fossero anche sessuali.
Va da sé che i miei genitori, anche in questo campo, non Continuo a scrivere noi, noi facevamo, noi non facevamo. Il
erano certo dei rivoluzionari e anche qui facevano propria l’opi­ plurale significa che io seguivo i miei genitori e il loro esem­
nione corrente. Sicuramente l’educazione sessuale che ho rice­ pio in tutto e per tutto, esattamente come mi era stato inse­
vuto — o meglio non ricevuto - dai miei genitori non rap­ gnato di fare. In linea di massima, mi pareva, avevano ragione.
presenta affatto una eccezione negli ambienti borghesi. Che i Su singole cose poteva capitarmi di essere, qualche rara volta,
miei genitori dovessero essere assolutamente d ’accordo con di opinione diversa, ma mettere realmente in dubbio il loro
i generali tabù sessuali appare chiaro, perché un tabù è pensiero, il loro modo di agire, questo non lo avrei fatto mai.
appunto una cosa di cui non si parla e proprio il non parlare Nell’atmosfera della mia casa paterna mi sentivo protetto e
delle cose era ciò che loro amavano fare. Qui però vorrei sud­ in linea di principio ero d ’accordo con le idee dei miei geni­
dividere Patteggiamento che i miei genitori assunsero nei con­ tori, perché ero come loro. Con loro non avevo quindi pro­
fronti miei e di mio fratello sul problema della sessualità in blemi, al contrario un legame armonico. D ’altro canto, il fatto
due tempi diversi: nel primo il sesso non esisteva, nel secondo di comportarmi da ragazzo modello, cercando di non offen­
era una cosa ridicola. Cioè: fino a che eravamo stati bambini dere in nulla la volontà dei miei genitori, era soltanto l’espres­
essi si erano sottratti all’idea di parlarcene e così il tema non sione della generale correttezza che regnava in casa nostra. Il
era mai stato neppure lontanamente sfiorato; ma non appena comportamento più corretto possibile in tutte le situazioni
fummo nell’età in cui potevano sperare che qualcuno si fosse della vita, anche quando la correttezza diventava eccessiva,
assunto l’ingrato compito che loro avevano rifiutato, subito la ci appariva come la massima protezione. Ma protezione contro
questione fu catalogata fra quelle cose che "gli altri” facevano, che cosa? - si potrebbe domandare. Non lo avremmo certo
quegli altri di cui noi sorridevamo leggermente divertiti e tro­ saputo esprimere a parole, ma oggi credo che ciò che ci oc­
vavamo sempre un po’ ridicoli. Non posso affermare che la so­ correva era una protezione contro il mondo intero. Non un’om­
luzione fosse molto felice, per me, in ogni caso, fu decisamente bra doveva gravare su di noi; in ogni cosa dovevamo essere
infelice. Dapprima ero stato un bambino che della sessualità puri e senza macchia. L’impeccabilità ci appariva come la via
non doveva assolutamente saper nulla; e non appena si potè migliore, o forse la via d ’uscita, per passare il più possibile
supporre che ne sapessi qualcosa, immediatamente avrei do­ indenni attraverso i meccanismi tu tt’altro che impeccabili di
vuto essere "al di là” della faccenda, fare praticamente la parte questo mondo. Il proverbio dice: chi va al mulino si infarina;
di un vecchio che ormai da un pezzo di queste cose non ne di noi si sarebbe potuto dire che per non infarinarci evitavamo
vuol più sapere. D ’improvviso, la sessualità non era più tanto persino di metter fuori il naso. Così, anch’io ero sempre estre­
male, ma invece ridicola, appunto, e noiosa. Mio padre si stu­ mamente corretto e puro in tutti i sensi. In me ciò si rivelava
piva spesso che la gente potesse provare tanto interesse per anche in un particolare: avevo una passione assolutamente esa­
film o riviste erotiche, dal momento che la sessualità era una gerata per la pulizia. Come tenevo a essere supercorretto, an­
cosa tanto noiosa. Non gli sarebbe mai venuto in mente di che esteriormente ero sempre lindo e perfettamente in ordine.
vietare quella letteratura o quei film, visto che non riusciva a Non avrei potuto sopportare un granello di polvere addosso,
capire che qualcuno se ne potesse veramente interessare. Cioè, o un capello fuori posto.

68 69
Così rimasi puro, non mi sporcai mai, non toccai nulla e dole per nome, come vuole la buona educazione, e io soste­
non ebbi mai contatto con nulla e nessuno. Non avevo amici nevo una continua lotta con questi nomi che regolarmente di­
e non avevo vicende amorose. Non sarei mai stato capace di menticavo o scambiavo, così che non sapevo mai esattamente
avere contatti con una ragazza; ma, allo stesso modo, ero quale di questi innumerevoli signori che dovevo assolutamente
incapace anche di parlare delle mie difficoltà di contatto. A salutare era il signor Müller o il signor Maier. La coscienza
ciò si aggiungeva un ulteriore problema. Da una certa età in dell’obbligo di sapere quei nomi, non solo, ma di sapere anche
poi si ritiene naturale che un giovanotto abbia un’amica, così, chi era in effetti il signore in questione (dal momento che lui
spesso gli altri mi chiedevano, con la massima benevolenza, se sapeva chi ero io), non faceva che rafforzare il mio disagio
anch’io avevo un’amica. Sapendo che la domanda esigeva una di fronte al supposto signor Maier di cui, per colmo di vergo­
risposta affermativa, altrimenti ci si rendeva ridicoli, su questo gna, neppure ricordavo se era quel "simpaticissimo signore del­
argomento mentivo sempre con grande ostinazione; per metter­ la casa all’angolo” o quel "carissimo mastro falegname della
mi al riparo da eventuali domande trabocchetto, in queste oc­ strada in riva al lago”. Spesso la mia confusione era tale che
casioni pensavo sempre a qualche ragazza con cui ero stato un anche quando ero sicuro che un tizio si chiamava veramente
paio di volte a teatro (ma che naturalmente non era la mia Müller, cominciavo a dubitare che potesse eventualmente chia­
amica), per avere a portata di mano dei dati precisi in caso marsi in altro modo, e alla fine riuscivo sì a salutarlo con il
di ulteriori domande su questa amica immaginaria, onde evi­ nome giusto, ma passando le pene dell’inferno al pensiero di
tare eventuali incertezze o tentennamenti che potessero smasche­ poter pronunciare un nome sbagliato. Spesso poi inghiottivo i
rare le mie bugie. In tal modo, a mio modo, mi comportavo nomi e li pasticciavo in un informe ammasso di suoni senza
correttamente, in quanto davo a chi mi interrogava esattamente senso, e qualche volta lo tralasciavo del tutto, per paura di
il tipo di risposta che voleva avere. un possibile errore, anche quando in realtà lo sapevo.
La mia timidezza di fronte alle ragazze era però solo l’aspetto Mi dicevo sempre che la gente doveva pensare chissà quanto
più macroscopico della mia generale timidezza di fronte alla male di me, se non ero neppure in grado di ricordarne il no­
gente. C’erano altre persone alle quali non ero capace di rivol­ me, mentre loro invece sapevano sempre benissimo il mio. Quan­
gere la parola, e riuscivo a vincermi soltanto quando era as­ to immotivate fossero le mie paure mi fu chiaro solo molti
solutamente indispensabile. A qualcuno che non conoscevo, o anni più tardi, quando fui insegnante. È ovvio che tutti i venti
conoscevo solo superficialmente, preferivo non dire nulla; spes­ scolari di una classe fin dalla prima ora di lezione conoscono
so, anche se bruciavo dalla voglia di rivolgere la parola a una perfettamente il nome del loro insegnante, ma che l’insegnante
persona (anche soltanto per dire la cosa più insignificante del non può fin dalla prima ora di lezione sapere a memoria i nomi
mondo), la timidezza me lo impediva e preferivo tacere. di tutti i suoi venti alunni. Altrettanto chiaro mi appare oggi
Questa timidezza affiorava già quando si trattava soltanto che chiunque in paese da innumerevoli anni conosceva mia
di salutare. La famiglia di mia madre viveva a K. da non so nonna e mia madre dovesse ovviamente sapere chi era il figlio
quante generazioni, così che tutti in paese conoscevano la mia o il nipote di queste signore, mentre per me era infinitamente
famiglia e ovviamente anche me. Per la strada tutta questa più difficile sapere il nome di tutte le persone che conoscevano
gente mi salutava, perché sapeva chi ero. Per me invece erano la mia famiglia. Allora, però, non ero ancora arrivato a capire
degli sconosciuti, di cui soltanto sapevo che avrei dovuto sa­ questo semplice fatto, e così mi ero abituato a salutare tutte le
pere il nome. Come è naturale, i miei genitori mi avevano se­ persone che incontravo, specialmente le più anziane, con artifi­
veramente ammonito a salutare tutte queste persone chiaman- ciosa cordialità, sempre temendo che fossero magari amici di mia

70 71
nonna e che si sarebbero offesi a morte se fossi passato senza questo comandamento deve per forza convincere, perché nulla
salutarli. Come si vede, in questo rito dei saluti non si trattava può dar meno nell’occhio per scorrettezza quanto qualcosa di
mai di un reale contatto umano, ma soltanto della correttezza morto.
delle maniere. Una volta che il nemico era stato debitamente sa­ Si potrebbe anche dire così: io ero troppo corretto, per es­
lutato, il pericolo era scongiurato e l’altro non poteva più pen­ sere capace di amore; io non ero neppure veramente io, ero
sare di me nulla di male. Il mio contatto con la cittadinanza solo corretto; infatti, in quel mondo delle formule e della
di K. si limitava quindi a una tormentosa costrizione al sa­ cortesia, ovunque il mio vero io avesse voluto farsi sentire,
luto; di aver poi qualche volta anche parlato con qualcuno, non subito si sarebbe distinto come elemento di disturbo. La mia
riesco a ricordarmi. unica funzione era di mantenermi in armonico accordo con
È evidente che l’amica immaginaria doveva rimanere un puro quello che credevo essere il mondo. Non esistevo come indivi­
ideale; nella mia situazione come avrei potuto arrivare a ri­ duo chiaramente delimitato rispetto al mondo circostante. Di
volgere la parola a una ragazza o addirittura chiederle se vo­ questo mondo circostante ero solo una particella educata alla
leva essere mia amica? Dell’amica, naturalmente, non sentivo conformità. Non ero neppure un membro utile della società
la mancanza, perché mi consideravo ancora fra gli scolari "più umana, ma semplicemente un manichino di belle maniere.
piccoli”. Del resto non era il casuale incontro con una compagna Le mie romantiche fantasie dell’amore si limitavano alle
del corso di ballo, di cui ho già parlato, che mi mancava, ma scene di amore a prima vista che si vedono, per esempio, al
molto di più. Dietro l’immagine di quell’amica immaginaria si cinema. Immaginavo che anch’io (quando un giorno, in un
nascondeva, anche se non me ne rendevo ancora chiaramente imprecisato momento della vita, fossi stato abbastanza ’’gran­
conto, l’immagine della donna, della sessualità, dell’amore, del­ de”) avrei conosciuto una ragazza, al primo sguardo avrei
la vita, insomma. (Non voglio qui abbandonarmi alla disquisi­ saputo che era l’unica giusta (e naturalmente anche lei avrebbe
zione se si debba dire amore o sessualità; come già si espresse provato nello stesso istante l’identica sensazione). In tal modo
Freud, quando disse che se qualcuno era urtato dal sentirgli ogni fastidioso sforzo per cercare questa donna ideale veniva
usare sempre il termine ’’sessualità”, lui in tal caso avrebbe automaticamente a cadere; con lei e per lei non ci sarebbero
usato il termine ’’amore”* voglio usare i due concetti in modo stati problemi e fin dal primo istante mi sarei trovato con lei
che si equivalgano e la differenza fra i due vocaboli rimanga in perfetta armonia. Non avrei dovuto salutarla o rivolgerle la
puramente linguistica.) Ma la sessualità non faceva parte del mio parola o arrossire o fare uno sforzo per vincermi e domandarle
mondo, perché la sessualità è espressione della vita; io invece se voleva essere la mia amica; fin dal principio tutto sarebbe
ero cresciuto in una casa dove la vita non era ben vista e a casa stato perfettamente chiaro, armonico e senza problemi. Anche
nostra si preferiva esser corretti che vivi. Tutta la vita invece è lei sarebbe stata una creatura devitalizzata e noiosa come me
sessualità, si manifesta in amore, desiderio, in incontro e scontro e esattamente come me avrebbe dato qualunque cosa perché
con l’altro. L’intero processo della vita si può paragonare al­ nessuno di noi due venisse ferito dall’altro, anzi, neppure sfio­
l’atto sessuale: tutto nella vita preme ininterrottamente per rato. Povera donna.
l’unione, tende a congiungersi, a permearsi, e ogni separazione, Certamente non ero l’unico a nutrire fantasie del genere;
ogni allontanamento, ogni distacco è sempre la morte. Chi ma che proprio io nutrissi di preferenza fantasie di questo ge­
si unisce vive, chi si stacca o si tiene lontano muore. Ma questo nere è naturale, data l’immagine del mondo ideale che disgra­
era appunto il motto che regnava sulla mia casa paterna: ziatamente era la mia. La donna che mi figuravo non era altro
”tieni lontano e muori!”. La logica di questa enunciazione, di che un ulteriore accessorio del mio mondo infantile. Persona-

72 73
lità non ne aveva, e neppure avrei potuto desiderarlo, dal molto indietro e sapevo che in realtà avrei dovuto considerarmi
momento che io stesso non ne avevo. Così mi figuravo l’amore un ragazzino delle classi inferiori. Non avevo assolutamente pro­
e mi figuravo che fosse "qualcosa di molto bello”; ma incon­ blemi e intuivo che era meglio così, perché se ne avessi avuti
sciamente, nel mio intimo, temevo e odiavo l’amore, perché non avrei comunque saputo affrontarli. In breve, rispondevo
era fatto di tutto ciò che necessariamente non mi poteva pia­ già a tutte le premesse per diventare un individuo molto infelice.
cere, che mi era ostile. Detto, fatto. Mi ammalai. Allora non sapevo ancora che si
Tutte queste riflessioni non si intonavano male al generale trattava di una malattia e non ne conoscevo ancora il nome.
tenore della mia vita di studente liceale. Andavo, è vero, a È una delle malattie più popolari del nostro tempo: si chiama
scuola a Zurigo, trascorrevo quindi gran parte della mio gior­ depressione. Oggi, a occhio e croce, direi che deve essere co­
nata fuori di casa, ma nel mio intimo, a scuola non avevo minciata quando avevo diciassette o diciotto anni. Da allora
ancora imparato niente. Ero - soprattutto sul piano interiore - non mi ha più abbandonato. Oggi ho trentadue anni, e se
sempre e ancora completamente a casa. Frequentavo le lezioni voglio darmi la briga di calcolare la durata del mio male,
e poi prendevo il treno e tornavo a K., alla mia casa paterna, arrivo a una somma di quindici anni. Non voglio dire che per
dove mi sentivo a mio agio, dove sapevo di avere le mie radici. tutti questi quindici anni la sofferenza sia stata sempre della
Era quello il mondo al quale appartenevo. Imparavo, è vero, stessa intensità. Talvolta si intensificava, talvolta invece pareva
il latino e la matematica e le lingue straniere, ma questi studi allentarsi. Ci furono momenti in cui la sofferenza si ritirò tanto
non allargavano il mio orizzonte; erano semplicemente dei do­ sullo sfondo, che potei quasi muovermi come una persona nor­
veri da assolvere, perché evidentemente era così che si doveva male; una o due volte il male si era allontanato tanto che co­
fare. Era corretto sottoporsi a questi doveri, perciò lo facevo. minciai a sperare di riuscire a superarlo. Ma a parte questi alti
Inoltre mio padre voleva che lo facessi, sapevo che su questo e bassi, devo constatare che in tutti questi anni la depressione
punto non avrebbe tollerato alcuna ribellione. Del resto mi mi ha accompagnato ininterrottamente. Non voglio dare qui
riusciva facile accettare la volontà di mio padre, dal momento una nuova descrizione del fenomeno, perché è stato tante volte
che non ne avevo una mia. Il liceo spesso mi pesava, ma non ampiamente e sufficientemente descritto e tutti sanno che
feci mai nulla per sfuggirvi, perché non riuscivo a immaginare cos’è la depressione. Tutto è grigio e freddo e vuoto. Niente
che cosa avrei fatto se non fossi più andato al liceo. riesce a rendere felici e tutto ciò che è sofferenza viene vissuto
Ero quindi uno scolaro piuttosto bravo ma anche abbastanza con un eccesso di sofferenza. Non si ha più alcuna speranza e
privo di interessi, avevo maniere perfette e a scuola non diedi non si vede più al di là del momento presente, dell’infelicità,
mai motivo di biasimo o di malumori, soltanto a ginnastica dell’assurdità del presente. Tutte le cosiddette cose liete non
ero un disastro quasi inimmaginabile. I miei compagni non mi allietano per nulla; in compagnia si è più soli che altrove;
detestavano e non mi tormentavano, ma non avevo amici. Fre­ le cose allegre lasciano indifferenti, le vacanze non portano
quentai parecchi corsi di ballo per imparare a comportarmi alcun mutamento, ma, al contrario, sono ancora più difficili da
con le donne, ma non riuscii mai a imparare a ballare e tanto sopportare dei periodi di lavoro; tutti i progetti che si fanno
meno a comportarmi con le donne. Ero intelligente, ma non per cercare di uscire dalla depressione si lasciano poi nuova­
sapevo niente. Esteriormente ero di una quasi ripugnante nor­ mente cadere, "perché tanto non serve a niente”. Le due quali­
malità, ma ero tutto meno che un adolescente sano e normale. tà precipue della depressione sono la totale mancanza di spe­
Pubblicamente ero stato etichettato come uno che viveva nella ranza e la solitudine.
"elevatezza”, ma intimamente intuivo di essere rimasto indietro, La depressione si impossessò di me circa un anno prima

74 75
della conclusione del liceo. Le due prime punte massime le co­
nobbi durante le ultime vacanze scolastiche, che trascorsi in
Inghilterra, e all’epoca della maturità. Durante le vacanze avrei
dovuto divertirmi e non ci riuscivo e per la prima volta avvertii
il dolore di sentirmi liberato, una volta tanto, da tutte le sec­
cature della vita quotidiana (nel mio caso della scuola), e
disponibile a godere del tempo libero con tutto ciò che in esso
mi aspettava, e di ritrovarmi ancor più triste e tormentato
di quando ero a scuola. Il secondo momento in cui vidi il fondo
fu all’esame di maturità, quando tutti festeggiavano la con­
V
clusione dei miei studi e si ritenevano in dovere di conside­
rarmi ormai un adulto, mentre io mi dovevo dire che a scuola, Il mondo mi stava davanti grigio e ostile e ora dovevo anche
all’infuori dei vocaboli e delle formule, non avevo imparato affrontare l’allegra vita goliardica. Che sarei andato all’università
nulla di nulla e mi sentivo altrettanto infantile quanto sette era stabilito da sempre e non fu mai messo in discussione.
anni prima, quando ero entrato in quella scuola per la prima Iniziare una facoltà era, del resto, anche la cosa che preferivo,
volta. perché non avevo idea del genere di professione che avrei po­
tuto scegliere; andando all’università potevo almeno riman­
dare di qualche anno il fastidioso interrogativo della scelta
professionale. Essendo piuttosto dotato per le lingue era na­
turale che mi dedicassi a studi linguistici. Nell’ambito della
facoltà di lingue avrei poi fatto la mia scelta; in realtà la scelta
non la feci io. Dal momento che gli unici due miei compagni
di liceo che si erano pure decisi per le lingue avevano scelto
germanistica, in mancanza di un’idea migliore seguii il loro
esempio e optai anch’io per la germanistica. In questo modo,
poiché non avevo alternative valide e non mi venne in mente
niente di più originale che seguire l’esempio dei miei compagni,
divenni studente della facoltà di lingue.
Ero uno studente molto elegante. Portavo sempre calzoni
neri, camicia bianca, una giacca blu scuro e cravatta nera. L’in­
sieme era molto distinto e faceva l’effetto di un’elegante uni­
forme. Ma io sapevo che questo modo di vestire, che era un pu­
gno in un occhio addosso a un ragazzo della mia età, non era
altro che l’espressione esteriore della mia depressione, che
mi spingeva a mostrare anche all’esterno i colori del mio lutto.
Naturalmente non ero neppure uno studente rivoluzionario.
Ero in grado di ridere di cuore della "cattiva” sinistra e delle

77
76
sue tesi stravaganti, perché l’idea che avrei potuto avere anch’io nel ruolo dell’originale con interessi intellettuali; tutti gli altri
la libertà di fare una scelta politica e, dopo aver analizzato il giocavano al calcio, solo io leggevo i classici. Quella era stata
problema, avrei potuto magari anche unirmi alla sinistra, non un’originalità chiaramente legata alla "elevatezza”. Ma all’uni­
mi venne mai. Naturalmente non avevo fatto alcuna scelta versità anche gli altri si occupavano tutti di letteratura, e al
politica in generale, ma mi ero automaticamente allineato con calcio gli studenti universitari giocavano soltanto nelle ore
i "buoni”, che in questo caso erano, appunto, la destra. Na­ libere. Questo aspetto apparentemente positivo veniva dunque
turalmente non avevo esaminato e rifiutato gli argomenti della a mancare e io ero, molto di più che negli ultimi anni di
sinistra, ma, al contrario, sapevo già in anticipo che quelli di liceo, semplicemente uno fra tanti altri ragazzi tutti uguali,
sinistra erano individui ridicoli, che si sbagliavano comunque senza un motivo al mondo perché gli mancasse ciò che avrebbe
nelle loro vedute. Per me, che le sinistre non potessero aver dovuto trovare forma concreta nella • persona di un’amica.
ragione era un punto fermo, e quindi, se volevo essere dalla Il concetto "amica”, naturalmente, all’università aveva acqui­
parte del giusto, dovevo mettermi dalla parte delle destre. stato anche tu tt’altra dimensione. Gli studenti, alla cui schiera
Questa presupposta decisione, che in realtà non era altro che d ’improvviso anch’io appartenevo, con le loro amiche non
la mancanza di una decisione, fece molto contenti i miei ge­ andavano più soltanto al cinema, e queste amiche adesso si
nitori che, una volta di più, poterono constatare che il loro chiamavano amanti. Ora io l’età l’avevo, frequentavo l’ambien­
figliolo era "ragionevole”, aveva "buon senso” e aveva scelto te giusto, non mi mancava la possibilità di avere anch’io una
la giusta via. donna. Non c’era più nulla che me lo impedisse - all’infuori
C’era in questo un evidente parallelo con i miei rapporti con di me stesso, naturalmente. Succedeva ora la stessa cosa che
lè donne nel periodo dell’università: nella mia vita studentesca già si era verificata un’altra volta. Come i miei genitori si era­
non c’erano scandali, amorazzi, relazioni peccaminose o figli no aspettati da me per lungo tempo che restassi un bambino
illegittimi. Anche questo naturalmente era lodevole. Non avevo all’oscuro di tutto, totalmente asessuato e poi, una volta
problemi con le donne, artche in questo ero un bravo studente venuto a conoscenza delle cosiddette "cose della vita”, dovessi
che non dava pensieri e risparmiavo ai miei genitori ansie essere immediatamente un uomo informato e "ragionevole”,
e preoccupazioni; non aveVo vicende amorose che non sarebbe­ vale a dire ancora asessuato; come prima non dovevo avere
ro state adatte al nostro armonico mondo. In altre parole: an­ ancora problemi sessuali, perché non conoscevo l’esistenza
cora una volta tutto andava per il meglio. della sessualità, e immediatamente dopo non dovevo più avere
Naturalmente non andava affatto per il meglio. Ero depresso problemi sessuali, perché avevo già "superato” la sessualità;
e mi trovavo in un sempre crescente conflitto fra la mia vita come la sessualità doveva essere qualcosa che, per principio,
interiore e il mondo esterno. Sembrava che non avessi asso­ non comporta problemi, così all’università, una volta di più,
lutamente problemi e trovavo invece sempre più difficile inse­ dei tre stadi evolutivi della giovinezza saltai a piè pari quello
rire in maniera convincente nel mio mondo questa apparente centrale, il più importante. Al liceo mi ero automaticamente
assenza di problemi. Volevo presentarmi anche a me stesso come annoverato fra quelli ancora troppo "piccoli” per avere questi
il tipo senza problemi e facevo uso di tutte le possibili mano­ problemi, all’università avvenne il contrario. Qui però non
vre d ’inganno per apparire anche a me stesso come questa fi­ c’erano soltanto giovani donne attraenti e focosi giovanotti,
gura ideale. Uno dei miei principali punti d ’appoggio, tuttavia, ma anche una quantità di zitelle e di scapoli incalliti, gente
mi era, ahimè, venuto a mancare. Durante gli anni del liceo, rinsecchita, strana e senza età che si occupava di qualche
ero sempre riuscito a coltivare la mia immagine mettendomi stranissima scienza e andava in giro conciata da far pietà,

78 79
avvolta in trasandatissimi abiti grigi. Anche quelli non avevano il ruolo che mi ero imposto. Altri compagni di corso - poveretti
un’amante. Se dunque mi volevo inserire in uno schema di vita - provati dalla sofferenza, mi dicevano talvolta quanto ero for­
che avesse una certa validità, dovevo accodarmi appunto a tunato a saper conservare sempre il mio buon umore; io me lo
questa schiera di professorali spaventapasseri, tutti certamente sentivo dire con piacere e ci credevo anche. La maschera, cioè,
infecondi e ricchi solo di cultura accademica. Prima ero stato era convincente. La gente credeva che io fossi realmente così, e
troppo giovane per essere me stesso; ora ero troppo vecchio. ci credevo anch’io. Il gioco mi veniva confermato dall’esterno
L’unica cosa che non potevo fare era di essere quello che ero, e così potevo permettermi di essere tanto falso che, quando
avere l’età che avevo. Una volta di più potevo raccontarmi mi capitava di cominciare a dubitare della mia ipocrita sere­
di essere perfettamente normale, o per lo meno di rientrare nità, ero capace di dirmi: ho solo l’impressione di essere de­
nell’ambito di una certa norma, perché all’università c’erano presso, tutti dicono di no. Non è possibile che si sbaglino tutti
altri studenti come me. Un modo di pensare che si può quanti. In questo modo gli altri divennero i miei complici. Quan­
definire armonico, o per lo meno una ricerca di armonia. Non do la maschera minacciava di incrinarsi, di andare in pezzi,
volevo essere l’unico che falliva, a differenza di tutti gli altri; potevo sempre richiamarmi agli altri, che ne venivano continua-
volevo immaginare che anche altri non fossero diversi da me. mente ingannati. Credo di aver consumato gran parte delle
In tal caso non ero un fallito, ma un membro rispettabilissimo mie energie a tenere insieme il franante edificio di questo mio
di un gruppo in cui, appunto, tutti erano come me. io esteriore. Sapevo sempre trovare scappatoie per dimostrare
Negli anni di università questo divenne il mio problema fon­ a me stesso che le mie depressioni "non erano altro” che
damentale. Nel mio intimo sapevo benissimo di essere un uomo banalità qualsiasi. Quando pioveva e qualcuno diceva: come è
mancato, ma non lo volevo ammettere neppure con me stesso. deprimente la pioggia, subito io potevo affermare con slancio:
In fondo sapevo anche benissimo che ero mancato perché non naturalmente! È la pioggia che deprime tanto anche me.
avevo una donna, perché la "donna” era appunto il simbolo Talvolta ero raffreddato, qualche volta avevo dormito troppo
e il punto dolente di tutto il mio fallimento, ma lo nascondevo o troppo poco, un’altra volta mi ero alzato di cattivo umore e
anche a me stesso e trovavo una quantità di altre ragioni per un’altra ancora la colpa era della lezione poco interessante che
essere sempre così depresso. avevo appena seguito, oppure, avevo mangiato male o mangiato
Esteriormente mi mostravo allegro e disinvolto, ero al di troppo e per questo ero stanco e svogliato. Per farla breve:
sopra delle cose, non avevo problemi. Stavo benone e non me trovavo sempre una spiegazione per dimostrare a me stesso
la prendevo per nulla. Niente riusciva a farmi arrabbiare e che, in fondo, "non era niente”. Oggi so che il cibo pesante non
niente ad abbattermi; avevo sempre un sorriso sulle labbra, mi disturba affatto lo stomaco; mi piace mangiare bene, ma
perché dovevo essere l’immagine dell’individuo che non sa che se il cibo non è particolarmente buono, la cosa non mi turba
cos’è la frustrazione. Quanto più in fondo al cuore mi sentivo granché. Allo stesso modo, non sono affatto metereosensibile.
depresso, tanto più sorridevo all’esterno. Quanto più nero den­ Naturalmente preferisco il bel tempo, e per conto mio potrebbe
tro, tanto più bianco fuori. Il mio io diviso si squarciava sem­ anche non piovere mai; ma anche intere settimane di cattivo
pre di più in due; l’abisso si allargava. La mia eterna comme­ tempo non influiscono sul mio stato d ’animo. Anzi, in questo
dia diventava sempre più un’abitudine e l’abitudine mi ren­ senso credo di possedere una natura fortunata. Molta gente si
deva la mia maschera tanto familiare, che sempre di più ten­ lascia facilmente deprimere dal cattivo tempo; io no. Tutte
devo a confonderla con me sfesso. Sì, volevo essere come la le mie scuse, tutte le storie "è colpa del tempo” erano bugie,
mia maschera e perciò amavo credere di essere effettivamente falsi pretesti. La mia depressione era a un livello molto, molto

80 81
più profondo e tutto il cattivo tempo del mondo non bastava al suo autore) poteva capitare anche a me; così si trovava una
a modificare questa realtà. regola, si costituiva una norma.
Ero effettivamente un mentitore e un ipocrita, ma avevo Di tutte le figure, sia personaggi letterari o letterati stessi ai
buone maniere, maniere come in questo emisfero non se ne tro­ quali capitava di desiderare una donna e non averla, di desi­
vano facilmente; soltanto che queste mie splendide maniere derare di vivere e restare invece in realtà sempre ai margini
erano anche l’unica arte che avessi imparato. L’educazione dei della vita, quello che mi aveva sempre colpito di più era Tonio
miei genitori aveva avuto successo. Kröger. Già, si può dire che il protagonista di quella cupa
Se è giusta la definizione che un nevrotico è un individuo novella di Thomas Mann mi avesse accompagnato senza inter­
che non vive mai nel presente, ma sempre soltanto proiettato ruzione fin dagli anni del liceo. Anche lui non era solidamente
nel futuro o ripiegato nel passato, in tal caso, fin dai miei primi ancorato alla vita ed era sempre depresso; anche lui era sempre
anni da studente avevo posto tutte le premesse per diventarlo: occupato nel mondo della "elevatezza” e doveva per questo
da un lato mi guardavo come il "ragazzino” che era appunto rinunciare alle "voluttà dell’abituale”. Tonio Kroger era
restato un po’ indietro e non era ancora in grado di giungere appunto un artista, e, come tale, il suo compito non era di vi­
alle cose della vita; dall’altro continuavo sempre a sperare in vere la vita, ma di descriverla. Come poeta aveva uno sguardo
un lontano, indefinito avvenire che mi avrebbe portato tutto d ’assieme, era al di sopra delle cose; se fosse stato nel cuore
ciò che questo presente non era in grado di darmi. Pensavo che della vita, in mezzo a tutti gli altri come un comune mortale,
qui, a Zurigo, dove pioveva sempre, "non riuscivo ad avere il avrebbe dovuto necessariamente perdere quella elevata vi­
giusto entusiasmo”, ma che in estate, quando fossi stato in sione e sarebbe stato defraudato della capacità di descriverla.
Spagna, dove c’è sempre il sole, avrei cominciato a vivere. Fin qui, tutto bene. Molto presto, però, avevo trovato nell’esi­
All’università ero continuamente in compagnia femminile, e stenza di questo Tonio Kröger una quantità di cose che mi
intanto pensavo che, sempre in quelle nebulose, meravigliose avevano disturbato. Da un lato, Tonio Kröger ■doveva essere
vacanze spagnole, avrei sicuramente incontrato la donna ideale. diverso dai comuni mortali —perché questo era il suo mestie­
Non ero capace di ammettere che non erano le circostanze la re — d ’altro canto però non poteva essere come gli altri -
causa del mio fallimento, ma che io ero il fallito. e questa era la sua debolezza, la sua carenza esistenziale. Da
Ero psichicamente malato e non volevo accettare questa un lato si poteva dire che era appunto chiamato a essere un
realtà. Perciò continuavo a cercare possibili modelli, convinto artista, ciò che naturalmente lo isolava dalla cerchia dei comuni
che non appena mi fossi riconosciuto in un caso tipico, avrei mortali; dall’altro però non si poteva far tacere il sospetto che
avuto la certezza di essere anch’io come gli altri e quindi nor­ fosse in primo luogo incapace di comportarsi come gli altri
male. Il ragionamento era sbagliato, naturalmente, perché il mortali, così che non gli era rimasta altra scelta che, nolens
tipico è tu tt’altro che normale; ci sono anche tipici sintomi pa­ volens, diventare un artista, perché più in là non arrivava. Da
tologici. I pazienti di un sanatorio non si trovano in uno stato un lato il signor Mann faceva dire al suo Tonio che l’essere
di salute normale, solo perché hanno tutti la stessa malattia; diverso dagli altri lo faceva soffrire, ma che, bene o male,
sono piuttosto malati tutti insieme. Ma io ero alla ricerca lo doveva accettare come un aspetto secondario della sua si­
di casi simili al mio, che potessero giustificarmi e li trovai anche, tuazione, dal momento che era nato con un compito più alto;
e precisamente nella letteratura. Nei libri mi imbattevo sempre d ’altra parte io ero convinto che Tonio Kröger era appunto
in personaggi nei quali potevo identificarmi. Quello che era soltanto un artista e che la sua arte non era qualcosa di meglio,
capitato a una figura letteraria (e con tutta probabilità anche ma qualcosa di meno, di cui il povero Tonio Kröger si doveva

82 83
contentare. Il fatto principale era appunto il-non-poter-essere- vergogna. Ripetutamente presi la decisione di non scrivere
comc gli-altri, l’essere artista veniva poi da sé, come manifesta­ più una riga, soffocando tutte le mie fantasie letterarie; ogni
zione secondaria. volta volevo fare piazza pulita e il più delle volte accompagnavo
Cominciai così ad avere una prima intuizione che forse l’ar­ quella decisione con la distruzione di tutte le mie opere, che
te poteva essere vista come il sintomo di una carenza di vita­ di preferenza bruciavo, affinché il fuoco purificatore mi ripulis­
lità e cominciai a sospettare (senza che di Sigmund Freud se dall’onta dell’arte. Ma i miei ripetuti tentativi, i numerosi
avessi sentito molto più del nome) che per la poesia non ci auto da fé non approdarono mai a nulla, perché la voglia di
può essere altra spiegazione: quando si è sufficientemente fru­ scrivere non la si poteva bruciare, e il più delle volte subito
strati, automaticamente si comincia a scrivere versi. La cosa dopo uno di questi auto da fé mi veniva l’ispirazione per qual­
non mi andava affatto bene, perché anch’io intuivo che la mia cosa di nuovo che mi sarebbe tanto piaciuto mettere sulla
vitalità lasciava molto a desiderare e anch’io scrivevo. Cioè, carta. Beh presto cominciai nuovamente a scrivere, e mi misi
non scrivevo versi, ma fin dalla prima infanzia avevo scritto il cuore in pace, dicendomi che ero spinto a farlo, perché
commedie per il teatro delle marionette e anche da studente "doveva essere così”; fino a quando il medesimo processo si
avevo tentato di scrivere delle novelle. Tutti assicuravano ripeteva e distruggeva ciò che avevo scritto perché non potevo
che avevo del talento; anzi, scherzosamente mi avevano già sopportarne la presenza e tutto finiva nelle fiamme, perché
appioppato l’etichetta dell’artista, e in fondo, Yimage dell’ar­ "non poteva essere”. Quanto più i miei lavori mi piacevano,
tista mi era sempre piaciuta. In breve, era possibilissimo che tanto più mi era doloroso distruggerli; ma ad ogni nuovo auto
io fossi davvero un artista, appunto. Per la prima volta durante da fé aveva il sopravvento la certezza che non era la qualità
i miei anni di università cominciai a vedere lo status del­ del lavoro che contava, ma il fatto che era un male, era l’espres­
l’artista da un punto di vista del tutto diverso: forse l’artista sione e la confessione e il simbolo della mia inferiorità di
era sempre il "soltanto” artista, il respinto, il reietto, che a "soltanto” artista.
dimostrazione della sua inferiorità sciorinava in pubblico per­ Va da sé che d ’altro canto la mia image di artista mi lusin­
sino la sua produzione, di modo che tutti potessero dire: "ahimè, gava e facevo il possibile per rafforzarla; ma Yimage natural­
quello dalla vita ci ha cavato troppo poco e così è diventato mente restava sempre la superficie. Come esteriormente ero
un artista”. sempre sereno e contento, così cominciai a darmi anche un po’
La mia produzione letteraria cominciò per la prima volta il tono dell’artista, ben sapendo, peraltro, fin dove potevo an­
a colmarmi di orrore. Non aveva alcuna importanza che le dare. Sapevo cioè che c’erano tipi di artisti che affrontavano
singole cose mi piacessero o no. Indipendentemente dal valore anche la vita come un’arte e che da bohémiens cercavano e
che potevano avere, pareva mi dicessero: io tutto questo l’ho spesso riuscivano a gustarla con molto slancio. Di non essere
scritto solo perché sono un uomo mancato, un frustrato. Molti un artista di questo tipo ero più che dolorosamente sicuro.
di questi lavori, soprattutto alcuni lavori teatrali, per la verità Per me l’arte non poteva che essere fatta di malinconia, de­
mi piacevano e accettavo che potessero anche avere una giu­ pressione e frustrazione; non poteva essere che lutto e vergo­
stificazione artistica, letteraria. Ma tutto ciò impallidiva ora gna. Vair d ’artiste scanzonata che tentavo di darmi faceva parte
davanti all’intuizione che la mia produzione letteraria da ul­ anch’essa della mia maschera.
timo non era che il prodotto della mia frustrazione e la In tutta questa problematica dell’artista ci sono soprattutto
confessione della mia sconfitta. Volevo propormi di non due punti importanti. In primo luogo nella "elevatezza” che
scrivere più nulla piuttosto, e nascondere nel silenzio la mia dovrebbe contraddistinguere l’arte potevo continuare a colti-

84 85
vare quella "elevatezza” che era già stata legge nella mia casa A questo proposito voglio soltanto dire che la prima volta
paterna: gli altri sono comuni mortali, gli "elevati” sono ap­ furono proprio i miei genitori a mandarmi da uno psichiatra,
punto i preziosissimi singoli esseri che stanno fuori dalla vita. perché erano preoccupati per il mio stato depressivo e vole­
In altre parole: chi è normale è una persona qualunque; un vano aiutarmi. Naturalmente anche l’educazione che mi ave­
nevrotico è qualcosa di speciale. Inoltre la mia fatalistica vano dato era stata tutta intesa solo ad aiutarmi, a darmi il
visione dell’arte mi permetteva di restare legato alla posizione meglio di ogni cosa. Che invece mi avessero trasmesso solo il
che in realtà avrei voluto abbandonare. Così diventava una peggio, loro non lo potevano sapere. Suppongo, anzi sono sicuro,
sorta di destino: tutti gli artisti sono dei nevrotici. Oggi sono che prima di prendere contatto con lo psicoterapeuta, si devono
effettivamente convinto che molti artisti sono davvero ne­ essere posti la tradizionale domanda: "ma che cosa abbiamo
vrotici; ma anche i panettieri o i giardinieri molto spesso lo fatto di sbagliato?”. Ovviamente non potevano immaginare
sono e un impiegato di banca o un uomo d ’affari raramente che la cosa sbagliata era proprio ciò che a loro appariva come
sono tipi divertenti. Invece di fare lo sforzo di vedere che un il massimo valore della vita. Dubito molto che siano stati in
artista può, è vero, essere nevrotico, ma non deve necessaria­ grado di giungere a supporre che il loro figlio potesse non
mente esserlo, preferivo lasciarmi travolgere dalla certezza essere normale. Deve essergli apparso assolutamente inconcepi­
che tutti gli artisti devono fatalmente essere dei nevrotici. bile che il figlio di genitori così normali potesse non essere
Anche questa convinzione era per me la strada del minimo normale. Per riconoscere che il figlio di genitori così perfetti
sforzo. Là dove tutto è segnato dal destino e quindi non mo­ non poteva che diventare un anormale, ci sarebbe voluto una
dificabile, non c’è più neppure bisogno di darsi tanto da fare. grossa dose di senso umoristico, di un senso umoristico quasi
La mia concezione dell’artista corrispondeva perfettamente cosmico, e un simile cosmico umorismo loro non ló avevano
alle altre idee ereditate dalla mia famiglia: il mondo è fatto davvero. Oggi penso che mi credessero afflitto da "complessi
in un certo modo e non può essere diverso. In un mondo che, di inferiorità” e ritenessero che lo psichiatra me ne avrebbe
appunto, è "fatto in un certo modo” non c’è possibilità di guarito. L’idea che io sotto certi aspetti fosse realmente inferio­
rivolta; la rivoluzione esiste solo là dove il mondo potrebbe re, no, questa non la potevano avere, sarebbe stato pretendere
anche essere diverso. troppo. Ciò che i miei genitori intendevano per "complessi”, per
Ora voglio però presentare l’ulteriore evoluzione della mia fantasie morbose o idee fisse, non era la mia negazione del mio
malattia molto schematicamente, più schematicamente di quan­ valore, ma la mia consapevolezza, più o meno soffocata, di
to è avvenuto in realtà. Intendo cioè rinunciare alla descri­ come stavano le cose in realtà. Il dentista non cura la reazione
zione dei molti piccoli alti e bassi che si verificarono ripetuta- al mal di denti, ma il dente malato, dopo di che, automatica-
mente nel corso di più di dieci anni, per dare invece un qua­ mente, il dolore cessa; così lo psichiatra non deve curare
dro dell’evoluzione generale; le molte piccole ricadute nel ge­ i complessi di inferiorità, ma l’inferiorità stessa, perché i
nerale miglioramento, e le molte apparenti guarigioni all’in­ complessi cadano automaticamente. La mia depressione cor­
terno del generale disfacimento passeranno quindi sotto si­ rispondeva al mal di denti, e la funzione di entrambe queste
lenzio. Allo stesso modo non intendo parlare delle prime due manifestazioni morbose è di indicare la malattia attraverso il
volte in cui, per periodi relativamente lunghi, sono stato in sintomo. Ma i miei genitori non avrebbero mai potuto ac­
psicoterapia, dal momento che entrambi i tentativi non furono cettare l’idea che il loro amato, intelligente, dotato figliolo
in realtà che semplici punti di partenza per il terzo e ultimo fosse malato, e per essere esatti, psichicamente malato. L’idea
trattamento psicoterapeutico. di avere un figlio anormale non rientrava nella loro immagine

86 87
del mondo. Anch’io, per la verità, non riuscivo ad accettare
l’idea e cercavo di far credere, anche a me stesso, di essere
perfettamente normale.
Restai fedele a questa convinzione, tanto che i miei due pri­
mi tentativi di psicoterapia non riuscirono ad aiutarmi e oggi
guardo a quei tentativi come a episodi perduti fra gli infiniti
alti e bassi della storia della mia sofferenza, che non mutarono
nulla di essenziale nella mia situazione interiore.
L’essenziale della mia evoluzione di allora la potrei però
esprimere così: da un lato stavo meglio, e dall’altro sempre
VI
peggio; e quanto più stavo meglio, tanto più il male veniva
rimosso nel mio inconscio, così che la depressione si faceva I primi anni d ’università avevano portato solo un peggiora­
sempre più inspiegabile e immotivata. L’una delle due evo­ mento. Al liceo avevo ancora potuto, con ogni sorta di pre­
luzioni, cioè lo star meglio, rinvigoriva la mia maschera, le testi, tenermi lontano dalla vita, e avevo ancora vissuto sotto
dava sempre nuovi impulsi, così che mi riusciva anche più la diretta protezione della casa paterna. Continuare a vivere
facile mantenere intatta la mia facciata; l’altra evoluzione, quella in famiglia era stata una mia scelta; a casa non succedeva mai
verso il male, che correva parallela alla prima, faceva sì che nulla, lì quindi non mi poteva accadere nulla. Ma all’università
l’abisso fra i due aspetti del mio io diviso, quello vero e quello molte costrizioni caddero. Non dovevo più ubbidire agli inse­
recitato, diventasse sempre più invalicabile, così che la diffi­ gnanti; in generale trascorrevo le mie giornate a Zurigo, all’uni­
coltà, per me già enorme, a lasciar vedere qualcosa del mio versità, e mangiavo alla mensa. La casa dei miei genitori a K.
vero io, cresceva fino a diventare incommensurabile. divenne sempre più il luogo dove dormivo soltanto; la mia vera
vita si svolgeva in città. Questa libertà, in sé così piacevole,
mi costrinse però anche a constatazioni molto dolorose: di
questa libertà non sapevo che farmene. Anche la cosiddetta
allegra vita goliardica aveva le sue ombre: in primo luogo
mi fece prendere coscienza di quanto poco allegra fosse la vita
a casa nostra, e i sabati e le domeniche, che normalmente tra­
scorrevo a K., cominciarono a diventare le giornate più spia­
cevoli della settimana; in secondo luogo mi resi conto che
per il fine-settimana non avevo altra scelta che andare a casa,
perché non mi veniva in mente nulla che potesse rappresentare
un’alternativa; in terzo luogo dovetti confessare a me stesso
che anche la parte più lieta della settimana non era affatto
sempre così lieta, e che anche all’università molto spesso mi
annoiavo tremendamente e mi sentivo molto solo. In questo
senso le ore peggiori della giornata erano sempre quelle del
tardo pomeriggio. Quando non ero per caso in compagnia e

88 89
non sapevo che cosa fare, mi mettevo nell’atrio coperto del­ gli altri avessero sempre qualcosa in programma, perché non
l’università, aspettando di incontrare qualcuno e mi trovavo a appena uscivano per seguire i loro programmi, abbandonavano
dover fare una spiacevole scelta: o rompere senza indugi quel­ l’ateneo e mi lasciavano solo. La giornata più triste era sempre il
l’attesa, chiudere la giornata e andarmene a casa, cupo e rattri­ venerdì. Molti studenti stavano in città solo per frequentare i
stato, oppure tener duro, sperando che alla fine arrivasse corsi, ma vivevano altrove e il fine-settimana tornavano a casa;
qualcuno a liberarmi dalla solitudine. Molto spesso accadeva di solito partivano il venerdì pomeriggio, appena finita l’ul­
che dopo aver aspettato ore intere, arrivava veramente qualcuno tima lezione, così che al venerdì l’università si spopolava in
- ma soltanto per salutare e andarsene. Questo qualcuno di­ maniera ancora più drastica che negli altri giorni. E io mi
ceva qualche parola: come mai anch’io ero ancora lì, e poi sentivo ancora più solo e abbandonato del solito e mi vedevo
si accomiatava dicendo che doveva andare, perché aveva an­ venire incontro il fine-settimana che non avrebbe avuto nulla
cora da fare. A questo punto sono subito evidenti due cose: da offrirmi. Ho già detto quanto mi deprimeva che gli altri
quello che io aspettavo era sempre ’’qualcuno”, mai una deter­ fossero sempre tanto occupati, troppo occupati per passare il
minata persona. Nel caso di una determinata persona avrebbe tempo in mia compagnia: ma c’era di più. Dovevo ammettere
potuto trattarsi di un appuntamento e non avrei aspettato così che questi studenti, con tante attività a cui dedicarsi, erano
a vuoto; oppure avrei dovuto comunque sapere che la persona in molto più interessanti di me e sapevano tanto di più. Al liceo
questione a quell’ora non sarebbe più passata di lì perché in ero stato ”l’ozioso misterioso”; ora, d ’improvviso, ero il "po­
quel giorno della settimana non aveva lezioni o non era già vero abbandonato”, perché tutti mi salutavano e se ne an­
più all’università e alla sera comunque non aveva mai tempo. davano per le loro occupazioni. In un solo punto il passaggio
Questo immaginario qualcuno, invece, era sempre perfetta­ dal liceo all’università non aveva cambiato nulla: conoscevo
mente libero e senza impegni, come me: anche lui si annoiava moltissima gente, avevo una quantità di compagni, ma nessuno
proprio alla stessa ora e sarebbe quindi stato contento di tro­ era più di questo. Al liceo, con i miei compagni di classe ero
vare alle sette di sera un compagno di sventura nell’università sempre andato d ’accordo, ma non mi ero fatto degli amici.
deserta. Il più delle volte questo qualcuno però non si faceva All’università, avevo ora molti compagni di corso e moltissimi
vedere; l’atrio diventava sempre più deserto e silenzioso, fino conoscenti; ma più che conoscenti non erano. Avevamo tutti
a che restavo completamente solo e il mio qualcuno era diven­ scelto la stessa facoltà; seguivamo le stesse lezioni e avevamo
tato un nessuno. Allora ero proprio solo e dovevo raccogliere quindi anche gli stessi problemi di studio, di libri, di esami;
tutte le mie forze e arrendermi all’idea che, per quel giorno, io avevo molti contatti con i miei compagni di corso, ma veri
non c’era più niente da sperare e avviarmi per ritornare a casa. amici no. In compenso, c’erano i gruppi. Questi gruppi erano
Il secondo punto che salta all’occhio in queste sterili attese formati di solito da studenti che, per una qualsiasi ragione,
è che tutti i compagni che passando mi salutavano e se ne avevano l’abitudine di trovarsi fra loro e ai quali automatica-
andavano, avevano sempre ancora qualcosa da fare. Non si fer­ mente mi accompagnavo perché facevo parte dello stesso grup­
mavano con me non perché non lo volessero, sebbene anche loro po. Ma in un gruppo non ci dovevano necessariamente essere
si annoiassero, ma non potevano fermarsi perché, appunto, degli amici. Poteva accadere che i membri dello stesso gruppo
avevano qualche altra cosa che li aspettava. Io non avevo alcun diventassero amici, ma non doveva necessariamente essere così.
programma. Niente mi aspettava. Il mio unico proposito era ri­ Era piuttosto un collettivo, in cui il singolo poteva muoversi
tardare il più possibile il ritorno a casa, restando il più a senza peraltro legarsi in modo particolare. È chiaro che io ero
lungo possibile all’università. Mi sentivo avvilito al pensiero che uno di quelli che si muovevano bene nel gruppo senza intrat-

90 91
tenere rapporti personali. Il mio legame era con il collettivo, quasi tutto di quella precedente. Sì, all’università mi sentivo
cioè con il gruppo dei romanisti. I romanisti stavano sempre a casa mia, ma anche lì non vivevo diversamente da come
insieme; ed erano appunto loro i qualcuno che usavo aspettare avevo fatto prima. Era diventata la mia nuova casa, il mio
nell’atrio. Ma non erano amici. I romanisti mi piacevano, mi nuovo guscio protettivo, che lasciavo altrettanto malvolentieri
erano simpatici, ma come collettivo. Se oggi penso chi erano di quanto ero stato solito lasciare il guscio protettivo dell’inti­
allora i romanisti, devo constatare che erano la somma di molti mità familiare a casa dei miei genitori. Il più delle volte non
qualcuno, di cui non uno significava per me qualcosa di perso­ lasciavo l’università anche materialmente, nel senso più lette­
nale. Quelli che avevo l’abitudine di aspettare erano appunto rale del termine: vi seguivo i miei corsi, leggevo o scrivevo
i qualcuno di un gruppo più vasto. Ciascuno di questi potenziali nelle sale del seminario di filologia romanza adibite a questo
qualcuno era un Kromanista”, cioè un semplice rappresentante scopo, e il resto del mio tempo lo trascorrevo più o meno ozio­
del collettivo; per me, in definitiva, non aveva alcuna impor­ samente nell’atrio di cui ho già parlato, bevendo caffè. Nel mio
tanza chi era quello che alla fine mi faceva compagnia, perché tempo libero quasi mai uscivo dall’università per andare in
mi erano tutti simpatici. O meglio: nessuno mi era tanto caro città; non sentivo il bisogno di uscire, una volta tanto, da
da poter dire di preferirlo a un altro. quelle mura, sempre le stesse, al contrario, ci restavo, la­
Molto più tardi mi colpì che, una volta lasciata l’università, vorando o non facendo nulla, il più delle volte senza far nulla.
molti dei compagni di corso di allora, ragazzi che durante que­ In questi casi l’università non si distingueva in nulla dalla mia
gli anni avevo frequentato in pratica quasi quotidianamente, casa paterna, dove ora non mi piaceva più restare: mi ci an­
d ’improvviso fossero scomparsi dal mio orizzonte; non li vidi noiavo, non sapevo che fare, ma mi spaventava l’idea di lasciare
più e neppure sentii più il bisogno di vederli. Allora era diven­ quel luogo noioso e di andare fuori, perché wfuori” tutto sa­
tata un’abitudine vederli ogni giorno nel gruppo, stare con loro, rebbe stato ancora molto peggio. Così si può dire che io al­
chiacchierare, ma nel momento in cui il contatto quotidiano l’università mi trovassi a casa mia quasi per necessità; in luogo
era cessato, non ne avevo sentito la mancanza. Oggi devo confes­ della casa paterna era diventata il mio guscio, un guscio nel
sare che una quantità di persone che potrei definire i miei quale mi ritiravo per paura e anche per bisogno di protezione,
più stretti compagni di lavoro all’università, mi sono sempre e dove dovevo quindi ritirarmi anche quando nulla più di inte­
stati del tutto indifferenti; erano appunto soltanto dei *roma­ ressante o di piacevole mi aspettava.
nisti”, niente di più. Per contro, molti dei miei attuali veri amici E molto spesso in effetti all’università non c’era davvero
sono realmente stati un tempo miei compagni di studi, solo che nulla che mi aspettasse. Al liceo ero stato per lo meno uno
in quegli anni ci vedevamo appena, sia perché per ragioni per­ scolaro diligente, perché questo comportamento si era presen­
sonali essi allora non prendevano parte alla cosiddetta vita tato come quello del minimo sforzo; all’università nessuno più
goliardica, sia perché appartenevano a un altro gruppo di lavoro si occupava di sapere se studiavo o no, e così diventai molto
e ciò rendeva impossibile più frequenti contatti. pigro. A quel tempo udivo spesso ripetere la saggia massima se­
Dopo un paio di semestri di studio avevo abbandonato la condo la quale la scuola superiore insegna a lavorare bene,
germanistica per la filologia romanza. Coi romanisti mi trovavo perché poi si possa godere con intelligenza della libertà accade­
bene, mi sentivo a casa mia. In un certo senso avevo trovato mica. Per conto mio, al liceo credo di aver conosciuto solo la
una nuova famiglia, l’università era ora la mia famiglia. Sotto costrizione e non il senso dello studio, così ora della tanto de­
molti aspetti peraltro una famiglia che non si distingueva molto cantata libertà accademica in primo luogo non sapevo che fare,
da quella dei miei genitori; nella mia nuova casa avevo portato la usavo male ed ero semplicemente soddisfatto che nessuno

92 93
mi spronasse più a studiare. Per il mio far nulla trovai ben vo spesso le lezioni, non però per fare in quelle ore qualche
presto valide giustificazioni. Si sapeva bene che l’aspetto parti­ cosa di più divertente, ma per ciondolare nell’atrio dell’univer­
colare della vita studentesca era assai meno la regolarità dello sità e bere il mio centesimo caffè. (Ovviamente al buffet del­
studio, quanto piuttosto l’allégro bighellonare, e che era sen­ l’università di Zurigo alcool non ce n ’era, non per nulla
z’altro un punto a favore poter dire di usare il più possibile Zurigo è chiamata la città di Zwingli.)
di questa opportunità. Feci quindi del mio vizio una virtù Oggi quel centesimo caffè mi appare come il simbolo della
(come del resto fanno tutti, perché, in definitiva, quasi tutte le mia pseudospensieratezza goliardica: infatti non ero uno stu­
virtù sono vizi inconfessati o elaborati fino all’eleganza), ba­ dente dedito allo studio, ma dalla mia pigrizia non sapevo
dando a non perdere nulla della mia allegria fannullona e guar­ trarre maggior profitto che bere caffè (che per di più era an­
dando con disprezzo quegli sciocchi che passavano il loro tempo che pessimo). E dopo l’ultima tazza lasciavo la mia dimora
solo a studiare. Quanto alla presunta testardaggine degli sgob­ diurna e tornavo a K. nella casa paterna, dove ero ancora più
boni, il mio criterio di giudizio era estremamente presuntuoso, profondamente e più perniciosamente a casa mia.
tanto che ogni po’ di attenzione allo studio che riuscivo a sco­ Così facevo parte del gruppo dei romanisti, mi sentivo uno
prire negli altri mi pareva già un segno di secchioneria. Il più di loro. Mi trovavo all’intemo di un nucleo protettivo e quasi
delle volte exo io che proponevo agli altri di interrompere lo sempre anche all’interno del protettivo edificio dell’università,
studio per andare a bere un caffè; quando l’idea partiva da un ma il mio impegno lì dentro era guidato più dal bisogno di
altro, norr dicevo mai di no ed ero sempre pronto a piantare assoggettarmi alla mia nuova casa che di trovarvi un ruolo
il lavoro e andare con gli altri a fare una pausa. In questo modo nuovo e personale. Si ripeteva il tipo di rapporto cameratesco
la mia giornata aveva più pause che ore di studio; da un lato, che avevo già avuto al liceo: conoscevo una quantità di gente,
io stesso interrompevo continuamente il ritmo del lavoro, e godevo persino una certa fama di tipo disinvolto e buontem­
quando, una volta tanto, avevo un’ora buona in cui nulla pone, perché tutti sapevano che ero quello che si incontrava
giustificava una pausa, per mia fortuna, o sfortuna, c’era continuamente quando si andava a bere il caffè; non fui mai
sempre un altro che la proponeva, e io non avevo la forza particolarmente detestato per questo, ma c’è da dubitare che
di rifiutare e restarmene a lavorare. Così la mia vita consi­ qualcuno mi apprezzasse in modo speciale solo perché bevevo
steva prevalentemente di pause: delle mie e di quelle degli continuamente caffè. La caratteristica di queste molte ore pas­
altri. sate a bere caffè era che si faceva un gran chiacchierare, ma non
Naturalmente queste pause non mi facevano contento. Si si combinava niente. I miei compagni, come ho già avuto oc­
sarebbe potuto considerarmi uno studente scandalosamente pi­ casione di dire, avevano sempre "qualcosa da fare”. O che par­
gro e indolente, ma io sapevo anche troppo bene che non era tissero per il weekend, o che andassero a sciare, o che fossero
affatto così. Ero piuttosto uno studente modello, persino esem­ invitati dall’amica, o che facessero dello sport o suonassero il
plare, nel non prendere sul serio la vita studentesca, secondo pianoforte, era comunque sempre qualcosa decisamente più in­
la miglior tradizione. Non avevo il coraggio di essere un vero teressante che bere cattivo caffè all’università. Gli studenti
studente scapestrato. Non passavo le giornate nelle bettole, che all’infuori dello studio avevano programmi interessanti,
non mi ubriacavo, non frequentavo sale da gioco e bordelli, e cercavano naturalmente di sfruttare il più intensamente possi­
non passavo il mio tempo a sedurre giovani studentesse (che bile le ore di lavoro all’università per poi avere più tempo
sarebbe stata in effetti una possibilità e non certo delle peg­ libero per il resto. Non c’era da stupirsi, quindi, che non amas­
giori), perché per principio ero un "bravo ragazzo”. Cioè salta- sero in particolare le pause del caffè nell’atrio. Ma io non

94 95
avevo niente fuori dell’università; essa era il meglio che io piccolo pranzo. Per le vacanze non avevo bisogno di risparmiare
avessi e l’oretta al caffè doveva colmare uno spazio che avreb­ perché quelle me le pagava comunque mio padre.
be dovuto esser colmato da ben altre cose. Dopo la pausa del I miei buoni genitori mi concedevano vacanze e viaggi e li
caffè non mi aspettava altro che la noia. Ma soprattutto i miei pagavano. Questa dipendenza economica però non mi creava
compagni combinavano sempre qualcosa con i loro amici; anda­ problemi, perché dipendevo talmente in tutti i sensi dalla mia
vano insieme a sciare o a giocare a tennis o a vedere una mo­ famiglia che l’aspetto economico era soltanto un piccolo esem­
stra a Basilea; io, che ero solo, non avevo motivo di imitare in pio di un rapporto di dipendenza ben più vasto e profondo.
triste solitudine i loro programmi. Così non andavo a sciare, Condividevo lo stile di vita dei miei genitori, condividevo le
non giocavo a tennis e non andavo a Basilea a vedere delle mo­ loro opinioni e convinzioni, il loro atteggiamento negativo nei
stre; andavo invece a casa, dai miei genitori. La maggior parte confronti della vita —perché non avrei dovuto condividere an­
delle cose divertenti della vita (a parte il solitario, in cui mio che il loro denaro? Il conflitto di molti studenti che per mo­
padre era un campione, anche se, come ho già detto, sapeva tivi economici dipendevano dai loro genitori, ma nutrivano
fare solo quello dell’arpa), si fanno in compagnia; solo in com­ idee del tutto diverse dalle loro e ne soffrivano, perché non
pagnia si può essere allegri e divertirsi e, poiché io ero sempre potevano realizzare i loro ideali fintanto che si facevano man­
solo, non avevo nulla di tutto questo. tenere da un padre che aveva ideali opposti, questo conflitto
La cosa aveva inoltre un altro aspetto. Non tutti gli studenti non mi toccava. Io vedevo le cose esattamente come mio padre,
passavano il loro tempo libero a divertirsi continuamente (co­ quindi potevo accettare il suo denaro senza conflitti. Che io
me io, pieno di invidia, immaginavo che facessero); ce n ’erano non fossi abbastanza attivo per arrivare da solo a pensare che
molti che lavoravano per guadagnare e mantenersi agli studi. avrei anche potuto desiderare di guadagnarmi del denaro, mi
Questo era un aspetto della vita che ignoravo totalmente. Non pare a questo punto abbastanza compìensibile.
avevo mai dovuto lavorare per guadagnare; non capivo assolu­ Anche in questo senso ero quindi totalmente passivo; come
tamente niente di denaro e al rapporto fra denaro e lavoro non non studiavo per guadagnare, così non studiavo neppure per
avevo mai dedicato molti pensieri. Io non avevo bisogno di puro amore dello studio. Io bevevo solo caffè e chiacchieravo.
guadagnare denaro perché ne avevo già. Naturalmente, era il Oggi devo chiedermi di che cosa mai allora abbia tanto chiac­
denaro che mi davano i miei genitori. Per mia fortuna - o chierato tutto il giorno. Infatti per me le cose della vita erano
disgrazia - mio padre su questo punto era molto generoso. tutte wdifficili” e quelle che non erano difficili mi ero abituato
Mi riforniva sempre abbondantemente di denaro e inoltre pa­ a considerarle "ridicole”. In questo modo mi era facile non
gava tutte le mie spese più importanti, per esempio vacanze affrontare affatto la maggior parte degli argomenti, oppure af­
o viaggi all’estero. Dato che a casa nostra non si usava parlare frontarli con un sorrisetto ironico, e quando, malgrado tutto,
di denaro, perché il denaro era già quasi parte delle cose scon­ si dava il caso di dover sostenere un’opinione, era sempre l’opi­
venienti, non avevo una vera idea del suo valore. Ne avevo sem­ nione che avevo appreso a casa, vale a dire l’opinione di mio
pre abbastanza e potevo sempre spendere per tutto ciò che mi padre. Devo quindi supporre che se mai allora mi è capitato
faceva piacere, perché a mantenermi ci pensavano, appunto, i qualche volta di parlare sul serio, in quella tanto rara serietà
miei genitori: abitavo in casa loro, mangiavo a casa tutte le c’era il punto di vista di un vecchio. Quando invece, cosa che
volte che volevo. Se non mangiavo a casa era solo perché all’uni­ mi era assai più congeniale, non parlavo seriamente, non cioè
versità mi annoiavo di meno. Ma se quando tornavo avevo an­ come mio padre, allora non potevo essere altro che superficiale,
cora appetito, potevo sempre aprire il frigorifero e servirmi un ironico, non serio.

96 97
Ecco, credo che questa sia l’espressione che meglio carat­ duto in una situazione assolutamente insostenibile e che in­
terizza i miei anni di università: non ero serio. Non prendevo dubbiamente la cosa più importante per me sarebbe stata cer­
sul serio il mio lavoro scientifico e, quando si beveva il caffè, care immediatamente di chiarire questa mia situazione di depres­
occupazione che aveva preso il posto del lavoro, neppure i di­ sione e di sconforto. Ma non potevo andare veramente a
scorsi che si facevano lì li prendevo sul serio. Solo che la fondo della mia situazione e non volevo farlo, soprattutto
mancanza di serietà che caratterizzava la mia vita universitaria non osavo. Così restavo sempre con l’opprimente sensazione di
non era allegra e spensierata, ma maledettamente triste: mancan­ qualcosa di irrisolto, di incompiuto, che sarebbe stato tanto
za di serietà e malinconia andavano di pari passo. più importante di tutta la letteratura e la linguistica e che sot­
Mi sentivo sempre più solo e non potevo sopportare la traeva il mio interesse a tutti i temi della filologia senza però
solitudine; mi rifugiavo nella compagnia degli altri, ma che questa cosa tanto più importante venisse affrontata e
questi altri non erano mai veri amici, solo semplicemente "gli risolta.
altri” e poiché ero incapace di rapporti umani come ero inca­ Così, anche in una simile, semplicissima situazione spesso
pace di star solo, quando avevo compagnia di solito mi sentivo finivo per non trovarmi mai al posto giusto. Neppure la le­
ancora più solo di quando non ne avevo. Così mi sentivo sbal­ zione che avevo magari aspettato per tre ore la seguivo poi
lottato fra due sensazioni opposte: quando ero solo pensavo di con vero interesse. Dapprima avevo consumato la giornata
non poter sopportare la solitudine e dovevo assolutamente cer­ nell’attesa di quella lezione, e alla fine anch’essa si rivelava
care compagnia - oppure, molto spesso, magari inutilmente solo una meta fittizia. Se dopo questa frustrante fatica ne avevo
aspettare che arrivasse qualcuno a farmi compagnia; ma quando ancora l’energia, andavo di nuovo giù nell’atrio, per trovare
mi trovavo in compagnia mi accorgevo di quanto ero lontano, almeno lì un po’ di compagnia, nel peggiore dei casi per aspet­
di quanto era invalicabile la lontananza che mi separava dagli tare una ipotetica compagnia, nella disperata speranza che quel
altri. Allora più che mai mi sentivo un isolato, un outsider e giorno potesse portarmi ancora qualcosa di buono.
avevo l’impulso di abbandonare la compagnia per sfuggire al­ Come la mia giornata di lavoro era fatta solo di pause,
meno a quella sensazione di sentirmi escluso. anche il corso della mia vita era fatto solo di attesa. Come
Questo stato d ’animo cominciò a pesare anche sul mio la­ già da tempo mi ero abituato a fare, speravo sempre in imma­
voro di studente. Molto spesso andavo alle lezioni solo per non ginari "tempi migliori” che mi avrebbero liberato dalle mie
restare solo; spesso avevo ancora una lezione la sera e l’aspetta­ sofferenze. Tuttavia mi comportavo in maniera assolutamente
vo per delle ore. Quando poi finalmente la lezione cominciava, passiva e mi contentavo di sperare che il futuro mi avrebbe
non riusciva più a interessarmi, non tanto perché fosse "portato” qualcosa. Non mi veniva neppure in mente che
noiosa, ma perché non riuscivo a concentrarvi la mente. Molto avrei potuto fare qualcosa anche del presente. Devo realmente
spesso ero incapace di concentrazione anche quando l’argomento aver avuto una mostruosa capacità di speranza. La speranza
mi interessava veramente. Tentavo di seguire il discorso del è sì, una chance nella vita, ma talvolta, davanti a determinate
professore, ma i miei pensieri involontariamente si allontanavano situazioni, la disperazione sarebbe una reazione molto più sana.
da ciò ch’egli stava dicendo e si dissolvevano nell’impressione "Dall’‘aspetta’ e ‘spera’ si riconosce il matto” dice un vecchio
che la lezione non fosse poi tanto importante, che avrei avuto proverbio. Ma proprio perché non mi disperavo, ma continuavo
qualcosa di ben più importante da risolvere. Naturalmente soltanto a consumarmi inconsciamente nella mia angoscia, senza
quest’impressione era perfettamente esatta, perché inconscia­ volerla guardare in faccia, proprio solo per questo riuscivo a
mente mi ero ormai da molto tempo reso conto di essere ca- tenere ancora in piedi la finzione, l’illusione che in fondo tutto

98 99
andava benissimo e che i miei piccoli fastidi non superavano il Ci sono anche cattivi macellai, ma non per questo nessuno ha
limite del normale. Fintanto che potevo dirmi che ero normale, mai pensato di mettersi per principio contro i macellai. Anche
non credevo di dovermi seriamente preoccupare della mia si­ i cartolai sono tutti tipi piuttosto ottusi, eppure nemmeno con­
tuazione. Sotto il termine normalità però non potevo immagi­ tro di loro esiste un preciso pregiudizio.) Io credo di essere
narmi altro che la normalità borghese, e all’interno di questa an­ stato appunto un caso fra tanti. Ma ero contro gli psichiatri an­
tiquata e familiare norma, ero davvero passabilmente normale. che perché il mondo dal quale provenivo era, in generale, con­
Così non mi lamentavo della mia sofferenza interiore, che tro gli psichiatri: genitori borghesi educano volentieri i loro figli
volentieri confondevo con una mancanza di sofferenza. Meno nella convinzione che sia meglio non andare dallo psichiatra;
che mai osavo parlare dei miei tormenti di natura sessuale, perché una volta andati dallo psichiatra i figli poi non sono più
perché questo mi sarebbe costato uno sforzo ancora cento volte neppure così borghesi.
maggiore. In compenso, nella mia disperazione prendevo di tan­ A questo proposito mi comportavo come uno che ha mal di
to in tanto l’atteggiamento della maggioranza dei frustrati, che denti e ha paura del dentista: per non dover andare dal denti­
protestano perché nella vita tutto è "soltanto sesso” e ogni sta, preferisce tenersi il mal di denti. I veri grandi maestri di
tanto sostenevo anche che la sessualità "è sì importante”, ma quest’arte riescono persino a fare veramente come se non aves­
accanto a questo ci sono anche tante altre cose belle, e simili sero mal di denti e quando, masticando il pane, toccano il dente
sciocchezze. È vero infatti che ci sono anche tante altre cose guasto e non possono gridare per non tradire il mal di denti,
belle, ma è altrettanto vero che dove la sessualità non funziona, storcono la faccia dicendo che hanno urtato con uno stinco
anche tutto il resto non funziona, comprese tutte le succitate contro la gamba del tavolo.
altre bellissime cose. Ma ammetterlo avrebbe significato am­ In quest’arte ero diventato anch’io un maestro. Siccome vo­
mettere che in me non c’era nulla che funzionava e io volevo a levo a tutti i costi essere normale e a nessun costo volevo mo­
tutti i costi che tutto fosse perfettamente a posto e "normale”. strarmi infelice, mi ingoiavo tutta la mia angoscia e negavo
C’è un’altra cosa di quel tempo che voglio ancora dire: di avere dei problemi, perché intuivo vagamente che se per­
naturalmente ero contrario agli psichiatri. Come tutti i ne­ mettevo loro di esistere, i problemi mi sarebbero franati ad­
vrotici incalliti, che vorrebbero tanto essere o almeno fìngersi dosso con una spaventosa violenza che andava oltre la mia ca­
normali, avevo una spiccata antipatia per i rappresentanti di pacità di immaginazione. Se si pensa che questa mia situazione
questa strana specie, il cui compito sarebbe stato quello di psichica continuava a peggiorare, appare evidente che all’uni­
farmi sapere, appunto, che tutto ero meno che normale. Mi versità, come ho appunto detto sopra, le cose dovessero andare
riferivo spesso e volentieri al famoso detto secondo cui an­ sempre peggio. Ma a questo punto, parallela a questa evoluzione
dare dallo psichiatra vuol dire ammalarsi sul serio. In molti negativa, se ne verificò un’altra, in direzione opposta, di cui
casi può anche darsi, anzi, è sicuramente vero: chi fa di tutto oggi non so dire se per me è stata un bene o un male: cioè
per fingere di essere normale, quando lo psichiatra gli mette all’università le cose stranamente cominciarono per me ad
sotto il naso che la sua apparente normalità era solo inven­ andare sempre meglio. Cercherò di spiegarlo con qualche
tata, sul principio esce completamente di senno, si capisce. esempio.
Sono convinto che molte persone inconsciamente intuiscono che Su un punto nero che dal liceo mi ero portato all’università,
lo psichiatra appunto sa la verità su di loro e proprio per cominciò con il tempo a verificarsi un miglioramento. Non so
questo si sentono sempre in dovere di parlar male degli più quando, per la prima volta, arrivai a quell’idea rivoluzio­
psichiatri. (Che ci siano anche cattivi psichiatri è naturale. naria, ma l’idea si concretizzò e cominciai a fare ginnastica.

100 101
Da principio solo a casa mia, nel segreto della mia cameretta, mia stessa critica, ora che esteriormente ero diventato il per­
ma dopo un po’ di tempo arrivai a vincermi al punto da an­ fetto ritratto della forza fisica e della salute.
dare spontaneamente in quella ch’era stata la palestra dei miei Sembra un paradosso ma non lo è: quanto più stavo meglio,
anni di liceo e lì, come studente universitario, diventai membro tanto più mi sentivo peggio. Quanto più si allontanava da me
attivo della sezione di atletica leggera. E non solo ci riuscivo il peso opprimente dei problemi concreti e comprensibili, tanto
bene, ma mi ci divertivo. Mi colpì che mentre io facevo vo­ più incomprensibile e sinistra diventava la mia segreta con­
lentieri gli esercizi, molti altri studenti evidentemente non ci vinzione che la mia situazione era, tutto sommato, disperata.
trovavano affatto gusto, ma ci venivano soltanto per dovere, Quanto più mi avvicinavo esteriormente all’immagine che ci
considerando le ore di ginnastica come una noiosissima co­ si fa del giovanotto normale, tanto più sentivo la mancanza di
strizione. Costoro non provavano il minimo piacere nei mo­ tutto ciò che costituisce appunto questa normalità. Lo scom­
vimenti che eseguivano solo per il bene della loro salute, penso nasceva sempre meno da questa o quella carenza, ma le
senza alcun divertimento. Parevano non avere alcuna coscienza cose erano "semplicemente così”, senza motivo, una fatalità
del proprio corpo, ma considerarlo, al contrario, una fastidiosa messami addosso da un ingrato destino.
macchina alla cui manutenzione bisognava pure in qualche Sotto molti altri aspetti il mio miglioramento esteriore non
modo provvedere. Constatai che ora, all’improvviso, ero io era neppure più discutibile. Con l’andar del tempo, dall’ano­
a essere molto più sciolto e disinibito e più vicino al mio corpo nimato del "romanista”, che per lo più non studiava ma pas­
degli altri. Circa nello stesso periodo, d ’un tratto scoprii di sava il tempo a bere caffè, uscì una figura dai contorni sempre
più precisi, che all’università aveva un certo spicco. Da prin­
saper ballare, cosa che per tanti anni non ero assolutamente
cipio la constatazione non poteva che meravigliarmi, perché non
riuscito a fare.
avrei saputo quale motivazione dare alla mia popolarità; ma
Questo progresso però non mi portò soltanto il vanitoso col tempo mi ci abituai e potei accettare come un preciso dato
piacere di riuscire, ma acuì ancora di più il mio annoso con­ di fatto che i miei compagni mi apprezzavano e mi volevano
flitto. Ora non potevo più vedermi come il povero, piccolo bene. Accadeva ora sempre più di rado che dovessi aspettare ore
anatroccolo di cui si può solo dire "poverino, che misera crea­ e ore un qualsiasi "qualcuno” per avere un po’ di compagnia;
tura!”; d ’un tratto mi trovavo a essere un elegante e attraente conoscevo una quantità di gente, molti studenti erano contenti
giovanotto dall’aspetto molto, ma molto meno inibito e goffo di frequentarmi o di fare la mia conoscenza e i momenti in cui
e assai più normale di quanto fossi stato fino a poco tempo ero veramente solo divennero sempre meno frequenti. Non cre­
prima. Tanto più doveva quindi riempirmi di stupore il pen­ do che la nuova situazione che si andava lentamente creando
siero di non poter trovare un’amica. Quanto più avevo potuto abbia fondamentalmente mutato qualcosa nella mia generale
nascondermi dietro la mia immaginaria bruttezza, la mia sup­ solitudine interiore, ma da quando non avevo più tanto a sof­
posta inettitudine, tanto più ero stato sicuro di avere una frire della reale solitudine fisica, mi riusciva anche più facile
giustificazione per la mia incapacità di stabilire contatti. Ma nascondere e mimetizzare quella psichica. Di un autentico
ora, quanto più si faceva evidente che ero nei miei anni mi­ rapporto personale con un’altra persona non ero ancora ca­
gliori e avevo raggiunto il culmine dello sviluppo fisico, tanto pace, e in definitiva dei romanisti che adesso erano "tu tti” miei
più incomprensibile e inescusabile doveva apparirmi il fatto amici, nessuno lo era veramente.
di non riuscire a stabilire rapporti con le donne. Mi diventava Devo anche confessare che la qualità della mia popolarità
sempre più difficile difendere la mia salute psichica davanti alla non mi era particolarmente simpatica. Uno dei miei reali o

102 103
presunti pregi era la mia originalità. Già il concetto di originalità per un pubblico molto ristretto; ma per me erano sempre dei
mi è sempre apparso molto ambiguo. Da un lato possedevo successi. Questa modesta eppure brillante carriera divenne ben
indubbiamente una certa dose di originalità, alla quale contri­ presto il fatto essenziale della mia vita di studio, senza peraltro
buiva anche Yair d ’artiste del mio aspetto esteriore, che io, che gli studi avessero a soffrirne veramente. Delle diverse dis­
volente o nolente, continuavo a coltivare. D ’altro canto, questa sertazioni letterarie che avevo dovuto preparare, alcune erano
originalità, tanto simpatica ai miei compagni, aveva per me riuscite molto bene ed erano dei successi di cui potevo andar
tratti estremamente sgradevoli. La mia originalità era appunto fiero —oppure no, appunto. In breve, come studente riuscivo
l’espressione del mio essere diverso dagli altri, e questo "esser bene - oppure no, appunto. Fino a qual punto questi ultimi anni
diverso” lo avevo già da molto avvertito non certo come un di studio siano stati per me un bene o un male, oggi non lo
essere meglio, ma un essere peggio. Diverso ero in tutte le posso valutare. Certamente, visti obiettivamente, non furono
cose in cui ero rimasto indietro e dovevo dirmi di non essere anni cattivi, perché scrivevo dei buoni lavori, alla fine pre­
"ancora maturo” (e probabilmente non lo sarei neppure mai parai senza agitazione una tesi di laurea accettabile sotto tutti
più stato); diverso ero sempre quando mi sentivo solo e i punti di vista, andai a discuterla tranquillo e sicuro e infine
escluso, diverso ero quando si faceva strada dentro di me feci gli ultimi esami di dottorato con ottimi risultati. Mi laureai
l’intuizione che tutta la mia esistenza era sbagliata e correva con tutti gli onori. Altrettanto sicuro è che non fu male che
su un falso binario. In tal modo anche l’originalità prendeva un scrivessi commedie che piacevano a tutti e divertivano il pub­
aspetto che confinava con il patologico, il doloroso, l’abnorme. blico. Ma tutte queste piccole gioie non riuscivano che a
Ma anche per il conflitto che nasceva per me dall’originalità tenermi, di volta in volta, sempre a un paio di passi dall’abisso
trovai una via d ’uscita. Più per caso che per mia precisa volontà, che mi si apriva davanti, nel fondo del quale ribollivano tutte
si venne a sapere che scrivevo commedie per il teatro delle le mie angosce, i tormenti e le disperazioni. Ogni volta che
marionette (cosa che non meravigliò nessuno, dato che io avevo avevo fatto qualcosa di buono, qualcosa di cui potevo essere
comunque qualcosa di "artistico”), e così mi incaricarono di orgoglioso, potevo dirmi che adesso le cose cominciavano ad
scrivere qualcosa per una serata organizzata dai romanisti. La andar meglio, che avevo di nuovo fatto un piccolo progresso
commedia piacque, la rappresentazione fu un grande successo. e che "presto” avrei raggiunto quell’immaginario "stato” che
Che in seguito, un paio d ’anni dopo, compenetrato una volta andavo inutilmente rincorrendo da tutta la mia giovinezza.
di più dalla inanità e dalla patologicità del mio talento artistico, La depressione non si era allontanata, mi ero semplicemente
distruggessi quel testo insieme a tutto il resto della mia pro­ abituato meglio a conviverci, ad accettarla quando era diven­
duzione letteraria, non doveva servirmi più a nulla: ero e resta­ tata cronica. I molti successi mi rendevano più facile valutare
vo l’autore e l’interprete di un lavoro teatrale che quasi tutti i gli aspetti positivi e misurarli con quelli negativi e mi permet­
romanisti avevano visto e che aveva ottenuto un grande suc­ tevano di dirmi che, dopotutto, i due piatti della bilancia erano
cesso di pubblico. abbastanza bene equilibrati. In altre parole: da quando tante
Da quel momento era evidente che sarei stato io a dare il cose piacevoli erano venute a coprire il fondo della mia dispe­
tono alle serate dei romanisti. Scrissi nuove commedie, prepa­ razione, mi era diventato sempre più impossibile convincermi
rai nuove regie, divenni presidente dei romanisti e organizzai della falsità della mia ben recitata serenità.
tutte le manifestazioni artistiche della facoltà. I miei lavori Se pensiamo che un tale afflitto dal mal di denti cerca di
teatrali non andarono mai oltre l’ambito del pubblico studen­ consolarsi osservando come crescono bene i fiori nel suo giar­
tesco dei romanisti e venivano recitati per lo più una volta sola dino, si vede subito che le due cose non hanno nulla a che

104 105
vedere luna con l’altra. Che i fiori crescano bene o no, non in­ vano bene la materia o dovevano sgobbare duramente per su­
fluisce minimamente sul mal di denti. I fiori non sono un perare gli esami; in confronto a loro io riuscivo a fare gli
risarcimento per il mal di denti, perché il dente farebbe male esami con la massima disinvoltura e non avevo mai dovuto
anche se i fiori cadessero distrutti da una grandinata. Altret­ lottare con notti insonni passate sui testi o con momenti di
tanto poco la guarigione del dente servirebbe alla fioritura; in panico, non avevo mai dovuto ricorrere alle pillole per essere
questo caso, semplicemente, l’individuo avrebbe le due gioie lucido di mente o per calmare il batticuore.
insieme, i fiori e il dente guarito. No, per l’amico dei fiori con Non capivo che ci sono problemi di natura molto diversa.
il dente cariato c’è una sola soluzione: il dentista. Molti dei miei compagni erano cioè depressi perché erano
Questo era il mio caso. Mi dicevo che ero sì solo, ma in stati bocciati a un esame; io invece ero depresso sebbene avessi
compenso intelligente, ero sì infelice, ma in compenso avevo superato brillantemente quello stesso esame. Volevo vedere solo
una quantità di conoscenti e magari anche degli amici, ero sì ciò che avevamo in comune, vale a dire che entrambi eravamo
frustrato, ma in compenso laureato, cosa che dopotutto non depressi, ma non la differenza, cioè che la tristezza dell’altro
tutti possono dire. In breve ero disperato, ma non potevo farlo era motivata, la mia invece assurda, patologica. Esser tristi
sapere a me stesso. Quanto fosse assurdo considerare la de­ quando è andato male un esame, per il quale si è magari la­
pressione come prezzo dell’intelligenza, o i miei lavori teatrali vorato duramente per dei mesi, è normale. Ma non essere
come indennizzo per la mia solitudine (come se uno stupido contenti quando un esame è andato benissimo e ritrovarsi quel­
non potesse anche essere depresso e un intelligente anche essere la sera altrettanto depresso quanto l’altro che è stato rimandato,
contento; come se un autore teatrale dovesse necessariamente questo no, non è normale. Non avere denaro è molto triste,
non avere una donna o un amante fortunato dovesse essere ma più che comperarsi delle cose, col denaro non si può fare.
necessariamente privo di talento per il teatro) —no, tutto questo Io, in effetti, potevo comperarmi tutto quello che volevo, ma
non lo volevo vedere e con ciò non facevo che aumentare la tutti i miei acquisti non riuscivano a rendermi felice. Non ero
mia sofferenza. triste perché mi mancava qualche determinata cosa, ma ero
Un altro aspetto della mia patologia erano gli incessanti triste sebbene non mi mancasse nulla - o pareva che non mi
confronti che facevo con tutte le possibili spaventose situazioni mancasse nulla. A differenza di tante altre persone tristi, non
esistenziali dei miei compagni. Come sempre, ero incapace di avevo una ragione per essere triste; e questa era appunto la
ricordarmi chi e che cosa ero, ma volevo sempre e soltanto sen­ "diversità” della mia situazione, l’anormalità del mio dolore.
tirmi considerato come una parte che non si discostava tanto Durante le vacanze viaggiavo molto e visitai diversi Paesi
da un normalissimo tutto. Notavo che moltissimi studenti ave­ stranieri. Che naturalmente sotto molti aspetti erano ben
vano una quantità di problemi concreti che io non avevo. Molti diversi dalla Svizzera, e da turista coscienzioso mi preoccupavo
vivevano in disaccordo con la famiglia e si lamentavano di anche di constatare in che cosa erano diversi. Ma in una cosa
non trovarsi bene a casa loro. Molti non avevano denaro, do­ tutte le mie mete turistiche si somigliavano; nel fatto che
vevano fare economia, vivere molto modestamente e nel tempo non c’era paese o città straniera che riuscisse a mettermi ad­
libero andare a lavorare per mantenersi, appunto, agli studi. dosso un po’ di allegria. In Spagna il sole è più caldo che in
Molti all’università non conoscevano nessuno, erano antipatici Svizzera, ma il gelo della depressione in me non era in Spagna
o impopolari e soli e consumavano le loro serate in orribili meno angoscioso che in Svizzera.
camere ammobiliate presso delle orrende affittacamere cattive. Molto spesso le cosiddette giornate tetre di maltempo erano
Altri, invece, avevano reali difficoltà di studio, non afferra­ per me le meno insopportabili, erano quelle in cui c’era uno

li 107
scoperto e generale motivo che permetteva di essere tristi e di nivano dal fegato e che per tre mesi buoni avrebbero continuato
lamentarsi liberamente e con il consenso generale. Mi riusciva a venire di lì. Naturalmente in questo periodo non stavo né
più difficile fingere una lieta partecipazione quando qualcuno mi meglio né peggio del solito; ma questa fase si distinse grade­
diceva che era una splendida giornata d ’estate; e mi costava volmente dalle altre per il fatto che avevo una spiegazione per
assai meno sforzo consentire quando qualcuno, di cattivo la mia depressione e mi potevo raccontare che "veniva dal fe­
umore, faceva notare che la tetraggine di quel tempo orrendo gato”. Era solo una questione di fegato. Così ebbi un alibi
dava terribilmente sui nervi. Quando tutti non facevano che per un lungo periodo di tempo, durante il quale nessuno avreb­
lamentarsi della pioggia, del freddo e dell’inverno, mi pareva be potuto sospettarmi di depressione, perché a motivo della
almeno di essere meno solo nella mia infelicità. Naturalmente mia malattia avevo una sorta di salvacondotto e il dichiarato
il più delle volte era un’illusione, che si dileguava non appena diritto di essere fisicamente condizionato ed essere quindi malin­
tornava la primavera e subito rincuorava l’esercito di coloro conico quanto mi pareva.
che si rattristano per l’inverno, il freddo e la pioggia, mentre Naturalmente in questo alibi c’era molta ipocrisia, un’ipocri­
in primavera io restavo ancora più sconsolatamente solo con sia che non volevo confessare a me stesso. Avrei dovuto saper­
la mia malinconia. lo, e in una parte segreta del mio io, quella che non voleva
A questo proposito devo ricordare un breve periodo in cui sapere, sapevo anche benissimo che l’estate dell’itterizia non si
riuscii davvero, in questa ambigua maniera, a riprendermi un distingueva in nulla da tutte le mie altre estati, e che il mio
po’. Fu quando ebbi l’itterizia. L’itterizia l’avevo presa a Li­ stato d ’animo prima della malattia non era né meglio né peggio
sbona. Però già da parecchie settimane prima che scoppiasse di quello dovuto all’itterizia. Quando nei giorni di cattivo tempo
la malattia non mi ero sentito bene; ero stanco, mi sentivo affermavo che la pioggia aveva il potere di deprimermi, si
male, non avevo più energie e mi spaventava ogni piccolo trattava soltanto di un monumentale ingrandimento della mia
sforzo; tutto mi dava fastidio e avevo una tremenda malin­ generale bugia. Non occorre perciò neppure che racconti come,
conia. Nel mio caso, tale sgradevole sensazione era ancora ben dopo il termine prescritto dal medico, quando cioè, dopo la
lungi dal far pensare a una incipiente malattia, perché per me conclusione ufficiale della malattia nota come causa di malin­
non era niente di nuovo. Solo quando la malattia esplose vera­ conia, fui nuovamente gettato nel mondo durissimo dei sani,
mente, mi ricordai all’improvviso come già da molto tempo non mi ritrovi meno malinconico di prima nemmeno un po’.
mi fossi sentito stanco e infelice. Ciò che mi restò dell’itterizia fu una certa istintiva tendenza
Non fu un’itterizia particolarmente grave, quella che mi a specializzarmi di preferenza in cose tristi, perché intuivo che
costrinse in ospedale a Lisbona. Ci rimasi per dieci giorni e, le cose tristi servivano bene alle mie "manovre”. Nello stesso
secondo le regole della medicina tradizionale, mi furono pre­ modo cercavo di noa permettere alle cose liete di avvicinarsi
scritte parecchie altre settimane di dieta e di cure. Lasciai Lisbo­ troppo. Che i famosi grandi balli studenteschi, antica tradizione
na in aereo e tornai in Svizzera per fare la convalescenza. della nostra università, non fossero cosa per me, questo lo
Da un conoscente venni a sapere che tutti i disturbi epatici sapevo e quindi me ne tenevo volentieri lontano, con discre­
hanno il potere di rendere malinconici e io stesso, del resto, zione.
sapevo della classica regola seconda la quale la malinconia ha Eppure non ero affatto il tipo di persona nota per essere ostile
sede nel fegato. Da principio ciò non significò per me altro che a queste manifestazioni. Al contrario, mi ero persino fatto
il potermi prendere altre dieci settimane di vacanza dalla mia una certa fama come organizzatore di feste. Anche a questo ero
faticosa normalità. Ora sapevo che tutte le mie infelicità ve- arrivato del tutto per caso. Ero stato invitato a una festa

108 109
che poi, per particolari ragioni, non potè aver luogo e allora
avevo arrischiato una proposta: che si trasferisse tutta la fac­
cenda a casa mia, vale a dire in casa dei miei genitori. Con
mia grande sorpresa la mia proposta aveva incontrato un ge­
nerale consenso. Sorpreso lo ero stato già soltanto per il fatto
che non riuscivo a immaginare cosa significa veramente par­
tecipare a una festa. Ai tempi del liceo era stata una cosa
naturalissima, perché le feste allora non erano una cosa
alla quale io dovessi necessariamente partecipare. E ora, grazie
a un puro caso, che non sapevo se fortunato o increscioso, mi
V II
ero cacciato da solo nel ruolo dell’ospite che dà una festa e mi
chiedevo se sarei stato in grado di sostenere con generale sod- Pian piano si avvicinava il momento in cui avrei dovuto abban­
d^fazione questo difficile esame. Superai la prova, la festa donare la mia nuova dimora, l’università a cui mi univano così
a casa dei miei genitori fu considerata da tutti un successo e contraddittori legami, per dedicarmi a una professione, darmi
grazie alle ripetute richieste, l’esperimento fu ripetuto. Ac­ cioè all’insegnamento. Il distacco non fu doloroso come avevo
cadeva così di tanto in tanto che invitassi gente a casa mia, temuto dovesse essere l’abbandono dell’Alma Mater che mi
vale a dire a casa dei miei genitori, e così ebbi l’occasione di aveva custodito e protetto in tutti quegli anni. Negli ultimi
perfezionarmi nel ruolo dell’ospite. Naturalmente solo da semestri prima della laurea e del congedo definitivo dalla vita
ospite. In questa mia nuova funzione mi preoccupavo che i universitaria, feci persino un piccolo, modesto tentativo di
miei invitati si trovassero bene, a loro agio, mettevo ogni cura emancipazione dalla tradizione: cominciai a dare qualche le­
nel badare che avessero da bere e da mangiare e non riuscivo zione di spagnolo nella scuola cantonale di una cittadina vicina
a immaginare il mio ruolo che così. Seguendo un’antica tra­ e per la prima volta mi trovai a disporre di denaro che io
dizione familiare ero dunque un ospite perfetto, il che, in stesso avevo guadagnato. Avevo lasciato la casa dei miei geni­
pratica, equivaleva a dire che ero il perfetto servitore dei miei tori a K. e durante la settimana abitavo a Zurigo, in una
invitati più che un loro compagno di divertimenti e che, da vecchia, bruttissima casa che accoglieva una dozzina circa di
perfetto ospite, mi tenevo sempre un pochino in disparte da studenti. Questa bruttissima casa, dove mi mancavano tutti
quello che realmente accadeva. i comfort ai quali ero abituato, mi piaceva però in maniera
straordinaria. Era cadente, sporca, in stato di totale abban­
dono, fredda in inverno e un forno d ’estate, e per di più,
in un quartiere rumorosissimo; i ragazzi che vi abitavano erano
quasi tutti scorbutici tipi di barboni, soggetti asociali che non
avevano nulla da dirsi e che inoltre, appena potevano, non ci
pensavano due volte a derubarsi a vicenda. Un ambiente niente
affatto raccomandabile, per la verità, ma non mi dispiaceva;
e ripenso sempre volentieri all’anno che vissi laggiù. Non è
stato certo il peggiore della mia vita.
In senso generale, il distacco dall’università portò per me

110 111
un certo miglioramento. La conclusione degli studi aveva tra­ tutti i pasti ed era anche ovvio che preferissi mangiare nel
sformato lo studente in un dottore, e già questo serviva a mio delizioso appartamento piuttosto che in un "impersonale”
trasferirmi, anche soltanto esteriormente, in una sfera del tutto ristorante. Ma non erano soltanto i pasti veri e propri che
nuova. Il mutamento dalla vita studentesca all’attività pro­ consumavo solo fra le mie quattro mura; anche ogni caffè,
fessionale mi rese economicamente indipendente dai miei ge­ ogni birra, ogni bicchiere di vino, li bevevo in casa. In altre
nitori; ora il mio denaro me lo guadagnavo io e potevo farne parole: non andavo mai fuori. Non mi veniva neppure in mente
tutto quel che mi saltava in mente, senza chiedermi se per di andare in un locale pubblico, in un caffè o in un bar a bere
caso lo usavo per scopi che potevano non incontrare la loro un caffè o una birra, oppure di pranzare al ristorante in com­
approvazione. Così misi finalmente termine anche alla mia esi­ pagnia, dal momento che, appunto, a casa mia "era molto più
stenza di eterno pendolare del weekend e mi presi un apparta­ bello”. Anche questa casa era quindi diventata un guscio, quel
mento a Zurigo, nella parte vecchia della città e lo arredai guscio protettivo che lasciavo sempre soltanto a malincuore.
molto bene. In questa occasione dovetti constatare che il mio Talvolta sedevo per ore e ore a tavola, davanti ai miei pasti
gusto differiva in tutto e per tutto da quello dei miei genitori (ottimi per la verità e anche molto costosi), soprattutto la sera,
e d ’improvviso mi trovai a vivere per la prima volta in una e stavo a guardare il tramonto. Quest’abitudine me l’ero por­
casa che rispondeva perfettamente al mio gusto personale. tata appresso fin dalla mia precedente abitazione in quella ca­
Ora avevo tutto quello che volevo; avevo concluso con suc­ tapecchia. Stavo a osservare i raggi del sole morente che cade­
cesso gli studi, avevo un lavoro e una bella casa. Il caso aveva vano su un quadro sulla parete di fronte, fino a che la luce si
voluto che il mio appartamento (senza che io mi fossi dato spostava lentamente e poi il quadro cadeva in ombra e il sole
particolarmente da fare per ottenere questo privilegio) si tro­ era tramontato. Durante quel rito mi sentivo ogni volta so­
vasse nel quartiere più ambito della città e possedesse tutti praffare da una grande tristezza e avevo il cuore gonfio di
i possibili requisiti positivi: una posizione romantica nella malinconia. Naturalmente si può dire che il tramonto ha per
città vecchia, una splendida vista di sopra il groviglio dei vecchi se stesso qualcosa di malinconico e che non c’è nulla di strano
tetti, assoluta tranquillità e una quantità ancora di gradevolis­ che si provi una certa mestizia vedendo una giornata avviarsi
simi pregi. Qui ora potevo davvero stare magnificamente e alla fine e farsi incontro il buio della notte. Che questa spiega­
godermi la vita e, in un certo senso, lo feci anche e vissi con zione di tipo generico non si attagli al mio caso, va da sé. Il
molta soddisfazione in questo nuovo ambiente. tramonto era piuttosto un’occasione del tutto superficiale per
I primi anni in questa mia nuova casa portarono veramente attivare in me un dolore ben più profondo di quello che si
al suo totale compimento quella situazione che in me si andava prova per la fine di una giornata. Infatti, spesso si dava il caso
evolvendo da anni su due binari paralleli: da un lato stavo che involontariamente traducessi in parole o in versi questo
sempre meglio, dall’altro sempre peggio. Dello star meglio era stato d ’animo, e precisamente quasi sempre negli stessi versi.
perfetta dimostrazione il mio nuovo stile di vita; in quanto Erano versi tratti dal lamento funebre di Jorge Manrique, per
allo star peggio da parte mia feci, più e meno inconsciamente, la verità quasi sempre le stesse parole:
tutto il possibile perché non dovesse o potesse venire aperta­ iQué se hizo el rey don Juan?
mente alla luce del giorno. Los infantes de Aragon,
Potevano essere forse piccoli particolari, più che veri, chiari que se hicieron?x
sintomi; ma tutti puntavano nella stessa .direzione. Naturalmen­
te da principio era molto "simpatico” che mi cucinassi da solo 1 Che ne fu di re Juan? / Gli infanti di Aragona, / Che ne è stato di loro?

112 113
Il trasloco nel nuovo appartamento e i frequenti spostamen­ Parecchie altre cose dello stesso genere erano anch’esse
ti di mobili che vi apportavo fecero sì che in questo mio ri­ "semplicemente così”. Succedeva semplicemente che la notte,
tuale i raggi del sole morente andassero a cadere ogni sei mesi anche quando ero molto stanco, non riuscissi a dormire.
su un quadro diverso. I diversi quadri però erano tutti soggetti Succedeva che tutti i sonniferi non servissero a nulla e che
sereni e piacevoli. Ma quando vi cadevano sopra gli ultimi raggi minacciassi di finire con una intossicazione da alcool per gli
del sole, ogni quadro mi dava la stessa sensazione di tristezza; innumerevoli bicchierini che bevevo per conciliare il sonno
così, tanto la fotografia di un bosco quanto, stranamente, un prima di addormentarmi. Il problema non era da risolvere
manifesto teatrale con l’immagine di un clown, avevano il sul piano medico; era piuttosto una cosa "nervosa”, appunto
potere di rendermi ugualmente infelice, anche se il soggetto "era semplicemente così”.
non avrebbe dato motivo alcuno di turbamento. La tristezza Con l’andare del tempo avevo anche ricominciato a vestirmi
mi coglieva senza ragione ma con forza, con regolarità, con a lutto. Non perché fossi particolarmente triste, ma perché,
tenacia. Questi stati d ’animo col tempo non rimasero limitati d ’un tratto, il nero di nuovo "mi piaceva di più”. Tutti gli
all’iniziale rituale del gioco di luce sui quadri, ma divennero altri colori non mi piacevano più e così sceglievo automati­
sempre più frequenti e immotivati. Piano piano il lamento fu­ camente di indossare abiti neri: calzoni neri, camicie nere,
nebre lasciò sempre più spesso il posto al lamento della soli­ pullover neri, giacche nere, tutto nero. Il rapporto del nero con
tudine e - anche qui istintivamente e come se venisse da sé - il lutto è universalmente noto; solo a me pareva invece di non
cominciai a recitare i versi del cantore portoghese Martim Codax: sceglierlo per il suo simbolismo, ma per la sua eleganza. Anche
Ai, Deus, se sabe ora meu amigo, qui divenni un oggetto passivo: poiché non sapevo decidermi
Como eu senkeira estou em Vigo?1 consciamente per il colore del lutto, avvenne che tutti gli
Recitare questi versi non restava una semplice declamazione; altri colori all’infuori del nero cominciarono a non piacermi più,
sempre più essi esprimevano tristezza, tormento, solitudine. così che, per questa via traversa, venivo di nuovo riportato a
Non potrei dire che queste declamazioni fossero un fatto in­ quello che evidentemente doveva essere il mio colore: il nero.
tenzionale; venivano da sé. Credo che fosse la tristezza Anche il fatto di non andare più in vacanza era "semplice-
a parlare attraverso di me; io non dovevo metterci nulla mente così”. Come insegnante godevo di moltissime vacanze;
di mio, ero diventato uno strumento passivo della tristezza stes­ come persona sola non avevo obblighi economici di alcun ge­
sa, il mezzo con cui essa si esprimeva. Per questo non c’era nere; per di più avevo ereditato da mio padre, morto un paio
bisogno da parte mia di alcuna intenzione; mi succedeva sem­ di anni prima, un piccolo patrimonio che mi avrebbe permesso
di fare qualsiasi viaggio, sia in America che in Cina. Ma non
plicemente che le parole della tristezza mi salissero alle lab­
bra. Si sarebbe potuto riassumere questo mio atteggiamento viaggiavo mai. Sapevo che in vacanza tutto era "ancora molto
peggio” che a casa. Per me non c’era assolutamente alcuna
nelle terribili parole della fatalità: "È semplicemente così”.
ragione di rifare la vecchia esperienza, quando durante i viaggi,
Era davvero soltanto così; succedeva di continuo che mi
nei luoghi che secondo l’opinione generale erano tanto "più bel­
trovassi seduto alla mia scrivania o sul letto a pronunciare le
li”, mi accorgevo di essere ancora più depresso, più infelice
parole del lamento:
e solo che a casa.
Ai, Deus, se sabe ora meu amigo, Neppure per altre ragioni toccai il capitale lasciatomi da mio
Como eu senheira estou em Vigo? padre. Non potevo soddisfare alcun desiderio, perché non ave­
1 Ah, Dio, se solo il mio amico sapesse, / Come mi sento solo a Vigo.
vo desideri. Ero infelice ma senza desideri. Per me il denaro

115
114
non aveva alcun senso, perché nulla di ciò che avrei potuto lità come spiegazione per la mia infelice situazione valeva al­
comperare mi avrebbe dato un po’ di gioia. Non ero quindi trettanto poco quanto, a suo tempo, la scuola di ballo "sba­
un buon consumatore, perché sapevo che per me non c’era gliata” o l’eventuale cattivo tempo o l’itterizia.
nulla da comperare. Avevo perciò molto denaro ma non sapevo Però non mi lamentavo mai. Stavo sempre "bene”. Stavo
come avrei potuto spenderlo. Anche questo "era semplice- sempre così ininterrottamente bene che molta gente mi confes­
mente così”. Particolare significativo: non mi ero abbonato sava stupita di non riuscire a capire come mai tutto potesse
a nessun giornale. Non sentivo affatto il bisogno di sapere che andarmi sempre così bene. Doveva senz’altro dipendere dal
cosa succedeva nel mondo. Usavo ripetermi che di solito i fatto che io possedevo quello che si suole chiamare una felice
giornali scrivono solo un mucchio di schiocchezze (una verità natura. Oggi, direi piuttosto che avevo una natura non la­
di per sé sacrosanta, assolutamente inconfutabile), ma non oc­ mentosa. Non mi lamentavo mai di nulla. Solo quando ero a
corre certo che spieghi meglio che il vero motivo della mia casa mia, dove tutto era così bello, esplodeva nuovamente il
astinenza non era sicuramente la profonda consapevolezza lamento:
della natura della nostra stampa.
Da quanto ho detto più sopra si capisce chiaramente che Ai, Deus, se sabe ora meu amigo,
anche in quello che era sempre stato il terreno della mia mas­ Como eu senheira estou em Vigo?
sima infelicità, questi anni non avevano portato nulla di nuovo. E con il colore che da tanto tempo ormai mi piaceva così
Ero, come sempre, solo. La maggior parte dei miei amici nel straordinariamente, la tristezza esplodeva e annunciava il do­
frattempo si erano sposati, naturalmente. Ce n’erano anche di lore. Sapevo di andare in rovina per mancanza di amore, sa­
quelli che non si erano decisi per il matrimonio, ma passa­
pevo che la frustrazione e la depressione colmavano a tal punto
vano continuamente da un’amica all’altra ed erano appunto
la mia esistenza che quasi non vi restava più spazio per nient’al-
i classici scapoli, cosa altrettanto naturale. Molti avevano già
tro che l’angoscia sempre presente; lo sapevo, ma non ci cre­
dei bambini; altri non avevano bambini e non erano soddisfat­
ti del matrimonio, oppure erano già divorziati e risposati. Sol- devo. O meglio, non ci volevo credere (che forse è la stessa
tato io - naturalmente - non avevo un’amica. Anche questo cosa). Non volevo credere che la mia vita interiore era colpita
"era semplicemente così”. Naturalmente la maggior parte dei da una spaventosa desolazione, che ero un uomo psichica­
miei amici erano sposati, e altrettanto naturalmente io non mente gravemente malato, ormai quasi incapace di normali emo­
avevo ancora avuto rapporti con una donna. Non avevo mai zioni umane, che si annientava soltanto chiuso nell’involucro del­
provato sentimenti particolari per una donna, non parliamo poi la propria incapacità a uscire da una situazione di angoscia
di amore, e a incontri di carattere puramente sessuale ci ero totale; non volevo credere di non avere soltanto quel piccolo
arrivato ancora meno - naturalmente. "ramicello di follia” che hanno quasi tutti, ma un male assai
All’università, quando mi ero accorto che con le donne non più grave, e che quel mio continuare a cercar di convincermi
riuscivo assolutamente a stabilire dei rapporti, spesso mi ero che le cose "non andavano poi così male” mi distruggeva.
messo in mente di essere omosessuale, o piuttosto ero colto Forse si può vedere il mio comportamento come una reazione
dalla paura di poter essere un omosessuale. Non mi era però umana abbastanza comprensibile, in quanto nessuno riesce a
mai venuto in mente che, se anche fosse stato così, non sarei mai abituarsi all’idea di trovarsi proprio davanti all’abisso. Nessuno
riuscito a stabilire un rapporto con un uomo più di quanto si sente dire volentieri: la situazione è disastrosa. Allora non
sapessi fare con una donna. La presupposta o temuta omosessua­ conoscevo ancora la saggia massima secondo cui "solo colui che

li 117
lo ha già davvero superato, è in grado di credere che si possa ria. Voglio annotare di queste figure soltanto un paio di
superare anche il peggio”. tratti che si ripetevano con più insistenza. La maggior parte
Credo che esista una bella parola per lo stato in cui mi erano tristi. Cioè, non erano tristi a priori, ma lo diventavano;
trovavo allora: rassegnazione. Mi ero così abituato a stare la sofferenza sopraggiungeva e le sopraffaceva. Regolarmente
sempre male e mi ci ero così rassegnato, che qualche volta una di queste figure veniva colta dalla malinconia. Spesso a
neppure più me ne accorgevo. Bisogna supporre che anche un causare la tristezza non erano neppure destini avversi che la
pazzo non si renda veramente conto di essere pazzo. Quello figura doveva affrontare; la tristezza saliva piuttosto come
che crede di essere Napoleone, non si crede un matto con il una nebbia dal suolo e le avviluppava completamente. C’era
complesso di Napoleone, ma Napoleone in persona. Così co­ in queste visioni una serie di figure maschili e femminili che
minciai anche a perdere il controllo della misura della mia tri­ all’inizio della loro vicenda^erano di buon animo, senza motivo
stezza. Di notte non riuscivo a dormire, al tramonto me ne alcuno di dolore ma poi, nel corso della vita, cadevano in preda
stavo a guardare i miei quadri illuminati dal sole morente e a una talvolta motivata o appena velata o anche del tutto in­
recitavo versi di tristezza e spesso scrivevo per ore e ore la comprensibile malinconia, dalla quale non riuscivano più a li­
parola tristeza o soledad per dritto e per traverso su un foglio berarsi. Soprattutto alcune figure femminili raggiungevano in
a quadretti finché la pagina ne era tutta coperta e andavo questo senso una straordinaria grandezza allegorica e mi ap­
in giro sempre vestito di nero - ma di essere triste non l’avrei parivano sempre più, nella chiarezza della visione, il simbolo
mai detto. Ero solo e morivo dal bisogno di calore e di amore della pietrificazione della malinconia, figure di un impenetra­
e soffrivo dei miei perenni complessi di inferiorità sessuale - bile dolore. Queste figure femminili raggiungevano nella loro
ma di essere infelice o disperato, di questo non avrei mai par­ immaginaria esistenza una tardissima età, non riuscivano quasi
lato. La superfìcie rimaneva sempre ugualmente immota e se­ a morire e dovevano continuare a vivere come l’immagine del
rena, mentre dentro ero sempre più povero e vuoto. Tutta dolore e dell’infelicità.
l’energia vitale che si esprimeva ora nella sofferenza, nell’an­ Non si deve però pensare che io abbia consapevolmente
goscia, infuriava in profondità, ma a livello di coscienza la creato queste visioni. Nascevano da sole e soprattutto le sin­
scindevo, così che non poteva più neppure essere realmente gole figure erano semplicemente lì, senza che io potessi farci
vissuta. qualcosa. Quando venivano coinvolte in drammatici conflitti,
Una manifestazione quanto mai singolare che illustrava la talvolta riuscivo con la mia volontà a condizionare un poco il
mia situazione psichica si presentò in forma di visioni che mi corso degli eventi e persino a decidere la sorte delle figure se­
perseguitarono per anni interi e che fecero la loro prima condarie, se farle morire o lasciarle sopravvivere. Ma, nella
comparsa poco dopo la morte di mio padre. Non si trattava maggior parte dei casi, questi eventi si evolvevano da soli e
di singole immagini, ma sempre di intere vicende, avveni­ senza una mia consapevole partecipazione: un bel giorno, una
menti che si svolgevano senza posa, spesso in forma di storie di queste figure moriva - ed era finita per sempre. Non avvenne
familiari o sequenze di drammi dinastici, in cui, alla morte mai (come succede a tanti romanzieri che dopo aver fatto mo­
di una prima generazione, altre subentravano proseguendo le rire un personaggio, se ne pentono e lo fanno rivivere), che
vecchie storie e spesso variandole e ripetendole. Non intendo una figura tornasse in vita perché io ero addolorato della sua
qui presentare tutte le vicende o le figure più o meno roman­ morte. Il più delle volte non morivano affatto perché io lo
zesche o psicologicamente interessanti di queste vicende, per volevo, morivano senza alcun intervento da parte mia ed
dare un’eventuale interpretazione di ogni episodio o di ogni sto- erano morte per sempre. Mi era più facile lamentare la morte

118 119
di una di loro, che riuscire a farla rivivere. Allo stesso modo, sura del tempo, e non posso quindi dire che al momento in cui
non avevo il potere di ucciderle; continuavano semplicemente a si verificava un certo evento, io avevo appunto conosciuto quella
vivere, che mi piacesse o no. Ma anche se mi capitava di riuscire fase della visione. Credo però che questo mio stato sia durato
a togliere brutalmente di mezzo una di queste figure, cioè di due o tre anni, fino a quando anche l’ultimo frammento di
ucciderla veramente, non mi serviva a nulla, perché nello stesso quel mondo fu definitivamente scomparso. Dico definitiva­
istante ne sorgeva un’altra che portava avanti l’eredità della mente perché, sebbene verso la fine di quel periodo una quan­
precedente e mi opprimeva con la stessa intensità di dolore. tità di cosmiche apocalissi minacciassero quel piccolo universo,
In tutte queste visioni capeggiava soprattutto la figura della esso riusciva sempre a risuscitare, non voleva né poteva scom­
donna impietrita dal dolore. Il personaggio, che significativa­ parire. Come nella maggior parte dei casi mi era impossibile
mente raggiungeva sempre una tarda età, sopravviveva sem­ far morire una figura principale senza che subito ne sorgesse
pre a tutti i suoi contemporanei e moriva per ultimo della una simile a sostituirla, così questo intero mondo di visioni
sua epoca. Quando poi sorgeva una nuova epoca e una nuova non accettava di lasciarsi distruggere e si rinnovava continua-
generazione, immediatamente la figura della Grande Dolente mente, tanto che non potei poi spiegarmene la definitiva
si ripresentava. Talvolta, al principio di una nuova storia non scomparsa se non pensando che di propria iniziativa aveva
sapevo ancora che la figura della Grande Dolente era di nuo­ voluto scomparire, sempre senza mia partecipazione o intervèn­
vo lì, oppure non avrei saputo dire quale sarebbe stata fra to; e realmente scomparve e le visioni cessarono.
le donne della nuova generazione. In ogni caso, dopo qualche Le storie di queste visioni non le ho mai scritte; e nemmeno
tempo una delle figure ancora non ben precisate prendeva erano intese per essere scritte. Probabilmente, se tentassi di tra­
spicco sulle altre e allora sapevo: è lei. A poco a poco questa sporre sulla carta la sorte delle singole figure in forma di ro­
figura acquistava lo stesso alone di malinconia della precedente, manzo, ne verrebbe fuori la storia più noiosa del mondo, perché
anche se nel carattere era completamente diversa dall’altra. della suggestione di cui queste visioni mi colmavano, nella
Anzi, era appunto una regola che tutte queste figure femminili forma letteraria non resterebbe più nulla. Come pittore o
fossero diverse l’una dall’altra; una sola cosa avevano tutte in musicista avrei forse potuto realizzarle, in un dipinto o in una
comune: che alla fine diventavano sempre la personificazione sinfonia, ma come figure da romanzo non me le posso imma­
stessa del dolore, per così dire la divinità del dolore. ginare. Mi sono accontentato di fissare in pochi appunti i
Mentre dunque esteriormente stavo sempre "bene” e me lo tratti essenziali della sorte dei personaggi principali, per non
sentivo ininterrottamente confermare da tutti ed ero io stesso dimenticarli.
ad affermarlo, dentro di me saliva continuamente dal profondo Tutto questo mondo quindi scomparve nuovamente. Se la
l’immagine del dolore nella figura sempre diversa e pur sempre figura della Grande Dolente era realmente la mia anima che
uguale della donna infelice e dolente. Oggi credo che questa chiedeva aiuto, devo dire che il suo grido è rimasto inascoltato
figura allegorica fosse l’immagine della mia stessa anima che ed è alla fine ammutolito. L’anima, per rimanere in questa im­
mi si presentava in quella forma visibile per farmi capire la magine, era tornata in quel luogo di paura dove io respingevo
realtà della mia situazione o per domandarmi se non mi ero tutte le mie angosce e per un certo tempo riuscii nell’impresa
ancora accorto che si trovava in grandi ambasce e in grandis­ di mantenere in vita l’illusione della mia serenità, prima di
simo pericolo. Oggi mi è difficile dire quanto siano durate precipitare definitivamente nell’abisso.
queste visioni, poiché questi avvenimenti interiori non si pos­
sono mettere in rapporto con il mondo esterno e con la mi-

120 121
se due morti sulla coscienza, fosse finito per intanto in ma­
nicomio e fosse, molto probabilmente, destinato a essere giusti­
ziato, era stato comunque un uomo infinitamente migliore e più
felice di me, per la sola ragione che, dopotutto, alla prima mo­
glie un po’ di bene l’aveva voluto. Io non avevo mai voluto
bene a nessuno. Mi fu subito chiaro che due assassinii non con­
tavano niente di fronte al fatto che aveva pur voluto un po’
di bene alla prima moglie (anche se poi l’aveva regolarmente
ammazzata come progettato); e che nel mio caso era del tutto
V III indifferente che io per pura combinazione non fossi un assas­
sino, ciò che contava era solo il mio delitto, il mio non esser
Improvvisamente fu finita con l’eterno star bene. Due fatti mai stato capace di voler bene a qualcuno. L’assassino dello
singolari diedero l’avvio al mio sfacelo. Dapprima, la morte di schermo era assolto, io ero condannato.
un mio vicino di casa; il giorno precedente stava ancora benis­ Mi accorsi che la mia vita era assai peggio di quella del­
simo e avevo chiacchierato con lui, la mattina seguente fu tro­ l’assassino e sapevo che ora avevamo la morte in casa. Da quel
vato morto nella sua poltrona. Subito seppi con certezza: la momento tutto prese a precipitare.
morte è 'in casa. La casa era stata completamente rinnovata e
D ’un tratto non stavo più "bene”. La depressione ora non
restaurata prima che io e i miei vicini ci venissimo ad abitare
era più sotterranea e rimossa, ma veniva chiaramente àlla luce
un paio di anni prima. Nella sua nuova veste, quindi, la casa non
e ricopriva tutto ciò che fino a quel momento avevo ancora
aveva ancora conosciuto la morte; prima (la casa è vecchia di
secoli) tutto era stato molto diverso, così che non si poteva potuto illudermi mi facesse piacere. Mi accorsi che non c’era
neppure parlare delle stesse stanze. Ma ora essa era lì, e io assolutamente più niente che riuscisse a farmi contento e capii
ebbi la sensazione che la morte, che begli anni dopo i restauri anche quanto mi opprimessero molte cose di cui fino a quel
non aveva ancora potuto prendere possesso della casa, inten­ momento non avevo voluto prendere coscienza, e quanto in
desse rifarsi e l’avesse ora in pugno, come aveva tutte le altre. realtà mi avessero sempre oppresso. All’improvviso, la mia
Il giorno seguente vidi un film giallo. Il protagonista era anche immagine dell’uomo sempre sereno e soddisfatto veniva mes­
l’assassino, che finge di amare appassionatamente la giovane sa in dubbio; anzi, non veniva più nemmeno messa in dubbio,
moglie, ma invece l’ha sposata solo per il suo denaro e poco era già precipitata e mi giaceva damanti in frantumi. In un
dopo le nozze l’uccide. L’uomo si mostra così sconsolatamente brevissimo spazio di tempo notai che all’improvviso tutto era
disperato della sua perdita, che a nessuno viene il sospetto di nuovo esattamente "come prima”. Come prima significava
che possa essere lui l'assassino. Dopo il delitto, l’uomo vuol però d ’un tratto assai più di qualcosa di cronologico, significa­
sposare la donna che lo ha aiutato in quell’impresa, ma poi va piuttosto "come sempre”. Mi resi conto che non era che
si rende conto che, dopotutto, sì, un po’ la sua prima moglie "prima” fossi stato male e che poi le mie condizioni fossero
l’aveva pur amata. Nella lite che ne consegue con l’altra don­ andate lentamente migliorando nel corso degli anni, così che
na, in un impeto d ’ira contro di lei e contro se stesso, l’uomo col tempo ero persino stato "bene”; mi accorsi che ero sempre
finisce per ammazzare anche lei e poi viene accusato di omi­ stato male, ma che per troppo tempo non avevo voluto ac­
cidio. Dopo il film mi fu chiaro che l’assassino, sebbene aves- cettare questa realtà.

122 123
Ora accadeva sempre più spesso che quando ero a casa d ’un come se tutte le lacrime che non avevo voluto, che non ero
tratto mi mettessi a sedere sul letto e recitassi i versi: stato capace di piangere, mi si fossero raccolte nel collo e aves­
sero formato questo tumore, solo perché non avevano potuto
Ai, Deus, se sabe ora meu amigo,
Como eu senheira estou em Vigo? assolvere il loro compito, che era quello di essere piante.
Dal punto di vista puramente medico questa diagnosi così
Altrettanto spesso poteva accadere che mi trovassi alla mia poetica non ha naturalmente alcuna validità; ma riferita a tutta
scrivania e senza alcuna ragione mi mettessi a riempire con la persona esprime la verità: tutta la sofferenza che avevo
le parole tristeza e soledad un foglio di carta a quadretti, senza accumulato dentro, il dolore che avevo ingoiato in tanti anni,
fermarmi. Mi accadeva anche spesso di "non poterne più”, d ’un tratto non si lasciava più comprimere nel mio intimo;
come si dice tanto giustamente. La strada era troppo lunga, per la troppa pressione esplodeva e con k sua esplosione di­
la scala troppo alta, la borsa della spesa troppo pesante, e struggeva il corpo.
tutte le cose nascondevano in sé la possibilità di rivelarsi Questa spiegazione del cancro appare già chiara e lampante
per me un insostenibile strapazzo. Ero stanco. Esiste una perché praticamente non ne esiste un’altra. In effetti i medici
teoria secondo la quale il corpo non è e neppure può mai sanno una quantità di cose sul cancro, ma che cosa sia in realtà,
essere stanco, ma che è soltanto lo spirito che si stanca, e non lo sanno. Io credo che il cancro sia una malattia psichica
che solo la stanchezza dello spirito causa la cosiddetta stanchez­ dovuta al fatto che l’individuo che ingoia tutta la sua soffe­
za fìsica. Può darsi che si tratti dello stesso meccanismo per il renza, dopo un certo tempo viene a sua volta ingoiato dal dolore
quale si dice che colui che si lamenta perché il cattivo tempo che è dentro di lui. E poiché questo individuo in sostanza si
lo deprime è quello comunque già depresso. Probabilmente il autodistrugge, anche i trattamenti terapeutici nella maggior
posto dove dovevo andare era davvero troppo lontano perché parte dei casi non servono a nulla. Come uno si stanca eccessi­
non volevo affatto andarci, e una cosa mi appariva troppo fa­ vamente per fare una strada che in realtà non vuol fare, e come
ticosa perché in realtà non la volevo fare. Ma la ragione per una borsa della spesa appare sproporzionatamente pesante per­
cui non la volevo fare era che nulla più mi faceva piacere. ché non la si vuol portare, così il corpo distrugge esso stesso la
Quasi contemporaneamente a queste manifestazioni mi si vita umana quando questa vita non la vuol più vivere.
cominciò a formare nel collo un ingrossamento che per la Quando l’inverno fu passato, senza che i medici avessero
Verità non mi dava alcun fastidio perché non era dolente e capito di che natura era il mio tumore, fu deciso di operare,
quindi non supponevo avesse nulla di maligno. Non pensai asportare il tumore ed esaminarne la natura. Prima dell’immi­
neanche per un momento che potesse essere un cancro, e nente operazione non pensavo a nulla di grave, ma ero ferma­
quando vidi che non voleva andarsene, e anzi diventava sem­ mente convinto che l’operazione fosse per me qualcosa di mol­
pre più grosso, lo feci esaminare ai medici, senza lontanamente to necessario, e vi collegavo indistinte speranze. Era la mia
immaginare che potesse trattarsi di qualcosa di grave. Di come prima operazione e la mia prima narcosi e vi vedevo un sim­
stessero le cose in realtà non avevo ancora idea. Da un lato non bolo di morte e di rinascita. In maniera molto indefinita spe­
capivo assolutamente nulla di medicina, e dall’altro, per mia ravo che nella narcosi avrei sofferto una morte simbolica dalla
vecchia abitudine, non volevo vedere che la cosa potesse anche quale avrei potuto risuscitare a una vita migliore, più felice.
essere davvero grave. Sebbene non sapessi ancora di avere un Anche se non me la sono cavata così a buon mercato, e quella
cancro, per intuizione avevo già fatto la diagnosi giusta, per­ semplice operazione non potè portarmi né la morte né una
ché subito intesi il tumore come "lacrime non piante”. Era rinascita, tuttavia la mia speranza era giusta, in un certo senso,

124 125
in quanto dentro di me sentivo di avere un infinito bisogno medici non osano chiamare il diavolo con il suo nome, natural­
di questa morte e di questa rinascita. Intuivo di essere ma­ mente non riescono neppure a esorcizzarlo. I pazienti vengono
turo per la morte e che la mia migliore speranza poteva solo continuamente operati, irradiati, rimpinzati di medicine, ma
essere quella di trovare forse, attraverso una morte simbolica, manca la parte più importante della terapia. È noto che anche
la strada per una vita nuova e migliore. l’ultimo sciroppo per la tosse e la più insignificante pastiglia
L ’intervento si svolse senza fatica e senza dolore. Dopo possono servire soltanto quando il paziente crede nella loro
gli ulteriori esami necessari e i primi abituali tentativi dei efficacia; quando il paziente ci crede, allora gli si può sommini­
medici di occultare la natura del male, scoprii ben presto da strare anche una pastiglia di amido e guarisce. Ma in tutte le
solo, da autodidatta, di avere un cancro. terapie contro il cancro il mondo medico si rinchiude nel si­
Giacché in tutte le mie riflessioni fino a quel momento la lenzio, il paziente perde ogni fiducia nell’efficacia del tratta­
parola "cancro” non era ancora comparsa, il nome stesso della mento e di conseguenza non può guarire. Ma non solo i medici
malattia e il fatto di essere io ad averla mi procurarono un non parlano del cancro, nessuno lo fa. La parola è tabù. I miei
piccolo choc. Dico intenzionalmente un "piccolo” choc, perché poveri genitori avrebbero detto che è una cosa ndifficile”. In
di un grande choc non posso parlare se voglio davvero essere questo modo il malato di cancro è condannato a disperare
sincero. Non ne fui sconvolto, costernato e nemmeno terribil­ completamente e a morire della sua stessa disperazione.
mente sorpreso o, come si dice volentieri in questi casi, "come Per questo sono convinto che il cancro sia prima di tutto
colpito dalla folgore”, ma le mie prime parole di fronte a questa una malattia psichica e che le diverse manifestazioni tumorali
nuova realtà furono: naturalmente. Mi apparve subito chia­ siano da considerare solo aspetti somatici secondari del male,
rissimo che avevo un cancro, lo trovai subito logico e giusto; perché il cancro in realtà ha veramente tutte le caratteristiche
dovevo ammettere che era così, che doveva accadere, e che in di una malattia psichica. Di avere un raffreddore o l’influenza
fondo lo avevo anche aspettato. Cioè, non avevo espressamente si può parlare, ma di essere depresso è meglio non parlare.
aspettato proprio un cancro. Ma quando il cancro fu definiti­ (Io credo che la gente prenda il raffreddore anche perché così
vamente esploso, compresi che esso corrispondeva esattamente almeno può finalmente lamentarsi senza contravvenire alle re­
alla forma e alla natura di ciò che avevo aspettato. Sapevo che gole della buona educazione.)
non- mi ero ammalato di cancro per caso proprio in quell’inver­ Anche qui, una volta di più, credo di essermi comportato
no, ma che ero già malato da molti, moltissimi anni e che il in modo molto conforme alle regole e conforme al cancro. Sono
cancro era solo l’ultimo anello di una lunga catena, o, se si stato infelice tutta la vita e per tutta la vita non ho mai detto
preferisce: la punta emergente dell’iceberg. una parola, per la convinzione che mi veniva dalla buona edu­
La cosa terribile che mi aveva tormentato per tutta la vita cazione, che parlare di una cosa simile "non stava bene”. Nel
senza avere un nome, ora ne aveva finalmente uno; e nessuno mondo in cui ho vissuto sapevo, per tradizione, che per niente
vorrà negare che una cosa terribile che si conosce è meglio di al mondo era lecito disturbare o dare nell’occhio. Sapevo di
una cosa terribile che non si conosce. Nelle antiche formule ma­ dover essere corretto, conforme alle buone regole e soprattutto
giche il demonio viene spesso esorcizzato chiamandolo per nome. normale. Da come io però la intendevo, la normalità consiste­
Nel caso del cancro le cose non stanno molto diversamente, va nel non dire la verità, ma essere gentili. Per tutta la vita
nessuno osa pronunciarne il nome: non c’è da stupirsi che sono stato gentile e sono stato buono e per questo mi è anche
finora non lo si sia potuto vincere. Non ho ancora trovato un venuto il cancro. Ed è giusto che sia così. Trovo che qualcuno
medico che abbia pronunciato la parola "cancro”. E poiché i che per tutta la vita è sempre stato buono e gentile non me-

126 127
ri ta altro che di avere un cancro. Non è che la giusta punizione.
Anche adesso avrei avuto ancora la possibilità di essere
buono e gentile e andare in rovina in silenzio, senza scalpore.
Questa sorte mi è stata però in un certo senso risparmiata
quando nella mia malattia, il famoso e tuttavia mai menzionato
cancro, diabolico appunto, di cui di norma dopo non molto
tempo si muore, ho intravisto una forma di morte e di resur­
rezione, in cui però naturalmente la morte non è più soltanto
simbolica, ma è da intendersi come del tutto concreta. La mi­
naccia della morte mi ha fatto venire in mente che forse, nel
IX
caso mi fosse stato dato di sfuggire alla morte, avrei finalmente
avuto una chance per una autentica resurrezione, e cioè la re­ Così in fretta però il mio esser-meno-infelice non si doveva
surrezione a una vita davvero nuova, che forse non sarebbe verificare, perché prima di patire la morte concreta dovevo an­
stata più così tormentata come la precedente. Ho scritto più cora conoscere quella simbolica. Quando, cioè, con le mie ri­
sopra che trovarmi confrontato con il cancro è stato per me flessioni fui arrivato al punto di intendere l’esplosione acuta
solo un piccolo choc, dal momento che in tutta la mia esistenza del male come il primo passo di un possibile processo di morte
non avevo conosciuto altro che il cancro dello spirito; ma e di rinascita, andai dallo psicoterapeuta che già avevo conosciu­
evidentemente lo choc era stato sufficientemente grande per to negli anni precedenti, per discutere con lui la validità o meno
strapparmi alla mia rassegnazione e per lo meno per portare di questa idea. Sebbene in quei primi colloqui non avessi pen­
alla coscienza che la mia vita era insopportabile. Se è possibile sato alla eventualità di una psicoterapia vera e propria, dopo
definire il cancro un’idea, allora vorrei affermare che la mi­ alcune consultazioni nacque un rapporto psicoanalitico e l’idea
gliore idea che io abbia mai avuto è stata quella di farmi ve­ di morte e rinascita si tradusse in azione.
nire un cancro; credo sia stato l’unico mezzo ancora possibile Ora dovrebbe naturalmente seguire la parte più interessante
per liberarmi dalla disgrazia della mia rassegnazione. È chiaro di questo racconto, cioè la narrazione della mia psicoterapia.
che con questo non voglio ora dire che il cancro in se stesso Ma è proprio ciò che non voglio scrivere. Non solo perché la
sia una bella cosa. È certamente una disgrazia e porta con sé terapia non è ancora conclusa - o forse non è neppure riuscita;
molta sofferenza. Ma nel mio caso devo constatare che questa ma perché non posso aspettare a fissare i miei ricordi fino a
disgrazia è meno pesante da sopportare della disgrazia che mi che la terapia sia davvero conclusa; in questo momento non
hanno portato i primi trent’anni della mia esistenza. Probabil­ posso ancora sapere se la terapia avrà tempo di concludersi pri­
mente nessuno è molto felice di avere un cancro, e neppure io ma che io muoia di cancro. Poiché però queste pagine le voglio
lo sono; ma sono soltanto un po’ meno infelice di quando uffi­ scrivere comunque, devo farlo fintanto che sono ancora in vita;
cialmente non avevo ancora il cancro - all’infuori del cancro e quindi, essendo per il momento ancora in vita, questo reso­
dello spirito che mi è stato trasmesso per tradizione familiare. conto lo devo scrivere oray anche se la terapia non è finita e
l’analista non mi ha ancora licenziato come ”guarito”. L’impe­
dimento più grande, però, è un altro; mi pare cioè troppo dif­
ficile tradurre questo rapporto terapeutico in parola.scritta. Sono
infatti perfettamente in grado di descrivere i miei ricordi di

128 129
tempi lontani per quanto mi è dato riviverli nel presente e mente mai avuto alcun rapporto con le donne e tutta la mia
posso dire: è stato così e così, e oggi in proposito penso que­ vita era un unico, irrisolto problema sessuale. Non avevo avuto
sto e quest’altro. Posso anche mettere sulla carta i miei pen­ un "amore infelice” che poi era "finito male” perché la donna
sieri e le mie considerazioni di oggi, ma mi appare assoluta- s’era messa con un altro, ma anzi, non ero assolutamente mai
mente impossibile descrivere i vissuti di una trasformazione in­ stato innamorato e non avevo la più pallida idea di che cosa
teriore - soprattutto dato che si tratta di vissuti miei, dai quali fosse l’amore; era un sentimento che non conoscevo, come non
non ho ovviamente il necessario distacco - così che non posso conoscevo quasi nessun altro sentimento. Il mio problema
dire: ecco, ora si compie in me questa o quest’altra trasforma­ era tu tt’altro che "difficoltà con le donne”, era piuttosto la
zione, adesso sono in questa o in quest’altra fase. È possibile, totale impotenza psichica. Non ero stato in gioventù "spesso
e mi sembra persino assai probabile, che nel corso della psicote­ infelice” o "talvolta infelice”, ma da almeno quindici anni, e
rapia io abbia compiuto fin qui ogni sorta di trasformazioni e forse anche più, avevo senza interruzione sofferto di depres­
sia passato attraverso tutte le diverse fasi (anche ora sicura­ sione. Si scoprì così che la mia cosiddetta "infanzia felice” era
mente mi trovo in una fase; presumibilmente si è sempre in stata un’invenzione da parte mia, alla quale però in buona parte
qualche fase e forse non si riesce a venirne fuori senza tutte avevo io stesso creduto. Si scoprì che anche la mia ultima carta
queste fasi); ma non mi è possibile affermare che ieri ho su­ vincente era stata un fiasco: non ero "normale” come avevo con­
perato la fase tale, oggi la fase tal’altra (se non voglio cadere tinuato a ripetermi quando la somma delle discordanze della mia
nell’errore di quella studentessa di portoghese che disse che vita minacciava di soffocarmi. Le mie sofferenze non erano le
in Brasile il romanticismo aveva avuto inizio un 17 luglio). solite pietre di cui è disseminato il cammino di ogni giovane,
Voglio quindi evitare la descrizione della mia psicoterapia. ma erano, appunto, anormali, quale che sia il significato che
Da principio, del resto, essa mi portò solo momenti difficili si può dare al termine "anormale”.
e cose sgradevoli, perché tutti i ricordi che qui ho potuto scri­ In altre parole: venne fuori che non solo stavo da cani, ma
vere con tanta disinvoltura, dovettero prima essere riportati alla che ero sempre stato da cani e che portavo in me tutti i requisiti
luce nel corso della terapia stessa; dovette quindi venire alla per continuare a stare da cani anche in futuro. Mi vedevo quindi
luce la consapevolezza di come stavano le cose in realtà: in posto di fronte al dato di realtà di non essere "normale” anche
effetti io nella mia giovinezza non avevo affatto avuto, come se quando si dice "normale” subito ci si pone la domanda, che
chiunque altro, dei "problemi” o delle "difficoltà scolastiche”, cosa sia "normale” e, soprattutto, che cosa sia "anormale”. Nel
non avevo all’inizio degli studi sofferto di "problemi di adat­ mio caso significava prima di tutto che la mia vita già molto
tamento” o di "difficoltà di contatto” o di altre cose sem­ presto, probabilmente nella primissima infanzia, aveva preso una
pre nell’ordine della norma. Non avevo avuto "difficoltà di direzione che appunto non era normale. Il risultato di questo
contatto” ma avevo vissuto tutta la mia esistenza in una totale errore di impostazione, di questa stortura iniziale era stato che
assenza di rapporti. All’università non avevo avuto "difficoltà io non avevo avuto quell’evoluzione che da bambini prima e
iniziali”, diminuite poi quando avevo conosciuto molti altri poi da ragazzi, bisogna avere, non avevo percorso il cammino
studenti, ma anzi, avevo sempre avuto le stesse difficoltà, dal che percorre ogni giovane, o lo avevo fatto solo in maniera mol­
primo all’ultimo giorno. Non ero stato "talvolta anche solo”, to imperfetta rimanendo in un certo senso atrofizzato. Questa
ma anzi, per quanto posso ricordare, avevo sempre e ininterrot­ atrofia e queste deformazioni iniziali costituivano appunto la
tamente sofferto di solitudine. Non avevo avuto "difficoltà con mia anormalità.
le donne” o magari "problemi sessuali”; non avevo assoluta­ Non si poteva però neanche affermare che fossi "m atto”, così

lo 131
come di solito ci si immagina un matto, uno che ha delle allu­ come non ci si può proporre di essere intelligenti. Capita, piut­
cinazioni o compie gesti insensati. La mia intelligenza eviden­ tosto, capita semplicemente di voler bene a qualcuno. A me
temente era stata risparmiata e non si era così distorta; non però non poteva capitare perché mi mancava addirittura la ca­
sono particolarmente intelligente, ma neppure particolarmente pacità di avvertire una reazione affettiva. A un idiota non si
stupido; si può quindi dire che la mia intelligenza sia " normale”. può comandare di capire che due più due fa quattro. Nel caso
Il fatto che io abbia studiato all’università naturalmente non la carenza intellettiva sia tale da impedirgli la comprensione
dice niente sulla mia intelligenza. Per sostenere un esame di di questo elementare dato di fatto, non gli può capitare per
maturità, come si sa, non occorre essere particolarmente intel­ puro caso di capire che due più due fa davvero quattro, così
ligenti, nella maggior parte dei casi basta avere un padre ricco. che non gli può accadere di esclamare d ’un tratto: "Oh, guar­
Per lo studio alla facoltà di lettere e filosofia poi, meno che da, adesso l’ho capito!”.
mai ci vuole vera intelligenza; al contrario, essa è piuttosto Nel mio caso si doveva evidentemente parlare di una forma
di danno. In realtà filosofia è la facoltà che scelgono solo coloro di idiozia emotiva. Una carenza che mi impediva di pensare:
che non sanno che altro potrebbero fare di intelligente (il che aha, voglio bene a questa o a quella persona. Non volevo bene
di per sé non è certo una prova di intelligenza). a nessuno semplicemente perché non ne ero capace. Non mi era
Anche la capacità pratica di muovermi nella vita non mi è quindi possibile entrare in contatto emotivo con il mondo
realmente mancata. Dopotutto ho insegnato per parecchi anni esterno. Potevo muovermici da cittadino ben educato, senza
in un pubblico liceo, senza che la mia presenza di "anormale” sollevare scalpore come fa un "m atto”, ma potevo continuare
fra gli insegnanti si rivelasse insostenibile. Resta da vedere fino a muovermici solo come un corpo estraneo, del tutto privo di
a qual punto questa attività di insegnante debba essere valutata contatti.
soddisfacente o insoddisfacente; sicuramente però non va oltre Stando al vocabolario, soffrivo perciò non di quella malattia
i limiti della norma. psichica che, in senso ristretto, va sotto il nome di psicosi, ma
Malato di mente nel senso classico dunque non ero; non piuttosto di una nevrosi, che si definisce più come disturbo
ero uno schizofrenico ed ero perfettamente in grado di distin­ psichico che come malattia mentale. Ero dunque solo un ne­
guere le cose reali da qüelle irreali. Per quanto riguarda le vrotico e non uno psicotico e dopotutto questo era già da con­
visioni che ho avuto un paio di anni fa, mi sono sempre reso siderarsi come un vantaggio. Nella nevrosi si distingue fra forme
perfettamente conto di quanto di esse fosse frutto della mia gravi e forme lievi, e la mia era senza dubbio una forma grave.
fantasia e quanto invece andasse oltre. Il male ovviamente era La cosa a questo punto è perfettamente chiara, perché è nella
a un livello del tutto diverso, era nel campo che si potrebbe natura della nevrosi causare anche ogni sorta di disturbi orga­
definire dell’”umano”, o più semplicemente nel campo emotivo. nici; e dato che la mia nevrosi aveva causato un disturbo orga­
L’intelligenza era intatta e non aveva subito danni, ma tutto il nico tanto grave come il cancro, doveva per forza essere una
mio mondo emotivo era distorto e malato. Non ero in grado di forma molto grave.
provare sentimenti, soprattutto verso altre persone, non ero ca­ Ora capisco molte cose. Certo, non ero matto al punto che
pace di amare nessuno. Soffrivo moltissimo della mia solitu­ la mia vita psichica ne fosse danneggiata nella sua globalità,
dine, ma non avevo la capacità di vincerla, perché non potevo e per questo nel corso della mia esistenza mi era anche stato
propormi e tanto meno impormi di amare qualcuno. Non potevo possibile dimostrare di essere, in molte cose, appunto normale.
formulare il buon proposito: da domani vorrò bene al tale o In molti campi avevo senz’altro potuto sostenere il confronto
al talaltro. Non ci si può proporre di voler bene a qualcuno, con altre persone: per esempio non ero confuso e perciò, in

132 133
q u e sto se n so , ero certo p iù n orm ale d i certi tip i b alord i co n cu i essere n orm ale, senza lasciarm i dom in are d al terrore d i essere
m i ero trovato a con fron tarm i; n o n ero n ep pu re ister ic o e anorm ale an che in q u ello .
p erciò, in co n fro n to a u n ister ic o , m i er o sem p re co m p o rta to C iò ch e h o d e tto per il cancro vale anche per la n evrosi.
in m o d o n orm ale. In altre p arole: n ella m ia m ania d i co n fro n ­ A n ch e la n evrosi n o n è una b ella cosa e porta con sé m olta
tarm i co n tin u a m en te co n altre p erso n e , m i er o sem p re co n ­ sofferenza; m a an che se n o n si tratta d i u n m ale fisico, bensì
fron tato con lo ro n el cam p o n el q u ale sa p ev o d i cavarm ela m e­ d i una m alattia p sich ica , sapere d i ch e cosa si so ffre è p er il
g lio e d i n on essere in sv a n ta g g io . O ra n atu ralm en te cap ivo p a zien te un c o n fo rto p iu tto sto ch e u n u lteriore aggravio d ella
q u an to q u esto m io co m p o rta m en to fo sse assu rd o. In m o ltissim e sofferen za.
occasion i a v ev o p o tu to con statare ch e c ’erano p erso n e più Q u e sto fu d u n q u e il p rim o risu ltato d ella m ia psicoterapia:
stu p id e, p iù scom b in a te, p iù in e tte , p iù co n fu se di m e e di er o n e v ro tic o , e p iù p recisam en te n on lo ero da p o co tem p o ,
q u i a v ev o tratto la co n clu sio n e ch e in ta l caso n o n p o te v o m a da m o lti an ni, fo rse da tu tta la v ita . Q u esta consap evolezza
asso lu ta m en te p ensare d i essere anorm ale. Sulla stesu ra d ella m ia p ortava co n sé una con segu enza m o lto triste: la m ia v ita era
tesi d i laurea, per esem p io , n on aveva m in im am en te in flu ito il stata tu tta sbagliata. F in dalla m ia p rim issim a giovin ezza tu tte
fa tto ch e la m ia v ita em o tiv a fo sse p iù o m en o d istru tta , il le m ie azioni e le m ie d ecisio n i n on erano sta te d etta te in p rim o
fa tto ch e n el p erio d o in cu i la preparavo io a v essi v iss u to p si­ lu o g o da un n orm ale, san o b u o n sen so , m a ap p u n to da una
cologicam en te in un vero d ese rto n o n aveva n ulla a c h e v ed ere p sich e alta m en te disturbata.
co n la valid ità scientifica d ella m ia d isserta zio n e, e il p ro fesso re La cosa d i cu i d o v e v o co n vin cerm i era q uesta: per tu tta la
n on aveva d o v u to decid ere se il lau reand o aveva una v ita m ia gio v in ezza era sta to * m a tto ”, n el sen so ch e h o d e tto sopra.
psichica sana o m alata, m a so lta n to se la d isserta zio n e era b en Q u in d i p er una v ita n orm ale o fo rse p ersin o felice la m ia g io ­
fatta o no. A n ch e p iù tardi, da in seg n a n te, il m io c o m p ito n on vin ezza era orm ai irrim ed iab ilm en te perd u ta. A d e sso n on ero
era di dim ostrare ai m iei a lliev i di esser e p sich ica m en te e q u ili­ ancora un v ec ch io , m a n o n ero p iù nep pu re un ragazzo e
brato, m a d i in segn are lo r o le regole d el c o n g iu n tiv o sp a g n o lo d o v e v o accettare l ’id ea ch e n ei p rim i tre n t’anni d ella m ia esi­
e le regole d el co n g iu n tiv o sp a g n o lo le p o te v a n o ap pren dere sten za n o n a v ev o v issu to q u ella ch e co m u n em en te si chiam a
b en issim o sia da un in seg n a n te n ev ro tico ch e da u n o e m o tiv a ­ la "g io v in e z z a ”, m a a v ev o al con trario p a tito una sofferenza
m en te norm ale. p sich ica ch e m i aveva reso im p o ssib ile essere g iovan e. In o ltre
M a ora, d ’un tratto, n on ero p iù q u el d isp era to Mn o r m a le ” d o v e v o rend erm i c o n to ch e q u esta sofferenza p sich ica aveva tal­
ch e ero sta to per tre n t’anni e ch e aveva co n tin u a to a ch ied ersi m en te in d e b o lito il m io o rg an ism o, ch e ora av ev o un cancro
angosciato: m a p erché, perché per m e d e v ’essere tu tto ta n to e ch e d i q u e sto can cro, co n tu tta prob abilità, avrei d o v u to
terrib ile, se so n o norm ale? La d om an da to rm en to sa e senza m orire in b rev e tem p o ; d o v e v o q u in d i prepararm i a ll’id ea che
risposta ora era d ’im p r o v v iso scom parsa: ora sa p ev o p erché avrei p o tu to an che m orire prim a d i essere gu arito d ella m ia
n ien te aveva m ai fu n zio n a to e perché la m ia v ita era sem p re m alattia p sich ica. In altre p arole: si dava per m e la p o ssib ilità
stata un ta le torm en to . A q u e sto p u n to n atu ralm en te si p u ò ch e fo sse orm ai tro p p o tardi e ch e avrei p o tu to m orire d ella
anche ob ietta re ch e la parola * n e v r o s i” è pur sem p re so lta n to m ia m alattia p sich ica e d e lle su e co n seg u en ze organiche senza
una parola e in sé n on d ice m o lto , d o p o tu tto . A q u esta o b ie ­ aver m ai co n o sc iu to ch e c o s ’è la v ita p er un in d iv id u o n o n
zio n e p o sso rispon dere ch e in v ec e d ice m o lto , m o ltissim o : p sich ica m en te m alato.
av ev o p erd u to l ’illu sio n e d i essere " n o rm a le”, m a a v e v o anche N e llo ste sso tem p o d o v e v o accettare l ’idea ch e la m ia vita
com p reso che' in m o lti a sp etti d ella v ita p o te v o e ffettiv a m e n te era stata fin o a q u el m o m en to un fa llim en to n el sen so più

134 135
a m p io d el term ine: n o n ero p iù il b am b in o fe lic e c h e v en iva d i estran eità. D a m io padre, ch e ora è m o rto , m i v en iv a l ’im ­
da una fam iglia felice, da una b u on a situ a zio n e e da un am ­ p ressio n e ch e fo sse m o rto da sem p re, ch e addirittura n o n fo sse
b ien te sano. A n ch e se da b am b in o e da ragazzo p o te v o non m ai v issu to . La tom b a d i m io padre si trova a K . e quando
esserm en e reso co n to , l ’am b ien te n el q uale a v ev o v issu to 10 v ad o a trovare è sem p re co m e se d o v essi dirm i: "G uarda,
era t u tt’altro ch e b u o n o e san o. N o n è ora n ep p u re il ca so di guarda! L ì è se p o lto un tale ch e ha p orta to il m io stesso
d iscu tere se io , da q u ello ste sso b am b in o ch e ero , co n altri g en i­ n o m e . C h e caso str a n o !”. M ia m adre v iv e ancora e la ved o
tori avrei p o tu to essere p iù fe lic e , o se co n un altro carattere d i ta n to in ta n to . T r o v o ch e è una garbata vecch ia signora
e con i m iei stessi gen ito ri sarei sta to d iv erso o m ig lio r e, o p ­ co m e so n o a p p u n to le garbate v ecch ie sign ore d ella costa d ’oro
pure se io com e fig lio di una d iversa cla sse sociale avrei a vu to d i Z u rigo; m a se p en so c h e so n o im paren tato co n q u esta gar­
m igliori p ro sp ettiv e (tu tte d o m a n d e peraltro asso lu ta m en te bata vecch ia sign ora, il p en siero m i appare assu rd o, direi quasi
o z io se ). U n a cosa era chiara: d a to il b a m b in o c h e er o sta to ,
rid ico lo . N e llo ste sso m o d o p o trei essere im paren tato anche
con i g en ito ri e il carattere ch e a v ev o a v u to e n ella classe so­
co n l ’im peratore d ella C ina. T r o v o m ia m adre sim p atica, ma
ciale nella quale ero cresciu to , n o n ero d iv en ta to un in d iv id u o
l ’idea ch e sia m ia m adre m i pare so lta n to strana. A n ch e la casa
san o e felic e , m a un n ev ro tic o m alato d i cancro. Q u i n on è
in cu i m ia m adre v iv e , anche lì va d o ogn i tanto; è una grande
nep pu re n ecessario stare a giu d icare d i ch i è stata la colpa:
v illa 'in sp len d id a p o sizio n e , con la v ista sul lago e m o lte , m o lte
se d el m io carattere o d ei m iei g en ito ri e d ella so cietà borgh ese;
stan ze. Q u esta sp len d id a v illa è la m ia casa paterna. D i q u esto
fo rse n essu n o porta v eram en te la colp a o fo rse la colp a è di
m i rend o p erfe tta m e n te c o n to , m a l ’esp ressio n e "casa p a tern a ”
tu tti. O ra n on si trattava p iù ta n to d el p rob lem a d e lle resp on ­
m i appare u g u a lm en te assurda.
sab ilità e d e ll’o rigin e d i tu tta la m ia in fe lic ità , q u a n to assai
Fra g li a sp etti p o sitiv i ch e q uasi o g n i m alattia, e q uin d i anche
p iù d el risultato: cio è u n esser e u m an o d istru tto sistem aticam en ­
la n ev ro si, porta co n sé , c ’è p erò certam en te anche l ’id ea d ella
te e con estrem a coerenza fin dalla prim a g iovin ezza; e ora le
gu arigion e. P ro b a b ilm en te o g n i m alato spera d i p o ter guarire
co n seg u en ze d i q uesta d istru zio n e stavan o su l le ttin o d ello
psicoterapeuta e asp etta v a n o ciò ch e avrebb e d o v u to accadere. dalla propria m alattia, e co n ciò ha d avan ti agli o cch i, p iù o
m en o ch iaram en te, un d esid erio ch e è anche una m eta. M a per
E q u e sto essere um an o d istru tto ero io.
U n a prim a con segu en za di q u esta n u ova con sa p ev o lezza fu m e una m eta in q u e sto sen so era una n o v ità . A l tem p o in cu i
una sensazion e trem end a d i ab b an d on o, d i iso la m e n to , D ’im ­ cercavo ancora d i co n v in cerm i d i essere n orm ale, p o te v o sem pre
p ro v v iso se n tiv o ch e n o n v i era p iù lu o g o al m o n d o d o v e p o tessi d irm i so lta n to c h e , in fo n d o , " tu tto era a p o s to ”, anche se
sentirm i a "casa m ia ” e p rop rio q u e sto , d i trovarm i in un gu ­ n ie n te era a p o sto . M a sperare ch e u n gio rn o le co se p otessero
scio p ro tettiv o com e q u e llo d el fa m o so p aguro, era sta to il b iso ­ e sse r e m ig lio ri, d iv erse d al m io " tu tto a p o s to ” ten u to in siem e
gn o p iù p rofon d o di tu tta la m ia v ita . N o n a v ev o patria, non co n tanta fa tica , allora n on m i era p o ssib ile . O ra in v ece n ien te
a v ev o casa, n on c ’era lu o g o al q u ale torn are. N ella v ita ch e p iù era "a p o s t o ” ; ero fisica m en te e p sich icam en te gravem en te
a v ev o v issu to prim a n o n m i ero m ai se n tito al m io p o sto e m e­ m alato e ch iaram en te m in acciato dalla m o rte. M a p o ich é tan to
n o ch e m ai m i se n tiv o al m io p o sto n ella m ia v ita a ttu ale. D a 11 cancro ch e la n ev ro si so n o , alm en o in q ualche caso, anche
una piena d i sensazion i dapprim a co n tra d d itto rie, si andava gu arib ili, m i si apriva d a v a n ti la p o ssib ilità ch e anche per m e
d elin ean d o in m e sem p re p iù la certezza di n o n p o te r odiare la situ a zio n e p o te sse un g io rn o m igliorare; nasceva il p en siero
i m iei gen ito ri, il lu o g o d e lle m ie o rig in i, il m io p aese m a, in ­ ch e q u e sto tem p o d i d o lo re avrebb e anche p o tu to fin ire e che
vece d i q u e sto , m i nasceva d en tro p iu tto sto un se n so p ro fo n d o sarebbe v e n u to un g iorn o in c u i n on sarei p iù sta to m alato.

136 137
S e p erò ero sta to p sich ica m en te m alato tu tta la v ita , e se a v e sse reso ta n to p iù fe lic e . A l con trario, fin o ad ora aveva
teoricam en te esistev a ora p er m e la p o ssib ilità d i una guari­ a v u to il s o lo co m p ito d i m andare in frantum i la m ia esisten za
g io n e, c iò sign ificava ch e p o te v o esser e lib era to d alla sofferen za fin o allora v issu ta , o p er m eg lio d ire, q uella ch e io a v ev o fin o
ch e m i ero trascinato ap p resso per tr e n ta n n i e ch e a v e v o im ­ allora rite n u to essere la m ia esisten za , e q u e sto p ro cesso non
parato a v ed ere com e il reale c o n te n u to , la sostanza stessa d ella era ce rto il più ad atto a darm i serenità, m a p iu tto sto n on p oteva
m ia esisten za; v o le v a d ire ch e il to rm en to c h e a v ev o v issu to ch e aggravare la d ep ression e.
per tr e n ta n n i d ella m ia v ita n o n era a ffa tto la m ia vera v ita , Q u e l p rim o an no di p sicoterapia d iv en n e q u in d i l ’anno più
m a so lta n to l ’elem en to p a to lo g ico c h e aveva d istru tto la m ia terrib ile d ella m ia v ita , p erché prim a d i p o ter creare qualcosa
esisten za; v o lev a dire ch e m i si apriva d avan ti la p o ssib ilità di d i n u o v o essa d o v ev a d istru ggere tu tto q u an to v i era di v ec­
esistere, ch e forse la v ita m i stava ancora dinan zi e ch e avrei c h io in m e. E il v ec ch io a n d ò realm en te in p ezzi. La m ia idea,
p o tu to m agari an ch e risvegliarm i d a ll’in cu b o n el q u a le ero da p rin cip io so lo vaga, di d o v er v iv ere la m orte prim a d i poter
finora v iss u to . S e la m ia so fferen za era n ev ro tica e se una p en sare a una rinascita, si realizzò in q u el p rim o anno d i p si­
n evrosi p u ò essere guarita, q u e sto p o te v a so lo significare ch e coterap ia a tal p u n to ch e n el corso d i q u e ll’an no, fra sp aven tose
10 fo rse avrei p o tu to anche co n oscere un g io rn o l ’assenza di an g o sce e so ffe re n z e, co n o b b i veram en te la m orte, c io è la m or­
q u esta sofferenza. te d el m io io di allora. A lla fine q u e sto io fu com p letam en te
F orse. M i ren d ev o p erfe tta m e n te c o n to ch e q u e sto a v v en i­ e d efin itiv a m e n te m o rto e in e ffe tti n on n e rim ase p iù traccia.
ristico sogn o era m o lto più una ev e n tu a lità ch e una reale cer­ C iò c h e m e n e rim ase fu so lta n to u n m u cch ietto d i sofferenza
tezza. P er il m o m en to n ulla faceva p en sare ch e avrei v issu to c h e ora d o v ev a asp ettare d i rinascere, n on so com e n é quando
q u e sto ip o te tico fu tu ro . I l cancro, ch e da p rin cip io si era m a­ n é in ch e form a. L ’id ea d i una rinascita per la verità appariva
n ife sta to in q u el tu m ore alla go la - le "lacrim e n o n p ia n te ” - un p o ’ strana, p erch é p er il m o m en to i m ed ici avevan o tu tti
si era n el frattem p o e ste so e le m ie sp eranze, dal p u n to di in in te rr o tta m e n te il lo r o da fare a irradiarm i, a operare, a esa­
v ista clin ico , erano d i m o lto d im in u ite. P er il m o m e n to co ­ m in are, e a rim pinzarm i d i m ed icin e, so lo perché q uella p ic­
m u n q u e i m ed ici n on m i a v ev a n o ancora d a to p er spacciato; c o lissim a p o rzio n e d i v ita c h e ancora era rim asta in m e n on gli
sap evo p erò ch e il m ale era m o lto p ro g red ito . C om p resi anche sc iv o la sse d a lle d ita e la m orte sim b olica, cu i h o p iù sopra
ch e i m ed ici com b attev a n o co n su ccesso il m ale in una d eterm i­ a ccen n a to , n o n si trasform asse in una banalissim a concreta
nata parte d el co rp o , m a p o i il cancro ricom pariva in un m o r te p er cancro.
p u n to d iv erso e aveva c o sì sem p re una lu n gh ezza d i van taggio P ia n o p ia n o p erò si v er ificò una cosa strana, q ualcosa di
sui m ed ici. In tu iv o ch e i m ed ici da so li n o n ce l ’avrebbero fo r se già sp erato, fo rse anche p ersin o a tte so , m a tu ttavia p ut
fatta ad aiutarm i e ch e p o te v o salvarm i so lta n to se l ’in tero sem p re strano: un b el g io rn o la d ep ressio n e n on ci fu p iù . N o n
organ ism o, anim a e corp o in sie m e , a v esse p o tu to form are tanta p o sso dire: il tal g io rn o scom parve; m a len ta m en te m i resi co n to
resistenza da op p orsi e v in cere il m ale. A ltr e tta n to m i era c h e era d a v v ero scom parsa e n on tornava. N o n v o g lio co n q u esto
chiaro ch e l ’anim a per il m o m en to n o n era, a q u a n to pare, afferm are di esserm i se n tito m o lto p iù felice; ma q u esto n u ovo
ancora in grado d i o ffrire la m in im a resisten za, p erch é era sta to era co m u n q u e , lo se n tiv o , da preferire per m o lti asp etti
ancor più m alata d el corpo; e ch e lo sta to d e l corp o si aggravava al p reced en te. F o rse lo si p u ò esp rim ere così: ero c io è sì
prim a ch e l ’anim a p o te sse fare q u alcosa p er aiutarlo. in fe lic e , m a n o n m i cap itava p iù d i sentirm i affiorare alle
L e ch ances d i sop ravviven za q u in d i n on erano m o lte . P er labbra senza c h e lo v o le ssi i versi:
11 m o m en to n o n p o te v o n ep p u re d ire ch e la p sicoterap ia mi

138 139
Ai, Deus, se sabe ora meu amigo, aprire le ch iu se ch e tra tten evan o la m assa im p etu osa della
Como eu senkeira estou em Vigo? d isp era zio n e ch e m i urgeva d en tro, il m io lin gu aggio avrebbe
e n ep p u re m i ritrovav o p iù se d u to alla m ia scrivania a scrivere travalicato d i m o lto i c o n fin i di ogn i d iscorso con ven zion ale.
p er ore e o re la parola tristeza per d ritto e per traverso su un P er q u e sto m i ero d ife so ribaltando sem p re tu tto au tom ati­
fo g lio d i carta a q u ad retti. U n ’altra d ifferen za era questa: in ca m en te in allegria o addirittura n el rid ico lo , per sfuggire quan­
u n certo sen so reagivo a lle c o se in una m aniera ch e si p o treb b e to p iù p o ssib ile a ll’an goscia ch e m i m inacciava. La m ia eterna
ce rto d efin ire "più lo g ic a ” , v o g lio d ire, q u an d o p er esem p io allegria era stata q u in d i il p iù d elle v o lte tu tt’altro ch e sp on ­
v e d e v o u n film co m ic o , ora m i cap itava d i ridere perché era tanea, m a p iu tto sto il risu ltato d ello sforzo sem p re p iù d i­
b u ffo e n o n , co m e prim a, d i p ian gere sebbene fo sse b u ffo . sp erato, sem p re p iù p ro lu n gato d i dilazionare ancora un p oco
N o n o sta n te m i se n tissi ancora so lo , lo ero q u a n d o ero veram en ­ n el tem p o la ca ta stro fe ch e in com b eva su d i m e. P erciò m i
te senza com p agn ia, e n on sebbene fo ssi in m ezzo alla g en te. er o sem p re se n tito in d o v ere d i d iffo n d ere in to rn o a m e a lle­
A v e v o anche raggiu n to una certa capacità d i sen tirm i c o n ten to gria - e ci er o an che riu scito - m a c ’era un particolare che
d i q ualche cosa. C ’erano co se ch e riu scivan o p ersin o a ralle­ fin o allora n o n m i èr o m ai d ato la briga d i analizzare più da
grarm i. P arlando in sen so g en erico , si p o tr eb b e d ire c h e ora v icin o : riu sciv o a far ridere ch iu n q u e, m a io n on rid ev o m ai.
eran o m o lte d i p iù le co se ch e a v v er tiv o co m e g ra d ev o li, e an­ O ra d o v e v o valu tare la m ia allegria so tto un n u o v o p u n to
ch e le co se sgradevoli co m in cia v o a sen tirle tali s o lo n ella loro d i v ista e v en ir e alla co n clu sio n e ch e la m aggior parte della
reale d im en sio n e. P rim a tu tto era sta to " sem p licem en te c o s ì” m ia allegria d i un tem p o era stata so lta n to un b lu ff. C redo cioè
e sem p re gen ericam en te o p p rim en te: ero d ep resso sebbene d i p o ssed er e v era m en te il ta len to d i d ire o scrivere co se di­
p io v esse e sebbene ci fo sse il so le . O ra co m in cia v o a essere ca­ v e r te n ti e p en so c h e q u e sto ta len to , co m e ogn i ta len to , sia in du b ­
pace d i sen tirm i c o n te n to perché c ’era il so le e d i arrabbiarm i b ia m en te da valu tare p o sitiv a m e n te. S o lta n to ch e era sb agliato
perché p io v ev a . S e prim a d u n q u e n u lla a v eva p o tu to aiutarm i trarne la co n clu sio n e ch e io fo ssi per q u esto un u o m o allegro.
q uan d o il tem p o p io v o so si trasform ava in b el tem p o , p erché T a n to p o co ero n orm ale, sem p licem en te perché n on m i com ­
la d ep ressio n e su ssistev a ap p u n to m algrad o il so le , ora il m io p o rta v o p o i in m o d o ta n to anorm ale, altretta n to p o co ero una
m alum ore per la p ioggia spariva in m aniera d e l tu tto naturale p erso n a allegra e sp en sierata so lo perché sp esso m i cap itava di
quan do n on p io v ev a p iù . S o tto m o lti a sp etti d o v e tti con statare d ire co se d iv er te n ti. U n p itto re ch e d ip in g e sem p re b elle d on n e
ch e la parola " n o rm a le” era p iù d i un sem p lice c o n c e tto astratto n o n d e v e p er q u e sto n ecessariam en te essere u n b e ll’u o m o . C osì
e ch e in m o lti casi co m in cia v o a reagire in m aniera m o lto più d o v e tti sep p ellire il m io fig lio lin o p red iletto , cio è l ’illu sio n e di
" n o rm a le” d i q u an to a v essi fa tto prim a. e sse r e u n u o m o allegro.
Im parai an ch e ad apprezzare u n altro a sp etto d ella m ia per­ M a per tornare al tem a d e ll’in feriorità, ora n on si p oteva
son alità, cio è q u ello d iv e r te n te . P er tu tta la v ita so n o sta to p iù n egare ch e io so tto certi a sp etti fo ssi realm en te in feriore,
co n sid era to la p ersona trad izion alm en te d iv er te n te, e l ’allegria n on so tto tu tti, m a certo in u n o alm en o m o lto im p ortan te, forse
era sp esso l ’etic h e tta ch e m i ap p iccicavo a d d o sso o la bandiera p ersin o il p iù im p o rta n te. N o n si p o te v a p iù negare ch e in
so tto cu i m ilita v o . O ra co m p ren d ev o c h e la m ia allegria in fo n d o a v ev o a v u to p erfetta m en te ragione n el sen tirm i in linea
m o lti casi n o n era stata ch e l ’in v o lu cro d i cu i ricop rivo la d i m assim a in tu tto e p er tu tto sem p re un esclu so , n el sentire
m ia tristezza. D i co se tristi o an che so lta n to d i c o se serie c h e tu tto c iò c h e la v ita m i aveva finora o ffe r to erano state
n on ero m ai sta to capace d i parlare, p erch é la tristezza ch e mi in fo n d o s o lo c o se seco n d a rie, ch e n on p o tev a n o in n ulla m o­
p o rta v o d en tro era co sì en o rm e c h e , se m i fo ssi p erm esso di d ificare la grande v erità , e c io è ch e m i era sem p re m ancata

140 141
la cosa p iù im p ortan te d ella v ita . U n a v o lta ch e fu i arrivato al in sie m e rap p resen tan o la g lob alità d e ll’in d iv id u o , co sì n on si
p u n to d i pronunciare le p arole "la co sa p iù im p o r ta n te ” , fu p u ò d istin g u ere l ’am ore in " sp iritu a le” e " fìsico ”, o in " p latoni­
anche su b ito chiaro ch e co sa era q u esta cosa "più im p o r ta n te ” : c o ” e " sessu a le” e n o n si p u ò stab ilire una d ifferen za, una lin ea
l ’am ore, n atu ralm en te. Q u e sto p er m e n o n era peraltro una cosa d i dem arcazion e fra l ’am ore e la sessu alità. E tan to per ricordare
n u ova, perché lo a v ev o sem p re sa p u to e ch iu n q u e m i ab bia le tto ancora una v o lta F reu d , co lu i ch e p er una ragione qualsiasi n on
sin q u i, fin dalla prim a pagina sa in ch e co sa co n siste v a la m ia v u o le p ronunciare la p arola " am ore” dica " sessu a lità ” ; e ch i
m alattia. ha q u alcosa a ridire sulla parola " sessu a lità ” ch e in n o m e d i
E ppure per m e era d a v v ero una co sa n u ova. H o in q u e ste D io d ica allora " a m o re”.
pagine rip etu ta m en te p arlato d el n on-sapere e d e l n on -voler- P er servirm i co m u n q u e una v o lta d i p iù d e llo stile d el n o ­
sapere e h o anche d e tto ch e, q u an d o si v ie n e a sapere u n a co sa str o lin g u a g g io q u o tid ia n o , ch e in certi casi p referisce dire
n uova, prim a d i p oter v eram en te d ire d i saperla, b iso g n a averla am ore, in altri sessu a lità , p o sso so lta n to con ferm are ch e in
v olu ta sapere. P er tu tta la v ita io a v ev o sem p re cia n cia to di en tram bi q u e sti cam p i ap p aren tem ente d iv ersi h o u gu alm en te
" d iffico ltà in a m o re” senza con fessarm i ch e avrei an che p o tu to fa llito . In altre p arole: n o n h o m ai v o lu to b en e a n essu n o e
sem p licem en te d ire ch e ero d istru tto e m o riv o per m ancanza n o n h o m ai a v u to rapporti sessu ali co n n essu n o , il ch e torna
di am ore. Q u an d o u n o m uore d i fa m e, n on si usa d ire ch e alla ap p u n to a esser e p o i la stessa co sa , q u e llo cio è ch e si in ten d e
fin e d ella sua esisten za ha a v u to " d iffico ltà d i a lim e n ta z io n e ”, co n la parola am ore. N a tu ralm en te n on ero n orm ale; natural­
si d ice sem p licem en te ch e è m o rto d i fam e. Q u a n d o d i m e ste s­ m e n te ero in fe rio re - e p er q u esta ragione, ap pu nto. D ’im ­
so d ice v o d i avere " d iffico ltà in a m o r e ” l ’esp ressio n e v a lev a p r o v v iso tu tto pareva c o sì elem en tare, ch e d e v e effettiv a m e n te
q uan to q u ella d i u n o ch e avesse d e tto d i avere " d iffico ltà di riuscire in co m p ren sib le c h e io abbia a v u to b iso g n o d i quasi
fo rm a ” p erché era fin ito so tto u n ru llo com p ressore. tr e n t’anni p er scoprire una verità co sì elem en tare. M a q u i vor­
N o n a v ev o altra scelta ch e am m ettere d i n o n aver a v u to rei rip etere c h e p er m e, a p p u n to, n on era affa tto elem en tare,
le co sid d ette " d iffico ltà ” , m a d i aver co m p leta m en te fa llito e p recisa m en te p er la gravità d elle su e co n seg u en ze. T u tti
nella cosa p iù im p orta n te d e ll’esisten za um ana, e c h e p erò sa n n o ch e le m ele m atu re h an n o la ten denza a cad ere dagli
n on sop p ortavo q u esta carenza c o sì essen zia le e p er q u e sto alberi e p o sso n o cad ere an che sulla testa d i ch i sta s o tto . M a
ero d iv en ta to m a tto (o ap p u n to n ev ro tic o , ta n to p er u sare se una m ela m atura cad e sulla testa di N e w to n , lu i scopre la
q u esto tan to p iù b en ed u cato eu fe m ism o ), e c h e q u esta m ia le g g e di gravità e su q u e sto sem p licissim o d ato d i fa tto fonda
fo llia aveva p o i m esso in m o to il cancro ch e era ora in p ro cin to la fìsica m odern a. La m aggioranza d ei fa tti son o sem p lici ed
d i d istru ggere il m io organ ism o. elem en ta ri e gen era lm en te n o ti; im p ortan ti d iv en ta n o so lta n to
C he c o s ’è l ’am ore, n o n occorre stia ora a sp iegarlo. D ’a ltro q u a n d o se n e scopre la portata.
can to il v o ca b o lo am ore da d u em ila anni in qua è sta to ta n to E c iò ch e io ero in p ro cin to d i scoprire era appu nto q u esta
usato a sp ro p o sito e strapazzato e g e tta to n el fa n g o da q u ella p ortata d e lle co se . M i resi c o n to ch e si p u ò fallire in tu tte le
in fau sta se tta ch e ancor o g g i g o d e fam a d i essere la p rin cip ale p o ssib ili m aniere; n o n è p o i così grave. M a su l p ian o sessu ale
religion e d el co sid d etto O c cid en te, ch e in v erità n o n d o v reb b e n o n si p u ò fa llire, perché è una vergogna im perd onab ile. M i resi
far m eraviglia ch e al g io rn o d ’o g g i p iù n essu n ab itan te di c o n to d i urtare q u i un tabù m o lto p iù p rofon d o e an tico di
q u esto n o stro O ccid en te cristia n o sappia c h e c o s ’è in realtà q u e llo su p erficia le d el m o n d o b orgh ese, d i tip o v itto ria n o .
l ’am ore. E ppure tu tti lo san n o. C o m e l ’anim a e il corp o n o n I l fa tto è c h e n o n si parla d e ll’am ore, l ’am ore è tabù e b iso ­
si p o sso n o separare e l ’u n o in flu isc e s u ll’altro e lo co n d izio n a e gn a fare co m e se n o n e sistesse , perché q u esta è ap p u n to la

142 143
m oda d el n o stro tem p o . P erò in am ore n o n si p u ò essere b ru tta e sg ra d ev o le, certo , ma a ssolu tam en te non " d iffic ile ” .
d ei fa lliti; ch i n on è capace d ’am ore, n o n e siste . U n u o m o ch e P o sso an che accettare m o lto b en e una teoria tan to sem p lice
n on è u n u o m o , n on è n ien te. N o n se n e parla ap ertam en te co m e q u ella d i W ilh e lm R eich, ch e in q u an to a sem p licità non
perché il tem a è , ap p u n to, tabù , ma in silen zio si è tu tti d ’ac­ lascia d a v v ero n ulla a desiderare. R eich d istin g u e in lin ea di
cord o. La sessu alità è to ta lm e n te rim ossa co m e argom ento p rin cip io so lo d u e fattori esisten ziali: la con trazion e da d isg u sto
d i con versazion e nella so cietà b o rg h ese ma essa rappresenta e il rilassam en to da p iacere, in d ip en d en tem en te d al fa tto che
il m etro reale con cu i tu tto è m isu rato, v a lu ta to , g iu d ica to . N e s­ si tratti d i u n organ ism o m on ocellu lare o d i un essere um ano.
su n o n e parla, ma tu tti lo san n o. N e ssu n o n e parla e tu ttavia, I l p o v ero o rgan ism o m on ocellulare o v v ia m en te n on p u ò far
dal p rin cip io d ei tem p i, n o n si parla d ’altro: da q u a n d o è stata altro c h e con trarsi e p o i n u o v a m en te d isten d ersi, e co n ciò ha
in ven tata la scrittura, la letteratu ra n o n co n o sc e altro tem a già co lm a to il su o cam po d ’azione (se colm are n on è già ecces­
al d i fuori di q u esto: la sessu alità co n ta p iù d i o g n i altra cosa. s iv o n el caso di un organ ism o m o n ocellu lare). E l ’u o m o , che
C h e si accenda la radio e si a sco lti la p iù banale d e lle ca n zo n ette n o to ria m en te è già " d iffic ile ” ? In realtà anche lu i n on fa
o che si leggan o le p arole d eg li E le tti n el c o sid d e tto L ibro dei altro ch e talv o lta contrarsi e ta lvolta in vece rilassarsi, d isten d ersi
L ibri, n on si sen te m ai altro ch e q u esto : ch i n o n p o ssie d e n el p iacere. S eco n d o R eich l ’orgasm o è la form a p iù pura e
l ’am ore n on è ch e b ron zo son an te o un cem b a lo sq uillan te. più to ta le d i d iste n sio n e p ositiva; una con trazione altrettan to
A q uan to pare p erò n o n so n o so lo io a rifiutarm i d i accettare to ta le d e ll’o rgan ism o in d u ce un im p o v erim en to p sich ico e un
q u esta p rim ordiale verità , l ’intera so c ietà si rifiuta di farlo. d ep erim en to co rp oreo p er cu i i sin g o li organi non riesco n o più
Q u an d o F reud agli in izi d e l n o stro se c o lo p u b b licò la sua teoria n ep p u re a d ilatarsi in giu sta m isura, a respirare b en e e neanche
in b ase alla q u a le tu tta l ’esisten za um ana è so sta n zia lm en te fatta ad avere la giu sta irrorazione sanguigna e q u esto con d u ce al
d i sessu alità, tu tti si in d ign aron o d i sen tir tradurre in p arole la cancro. L ’u o m o co n tra tto assom iglia q u in d i a q u e ll’organ ism o
verità ch e co n o scev a n o da un pezzo. m on ocellu lare c h e si con trae e si rattrappisce senza più sapersi
U n o sc ettico a q u e sto p u n to p o treb b e ch ied ersi se tu tta la d ilatare. C he da q u e sto nasca p oi u n cancro, è p iù ch e logico.
q u estio n e sia p o i d av v ero co sì sem p lice da p oterla esp rim ere S eco n d o R eich q u in d i l ’orgasm o e il cancro so n o le d u e m anife­
in p o ch e parole. P rob a b ilm en te sia m o tu tti d eg li sc ettici, perché sta zio n i p iù pure d ei d u e sin g o li co n ten u ti esisten zia li. D e v o
tu tti siam o abituati ad accettare assai m a lv o len tieri le verità am m ettere ch e, form ulata in q u e sto m o d o , la cosa appare estre­
più sem p lici. M o lto sp esso q u a n d o si scopre ch e una cosa è m a m en te se m p lice e sicuram ente per m oltissim a g en te sarà
m o lto sem p lice, su b ito nasce i l so sp e tto ch e ci sia qualcosa tro p p o p o co " d iffic ile ”. N o n vorrei to g liere a n essu n o il piacere
d i sb agliato, p erché n o n è p o ssib ile c h e sia c o sì sem p lice. N a ­ d e lle co se d iffic ili, ma cred o ch e in fo n d o la teoria di R eich
turalm ente il credere o n o una co sa se m p lice è anche una tocch i v era m en te il n u cleo fon d am en tale d ella q u e stio n e . Chi
q u e stio n e d i tem peram en to. N e lla m ia fam iglia, ad esem p io , n on v u o l p ren d ere la teoria alla lettera , p u ò anche farlo c u m
era ab itu ale supporre ch e le c o se fo sser o , in lin ea d i m assim a, g r a n o s a l i s ; p erso n a lm en te n on cred o ch e fra le d u e p osizioni
'’d iff ic ili” ; in q u an to a m e io ten d o p iu tto sto a p en sare ch e le esista una grande d ifferen za. N o n vorrei n em m en o afferm are
co se sian o sem p lici, m a ch e p er lo p iù n o n si v o g lia am m ettere ch e tu tto sia sem p re fa cile co m e un g io c o da b am b ini o che
q u an to sem p lici so n o in realtà. l ’intera esisten za d e ll’in d iv id u o sia da con siderarsi s o lo un
La m ia v ita e la storia d ella m ia m alattia, p er fare un esem ­ g io c o da b am b in i (le m ie p ersonali esp erien ze m i h ann o co n v in to
p io , n on m i sem bran o a ffa tto co m p lica te, an zi, m i ap paion o ch e la v ita n o n è a ffa tto un g io co da b a m b in i), ma cred o che
co m e la cosa più sem p lice d el m o n d o . U n a situ a zio n e m o lto in m o ltissim i casi si p o treb b e v ed ere l ’elem en to d ella sem p li-

144 145
cita se non ci si in testa rd isse a v o le r a tu tti i c o sti v ed ere le resta da v ed ersi; m a la p rob abilità ch e si sv o lg a in m aniera
co se "d iff ic ili” . m en o p a to lo g ica è grande.
A lla fine la co n clu sio n e fu q u esta: la m ia situ a zio n e era sì S e in v ec e m orirò prim a d i essere gu arito, allora v u o l dire
m o lto triste, ma n on v eram en te con fu sa. L e m ie p o ssib ilità c h e m i è v en u ta a m ancare q u e st’u ltim a chance. In tal caso
n on erano m o lte n é m o lto p o sitiv e , m a n o n a v ev o ancora per­ sarò sta to d istr u tto dal m ale, senza aver avu to la p ossib ilità
d u to co m p leta m en te la partita. N o n ero gu arito, m a esistev a d i co n o scere d ella v ita altro ch e l ’a sp etto p a to lo g ico . A nche
una ev en tu a lità ch e p o te ssi guarire. A ltr e tta n to p o ssib ile era q u e sto è p o ssib ile . M o lti m ilio n i d i negri e di in diani m u o io n o
ch e n on p o tessi guarire e ch e m orissi. F in ora i m ed ici erano o g n i an no di fam e, d i e p id em ie o di q ualche carenza senza un
riusciti a im p ed ire ch e le sin g o le m a n ifesta zio n i tum orali m i la m en to e an che lo r o n on h ann o a v u to l ’o cca sio n e b uon a per
m ettessero veram en te in p erico lo d i v ita , ma la m alattia n on sa lvarsi. C redo p erò ch e ci sia una d ifferen za sostan ziale fra
l ’avevan o ancora p otu ta guarire. A n c h e la p sicoterap ia m i aveva u n o di q u ei negri e m e. Il n egro è sem p licem en te d iv o ra to dalla
a iu tato a far lu ce n el caos d ella m ia m alattia p sich ica, m a anche leb b ra , dalla p e ste o dalla fam e, senza ch e il sin g o lo in d ivid u o
da q u esta m alattia non ero ancora gu arito. si renda v era m en te c o n to d i ciò ch e g li sta su cced en d o. F orse
Q u esta situ azion e per m e perdura tu tto ra . D e l m io e ffe ttiv o si m eraviglierà d el su o triste d e stin o , m a d o p o un certo tem p o ,
m ale, il cancro — e so tto q u esta d en o m in a zio n e in te n d o tanto q u a n d o ha fin ito d i m eravigliarsi senza essere arrivato a un
il cancro organ ico q u an to q u e llo p sich ico , va le a d ire n o n d u e risu lta to , m uore e b asta. P u ò darsi ch e an ch ’io ven ga in b reve
m alattie d istin te , m a p iu tto sto una sola co n d u e d iv er se m a­ te m p o d iv o ra to dal cancro; la differen za fra q u el n egro e m e
n ife sta zio n i, una fisica e una p sich ica, u n caso per il q u ale si co n sisterà n el fa tto ch e io co n o sco m o lto b en e le ragioni che
usa adoperare anche il term in e " p sic o so m a tic o ” - n on so n o an­ m i h an n o p o rta to alla m orte; h o l ’im p ression e di sapere con
cora gu arito. O ra p o sso guarirne o n e p o sso m orire: le m ie estr em a p recisio n e c iò c h e m i sta accadendo e q u e sto lo co n si­
d u e p o ssib ilità so n o q u e ste . D i so lito cred o ch e si v ed a sem p re d ero un en o rm e v a n taggio r isp etto alla situ azion e d el negro.
la m orte co m e un fa tto triste e d o lo r o so . M a se si p en sa ch e A n c h e se sarò d istru tto dalla situ azion e in cu i attu alm en te m i
ancor o ggi ci so n o p erso n e ch e si fa n n o u n m erito d i m orire tr o v o , la m ia m o rte sarà in fin ita m en te p iù um ana d i q u ella d el
per D io , per la patria cap italista e p er le su e stru ttu re eco n o ­ n eg ro , ch e alla fine crolla m o rto co m e un cap o d i b estia m e, sen ­
m ich e, n on si p u ò arrivare altro ch e alla co n clu sio n e c h e ci za n ep p u re sapere perché.
so n o ragioni di m orire assai più stu p id e ch e la m o rte p er m an­ S enza v o le r essere p resu n tu o so , cred o ch e la m ia p o ssib ilità
canza di am ore. C om e un tem p o - e ancor o g g i n e ll’op era li­ d i capire e q u e sto reso co n to d ella m ia situ a zio n e p ossan o in
rica - si m oriva d ’am ore, co sì o g g i si p u ò m orire anche p er il teo ria p ersin o avere una certa u tilità . N o n p o sso p ensare che
con trario, per la m ancanza d ’am ore. P en so ch e d o p o tu tto non il m io sia un caso u n ico (perché la "costa d ’o r o ” è m o lto lunga
sia nep pu re la p eggiore fra le cau se d i m orte. e so vrap p op olata fino a scoppiare e che su lle sp ond e d el lago
M a se in v ec e riesco n o a guarirm i, allora il m io originario d i Z u rig o v iv a n o m o lte p erson e d avvero n orm ali, q u e sto pro­
c o n ce tto di m orte e rinascita d iv en ta realtà. A llo ra si potrà p rio n o n m e lo p o sso figurare). P e n so p iu tto sto d i rappresen­
d ire ch e effettiv a m en te, in un certo se n so sim b o lico - p res­ tare un ca so tip ico e c h e m o lte altre p erson e si tro v in o o si
sap poco n el corso di q u e sti u ltim i d u e anni - so n o m o rto e so n o sia n o tro v a te in una situ a zio n e analoga alla m ia. A n ch e se io ,
rinato a una nuova v ita , una n u ova v ita ch e è g iu stific a to sp e­ c o m e tu tti q u e sti altri n e lle m ie stesse co n d izio n i, non co n o sco
rare n on con sista p iù so lta n to n ella m alattia e in essa so lta n to a ltro ch e il m ale ch e ha d iv o rato la m ia esisten za fin dalla pri­
si id en tifich i. Se p o i q u esta v ita si svolgerà fe lic e o in fe lic e, m a g io v in ezza e ora sto q u asi p er m orirne d efin itiv a m en te, con-

146 147
tin u o tuttavia a credere ch e la m ia v ita e la m ia m o rte sia n o m en te m en o d ep rim en te m ettersi a scrivere u n saggio s u ll’in fe­
sta te e d eb b an o essere un p o ’ m en o in u tili e assurde d i q u ella lic ità ch e n o n passare ore e ore a scrivere la parola t r i s t e z a per
d el p o v ero n egro di cu i h o parlato p iù sopra. d ritto e p er traverso su un fo g lio d i carta a quad retti. (F reud
Q u esto è il p rim o grande va n ta g g io . L eg a to a q u e sto c ’è d efin isce i d u e fen o m en i co m e lu tto e m alin con ia.) La dep res­
il seco n d o , q u e llo d i co n oscere il m ale: o g g i co m e sem p re so n o sio n e era un grigiore in certo e on n ip resen te ch e m i soffocava;
d e ll’a v v iso ch e un m ale ch e si co n o sc e e si p u ò chiam are p er q u e sto n u o v o sta to ha in v ec e la gelida trasparenza d e l cristallo.
n om e è assai m en o d iffic ile da sop p ortare di una so fferen za F a so ffrire, m a n o n m i so ffo ca . In o ltre m i sen to m o lto p iù
di cu i n on si co n o sce l ’esatta natura. D i co n segu en za an ch e la a ttiv o . D o p o aver p a ssa to tre n t’anni a cercare d i evad ere la
speranza in una p o ssib ile v itto ria su l m ale assu m e fo rm e p iù realtà, sfu ggire alla v ita , co m e m i avevan o in segn ato i m iei
concrete. La speranza è m o lto p icco la , m a q u e sto m in u sc o lo g en ito ri e la classe so cia le e h ’essi rap p resentavano, ora m i
fram m ento d i speranza è p iù reale e fo rse p iù in te n so d i una tro v o faccia a faccia co n la m orte n ella sua form a p iù con ­
grande speranza in definita, ch e si p erd e n el v a g o e n ella q u a le creta e d e v o lo tta r e. P er d irla in latin o: H i c R h o d u s , h ic s a lta .
si finisce s o lo a m alapena a ved ere in ch e cosa si spera. F orse P o sso b en im m aginare c h e il d e stin o , v isto che co n la m ia
si p otreb b e parlare d i una speranza c h e p oggia su l p ro b a b ile e v ita n on o tte n e v a n u lla , si sia d e tto , b e ’, p roviam o co n la
d i una ch e p oggia su un co n creto p o ssib ile . T u tti o v v ia m e n te m o rte. E guarda un p o ’, le co se so n o andate m eg lio . A q u esto
sperano di n on essere m ai c o lp iti dalla cad u ta d i u n m e te o r ite , p u n to vorrei ritornare al co n ce tto già altrove cita to d e ll’u m o­
ed è anche m o lto p rob ab ile ch e ta le speranza si co n ferm i n ella rism o co sm ico . I l p eg g io in verità n on è m ai il p eg g io e si
realtà; m a una speranza d i q u e sto tip o n on ha u n ’im portan za com in cia a capire ch e cosa in ten d eva C am us quan do in L e m y t h e
reale, non gioca u n ru o lo p rem in en te. N e l m io ca so è t u tt’a ltro d e S i s y p h e d im ostrava ch e S isifo a ll’in fern ó è felice.
ch e p rob abile ch e io sop ravviva al m ale, ma l ’ev e n tu a lità ch e U n altro e le m e n to ch e caratterizza q u e sto m io n u o v o sta to
ciò sja ancora p o ssib ile e s iste , e rend e la speranza m o lto più è ch e n o n m i p o sso augurare una sorte diversa. D a te tu tte le
intensa e im portan te. p rem esse ch e p o sso chiam are m ie, p o sso ancora essere so d d isfa t­
P u ò darsi ch e sia p er q u esta ragion e c h e io se n to la m ia to ch e m i sia v en u to il cancro e ch e la psicoterapia abbia m an­
v ita attu ale, m algrado tu tto , co m e m en o d isp erata, m en o d e­ d a to in fran tu m i la m ia p reced en te esisten za. N o n m i è p o ssi­
solata d ei prim i tre n t’anni d ella m ia esisten za . N o n so n o fe lic e , b ile desid erare c h e tu tto q u e sto n on fo sse m ai accaduto; p o sso
o v v ia m en te , m a per lo m en o so n o in fe lic e e n o n d ep resso . M i s o lo trovare c h e è sta to un b en e. N o n p o sso neppure d esid e­
riesce d iffic ile p resen tare ora co n una eleg a n te fo rm u la zio n e rare ch e le c o se fo sser o andate d iversam en te, perché in tal caso
stilistica l ’esatta differenza d i sign ificato fra " in fe lic e ” e "d e­ d o v rei d esid erare d i essere un altro, e q u e sto è im p o ssib ile. N o n
p r e sso ”, m a è chiaro ch e " in fe lic e ” è assai m en o triste , m en o p o sso desid erare d i essere il sign or T al-dei-T ali in v ece d i essere
grave ch e " d ep re sso ”. P er riallacciarm i a ll’im m agin e d e lle lacri­ m e stesso . N o n p o sso desid erare ch e ciò ch e è accaduto sin qui
m e n on p ia n te, si p u ò d ire ch e co lu i ch e piange è in fe lic e , m en tre n o n sia m ai accaduto o ch e sia andato d iversam en te, m a d ev o
il d ep resso ha p erd u to p ersin o la capacità d i p iangere. I l c o n ­ in v ec e accettare ch e, d a te le p rem esse d ella m ia esisten za , tu tto
ten u to d i q u e sto m io r e so c o n to n o n è certo pura b e a titu d in e , c iò ch e è sta to d o v ev a accadere esa tta m en te com e è accaduto e
m a n ella sostanza n on è fru tto d i d ep ressio n e, co m e eran o in ­ n o n è n é p o ssib ile n é d esid erabile ch e le co se stessero diversa-
v ece le co n tin u e v isio n i ch e m i p ersegu itavan o d u e anni fa, co n m en te . L ’unica co sa c h e p o sso desid erare è ch e ora vo lg a n o
q u e ll’allegorica figura d i d o n n a im p ietrita d al d o lo re c h e n on al m eg lio ; m a q u e sto d esid erio rientra n el p o ssib ile ed è
v o lev a o n o n p o tev a m orire. È an ch e assai d iv er so e infinita- a sso lu ta m en te realistico. N o n h o b iso g n o d i d esiderare n ulla

148 149
d i irreale e tu tto ciò ch e è irreale n o n lo v o g lio n em m e n o d e­ ero; c o s ì c h e alla fine, se co n d o l ’a n tico rito d e i padri, i figli
siderare. P o ich é v e d o la n ecessità d ella m ia attu ale situ a zio n e, p o ssa n o esser e d iv o ra ti dai g en ito ri.
au tom aticam en te essa d iv en ta p iù so p p o rta b ile ch e n o n se S o lta n to c h e n o n sem p re i fig li so n o tu tti u gu alm en te d i­
d o v essi ritenerla d el tu tto assurda. gerib ili.
P er d i p iù c ’è u n altro a sp e tto c h e ancora b iso g n a co n si­ P er q u e sto n on cred o n ep p u re ch e il term in e "rassegnazione"
derare: so n o co n v in to ch e il cancro ch e m i d ivora n o n so n o io , si ad atti b en e al m io sta to a ttu ale. U n tem p o m i ero im p o sto il
n on è il m i o i o , m a la m ia fa m ig lia , la m ia estrazion e sociale; d ogm a p er cu i io " sta v o b en e" ; m a q u e sto star b en e era p o ­
c ’è in m e una tara, u n ’ered itarietà ch e m i con su m a. M e sso in p o la to d a lle an gosce più trem en d e, d alla paura ch e q u esto
term in i m ed ico -p o litico o so cio -p o litici c iò sign ifica: fin ta n to ch e "star b e n e ” p o te sse alla fine n on risultare va lid o . Q u e l l a , ap­
h o il cancro co n tin u o a restare le g a to a ll’a m b ien te b o rg h ese e p u n to , era stata rassegn azion e, quan do m i ero sem p licem en te
can cerogeno ch e è sta to il m io , e se m u o io d i can cro sarò ap­ a cco n ten ta to d i n o n sfiorare m ai e per n essu n m o tiv o qualcosa
p u n to m orto da b org h ese. S o cio lo g ica m en te p arlando è una ch e avrebb e p o tu to rin focolare q u e lle an gosce; rassegnazione
p erd ita da p o co , perch é c h e m u oia u n b o rg h ese n o n è m ai era stata il n o n aprire m ai l ’arm adio perché lo sch eletro ch e
u n gran m ale. M a per q u a n to riguarda la natura d ella fam iglia, c i stava n a sco sto n o n p io m b asse con una b ella capriola n el b el
q u elli ch e h ann o avu to p iù fiu to cred o p rop rio sia n o sta ti i m ezzo d e l sa lo tto b u o n o . A d e sso n on sto più " b e n e ”, al co n ­
greci. N o n per n ien te E d ip o e la sua fam iglia so n o d iv en ta ti il trario, sto m ale, m a in co m p en so n on c ’è p iù n essu n o sche­
sim b o lo d ella fam iglia t o u t c o u r t . A n c h e l ’orrenda so rte d i F e ­ letro n a sco sto n e ll’arm adio e , per d i p iù , esiste ancora la p o s­
dra, la si scopre già in q u e l v er so in cu i essa si d efin isce figlia sib ilità ch e u n g io rn o n on stia p iù così m ale.
d e i propri genitori: A co n clu sio n e v o g lio illu strare ancora u n altro a sp etto della
m ia sto ria , c h e p o trei chiam are m agico, anche se è in te so in
L a f i ll e d e M in o s e t d e P a s ip h a é .
m aniera t u tt’altro c h e scherzosa, e c io è l ’a sp etto astrologico.
P ersin o la b uon a Ifigen ia ted esca (seb b e n e , c o m e è n o to , S o n o - n atu ralm en te - n a to so tto il seg n o d e ll’A rie te, ch e è
sia una creatura di G o e th e ) in tu isc e q u a n to è fatale essere se n z ’altro da v ed ersi co m e un seg n o d i M arte. N e ll’astrologia an­
figli d ella propria fam iglia. M a in n e ssu n ’altra figura la cara tica an ch e il se g n o d e ll’A q u ila (ch e rim ane ancora in alcuni
v ita di fam iglia v ie n e alla lu ce ta n to ch iaram en te e senza v eli casi, ad e se m p io c o m e sim b o lo d elF evan gelista G io v a n n i, anche
co m e n e ll’im m agin e d i C ron o c h e d ivora i propri figli. C redo d o p o ch e l ’A q u ila n e ll’astrologia co m u n e è stata d a m o lto
ch e q u esta bella antica usanza sia rim asta fino a t u tt’o g g i una tem p o so stitu ita co n il seg n o d e llo Scorp ion e) era in te so com e
apprezzata trad izione, e certo n o n c ’è n essu n o fra n o i c h e n on un seg n o d i M arte; da q u an do lo S corp ion e si è so stitu ito al­
possa d ire an ch e d i sé: l ’A q u ila , q u e sto seg n o zod iacale so tto stà p iu tto sto al pianeta
P lu to n e . L ’A r ie te è q u in d i p iù ch e m ai il vero rappresentante
La mia mamma che mi sgozza, d i M arte.
Il papà che mi ha mangiato.
M arte è n o to ria m en te il d io d ella guerra, d e ll’aggression e, e
O g g i p eraltro si è p iù e v o lu ti e n o n c i si m e tte p iù a ll’opera d ella forza creativa (ch e la guerra sia la m adre d i tu tte le
co n c o lte llo e forch etta p er m angiare i p ropri figli (p o ic h é n el­ co se lo sap p iam o orm ai da se c o li), il d io d ella prim avera e d e l­
l ’am b ien te d al q uale io p ro v en g o le b u o n e m aniere a tavola l ’in izio d e ll’an n o (n o to ria m en te i rom ani festeg g ia v a n o l ’in izio
so n o un rito assai co m p lic a to ), m a si p ro v v ed e co n una ad e­ d e ll’an no co n g li I d i di M arzo, e so lta n to q u el gu a sta feste di
guata ed u cazion e affin ch é ai fig li un g io rn o ven ga un b e l can- G e sù co n la sua in o p p o rtu n a nascita ha p o rta to il d isord in e

150 151
in q u e sto o rd in e a n tico e b e llissim o ). È il d io d e l p rin cip io , fe so e ta n to v u ln era b ile n ella struttura p ro tettiv a d i un gu scio
d el p rin cip io d e lle co se e d el p rin cip io creatore e in e ffe tti è d i lu m aca, ch e cerca co n tin u am en te la casa, il rifu gio, l ’in tim ità ,
il d io d ei creatori e d e g li artisti. Q u e lF A p o llo , ta n to apprezzato la " ca sa ” (sia ch e si tratti di quella d ella lum aca o d ella Q uarta
in certi a m b ien ti (io n o n lo stim o a ffa tto ), è an ch e lu i in C asa astrologica d i cu i h o ora p arlato). I l crostaceo si rinchiude
q ualche m o d o leg a to alla cultura; si tratta d i u n ragazzotto q u in d i n el su o g u scio , si n ascon de così n ella sua so litu d in e,
grassoccio e sm orto co n q u ella etern a lira e le p ettin atu ra alla cerca rifu g io in tu tto c iò ch e aiuta il su o iso la m en to , cullandosi
B o ttice lli, in realtà p iù un d io d ei le tter a ti ch e d ei veri p o e ti, in u n ’esisten za in fa n tile, ch iu sa, regressiva, e tu tta v o lta a ll’in-
e p iù ad atto al su p p lem e n to letterario d o m en ica le d ella " N eu en d ie tr o , p erché il gam bero va sem p re a ll’in d ietro. N o n g li piace
Zürcher Z e itu n g ” ch e al m o n d o d e i v er i p o e ti, ch e p er lo r o d o v er affrontare la realtà p erché, m o lto p rob ab ilm en te, trova
natura so n o in v ec e p iù v ic in i a M arte. c h e la realtà è trop p o " d iffic ile ” , ma preferisce ritirarsi in un
L e creature n ate so tto il seg n o d e ll’A r ie te e so tto la stella di irreale m o n d o o n irico , co m e spiega la guida astrologica che
M arte so n o per natura p ro fo n d a m en te a ggressive e creative d ice: "quan d o n on p u ò v iv ere il su o so g n o , sogna la sua v it a ”.
(e q u i natu ralm en te n o n in te n d o a g g ressiv o n e ll’accezion e co ­ N o n è p artecip e, m a guarda tu tto so lo da lo n ta n o , d a ll’in tern o
m un e e tan to erron eam en te usata d i " v io le n to ” , " c a ttiv o ”, "li­ d e lla sua sicura casa; la realtà sarebbe per lu i trop p o concreta
tig io s o ” , m a n el su o v ero e n aturale sig n ifica to di "capace e e tro p p o p o co tenera e delicata.
d isp o sto ad affrontare o g n i c o s a ”) e v o g lio n o so lta n to u n o È fa cile im m aginare ciò ch e accade a un A riete quando
spazio estern o n el quale' p o te rsi im pegnare e realizzare. Se en tra n e ll’orb ita d ella Q uarta Casa, d ella casa paterna, n e ll’orbita
a ll’in d iv id u o d o ta to di ta le natura v ie n e a m ancare lo sp azio q u in d i d ella m adre e d ella fam iglia: p erd e lo spazio in cu i gli
in cu i v iv ere p o sitiv a m e n te q u esta sua energia v ita le , la naturale è p o ssib ile esercitare la propria aggressività, q u e llo spazio
aggressività si v o lg e v erso l ’in tern o e l ’in d iv id u o si au to­ este r n o ch e g li è ta n to n ecessario, e quan do il m on d o estern o
distru gge. n o n e s iste p iù , n on p u ò ch e ripiegarsi in se stesso; tu tta la sua
I l seg n o zod iacale d el C ancro co rrisp on d e al p ia n eta Luna carica aggressiva ricade su se stesso , non gli resta ch e autoag-
(q u i natu ralm en te u so il term in e luna n el su o sig n ifica to tradi­ gred irsi. F in isce n e ll’orb ita d el C ancro e - q u i il vo ca b o lo assu­
zion ale e n on seco n d o q u e llo d ella m oderna astron om ia) e alla m e un sig n ifica to sia sim b olico ch e astrologico e m ed ico - d i­
Q u arta Casa astrologica. M a la Luna - c h e n o n a caso n elle v en ta C a n c r o .
lin gu e rom aniche è di se sso fem m in ile: lu n a , d ea d ella n o tte , C o m e se ci fo sse sta to b iso g n o anche d e ll’astrologia! N o n d i­
o Isid e , A sta rte, A rtem id e, D ia n a , E cate - p erson ifica la G rand e p e n d e ta n to dal cred ere o m en o a ll’astrologia; m a se u n o è
M adre, il p rin cip io fem m in ile, la p a ssiv ità , l ’e le m e n to ricet­ ric e ttiv o p er q u e sto tip o d i in terp retazion e, p u ò accettare que­
tiv o , e l ’in co n scio . La Q uarta Casa p erò rappresen ta tu tto ciò s to p reciso d a to d i fatto: ciò ch e accade a un in d iv id u o che
da cu i l ’u o m o d eriva, la sua o rig in e , la sua casa p aterna, il su o v ie n e a trovarsi n ella situ a zion e d escritta in q u e ste p agine, sta
rapporto con la terra n atale, in se n so la to co n la sua fam iglia g ià sc ritto n e lle stelle; q u esto è ancora p iù chiaro d el m es­
e con tu tto ciò ch e riguarda q u esta fam iglia. I l se g n o d el C an­ sa g g io d el p ro fesso r F reu d , per altro in eq u ivocab ile e a tu tti
cro 1 personifica p erfè tta m e n te il già c ita to paguro, ch e non n o to da sem p re; lo si p u ò leggere in cielo o g n i sera, c o n o
co n o sce e n on v u o le altro ch e n ascon dere il su o p o sterio re indi- senza can n occh iale. C redo ch e anche q u i si tratti n on tanto
d ella capacità d i occu ltarsi d e lle co se, q u an to p iu tto sto di
1 II Cancro zodiacale in tedesco è K reb s che significa però anche gambero e cancro avere o cch i c h e v o g lio n o o n on v o g lio n o ved ere, orecch ie che
nell’accezione medica. [ N .d .T .] v o g lio n o o n o n v o g lio n o sentire.

152 153
Q u esta è la m ia v ita . S o n o n a to e cr esciu to n el m igliore Seconda parte
e p iù san o e p iù arm on ico e ste r ile e fa lso d i tu tti i m o n d i e
Ultima necat
o g g i m i tro v o davanti a u n cu m u lo d i m acerie. M a q u a n to è
m ille v o lte p iù b e llo trovarsi d avan ti a u n cu m u lo d i m acerie
ch e n on d avan ti a u n v a cilla n te alb erello d i N a ta le , sem p re
co n una trem end a paura ch e q u e llo stu p id issim o a g g eg g io possa
alla fine cad ere e rom p ersi e ch e tu tto p ossa andare in fran­
tum i! E con q u e sto p o sso arrivare alla m orale d i q u esta storia:
m eglio il cancro c h e l ’arm onia. O , in sp a g n o lo , / V i v a l a m u e r t e !

Z u r ig o , 4 . IV . 1976

Q u a lch e tem p o fa h o scritto la storia d ella m ia m alattia, nella


speranza, p iù o m en o ch iaram ente av v ertita , ch e ricapitolare e
riesam inare il m io p assato avrebb e p o tu to aiutarm i a trovare
u n certo d ista cco dalla m ia sofferenza o addirittura a superarla.
È accadu to esa tta m e n te il con trario. D a q uan d o h o com in ciato
a rifletterci p iù in te n sa m e n te, la sofferen za ch e p ro v o d i fron te
alla m ia vicen d a um ana m i frana a d d o sso con una v iolen za n u o­
v a , co n una furia m ai prim a raggiunta. Scrivere i m iei ricordi
n o n m i ha p o rta to p ace, m a so lta n to ancor p iù in q u ietu d in e e
d isp erazion e.
La m alattia p sich ica n o n è p iù la d ep ressio n e, ch e cam m ina
accan to alla m ia v ita e ste rio re e la a v v elen a , m a è d iven tata
ora un s o lo fu o c o d iv o ra to re in cu i tu tto brucia e si con su m a -
e q u ella c h e ora m i cam m ina accanto è la m ia v ita esteriore,
il m io la v o r o , i m iei am ici, il m io cancro.
C o m e da tem p o h o im m agin ato una reciprocità di e ffe tto
fra lo sta to fisic o e q u e llo p sich ico, ora d e v o accettare ch e il
m io sta to fisico è an d ato rap id am ente p eggioran d o. I l p iccolo
tu m ore n el c o llo d i d u e anni e m ezzo fa si è trasform ato in una
form a tu m orale generalizzata; tu tto il co rp o è ora d iv o ra to dal
can cro, n u o v e m eta sta si n ascon o e si form an o co n tin u a m en te in
tu tte le p arti d e l co rp o . S o n o p erp etu am en te n elle m ani d ei
m ed ici e p a sso p resso d i lo r o la m aggior parte d e l m io tem po.
N u o v i sin to m i si m a n ifesta n o in in terrottam en te e o g n i n u ovo
s in to m o d ice sem p re la stessa cosa: m e m e n t o m o r i . N atu ralm en ­
te h o paura, anche se n o n p iù co m e a ll’in izio . A l p rin cip io della

154 155
m ia m alattia a o g n i n u o v a tu m efa zio n e, a o g n i n u o v o d o lo r e m i d o n o , e sisto n o , in d ip e n d en tem en te dal fa tto d i essere b u o n e o
dicevo: purché n on sia un a ltro seg n o d el cancro! O g g i so n o c a ttiv e , lie te o tristi.
già in grado d i con tare senza sfo rzo alm en o una m ezza d ozzin a La m ia storia è triste. M a la scrivo ugualm en te; o m eg lio ,
d i p u n ti d e l m io corp o d o v e p o sso v ed ere e se n tire il m a le, la scrivo p rop rio p er q u e sto . M i so n o p ro p o sto d i scrivere
co m e ad esem p io n e ll’o sso ch e si sgretola e si d isso lv e ; in q u e sti tu tto e tro v o ch e sia g iu sto . Q u and o si è p icch iati, si grida;
casi n on h o più b iso g n o d i tem ere ch e sia il cancro: lo so . an che il gridare è in sé irrazionale, n on serve a n ulla e non
N e ss u n o è co n ten to d i avere un cancro, n em m e n o io . M a ha alcun se n so , m a in u n certo qual m o d o ci v u o le, fa parte
non gli p o sso attribuire p iù im portan za di q uanta già n e ha. A n ­ d ella co sa , è n aturale ch e si risponda alle p ercosse co n d elle
ch e il cancro, anche il fa tto ch e io ora d i q u esta m alattia sto grida. È g iu sto , a p p u n to . P er q u esto è anche g iu sto ch e io
m orend o n on è p iù la cosa p rin cip ale. I l cancro è so lta n to la scriva la m ia storia.
illu strazion e som atica d el m io sta to p sich ico . C he si abbia A lla m ia vicen d a fam iliare è in u tile ritorni ancora; l ’h o
paura d ella m orte e ci si senta o p p ressi q uan d o si d e v e m orire, già d escritta n ei m iei ricordi. M a il risu ltato d i q u esta storia
10 trovo norm ale; e tu tto q u e llo ch e è n orm ale n on ha m ai fam iliare, c iò ch e essa ha p ro d o tto , q u esto relitto u m an o che
d esta to in m e m o lta p reoccu p azion e. L ’an goscia, la paura d ella ch iam o m e ste sso , a q u e llo d ev o pur sem p re ritornare, perché
m orte è certo an ch ’essa u n se n tim e n to , m a p icc o lo e in sig n ifi­ la co n sap evolezza d ella d istru zion e m i trafigge senza sosta, mi
cante in co n fro n to alle e sp lo sio n i e m o tiv e ch e m i to rm en ta n o tien e so tto il tiro , m i crivella d i colpi co m e una m itragliatrice.
veramente. La co n sap evolezza d el m io fallim en to m i brucia l ’anim a e il
L ’o d io e la d isperazion e n o n m i d an n o tregua: so n o co m e corp o. E q u a n to p iù im paro a conoscere m e stesso , ta n to più
un vu lcan o ch e m i esp lo d e d en tro e n o n p u ò sp egn ersi fin ch e ap pren do co m e so n o in realtà: d istru tto , castrato, r id o tto in
so n o in v ita . Q u an d o d i n o tte n on riesco a dorm ire e m i v o lto fra n tu m i, d iso n o ra to , sv erg ogn ato. C on o g n i v elo ch e strappo
e riv o lto n e l le tto gem en d o e u rlan do, im m erso in un b agn o di a l m io in co n scio , m i si p resen ta un orizzo n te sem p re n u o v o
su dore, q u an d o corro co m e un d isp era to fra le q u attro m ura d el e sem p re p iù p ro fo n d o d i d isperazion e. È co m e se il d olore
m io appartam ento, gridan do la m ia furia con tro il m uro co m e p o te sse con tin u are ad aum entare a ll’in fin ito, fin o a ll’etern ità.
un pazzo, allora il vu lcan o è in eru zio n e. C i so n o d u e sen sa ­ I l m io m o n d o è im p ietrito d i dolore. D a q u esta situ azion e na­
zio n i fisiche b en p recise e d efin ite d i cu i so ffr o so p ra ttu tto . sce sem p re p iù chiara p er m e la necessità d i scrivere q u este
S pesso h o l ’im p ressio n e d i sen tire una spada ch e le n ta m e n te co se , d i d irle, raccontarle. P er am ore di ch i le d ovrei tacere?
m i affon da giù per la sp ina d o rsa le, fin o alle u ltim e verteb re P e r am ore di ch i d o v rei far m istero della storia d ella m ia vita?
lom bari. Q u e llo ch e m i sc u o te c o sì n o n è un brivido,- n o n è il C h i d o v rei risparm iare co n il m io silen zio?
caldo è n on è il fred d o , n o n è il ca ttiv o tem p o o l ’alzarsi p resto S e taccio, risparm io so lta n to tu tti co lo ro ch e n on v iv o n o
11 m attin o. È la sofferen za scop erta, d en ud ata e senza m aschera v o le n tie ri altro ch e n el m ig lio re d ei m o n d i, tu tti co lo ro ch e
d e ll’anim a ch e travolge il co rp o e lo g etta in un a b isso d i im ­ n o n p arlano v o le n tie ri d e lle co se sp iacevoli, tu tti co lo ro che
p o te n te disperazion e. v o g lio n o p ren d ere coscienza so lo d elle co se p iacevoli, ch e rim u o­
Q u este reazioni fisic h e n o n h an n o in sé n ulla d i razionale; v o n o e rinn egan o i p ro b lem i d el n ostro tem p o , ch e con dannano
non p ortano a n ulla, n on h an n o sc o p o , si v erifica n o , sem p lice- i critici d ella situ a zio n e a ttu ale, anche i p iù o n esti e in corru tti­
m en te. A n ch e la storia d ella m ia v ita n o n co n d u ce a n u lla e b ili, co m e m ostri di ca ttiv eria, so lo perché p referiscon o v iv ere
non ha alcun sen so , m a e siste , è sem p licem en te co sì; q u e sto in u n p orcile al d i fu ori d e lle critich e, p iu tto sto ch e in un m on d o
è appu nto l ’a sp etto caratteristico d i tu tte le v ic en d e , c h e acca- d o v e si o sa in v ec e pron un ciare la parola "p o r c o ” . M a p rop rio

156 157
quelli non li voglio risparmiare. Non voglio mostrarmi solidale colpisce e uccide ogni cosa. Questo è per me motivo sufficiente
con loro, perché sono loro che mi hanno fatto quello che sono per riconoscerti Dio unico e unica fonte di beatitudine e come
oggi. Non li posso risparmiare, per loro c’è solo il mio odio. Il tale onorarti e lodarti. Sei il più gran porco dell’universo. La mia
lettore sa già di chi intendo parlare; la società borghese, il Mo­ risposta a tutto ciò è che sono volentieri tuo suddito, ti trovo
loch che divora i propri figli e ora è in procinto di divorare anche giusto e cerco di amarti. Tu hai inventato la Gestapo, i campi di
me e che ben presto lo avrà fatto: in brevissimo tempo avrà sterminio, la tortura; riconosco quindi che tu sei il più grande e
finito di divorarmi. il più forte. Sia lodato il nome del Signore.
Di tutti i vizi ce n’è uno che non si deve, non si può avere: Quale atteggiamento sia eticamente più valido, quello di
la pazienza. E qui penso a quel rappresentante esemplare del­ Giobbe o quello della moglie di Giobbe, è facile capirlo. Ap­
la pazienza, al Giobbe dell’Antico Testamento. In tutto il suo punto perché Dio ha creato il coccodrillo, esiste il dovere di
dolore Giobbe non si fa mai venire l’idea di prendere posizione, ribellarsi. La reazione di Giobbe non è soltanto vile, è anche
ma china il capo e, come dice la Bibbia: wNon si sporcò col stupida.
peccato e non disse nulla di male contro Dio”. La moglie di Come tante cose riprovevoli, anche Giobbe e il suo modo di
Giobbe, evidentemente fra i due il carattere più forte, gli reagire hanno fatto scuola: oggi il mondo pullula di Giobbi.
aveva consigliato: Maledici Iddio e muori! Ma lui le risponde: Se ne incontrano ovunque; non da ultimo mio padre era un
Come potrei maledire Iddio? Che cosa ne direbbe Iddio? Sono Giobbe. Ma proprio questo, il fatto che ci siano tanti Giobbi,
certo che Dio non vorrebbe che io lo maledicessi. costituisce per me appunto la necessità, l’obbligo di non emu­
Già, e se non dovesse fargli piacere? E se avesse qualcosa larli, di seguire piuttosto la moglie di Giobbe e mentre muoio
da ridire? Perché dovrebbe essere tanto terribile che Dio fosse maledico Dio. Non si deve lasciarsi confortare, fintanto che il
disturbato dalle maledizioni di Giobbe? conforto è solo un falso conforto.
Dio del resto mette prontamente le cose in chiaro e fa ca­ Ovviamente a questo punto c’è però una questione che biso­
pire a Giobbe che non gli sarebbe affatto gradito sentire delle gna trascurare, e cioè a che cosa potrebbe servire maledire il Dio
critiche al suo operato. creatore del coccodrillo. No, non c’è nessun bisogno che serva
Allora il Signore del Cielo rispose a Giobbe e disse: a qualcosa; basta che sia giusto. E da ultimo anche il come rea­
Non ho creato il coccodrillo? giscono gli altri colpiti non ha nessuna importanza; basta che
Chi preme in quella doppia dentatura? io ritenga giusto per me stesso "maledire il Signore”, tanto per
Chi ha aperto le porte delle sue fauci? usare ancora una volta l’espressione biblica. Non ha importanza
Sui suoi denti è deposto l’orrore.
se io sono l’unica vittima o una fra mille, e non ha alcun signi­
Non ho forse creato io il coccodrillo, che in quanto a orrore ficato confrontare fra loro i singoli destini. Vedo ogni giorno
supera ogni altra cosa? Non può forse il coccodrillo mordere, innumerevoli altre vittime, falliti, storpi, gente rovinata, distrut­
amputare, mutilare, divorare, distruggere? Come puoi pensare ta, li vedo a scuola, per la strada, al ristorante; che vengano
di mettere in dubbio la mia autorità, dal momento che io sono portati in giro su una sedia a rotelle o trasportati al pronto
il Signore di tutti questi orrori? soccorso dopo un incidente stradale, che siano dei rottami sul
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: piano intellettuale o su quello psichico, il loro numero non ha
Hai ragione. Riconosco che tu sei l’essere più tremendo, più fine. In un simile confronto non serve a nulla dirsi che non si è
brutale e perverso, più sadico, più ripugnante e malvagio della gli unici colpiti e che anche gli altri hanno avuto un destino
terra. Riconosco che sei un despota sanguinario, un tiranno che avverso; non serve a nulla a me e non serve a nulla all’altro.

158 159
A un tale un incidente ha portato via una gamba; la gamba Comincino i " moscoviti” intanto a migliorarsi! La trave nel
amputata è il suo problema; io sono nevrotico, la mia nevrosi nostro occhio non ci dà alcun fastidio, fintanto che ci possiamo
è il mio problema. Ciascuno deve venire a capo del proprio pro­ giustificare con la pagliuzza dell’occhio altrui.
blema, io non posso preoccuparmi della gamba dell’altro, né In realtà quella fantomatica Mosca, dove tutto deve sempre
l’altro della mia nevrosi. Per questo non posso qui neppure essere più brutto, più nero che nel luogo dove in quel momento
descrivere la mia storia come rappresentativa di mille altre, ci si trova, non esiste. Ci sono ben pochi luoghi dove tutto è
perché ciascuno è solo con la propria sofferenza e con la propria sempre peggio che da noi, come non c’è un Eldorado dove tutto
solitudine; ciascuno ha la propria storia. è sempre più bello e felice, tutto meglio che da noi. La Mosca
Molti stanno ancora peggio di me. È vero, ma ciononostante dove i non conformisti avrebbero dovuto andare, è un luogo
non si possono fare confronti: quando ho mal di denti, mi è immaginario. E continua a essere un luogo immaginario anche
assolutamente indifferente che il mio vicino abbia un mal di se a Mosca tutto dovesse in realtà essere tanto più brutto che a
denti più forte del mio. Io non posso combattere contro il mal Zurigo, come molti svizzeri sperano; non soltanto perché anche
di denti di tutto il mondo; posso soltanto preoccuparmi che il a Mosca si può essere felici e anche a Zurigo infelici. Persino se
dentista strappi il mio dente malato. Mosca dovesse essere davvero questo luogo tanto terribile, il
E tuttavia ci sono moltissime persone volonterose che si peggiore della terra, così come lo si descrive nelle fiabe - che
preoccupano più del mal di denti del vicino che del proprio, cosa gliene importa a un moscovita felice? E anche se a Zurigo
che forse è meno forte, ma in compenso è un fatto personale. tutto dovesse essere così meraviglioso come in questo Paese
Oppure, per usare la formula classica: si preferisce vedere la volentieri si vuol credere - che cosa serve questo a uno zurighese
pagliuzza nell’occhio dell’altro che la trave nel proprio. Quando infelice?
ero ancora bambino, nell’ambiente che ero allora costretto a Questa Mosca è però un luogo immaginario anche per un
considerare il mio, era in uso un’espressione: quello dovrebbe motivo più profondo. Per giudicare se una cosa è buona o cat­
andare a Mosca! Con ciò ci si riferiva a coloro che la pensavano tiva non ha alcuna importanza se l’altra è migliore o peggiore;
diversamente e criticavano il nostro sistema svizzero. Si voleva di due cose miserevoli, una dev’essere per forza migliore del­
dire con questo che chiunque avesse qualcosa da ridire sulla l’altra, e anche di due cose magnifiche forzatamente ce ne deve
Svizzera, avrebbe dovuto andare in quella fantomatica Mosca, essere una che ha la precedenza sull’altra, di modo che la
nel luogo cioè dove, per proverbiale definizione, tutto doveva seconda è meno magnifica della prima. Quando di questa fanto­
essere tanto e tanto peggio che da noi in Svizzera. *Andare a matica "Mosca” si sa soltanto che è "peggio”, non se ne sa
Mosca” significava: fra i due mali scegliere il minore, invece ancora nulla, anzi, cessa addirittura di esistere. "Vai a Mosca”
di riflettere se non si sarebbe potuto fare qualcosa per curare quindi non significa né più né meno che "vai nel luogo che non
il proprio male. esiste”. Non c’è una strada che porta a Mosca. Credo che nella
Si diceva: "Ma vai a Mosca!” e si intendeva dire: non siamo vita non ci possa mai essere una strada che porta a Mosca. Ogni
disposti ad accettare una qualsiasi critica al nostro sistema. Ci situazione in cui ci si trova è necessariamente l’unica possibile,
è del tutto indifferente sapere se dovremmo migliorarci o no, e non si può mai dire: grazie a Dio per lo meno non sono a
preferiamo riferirci a "Mosca”, dove tutto è ancora tanto peggio Mosca, perché là sarebbe tutto ancora peggio.
che, nel confronto, dobbiamo per forza avere la meglio. Noi del Ogni volta che un altro disgraziato mi passa davanti su una
resto non abbiamo neanche bisogno di migliorarci perché in poltrona a rotelle, mi sento come se una voce mi dicesse: sii
confronto a Mosca, abbiamo pur sempre un enorme vantaggio. dunque contento, quello sta ancora peggio di te —ed è come se

160 161
quella voce intendesse dire: vai dunque a Mosca! Ma anche di Se per me non c’è altra soluzione che andare in rovina, allora
fronte a questi infelici non c’è una strada per Mosca. Io non preferisco un chiaro suicidio a un suicidio camuffato.
sono a Mosca, io non sono altrove, io sono qui; io non sono Ma a che cosa può servire sapere queste cose? Devo ricordare
qualcun altro, ma sono io e mi trovo nel cuore della mia perso­ la vita dei miei genitori e dirmi per tutta consolazione che per
nale tragedia, e precisamente davanti alla catastrofe finale. Il lo meno non sono come mio padre? Che cosa me ne importa di
contenuto di questa tragedia l’ho già descritto nei miei ricordi: mio padre? Quando mi si propone di confrontare la mia esi­
sono il figlio nevrotico di un padre nevrotico e di una madre stenza con quella di mio padre, per poi scoprire che la sua era
nevrotica; la mia famiglia rappresenta per me la quintessenza di peggio della mia, è come se mi si invitasse ancora una volta ad
tutto ciò che detesto e perciò, in quanto membro di questa andare a Mosca. Questo non mi aiuta davvero. Mio padre è
famiglia, anch’io sono necessariamente nevrotico; tento di lot­ morto; lui è già morto, e quello che muore ora sono io. Per­
tare per staccarmi dal mio passato, ma, prima che io riesca a dermi ora in riflessioni sul fatto che mio padre è morto in con­
liberarmene, il mio passato mi divora nella forma concreta del seguenza di una situazione interiore ancora infinitamente più
cancro. La cosa più tremenda di tutta questa situazione è che squallida della mia, non ha nulla a che vedere con la mia morte.
essa non finisce col fatto che io non voglio essere come i miei Credo che anche morire possa in molti casi significare " andare
genitori e per questo, per non essere come loro, lotto e com­ a Mosca”. La morte riconcilia con molte cose, soprattutto con
batto; il grave è che i miei genitori sono dentro di me, a metà quelle cose con le quali si preferirebbe non riconciliarsi. Si pro­
corpi estranei e a metà me stesso, e mi divorano, così come anche pone: De mortuis nihil nisi bene. Perché poi? Se nel caso di
il cancro che mi divora è per una metà una parte malata del mio questi morti le cose non erano bene, perché a un certo punto
organismo e per l’altra un corpo estraneo all’interno del mio tutto il male che era in loro deve essere di colpo dimenticato,
organismo. solo perché sono morti? E qui penso meno all’abitudine di
Mi è già stata posta la diabolica domanda se avrei preferito affermare che tutti coloro che sono morti erano persone buone
essere mio padre piuttosto che me stesso. No, naturalmente no. e care e di grande valore, quanto piuttosto alla mia propria
Anche mio padre è stato uno dei tanti in una situazione ancora morte. Credo che anche di fronte alla morte si è tentati di pre­
peggiore della mia; anche mio padre è una figura simbolo, una sentarsi come persone migliori di quello che si è in realtà.
di quelle che mi passano davanti in una poltrona a rotelle con la Credo che anche davanti alla morte risuoni ancora una volta
domanda: preferiresti forse essere sulla poltrona a rotelle? Mio quell’invito seducente: ma vai dunque a Mosca!
padre era un comune milionario della costa d ’oro di Zurigo, con Se io ora devo riassumere la mia vita e giudicarla, non posso
l’infarto e sessantanni di frustrazione. È forse meglio cuocere che arrivare alla conclusione che è mal riuscita, fallita. Fin che si
per sessant’anni al fuoco lento della frustrazione o non è meglio vive, ci si può sempre consolare pensando che la vita soltanto
morire a trenta di disperazione e di cancro? È forse meglio che "fino ad ora” è andata male e che in futuro forse potrà ancora
le mole dello squallore girino un po’ più lentamente per sessan­ diventare migliore. Ma davanti alla morte queste scappatoie non
t’anni, o prendano invece un ritmo più rapido e ti macinino in ci sono più, non c’è più un "fino ad ora”; non c’è più che il fatto
trenta? Fra le due, è migliore la seconda ipotesi, naturalmente. concreto e concluso: è fallita. Anche in questa situazione estrema
Se per me, in quanto discendente dalla mia famiglia, non c’è non c’è una scappatoia per Mosca; non serve a nulla e non vale
altra soluzione che farmi stritolare dalla disperazione, allora nulla di fronte alla morte mettersi delle lenti rosate e dire della
preferisco morire a trent’anni della mia disperazione divenuta propria vita che "non è poi andata così male e che, in fondo, si
cancro, che aspettare per sessant’anni un aneurisma liberatore. muore riconciliati con se stessi e con il mondo”. Se non è vero

162 163
che si muore riconciliati con se stessi e con il mondo, allora abbia subito. Sono un castrato psichico, non ho impulsi sessuali,
non lo si deve dire, neppure nel momento della morte, quando non riesco a provare stimoli sessuali nei confronti delle donne
ogni possibilità di aiuto, di miglioramento, ogni possibilità di né degli uomini. Non ho mai avuto rapporti con le donne perché
mutamento o di conforto è ormai esclusa. non le posso amare, non le so desiderare. La logica conseguenza
La Effi Briest di Fontane, poco prima di morire di dolore, del è la mia incapacità a compiere l’atto sessuale, sia pure in maniera
dolore che le hanno causato l’incomprensione dei genitori e del puramente meccanica, senza alcun sentimento o eccitazione; non
marito, dice a sua madre che muore tranquilla, riconciliata e in posso ottenere a forza ciò che non esiste e così resto anche fisica-
pace, e confronta la vita con la descrizione di un banchetto, tolta mente impotente.
da un libro: uno dei commensali deve lasciare il convito prima Un altro segno caratteristico della nevrosi è la mia totale
del tempo, ma in seguito ci si accorge che non ha perso molto. incapacità di ridere. Questo forse è un segno meno drammatico
Alla domanda che cosa c’è stato al banchetto dopo la sua intem­ dell’impotenza sessuale, ma non per questo meno opprimente.
pestiva uscita, il commensale si sente rispondere: oh, un po’ di È tanto opprimente perché anche il riso è qualcosa che non si
tutto; ma in realtà lei non ha perso molto. Effi muore giovanis­ può ottenere con la forza. Non so ridere perché in me non
sima, quasi ancora fanciulla, muore di dolore, di angoscia, ma è c’è nulla che ride. Anche questa è una incapacità e una impo­
rassegnata: pensa di non aver perso molto. Felice o infelice tenza che non si può correggere con la volontà. Non mi posso
Effi? È molto significativo che mio padre non abbia mai potuto imporre di ridere; niente ride in me, tutto rimane morto.
soffrire il libro Effi Briest. Già soltanto il pensiero che qualcuno A definizione di queste impotenze oggi si usa la parola fru­
alla fine dell’esistenza si chieda se la sua vita valeva o no la strazione, e fra tutte le frustrazioni, ovviamente Quella sessuale
pena di essere vissuta, lo disgustava. Posso spiegarmelo solo è certo la più mortale. Questa frustrazione è appunto di natura
immaginando che lui avesse persino paura di porsi la domanda. etica, perché riguarda l’onore dell’individuo. L’onore umano
Ma questa paura l’avrebbe potuta avere soltanto se avesse in­ consiste nella sessualità; la sessualità è la sostanza di cui è fatto
tuito quale avrebbe dovuto essere la risposta. Felice o infelice il l’onore e non c’è altro onore all’infuori di quello sessuale. Anzi,
mio povero padre che non poteva neppure chiedersi se non io credo persino che le due espressioni "onore” e "sessualità” si
aveva perduto per caso qualcosa, quando nella vita c’era ancora equivalgano; siano sinonimi per lo stesso concetto. Io per lo
"un po’ di tutto”? Se nella vita si è arrivati ad avere solo "un meno lo sento così. Se dovessi dire qual è la sostanza della fru­
po’ di tutto”, allora si ha davvero avuto troppo poco e la vita strazione sessuale, non saprei trovare altra espressione che
non la si è vissuta. Se ci si chiede che cosa gli esseri umani vo­ "disonore, vergogna”. Questo è appunto l’elemento letale nella
gliono dalla vita, penso che la prima cosa sia la felicità. E per frustrazione sessuale: la vergogna, il disonore sessuale di cui
felicità immagino una situazione dello spirito in cui il fatto stesso soffro. Anche questo spesso si manifesta in me in una sensa­
di esistere non è sofferenza, e l’individuo sta al mondo volen­ zione fisica: mi sento costretto ad abbassare la testa, perché non
tieri, ci prova persino gusto. Questa situazione io non la conosco mi posso attribuire il diritto di andare a testa alta.
e non l’ho mai conosciuta. In me la facoltà di essere felice è Anche l’espressione che io uso: "essere divorato dalla fru­
distrutta. Questo è, in effetti, il segno che contraddistingue la strazione” è qualcosa di più di un semplice modo di dire e trova
nevrosi: nevrotico è colui che non può essere felice. L’espres­ anche a livello fisico la sua realizzazione: io sono letteralmente
sione più chiara e lampante di questa impotenza alla felicità è divorato, e precisamente dal cancro. Questo è in realtà il cancro,
certamente l’impotenza sessuale. E infatti la distruzione delle la sua ragione, la sua origine, la sua disperazione, ben al di là
mie facoltà sessuali è sicuramente il danno più grave che io di ogni accezione puramente medica.

164 165
La seconda meta della vita umana mi pare sia il senso della fisicamente non abbastanza debole per morire al momento della
propria esistenza. Se già non si può essere felici, si vorrebbe per nascita, ma, grazie all’ambiente nevrotico in cui lo si è fatto
10 meno che la vita, anche una vita infelice, avesse un senso, crescere, passibile di una totale distruzione psichica, quindi non
un significato, un valore. Con questa espressione secondo me in grado di giungere a un’esistenza che si potesse definire
si fanno delle grosse confusioni. Intendo soprattutto la tendenza veramente umana. Per trent’anni infatti sono fisicamente esi­
tanto generalizzata a voler trovare a tutti i costi un senso in stito, ma psichicamente ero già morto fin dal principio. Oggi,
tutte le cose. Una delle massime colpevoli nel pervertire il con­ dopo trent’anni di sterilità, il corpo va in pezzi e questo prodotto
cetto di "senso”, di "significato” è certamente la religione cri­ incapace di vita si autodistrugge. Ha un senso che fra la mia
stiana, che ci insegna che non un passero cade dal tetto senza morte psichica e quella fisica ci siano stati in mezzo trent’anni
che ci sia stata in questo la volontà del creatore del passero di sofferenza, di angoscia, di depressione, di frustrazione? Ha
medesimo. Il dogma cristiano insegna: se il passero resta sul un senso che io non sia morto subito dopo la nascita? No, non
tetto, è stata la volontà divina a volerlo, e questo ha un senso; riesco a vedere che senso possa avere. Non posso vedere che
se invece il passero cade, anche questa è la volontà divina e ha senso abbia che i miei genitori abbiano prodotto questa tormen­
11 suo significato - solo che noi questo significato non riusciamo tata creatura e che, per tutto accompagnamento nella vita non
a comprenderlo. Se l’uccello dunque resta in volo o sul tetto, ciò siano stati capaci di trasmettergli altro che la loro stessa incapa­
ha un significato che anche noi possiamo capire; se però il pas­ cità di vivere e la loro stessa nevrosi. Avrebbe avuto molto più
sero cade, ciò ha un significato che noi non possiamo capire. senso che non mi avessero messo al mondo. Avrebbe avuto
Ergo: tutto ha un senso. In questa argomentazione c’è una con­ molto più senso che mio padre si fosse fatto castrare e mia
traddizione che mi dà una tale nausea che non la posso soppor­ madre fosse rimasta sterile. Ma così, appunto, non è stato; e
tare senza reagire. A questo punto questo famoso Dio che ha che non sia stato così, io la definisco una cosa senza senso.
creato il passero (anche se per mia personale convinzione non Io però vedo nella vita umana, dopo la felicità e il senso,
esiste) bisognerebbe addirittura inventarlo per poterlo prendere ancora un terzo possibile contenuto, cioè la chiarezza. Se nella
a sberle. vita non posso essere felice, e la mia vita non ha un senso, posso
Io sono convinto che esista un senso delle cose. La logica almeno vedere con chiarezza che cosa sono e che cos’è la mia
conseguenza di ciò è che esiste anche il non senso. Non tutto esistenza. In questo senso credo di poter trovare nella mia vita
può essere sensato, significativo; certe cose devono essere prive una certa logica e una certa coerenza. Ho già scritto della predi­
di senso. Anche della vita di un individuo non si può a tutti i sposizione nevrotica dei miei genitori e della mia convinzione
costi affermare che ha avuto un senso. L’insensatezza, la man­ che neppure loro siano stati persone felici. Se esamino il decorso
canza di significato esiste e anche se nel momento della morte ci della mia esistenza, mi si rivela una certa catastrofica coerenza:
si pone l’interrogativo sul senso della vita, in quel momento in la nevrosi dei miei genitori causa la mia nevrosi; la mia nevrosi
cui, come ho già detto, non ci sono più scappatoie verso Mosca, dà luogo alla sofferenza di tutta la mia vita; la sofferenza fa sì
ciò non muta nulla nella necessità di dare una risposta; alla che io mi ammali di cancro e il cancro da ultimo è la causa della
domanda sul senso della vita bisogna pur rispondere con un sì mia morte. Non è una storia molto allegra, ma è chiaramente
0 con un no. Se la risposta è no, la cosa è molto dolorosa per la comprensibile. La mia vicenda esistenziale mi angoscia a morte,
persona in questione, ma non per questo è meno vera. ma mi è chiara e comprensibile. Vi debbo constatare una fatalità
Io però questo senso nella mia vita non riesco a trovarlo. davanti alla quale non posso dire: "Ah, ma cose simili non acca­
1 miei nevrotici genitori hanno prodotto in me un individuo dono”; al contrario, devo prendere atto che accadono, eccome.

166 167
È proprio quello che si chiama " vuotare il calice fino all’ultima possibile avere il tempo per diventare me stesso, prima che il
goccia” e poi constatare: è così e non può essere diversamente. cancro mi divorasse. Forse, se il decorso della mia malattia si
Riconosco anche la necessità di trarre il meglio da ogni situa­ fosse rallentato, mi sarebbe stato concesso ancora un certo
zione e di qui giungo all’obbligo della sincerità: una volta con­ lasso di tempo in cui avrei potuto superare la mia nevrosi.
statato che una causa è perduta, è un errore chiudere gli occhi Forse. Ma queste ipotesi sono inutili, perché in realtà le cose non
di fronte a questa realtà. Una sconfitta ammessa è sempre stanno così o, per tornare alle parole di Sartre: non sono riuscito
meglio di una sconfitta non accettata. a fare qualcosa di ciò che mi è stato fatto. Sono stato distrutto,
Io non ce l’ho fatta, sono stato sconfitto, la guerra è perduta. ma di questa "distruzione” non sono riuscito a fare nulla, come
La guerra contro chi? Chi sono i miei nemici? È difficile a dirsi, vorrebbe Sartre.
anche se per loro ci sono moltissimi nomi: i genitori, la famiglia, C’è ancora un ultimo punto da considerare nel fare l’inventa­
l’ambiente, la società borghese, la Svizzera, il sistema. In ognuno rio della mia vita. La mia tragedia è stata di non poter vivere
di questi elementi c’è qualcosa che potrei definire il principio quegli unici valori esistenziali che soli mi parevano degni di
ostile, anche se nessuno di essi, singolarmente intesi, basta a essere vissuti, perché evidentemente nella mia vita la cosa prin­
spiegare tutta la verità. Si potrebbe anche tentare di definirla cipale non è stato il mio io, la mia volontà, i miei sentimenti, ma
come una forza sovrannaturale amorfa e del tutto anonima, in sempre e soltanto la tara ereditaria: non è accaduto ciò che io
cui i singoli concetti di "genitori”, "società”, si illuminano di
volevo, ma ciò che i miei genitori o, per essere più precisi, i miei
tanto, in tanto per attimi, come scintille. Per la verità nel mio "genitori” fra virgolette, hanno fatto di me. Così, ad esempio,
stato attuale mi preoccupa relativamente poco sapere chi è parte­
i miei genitori hanno fatto sì che io non dovessi conoscere la
cipe di questa forza sovrannaturale e anonima, e in quale misura,
sessualità, sebbene in quella parte del mio io che considero "me
perché sono convinto che, per lo meno ora e qui, a Zurigo, in
stesso” la sessualità sia il massimo dei valori. Soltanto una mini­
Svizzera, nel nostro sistema politico, ciascuno di noi è stato
missima parte del mio io è veramente "me stesso”; la massima
minacciato e danneggiato da questo anonimo principio ostile. Ho
già detto che non mi considero un caso isolato, ma solo uno fra parte è stata invece avvelenata, violentata, distrutta dal princi­
i tanti, anche se forse uno di quelli più gravemente colpiti. Un pio ostile cui ho più sopra accennato, e di cui i miei genitori
altro forse ne ha meno sofferto, alcuni lo hanno forse superato, sono stati per me i più tipici rappresentanti. C’è in me come
altri hanno forse da portarne conseguenze anche peggiori, ma un enorme corpo estraneo, assai più grande del mio "me stesso”,
riescono meglio a tenersi a galla, e infine altri ancora ne sono un corpo estraneo che mi divora e a cui soggiaccio.
vinti e ne muoiono. L’espressione "corpo estraneo” chiarisce anche il confine fra
Secondo Sartre, in questa condizione umana, evidentemente ciò che è mio e ciò che non è mio, e questa è l’ultima conse­
generale, l’essenziale non è tanto "che cosa si è fatto dell’uomo, guenza di quel contenuto esistenziale che ho chiamato chiarezza:
ma che cosa l’uomo ha saputo fare di ciò che a lui è stato fatto”. scoprire quale ultima piccola parte dei mio io non è stata
Una frase che potrei sottoscrivere. Esiste certamente una pos­ intossicata dal mio passato, scoprire in quale parte del mio io
sibilità di fare ancora qualcosa di ciò che si è subito; forse ogni possa riconoscermi senza dover volgere altrove lo sguardo pieno
individuo ha questa possibilità. Forse anch’io l’avrei potuta di odio e di orrore. Anche qui credo di poter stabilire un paral­
avere? Forse se il danno che i miei genitori mi hanno arrecato lelo fra la mia nevrosi e il mio cancro.
(con tutto ciò che è compreso nel concetto "genitori”), non Come l’organismo è invaso dal corpo estraneo "cancro” (seb­
fosse stato così totale e conclusivo, mi sarebbe stato ancora bene anche questo corpo estraneo sia composto di cellule del

168 169
mio stesso organismo, che originariamente non erano maligne), graffia e morde e odia come un animale calpestato: anche quello
così anche la mia anima è invasa dal corpo estraneo "genitori” sono io. Io sono finito, ma non vengo a patti con quelli che mi
che, esattamente come le ulcerazioni cancerose del corpo, non hanno finito. Anche l’ultimo frammento del mio io, fiaccato
conoscono altro scopo che quello di distruggere tutto l’organi­ dalla sofferenza e dal tormento e divorato dal cancro, ora muore
smo globalmente inteso. Come è noto, i tumori di solito in se - ma protestando. La protesta però è un concetto che va oltre
stessi non sono dolenti; ciò che provoca il dolore sono gli organi il fatto di avere o non avere un senso; vive autonomamente,
sani compressi e soffocati dal tumore. Credo che ciò valga anche completamente sganciata dal concetto di significato. Aveva un
per la malattia psichica: ovunque sento dolore, là sono io. La senso che Ulrike Meinhof dichiarasse la guerra totale a un’intera
tara ereditaria è dentro di me come un gigantesco tumore; tutto nazione? Avere un senso non è la giusta espressione per questo,
ciò che di esso soffre, l’angoscia, il tormento, la disperazione, come non lo è neppure il contrario, non avere un senso. Per
quello sono io. Io non sono soltanto come i miei genitori; sono conto mio poteva anche essere assurdo, totalmente insensato,
anche diverso dai miei genitori; la mia individualità è fatta del ma è stato coerente. Non so quali siano state le circostanze che
dolore che provo. La mia vita è più tragica di quella dei miei hanno indotto Ulrike Meinhof a diventare una terrorista; ma
genitori, la loro esistenza è stata più deprimente della mia; i circostanze buone non possono in alcun caso essere state, perché
miei genitori sono andati in rovina senza che mai gli venisse in nessuno che sta bene ed è in pace diventa terrorista. Molto pro­
mente che anche per loro poteva esserci un’occasione per uscire babilmente la sua è stata una vita infelice, forse era anche una
dalla rassegnazione. Io invece questa possibilità l’ho vista; ho vita priva di un reale significato, ma una cosa c’è stata nella sua
visto che avrebbe potuto anche esserci la possibilità di una sal­ vita: coerenza. Io in questo momento non getto bombe; ma la
vezza: che questa possibilità non abbia fatto in tempo a realiz­ coerenza, credo, l’ho anch’io. Anche se la coerenza dovesse
zarsi, di lì nasce la disperazione, lo sconforto, il dolore che per essere l’unica cosa che posseggo.
la sua mortale qualità di delusione diventa molto più selvaggio, Quando mi chiedo se davvero per me non esiste una felicità,
violento, urlante della semplice, passiva, opaca depressione dei * un conforto, una liberazione, non posso sfuggire alla risposta;
miei genitori. Anche in questo, in questo mio essere così dispe­ e la risposta è: no. Queste sono cose che la vita non mi ha con­
rato, mi distinguo da loro, che invece non hanno accettato il cesso. Ma due cose la vita me le ha date: primo la chiarezza, la
rischio di conoscere la disperazione. Anche la qualità della mia facoltà di vedere chiaramente la catastrofe della mia esistenza e
morte sarà diversa da quella di mio padre; per mio padre vale di non raccontarmi storie. E in secondo luogo la forza di soppor­
effettivamente la solita, banale immagine, alquanto kitsch, del tare il peso di questa verità. La mia vita è l’inferno; lo so e sto
vecchio orologio che, messo in un angolo e coperto di polvere, di fronte a questo dato di fatto senza porre in atto manovre di
alla fine smette di funzionare. Un oggetto che per un certo tempo diversione o di occultamento.
con pena e fatica ha continuato a ticchettare e poi alla fine si Sono in campo di sterminio e quel fattore ereditario "paren­
ferma, come un vecchio ferro arrugginito. La mia morte vorrei tale” che è in me sarà la mia camera a gas. Ma io sono dentro
piuttosto definirla un’esplosione di disperazione. Detonazione e il campo di sterminio e i miei carnefici sono fuori. All’interno
crollo. Se si vuole anche detonazione e crollo sono un po’ del campo godo di una certa, anche se estremamente limitata,
kitsch, ma non come l’orologio, questo no. libertà individuale. Ho la libertà di scegliere se voglio gridare
E poi l’odio. Ciò che, ad onta di tutta l’inanità, l’assurdità, la sotto i colpi che ricevo o se dichiararmi d ’accordo con i maltrat­
totale mancanza di una qualsiasi via d ’uscita, ancora urla e tamenti che subisco. Posso scegliere se mentre muoio nella ca-

170 171
mera a gas voglio gridare "Heil H itler” oppure "assassini”. Ho vita al prezzo di quel frammento di me stesso che non è ancora
la libertà di riconoscere la perversità della società che ha fatto di stato avvelenato. Allora la mia sconfitta sarebbe ancora più
me quello che sono e la possibilità di soffrire di questo ricono­ grande, perché sarei diventato il traditore di me stesso. Che ciò
scimento. Potrei anche rassegnarmi e dire sì e amen di fronte al non sia avvenuto, rappresenta già, malgrado tutto, nella immen­
mio assassinio. Questa volontà di distanziarmi in un certo senso sità della mia sconfìtta, una piccola vittoria.
dal mio passato familiare al punto di soffrire, questa è la mia
libertà. Sono stato percosso, castrato e svergognato, disonorato, Zurigo, 7. VI. 1976
avvelenato e ucciso, ma in questa mia libertà individuale mi
distinguo da un capo di bestiame portato al macello: in questo
raggiungo persino una certa dignità umana.
Credo che da ultimo, malgrado tutto, è proprio la incommen­
surabilità del mio dolore che mi emancipa dal mio passato fami­
liare. (Nell’ambiente che è stato il mio si usa morire in maniera
più discreta.) Mi sono angosciato a morte, muoio di dolore.
Forse devo pagare con la morte proprio il mio voler essere
diverso dai miei genitori. Forse persino il cancro è una scelta
volontaria, il prezzo che sono disposto a pagare per liberarmi di
loro. Qui si potrebbe obiettare che ciò significherebbe gettar via
il bene per liberarsi dal male. Ma quando il bene è comunque
già perduto, quando la vita è comunque destinata a finire, non
è forse una ragione di più per liberarsi almeno del male, soprat­
tutto quando questo male è odiato con tanta feroce violenza da
dover essere eliminato a qualunque prezzo? La emancipazione
dal mio passato familiare deve aver luogo a qualunque prezzo,
perché l’oppressione eh’esso ha esercitato su di me è la grande
sopraffazione che ha travolto la mia vita. Se realmente non ci
si può arrivare ad altro prezzo che con la morte, bene, allora
anche la morte non è un prezzo troppo alto. Nessun prezzo è
troppo elevato, se ciò che con esso si ottiene rappresenta una
necessità. Potrei anche rassegnarmi e mettermi il cuore in
pace, accettare di essere così come sono, come i miei genitori mi
hanno fatto; ma in questo caso diventerei il traditore di quel
minuscolo frammento del mio io che chiamo "me stesso”. Se mi
rassegnassi e soffrissi meno di essere ciò che sono, probabilmente
non morirei di dolore e potrei continuare a vivere. In tal caso
mi sarei comperato la vita, e cioè la parte più deteriore della mia

172 173
Terza parte
Il cavaliere, la morte e il diavolo

Sento la necessità di scrivere ora una terza parte della mia storia,
sebbene non creda che la mia situazione si sia sostanzialmente
modificata, né penso di essere giunto a consapevolezze nuove o
molto diverse. Per me tutto rimane come prima, e tuttavia tutto
è però cambiato. Vorrei spiegarlo con un esempio che ritengo
anch’esso di carattere psicosomatico. La diagnosi clinica del mio
male da qualche tempo è cambiata, ha preso un nome diverso.
Dopo ulteriori, ripetuti esami, i medici ultimamente hanno sco­
perto che non ho un cancro, bensì un’altra malattia di natura
maligna, che si chiama linfoma maligno. Questa forma ha in
comune con il cancro la maggior parte dei caratteri, presenta
però alcuni tratti particolari, sufficienti per attribuirle una
diversa denominazione. A questo proposito c’è da notare una
cosa: le differenze fra il linfoma maligno e il cancro sono troppo
poco note perché chi non si intende di medicina sia in grado di
riconoscerle. Per il profano dunque, ora ho "una specie di
cancro”; soltanto il tecnico sa che la cosa è diversa. Il fatto si
può vedere anche sotto il profilo storico; soltanto qualche anno
fa la medicina non sarebbe ancora stata in grado di cogliere
questa sottile differenza e la mia malattia sarebbe stata ancora
denominata cancro. È quindi necessaria una concomitanza di
particolari circostanze diverse per arrivare a stabilire la diffe­
renza fra il cancro e il non-cancro.
Oltre a ciò bisogna considerare la mia reale situazione indivi­
duale. Anche il linfoma è una forma maligna, e quindi letale.
Se io in breve tempo muoio di un linfoma maligno, per me la

175
conclusione è praticamente la stessa che se fossi morto di cancro. prima del conato di vomito è sempre assai peggiore del vomito
Oppure - ed è poi la stessa cosa - anche se avessi un cancro, stesso.
come si è creduto fino a qualche tempo fa, e sopravvivessi, Ci si potrebbe anche domandare se non è ora di finirla, se non
sarei semplicemente sopravvissuto, ad onta di tutta la malignità mi sono occupato anche troppo del mio passato; la realtà però
del male. Questa considerazione rende relativi anche i valori mi risponde che non è ancora abbastanza, la sofferenza della mia
statistici: le possibilità di sopravvivenza per il linfoma maligno esistenza passata e presente non è ancora finita. Nuovi tumori
sono per la verità leggermente superiori che per il cancro; ma continuano ininterrottamente a presentarsi, tumori sia fisici che
per il singolo malato resta del tutto privo di importanza sapere morali e nessuno è mai l’ultimo. L’ultimo può essere tale nel
se muore di un male che statisticamente offre maggiori possi­ senso che dopo di esso non si hanno altre manifestazioni pato­
bilità di sopravvivenza o di un altro. Per il malato, la sola cosa logiche e allora sono veramente guarito; ma ultimo può anche
veramente interessante è sempre e soltanto una: guarire. Le essere quello che mi uccide. L’alternativa è ancora aperta. Per il
cifre delle statistiche sulla sopravvivenza possono anche lasciarlo momento il male mi sta ancora nelle ossa, nel senso più letterale
perfettamente indifferente. del termine e io, come si suol dire, ne sono divorato fino al
Credo perciò che la sola differenza fra la mia attuale situazione midollo, perché è proprio lì infatti, nel midollo, che il male
clinica e la precedente sia di natura puramente stilistica. Il nome negli ultimi tempi si è annidato e si manifesta con maggior
"cancro” è l’espressione proverbiale per tutto ciò che è male; il virulenza. In ciascuna delle innumerevoli ossa del mio scheletro
termine "linfoma” sul piano stilistico o, se si vuole, poetico, la malattia si annida maligna e aspetta soltanto di divorare l’osso
non dice assolutamente nulla, non è fiorito, non ispira a nulla e e con esso anche me. E lo stesso sta avvenendo con il male psi­
nemmeno fa inorridire, è semplicemente un termine tecnico della chico. Anche la nevrosi si annida dentro di me, altrettanto ma­
più aggiornata medicina. Non è un concetto magico, ma soltanto ligna, altrettanto generalizzata, altrettanto letale. Come è ancora
una parola che bisogna andare a cercare nei testi di divulgazione da vedere se la massa infetta del linfoma sarà in grado di ucci­
medica. Agli effetti di questo scritto ciò significa che la parola dermi, così resta ancora da vedere se la massa venefica della
"cancro” sta per il male in generale, in forma indifferenziata, nevrosi si farà troppo insostenibile perché la vita possa con­
mentre il termine "linfoma” sta per una indicazione clinica tinuare.
molto precisa e assai ben differenziabile. Questo è del resto il A questo si aggiunge la paura di non farcela, di non arrivare
senso di queste pagine, distinguere il male vago, impreciso da in tempo. La malattia psichica non è ancora guarita; se ora do­
quello chiaramente precisabile. vessi morire del male organico, prima che quello psichico sia
Per la mia situazione emotiva naturalmente questa distinzione guarito, allora dovrò dirmi che non ho fatto in tempo, che non
ha ben poca importanza. Nella mia infelicità ciò non ha portato ho saputo portare a termine il compito della mia vita, che non
alcun mutamento e l’unica cosa che posso fare di fronte a questa sono riuscito, che, ancora una volta, ho fallito. La cosa più ango­
infelicità è continuare a scriverne. Fintanto che non mi sono sciosa è ora appunto questa paura di non aver più il tempo ne­
liberato da questa jattura, devo continuare a gridare la mia sof­ cessario, di non poter vivere abbastanza per fare in tempo a libe­
ferenza, anche se mai riuscirò a vomitarla tutta e anche se per rarmi del mio passato.
tutta la mia vita non ci dovesse essere per me altro che questo. Perché il mio compito ora è questo: liberarmi del tormento
Non è molto bello passare tutta la propria esistenza a vomitare soffocante del mio passato. Il compito mi è perfettamente chiaro
un passato che non si è riusciti a digerire; ma non riuscire a in tutta la sua necessarietà, in tutta la sua logica, che lo possa
vomitarlo è ancora peggio. La sensazione tremenda che si prova portare a termine o no. Per il problema che così mi viene posto

176 177
non ha alcuna importanza se vinco o se perdo. Il pensiero che è già legato all’albero dal quale dovrà poi penzolare e aspetta
la probabilità di perdere è assai grande, è molto angosciante, ma l’esecuzione, si può immaginare che mentre è lì che aspetta, nel
ciò non muta nulla nella impostazione del problema. Ogni mo­ caso dovesse essere una giornata molto calda, magari si mette
mento del mio passato ha in sé la facoltà di uccidermi, così come un momento a sedere all’ombra e non al sole. Ciò non porta più
ogni cellula del mio organismo porta in sé la possibilità di di­ alcuna differenza nel fatto che sarà impiccato; ma certo è sem­
struggere il corpo. Il caso è chiaro: devo andarmene di qui, pre meglio aspettare all’ombra che sotto il sole cocente.
via da tutto, da tutto quello che sono stato, poiché tutto ciò Voglio dire con questo che anche per me ogni lenimento della
significa per me un immediato pericolo di morte. mia sofferenza psichica è benvenuto, persino se per una guari­
Lo si può dire persino con una formula matematica: quanto gione dovesse essere troppo tardi. Quest’ultima eventualità però
più lontano da tutto ciò che mi uccide, tanto meglio. Anche se non è ancora dimostrata. Non sono cioè ancora guarito, ma non
non dovessi più farcela, anche ogni più minuscola vittoria par­ è ancora detto, in maniera irrevocabile, che io sia inguaribile.
ziale è già qualcosa, anche se il male nel suo complesso non è Fintanto che non è dimostrato che la condanna è definitiva e
più domabile. Meglio poco che niente. O, viceversa: tanto mo­ inappellabile, sussiste pur sempre la speranza, e quando mi
lesta lo poco corno lo mucho. Anche i più piccoli sollievi sono domando che cos’è che mi tiene ancora in piedi e fa sì che io
sollievi, e persino nell’ultima disperazione vi può ancora essere possa sopportare questa esistenza, so che è appunto questa pic­
qualcosa che va oltre ogni disperazione. cola speranza. Fino ad oggi la speranza in un domani migliore è
Un esempio molto illuminante lo ha portato Michail A. Bul- sempre stata più grande della disperazione che mi danno il mio
gachov in II Maestro e Margherita. In questo libro ho letto per passato e il mio presente, e l’impulso che mi fa desiderare la
la prima volta del tormento delle mosche che Gesù ha sofferto liberazione da questo presente è, malgrando tutto, ancora più
sulla croce. *11 capo coperto di sangue e di ferite” è già stato forte di quello di togliermi la vita.
dipinto e cantato migliaia di volte, ma alle mosche prima di Anche questa non è una cosa nuova, ma anch’essa va conti­
Bulgachov nessuno ci aveva pensato. Le mosche in sé non sono nuamente ripetuta. Anche se non voglio più dire niente di
poi la cosa peggiore che possa capitare, né per un crocifisso né nuovo, voglio però continuare a ripetere ciò che ho già detto.
per un comune mortale in' una situazione normale. Ma quando L’essenziale della mia storia l’ho già delineato, ma le varianti,
però un poveretto è già appeso alla croce e sta nel sangue, nei le diramazioni di questa storia vanno continuamente seguite
tormenti e nella infinita desolazione dell’ultima umiliazione, e nella singolarità della loro natura. In questo momento il mio
per di più nella calura di un Paese meridionale e alla fine viene massimo desiderio è quello della chiarezza; il bisogno di definire
anche assalito da uno sciame di mosche, si può soltanto dire: ci sempre meglio, con sempre maggior precisione, chiamandoli per
mancava soltanto questo. Chissà, forse a un certo momento può nome, i singoli aspetti dell’angoscia che minaccia di soffocarmi.
anche darsi che le mosche diventino la cosa più importante, la Ho già accennato altrove che il carattere particolare della mia
più difficile da sopportare. Posso immaginare che l’ultima cosa infelicità, del mio essere preda di questa infelicità, è di natura
che un uomo crocifisso sente, dopo che da molto ormai il dolore puramente quantitativa. Tutti sono nevrotici, ma io lo sono un
fisico e i tormenti dello spirito si sono mescolati fino a diven­ poco di più. Tutti sono malati, e probabilmente tutte le malattie
tare un’unica, generale sofferenza, posso ben immaginare che sono condizionate da una situazione psichica (si dice persino che
l’ultima cosa sia questa disgustosa sensazione di essere attor­ anche sciagure di aspetto esteriormente così meccanico come gli
niato e assalito da uno sciame di mosche nere e assillanti. incidenti stradali siano di origine psicosomatica), ma l’emicrania
D ’altro canto, quando uno è condannato all’impiccagione ed finisce, il cancro uccide. Dire che tutti sono nevrotici e che

178 179
perciò la mia nevrosi rientra nel campo della normalità, non ha Soprattutto però vorrei dare a me stesso un nome e potermi
per me alcuna importanza. Anch’io sono convinto di essere in dire: tu ti chiami così. La mia vita è fatta soprattutto di
questo senso "normale”, in quanto soffro di nevrosi come tutti infelicità; questo l’ho già detto nella prima parte della mia storia.
gli altri, credo però che la anomalia del mio caso consista ap­ Dopo tutto ciò che so di me stesso, è in fondo logico e chiaro
punto in quel pochino in più, in base al quale il mio danno psi­ che io sia infelice, e quindi non è neppure tanto interfessante.
chico si differenzia dal danno psichico degli altri, dei "normali”, La mia infelicità è nel non poter essere quello che vorrei; è nel
appunto. L’acqua bolle a cento gradi. A novantotto non bolle fatto che la massima parte di me non sono io, ma qualcosa che
ancora, ma a cento sì, appunto; questa è la piccola - o grande - mi è estraneo, che sta di fronte al "me stesso” come un nemico,
differenza. e persino minaccia di divorarlo e annientarlo completamente. In
La differenza dal novantanovesimo grado al centesimo è ap­ grandissima parte io sono, più che il prodotto, la scoria delle
punto il piccolo particolare che porta all’ebollizione, una dif­ frustrazioni e dei pregiudizi borghesi (di questo avrò ancora
ferenza minima sulla scala del termometro, ma la conseguenza è occasione di parlare), ma in un’altra, piccolissima parte di me,
rilevante. io non sono questo. Ho già tentato di definire la mia indivi­
Credo che esista la necessità di vedere le cose con chiarezza. dualità come la sostanza stessa del dolore che provo nell’essere
Nella prima parte della mia storia ho raccontato come nella come sono. Vorrei ampliare tale definizione affermando che la
casa dei miei genitori tutto era "difficile”. Ora voglio tentare di mia individualità non è fatta soltanto del dolore che nasce dalla
dimostrare che nulla è "difficile”, ma, al contrario, tutte le cose mia condizione, ma anche del mio giudizio su questa condizione.
sono in fondo molto semplici o per lo meno semplici da dire. Quando mi vedo costretto a considerarmi un prodotto di scarto,
Intendo cioè che le impostazioni dei problemi sono sempre una scoria della società borghese, vorrei da questa scoria estrarre
semplici, persino quando la soluzione dei problemi stessi si rivela la parte di me che ora così la giudica, perché questa parte sono
poi difficile. La vita non è "difficile”, è semplicissima; diffi­ veramente io. Ed è questa in effetti che costituisce l’interesse
cile è soltanto esserne veramente padroni. Anche le cose della della mia storia. La mia infelicità è soltanto una parte presa a
vita non sono "difficili”; in sé sono semplici, ma spesso sono caso nell’infelicità generale e rappresenta solo l’elemento gene­
orrende da chiamare per nome. La frase: "È morto” la si pro­ rico, quindi non interessante. Ciò che interessa è soltanto la mia
nuncia a fatica non perché sia difficile, ma perché è terribile. individuale ribellione contro questa infelicità. Solo l’elemento
Nel corso della mia malattia il mondo è diventato per me individuale è la mia storia, o meglio: solo l’elemento individuale
sempre più semplice e sempre più opprimente. Le mie angosce è la mia storia.
e le mie sofferenze hanno continuato ad aumentare, ma nell’am­ Quasi tutto in me è stato preventivamente programmato: i
bito di queste angosce e sofferenze tutte le cose hanno intanto miei genitori nevrotici, un ambiente nevrotico, e da parte mia
acquistato il loro vero nome. I nomi sono certamente importanti. una certa ricettività per questa atmosfera nevrotizzante, che
Come Adamo agli inizi del mondo ha provato il bisogno di chia­ hanno fatto di me quello che ora sono. Ma non solo questo. Io
mare tutti gli animali per nome e dire: tu sei la tigre, e tu sei il non sono soltanto il prodotto matematicamente calcolabile di
ragno e tu sei il canguro, anch’io, di fronte alla distruzione che un infernale computer, un prodotto assolutamente odioso, ma
mi minaccia, provo il bisogno di dire a ogni fitta che mi trapassa sono anche qualcosa di più, e proprio questo "qualcosa di più”
il cuore: tu ti chiami così e tu così e tu così. A nessuno piace che si sottrae al raggio d ’azione di questo diabolico meccanismo,
restare anonimo; e probabilmente nessuno vuole neanche morire questo non lo odio; questo "qualcosa di più” che non è stato
di qualcosa di anonimo. programmato e ottenuto con la costrizione, che non è tarato, è,

180 181
al contrario, nuovo e importante. Essere tarati rende infelici, è Vorrei paragonare la mia situazione esistenziale a un equilibrio
molto chiaro. Ma ciò che ora importa è quello che fa la parte biologico disturbato di questo tipo: essere un po’ divorato non
non tarata di me; questo è l’aspetto affascinante e particolare avrebbe ecceduto dai limiti della norma, del biologicamente
all’interno della storia di una infelicità altrimenti non interes­ sano; il mio problema è che sono stato divorato troppo. Che nel
sante perché comune. mio bosco si mangi e ci si nutra, l’uno a spese dell’altro, mi va
Avere dei genitori che mi hanno lasciato in eredità i loro pro­ benissimo. Il bosco funziona fintanto che al suo interno si con­
blemi irrisolti e la loro nevrosi non basta a fare di me qualcosa serva il giusto rapporto; ma non appena si mangia troppo, il
di speciale. È ciò che sempre accade; tutti i genitori lo fanno. bosco non funziona più e muore. Qui non importa affatto ciò
I genitori sono un male necessario; c’è bisogno di loro per poter che più piace all’uno o all’altro; c’è chi ama più i caprioli e chi
esistere. Mi sono già domandato se nel mio caso il male non è preferisce i lupi; non ha nessuna importanza. I caprioli però
stato più grave della necessità di esistere, ma oggi devo rispon­ non sono soltanto i "poveri” caprioli, e i lupi non sono solo i
dere negativamente a questa domanda. Se potessi pensare che lupi "cattivi”; negli animali mangiare ed essere mangiati serve
per me sarebbe stato davvero meglio non venire al mondo piut­ solo a mantenere un giusto rapporto, per salvaguardare l’equi­
tosto che esserci così, mi sarei già tolto la vita da un pezzo. Ne librio della foresta —in tal caso tutto funziona.
concludo quindi che per me fino ad oggi la necessità di vivere, Abbiamo così la definizione della vita: il bosco vive fintanto
malgrado tutto, è stata più grande del male che la vita ha che funziona. Chi sta di fronte al bosco non si domanda se ha
significato per me. un senso che da un lato i lupi mangino i caprioli e dall’altro i
L’elemento particolare del mio caso è semplicemente che il caprioli mangino le foglie; vede soltanto che il bosco è vivo e
male della vita e il male dei genitori sono stati di quel fatale verde —e questo a quanto pare basta. Anche qui mi può essere
"pochino” più grandi che in altri, normali o anormali. Vorrei d ’aiuto la concezione di Wilhelm Reich, per cui la vita non ha
spiegarlo con un esempio di carattere ecologico. L’individualità alcun bisogno di avere un senso; basta che funzioni. O, in altre
del bambino e l’influsso dei genitori, ostile a questa individua­ parole: chi guarda il bosco vede che prospera, che *funziona”,
lità, si possono paragonare a uno spazio vitale biologico. Per non pensa al *senso”. Pensa invece che si è contenti che il
fare un esempio: in un bosco vivono lupi e caprioli. I lupi man­ bosco "funzioni”, perché il giorno che non dovesse più funzio­
giano i caprioli, i caprioli mangiano le foglie degli alberi e il nare, sarebbe un guaio, una *disgrazia”. Traggo quindi la con­
bosco costituisce per entrambi lo spazio vitale. Se i lupi pren­ clusione: ciò che non funziona è una disgrazia; ciò che funziona
dono il sopravvento, mangiano troppi caprioli e i pochi caprioli è un bene o, viceversa: bene è ciò che funziona.
che restano non bastano a mangiare foglie nella giusta misura, il Credo che il bene, cioè la felicità, sia anche qualcosa di molto
bosco diventa troppo folto e sempre più simile a una foresta concreto, di una brutale immediatezza. La vita del resto non è
vergine in cui né lupi né caprioli possono più vivere. Se invece tenera; perché la felicità dovrebbe essere una cosa tanto dolce e
sono i caprioli a prendere il sopravvento, i lupi non possono più delicata? Si è felici, così come si è vivi; per constatarlo non
mangiare abbastanza caprioli e i caprioli mangiano troppo occorre essere particolarmente colti. Quando uno è infelice o
fogliame dagli alberi: il bosco si spoglia e di nuovo diventa uno giace morto per la strada, non c’è più bisogno di un professore
spazio non più vitale né per lupi né per caprioli. Che i lupi fino che faccia uno studio approfondito del caso per poi sentenziare,
a un certo limite debbano mangiare i caprioli è quindi giusto e dall’alto della sua sapienza: è morto.
persino necessario per la vita di tutti; solo non devono mangiare Anche per giudicare il mio caso non c’è bisogno di un pro­
troppo e neppure troppo poco. fessore: basta soltanto il coraggio di chiamare le cose con il loro

182 183
nome. Sono infelice perché non funziono e non ho mai funzio­ virtù cardinali, mentre un detto popolare afferma: "dall’aspetta
nato. Da ragazzo non sono stato un ragazzo, da adulto non sono e spera si riconosce il matto”. Ho già altrove affermato che
stato un adulto, da uomo non sono stato un uomo; non ho fun­ anche nella mia vita la speranza ha un ruolo preminente e sono
zionato sotto nessun aspetto. E ora, per rendere più chiaro ed d ’avviso che in sé è una buona cosa, ma una virtù no, non lo
evidente al mondo intero questo mio "non funzionare”, anche è. L’intero problema mi pare si riduca a una questione di gusto,
il mio corpo non funziona più, sia simbolicamente, sia in ma­ e sui gusti, è noto, non è il caso di discutere. Preferire il cam­
niera concreta e terribilmente coerente; è malato, è avvelenato, mello di Abramo o il regno di Dio di Cristo, è una questione di
è infiltrato dalla morte. Questo "non funzionare”, questa morte, temperamento. Personalmente sono per il cammello, perché mi
che è morte dei sentimenti, morte del corpo, morte della vita, sembra una scelta più vitale. Come mi figuro la felicità qualcosa
questa è la mia infelicità, la mia "disgrazia”. Questo non è "dif­ di concreto, così soffro la mia infelicità come una cosa molto
ficile”, al contrario è logico, chiaro, semplice, è soltanto così. concreta. La mia infelicità è il cancro e qui, come sempre, in­
Come l’infelicità è qualcosa di facilmente riconoscibile, credo tendo tanto l’aspetto organico che quello psicologico. Ho anche
che anche la felicità sia una cosa semplice, anche se nel corso cercato di spiegarmi questa infelicità e sono giunto alla formula:
dei millenni il concetto di felicità è sempre stato interpretato in i miei genitori sono il mio tumore. Ora come sempre sono del
maniera più o meno sofisticata. Penso qui ad esempio alla dif­ parere che questa formula sia quella giusta, non vorrei però
ferenza fra la felicità dell’Antico Testamento e quella del mondo liquidarla con un semplice modo di dire, ma cercare invece di
cristiano. Il Dio dell’Antico Testamento promette ad Abramo di approfondirla. In questo senso mi pare significativo che la mia
benedirlo in maniera tangibile, e in effetti lo fa: "E Abramo era diagnosi clinica oggi non sia più cancro ma, meno generica­
ricco di bestiame, di argento e di oro”. Gesù, per contro, nella mente - linfoma maligno. Dire che i miei genitori sono stati il
sua predica della montagna propone: "Beati i poveri, perché a mio linfoma maligno suona meno generico, ma indica che i miei
loro apparterrà il regno di Dio. Beati coloro che piangono, per­ genitori hanno significato per me non il male in generale, ma
ché rideranno. Guai a voi che ora ridete, perché sarete nel lutto un male ben definito e preciso.
e nel pianto” (Luca, 6.20). Bisogna ammettere che la concezione Indica che non solo la parola "cancro” è un modo di dire,
della felicità nel Nuovo Testamento è molto più raffinata e sot­ ma lo è anche il termine "genitori”, sebbene i miei genitori
tile - anche se un pochino troppo sottile, proprio di quel "po­ non siano solo un concetto puramente astratto, ma, al contrario,
chino” che impedisce di esserne davvero contenti. Nel sentire esistano, siano esistiti in maniera quanto mai reale e concreta.
"beati i poveri” si prova già un certo senso di disagio alla bocca Vedo i miei genitori, e anche me stesso, come un miscuglio di
dello stomaco, ma al "guai a voi che ridete”, lo stomaco si parti diverse. Io ho riconosciuto di essere un miscuglio in cui
rivolta del tutto. Un difensore della nuova fede potrebbe obiet­ alla mia più autentica individualità si unisce una massa di pre­
tare che la felicità data da Dio ad Abramo è in fondo una cosa giudizi borghesi assolutamente estranei alla mia vera natura, e
molto banale, perché tutto sommato è fatta solo di oro e di cam­ così vedo anche i miei genitori come un miscuglio formato dalla
melli, mentre quella promessa dal Cristo è molto più nobile ed loro individualità e dalla zavorra di ciò che hanno a loro volta
elevata. Potrebbe obiettare: che cos’è dopotutto un cammello? ereditato.
Al che si potrebbe rispondere: che cos’è dopotutto l’elevatezza? Ho già detto che non posso intendere i miei genitori sempli­
È assai significativo che su questo punto anche la proverbiale cemente come il "male”, come i "cattivi” che mi hanno fatto
saggezza popolare e la teologia cristiana si contraddicano. In del male. In proposito voglio fare ancora una precisazione: i miei
senso teologico, infatti, la speranza è considerata una delle sette genitori non sono stati per me "cattivi”, il che non significa

184 185
che non siano stati un male. In termini matematici: i miei geni­ crudeltà dei Desastres de la guerra ha semplicemente messo come
tori per me non furono un po’ cattivi o piuttosto cattivi o per titolo le parole: "Yo le he visto” - io l’ho visto. L’ho visto,
metà cattivi, in grandissima parte non sono stati affatto cattivi; perciò è anche accaduto, perciò è anche realtà. Ma se ora trasfe­
ma in un certo senso sono stati per me il male in senso assoluto. risco questa visione sulla persona di mia madre e immagino di
Per quanto riguarda il loro influsso sulla mia esistenza e sulla gettare la mia vera madre giù per le scale della cantina della sua
mia sorte essi hanno avuto fra l’altro un aspetto che ha signifi­ vera casa - che sciocco e insensato atto di sangue sarebbe mai!
cato per me il male in senso assoluto. L’espressione "il male in Un’azione insensata, assurda, certo - ma non soltanto insensata.
senso assoluto” non è una contraddizione: relativo è soltanto Insensato sarebbe l’atto di sangue se si realizzasse in maniera
ciò che ci confronta con il resto, mentre "assoluto” per me è il concreta, ma la visione indica una certa dimensione in cui non
fatto che questo male ora mi minaccia con la morte e la mia sarebbe assurda, in cui, anzi, deve avvenire. Nella dimensione in
morte per me è un assoluto. cui mia madre per me personifica il male, in questa dimensione
Come individui i miei genitori non erano cattivi, né mio è giusto e sensato e necessario che io immerga la sua testa nel
padre né mia madre. Mio padre, un pover’uomo silenzioso, tran­ sangue, anche se solo nella forma in cui questi concetti diven­
quillo, triste e distinto, persino dotato di una certa sua nobiltà, tano valori puramente simbolici.
che andava a lavorare coscienzioso e depresso, con un confuso Da un lato è stato anche insensato decapitare Maria Anto­
senso di tristezza nel plesso solare, che, se glielo avessero chie­ nietta, perché non era lei la colpa della miseria e dei mali del
sto, avrebbe certo definito "coraggio”; e mia madre, che ora popolo francese, ma per un altro verso è stato giusto decapitarla,
da anziana signora solitaria immersa in una inerte gentilezza perché, indipendentemente dalla sua personalità individuale, lei
priva di ogni vitalità consuma i suoi giorni in una grande villa era anche la figura simbolica di quella miseria e di quella soffe­
sulla riva del lago di Zurigo - no, non erano cattivi; eppure mi renza. Sollevando la testa di Maria Antonietta per mostrarla al
hanno fatto tanto male. Io non odio l’uomo "padre” né la donna popolo, il carnefice non mostrava la testa di una donna di nome
"madre” e tuttavia odio coloro che sotto il generico nome di Maria Antonietta, ma la testa della regina, e quella testa il
m "genitori” mi hanno entrambi fatto tanto male. Non troverei popolo aveva tutto il diritto di averla, è giusto che l’abbia avuta.
giusto odiare mio padre ò mia madre, ma trovo giusto odiare E qui non mi si venga a obiettare che il popolo intorno alla ghi­
i "genitori”, in senso generale, perché bisogna odiare i propri gliottina era plebaglia e quindi non era necessario rispettare le
oppressori, i persecutori. Bisogna odiare coloro che ci uccidono; sue esigenze, la plebaglia esiste e ha le sue pretese; pone le sue
non farlo, sarebbe una vergogna. Non si può dire a colui che condizioni: è la realtà. Anche il cancro non è una cosa distinta,
uccide: sono d ’accordo che tu mi tolga la vita. No, questo non ma esiste.
si fa. Anche qui c’è una morale. Non è la testa della gentile, anziana signora della villa sul
Tempo fa mi sono molto spesso trastullato con il pensiero di lago di Zurigo che deve cadere, ma un’altra testa, come simbolo,
uccidere mia madre e ne ho spesso anche sognato. In forma di deve cadere, perché è nell’ordine delle cose che di tanto in
visione mi sono visto gettare mia madre giù per le scale della tanto cadano delle teste, è nel corso delle cose di questo mondo.
cantina e battere ripetutamente contro il pavimento di pietra il Io sono minacciato dalla morte e in questo stesso istante vengo
capo insanguinato fino a vederlo ridotto a una massa informe ucciso. Mi si uccide, o mi si è già ucciso, ma io non so ancora
che si dissolveva in una pozza di sangue. Una visione di orrore chi lo ha fatto. I miei genitori mi hanno ucciso. Lo hanno fatto,
- ma una visione reale. Mi ricorda sempre il Goya, che sotto le ma non lo hanno fatto loro fisicamente, soprattutto non hanno
più orribili e mostruose delle sue rappresentazioni di incubi e di mai saputo di averlo fatto. Lo hanno fatto senza cattivà inten-

186 187
zione, inconsciamente e, da ultimo, persino contro la loro stessa significato altamente lodevole: il luogo dove è depositata la
volontà. Mio padre è morto, mia madre vive ancora. In un mia eredità merita di esplodere - solo che non deve essere in
certo senso mia madre mi ha ucciso, ma io non voglio né posso concreto proprio quel pomposo palazzo della Paradeplatz di
odiarla per questo, perché so che lei non lo sa. Zurigo in cui giace custodito il denaro che i miei medici aspet­
Un’altra visione dei tempi passati, che appare fantastica, ma tano, perché fintanto che sono malato, non posso permettermi di
che pure simbolicamente è molto eloquente, è stata per me essere anche in miseria. Anche per motivi non finanziari risulta
quella in cui facevo saltare in aria la Banca di Credito Svizzero. chiaro e comprensibile che non può essere il mio più vivo desi­
Perché proprio questa banca? Oggi la visione mi appare molto derio trasformare la più bella banca di Zurigo in un cumulo di
chiara: perché in quella banca è depositato tutto il denaro che macerie, perché ciò che questo luogo personifica per me - il
mio padre mi ha lasciato in eredità. In quel luogo giace dunque luogo che custodisce la mia letale eredità — non lo si può far
la mia eredità parentale in forma concreta e tangibile e questa saltare con la dinamite. La Banca di Credito Svizzero è anche la
eredità consiste solo in minimissima parte di migliaia e migliaia quintessenza, il concetto astratto dello spirito zurighese, del
di franchi, ma in grandissima parte delle migliaia e migliaia di borghesismo e dello svizzerismo nelle sue espressioni più dete­
angosce e disperazioni che mi affliggono. Che la Banca di Credito riori; ma questo aspetto deteriore di Zurigo, del borghesismo,
Svizzero come oggetto da far saltare in aria rappresenti un sim­ dello svizzerismo, non si trova in un palazzo di solida pietra,
bolo più che plausibile, mi pare più che evidente. La parte prati­ che si può far saltare in aria; la natura maligna di queste pre­
ca del progetto non presenta difficoltà, perché al giorno d’oggi cipue qualità io ce l’ho nelle ossa, e le ossa non si guariscono con
chiunque ha almeno un amico che conosce un palestinese. Che la dinamite.
il progetto dal lato finanziario sarebbe una grossa sciocchezza, Inoltre considero le banche svizzere non soltanto detesta­
anche questo è chiaramente comprensibile, perché dopotutto il bili. Trovo cioè che le banche di Zurigo non sono precisamente
denaro che ho ereditato mi serve per pagare i molti medici che il monumento più bello della città, ma rivelano però con rude
mi curano (la Cassa malattia non paga più un centesimo, perché franchezza l’insolente atteggiamento zurighese; poiché se questa
il cancro è una faccenda costosa e di qualcosa, dopotutto, anche bella città è odiata e disprezzata in tutto il mondo, non è certo
le assicurazioni devono pui: vivere, così che ora dipendo esclusi­ per il suo bel lago e neppure per i suoi campanili; ammetto
vamente dalle mie personali risorse finanziarie). Io considero d ’altro canto che anche le banche, indipendentemente dal loro
questo denaro come l’indennizzo per la mia sofferenza: l’ho significato simbolico, assolvono un compito necessario. Anche
avuto per tutte le sofferenze e i dolori che ho patito; l’ho le cave in cui si raccolgono le immondizie non sono una cosa
amaramente guadagnato, molto più amaramente che con il su­ piacevole, tuttavia sono necessarie.
dore della fronte, l’ho guadagnato con le lacrime; lo considero Perciò ho parlato di valori simbolici riferendomi ai miei
veramente guadagnato e mio. Vedo persino un certo aspetto di genitori e al denaro che ho da loro ereditato e che è depositato
giustizia sociale dietro la mia attuale situazione finanziaria: ho presso la Banca di Credito Svizzero. Per questo motivo ho
cioè ereditato dai miei genitori più denaro di molta altra gente, anche prestato fede alle mie visioni di violenza di un tempo; in
ma ho anche bisogno di più denaro di molta altra gente, perché esse infatti questi valori simbolici assumevano forma concreta,
i molti danni che ho anche ereditato dai miei genitori, devo cer­ che sarebbe stata assurda in una sua ipotetica realizzazione, ma
care di ripararli spendendo molto denaro. che nel suo valore simbolico colpiva perfettamente nel segno.
L’intero progetto di allora di far saltare in aria la Banca di Devo però aggiungere che ciò che riesce bene alla mente, non
Credito Svizzero, oggi come gesto simbolico lo trovo nel suo riesce sempre altrettanto bene allo spirito. Capisco che i miei

188 189
genitori sono da vedersi come due diversi ordini di cose: in Ogni giorno può presentarsi un nuovo danno fisico o psichico;
primo luogo, sono un signore e una signora in una bella villa ogni giorno porta in sé un nuovo dolore e ogni dolore nasconde
con giardino sul lago di Zurigo, in secondo luogo, essi sono la in sé la possibilità di crescere e di rivelarsi un nuovo tumore.
personificazione di qualcosa che mi è stato letale. Quando siedo Ciascuno di questi tumori vuole la mia morte e ciascuno può
alla scrivania "freddo fin dentro il cuore”, allora i miei "geni­ essere l’ultimo. Ma l’ultimo uccide. In questi tumori l’aspetto
tori” sono per me un concetto intellettuale, che io, da uomo di simbolico si eleva al di sopra del simbolico fino a entrare nel
cultura, so manipolare con arte e abilità e in cui, come in un demoniaco. Ogni nuova tumefazione che si presenta con un tur­
gioco di perle di vetro, riesco a far giocare a mio piacimento gore che si rileva sul corpo liscio, sembra sorgere dalle pro­
tutte le possibili sfaccettature di un virtuale problema. fondità della sua origine psicosomatica e rappresentare la smor­
Talvolta invece non seggo neppure alla scrivania, ma mi volto fia demoniaca e contorta dei miei demoniaci "genitori”, e qui è
e rivolto nel letto in preda alla furia, a un’ira disperata, perché chiaro che il termine "genitori” si leva nel turbine di una spirale
la notte non riesco a dormire per i dolori e allora non sono più di nebbia di cosmico orrore e spazia e si disperde nell’infinito
un intellettuale che martella sulla macchina da scrivere sottili dell’orrore primordiale, nell’indicibile.
disquisizioni sul dolore, ma sono soltanto tutto e unicamente Qui si direbbe quasi che io voglia che i miei genitori siano
in preda al mio dolore fisico e psichico, e allora sono anch’io la stati soltanto i "genitori” intesi nel loro significato e contenuto
plebe di Parigi che vuole vedere una testa insanguinata, e gli è simbolico; due figure irreali che vivono soltanto sulla scacchiera
indifferente se quella testa è stata di una certa Maria Antonietta; della mia costruzione intellettuale come scacchi che si spostano
ciò che gli preme è che sia la testa della regina. qua e là. I miei genitori sono certo anche questo, ma non sono
Come prognosi per me stesso potrei stabilire questo: non soltanto figure simboliche del concetto generico di genitori, di
appena avrò superato i miei genitori —i miei "genitori” - non borghesi, di zurighesi, di svizzeri; sono stati anche creature asso­
appena mi saranno diventati del tutto indifferenti, sarò guarito lutamente reali, mio padre, che alcuni anni fa è morto per un
e salvo. Ma questo è ancora molto difficile per me, fintanto che aneurisma, e mia madre che vive da vedova sulla sponda del
la misura delle offese fisiche che mi sono state inflitte non è lago di Zurigo nella casa ereditata dal marito. Come genitori
ancora colma, ma continua a crescere. Potrei dimenticare i concreti essi non erano soltanto rappresentanti e archetipi della
danni subiti se me li fossi già lasciati alle spalle. Ma nulla è specie "genitori zurighesi dell’ambiente borghese”, ma avevano
ancora alle mie spalle, tutto è ancora presente, ci sono dentro, anche le loro caratteristiche individuali. Se però ora considero
ci sono in mezzo, ora, in questo momento, tutto vive in me solo quell’aspetto particolare che doveva diventarmi fatale,
incessantemente. Non ho una sola lacrima di rimpianto per il arrivo nuovamente alla conclusione che la differenza fra i miei
mio infelice passato e mi sento perfettamente in grado, se non genitori e altri genitori, altrettanto normali o altrettanto anor­
di dimenticarlo, per lo meno di vincerlo, di superarlo. Ma che mali, è appunto stata di natura puramente quantitativa. Intendo
tutto ciò che mi ha tormentato nel passato debba continuare a cioè dire che nella loro detestabilità i miei genitori erano asso­
verificarsi anche nel presente, questo mi opprime e mi angoscia lutamente privi di ogni originalità.
oltre ogni limite, troppo perché lo possa prendere alla leggera o Del resto non si può neppure dire che fossero particolarmente
addirittura ignorare. Non ciò che di amaro ho vissuto, mi rattri­ detestabili; erano soltanto un pochino più detestabili di tanti
sta, ma il pensiero che esso continui ad agire, ancora e sempre. altri genitori detestabili dello stesso ambiente borghese. Non
Non il peso del passato mi affligge, ma il pensiero che anche per erano più cattivi di altri genitori (ho già detto anche prima che
il futuro non vi sia una fine, è questo che non riesco a superare. erano persino decisamente gentili, le cosiddette "care persone”),

190 191
erano soltanto un pochino più tarati di quanto si sia comun­ sofferenza, ma non una debolezza. Nel caso degli uccelli di pas­
que sulla taratissima costa d ’oro di Zurigo. Erano solo un po­ so, tanto per fare un esempio, la debolezza dei piccoli rappre­
chino più borghesi, un pochino più inibiti, un pochino più ostili senta un motivo sufficiente per sopprimerli, per il bene di una
alla vita, un pochino più ostili alla sessualità, un pochino più sana comunità. Nell’ambito della loro società, la debolezza del­
puliti, un pochino più comme il faut, un pochino più svizzeri l’uccellino di passo può effettivamente essere un elemento di
di tutti i loro vicini che pure lo erano già tanto anche loro - e inferiorità, ma nella società umana la sensibilità non rappresenta
appunto quel pochino adesso mi uccide. A questo punto si può una simile debolezza e inferiorità. Al contrario, è addirittura
soltanto ricordare che è pur sempre soltanto un’ultima goccia una necessità, perché solo l’individuo sensibile avverte i fattori
quella che fa traboccare il vaso. negativi della società in cui vive con tanta dolorosa chiarezza da
E io? Io ero appunto un pochino più sensibile di quanto lo poterli tradurre in parole e, attraverso la loro enunciazione,
fossero gli altri bambini, e per questo ho anche vissuto il mio esercitare una critica capace di indurre possibili miglioramenti.
ambiente più negativamente degli altri bambini. Si può allora Facendo una breve digressione da quello che è il mio effet­
concludere che la mia educazione in fondo non è stata poi tanto tivo desiderio, cioè la mia volontà di sopravvivere come indivi­
cattiva, e che l’avrei superata senza difficoltà se soltanto non duo, vorrei aggiungere che, anche sul piano sociologico, trovo
fossi stato così sensibile? Naturalmente no, perché un’educa­ ciò che mi accade estremamente malsano. In termini sociologici
zione è cattiva quando riescono a superarla solo i bambini che non mi considero affatto un caso "difficile”, ma piuttosto un
non sono sensibili, ed è buona soltanto quando la superano caso necessario, e anche in questo senso non trovo giusto venire
persino i bambini sensibili. Non credo cioè che la sensibilità sia ucciso. Oggi si sa che non si può sterminare impunemente nes­
in sé un fattore negativo. Soprattutto non è colpa della sensibilità suna specie senza correre il rischio di intaccare il patrimonio di
quando uno muore. Quando sarò morto non si potrà dire che molte specie, anche diverse, nell’ambito della stessa comunità.
sono morto perché sono stato così sensibile; al contrario, resterà Ciò che ora accade di me, non è soltanto la mia personale infe­
chiaro e fermo che sono morto delle conseguenze di una edu­ licità ma, nei confronti della comunità, è uno scandalo, e preci­
cazione sbagliata, con o senza sensibilità. Mi ribello all’idea di samente uno scandalo con delle conseguenze. Se si uccidono
essere morto e basta. Perché il giorno che sarò morto, saprò tutti quelli che si chiamano Federico, il mondo va in rovina,
almeno perché. Ancora una parola a proposito di sensibilità. perché sterminare la specie dei Federichi è una sorta di inqui­
Non credo, in effetti, che la sensibilità sia un elemento di infe­ namento dell’ambiente; e l’inquinamento dell’ambiente porta
riorità, ma sono l’ultimo che - come si fa tanto volentieri negli sempre conseguenze gravissime.
ambiente borghesi - trova così meraviglioso, quando di un tale Ho tentato di presentare la mia situazione come il risultato di
si può dire che è un tipo "tanto sensibile”. Già Schiller nel un conflitto fra la mia individualità e il mondo borghese e a
suo saggio su Poesia ingenua e sentimentale ha dimostrato questo proposito vorrei notare che qui il "borghese” va sem­
che il sentimentalismo può essere invero molto sgradevole per pre inteso fra virgolette, così come il più delle volte ho presen­
il singolo individuo, ma è invece molto importante per la tato i miei genitori come i "genitori”, fra virgolette, appunto;
società. Vorrei andare ancora più in là e notare che per l’inte­ ma ancora a maggior ragione. Anche il borghesismo non è sol­
ressato la sensibilità spesso è persino più una disgrazia che altro tanto il male e non tutto il male è borghese, ma l’elemento
e che porta all’individuo molte sofferenze e ben poche gioie. borghese ha anche un aspetto che personifica il male, il male in
Per l’interessato è certamente una disgrazia, ma secondo me assoluto. Intendo qui l’elemento borghese anche in senso poli­
questo non è un buon motivo per estirparla. Io la considero una tico, ma non soltanto in senso politico, soprattutto senza par-

192 193
tire dalla premessa che tutto ciò che è antiborghese sia necessa­ concetto generico di borghese era un po’ troppo ben riuscita
riamente da preferire al borghese. Solo perché la società borghese per supporre che fosse opera di assoluta onestà.
è tanto nera, non per questo la società comunista è à tout prix Devo dunque supporre che ciò che io condanno come ele­
sempre e dappertutto color di rosa; e il solo fatto che l’Europa mento del male da un lato nei miei genitori, dall’altro nel con­
sia gravata di così pesanti tare non basta per affermare che fra cetto di borghese non sia sempre esattamente la stessa cosa, ma
le tribù dei negri più primitivi regna solo gioia e felicità. in entrambi i casi sono sulle tracce dello stesso elemento nega­
L’Europa è in effetti un mondo in rovina che si sbriciola per tivo: il male in se stesso. Oso affermare che il male è sempre
eccesso di cultura; ma Idi Amin - ad onta di tutta la sua dav­ e ovunque lo stesso, e che in realtà esiste un solo tipo di male.
vero autentica primitività - non rappresenta davvero un’alter­ Quello di cui gli uomini soffrono è sempre lo stesso male: quel
nativa allettante. In Europa quasi tutti vanno dallo psichiatra, che vien loro fatto è sempre lo stesso male. Espresso in termini
ma che i selvaggi della savana con i loro anelli grandi come di criminalità cosmica: esiste sempre un solo delitto che inin­
piatti infilati nel labbro inferiore e i colli da giraffa siano terrottamente si compie su tutti e su ciascuno: l’elemento deci­
davvero, con tutte le loro astruse decorazioni, tanto naturali e sivo è solo la quantità. Quando il delitto si compie in propor­
felici ed esenti da ogni nevrosi, di questo mi permetto di dubi­ zioni che restano nell’ambito della norma, l’individuo che ne è
tare. Non sono quindi contro il mondo borghese in quanto vittima non ne soffre più che tanto. Lo sente sì come una cosa
convinto che fuori dal mondo zurighese, svizzero, europeo, ad spiacevole, ma riesce a sopravvivere - il più delle volte persino
esempio nei campi di concentramento della Siberia o nella giun­ bene. Già più sopra mi sono definito normale nel senso che
gla degli Zulù tutto vada meglio, ma in quanto credo che nel anch’io, come gli altri, ho avuto dei guai; l’aspetto anomalo della
concetto di "borghese” ci sia un elemento ostile a tutti, non mia storia è solo che di guai io ne ho avuto troppi. O, in altre
da ultimo anche ai borghesi. parole: il male si è compiuto su di me in proporzioni superiori
È lo stesso principio ostile riscontrato nei miei genitori, che alla norma.
ritrovo anche in quel complesso di fattori che definisco borghese Ho già più sopra definito "bene” ciò che funziona e "male”
(che raccoglie evidentemente tutto in un unico concetto, se si ciò che non funziona. Probabilmente si può andare oltre e dire
pensa che l’aspetto innaturale nei miei genitori era appunto il che non solo è bene quando una cosa funziona, ma che questo
loro non volersi in nulla distinguere da ciò che supponevano è il "bene” in se stesso. Ho già negato più sopra la necessità
l’ideale borghese). Qui devo esprimere ancora un dubbio circa che qualcosa che funziona debba assolutamente avere un senso.
l’identificazione apparentemente così naturale e indolore dei L’unica cosa che importa è che funzioni. Gli atomi funzionano
miei genitori con l’ideale borghese. Ho già avuto prima occa­ in quanto gli elettroni roteano intorno al nucleo dell’atomo.
sione di affermare che considero il cancro come una chance, Non che questo abbia un significato profondo, comunque lo
cioè come la chance in forma di segnale d ’allarme, per avvertire fanno. Il formicaio funziona in quanto è pieno di movimento.
in tempo di un pericolo incombente. Dei miei genitori ho detto È assolutamente privo di senso che le formiche siano sempre
che non hanno avuto questa chance, e perciò hanno avuto tanta così indaffarate, ma è una buona cosa. Il bosco di cui abbiamo
difficoltà a capire quanto era sbagliata la situazione in cui si prima parlato funziona in quanto il lupo mangia il capriolo. Il
trovavano. Ma deve sempre essere per forza un cancro? Non è mondo funziona in quanto la luna gira intorno alla terra e la
invece che ciascuno deve capire qual è la sua situazione, se terra intorno al sole e con questo siamo di nuovo arrivati al
soltanto lo vuole capire? Su questo non mi sento di assolvere ritmo cosmico e agli atomi. Nel caso qualcuno non lo dovesse
i miei genitori da ogni sospetto: la loro identificazione con il trovar chiaro, basta che domandi a un bambino che va sulla

194 195
giostra se non è bello girare in tondo e subito saprà la verità, capisce che io non sto parlando a favore del baccano, poiché
perché, come è noto, i bambini piccoli dicono sempre la verità. parto dal presupposto che fra il rumore di una autostrada e il
Tutto ciò che brulica e si muove e gira in tondo è un bene. suono di una chitarra esista ancora una differenza; trovo anche
Ma non tutti sono d ’accordo, anzi molta gente è decisamente una certa differenza fra la necessità che a Zurigo ogni cittadino
contraria. deva andare al lavoro servendosi della propria automobile, cau­
Mentre io nel mio appartamento nella Krongasse di Zurigo sando così un certo rumore, e la necessità che i bambini possano
metto sulla carta queste mie riflessioni, dalle finestre dei vicini giocare e quindi fare anche un po’ di rumore.)
si sente gridare: silenzio! La Krongasse è un quartiere privile­ Il concetto che ho portato di borghese mi pare quindi finisca
giato in città, perché la strada è così stretta che una automobile per includere qualcosa di negativo, di male, quando minaccia di
ci passa a malapena e quando anche ci passa, scivola via senza identificarsi con la "quiete”, là dove questa quiete a sua volta
rumore. È anche un quartiere distinto, dove non ci sono bettole si collega con il concetto altrove citato di pulito, sterile, cor­
o locali pubblici e dove la notte non si sentono le grida e i retto e comme il faut. Indipendentemente dal fatto che ciascuno
richiami degli ubriachi. Ma per la gente che ci abita non è abba­ di noi ama essere lasciato in pace, avere la sua quiete, concetto
stanza tranquillo. Nell’ora del mezzogiorno ci sono dei bambini nel quale sono comprese le vacanze, la distensione, il tempo
che giocano in mezzo alla strada, e lo possono fare, appunto libero, la parola "quiete” ha per me un aspetto sinistro e pau­
grazie al fatto che non c’è traffico. Nel gioco questi bambini di roso. La quiete è così silenziosa (non è un gioco di parole, ma
tanto in tanto alzano un po’ la voce, e allora le vecchie abitanti piuttosto liricamente intesa come qualcosa di triste). Chi dice
della Krongasse si sentono subito autorizzate a gridare ” silen­ quiete, sembra quasi sempre parli già della quiete della tomba
zio! ” dall’alto delle loro finestre, perché qui è già tutto tran­ e quindi della morte. Quando uno è morto, si dice che ha rag­
quillo e silenzioso, ma lo deve essere ancora di più. Quando la giunto la quiete eterna, l’eterno riposo. In Svizzera tutto deve
sera qualche gruppetto di giovani si raccoglie su una terrazza sempre essere assolutamente quieto e questo bisogno di tran­
e si mette a cantare qualche canzone, subito viene chiamata la quillità lo si esprime in forma di imperativo. Si dice: silenzio!
polizia, perché cantare su una terrazza rappresenta " disturbo con un tono di comando ed è come se si dicesse in tono impe­
della quiete notturna”. A Zurigo, anche quando qualcuno nella rativo: morte!
città vecchia nell’ora del mezzogiorno si mette accanto a una Anche nella mia casa paterna un tempo tutto era sempre
fontana e suona la chitarra, anche allora si chiama la polizia, tranquillo, ed essere tranquilli era considerata una virtù. Le
perché questo rappresenta un disturbo della quiete pomeridiana. persone simpatiche, quelle di carattere, erano sempre tranquille
Ogni ora della giornata ha il suo particolare tipo di quiete e di - no, erano più che tranquille, erano "tranquille”. Quando le
silenzio e quando questa quiete non viene rispettata e ci si ragazze da marito della mia famiglia e del nostro ambiente
permette di cantare a mezzogiorno accanto a una fontana, o avevano finalmente trovato l’uomo giusto da sposare e si doman­
qualcuno la sera si permette di cantare una canzone su una dava com’era il prescelto, in casa dei miei genitori si diceva
terrazza, subito arriva la polizia, perché per i buoni borghesi la sempre: oh, è tanto simpatico, è un tipo molto tranquillo. Le
quiete non è soltanto il primo dovere, ma anche un sacrosanto giovani spose di questi tranquilli mariti dopo un paio d anni di
diritto. Ognuno incretinisce all’interno della sua quiete, fra le tranquillo matrimonio di solito finivano per divorziare, evidèn­
sue quattro mura, ma se in questo processo di incretinimento temente perché il prescelto era stato troppo tranquillo. Queste
viene disturbato da un rumore estraneo, subito si sente ferito giovani donne, nella maggioranza dei casi, si erano lamentate,
nel suo diritto a incretinirsi in pace e chiama la polizia. (Si più o meno apertamente, che tutta quella tranquillità coniugale

196 197
alla fine era davvero diventata troppo noiosa e si erano sentite Tranquilla - che parola orribile! Alla domenica, il mio tranquillo
frustrate. Solo mia madre insistette con tenacia nella sua tran­ papà faceva sempre il solitario, e ho già detto che ne sapeva fare
quillità coniugale e per ben trentanni potè dire, con le parole uno solo, e cioè l’arpa, che è comunque il più noioso che esista.
di Annette von Droste-Hulshoff: Anch’io qualche volta faccio un solitario, ma non ogni domenica
e poi ne conosco una quantità, e soprattutto mi piace fare il
Nun muss ich sitzen so fein und klar,
Gleich einem artigen Kinde.1 "piccolo Napoleone”, che è molto interessante; in breve, anche
il solitario può essere una cosa divertente, ma quella eterna
Molte cose della vita sono dovute al caso. Ma ci sono casi che "arpa” della domenica - quella aveva in sé qualcosa di triste, di
colpiscono nel segno. Il padre di mia madre si chiamava opprimente. Mentre faceva il solitario, mio padre ascoltava
Gottfried. Tutti gli Zorn si chiamavano anche loro Gottfried: anche dei dischi, di preferenza triste musica romantica di Schu­
il padre di mio padre e anche il marito di mia madre. Si chia­ mann, Schubert o Brahms, qualche volta anche il Winterreise
mavano tutti Gottfried2 Zorn e non ebbero mai uno scatto d ’ira di Schubert, dove, come se non bastasse, si dice anche:
contro il loro Dio. Vivevano in pace - in pace con Dio e con
gli uomini. Non erano mai colti dall’ira, ma dicevano invece: Und immer hör ichs rauschen:
Du fändest Ruhe dort.1
calma, calma, sta’ tranquillo. Se ben ricordo, una volta, un’unica
volta, mia madre si lamentò con me che anche a lei sarebbe pia­ Naturalmente anche per il fatto che mio padre faceva sempre il
ciuto un po’ più di allegria, ma "che non sta bene”. È signi­ solitario, anche per questo c’era uno specifico motivo: mio padre
ficativo che così facendo ripetesse le parole di sua madre, che era, appunto, "stanco”. Mio padre aveva una vita "difficile”,
una volta aveva confessato che da giovane le sarebbe tanto pia­ perciò era anche sempre "stanco”. Io ho imparato a vedere la
ciuto andare a ballare, ma "che non si poteva, appunto”, stanchezza come una cosa molto complessa. Talvolta sono
perché al nonno (che lei chiamava "paparino”) girava subito la stanco per il lavoro; talvolta sono stanco di far nulla - ma
testa. Il "paparino” se ne stava tutto il santo giorno seduto dopo il non far nulla sono sempre più stanco che dopo il lavoro;
dietro la sua scrivania, proprio di fronte a un quadro medioevale e qualche volta sono stanco in un modo diverso, per cui stanco
raffigurante un Cristo crocifisso di grandezza naturale. A lato diventa sinonimo di triste. Ma allora, quando la stanchezza si
della sua scrivania c’era appeso un altro quadro, più piccolo, e identifica con la tristezza, allora sono veramente terribilmente
anche quello rappresentava un Cristo in croce. Mia nonna non stanco. Non per nulla si parla di un bisogno di riposo che si
era un tipo distinto; forse era persino un po’ volgaruccia - ma definisce con l’espressione "stanco della vita”. E c’è un’altra
certo era una povera diavola e se penso che le sarebbe tanto cosa che mi rattrista: mio padre, quest’uomo intelligente, dotato,
piaciuto andare a ballare, mentre il "paparino” Gottfried invece pieno di talento, colto, sensibile, di animo nobile, lasciava com
se ne stava seduto davanti ai suoi Cristi crocifissi, mi passa la pletamente inutilizzate tutte le sue qualità e faceva il solitario.
voglia di prendermela con lei. La sua massima colpa mio padre l’ha avuta verso se stesso. Mio
Anche mia madre - povera mamma! Ogni domenica sera padre, che era nato per una attività creativa, era sempre stanco
telefonava a qualche parente e riferiva sulla giornata trascorsa e disponeva le carte per la sua eterna arpa, mentre mia madre,
e ogni volta diceva: abbiamo avuto una giornata tanto tranquilla. come fedele consorte, badava solo a non disturbarlo e non dava
segno di sé, perché lui era "stanco”. Mia madre, dal canto suo,
1 O r devo stare buona e serena / come una brava bambina. [N.rf.T.]
2 G o t t frie.d significa letteralmente: pace di Dio; Z o r n in tedesco è: ira. [N.J.T.] 1 E sempre io odo frusciare: / là trovereste pace. [ N . d . T .]

198 199
sarebbe stata una donna piuttosto predisposta all’allegria, ma contrari a che le formiche arranchino nel bosco "perché il sen­
"ebbe una vita tranquilla” per tutta l’esistenza. Quella tranquil­ tiero dove arrancano forse è un terreno privato e camminarci
lità della mia casa paterna - che sciagura! sopra è forse proibito e forse si rischia di prendere la multa”.
Quando ripenso alla storia della mia famiglia, arrivo alla Vuol dire essere contrari a che il leone divori la gazzella "prima
conclusione che io, con tutte le mie sofferenze e i miei dolori, di tutto perché il leone è forestiero, secondariamente perché la
vivo la mia vita molto più intensamente di quanto abbiano fatto gazzella non è notificata alla polizia e terzo perché entrambi sono
i miei genitori con la loro riposante quiete. Sono infelice, è vero, minorenni”. Vuol dire essere contrari a che la luna ruoti intorno
lo sono in maniera violenta e passionale; i miei genitori invece alla terra "perché il chiaro di luna potrebbe disturbare qual­
avevano una vita quieta e riposante —ma questo è ancora mille cuno”. Vuol dire essere contrari a che il sole si levi "perché la
volte peggio. Io sono assalito da mille angosce e vivo mille tor­ banca ha già acquistato la maggioranza delle azioni per il terri­
ture - ma per lo meno vivo qualcosa, mentre i miei genitori torio del cielo e bisogna aspettare un miglioramento della situa­
non hanno vissuto nulla. Io sono nell’inferno, ma sono per lo zione economica prima che il sole possa alzarsi”. Vuol dire che
meno nell’inferno e i miei genitori, beh, loro erano, al mas­ c’è sempre presente un potenziale qualcuno che si potrebbe
simo, nel limbo e per la verità non erano neppure. Io ora sto eventualmente disturbare; e quando questo potenziale qualcuno
per morire, ma i miei genitori non hanno mai vissuto. Mio è per una volta introvabile, bisogna inventarlo.
padre ha trovato "l’eterno riposo”; mia madre se ne sta sola in Credo che il non voler disturbare sia male proprio perché, al
una grande casa morta e vive nella tristezza. contrario, bisogna disturbare. Non basta esistere; bisogna anche
Ma non tutti considerano triste ciò che io trovo triste. I miei far notare che si esiste. Non basta semplicemente essere, bisogna
genitori non si consideravano tristi, ma piuttosto corretti, giusti, anche agire. Ma chi agisce, disturba - e cioè nel significato più
comme il faut. La quiete della loro casa non era per loro una nobile della parola. Dalla Cantata di Bach Auf, schmetternde
sofferenza, ma una virtù. In questo, del resto, non differivano Töne der muntern Trompeten (nomen est omen):
molto neppure dall’altra gente, perché quante sofferenze nella
Dort blühet manche schöne Blume,
nostra società sono considerate come virtù! La mia casa paterna Hier hebt zu Floras grossem Rumbe
non funzionava, non era viva, non veniva mai coinvolta in nulla sich eine Pflanze in die Höh
e da nessuno e rimaneva quindi indisturbata. Da noi, tutto era Und will ihr Wachstum zeigen}
sempre tranquillo, molto tranquillo; nessuno poteva essere Non basta che il fiore si levi alto, deve anche "mostrare la sua
disturbato da tutta quella tranquillità. Nessuno aveva bisogno crescita”.
di gridare "silenzio!” perché noi eravamo già silenziosi. E ap­ Nella prima parte della mia storia ho già portato una quantità
punto perché non disturbavamo niente e nessuno eravamo di esempi per questo fenomeno dell’"essere borghese, essere
comme il faut. E questa era tutta la nostra virtù. tranquillo, essere svizzero” e non è ora necessario che allunghi
Credo di poter arrischiare una formula per definire quello che la lista. Ad un esempio però vorrei ancora tornare per un mo­
ho accennato con il termine di "borghese”. Essere "borghese” mento, un esempio che mi pare rappresentativo di tutti gli altri,
vuol dire "essere tranquillo a qualunque costo, perché altrimenti e cioè la sessualità. Quando ho scritto che l’essere borghese
si potrebbe disturbare la quiete di qualcun altro”. E questo
appunto è il pale. È borghese ed è male avere qualcosa in con­
trario che gli elettroni ruotino intorno al nucleo dell’atomo 1 Là fioriscono alcuni bei fiori, / qui si leva a gloria di Flora / una pianta
"perché forse potrebbero disturbare qualcuno”. Vuol dire essere verso l ’alto / e vuol mostrare la sua crescita. [N.d.T.]

200 201
vuol impedire al sole di levarsi, ciò vale, in senso più lato, come "purtroppo” infelice, non "ho avuto sfortuna”, non è per caso
formulazione poetica per molte altre cose. Se si pensa che nel che sono infelice. Mi hanno reso infelice. Hanno fatto sì che
mondo borghese tutto ciò che è sessuale "non esiste”, vale a diventassi infelice. La mia infelicità non è il risultato di un mero
dire, semplicemente, che non c’è perché è stato proibito (come caso o di un incidente, ma di un errore, di una colpa. Non è
se qualcosa potesse cessare di esistere perché viene proibito), semplicemente "successo”, ma è il frutto di un’azione. Non è
allora non ci troviamo di fronte a del lirismo, a un fatto poe­ destino, ma colpa.
tico, quanto piuttosto a una realtà, e precisamente a una realtà Sono pronto a concedere ai miei genitori tutte, ma proprio
perversa. La sessualità esiste, ma "disturba” o, che è ancora tutte le circostanze attenuanti; ma alla domanda se sono colpe­
peggio, "potrebbe forse disturbare” e allora si fa come se non voli o non colpevoli della mia infelicità, devo rispondere: col­
esistesse. Il sole splende, ma qui è proibito splendere e perciò pevoli. Sono anche pronto a perdonare ai miei genitori e, in
facciamo come se non splendesse. La luna si leva la sera, ma fondo, nel corso di queste mie riflessioni, l’ho anche già fatto,
siccome la sua luce potrebbe eventualmente disturbare qualcuno, ma il fatto che qualcuno venga graziato non significa certo che
allora facciamo come se non avessimo visto che si è levata e in non sia colpevole. Al contrario: solo chi è colpevole può ottenere
una notte di perfetto plenilunio corriamo a testa bassa a sbattere la grazia (il non colpevole viene assolto).
intenzionalmente contro un albero, per dimostrare che abbiamo Dopo la seconda guerra mondiale tutti i nazisti erano diventati
creduto che la luna non ci fosse e che fosse invece buio pesto. d ’un tratto dei "buoni tedeschi” che non avevano fatto altro che
Questo non è stupido, è malvagio. Perché ciò che si fa per ubbidire agli ordini del Führer e avevano fatto soltanto il loro
stupidità lo si fa senza intenzione, ma ciò che si fa di male lo si dovere. Tutti quanti non avevano affatto saputo quel che suc­
fa con intenzione. Chi, nel buio, va a sbattere la testa contro il cedeva nei campi di sterminio e avevano tutti "avuto in fondo
tronco di un albero è idiota; ma chi va a sbattere la testa contro le migliori intenzioni”. Mi sento persino disposto a credere a
un albero in una notte di plenilunio, è in malafede, è malvagio. queste affermazioni. Ma intanto gli ebrei sono morti. Anche i
Adesso viene in questo racconto il punto che più mi sta a miei genitori nell’educarmi hanno fatto tutto "con le migliori in­
cuore. Nella prima parte della mia storia ho descritto l’atmo­ tenzioni ” e mi hanno educato comme il faut. Ai miei genitori ci
sfera della mia casa paterna e ciò che ne è stato di me come credo; credo a mio padre e credo alla mia povera mamma. Ma
prodotto di tale atmosfera. Ho anche esposto perché, nonostante con questa educazione comme il faut io intanto ora sto per mo­
tutti i loro difetti e i loro errori, non posso odiare i miei genitori, rire... Ed essi si riconosceranno dal frutto delle loro opere...
e alla fine riconosco anche che non erano cattivi, ma solo dei Ora basta parlare dei miei genitori. Ho riconosciuto ciò che
"poveretti”. Ho anche tentato di spiegare come i miei genitori mi hanno fatto, li ho condannati, li ho perdonati e ora suscitano
"in una certa misura”, anche se in maniera quanto mai tortuosa in me soltanto compassione. Di più per loro non posso fare.
e complicata, sono stati "corresponsabili” e quindi anch’essi Non mi interessano più. Ciò che rimane sono io. La sofferenza
colpevoli o per lo meno complici della mia infelicità. Questo "in è ricaduta su di me; questo è un dato di fatto e lo riconosco.
una certa maniera” ora non mi piace, perché sembra indicare Nella nostra società borghese non è abituale essere dolenti, non
che la risposta a questa domanda è "difficile”. Ma la domanda è comme il faut; a Zurigo non si vive il proprio dolore, ma lo
è stata espressa e la risposta non può essere che: sì, sì, oppure: si rimuove, perché il fatto stesso di soffrire "potrebbe eventual­
no, no. mente disturbare qualcuno”. Non si osa guardare in faccia la
Io constato la mia infelicità: questo è un fatto reale. Questa realtà della propria tristezza, perché quando si soffre si turba la
realtà però non è nata dal nulla, ma si è realizzata. Io non sono quiete; e questa mancanza di coraggio di disturbare qualcuno

202 203
con la propria tristezza, nel gergo della mia borghesissima patria, esserci più”, "non essere più tra noi”. Ma io no. Io non sarò
si chiama "avere coraggio”. Ma io non sono affatto di questa semplicemente "non più tra noi”, ma sarò morto, e avrò anche
opinione. Non si deve dire soltanto: saputo perché.
Ho già ripetutamente espresso la mia critica alla società bor­
Dort blühet manche schöne Blume ghese e precisamente a quell’aspetto del borghesismo che ho
Und will ihr Wachstum zeigen,
riconosciuto come negativo, come "male”. Provo anche una sin­
ma è anche necessario mostrare la menomazione. Non è solo la golare avversione contro la società borghese perché ne sono io
gioia che si deve manifestare, ma anche la sofferenza. Quando stesso un prodotto e questa è una realtà che non mi piace.
un dolore esiste, bisogna piangerlo. Lo trovo giusto. Non occorre Riconosco di essere un prodotto di questa società, ma sento
che sia sempre un’accusa, spesso basta anche solo lamentarlo. anche di non essere soltanto un simile prodotto pre-program-
Ciò che in questo contesto vedo come un fatto significativo per mato. Come credo che il ruolo che i miei genitori hanno avuto
la mia vita è che le cose accadono. Il dolore lo si vive, ma si nella mia vita possa un giorno avere fine, altrettanto credo che
deve vivere anche il pianto che esso provoca. Anche il pianto un giorno sarà colma la misura in cui la mia nascita borghese
è un compito (non per nulla A. Mitscherlich parla di "elabora­ è diventata il mio tragico destino.
zione del lutto”). Immagino che questa concezione del lutto sia Credo di essere composto di tre parti. La prima è la mia
assai impopolare. Il lamento funebre nella società borghese di individualità, la seconda il prodotto dei miei genitori, della mia
solito lo si soffoca. Il penultimo verso della Nänie di Schiller educazione, della mia famiglia e della mia società; per la terza
non risponde più a una realtà, perché nessuno è più un lamento parte rappresento il principio esistenziale generale, e cioè pro­
sulle labbra dell’amata, e meno che mai "splendido”; vero prio quell’energia elementare che fa sì che gli elettroni roteino
invece è l’ultimo verso,1 poiché ciò che è comune scende sempre intorno al nucleo dell’atomo, che le formiche corrano e che il
nell’Orco senza eco - e da molto ormai non più solo ciò che è sole spunti al mattino. Una parte di me è anche elettrone, for­
comune. In America, come è noto, non si parla mai della morte, mica, sole e questo neppure tutta la mia educazione borghese me
e nell 'american way of dying anche ciò che è più nobile scende lo può togliere.
agli inferi senza emettere un suono. In questo senso da noi è Il mio dolore è anche una parte del dolore universale. La mia
ormai dappertutto America: dapprima scannati da una società vita non è soltanto il piagnucoloso lamento di un individuo
totalmente degenerata sul piano emotivo, e poi sepolti nel educato alla morte dalla borghesia zurighese; è anche una parte
silenzio. Quando qualcuno muore, al giorno d ’oggi non si dice del pianto dell’intero universo, in cui il sole non si è più levato
neppure più che è morto, ma soltanto che "non è più”, "non in cielo. Da bambino c’era un particolare del Nuovo Testamento
è più tra noi”. Anche questo è borghese, questo non osare più che mi faceva sempre una grande impressione, quello dove si
pronunciare il nome della morte. Ogni cosa ha il suo nome, narra che, dopo la morte del Cristo, il velo del tempio si squar­
anche la morte ha il suo. Ma ogni errore ha la sua punizione: cia. Questa impressione la provo ancor oggi quando più forte
ed è il destino del borghese quello, un bel giorno di "non mi aggredisce la sofferenza; allora sento che nella mia vita il
velo del tempio si squarcia "continuamente”; che tutti i veli
di tutti i templi si squarciano. Questa sensazione è una delle
1 I versi citati dall’A. sono: Auch ein Klagelied zu sein im Mund der Geliebten possibili immagini alle quali mi riferisco quando scrivo le
ist herrlich, / Denn das Gemeine geht klanglos zum Orkus hinab. (Anche essere parole: "il dolore si manifesta”. Persino questa idea del do­
un lamento sulle labbra dell’amata è cosa splendida / perché ciò che è comune
scende senza eco nell’Orco. lore senza fine è qualcosa di universale. Per fare solo un esem-

204 205
pio: senza fine si piange la morte del Tammuz, del Dumuzi, stata calpestata, tuttavia essa ha agito nel modo giusto, usando
del "vero figlio” dell’amata e figlio della dea Astarte, sia come il pungiglione anche nel momento della morte. Perché così fanno
divinità del mondo vegetale bruciata dal sole e dalla siccità, sia le vespe.
come l’Adone ucciso dal cinghiale o come il Gesù crocifisso. La Anch’io mi ribello contro la morte che mi minaccia, anch’io
morte di ogni singolo individuo è anche la morte di tutti gli odio di venire ucciso e anch’io tiro fuori il mio pungiglione pri­
uomini, e la morte di ogni individuo è la fine del mondo. ma di morire. Questo non lo fanno solo le vespe, lo fanno anche
Secondo la legge dell’energia, la somma di tutte le energie ri­ gli esseri umani. Nella mia situazione mi posso comportare in
mane sempre la stessa. Credo che anche la somma di tutte le maniera più o meno giusta; mi posso collocare di fronte al feno­
sofferenze resti sempre la stessa; e perciò niente ne va perduto. meno della morte in posizione più o meno acconcia, fra le posi­
Quando si dice che il dolore si leva verso il cielo, è più di un zioni di cui l’uomo dispone di fronte a questo fenomeno. Da­
modo di dire. Il dolore non solo si leva verso il cielo, ma ci vanti alla mia morte posso portare a compimento i pensieri di
arriva anche e là viene tesaurizzato. morte di tutta l’umanità; ma morire devo morire come singolo,
Ma tanto poco io mi identifico, come ho già avuto modo di e solo. La spiegazione e il significato della mia malattia fisica e
dire, nell’elemento "borghese”, nella tradizione trasmessami, in psichica sono generali, le riflessioni che ho fatto in proposito
ciò che si è fatto di me, altrettanto poco mi identifico nell’uni­ hanno dopotutto una certa validità per tutti e per ciascuno; la
versale. In parte soffro anche la morte simbolica e rituale del­ causa della mia morte sarà, credo, chiara per tutti, ma le mie
l’asiatico dio Tammuz; ma soprattutto sono un individuo niente angosce e i miei dolori sono per me solo, perché nessuna spiega­
affatto simbolico, al contrario, tremendamente concreto, minac­ zione li può allontanare da me. Come morto sarò uno dei tanti
ciato da una morte terribilmente concreta e cioè, come ho già e anche la ragione per cui sono morto la potranno comprendere
detto, da una morte che minaccia di arrivare prima che io abbia forse in molti, ma come morente sono solo.
assolto il compito della mia esistenza. E questo pericolo produce Ora, ancora una ipotesi di carattere sociologico. Anche se
angoscia e odio. Che in determinate situazioni si provino ango­ come individuo dovessi essere distrutto, per la società non sarò
scia e odio, anche questo non ha un senso; ma è così, e provare finito, ma resterò fatalmente presente. Se io adesso dovessi mo­
angoscia e odio fa parte di questa situazione. rire, la mia morte non sarà casuale, ma estremamente tipica,
Quale sia in realtà la mia situazione non lo so, e nessun me­ perché io mi sono ammalato di ciò di cui oggi, nella nostra
dico me lo può dire, perché nessun medico lo sa. Forse la partita società, tutti più o meno si ammalano. I tipici casi letali tendono
è già perduta, ma fintanto che non è ancora definitivamente però a estendersi fino a una epidemia nazionale. Finora rom­
perduta, non si può neppure sapere che è perduta, e per la rea­ pere qualcosa non era mai stato un problema; oggi comincia
lizzazione della vita non ha, tutto sommato, nessuna importanza invece a diventare un problema sapere cosa fare di tutto ciò che
se la partita è persa oppure no, perché dopotutto in entrambi i si è rotto. Io morirò in una maniera troppo sintomatica per la
casi si fanno le stesse cose, anche se queste cose non devono nostra società, perché nella mia postuma rovina non si debba
poi servire più a nulla. Che cosa vuol dire poi "servire”? Che vedere un altrettanto sintomatico esempio di scoria radioattiva,
una cosa serva a qualcosa dice soltanto che ha un senso - e non e cioè una scoria radioattiva che non si riesce a depositare da
è affatto necessario che abbia un senso, anche questo l’ho già nessuna parte e che contagia e infetta l’ambiente. Il mio "esser
scritto. Se si mette un piede sopra una vespa, quella punge il stato ucciso” lieviterà e si dilaterà e, da ultimo, porterà alla
piede, anche mentre sta già per morire. In questo caso pungere rovina proprio questo mondo che mi ha ucciso. Sotto la costri­
non le serve più a nulla, perché deve comunque morire, essendo zione del comme il faut, mi hanno educato talmente cornine il

206 207
faut, che io da tutto questo comme il faut sono stato distrutto e certamente male - ma quanto peggio stanno i super privile­
ne sono morto. Una società però, i cui figli muoiono solo perché giati! E questo vale non solo per la Cina; è anche il succo della
personificano perfettamente la società stessa, non ha più molto mia storia personale.
da vivere. Davvero va la gatta al lardo, finché ci lascia lo zampi­ Vorrei sottolineare ancora una volta che non intendo affatto
no. Ma anche questo, trovo, è molto comme il faut; che ci lasci la che questo scritto diventi in linea di massima un saggio politico,
pelle; il le faut, per la verità. Devo constatare qui persino un’ul­ anche se so benissimo che ogni enunciazione è politica. Anche
tima manifestazione di quell’umorismo cosmico di cui ho già se sono convinto della necessità della rivoluzione, non credo che
avuto occasione di accennare nel corso della mia storia. ogni rivoluzione debba essere necessariamente politica.
Tutte le stupidità della società si vendicano, quale prima, Inoltre, credo che non sia affatto il caso di essere così decisa­
quale dopo. Nell’antica Cina, tutte le donne avevano i piedi mente per la rivoluzione; basta non essere contro, perché la
deformati. Ciascuna di loro zoppicava e pativa le pene dell’in­ rivoluzione viene comunque sempre da sé, e viene sempre, anche
ferno (e, a quanto si legge, deve aver anche puzzato); ciascuna quando, come nella maggior parte dei casi, richiede molto tempo.
come singola persona; ma i milioni di imperiali piedi deformati Come i molti milioni di piedi cinesi deformati rappresentano una
hanno fatto sì che venisse la rivoluzione e con essa scomparissero rotellina nel meccanismo della rivoluzione cinese, così anche la
i piedi deformi insieme all’imperatore. Povero imperatore? No, mia storia è una rotellina nel meccanismo del rivolgimento della
stupido imperatore —avrebbe fatto meglio a preoccuparsi lui dei società borghese. Io stesso sono solo una minuscola rotellina,
piedi delle sue suddite; forse in tal caso sarebbe, può darsi, ma una rotellina tipica, appunto; una certa quantità di piccole e
anche rimasto imperatore di quei molti milioni di piedi. tipiche rotelline messe insieme non formano però più soltanto
Credo che la rivoluzione venga sempre da un certo numero un mucchio di rotelline, ma diventano una macchina, e precisa-
di piedi o di altre membra o di spiriti deformati. Del resto deve mente una macchina che mette in moto qualcosa, ottiene un
anche venire, perché il nuovo è sempre il meglio. Prego, questa risultato. Oppure, per dirla in termini medico-sociologici: ogni
frase va presa cum grano salis ed è meglio rinunciare a giocare organismo ha la robustezza del suo organo più debole. Nel mio
con le sue interpretazioni, in tal caso rimane sempre valida. caso la degenerazione maligna delle cellule linfatiche ha dato il
(Il che vale anche per il suo contrario, perché "tornare indietro” segno di ciò che vi è di malato in tutto il mio organismo, sia sul
è sempre peggio.) Ho già portato un altro esempio di rivolu­ piano fisico che su quello psicologico; all’interno della mia società
zione, quella francese e constatato che, indipendentemente da sono io la cellula malata che infetta l’organismo sociale. Occorre
tutta la sua - anche inutile - crudeltà e insensatezza di decapitare riconoscere la pericolosità di queste cellule malate per tutto l’or­
Maria Antonietta, nessuno ha però versato una lacrima sulla ganismo e bisogna cercare di guarirle; altrimenti l’organismo ne
regina. Oppure si vorrebbe che la rivoluzione non avesse avuto muore. Sociologicamente parlando, io sono la cellula cancerogena
luogo e a Versailles regnassero ancora i Borboni? della mia società e, come la mia prima cellula maligna è stata di
A questo proposito voglio fare ancora un’annotazione addirit­ origine psicosomatica —ciò che, in un certo senso, si può anche
tura umoristica. Dall’autobiografia dell’ultimo imperatore della definire come "la propria parte di colpa” - così, come rappre­
Cina si viene a sapere che nessuno più di lui ha profittato sentante della malattia della mia società, deve essere registrato
della rivoluzione cinese e che, in quanto a lui, imprigionato nelle pagine negative di questa società. Perciò la formula, che
nella gabbia dorata del suo palazzo imperiale, era quello che più forse può suonare un po’ eccessiva, passa dal bon mot all’espres­
aveva sofferto sotto l’impero. In un Paese in cui i privilegi sono sione di una realtà concreta: io sono la decadenza dell’occidente.
distribuiti in maniera così disuguale, i non privilegiati stanno Naturalmente io non sono tutta la decadenza dell’occidente, e

208 209
non sono io solo la decadenza dell’occidente, ma sono una Ed ora, dopo questa digressione sociologica, torno alla mia
molecola della grande massa da cui scaturisce e si evolve la situazione personale: ho visto che il mondo funziona fra l’altro
decadenza dell’occidente. anche in me e grazie a me, e questo soddisfa la mia ragione, ma
In questo senso mi vorrei definire un rivoluzionario attivo e all’anima non importa nulla di tutto questo e del funzionamento
passivo insieme. Attivo non naturalmente perché d ’opinione che del mondo, e chiede di funzionare per se stessa. Forse il cuore
ora in Svizzera, all’improvviso tutto dovrebbe diventare cinese di un cinese batte più forte al pensiero che il suo possessore
o cubano o negro; questo, trovo, non sarebbe davvero il caso. lavora con ardore per Mao e per il popolo cinese, e magari fa
Come a suo tempo ho finito per trovare assurda l’idea di far anche gli straordinari, ma il mio non è, appunto, uno di questi
saltare in aria la Banca di Credito Svizzero (anche se l’esplo­ cuori cinesi, è diverso. La mantide religiosa divora ogni giorno
sione di questo rappresentativo edificio, in senso simbolico mi sedici volte il peso del proprio corpo, mentre il boa constrictor
appare, oggi come allora, un fuoco d ’artificio bellissimo ed mangia una sola volta al mese: non c’è niente da fare, sono
estremamente necessario); allo stesso modo troverei stupido diversi, appunto. Nel mio calcolo sociologico il conto torna, io
mettere in fuga il diavolo borghese per sostituirlo con il Belzebù sono una delle cifre necessarie per ottenere alla fine il prodotto
di qualche altro "ismo” politico (anche se si deve tener conto desiderato; ma io, personalmente, di tutto questo sono triste e
che limitandosi a non chiamare il Belzebù, non è che questo sgomento, e contro la tristezza e lo sgomento la matematica
aiuti a migliorare neppure di un filo il vecchio diavolo). Io mi non è di grande aiuto.
sono dunque rivoltato con violenza contro il sistema borghese, Voglio qui provare perciò anche a trasporre sul piano irrazio­
contro il mondo zurighese, contro il mondo svizzero, anche se nale - diciamo pure religioso - questi argomenti, visto che sul
non con l’intenzione di eliminare queste entità. Non è il caso di piano razionale non se ne viene a capo. E qui il concetto reli­
eliminarle, anche se ancor meno è il caso di conservarle così gioso vorrei vederlo non tanto in senso etico, quanto piuttosto
come sono. Un paziente che ha male a una gamba non lo si cura in senso demoniaco. In proposito ancora una parola per quanto
amputandogli l’arto, ma cercando di guarirglielo. riguarda il vocabolario cristiano che ho di preferenza usato. Per­
Rivoluzionario passivo mi considero in quanto, con la mia sonalmente non sono amico della religione cristiana, ma spesso
storia, le mie sofferenze, e forse con la mia morte, rappresento quando parlo di argomenti religiosi mi servo di concetti tratti
uno dei molti elementi necessari per mettere in moto il mecca­ dal suo vocabolario, perché li ritengo più noti e familiari a me
nismo della rivoluzione. Questa è, in senso generale, la compo­ e al mio prossimo che non i concetti di qualsiasi altra religione.
nente necessaria della mia storia e, per me personalmente, è Non importa se in questo Paese si è pro o contro la religione
anche la cosa più triste. Io non sono soltanto un numero, uno cristiana, si è tuttavia pur sempre cresciuti nel suo clima e quindi
dei tanti con cui si fa una rivoluzione, come lo sono state i mi­ tutte le problematiche religiose del mondo sono più facili da
lioni di donne cinesi con i piedi storpiati, del cui singolo mal di comprendere all’interno della terminologia cristiana, non da
piedi dopo la rivoluzione nessuno si è più curato. Nel catalogo ultimo anche nel campo emotivo. Il cattivo carattere degli
della rivoluzione io sono il numero 5743, necessario soltanto aztechi neri Tezcotlipoca non preoccupa molto noi europei, e i
perché possa esistere un 5742 e un 5744; ma la mia felicità cinesi non si rompono certo la testa con il complesso paterno
personale è distrutta. Questo è il mio dolore: anche la mia esi­ di Abramo. Inoltre l’uso della terminologia cristiana ha il van­
stenza ha una funzione per il tutto, per la storia del mondo in taggio di corrispondere nel modo più acconcio alle nostre fan­
generale, e questo può bastare a soddisfare l’intelletto; ma il tasie inconscie. Il nome "Hans” è anche ebreo e biblico, senza
cuore è nella miseria, e si ribella e urla. che, a livello di coscienza, ci faccia pensare a qualcosa di reli-

210 211
gioso. Perciò la realtà storica del rabbi Jeschua mi importa meno egli è anche l’organismo in cui io incarno la cellula cancerogena.
del fatto che la sua immagine continua ad agire nelle nostre Con la mia letale malattia io sono la dimostrazione della mal­
fantasie inconscie e in ogni membro della nostra società, persino vagità del mondo di Dio e costituisco il punto debole nell’orga­
in me, che in famiglia non sono stato certo educato cristiana­ nismo "Dio” che, appunto come organismo, non può essere
mente. più forte del suo membro più debole, cioè io. Io sono il carci­
Nella seconda parte della mia storia ho detto che se si parte noma di Dio. Visto in un quadro più vasto, naturalmente sono
dall’ipotesi che Dio non esiste, bisogna inventarlo, non foss’altro solo un piccolo carcinoma - ma un carcinoma lo sono comunque.
che per dargli un ceffone. Vorrei andare ancora più in là, e Le proporzioni, del resto, non hanno molta importanza, anche
affermare che quando si avverte la necessità di inventare un il più piccolo nervo, purché faccia davvero male, può gettare il
concetto, in quello stesso istante il concetto lo si è già inventato, corpo intero in preda alla sensazione del più lancinante dolore.
è già vivo e operante. Credo che l’anima tormentata senta la E così mi vedo colpire il nervo nel corpo di Dio, così che anche
necessità dell’esistenza di Dio. È l’indirizzo al quale può man­ lui di notte, come me, non riesca a dormire per il dolore e si
dare i suoi lamenti, le sue accuse, e dove le accuse devono giri e rigiri nel letto gemendo e urlando.
arrivare. È il recipiente in cui l’uomo può rovesciare il suo odio. In questa mia visione ho anche visto i due avversari, Dio e
È la persona alla quale, nel giudizio universale - così come è io, lottare sì con la stessa arma, appunto il cancro, che annienta
descritto nella Bibbia, solo con i concetti rovesciati - si dovrà il corpo del nemico, e combattere con la stessa tattica, ma con
dire di essere stati affamati, nudi e tristi, di non esser mai stati motivazioni diverse. La mia motivazione è un odio divampante,
nutriti, rivestiti e consolati. È anche importante che si tratti di quello di Dio è piuttosto un cupo, ostile risentimento. In me ho
me y che tutte queste belle cose non le ho mai conosciute, di mey visto la necessità assoluta di colpire il nemico al cuore, in Dio ho
a cui sono state inflitte tutte queste pene. visto piuttosto una certa amorfa, sonnolenta malvagità, il biso­
Nella teologia cristiana è presente il concetto che Gesù gno di stritolare anche me nel quadro di un generale programma
viene continuamente, ininterrottamente inchiodato alla croce, di annientamento. In quest’ultima immagine, Dio mi appariva
in ogni momento dell’eternità, e lo posso capire, sebbene anche piuttosto come un gigantesco, feroce animale, una ripugnante
qui io lo intenda in senso inverso a quello cristiano. Capisco medusa che tentava di strangolarmi e avvelenarmi, o come un
che l’umanità tormentata ribatta senza posa i chiodi della croce, polipo mostruoso dai mille tentacoli che mi assaliva da ogni
ripetendo nel tempo l’uccisione di Dio e so anche perché: per parte. Partendo da quest’ultima immagine del polipo, molte
rabbia, per l’ira che suscita nell’uomo ciò che Dio ha fatto cose all’improvviso mi risultano familiari. Nella mia vita ho
all’uomo, l’umanità lo inchioda continuamente sulla croce. Credo sempre ininterrottamente provato la sensazione che qualcosa di
di essere anch’io fra coloro che inchiodano continuamente Iddio ostile mi avviluppasse con innumerevoli tentacoli che mi strin­
sulla croce, perché lo odiano e vogliono continuamente ch’egli gevano senza altro scopo che quello di soffocarmi, e da questo
muoia. spaventoso abbraccio non riuscivo mai a sciogliermi. Ho visto
Arrivo così al tema che nel contesto di questo saggio mi qualcosa di simile nei miei genitori, nel borghesismo del nostro
appare come essenziale, il tema dell’odio per Dio e della neces­ ambiente, nella famosa quiete, nel clima zurighese, nel mondo
sità che Dio muoia. Nel mondo delle mie visioni mi sono già svizzero, e il più delle volte ciò che vi vedevo era più del solo
visto ingaggiato in una lotta con Dio, una lotta in cui entrambi influsso parentale, o borghese, o zurighese, ma il concetto glo­
combattevamo con la stessa arma, e cioè con il cancro. Dio mi bale di "parentale”, di "borghese”, di "quiete”. Tutti questi
colpisce con una malattia maligna e letale, ma al tempo stesso concetti non stavano a significare solo se stessi, ma andavano

212 213
oltre, toccavano più in profondità, risalivano a qualcosa di più nulla a che vedere con la Macarena sivigliana, che fissa i fedeli
profondo e il "parentale” era solo un aspetto del "borghese” dalla pomposa mostruosità dei suoi ornamenti africani.
e il "borghese” era solo un aspetto della "quiete” e quest’ultima A nessuno viene in mente di attribuire alla Macarena spagnola
e tutti gli altri insieme erano ancora, a loro volta, un aspetto una validità generica a livello europeo; per gli spagnoli questa
del "male”. E questo "Male” nella gigantesca figura del polipo divinità può andare benissimo, ma fuori dalla Spagna non è
pare identificarsi con il "divino”. utilizzabile. Non è forse il caso di attribuire anche a quest’altra
Bisogna con ciò concludere che Dio è l’assoluto Male? (Una figura mitologica, che a livello europeo con una certa superficia­
conclusione in sé alquanto originale, dal momento che sta in lità si usa chiamare semplicemente Dio - senza neppure l ’articolo
totale opposizione alla comune e un po’ banale concezione che determinativo - lo stesso valore nazionale che si è già da molto
Dio è il Bene assoluto, e incarna il summum bonum.) Questa tempo dato a sua madre? Perché se la madre ha una validità
conclusione pare avere in sé molto di giusto, anche se non mi nazionale, il figlio di questa madre dovrebbe poter vantare una
piace del tutto. E ciò non mi piace, non tanto per l’uso della validità internazionale? Ammetto che l’originalità del Dio cri­
parola "male”, ma piuttosto per via della parola "assoluto”. stiano dipende in buona parte dal fatto ch’egli si arroga una certa
Come ipotesi di lavoro preferirei quindi impostare la frase così: universalità, ma a me questa originalità appare piuttosto come
Dio è il Male, ma non il Male assoluto. O in forma più concreta: un gesto di presunzione. Gli dei non sono così. Essi vengono
il mondo è cattivo (il Male), ma si può ancora migliorarlo (il sempre da uno spazio geograficamente ben definibile e appar­
Male non assoluto). tengono sempre a uno spazio ben definito, vale a dire, per loro
L’opposto dell’assoluto è però il relativo o, per usare un’im­ intrinseca natura, sono profondamente locali. Inoltre non sono
magine più plastica, il locale. Intendo dire che Dio deve essere neppure eterni, ma finiti; per gli dei è così ed è anche giusto
senz’altro visto come qualcosa di locale; anzi, credo persino che che sia così. Crono neutralizza Urano, e Zeus scaccia Crono.
è proprio l’aspetto locale che fa l’efficienza e il fascino di Dio. Seth uccide Osiride e Horus uccide Seth. E anche i Germani
L’uomo moderno, che nelle sue considerazioni filosofiche pensa hanno il loro bravo Crepuscolo degli Dei che funziona in base
volentieri a Dio come a qualcosa di assoluto, dovrà abituarsi allo stesso principio.
all’idea che il Dio universale e assoluto è soltanto una costru­ Solo la religione cristiana intende il suo Dio (i o i suoi dei)
zione intellettuale, ma che Dio nel senso appunto di incarnazione come universali ed eterni e non ne vuol sapere di far posto a
del "divino” e quindi non di fatto puramente intellettuale, è nuove divinità. Io considero un simile atteggiamento altamente
qualcosa di diverso in ogni angolo della terra. antirivoluzionario e reazionario. Credo che anche questo sia
Non solo in tutte le religioni del mondo Dio si presenta come l’aspetto negativo della religione cristiana, il suo voler vantare
qualcosa di diverso; anche l’ipotetico dio cristiano è sempre una supremazia e una superiorità assoluta, arrogarsi il diritto di
diverso secondo i Paesi. Non solo nell’Irlanda del nord Dio è essere la migliore di tutte, imponendo che gli dei che essa pro­
qualcosa di ben diverso dal Bon Dieu dei francesi; persino nelle pone siano eterni e infiniti. Tutte le altre religioni ammettono
terre meridionali di tradizione cattolica il Dio della Spagna è che i loro dei vengano un giorno o l ’altro a morire e siano quindi
ben diverso da quello dell’Italia. Anche la grande dea e madre sostituiti da altre divinità; solo il dio cristiano non vuol morire,
di questi due Paesi meridionali, la figura assurta a mitologia non vuol lasciare il posto a uno dio nuovo e migliore. Credo
della vedova del falegname, Mirjam di Nazareth, è sempre anche di capire che cosa ho definito prima con il concetto di
diversa: la Madonna della Pietà del Michelangelo, che si china "parentale”, "borghese”, "cristiano”, con il concetto della
in raffinato lutto sul curatissimo body del figlio morto, non ha "quiete” e che ora, alla fine, mi trovo a definire come "Dio”.

214 215
"Dio” è il termine con cui ho chiamato tutto il mondo che descrizione spaventosa dell’infinito e lo definisce come qualcosa
pareva essere così buono, appunto perché era così quieto, così di assolutamente orribile: "Eternity! O dread and dire word!”.
pulito, corretto, comme il faut, così borghese e così onesto; e Jorge Luis Borges, per contro, dimostra ne La doctrina de los
che poi si è rivelato invece così perverso e malvagio, per me in eidos con tutta la pregnanza dello spirito latino perché il mondo
particolare così dannoso e pieno di insidie, tanto che ora è in è in sé finito e deve cessare di esistere: "Entonces habrà
procinto di uccidermi. Tutto ciò che è apparentemente buono, muerto”.
così come me lo hanno fatto digerire quando ero bambino, Io tendo - suppongo si tratti di una questione appunto di
adesso mi è ostile, è il mondo che ora mi porta la morte —un temperamento - alla seconda interpretazione. Non da ultimo
mondo apportatore di morte, un mondo che mira con furia e perché credo che ogni cosa debba avere il suo contrario o per
decisione alla mia distruzione, una situazione portatrice di morte lo meno essere opposta a qualche altra cosa. E non parlo solo
in cui ogni cellula del mio corpo è intossicata e ogni secondo del nel significato generalmente noto, che il nero può essere nero
mio passato familiare è avvelenato; uno stato dell’essere a tal solo là dove c’è anche il bianco; vorrei estendere il concetto più
punto contro di me, che non ho potuto fare a meno di sentire oltre, nell’irrazionale. Anche di fronte all’Universale, al Totale,
la somma di tutte quelle ostilità come un valore globale, e all’Assoluto ci deve essere qualcosa che non è compreso in que­
chiamarla alla fine con il termine più totale che la lingua tedesca sto universale, totale, assoluto. Se ora coniamo il concetto del-
conosca: Dio. Erroneamente. Perché, come io ho riconosciuto l’"assoluto-più-appunto-questa-eccezione”, allora io affermo che
di non essere soltanto il prodotto dei miei genitori, il prodotto ci deve a sua volta essere qualcosa che si sottrae a questo " asso-
della società borghese e il prodotto della universale nevrosi luto-più-appunto-questa-eccezione-non-compresa-nell’assoluto”,
cristiana, ma anche - se pur soltanto in piccola parte - me stesso, così che il totale non può mai diventare del tutto totale e l’asso­
così ora mi rendo conto che anche quello che ho chiamato "Dio” luto mai completamente assoluto. Qualcosa che disturba c’è sem­
non è un’entità infinita. Dio non è ovunque. Ci sono spazi dove pre. Per fortuna! (Ho già scritto precedentemente quanto mi è
non è, dove ha cessato di essere. Da qualche parte ha il suo caro e gradito il concetto di disturbo.)
posto e lì deve stare; ma ci sono anche luoghi dove non è e Nel vocabolario filosofico questo a-assoluto o antiassoluto non
dove non c’è posto per lui, o meglio, non c’è più posto per lui lo si può esprimere, ma nel vocabolario religioso è facilissimo,
e lì è finito, esattamente come ci sono spazi dove i miei genitori un gioco da bambini. C’è una semplicissima parola che lo defi­
sono stati tolti di mezzo, dove la società borghese è liquidata nisce: il diavolo. Come si sia riusciti ad arrivare all’idea che il
ed è liquidato in generale tutto ciò che mi tormenta. Dopo tutto diavolo è qualcosa di male, è e resterà per me un mistero. Io
quello che ho scritto sulla natura del divino, si può addirittura credo, al contrario, che il diavolo sia la nostra ultima, e forse la
dire: Dio esiste. Considero questa enunciazione persino come nostra unica chance.
un possibile dato di realtà. Ma anche se tale affermazione do­ Stranamente del diavolo si sa pochissimo. Oppure no, non è
vesse rivelarsi esatta, lo è soltanto con una precisazione e cioè: affatto così strano. Che nella Bibbia compaia a malapena, questo
Dio esiste soltanto in parte; per un’altra parte è finito. è chiaro, perché nell’ambito del testo biblico il diavolo è materia
Sulla fede nel finito o nell’infinito delle cose alla fin fine non troppo scottante perché lo si possa propinare in forti dosi senza
si può discutere; è una questione che sembra assomigliare alle danno. Non è bene che nella polveriera si facciano troppe scin­
questioni di gusti o, se si preferisce, il credere o il non credere tille. Il diavolo, o Satana, vi è definito soltanto come l’avversa­
nell’infinto delle cose è una questione di temperamento. James rio, e in un punto si dice di lui che è stato "respinto nelle buie
Joyce nel suo Portrait of an Artist as a Young Man dà una caverne degli inferi” (2.Pet.2.4). Di lui non si sa molto di più,

216 217
ma il poco offre già delle aperture interessanti. Si sa soltanto che premessa che l’inferno è eterno - e penso piuttosto alla possi­
Satana "è stato precipitato” quindi evidentemente non è più bilità che, come ho scoperto che tutto un giorno o l’altro ha una
qui. Questo, in un certo senso, è esatto, che non è più qui; ma fine, anche l’inferno un giorno debba finire. Pure, per usare le
appunto perché ora non è più qui, è ora là, e cioè appunto nelle parole dei fratelli Grimm: "Ci sei dentro (e) devi anche venirne
"buie caverne degli inferi”. Il tutto mi ricorda molto la mia fuori”, e con ciò si intende che, quando si è andati in qual­
casa paterna, dove si diceva che i comunisti sono sì molto cattivi, che posto, come ci si è entrati, bisogna anche saperne venir
ma che in Svizzera in realtà non ce ne sono. Questo processo in fuori. Troverei cioè banale e inutile restare in eterno nell’inferno
base al quale si spera che ciò non è più qui, non esista più nean­ e mettermi in testa che Dio è il male e il diavolo il bene, perché
che là, in psicologia si chiama rimozione. Che si sappia così poco questo significherebbe soltanto ripetere gli stessi errori, anche
del diavolo significa dunque soltanto che lo si è ampiamente qui soltanto all’inverso. Considero l’inferno solo una stazione
rimosso, appunto. Queste "buie caverne degli inferi” però mi del mio cammino - una stazione intermedia, anche se necessaria
interessano molto. Mi sembrano incarnare cioè il luogo che mi - in cui non si deve restare in eterno, perché stare troppo a
sta tanto a cuore, il luogo che è "altrove”. Il diavolo è altrove, lungo nel suo calore finirebbe per rivelarsi troppo caldo. Una
si trova laggiù, dove Dio non è. Il diavolo si trova cioè all’in­ permanenza troppo prolungata presso Satana sarebbe inoltre
ferno e l’inferno è notoriamente un luogo terribile, spaventosa­ anche contraria alla sua stessa natura, poiché egli è un "avver­
mente disagevole; è sgradevole, ma vale la pena di essere all’in­ sario”, e come tale è contro una cosa. Una volta che la Cosa fosse
ferno, perché l’inferno è là dove Dio non è. finita, con essa scomparirebbe anche la necessità dell’avversario
I romantici hanno descritto Satana persino come un eroe, un e il diavolo diventerebbe, se dovesse sopravvivere alla fine di
nobile ribelle, per così dire il prototipo del rivoluzionario. Satana Dio, un Belzebù.
è il ribelle, che addirittura sceglie di stare alPjnferno, piuttosto Ma per me la cosa non è ancora finita, e fintanto che non è
che sopportare ancora la vista del mostro Dio. In questo senso finita, il diavolo è ancora per strada e io sono d ’accordo che
posso persino identificarmi con Satana, perché, come ho scritto Satana sia in moto. Io non ho ancora vinto sulla Cosa contro la
nella prima parte della mia storia, io la mia malattia, il mio quale mi ero messo: ma neppure ho ancora perduto e, ciò che
cancro, (due anni fa la mia malattia si chiamava ancora cancro) è più importante, non ho ancora capitolato. Mi dichiaro quindi
l’ho voluta: ho voluto "essere precipitato nelle buie caverne in stato di guerra totale.
degli inferi” per essere "altrove”, piuttosto che nel mondo della Cornano, 17. VII. 1976
depressione in cui avevo vissuto i primi trent’anni della mia vita.
In questo senso vedo nell’elemento satanico anche l’elemento
liberatorio. Per trent’anni ho vissuto in un mondo che non era
l’inferno ma, tanto per cogliere un unico aggettivo dagli innu­
merevoli che si prestano alla scelta, era "quieto” - e questo è
stato molto, molto peggio. Adesso sono all’inferno, ma per lo
meno qui non ho la mia quiete, la mia tranquillità. L’inferno è
atroce, sì, ma vale la pena di esserci. Camus va persino un passo
più in là e in Le mythe de Sisyphe, di Sisifo all’inferno dice:
"Il est heureux”. Io, per la verità, dò la preferenza a un’altra
soluzione - non fosse che perché non parto, come Camus, dalla

218
219
Storia di un manoscritto
di Adolf Muschg
L’autore di questo libro è morto a trentadue anni. Era ancora in vita
quando, all’inizio di ottobre, io ricevetti da un amico libraio il suo
manoscritto, con la preghiera di prenderlo in esame e di vedere se
- l’autore lo desiderava ardentemente - esisteva una possibilità di
pubblicazione. La lettura di quel manoscritto era destinata a diven­
tare un esame di tutt’altra natura, un esame strettamente personale.
Scrissi all’autore di trovarmi, come raramente mi era accaduto prima
d’allora, sotto l’impressione di aver letto un testo necessario; e sotto
questa impressione mi era difficile conservare anche una parvenza
di reale obiettività. Gli dissi che non mi sentivo di occuparmene
personalmente e che avrei perciò inoltrato il manoscritto a un edi­
tore, in grado di dare un giudizio più sereno e pacato e provvedere
eventualmente alla pubblicazione. Mi sentivo soltanto in dovere di
rammentare all’autore certi riguardi che il manoscritto non aveva
bisogno di prendersi, ma che le persone direttamente colpite avreb­
bero avuto tutto il diritto di aspettarsi dal libro.
La sua risposta scritta - l’aveva già depositata presso degli amici
come parte del suo testamento era disposto a servirsi di uno pseu­
donimo. Non vedeva altra scelta. Il manoscritto doveva vedere la
luce. La lettera di ”Fritz Zorn”, l’unico documento della nostra
conoscenza, era chiarissima fin nella calligrafia, che aveva quei
caratteri di disperato ordine che io imparai in seguito (troppo tardi)
a interpretare da un amico che si è tolto la vita qualche tempo fa:
espressione di una estrema sofferenza. Di ritorno da un viaggio in
America, durante il quale il ricordo di quel manoscritto mi aveva
perseguitato, ricevetti dall’editore una risposta titubante: nulla era
stato ancora deciso, ma prevalevano alcune perplessità. Il seguito
l’editore lo apprese direttamente dallo psicoterapeuta che aveva in

223
cura Fritz Zorn: la risposta non poteva essere procrastinata ulterior­ effetti non tanto della mia consapevolezza ma, de facto, del mio com­
mente, se voleva trovare l’autore ancora in vita. Era all’ospedale e portamento. Fin da bambino avevo dovuto imparare a costruirmi,
il suo stato era molto grave. La tentazione di una pietosa menzogna accanto a quell’esistenza così fragile e inconsistente di nato sulla
si presentò e fu vinta: qui si vietava non solo ogni riguardosa genti­ "costa d’oro”, un’altra vita diversa, nella parola, nello scritto, nella
lezza, ma qualsiasi tipo di compiacenza. Finalmente l’editore comu­ fantasia e, piano piano, anche nella realtà. Zorn si trovò a incontrare
nicò la sua risposta affermativa all’autore per lettera; non la spedì questa alternativa quando già non era più in grado di viverla; io
per espresso per risparmiare al morente l’impressione della fretta; il - a differenza di lui - ero stato un cosiddetto buon atleta per il
gesto cadde nel vuoto. Quando il 2 novembre telefonai all’ospedale fatto di provare in ogni momento di pausa fra le lezioni il bisogno
per annunciare a Zorn la mia visita, seppi che era morto quella di mettere il corpo in movimento, avevo imparato a sentirlo, anche
stessa mattina. Per alcune ore io e altri fummo tormentati dal se - altrettanto poco quanto Zorn - ero riuscito a stabilire con il
pensiero che la notizia - l’unica che ancora aspettava e che poteva mio fisico un rapporto fraterno. Le difficoltà di contatto di Zorn
recargli una gioia - non lo avesse raggiunto. Ma l’aveva raggiunto. le ho conosciute anch’io. Ma un’oscura percezione mi aveva sempre
Lo psicoterapeuta che lo seguiva ci assicurò di avergliela portata lui costretto a una sorta di fuga in avanti; e in questa fuga in avanti
stesso la sera precedente - la vigilia della morte - e Zom l’aveva ho incontrato, fra l’altro, anche la sessualità, dapprima in forme
percepita. infelici e cariche di sensi di colpa, che non dovevano però neces­
sariamente continuare a restare tali. Incomprensibile rimane per
me l’apatia di Zorn nei confronti dei giornali, delle novità cultu­
Parentele rali, del jazz, degli ultimi Single: le mura che avevo eretto intorno
a quel poco della mia vita interiore potevano anche essere non
Senza aver mai incontrato l’autore, conoscevo la sua provenienza, il
meno alte delle sue, ma sfruttavo ogni spazio, ogni breccia, sia per
suo ambiente, la sua preparazione culturale, le sue aspettative esi­
tentare la fuga, sia per impossessarmi di tutto ciò che era nuovo.
stenziali; l’analogia della sua biografia con la mia mi sconvolse.
La doppia morale mi aveva per lo meno insegnato a non aspettare
Dieci anni prima di lui, anch’io ero nato su quella stessa "costa
la salvezza da me stesso, sapevo di non poter bastare a me stesso. Il
d’oro ”, avevo frequentato le sue stesse scuole, fino all’università;
mio problema non era quello di una rigida immobilità, ma piuttosto
anch’io come lui avevo insegnato in un liceo di Zurigo. Ero - nono­
stante le molte dimostrazioni del contrario - un cattivo viaggiatore una sorta di contrazione: la paura di lasciar sfuggire qualcosa e di
come lui; anch’io, quando avevo incontrato l’elemento letale che non essere in prima fila nel compensare i miei sensi di colpa (l’unico
avrebbe potuto distruggere ogni mia aspettativa esistenziale, avevo autentico capitale del piccolo borghese). La paura di rimetterci non
imboccato la strada della psicoanalisi; naturalmente nel racconto di doveva necessariamente manifestarsi - come nel caso di Zorn - nel­
Zorn l’elemento letale non è più una metafora; è invece un referto l’identificazione con un referto clinico. Mi accompagnava come una
medico dal nome popolare e tremendo: cancro. Di qui l’emozione forma di vita.
sconvolgente alla lettura. Riconoscevo questa vita; ma al tempo E forse è stata proprio questa imposizione che mi ha sempre tenuto
stesso cercavo buone ragioni per prendere le distanze da questo aperto un futuro. A me non avrebbe mai potuto accadere di lasciarmi
sconosciuto così noto che si faceva chiamare Fritz Zorn. crescere una tumescenza nel collo senza provare questa paura di
C’erano, naturalmente, anche delle differenze. Il mio ambiente "rischiare qualcosa”. Ciò che il mio puritano ambiente familiare non
piccolo borghese non aveva agito così spietatamente come il suo di mi aveva insegnato ad amare - cioè il mio corpo - a maggior ragione
privilegiato, non aveva avuto la stessa feroce tenuta. Anch’io avevo lo dovevo osservare, studiare, sorvegliare. Non c’è pagina nel mano­
temuto e tremato davanti alle norme, quelle stesse che avevano scritto di Z. ch’io abbia letto con maggior incomprensione di quella
regolato la sua esistenza. Ma, nel mio caso, il sistema era saltato pri­ in cui tratta il sintomo di morte da principio con una metafora
ma e, nel fatto stesso di dover tremare ogni giorno per il mio status ("le lacrime non piante”) invece di affrettarsi a farsi curare in
sociale, ne avevo presto scoperto la vacuità di guscio vuoto - agli maniera radicale. In realtà, se fosse stato meno intellettuale, meno

224 225
signore, questa paura gli avrebbe forse salvato la vita. Lui, il figlio Schiller. Si può in questo libro imparare che questo connubio non
di una famiglia che si proteggeva tanto, non era stato educato a far deve essere necessariamente inganno, ma può essere pagato con l’im­
attenzione alle *carenze”, ne aveva sofferte già troppe. Ma forse lo pegno di tutta la persona. I moralisti dal fiato corto qui possono
sapeva anche troppo bene - il suo inconscio sapeva che cosa gli stava imparare qualcosa a proposito del nascere della retorica dallo spirito
fiorendo nel collo e l’inconscio era segretamente in combutta. Perché del coraggio.
infatti in questa biografia è la presenza acuta della morte che Tuttavia, sul piano letterario il libro lascia anche parecchio a
costituisce il primo, doloroso scontro con la vera vita. La malinconica desiderare. Non è soltanto un libro senza aneddoti; è un libro che
verità per la quale solo a prezzo della vita impariamo l’arte di godere nei momenti decisivi rinuncia persino alla testimonianza del "vis­
la vita, si concentra qui in un unico punto focale e avrebbe il potere suto”, al particolare significativo. Per esempio: veniamo a sapere
di compiere miracoli se insieme al resto non consumasse anche la che i genitori di Z. una volta (un’unica volta) hanno litigato, ma non
sostanza su cui questo miracolo avrebbe potuto prodursi. La verità sappiamo a quale proposito, anche se ciò sarebbe di grande interesse.
non è un compenso per la vita perduta. Un altro esempio: apprendiamo che l’autore, uomo malato, è stato
insegnante di spagnolo e portoghese in un liceo e in effetti ha con­
È ancora letteratura? tinuato a insegnare fino a poco tempo prima di morire; mai, in nes­
Questa è l’opera di un morente. Tuttavia la domanda se è anche sun momento troviamo una parola che ci lasci intuire ciò che ha
letteratura non deve trovare risposta in forma di ricatto morale. È significato per lui questo lavoro, che cosa gli è costato, che cosa pos­
una domanda di natura estetica, e come tale da prendere sul serio sono aver rappresentato per lui in questi anni così difficili i suoi
in particolar modo come documento di una problematica di fondo allievi, che rapporto ha avuto con loro. Per muoversi in questi, che
che è la sessualità mancata, la percezione perduta. Il giudizio sul­ potremmo chiamare "spazi di realtà”, gli manca l’occhio sociale,
l’opera letteraria deve sapersi esprimere anche accanto a una con­ manca la calma, manca la disponibilità sensuale del linguaggio. Dove
danna a morte, senza riguardi che sarebbero soltanto umilianti - e esso non acceca, mostra un certo pallore: deve sempre prendere i
questo non riuscirà facile al lettore davvero sensibile. Certo, questo colori da quello stesso fuoco che lo consuma. Per poter esistere ha
libro è letteratura, nella misura in cui colui che qui scrive è un uomo bisogno di una sua singolare freddezza.
che sa usare molto bene il linguaggio, che non disdegna neppure la In effetti fa parte della tragica ironia di questo libro - della sua
battuta quando gli si offre l’çccasione e che la porta qualche volta ai stessa credibilità - che esso debba documentare proprio quella man­
limiti della sentenza pura, per esempio quando dice: "Ero intelli­ canza di vita che lamenta e denuncia; che il suo essere opera d’arte
gente, ma non sapevo far niente” - "Trovo che un individuo che consista appunto nell’essere sganciato dalla realtà, un documento
per tutta la sua vita è sempre stato buono e bravo non merita altro autistico nel senso più completo del termine. L’arte non può dare
che morire di cancro” - "Dare è molto, molto più facile che rice­ ciò che la vita ha negato: ricchezza di riflessi fisici, duttilità di rap­
vere” - "La storia della mia vita mi angoscia a morte, ma la capisco porti con se stessi e con il mondo esterno, il gioco dell’"io” e del
benissimo.” Tutto ciò è segno di uno spirito caustico e lascia intra­ "tu ”, il dono di giungere involontariamente al cuore del lettore.
vedere la preparazione culturale latina dello studioso di filologia Se Z. avesse posseduto queste qualità, non avrebbe dovuto morire
romanza; volontà di chiarezza sotto il fuoco. Chi non sa immaginare così giovane - non avrebbe, soprattutto, dovuto gettar via così la
l’ultima agonia che come grido, troverà qui anche della retorica, per­ sua vita. Qui, per forza di cose, agisce un’altra forma di volontà arti­
sino un certo gusto declamatorio. Il libro è anche letteratura per stica; nulla più si mostra alla luce di sentimenti di tenerezza, di
quel precario aspetto di nobiltà che permette alla vicinanza della nostalgia o nel ricordo. Egli non pensa a togliere asprezza agli
ghigliottina di convivere con il fulgore degli alessandrini, come nella oggetti della sua consapevolezza. L’unica grazia che quest’arte con­
poesia di Andrea Chénier; o lascia il bon mot accanto alla dispera­ cede (se è arte), consiste in una plasticità astratta di immagini di
zione, come nella Morte di Danton o vede il calcolo scintillante angoscia e di disperazione, nelle quali ogni ricordo di felicità fisica
mescolato con la consumazione interiore, come in tutti i drammi di si raggela.

226 227
E tuttavia sarebbe ingiusto dire che questo libro non ha altro momento della vita - oppure, poiché l’armonia in senso reale non è
vis-à-vis che la morte. Assai più esso si rivolge come un tutto al possibile (in quanto essa non può essere che frutto di lavoro inte­
lettore, naturalmente senza un alito di intimità o di familiarità. La riore, di impegno, di rapporto, di conciliazione) - con la finzione
forma taciuta del "tu” di questo saggio è tutta una arringa, una dell’armonia. Tenere un ménage distinto significa: trattare i proble­
perorazione. L’avvocato chiede giustizia per chi non sa farlo: se mi come privi di stile; vedere nella sfida dei fatti una scortesia;
stesso. rimandare al domani le realtà particolarmente sgradevoli oppure rife­
rirle a uno studio più accurato (fatto da altri). Significa: la dispensa
totale dal proprio spazio di azione; il diplomatico non riconosci­
M onsieur le vivisecteur mento dello spazio altrui; il sottile, abilissimo combinare un sì che
Questo libro non conosce riguardi; né sembra chiederne. L’elemento non impegna con un no che non viene pronunciato; la costituzione
di gelo che tiene a distanza in questo stile muove dal pathos di un di una topografia senza luci e senza ombre, definita e delimitata dal­
soggetto che si presenta come oggetto; oggetto di una scienza alta­ l’assenza dei problemi che - se mai si pongono - vengono relegati nel
mente privata e ultrapersonale. In questo atteggiamento c’è qualcosa limbo del "difficile” e del "non paragonabile”. Significa risarcirsi
che appare ironia e vendetta; un modo di vendicarsi dell’insensibilità della perdita della propria fisicità con l’esotico (ma distinto) spetta­
dell’anima durata tutta un’esistenza, di quell’anima che ora, quando colo di corpi estranei. Significa letteralmente ingannare il tempo
il dolore comincia a darle vita, viene costretta dal bisturi della con­ fino alla morte - evitando accuratamente ogni "esser presente”.
sapevolezza a resistere, a non lasciarsi andare, a fare "come se” Anche la morte è dopotutto, fino a nuovo avviso, la morte degli
ancora non sentisse nulla. altri.
Sappiamo tutti quanto sia ingannevole il bagliore estetico di que­ In questa casa di fantasmi, dove si fa il solitario e si evitano i con­
sta anestesia, quanto sia fragile l’edificio ricostruito dell’anima tenuta tatti, dove si trova la gente "ridicola” e le cose "difficili”, il tempo
in piedi solo da uno scopo dimostrativo. Ma appunto per ciò, questa e lo spazio evaporano sotto la magia del rituale fino al totale silenzio
apparente oggettività, per quanto voluta, vuole essere rispettata. Z. dei sentimenti. Si può avere un’infanzia senza esser bambini; una
lo vuole come "caso” (è stata la sua ultima volontà). Egli si presenta giovinezza senza essere giovani; essere adulti senza avere un presente;
non solo come persona, ma come modello, di qui la straordinaria salutare la gente senza essere vivi. E però con tutto ciò non si ha
esemplarità del suo stile. 'L'atteggiamento in cui vuole essere visto la consapevolezza di una perdita, è uno stato di totale assenza di
non è quello della sofferenza, ma piuttosto quello dell’unica virtù dolore. Perché il dolore sarebbe già una sensazione, un segno di
in cui questa sofferenza può ancora trasformarsi: l’atteggiamento di sensibilità, un sentimento; ma i sentimenti si "indossano”, non si
perito settore della propria situazione. Dobbiamo dimenticare che vivono, non vi si reagisce. In questi ambienti non se ne sente la
non si tratta di una autopsia post mortem ma di una ante mortemy necessità; chi paga per stare a guardare, non ha dopotutto nessun bi­
cioè di una vivisezione. Dobbiamo piuttosto profittare di quest’ul- sogno di mettersi anche a saltare intorno come attore. Paga, con che
tima qualità di tentativo. Il libro pretende una reazione molto più cosa? Il denaro è il meno, e tuttavia non se ne parla, perché che
ricca di conseguenze che la nostra partecipazione; vuole il nostro ci sia va da sé. Di tutto il resto, di quello che non si capisce di sé,
coinvolgimento. a maggior ragione si tace: della sessualità, per esempio, che secondo
Voglio dire che il valore di acquisita consapevolezza di questo provati modelli viene rimossa come per magia: dapprima sta in una
documento è inconsueto: tanto sul piano psicologico quanto su fantomatica lontananza a venire; più tardi, essendo persone per
quello medico (se vogliamo continuare a perpetuare questa precaria bene, bisogna essersela già lasciata alle spalle. Soltanto ora e qui
suddivisione delle scienze). Z. descrive la sua infanzia come un caso non esiste. Civiltà di spettatori. L’idea che tanta finzione di vita
maturato in un ambiente sociale in cui il bon mot consiste nell’evi- potrebbe, in tutto silenzio, venir pagata con la vita, si fa strada
tare il presente; che ha perfezionato il meccanismo del rimandare lentamente nella giovinezza di Z. e comincia a intossicarla, da prin­
fino a fame uno stile di vita, per poter nutrire di armonia ogni cipio in forma di sospetto psicologico. Come sarebbe se io apparissi
228 229
agli altri così ridicolo come loro a me? Quanto orrore deve nascon­ condotta fin lì mette in moto la distruzione aperta e minaccia di
dere il mondo perché lo si debba affrontare solo con così implaca­ distruggere insieme con la finzione anche le fondamenta della spe­
bili buone maniere? Se su tutto ciò che mi riguarda si deve tacere, ranza. Cioè l’analisi porta di fatto alla dimostrazione che l’unità di
quanto enorme deve essere la colpa che io in realtà dovrei compen­ anima e corpo, che la "buona educazione” aveva cancellato, è una
sare? L’adolescente va fra i suoi coetanei con la sensazione di avere realtà più forte, assolutamente inscindibile. Ma accettare questa
"una cornacchia morta legata al collo”; una sinistra e pregnante inscindibilità vorrebbe ora dire disperare della guaribilità della ma­
immagine premonitrice del suo sintomo finale. Qui sta ancora come lattia; perché ogni unità si è nel frattempo rivelata nel segno della
segno di qualcosa che nessun individuo può aver onestamente meri­ ritrattazione, della revoca di tutta l’esistenza. Il nome tragico, la
tato: essere escluso dalla vita. Durante gli anni di studio l’ulteriore realtà schiacciante di questa ritrattazione è: cancro.
differimento della vita comincia ad apparirgli come qualcosa di irre­ Fu per questo che Z., con il referto medico in tasca, di fronte
vocabile: ciò che mi sta accadendo non è giusto, c’è qualcosa che alla disperazione cercò rifugio dall’analista? Fu piuttosto il fatto che
non va. Quel continuo rimandare la vita al quale sono stato abituato il referto medico, che si concludeva nel fatto organico, limitato
e che è diventato il mio impegno, il mio compito, è una malattia che come pareva, alleggeriva l’anima a tal punto eh’essa ora si sentiva
porta alla morte. disponibile per l’analisi. "Dall’esterno” dovrebbe apparire difficile
Vediamo con sgomento la negazione delle reali esigenze oggetti- comprendere come il nome cancro coincidesse per il paziente non
varsi, realizzarsi nel corpo e nello spirito del giovane. Dapprima con una condanna a morte, ma con una speranza. Nel momento in
nell’ombra di una inspiegabile malinconia, un generale calo di tono cui veniva apertamente aggredito, il principio ostile alla vita pareva
di tutto ciò che la vecchia medicina chiamava "gli spiriti vitali”. Il finalmente offrire un terreno d’attacco. E in questa volontà di con­
deficit di realtà (che si è accumulato nel corso di anni di apparente trattacco, poteva farsi aiutare dalla psicoterapia. Per la prima volta
armonia e di ingannevoli privilegi) cerca uno sbocco, una via d’uscita in vita sua questo incapace del contatto umano si trovava ad avere
dal silenzio di morte dell’infanzia e trova da principio solo il lin­ un dichiarato avversario; questo nemico poteva ora prendere il posto
guaggio sommario della tristezza. Essa si avvicina alla realtà per lo del partner ideale, sostituirsi a tutti i contatti mancati. Non pareva
meno in quanto rivela la sua sofferenza. La psichiatria tradizionale ancora del tutto fatale che questo nemico gli si presentasse nella
chiama questo stato "depressione” c se non riesce a chiarire qual è forma del proprio corpo ingannato.
la causa scatenante, aggiunge l’aggettivo "endogena”. Se essa pren­
desse la biografia di Z. alla lettera per fare una anamnesi, potrebbe
imparare a capirsi più chiaramente. Soltanto che ciò travalicherebbe Cancro: che cos'è?
i confini del suo sapere, i suoi concetti di competenza. Dove an­ Questo libro potrebbe essere più di un contributo alla psicologia di
drebbe a finire se dovesse considerare come nevrotica, come causa una forma di vita segnata dalla morte. Potrebbe sostenerne la cura
di malattia psichica proprio la riuscita di una prestazione esisten­ ed essere utile per la comprensione di quella malattia che i necrologi
ziale, cioè il totale dissolversi di un essere umano nelle forme, nelle definiscono "incurabile” e che la medicina tradizionale di preferenza
buone maniere della società? evita di chiamare per nome. Finora il cancro ha talmente deriso tutte
Dopo che, ad onta dei successi negli studi, la depressione si è le invenzioni di questa medicina, che nasce il sospetto che la malattia
infittita fino alla rassegnazione, Z. va alla ricerca di uno psicotera­ non sia assolutamente curabile su base allopatica; vuole una com­
peuta presso il quale la sua globalità di individuo, anima e corpo, prensione nuova, rivoluzionaria del rapporto fra salute e malattia.
possa essere meglio assistita che presso i medici generici. La terapia Il cancro è una malattia fra virgolette; in forma incomprensibile e
comincia a dare i primi risultati (per la prima volta Z. si accorge che conturbante, esso non è tanto una malattia quanto un’evoluzione
ciò che fa ha delle conseguenze), ma dapprima i risultati sembrano asociale della norma biologica. Il proliferare delle cellule, di impor­
rivoltarsi contro di lui, e nella forma più acuta e catastrofica. La tanza vitale e a certe condizioni altamente desiderabile, a un certo
comprensione dell’elemento silenziosamente distruttivo della vita punto smette di attenersi ai limiti del desiderabile, spezza lo schema

230 231
del "sano” e infetta il suo stesso sistema con un’anarchia che porta pando per sé, e alla fine contro di sé, una proliferazione per così
alla morte del sistema medesimo. Chi dà il segnale per l’inizio di dire compensativa.
questa evoluzione, possibile in ogni momento in ciascuno di noi (di Naturalmente non basta vedere nel cancro un reperto individuale
qui il concetto di maligno)? Questa proliferazione che conduce alla di non-volontà-di-vita, un atto di inconscio rifiuto (sebbene a livello
morte presuppone una segreta disposizione, addirittura un’intesa individuale il terapeuta debba agganciarsi a questo se vuole invertire
dell’organismo colpito? È possibile che si debba alla fine pensare tempestivamente il processo letale). Il cancro è la condanna di una
non a un attacco "dall’esterno”, ma piuttosto a una evoluzione società che ha bisogno della repressione e che rende necessario il
"dall’interno”, guidata a livello del tutto inconscio? L’antica medi­ mutismo dei sentimenti. Il riferirsi a "Mosca” - il luogo stereotipo
cina magica e alchimistica che fiorisce ancora in zone eretiche ma dove si sta ancora peggio - rivela, come alibi, solo la carenza di
stranamente vive (e che torna a noi in forma di terapie esotiche) presenza, la irrealtà della propria costituzione. Qui Z., che non è
non ha mai visto la salute come un valore a se stante, ma piuttosto certo uomo di sinistra, stabilisce il nesso preciso fra deficit esisten­
come un gioco di rapporti, un labile e misterioso equilibrio del ri­ ziale e anticomunismo, povertà interiore e aggressività. "Mosca”
cambio fisico e psichico, guidato da una sorta di singolare livello diventa pseudonimo del dato di realtà che, per essere qualcuno, dob
di comunicazione fra il mondo interiore e quello esterno; in breve: biamo sentirci minacciati.
una forma di armonia. Da ciò dovrebbe conseguire che malattia è Nel cancro, questa predisposizione si evolve e diventa una minac­
uguale a squilibrio, a comunicazione disturbata; e che perciò dovreb­ cia reale, concreta. Nel malato di cancro viene condannato ciò che
be essere considerata e trattata non come causa, ma come conse­ impedisce a noi tutti di vivere. La forza di questo libro sta proprio
guenza di una disarmonia. Malati non si "diventa”, a meno di non in questo, nella dimostrazione di questo nesso, una dimostrazione
condotta con le ultime riserve di un sano impulso reattivo, e sigillata
esserlo già, a meno di non vivere in un cronico errore di rapporti con
poi con la morte. Se la premessa della sua azione (la inconciliabilità
il proprio ambiente e quindi anche con se stessi.
di fronte a un’immagine del "sano” e del "malato” del tutto falsa
La cosa veramente inquietante nel cancro è il fatto che esso perché carente e basata sulla rimozione) potesse essere elevata a
sembra confermare fedelmente, fin nel particolare fisiologico e psico­ legge generale, la pubblicazione di questo libro segnerebbe una
logico, questa interpretazione di salute e di malattia. Rifiuta ogni pietra miliare. Porrebbe nuove mete alla conoscenza dell’uomo - e
terapia che non parta da una comprensione globale dei rapporti. soprattutto della medicina —imporrebbe forse un capovolgimento
Il trattamento clinico del male, con raggi e cobalto, anche il più totale della linea seguita dalla farmacologia industrializzata e dai
radicale, rappresenta un surrogato del tutto insufficiente, come dimo­ medici che la sostengono.
strano i risultati. Chi studia e cura solo il cancro, non lo studia né lo
cura in modo giusto - questa dovrebbe essere in generale la conclu­
sione che si trae dalla incurabilità di questo male così tipico della Contrattacco
nostra civiltà; una conclusione che si tradurrebbe certo in termini Fa parte della tragica ironia di questo libro che la speranza che Z.
molto costosi, non soltanto sul piano economico. Il pensiero che di trae dalla comprensione della causa della sua malattia arrivi per lui,
nulla si muore tanto spesso quanto della nostra incapacità di vivere come singolo caso, troppo tardi. In fondo lui lo sa; la tensione
in pace con le condizioni di quella civiltà che noi stessi abbiamo crea­ difficilmente sostenibile degli ultimi due capitoli, espressa o no,
to (quella pace che vive ed elabora apertamente il conflitto, invece di poggia sulla scommessa con la morte vicina. Ma lui, in un certo
doverlo continuamente rimuovere) dovrebbe capovolgere la nostra senso molto preciso, non lo vuole sapere. A questo nuovo senso di
immagine dell’uomo. Nel caso Z. si dovrebbe studiare che cosa è, testardaggine è legato il piccolo margine di vantaggio ch’egli ha cal­
secondo tutte le probabilità, il cancro di un individuo: protesta colato e che forse può ancora salvarlo. L’obiettiva vicinanza della
contro le condizioni oggettivamente dominanti che impediscono la morte gli suggerisce una vicinanza con la vita fino allora sconosciuta,
vita; segnale di morte che l’organismo, così defraudato, si dà, svilup- e gli permette di liquidare, almeno nel pensiero e nella parola, i pro-

232 233
blêmi rimasti fino a quel momento chiusi nella prigione della depres­ essa va ben al di là della speranza in un possibile vantaggio. E qui
sione e del corretto silenzio. Quale che sia il male che il cancro occorre parlare infine della reale temerità di questo morente. Egli
potrà ancora fargli, esso è riuscito ad allontanare definitivamente la calcola - e fa il suo calcolo davanti al lettore sgomento - che questa
depressione e la tristezza di fondo, sostituendovi il dolore reale. E malattia che conduce alla morte, anche se progredisce inarrestabile,
di questo lo si può ringraziare, se pure con rabbia. ha una sua reversibilità, può cioè, in modo diverso, rivoltare tutta la
Z. dà in questo libro una dimostrazione esemplare della sua capa­ sua assurdità contro la causa di tutto l’assurdo... Ciò che il cancro
cità di resistere, di opporsi, che mai prima aveva saputo valutare. ha fatto a questo malato, egli, il malato, lo può ripagare al "dio
Si prende la libertà di utilizzare il mortale tumore come un organo del coccodrillo”. Perché, se dovesse essere vero che l’universo è un
di consapevolezza. Anche questo sono io, impara a dire un uomo organismo i cui nessi sono strettamente legati, allora questo meta­
che mai prima aveva imparato a parlare in prima persona. (Che fisico organismo non può essere più forte del suo membro più
d’altro canto per lui ci fosse stata soltanto la forma della prima per­ debole. E però proprio in questo essere il membro più debole, quindi
sona, il malinconico autismo, è una contraddizione soltanto appa­ il sacrificato, in questo deve consistere la mortale grandezza del
rente.) Di più: finalmente egli fa ciò che ogni fiore sapeva fare e sacrificio. Il suo morire è l’attacco al tutto, l’aggressione e deve
lui no: "mostrare la propria crescita”. E questa rappresentazione trasferire nell’al di là la ben meritata morte...
del sé sembra controbilanciare anche la morte che si nasconde in Qui il cancro appare non più come il mero riflesso della propria
questa crescita divenuta maligna. È finalmente —in rappresentanza vita, ma diventa arma, magia nera, inversione malvagia del detto
di tutti i rapporti esterni mancati, di tutto il mondo esterno perduto evangelico secondo il quale ciò che viene fatto al più povero dei fra­
- una morte esteriore; dolorosa, certo, ma mai così maligna come la telli è fatto anche a lui. Il motivo dell’anti-Giobbe, il rifiuto asso­
morte interiore e sempre taciuta di prima. Una morte esteriore, luto a riconciliarsi con il dio della morte è il motivo predominante
quand’anche nulla più potesse essere di aiuto, egli può sempre farla dei due ultimi capitoli. Z. si immedesima nella posizione di rivolta
sua. Naturalmente non nella forma in cui il Claudio di Hofmannsthal del Sisifo di Camus e ha il coraggio di ripetere: ”11 est heureux”.
cade finalmente nelle braccia della morte. Questo è in effetti un esistenzialismo oltre i limiti che un individuo
Da tot mein Leben war, sei du mein Leben Tod! convalida - non senza gettare un’occhiata a Satana-Lucifero - con la
Was zwingt mich, der ich beides nicht erkenne, sua anima viva (finalmente viva!). Ci vuole davvero un massimo di
Dass ich dich Tod und jenes Leben nenne?1 autosuperamento - no, piuttosto di autoaffermazione - per tenersi,
nella situazione di Z., al grido di fede di Camus, per cui di fronte
Morire la sua morte significa per Z. riconoscere implacabilmente all’assurdo non conta più il vivere "le mieux”, ma "le plus”. Questo
entrambe: la morte e la vita; mantenere chiara la terminologia; è una sorta di irriverente immoralismo che in realtà va molto al di là
rinunciare una volta per tutte a ogni trucco e a ogni confusione. della propria così limitata esistenza. Ma appunto questo massimo è
Significa chiamare morte la morte e accettare la sua crudele illogi­ per Z. abbastanza estremo per equilibrare almeno nella tendenza il
cità, e chiamare vita la vita, anche quando non c’è più il tempo muto peso di ciò che la vita non gli ha dato.
per viverla. Ma l’opposizione, l’ira (der Zorn, che lo pseudonimo denuncia)
Sì, non cedere a questa conciliazione con la morte, evitare, questa
di questo morente implacabile, non si rivolge soltanto contro l’as­
volta a ogni costo, la conciliabilità depressiva che non prende par­
surdo trascendente. Non meno arditamente specula contro l’assurdo
tito di fronte alle cose e ha reso la vita un sogno senza seguito. In
ciò sta il senso personale di questo documento, di quest’ultima vo­ concreto delle nostre strutture sociali, contro l’incurabilità della pro­
lontà. Se in tale atteggiamento si nasconde un po’ di speculazione, pria origine familiare e sociale. Il morente vorrebbe ora, con la sua
disperazione finalmente carica di vita, padrona della vita, avvelenare
anche questo. Egli vede la sua morte - o quell’irato ritaglio di vita
1 Poiché morta era la mia vita sii tu la mia vita, o morte / Che cosa mi costringe, che gli rimane - come un attacco rivoluzionario al sistema, senza per
poiché non riconosco entrambe / a chiamare te morte e l’altra vita? [N.d.T.] questo accodarsi a una esistente forza rivoluzionaria, nessuna delle

234 235
quali appare sufficiente al suo precario assolutismo. È la sua morte gno di comunicazione, portato all’estremo, di un uomo isolato, solo
in quanto tale che deve portare alla luce l’elemento di morte di nella morte? La celebrazione della vita per sé, a prezzo del proprio
questa società, rendendolo ben riconoscibile e non più rifiutabile. desiderio d’amore - che altro nasconde se non l’unica preghiera di
La sua morte non disturberà soltanto la quiete dei genitori e della trasmettere la vita stessa, che altro esprime - nella forma opposta
loro società, non metterà in luce soltanto le loro colpe (questo atto della maledizione - se non un desiderio d’amore?
di accusa Z. lo pronuncia alla fine in tutta la sua forza dopo averlo Colui che ha scritto questo libro vi progettò - comunque l’abbia
lasciato sospeso nell’aria come un generico j'accuse). Di più: renderà poi usata - una strategia della sopravvivenza. Quando tutti i fili si
loro (non ora e subito, ma quando il numero delle vittime, di cui spezzano, una cosa deve per lo meno restare di lui: una consapevo­
egli è solo uno dei tanti, avrà raggiunto un peso sufficiente), renderà lezza che va nel profondo. "Io sarò morto e avrò saputo perché.”
loro impossibile continuare a esistere con se stessi. Lui, il " rivolu­ Può essere una consapevolezza avvelenata - ma Z. preferisce presen­
zionario passivo”, contribuirà con questo alla decadenza dell’occi­ tare la sua intera esistenza come spazzatura che ci faccia riflettere e
dente, lui che non era contro la rivoluzione. Una società che non ha possa pesare sul mondo, e in caso estremo distruggerlo, piuttosto che
imparato, muore, è già morta; manca soltanto che la morte alla lasciare che questa esistenza finisca nel nulla.
quale è condannata si faccia a tutti evidente. Egli volle vivere fino all’ultimo istante e ancora oltre. Soltanto
il cancro, di cui inutilmente cercò di liberarsi, gli aprì gli occhi e gli
fece comprendere quanto volentieri avrebbe vissuto e quanto poco
Dolori di un adolescente aveva vissuto; gli fece comprendere che cosa la vita avrebbe potuto
Questa rivelazione il libro di Z. la catapulta ai piedi del lettore. E essere. Chi in questo manoscritto avverte una mancanza di maturità,
perché essa non venga addolcita da alcuna speranza nell’al di là, con non dimentichi che a questo morto non è stata concessa nemmeno
la condanna della società egli pronuncia anche la condanna di Dio. l’immaturità. Qui siamo di fronte a un uomo morto a trentadue anni,
Il dio che ha permesso il prosperare di questa società, e di cui essa un uomo con tendenze del tutto normali e che pure non ha mai fatto
ha bisogno in quanto egli è il creatore delle sue scappatoie, non l’amore con una donna. Che neppure in questo sia un caso isolato,
deve essere. Poiché egli dipende dal sistema che lo ha creato, un già sarebbe motivo di indignazione - dell’unica onesta indignazione
buon odio basta per la distruzione di entrambi questi mondi. Perché che io posso considerare legittima in questa nostra società. Essa
egli non deve essere un dio illimitato e universale, ma un dio dovrebbe ribellarsi contro l’elemento che in tutti noi impedisce,
locale, un dio della "costa d’oro” - assoluto solo nella sua limita­ paralizza la vita - ed è appunto ciò che questo morente fa, nella
tezza, per il resto solo Male che può essere neutralizzato spezzando forma più privata e più virulenta - e lo fa per noi. Il lettore
ogni rapporto con lui. È sconvolgente quanta acutezza Z. usa per può ancora trovare che questo libro sarebbe stato più graffiante se
dimostrare la limitatezza, la regionalità di Dio - come se qui lo con­ avesse posto la "piccola” esperienza davanti alla più cospicua spe­
ducesse per mano, ignorata, l’assurda speranza che nell’universo culazione e che forse soltanto in questa forma potrebbe essere defi­
anche il male potesse essere altrettanto limitabile quanto nel suo nito veramente "personale”. D’accordo. Ma questo giovane non
corpo (come egli continua a sperare). Sì, fino all’ultima pagina - e aveva avuto le premesse per una simile esistenza personale - e quindi
agli ultimi giorni di Z. quando egli, divorato dalle metastasi, aveva anche sessuale - e questo è appunto il dolore che egli qui lamenta e
voluto essere ricoverato in ospedale per una "cura del sonno” —la di cui muore. Egli cerca la sua dignità nel manifestare il suo più
bontà del suo desiderio esistenziale rimane chiara e riconoscibile. profondo dolore non come dolore, ma come ira. È contro la morte
Egli si propone con tanta ferocia soltanto per non venire sospettato durante la vita che Z. protesta e a questo egli oppone l’unica cosa
di una gentilezza che gli appare fatale. Ma la sua speranza furtiva­ che ha veramente vissuto: l’esperienza che prima della morte ci deve
mente si serve anche delle forme della estrema rivolta - la maledi­ essere una vita - sia pure una vita sofferta, tormentata, incompleta,
zione di Dio. Perché che altro significa quell’audace speculazione, ma pur sempre vita; se non esiste altra possibilità una vita nella
l’idea di contagiare l’universo con la propria miseria, se non il biso- morte, nell’agonia. La sua ira non cela mai completamente il suo

236 237
bisogno di giustizia, il suo desiderio di essere onesto. L’antico,
sospetto desiderio combatte fino all’ultimo momento con il bisogno
elementare di esprimersi, di manifestarsi, di enunciare finalmente,
una volta per tutte, i suoi desideri.
Ma persino questi suoi desideri sono, se si guarda dal di dentro
l’elemento più pungente, al contrario sommessi e stranamente mo­ I

desti. A un certo punto Z. scrive che, a vitalizzare il cancro, c’è


stato in lui soltanto un po’ troppo di tutto. Un po’ troppo di quel
mendace silenzio, della istituzionalizzata mancanza di sentimenti, un
po’ troppo del peso della tara familiare. Per la sua qualità, il tipo
di vita ch’egli ha vissuto non sarebbe stato letale. È stato il fattore
quantitativo, il troppo di disumanità che si è trasformato in malattia
mortale. Si deve allora da questo dedurre che più fantasia, più cure,
più attenzioni fisiche e spirituali avrebbero salvato questa vita, anche
nel suo clima borghese? Si può e si deve. Z. ha sbattuto la porta con
tanta veemenza davanti al suo prossimo soltanto perché sapeva di
non poterla chiudere altrimenti. Il lettore resta invitato a contrad­
dire questo radicale gesto di morte. Questo appare legittimo non
foss’altro che perché obbliga all’azione; perché può e deve essere
vissuto qui e ora. Colui che qui ha dovuto morire non è stato la vit­
tima di un destino avverso; è morto a causa di tutti noi; è morto di
ciò che a noi manca - da un’occasione all’altra - per essere degli
esseri umani completi. È morto perché non ha potuto condividere la
sua vita, non ha imparato a comunicarla, non lo ha imparato fino a
quando non è stato troppo tardi. Ciò che gli è mancato nella vita è
stato qualcuno che gli avrebbe potuto dare e chiedere partecipazione,
comunicazione. In una società incurabile la sua morte non è un’ec­
cezione, ma un fatto normale. Continueremo a morire così fintanto
che continueremo a vivere così. Questa è la verità veramente scon­
volgente di questo libro.

238
Questo volume è stato impresso
nel mese di luglio dell’anno 1978
presso la Nuova Stampa di Mondadori - Clés (TN)
Stampato in Italia - Printed in Italy

Potrebbero piacerti anche