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PRESENTAZIONE

Da ormai più di vent’anni Giorgio Nardone ha sviluppato con successo


alcune modalità d’intervento basate sul modello di Problem Solving
strategico, la cui applicazione va dalla psicoterapia, nel trattamento di gravi
patologie come i disturbi alimentari, le fobie e gli attacchi di panico, al
coaching individuale e alla consulenza aziendale, scolastica e sportiva.
Questo testo descrive sinteticamente gli strumenti di cui ci si dovrebbe
dotare per padroneggiare la «tecnologia» del Problem Solving, sintesi di
conoscenza e arte pratica, di teoria e ricerca empirica.
Definire il problema, individuare le «tentate soluzioni disfunzionali»,
introdurre il cambiamento sono i capisaldi di un approccio che punta tutto
sull’efficacia e sul conseguimento degli obiettivi. In un’ottica strategica,
non si conosce più per cambiare, ma si cambia per conoscere: il ricorso a
una logica non ordinaria, basata sulla suggestione di stratagemmi antichi e
insieme modernissimi, scuote le nostre convinzioni razionali e offre
soluzioni inaspettatamente semplici a problemi di natura disparata. Per
questo Nardone non si rivolge solo agli psicoterapeuti e ai manager, ma al
problem solver che c’è in ognuno di noi: queste pagine vogliono insegnarci
a «essere davvero artefici e non vittime del nostro destino».

Giorgio Nardone, fondatore, insieme a Paul Watzlawick del Centro di


Terapia Strategica, è considerato l’esponente di maggior spicco della Scuola
di Palo Alto, conosciuto tanto per la sua creatività quanto per il suo rigore
metodologico, che gli ha permesso di inventare decine di tecniche
innovative e protocolli specifici di trattamento attraverso i quali è giunto a
finalizzare due suoi personali Modelli di intervento. La Terapia Breve
Strategica©, per il trattamento di gravi patologie psichiche e
comportamentali; il Problem Solving & Coaching Strategico©, che si
distingue per la sua capacità di effettivo intervento ove la razionalità e le
tecniche ordinarie non funzionano nella soluzione di problemi manageriali,
aziendali o di performance sportiva.
Autore di numerose opere tradotte in molte lingue straniere, dirige per
Ponte alle Grazie la collana dei saggi di Terapia in tempi brevi. Tra i suoi
libri: Cavalcare la propria tigre; L’arte del cambiamento; Paura, panico e
fobie; Correggimi se sbaglio; Il dialogo strategico; Solcare il mare
all’insaputa del cielo; Gli errori delle donne; Cambiare occhi toccare il
cuore; Cogito ergo soffro.
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di Adriano Salani Editore s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Grafica: GrafCo3

© 2009 Adriano Salani Editore – Milano


ISBN 978-88-6220-909-0

Prima edizione digitale 2013


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Capitolo 1

SE C’È UN PROBLEMA
C’È ANCHE LA SUA SOLUZIONE

Si narra che Alessandro Magno, durante la sua epopea verso oriente, si


trovò di fronte a una fortezza inespugnabile sulle montagne dell’attuale
Pakistan. Questo appariva anche al primo colpo d’occhio un ostacolo
insormontabile: la roccaforte, situata a un’altezza di oltre 2000 metri, era
incastonata tra due picchi ancora più alti con lisce pareti inarrampicabili.
L’unica via d’accesso era un sentiero stretto e impervio che attraversava la
gola tra le montagne sino all’ingresso della rocca.
Alessandro si rese conto dell’estrema difficoltà dell’impresa e anziché
sferrare un attacco o predisporre un assedio, si accampò con il suo esercito
e convocò una riunione con i suoi generali e i suoi numerosi consiglieri. Il
lettore deve sapere che il grande condottiero aveva al suo seguito non solo
militari ma anche sapienti, ingegneri, scienziati e il suo maestro di retorica.
Insieme a loro analizzò il problema alla ricerca della soluzione migliore.
Ben presto, quello che io definirei oggi il team di Problem Solving
Strategico giunse alla conclusione che l’unico modo per espugnare la
roccaforte fosse attaccarla dall’alto poiché ogni assalto dal basso risultava
essere una sconfitta pianificata. In seguito a tale riflessione, l’attenzione fu
spostata dal come assaltare al come raggiungere le vette che spiccavano al
di sopra della fortificazione. Il problema era come scalare pareti verticali,
lisce come ghiaccio. Si racconta che, immaginando come realizzare ciò, il
team giunse a pensare che sarebbe stato necessario costruire una serie di
appigli progressivi sui quali arrampicarsi. A questo punto Alessandro ebbe
la geniale idea di prendere i pioli, utilizzati per piantare e fissare le tende, e
piantarli sulla parete in successione, costruendo così una serie di appigli per
l’arrampicata. Non solo, essendo i pioli forgiati con un anello, questo
sarebbe servito per farvi passare una fune e rendere così facile e sicura
l’arrampicata. Coloro che sarebbero saliti prima avrebbero fissato delle funi
per issarsi e poi essere saldamente assicurati ai pioli conficcati nella roccia.
Insomma, Alessandro e il suo team strategico inventarono la scalata in
cordata, che tuttora viene utilizzata dagli alpinisti per scalare anche pareti
all’apparenza impossibili.
Grazie a tale invenzione Alessandro fece giungere, su una delle vette
sopra la roccaforte, un gruppo dei suoi migliori soldati. Dopodiché chiamò
il reggente e lo invitò a voltarsi in alto, mentre nel frattempo i suoi
scagliavano una serie di frecce che uccisero le sue guardie.
Questi, stupefatto, si arrese e consegnò le chiavi della roccaforte ad
Alessandro dichiarando che solo un essere superiore avrebbe potuto far
salire i suoi soldati lassù e che egli mai avrebbe potuto combattere contro
un dio.
Così ancora una volta Alessandro riuscì a vincere una battaglia senza
combatterla, costringendo, grazie alla sua «magica» dimostrazione di
impareggiabile potere, l’avversario alla resa.
Questo rappresenta uno straordinario esempio di Problem Solving
Strategico, ovvero l’arte di trovare soluzioni a problemi irrisolvibili
mediante una logica ordinaria, ricorrendo a espedienti che violano il
buonsenso e che offrono possibilità prima inaccessibili poiché ingabbiate
entro rigidi schemi.
In particolare, Alessandro e i suoi straordinari consiglieri, di fronte a un
problema apparentemente insolubile, hanno prima ridefinito le
caratteristiche della situazione e poi hanno individuato tutti i modi
fallimentari per affrontare l’impresa escludendone così l’applicazione. Sulla
base dell’obiettivo da raggiungere, poi, hanno immaginato quale sarebbe
stato lo scenario ideale all’interno del quale il successo sarebbe stato
garantito. Questo procedimento li ha condotti a spostare l’attenzione dalla
conquista della roccaforte alla conquista della vetta che avrebbe poi
condotto alla conquista finale. Una volta concentrati sul come scalare la
parete per giungere alla cima, di nuovo immaginando lo scenario ideale
hanno «inventato» il modo per costruire la scala che avevano immaginato.
Come il lettore può comprendere, il percorso dal problema alla sua
soluzione è stato una sequenza di fasi analitiche e creative all’interno di un
percorso logico che, partendo dall’obiettivo da raggiungere, ha condotto a
ritroso al punto di partenza, in modo tale da frazionare il problema in
diverse sottoclassi, cercando per ognuna di queste la sua soluzione, e finché
la somma delle sottoclassi conducesse alla soluzione totale.
Questo è il fondamento della logica strategica, ovvero di quella branca
della logica formale che si occupa di mettere a punto modelli di intervento
basati sull’obiettivo da raggiungere, adattando la soluzione alle
caratteristiche del problema anziché predisporle sulla base delle teorie
relative alla natura di quel dato fenomeno. Inoltre, come vedremo in
dettaglio, Alessandro e i suoi hanno utilizzato degli espedienti per liberare
la loro creatività senza perdere il rigore del ragionamento, espedienti che,
nei secoli successivi gli studiosi del settore hanno formalizzato come
tecniche di Problem Solving Strategico.
Lo splendido esempio tratto dalle imprese di Alessandro Magno, come
vedremo nelle pagine successive, non è semplicemente la dimostrazione di
un guizzo di genio, ma di una modalità di pensiero per fasi processuali che
conduce all’invenzione creativa.
Il Problem Solving Strategico si distingue proprio per il suo costante
ricorso a stratagemmi di logica non ordinaria da utilizzare sia a livello di
pianificazione che di intervento diretto nelle situazioni da cambiare.
In letteratura si possono trovare differenti modelli di Problem Solving.
Qui tratteremo un modello che è stato formulato in maniera originale presso
il Centro di Terapia Strategica di Arezzo e che rappresenta la moderna
evoluzione della tradizione della Scuola di Palo Alto. Il modello si può
applicare per definizione a qualunque tipologia di problema e ad ambiti
decisamente diversi tra di loro, tra i quali persino quello della ricerca
empirica, che ha fornito il fondamento metodologico per la messa a punto
delle numerose forme specifiche di intervento terapeutico e di
comunicazione strategica sviluppate presso il Centro di Terapia Strategica e
applicate con successo a migliaia di casi clinici e a centinaia di problemi
manageriali.
Proprio per queste sue caratteristiche, che permettono di studiare le
difficoltà umane e persino le patologie come problemi a cui applicare
procedimenti logici rigorosi ma al tempo stesso, come vedremo,
decisamente creativi, il modello che viene presentato in questo agevole
testo è divenuto da anni il riferimento teorico e applicativo per studiosi,
psicoterapeuti e manager di tutto il mondo.
Capitolo 2

CHE COS’È IL PROBLEM SOLVING

Il famoso epistemologo Karl Popper (1972) indicava che il processo della


ricerca scientifica e le fasi che conducono alle scoperte sono le seguenti:

– si inciampa su un problema;
– si studiano tutti i tentativi messi in atto come soluzioni;
– si cercano soluzioni alternative;
– le si applicano;
– si misurano gli effetti;
– si aggiusta la strategia sino a renderla efficace.

Questo può essere considerato il fondamento di qualunque processo di


Problem Solving, pertanto esso altro non è che un metodo rigoroso per
trovare soluzioni a problemi secondo le fasi che si seguono all’interno dei
processi di ricerca scientifici. Tuttavia, mentre la scienza ha il compito di
dare spiegazioni ai fenomeni che studia, il Problem Solving rappresenta la
«tecnologia per trovare soluzioni», ovvero i metodi che permettono di
raggiungere gli obiettivi specifici di un progetto.
Pertanto, mentre la scienza deve indugiare sulla natura dei fenomeni e
sulla loro formazione in termini di causalità, casualità, necessità,
temporalità, ecc., con lo scopo di una descrizione esplicativa dei suoi
oggetti di studio, la tecnologia fornisce i mezzi per raggiungere scopi
specifici attraverso la messa a punto di procedure e tecniche che conducano
a superare le difficoltà che impediscono di ottenere tali obiettivi prefissati.
Il rapporto tra tecnologia e scienza è il medesimo di quello che intercorre
tra la filosofia e la logica. La prima si interessa del «sapere», la seconda del
«saper fare». La conoscenza logica e tecnologica si differenzia da quella
filosofica e scientifica in quanto saperi operativi e non speculativi. Difatti
per saper fare non è necessario sapere tutto, ma solo ciò che è
indispensabile al raggiungimento dello scopo.
È evidente che ci sia un costante rapporto di reciproca influenza tra i due
tipi di conoscenza, in quanto le scoperte tecnologiche fanno evolvere le
teorie scientifiche e queste a loro volta fanno incrementare le capacità
operative. Tuttavia, ciò che è importante evidenziare in questa sede è il fatto
che il Problem Solver, mentre si dedica a un progetto d’intervento, deve
deporre il «sapere» teorico/scientifico e utilizzare il «saper fare»
logico/tecnologico. Come Bertrand Russell ci insegna, per poter eseguire
procedure rigorose si devono tenere distinti i «livelli logici».

Grafico 1 Livelli logici nell’analisi di un fenomeno o di un problema

Questa distinzione è davvero importante poiché troppo spesso, di fronte a


un problema, si ha la tendenza a cercare la spiegazione piuttosto che la
soluzione. La trappola è che la soluzione non necessita prima della
spiegazione del problema, anzi sarà ciò che porterà al suo effettivo
svelamento, mentre le spiegazioni sprovviste di prova empirica sono
fuorvianti e basate sulla nostra conoscenza a priori.
Come ci indica Cioran: «Ogni problema profana un mistero ed è a sua
volta profanato dalla sua soluzione». In altri termini: sono le soluzioni che
spiegano i problemi e non viceversa.
Il fenomeno forse più sorprendente che deriva dall’assumere questa
prospettiva è rappresentato dal liberare la mente del Problem Solver dalle
gabbie del pensiero lineare causale, aprendogli prospettive prettamente
pragmatiche orientate alla soluzione nel presente piuttosto che alla
spiegazione nel passato. In altri termini, rilevare e studiare ciò che non ha
funzionato e continua a non dare risultati, così come ciò che ha funzionato e
potrebbe essere ancora efficace, fa sì che l’attenzione sia focalizzata sulle
presenti dinamiche di persistenza e cambiamento del problema, invece che
sulle cause passate della sua formazione.
Questo aspetto è davvero cruciale, poiché se alla conoscenza scientifica
può interessare come un fenomeno sia emerso ricostruendone i processi
causali, alla tecnologia interessa capire come un problema funzioni nel
presente. Difatti, se voglio introdurre un cambiamento risolutivo posso farlo
solo sulla presente dinamica di persistenza: nessuno può cambiare il
passato. Inoltre, spesso tra come il problema si è formato nel passato e
come si esprime nel presente ci sono enormi differenze. Pertanto, lo studio
delle cause passate è controproducente per la ricerca delle soluzioni ai
problemi presenti. Questa evidenza empirica è una delle forme di
conoscenza più difficili da far comprendere, in quanto siamo stati educati
dalla razionalità tradizionale dove la spiegazione causale rappresenta
l’Olimpo del sapere. Ma questo, di nuovo, è il sapere delle «spiegazioni»
filosofiche, non il «sapere operativo» delle «soluzioni» tecnologiche.
Il passaggio è dal sapere astratto al saper fare concreto, perciò
dall’analisi del «perché» ci si sposta alla valutazione del «come funziona»
la realtà che si vuole cambiare.
Un esempio illuminante a tal riguardo è rappresentato dal seguente
problema da risolvere. Si prenda una scacchiera che, come il lettore saprà, è
composta da 64 quadrati bianchi e neri alternati. Il problema è indovinare a
quale dei 64 quadrati io stia pensando in questo momento.

Figura 1
Trovare la risposta giusta sembra piuttosto complicato. In effetti lo è se si
utilizzano procedure di ragionamento lineari, ad esempio posso iniziare
l’indagine chiedendo quadrato dopo quadrato se è quello giusto. Così
facendo posso impiegare sino a 63 tentativi per arrivare a quello corretto, se
sono fortunato posso giungere prima alla soluzione, tuttavia non sarà certo
merito della mia strategia, ma del caso.
Questo è un esempio eclatante di come di fronte a particolari situazioni,
procedimenti logici di tipo tradizionale siano decisamente inefficaci. Ma il
lettore immagini di essere orientato a indagare, come purtroppo succede
troppo spesso rispetto alle patologie, sul perché e sulle cause. Seguendo tale
approccio dovrebbe domandare a colui che pensa al quadrato da indovinare
tutta una serie di questioni per risalire alle motivazioni della sua scelta. A
seconda delle prospettive teoriche adottate potrà voler risalire a un
complesso di Edipo se freudiano; a un trauma della nascita se junghiano; a
una modalità d’attaccamento disfunzionale se cognitivista; a un trauma
sessuale se di orientamento psicodinamico. Si tratta di una procedura
decisamente laboriosa e controproducente, in quanto sposta l’attenzione
sulle spiegazioni ipotetiche rispetto allo studio delle soluzioni che
funzionano.
In realtà, se si valuta «come funziona» il problema e quali sono le sue
caratteristiche geometriche, si giunge con facilità a scoprire che la
scacchiera è formata da 64 quadrati che formano un grande quadrato, il
quale può essere diviso in due rettangoli a loro volta divisibili in due
quadrati e che questa operazione può essere eseguita in progressione sino
all’ultimo quadrato.
Pertanto, si chieda all’interlocutore se il quadrato scelto sta nella metà
destra o nella metà sinistra della scacchiera. Dopo tale risposta avremo
ridotto le possibilità della metà. Pertanto, si procederà chiedendo se il
quadrato sta nella metà sopra o nella metà sotto della parte selezionata, e
così avremo ridotto le possibilità a un quarto. Si procederà chiedendo se il
quadrato sta nella metà sinistra o destra della parte della scacchiera rimasta,
e così avremo ridotto a 8 le possibilità. Rispetto alla parte rimanente,
chiederemo poi se il quadrato prescelto sta nella metà sopra o nella metà
sotto, e così siamo giunti a solo 4 possibilità. Si procede chiedendo ancora
se il quadrato prescelto sta nella metà destra o sinistra della scacchiera, e
così siamo giunti a sole 2 possibilità; infine si chiederà se il quadrato
prescelto è quello sopra o quello sotto.

Il risultato sarà che abbiamo ottenuto la risposta con solo 6 domande,


poiché abbiamo utilizzato uno stratagemma logico che a posteriori appare
decisamente semplice.
Un altro esempio illuminante di Problem Solving Strategico ci viene
ancora da una citazione storica.
«Durante il Medioevo, un maestro di arte della guerra cinese attraversò
in viaggio l’Europa; ospite di un principe si trovò ad assistere a un torneo
cavalleresco». Come il lettore saprà, a quel tempo i tornei cavallereschi nei
quali si scontravano i campioni di diversi regni e principati permettevano di
evitare le guerre, o di far decidere a chi dovesse andare in sposa la figlia del
regnante.
Prima dell’inizio degli scontri cavallereschi, il maestro chiese ai suoi
ospiti di chiarirgli il funzionamento del torneo e questi spiegarono che il
torneo si basava sullo scontro dei tre migliori campioni dei due principati
ovvero: prima si sarebbero scontrati i due primi cavalieri, poi i due secondi
cavalieri, infine i due terzi cavalieri. La squadra che totalizzava più vittorie
avrebbe vinto.
A questo punto, il maestro della guerra cinese chiese se poteva dare un
suggerimento e perciò propose al suo principe: «Fai combattere il tuo terzo
campione con il suo primo, il tuo primo con il suo secondo, il tuo secondo
con il suo terzo. Vincerai due volte su tre anche se avrai perso il primo
duello». E così fu.
Questo secondo esempio ci appare anche come un modo per introdurre
quello che cercheremo di spiegare nel corso del libro e che è l’anima del
Problem Solving Strategico, ovvero l’arte di utilizzare stratagemmi per
ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo.
Capitolo 3

COME FUNZIONA IL PROBLEM SOLVING STRATEGICO

Definire il problema

Il lettore prenda in considerazione un suo problema (non importa di quale


natura esso sia, poiché un modello effettivo di Problem Solving deve essere
applicabile a qualunque tipologia di ostacolo da superare) e ne definisca
nella maniera più descrittiva e concreta i termini. Che significa, in altre
parole, investire un tempo adeguato nell’analisi di che cosa è effettivamente
il problema, chi ne è coinvolto, dove esso si verifica, quando appare, come
funziona.
Definire concretamente il problema e le sue caratteristiche è infatti il
primo passo verso la soluzione. Ciò significa descrivere nella maniera più
empirica i termini della situazione problematica, sino a giungere ad averne
un’immagine concreta. Se si lavora in team, è importante giungere a un
accordo congiunto sulla definizione del problema e delle sue caratteristiche.
Se si lavora individualmente, è fondamentale cercare di vedere il problema
da tutte le prospettive che si riescono a immaginare prima di giungere a
definirlo. Oltre a questo, è particolarmente utile immaginare come
potrebbero percepire e valutare il problema diversamente da noi altre
persone che conosciamo bene. Questo ci può evitare di rimanere vittime dei
nostri preconcetti e dei nostri limiti percettivi. Altrimenti, se si ha troppa
fretta, il rischio è quello ben rappresentato dalla nota storiella dell’ubriaco.

Un uomo ubriaco, una sera, aveva perso la chiave di casa, e la stava cercando sotto un lampione,
senza trovarla. Continuò a insistere senza successo fino a quando un passante gentile, che si era
messo ad aiutarlo, gli chiese:
«Ma sei sicuro di averla persa proprio qui?»
«No» rispose lui, «ma là dove l’ho persa, è troppo buio per cercarla».
Molto spesso, infatti, gli esseri umani, anche i più intelligenti, cercando di
superare le loro difficoltà saltano questa fase poiché la ritengono ovvia. Ma
così non è, in quanto chi cerca la soluzione senza avere chiari i termini del
problema, di solito interpreta la situazione in base ai suoi preconcetti e alle
sue convinzioni, e sarà quindi indotto ad agire sotto la loro influenza. Di
conseguenza, la sua strategia sarà funzionale alle sue idee, piuttosto che al
problema.
Definire il problema ci inchioda a un procedimento rigoroso, che ci salva
dalla nefasta influenza delle nostre idee pregresse e delle nostre
interpretazioni fuorvianti.
Tutti noi abbiamo la tendenza a voler vedere nella realtà ciò che
conferma le nostre sensazioni e idee: è il principio fondamentale
dell’autoinganno, fenomeno per il quale l’individuo tende ad avvicinare la
realtà ai propri desideri e alle proprie convinzioni, piuttosto che analizzarla
in modo distaccato. Per questo motivo, come Ulisse si legò all’albero
maestro della sua nave per non essere inevitabilmente attratto dal richiamo
delle sirene, noi dobbiamo far sì che la nostra mente sia «costretta» a non
deragliare da un percorso rigoroso che, come vedremo, ci permette di non
cadere vittime dei nostri autoinganni e dei nostri pregiudizi ideologici e al
tempo stesso di orientare la nostra mente verso domini alternativi, dove la
nostra propensione possa essere utilizzata in modo costruttivo. Il lettore può
ben capire ora quanto sia importante spendere tutto il tempo necessario
nella prima, apparentemente preliminare, fase di Problem Solving
Strategico. Come diceva Napoleone: «Siccome ho molta fretta, vado molto
piano».
Lo studioso di Problem Solving e creatività Genrich Altschuller – che ha
analizzato i brevetti depositati nel corso di oltre cinquant’anni di scoperte
tecnologiche, nell’intento di svelare il processo creativo che conduce
all’invenzione di alternative a problemi irrisolti – indica il ridefinire
ripetutamente le caratteristiche del problema come la prima chiave per
giungere alla scoperta. Analizzare un problema cercando di guardarlo da
più prospettive, infatti, può indurre alla scoperta di aspetti sino ad allora
non considerati e aprire così lo scenario a nuove ipotesi di soluzione. Del
resto già William James sosteneva che «il genio altro non è che la capacità
di guardare la realtà da prospettive non ordinarie».
Si prenda ad esempio il caso del celebre matematico Carl Friedrich
Gauss: questi aveva dato prova del suo genio già alle scuole elementari. Si
racconta, infatti, che il suo maestro per tenere buoni i ragazzi della classe
assegnò loro il seguente compito: «Sommate uno a uno i numeri tra 1 e 100
e portatemi il risultato finale». Un compito decisamente laborioso per ogni
persona normale, ma non certo per il giovane Gauss il quale, utilizzando
intuitivamente quello che in matematica si chiama algoritmo, dopo meno di
un minuto portò al maestro la soluzione, ovvero 5050. Quando il maestro
gli chiese come avesse fatto, Gauss gli spiegò semplicemente che 1 più 100
fa 101 e che 2 più 99 fa 101, 3 più 98 faceva 101, pertanto egli ne aveva
dedotto che 50 per 101 faceva 5050.
Stafford Beer definisce questo procedimento come trovare il riduttore di
complessità di un problema complesso, per giungere alla soluzione
apparentemente più semplice. Come il lettore può ben intendere, questo è
stato il risultato del soffermarsi su un’attenta analisi del problema e del suo
funzionamento.
Spendere più tempo all’inizio fa guadagnare tempo ed energie in un
secondo momento. Come indica l’arte dello stratagemma: «Partire dopo per
arrivare prima».

Concordare l’obiettivo

Una volta definito il problema, si cerchi di descrivere quali sarebbero i


cambiamenti concreti che, una volta realizzati, farebbero affermare che esso
è stato risolto. Ovvero, definire l’obiettivo da raggiungere. Questo è il
secondo passo di un processo di Problem Solving Strategico.
Ancora una volta, chiarire con se stessi e con i propri clienti cosa
effettivamente rappresenti il cambiamento risolutivo rispetto al problema
presentato può apparire un passo ovvio su cui non vale la pena spendere
troppo tempo. Invece, questa fase svolge alcuni ruoli fondamentali
all’interno del Problem Solving Strategico. In primo luogo, concordare
quale sarebbe la realtà concreta che farebbe ritenere l’obiettivo raggiunto
permette di puntualizzare in maniera inequivocabile quale deve essere il
focus dell’intervento, tenendo sotto controllo le possibili evoluzioni
fuorvianti del processo di cambiamento. Anche in questo caso, infatti, gli
autoinganni interpretativi e ideologici vengono azzerati dalla concretezza
dell’obiettivo concordato, il quale viene chiarito nei suoi aspetti più reali.
L’esempio più illuminante al riguardo ci viene da una delle più famose
«cattedrali» della tecnologia: la NASA.
In seguito alla costruzione dei primi due space shuttle, i tecnici del
famoso centro aerospaziale si trovarono di fronte all’esigenza di proteggere
tali meraviglie dell’ingegneria dalle possibili intemperie climatiche. Sulla
base di questa esigenza progettarono e costruirono un hangar enorme, che
potesse accogliere anche i successivi shuttle costruiti. Purtroppo i tecnici,
fuorviati dai bisogni immediati, non considerarono un effetto paradossale
della loro strategia: dentro a un hangar così grande si veniva a riprodurre un
ecosistema molto simile, se non peggiore, di quello esterno, con scariche
elettriche come fulmini e temporali. Anche i progettisti migliori avevano
sottovalutato l’importanza del chiarire le caratteristiche dell’obiettivo da
raggiungere, prima di mettere in atto le strategie per risolvere un problema.
Quando si lavora con più persone, inoltre, il concordare l’obiettivo da
raggiungere svolge anche il ruolo di teaming, ovvero il creare un gruppo
allineato allo scopo da raggiungere, condizione primaria per far funzionare
bene un team di persone all’interno di un progetto. Se si lavora con una
singola persona, concordare attraverso il dialogo gli obiettivi e i
cambiamenti necessari a realizzarli ha anche l’effetto di sviluppare un forte
spirito di collaborazione e di coesione rispetto allo scopo desiderato. Questo
è un primo, importante passo per ridurre le eventuali resistenze al
cambiamento che il soggetto potrebbe mettere in atto, consciamente o
inconsciamente, se si sentisse diretto e non compartecipe della costruzione
delle soluzioni.
L’accordo sugli obiettivi da raggiungere non può quindi più apparire una
cosa ovvia su cui non perder tempo. Non dobbiamo mai dimenticare che le
evidenze vanno dimostrate, e l’ovvio spesso si nasconde. Come ci ribadisce
Leonardo, infatti, «nulla ci inganna di più dei nostri giudizi».

Valutare le tentate soluzioni

La terza fase, come ci indica Popper (e mi piace ricordare come prima di lui
fosse stata formulata da John Weakland e Paul Watzlawick, i miei maestri
del Mental Research Institute di Palo Alto, in California, quale costrutto
fondamentale del loro modello di intervento sui problemi umani), è
rappresentata dalla individuazione e valutazione di tutti i tentativi
fallimentari messi in atto per risolvere il problema in questione. Questa è la
fase cruciale per lo studio della soluzione, che parte non a caso dalla
valutazione di tutte le soluzioni tentate ma che non hanno avuto successo. Il
costrutto di tentata soluzione che non funziona, ma che se viene reiterata
tende a mantenere la persistenza del problema e a complicarne il
funzionamento, è stato a mio parere una delle intuizioni più geniali del
secolo scorso.
Prendiamo il caso di una persona che ha paura di parlare in pubblico: che
cos’è che mantiene e alimenta questa paura, se non il suo tentativo
fallimentare di combatterla? Di solito, infatti, chi ha questo tipo di timore
cerca di gestirlo mettendo in atto strategie che invece di ridurlo lo
alimentano: il soggetto cercherà per quanto possibile di evitare di esporsi in
pubblico, e quando non potrà farne a meno cercherà di controllare il più
possibile le proprie reazioni, concentrandosi su di esse. Purtroppo per lui,
con le migliori intenzioni produrrà gli effetti peggiori, in quanto il
comportamento evitante, se ci fa sentire in salvo ogni volta che si elude la
situazione temuta, al tempo stesso ci conferma nella convinzione di una
incapacità personale e farà aumentare via via la paura, fino a trasformarla in
vero e proprio panico. Il tentativo di controllo razionale delle proprie
reazioni in una situazione di paura, come ad esempio il cercare di essere più
calmi, di controllare il battito cardiaco, la respirazione e l’agitazione,
provoca un effetto paradossale, per cui più si cerca di essere calmi e più ci
si agita, più si cerca di assumere il controllo più lo si perde. Questo effetto
condurrà la persona a essere sempre più incapace di gestire le proprie
reazioni, fino a un nuovo vero e proprio attacco di panico.
Come il lettore può facilmente capire, sono proprio le tentate soluzioni
messe in atto dal soggetto ad alimentare il problema che questi vorrebbe
risolvere. Per questo motivo, la valutazione delle tentate soluzioni messe in
atto per superare la difficoltà presente fornisce l’accesso privilegiato alla
valutazione del funzionamento del problema, così come della sua possibile
soluzione.
Concentrare l’attenzione sui tentativi fallimentari messi in atto per
raggiungere l’obiettivo prefissato ci libera dalla tendenza, peraltro del tutto
umana, a sforzarsi attivamente di trovare soluzioni, senza aver prima
indagato su tutto ciò che non funziona. Investigare su tutto ciò che non ha
avuto successo ci permette di essere focalizzati sulla dinamica concreta che
mantiene un problema o che viceversa lo può cambiare.
A questo riguardo sono particolarmente illuminanti le novelle di
Leonardo da Vinci. Ritenute poco importanti rispetto ad altri scritti come i
famosi Codici, sono state sottovalutate, mentre il loro potere metaforico mi
sembra decisamente utile. Questi brevi racconti, infatti, indicano al lettore
come nell’osservazione della natura si rilevi frequentemente il fenomeno
della tentata soluzione che mantiene o peggiora il problema che dovrebbe
risolvere. Leonardo mette in guardia il genere umano, attraverso
rappresentazioni analogiche riprese dal comportamento animale e dal
compiersi dei fenomeni fisici, dal paradossale effetto di strategie di
soluzione messe a punto in maniera affrettata, senza considerare bene i
termini del problema e i possibili effetti a catena di ogni azione.

Per esempio:
Il falcone impaziente
Il falcone non potendo sopportare con pazienza il nascondere che fa l’anitra fuggendosele dinnansi
e entrando sotto acqua, volle come quella sotto acqua seguitare, e, bagnatosi le penne rimase in
essa acqua, e l’anitra, levatasi in aria, schernia il falcone che annegava.

O ancora, più tragicamente:

Il ragno
Il ragno credendo trovar requie nella buca della chiave, trova la morte.

Ed è davvero curioso come tutte le novelle leonardesche rappresentino


l’esito contrario e tragico di eventi costruiti dall’attore con l’intento
originale di trarre vantaggio dalle proprie azioni.
Dal mio punto di vista, il grande genio esprime in forma letteraria
l’importanza cruciale del metodo della valutazione degli effetti non
direttamente lineari, bensì circolari e retroattivi, di ogni azione rivolta a uno
scopo determinato. Potremmo dire, in altri termini, che occorre valutare se
la soluzione che sembra essere buona può trasformarsi poi nel suo
contrario.
Pertanto il lettore, rispetto al problema definito e all’obiettivo
concordato, rilevi e analizzi tutte le strategie sinora tentate, valutandone gli
effetti. Questo servirà a:

a) individuare cosa non fare, poiché non ha funzionato, e per converso a


orientare la nostra progettualità verso soluzioni alternative;
b) rilevare ciò che ha avuto successo.

Se si trovassero soluzioni che sono state efficaci, si dovrà valutare se esse


sono riproducibili nella presente situazione, perché ovviamente se così
fosse avremmo già trovato cosa fare per raggiungere il nostro obiettivo.
Purtroppo, come avremo modo di vedere in dettaglio, nella maggioranza dei
casi ciò che ha funzionato in passato per la stessa tipologia di problema
fallisce nel presente poiché tempi diversi richiedono differenti applicazioni
o varianti di una stessa soluzione. Comunque, quando si hanno a
disposizione esperienze pregresse di efficacia, il lavoro risulta decisamente
più facile di quando non se ne hanno e si deve letteralmente «inventare» la
soluzione. Tanto che la procedura di rilevare quali manovre abbiano avuto
successo e cercare di riadattarle alla presente situazione viene utilizzata
come primo passo in quasi tutti i modelli di Problem Solving. Tuttavia,
questo metodo non può essere applicato a problemi generati ex novo, dove
non esistono esperienze pregresse, così come esso calza poco alle situazioni
complesse con ramificazioni del problema in differenti situazioni. Difatti,
proprio per l’esigenza di superare questi limiti, nell’evoluzione moderna del
Problem Solving Strategico si utilizza un espediente logico atto a indagare
non solo i tentativi di soluzione già sperimentati, ma anche quelli non
ancora ideati né applicati.
Ma prima di passare a tale tecnica evoluta, mi sembra utile esporre un
esempio concreto di intervento strategico basato sull’analisi delle tentate
soluzioni fallimentari messe in atto, e il loro cambiamento risolutivo.

IL MANAGER MORALISTA
Si presenta un manager di cinquantun anni in una situazione acutamente
depressiva con pensieri suicidari. Racconta che nell’ultimo anno ha
cominciato a cessare qualunque attività in corso, a isolarsi gradualmente, a
ridurre anche i contatti con i propri familiari fino a giungere a un totale
avvitamento su se stesso, connotato da una visione cupa della realtà che per
lui ora è senza alcun colore o luce; l’uomo vede davanti a sé soltanto
l’abisso. Il soggetto racconta che è giunto a questa situazione dopo una serie
progressiva di problemi nel suo lavoro di manager. Federico, questo è il suo
nome, aveva svolto questa mansione per più di venticinque anni, lasciando
via via cinque importanti aziende proprio nel momento in cui aveva
ottenuto notevoli risultati nella riorganizzazione dei sistemi produttivi.
Federico è uno specialista nella riorganizzazione delle risorse di un’azienda
quando questa deve incrementare la produttività e ridurre le spese, e
utilizzare quindi al meglio le risorse disponibili. Può apparire curioso il
fatto che tutte e cinque le volte aveva raggiunto l’obiettivo di rimettere in
sesto l’azienda da cui era stato assunto, e questo gli era stato chiaramente
riconosciuto. Il problema ciclicamente riemerso era che, una volta raggiunto
lo scopo di far funzionare al meglio la macchina produttiva, la proprietà o
gli amministratori avevano inserito nel suo team di lavoro persone a lui non
gradite, spesso familiari dei proprietari dell’azienda o persone comunque
raccomandate. Federico, essendo un idealista, aveva sempre rifiutato di
avere nel suo team sia persone incapaci di svolgere il loro compito,
gravando così sui colleghi, sia soggetti che si ponevano in maniera
arrogante con gli altri in virtù della loro posizione privilegiata. In tutti i casi
si era rivolto all’amministratore delegato o alla proprietà perorando le sue
ragioni ideali, ma di fronte al diniego ogni volta aveva dato le dimissioni,
per cercare una nuova azienda ove poter realizzare l’«organizzazione
perfetta». Facile comprendere come questa sua ricerca della perfezione lo
avesse portato a irrigidirsi sempre di più, e a collezionare una serie di
successi che si tramutavano in rabbiosi autolicenziamenti.
Nel raccontare la sua storia, Federico non era nemmeno lontanamente
toccato dall’idea che proprio il suo rigido copione lo aveva portato a un
passo dal suicidio, ma si sentiva anzi eroico nel suo rifiuto di tutto ciò che
trovava profondamente immorale.
Dopo l’ultimo episodio si era rifugiato in famiglia, pensando che così
avrebbe potuto evitare di confrontarsi con tanta immoralità e invecchiare
serenamente grazie ai consistenti guadagni già realizzati. Purtroppo,
essendo una persona bisognosa di azione, l’aver deciso una sorta di
pensionamento anticipato non solo non lo aveva aiutato a stare meglio, ma
lo aveva condotto gradatamente dentro il cupo abisso della depressione,
corroso da un’irrefrenabile rabbia verso il mondo e verso gli uomini, che
finiva per riversarsi sulla moglie e sui figli.
In questo caso, la strategia di soluzione fu quella di suggerirgli di passare
nel mezzo del suo dolore e della sua rabbia per venirne fuori. Gli fu quindi
indicato, come primo passo terapeutico, di redigere una sorta di «romanzo
criminale» della sua storia personale, in cui doveva descrivere in modo
puntuale e analitico tutti i passaggi delle cinque esperienze che da successo
si erano tramutate in disastro. Federico fu dapprima riluttante, con il
pretesto che essendo un ingegnere era più abituato a fare schemi che non a
scrivere. A questa sua obiezione fu risposto che avrebbe potuto
schematizzare tutto il suo «romanzo criminale», l’importante era che
risultasse leggibile e comprensibile a chiunque.
Come il lettore può ben capire, questa prescrizione è un modo velato,
utile per un caso clinico, per far sì che la persona analizzi e valuti sia le sue
tentate soluzioni di successo che quelle fallimentari.
Dopo due settimane, Federico tornò con un lungo scritto articolato per
ognuna delle esperienze professionali svolte, che pretese di leggere e
discutere per esteso, cominciando dal titolo che aveva dato al suo romanzo,
ovvero «il manager moralista». Come si può capire già dal titolo, passando
in rassegna le sue esperienze dopo il nostro colloquio, per la prima volta
aveva visto le cose da una prospettiva differente: il ripetersi di un copione
entro il quale lui, in maniera moralistica e inquisitoria, giudicava e
condannava gli amministratori delle diverse aziende per comportamenti non
corretti e per questo finiva poi per rifiutarli lui stesso, dando le dimissioni.
In altri termini, quello che gli era apparso chiaro di se stesso era una vera e
propria incapacità di adattamento, legata alle sue rigide convinzioni morali.
Non solo, ma si era reso anche conto che in tutte quelle occasioni, con un
minimo di flessibilità in più, avrebbe potuto gestire le persone indesiderate,
facendole crescere e diventare persone con un ruolo attivo in un team
funzionale. Ma in virtù della sua rigidità, aveva sempre pensato che gli
aspetti relazionali fossero superflui dentro un’azienda, e che contassero solo
i numeri, i calcoli e l’efficienza produttiva.
Dopo aver letto e commentato tutto il suo scritto, raccontò anche che in
quei giorni aveva cominciato a uscire dal proprio isolamento, ricontattando
vecchi amici e colleghi con l’idea di rimettersi in gioco professionalmente,
ma con un atteggiamento mentale diverso.
Il lavoro con Federico, ovviamente, aveva come obiettivo quello di
renderlo gradualmente più capace di gestire tutto ciò che non collimava
perfettamente con le sue idee e convinzioni. Ma quello che ci interessa in
questa sede è sottolineare come in questo caso sia stato sufficiente, per
produrre un reale cambiamento personale oltre che terapeutico, far
analizzare e valutare sistematicamente al soggetto le sue tentate soluzioni
che, per quanto basate su una causa giusta, lo avevano condotto a scavarsi
sotto i piedi l’abisso entro il quale era poi caduto.

La tecnica del come peggiorare

Per facilitare l’analisi delle tentate soluzioni disfunzionali, molto spesso


non è sufficiente osservare o domandare quali fra quelle messe in atto finora
non hanno prodotto esiti positivi, ma è importante indagare anche quelle
che potrebbero essere messe in atto in futuro e rivelarsi fallimentari.
Si è quindi formalizzata una tecnica dedicata allo studio di questa
dinamica e, come vedremo, al rovesciamento dei suoi effetti più tipici.
Il lettore a questo punto si domandi, rispetto al problema da lui prescelto:
«Se volessi far peggiorare ulteriormente la situazione invece di migliorarla,
come potrei fare?» e cerchi di enumerare tutte le possibili modalità. Di
nuovo, ognuna di queste va descritta in modo da avere chiaro i metodi
attraverso i quali, in pratica, si potrebbe aggravare il problema invece di
risolverlo. Nel caso in cui il nostro obiettivo strategico fosse il
miglioramento di una situazione che già funziona, e non il cambiamento di
una situazione disfunzionale, la domanda dovrà essere: «Quali sono tutti i
metodi o le strategie che, se adottati, porterebbero a un sicuro fallimento del
mio progetto?»
Come si può ben capire, la logica delle due domande è esattamente la
stessa, quella che viene evocativamente espressa nello stratagemma: «Se
vuoi drizzare una cosa, impara prima tutti i modi per torcerla di più».
Vale la pena ricordare che questa domanda strategica è quella che si sono
posti tutti i più grandi inventori, da Archimede a Leonardo fino a Edison,
quando dovevano trovare soluzioni alternative a problemi fino ad allora
irrisolti.
Difatti, come spiegato in precedenza, se rilevo tutto ciò che può essere
fallimentare, creo immediatamente in me l’avversione verso tali possibili
azioni, come nel caso in cui voglio perdere peso e cessare di cadere nella
tentazione compulsiva di mangiare cose che mi fanno ingrassare. Se applico
la tecnica del come peggiorare, giungerò entro breve a rilevare che tra le
opzioni da mettere in atto in questa direzione c’è soprattutto il tentativo
fallimentare di controllare la mia dieta selezionando tutti i cibi a basso
contenuto calorico, e scartando quelli con molte calorie. Purtroppo, come
ben sa chiunque abbia provato a seguire una dieta restrittiva, l’effetto è di
due tipi: il primo, il più usuale, è che riesco a stare a dieta per qualche
giorno e poi perdo il controllo, finendo per abbuffarmi dei cibi vietati; il
secondo è che immediatamente, per effetto del mio tentativo di restrizione,
provo un’irrefrenabile compulsione a mangiare di più. Come è dimostrato
da una ricerca longitudinale condotta nell’arco di anni dalla rivista
American Psychologist su migliaia di casi di soggetti a dieta, comparati con
altrettanti non a regime alimentare controllato, stare a dieta fa ingrassare. È
evidente che se constato come questa tentata soluzione produca gli effetti
contrari a quelli desiderati, l’attenzione dovrà d’ora in poi spostarsi su come
evitare tale modalità disfunzionale di affrontare il problema. Come vedremo
più avanti, sulla base di questa nuova visione si può costruire, oltre al
blocco delle azioni controproducenti, un’efficace soluzione alternativa.
Tuttavia, questo è solo il primo e più evidente effetto della tecnica,
poiché costringendo la mia mente a cercare di rilevare tutte le soluzioni
fallimentari, di solito faccio sì che essa, per contrasto, vada spontaneamente
in cerca di soluzioni alternative. Questo è un processo di incentivazione
della creatività e dell’inventiva, che si dispiega come risposta alla forzatura
mentale nella direzione opposta. Come la maggioranza delle persone ha
sperimentato almeno in qualche occasione, quando ci sforziamo di trovare
soluzioni alternative volontariamente e razionalmente, il più delle volte
abbiamo grande difficoltà a trovare nuove vie non ancora percorse e
tendiamo a ricalcare i nostri soliti itinerari mentali. Se invece forziamo la
nostra ragione a cercare i metodi per peggiorare o per fallire, facciamo sì
che la nostra razionalità si orienti in tale direzione e quindi smetta di
impedire i processi creativi. In tal modo la nostra mente potrà scoprire
alternative in funzione del fatto che si è liberata dalla trappola paradossale
dello sforzo volontario, che inibisce la scoperta spontanea. In altri termini,
si usa un paradosso per bloccare un fenomeno paradossale.
Grazie a questa apparentemente semplice domanda strategica si crea
l’effetto riduttore di complessità precedentemente descritto.

IL LEADER AMICO
Un esempio illuminante di tutto ciò è rappresentato dal caso di un giovane
manager di una importante griffe di moda, uno dei membri giovani della
famiglia titolare del marchio. Il problema era rappresentato dal fatto che i
suoi collaboratori e i loro sottoposti, benché gerarchicamente alle sue
dipendenze, tendevano a non rispettare le sue direttive e a essere demotivati
rispetto ai progetti del gruppo, rallentando l’esecuzione di ciò che avrebbe
condotto al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Iniziando ad
analizzare insieme le sue tentate soluzioni, emerse chiaramente la sua
posizione di leader democratico, incapace di farsi rispettare e seguire: il
giovane si poneva rispetto ai suoi collaboratori in modo paritario, li trattava
in modo caldo, preoccupandosi continuamente del loro stato, delle loro
difficoltà, spesso anche di quelle non inerenti al lavoro. Questo potrebbe
sembrare al lettore il capo veramente ideale, e forse sarebbe così se i
collaboratori fossero tutti persone pienamente responsabili, che non hanno
bisogno di essere stimolate o controllate. Inoltre, ogni qual volta emergeva
un errore commesso dai suoi sottoposti, la sua strategia era quella di
dialogare con la persona in questione, cercando di capire le motivazioni
dell’errore, anche in questo caso in modo paritario, senza mai assumere una
posizione recriminatoria o punitiva. Come si può facilmente comprendere,
un leader che cerca di essere amico dei suoi collaboratori e sottoposti
ottiene risposte sul piano personale e affettivo, ma perde completamente il
suo potere ingiuntivo, ad esempio rispetto alla correzione degli errori dei
dipendenti. L’ambivalenza che si viene a creare è che «se sei un amico mi
devi comprendere e mai criticare, tanto meno punire, perché sei al mio
stesso livello e pertanto mi posso permettere di dirti cose o di non fare cose
che mi chiedi, dimenticando che tu sei il mio capo». Nel caso specifico,
inoltre, l’ambivalenza era resa ancora più ambigua dal fatto che il giovane
manager faceva parte della famiglia di cui la griffe porta il nome, per cui si
può supporre che certi collaboratori tendessero a rispondere alla sua ricerca
di rapporti amicali anche in vista di possibili vantaggi personali.
Una volta esplicitata con lui la situazione, e i suoi tentativi fallimentari di
correggere i comportamenti disfunzionali dei collaboratori, applicando la
tecnica del come peggiorare egli giunse immediatamente a rilevare che
sarebbe stato sufficiente continuare a mantenere le stesse strategie finora
applicate. Pertanto il cambiamento divenne una necessità ineluttabile.
Fu decisamente curioso vedere le sue reazioni emotive a questa scoperta:
è quella che chiamiamo esperienza emozionale correttiva. Per la prima
volta, infatti, durante il colloquio il giovane manager espresse con toni forti
la sua indignazione verso se stesso, in primo luogo per la sua valutazione
completamente errata della situazione, e poi per le sue fallimentari tentate
soluzioni.
Una volta stabilita questa nuova visione rispetto alla sua realtà
problematica, fu facile concordare con lui come sostituire le sue azioni
fallimentari con altre che potessero essere più efficaci. In particolare,
stabilendo finalmente una comunicazione gerarchica, e assumendo la
posizione di chi delega i compiti ai collaboratori, ma poi controlla e se
necessario corregge, anche con durezza. Egli stesso è giunto a ricordare
come un leader, per essere seguito, deve prima di tutto essere ammirato e
rispettato.

La tecnica dello scenario oltre il problema

Oltre alla tecnica presentata, al fine di essere ancora più concretamente


focalizzati sull’obiettivo da raggiungere, abbiamo formalizzato un’altra
manovra innovativa: immaginare lo scenario ideale al di là del problema.
In pratica si tratta di domandarsi quale sarebbe lo scenario, riguardo alla
situazione da cambiare, una volta che il problema fosse completamente
risolto o, nel caso di miglioramenti da ottenere, una volta che l’obiettivo
fosse completamente raggiunto. In altri termini, dobbiamo convincere la
nostra mente a immaginare quali sarebbero tutte le caratteristiche della
situazione ideale, dopo aver realizzato il cambiamento strategico.
Questo, che può sembrare un lavoro di pura fantasia, è invece un modo
per rilevare concretamente le caratteristiche della «realtà ideale» da
raggiungere, che spesso ci permette di vedere cose che non saremmo in
grado di concepire, se lavorassimo semplicemente sulla realtà presente e
passata.
Altschuller ha definito questa tecnica, tipica dei grandi inventori, «la
fantasia della macchina perfetta». Ad esempio, pare che Leonardo da Vinci,
quando studiò il volo, avesse inizialmente progettato differenti tipi di
macchina per volare per poi perfezionare progressivamente i suoi progetti,
scartando quelli che apparivano inferiori o irrealizzabili. Infatti, quando
progettò la macchina per sollevarsi nell’aria dotata di un’elica orizzontale
sospinta dalla forza di un pedale, si rese conto della sua improponibilità,
poiché questa specie di elicottero doveva funzionare con la forza della
pedalata di un essere umano. Questi poteva riuscire, grazie alla sua
straordinaria forza fisica, a sollevarsi da terra, ma poi inesorabilmente vi
ricadeva. A causa dei limiti delle risorse a disposizione di Leonardo a
quell’epoca, in cui non c’era ancora la possibilità di usare un motore a
scoppio o a vapore, il progetto apparve irrealizzabile, per quanto geniale. La
stessa cosa avvenne per l’idea di produrre il volo attraverso il battito di ali,
costruite per essere sospinte dal movimento delle braccia di un essere
umano. Non è quindi un caso se il genio italiano giunse alla messa a punto
del primo aliante osservando il volo dei rapaci, il quale non richiedeva una
forza sovrumana, ma sfruttava le correnti aeree.
Ma non dobbiamo pensare che sia necessario essere un Leonardo per
immaginarsi lo scenario al di là dei problemi, anche quando questi appaiono
complicati e persistenti. Tutti abbiamo la capacità di immaginare quello che
ci piacerebbe che fosse: il problema è che il più delle volte non riusciamo a
realizzarlo. Nel nostro caso la tecnica serve proprio, come prima cosa, a
liberare la pura immaginazione, per poi selezionarne gli aspetti realizzabili
concretamente.

IL CAMPIONE RIFIUTATO
Un esempio a questo riguardo è rappresentato da un calciatore
professionista che si è rivolto a me per un problema che gli stava rendendo
difficile dare il meglio nella sua professione. Il calciatore era il leader
indiscusso della squadra, colui a cui tutti facevano riferimento per le sue
indubbie doti. Per questo, ogni qual volta le cose non andavano bene in
campo, tutti, dai suoi compagni all’allenatore ai tifosi, se la prendevano con
lui. Certo, succedeva anche il contrario, cioè era il primo a essere osannato
ogni qual volta la squadra otteneva risultati eccellenti. Ma dato che negli
ultimi tempi le cose non andavano più così tanto bene, la situazione più
frequente era quella di sentirsi addosso sguardi carichi di rancore. La sua
reazione era quella di deprimersi e perdere la motivazione, come se ormai
nulla valesse più la pena. Dotato fin da bambino di un talento innato, da
sempre veniva osannato per le sue doti e non aveva mai dovuto fare fatica
per raggiungere performance atletiche eccellenti. In altri termini, abbiamo
un campione che produce spontaneamente risultati straordinari e non uno di
quelli che la performance elevata deve sudarsela. Questo fa sì che, mentre il
secondo è abituato a superare gli ostacoli e a gestire la frustrazione di un
eventuale fallimento, il primo, di fronte all’insuccesso, crolla poiché non è
in grado di gestirne gli effetti e di reagire nella maniera adeguata. Il
campione affermava che nella sua carriera c’erano già stati periodi bui, ma
che si era sempre ripreso rapidamente, mentre questa volta si sentiva in
grave difficoltà proprio a causa dell’ostilità che avvertiva nei suoi confronti.
A questo punto, gli venne chiesto di immaginare quale sarebbe stato lo
scenario ideale, una volta superato il problema. Questi, senza grande sforzo,
riferì che sarebbe stato rappresentato da una situazione in cui andare agli
allenamenti sereno e contento, per vedere i suoi compagni compiaciuti nel
giocare con lui, sorridenti e disponibili nei suoi confronti, con l’allenatore
che lo incentivava in modo allegro a trascinare la squadra, come avveniva
di solito quando il campione era in forma, e per finire con la tifoseria che lo
applaudiva e lo incitava.
Dopo aver raccolto questa chiara immagine, gli fu chiesto di pensare se
le sue usuali reazioni di chiusura quando le cose non andavano bene fossero
un modo per ridurre o al contrario alimentare gli atteggiamenti e i
comportamenti indesiderati nei suoi confronti. Non ebbe difficoltà a
rispondere che ciò che stava facendo contribuiva solo a peggiorare la
situazione. Di nuovo, si dimostra che il cambiamento delle azioni in corso è
un’esigenza inevitabile.
A questo punto, gli fu suggerito di fare un esperimento durante la
settimana: comportarsi come se le cose andassero al meglio anche se non
era ancora così. In termini più concreti, comportarsi con i compagni,
l’allenatore e i tifosi come se tutto andasse al meglio, a cominciare dalle
cose più piccole. Salutare tutti con un sorriso; essere disponibile nei
confronti degli altri; mai farsi vedere cupo e chiuso in se stesso né, tanto
meno, reagire aggressivamente a eventuali provocazioni; mantenere in
generale una comunicazione basata sul far sentire agli altri la sua gentilezza
e il suo compiacimento nel contatto con loro. Il calciatore commentò che
questo avrebbe voluto dire «far finta» che tutto fosse ok. Gli fu risposto che
la finzione reiterata diviene realtà e fu invitato a fare l’esperimento.
La settimana successiva, il campione rifiutato si presentò sorridente e
allegro, dichiarando immediatamente: «Non sto facendo finta, sono davvero
contento perché questa domenica la partita è andata benissimo, abbiamo
vinto 4 a 0 e io ho giocato al meglio. Non so se dipende da quello che lei mi
ha chiesto, però le cose sono cambiate e adesso mi sento proprio bene».
Visto che l’esperimento era andato bene gli fu suggerito di continuare,
per verificarne il reale effetto. Il calciatore continuò a mantenere i suoi
elevati standard di rendimento.
Dopo questo rapido cambiamento, chiese di essere aiutato a «crescere»
ovvero a imparare a gestire i momenti difficili senza deprimersi.
Sarà chiaro al lettore come in questo caso la tecnica dello scenario oltre il
problema ha permesso di indicare un modo per realizzare quella che poteva
sembrare solo una bella fantasia. Tutti noi tendiamo a costruirci profezie che
si autorealizzano: il trucco è saperle orientare verso risultati funzionali, e
non lasciare che ci si ritorcano contro.
Il domandarsi quale sarebbe la realtà come se il problema fosse risolto o
l’obiettivo raggiunto svolge anche un altro ruolo importante, che è quello di
farci vedere quali sarebbero gli effetti collaterali indesiderati del successo
del nostro progetto. Molto frequentemente, come ho già accennato, gli
esseri umani tendono a sottovalutare che il verificarsi di un qualsiasi
cambiamento attiva una reazione a catena di eventi ulteriori. Come nella
nota metafora utilizzata nella teoria delle catastrofi, un semplice battito d’ali
di una farfalla può innescare una concatenazione di eventi che conduce a un
uragano a qualche migliaio di chilometri di distanza. Si può rilevare un
effetto Butterfly, come viene definito, ogni qual volta introduciamo un
cambiamento benché minimale in un sistema complesso. Ci appare quindi
importante poter prevedere questo tipo di processo, soprattutto quando va in
direzione negativa, per poterne evitare gli effetti.
A questo riguardo, il caso forse più emblematico è rappresentato dalla
cosiddetta «rivoluzione verde» per il combustibile delle automobili. Come
il lettore saprà, negli ultimi anni i movimenti ecologisti hanno fatto enormi
pressioni per la messa a punto di un propellente ecologico, e dalle ricerche
di alcuni scienziati si è giunti alla produzione del bioetanolo. Anziché dal
petrolio, questo carburante è prodotto dalla lavorazione dei cereali, in modo
da ottenere una sorta di «benzina ecologica». L’invenzione è stata
immediatamente recepita da molte case automobilistiche, per rendere le
loro auto non inquinanti ed ecologiche. Purtroppo, a distanza di qualche
anno ci si è accorti del fatto che la maggior parte del raccolto mondiale di
cereali, dapprima utilizzato principalmente a scopi alimentari, si è spostata
invece verso la produzione di combustibile. Ciò ha provocato un immediato
innalzamento dei prezzi e una minore disponibilità per uso alimentare, e i
prezzi di pasta, pane, biscotti, ecc., sono andati alle stelle. Tutto ciò non
solo ha messo in crisi le economie delle famiglie nei paesi economicamente
benestanti, ma ha anche azzerato le scorte per gli aiuti umanitari ai paesi
dove si muore ancora di fame, peggiorandone così la situazione. Come se
non bastasse, si è prodotto un secondo effetto collaterale davvero
paradossale. A seguito dell’aumento della domanda di cereali per la
produzione di combustibile, in Sud America, in Africa e in alcuni paesi
orientali si è cominciato a deforestare molte zone per trasformarle in campi
di produzione di cereali. In altre parole, un progetto che avrebbe dovuto
proteggere il nostro ecosistema dall’inquinamento ha finito per ridurre i
grandi «polmoni verdi» del pianeta.
Oscar Wilde ci ricorda che «è con le migliori intenzioni che si producono
gli effetti peggiori». E questo avviene soprattutto quando non si prevedono
adeguatamente gli effetti delle nostre azioni e ci si limita a valutazioni
effimere, senza prendere in considerazione i possibili effetti boomerang.

La tattica dei piccoli passi

«Anche il viaggio più lungo inizia con il primo passo». Così la saggezza più
antica ci indica la strada per l’applicazione di soluzioni a problemi anche
complessi e resistenti al cambiamento. Nei fatti, per rendere applicabile una
strategia messa a punto per sbloccare una situazione problematica, è
fondamentale iniziare dal più piccolo ma concreto cambiamento ottenibile.
Iniziare dal passo più semplice ci salva dalle nostre eventuali incapacità nel
realizzare grandi azioni, e al tempo stesso riduce la resistenza al
cambiamento del sistema sul quale si interviene.
Un esempio che mostra per contrasto quanto sia importante considerare i
cambiamenti più piccoli rispetto a quelli più grandi nella soluzione di un
problema ci viene di nuovo da un ambiente certo non privo di risorse
intellettuali: stiamo parlando di nuovo della NASA. Tra i tanti progetti
realizzati dagli studiosi della NASA c’è pure la penna spaziale, in grado di
scrivere anche in assenza di gravità, cosa che per ovvi motivi non possono
fare né le penne a sfera né le stilografiche. Il progetto prese avvio proprio
per risolvere il problema di permettere agli astronauti di scrivere e prendere
appunti, superando la difficoltà imposta dalla loro particolare condizione.
Il progetto ebbe successo, ma costò svariati milioni di dollari, molte
energie e molto tempo per le sperimentazioni. La cosa curiosa è che i russi,
che disponevano certamente di minori risorse economiche nella corsa allo
spazio, avevano risolto il problema in modo decisamente più semplice:
usavano una matita. Questo strumento di antichissima progettazione, infatti,
può scrivere in qualsiasi condizione di gravità e ha un costo decisamente
molto basso.
Potremmo dire che il bisogno aguzza l’ingegno, usando il buonsenso
popolare. Mentre a un’osservazione più attenta possiamo dire che talvolta si
guarda lontano, quando in realtà la soluzione è vicina, e che questo è un
fenomeno direttamente proporzionale alla nostra intelligenza e alle risorse a
nostra disposizione.
Tenga presente il lettore che qualunque sistema vivente, dal più
infinitesimale al più complesso, possiede la caratteristica di resistere al
cambiamento del proprio equilibrio quando questo si è consolidato da un
certo periodo di tempo. Questo fenomeno sorprendente fu definito
omeostasi dal fisiologo Claude Bernard, che osservò i sistemi biologici e la
loro tendenza a mantenere l’equilibrio costituito, persino in presenza di
disfunzioni o malattie. Pertanto il buon Problem Solver, come l’antico
stratega, inizierà ad applicare la strategia ideata concentrandosi sul più
piccolo e apparentemente innocuo intervento da realizzare. Questo sarà
seguito dal secondo, e così via. Di solito non è necessario procedere
realizzando tutti i piccoli passi significativi dal punto di partenza al punto
d’arrivo dell’intervento, poiché, una volta innescata la progressione, questa
da graduale si trasforma in esponenziale. In altri termini, si assiste
all’effetto valanga: la palla di neve rotolando si ingigantisce fino a
trasformarsi in una valanga inarrestabile.
Frequentemente, tuttavia, si incontra il problema di capire quale debba
essere la prima mossa rispetto alle successive all’interno di un processo di
cambiamento, proprio per la tipica tendenza ad accelerare tale dinamica. A
questo riguardo il Problem Solving Strategico propone una tecnica facile da
utilizzare e straordinariamente efficace, allo scopo di pianificare la
sequenza di azioni da intraprendere per raggiungere l’obiettivo prefissato.

La tecnica dello scalatore

È la tecnica che prende il nome da ciò che fanno le guide alpine esperte per
progettare la scalata di una montagna. Invece di partire dalla base della
montagna, nello studio del percorso da seguire prendono avvio dalla vetta e
andando a ritroso tracciano la rotta e le sue tappe fino all’attacco. Questo
procedimento si è dimostrato empiricamente in grado di evitare la
progettazione di percorsi fuorvianti rispetto all’obiettivo, permettendo di
realizzare il percorso più agevole fino alla cima. Quando si ha un problema
complesso da risolvere, al fine di costruire una strategia efficiente oltre che
efficace, risulta utile partire dall’obiettivo da raggiungere e immaginare lo
stadio subito precedente, poi lo stadio precedente ancora, sino a giungere al
punto di partenza. In questo modo il percorso viene suddiviso in una serie
di stadi; ciò significa frazionare l’obiettivo finale in una serie di micro-
obiettivi che tuttavia prendono avvio dal punto d’arrivo per tornare sino al
primo passo da eseguire.
Questa strategia mentale controintuitiva permette dunque di costruire
agevolmente la sequenza di azioni da realizzare per risolvere un problema,
partendo dal più piccolo ma concreto cambiamento possibile.
Grafico 2

IL TEAM CHE NON COOPERA


A questo riguardo appare illuminante il lavoro fatto con il top management
di una multinazionale petrolifera, dalla quale ero stato contattato per offrire
ai manager una formazione specifica nel Problem Solving Strategico.
Durante la giornata di seminario, dopo aver introdotto il modello più o
meno come è stato fatto fin qui, come sono solito fare, proposi
un’esercitazione. Abbiamo quindi concordato un obiettivo da raggiungere
sul quale ci fosse il consenso di tutti. Come già indicato, questo ha
permesso immediatamente di far convergere le vedute dei 13 soggetti
responsabili di differenti aree della compagnia su un obiettivo comune da
raggiungere, creando così l’effetto teaming, ovvero la squadra che trasforma
la somma dei singoli componenti in una sorta di singola unità, poiché tutti
vanno nella stessa direzione.
Il «piccolo» obiettivo proposto era portare la compagnia da una quota di
mercato del 9 per cento a una quota almeno dell’11 per cento. Una sfida
decisamente impegnativa.
Stabilito questo, abbiamo definito insieme quali fossero tutti i problemi
che rendevano impossibile la realizzazione dello scopo. Procedemmo poi
con l’analisi delle tentate soluzioni messe in atto fino ad allora,
discriminando quelle funzionali da quelle disfunzionali. Dopo di che,
lavorando con la tecnica dello scenario oltre il problema, individuammo
quale sarebbero state tutte le caratteristiche diverse rispetto ai risultati
attuali. A questo punto abbiamo applicato la tecnica dello scalatore e,
scalino per scalino, a ritroso, tutti i manager concordavano su quali fossero i
cambiamenti da realizzare. In questa maniera, dal punto d’arrivo siamo
tornati a ritroso al punto di partenza individuando 11 step; ovvero una
sequenza di 11 cambiamenti progressivi per ottenere il risultato desiderato a
partire dal più piccolo obiettivo concreto da realizzare. Quest’ultimo fu
identificato con il fatto che ognuno di loro avrebbe dovuto costantemente
comunicare con gli altri sull’andamento del proprio settore, realizzando così
una comunicazione circolare che mantenesse tutti costantemente aggiornati
sull’andamento degli altri settori. Il gruppo concordò che avrebbero iniziato
a realizzare questo micro-obiettivo e che solo una volta realizzato sarebbero
passati al secondo punto, che riguardava ancora un funzionamento migliore
all’interno dell’organizzazione, così come gli altri tre passi successivi.
Ho seguito il gruppo dei manager per quasi un anno, con incontri mensili
dedicati alle tecniche che avevano deciso di acquisire dopo la prima
giornata di formazione.
Al penultimo incontro, il gruppo presentò i grafici dell’andamento di
mercato e la compagnia aveva totalizzato l’11,3% della quota di mercato. Il
gruppo riferì che ciò che aveva prodotto un risultato simile era stato senza
dubbio il grande cambiamento interno del sistema. Tutti ora lavoravano
come un insieme e non come la semplice somma delle parti. Come è ben
noto, la qualità emergente di un insieme armonico è ben superiore alla
somma delle sue parti.
Questo è un esempio di come si possa realizzare un intervento di
cambiamento strategico anche a partire da un intervento di formazione
poiché, come vedremo più avanti, dal punto di vista strategico pure la
formazione in aula deve puntare a produrre esperienze concrete di
cambiamento.
Pertanto si può intendere l’insegnamento come una forma velata di
introduzione del cambiamento, particolarmente utile quando si lavora con
un gruppo di persone che, benché parte della stessa organizzazione, hanno
idee e modalità differenti.

Aggiustare il tiro progressivamente

Talvolta i problemi sono complessi a un punto tale da richiedere non una


sola soluzione, ma una serie di soluzioni in sequenza. Come nel gioco delle
scatole cinesi o delle matriosche russe, aperta la prima all’interno se ne
trova un’altra, dentro la quale ce n’è un’altra ancora e così di seguito sino
all’ultima.
Di fronte a situazioni di questo tipo è fondamentale non affrontare
insieme tutti i problemi, e iniziare invece ad affrontare il più accessibile.
Una volta risolto il primo, occorre passare al secondo e così via,
mantenendo però fin dall’inizio la visione della globalità e delle possibili
interazioni fra le concatenazioni di problemi. Così facendo si evita di
perdersi nella complessità ingestibile delle interrelazioni mentre si opera
concretamente, ma al tempo stesso si mantiene la visione dell’insieme.
Talvolta, sbloccate le prime rigidità, ci si può rendere conto che la
situazione appare diversa da come si presentava all’inizio. In questi casi è
importante soffermarsi e procedere alla definizione del problema e magari
degli obiettivi.
Mai dimenticare, infatti, che un buon Problem Solver Strategico deve
rappresentare la sintesi tra rigore e flessibilità.
Come afferma Gregory Bateson, «il rigore da solo è la morte per asfissia,
la creatività da sola è pura follia».

Schema riassuntivo delle fasi


del Problem Solving Strategico
Capitolo 4

ARTE O TECNOLOGIA?

L’aspetto che usualmente sorprende di più del Problem Solving Strategico –


e che merita per questo di essere chiarito – è il ricorso, al fine di indurre il
cambiamento, a stratagemmi che appaiono decisamente creativi se non
talvolta «geniali», ma risultano a prima vista disarmanti per la loro
apparente semplicità. L’arte sta proprio nel trovare soluzioni semplici a
problemi complicati, dove sembrerebbe invece necessario applicare
strategie complesse. A questo proposito prendiamo due esempi molto
diversi tra loro, ma che come vedremo si basano su una procedura di ricerca
della soluzione decisamente simile.
Molti anni fa in Giappone si dovette recuperare dal fondo della baia di
Tokyo una nave militare della Seconda guerra mondiale, carica di
munizioni, bombe e missili. Il problema appariva piuttosto complesso: non
si trattava solo di riportare la nave in superficie, ma con delicatezza e
accorgimenti tali per cui lo scafo non si spezzasse, spargendo così in mare il
suo pericoloso contenuto esplosivo. Molti ingegneri proposero le loro idee,
tutte basate sull’utilizzo di enormi marchingegni che dovevano issare la
nave e al tempo stesso rallentarne l’ascesa, in modo da evitare la rottura
dello scafo. Uno tra questi propose un’idea originale, ma a prima vista
ridicola, tanto che la maggior parte dei colleghi commentò la proposta come
una sorta di barzelletta. In realtà si trattava della soluzione straordinaria a
un problema non ordinario. L’ingegnere, poi divenuto famosissimo per la
sua invenzione (tanto da essere citato persino in un albo a fumetti di
Topolino), aveva pensato di sparare dentro lo scafo della nave affondata
milioni di palline da ping-pong. Come molti forse sapranno, le palline da
ping-pong galleggiano molto bene; al tempo stesso sono leggere e non
contundenti, poiché se schiacciate tendono a rompersi senza danneggiare la
superficie contro la quale premono. L’idea, all’apparenza davvero bislacca,
si dimostrò più semplice e meno costosa delle altre, così venne messa in
atto. Il progetto funzionò perfettamente: la nave emerse sollevata dalle
palline di ping-pong, che in virtù del principio di Archimede la portarono
dolcemente a galla. Poi la nave venne condotta senza alcun problema a riva.
Come il lettore può ben intendere, questa soluzione semplice a un problema
complicato appare certo sorprendente e controintuitiva, ma come ho più
volte sottolineato, è la capacità di assumere prospettive non ordinarie
nell’osservazione di un fenomeno che ci permette di giungere a soluzioni
davvero alternative. Tuttavia, assumere un’ottica differente non è pura
fantasia. Come descritto nella sequenza di mosse da eseguire per
completare un processo di Problem Solving, tale processo può essere
realizzato attraverso un percorso razionale, ma che va oltre la razionalità
ordinaria. Parliamo cioè di un percorso articolato in fasi realizzabili solo
grazie a un superamento del senso comune e delle assunzioni rigidamente
razionali.
Il secondo caso è quello di un giovane ingegnere affetto da un disturbo
ossessivo-compulsivo, che lo costringeva a controllare e ricontrollare il suo
lavoro al fine di rassicurare se stesso sul fatto di averlo svolto bene. Questi
tornava continuamente indietro, dopo ogni operazione che poteva esporlo a
un minimo di responsabilità, per ricontrollarne la correttezza. La sua vita si
era trasformata in un inferno di insicurezza, in cerca di un’impossibile
certezza. Dopo aver eseguito il colloquio d’indagine strategica seguendo le
fasi fin qui descritte, ho prescritto l’applicazione di uno stratagemma
terapeutico, costruito ad hoc per questo tipo di problemi: «Di qui alla
prossima volta che ci vediamo, ogni volta che torni indietro a ricontrollare
le tue azione dovrai ripetere questo rito cinque volte. Né una di più, né una
di meno. Se ricontrolli dovrai rifarlo per cinque volte. Puoi evitare di
ricontrollare, naturalmente, ma se lo fai, ripeti il tutto cinque volte... né una
di più, né una di meno».
L’ingegnere, passate due settimane, torna e riferisce che dopo qualche
giorno di «tortura» nell’applicazione del suo compito ha cessato di avere
compulsioni ossessive, dichiarando che non ne sentiva più l’esigenza. Cos’è
accaduto? Questa è una magia o una tecnica?
Il lettore deve sapere che ho applicato personalmente a qualche migliaio
di casi di questo tipo la stessa prescrizione, con lo stesso sorprendente esito
terapeutico. Tanto che questo è diventato un protocollo di trattamento del
disturbo ossessivo-compulsivo applicato attualmente con successo da
colleghi di tutto il mondo.
Questo stratagemma è così potente in quanto cattura l’energia del
disturbo per ritorcerla contro di esso. In altri termini, si utilizza la stessa
logica del problema incrementando e ritualizzando le tentate soluzioni
messe in atto per rassicurarsi. Ma così facendo non è più l’ossessione a
dominare le azioni, ma è la prescrizione paradossale che ne assume il
controllo. Questo fa sì che se io posso eseguire a modo mio il rituale posso
anche rinunciare a farlo. Esasperando e ritualizzando il disturbo se ne
assume il controllo e si realizza la possibilità del suo annullamento. Si passa
in questo modo da una tentata soluzione disfunzionale, che aumentava la
persistenza del problema, a una soluzione funzionale che ne permette
l’annullamento.
Questo intervento è pura tecnologia di Problem Solving Strategico, in
quanto la sua struttura ricalca quella della tentata soluzione disfunzionale –
ovvero la dinamica paradossale per cui cercando la sicurezza si finisce per
alimentare l’insicurezza – ma riorientandone il senso e in conclusione
invertendone l’effetto.
Come afferma Arthur C. Clarke, «una tecnologia abbastanza evoluta nei
suoi effetti non è dissimile da una magia». Ma come ci si arriva?
Vale la pena ricordare che i problemi umani, per quanto originali possano
apparire, possono essere organizzati in classi di fenomeni che si reggono in
base alla stessa dinamica. Ad esempio, tutti i soggetti con lo stesso disturbo
ossessivo-compulsivo del nostro ingegnere, per quanto persone differenti
tra loro, manifestano la stessa tipologia di problema. Una volta classificate
le dinamiche specifiche delle differenti tipologie di problema ricorrente, se
ne può analizzare la persistenza, ovvero i tentativi fallimentari di soluzione
che alimentano il problema, per individuare il tipo di cambiamento
necessario per arrivare alla soluzione funzionale. In altri termini,
individuate le tentate soluzioni specifiche di ogni differente classe di
problema, si possono studiare gli stratagemmi idonei, poiché basati sulla
stessa struttura, a ottenere un cambiamento strategico.
Questo tipo di ingegnoso studio dei problemi e delle loro soluzioni è
rappresentato dall’antica tradizione, sia ellenica che orientale, dell’arte
dello stratagemma, cioè l’analisi sistematica degli espedienti logici i quali,
violando la mera razionalità e la comune ragionevolezza, conducono alla
scoperta di soluzioni alternative a problemi irrisolvibili con le procedure
ordinarie.
In tempi moderni, questa è stata definita logica non ordinaria o della
ambivalenza (Giorgio Nardone, Newton Da Costa). L’invenzione di
stratagemmi è l’effetto di un laborioso studio delle classi di problemi
ricorrenti e della loro dinamica di persistenza, mentre la formulazione
dell’intervento può essere poi più o meno creativa e suggestiva.
Per quanto mi riguarda, la messa a punto di numerosi protocolli di
intervento strategico, realizzati negli ultimi vent’anni, si è basata da una
parte sullo studio e la sintesi personale di tutta la tradizione dell’arte dello
stratagemma e della logica non ordinaria, dall’altra sulla sperimentazione
empirica in campo sia clinico che manageriale di soluzioni calibrate alle
ricorrenti tipologie di problema. Il Problem Solving Strategico è stato,
dunque, anche il modello metodologico della ricerca di soluzioni funzionali
che sostituissero quelle disfunzionali.
Grazie a tutto ciò, quello che dapprima era un approccio artistico è
diventato negli anni reale tecnologia di Problem Solving, in quanto i
modelli di soluzione strategica messi a punto per le differenti classi di
problemi si sono evoluti, divenendo non solo sempre più efficaci ed
efficienti in virtù del loro progressivo affinamento, ma anche replicabili,
trasmissibili e predittivi nei loro effetti.
«Il segreto è che non ci sono segreti», l’invenzione creativa non è il
guizzo di genio, ma l’analisi di un problema che permette di vederlo da
prospettive non ordinarie. «Il caso», come ci insegna Alexander Fleming,
«aiuta solo le menti preparate».
Capitolo 5

IL PROBLEM SOLVING STRATEGICO IN AZIONE

A questo punto, dopo aver esposto le caratteristiche del modello evoluto di


Problem Solving Strategico, ritengo che non vi possa essere miglior modo
di procedere se non quello di calare direttamente il lettore, ancor più di
quanto già fatto attraverso gli esempi narrati, all’interno della sua diretta
applicazione a differenti problematiche.
Qui di seguito saranno presentati numerosi esempi di Problem Solving
Strategico, applicato a diversi contesti: dal singolo caso clinico
all’organizzazione complessa, dal mondo della scuola a quello delle forze
armate, dall’intervento diretto a quello velato e indiretto, dalla pura ricerca
alla sua applicazione più estrema. Il tutto nell’intento di offrire un panorama
più vasto possibile di questo metodo, per essere davvero artefici e non
vittime del nostro destino.
L’esposizione degli esempi di intervento reale eseguito sarà suddivisa in
tre aree, relative alle tre usuali tipologie di applicazione del Problem
Solving Strategico, ovvero: il coaching, che è focalizzato sul miglioramento
della performance; la terapia, applicata nei confronti delle patologie
psicologiche; la consulenza e la formazione, che si rivolgono ad aziende e
organizzazioni.
Ogni caso esposto non rappresenta solo un singolo esempio, ma una
strategia di Problem Solving Strategico applicata a numerosi casi che
rientrano nella stessa tipologia di problema. È chiaro che la stessa
procedura di base è stata adattata alle caratteristiche originali del singolo
caso. La struttura dell’intervento rimane la stessa, la sua applicazione
cambia sempre adattandosi alle differenze individuali e alle circostanze. Il
rigore metodologico deve coniugarsi con l’elasticità dell’adattamento, la
sistematicità con l’inventiva.
Quando il Problem Solving Strategico si focalizza sulla performance

IL TENNISTA DAL TALENTO INTRAPPOLATO


Circa dieci anni fa sono stato chiamato a offrire il mio aiuto a un tennista di
fama internazionale, che dopo un’esplosione di successi consecutivi era
caduto non solo in una sequenza di sconfitte, ma soprattutto in un blocco
chiaramente osservabile in campo. L’atleta era molto giovane, e a meno di
vent’anni era già giunto in vetta al ranking mondiale. Era balzato alla ribalta
non solo per le sue prestazioni, ma per il suo modo di giocare decisamente
particolare, molto intuitivo, ben poco tecnico ma esplosivo e sorprendente
per l’avversario. Osservando una sua partita si poteva assistere a veri e
propri guizzi di performance estrema, così come a errori davvero eclatanti.
Il giovane atleta, come si può ben immaginare, fu accolto dalla
federazione tennistica come il nuovo gioiello da rendere ancora più
splendente, e fu quindi trasferito a Roma, nella sede nazionale della
Federazione Tennis, per essere guidato a migliorare il suo stile e la sua
performance. Ma proprio in questa fase cominciarono a emergere i
problemi, perché i maestri federali con le loro idee rigidamente legate agli
schemi tecnici del tennis tradizionale cominciarono a sottoporre Federico,
questo è il suo nome, a sessioni massacranti di allenamento basate
sull’apprendimento di quei fondamentali della tecnica che il giovane non
usava nel suo gioco totalmente intuitivo. In questa maniera il giovane
talento fu costretto a dover imparare qualcosa che per lui era decisamente
noioso, poiché andava contro le sue naturali inclinazioni al gioco. Egli
riferì, infatti, che se fino ad allora aveva visto il suo sport come un gioco
divertente ed esaltante, una volta preso sotto l’ala «protettrice» dei maestri
della federazione, il bel gioco si era trasformato in una sorta di lavoro
fastidioso.
Facile vedere come le migliori intenzioni dei maestri federali avevano
prodotto gli effetti peggiori su Federico. Questi aveva perso l’entusiasmo, e
per di più il lavoro di condizionamento a giocare seguendo schemi classici
aveva interferito con il suo stile intuitivo. Di conseguenza, il tennista non
era più in grado di lasciarsi andare alle sue naturali inclinazioni durante le
partite, così come non riusciva a inquadrarsi negli schemi prefissati a cui
veniva addestrato. In altre parole, si trattava di un caso in cui una buona
soluzione generale, se non è adattata al caso particolare, rischia di divenire
totalmente fallimentare.
A questo punto il problema era come sbloccare il talento intrappolato di
Federico da una parte, e dall’altra come bloccare la fallimentare tentata
soluzione dei maestri federali.
Nel procedere con l’applicazione del modello di Problem Solving
Strategico emerse chiaramente, infatti, che per Federico il «come
peggiorare» era rappresentato dal continuare a essere sottoposto a quel tipo
di allenamenti che avevano ingabbiato il suo gioco; d’altra parte, il giovane
non poteva rifiutarsi di seguire le indicazioni dei suoi responsabili. Pertanto
il problema appariva di non facile soluzione, anche perché il mio intervento
non era stato richiesto dalla Federazione, ma dal precedente maestro di
tennis di Federico, che lo aveva «tirato su» da un punto di vista sportivo fin
da bambino e con il quale avevo già collaborato per altri giovani atleti. Il
maestro aveva dei pessimi rapporti con i suoi colleghi della Federazione,
perciò ogni sua possibile indicazione veniva pregiudizialmente rifiutata,
così come lo sarebbe stata ogni indicazione da parte mia, visto che non ero
stato chiamato in causa da loro. In altri termini, l’unica leva che avevamo a
disposizione era lo stesso Federico.
Analizzando i suoi tentativi di soluzione, emerse chiaramente che si era
impegnato diligentemente, benché con grande fatica, a seguire tutte le
indicazioni dei maestri e si era sottoposto a duri allenamenti senza mai
protestare, benché dentro di sé covasse un forte risentimento. I suoi
comportamenti contrastavano con le sue emozioni: da un lato, la volontà di
collaborare, dall’altro l’incapacità di andare fino in fondo. Questa
situazione mi guidò a proporre un tentativo di soluzione che avrebbe potuto
salvare la situazione senza compromettere le relazioni.
Ciò che suggerii a Federico fu di cominciare volontariamente a
commettere evidenti errori nelle tecniche tradizionali che gli venivano
insegnate. Ovvero, anziché essere diligente e sforzarsi di riprodurre tutti i
movimenti tecnici e gli schemi tradizionali che gli venivano insegnati, per
dimostrare che era in grado di realizzarli al meglio, cominciare invece a
mettere in evidenza la sua incapacità di imparare. Il giovane trovò
l’indicazione piuttosto sorprendente, in quanto era sempre cresciuto con
l’idea di doversi impegnare ad apprendere al meglio tutto ciò che gli veniva
insegnato, ma comprese anche che questo era un modo per far modificare la
rigidità dei responsabili tecnici federali.
Così cominciò a diventare «la maledizione» dei suoi maestri, poiché da
allievo diligente si era trasformato in un allievo insopportabile, incapace di
apprendere anche le cose più semplici. La cosa strana per loro era che aveva
ricominciato a vincere, ma giocando a modo suo.
Durante i nostri successivi incontri Federico mostrò un deciso
compiacimento nel «prendere in giro» i propri responsabili tecnici, e
quando fingeva di non saper fare qualcosa commettendo errori marchiani
sentiva dentro di sé una sensazione di liberazione. La cosa andò avanti per
qualche mese. L’atleta aveva ricevuto anche l’indicazione di scusarsi
continuamente con i suoi maestri per essersi trasformato in un «testone»,
incapace di apprendere le lezioni che questi gli impartivano, anche se ciò
era in netta contraddizione con il fatto che avesse ricominciato a vincere, a
modo suo, durante i tornei. La cosa davvero curiosa, ma prevista dalla
strategia messa in atto, è che gradualmente i responsabili tecnici
cominciarono a pensare che, poiché Federico era così restio ad apprendere,
bisognava lasciarlo giocare a modo suo, perché solo così avrebbe potuto
dare il meglio.
Mi pare chiaro a questo punto come, mediante uno stratagemma
apparentemente minimale, si sia innescato nell’interazione disfunzionale tra
Federico e i suoi responsabili tecnici un qualcosa che ha invertito il senso
della spirale viziosa negativa, trasformandola in un processo virtuoso di
cambiamento. Il tutto senza che la controparte se ne sia resa conto, anzi
come se questo fosse dovuto a una loro personale scoperta.
Federico ha continuato la sua brillante carriera libero di potersi esprimere
al meglio, seguendo il suo talento e non schemi prefissati. Abbiamo lanciato
la singola palla di neve, che rotolando si è trasformata via via in una
valanga e così il cambiamento è apparso naturale e spontaneo, e non come
l’effetto di una sottile strategia.

IL GUERRIERO SPAVENTATO
Un caso decisamente singolare è rappresentato da un campione di sport da
combattimento, che venne a chiedermi aiuto a causa di una sua paradossale
difficoltà nella disciplina in cui era un vero e proprio fuoriclasse. L’atleta
era spaventato da due avversari e si sentiva incapace di affrontarli sul ring,
tanto da aver già evitato letteralmente di incontrarli, sfuggendoli
nell’organizzazione dei suoi incontri. Il problema, trattandosi di un
professionista, era che non avrebbe potuto procrastinare ancora lo scontro
con questi due rivali, poiché tutti e tre erano giunti al livello massimo
internazionale della loro categoria, e presto avrebbero dovuto combattere
tra di loro per stabilire il detentore del titolo. Il problema era chiaro, così
come era chiaro che l’obiettivo sarebbe stato non solo farlo combattere
contro i suoi rivali, ma farlo combattere senza che si sentisse spaventato.
Le sue tentate soluzioni erano: il tentativo di evitamento che aveva, come
già detto, portato avanti sinora ma che non era più proponibile; il tentativo
di non pensare ai due avversari poiché, quando la sua mente andava in
quella direzione, riferiva di sentire veri e propri brividi di paura. Ciò lo
aveva indotto anche a non fare ciò che si fa di solito in tali discipline,
ovvero studiare l’avversario e le sue caratteristiche, utilizzando le
videoregistrazioni dei suoi incontri. Lo sportivo affermava che, ogni volta
che gli era capitato di vedere i due colleghi combattere, si era convinto di
non essere alla loro altezza, non sul piano della tecnica e della capacità
marziale, ma a livello di carattere. I due rivali apparivano molto più
aggressivi, decisamente più «cattivi» nei loro scontri sul ring ed era questo
che gli incuteva un profondo timore, tanto da aver smesso anche di
studiarli.
Come già accennato in precedenza, per tutti i problemi che si basano
sulla paura, la classe usuale di tentate soluzioni messe in atto dalle persone
è proprio quella che mostrava il nostro «guerriero spaventato»: il rifiuto di
affrontare la paura e la tendenza a eludere le situazioni vissute come
minacciose. Queste due tentate soluzioni fallimentari conducono
all’incremento della paura e non alla sua riduzione; molto spesso, anzi, la
trasformano in vero e proprio panico.
Come nella maggioranza dei casi di questo tipo l’atleta fu guidato,
attraverso una tecnica messa a punto specificamente per questa classe di
problemi, a guardare in faccia la sua paura, per trasformarla in «coraggio».
Fu dapprima guidato a esercitarsi ogni giorno, per uno spazio di tempo
prefissato e in una situazione isolata, a calarsi nelle peggiori fantasie
rispetto al combattimento con i due rivali. L’indicazione è di lasciarsi
andare a tutto ciò che in quello spazio viene fuori, tutte le emozioni e le
sensazioni evocate dal portare alla mente le peggiori fantasie devono essere
lasciate libere di esprimersi. La conseguenza di questa prescrizione è che si
produce un vero e proprio effetto paradosso: l’evocare volontariamente la
paura e tutte le immagini connesse ne blocca l’espressione a livello psico-
fisiologico. Questo è ciò che si deve far scoprire al soggetto, in modo da
metterlo nella condizione di essere come san Tommaso, colui che tocca con
mano per credere. Una volta realizzato questo primo obiettivo, con un vero
e proprio training si insegna progressivamente alla persona ad aumentare
volontariamente la paura per ridurla.
Nel caso del nostro combattente l’esito fu per lui davvero sorprendente,
in quanto mai avrebbe pensato che il miglior modo per sedare la paura fosse
alimentarla volontariamente.
Fatta questa scoperta e addestrandosi con impegno, l’atleta cominciò a
studiare i propri futuri contendenti analizzando puntualmente le
registrazioni dei loro combattimenti più importanti. Questo lo condusse a
ridimensionare notevolmente i suoi avversari, cominciando a rilevare nei
loro stili di combattimento aggressivo numerose debolezze su cui far leva
durante i futuri incontri. Ma rimaneva un’altra esperienza concreta da fargli
fare, prima che fosse del tutto pronto ad affrontare i due aggressivi rivali:
quella di riuscire a fronteggiarne lo sguardo «cattivo» senza sentirsi
schiacciato dalla loro personalità. A questo scopo gli fu indicato di
conoscerli prima di incontrarli sul ring, anzi di invitare elegantemente
ognuno dei due a un conviviale incontro prima dei duelli previsti. In altri
termini, il nostro atleta invitò a cena ognuno degli altri due, con il dichiarato
scopo di conoscere al di fuori del ring la persona con la quale avrebbe
dovuto combattere. L’indicazione ricevuta era di mostrarsi con loro il più
cortese possibile, ma al tempo stesso di mantenere, durante l’incontro, lo
sguardo sul futuro contendente. Senza nessun atteggiamento di sfida, ma
come si farebbe con una persona che si ha tutto l’interesse a conoscere. Il
suggerimento fu motivato dicendo che se si considerano gli occhi lo
«specchio dell’anima», si deve guardarli per capire cosa ci possa essere
dietro quello sguardo cattivo sul ring.
Fu così che il nostro atleta, incontrando i due rivali, poté conoscere la
persona che stava al di là del personaggio. In un caso riferì di essersi trovato
di fronte una persona insicura e messa totalmente in soggezione dalla sua
gentilezza, tanto da mostrare più volte durante la chiacchierata a tavola
chiari segni di imbarazzo. Il secondo avversario, invece, era apparso come
un vero e proprio istrione da palcoscenico che per tutta la cena aveva esibito
le sue doti fuori dal ring. Ad esempio, il fatto di essere un fantastico
amatore o di saper cantare meglio dei cantanti professionisti. A questo
riguardo il nostro atleta citò il motto di uno dei suoi vecchi maestri: «Chi si
esibisce non brilla».
Fu così che il nostro guerriero da spaventato tornò a essere sereno,
avendo totalmente ridimensionato i suoi avversari da un lato e le sue
reazioni fobiche dall’altro. Il torneo internazionale a cui parteciparono tutti
e tre gli atleti si concluse con la vittoria ex aequo del nostro e dell’istrione,
mentre l’insicuro arrivò secondo. La cosa curiosa è che i tre sono diventati
veri e propri amici. Il nostro guerriero non più spaventato mi riferì che
entrambi lo avevano definito come il più preparato e coraggioso tra tutti i
contendenti che avessero mai incontrato. La fragilità accettata e gestita
diviene un punto di forza, la gentilezza può sconfiggere la brutalità.

IL MANAGER INCAPACE DI RELAZIONARSI


Tra i problemi più ricorrenti in ambito manageriale troviamo la condizione
di manager estremamente qualificati e capaci per tutto ciò che riguarda le
loro competenze aziendali (organizzazione, produzione, marketing,
rapporto costi e benefici, ecc.), ma assai carenti quanto alla capacità di
relazionarsi e comunicare in maniera efficace. Questo si può forse spiegare
con il fatto che nei corsi di studio per la formazione dei manager viene dato
troppo poco spazio all’acquisizione di competenze comunicative e
relazionali, tanto che di solito i più attenti tra loro richiedono tale
formazione presso Centri specializzati quando già sono impiegati in
azienda. Non è un caso che la nostra Scuola di Comunicazione Strategica
registri da anni il tutto esaurito per i due corsi tenuti ad Arezzo e a Milano.
L’esempio prescelto in questo caso è quello di un manager esperto, che
viene chiamato da un’importante azienda di moda, la quale si trova in crisi
per problemi di organizzazione interna alla produzione e alla distribuzione
del marchio. Marchio, va detto, di grande prestigio. Il manager era
decisamente esperto nella riorganizzazione interna di grandi aziende, poiché
aveva maturato una notevole esperienza attraverso interventi su importanti
società in tutto il mondo. Fu quindi prescelto per la sua indiscutibile
esperienza, con un contratto a molti zeri.
Il paradosso che emerse, e per il quale l’azienda si rivolse al mio Centro,
si riassumeva nel fatto che negli ultimi mesi l’idillio amoroso tra l’azienda e
il manager di successo si era infranto. Questo appariva davvero inspiegabile
a un’osservazione superficiale, in quanto nei due anni di duro lavoro che
l’uomo aveva portato avanti gli esiti inequivocabilmente positivi della sua
performance manageriale erano sotto gli occhi di tutti. Finalmente l’azienda
funzionava con una perfetta armonia tra produzione, distribuzione e
vendita, come se il nostro uomo avesse rimesso in sesto un orologio
inceppato, rendendolo perfettamente sincronizzato in tutti i suoi movimenti.
Tuttavia la proprietà dell’azienda, rappresentata dalla famiglia del
fondatore, aveva maturato progressivamente una sorta di distacco, di rifiuto
sino al boicottaggio nei suoi confronti. In altri termini, queste persone
screditavano il manager nel suo rapporto con il consiglio d’amministrazione
e i dirigenti, senza riconoscergli tutti i meriti a buon diritto guadagnati con
il suo lavoro.
Indagando insieme al direttore delle risorse umane dell’azienda, colui
che era stato inviato a chiedere il nostro aiuto, apparve rapidamente chiaro,
procedendo attraverso le fasi del Problem Solving Strategico, come il
problema non fosse sul piano del merito professionale, ma su quello della
relazione personale. Il manager, totalmente concentrato sulla sua
performance, aveva sottovalutato il fatto di far sentire importanti i titolari
del marchio. Ovvero, di considerare il rischio che il suo successo potesse
trasformarsi nella dimostrazione pubblica dell’insuccesso di chi lo aveva
chiamato in aiuto. Sul piano razionale gli esiti positivi sono un’evidenza,
ma sul piano emotivo e relazionale questa realtà, se non filtrata e
ammorbidita coinvolgendo nei propri successi personali la proprietà,
diviene usualmente insopportabile. Di conseguenza, si assiste al paradossale
fenomeno per cui tanto più l’incaricato di risolvere i problemi dell’azienda
ha successo, tanto più finisce per essere rifiutato e boicottato.
Giunti a questa conclusione insieme al responsabile delle risorse umane,
costruimmo la sequenza di cambiamenti da introdurre, e usando la tecnica
dello scalatore arrivammo a individuare il primo passo da compiere.
Toccava al responsabile delle risorse umane il compito di parlare con il
manager, dato che tra loro si era instaurata una relazione di reciproca stima,
per informarlo di quanto era emerso dal colloquio con me e invitarlo ad
attivare, insieme a lui, un percorso di cambiamento strategico che potesse
modificare la difficile situazione.
Il manager accettò di mettere in pratica la prima, apparentemente
minima, manovra. Tutti i giorni avrebbe dovuto presentarsi al
rappresentante della proprietà, che era il figlio maggiore del fondatore
dell’azienda, per esporgli la situazione attuale, i suoi progetti, le sue
considerazioni, allo scopo di ottenere non solo approvazione ma una sorta
di supervisione al proprio lavoro, motivandola come una necessità emersa
negli ultimi tempi a seguito dei cambiamenti realizzati. In altri termini,
avrebbe dovuto dichiarare la sua difficoltà nel gestire il futuro dell’azienda:
finché si era trattato di realizzare i cambiamenti interni necessari per
sincronizzare le funzioni organizzative e produttive, si era sentito
all’altezza. Ora, invece, era necessario gestire il buon funzionamento e farlo
evolvere: per questo il manager aveva bisogno dell’aiuto di chi l’azienda
l’aveva costruita, e in virtù di questa esperienza poteva dargli le indicazioni
migliori.
Come il lettore può capire, questo fu uno stratagemma per trasformare la
precedente relazione tra i due, connotata da una posizione one-up del
manager e one-down del presidente, nel suo rovescio. Questo per
permettere al proprietario di sentirsi non solo importante, ma addirittura
superiore a chi nella realtà dei fatti aveva risolto i problemi che lui non era
stato in grado di gestire.
Questa ambivalenza relazionale svolge un ruolo fondamentale, poiché
rende effettivamente collaborativo e partecipe chi si era arroccato in una
posizione difensiva in quanto squalificato, paradossalmente, dal successo
della persona che egli stesso aveva chiamato in soccorso.
Come avviene nella maggioranza di questi casi, è bastato dare avvio a
una nuova tipologia di relazione perché questa si evolvesse naturalmente e
gli stati successivi di cambiamento pianificato si realizzassero senza
nessuna forzatura. Tuttora il manager lavora con soddisfazione per
l’importante marchio di moda e lui e il presidente, oltre al lavoro, giocano
spesso a golf insieme.
Mai dimenticare che l’ingenuo è tracotante, il saggio è umile.
IL VIOLINISTA A METÀ
Una delle categorie di persone con le quali amo lavorare di più sono i
musicisti: quando sono veri artisti, coniugano una disciplina rigorosa
all’ispirazione creativa.
Uno dei casi più simpatici che ho seguito è stato quello di un noto
violinista, che si era intrappolato in una fissazione che riduceva la sua
performance artistica. Ecco di cosa si trattava: durante un recente concerto,
nel portare l’archetto in una posizione molto prossima al volto, per ottenere
particolari effetti armonici, aveva sentito una forte contrattura al braccio e
un improvviso irrigidimento. Nel timore di bloccarsi, aveva subito spostato
l’archetto verso l’altra parte del violino, in modo da dare al braccio una
maggiore apertura e sciogliere la contrattura. Questa esperienza
«traumatica» aveva aperto in lui uno scenario di timore del tutto inedito. Per
la prima volta aveva cominciato a considerare l’eventualità di un blocco
durante la performance: contraendo troppo il braccio per spostare l’archetto
verso la parte più interna del violino avrebbe potuto perderne il controllo,
con risultati disastrosi. In virtù di questo timore, divenuto una vera e propria
ossessione, ora suonava il violino stando attento a non spostare l’archetto
nella metà dello strumento più vicino al volto, in modo da evitare il rischio
di una possibile contrattura e dell’eventuale errore. È evidente che questo
atteggiamento sminuiva la sua capacità di esecutore, tanto che lui stesso
riferiva di sentirsi un «musicista a metà», poiché suonava in metà dello
spazio del suo violino.
Utilizzando le tecniche del Problem Solving Strategico, in special modo
lo scenario oltre il problema, il musicista stesso propose come immagine
ideale la possibilità di suonare il violino senza dover spostare troppo il
braccio verso l’interno, in modo da non avere più il problema della
contrattura del braccio. Anche se questa si era presentata una volta sola,
infatti, nessuno poteva garantirgli che non si sarebbe potuta ripresentare e
questa mancanza di controllo era insostenibile. Se invece avesse potuto
suonare con il violino non appoggiato al volto, più lontano dal corpo,
questo gli avrebbe permesso di aggirare la sua sgradevole condizione.
Il mio suggerimento, indotto proprio da questa sua fantasia ideale, fu
quello di cominciare ad addestrarsi a suonare il violino tenendolo più
lontano dal volto, ovvero appoggiandolo alla spalla. Aggiunsi che avevo già
conosciuto musicisti che erano diventati ancor più famosi per il loro uso
non ordinario dello strumento musicale. Ad esempio, un contrabbassista che
aveva imparato a usare l’arco invece che le dita per suonare il suo
strumento da seduto come se fosse un violoncello, e questo lo aveva reso
davvero unico. Oppure, una pianista che suonava assumendo posizioni
totalmente differenti da quelle consuete e con movimenti che avrebbero
fatto rabbrividire un maestro di pianoforte tradizionale, ma che proprio per
questo era diventata ancor più acclamata. Lui avrebbe potuto costruire
qualcosa di simile, trasformando il suo limite in un ulteriore pregio, la sua
fragilità in un punto di forza, la sua presunta incapacità in una virtù
superiore.
La mia indicazione lo incuriosì molto, e si mise al lavoro.
Qualche settimana dopo, quando ci rivedemmo, aveva portato con sé lo
strumento e si esibì davanti a me in qualche breve esecuzione tenendo il
violino appoggiato sulla spalla, incastrato tra braccio e petto, e sfruttando
ogni parte dello strumento. Il musicista appariva davvero divertito
dall’escamotage, gli sembrava una sorta di «uovo di Colombo». Alcuni suoi
colleghi che avevano provato con lui in quelle settimane l’avevano trovato
un vezzo artistico decisamente snob, poiché suonare il violino in una
posizione apparentemente impossibile, che violava la tradizione, era un
modo per esibire ancora di più la propria capacità di performer.
Giungemmo così all’idea che la sua prossima esibizione in pubblico
sarebbe stata eseguita così, dichiarando però in anticipo che avrebbe
suonato utilizzando una nuova tecnica, da lui stesso messa a punto, per
avere sonorità nuove e una performance più elevata. Questo proprio in virtù
del fatto che nella nuova posizione, poteva usare ancor meglio l’archetto
sulla parte delle corde più vicina al corpo. Anche quest’idea gli piacque
molto, la trovava una uscita da vero mattatore del palcoscenico, perché
avrebbe trasformato la sua stranezza in una sorta di invenzione artistica.
Ebbe un notevole successo lungo una serie di concerti, superando
addirittura, in termini di acclamazione, i suoi successi prima dell’incidente
che lo aveva bloccato. La cosa che però non aveva previsto, e che era
invece parte integrante della mia strategia, è che dopo aver eseguito
performance di successo con il nuovo metodo calzato sulla struttura del suo
problema, la soluzione arrivò come un apparente effetto spontaneo. Mentre
si esibiva in un concerto, infatti, gli venne naturale a un certo punto
assumere la posizione tradizionale e suonare l’intero strumento senza alcun
problema. Così come gli venne spontaneo alternare le due posizioni, a
seconda delle esigenze.
Quando ci rivedemmo dopo questa nuova scoperta il violinista mi chiese
se avessi previsto tutto questo, e io gli risposi che quando la mente si blocca
su qualcosa, più cerchiamo volontariamente di sbloccarla e più la facciamo
inceppare. Era stato necessario applicare uno stratagemma che gli
permettesse di concentrare la sua attenzione su altro, perché l’obiettivo
emergesse spontaneamente. Gli dissi anche che nella tradizione dell’arte
dello stratagemma questo effetto veniva definito «solcare il mare
all’insaputa del cielo».

IL ROMANZIERE INCAPACE DI SCRIVERE


L’ultimo esempio di questa sezione dedicata alla difficoltà nella
performance si riferisce a un’altra tipica classe di problemi in cui si osserva
l’incapacità di svincolarsi da una strategia che ha funzionato per molto
tempo, fino a quando si è rovesciata su se stessa sortendo un effetto
contrario.
Il caso esemplare è quello di un noto scrittore di romanzi che a un certo
punto non riesce più a portare a termine la sua opera. Egli riferisce di essere
completamente bloccato nell’ispirazione, ogni volta che si mette davanti al
computer è incapace di partorire alcunché di scritto per il suo nuovo
romanzo, peraltro già concordato con il suo editore. Inoltre, è molto
preoccupato perché ha già dilazionato la consegna del manoscritto per più
di un anno, adducendo varie scuse, dai problemi di salute a quelli familiari.
L’editore è stato decisamente comprensivo, visto che si tratta di un autore di
punta, ma ora comincia a fare pressioni anche in considerazione del
cospicuo anticipo già versato per l’opera. Quello che l’autore dichiara come
più preoccupante per lui è il fatto di aver sempre usato una tecnica che gli
ha permesso di portare a termine il suo lavoro senza grandi fatiche. Ma
questa strategia, ora, risultava totalmente fallimentare. Di solito, come
prima cosa, pensava alla trama della storia, dopodiché la articolava in una
sequenza temporale, per poi cominciare a scrivere i capitoli uno per uno. Di
solito, la fine della storia arrivava come conseguenza diretta di quanto
aveva narrato in precedenza. In altri termini, l’autore non decideva la fine
già prima di scrivere il romanzo, poiché voleva lasciare la sua fantasia
libera di sviluppare la trama, e giungere a costruire un finale a effetto come
diretta conseguenza di tale processo. Al momento, purtroppo, dopo aver
scritto il primo capitolo e scelto il titolo del nuovo romanzo si era bloccato,
del tutto incapace di sviluppare la trama, capitolo dopo capitolo, fino alla
fine. Inoltre, anche il capitolo già scritto non lo entusiasmava. Tutto ciò gli
appariva come una caduta dell’ispirazione, e più volte aveva pensato che
fosse il momento di porre fine alla sua brillante carriera di scrittore e di
riciclarsi magari come critico, o in qualche altro modo. In ogni caso, doveva
prima mantenere fede all’impegno preso con il suo editore, almeno in
quest’ultima occasione.
Nell’applicare le fasi del Problem Solving Strategico a questo particolare
soggetto, il punto decisamente più critico appariva la sua assoluta fedeltà al
metodo utilizzato fino ad allora con successo, e la conseguente incapacità di
vedere qualunque alternativa al suo modo di procedere nella scrittura di un
romanzo. Alla domanda tecnica del come peggiorare lo scrittore aveva
risposto che gli bastava continuare come stava facendo, in quanto aveva già
realizzato la sua peggiore fantasia. Così come, nell’immaginare lo scenario
al di là del problema, l’immagine ideale era quella di avere chiaramente in
testa tutta la trama, compresa la fine della sua storia.
A questo punto, applicando la tecnica dello scalatore, considerato che
almeno il titolo del libro era chiaro, procedemmo ad analizzare quale
sarebbe stato il finale migliore per un’opera di quel tipo. Discutemmo per
un po’ mentre l’autore, incalzato dalle mie domande, cominciava a proporre
alcuni finali a effetto e io a mia volta commentavo le sensazioni che ognuno
di questi mi suggeriva. Dopo una buona mezz’ora, giungemmo a
concordare quello che appariva tra i vari proposti il finale più idoneo. A
questo punto, gli suggerii di mettere per iscritto, con la capacità letteraria
che gli era propria, le ultime pagine del libro, che aveva già idealmente
prodotto nel colloquio con me. L’autore, incuriosito, seguì l’indicazione.
Dopo meno di una settimana mi portò sette pagine scritte che
costituivano il finale, davvero efficace, del libro. Di nuovo cominciai a
discutere con lui riguardo a quale sarebbe stato, prima di questo finale, il
capitolo precedente migliore possibile. Discutemmo ancora, fino a quando
lui giunse a proporre, a ritroso, un frammento di trama che si adattava
meravigliosamente al finale. Gli suggerii di nuovo di mettere tutto per
iscritto.
Come il lettore avrà a questo punto capito, il lavoro è proseguito con altri
sette incontri, ognuno focalizzato sulla costruzione di un singolo capitolo,
procedendo dalla fine del romanzo verso il suo inizio. Gli permisi di leggere
il tutto, procedendo stavolta dall’inizio verso la fine, solo una volta
completata la struttura dell’opera. Con sua grande sorpresa, lo scrittore
apprezzò davvero il romanzo. Quando il suo editore ricevette l’opera ne fu
entusiasta, e gli disse di aver rilevato un’interessante evoluzione del suo
modo di scrivere. Certo non poteva immaginare che il libro era stato scritto
a rovescio.
Trasformare il nostro modo di pensare ordinario in una modalità
inusuale, a cui attenersi seguendo una procedura rigorosa, è uno dei modi
migliori per sbloccare le nostre trappole mentali.

Quando il Problem Solving diviene terapia

Prima di presentare esempi di psicoterapia basata sul Problem Solving


Strategico, ritengo necessario chiarire che qui sarà presentata una breve
rassegna della produzione scientifica e tecnologica elaborata e formalizzata
negli ultimi vent’anni da me e dai miei collaboratori. Inoltre saranno offerte
dimostrazioni di come anche le patologie psichiche e comportamentali
possano essere considerate classi di problemi con una struttura che si ripete,
anche quando questi si presentino in persone o contesti familiari
assolutamente singolari. La riprova di tutto ciò è che i protocolli di
trattamento, e le tecniche specifiche messe a punto per le forme più
ricorrenti di psicopatologia, funzionano sullo stesso tipo di problema anche
in contesti culturali completamente differenti tra loro. Ad esempio, il
trattamento specifico messo a punto per disturbo da attacchi di panico
funziona bene sia negli Stati Uniti come in Sud America, in Europa come in
Cina, in Russia come in Arabia. Questo dimostra chiaramente che se la
tecnologia terapeutica viene modellata sulla struttura delle patologie, può
essere applicata con successo da terapeuti differenti e in contesti lontani tra
loro, poiché a ogni classe di problema corrisponde una soluzione precisa.
Infine mi preme sottolineare che saranno esposti solo alcuni esempi che
mettono in evidenza con maggiore chiarezza come le procedure di
soluzione siano state costruite seguendo il modello di Problem Solving fin
qui esposto. Il lettore interessato troverà alla fine di questo testo una
rassegna relativa alla produzione scientifica e di tecnologia terapeutica del
Centro di Terapia Strategica. Qui non sarebbe possibile nemmeno citare una
a una le decine di tecniche inventate e i numerosi protocolli di trattamento
formulati: basti pensare che sono raccolti in ventisei volumi e decine di
articoli. Solo per introdurre il tema, segnaliamo il dato che il primo progetto
di ricerca-intervento di Problem Solving Strategico applicato alla
psicoterapia, portato avanti dal 1985 al 1990, è quello che più ha dato
impulso e notorietà al mio lavoro di ricerca in campo clinico, in virtù del
suo enorme successo applicativo: lo studio del trattamento in tempi brevi
dei disturbi fobico-ossessivi. Il progetto prese in considerazione fin dal
principio le specifiche forme di tentate soluzioni di coloro che soffrono di
panico, fobie, ossessioni e compulsioni.
Da questo tipo di indagine empirica presero avvio le sperimentazioni,
relative alla messa a punto di strategie in grado di rompere tali circoli
viziosi patologici. Si rilevò chiaramente come questi si formavano a seguito
della dinamica tra il presentarsi del disturbo e i tentativi fallimentari di
combatterlo da parte dei soggetti. Attraverso una prolungata fase di tentativi
sperimentali per trovare le soluzioni efficaci, si è giunti a elaborare una
serie di stratagemmi terapeutici, modellati sulle patologie in oggetto, che si
sono dimostrati in grado di romperne la persistenza, conducendo i pazienti a
liberarsi totalmente del loro disagio.
La stessa tipologia di ricerca-intervento è stata applicata negli anni
successivi alla maggioranza delle più rilevanti forme di psicopatologia. In
altri termini, sono state studiate le tipiche tentate soluzioni disfunzionali che
sostengono i differenti circoli viziosi patologici, mettendo a punto poi su
questa base gli specifici stratagemmi terapeutici in grado di interrompere
tali equilibri disfunzionali.
Qui di seguito saranno esposti alcuni esempi salienti di tale lavoro,
ovvero una serie di classi di problematiche cliniche e le relative soluzioni
terapeutiche messe a punto. Una sorta di sguardo fugace su un panorama
troppo vasto per poterlo qui contemplare appieno.
IN CASO DI PANICO
Analizzando il disturbo da attacchi di panico come un problema di cui
svelare il funzionamento, e studiandone le tentate soluzioni, si rileva che
tutti coloro che ne soffrono mettono in atto un copione ben preciso: cercano
di evitare tutte le situazioni che possono provocare il panico, tendono a
chiedere aiuto e rassicurazione agli altri e cercano di controllare le proprie
reazioni attraverso la repressione e la razionalizzazione degli impulsi.
In altri termini, potremmo definire la strategia fallimentare per
combattere il panico come l’interazione tra evitamento, richiesta di aiuto e
tentativo di controllo. Tutte e tre queste modalità confermano e alimentano
l’incapacità del soggetto a fronteggiare la paura quando diviene patologica.
Ogni situazione evitata conferma la sua pericolosità, facendone aumentare
il timore; ogni aiuto richiesto e ricevuto conferma la propria incapacità e
quindi fa aumentare la paura di fare da soli; il voler controllare
razionalmente i propri impulsi li esaspera.
Dalla ricerca psicofisiologica è emerso come il panico subentra quando il
soggetto cerca di controllare le proprie reazioni indesiderate, ma così
facendo le esacerba fino a perderne il controllo. La rilevazione tomografica
delle aree del sistema nervoso che si attivano durante un attacco di panico
conferma questo paradosso psicofisiologico. Se, ad esempio, il sintomo è il
cuore che batte all’impazzata o il respiro che viene a mancare, sono proprio
gli sforzi fatti per controllare questi due processi naturali che vanno ad
alterarne la naturalità. La tentata soluzione diventa il problema.
Su ognuna di queste tre tentate soluzioni disfunzionali è stata costruita
una tecnica terapeutica in grado di interromperne l’applicazione, o di
riorientarne gli effetti.
Per quanto riguarda il paradosso psicofisiologico, fin dagli anni Ottanta è
stata messa a punto la tecnica della «peggiore fantasia» che consiste nel
guidare la persona a imparare a esasperare la paura per ridurla (come nel
caso già visto del «guerriero spaventato») ovvero un paradosso che avesse il
potere di creare un controparadosso terapeutico in grado di bloccare quello
patologico. Questa è la tecnica principale del trattamento dal disturbo da
attacchi di panico, come riconosce ormai la maggioranza degli studiosi.
Parallelamente, si dimostra al paziente quanto sia pericoloso continuare a
chiedere aiuto, in modo che questi sviluppi il timore di ricorrervi e possa
così bloccare questo circolo vizioso. Infine, usando la tecnica dello
«scalatore», si programma una serie di contro-evitamenti, dal più piccolo al
più grande. Applicare il modello del Problem Solving Strategico ci permette
di focalizzarci sulle soluzioni, evitando di perderci nella complessità di tutte
le analisi applicabili alla personalità e alla storia personale. In questo modo,
in un tempo variabile tra due e quattro mesi, si porta il soggetto a superare
rapidamente il disturbo, ritenuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità
la forma più importante di psicopatologia, poiché riguarda ben il 20% degli
esseri umani.

IN CASO DI OSSESSIONI E COMPULSIONI


Anche per quanto riguarda il disturbo ossessivo-compulsivo la ricerca-
intervento ha condotto a rilevarne le usuali tentate soluzioni. In questo caso,
il circolo vizioso patologico che viene a costituirsi è basato prevalentemente
sul controllo, dapprima razionale, dei propri pensieri e azioni, fino a
sviluppare pensieri o azioni completamente irrazionali. Come nel caso delle
persone che, ossessionate dal timore di essere contagiate, ad esempio
dall’AIDS o da altre malattie infettive, cominciano a essere ossessionate
dall’igiene sia personale sia dei luoghi in cui vivono.
Considerando tale dinamica, un problema che si alimenta proprio grazie
alle ritualità che vengono eseguite compulsivamente, la tecnica messa a
punto (come nel caso dell’ingegnere insicuro e dei rituali di controllo) è
suggerire al soggetto un contro-rituale pianificato e standardizzato, con
l’obiettivo di assumere il controllo sulla fobia anziché esserne controllato.
Tale indicazione può variare a seconda della tipologia di rituale messo in
atto dal soggetto. Questo può essere riparatorio, quando il rituale serve a
rimediare a qualcosa che è accaduto: «mi lavo perché mi sono sporcato».
Può essere preventivo, quando il rito serve a prevenire: «controllo fornelli e
rubinetti per evitare perdite». Può essere propiziatorio, quando eseguo il
rito perché non succeda ciò che temo. Può essere magico, quando eseguo un
rituale a cui attribuisco il potere di influenzare l’andamento della realtà. Per
ognuna di queste tipologie di ritualità ossessivo-compulsiva sono stati messi
a punto specifici contro-rituali, in grado di bloccare la ripetizione
compulsiva.
Il passo successivo prevede un’applicazione clinica della tecnica dello
scalatore: il soggetto deve affrontare il rischio più piccolo, fino a liberarsi
da tutte le precauzioni ossessive messe in atto nell’illusione di proteggersi.
Come abbiamo già detto, nel disturbo ossessivo-compulsivo è ancora più
evidente come una parte dell’intervento rimanga identica e un’altra si adatti
alle specificità della fobia e dei rituali del soggetto per conformarsi al loro
specifico criterio logico.
Ciò che è più importante sottolineare qui è che, grazie a questo tipo di
trattamento, come risulta dalle numerose ricerche compiute sulla sua
efficacia in migliaia di casi a livello internazionale, si può condurre il
paziente a una rapida guarigione da una patologia che rappresenta la «bestia
nera» tra tutte le forme di disturbo psichiatrico, una patologia che troppo
spesso finisce per essere trattata senza successo, persino con l’elettroshock.

IN CASO DI «DUBBIO PATOLOGICO»


Il dubbio come metodo di analisi della correttezza delle osservazioni e dei
ragionamenti rappresenta uno dei fondamenti della ricerca scientifica e
tecnologica, ma come avvertiva la sapienza ellenica già 2500 anni fa,
«Nulla di troppo», poiché ogni cosa all’eccesso diviene perniciosa. Così
quando il dubitare diviene un’ossessione, da criterio logico della razionalità
si trasforma in un’immobilizzante tortura mentale. Chi soffre di questa
patologia, infatti, è intrappolato dal costante domandarsi se ciò che fa o ha
fatto o potrebbe fare è giusto o sbagliato, corretto o scorretto, morale o
immorale, sano o insano, buono o cattivo e così via.
Il dubbio diviene come il fondamento di una catena ossessiva di
domande, alla ricerca di risposte rassicuranti e definitive e per questo
impossibili da raggiungere. Questa ricerca improponibile di una «verità»
conduce a un vero e proprio labirinto mentale, entro il quale il soggetto si
perde e rimane imprigionato.
Usualmente, questo disturbo porta chi ne soffre a essere totalmente
invalidato e costretto ad abbandonare qualunque tipo di attività
professionale, poiché costantemente bloccato dal dubbio di scegliere prima
di intraprendere qualunque azione. Anche questo quadro clinico rappresenta
una sfida spesso insormontabile per le terapie psichiatriche e psicologiche,
in quanto vera e propria perversione dell’intelligenza e della razionalità.
Inoltre i soggetti che ne soffrono mettono costantemente in discussione i
metodi terapeutici, creando grandi difficoltà a chi cerca di aiutarli.
Se si applica il Problem Solving Strategico alla dinamica ricorrente di
questa patologia, il dubbio patologico si regge sul tentativo fallimentare di
trovare una risposta che blocchi la catena di interrogativi a livello razionale.
Questa appare una mission impossible, poiché si può argomentare un
dubbio a fronte di qualunque affermazione. Pertanto la soluzione non può
essere trovata a questo livello logico. Ma, se si sposta l’attenzione dai
contenuti alla forma della dinamica, si può rilevare che le domande che il
soggetto si pone e le risposte che si dà innescano un circolo vizioso, in cui
le prime imprigionano le seconde e queste alimentano nuovi dubbi. Se ne
deduce che, per bloccare la catena infinita del dubbio, devo interrompere
questa dinamica di interdipendenza tra domande e risposte.
A questo punto il lettore, come la maggioranza degli psicoterapeuti
razionalisti, potrebbe suggerire al soggetto disturbato di smettere di porsi le
domande che generano la catena del dubbio. Purtroppo, questo è di nuovo
irrealizzabile o addirittura controproducente, poiché più si cerca di non
pensare a qualcosa, più si finisce per averla in mente ed esserne torturati.
Forzare la mente a bloccare il dubbio crea ancora più dubbi. Ma se io non
posso chiedere di bloccare gli interrogativi posso, per contro, chiedere di
bloccare le risposte. In altri termini, si suggerisce alla persona affetta da
dubbio patologico di evitare di combatterlo direttamente, ma di lasciarlo
esprimere per poi bloccare le risposte, facendolo così cadere. Evitando di
rispondere razionalmente a ogni domanda si cessa di nutrire il circolo
vizioso, bloccandone immediatamente il meccanismo perverso.
Come già indicava Kant, «sono le domande che creano le risposte», ma
non esistono risposte corrette a domande scorrette. In questo caso si devono
omettere le risposte e si deve analizzare la correttezza dei quesiti. Di solito,
i pazienti accettano questo ragionamento alternativo in quanto decisamente
logico e tortuoso quanto il loro, ma al tempo stesso offre loro una via
d’uscita razionale da una razionalità divenuta irrazionale.
Nei fatti, se si riesce a guidare i soggetti affetti da «dubbio patologico»
ad applicare il «blocco delle risposte per inibire le domande patogene», nel
giro di poche settimane essi si liberano totalmente dai loro labirinti mentali.
Anche questa tecnica, costruita ad hoc per questa specifica classe di
problemi psicologici, è il frutto creativo della applicazione rigorosa del
modello di Problem Solving Strategico qui descritto, che ha permesso di
guardare alla sua dinamica formale individuandone il punto di rottura.

IN CASO DI PATOFOBIA
Una delle forme più ricorrenti di disturbo psicologico moderno è senza
dubbio la patofobia, ovvero la fissazione fobica di avere una malattia. Le
più usuali sono le cardiopatie, i tumori, le sclerosi e le malattie infettive, ma
non ci sono limiti a tale disturbo. Questa forma ossessiva di preoccupazione
conduce i soggetti a continui esami clinici e consulti medici. Si è stimato
che oltre la metà degli esami diagnostici richiesti al servizio sanitario
nazionale siano inutili. Se a ciò si aggiungono le consultazioni mediche
private e il moderno accesso «on line» a siti di diagnostica medica, si può
considerare quanto sia esteso questo problema e quali siano le sue ricadute
sul sistema sociale e sanitario, oltre che sul singolo individuo. Se si
considera anche questa patologia come una specifica classe di problema con
un suo funzionamento ricorrente, si rileva che tutti coloro che manifestano
questo disturbo mettono in atto le stesse modalità disfunzionali per
combatterlo. Il patofobico cerca continue rassicurazioni rispetto alla sua
salute, si sottopone a frequenti esami clinici e cerca di evitare di ascoltare il
proprio corpo, poiché ogni segnale che ne riceve lo spaventa. Anche in
questo caso, queste tre tentate soluzioni non solo non riducono il problema,
ma lo alimentano. Di conseguenza diventano il bersaglio dell’intervento
strategico, volto ad azzerare il meccanismo vizioso che crea e nutre la
patofobia.
Prendiamo ad esempio il caso ricorrente della persona ossessionata
dall’avere una cardiopatia, che la condurrà inevitabilmente a un infarto.
Questa persona di solito cerca rassicurazione continua da parte del suo
medico e si sottopone a qualunque esame diagnostico in ambito
cardiologico. Vorrebbe non sentire mai il suo cuore, o sentirlo sempre
regolare, perché ogni sua presunta alterazione la manda nel panico.
La tecnica messa a punto per bloccare e riorientare il circolo vizioso
patologico è quella di prescrivere alla persona di eseguire un controllo
sistematico del suo cuore. Ovvero: a ogni ora del giorno, alle 8, alle 9, alle
10 e così via, dovrà rilevare il battito cardiaco ascoltando il polso e
prendendone nota. La procedura va ripetuta tre volte, con un minuto di
intervallo tra una rilevazione e l’altra. In tal modo, avremo un vero e
proprio «diario di bordo» del suo cuore.
È sorprendente vedere come il cuore di queste persone funzioni
normalmente, e come nelle rilevazioni ripetute tenda a divenire ancor più
regolare e con un battito del tutto rassicurante. Per i soggetti questo
rappresenta una scoperta disarmante, che produce un’«esperienza
emozionale correttiva» delle precedenti convinzioni fobiche.
Il trattamento procede mantenendo la prescrizione, ridotta però a una
frequenza di ogni 2 ore, e associata all’invito ad azzerare ogni richiesta di
rassicurazione e di altri esami diagnostici.
Di solito il paziente «guarisce» nell’arco di qualche settimana, mentre si
riduce gradualmente la rilevazione quotidiana del battito cardiaco, sino a
considerarla eventuale presidio terapeutico in caso di preoccupazione.
Il lettore scettico può sperimentarlo su di sé: rilevare costantemente il
battito per tre volte consecutive riorienta all’inverso il fenomeno patogeno
di voler controllare, e perciò alterare, il proprio ritmo cardiaco, creando così
rassicurazione ove si trovava spavento.

IN CASO DI DISTURBI ALIMENTARI


L’area clinica dei disordini alimentari è una delle specialità di studio e
trattamento del mio lavoro, così come per i disturbi fobico-ossessivi. Ne è
testimonianza diretta la numerosa serie di pubblicazioni tradotte in molte
lingue. L’esperienza ventennale di successo nel trattamento delle patologie
alimentari più estreme, come l’anoressia, la bulimia ribelle e il vomiting,
con la formalizzazione di protocolli di trattamento sempre più evoluti per le
differenti varianti di tali disturbi, mi ha condotto negli ultimi anni a
riflettere anche in merito alla loro prevenzione. Questa idea è emersa dal
constatare come il punto d’arrivo della terapia di ogni forma di disordine
alimentare coincida con la costruzione di un rapporto equilibrato tra il cibo
e il proprio corpo. Ciò è indicato anche dal significato etimologico della
parola «dieta». Ma a questo punto si è posto un problema: condurre una ex
anoressica, ex bulimica o ex vomiting a un equilibrio alimentare duraturo
aveva poco a che vedere con le usuali «diete» suggerite dalla cosiddetta
schiera dell’alimentazione. Queste ultime si basano sul controllo ferreo
delle calorie o delle caratteristiche nutritive degli alimenti, mentre ciò che si
deve insegnare a chi è uscito da una patologia alimentare è vivere il
«piacere» del cibo.
Sulla base di questa constatazione, ho applicato all’area della nutrizione
il Problem Solving Strategico, con l’obiettivo di giungere a indicazioni
realmente efficaci sulla gestione dell’alimentazione e del proprio corpo, che
si potessero mantenere nel tempo.
È opportuno ricordare qui al lettore che tutte le diete fanno dimagrire, ma
nessuna è efficace se non viene mantenuta nel tempo. La compliance
terapeutica nel caso di prescrizioni di diete non supera il 10%. Ciò significa
che il 90% dei soggetti a dieta non riesce a osservarla o ad aderirvi. Come
già affermato, quindi, non è un caso che le ricerche longitudinali mostrino
come chi è a dieta ingrassi di più di chi non lo è.
Utilizzando il nostro modello per tali disturbi, emerge che il «come
peggiorare» è rappresentato dal tentativo fallimentare di controllo sul cibo,
che conduce alla perdita di controllo. Questo può realizzarsi in varie
direzioni, che infine coincidono con le varie forme di patologia alimentare.
Lo «scenario ideale», invece, è rappresentato dal poter mangiare quello che
ci piace di più senza ingrassare.
Ma com’è possibile tutto questo?
Esattamente come si fa quando si deve portare a termine una psicoterapia
dei disordini alimentari, seguendo una semplice regola: far mangiare ciò
che piace ai pasti. Così è nata l’idea della dieta paradossale, ossia
l’indicazione di «mangiare solo e soltanto ciò che piace di più, ma solo e
soltanto nei tre pasti principali».
L’effetto davvero sorprendente, che tutti sperimentano, è che se si segue
alla lettera questa regola piacevole cessano immediatamente gli spuntini e
le abbuffate fuori dai pasti. Non solo, dopo alcuni giorni i cibi prediletti
concessi così liberamente non sono più così tanto desiderati, e lasciano il
passo a ciò che il nostro corpo ci suggerisce. In altri termini, eliminato
l’effetto trasgressione da restrizione alimentare il nostro organismo ci
chiede ciò di cui ha bisogno, ovvero si autoregola. Così chi è in sovrappeso
dimagrisce senza sacrificio, se non addirittura con piacere, e chi è in lotta
costante con il cibo per mantenere la linea può cessare la battaglia e
goderselo senza il rischio di ingrassare.
Grazie a questo metodo, negli ultimi tempi interveniamo con successo
anche sui casi non severi di patologia alimentare, guidando le persone a
stabilire un equilibrio sano e duraturo con il cibo.

TUTTI MI RIFIUTANO: UN CASO ESEMPLARE DI TERAPIA BREVE


STRATEGICA
Si presenta Alessandro, un giovane ingegnere del nord Italia, che tuttavia
non svolge la professione cui sarebbe abilitato, ma lavora nella farmacia di
famiglia con la madre e il fratello, in quanto affetto da ciò che la psichiatria
definisce disturbo paranoico persecutorio.
Alessandro, benché cresciuto in una famiglia dove non è certo mancato
l’affetto e dove non ci sono stati maltrattamenti né abusi, soffre della
costante sensazione che gli altri lo rifiutino, o che abbiano addirittura
qualcosa contro di lui. Tale idea, supportata da sensazioni di vero e proprio
panico, lo ha condotto nel tempo a essere incapace di qualunque forma di
esposizione sociale, tanto da essersi meritato l’etichetta di fobico sociale.
Del resto, come capiterebbe a chiunque se si mettesse nei panni di
Alessandro, se ho la sensazione costante di essere osteggiato, rifiutato o
addirittura aggredito, tenderò a evitare il contatto con gli altri per ridurre
tale sensazione terrorizzante. Come accade nelle forme più severe di questo
disturbo, tuttavia, questa tentata soluzione aveva condotto a un incremento
esponenziale della fobia degli altri. Inoltre il giovane sentiva l’esigenza di
essere costantemente in presenza di figure protettive, come la madre e il
fratello. Il padre, l’unico non disposto ad assecondarne le richieste, veniva
costantemente accusato dalla moglie di essere colpevole di non aiutare un
figlio così fragile.
A questo contesto familiare divenuto, pur con le migliori intenzioni,
complice del mantenimento del problema, si sommava anche la presenza
della moglie di Alessandro, ancora più ansiosa e protettiva degli altri.
Anche lei soffriva di attacchi di panico, e se capitava che si trovassero in
una situazione sociale in cui Alessandro manifestava il suo problema, lei vi
aggiungeva il suo: lui entrava in panico da mania persecutoria, lei in panico
da crisi d’ansia.
Il disturbo era emerso gradualmente e non all’improvviso, fin
dall’università, per poi esplodere nella sua sintomatologia acuta subito dopo
gli studi, quando il giovane avrebbe dovuto assumersi responsabilità
familiari e professionali in prima persona. In effetti, come molti autori
osservano, è proprio questo il periodo d’insorgenza di disturbi di questo
tipo.
Alessandro aveva anche una prolungata storia clinica, ossia sette anni di
trattamento psichiatrico a base di antidepressivi e neurolettici, oltre alla
possibilità di assumere ansiolitici nei momenti critici. Si tratta del resto
della terapia farmacologica standard in questo tipo di patologia, ma che
raramente produce esiti davvero terapeutici, se non il contenimento della
patologia per effetto dell’inibizione degli impulsi dovuta alla massiccia
assunzione di sedativi. Purtroppo, tale repressione chimica lavora non solo
contro i sintomi ma anche nei riguardi delle risorse personali: il soggetto
può avere meno crisi ma rimane intontito e incapace di condurre una vita
autonoma e indipendente. Sarebbe come dire che ciò che mi cura al tempo
stesso mi castra.
Sono evidenti la complessità del caso e la gravità della situazione. Come
al solito, dopo aver definito il problema in tutti i suoi dettagli, e concordati
gli obiettivi dandone una concreta immagine, si analizzano le tentate
soluzioni disfunzionali. Da qui appare evidente come ciò che veniva portato
avanti a scopi benefici conduceva a risultati opposti. Riassumendo dal
punto di vista della logica strategica, il modello ricorsivo che mantiene il
problema di Alessandro è rappresentato dalla strategia di evitamento e dalla
richiesta di aiuto e rassicurazione, con la presenza di un sistema familiare
iperprotettivo e ansiogeno che fa da scudo al suo problema e un trattamento
farmacologico che inibisce sia i sintomi che le risorse personali.
In tutti i casi di questo tipo, alla fine della prima seduta viene suggerita
un’indicazione esplorativa, presentata come un modo per capire meglio
come mai gli altri lo rifiutino o ce l’abbiano con lui: «Da oggi alla prossima
volta che ci rivedremo, ogni volta che ti capiterà di uscire per delle
commissioni, cosa che ovviamente non ti chiediamo di fare da solo, dovrai
fare in modo di osservare tutte le persone che incontri e cercare i segnali del
loro rifiuto. Prendi appunti di tutto ciò noti, perché ne dovremo discutere la
prossima volta». E nel caso specifico, vista la gravità della situazione, si era
preferito rimarcare il concetto: «Vedi, è fondamentale per il nostro lavoro
capire in che modo gli altri manifestino il loro rifiuto, così potremo
aggiustare il tiro nel difenderci. Per questo ti chiedo di prestare particolare
attenzione ai dettagli che dimostrano come tutti ce l’abbiano con te».
Questa prescrizione, studiata ad hoc per chi soffre di manie di
persecuzione, ha il compito di introdurre un cambiamento all’apparenza
piccolo, ma con un effetto valanga sulle modalità ricorsive disfunzionali
che il soggetto mette in atto per combattere il problema.
Alessandro tornò due settimane dopo, riferendo di essersi impegnato
diligentemente a studiare come gli altri lo rifiutavano: lo aveva fatto con i
clienti della farmacia, andando per strada con la moglie o nei negozi. Ciò
che lo aveva decisamente sorpreso era il fatto di non aver trovato nessun
segnale concreto di rifiuto o di ostilità nei suoi confronti, tanto da non
prendere nota di nulla. Anzi, qualcuno aveva persino risposto al suo
sguardo «indagatore» con un sorriso, e questo per lui era davvero
incredibile.
Cos’è successo? «Semplicemente» è stata trasformata la sua interazione
comunicativa con gli altri, producendo di conseguenza il cambiamento
degli effetti che questa produce. Infatti chi soffre di mania persecutoria
tende ad assumere un atteggiamento di chiusura verso gli altri, evitando il
contatto oculare o di sostenerne lo sguardo; tale chiusura manifesta all’altro
il rifiuto e questi, a sua volta, reagirà chiudendosi in difesa. Se io invece
«costringo» la persona, con un’indicazione velata, a guardare gli altri o a
studiarne il comportamento, faccio sì che senza rendersene conto essa
manifesti un atteggiamento di apertura verso gli altri, i quali risponderanno
sullo stesso tono. In tal modo si trasforma il copione del rifiuto in quello del
contatto e dell’accettazione.
Dopo tale inequivocabile esperienza, reiterata più volte nei giorni
successivi, fu relativamente facile condurre anche Alessandro a realizzare
quanto qui esposto, per fargli comprendere come in realtà fosse lui l’artefice
del suo crudele destino, il che voleva dire che poteva essere, allo stesso
modo, anche l’artefice del suo cambiamento.
A questo punto, usando la tecnica dello scalatore, abbiamo costruito una
serie progressiva di esperienze di contatto sociale alle quali Alessandro si è
applicato, seduta dopo seduta, utilizzando lo stratagemma di guardare gli
altri ed essere lui il primo a salutare e sorridere. Grazie a questa strategia, il
giovane ha completamente superato la mania di persecuzione e la fobia
sociale nell’arco di quattro mesi.
Parallelamente a questo, la terapia farmacologica è stata gradualmente
ridotta dalla neurologa che lavora nel nostro Centro, così come è stato
progressivamente eliminato il supporto familiare. In altri termini, sono state
rimosse tutte le tentate soluzioni che mantenevano il problema,
trasformando la paura da disfunzionale a funzionale.
La riduzione farmacologica ha richiesto quasi un anno, per evitare effetti
rebound o effetti collaterali della remissione dell’uso delle sostanze
chimiche. Durante questo periodo Alessandro riferiva mensilmente tutti i
progressi che andava realizzando nella sua vita, tra i quali il ritorno alla sua
vocazione professionale di ingegnere, con un lavoro nel settore della
certificazione di sicurezza nelle aziende. Un modo ulteriore di uscire, sia da
un punto di vista familiare che lavorativo, dalla rete protettiva che lo
intrappolava. Nel frattempo la moglie, visti i risultati ottenuti dal marito, si
è sottoposta a una terapia per i suoi attacchi di panico.
Da alcuni anni Alessandro e la moglie vivono una vita autonoma e
indipendente, e viaggiano spesso intorno al mondo esplorando insieme tutto
ciò che prima avevano evitato e temuto.
Come dimostra questo caso esemplare, il fatto che un disturbo sia severo,
sofferto e persistente da anni non significa che il suo trattamento debba
essere altrettanto sofferto e prolungato nel tempo.

Quando il Problem Solving è formazione e consulenza manageriale

Se nel mondo clinico l’approccio puramente strategico ha trovato, per la sua


totale distanza dalle tradizioni ortodosse e dagli interessi economici delle
case farmaceutiche, resistenze iniziali, poi superate dalla dimostrazione
della sua efficacia ed efficienza, bisogna dire che in ambito manageriale è
stato invece accolto fin da subito con grande favore. Il mondo delle aziende
e delle organizzazioni, infatti, è decisamente più scevro da ortodossie
teoriche e misura la validità di un modello sulla base della sua capacità di
produrre risultati effettivi. È evidente, per questa ragione, come i modelli
psicoterapeutici tradizionali abbiano trovato enormi difficoltà nella loro
applicazione a questo contesto, mentre un approccio orientato al risultato in
tempi brevi appare immediatamente calzante a una realtà come quella
manageriale. Non è un caso, quindi, che fin dall’inizio della mia carriera le
richieste di intervento strategico in quest’area siano state numerose e di
grande importanza. A esse ha preso parte in maniera crescente anche il
gruppo dei miei collaboratori, che nel tempo è divenuto sempre più
specializzato nell’applicazione del Problem Solving Strategico a contesti
non clinici.
Qui di seguito saranno esposti alcuni esempi di tali interventi in realtà
complesse, dove la complicazione non è data da una distorsione patologica
della percezione della realtà, come nella terapia, ma da disfunzioni nella
gestione di organizzazioni articolate e in cui lavorano molte persone.
Prima di passare alla descrizione dei casi selezionati per questo testo, mi
sembra utile sottolineare come il nostro modello di Problem Solving sia
stato applicato con successo a organizzazioni decisamente differenti tra loro
per scopo e struttura: da aziende profit oriented come Coca-Cola, Barilla,
British American Tobacco, Tamoil, a organizzazioni no profit come le
Forze Armate, la Polizia Penitenziaria o la Lega delle Cooperative; da
organizzazioni dedicate alla formazione come il ministero della Pubblica
istruzione a importanti società di consulenza come Kaizen Institute Group.
Questo per mostrare la flessibilità e adattabilità dell’approccio e
ricordare al lettore che quando si lavora per migliorare il fattore «umano» si
trovano possibili applicazioni in qualunque contesto e situazione, in quanto
anche le organizzazioni più grandi e complesse sono costituite e gestite da
uomini.

LEADERSHIP DISFUNZIONALE
Una delle difficoltà più frequenti che si incontrano nelle organizzazioni
riguarda la gestione della leadership da parte di manager e dirigenti. Troppo
spesso, infatti, si sottovaluta il fatto che il ruolo di «capo» di per sé non
trasforma una persona in un leader. Le problematiche conseguenti a una
leadership inefficace possono essere molteplici, e la più evidente è il
malfunzionamento dell’organizzazione che a questa leadership fa
riferimento.
Tra le tante forme di «leader incapace» ho scelto di presentare qui quella
che più frequentemente si presenta negli ultimi tempi: l’incapacità di
delegare e controllare.
Se si utilizza la «tecnica dello scenario» e si immagina il leader ideale,
questi dovrebbe certo avere numerose competenze tecniche, ma soprattutto
quella di far lavorare in autonomia i suoi sottoposti per farne emergere le
capacità personali. Al tempo stesso si richiede che ne controlli la
performance, correggendo gli errori e incentivando i successi. A tali
capacità di gestione si dovrebbe poi aggiungere un carisma personale tale
che il leader venga ammirato e seguito da parte dei suoi collaboratori.
Cesare era un grande condottiero, seguito per timore più che per
ammirazione; Alessandro Magno era il leader amato e ammirato, e per
questo seguito ovunque dai suoi soldati.
Il caso è quello di un’azienda di distribuzione sul mercato di un prodotto
molto avanzato nel campo dell’arredamento e non solo, una particolare
forma di materasso e letto in grado di garantire un sonno migliore anche ai
peggiori insonni. L’azienda non era certo in crisi, anzi poteva esibire un
solido fatturato, ma nutriva aspirazioni di un’ulteriore crescita di quote di
mercato. Dato tale obiettivo, insieme ai due responsabili della proprietà fu
progettato un percorso di formazione-cambiamento per il gruppo di
dirigenti regionali, al fine di migliorarne le performance manageriali.
La prima giornata in aula fu gestita facendo lavorare i 19 manager di area
sulla tecnica avanzata dello «scenario ideale», relativo in questo caso alla
situazione futura del loro gruppo di lavoro. Ognuno di loro aveva circa una
decina di sottoposti, esperti di marketing e vendita diretta. Nel far esporre a
ognuno la propria immagine ideale, emerse immediatamente il dato
secondo cui la stragrande maggioranza dei manager aspirava ad avere un
gruppo di collaboratori in grado di seguire alla lettera le indicazioni, e al
tempo stesso capace di metterle in pratica senza un continuo bisogno di
supporto. Grazie all’utilizzo di questo espediente, si poté dare subito una
definizione del problema che non permetteva all’azienda di andare oltre i
risultati già ottenuti: la presenza, nella maggioranza delle aree, di un
modello disfunzionale di interazione tra il manager e i suoi collaboratori.
La difficoltà era rappresentata dal fatto che i presenti in aula si
lamentavano di dover continuamente intervenire sui problemi che i
collaboratori non sapevano gestire autonomamente. Questo li costringeva a
dedicare una parte rilevante del loro tempo a tali correttivi, anziché allo
sviluppo di nuove reti di vendita. In altri termini, i leader spendevano la
maggior parte del loro tempo a sostituirsi ai loro sottoposti nell’affrontare le
difficoltà che questi ultimi non riuscivano a fronteggiare. Di conseguenza,
non solo erano sovraccarichi di lavoro che non era di loro diretta
competenza, ma rischiavano anche di deresponsabilizzare i propri
collaboratori, minandone l’autostima personale. Se un leader si sostituisce
al collaboratore intervenendo direttamente per risolvere i suoi problemi,
anziché seguirne la crescita professionale e mostrandogli come superare il
proprio limite, costruisce una struttura di collaboratori incapaci e frustrati.
Questi dipenderanno sempre da lui, mettendolo nella condizione di dover
intervenire personalmente, e di accentrare su di sé tutte le responsabilità. A
conferma di questa ipotesi iniziale, le tentate soluzioni messe in atto fino ad
allora dal gruppo di manager di area erano per lo più interventi diretti sui
clienti, per sanare problematiche sorte con i collaboratori, insieme ad
atteggiamenti paternalistici di richiamo nei confronti del collaboratore in
difficoltà. Come dire: «Ti rimprovero perché non sei capace, ma poi faccio
io al tuo posto». Questa ambivalenza strategica inchioda il collaboratore
alla propria incapacità e costringe il suo capo a doversi continuamente
sostituire a lui.
A questo punto, proponemmo di lavorare con la tecnica del «come
peggiorare», facendo emergere chiaramente la disfunzionalità del loro
modello di rapporto con i collaboratori e il fatto che, se questo fosse stato
reiterato, non solo l’azienda non avrebbe raggiunto risultati migliori, ma
avrebbe conosciuto un graduale arretramento. Così suscitammo il timore
del fallimento con l’immagine chiara di come realizzarlo: in tale situazione,
un cambiamento di strategie diveniva non solo necessario, ma
indispensabile.
A questo punto, sulla base del confronto tra lo «scenario oltre il
problema» e il «come peggiorare», applicammo la «tecnica dello scalatore»,
costruendo a ritroso tutti gli step necessari per giungere dalla realtà presente
all’obiettivo desiderato. Il processo di cambiamento si basò
fondamentalmente sulla prescrizione di delegare i compiti, di controllarne
l’esecuzione e di intervenire sul collaboratore se questi non avesse eseguito
bene la consegna, ma per insegnargli come fare, senza sostituirsi a lui. Tutto
ciò avvenne progressivamente, partendo da obiettivi minimi in crescita
graduale.
Questo lavoro è proseguito per circa sei mesi, con un incontro mensile
del gruppo con il nostro team per supervisionare la trasformazione da leader
incapaci a leader effettivamente in grado di delegare e controllare.
L’azienda nell’anno successivo al nostro intervento ha totalizzato il miglior
fatturato nella sua storia.
TRASFORMARE LA DIFFIDENZA IN FIDUCIA
Alla fine degli anni Ottanta, a causa di una prima importante crisi del
settore, il comparto pratese del tessile dovette affrontare una situazione
economica e lavorativa difficile. Un’importante società di consulenza aveva
ricevuto l’incarico dall’amministrazione pubblica provinciale e regionale di
risolvere la difficoltà, introducendo variazioni nell’organizzazione del
lavoro. Lo studio di consulenza si mise al lavoro e, dopo aver valutato bene
la situazione del comparto locale di Prato, mise a punto una soluzione
innovativa capace di salvare le aziende dalla crisi. Si trattava di trasformare
i singoli laboratori in competizione tra loro in isole produttive. Questi,
infatti, nel gioco della concorrenza puntavano al ribasso dei costi per
mantenere la propria presenza sul mercato, accentuando in tal modo la
competizione tra i singoli laboratori, la riduzione dei costi di produzione e
dei ricavi economici. L’idea era quella di mettere insieme più laboratori in
capannoni che accorpassero le attività di più persone, costruendo una catena
produttiva in cui ogni operatore avesse una sua parte di responsabilità. Ciò
avrebbe abbassato i costi della produzione aumentandone la qualità. Tutti
avevano da guadagnare da un’operazione di ristrutturazione aziendale così
concepita.
Inoltre, tutto questo veniva realizzato grazie a fondi regionali ed europei,
quindi a costo zero per i laboratori e con il vantaggio di abbassare i costi
produttivi per ognuno di loro e di aumentare i guadagni. Grazie a questa
operazione si sarebbero garantite più commesse, e mantenuto o aumentato il
livello di produzione.
Il progetto apparve vincente e le amministrazioni incaricarono la società
di portarla avanti. Si procedette così alla realizzazione della prima isola
produttiva pilota, per poi giungere a metterne in piedi una serie, una volta
verificata la reale efficacia del progetto. Tutto andò bene, fino al momento
in cui i responsabili della società dovettero selezionare il primo gruppo di
lavoratori. Tuttavia sorse un problema: per quanto il progetto apparisse
vantaggioso per tutti, i soggetti che per anni erano stati in rivalità tra loro e
spesso in conflitto erano riluttanti a riunirsi sotto la stessa bandiera. In altri
termini, il fattore umano- relazionale andava contro i corretti calcoli
economico-produttivi.
A questo punto, la società di consulenza, composta da ingegneri, legali
ed economisti si trovò disarmata, poiché incapace di risolvere tale assurdo
problema. Due dei componenti di quella società parteciparono a un
seminario tenuto da Paul Watzlawick e da me sul tema del cambiamento.
Alla fine dell’incontro, si rivolsero a noi per chiedere un aiuto per affrontare
la situazione. In effetti, vista con gli occhi di un economista o di un
ingegnere la circostanza appariva assurda. Avevamo infatti persone vicine
al tracollo produttivo ed economico che si rifiutavano di lavorare insieme
per qualcosa che li avrebbe protetti e tutelati. Quando chiedemmo ai
consulenti se questa fosse la realtà unicamente del gruppo pilota, ci
risposero che la stessa situazione si era presentata un po’ in tutti i gruppi.
Era quindi chiaro che il problema non riguardava una minoranza, ma
derivava da una situazione di rivalità e conflitto, reiterata nel tempo, di un
intero settore produttivo. Così si rischiava di far fallire completamente un
progetto che avrebbe evitato il crollo totale di quell’area produttiva, con
tutte le conseguenze immaginabili.
L’obiettivo concordato fu quello di riuscire a trasformare quella
situazione di reciproca sfiducia e diffidenza tra i responsabili dei singoli
laboratori tessili in piena collaborazione tra tutti.
Tutte le prime tre fasi del Problem Solving Strategico sono state
realizzate con i consulenti, e non con i diretti interessati, in quanto in realtà
erano loro i fornitori e gli applicatori delle tentate soluzioni disfunzionali.
Questo ci condusse a rilevare e concordare con loro che, in questo caso, era
necessario l’intervento diretto di qualcuno esterno al progetto, che potesse
lavorare non sugli aspetti lavorativi ed economici ma sulle dinamiche
relazionali. Un po’ come nel caso della nave fatta emergere con le palline
da ping-pong, si trattava di realizzare un intervento che potesse far
cambiare nelle persone la disposizione nei confronti dell’altro.
Fu così pianificato un primo incontro con il gruppo di soggetti che
avrebbero dovuto realizzare la prima isola produttiva, dicendo loro che gli
esperti avrebbero tentato di far sì che la loro valutazione reciproca mutasse,
permettendo loro di lavorare insieme. Una dichiarazione che può sembrare
puramente formale, ma che in realtà era molto di più, poiché volevamo
creare subito un effetto aspettativa che generasse il ben noto effetto
Hawthorne: il fatto che le persone sappiano che viene impiegato un esperto
per migliorare la loro realtà produce, già di per sé, una predisposizione al
cambiamento. Qualcosa di simile all’effetto placebo o, meglio, a quando ci
basta sapere che il medico illustre ci curerà per farci sentire meglio, per
effetto dell’aspettativa che si viene a creare.
L’incontro, realizzato in una sala pubblica per evitare qualunque aspetto
clinicizzante, fu giocato proponendo ai partecipanti l’applicazione delle due
tecniche avanzate di Problem Solving: lo «scenario al di là del problema» e
il «come peggiorare».
Il lettore immaginerà che in questo caso i soggetti non erano certo degli
intellettuali né degli scienziati, ragion per cui indurli a fare un lavoro
puramente mentale non fu cosa facile. Si dovette impiegare un’intera
giornata nella quale fu necessario da un lato raccogliere le risposte offerte
alle varie declinazioni delle domande proprie delle due tecniche di Problem
Solving, dall’altro gestire sul campo le dinamiche conflittuali tra i vari
membri del gruppo. Alla fine della giornata, tuttavia, si era finalmente
riusciti a creare in loro un’aspettativa positiva rispetto al progetto e
all’eventuale collaborazione con i colleghi. Questo fu il risultato dell’aver
evocato in ognuno di loro, attraverso la tecnica del «come peggiorare», una
concreta sensazione di paura per la possibile evoluzione del lavoro nel caso
in cui il progetto fosse fallito, e il fallimento fosse dovuto alla loro
incapacità di collaborare e fidarsi reciprocamente.
Per gestire questa sensazione, e per non trasmettere loro un’idea
moralista della bontà degli esseri umani, chiudemmo la giornata
proponendo di risolvere un ben noto dilemma logico che ci sembrava
adattarsi perfettamente alla situazione: il dilemma dei due prigionieri.
Questo autentico paradosso semantico ha rappresentato un rompicapo per
generazioni di logici e di matematici, poiché non può avere una spiegazione
puramente razionale, ma richiede la messa in gioco di aspetti relazionali ed
emotivi che non possono essere calcolati con certezza.
Si tratta di questo: un giudice si trova a dover condannare due truffatori,
e per decidere la pena li fa rinchiudere in due celle lontane l’una dall’altra.
Poi propone a ognuno di loro il seguente dilemma: «Se tu ti dichiari
innocente e il tuo compagno si dichiara colpevole, tu sarai immediatamente
libero e lui sarà condannato a 5 anni di carcere. Se tu ti dichiari colpevole e
lui innocente accadrà il contrario, lui sarà libero e tu andrai in carcere per 5
anni. Se entrambi vi dichiarate innocenti, visto che ci sono prove della
vostra colpevolezza, sconterete entrambi 3 anni di carcere. Se entrambi vi
dichiarate colpevoli, sconterete invece solo 3 mesi di carcere».
La complicazione è rappresentata dal fatto che ognuno dei due deve
fidarsi dell’altro e confidare nel fatto che l’altro si fidi di lui, e viceversa.
Infatti se entrambi confidano nell’altro e si dichiarano colpevoli, lo scotto
da pagare è minimo per entrambi, ma basta che uno dei due «tradisca» la
fiducia perché l’altro subisca la pena massima...
Come spesso accade, quando in situazioni come queste si usano tecniche
che apparentemente decontestualizzano il problema, per poi
ricontestualizzarlo da una prospettiva differente, si possono osservare effetti
curiosi. Nel nostro caso si osservò una netta modifica delle disposizioni non
verbali tra i partecipanti, che passarono dalla tendenza all’evitamento del
contatto oculare e di ogni ammiccamento a un gioco di sguardi,
ammiccamenti e sorrisi reciproci immediatamente rilevabile da un
osservatore.
Grazie a questo sorprendente e illuminante dilemma e al suo calzare
perfettamente alla situazione, l’effetto quasi magico osservato alla fine della
giornata dai membri della società di consulenza ebbe un esito decisamente
positivo nelle settimane successive. Il progetto dell’isola produttiva prese
avvio, e per i consulenti non fu più impossibile costruire la filiera di
produzione selezionando per ognuna delle fasi di produzione i soggetti più
idonei.
Il progetto, come la storia della realtà pratese insegna, ha avuto un tale
successo che è stato poi replicato in numerose altre aree produttive italiane
con problemi simili.
Potremmo commentare sottolineando, contrariamente a ciò che
comunemente si pensa, che non sono le organizzazioni a fare gli uomini, ma
gli uomini a fare le organizzazioni. L’uomo non è figlio delle circostanze:
l’uomo è colui che le crea.

LICENZIARE ETICAMENTE
Quando un’azienda giunge alla difficile decisione di licenziare dei
dipendenti, di solito le valutazioni sono strettamente collegate ai vantaggi
che ne può trarre l’azienda, a discapito di quelli dei lavoratori. Questo
sembrerebbe un inevitabile dato di realtà ma, come sarà dimostrato
nell’esempio che segue, si può talora riuscire a fare qualcosa di differente.
Il caso che mi preme ricordare non è stato gestito né da me in prima
persona né dai miei collaboratori che si occupano di formazione e
consulenza aziendale, bensì da un nostro allievo della Scuola di
Comunicazione, che ha conseguito anche il titolo di Formatore dopo aver
preso parte al Corso di formazione per Formatori che ogni anno si tiene
presso il nostro Centro. Si tratta del manager di un’importante azienda che
produce cappe per cucine e camini, che si è trovato di fronte all’ineluttabile
decisione di licenziare centinaia di persone per il crollo del mercato dovuto
alla grave crisi dell’ultimo anno.
Di fronte a questo compito così difficile, il manager ha scelto di porsi in
una prospettiva diversa da quelle con cui in genere si procede al taglio degli
organici. Di solito si tagliano le persone che rappresentano per l’azienda
una risorsa minore o un maggior costo o, seguendo un’indicazione di tipo
sindacale, si garantisce il posto a chi ha più anzianità rispetto a chi ne ha
meno. La prospettiva non ordinaria scelta dal nostro uomo nell’affrontare il
dilemma è stata quella di chiedersi chi potesse essere meno danneggiato dal
licenziamento. In questo modo è giunto a pensare che si dovessero
licenziare le persone con maggior probabilità di reinserimento professionale
immediato. Pertanto la sua attenzione si è spostata dal pensare di chi fosse
più utile all’azienda al decidere chi potesse essere ricollocato più
velocemente a livello professionale in settori produttivi analoghi.
A tale scopo, ha incaricato una società di replacement di gestire le
possibilità di ricollocamento dei profili professionali dei dipendenti,
giungendo così a proporre loro, in modo onesto e chiaro, la sua intenzione
di licenziare per primi coloro che avrebbero avuto la possibilità di
immediato ricollocamento sul territorio nazionale. In tal modo avrebbe
potuto tenere per ultimi coloro che avrebbero trovato più difficoltà a trovare
una nuova occupazione, nella speranza di una ripresa del mercato che
potesse scongiurare questa triste possibilità.
Ciò che mi sembra particolarmente positivo è che per la prima volta mi è
sembrato di assistere a un licenziamento etico. Vale a dire che di fronte a
una reale crisi del mercato e a una reale esigenza di licenziare una parte dei
dipendenti per poter mantenere il posto di lavoro agli altri, si è provveduto a
stabilire chi doveva uscire dall’azienda in base alle possibilità che ciascuno
aveva di essere ricollocato, offrendogli direttamente tale possibilità. Per
tutti, infatti, il manager si è preso la responsabilità di trovare, insieme alla
società di replacement, la migliore soluzione di rioccupazione,
predisponendo per ognuno di loro un profilo valutativo che ne facilitasse
l’inserimento nella nuova azienda.
Tutto questo rappresenta un esempio di come un approccio strategico al
Problem Solving possa essere utilizzato non solo per obiettivi di successo,
ma anche quando si debbano prendere decisioni critiche come quella di
licenziare dei collaboratori per mantenere in piedi la propria azienda.

LE «AMAZZONI» SONO MIGLIORI DEI «MACHO»


L’intervento nel mondo delle organizzazioni al quale sono forse più legato,
sia per i risultati ottenuti che per il legame affettivo che si è stabilito con i
partecipanti al progetto, è quello realizzato con l’Esercito Italiano. Esso si è
protratto per alcuni anni ed è stato un rapporto continuativo di formazione-
selezione che ha portato a costruire una vera eccellenza di formatori-
selezionatori dei quadri manageriali. Ciò si era reso necessario nel momento
in cui l’esercito stava passando dalla leva obbligatoria all’arruolamento
volontario come scelta professionale. A tale scopo, un primo gruppo di
militari è stato formato alla Comunicazione e al Problem Solving
Strategico. Quindi i suoi componenti sono stati supervisionati nel corso
degli anni nel loro lavoro di addestramento non solo dei dirigenti militari,
ma anche di nuovi formatori, sino alla costituzione di centri permanenti
dedicati a questa funzione.
Nel caso di questo processo di trasformazione manageriale di
un’organizzazione peculiare come quella militare, numerosi sono stati i
problemi riscontrati e risolti. Una difficoltà che ha richiesto il ricorso a una
particolare manovra strategica era rappresentata dall’inserimento nelle
nuove forze armate professionali delle donne. Il problema si poneva in
particolare nei corpi di eccellenza operativa, dove nei confronti delle donne
era radicato il classico pregiudizio maschile sulla debolezza femminile, in
base al quale era impossibile che le donne potessero diventare combattenti
affidabili ed esperte. L’obiettivo, dunque, era persuadere i militari maschi
delle qualità e della affidabilità delle donne in situazioni di operatività
militare.
Fino ad allora tutte le tentate soluzioni si erano basate su un
atteggiamento protettivo nei confronti del «sesso debole». L’idea era
semplicemente di differenziare compiti e ruoli tra i due sessi, evitando di
mettere le donne nelle situazioni ritenute pregiudizialmente idonee solo ai
maschi. Tutto ciò benché le esperienze nelle forze armate di altre nazioni
dimostrassero l’idoneità delle donne a qualunque attività militare, anzi
addirittura ne evidenziassero le migliori performance in alcune prestazioni.
In una forma di «galanteria», insomma, alle donne in divisa erano concessi
privilegi come l’acqua calda e l’esonero dalle attività più pesanti e
rischiose. Ma dalla prospettiva di un militare, ciò veniva percepito come la
prova del fatto che, in una reale situazione di combattimento, le soldatesse
sarebbero state compagne di squadra inaffidabili. Come ovvia conseguenza,
i militari maschi rifiutavano l’idea di avere accanto una collega donna in
casi di vera e propria operatività.
Applicando la tecnica dello «scenario oltre il problema», il nostro gruppo
di formatori e Problem Solver suggerì che per persuadere i «macho» ad
accettare le donne come compagne, avrebbero dovuto pensare all’immagine
di «amazzoni guerriere» migliori degli uomini, nelle quali confidare ancora
di più in situazioni di guerra. Da questa immagine metaforica nacque l’idea
di comunicare ai militari maschi questo dato, che del resto era vero, in
maniera decisamente suggestiva. Si partiva da un dato di fatto: nei «trial» di
preparazione militare di altre forze armate, le donne erano effettivamente
risultate non più deboli ma addirittura migliori. Perciò sarebbero dovute
essere loro a preoccuparsi di avere colleghi maschi affidabili, e non il
contrario. In altri termini, la strategia ideata fu quella di suscitare nei
militari maschi il timore di essere inferiori e di doversi quindi meritare di
lavorare insieme all’altro sesso. Si veniva così a creare un totale
rovesciamento della situazione precedente. In termini tecnici, si trattava di
«ristrutturare» la percezione della realtà dei militari maschi, per
modificarne l’atteggiamento e il comportamento.
Al fine di verificare l’efficacia di questa soluzione, procedemmo a una
sua applicazione sperimentale presso un battaglione dove erano giunte le
prime donne militari professioniste. Il gruppo dei formatori-militari
organizzò un incontro/lezione con ufficiali e sottufficiali sul tema del
confronto tra «performance militari» maschili e femminili. In questa
presentazione, alla quale io e altri miei collaboratori partecipammo per
supervisionare il lavoro, venne mostrato ai «macho», in maniera suggestiva
ed evocativa oltre che con i dati alla mano, come le «amazzoni» fossero
decisamente più «performanti» di loro. Si sa che le donne sono più
resistenti sia alla fatica che al dolore, sono più cooperative e decisamente
più intuitive, più capaci di apprendere e altro ancora.
Fu davvero curioso vedere trasformarsi le facce degli indomiti militari,
per lasciare il posto all’espressione attonita di chi scopre qualcosa di
inatteso e temibile. Ora il problema erano loro, non le donne!
L’esperimento ebbe un successo inequivocabile e così è stato replicato,
azzerando le resistenze all’inserimento delle donne nell’esercito
professionale.
In questo caso, come in molte altre forme di intervento strategico, nel
ristrutturare la percezione di una realtà ci siamo basati su uno stratagemma
capace di trasformare sia i limiti in risorse, sia i presunti punti di forza in
punti deboli su cui far leva per introdurre il cambiamento: «Abbiamo
sbattuto l’erba per far scappare i serpenti».

MIGLIORARE I MIGLIORI
Una delle competenze più importanti per un Problem Solver è rappresentata
dalla sua capacità di comunicare efficacemente. In questo testo non c’è lo
spazio necessario per trattare anche il tema della Comunicazione Strategica,
che rappresenta la seconda anima del nostro approccio alla soluzione dei
problemi umani, e per questo rimandiamo il lettore ai testi già pubblicati sul
tema. Tuttavia, nel presentare esempi di intervento, non ci si può esimere
dal citare anche questa parte fondamentale del nostro lavoro, in quanto
spesso è la formazione alla comunicazione strategica il veicolo per la
realizzazione del Problem Solving Strategico.
Come, ad esempio, nel caso di una delle più importanti società al mondo
di consulenza e gestione delle organizzazioni produttive, un vero e proprio
marchio di qualità totale, e che si rivolse a noi per un confronto tra i nostri
due modelli. Durante tale interscambio di strategie di Problem Solving,
tuttavia, emerse un fattore che loro avrebbero potuto migliorare
significativamente: la capacità di comunicare più efficacemente con i loro
clienti, costruendo una relazione migliore in modo da incrementare la
collaboratività e aggirare più agevolmente le resistenze al cambiamento. Mi
si conceda di evidenziare che la capacità di riconoscere i propri limiti e il
tendere al miglioramento continuo sono propri solo dei migliori, e non è
quindi un caso che questa società abbia così tanto successo.
Con questo scopo, analizzammo quale fosse il loro problema ed emerse
rapidamente una chiara discrepanza tra il modello di intervento decisamente
strategico e il modo di comunicare, invece, decisamente cognitivo. In altri
termini, presentavano ai loro clienti le soluzioni strategiche per i problemi
delle loro organizzazioni in modo diretto e razionale, come in un semplice
passaggio di informazioni. Al contrario, se si vuole indurre qualcuno a
cambiare idee e azioni, è importante utilizzare uno stile di comunicazione
persuasivo. Tale realtà rendeva il loro lavoro ben più faticoso, con la
frustrazione di vedere come le loro soluzioni non fossero applicate dai loro
clienti.
Sulla base di questa rivelazione è stato realizzato un vero e proprio
addestramento alle tecniche di comunicazione, in modo che quegli
eccellenti Problem Solver divenissero anche comunicatori efficaci.
Tra le «invenzioni tecnologiche» realizzate, la tecnica del «dialogo
strategico» e quella del «rendere magiche le parole» rappresentano una vera
e propria punta di diamante del nostro lavoro. La prima è una raffinata
struttura per rendere un singolo colloquio un vero e proprio processo di
cambiamento strategico. La seconda concerne l’uso del linguaggio non
verbale e paraverbale, per rendere la comunicazione verbale più suggestiva
e influente.
Se non sono in grado di persuadere qualcuno a seguire le mie
indicazioni, queste, per quanto efficaci, saranno fallimentari perché
verranno ignorate. Una delle più grandi doti di Alessandro Magno, per
tornare a citare il geniale condottiero, era proprio la capacità di persuadere i
soldati a seguirlo nelle sue imprese e i nemici ad arrendersi senza
combattere. Il sovrano macedone aveva al suo seguito il maestro di retorica
Antisarco, allievo di Protagora, che lo aiutava a preparare i suoi famosi
discorsi. Tra le strategie retoriche di Alessandro, quella che più mi piace
riguarda le domande con illusione di alternativa di risposta, da lui utilizzate
nei confronti dei regnanti di città o stati che voleva conquistare. Prima di
iniziare un attacco si presentava al regnante di turno, proponendogli quanto
segue: «Preferisci che io distrugga il tuo regno, uccida tutti i tuoi sudditi,
rada al suolo le tue città, cancelli dalla storia la tua genia, oppure che ti lasci
a regnare come satrapo di una delle province dell’Impero Universale di
Alessandro, mantenendo tutti i tuoi privilegi e salvando le tue genti?» Non è
un caso che la stragrande maggioranza scegliesse di divenire satrapo
dell’Impero Universale di Alessandro. In questo modo, grazie a una forma
raffinata di comunicazione e strategia, il più grande condottiero della storia
vinse senza combattere la maggior parte delle sue battaglie.
Capitolo 6

CONCLUSIONI

Per concludere questo viaggio espositivo ritengo importante proporre al


lettore alcune riflessioni, che a questo punto saranno decisamente più
comprensibili.
In primo luogo, il Problem Solving Strategico, essendo un metodo basato
sui risultati, non subisce l’effetto né delle possibili ideologie dominanti né
delle fedi religiose, in quanto il suo principio guida fondamentale è la prova
della sua efficacia. Questa, che sembrerebbe essere una divagazione
puramente epistemologica, è invece un argomento di forte attualità
nell’universo della scienza e delle sue applicazioni. Quest’ultima non è,
come potrebbe apparire, o come poteva essere qualche secolo fa, scevra
dalle influenze delle norme sociali e dalle credenze, siano queste politiche,
economiche o religiose. Questo fa sì che spesso la ricerca scientifica tutto
sia meno che realmente scientifica: troppo spesso si dimostra quello che si
vuole dimostrare sin dall’inizio del progetto di ricerca e la metodologia
viene costruita in vista di questo obiettivo, piuttosto che della scoperta di
conoscenze realmente utilizzabili. Ad esempio le ricerche, pubblicate anche
sulle cosiddette «riviste scientifiche», che dimostrerebbero il potere
terapeutico delle preghiere nella guarigione del cancro. Ma guarda caso,
queste ricerche provengono da università di stampo fortemente religioso.
Oppure la ricerca che dimostrava la superiorità intellettiva dei giapponesi
rispetto agli altri esseri umani, in virtù del loro linguaggio basato su
ideogrammi, che coinvolgerebbe oltre all’emisfero sinistro anche l’emisfero
destro. Dimenticandosi, però, che i cinesi dovrebbero essere ancora più
intelligenti, visto che il loro codice di ideogrammi è di gran lunga superiore
a quello dei giapponesi. Oppure, la scoperta quotidiana di un gene
responsabile o della felicità o del piacere o della paura o di qualunque
malformazione fisica e accanto a questa la proposta di un promettente, se
non miracoloso, farmaco. Poi si scopre che tutte queste ricerche sono
finanziate dalle case farmaceutiche che applicano da anni avanzate tecniche
di marketing, usando la ricerca scientifica corrotta come trampolino di
lancio dei propri farmaci. La lista degli esempi di scienza corrotta dalla
fede, dall’ideologia o dal mercato è davvero illimitata, e queste sono solo
alcune piccole dimostrazioni. Il mio non vuol certo essere un sermone
moralista, bensì un tentativo di far vedere al lettore che se il metodo che si
adotta per intervenire su un fenomeno da modificare è basato sulla sua
effettiva efficacia, e non su teorie a priori, si giunge inevitabilmente a un
rigore incorruttibile. Poiché i risultati replicabili e prevedibili nella realtà, e
non solo in laboratorio, non subiscono gli effetti descritti.
Qualche anno fa si tenne a Firenze un convegno sulla «Verità» al quale
parteciparono filosofi, psicologi e scienziati, tra i quali Umberto Galimberti
e il sottoscritto. Benché le nostre posizioni siano assai diverse, le nostre
presentazioni concordavano su un concetto fondamentale. Galimberti, con
la sua straordinaria capacità oratoria e di organizzazione delle tesi, presentò
un excursus storico sul concetto di verità: questa fu dapprima la verità degli
elementi naturali e la rappresentazione di divinità a essi legate; in secondo
luogo, è divenuta la verità monoteista, ovvero di un unico dio supremo,
visione che ha dominato per millenni e che tuttora impera in molte realtà;
alla fine dell’Ottocento si giunse alla «verità scientifica», la conoscenza
oggettiva dei fatti, ma bastarono pochi decenni perché questa fosse
completamente smontata dalla scienza stessa. Grazie a Gödel, Heisenberg e
Einstein si dimostrò chiaramente l’impossibilità della divisione tra soggetto
che osserva e oggetto osservato, con il crollo dell’illusione positivista della
conoscenza oggettiva. Ancor oggi, tuttavia, la maggioranza dei ricercatori
svolge il proprio lavoro sulla base di tale illusione. Verso la fine del
secondo millennio, la verità coincide con l’efficacia. In altri termini, negli
ultimi decenni, in virtù di tutte le conoscenze acquisite, l’unica forma di
verità accettabile è quella tecnologica, vale a dire che è vero tutto ciò che
funziona nel raggiungere gli obiettivi prefissati.
È evidente che, se si assume questa prospettiva, il Problem Solving
Strategico non rappresenta più soltanto un metodo sorprendentemente
funzionale per risolvere problemi o raggiungere scopi desiderati, bensì
diviene anche un criterio fondamentale per la conoscenza. L’efficacia di una
soluzione, se replicabile e predittiva, ci permette di conoscere con
precisione il problema che questa ha risolto. Si supera l’idea razionalista del
conoscere per cambiare, e si giunge inesorabilmente all’idea del cambiare
per conoscere. Non sono più le spiegazioni dei fenomeni che guidano alle
soluzioni, ma sono le soluzioni che funzionano a condurci alle spiegazioni.
Come ci indica Heinz von Foerster con il suo «imperativo estetico», «se
vuoi vedere, impara come agire».
BIOBIBLIOGRAFIA DELLE OPERE E INVENZIONI DI GIORGIO NARDONE
A CURA DI ROBERTA MILANESE1

Riportiamo di seguito un percorso bibliografico relativo alle principali


pubblicazioni di Giorgio Nardone e dei suoi collaboratori che hanno
segnato lo sviluppo e la diffusione del modello strategico in ambito non
solo terapeutico, ma anche organizzativo e educativo. La maggior parte
delle opere indicate sono state tradotte nelle principali lingue (inglese,
spagnolo, francese, tedesco e, in alcuni casi, anche russo e giapponese) e
hanno ormai diffusione internazionale. Psicologi, psicoterapeuti, insegnanti,
manager e professionisti di varie discipline provenienti da tutto il mondo ne
hanno decretato il successo, permettendo così al modello di diffondersi ben
al di là dei confini italiani ed europei.
Sebbene alcuni testi siano indirizzati a uno specifico settore d’intervento
(psicoterapia, formazione-consulenza o sblocco delle performance), la
maggioranza dei libri sono «trasversali» al modello, ovvero riuniscono in sé
costrutti teorico-operativi ed esempi che non si esauriscono in un singolo
ambito d’applicazione. Il lettore interessato potrà quindi trovare differenti
percorsi di lettura, a seconda dei suoi specifici interessi, per approfondire
questo affascinante modello che, con le sue tecniche «apparentemente»
semplici, ha permesso di raggiungere risultati straordinari in una vasta
gamma di problemi complessi.
Tutto questo al lettore potrebbe apparire come qualcosa di magico ma, in
realtà, non è nient’altro che tecnologia avanzata. D’altra parte, come
sosteneva Clarke, «una tecnologia abbastanza avanzata, nei suoi effetti, non
è dissimile a una magia».

Nardone G., 1988, «Brief Strategic Therapy of Phobic Disorders: A


model of Therapy and Evaluation Research», in J.H Weakland, W.A.
Ray (a cura di), Propagations, The Haworth Press Inc., New York,
1995.
È in questo capitolo del 1988 che viene pubblicato il primo lavoro di ricerca
sistematica relativa al trattamento del disturbo agorafobico in una
prospettiva breve strategica. Sebbene non compaia ancora il termine
«protocollo di trattamento», in questo lavoro appare già delineata la
procedura di Problem Solving Strategico suddivisa in quattro stadi e
troviamo già in forma embrionale alcune di quelle che saranno fra le
invenzioni più creative ed efficaci nella risoluzione di questo tipo di
disturbo.

Nardone G., Watzlawick P., 1990, L’arte del cambiamento. Terapia


strategica e ipnoterapia senza trance, Ponte alle Grazie, Firenze.
L’opera, in breve divenuta un classico, presenta l’approccio strategico come
un nuovo modello teorico e operativo per la soluzione in tempi brevi di
problemi individuali, di coppia e di famiglia. In questo volume vengono
presentati in forma articolata e sistematizzata anche i primi due protocolli di
trattamento messi a punto per l’area fobico-ossessiva: uno per il disturbo
agorafobico e uno per quello ossessivo-compulsivo. Per ognuno dei due
protocolli vengono specificati il processo terapeutico, organizzato in quattro
stadi, e i corrispondenti stratagemmi d’intervento.

Nardone G., 1991, Suggestione → Ristrutturazione = Cambiamento:


l’approccio strategico e costruttivista alla terapia breve, Giuffrè, Milano.
Questo libro si presenta come un manuale completo e dettagliato
sull’approccio strategico alla terapia. Una vasta parte dell’opera è relativa
alla presentazione di sette casi di terapia, puntualmente trascritti, nei quali è
presentata le sequenza delle manovre, commentate mossa dopo mossa. Si
passa da un caso di disturbo ossessivo-compulsivo a quello di una presunta
fobia scolare, da un caso di agorafobia a una terapia di coppia, da un
disturbo anoressico grave a una presunta psicosi. Molte di quelle che
saranno invenzioni terapeutiche fondamentali all’interno dei protocolli di
trattamento che verranno in seguito formalizzati sono già presenti in questi
casi, sia per l’area fobico-ossessiva che per quella dei disturbi alimentari.

Nardone G., 1993, Paura, Panico, Fobie, Ponte alle Grazie, Firenze.
Il volume espone il puntuale resoconto di un’esperienza di ricerca empirica
in campo clinico. Per la prima volta vengono definiti in maniera dettagliata
i differenti sistemi percettivo-reattivi tipici dei diversi tipi di disturbi fobici,
ovvero le differenti modalità di percezione e reazione della realtà tipiche
delle persone che soffrono di questo tipo di problemi. L’autore distingue
cinque differenti sistemi percettivo-reattivi, che richiedono analoghe
varianti nel protocollo di trattamento: il disturbo agorafobico, la sindrome
di attacchi di panico, la sindrome composita di agorafobia e attacchi di
panico, la sindrome ossessivo-compulsiva, la sindrome fobico-
ipocondriaca. Per ogni disturbo viene presentata la sequenza per stadi del
processo terapeutico, con le relative invenzioni terapeutiche.

Nardone G., 1994, Manuale di sopravvivenza per psico-pazienti, ovvero


come evitare le trappole della psichiatria e della psicoterapia, Ponte alle
Grazie, Firenze.
Questo libro, ormai un classico del genere e presentato ora in una nuova
edizione aggiornata, è un utilissimo strumento per la scelta del terapeuta.
L’autore, infatti, ha saltato la barricata per unirsi alla schiera dei pazienti,
calarsi nei loro panni ed esplorare da questa prospettiva le attuali offerte
della psichiatria e della psicoterapia. Ironico e scientifico al tempo stesso,
attraverso aneddoti tragicomici, pungenti storie esemplari e dissertazioni
scientifiche, Giorgio Nardone offre al lettore una mappa dettagliata delle
«trappole» nelle quali può cadere il paziente che si inoltra nel vasto
territorio delle terapie della mente. Una guida preziosa e insostituibile per
trovare il terapeuta giusto con il minimo costo personale, esistenziale ed
economico.

Nardone G., Fiorenza A., 1995, L’intervento strategico nei contesti


educativi: comunicazione e Problem Solving per i problemi scolastici,
Giuffrè, Milano.
Possiamo considerare questo libro un valido strumento operativo per
insegnanti, educatori e operatori sociali, un vero e proprio manuale
dettagliato sull’approccio strategico ai contesti educativi. Gli autori guidano
il lettore a scoprire «come» risolvere effettivamente e in tempi brevi i più
frequenti problemi nel mondo della scuola. Le indicazioni strategiche
suggerite sono approfondite nello specifico in relazione ai principali
problemi che si manifestano nei contesti educativi, quali il disturbo da
deficit dell’attenzione con iperattività, il disturbo oppositivo-provocatorio,
il disturbo da evitamento, il mutismo elettivo e i conflitti e litigi tra allievi. I
risultati della «ricerca-intervento» e i numerosi esempi reali riportati
palesano l’efficacia e l’efficienza dell’approccio, anche quando applicato in
maniera «indiretta».

Watzlawick P., Nardone G., 1997 (a cura di), Terapia breve strategica,
Raffaello Cortina Editore, Milano.
Questo volume risponde molto bene all’esigenza di fornire una panoramica
il più possibile completa ed esaustiva della Terapia Breve Strategica. Il libro
è articolato in saggi redatti dagli autori più rappresentativi dell’approccio
strategico: Heinz von Foerster, Ernst von Glasersfeld, Stefan Geyerhofer,
Paul Watzlawick, Jeffrey Zeig, Cloé Madanes, Steve de Shazer, John
Weakland e lo stesso Giorgio Nardone. Gli autori accompagnano la rigorosa
esposizione teorica con numerosi esempi concreti tratti dalla pratica clinica.
Nel saggio di Giorgio Nardone vengono presentati alcuni esempi di
strategie e stratagemmi originali per il trattamento di disturbi specifici,
come il disturbo da attacchi di panico, le compulsioni, il dubbio ossessivo,
la depressione, la bulimia e il blocco della performance.

Nardone G., 1998, Psicosoluzioni, Rizzoli, Milano.


In questo testo, rivolto al largo pubblico e divenuto rapidamente un best
seller, Giorgio Nardone guida il lettore attraverso storie cliniche che
spaziano negli ambiti psicopatologici più svariati: «presunte psicosi»,
disturbi fobici, disturbi ossessivi e compulsivi, disturbi alimentari. Per la
prima volta vengono presentate anche le principali manovre d’intervento in
casi di manie, paranoie, depressione e terapia di coppia, alcune delle quali
verranno poi sviluppate in opere successive. Particolarmente originale è
l’ultima parte, dedicata al self help strategico, inteso come la capacità che
ognuno di noi può sviluppare per sostituire i propri «autoinganni
disfunzionali» con «autoinganni funzionali» attraverso l’utilizzo di
particolari tecniche e stratagemmi.
Nardone G., Verbitz T., Milanese R., 1999, Le prigioni del cibo.
Vomiting, anoressia, bulimia: la terapia in tempi brevi, Ponte alle Grazie,
Milano.
Questo libro riporta i preziosi risultati della ricerca applicata compiuta sui
disturbi alimentari. Oltre alle due patologie alimentari classiche – anoressia
nervosa e bulimia nervosa – gli autori hanno individuato un terzo tipo di
disturbo definito «sindrome da vomito» o «vomiting». Il mangiare e
vomitare compulsivamente viene qui considerato come una vera e propria
«sindrome», più simile a una «perversione» basata sul cibo che, per questo
motivo, richiede un tipo di trattamento specifico. Il volume riporta
un’esposizione completa e approfondita dei protocolli di trattamento messi
a punto per questi tipi di disturbi, ognuno dei quali richiede particolari
varianti terapeutiche. Vengono così distinte le strategie d’intervento per
l’anoressia (sacrificante e astinente), per le bulimiche (boteriane, yo-yo,
binge eating) e per le vomiting (trasgressive inconsapevoli, trasgressive
consapevoli ma pentite, trasgressive consapevoli e compiaciute). Ognuna di
queste categorie richiede un particolare tipo di trattamento, individuale o
familiare, che viene puntualmente descritto dagli autori sia da un punto di
vista teorico che tramite la trascrizione di casi clinici.

Nardone G., 2000, Oltre i limiti della paura, Rizzoli, Milano.


Lo scopo di questo testo è quello di chiarire al grande pubblico quali sono
le forme di paura patologica, come si formano, come si mantengono e come
possono essere risolte in tempi brevi. Viene presentata una classificazione
delle principali patologie fobiche: le monofobie, le fobie generalizzate, le
ossessioni compulsive, le fissazioni ipocondriache e le fobie post-
traumatiche. Sebbene raccontate in maniera narrativa, sono qui esposte
molte invenzioni terapeutiche originali e fondamentali all’interno dei
protocolli di trattamento per i disturbi fobico-ossessivi. E proprio per
questo, nonostante il libro sia rivolto a un pubblico ampio di non addetti ai
lavori, rappresenta anche un utile testo di consultazione per quegli
specialisti del settore che vogliano aggiornarsi sulle più recenti evoluzioni
del trattamento di questo tipo di disturbi.
Nardone G., Mariotti R., Milanese R., Fiorenza A., 2000, La terapia
dell’azienda malata. Problem solving strategico per organizzazioni, Ponte
alle Grazie, Milano.
In questo libro gli autori guidano il lettore a scoprire come prevenire e
curare le insidie che inesorabilmente minano il percorso verso il successo di
molte aziende e organizzazioni. Presentando il loro sistematico metodo di
lavoro, si propongono di guidarlo alla scoperta di un metodo, evoluto ed
efficace, per la soluzione focale di problemi e per il raggiungimento di
precisi obiettivi strategici. Attraverso esempi di casi concreti d’intervento in
diverse realtà organizzative (da piccole aziende a grandi organizzazioni, da
sistemi finanziari a sistemi no profit, da cooperative a strutture militari),
questo volume rappresenta un valido supporto non solo per il consulente
chiamato a «sbloccare» una situazione aziendale disfunzionale, ma anche
per il manager che voglia cavalcare strategicamente le onde del continuo
cambiamento all’interno delle organizzazioni.

Nardone G., Giannotti E., Rocchi R., 2001, Modelli di famiglia, Ponte
alle Grazie, Milano.
In questo libro Giorgio Nardone, insieme ai suoi collaboratori, riassume il
risultato di anni di ricerca-intervento rivolta all’osservazione dei molteplici
schemi di organizzazione familiare emergenti nel panorama italiano attuale.
Sono sei i modelli di famiglia individuati: l’iperprotettivo, il democratico-
permissivo, il sacrificante, il delegante, l’intermittente, l’autoritario.
Ognuno di questi modelli viene illustrato attraverso l’esposizione di
emblematiche storie cliniche; le strategie di soluzione sono semplici e
chiare, le terapie rapide ed efficaci. Il risultato è una nitida fotografia della
situazione emergente all’interno della famiglia e dei suoi modelli di
riferimento, ma soprattutto del percorso possibile e attuabile verso la
risoluzione di nodi problematici e pericolose conflittualità.

Loriedo C., Nardone G., Watzlawick P., Zeig J.K., 2002, Strategie e
stratagemmi della psicoterapia, Franco Angeli, Milano.
In questo volume gli autori affiancano esposizioni teoriche approfondite ed
esemplificazioni cliniche di trattamento, guidando così il lettore a cogliere
pienamente lo sviluppo di un intervento di psicoterapia breve, osservandolo
in vivo. Il contributo di Giorgio Nardone prende avvio dall’esposizione di
come, a partire dai primi modelli strategici, il modello di Terapia Breve
Evoluta si sia venuta sviluppando e si caratterizzi per la costruzione e l’uso
di specifici protocolli di trattamento per specifiche patologie. La puntuale
trascrizione di sei sedute di un caso esemplare di trattamento di una fobia
con attacchi di panico rivela strategie e stratagemmi in cui le due anime di
un intervento strategico, rigore e creatività, si fondono e si alimentano
reciprocamente, dando vita a un intervento caratterizzato da una
sorprendente efficacia ed efficienza.

Rampin M., Nardone G., 2002, Terapie apparentemente magiche, Mc


Graw-Hill, Milano.
In questo libro decisamente originale e innovativo, Matteo Rampin,
psichiatra esperto ma anche abile prestigiatore e illusionista, analizza i
processi, le strategie e le tecniche del modo di fare terapia di Giorgio
Nardone e di alcune delle più carismatiche figure di terapeuti strategici.
Studiando il loro lavoro attraverso una prospettiva non ordinaria, quella
dell’illusionista che cerca di capire il «trucco» delle «apparenti magie»
terapeutiche, l’autore evidenzia quali siano le caratteristiche che rendono
apparentemente magico il lavoro dei terapeuti studiati e come persone con
stili molto diversi abbiano, dal punto di vista della teoria dell’illusionismo,
alcuni tratti comuni. Giorgio Nardone, che ha fornito il materiale di studio e
rivisto il manoscritto, appare qui in una veste decisamente inedita, quella
dell’«oggetto studiato» – «il saggio stratega» – più che del soggetto che
studia. Questo libro è dunque un contributo unico nel suo genere sia per il
ricercatore sia per lo psicoterapeuta, poiché entrambe le figure vi
troveranno importanti quanto utili indicazioni per la pratica clinica e per la
ricerca.

Nardone G., Cagnoni F., 2002, Perversioni in rete. Le psicopatologie da


Internet e il loro trattamento, Ponte alle Grazie, Milano.
Negli ultimi anni, di Internet e di tutte le attività legate alla rete si è parlato
moltissimo. Le nuove tecnologie hanno rivoluzionato l’economia, il nostro
modo di lavorare, di studiare, di pensare. E in qualche senso hanno anche
cambiato il nostro modo di ammalarci, perché nel corso di questi anni si
sono sviluppate delle vere e proprie patologie legate a un uso eccessivo,
sbagliato di Internet. Grazie alla notevole esperienza già sviluppata per la
cura dei disturbi dell’alimentazione e di quelli fobico-ossessivi, che
presentano meccanismi di funzionamento analoghi, gli autori hanno creato
specifici adattamenti terapeutici per le patologie «emergenti» legate alla
rete: lo shopping compulsivo e le scommesse in rete, il gioco d’azzardo, il
trading on line, la chat-dipendenza, la information overloading addiction e
la dipendenza da cybersesso.

Nardone G., 2003, Non c’è notte che non veda il giorno, Ponte alle
Grazie, Milano.
Il disturbo da attacchi di panico è fra i più diffusi e invalidanti, poiché
minaccia e compromette la vita quotidiana di moltissime persone.
L’obiettivo di questo testo è presentare al lettore in modo chiaro e
accessibile le conoscenze attuali relative al funzionamento delle patologie
da panico e, soprattutto, la terapia dimostratasi concretamente efficace e
rapida per il loro superamento. Vengono qui affrontate diverse «forme del
panico», in una classificazione operativa delle paure patologiche e del loro
trattamento: la paura di perdere il controllo, la paura di volare, la paura
dell’altezza, la paura di perdere le persone care, la paura degli animali,
l’agorafobia, la claustrofobia, la paura del rifiuto sociale, le fissazioni
ipocondriache, le ossessioni compulsive, la dismorfofobia.

Nardone G., 2003, Cavalcare la propria tigre, Ponte alle Grazie, Milano.
In questo libro Giorgio Nardone analizza l’arte dello stratagemma e
presenta la sua sintesi personale che riduce la miriade di stratagemmi che si
ritrovano in letteratura in 13 stratagemmi essenziali. Ognuno di questi
rappresenta un criterio logico non ordinario applicabile alle circostanze
problematiche più differenti e indispensabile ogniqualvolta gli interventi
logici ordinari si rivelino fallimentari. Ogni stratagemma viene narrato
attraverso l’utilizzo di esempi tratti dagli ambiti più svariati. Cavalcare la
propria tigre rappresenta una lettura entusiasmante e stimolante per
chiunque si interessi di cambiamento e desideri apprendere come ottenere
«il massimo risultato con il minimo sforzo».

Nardone G., 2003, Al di là dell’amore e dell’odio per il cibo, Superbur,


Rizzoli, Milano.
Il contenuto di questo testo è il frutto di una laboriosa ricerca che ha
condotto a conoscere dettagliatamente le forme contemporanee di disordini
alimentari attraverso concrete esperienze di soluzione di tali problemi.
Anoressia, bulimia, vomiting, binge eating e ortoressia vengono quindi
analizzate nella loro formazione e persistenza, permettendo così di sfatare
anche tutti quei «miti» che, quando si parla di disturbi alimentari,
individuano nella società, nella cultura o nella famiglia il «colpevole» unico
e assoluto del disturbo. Giorgio Nardone guida il lettore attraverso il
racconto di numerosi casi reali: che si tratti dell’ossessione di perdere il
controllo, tipico del binge eating, dell’astinenza ascetica dell’anoressica
cronicizzata o dell’irrinunciabile compulsione piacevole tipica delle
vomitatrici compiaciute, ogni intervento strategico qui descritto permette di
sbloccare in maniera mirata e in tempi rapidi i disturbi alimentari più
complessi e resistenti al cambiamento.

Nardone G., Salvini A., 2004, Il dialogo strategico, Ponte alle Grazie,
Milano.
Questo libro rappresenta il punto d’arrivo di un percorso di ricerca,
applicazione clinica e consulenza manageriale realizzate nell’arco di oltre
quindici anni presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo. Tecnica
evoluta per condurre un singolo colloquio «terapeutico», il dialogo
strategico è capace di indurre rapidi e radicali cambiamenti
nell’interlocutore a partire già dal primo incontro. Guidando la persona non
solo a «capire» ma soprattutto a «sentire» in maniera differente la propria
situazione problematica e cosa dovrebbe fare per cambiare, questa
sofisticata tecnica produce una vera e propria «esperienza emozionale
correttiva» in chi lo vive. In questo modo, il cambiamento non è reso solo
auspicabile, ma inevitabile.

Nardone G., Watzlawick, P., 2005, Brief Strategic Therapy, Rowman &
Littlefield Publishers Inc., MD, USA.
Questo volume, rivolto prevalentemente al lettore specialista di lingua
inglese, espone un quadro completo della Terapia Breve Strategica nei suoi
aspetti teorici e pratici che la contraddistinguono dalle altre psicoterapie.
Gli autori presentano tecniche evolute di trattamento messe a punto per
specifiche patologie attraverso la ricerca empirico-sperimentale portata
avanti al CTS di Arezzo. I risultati della ricerca, condotta su circa 3500 casi
trattati presso il Centro nel periodo 1988-1998, mostra un’efficacia media
dell’86% con una durata media del trattamento che, nel corso degli anni, è
scesa fino a 5-6 sedute. I casi esposti sono utilizzati per dimostrare
l’efficacia del metodo e mostrano come la terapia possa diventare un
viaggio ben pianificato (rigoroso sebbene non rigido) il cui punto di
partenza, direzione, destinazione e durata possono essere previsti fin
dall’inizio.

Nardone G., Rampin M., 2005, La mente contro la natura, Ponte alle
Grazie, Milano.
Anni di lavoro del CTS nell’ambito dei disturbi sessuali hanno permesso di
sviluppare tecniche terapeutiche orientate allo sblocco di ciò che la mente
intrappola della sessualità. Il libro, attraverso il racconto di casi concreti, si
propone di analizzare le principali tentate soluzioni ridondanti che più
frequentemente sono alla base dei disturbi sessuali e le relative tecniche
terapeutiche messe a punto all’interno dell’approccio strategico per
risolvere questo tipo di problemi. Ansia da prestazione, disturbi del
desiderio, anorgasmia, eiaculazione precoce, impotenza, paura della
penetrazione, parafilie, paranoie sessuali. Ognuno di questi disturbi può
essere affrontato e risolto in tempi estremamente rapidi, se si utilizza lo
stratagemma giusto.

Nardone G., 2005, Correggimi se sbaglio, Ponte alle Grazie, Milano.


L’obiettivo di questo libro è quello di presentare al lettore la struttura di un
metodo comunicativo evoluto che permetta di dialogare «strategicamente»
con il proprio partner. Si tratta del «dialogo strategico» applicato alle
relazioni di coppia, frutto della ricerca e dell’esperienza di decenni di
lavoro orientato al condurre le persone a cambiare le loro realtà attraverso il
modo di comunicare con gli altri e con se stessi. Il lettore viene guidato in
un percorso di apprendimento di tattiche semplici ma efficaci per
comunicare con le persone così da trasformare i disaccordi in accordi, i
possibili conflitti in alleanze.
Nardone G., Portelli C., 2005, Knowing Through Changing. The
Evolution of Brief Strategic Therapy, Crown House Publishing,
Carmarthen, UK.
Questo libro, organizzato come un vero e proprio manuale di Terapia Breve
Strategica, riassume il risultato del lavoro di ricerca e sperimentazione
clinica condotta presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo dalla sua
nascita ai giorni nostri. Vengono descritte in dettaglio le strategie evolute
d’intervento sui più comuni disturbi psicologici messe a punto negli ultimi
quindici anni attraverso la ricerca empirico-sperimentale e la pratica clinica,
dettagliate attraverso esempi concreti di casi clinici per i disturbi più
svariati: disturbi fobici, ossessivo-compulsivi, disturbi alimentari,
depressione, problemi dell’infanzia, presunte psicosi e altri.

Nardone G., Loriedo C., Zeig J., Watzlawick P., 2006, Ipnosi e terapie
ipnotiche, Ponte alle Grazie, Milano.
Per più di un decennio gli autori di quest’opera hanno studiato le
caratteristiche della comunicazione ipnotica e sono giunti a elaborare nuovi
metodi per impiegarla con successo nel campo della Terapia Breve.
Essendo un metodo «naturale» e fondandosi sulle caratteristiche individuali
del soggetto, l’ipnosi si rivela efficacissima per aiutare i pazienti a liberarsi
dai propri comportamenti patologici. Particolarmente efficace appare la
cosiddetta «ipnosi senza trance», qui trattata da Giorgio Nardone, che
permette di aggirare le resistenze al cambiamento delle persone senza
ricorrere necessariamente a un’induzione formale della «trance». L’autore
descrive in dettaglio le varie tecniche della comunicazione suggestiva,
verbali e non verbali, che permettono di «sintonizzarsi» sul paziente e
rendere il cambiamento inevitabile, ovvero di «rendere magiche le parole».

Muriana E., Pettenò L., Verbitz T., 2006, I volti della depressione:
curarsi in tempi brevi, Ponte alle Grazie, Milano.
Le autrici di questo libro, grazie a un laborioso lavoro di ricerca-intervento
condotto presso il CTS di Arezzo, hanno studiato come si forma, come si
mantiene e come si interrompe l’ideazione depressiva. La depressione non
viene qui vista come una malattia, ma come una sofferenza, effetto di disagi
diversi, che si manifesta con molte facce tutte accomunate da uno stesso
atteggiamento di rinuncia. A seconda dei modi in cui viene realizzata la
rinuncia, sono state individuate varianti differenti del quadro depressivo: il
depresso radicale, l’illuso-deluso di sé, l’illuso-deluso degli altri, il
moralista. L’opera, ricca di esempi clinici, è stata scritta in maniera che
chiunque possa leggerla e comprenderne chiaramente i contenuti. Il lettore
potrà così constatare che la depressione non è un male incurabile e che il
suo superamento non richiede necessariamente terapie talvolta più
devastanti della malattia stessa.

Nardone G., 2007, La dieta paradossale, Ponte alle Grazie, Milano.


Dall’analisi dei risultati delle numerose diete emerge un paradosso
essenziale: tutte sono efficaci, ma nessuna funziona effettivamente. In altri
termini, qualunque dieta fra quelle proposte negli ultimi anni è in grado di
produrre effetti di reale dimagrimento, ma il problema emerge al livello del
mantenimento del risultato. Giorgio Nardone guida il lettore alla scoperta di
quella che ha definito «dieta paradossale», in cui il recuperare una relazione
sana ed equilibrata con il cibo passa attraverso la capacità di recuperare
l’aspetto fondamentale di questo rapporto: il piacere di mangiare. Il
presupposto fondamentale della dieta paradossale è quello di guidare la
persona a ricostruire un rapporto con il cibo basato sulla capacità di
«concederselo» nei tre pasti principali, amplificando al massimo il piacere
del suo consumo, grazie anche a un’attenta cura del contesto e
all’affiancamento di un’adeguata e piacevole attività fisica.

Nardone G., 2007, Cambiare occhi, toccare il cuore, Ponte alle Grazie,
Milano.
Cambiare occhi, toccare il cuore non è un libro di terapia tout court, bensì
una sorta di «manuale» in cui Giorgio Nardone ha raccolto e condensato
anni di pratica clinica nell’utilizzo degli aforismi terapeutici. L’aforisma
viene qui considerato una vera e propria tecnica strategica. Come in una
sorta di danza interattiva, in questa raccolta si alternano «perle di saggezza
rubate», ovvero aforismi di autori famosi, e «gemme trovate», ovvero
pensieri formulati dalla stesso autore durante vent’anni di sedute
terapeutiche grazie all’incontro con oltre diecimila pazienti.

Milanese R., Mordazzi P., 2007, Coaching strategico. Trasformare i


limiti in risorse, Ponte alle Grazie, Milano.
Il modello di coaching esposto in questo libro evolve direttamente dal
modello di Problem Solving e comunicazione frutto di oltre vent’anni di
applicazione empirica, sia nell’attività clinica che nell’ambito
organizzativo, presso il CTS di Arezzo. Il coaching strategico è una tipologia
d’intervento orientato allo sviluppo dei talenti della persona, nella direzione
di farne emergere appieno le risorse e permetterle di esprimere al meglio le
proprie potenzialità. A partire da costrutti quali «l’autoinganno strategico»,
«la tentata soluzione ridondante», «le incapacità primarie ed evolute», gli
autori applicano il modello del coaching strategico alle situazioni più
differenti: dal manager troppo disponibile a quello iracondo che perde il
controllo, dalla «sindrome del cane sanbernardo» alle molestie sul lavoro,
dal «workaholic» all’imprenditore che fallisce.

Nardone G., 2008 (con E. Balbi), Solcare il mare all’insaputa del cielo,
Ponte alle Grazie, Milano.
«Lezioni sul cambiamento terapeutico e le logiche non ordinarie» è il
sottotitolo di questo testo in cui Giorgio Nardone espone temi tanto
complessi quanto fondamentali per chiunque si interessi di cambiamento
strategico. Mediante un sempre più consapevole uso terapeutico del
paradosso, della credenza e della contraddizione nella sua pratica clinica e
consulenziale, Giorgio Nardone è giunto a individuare quelle costanti che
permettono, caso per caso, di scegliere la strategia più adatta per affrontare
e risolvere le più importanti patologie su scala individuale, di gruppo o
aziendale. Dalla terapia di coppia al disturbo di panico, dal disturbo
compulsivo alle paranoie e i deliri, dai problemi sessuali agli interventi
aziendali, questo libro riassume in sé una molteplicità non solo di esempi
ma anche di livelli di lettura che lo rendono un testo ineludibile per
chiunque voglia perfezionare la propria capacità di Problem Solving, in
ambito terapeutico, aziendale o in qualsiasi altro contesto in cui l’efficacia e
la rapidità dell’intervento siano fattori essenziali.

Skorjanec B. (a cura di), 2008, Come smettere di fumare, Ponte alle


Grazie, Milano.
Questo libro, una vera e propria task force organizzata negli ultimi anni
presso il CTS di Arezzo, espone i metodi di sostegno e le varie tecniche a
disposizione per aiutare chi vuole smettere di fumare. Viene proposto un
metodo integrato che, unendo agopuntura auricolare e psicoterapia
strategica, permette di massimizzare gli effetti di cambiamento, mostrando
un tasso di efficacia superiore al 90%. Completa il volume una sezione
dedicata alle dipendenze da fumo di altro tipo, problema per certi versi
vicino psicologicamente alla dipendenza da sigaretta, ma certamente più
importante e complicato.

Cagnoni F., Milanese R., 2009, Cambiare il passato. Superare i traumi


con la terapia strategica, Ponte alle Grazie, Milano.
In questo libro le autrici espongono il protocollo di trattamento messo a
punto negli ultimi cinque anni presso il CTS di Arezzo per il disturbo post-
traumatico da stress, che ha mostrato elevati livelli di efficacia ed
efficienza. Attraverso il racconto di casi reali di terapia di vittime di stupri,
violenze, alluvioni, lutti improvvisi e altri eventi catastrofici vengono
esposte le manovre utilizzate per aiutare le persone vittime di un trauma a
superare quell’ondata di paura e dolore che improvvisamente ha invaso la
loro vita. Questo testo rappresenta anche l’occasione per sfatare la credenza
diffusa secondo cui la terapia strategica si occupa solo del presente,
ignorando completamente il passato. Come questo libro mostra, anche nel
caso di traumi che lasciano una traccia indelebile nella nostra memoria è
possibile intervenire attraverso una psicoterapia breve che vada non a
cancellarne la memoria, ma a ristrutturarne la percezione nel presente.

Giorgio Nardone

È fondatore, insieme a Paul Watzlawick, del Centro di Terapia Strategica di


Arezzo, dove svolge la sua attività di psicoterapeuta, didatta e coach.
Riconosciuto come uno dei più creativi e al tempo stesso rigorosi
studiosi e terapeuti, è considerato l’esponente di maggior spicco tra i
ricercatori della Scuola di Palo Alto in virtù dei suoi numerosi e innovativi
lavori.
Il suo contributo più prezioso è stato quello di creare protocolli specifici
di trattamento per le più invalidanti patologie psicologiche, dimostrando
come attraverso essi si potessero curare velocemente ed efficacemente la
maggior parte delle patologie psichiche e comportamentali. Questo ha
portato a un nuovo Modello evoluto di Terapia Breve e di Problem Solving
Strategico, produzione testimoniata dai 27 libri pubblicati e tradotti in più
lingue.
Tale suo contributo scientifico e applicativo rappresenta non solo un
modello applicativo, ma una vera e propria scuola di pensiero
internazionalmente riconosciuta alla quale si ispirano studiosi, terapeuti e
manager. Da anni tiene conferenze e seminari in tutto il mondo.
Attualmente dirige la Scuola di Specializzazione Post-Universitaria in
Psicoterapia Breve Strategica (ufficialmente riconosciuta dal MIUR) con
sede centrale ad Arezzo e periferica a Firenze, e il Master Degree in Terapia
Breve Strategica con sedi a Milano, Roma, Barcellona, Bogotà, Madrid,
Parigi, Liegi, Heidelberg, Mosca.
È direttore scientifico della Scuola di Formazione Manageriale in
Comunicazione, Problem Solving & Coaching Strategico, con sede centrale
ad Arezzo, periferiche a Milano, Madrid e Parigi.
CEO della società di formazione e consulenza specializzata nell’area
sviluppo delle Risorse Umane, Strategic Therapy Center, «Change
Strategies».

È inoltre:
– Coordinatore del Network Mondiale di Psicoterapia Breve Strategica e
Sistemica e della Rivista Europea di Psicoterapia Breve Strategica e
Sistemica.
– Codirettore della rivista Journal of Brief, Strategic and Systemic
Therapies.
– Fondatore emerito di The American Association of Brief & Strategic
Therapists.
– Direttore della collana «Saggi di Terapia Breve», Ponte alle Grazie,
Milano.

Alla fine di questa rassegna biobibliografica, mi si permetta un’ultima


notazione di carattere personale. Era il 1994 quando, ancora studentessa di
psicologia, in una libreria di Padova ho incrociato per caso uno strano libro.
Si intitolava L’arte del cambiamento e uno degli autori, Giorgio Nardone,
mi era allora del tutto sconosciuto. Attratta dal titolo acquistai il libro che
avrebbe cambiato completamente la mia vita professionale, e non solo.
Sono passati ormai quindici anni e ancora ricordo quel momento con una
forte commozione e con un profondo senso di gratitudine verso quel «caso»
o «destino» che lo aveva messo sulla mia strada.
Molte persone sostengono che chi incontra un Maestro, prima o poi, deve
«ucciderlo» per poter tirare fuori a pieno le proprie risorse. Il mio augurio a
chi legge questo libro è invece opposto: se avete la fortuna di incontrare per
strada un vero Maestro, come Giorgio Nardone lo è stato e lo è per me,
abbiatene cura!
BIBLIOGRAFIA

Altschuller, G. (2000), The Innovation Algorithm, Technical Innovation


Center, Worcester.
Clarke, A.C., in Owen, N. (2001), The Magic of Metaphor, Crown House
Publishing, Glasgow.
Da Costa, N. (1989a), «The logic of Self-Deception», in American
Philosophical Quarterly, 1.
Da Costa, N. (1989b), «On the Logic of Belief», in Philosophical and
Phenomenological Research, 2.
Leonardo da Vinci (1993), Aforismi, novelle e profezie, Newton, Roma.
Popper, K.R. (2001), Tutta la vita è un problema da risolvere, Bompiani,
Milano.
Russell, B., Schilpp, P.A. (1940), The Philosophy of B. Russell, Library of
Living Philosophers, Northwestern University.
Stafford, B. (1975), Platform for Change, John Wiley & Sons, New York.
Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fish, R. (1974), Change: principles of
problem formation and problem solution, Norton, New York (trad. it.
Change: la formazione e la soluzione dei problemi, Astrolabio-Ubaldini,
Roma).
Wilson, E.O., Boorsteen, D.J. (2003), L’avventura della ricerca, da Socrate
a Einstein. Storia degli uomini che hanno inventato il mondo, Raffaele
Cortina Editore, Milano.
NOTE

1.
Psicologa-psicoterapeuta, è ricercatore associato presso il Centro di Terapia Strategica di
Arezzo e docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica. È
responsabile organizzativo della Scuola di comunicazione, problem solving e coaching
strategico di Milano e docente di master clinici e organizzativi in Italia e all’estero. Dal
2000 è responsabile dello studio di Milano, affiliato al cts di Arezzo, dove svolge attività
di psicoterapia breve, consulenza e coaching, e coautrice di diversi libri pubblicati in
questa stessa collana.
INDICE

Presentazione

Frontespizio

Pagina di copyright

Capitolo 1. Se c’è un problema c’è anche la sua soluzione

Capitolo 2. Che cos’è il Problem Solving

Capitolo 3. Come funziona il Problem Solving Strategico


Definire il problema

Concordare l’obiettivo

Valutare le tentate soluzioni

IL MANAGER MORALISTA

La tecnica del come peggiorare

IL LEADER AMICO

La tecnica dello scenario oltre il problema

IL CAMPIONE RIFIUTATO

La tattica dei piccoli passi

La tecnica dello scalatore

IL TEAM CHE NON COOPERA

Aggiustare il tiro progressivamente

Capitolo 4. Arte o tecnologia?

Capitolo 5. Il Problem Solving Strategico in azione


Quando il Problem Solving Strategico si focalizza sulla performance

IL TENNISTA DAL TALENTO INTRAPPOLATO

IL GUERRIERO SPAVENTATO

IL MANAGER INCAPACE DI RELAZIONARSI

IL VIOLINISTA A METÀ

IL ROMANZIERE INCAPACE DI SCRIVERE

Quando il Problem Solving diviene terapia

IN CASO DI PANICO

IN CASO DI OSSESSIONI E COMPULSIONI

IN CASO DI «DUBBIO PATOLOGICO»

IN CASO DI PATOFOBIA

IN CASO DI DISTURBI ALIMENTARI

TUTTI MI RIFIUTANO: UN CASO ESEMPLARE DI TERAPIA BREVE STRATEGICA

Quando il Problem Solving è formazione e consulenza manageriale

LEADERSHIP DISFUNZIONALE

TRASFORMARE LA DIFFIDENZA IN FIDUCIA

LICENZIARE ETICAMENTE

LE «AMAZZONI» SONO MIGLIORI DEI «MACHO»

MIGLIORARE I MIGLIORI

Capitolo 6. Conclusioni

Biobibliografia delle opere e invenzioni di Giorgio Nardone

Bibliografia

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