Sei sulla pagina 1di 5

6 agosto 2014

Il tempo promette bene in questa mattina di inizio agosto di una estate che stenta ad affacciarsi.
Sono i primi giorni di vacanza e forse posso dar corso al desiderio di una bella camminata, troppo
spesso frustrato, negli ultimi fine settimana, dal brutto tempo che ha imperversato.
Niente di straordinario, una escursione solitaria sul lago, quel lago di Como così familiare eppure
sempre capace di sorprendermi, con uno scorcio, un colore, un angolo o un viottolo ancora da
scoprire. Ho semplicemente voglia di starmene un po’ sola con me stessa e provare a raccogliere i
miei pensieri, quei pensieri che non ti lasciano mai e di cui non riesci a trovare il bandolo… vorrei
provare a fare il punto, capire qualcosa in più di me, provare a dare un senso alle cose che faccio.
C’è anche la voglia di mettermi alla prova, di fare da sola quel percorso che avevo scelto tra i tanti
nel mio peregrinare virtuale (e chi vive più senza Google!). E poi si dice che la fatica fisica lenisca il
dolore del cuore e dello spirito …
Ho con me la mappa e la descrizione dell’itinerario che mi sono diligentemente stampata a scanso
di sorprese, non si sa mai … sarà la mia attitudine indefessa ad organizzare e programmare, ad
avere tutto sotto controllo senza lasciare nulla al caso e all’improvvisazione. Forse è solo la mia
insicurezza, perché in fondo non mi fido poi così tanto di me stessa.

La mattinata non è cominciata benissimo a causa della mia inguaribile distrazione ….. e la fuel card
dove caspita sarà finita?? E’ la stessa distrazione che mi ha costretta, una volta parcheggiata
l’auto ad Argegno, a tornare per ben due volte sui miei passi, per recuperare prima la mappa e poi
la macchina fotografica, entrambe tranquillamente dimenticate sul sedile posteriore.
Finalmente posso prendere la funivia per Pigra che, neanche a dirlo funziona (pare sia una specie
di miracolo, stando ai racconti di Carmen e di Don Maurilio … a Pigra c’è la ex casa vacanza
dell’oratorio). La salita è breve e lo spettacolo del lago lì sotto che via via si allontana, con tutte le
sue sfumature dal blu al verde a seconda della luce solare e delle montagne che vi si riflettono,
riempie gli occhi e anche il cuore.
Una volta giunta al capolinea, non soddisfatta ancora delle informazioni stampate, chiedo qualche
delucidazione agli addetti alla funivia. Sì il percorso è quello indicato, non è molto noto ma esiste e
non è difficile, però insomma non è uno scherzo e richiede buone gambe. Mi hanno anche
suggerito delle escursioni alternative, più brevi e alla portata di tutti. Ma ormai ho deciso e voglio
proprio provarci

.
Mi incamminai, lasciandomi ben presto alle spalle le ultime case dell’abitato di Pigra. C’era un
cartello che indicava la direzione Corniga (è una località che si trova lungo il tragitto, che non
avevo mai sentito nominare). Beh, allora se ci sono anche le indicazioni, il sentiero non è poi così
sconosciuto… Più che un sentiero si trattava di una carrareccia che si snodava fra i pendii erbosi,
piuttosto pianeggiante, mentre il lago era giù in basso alla mia destra.
Potevo camminare di buona lena e senza difficoltà: pensavo che sarebbe stato un gioco da ragazzi
arrivare a Corniga e scendere poi a Colonno. Proseguendo, la carrareccia si infilava nel bosco e via
via andavo trovando i vari riferimenti indicati nella mappa: la segnaletica rosso-bianco-rossa del
sentiero, un guado, un mulino abbandonato, una cascatella… mi sentivo rinfrancata e incoraggiata
a proseguire. Il bosco qui non era fitto e la luce del sole filtrava facilmente, anche se le piante
ormai nascondevano del tutto la vista del lago.
Stavo cercando di individuare il punto descritto in cui la carrareccia diventa un sentiero vicino ad
una baita abbandonata, così diceva la guida. E infatti, poco dopo, la carrareccia si interrompeva
davanti ad un prato ampio, circondato da una staccionata di legno, il cammino interrotto da una
sbarra, pure essa di legno. A destra una costruzione mal messa, la famosa baita abbandonata
citata dalla guida. Qui avrebbe dovuto iniziare il sentiero per Corniga, stando alle istruzioni… ma
non capivo dove fosse il sentiero. Giravo attorno per individuare dove proseguire. L’unica
parvenza di sentiero era uno stretto camminamento che si infilava nel bosco, sulla mia sinistra. Mi
sono incamminata con qualche titubanza, lì il bosco era fittissimo e il sole non penetrava, mettevo
un piede avanti l’altro tanto era stretto il passaggio, facendo attenzione a non scivolare. La
scarpata alla mia destra era fitta boscaglia, non pericolosa, ma meglio evitare di finirci dentro ( ma
perché non mi sono comprata un bastone tipo Nord Walking alla Decathlon…).
Insomma ero molto concentrata e non molto serena, lì tutto mi sembrava un pochino inquietante
e per di più si era riaffacciato il mio terrore atavico per vipere e tutto quanto vi assomiglia.. ma di
solito stanno al sole e tra le pietre, qui solo umido e ombra, però non si sa mai … e allora ho
afferrato un ramo lungo e robusto per utilizzarlo come bastone e lo piantavo bene avanti a me
prima di ogni passo, come mi aveva insegnato il nonno nei nostri giri per i boschi di Appiano, tanti
ma tanti tanti anni fa … visto che già allora ero fifona e terrorizzata dalle vipere (pensare che non
ne ho mai vista una, se non un esemplare ben conservato sotto vetro e alcool in un rifugio al Passo
Sella).
Le mie istruzioni descrivevano un guado a valle di una stretta gola e, infatti, arrivai ad un torrente,
ma di guadi (che poi cosa si intendeva per guadi) neanche l’ombra.
A sinistra il torrente scendeva dalla montagna ripido e precipitoso formando una piccola cascata
che, in prossimità del sentiero, rallentava formando varie pozze tra i massi e poi proseguiva
gettandosi nella scarpata alla mia destra.
L’attraversamento sarebbe stato certamente possibile: si sarebbe trattato di trovare appoggio sui
massi più stabili ma resi scivolosi dall’acqua, magari puntandosi anche con le mani per trovare il
giusto equilibrio… gli scarponi erano adatti, non si sarebbero bagnati più di tanto.
Prima di cimentarmi, continuavo a fissare la boscaglia oltre il torrente per capire quale direzione
prendesse il sentiero, ma niente, non riuscivo a vedere altro che alberi fitti.
All’improvviso un pensiero mi balenò: dove erano finiti i segnali rosso-bianco-rossi?? Mi resi conto
che da un po’ non li vedevo o ero io a non averli notati impegnata come ero con in testa le vipere?
Il senso di sfida e la spavalderia della mattina si stavano rapidamente dileguando, ero sola, insicura
e un po’ impaurita. Mi chiedevo cosa fosse sensato fare, mi seccava ammettere di non avere
coraggio a sufficienza per proseguire, ma al tempo stesso mi sembrava una vera e propria
sciocchezza, un rischio inutile insomma. E così sono tornata sui miei passi, con la coda tra le
gambe… avrei fatto un giro per Pigra e dintorni, avrei potuto scendere a piedi ad Argegno.
Ho ripercorso velocemente il tratto fino alla radura e, prima di incamminarmi di nuovo per la
carrareccia, l’istinto mi condusse oltre la staccionata, oltre la sbarra… volevo dare un’occhiata al
prato, guardarmi intorno; aggirandomi per il prato soleggiato, all’improvviso, davanti a me è
comparso il sentiero, quello vero, largo ed invitante.
Ma come avevo fatto a non vederlo prima? Sarebbe bastato soffermarmi e osservare intorno,
proprio come avevo appena fatto. Mi ero fatta intrappolare dai miei schemi mentali: sbarra uguale
divieto, non si passa.
Poteva sì essere un divieto, ma solo per i mezzi agricoli, dato che lì terminava la carrareccia!
Davvero i nostri occhi vedono solo ciò che vogliono vedere, o forse non sono gli occhi, bensì gli
occhiali che indossiamo ogni giorno, forse per abitudine e forse per paura di ciò che potremmo
vedere senza di essi. Magari sono occhiali adatti a certe situazioni, per vedere solo da vicino o solo
da lontano, ma ci siamo abituati così tanto che ci sembra di non poterne fare a meno, neanche ci
accorgiamo più di portali.

Mi sono trovata a pensare che i miei occhiali sono quelli del dolore, quel dolore che ti fa vedere
tutto un po’ sfocato, anche i colori più vividi diventano tenui color pastello. La vista è confusa: mi
guardo indietro e trovo il dolore dovuto al ricordo, inaccettabile, delle sofferenze patite da chi mi
era più caro anche della mia stessa vita; provo a guardare avanti, e trovo il dolore causato dalla
sua assenza, nelle piccole e grandi cose di tutti i giorni, dalla consapevolezza che sarà così sempre.
Se guardo ancora oltre vedo solo solitudine e la cosa non mi piace per niente.
Qualche ora di serenità grazie alle poche e preziose persone amiche sono il mio vero e unico
sollievo, forse perché loro capiscono cosa vedo attraverso quegli occhiali e hanno la pazienza di
sopportarmi.
Ma ancora non basta, vorrei di più, anche se non so bene cosa.
E’ incredibile che un banale errore di orientamento avesse scatenato tutto questo… non so per
quanto tempo rimasi seduta in quel prato immersa in questi pensieri … poi, finalmente, mi forzai a
darmi una mossa e ripresi il cammino.
Da lì tutto divenne semplice: poco oltre c’era il guado, che poi era un robusto ponte di legno
gettato da un versante all’altro, sovrastando il torrente; la boscaglia era meno fitta ed il sentiero
era costeggiato da un muro a secco, in saliscendi.
Ed ecco, non so quanto tempo dopo, finalmente, comparire i tetti in pietra dell’abitato di Corniga.
Sul muro di una baita ridente e fiorita un simpatico cartello accoglie il passante Benvenuti a
Corniga. Ed effettivamente, entrando in questo piccolo borgo, si ha la sensazione di essere un in
luogo magico: solo poche baite in pietra, una chiesetta del ‘600 intitolata a S.Anna, fiori, il verde
dei prati, il blu del cielo, le infine sfumature verde-blu del lago ancora lontano.
Un pacioso omone sdraiato sul sagrato della chiesa mi indicò dove proseguiva la discesa verso
Colonno, una discesa ripida, che invitava quasi a correre; ma mi forzai a rallentare il passo, per
evitare di insaccarmi… la strada era ancora lunga ma resa gradevole dalla superba vista sull’isola
Comacina, il promontorio del Balbianello, Lenno, Tremezzo…, la punta di Bellagio con il San
Primo… riuscivo a scorgere anche Varenna, sulla sponda di Lecco, e sopra l’imponente Grignone.
Anche il mio umore era mutato, mi sentivo un poco rasserenata e appagata dalla bellezza da cui
ero circondata.

A Colonno decisi di fare una pausa per cui, lasciato il centro storico del paesino, attraversai la
statale per scendere finalmente in riva al lago. Era l’una passata e non c’era anima viva, così ho
potuto rilassarmi e riposare al sole su una delle tante panchine deserte prima di decidermi a
riprendere la via per Argegno.
Percorsi i pochi chilometri sulla via Regina con le ali ai piedi, rasente il guard rail, dato che non
esistono marciapiedi su quel tratto ed il traffico era piuttosto intenso…

Decisi di fermarmi: era ancora presto e volevo godermi la bella – quanto rara – giornata di sole.
Mi sarei seduta su una panchina al sole, in riva al lago, fin quando ne avessi avuto abbastanza. Ma
ero anche un po’ stanca e assetata – la scorta d’acqua ormai esaurita -, così feci una cosa che
solitamente odio fare e cioè sedermi in un bar da sola. Credo fosse la prima volta.
Scelsi un piccolo bar in stile liberty proprio affacciato sul lago: c’erano pochi turisti e sembrava un
angolino tranquillo. Mi concessi anche il lusso di un piatto pomodoro e mozzarella.
Ero rilassata e anche contenta di essere riuscita, alla fine, a compiere l’itinerario che mi ero
prefissata. Guardavo il lago, reso movimentato dai battelli e dai motoscafi, gli uccelli che vi
volavano sopra (non so quali, non sono molto ferrata in flora e fauna), ma all’improvviso lo
sguardo cadde sulla sedia di fianco alla mia, ovviamente vuota, e non ho potuto non pensare che
quello era il posto lasciato vuoto da Dario: avrei voluto averlo lì con me e continuavo a non
accettare il fatto che non sarebbe mai più stato possibile.
Le lacrime mi riempirono gli occhi ma le dovetti trattenere con gran sforzo: intorno c’era gente e
non era il caso di dare spettacolo.

Potrebbero piacerti anche