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Il libro

C
i sono momenti in cui ci troviamo costretti a camminare
per strade buie e siamo così stanchi da non riuscire a vedere
un orizzonte, un indizio, qualcosa che possa aiutarci.
La vita ci pone spesso davanti a difficoltà che paiono
insormontabili, a livello personale, familiare o collettivo, e quando si
presentano siamo principianti impacciati, mai preparati in modo
adeguato. La recente pandemia che abbiamo dovuto affrontare
rappresenta un esempio drammatico, ha infranto d’un colpo le nostre
certezze e ci ha fatto scoprire improvvisamente vulnerabili.
Eppure, come scrive don Luigi Maria Epicoco, “Assumerci la
responsabilità della nostra vita, anche quando essa non ci ha
domandato il permesso, è ciò che trasforma l’esperienza dell’essere
vittima in opportunità di tornare a essere protagonisti”. Ecco quindi
che le riflessioni semplici, chiare e di immediata lettura che
compongono questo volume ribaltano la prospettiva, aprono squarci,
ci consentono di mettere a fuoco il lascito positivo di ogni momento
doloroso. Perché se è vero che ogni passaggio ci consegna tante
domande e ci segna incisivamente, è anche vero che c’è sempre una
Verità in fondo per cui vale la pena vivere.
L’autore

Luigi Maria Epicoco (1980) è sacerdote della diocesi di L’Aquila,


insegna Filosofia alla Pontificia Università Lateranense ed è preside
dell’ISSR “Fides et ratio” di L’Aquila. Si dedica alla formazione e alla
predicazione specie per la formazione dei laici e dei religiosi, tenendo
conferenze, ritiri e corsi di esercizi spirituali. Ha al suo attivo
numerose pubblicazioni tradotte in diverse lingue, tra le quali San
Giovanni Paolo Magno, scritto con Papa Francesco.
Luigi Maria Epicoco

LA LUCE IN FONDO
Attraversare i passaggi difficili della vita
La luce in fondo
A papa Francesco
per me la luce in fondo
Prologo

Ho passato molti anni della mia vita con un privilegio


incomprensibile alla maggior parte della gente: essere accolto in
molte vite, molte storie, molti destini.
Conservo il ricordo fin da ragazzo, quando mi capitava di dover
essere presente, come testimone senza diritto di parola, nella vita di
famiglie, situazioni, contraddizioni, gioie e dolori.
Ho assistito a molte vite oltre la mia. Ho sempre ascoltato molto
con gli occhi. Ed è un destino strano, perché gli occhi sono una parte
malata di me. Fin da quando ero piccolo ho sempre convissuto con
un paio di occhiali. Eppure, ciò che più ho amato è stato guardare le
cose.
Credo sia uno strano meccanismo, quello di farci diventare esperti
proprio in ciò di cui più manchiamo.
Ho visto abbastanza per accorgermi che il bisogno primario
dell’uomo non è il pane, ma l’ascolto.

L’uomo ha un bisogno tremendo di essere ascoltato.


L’ascolto è la carità di raccogliere la parola. Chi ascolta ti dichiara
vivo. Chi ignora la tua parola ti fa morto.
C’è un così grande bisogno di ascolto nel nostro mondo, che la
gente è disposta a pagare pur di essere ascoltata. Sogna di avere
problemi, pur di avere la scusa giusta per poter parlare. La verità è
che la nostra storia, quando ci rimane dentro, è solo un groviglio
confuso di suoni e rumori. Solo quando diciamo, allora la confusione
che ci abita diventa una storia compiuta, un significato.

L’ascolto è la carità di raccogliere


la parola. Chi ascolta ti dichiara vivo.
Chi ignora la tua parola ti fa morto.

Non basta essere ascoltati, serve che l’ascolto sia senza giudizio,
sia innanzitutto gratuito. C’è sempre il tempo, poi, per catalogare,
giudicare, incasellare, ma la prima potenzialità dell’ascolto è
permettere la consegna di noi così come siamo e non così come
dovremmo essere.
Se, per sbaglio, qualcuno sedesse in un confessionale, si
accorgerebbe subito del crearsi di una lunga fila. Non è solo il
bisogno di liberarsi da una colpa, ma di poter scorgere sotto il
tappeto della colpa una storia che non si conosce, proprio perché la
colpa lo seppellisce. L’ascolto gratuito non serve a togliere la polvere
dai tappeti delle nostre colpe, ma a togliere direttamente i tappeti. È
la ricaduta esistenziale della misericordia raccontata nei Vangeli.
Gesù è insopportabile perché si rifiuta di agire attraverso una
religione fatta di colpe. Egli non tiene in pugno la gente con un
perdono che fa leva sui pesi dei peccati. Egli tocca e si lascia toccare
dalle persone così come sono, nella loro contraddizione, malattia,
errore, e per questo salva loro la vita, perché li fa incontrare con
qualcosa di più interessante di ciò in cui sono incappati.

Siamo come fuggiaschi che stringono tra le braccia una montagna di


fogli sparsi. Stringiamo, perché abbiamo paura di perdere qualcuno
di quei fogli. Di alcuni vorremmo sbarazzarci, ma non sappiamo
nemmeno più quali sono, in mezzo a tutti gli altri. Così ci teniamo
tutto, senza eccezione, senza scegliere, senza selezionare. Ci teniamo
tutto senza capire nulla.
L’ascolto è mollare la presa. È lasciare che quei fogli vengano
messi sul tavolo di una relazione. Il semplice gesto di lasciar cadere
le cose in un racconto, le disvela senza fatica. Ma la costanza di
essere fedeli a quel gesto che si è fatto parola e ascolto, pian piano
riordina. Quei fogli sparsi diventano così una storia. E non ne sono
più solo il peso, ma anche il nascosto piacere.
Per questo, le pagine che seguono spero siano un grande esercizio
di ascolto, una maniera cioè di rileggere la nostra storia senza più
subirla. Le riflessioni qui raccolte hanno l’unico scopo di fare da
specchio. Un pretesto per guardarsi dentro, per ritrovare il bandolo
della matassa. Afferrare il bandolo non significa capire tutto, ma
intuire che in tutto è nascosto un significato, inesorabilmente più
grande dei nostri ragionamenti. Noi vorremmo capire per
controllare, ed è proprio qui la radice ultima della nostra sofferenza.
Non si può controllare il mare, lo si può però navigare. Non abbiamo
potere sulle tempeste, ma possiamo approfittare delle onde per
andare nella direzione sperata.

Quello della pandemia del Coronavirus è stato un tempo difficile, un


tempo di cattività. Nella sua radice più autentica, captivus non ha
subito il significato morale che noi usiamo nel linguaggio comune.
Captivus significa “schiavo”, “prigioniero”. Ci siamo tutti sentiti
costretti, schiavi, prigionieri di un evento che ci ha fatti scontrare in
maniera traumatica con la realtà. Molte volte nella vita ci capitano
eventi simili e, per quanto vogliamo esservi preparati, la verità è che
quando essi si presentano, noi siamo dei principianti impacciati.
Nonostante la nostra costante impreparazione, dobbiamo accettare
che simili momenti segnino passaggi fondamentali della vita. Non
sarà forse un caso che la parola Pasqua significhi proprio
“passaggio”. E la Pasqua è sempre fatta di tappe obbligate.
Sant’Agostino diceva che «non c’è Pasqua senza Venerdì santo»,
quasi a indicarci che è quella della crisi, la via che ci porta a
cambiamenti.

Non si può controllare il mare, lo si può


però navigare. Non abbiamo potere
sulle tempeste, ma possiamo
approfittare delle onde per andare
nella direzione sperata.
Ognuno di questi capitoli è preceduto da stralci di lettere e
condivisioni che ho ricevuto in questo tempo. Ho voluto mettere i
piedi “per terra”, nell’esperienza concreta della gente, per mostrare
che le riflessioni sono profonde solo quando sono “vere”, quando
sono verificabili, non soltanto quando sono belle ed emozionanti.
Non abbiamo bisogno di emozioni forti, ma di fatti affidabili. Spero
che questo piccolo itinerario che descrive la dinamica di ogni
passaggio decisivo possa aiutare a dare affidabilità alla nostra vita,
tanto da farci alzare lo sguardo e scorgere nel buio la luce in fondo.
Relazioni

«Caro padre, ti scrivo perché vorrei che tu mi aiutassi a capire se la


nostalgia che provo in questi mesi dice che sono strana o che è cambiato
qualcosa di importante per me. Ti sarà utile forse che ti racconti un po’ di
me. Ho deciso di andare via da casa che avevo appena diciott’anni. Era un
modo per evadere da un ambiente che mi sembrava così stretto, così
soffocante per i miei sogni. E così sono arrivata a Milano in cerca di lavoro.
La mia famiglia non poteva mantenermi agli studi. Anche per questo ero
arrabbiata con loro. Tutte le mie amiche erano prese dalla foga di scegliere
una facoltà. Io non avevo nessuna scelta perché nessuno mi avrebbe potuto
mantenere. Ho cercato un lavoro per vivere e ho sognato per anni la
possibilità di studiare. Ci sono riuscita e con immensi sacrifici mi sono
laureata. Il giorno della mia laurea non volli che la mia famiglia
partecipasse. Pensavo che dei contadini con la sola scuola media non
avrebbero capito un bel nulla dei miei studi. Comunicai solo a mia madre
che era andato tutto bene, e sentii le sue lacrime che per un istante mi
svegliarono a un senso di colpa che non avevo mai provato. Ma fu questione
di poco. Io mi sono realizzata con le mie sole forze e non ho mai potuto e
voluto fare affidamento su nessuno. Anche al lavoro ho fatto carriera perché
ho scelto di allearmi con me stessa.
Ho passato anni così. E non capisco perché solo adesso, nel cuore del
lockdown di questa pandemia, mi è scoppiata dentro una nostalgia della mia
famiglia. Sogno di raccontare loro tutto quello che non gli ho mai detto.
Sogno di abbracciare mio padre. Di notte mi sveglio e mi domando se si può
vivere una vita emancipandosi da alcune relazioni così significative. Anche
le storie che ho avuto in questi anni, non ho mai permesso che varcassero il
confine della vera intimità. Ma ora mi sembra tutto così diverso. Ora che
non posso scegliere di uscire da casa, o andare da chi reputo importante, mi
sono ridestata alla consapevolezza della grande menzogna dentro cui ho
vissuto tutto questo tempo.
Chi siamo noi senza relazioni? Forse solo degli infelici in cerca di
affermazioni. Ora ho capito che tutto quello che ho fatto, in realtà, l’ho fatto
perché speravo che qualcuno mi dicesse chi ero davvero. Ma gli unici che
potevano aiutarmi a rispondere a questa domanda li ho tagliati fuori
chiudendo le relazioni. E ora loro rischiano la vita, a centinaia di chilometri
da me. Se dovessi morire vorrei essere con loro e non con i miei successi
[…]»
La grande pandemia del Coronavirus ci ha resi tutti vittime e
protagonisti di una pagina della storia che rimarrà non soltanto nei
racconti di chi verrà dopo, ma soprattutto nelle pagine più
significative della nostra storia personale. È la traumatica violenza di
chi è stato costretto a fermarsi, a rinchiudersi nelle proprie case, a
distanziarsi dagli altri, a sperimentare la paura del contagio e la
possibilità della morte che si affaccia nella nostra vita come un
nemico invisibile, in agguato e ovunque nascosto.

I più fortunati hanno potuto sperimentare solo il disagio


dell’isolamento, la costrizione di essere fermi in un posto e
l’impossibilità di poter scegliere che cosa fare, dove andare, come
organizzare il proprio tempo, il proprio lavoro, le proprie priorità.
Ma molti altri, assieme all’isolamento, hanno sperimentato anche
l’ingiustizia di vedersi strappati i propri cari, di vivere una malattia
che si è delineata con tratti disumanizzanti, non tanto per la violenza
con cui è riuscita ad attaccare il corpo umano fino, in molti casi, a
procurare la morte, ma per quella costrizione di non poter stare,
spesso, accanto alle persone amate per accompagnarle in quel
dolore, in quella sofferenza e molto spesso anche nell’ultimo tratto
della vita.
Il tempo che segue la pandemia del Coronavirus non può non
essere un tempo di rielaborazione del lutto, e ciò non comporta
innanzitutto darsi ragione di ciò che è accaduto, ma accettare che ciò
che è accaduto senza domandare permesso, ha segnato e cambiato la
nostra vita.
La grande domanda che attraversa l’umanità è proprio questa: che
ne sarà di noi? Chi saremo a partire da questa fine? Questa domanda
è nascosta nei piccoli e grandi avvenimenti della vita di ognuno,
soprattutto quando essi ci conducono a un punto di non ritorno.
Ognuno di noi, nella propria esistenza, sperimenta momenti che
segnano un prima e un dopo: sono quelli che, a ragione, chiamiamo
momenti indimenticabili, e sono tali perché non è possibile purificare
la nostra memoria da quella forte gioia o da quel forte dolore. I
momenti indimenticabili sono sempre la fine di un tempo e l’inizio di
un altro. La fine e il principio si mescolano sempre. Ogni volta che si
è disposti a iniziare qualcosa di nuovo, bisogna cominciare ad
accettare che finisca qualcos’altro e, allo stesso tempo, in ogni cosa
che finisce deve trovarsi sempre la possibilità di un nuovo inizio.

La grande domanda che attraversa


l’umanità è proprio questa:
che ne sarà di noi? Chi saremo
a partire da questa fine?

In questo senso, la pandemia del Coronavirus ha costretto tutti


noi a svegliarci con violenza dalla grande menzogna di una civiltà
poggiata sulla tecnica e illusa di avere le redini di tutto e di potere
tutto. Tecnicamente, questo atteggiamento prende il nome di delirio
di onnipotenza: è una relazione sbagliata con la vita, con noi stessi,
con gli altri, con il mondo, tutta basata sull’illusione che ogni cosa ci
è dovuta, e proprio perché dovuta è anche automaticamente
possibile. Siamo stati, invece, tutti costretti a fare esperienza dello
scontro con il limite, con l’impossibilità. Tutti, toccando la nostra
fragilità, ci siamo resi conto di essere certamente più evoluti, ma allo
stesso tempo ugualmente esposti a ciò che a volte la vita ci riserva
come un imprevisto, mettendo in crisi i nostri programmi.
Nella possibilità della sofferenza non dobbiamo rinunciare a
cercare una strada che permetta a essa di non marcire, fino al punto
da diventare infelicità, frustrazione, rinuncia. Infatti, se la sofferenza
è sempre qualcosa che ha a che fare con la vita, ci sono però un
modo di soffrire umano e un modo di soffrire disumano.
La medicina infatti serve a salvare la vita, ma soltanto le persone
possono aggiungere alla potenzialità della medicina la possibilità di
sanare anche la qualità umana, e non solo di guarire il meccanismo
biologico. In questo senso, scienziati, medici, infermieri, personale
sanitario hanno dato prova non solo di competenza e creatività
professionale ma, soprattutto, in molti casi, di umanità, perché
hanno intuito che non bastava solo accudire, accompagnare, tentare
di curare e di salvare, ma che bisognava riempire quella sofferenza,
quella malattia e quel rischio, di un di più che non poteva venire da
nessuna tecnica e da nessuna scienza.
Solo l’uomo a cui funziona l’umanità può dare e ricevere questo
di più. Ecco perché le pagine seguenti spero possano essere utili a
crescere in quella grande competenza che esula dalla scienza e dalla
tecnica, ma che è la base stessa della vita umana. È quella
competenza che prende il nome di “essere esperti in umanità”.
Infatti, ciò di cui abbiamo sempre bisogno, al di là delle nostre
scoperte e delle nostre capacità tecniche, è non perdere mai di vista
l’umano.
Il Coronavirus non ha peggiorato la realtà, in un certo senso l’ha
rivelata: ad esempio, ha mostrato i limiti di una globalizzazione che
ha reso il mondo una rete commerciale più che una rete di persone.
Ci ha fatto scoprire che l’utile e il guadagno non sono il migliore
affare, quando non riescono a rispondere o a sostenere quel bisogno,
basilare per l’uomo, che è la sua relazionalità.
Abbiamo ascoltato da più parti in questo tempo, come uno
slogan, una frase che racchiude in maniera decisiva l’insegnamento
di una simile prova: «Nessuno si salva da solo». In un mondo che
propaga il self-made, in una cultura ripiegata sulla realizzazione degli
individui, in una società costruita sulla competizione e non sulla
solidarietà, apprendere la lezione che nessuno si salva da solo
significa essere messi davanti a un cambiamento che se non verrà
accolto fino in fondo diventerà la vera cifra della tragedia di questi
mesi.
Ciò di cui abbiamo sempre bisogno,
al di là delle nostre scoperte e delle nostre
capacità tecniche, è non perdere mai
di vista l’umano.

C’è un episodio, nella storia passata, che può diventare


illuminante per capire quanto profondo può essere il buio di un
mondo che si priva delle relazioni e si concentra solo sulla
realizzazione del proprio Io. È riportato, nel XIII secolo, da uno
storico di nome Salimbene de Adam, e descrive un famoso
esperimento ideato dall’imperatore Federico II di Svevia per
rispondere al grande interrogativo su quale potesse essere la lingua
umana primordiale.
La storia è questa: Federico II decise di isolare un gruppo di
neonati e di farli vivere in assoluto silenzio. Questi piccoli, a cui non
veniva rivolta nessuna parola, erano toccati il minimo
indispensabile, per le sole cure igieniche e per essere nutriti.
Salimbene racconta che questi bambini non parlarono nessuna
lingua e non rivelarono nessun arcano, perché l’assenza di contatto
fisico e verbale li condusse tutti alla morte.
Questa storia, tacciata da diversi storici come un’esagerazione
della propaganda guelfa contro Federico II, è stata accreditata in
tempi più recenti dalle osservazioni di uno psicanalista di origine
viennese, emigrato durante la Seconda guerra mondiale negli Stati
Uniti, René Spitz. Costui condusse uno studio su alcuni bambini
abbandonati in orfanotrofio. Novanta bambini nutriti regolarmente,
ma con scarsi contatti interpersonali.
Si osservò che solo i bambini a cui le nutrici dedicavano qualche
carezza e interazione, oltre ai gesti dovuti per l’igiene e il
nutrimento, sviluppavano una certa possibilità di sopravvivenza.
Dopo tre mesi di carenza di contatti, i bambini osservati
presentavano una forma grave di apatia, di inespressività del volto,
di ritardo motorio e di deterioramento della coordinazione oculare.
Spitz osservò che, nelle loro culle, si formava come un piccolo
avvallamento che li avvolgeva completamente. Essi entrarono in una
sorta di letargo e, alla fine del loro secondo anno di vita, quasi il 40%
morì. Pur avendo avuto un’alimentazione corretta, i sintomi della
morte erano riconducibili alla carenza proteica tipica della
malnutrizione. I primi a morire furono i bambini che stavano in
fondo alle camerate e che avevano ricevuto certamente cibo, ma
pochissimi contatti interpersonali. I sopravvissuti, a loro volta, non
soltanto non erano in grado di parlare o di camminare
correttamente, ma molto spesso non erano in grado nemmeno di
rimanere autonomamente seduti.
Sembra rivelarsi, attraverso questo atroce esperimento, che c’è
qualcosa di più importante per la vita umana, che esula dalla stessa
sopravvivenza della vita biologica: è quel nutrimento che passa
attraverso le relazioni. La parola e il contatto fisico sono gli alfabeti
più importanti attraverso cui la relazione diviene possibile.
In un tempo come il nostro, in cui aumentano le interconnessioni
e diminuiscono le relazioni, la vita umana rischia di essere distrutta,
non da una malattia o da un evento esterno, innanzitutto, ma da una
patologia che risiede in un modo malato di abitare e di stare nel
mondo.

La parola e il contatto fisico sono gli


alfabeti più importanti attraverso
cui la relazione diviene possibile.

La nostalgia di relazioni prodotta dal digiuno relazionale forzato


del Coronavirus, non è semplicemente una nostalgia di normalità,
ma è dichiarazione di un bisogno che la società contemporanea
tende a soffocare perché tutta attratta da priorità che danno
all’uomo, nel migliore dei casi, il nutrimento, ma non l’essenziale di
cui ha bisogno.

Le relazioni, di cui tutti abbiamo bisogno, non devono mai essere


parziali, cioè non possono mai essere solo relazioni con il nostro io,
ma devono essere anche relazioni con l’altro, con un tu diverso
dall’io. Devono essere relazioni che hanno a che fare con il mondo,
così come avremo modo di vedere più avanti. Devono toccare il
bisogno di senso che alberga nel cuore di ogni uomo. Ecco perché
l’assenza totale di spiritualità non ha cancellato questa nostalgia nel
cuore dell’uomo, ma lo ha spinto in una regione più pericolosa, che è
quella della semplice emotività.
Ognuno di noi a volte pensa di poter risolvere il suo problema di
senso trovando semplicemente un’emozione giusta che corrisponda
a questo bisogno. L’amore, così, viene confuso con le emozioni. Le
scelte grandi della vita risultano inutili, quando non sono suffragate
da una droga emozionale che ci dà, magari costantemente, la
sensazione di essere vivi. È la grande trappola di ogni dipendenza,
qualunque essa sia. Da una parte, c’è il bisogno di sentirsi vivi e,
dall’altra, ci si rivolge a un interlocutore che può darci solo la
sensazione della vita, ma non la vita che stiamo cercando. Tutto ciò,
ancor prima di trasformarsi in una precisa religione nella vita di una
persona, è la possibilità di un’interiorità che ha a che fare con tutti,
anche con coloro che non fanno nessuna professione di fede. È
accettare cioè che strutturalmente c’è in noi un’apertura all’infinito,
che è più grande del meccanismo in cui siamo immersi. È il grande
perché che rende o meno significativa la nostra vita.

Ora, quali temi abbiamo vissuto con disagio in questo tempo di


crisi? Quali parole hanno abitato il buio del tunnel dentro cui ci
siamo ritrovati come umanità? Innanzitutto l’esperienza di scoprire
l’inferno della solitudine, poi quella di scontrarci con la porta
scomoda del silenzio, che ci ha costretti a fare i conti con noi stessi, e
poi l’ammissione del nostro corpo come luogo dentro cui si
manifestano non solo la gioia, ma anche la malattia, la sofferenza, la
morte.

Quali parole hanno abitato il buio


del tunnel dentro cui ci siamo
ritrovati come umanità?

Esiste una narrazione positiva di queste parole? C’è la riscoperta


di una solitudine che salva, di un silenzio che introduce, di un corpo
redento? C’è una morte che può essere vinta? Insieme cercheremo di
entrare in ognuna di queste parole per trovare una direzione che ci
conduca alla luce in fondo.
Solitudine

«Mi hai chiesto se mi sentissi solo. Ci ho pensato a lungo in questo periodo


di chiusura forzata a cui ci ha condannato la pandemia.
Per me la solitudine coincide con due cose terribili: non sentirmi capito e
avere paura di essere abbandonato. Capirai allora che ciò che mi pesa non è
la semplice assenza fisica di persone accanto a me, ma la sensazione che io
non riesca mai veramente a farmi capire, a condividere, a spiegare ciò che
vivo e, allo stesso tempo, la costante paura che da un momento all’altro ciò a
cui più tengo mi lasci. Questo è il mio vero inferno. Questa è la mia più
radicale solitudine. Conosci un modo di evadere da tutto questo?»
Tra le paure più profonde che abitano il cuore dell’uomo c’è
certamente la paura della solitudine. E questo per un motivo molto
semplice: noi, come già abbiamo detto, siamo fondamentalmente
degli esseri relazionali. Ciò sta a significare che avvertiamo che la
vita è significativa solo e soltanto nell’intrecciarsi delle relazioni. La
loro rottura ci fa sprofondare nell’insignificanza. Ecco perché la
solitudine è sempre vista con immenso sospetto, ed è molto difficile
esorcizzare l’effetto negativo che produce nel cuore dell’uomo.
C’è poi da aggiungere che, quando la solitudine è rafforzata da
circostanze esterne, allora il livello di difficoltà che essa produce
diventa immensamente più grande.

La vita è significativa solo e soltanto


nell’intrecciarsi delle relazioni.
La loro rottura ci fa sprofondare
nell’insignificanza.

I Vangeli, ad esempio, parlano della solitudine imposta legandola


all’esperienza di una malattia terribile come la lebbra. Nell’antico
Israele, chi si ammalava di lebbra era costretto al distanziamento
sociale. In pratica, veniva isolato da tutto il resto del popolo, doveva
vivere lontano da tutti e il suo passaggio andava sempre annunciato,
in modo che la gente potesse scostarsi. Non di rado, quella malattia
veniva letta anche come maledizione, e non si riusciva a fare più
differenza tra malattia e malato, che diventavano un tutt’uno. Tutte
le volte che nei racconti evangelici si parla della lebbra, non si parla
semplicemente di un male che riguarda il corpo ma di un male che
esprime una paura di fondo che abita nel cuore di ogni uomo. È la
paura di restare soli a causa di qualcosa che è successo. A volte è un
dolore, a volte un’incomprensione, a volte sono alcune circostanze
della vita che ci condannano alla solitudine.
Se ci liberassimo per un istante dall’immaginario dentro cui siamo
cresciuti, dovremmo dire, con buone ragioni, che la cosa che si
avvicina maggiormente all’inferno assomiglia più alla solitudine che
al fuoco, allo zolfo, ai paesaggi spaventosi che tiriamo fuori dai
nostri racconti per descrivere una realtà contraria all’uomo. La cosa
più interessante che possiamo fare, quindi, è cercare di spalancare gli
occhi su questa realtà della solitudine. È accorgerci che anche in una
simile esperienza è nascosto un bene.
Esistono, infatti, una solitudine negativa e una solitudine positiva.
Noi ci troviamo davanti a una solitudine negativa, quando in
maniera traumatica e violenta siamo costretti a rompere il circuito
relazionale dentro cui siamo immersi. Questa rottura, che avviene o
per causa nostra o per causa di persone o circostanze intorno a noi, ci
condanna a sentire la vita nemica. E il sintomo principale di questa
esperienza è la perdita di significato. È una solitudine che ci fa
sprofondare in un’angoscia di vuoto. Forse è la cosa che si avvicina
di più all’esperienza della morte. Se la morte, infatti, ci spaventa, lo
fa innanzitutto poggiandosi su questa paura di sentirci soli,
abbandonati, lasciati, strappati dal circuito relazionale di cui il
nostro essere più profondo è composto.
La nostra società, così come è costruita, produce strutturalmente
solitudine, e lo fa per due motivi: il primo, perché chi è solo è infelice
e, proprio perché infelice, cerca attraverso il consumo di beni di
addomesticare la sofferenza che prova.
C’è una certa economia che funziona appositamente sull’infelicità
della gente. Si compra qualcosa perché si sta male, si produce e si
mette in atto un circuito economico a partire dalla propria
insoddisfazione. Qualcuno ha sintetizzato così questo meccanismo:
«Produci, consuma, crepa». Non è la ricerca della vita, ma la ricerca
del sollievo, del respiro, di ciò che dovrebbe farci sopravvivere.
C’è una certa economia che funziona
appositamente sull’infelicità della gente.
Si compra qualcosa perché si sta male.

Se una cultura, una società producesse felicità, sarebbe costretta a


dover ripensare da capo il sistema economico, ma non essendo più la
persona al centro dell’antropologia delle nostre società moderne, è
molto difficile sperare in una simile conversione generale.
Il secondo motivo per cui le nostre culture e società moderne
producono solitudine è nascosto nello sbilanciamento che viviamo
verso il verbo fare. Siamo una società che vuole essere efficiente,
produttiva, ma che ha dimenticato il verbo essere.
Vivere immersi nel verbo fare, ci fa cadere nell’oblio del verbo
essere e di conseguenza, ciecamente, allontaniamo da noi le grandi
domande: «Chi siamo?», «Che senso ha la nostra vita?», «Dove
stiamo andando?», «Per che cosa vale la pena vivere?». Questo tipo
di domande svela la nostra radicale solitudine davanti al mistero
della vita. Nessun altro infatti può rispondere, se non noi stessi.
Ogni uomo, davanti al mistero dell’esistenza, è radicalmente solo.
Non si tratta di una solitudine negativa, ma di una solitudine che
deriva dalla unicità che ognuno di noi esercita davanti al mistero del
vivere. Nessuno può sostituirsi a noi nella risposta a queste
domande, ma quando dentro di noi abita una narrazione negativa
della solitudine, anche quando questa sia frutto di una radicale
buona notizia, come quella di essere unici al mondo, è sempre
vissuta con disagio. Proprio a partire da questo disagio, ciclicamente,
nella storia, ci ritroviamo davanti al desiderio profondo di
consegnare la radicalità della nostra libertà a un potere più forte, a
un’ideologia, a qualcuno che mostra di conoscere la risposta alle
nostre domande e ci dà l’illusione di poterci liberare dalla fatica del
rispondere a nostra volta. È così che, sempre ciclicamente, emergono
forme di totalitarismo esplicite o implicite. Desideriamo tutti essere
liberi, ma davanti alla vertigine della libertà preferiamo delegare a
qualcun altro la risposta.
C’è, però, una maniera sana per poter redimere l’unicità di ognuno
davanti al mistero dell’esistenza, ed è rispondere innanzitutto in
modo primordiale non alla domanda chi siamo ma alla domanda di
chi siamo. Solo un grande senso di appartenenza ci ricolloca in
maniera sana davanti al mistero della vita. Di fatto, la nostra società,
con la sua grande crisi della paternità, ha messo in discussione la
risposta a questa domanda.
L’assenza di padri non si manifesta quando scompaiono i padroni,
bensì con l’eclissi della risposta di appartenenza, della quale ognuno
di noi necessita, per poter affrontare la vita. Ogni uomo, ogni essere
vivente ha bisogno di un’appartenenza per potersi assumere la
responsabilità della propria storia. Quando non si è di nessuno, si è
in balia della vita come una barca abbandonata in mare aperto, che
non ha nessun timone, nessun remo, nessuna vela. È vita gettata in
balia delle onde delle circostanze. È inevitabile che, quando la vita
prende tale fisionomia, tutto si trasformi in nemico, non ci si accorga
più della bellezza del mare, ma solo del suo pericolo, della sua
minaccia, della sua potenzialità di morte.

Ogni uomo, ogni essere vivente


ha bisogno di un’appartenenza
per potersi assumere la responsabilità
della propria storia.

Quante volte noi guardiamo la vita con lo stesso sguardo, non


riuscendo a cogliere nessuna bellezza, nessun dettaglio struggente,
ma vivendo costantemente sulla difensiva e avvertendo la nostra
esistenza come un nemico da cui difenderci. Questa è un’altra
declinazione dell’inferno della solitudine.

Ora, se da una parte la nostra società contemporanea produce


solitudine, perché ha bisogno di alimentare un sistema economico
che, basandosi sull’infelicità dell’uomo, aumenti produttività e utile,
in maniera incolpevole, cioè senza rendersene consapevolmente
conto, la stessa società contemporanea, sentendosi in crisi nella sua
appartenenza, fa emergere uomini e donne che non riescono più a
vivere la vita ma sono in balia di essa.
Questa analisi che abbiamo fatto finora ci ha mostrato come sia
ragionevole avere della solitudine una percezione negativa. Eppure,
come dicevamo all’inizio, c’è un’ambiguità di fondo nell’esperienza
della solitudine ed è assolutamente sbagliato negativizzarla nella sua
totalità.

In che modo può manifestarsi un’esperienza di solitudine positiva?


La prima caratteristica di una solitudine positiva è quella di essere
scelta. Sappiamo che molte circostanze della nostra vita e della
nostra libertà accadono e basta, eppure la nostra libertà non può
semplicemente constatare che alcune cose sono successe o che
accadono intorno a noi ogni giorno, senza domandarci il permesso.
Abbiamo bisogno di scoprire, di sviluppare, un uso della libertà
che segni in maniera profonda anche gli eventi che non abbiamo
scelto. Se dovessimo usare una frase sintetica per questo tipo di
operazione interiore, dovremmo dire che ci tocca imparare a
scegliere anche ciò che non abbiamo scelto.
Questo atteggiamento capovolge la nostra posizione esistenziale:
da vittime passiamo di nuovo a essere protagonisti. È una postura
interiore che ci strappa dalla tentazione di piangerci continuamente
addosso, di essere ripiegati su noi stessi, di passare la nostra vita, il
nostro tempo a salmodiare solo ciò che non va, a elencare il buio, a
prendercela con qualcuno.
Assumerci la responsabilità della nostra vita, anche quando essa
non ci ha domandato il permesso, è ciò che trasforma l’esperienza
dell’essere vittima in opportunità di tornare a essere protagonisti.

Ci tocca imparare a scegliere anche


ciò che non abbiamo scelto.
Ciò sta a significare che la cosa più bella e più interessante che noi
potremmo fare è avere il coraggio di scegliere situazioni e tempi di
solitudine che possano aiutarci a vivere in maniera positiva. Anche
lì, dove la vita stessa ci costringesse alla solitudine, dunque,
potremmo esercitare la nostra libertà affinché quell’esperienza, da
violenza che ci rende vittime, si trasformi in occasione di
protagonismo.
La seconda cosa importante da dire rispetto alla solitudine
positiva è che essa si manifesta non come separazione, non come
rottura di relazione, ma come giusta distanza.
La solitudine può aiutare a distaccarsi da un atteggiamento
fusionale con cui viviamo relazioni e situazioni. Noi ci troviamo
davanti a un’esperienza relazionale di fusione quando ci
confondiamo talmente tanto con le persone e le situazioni che stiamo
vivendo, da perdere di vista chi siamo veramente. Da quel momento
in poi, la nostra vita si identifica con le circostanze in cui viviamo.
Un malato, ad esempio, non ha più una malattia ma è una malattia.
Una persona che ama, non ha più un’esperienza di amore ma è
diventato quella stessa esperienza. Finché il mondo gira nel verso
giusto, non ci accorgiamo di quanto possa essere pericolosa una
logica fusionale, ma basta che le circostanze e le situazioni
divengano avverse, ed ecco che ci si rende conto di come la
coincidenza della nostra vera identità con ciò che stiamo vivendo
può diventare la nostra condanna. In questo senso, la ricerca della
solitudine ci fa riappropriare di quella giusta distanza che ci
riconsegna a noi stessi, che ci ridona la distinzione dalle persone e
dalle cose intorno a noi.

La solitudine può aiutare a distaccarsi


da un atteggiamento fusionale con cui
viviamo relazioni e situazioni.

È bello pensare che nelle grandi esperienze religiose di vita


interiore sia presente questa caratteristica della ricerca di una
solitudine sana che ci riconsegna noi stessi. Persino Gesù nel
Vangelo, di tanto in tanto, sente forte l’esigenza di ritirarsi da solo
nel deserto o sulla montagna. Sente l’esigenza di alzarsi il mattino
presto o di passare un’intera notte in preghiera da solo, quasi a voler
ritrovare la sua giusta dimensione. Questo tipo di solitudine
ricercata non è una tecnica e non può essere trasmessa come una
tecnica: la solitudine che ci aiuta ad avere una giusta distanza dalla
realtà intorno a noi, tanto da riconsegnarci a noi stessi, è l’esperienza
della scoperta di quella parte di noi in cui sperimentiamo una
relazione più profonda di quelle che normalmente ci caratterizzano.
La solitudine quindi, non è l’assenza di relazioni. La solitudine
positiva è accorgersi di una relazione che si trova al fondo di noi
stessi e che ci fa esistere in maniera distinta, in maniera chiara, non
più fusionale. Una madre può essere “talmente madre” da
dimenticare chi è davvero. Molti matrimoni entrano in crisi quando i
componenti della coppia assumono una posizione fusionale proprio
con l’esperienza di genitorialità, dimenticando che sono anche
coniugi, che sono marito e moglie, che non sono solo padri e madri.
Eppure, ciò che li muove fondamentalmente è l’amore. La ricerca di
alcuni momenti di solitudine può ridonare a ognuno di loro una
dimensione di sé che le circostanze tendono a coprire o a cancellare.
Paradossalmente, viviamo in un mondo dove molti si sentono soli
ma non vogliono redimere questo sentimento e, così, riempiono la
propria vita di cose, persone e attività che hanno lo scopo di coprire
quanto più possibile i sintomi della solitudine. Credo che l’avesse
intuito bene uno straordinario pensatore francese, Blaise Pascal,
quando a un certo punto scriveva: «Tutta l’infelicità dell’uomo
deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo». Un
uomo che non sa stare da solo è un uomo già vittima della
solitudine, e tenta con tutte le sue forze di restare a galla nonostante
la sensazione di sentirsi abbandonato, incompreso, isolato,
distanziato.
Dovremmo tutti avere il coraggio di domandarci dove stanno sia
il dramma sia l’opportunità della solitudine nella nostra vita.
Dovremmo domandarci quanti spazi di solitudine ci cerchiamo per
ritrovare noi stessi e, allo stesso tempo, quanto siamo capaci di
p q p
esercitare la nostra libertà davanti alle solitudini imposte dalla vita.
Molte persone incontrano la disperazione proprio nell’esperienza
della solitudine.

Un uomo che non sa stare da solo


è già vittima della solitudine.

Un adagio che mi capita spesso di ascoltare dalla gente che


incontro, specie dalle persone anziane, è proprio quello del dramma
della solitudine, dell’abbandono, della dimenticanza da parte degli
altri. Questo nostro discorso, naturalmente, non ha lo scopo di
giustificare una simile solitudine, che molto spesso è frutto di un
egoismo colpevole da parte di chi mette in atto abbandoni e distanze,
ma è per dire che, se esiste una disperazione nella solitudine,
esistono anche storie di uomini e donne che, proprio nel cuore della
disperazione e della solitudine, hanno avuto l’opportunità di
ritrovare il bandolo della matassa.

Nel 1500, in quello che è definito il siglo de oro, in Spagna emerge


potentemente la figura di un uomo che, cresciuto nell’immaginario
cavalleresco, sviluppa la sua esistenza rincorrendo quelli che
secondo lui sono gli obiettivi che possono realizzarlo pienamente.
L’uomo di cui sto parlando è Ignazio di Loyola. Completamente
immerso negli ideali del suo tempo, costui si ritrova, dopo un
assedio, a Pamplona, ferito e malato nel suo letto.
Quella malattia, quell’incidente, quell’imprevisto lo costringono a
una solitudine che gli fa sperimentare l’attraversamento di un
inferno interiore. Proprio a partire da questa esperienza di solitudine
forzata e dall’attraversamento della disperazione, Ignazio ha una
profonda illuminazione, una rilettura spirituale dell’esistenza, che gli
permette di scoprire, rientrando in sé, non l’angoscia del buio, ma
l’esistenza di un universo parallelo proprio nel cuore dell’uomo.
Ignazio, nella sua esperienza di solitudine si accorge di essere abitato
dal bene, ma anche dal male. Si accorge che il proprio cuore è una
sorta di campo di battaglia, dove gli eventi, le circostanze, gli amori,
le ferite, i pensieri, le emozioni, le tentazioni, i sogni, combattono
una guerra che ha come esito proprio quello di “definire Ignazio”.
È lì che lui si rende conto che la vera libertà non consiste nel
tenere sotto controllo questo mondo interiore, ma innanzitutto nel
riuscire a nominarlo, nel riuscire ad accorgersi di ciò che abita dentro
ciascuno. È a partire da questa identificazione delle voci, delle
sensazioni, delle emozioni, delle circostanze, che fanno guerra nel
nostro cuore, che si può prendere la decisione di assecondarne l’una
o l’altra. Noi non siamo, infatti, la somma dei nostri pensieri o delle
nostre emozioni. Noi non siamo semplicemente il prodotto di una
storia o di un’educazione. Noi siamo, soprattutto, le nostre decisioni.

Ora, la grande domanda è: le decisioni che prendiamo sono frutto


della nostra libertà o sono semplicemente le reazioni a quello che
abbiamo vissuto? Quella solitudine, costretta e poi scelta da Ignazio,
trasforma una circostanza avversa nella grande occasione della
conquista non di una città, non di un regno, ma di un mondo
interiore, dove il sovrano che regna non è il proprio io, ma Qualcuno
che ha a cuore che il mio io germogli fino a diventare pienamente se
stesso, che si esprima con la dignità di un figlio e non con quella di
un servo. Infatti, un uomo che non scopre radicalmente la propria
interiorità e non riesce ad abitarla, vive la propria vita da servo,
eseguendo questo o quest’altro ordine impartito dalla confusione
interiore che si porta dentro.
A volte, nel fare questo tipo di esperienza di solitudine è giusto
lasciarsi aiutare anche dalla geografia. Infatti, andare in un posto o in
un altro può permettere di vivere la giusta distanza che ci riconsegna
a noi stessi.

Un uomo che non scopre la propria


interiorità e non riesce ad abitarla,
vive la propria vita da servo.
Ma la solitudine non è mai delegabile a un posto geografico e, se
alcuni luoghi possono esserci di aiuto, non sono essenziali a questa
esperienza di giusta distanza che ognuno di noi ha la capacità di
abitare, ovunque si trovi e qualsiasi circostanza viva. Chi sa abitare
la propria solitudine ha vinto l’inferno. Ma, come dicevamo, è
un’illusione poter pensare di scendere nella propria solitudine solo
con la forza del nostro pensiero e della nostra volontà. Tutti abbiamo
bisogno di una corda, di un legame, di un’appartenenza che renda
possibile la discesa in questi inferi e la scoperta di una sorgente in
fondo al buio della solitudine.

In questo senso, se la solitudine è un percorso di isolamento, esso


avrà come scopo solo l’aumento della disperazione, ma se la
solitudine è la declinazione di un’appartenenza, essa diventerà la
grande scoperta di qualcosa che da soli non avremmo mai potuto
raggiungere.

Chi sa abitare la propria solitudine


ha vinto l’inferno.

A questo proposito è interessante un racconto che troviamo nei


Vangeli. L’episodio in questione narra della prima volta in cui Gesù
incontra i suoi discepoli. Tutto accade al termine di una notte in cui
alcuni esperti pescatori non sono riusciti a pescare nulla. La
sensazione di fallimento e di delusione che essi provano è resa
plasticamente, nel racconto evangelico, dalle reti vuote, che tentano
di riassettare alla fine di quella nottata fallimentare.
Gesù si accosta a quegli uomini come un perfetto sconosciuto. Ma
è un perfetto sconosciuto che chiede loro un rischio, che chiede loro
di prendere il largo, nuovamente, e di gettare le reti non a partire
dalla loro competenza, dalla loro forza, dalla loro volontà, ma
semplicemente come atto di fiducia alla sua parola, al suo invito.
Questi uomini, a partire proprio dal legame con questo sconosciuto,
rischiano di nuovo il mare aperto. Questa è l’espressione che usa
Gesù per mandarli di nuovo a pescare: «Duc in altum», «Prendete il
largo». L’avevano preso già poche ore prima senza raccogliere nulla,
ma questa volta rifanno la medesima operazione a partire dalle
parole di quest’uomo, a partire da un’appartenenza. Pietro, capo di
questa impresa di pesca, usa un’espressione significativa per
rispondere all’invito: «Sulla tua parola getterò le reti» (cfr Lc 5,1-11).
Questo atto di fiducia viene ricompensato con una pesca
straordinariamente abbondante.

Quando pensiamo all’esperienza di discesa nella nostra solitudine,


non dobbiamo fare affidamento alla nostra forza o alla nostra
capacità, ma a un’appartenenza, a una voce che abita nel cuore di
ogni uomo e che lo invita costantemente a prendere il largo, a
sperimentare cioè che, nel suo limite, nella sua debolezza, è nascosta
la possibilità di una pesca abbondante, se solo si fida, se solo si sente
forte non di se stesso ma di un legame più profondo che non vede,
che in mancanza di fede non riesce nemmeno a nominare, ma che,
nonostante tutto, sente potente dentro di sé come una fiducia che lo
abita.
È a partire da questa appartenenza che la solitudine diventa una
grazia.
Silenzio

«Che strana sensazione rimanere svegli di notte. Le poche volte che mi era
capitato avevo subito acceso la TV o guardato Internet. Ma, in queste notti
in cui non riesco a dormire, evito di accendere la TV perché sono stanco dei
bollettini di guerra della protezione civile e, francamente, mi innervosisce
anche leggere post saccenti o forzatamente simpatici che la gente sente il
dovere di scrivere in questo periodo.
Faccio una cosa strana, ma tanto tutto è strano di questi tempi: vado al
balcone e sento il silenzio della città. Per me è strano. Ho bisogno di avere
come sottofondo sempre il rumore di qualcosa che parla, per poter fare ogni
cosa. Non immaginavo che il silenzio avesse una sua bellezza. Mi sembra di
sentirmi capito. Mi è tornato alla mente quando mi dicevi che per pregare
non è importante usare le parole, ma che il silenzio era di gran lunga la via
migliore per accorgermi dell’essenziale.
Non avevo mai provato.»
Se la solitudine è la giusta distanza dalla realtà, che ci permette di
essere e di ritrovare noi stessi, il silenzio è la giusta distanza tra le
parole, che permette alle nostre parole di tornare a essere
significative.
Il silenzio è l’interpunzione del linguaggio. Senza di esso, noi
saremmo condannati a una cascata di parole che non assumerebbero
mai veramente la dignità di una storia. È quello che capita
esistenzialmente a ciascuno, quando percepisce la propria vita come
un insieme caotico di circostanze, di emozioni, di pensieri, di
sensazioni, senza ricavare da questo magma una storia che abbia un
significato.
Troppe volte le nostre vite assomigliano a una pagina piena di
lettere, una attaccata all’altra, che non permettono nessuna lettura. Il
silenzio è ciò che rende la musica un’arte, ciò che dà dignità al suono.
Se non ci fosse questo respiro, se non ci fossero le pause fra una nota
e l’altra, noi non avremmo l’esperienza di nessuna bellezza della
musica.

Il silenzio è la giusta distanza


tra le parole, che permette alle nostre
parole di tornare a essere significative.

Ma anche davanti al silenzio si affaccia lo spettro della paura. Esso


ci spaventa, soprattutto quando è l’espressione dell’impossibilità
della parola e non il modo attraverso cui la parola trova davvero il
suo significato.
Dovremmo cominciare con il dire che il silenzio è certamente
un’assenza. Esso è un’assenza di parola che non è però fine a se
stessa. È un’assenza funzionale. È grazie alla pausa del silenzio che
ogni parola diventa discorso ed è capace di raccontare una storia.
Senza il grembo del silenzio, le parole possono servire a scambiarsi
informazioni, ma non a trasmettere vita. Le parole sono significative
non semplicemente quando indicano qualcosa di immediato, ma
quando riescono a legarsi con qualcosa di più profondo. In questo
senso, dovremmo tornare a praticare con cura l’arte del silenzio,
esattamente come, lo dicevamo, dobbiamo imparare di nuovo l’arte
della solitudine che salva.
Potremmo dire che scegliere il silenzio, innanzitutto, significa
abbassare il volume a tutto ciò che nella vita crea rumore. Il rumore è
un riempimento del vuoto, costruito appositamente affinché l’uomo
non incontri la sua mancanza. Abitare la propria mancanza significa,
al contrario, alzare il tappeto del nostro cuore e guardare quello che
normalmente nascondiamo, non ascoltiamo, non vogliamo
affrontare. In questo senso noi fuggiamo l’esperienza del silenzio,
perché fondamentalmente non vogliamo entrare nella nostra
mancanza, e guardarvi quello che è nascosto.

Quando si ha il coraggio di entrare nel silenzio, si viene scaraventati


in modo traumatico dentro una folla interiore che, proprio perché
non riceve mai diritto di parola, non appena le viene data
l’opportunità, urla con violenza le proprie ragioni. Sono le grida
delle nostre paure, delle nostre insicurezze. Sono le espressioni
violente dei giudizi che ci abitano, delle nostre ferite, delle nostre
speranze, che non abbiamo il coraggio di assumere come stelle che ci
guidino. Sono i ragionamenti contorti della nostra mentalità, nata da
un’educazione, da un sentire che ci è stato trasmesso da qualcun
altro. Sono le urla dei nostri desideri inconfessabili, quelli che
cerchiamo di reprimere e che, non trovando nessuna via d’uscita, ci
producono insoddisfazione, rabbia, frustrazione. Insomma, ognuno
di noi è abitato da una folla, e il silenzio è la capacità di saper
mettersi in ascolto di questa folla che ci abita.
Questa operazione è solo l’inizio dell’esperienza del silenzio,
ancora non è in maniera matura la “grande esperienza” del silenzio.
Infatti, finché dentro di noi continueranno a urlare come terremoti,
come tempeste, come venti violenti, le cose che normalmente non
vogliamo affrontare e dire ad alta voce, non appena daremo loro
l’opportunità, esse avranno la meglio su ciascuno di noi. L’unica
cosa che ci verrà da fare, allora, sarà scappare da quella folla,
chiudere di nuovo la cantina della nostra mancanza per poter
trovare, a nostro avviso, un po’ di sollievo. Così vivremo
costantemente fuori di noi. Il silenzio è invece la porta che ci
conduce a tornare a vivere dentro di noi.
Quando si frequenta con più costanza questo mondo interiore,
questa folla che ci abita smette, pian piano, di essere violenta.
Cominciamo a familiarizzare con ciascuna delle cose che ci abitano,
ci intratteniamo con ognuna di esse senza per forza risolvere o saper
sempre rispondere alle loro domande, alle loro provocazioni.
Passiamo del tempo con un mostro che, lentamente, smette di essere
mostruoso, e cominciamo ad accogliere quella parte di noi che
tentiamo di eliminare, nascondendola nel non detto, nel non
pensato, nel non confessato.

Ognuno di noi è abitato da una folla,


e il silenzio è la capacità di saper
scendere e mettersi in ascolto di questa
folla che ci abita.

Questo tipo di lavoro interiore comporta un tempo personale che


non è uguale per tutti. Ognuno, infatti, ha una sua tempistica per
abituarsi alla frequenza del proprio mondo interiore e, a seconda di
quanto è grande la pressione accumulata dentro di noi, varierà anche
il tempo di cui abbiamo bisogno affinché ciò che ci abita smetta di
essere violento e cominci a essere, invece, accolto.
Così come accade nella solitudine, quindi, il silenzio pone una
distanza tra noi e ciò che ci abita dentro. E il silenzio rende possibile
una consapevolezza straordinaria: noi non siamo tutt’uno con ciò
che ci portiamo dentro, c’è sempre distanza tra ciò che proviamo, ciò
che pensiamo, ciò che ci abita e noi stessi.
C’è, a volte, dentro di noi un sentimento di odio nei confronti di
qualcuno. Spesso questo sentimento di odio alimenta un senso di
colpa, perché abbiamo lasciato che quest’odio ci definisca. Ma
quando impariamo a entrare dentro noi stessi e a stare anche vicino
alla violenza di quell’odio che ci abita, ci accorgiamo che, per quanto
esso sia brutto e tremendo, noi non siamo riducibili a quell’odio.
Qualunque cosa terribile si trovi dentro di noi, essa non è
essenzialmente noi.
Noi possiamo decidere di fare qualcosa, davanti a quell’odio,
anche di prendere una posizione persino contraria a quell’odio che ci
abita. Riscopriamo così, in quella non identificazione con il nostro
mondo interiore, uno spazio di libertà che, se da una parte ci
interroga ancora più profondamente sul chi siamo veramente,
dall’altra ci redime costantemente dalla paura di coincidere con uno
o più dettagli che sono presenti dentro ciascuno di noi.
Questa straordinaria forma di cittadinanza interiore, chiunque
può praticarla. Non si ha infatti bisogno per forza di un apparato
religioso per accorgersi della necessità di una frequentazione
silenziosa con noi stessi. È quello che laicamente potremmo definire
un esercizio di interiorità.

Ma a mio avviso è troppo poco accontentarsi anche di un simile


silenzio. Infatti, se il silenzio è semplicemente trovare una strada per
tornare in noi e familiarizzare con il mondo che ci portiamo dentro,
esso potrebbe condurci erroneamente a fermarci a una visione
troppo superficiale della nostra interiorità. Infatti, se il silenzio è
necessario, lo è però, in gran parte, per la sua grande capacità di dare
significato alle parole, alle storie, a ciò che abita la nostra vita. Il
silenzio trasforma in musica il rumore che attraversa le nostre
esistenze. Ma il silenzio è anche capacità di ascolto e non
semplicemente esperienza che dà significato alle cose, alle persone,
alle parole.
Non si ha bisogno per forza di un
apparato religioso, per accorgersi
della necessità di una frequentazione
silenziosa con noi stessi.

L’ascolto indica un altro elemento fondamentale per la nostra vita.


L’ascolto è una capacità ricettiva che ognuno di noi si porta dentro e
che precede il ragionamento, che precede il giudizio, che precede la
capacità di trarre conclusioni. L’ascolto è accoglienza di qualcun
altro, è accoglienza di un senso, di un significato che non è il
prodotto dei nostri ragionamenti, ma il dono gratuito di qualcuno
che ci consegna ciò che non fa parte di noi, ma che vuole entrare
dentro ciascuno di noi. L’adrenalina, che si prova quando si legge un
buon libro o quando si va a vedere un film al cinema, nasce proprio
dal fatto che la ricettività che proviamo in quel momento coincide
con la possibilità di lasciarci stupire, spaventare, coinvolgere da una
storia, da un significato che è più grande della nostra fantasia e dei
nostri ragionamenti, e che possiamo ricevere semplicemente come
dono da qualcun altro. Ci lasciamo così coinvolgere in un dialogo, in
un ascolto, in una narrazione, sapendo che c’è qualcuno che ci sta
trasmettendo qualcosa attraverso quel dialogo, attraverso
quell’immaginario, attraverso quel racconto.

Lo scopo fondamentale del silenzio non è pacificarci. Lo scopo del


silenzio non serve solo a fare pace con la folla interiore che ci abita.
Lo scopo del silenzio è utile soprattutto a permetterci di distinguere
tra ciò che proviamo e ciò che siamo. Il silenzio deve poter
spalancare dentro ciascuno di noi la possibilità di un ascolto, cioè la
possibilità di assumere interiormente una postura ricettiva che ci
metta in condizione di accogliere un senso e un significato che
possiamo ricevere solo e soltanto come dono da qualcun altro. La
cosa peggiore di cui un uomo può convincersi è che non valga la
pena ascoltare, perché nessuno mi sta parlando. Non vale la pena
fare nessuna domanda, perché non esiste una risposta. Non vale la
pena spalancare il cuore in un gesto di accoglienza, perché non c’è
nulla da ricevere.
Questa sorta di nichilismo che sta attraversando il mondo
contemporaneo ha trasformato l’esperienza della nostra interiorità in
semplice analisi del nostro mondo interiore e, per quanto sia
straordinario il lavoro analitico di cui l’uomo è capace, la cosa più
interessante non risiede nell’analisi degli elementi interiori che ci
portiamo dentro, e nemmeno in quel substrato misterioso che è il
nostro inconscio, ma nell’accorgersi che l’uomo ritrova la dimensione
giusta della propria vita quando spalanca la propria interiorità a un
atteggiamento ricettivo di accoglienza di qualcosa che lo supera, che
è più grande di lui, dei suoi ragionamenti, delle sue analisi, della sua
capacità di mettere in relazione le cose.

Il silenzio deve poter spalancare dentro


ciascuno di noi la possibilità di un ascolto
che ci metta in condizione
di accogliere un senso.

Il silenzio, quindi, non è un’assenza di parola abitata dai nostri


ragionamenti, ma è orientare esistenzialmente tutte le parti della
nostra persona a un ascolto che può donarci un senso e una risposta
più grandi di noi, della nostra immaginazione, delle nostre
aspettative, delle nostre capacità. È un ascolto, è una curiosità
primordiale che rende noi esseri profondi e allo stesso tempo esseri
ricettivi.
C’è un problema, però, che alla radice del grande tema del
silenzio. Sembra, in verità, che ci siamo accontentati del caos. Non
proviamo più nessun desiderio di venir fuori da una visione caotica
della nostra esistenza, ci accontentiamo di accumulare informazioni,
emozioni, sensazioni, pensieri, ragionamenti dentro di noi, senza
voler in nessun modo accostarli l’uno all’altro, affinché possano
raccontarci una storia. Accumuliamo le parole, le cose e le persone
senza più coltivare in noi il desiderio di un legame significativo tra
esse.
L’abitudine al caos ci rende ostaggi della vita che, proprio perché
non sopporta di essere privata di una profondità più grande,
manifesta così il proprio disagio attraverso l’ansia, il panico,
l’angoscia. Tutti questi elementi di crisi esterna dicono che abbiamo
un problema di caos interiore che va preso sul serio. Nasce da qui il
coraggio di varcare la soglia del proprio cuore e della propria
mancanza. E il silenzio diventa la decisione affrontare il mondo
caotico, smettendo di accettarlo in maniera passiva e volendolo
invece abitare da protagonisti.

Abbiamo un problema di caos


interiore che va preso sul serio.

Non di rado la gente cerca persone competenti, per poter fare


questo lavoro di interiorizzazione della propria vita, cerca qualcuno
che possa aiutare nell’ingresso verso il proprio caos. Ma l’errore
fondamentale che molto spesso facciamo quando decidiamo di
prendere di petto quel caos che mortifica la nostra esistenza, sta nel
volerlo abitare per poterlo controllare.
L’illusione di una tecnica che porti a governare il nostro mondo
interiore lo condanna, in verità, a un ulteriore nascondimento, che
sfugge il nostro controllo e soprattutto sfugge l’essenziale.
Dovremmo decidere di entrare, attraverso la porta del silenzio, nella
nostra interiorità, non innanzitutto per controllarla, ma per imparare
ad accogliere ciò che ci portiamo dentro. L’accoglienza è frequentare
in maniera familiare ciò che fino al giorno prima avvertivamo solo
come qualcosa di mostruoso che ci abita.
Frequentare e familiarizzare con il nostro mondo interiore
attraverso il silenzio significa accorgersi che la nostra “folla” con il
tempo comincia ad assumere volti, nomi, situazioni precise. Questo
atteggiamento di accoglienza, inevitabilmente, toglie alla folla
interiore il potere violento di chi non viene ascoltato e ci mette nelle
condizioni di ascoltare ciò che vi è di significativo in questa folla:
una storia e un significato che hanno, sì, come alfabeto le voci che ci
portiamo dentro, ma che ci raccontano una vicenda che è più grande
di questo stesso alfabeto, che è più grande delle parole, che è più
grande del nostro mondo interiore. Il silenzio così diventa ricezione,
diventa educazione a un’apertura maggiore, che ci fa entrare
nell’inedito della vita.

In questo percorso interiore, tante cose fanno da impedimento. Tra


quelle che si frappongono fra il nostro desiderio di percorrere la via
del silenzio e la sua vera attuazione attraverso l’educazione a un
ascolto più grande, il nemico principale è un’esperienza comune a
moltissimi di noi: quella del giudizio.
Ora, se dovessimo rendere in maniera plastica questa esperienza
di impedimento, dovremmo dire che dentro ognuno di noi c’è come
un nemico, il quale, in quanto nemico, pensa male di noi, ha una
visione di noi negativa.
È un nemico concentrato su ciò che non siamo e che potremmo
essere. È un nemico che sfrutta le nostre paure, le nostre insicurezze,
le nostre ferite e ce le scaglia addosso come proiettili. È una voce
interiore che costantemente ci dice che non valiamo nulla, che non
siamo degni di amore, che siamo sbagliati, che siamo condannati a
non essere felici. È un dito puntato che ci scoraggia costantemente e
che ci guarda con disprezzo.

Dentro ognuno di noi c’è come un nemico


che sfrutta le nostre paure. Una voce
interiore che costantemente ci dice che
siamo condannati a non essere felici.

Quando dentro di noi c’è la gramigna di questo avversario, è


molto difficile fare un’esperienza positiva di silenzio, perché tutte le
volte che ci addentriamo nel nostro mondo interiore, a un certo
punto si presenta questo nemico che, con argomenti sempre molto
convincenti, ci spinge ad abbandonare il campo e a scappare. La
verità è che è sempre molto difficile estirpare da noi il giudizio che ci
abita.

Il male usa molto spesso questa crepa, per far passare in noi l’unica
cosa che può bloccare la nostra vita: il sentirci giudicati. È proprio
qui che l’esperienza interiore può condurci a un grande
cambiamento.

Se, come abbiamo detto, familiarizzare con la folla che ci abita,


significa anche comprendere che noi non coincidiamo con quella
folla che ci portiamo dentro, la stessa cosa accade per il giudizio: ce
lo portiamo dentro e, se non possiamo evitare che parli, che dica la
sua, che mostri la sua visione pessimistica di ciascuno, possiamo
però prendere la decisione di contestarlo, di non ascoltarlo, di agire
contro di lui, di agire nonostante lui. La cosa peggiore che il nemico
riesce a fare è trovare in noi un alleato: la parte più vera di noi gli
crede, poiché molto spesso, questo nemico, che usa il giudizio per
parlarci, ha dalla sua parte elementi concreti che suffragano la sua
logica e la sua posizione. È difficile controbattere a qualcuno che ti
accusa di cose sconvenienti portando le prove concrete di quello che
afferma. E le prove concrete, a volte, coincidono con le esperienze
che abbiamo fatto nella nostra vita, con gli errori che abbiamo
vissuto, con le sofferenze che abbiamo subito. Questo nemico, di tali
fatti offre un’interpretazione distorta, che ha come scopo quello di
bloccare la nostra vita e di ricacciarci fuori da noi stessi. E un uomo
che vive fuori di sé non è mai un uomo libero, non può mai essere
un uomo felice.

Ancora una volta, non basta la propria forza di volontà, non basta
saper conoscere come ragiona e come si muove questo nemico
dentro ciascuno. Abbiamo bisogno, anche in questo caso, di un di
più che nessuno può darsi da solo. Ecco perché solo un senso di
appartenenza forte può aiutare a contrapporci alla logica del nemico.
Che cosa significa in termini concreti? Significa che il bene e la
visione giusta di ognuno di noi ci vengono dati sempre attraverso
g g g p
relazioni, e che si tratta di valorizzare questo bene fino a credergli,
fino a che queste esperienze di bene possano diventare dominanti
dentro ciascuno. Solo quando qualcuno ci guarda in maniera diversa
dal giudizio che ci abita, ci offre l’opportunità di una rivoluzione, di
un cambiamento, ma dobbiamo essere disposti a credere più al bene
che al male, essere disposti a guardarci non con giudizio, ma con
quella che, per esempio, l’esperienza cristiana chiama Misericordia.
Laicamente parlando, la misericordia è l’esperienza di scoprire la
nostra miseria e di trovare qualcuno disposto ad amarci nella nostra
miseria, a volerci bene per come siamo e non per come dovremmo
essere. Quando incontriamo un amore che ci ama nella nostra
miseria, così come siamo, abbiamo fatto un’esperienza di
misericordia che ha abilitato dentro di noi una rivoluzione, un
cambiamento. La minoranza di quel giudizio che fino al giorno
prima comandava, adesso è condannata a essere irrilevante,
nonostante i suoi ragionamenti, nonostante la sua violenza,
nonostante le sue urla in ognuno di noi.

Un uomo che vive fuori di sé non è mai


un uomo libero, non può mai essere
un uomo felice.

L’esperienza di sentirci amati e voluti bene nella nostra miseria ci


mette in condizione di cambiare radicalmente tutto, perché quando
l’amore tocca l’autenticità della nostra miseria ci libera dalla dittatura
delle maschere dell’ipocrisia, dell’interpretazione del ruolo messa in
atto appositamente per suscitare nell’altro la possibilità di essere
amati. Quando cadono le maschere e non smette l’amore, è lì che
riaffiora come una sorgente di acqua cristallina l’esperienza
dell’autenticità e della vera intimità. Essere toccati in ciò che più
detestiamo di noi stessi toglie da noi l’odio che molto spesso
coviamo nei nostri medesimi confronti.
Solo il silenzio ci pone nelle condizioni di poter arrivare fino in
fondo a noi, fino al punto da incontrare il lupo che è messo a guardia
della porta più intima e più importante del nostro cuore: la porta
della libertà interiore, varcata la quale gli uomini e le donne sono
uomini e donne liberi, qualunque cosa vivranno intorno a loro e
ovunque si troveranno a vivere e a combattere. E le persone libere
interiormente ci mostrano la possibilità della mitezza, che è la
capacità di saper resistere al male senza che il male tiri fuori da noi il
peggio di noi.
Sono rimasto sempre molto colpito da un’immagine raccontata
nella vita di Gesù quando, a poche ore dalla morte, contrappone agli
insulti, alle percosse, alle violenze, all’ingiustizia dei suoi
persecutori, dei soldati e della gente chi si accalcava intorno, il
proprio silenzio. È il silenzio dei miti, non dei vigliacchi. È il silenzio
di chi nel cuore della sofferenza e dell’angoscia vive l’esperienza
della libertà interiore. Un passo del Nuovo Testamento, così si
riferisce a Gesù: «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi e
soffrendo non minacciava vendetta» (cfr 1Pt 2,23). Ecco, allora, che il
silenzio non soltanto ci fa tornare dentro di noi, non soltanto ci fa
cogliere ciò che ci abita, non soltanto ci fa sconfiggere il nemico “che
giudica”, ma ci mette nella grande disposizione dell’ascolto, ci fa
varcare la soglia della libertà interiore e trasforma ogni nostra
esistenza in una vita mite, in una vita dove la forza non si manifesta
mai con la violenza, ma attraverso la contrapposizione della quiete
della pace, del silenzio.
Corpo

«Inizialmente, quando cominciò a salirmi la febbre, tenni lontano da me


l’idea che avessi preso il virus. Ma con il passare dei giorni le cose hanno
cominciato a peggiorare. La cosa strana è che ho come avuto la sensazione
che il mio corpo non mi corrispondesse più. Il senso di soffocamento è forse
tra le sensazioni più brutte che si possano provare. Solo quando ho visto
entrare in casa i medici e gli infermieri con addosso quella tuta da
astronauti, allora ho capito che la faccenda era ormai diventata seria.
Quando ti fa male il corpo, tenti in tutti i modi di trovare sollievo, ma
nessun ragionamento ti è utile. Non mi vergogno a dirti che da una parte
volevo salvarmi con tutte le mie forze, ma in alcuni momenti ho pensato che
forse sarebbe stato meglio morire. Prima che mi intubassero, ho guardato
fisso negli occhi la dottoressa che mi stava preparando. Mi ha guardato
anche lei e poi mi ha stretto forte la mano. Ho pensato che sarebbe stato bello
morire sentendo che qualcuno mi toccava. Era da giorni che nessuno si
avvicinava più a me. Al risveglio ho dovuto reimparare a usare il mio corpo.
Mi sentivo come un bambino che deve di nuovo imparare a respirare, a
camminare, a mangiare.
Mai come in questo periodo mi sono accorto di avere un corpo.»
C’è una grande lezione che viene dal corpo. Eppure, per parlare in
maniera significativa del rapporto con il nostro corpo, dobbiamo
andare indietro, di molto, a quelle che sono soprattutto le radici
greche della nostra cultura. Infatti, è proprio nella Grecia che, man
mano, si sviluppa una sorta di consapevolezza di ciò che poteva
essere il corpo in contrapposizione a quella dimensione interiore che
con il tempo ha preso il nome di anima. E così, se da una parte
l’anima è l’espressione più alta dell’uomo, perché è il luogo dove
l’uomo sperimenta il senso, il corpo invece è stato guardato con
sospetto fino a essere definito da Platone: «La tomba dell’anima».
Forse perché il corpo è il luogo dove noi sperimentiamo la
sofferenza, la malattia, le passioni, le tentazioni. Il corpo, a volte, è il
luogo che rallenta gli slanci della mente e del cuore. Non sempre
quello che pensiamo, quello che proviamo, il nostro corpo riesce a
realizzarlo. Eppure, finché non veniamo fuori da questa sorta di
dicotomia e contrapposizione tra l’anima e il corpo, non riusciamo a
imparare nessuna grande lezione che ci viene soprattutto dalle
diverse esperienze di sofferenza che hanno segnato gli ultimi tempi
della nostra vita.

Dobbiamo dire, con altrettanta sincerità, che un certo cristianesimo


sembra aver assorbito questa dicotomia e contrapposizione fra
anima e corpo. Ma il cristianesimo che ha fatto questo ha tradito
l’intuizione fondamentale e radicale che c’è alla base di quello che è
il messaggio di Gesù. Infatti, paradossalmente, il cristianesimo è
l’unica religione che contempla l’incarnazione di Dio in un uomo, in
un corpo appunto. E contempla, allo stesso tempo, una redenzione
che non riguarda semplicemente l’anima, un principio interiore
g p p p
all’uomo: la resurrezione è tale, solo e soltanto, se è resurrezione di
corpi. Basta leggere i racconti della resurrezione contenuti nei
quattro Vangeli per accorgersi che la preoccupazione principale di
Gesù è quella di convincere i suoi discepoli che ciò che hanno
davanti non è un’allucinazione, non è un fantasma, non è la stessa
esperienza che fa Ulisse quando precipitato nell’Ade incontra la
propria madre e, per tre volte, tenta di abbracciarla senza riuscirci.
Sembrava fatta d’aria, senza alcuna consistenza: «Tre volte mi
slanciai, mi urgeva in cuore di abbracciarla, e tre volte dalle braccia
mi volò via, simile a un sogno o a ombra» (cfr Odissea, XI). No,
l’incontro con il risorto è l’incontro con un corpo che viene
innanzitutto osteso, mostrato ai suoi discepoli: «Guardate le mie
mani e i miei piedi. Guardate le mie ferite» (cfr Lc 24,39), dice Gesù,
ed è talmente tanto concreta questa esperienza che, davanti
all’incredulità di Tommaso, Gesù invita a essere toccato: «Metti qui
la tua mano, allunga qui il tuo dito» (cfr Gv 20,27).

Il cristianesimo è l’unica religione


che contempla l’incarnazione
di Dio in un corpo.

Continuando sempre nella narrazione dei racconti della


resurrezione, ci si accorge di come un altro elemento fondamentale è
il tentativo che fa Gesù di convincere della sua corporeità attraverso
lo stare a tavola, il mangiare, il bere (cfr Lc 24; Gv 21). Senza
corporeità, la resurrezione e la redenzione sarebbero praticamente
inconsistenti.

Com’è possibile che un Dio scelga la corporeità per rendersi visibile


e per operare la redenzione, mentre l’uomo sembra passare il resto
della sua vita a volersi liberare del proprio corpo?
Questa considerazione iniziale serve a inquadrare la grande
contrapposizione che ci abita e che ci è stata trasmessa culturalmente
nel corso dei secoli. L’uomo è anche il suo corpo, ma allo stesso
tempo vive sempre con disagio la propria corporeità. Credo
fondamentalmente che il problema emerga a causa dello “scandalo”
che il corpo produce su ognuno. Infatti, il bene e il male, l’amore e
l’odio, la gioia e la tristezza per essere davvero espressi hanno
bisogno di passare attraverso il corpo. È, infatti, il corpo il modo
attraverso cui l’amore tocca la parte più profonda di ognuno di noi. È
il corpo il mezzo attraverso cui la sofferenza ferisce in maniera
decisiva la parte più profonda di ognuno di noi. È il corpo il luogo
della gioia, il luogo del dolore. Proprio per questo nessuno di noi
potrebbe pensare alla propria interiorità facendo a meno della
propria corporeità. È come voler suonare una musica senza la
consistenza di nessuna nota. È come voler raccontare una storia
senza la consistenza di nessuna parola. Solo teoricamente possiamo
dividere le questioni, ma la realtà è sempre un tutt’uno.

Oggi viviamo immersi in un disagio che riguarda la nostra


corporeità, che non ha più a che fare con il pudore e la censura del
corpo bensì con il suo contrario, con l’ostentazione e
l’assolutizzazione del corpo. In questo senso, ciò che viene a mancare
è sempre la parte più decisiva della questione: una cura del proprio
corpo che non ha una corrispondenza in una cura dell’anima, della
sua interiorità rischia di essere semplicemente la cura di
un’apparenza che, prima o poi, riserverà la trappola di chi si ritrova
con un muro di facciata alle cui spalle non è stata edificata nessuna
casa, nessun luogo, nessuna profondità, nessuno spazio affidabile.

Una cura del proprio corpo che non


ha una corrispondenza in una cura
dell’anima, della sua interiorità rischia
di essere semplicemente la cura
di un’apparenza.

Si sente spesso ripetere come un mantra la frase «Mens sana in


corpore sano» e, forse, è proprio questo a motivare molte persone a
svegliarsi presto la mattina per fare sport; è questo che le spinge ad
avere una costanza nella cura del proprio corpo e della propria
fisicità. Ciò è positivo, ma allo stesso tempo è parziale.
La cura della propria corporeità, se da una parte crea un
presupposto di positività nella vita di una persona, quando è
staccata dalla cura e da altrettanto tempo dedicato all’interiorità,
rischia di frammentare, più che di migliorare la nostra situazione
esistenziale.
Certo, già sarebbe positivo che una persona inizi con l’aver cura di
sé, cosa che parte sempre da un dettaglio di concretezza e non da
ragionamenti. Voler mettere ordine in una stanza implica praticità,
bisogna toccare mobili, oggetti, cose, e non semplicemente scambiare
opinioni all’interno di quella stessa stanza. L’ordine di una casa
tocca le cose di cui si fa immediatamente esperienza. Così il corpo è
la parte della nostra umanità, di cui noi facciamo immediatamente
esperienza, e non c’è mai veramente nessuna cura dell’anima che
possa prescindere dalla propria corporeità. Anche in questo caso,
però, dobbiamo cambiare prospettiva, perché solo e soltanto se lo
sguardo non è di giudizio ma di accoglienza, di accettazione, solo e
soltanto se lo sguardo è uno sguardo accogliente e amorevole, allora
la fermezza che useremo nei confronti del corpo non diventerà mai
violenza. Nello stesso tempo, la tenerezza che useremo nei suoi
confronti non diventerà mai sottomissione, dipendenza.
Bisogna ritrovare un’alleanza tra le esperienze immediate della
nostra umanità (il nostro corpo) e le esperienze mediate (interiorità).
Le esperienze immediate si fanno attraverso i sensi, le esperienze
mediate invece si fanno a partire dai sensi. Ma va aggiunto a essi un
lavorio che riguarda il pensiero e il cuore. Usare la propria interiorità
significa dare senso alla propria esperienza. C’è da aggiungere anche
il fatto che, essendo la categoria della relazione la parte più decisiva
della vita di una persona, la relazione ha essa stessa bisogno di
concretezza, cioè ha bisogno di essere declinata non soltanto
attraverso uno scambio di informazioni, ma soprattutto attraverso
uno scambio di esperienze. In questo senso, il corpo diventa il mezzo
attraverso cui può accadere una relazione.
Bisogna ritrovare un’alleanza tra le
esperienze immediate della nostra
umanità (il nostro corpo) e le esperienze
mediate (interiorità).

In un tempo com’è il nostro, in cui si ha la sensazione che le


connessioni virtuali suppliscano in maniera più veloce ed efficace le
relazioni, bisogna riaffermare un principio chiaro e incontrovertibile:
il virtuale, proprio perché svuotato della corporeità, non può mai
essere paragonato alla relazione nella sua verità più profonda. Gli
amici che condividiamo sui social non hanno la stessa consistenza
degli amici con cui condividiamo realmente la vita. Le esperienze
affettive, sessuali, persino religiose, che molto spesso abbiamo la
sensazione di consumare nel mondo virtuale, hanno l’aggravante di
essere spesso inconsistenti e talvolta disumane, non tanto o soltanto
per il loro contenuto, ma soprattutto per la loro mancanza di
corporeità. Così, se il solo corpo ci condanna a essere esattamente
uguali a tutti gli altri esseri viventi, e se la nostra condizione
corporea è semplicemente quella animale, l’assenza della corporeità
ci condanna a essere inconsistenti, cioè a vivere negando di fatto
l’unica cosa che effettivamente ci fa esistere.
Prenderemo ora in esame tre componenti della corporeità che
hanno bisogno di essere declinate nuovamente nella nostra società e
nella nostra cultura.

Mangiare
L’uomo mangia fondamentalmente per vivere. Il gesto di prendere
del cibo è legato soprattutto alla funzione biologica della
sopravvivenza. Eppure, intuiamo da subito che il semplice nutrirsi è
cosa diversa dalla capacità di mangiare. L’uomo, infatti, ha intriso di
relazionalità anche la funzione primaria e biologica della nutrizione
come sopravvivenza. In questo senso, l’atto di mangiare non è mai
un atto ingenuo, innocente, ha sempre al suo interno una
motivazione altra. Esso è sempre il sintomo di un’interiorità. Questo
è il motivo per cui a volte i disturbi alimentari non sono
semplicemente riducibili a disfunzioni meccaniche della funzionalità
del nostro corpo, ma sono invece il campanello d’allarme che ci
racconta il groviglio complicato che ci portiamo dentro.
Mangiare troppo o non mangiare non sono mai semplicemente
sintomi di patologie legate alla sola corporeità, sono invece
sintomatologie legate alla nostra umanità – se per umanità
intendiamo ciò che siamo andati dicendo, cioè l’unità profonda di
anima e di corpo, di esperienza corporea ed esperienza interiore.
Basta fare un po’ di zapping in TV o navigare un po’ su Internet per
accorgersi come, negli ultimi anni, sia cresciuta potentemente
l’attenzione e la cura per il cibo, per la cucina, per il grande tema del
mangiare.
Assieme alla sessualità, il cibo è divenuto una fonte potente di
espressione delle energie che abitano le regioni profonde del nostro
inconscio. Si possono usare il cibo e il mangiare come modo e
tentativo di controllare la vita e il mondo. Si possono usare il cibo e il
mangiare come strumento sadico per farsi e fare del male. Si
possono usare il cibo e il mangiare come modo per esprimere e
comunicare l’amore. In questo senso, non dobbiamo mai dimenticare
che la vera competenza che deve accompagnare l’arte del mangiare,
la capacità di cucinare e di rapportarsi al cibo deve sempre
richiedere una profonda consapevolezza interiore che
inevitabilmente sfiora la spiritualità.

I disturbi alimentari non sono riducibili


a disfunzioni meccaniche della
funzionalità del nostro corpo, ma sono
il campanello d’allarme che ci racconta
il groviglio che ci portiamo dentro.
È interessante vedere come nei Vangeli ci siano molti banchetti,
molti pranzi, molte cene. È interessante notare quante volte siano
nominati dei particolari cibi, e quante volte Gesù usi l’immagine del
cibo e del banchettare come modo efficace per raccontare una
parabola. Se conveniamo tutti che i Vangeli sono testi intrisi di
spiritualità, ecco che il loro ricorrere al cibo, alla tavola e al mangiare
è chiara espressione della spiritualità dell’uomo. Non a caso, le più
interessanti scoperte riguardo ad alcuni cibi, ad alcune bevande sono
state fatte in monasteri o in luoghi particolarmente religiosi.
Come sarebbe bello poter ridonare profondità al gesto del
mangiare, come sarebbe rivoluzionario riempire l’interesse attuale
nei confronti del cibo di una consapevolezza e di un richiamo a
un’interiorità che non coincide mai semplicemente con la correttezza
della preparazione di una pietanza, ma con la consapevolezza
umanizzante che in essa è nascosta.

Sessualità
Un’altra componente fondamentale della corporeità è la sessualità.
Per quanto possiamo pensare che ormai il tema della sessualità sia
sdoganato, sono profondamente persuaso del suo contrario.
L’eccessiva ostentazione del corpo e del corpo sessuale può sfociare
in una sorta di pornografia diffusa che, invece di dire il superamento
di un tabù, lo manifesta proprio attraverso il suo contrario.
Infatti, proprio perché la sessualità non può essere ridotta
semplicemente a un esercizio biologico di trasmissione della vita, ha
bisogno di essere redenta dal rischio del dettaglio. Quando, infatti, la
sessualità coincide con la genitalità, cioè semplicemente con una
geografia precisa di una parte del corpo, essa viene meno alla sua
componente umana di fondo.
Noi possiamo definire la sessualità come pienamente umana,
quando è non soltanto trasmissione di vita biologica ma, ancora una
volta, espressione della relazionalità di fondo dell’essere umano. La
sessualità è un modo di rendere possibile una relazione; e lo è per
diversi motivi, come negli ultimi secoli molti hanno evidenziato
attraverso le loro intuizioni, le loro osservazioni, i loro studi.
Infatti, se la nostra vita proviene innanzitutto da un esercizio della
sessualità, tutti i nostri legami anche quelli più familiari, più intimi,
hanno sempre un’implicanza diretta o indiretta sulla nostra
sessualità. Essa infatti si aggancia a un territorio profondo, nascosto
in ognuno di noi e che ha più a che fare con il verbo essere che con il
verbo avere. La sessualità è l’espressione del nostro essere e non
semplicemente un modo di manifestare ciò che abbiamo, anche a
livello fisico. Quando la sessualità, nella vita di una persona, entra in
crisi, e quando non è pienamente integrata nella personalità, rischia
di diventare impedimento, muro, problema irrisolto.

Molte volte le nostre vite rimangono bloccate proprio perché ci sono


questioni rimaste irrisolte dentro. Toccare l’alfabeto della sessualità
significa a volte sbloccare la vita, non perché essa coincida con la
nostra sessualità: come il corso di un fiume può trovare una diga,
una pietra che ne occluda il passaggio, così a volte la sessualità,
invece di diventare essa stessa il letto sopra cui l’acqua scorre, può
trasformarsi in vicolo cieco e così impedire che la persona avverta
pienamente, totalmente la propria vita come qualcosa di umano e di
significativo.
Se una relazione si accontenta di essere solo connessione, se il cibo
si accontenta di essere semplicemente sintomo di un bisogno del
corpo, se la sessualità si accontenta di essere semplicemente bisogno
biologico che necessita di essere espresso, ecco che la grande sfida
per la nostra società è di ritrovare una strada interiore che possa
scavare uno spazio interno abbastanza capiente, da tornare a
umanizzare ognuna di queste cose. Finché ci accontenteremo del
corpo sessuato senza andare in fondo all’umanità che in esso è
nascosta, trasformeremo semplicemente l’altro in oggetto sottomesso
al nostro bisogno. Proprio perché oggetto, l’altro allora non sarà più
capace di entrare in una vera relazione con noi e, senza questa
relazione, coltiveremo una radicale solitudine che, mentre ci dà
l’illusione della soddisfazione, allarga il retrogusto dell’infelicità.
Come il corso di un fiume può trovare
una diga, una pietra che ne occluda
il passaggio, così a volte la sessualità
invece di diventare essa stessa
il letto sopra cui l’acqua scorre, può
trasformarsi in vicolo cieco.

Un uomo che sa molto, un uomo sazio, un uomo soddisfatto, non


è detto che sia anche un uomo felice. Non basta semplicemente
prendere sul serio il dato biologico della nostra corporeità, si ha
anche bisogno di inserirla in un fondale più grande.

La cura del Creato


La terza e ultima declinazione della corporeità che vogliamo
prendere sul serio riguarda il rapporto corpo-mondo. È il grande
tema dell’attenzione alla cura del Creato, che ancora una volta
spinge con urgenza sulle agende politiche di questo nostro tempo,
ma contemporaneamente rischia di rimanere un discorso ideologico,
parziale.
Infatti, essendo anche noi esseri viventi, dobbiamo ricordarci che
non lo siamo mai in astratto, ma dentro uno spazio (geografia) e un
tempo (storia). Lo spazio e il tempo sono sempre quelli della natura,
di quell’ambiente paradossalmente a noi propizio che ha reso
possibile la vita in generale e anche la nostra.

Nessun essere vivente può prescindere da ciò che lo circonda, perché


se ciò che lo circonda entrasse in crisi, entrerebbe in crisi anche la
possibilità stessa della vita. Ora, però, il discorso non è
semplicemente utilitaristico: non basta solo prendersi una
responsabilità nei confronti della natura del Creato intorno a noi per
poter avere la vita salva. Allo stesso tempo, bisogna dire che è
proprio nel rapporto con la natura-Creato che ognuno di noi trova
una dimensione che lo interpreta e che lo accompagna nella vita. In
questo senso, guardare un cielo stellato, salire su una montagna,
ascoltare i suoni della natura, farsi fare compagnia da uno di quei
tanti animali domestici che sembrano essere entrati nella moda
attuale del vivere (almeno in Occidente), è un modo attraverso cui ci
rendiamo pienamente conto che nella natura-Creato noi troviamo
uno specchio interpretativo che ci aiuta a dire o a fare cose che, con il
solo ragionamento, non riusciamo a cambiare, a comprendere, a
scegliere. Credo che questo sia il motivo per cui molti grandi
personaggi della storia, nei momenti cruciali della loro esistenza,
hanno deciso di usare la possibilità fisica di camminare, di mettersi
in viaggio, di lasciare la propria casa, la propria terra, di iniziare un
pellegrinaggio o semplicemente di compiere esplorazioni, perché il
muoversi nello spazio e il rapportarsi con lo spazio intorno erano
l’unico modo che restava loro per mettere mano a un’interiorità che
rimaneva altrimenti incomprensibile e sconosciuta.

Solo uno sguardo contemplativo sulla natura, sul Creato può


donarci anche il motivo vero e fondamentale per cui dovremmo
averne cura. Solo se ritroviamo una relazionalità che riconcili l’uomo
con il mondo intorno a lui può esserci per noi l’occasione non solo di
schierarci ideologicamente a favore o contro scelte che riguardano
l’inquinamento, l’uso delle risorse naturali, ma di ritrovarci tutti
insieme nella prospettiva di fondo per la quale solo quando si
recupera la relazione con la natura-Creato l’uomo scopre ancora più
chiaramente che il proprio corpo è dentro un sistema e, allo stesso
tempo, è molto di più.

Solo uno sguardo contemplativo


sulla natura, sul Creato può donarci
anche il motivo vero e fondamentale
per cui dovremmo averne cura.
È infatti a partire proprio dallo sguardo sul Creato che dentro di
noi si risvegliano il sogno, la nostalgia, l’utopia, il desiderio, l’andare
oltre, il varcare quelle colonne d’Ercole che sembrano essere il limite
massimo del determinismo del sistema fisico di cui è fatto l’universo.
Anche soltanto esercitando questo desiderio, questa nostalgia,
questa speranza, l’uomo si accorge di un di più e, proprio per
questo, a partire dal di più riesce a lasciare un segno significativo.
Non è forse questa la radice più vera dell’arte? Essa non è solo un
modo di rimettere ordine negli elementi del mondo ma di accostarli
in un modo tale che possano dire anche superamento della stessa
fisica (physis-natura), che possano indicare cioè un di più che, mentre
trova eco nel cuore dell’uomo, sembra volerlo spalancare a una
dimensione più grande. Aveva ragione chi scriveva che l’uomo
moderno, l’uomo del futuro o sarà un contemplativo o non sarà. Ma,
per contemplare, si ha bisogno di partire da quella base certa e
straordinaria che è la nostra corporeità.
Morte

«La mia bambina se n’è andata a vent’anni, per un virus che avrebbe dovuto
ammazzare noi e non lei. Non so, padre, come si può continuare a vivere
con il solo pensiero che lei non c’è più. Non mi perdono il fatto di non aver
potuto fare più di quello che abbiamo fatto. È morta sola, lontana da me,
senza che nessuno le accarezzasse la fronte come io facevo quando era poco
più che una bambina.
Francesca l’ho salutata da lontano, mentre la caricavano sull’ambulanza.
Non ho più sentito la sua voce. Mi ha solo guardata e ha aperto e chiuso la
mano. Aveva il respiro corto e faceva fatica anche solo a respirare.
Domando a lei perché tutto questo? Perché una simile ingiustizia? Cosa
può fare una madre quando sopravvive alla propria figlia? So che mi dirà
che devo pensare anche agli altri figli che ho, ma c’è una parte di me che è
morta con Francesca.
E poi la violenza inaudita di non aver potuto celebrare un funerale,
accompagnarla con un qualunque gesto. Spero che un giorno possa scorgere
qualcosa di diverso da questa sofferenza. Per ora è solo morte e rabbia.
Ma le ho scritto perché ha avuto ragione lei, quando qualche giorno fa ha
detto che “chi amiamo non possiamo mai farlo diventare il motivo della
nostra disperazione”. Mi insegni a non cadere in questa trappola. Cosa devo
fare affinché la morte smetta di fare così male? È una battaglia che devo
combattere in nome di Francesca, ma non so come si fa e dove si prende la
forza.»
Come dicevamo all’inizio di queste pagine, la pandemia del
Coronavirus ci ha costretto a incontrare e a scontrarci con parole che
sono diventate familiari in questo tempo difficile. Alcune di queste le
abbiamo scelte volutamente e approfondite, nel tentativo di
redimerle da una narrazione solamente negativa.
Se il tempo della pandemia è stato il tempo del distanziamento
sociale, esso ha fatto certamente rinascere la nostalgia delle relazioni.
Se il tempo del distanziamento sociale ha risvegliato in noi la paura
della solitudine, la forzatura di questa condizione ha costretto tutti
noi a fare i conti con l’opportunità che è nascosta nella solitudine
stessa. E se la solitudine si porta addosso la taglia del silenzio, esso
non è innanzitutto l’essere gettati nel buio, ma il varcare la porta
dell’interiorità e scoprire un mondo dentro, non solo da abitare, ma
da attraversare fino al suo fondo inedito.
L’interiorità, d’altronde, non può distrarci da quell’argomento
scandaloso che è la nostra corporeità. È infatti il corpo il principale
protagonista di questa pandemia. Il virus ha il potere di attaccarlo
fino a procurarne la morte. Ma il corpo è anche l’alfabeto base del
sentire della vita. Non è solo il luogo del dolore, ma anche il luogo
della gioia. È attraverso il corpo che ognuno di noi dà consistenza
alla propria esistenza.
Ora non possiamo concludere questo nostro percorso senza
sostare davanti a un’altra parola scomoda, la parola “morte”.

Viviamo nella costante rimozione della morte, eppure dentro di noi


sentiamo, come un adagio continuo, l’angoscia di morte. Senza
rendercene conto, è proprio quest’ultima a decidere tante cose della
nostra vita. Pur di sfuggire alla morsa dell’angoscia di morte siamo
gg g
disposti a tutto. Non aveva tutti i torti chi pensava che la religione
fosse innanzitutto il tentativo di esorcizzare l’angoscia di morte che
l’uomo si porta dentro.
L’uomo cerca costantemente il linguaggio religioso come maniera
per non lasciarsi risucchiare fino in fondo dalla paralisi che viene da
questa angoscia. Questa definizione di religione, però, non ha nulla a
che fare con la fede. Se da una parte, infatti, la religione può servire
ad addomesticare l’angoscia di morte che l’uomo si porta dentro, la
fede invece è un modo attraverso cui questa angoscia può essere
affrontata, guardata negli occhi e allo stesso tempo essere superata.

Se la religione può servire ad


addomesticare l’angoscia di morte che
l’uomo si porta dentro, la fede invece
è un modo attraverso cui questa angoscia
può essere affrontata.

Accontentarsi della sola religione significa accontentarsi di un


apparato simbolico che ha come scopo quello di rassicurarci. Una
religione che si limita solo a rassicurare non salva. Un apparato
simbolico che serve semplicemente a esorcizzare la paura non ha
nessuna utilità per scoprire un motivo valido per cui vivere e
affrontare la propria esistenza. La grande domanda che dobbiamo
porci è se l’uomo possa vivere senza questo apparato simbolico, se
l’uomo possa vivere senza religione. Per quanto si possa avere la
sensazione che la nostra società abbia bandito o messo da parte tutto
ciò che ha direttamente un sapore religioso, c’è da dire con molta
lealtà che, proprio perché il meccanismo interiore attraverso cui
l’angoscia di morte esercita un potere su ogni individuo è
insuperabile, in sostituzione dei segni religiosi ufficiali, l’uomo ha
elevato simbolicamente e implicitamente a religione altri apparati
simbolici.
Nell’ultimo secolo ci siamo accorti di come alcune ideologie, per
poter realmente attecchire, hanno dovuto assumere un fortissimo
apparato simbolico-religioso. È stato il tempo in cui la politica è
diventata religione, la filosofia è diventata religione, la scienza è
diventata religione. Oggi viviamo in un tempo in cui la tecnica è
diventata religione, la globalizzazione è diventata religione. Ci si
affida a un apparato simbolico con lo scopo di sentirsi rassicurati
nella propria angoscia di morte. Dovremmo ormai domandarci se
possiamo accontentarci di una religione o di un apparato simbolico
che ci rassicuri, o se l’uomo ha bisogno di fare un salto di qualità
anche in questo ambito. Se infatti la nostra natura ci spinge alla
sopravvivenza e all’evitamento del dolore e della sofferenza, l’uomo
riesce a intuire che finché avrà paura non sarà mai veramente libero.
E la paura più grande che si porta nel cuore è proprio quella della
morte. Che cosa ci aiuta a superare questa paura?

San Paolo, quando giunge nella civilissima Atene, si reca


nell’Areopago a parlare con quegli uomini che si ritenevano saggi e
filosofi. A partire dalla loro tradizione, dal loro alfabeto, dalla loro
sensibilità religiosa, l’apostolo annuncia loro un Dio ignoto a cui essi
stessi avevano costruito un altare. Tutti lo stanno ad ascoltare nel suo
ragionamento teologico, finché non comincia a parlare di
resurrezione. Davanti a questa parola e a questa possibilità, con
molta cordialità e altrettanta fermezza lo congedano: «Su questo – gli
dicono – ci sentiremo un’altra volta» (cfr At 17,22-34). Effettivamente
il cristianesimo ha sempre avuto molto chiaro che la resurrezione
non può essere semplicemente il frutto di un ragionamento dotto.
Che essa non può essere dimostrata come una formula matematica.
Per un cristiano, la resurrezione è un fatto, non un argomento di
discussione. Un fatto davanti al quale ogni ragionamento si arresta,
perché i fatti hanno sempre la precedenza sugli argomenti. Ora,
avere fede significa avere l’esperienza di questo fatto, non possedere
un ragionamento convincente sulla vita, sulla morte, sulla
resurrezione.
Il dono della fede è il dono dell’esperienza di un fatto, che arresta
ogni retorica, che mette a tacere la battaglia dell’avere torto e
dell’avere ragione. Avere fede è prendere posizione davanti a un
fatto, non davanti a un ragionamento. Ora, non tutti fanno
l’esperienza di avere la fede. La fede non nasce semplicemente da
un’educazione ricevuta: si può ricevere un’educazione cristiana
senza giungere ad avere la fede cristiana. Si possono sentire affinità e
simpatia nei confronti di valori e principi, ma non avere nessuna
fede in ciò che è il nucleo più importante del cristianesimo.

Questo tempo di crisi ha messo tutti noi non davanti al fatto della
resurrezione, ma davanti al fatto della morte. Una società che
costantemente cerca di nascondere, di occultare la morte, che ha
creato luoghi specifici in cui le persone possono concludere il
percorso della loro vita; in una società come la nostra che tende a
rendere invisibili i malati, gli ultimi, i sofferenti, trovarsi
scaraventata davanti agli occhi una cronaca di morte che ha riempito
non soltanto i nostri mezzi di comunicazione, ma ogni frammento
del nostro ultimo tempo, ha risvegliato tutti i sintomi dell’angoscia e
della paura di morire.
La verità è che non si può far nulla contro la paura e l’angoscia
della morte, se si pensa solo e soltanto alla morte. Si può fare
qualcosa soltanto mettendo mano alla vita. Solo una vita
degnamente vissuta può esorcizzare e tenere a bada l’angoscia e la
paura della morte. Come dicevamo prima, se la religione e l’apparato
simbolico servono ad addomesticare e a rassicurare, la fede risolve
invece quella paura e quella angoscia.

Umanamente parlando, ognuno di noi deve poter mettere mano a


quell’angoscia e a quella paura anche in assenza di fede, attraverso
una scelta di vita che non sia mai in contrapposizione o di
conseguenza alla paura e all’angoscia della morte che ci abitano. È
qui che si apre il grande tema dell’elaborazione del lutto.
Aver perso qualcuno di caro senza la possibilità di congedarsi da
esso e, allo stesso tempo, sentendosi perseguitati dalla colpa di non
aver potuto far nulla e di averlo lasciato da solo, trasforma quella
p q
morte non solo in un fatto accaduto ma in qualcosa che continua ad
accadere e a produrre morte. Si ha sempre il bisogno di elaborare un
lutto affinché la morte non trattenga mai il passato ma sia sempre
un’apertura al futuro. A volte facciamo resistenza a elaborare il lutto
perché lo intendiamo come una sorta di tradimento delle persone
che abbiamo amato. Non vogliamo mollare la sofferenza, perché ci
sembra che smettere di soffrire equivalga a dimenticare, e
dimenticare è lasciare che questi nostri cari si perdano nel passato
che si trova dietro di noi.

L’elaborazione del lutto non è mai dimenticanza, è profezia. È


smettere di considerare la morte come qualcosa di così potente da
poter annullare l’amore. L’amore infatti è sempre più forte della
morte stessa. È proprio perché è più forte che l’amore produce
sofferenza.

Si ha sempre il bisogno di elaborare


un lutto affinché la morte non trattenga
mai il passato ma sia sempre
un’apertura al futuro.

Solo quando si sceglie di non lasciare che, in nome dell’amore, chi


abbiamo amato diventi la causa della nostra disperazione, si
dischiude davanti a noi la possibilità di un’elaborazione del lutto
come decisione di vivere diversamente e meglio la nostra vita, a
partire proprio da quella mancanza, da quella morte, da quel
distacco, da quella separazione. La memoria di chi abbiamo amato è
motivo per vivere meglio il presente e non causa per cui rinunciare
alla vita.
Certo, la relazione con la morte cambia a seconda dei rapporti che
dicono i nostri legami di amore. Nella condizione innaturale di un
genitore che sopravvive al proprio figlio, il dolore assume i connotati
di un’ingiustizia che non solo stride con la nostra logica, ma che a
volte rende insopportabile il pensiero della vita stessa. Ma solo se si
accetta di stare in quel dolore, a mano a mano si apre una strada che
non può essere spiegata come una semplice terapia, ma come la
scommessa fiduciosa di un’intuizione che, seppur nel buio, guida
verso una via d’uscita. Anche in questo caso gli apparati simbolico e
religioso possono fungere da antidolorifico, ma è soltanto il salto
della fede che rende possibile un significato altro, che non soltanto
consola ma spinge anche a una decisione più radicale. Questo salto
avviene quando chi è sopravvissuto sente potente dentro di sé la
responsabilità di non sprecare quella sua sofferenza, ma di
trasformarla in qualcosa che porti frutto. Solo quando il dolore
diventa fecondo, allora non tradisce l’amore. Solo quando la
mancanza spinge a decidersi a vivere diversamente la vita, allora la
morte ha perso la sua partita. Finché la morte produce morte e
desiderio di morte, continua a dominare e a tenere prigionieri anche
coloro che abbiamo amato.

Solo quando il dolore diventa fecondo,


allora non tradisce l’amore.

Bisogna disarmare la morte. Se nessuno di noi può sfuggire al


morire, tutte le volte che incontriamo la morte nella mancanza di chi
amiamo, abbiamo il dovere di combatterla facendo delle scelte di
vita. Se la morte chiama la morte, l’unico modo di resisterle è
contrapporle scelte di vita. Ce ne siamo accorti come società e come
popolo durante i mesi della pandemia, che ci hanno aiutato a capire
che sconfiggere la morte è fare di tutto per salvare la vita, per non
assecondare la morte. E persino lì dove la morte sembra aver avuto
l’ultima parola su migliaia di persone, sentirci chiamati alla grande
responsabilità di elaborare tutti insieme scelte di vita.
Non solo il singolo, ma la società tutta ha il dovere di disarmare la
morte schierandosi apertamente, convintamente dalla parte della
vita.
Epilogo

La vita è un susseguirsi di luci e di ombre, ma è proprio quando la


luce è spenta che dobbiamo cercare di coltivare la memoria della
luce.
Ci sono momenti in cui alcune circostanze ci spingono a
camminare per strade buie e siamo così stanchi da non riuscire a
vedere davanti a noi un orizzonte, un indizio, qualcosa che possa
aiutarci in quella scalata, in quel percorso, in quel cammino difficile.
La cosa più sbagliata che possiamo fare, quando siamo al buio, è
arrenderci al buio e lasciare che il buio abbia l’ultima parola su di
noi. È proprio quando le situazioni diventano complicate, che
dobbiamo scatenare in noi un’ostinazione contraria. Si combatte non
quando si ha la certezza di vincere, ma quando si ha la sensazione
che basterebbe un gesto di resa a toglierci ogni barlume di speranza.
Combattere, soprattutto nel buio, significa esercitare con
responsabilità la vita senza rinunciarvi.

Nella Bibbia sono raccontate molte storie di notti, ma ce n’è una in


particolare che fa da scuola a tutte le altre. È una notte strana, il
protagonista è un uomo di nome Giacobbe, che con una furbizia
eccessivamente umana ha rubato la primogenitura al fratello Esaù.
Ora, quello stesso fratello lo insegue con quattrocento uomini. Lui,
invece, è solo con la sua famiglia e fugge cercando di salvarsi,
attraversando il torrente Jabbok. Lì, in quella notte, in quella
circostanza avversa, egli tenta di pregare e Dio si manifesta a lui
come un uomo contro cui lottare.
Giacobbe lotta con Dio per tutta la notte e nessuno sembra vincere
in quella battaglia, finché, mentre sta giungendo l’alba, quell’uomo
misterioso che lotta con lui, e che è Dio, lo segna nel corpo
g p
lussandogli il nervo di una gamba. Da quel giorno, Giacobbe non
camminerà più come tutti gli altri, il suo passo sarà più lento,
zoppicante. Pur cadendo a terra, ferito, Giacobbe continua a lottare.
Non si ferma, finché il misterioso uomo con cui ha combattuto non lo
benedice. Questa è, infatti, la richiesta di Giacobbe: «Non ti lascerò
andare» gli dice «finché non mi avrai benedetto» (cfr Gen 32,27).
Questa immagine ricorda a ognuno di noi che non possiamo
lasciare che le cose che ci hanno gettato nel buio e che si manifestano
nella nostra vita come lotta, abbiano il solo potere di segnare la
nostra esistenza, a volte rallentandola, a volte interrompendo quella
che era la nostra normalità. Non possiamo permetterci di portare
addosso i segni di un cambiamento, senza concludere quella lotta
con la stessa pretesa di Giacobbe, e cioè di essere benedetti, di
scoprire un bene nascosto in quel buio, in quel male, in quella lotta,
in quella circostanza, in ciò che ha segnato indelebilmente la nostra
vita. «Non ti lascerò andare finché non mi avrai benedetto.»

Credo che questa sia la “luce in fondo” che tutti noi dobbiamo
cercare. Cercare una benedizione nella prova, nell’esperienza della
fragilità che ci ha resi più autentici. Cercare un bene nascosto in ciò
che ci ha destabilizzati e che ha messo in discussione la nostra vita.
Essere benedetti in ciò che abbiamo vissuto come maledizione, come
contrapposizione, come sconfitta.
Tutti sappiamo che i periodi difficili passano, e che molto spesso
lasciano il segno. Ma la grande novità delle cose difficili e dei segni
che restano è contenuta nella pretesa di benedizione, nella pretesa di
bene che noi vogliamo trarre dall’attraversamento del buio. Molte
volte non abbiamo i mezzi per vincere le nostre guerre, per avere la
meglio nelle nostre battaglie, ma possiamo continuare a lottare anche
quando siamo a terra senza forze, anche quando non riusciamo a
reggerci più in piedi. C’è dentro di noi una forza che rimane in piedi,
una forza nascosta nel cuore, che va coltivata, che va esposta, che va
tirata fuori, che va usata, che va conosciuta. È la “luce in fondo” per
cui tutto continua a valere la pena.
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La luce in fondo
di Luigi Maria Epicoco
Proprietà letteraria riservata
© 2020 Mondadori Libri S.p.A.
Pubblicato per Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788831801546

COPERTINA || FOTOGRAFIA © ALBERTO ZANETTI / UNSPLASH | ART


DIRECTOR: STEFANO ROSSETTI | GRAPHIC DESIGNER: PAOLA
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Frontespizio
La luce in fondo
Prologo
Relazioni
Solitudine
Silenzio
Corpo
Morte
Epilogo
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