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LE QUALITÀ DEL CUORE CHE CI SOSTENGONO

E CI FANNO FIORIRE ALLA NOSTRA NATURA


NEL BEL MEZZO DEI MOMENTI DIFFICILI

CHRISTINA FELDMAN

Il brano che segue è la trascrizione tradotta in italiano dell'incontro che


Christina Feldman ha condotto per A.Me.Co. in videoconferenza il 13
marzo 2021. Data la bellezza dei contenuti abbiamo ritenuto di lasciare il
formato integrale senza operare alcun genere di editing.

Trascrizione e traduzione a cura di Silvia Forni

Desidero dare un caloroso benvenuto a tutti e ringraziarvi per la vostra


pazienza nell'ascoltarmi in inglese. Naturalmente mi dispiace di non poter
essere lì a Roma insieme a voi. Desidero anche ribadire quanto sia davvero
felice di trovarmi con il Sangha dell'A.Me.Co. e spero che voi tutti stiate bene,
per lo meno per quanto è possibile.

Ciò a cui vorrei dedicare questo pomeriggio è riflettere su come possiamo


fiorire, come possiamo crescere anche in questi momenti così difficili. Vorrei
iniziare con una piccola storia. Vedran Smailovic era il primo violoncellista
dell'Orchestra sinfonica di Sarajevo quando scoppiò la guerra civile in
Bosnia. La sua risposta alla guerra e al caos fu quella di vestirsi con gli abiti
formali da concerto, uscire dal suo appartamento per dirigersi nel mezzo
della battaglia che infuriava intorno a lui e suonare il violoncello per un'ora
tutti i pomeriggi. Metteva un piccolo sgabello tra i crateri lasciati dalle bombe
e teneva un concerto nelle strade vuote durante i bombardamenti e mentre
le pallottole fioccavano tutt'intorno. Questo era il suo impegno personale e
coraggioso, giorno dopo giorno, per onorare la dignità umana, per la
compassione e la pace. Per miracolo non fu mai colpito. I notiziari ripresero
la storia di quest'uomo straordinario che sedeva vestito di tutto punto su uno
sgabello, nel centro di una guerra infernale che divampava tutt'intorno,
suonando il violoncello senza nemmeno uno spettatore.

Da un anno ormai la storia delle nostre vite e la storia delle vite della
maggior parte delle persone è stata scritta, per molti aspetti, dalla pandemia,
da condizioni al di fuori del nostro controllo. E ognuno ha una storia del
proprio lockdown. Io ho ascoltato molti di questi racconti e, spesso,
riguardano una perdita. Ci sono anche storie positive ma viviamo tutti in
realtà in un paesaggio di perdita. Alcune di queste perdite in particolare sono
state dolorose e molto difficili da sopportare. Ma noi tutti abbiamo perso
qualcosa: che siano i nostri ruoli oppure la sicurezza economica o le nostre
comunità e i nostri modi di connetterci l'un l'altro.

Mentre le nostre esistenze vengono cambiate in modo così radicale, noi


tutti siamo invitati ad imparare lezioni che sono difficili da imparare, lezioni
che da tempo immemorabile gli esseri umani sono stati invitati ad
apprendere. Nel corso del tempo ci è stato chiesto di imparare la lezione del
cambiamento, dell'incertezza, di dukkha, ossia del riconoscimento che, nella
vita, esiste la sofferenza. E a tutti è stato chiesto di imparare cosa significa
passare dalla rinuncia non volontaria alla rinuncia volontaria. La rinuncia non
volontaria è una lezione difficile da apprendere, dove possiamo sentire che
le cose ci sono state portate via, dove possiamo provare risentimento e
sentirci deprivati di qualcosa, dove possiamo trovarci a gridare che tutto
questo non sarebbe dovuto accadere. Ma penso che, a un certo punto, ci
rendiamo conto che non ha senso aggiungere sofferenza al dolore che è già
presente. Ed è a questo punto che possiamo scegliere di passare alla
rinuncia volontaria.

Suzuki Roshi una volta disse che “la rinuncia non è sbarazzarsi delle cose
di questo mondo, ma accettare che passino”. E la rinuncia, cioè il non
attaccamento il non aggrapparsi a nulla è il più grande dono di compassione
che possiamo offrire a noi stessi. E, proprio nel bel mezzo di tutto ciò che
siamo invitati ad affrontare qui e ora, scopriamo quanto sia importante
scrivere la nostra storia all'interno della storia della pandemia.

C'è un aneddoto sull'insegnamento di Aitken Róshi: il secondo giorno di un


ritiro (giorno che può essere piuttosto difficile per molte persone poiché il
corpo fa male, la mente non collabora), entrando nella sala di meditazione
disse agli studenti: “le difficoltà che state sperimentando ora”, seguì una
lunga pausa e le persone riferirono di sentirsi molto speranzose che avrebbe
offerto alcune soluzioni magiche, “le difficoltà che state vivendo ora vi
accompagneranno per il resto della vostra vita”. Naturalmente non lo
intendeva letteralmente ma stava invitando le persone a riflettere su che cosa
sarebbe stato necessario cambiare interiormente se queste difficoltà fossero
destinate ad essere davvero sempre presenti per il resto della vita. Dove
troveremmo rifugio e benevolenza? Cosa avremmo bisogno di coltivare per
crescere e fiorire'? Queste sono domande che mi sono posta molte volte in
questo ultimo anno. E una cosa che alcuni mesi fa ho deciso che non avrei
più detto, è: “quando tutto questo sarà finito”. Mi chiedo quanti di voi si siano
trovati a dire “quando tutto questo sarà finito”. È ovvio che umanamente
desideriamo che tutto questo finisca, lo vediamo chiaramente quanto sia
seducente il farsi portare via dall'idea di un momento migliore.
Ma è anche importante per noi ricordare che la vita che stiamo vivendo
proprio ora, non è una “sala d'attesa”. Se la trattassimo come una sala
d'attesa, perderemmo qualcosa di molto importante: la nostra capacità di
coltivare e nutrire la pace nel bel mezzo di tutto questo. La nostra capacità di
fiorire in mezzo a tutto questo e di porci le domande importanti: Cos'è che
può nutrirci in questo momento? A cosa diamo veramente valore? Che cosa
ci ricarica e ci permette di rinnovarci? La verità è che stiamo sempre
scrivendo una storia con i nostri pensieri, le nostre emozioni, i nostri stati
d'animo e vale la pena fare un passo indietro e chiederci: "Che tipo di storia
stiamo scrivendo proprio ora? È una storia di gioia o disperazione? Una storia
di spaziosità o contrazione? Una storia di equilibrio o ansia?". Perché quella
storia diventerà il nostro mondo.

Il cuore dell'insegnamento buddhista è un vero e proprio incoraggiamento


a fiorire, essere creativi, guarire, essere liberati nel bel mezzo di tutte le cose.
Il Buddha affermò che c'è un modo di essere in cui noi non siamo ostaggi del
mondo condizionato, riconoscendo però che noi non siamo nemmeno
invulnerabili al mondo condizionato. È così importante essere toccati in
profondità sia dalle gioie che dai dolori di questa vita. Ma è importante non
credere che la nostra felicità e la nostra tristezza derivino da cause e
condizioni esterne. La comprensione di questa parola, dukkha, è sempre
stata l'inizio del cammino del risveglio di tutti. A volte dukkha è tradotto con
“sofferenza” che è una pessima traduzione a mio avviso. Preferisco usare la
parola “vulnerabilità”. Come esseri umani siamo vulnerabili al dolore, alla
vecchiaia, alla malattia, alla morte. Come esseri umani siamo vulnerabili alle
implicazioni dell'impermanenza. La vita non si ferma per noi. A volte
accogliamo il cambiamento, a volte resistiamo al cambiamento. E
l'impermanenza non è emotivamente neutrale, a volte è molto triste, a volte
è molto bella. Siamo tutti vulnerabili di fronte a un mondo di condizioni
instabili, dove le nostre certezze possono crollare in un attimo e molte
condizioni non possiamo semplicemente controllarle. Penso che
l'insegnamento che abbiamo ricevuto quest'ultimo anno sulla vulnerabilità sia
stato più profondo che mai. Come esseri umani sembra che siamo anche
molto vulnerabili ai nostri convincimenti di essere inadeguati, di non essere
abbastanza bravi, di non avere abbastanza. E c'è un altro livello di dukkha
che è opzionale e consiste nel modo in cui reagiamo alla nostra vulnerabilità.
Noi possiamo scegliere di negare la vulnerabilità oppure di accoglierla. Se
neghiamo la vulnerabilità, possiamo ritrovarci arrabbiati con la vita,
incolpando il mondo per la nostra sofferenza. Possiamo scoprirci
improvvisamente molto impegnati a risolvere le condizioni difficili in cui ci
troviamo o a evitarle del tutto.

Nel paese dove vivo, quando siamo entrati nel primo lockdown, ho visto
improvvisamente un gran numero di persone iniziare ad occuparsi delle
proprie abitazioni, facendo progetti di costruzione, dipingendo, come se
riempiendosi di impegni si potesse non sentire ciò che stava succedendo. A
volte di fronte a dukkha diventiamo semplicemente insensibili o dissociati e
a volte ci disperiamo. Queste sono le reazioni che avvengono da sempre, ma
ci sono altri percorsi che possiamo seguire. C'è un sentiero che coltiva ciò
che ci guarisce, che coltiva ciò che libera il cuore.

Viktor Frankl una volta scrisse: "Tra stimolo e risposta c'è uno spazio. In
quello spazio risiede il nostro potere di scelta. E nel nostro potere di scelta
risiede la nostra crescita e la nostra libertà." Viktor Frankl era un
sopravvissuto al campo di concentramento, non scrisse queste parole nel
periodo più idilliaco della sua vita. Le scrisse nel mezzo delle condizioni più
difficili che un uomo possa trovarsi ad affrontare.

Nel Dhammapada il Buddha ha insegnato che non è difficile per noi


coltivare ciò che mina il nostro benessere e agire secondo modalità di
pensiero che lo pregiudicano. È molto più difficile per noi coltivare ciò che
contribuisce al nostro benessere.

In questo cammino di risveglio impariamo a coltivare quella pausa tra


stimolo e risposta e ad essere consapevoli che abbiamo una scelta su ciò
che può essere coltivato in quel momento. Penso spesso che ogni momento
in cui incontriamo dukkha ci troviamo di fronte a una sorta di bivio e una delle
strade che possiamo imboccare è quel sentiero che ci è molto familiare di
reattività, di paura, di rabbia. Ma c'è un altro sentiero che possiamo
percorrere: nutrire tutto ciò che contribuisce alla nostra crescita, alla nostra
libertà e contribuisce al benessere di tutti. Penso che sia importante ricordare
che non ci impegniamo in questa pratica esclusivamente per il nostro
personale benessere, ma anche per prenderci cura di coloro che amiamo,
per prenderci cura di coloro con cui abbiamo dei problemi e per compassione
per le molte persone che non conosciamo e che in questo momento lottano,
soffrono, hanno paura.
Vorrei leggervi un breve insegnamento del Buddha.

Prendendosi cura di sé, ci si prende cura degli altri. Prendendosi cura degli
altri, ci si prende cura di sé. Come ci si prende cura degli altri, prendendosi
cura di sé? Praticando la consapevolezza, sviluppandola e facendola crescere.
Come ci si prende cura di sé prendendosi cura degli altri? Con la pazienza, il
non nuocere, la gentilezza e la solidarietà.

Durante questo ultimo anno ho trovato di grande aiuto riflettere a fondo


sulla famiglia allargata della consapevolezza e riflettere su come le qualità
delle Dimore Divine, Brahmavihàrà, gentilezza, gioia, compassione e
equanimità, siano davvero i nostri più grandi amici nei momenti difficili. Come
offrano un rifugio dall'agitazione, dalla paura e dalla disperazione e come sia
importante per noi coltivare e incarnare queste qualità.

Molte persone mi hanno detto nell'ultimo anno che alcune cose sono state
di grande aiuto per loro. Una di queste è la consapevolezza del corpo.
Quando la mente inizia ad avvitarsi su se stessa e a proiettarsi in avanti verso
un futuro migliore, noi possiamo sempre tornare al corpo e sentire i nostri
piedi che toccano il suolo, la nostra seduta sulla sedia, le nostre mani in
grembo, sapendo che ogni momento in cui siamo consapevoli del corpo
stiamo imparando a dimorare nel momento presente così com'è. Le persone
mi hanno anche riferito che l'altro loro più grande alleato sono stati i
Brahmavihàrà. Non si parla qui di pratiche come osservare il respiro o altre
pratiche simili, ma sono le vere qualità del cuore che lì hanno sostenuti.
Queste sono qualità che ci connettono, ci nutrono e sono profondamente
relazionali. Riguardano questa vita che stiamo vivendo, il tipo di impronta che
lasciamo nel mondo e quella che lasciamo nei nostri cuori. Ci ricordano la
possibilità di vivere in modo intenzionale. Intenzioni di gentilezza, di gioia, di
compassione ed equanimità scrivono una storia di vitalità, scrivono una storia
di connessione, scrivono una storia di sentirsi adeguati.

Durante questo ultimo anno di lockdown mio nipote di cinque anni ha


vissuto con me e il resto della mia famiglia. Ogni giorno nel primo periodo
uscivamo per il nostro consueto esercizio fisico e non potendo andare molto
lontano andavamo a piedi nel campo vicino a dove viviamo. Un giorno Oscar,
mio nipote, mi ha detto: "Nonna, facciamo la stessa cosa ogni giorno". Io ho
iniziato a scusami, a dire quanto fossi dispiaciuta per questo e lui mi ha detto:
“Ma nonna non mi sto lamentando, non mi dispiace fare la stessa cosa tutti i
giorni! Ho tutto quello di cui ho bisogno." Al sentirlo ho pensato che fosse una
riflessione davvero notevole dire "ho tutto quello di cui ho bisogno". Sono
sicura che ci sono molte cose che gli sarebbe piaciuto avere o che avrebbe
scelto di avere, ma sottostante a questo c'era il sentire "ho tutto ciò di cui ho
bisogno".

Vorrei trascorrere il resto del pomeriggio a riflettere su queste qualità di


gentilezza e gioia, compassione ed equanimità. Queste sono scelte che
possiamo fare. Sono spesso indicate come Brahmavihàrà e vihàrà deriva
dalla lingua pali e significa dove vivi, il luogo in cui costruisci la tua dimora.
Ed è un incoraggiamento a costruire la nostra dimora nel nostro cuore, nella
gentilezza, nella compassione, nella gioia, nell'equanimità, nel bel mezzo di
quello che sta accadendo. È molto importante riconoscere che queste qualità
non sono stati emotivi, non sono emozioni, sono intenzioni, un modo
intenzionale di essere presenti. Il Buddha è stato un genio perché ci ha
insegnato a costruire su ciò che già sappiamo. Tutti noi abbiamo incontrato
momenti di gentilezza sentiti interiormente ed esteriormente. Tutti noi
abbiamo incontrato momenti di compassione e gioia percepiti interiormente
ed esteriormente. E a volte ci sorprendiamo trovando un certo senso di
equilibrio in mezzo al caos. Ciò che il Buddha suggerisce è che questi
momenti non rimangano occasionali o accidentali e ci insegna che queste
sono qualità che possiamo coltivare e all'interno delle quali costruire la nostra
dimora. Che non sono accidentali ma qualcosa su cui possiamo fare
affidamento. C'è un tono affettivo nella gentilezza, nella compassione e nella
gioia, ma questo cammino non è il tentativo di rincorrere o ricatturare quel
tono affettivo, ma imparare a sostenerne l'intenzione.

In realtà non devo provare gentilezza per agire o parlare con gentilezza.
Non devo provare compassione per poter aiutare un altro o per prendermi
cura di me stesso. Non devo provare gioia per fare spazio all'apprezzamento
e alla gratitudine. Stiamo imparando a orientare il cuore verso queste qualità.
Il Buddha descrive questo come il modo più nobile di essere in questo
mondo. Penso che una delle grandi arti della vita meditativa sia quella di
imparare a sostenere l'intenzione. Questa è anche la grande arte di una vita
piena di cuore.

Sappiamo tutti cosa significa iniziare la nostra giornata con l'intenzione di


essere gentili, di essere pazienti e poi incontriamo qualcuno che è irritante o
l'autobus è in ritardo e vediamo quell'intenzione volare via. Potremmo entrare
nella nostra vita con l'intenzione di essere consapevoli per scoprirci, solo
pochi istanti dopo, semplicemente persi in pensieri o preoccupazioni.
Potremmo ammirare l'ideale di essere sempre compassionevoli e trovarlo
possibile quando ci troviamo di fronte a un bambino sconvolto, ma accorgerci
di averlo già dimenticato quando ci troviamo di fronte a qualcuno di cui
abbiamo paura o col quale siamo arrabbiati.

Dedicandoci a coltivare queste qualità, ci dedichiamo davvero a vivere una


vita intenzionale piuttosto che una vita governata dall'abitudine e dalla
reattività. Iniziamo a renderci conto che proprio i momenti abitudinari della
nostra vita in cui siamo non consapevoli sono i momenti in cui soffriamo di
più. Scopriamo anche, tuttavia, che l'abitudine e la consapevolezza in realtà
non coesistono nello stesso momento. Non è possibile allacciarsi le stringhe
delle scarpe in modo abitudinario e consapevole al tempo stesso. Non è
nemmeno possibile coltivare avversione e gentilezza al tempo stesso.

E impariamo che il nostro mondo prende forma da ciò che coltiviamo, da


ciò che facciamo, e stiamo sempre facendo qualcosa, consapevolmente o
inconsapevolmente, intenzionalmente o meno. E qualunque cosa coltiviamo
con questa inclinazione della mente diamo forma al nostro mondo.

Voglio leggervi alcune righe tratte da Goethe:

Sono giunto alla conclusione spaventosa che sono l'elemento decisivo. È il


mio approccio personale che crea il contesto, è il mio umore quotidiano che
determina che tempo fa. Posseggo l’enorme potere di rendere la vita
deprimente o gioiosa. Posso essere uno strumento di tortura o uno
strumento di ispirazione. Posso umiliare o divertire, ferire o guarire. In tutte
le situazioni, è la mia risposta che decide se una crisi si inasprirà o ridurrà, e
se una persona viene resa più umana o de-umanizzata.
SECONDA PARTE DELL’INCONTRO

Penso che in mezzo a condizioni e circostanze molto difficili, la gioia sia


una delle prime qualità del cuore a scomparire. Eppure sono proprio questi i
tempi in cui è più importante fare spazio alla gioia. La nostra capacità di
affrontare ciò che è difficile e doloroso viene davvero meno quando manca
la gioia. È la gioia che realmente nutre la compassione, che ci nutre e ci
rinnova interiormente. A volte le persone hanno problemi con la gioia,
sentono di non meritarla o la ritengono superficiale. Potrebbero sentire che
non meritano di essere gioiosi quando c'è così tanta sofferenza intorno. In
una certa misura ci è stato insegnato che c'è qualcosa di più nobile nella
sofferenza che nella gioia.

Durante l'ultimo anno ho lavorato con un certo numero di persone che sono
in prima linea nell'ambito del Covid, che operano in ospedali, scuole o case
di riposo, che parlano della loro stanchezza e, a volte, anche
dell'esaurimento della loro compassione. E non sempre ci viene naturale
pensare che sono proprio questi i momenti in cui abbiamo bisogno di fare più
spazio alla gioia.

Il Buddha parla della gioia in due modi, parla di gioia sensoriale e non
sensoriale. Più ci sentiamo stanchi o angosciati e più è importante in questi
momenti lasciare spazio alla gioia. Potremmo ritrovarla nell'apprezzamento
tramite i nostri sensi della natura, della musica, della letteratura, cercando
veramente ciò che rallegra il nostro cuore, perché dove c'è gioia c'è energia.
E potremmo imparare a celebrare le piccole cose, suscitando la gioia che
deriva dalla gratitudine.

Il Buddha parla anche di gioia non legata ai sensi, generata interiormente,


la gioia che nasce da un cuore e da una mente raccolti. Il Buddha una volta
disse: "Non conosco nulla che possa fare più danno di una mente non
coltivata. Ma detto questo, non riesco a pensare a nulla che sia un amico più
grande di una mente ben coltivata." Ha anche detto che una mente
disciplinata è la fonte della vera gioia. Non la disciplina fatta di forzature e
tensioni, ma la disciplina che nasce dal profondo apprezzamento della quiete
e del raccoglimento.

In una recente ricerca nell'ambito delle neuroscienze si è scoperto che le


persone mediamente trascorrono il 50% del tempo in cui sono sveglie con
una mente che divaga. È stato anche scoperto che la mente che divaga ha
come un sapore, un sentore di infelicità. Quindi è un grande gesto di
compassione verso noi stessi imparare a coltivare questo senso di
unificazione, di integrazione, l'unificazione di corpo, mente, e momento
presente. Perché è allora che siamo più pienamente vivi e la mente è più
incline alla gioia. Uno degli insegnamenti più preziosi del Buddha è quando
dice: "Ciò a cui pensiamo e su cui ci soffermiamo spesso, questa diventa
l'inclinazione della mente".

Significa che quello che pensiamo e su cui ci soffermiamo continuamente


diventa la forma della nostra mente. E la forma della nostra mente diventa la
forma del nostro mondo. Se pratichiamo l'ansia e l'avversione, queste di fatto
aumenteranno. Se pratichiamo e ci soffermiamo spesso su gentilezza, gioia,
compassione, equanimità, allora saranno queste qualità salutari che si
approfondiranno.

E vorrei riflettere ancora un po' su queste quattro qualità e su come il


Buddha ne abbia parlato in termini di virtù affermando che sono le basi di
relazioni, di comunità e società sane. Sappiamo bene come appaiono le
nostre relazioni, le nostre comunità e società in assenza di queste qualità. Il
Buddha le definisce semi di potenzialità all'interno dei cuori e delle menti di
ciascuno di noi, che significa che tutti siamo capaci di una profonda
gentilezza, gioia, compassione ed equanimità. Il Buddha insegna anche
come sia possibile ottenere la liberazione attraverso una completa
realizzazione delle quattro Dimore Divine. Le descrive anche come cammini,
e sono cammini di risveglio. Come ho accennato in precedenza non sono
emozioni o conquiste meditative, ma pratiche di intuizione profonda. Sono
qualità dedite a porre fine all'avidità, all'odio e alla confusione intessute l'una
con l'altra.

Un grande maestro del passato una volta disse: "Dal terreno della
gentilezza fiorisce splendida la compassione bagnata dalle lacrime della
gioia e al riparo nell'ombra fresca dell'albero dell'equanimità". Riflettiamo su
questa qualità della gentilezza. In lingua pali è “mettà” e ha la sua radice nella
parola essere amico di o fare amicizia con. Qual è il cammino che
percorriamo quando la gentilezza non è presente? Forse quello
dell'avversione, della malevolenza? Nella psicologia buddhista l'avversione
ha le sue radici nella paura, paura di essere feriti, paura che ci facciano del
male.

L'avversione è una famiglia molto estesa: impazienza, frustrazione,


giudizio, colpa, tutti modi per disconnetterci da ciò che è, tutti modi per
respingere il momento presente. E l'avversione non si rivolge solo verso le
persone. L'avversione sorge in tutti quei momenti e situazioni problematici
della nostra vita che troviamo difficili da sopportare o con cui facciamo fatica
a stare. L'avversione è spesso rivolta contro noi stessi sotto forma di auto-
accusa, vergogna e giudizio.

E probabilmente avrete notato quanto sia contagiosa, com'è facile praticare


l'avversione collettiva e come si possa provare anche avversione per
l'avversione stessa. Soprattutto i praticanti si rimproverano di essere così
avversatori: "Se fossi un meditante migliore non sarei così avversatore o così
impaziente!".

Allora quando coltiviamo la mettà, quando coltiviamo questa qualità di


gentilezza amorevole? In tutti quei momenti nei quali sorge l'avversione.
Quindi gentilezza nel bel mezzo di questo, pazienza nel bel mezzo di
quest'altro, generosità in un momento difficile, scegliendo in ciascuna
occasione dove intendiamo dimorare. Nelle qualità che minano il nostro
benessere? O nelle qualità che sono salutari per noi stessi e per gli altri?
Nessun momento di avversione è troppo piccolo per essere ignorato.

Tutti quei piccoli lampi di avversione, impazienza o giudizio, sono le basi


dei momenti di ostilità più considerevoli. Quando pensiamo al fattore di
comprensione profonda della gioia, si tratta davvero di iniziare a sradicare
questa costante fame di volere, questa ricerca della felicità all'esterno di noi,
questa indagine continua al di fuori di noi di ciò che non ci sentiamo in grado
di offrire a noi stessi. Non possiamo costringerci alla gioia, ma le possiamo
fare spazio e attraverso l'apprezzamento senza riserve e la sensibilità iniziare
ad orientare il cuore verso la gioia.

La gioia è ciò che pone fine alla mente che fa paragoni, quando guardiamo
le altre persone con invidia sentendo che sono così più perfette di noi o le
loro vite più perfette delle nostre. Perché stiamo davvero iniziando a vedere
come questa brama, e la mente che paragona, siano radicate nella
percezione di un deficit interiore. Un convincimento per il quale io, in un certo
senso, non sono abbastanza bravo o abbastanza capace, che ci porta a
essere quasi costantemente nella condizione di negare noi stessi. La gioia
comincia a favorire un senso di autosufficienza, un sentire che “ciò che è
presente ora è sufficiente”.

C'è un meraviglioso detto di una delle tradizioni cinesi: "Se mantieni vivo
nel tuo cuore un ramo verde, l'uccello che canta verrà". E il ramo verde è la
nostra capacità di essere consapevoli, sensibili, di essere presenti per poter
toccare il mondo con gentilezza ed essere toccati da ciò che è bello. Come
esseri umani, abbiamo dei circuiti neuronali nei nostri cervelli che lì
predispongono a deviare l'attenzione verso ciò che è negativo. La nostra
attenzione è attirata molto più facilmente da ciò che è sbagliato piuttosto che
da ciò che è buono. La nostra attenzione tende ad evidenziare ciò che è
danneggiato anziché ciò che può essere apprezzato. E sia la coltivazione
della consapevolezza che della gioia hanno molto a che fare con l'iniziare a
modificare questa deviazione dell'attenzione.

Ciò non significa negare ciò che è danneggiato o ciò che è imperfetto, ma
iniziare a vedere la coesistenza di gioia e dolore, di gradevole e sgradevole,
invece di provare contrazione per ciò che è danneggiato. Possiamo scoprire
una contentezza e un benessere interiori, una spaziosità e una connessione
interiori dove la brama non sorge.

Quando pensiamo alla comprensione profonda della compassione, questa


è connessa alla nostra relazione con dukkha. Se temiamo o rifiutiamo
dukkha, allora probabilmente vivremo una vita piuttosto agitata e piena di
paura, piena di sforzi per evitare il dolore e sforzi per riorganizzare il mondo
delle condizioni in modo da massimizzare il piacevole e minimizzare lo
spiacevole. E se temiamo dukkha, è probabile che formiamo immagini di noi
stessi nelle quali ci consideriamo incapaci di affrontare la vita. Se invece
abbiamo imparato ad abbracciare e a capire dukkha, allora quelle ondate di
agitazione e ansia si calmeranno, svilupperemo fiducia interiore e, come ha
detto il Buddha, potremo "guardare la vita negli occhi senza paura".

Se consideriamo la qualità intuitiva dell'equanimità, la parola in pali


“upekkha” si traduce come "stare in mezzo a". È qui che già ci troviamo, non
abbiamo scelta, ma si tratta di stare in mezzo a tutte le cose con equilibrio,
padronanza di sé e raccoglimento, riconoscendo che le condizioni della
nostra vita possono essere davvero molto difficili, ma ciò che veramente ci
fa perdere l'equilibrio è la nostra reazione a quelle condizioni. Ci viene
chiesto di stare ben saldi nel mezzo di tutte quelle condizioni: alla lode e al
biasimo, al gioco e alla perdita, al piacere e al dolore, alle nostre relazioni
con gli altri, quelli che amiamo, quelli con cui abbiamo dei problemi, quelli
che non conosciamo. L'equanimità non si lascia mai alle spalle la gentilezza
e la compassione ma ci fa stare in mezzo a tutto ciò che c'è con cura ed
equilibrio, raffreddando i fuochi del volere e del non volere, dell'avidità e
dell'odio. E ricordando sempre a noi stessi che, come disse il Buddha, “ciò a
cui pensiamo continuamente e su cui ci soffermiamo frequentemente, questo
diventerà l'inclinazione della nostra mente".
È così importante per noi di questi tempi sapere dove rivolgerci per trovare
rifugio, sapere quali sono i nostri amici e alleati in questo cammino e coltivare
dei momenti di pausa in cui possiamo scegliere che cosa nutrire momento
per momento. Abbiamo davvero bisogno di questi alleati e di queste scelte.

So che in molte parti d’Italia da lunedì ritornerete in un lockdown più severo


e il mio cuore è davvero con voi. Noi qui in Inghilterra non siamo ancora usciti
dal lockdown e penso che non ne usciremo per un lungo periodo. Per questo
motivo è ancora più importante per tutti noi avere a cuore il nostro benessere
per poterci così prendere cura anche degli altri.

Scopriamo di avere la capacità di guardare dukkha negli occhi senza paura


e grazie ad essa possiamo trovare dentro di noi gentilezza, gioia,
compassione ed equanimità, le Dimore Divine che sono forse per noi ora la
casa più sicura in cui rifugiarci.

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