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CHRISTINA FELDMAN
Da un anno ormai la storia delle nostre vite e la storia delle vite della
maggior parte delle persone è stata scritta, per molti aspetti, dalla pandemia,
da condizioni al di fuori del nostro controllo. E ognuno ha una storia del
proprio lockdown. Io ho ascoltato molti di questi racconti e, spesso,
riguardano una perdita. Ci sono anche storie positive ma viviamo tutti in
realtà in un paesaggio di perdita. Alcune di queste perdite in particolare sono
state dolorose e molto difficili da sopportare. Ma noi tutti abbiamo perso
qualcosa: che siano i nostri ruoli oppure la sicurezza economica o le nostre
comunità e i nostri modi di connetterci l'un l'altro.
Suzuki Roshi una volta disse che “la rinuncia non è sbarazzarsi delle cose
di questo mondo, ma accettare che passino”. E la rinuncia, cioè il non
attaccamento il non aggrapparsi a nulla è il più grande dono di compassione
che possiamo offrire a noi stessi. E, proprio nel bel mezzo di tutto ciò che
siamo invitati ad affrontare qui e ora, scopriamo quanto sia importante
scrivere la nostra storia all'interno della storia della pandemia.
Nel paese dove vivo, quando siamo entrati nel primo lockdown, ho visto
improvvisamente un gran numero di persone iniziare ad occuparsi delle
proprie abitazioni, facendo progetti di costruzione, dipingendo, come se
riempiendosi di impegni si potesse non sentire ciò che stava succedendo. A
volte di fronte a dukkha diventiamo semplicemente insensibili o dissociati e
a volte ci disperiamo. Queste sono le reazioni che avvengono da sempre, ma
ci sono altri percorsi che possiamo seguire. C'è un sentiero che coltiva ciò
che ci guarisce, che coltiva ciò che libera il cuore.
Viktor Frankl una volta scrisse: "Tra stimolo e risposta c'è uno spazio. In
quello spazio risiede il nostro potere di scelta. E nel nostro potere di scelta
risiede la nostra crescita e la nostra libertà." Viktor Frankl era un
sopravvissuto al campo di concentramento, non scrisse queste parole nel
periodo più idilliaco della sua vita. Le scrisse nel mezzo delle condizioni più
difficili che un uomo possa trovarsi ad affrontare.
Prendendosi cura di sé, ci si prende cura degli altri. Prendendosi cura degli
altri, ci si prende cura di sé. Come ci si prende cura degli altri, prendendosi
cura di sé? Praticando la consapevolezza, sviluppandola e facendola crescere.
Come ci si prende cura di sé prendendosi cura degli altri? Con la pazienza, il
non nuocere, la gentilezza e la solidarietà.
Molte persone mi hanno detto nell'ultimo anno che alcune cose sono state
di grande aiuto per loro. Una di queste è la consapevolezza del corpo.
Quando la mente inizia ad avvitarsi su se stessa e a proiettarsi in avanti verso
un futuro migliore, noi possiamo sempre tornare al corpo e sentire i nostri
piedi che toccano il suolo, la nostra seduta sulla sedia, le nostre mani in
grembo, sapendo che ogni momento in cui siamo consapevoli del corpo
stiamo imparando a dimorare nel momento presente così com'è. Le persone
mi hanno anche riferito che l'altro loro più grande alleato sono stati i
Brahmavihàrà. Non si parla qui di pratiche come osservare il respiro o altre
pratiche simili, ma sono le vere qualità del cuore che lì hanno sostenuti.
Queste sono qualità che ci connettono, ci nutrono e sono profondamente
relazionali. Riguardano questa vita che stiamo vivendo, il tipo di impronta che
lasciamo nel mondo e quella che lasciamo nei nostri cuori. Ci ricordano la
possibilità di vivere in modo intenzionale. Intenzioni di gentilezza, di gioia, di
compassione ed equanimità scrivono una storia di vitalità, scrivono una storia
di connessione, scrivono una storia di sentirsi adeguati.
In realtà non devo provare gentilezza per agire o parlare con gentilezza.
Non devo provare compassione per poter aiutare un altro o per prendermi
cura di me stesso. Non devo provare gioia per fare spazio all'apprezzamento
e alla gratitudine. Stiamo imparando a orientare il cuore verso queste qualità.
Il Buddha descrive questo come il modo più nobile di essere in questo
mondo. Penso che una delle grandi arti della vita meditativa sia quella di
imparare a sostenere l'intenzione. Questa è anche la grande arte di una vita
piena di cuore.
Durante l'ultimo anno ho lavorato con un certo numero di persone che sono
in prima linea nell'ambito del Covid, che operano in ospedali, scuole o case
di riposo, che parlano della loro stanchezza e, a volte, anche
dell'esaurimento della loro compassione. E non sempre ci viene naturale
pensare che sono proprio questi i momenti in cui abbiamo bisogno di fare più
spazio alla gioia.
Il Buddha parla della gioia in due modi, parla di gioia sensoriale e non
sensoriale. Più ci sentiamo stanchi o angosciati e più è importante in questi
momenti lasciare spazio alla gioia. Potremmo ritrovarla nell'apprezzamento
tramite i nostri sensi della natura, della musica, della letteratura, cercando
veramente ciò che rallegra il nostro cuore, perché dove c'è gioia c'è energia.
E potremmo imparare a celebrare le piccole cose, suscitando la gioia che
deriva dalla gratitudine.
Un grande maestro del passato una volta disse: "Dal terreno della
gentilezza fiorisce splendida la compassione bagnata dalle lacrime della
gioia e al riparo nell'ombra fresca dell'albero dell'equanimità". Riflettiamo su
questa qualità della gentilezza. In lingua pali è “mettà” e ha la sua radice nella
parola essere amico di o fare amicizia con. Qual è il cammino che
percorriamo quando la gentilezza non è presente? Forse quello
dell'avversione, della malevolenza? Nella psicologia buddhista l'avversione
ha le sue radici nella paura, paura di essere feriti, paura che ci facciano del
male.
La gioia è ciò che pone fine alla mente che fa paragoni, quando guardiamo
le altre persone con invidia sentendo che sono così più perfette di noi o le
loro vite più perfette delle nostre. Perché stiamo davvero iniziando a vedere
come questa brama, e la mente che paragona, siano radicate nella
percezione di un deficit interiore. Un convincimento per il quale io, in un certo
senso, non sono abbastanza bravo o abbastanza capace, che ci porta a
essere quasi costantemente nella condizione di negare noi stessi. La gioia
comincia a favorire un senso di autosufficienza, un sentire che “ciò che è
presente ora è sufficiente”.
C'è un meraviglioso detto di una delle tradizioni cinesi: "Se mantieni vivo
nel tuo cuore un ramo verde, l'uccello che canta verrà". E il ramo verde è la
nostra capacità di essere consapevoli, sensibili, di essere presenti per poter
toccare il mondo con gentilezza ed essere toccati da ciò che è bello. Come
esseri umani, abbiamo dei circuiti neuronali nei nostri cervelli che lì
predispongono a deviare l'attenzione verso ciò che è negativo. La nostra
attenzione è attirata molto più facilmente da ciò che è sbagliato piuttosto che
da ciò che è buono. La nostra attenzione tende ad evidenziare ciò che è
danneggiato anziché ciò che può essere apprezzato. E sia la coltivazione
della consapevolezza che della gioia hanno molto a che fare con l'iniziare a
modificare questa deviazione dell'attenzione.
Ciò non significa negare ciò che è danneggiato o ciò che è imperfetto, ma
iniziare a vedere la coesistenza di gioia e dolore, di gradevole e sgradevole,
invece di provare contrazione per ciò che è danneggiato. Possiamo scoprire
una contentezza e un benessere interiori, una spaziosità e una connessione
interiori dove la brama non sorge.