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05 Nardone Giorgio Problem Solving Strategico Da Tasca Ponte Alle Grazie 2013
05 Nardone Giorgio Problem Solving Strategico Da Tasca Ponte Alle Grazie 2013
Grafica: GrafCo3
SE C’È UN PROBLEMA
C’È ANCHE LA SUA SOLUZIONE
– si inciampa su un problema;
– si studiano tutti i tentativi messi in atto come soluzioni;
– si cercano soluzioni alternative;
– le si applicano;
– si misurano gli effetti;
– si aggiusta la strategia sino a renderla efficace.
Figura 1
Trovare la risposta giusta sembra piuttosto complicato. In effetti lo è se si
utilizzano procedure di ragionamento lineari, ad esempio posso iniziare
l’indagine chiedendo quadrato dopo quadrato se è quello giusto. Così
facendo posso impiegare sino a 63 tentativi per arrivare a quello corretto, se
sono fortunato posso giungere prima alla soluzione, tuttavia non sarà certo
merito della mia strategia, ma del caso.
Questo è un esempio eclatante di come di fronte a particolari situazioni,
procedimenti logici di tipo tradizionale siano decisamente inefficaci. Ma il
lettore immagini di essere orientato a indagare, come purtroppo succede
troppo spesso rispetto alle patologie, sul perché e sulle cause. Seguendo tale
approccio dovrebbe domandare a colui che pensa al quadrato da indovinare
tutta una serie di questioni per risalire alle motivazioni della sua scelta. A
seconda delle prospettive teoriche adottate potrà voler risalire a un
complesso di Edipo se freudiano; a un trauma della nascita se junghiano; a
una modalità d’attaccamento disfunzionale se cognitivista; a un trauma
sessuale se di orientamento psicodinamico. Si tratta di una procedura
decisamente laboriosa e controproducente, in quanto sposta l’attenzione
sulle spiegazioni ipotetiche rispetto allo studio delle soluzioni che
funzionano.
In realtà, se si valuta «come funziona» il problema e quali sono le sue
caratteristiche geometriche, si giunge con facilità a scoprire che la
scacchiera è formata da 64 quadrati che formano un grande quadrato, il
quale può essere diviso in due rettangoli a loro volta divisibili in due
quadrati e che questa operazione può essere eseguita in progressione sino
all’ultimo quadrato.
Pertanto, si chieda all’interlocutore se il quadrato scelto sta nella metà
destra o nella metà sinistra della scacchiera. Dopo tale risposta avremo
ridotto le possibilità della metà. Pertanto, si procederà chiedendo se il
quadrato sta nella metà sopra o nella metà sotto della parte selezionata, e
così avremo ridotto le possibilità a un quarto. Si procederà chiedendo se il
quadrato sta nella metà sinistra o destra della parte della scacchiera rimasta,
e così avremo ridotto a 8 le possibilità. Rispetto alla parte rimanente,
chiederemo poi se il quadrato prescelto sta nella metà sopra o nella metà
sotto, e così siamo giunti a solo 4 possibilità. Si procede chiedendo ancora
se il quadrato prescelto sta nella metà destra o sinistra della scacchiera, e
così siamo giunti a sole 2 possibilità; infine si chiederà se il quadrato
prescelto è quello sopra o quello sotto.
Definire il problema
Un uomo ubriaco, una sera, aveva perso la chiave di casa, e la stava cercando sotto un lampione,
senza trovarla. Continuò a insistere senza successo fino a quando un passante gentile, che si era
messo ad aiutarlo, gli chiese:
«Ma sei sicuro di averla persa proprio qui?»
«No» rispose lui, «ma là dove l’ho persa, è troppo buio per cercarla».
Molto spesso, infatti, gli esseri umani, anche i più intelligenti, cercando di
superare le loro difficoltà saltano questa fase poiché la ritengono ovvia. Ma
così non è, in quanto chi cerca la soluzione senza avere chiari i termini del
problema, di solito interpreta la situazione in base ai suoi preconcetti e alle
sue convinzioni, e sarà quindi indotto ad agire sotto la loro influenza. Di
conseguenza, la sua strategia sarà funzionale alle sue idee, piuttosto che al
problema.
Definire il problema ci inchioda a un procedimento rigoroso, che ci salva
dalla nefasta influenza delle nostre idee pregresse e delle nostre
interpretazioni fuorvianti.
Tutti noi abbiamo la tendenza a voler vedere nella realtà ciò che
conferma le nostre sensazioni e idee: è il principio fondamentale
dell’autoinganno, fenomeno per il quale l’individuo tende ad avvicinare la
realtà ai propri desideri e alle proprie convinzioni, piuttosto che analizzarla
in modo distaccato. Per questo motivo, come Ulisse si legò all’albero
maestro della sua nave per non essere inevitabilmente attratto dal richiamo
delle sirene, noi dobbiamo far sì che la nostra mente sia «costretta» a non
deragliare da un percorso rigoroso che, come vedremo, ci permette di non
cadere vittime dei nostri autoinganni e dei nostri pregiudizi ideologici e al
tempo stesso di orientare la nostra mente verso domini alternativi, dove la
nostra propensione possa essere utilizzata in modo costruttivo. Il lettore può
ben capire ora quanto sia importante spendere tutto il tempo necessario
nella prima, apparentemente preliminare, fase di Problem Solving
Strategico. Come diceva Napoleone: «Siccome ho molta fretta, vado molto
piano».
Lo studioso di Problem Solving e creatività Genrich Altschuller – che ha
analizzato i brevetti depositati nel corso di oltre cinquant’anni di scoperte
tecnologiche, nell’intento di svelare il processo creativo che conduce
all’invenzione di alternative a problemi irrisolti – indica il ridefinire
ripetutamente le caratteristiche del problema come la prima chiave per
giungere alla scoperta. Analizzare un problema cercando di guardarlo da
più prospettive, infatti, può indurre alla scoperta di aspetti sino ad allora
non considerati e aprire così lo scenario a nuove ipotesi di soluzione. Del
resto già William James sosteneva che «il genio altro non è che la capacità
di guardare la realtà da prospettive non ordinarie».
Si prenda ad esempio il caso del celebre matematico Carl Friedrich
Gauss: questi aveva dato prova del suo genio già alle scuole elementari. Si
racconta, infatti, che il suo maestro per tenere buoni i ragazzi della classe
assegnò loro il seguente compito: «Sommate uno a uno i numeri tra 1 e 100
e portatemi il risultato finale». Un compito decisamente laborioso per ogni
persona normale, ma non certo per il giovane Gauss il quale, utilizzando
intuitivamente quello che in matematica si chiama algoritmo, dopo meno di
un minuto portò al maestro la soluzione, ovvero 5050. Quando il maestro
gli chiese come avesse fatto, Gauss gli spiegò semplicemente che 1 più 100
fa 101 e che 2 più 99 fa 101, 3 più 98 faceva 101, pertanto egli ne aveva
dedotto che 50 per 101 faceva 5050.
Stafford Beer definisce questo procedimento come trovare il riduttore di
complessità di un problema complesso, per giungere alla soluzione
apparentemente più semplice. Come il lettore può ben intendere, questo è
stato il risultato del soffermarsi su un’attenta analisi del problema e del suo
funzionamento.
Spendere più tempo all’inizio fa guadagnare tempo ed energie in un
secondo momento. Come indica l’arte dello stratagemma: «Partire dopo per
arrivare prima».
Concordare l’obiettivo
La terza fase, come ci indica Popper (e mi piace ricordare come prima di lui
fosse stata formulata da John Weakland e Paul Watzlawick, i miei maestri
del Mental Research Institute di Palo Alto, in California, quale costrutto
fondamentale del loro modello di intervento sui problemi umani), è
rappresentata dalla individuazione e valutazione di tutti i tentativi
fallimentari messi in atto per risolvere il problema in questione. Questa è la
fase cruciale per lo studio della soluzione, che parte non a caso dalla
valutazione di tutte le soluzioni tentate ma che non hanno avuto successo. Il
costrutto di tentata soluzione che non funziona, ma che se viene reiterata
tende a mantenere la persistenza del problema e a complicarne il
funzionamento, è stato a mio parere una delle intuizioni più geniali del
secolo scorso.
Prendiamo il caso di una persona che ha paura di parlare in pubblico: che
cos’è che mantiene e alimenta questa paura, se non il suo tentativo
fallimentare di combatterla? Di solito, infatti, chi ha questo tipo di timore
cerca di gestirlo mettendo in atto strategie che invece di ridurlo lo
alimentano: il soggetto cercherà per quanto possibile di evitare di esporsi in
pubblico, e quando non potrà farne a meno cercherà di controllare il più
possibile le proprie reazioni, concentrandosi su di esse. Purtroppo per lui,
con le migliori intenzioni produrrà gli effetti peggiori, in quanto il
comportamento evitante, se ci fa sentire in salvo ogni volta che si elude la
situazione temuta, al tempo stesso ci conferma nella convinzione di una
incapacità personale e farà aumentare via via la paura, fino a trasformarla in
vero e proprio panico. Il tentativo di controllo razionale delle proprie
reazioni in una situazione di paura, come ad esempio il cercare di essere più
calmi, di controllare il battito cardiaco, la respirazione e l’agitazione,
provoca un effetto paradossale, per cui più si cerca di essere calmi e più ci
si agita, più si cerca di assumere il controllo più lo si perde. Questo effetto
condurrà la persona a essere sempre più incapace di gestire le proprie
reazioni, fino a un nuovo vero e proprio attacco di panico.
Come il lettore può facilmente capire, sono proprio le tentate soluzioni
messe in atto dal soggetto ad alimentare il problema che questi vorrebbe
risolvere. Per questo motivo, la valutazione delle tentate soluzioni messe in
atto per superare la difficoltà presente fornisce l’accesso privilegiato alla
valutazione del funzionamento del problema, così come della sua possibile
soluzione.
Concentrare l’attenzione sui tentativi fallimentari messi in atto per
raggiungere l’obiettivo prefissato ci libera dalla tendenza, peraltro del tutto
umana, a sforzarsi attivamente di trovare soluzioni, senza aver prima
indagato su tutto ciò che non funziona. Investigare su tutto ciò che non ha
avuto successo ci permette di essere focalizzati sulla dinamica concreta che
mantiene un problema o che viceversa lo può cambiare.
A questo riguardo sono particolarmente illuminanti le novelle di
Leonardo da Vinci. Ritenute poco importanti rispetto ad altri scritti come i
famosi Codici, sono state sottovalutate, mentre il loro potere metaforico mi
sembra decisamente utile. Questi brevi racconti, infatti, indicano al lettore
come nell’osservazione della natura si rilevi frequentemente il fenomeno
della tentata soluzione che mantiene o peggiora il problema che dovrebbe
risolvere. Leonardo mette in guardia il genere umano, attraverso
rappresentazioni analogiche riprese dal comportamento animale e dal
compiersi dei fenomeni fisici, dal paradossale effetto di strategie di
soluzione messe a punto in maniera affrettata, senza considerare bene i
termini del problema e i possibili effetti a catena di ogni azione.
Per esempio:
Il falcone impaziente
Il falcone non potendo sopportare con pazienza il nascondere che fa l’anitra fuggendosele dinnansi
e entrando sotto acqua, volle come quella sotto acqua seguitare, e, bagnatosi le penne rimase in
essa acqua, e l’anitra, levatasi in aria, schernia il falcone che annegava.
Il ragno
Il ragno credendo trovar requie nella buca della chiave, trova la morte.
IL MANAGER MORALISTA
Si presenta un manager di cinquantun anni in una situazione acutamente
depressiva con pensieri suicidari. Racconta che nell’ultimo anno ha
cominciato a cessare qualunque attività in corso, a isolarsi gradualmente, a
ridurre anche i contatti con i propri familiari fino a giungere a un totale
avvitamento su se stesso, connotato da una visione cupa della realtà che per
lui ora è senza alcun colore o luce; l’uomo vede davanti a sé soltanto
l’abisso. Il soggetto racconta che è giunto a questa situazione dopo una serie
progressiva di problemi nel suo lavoro di manager. Federico, questo è il suo
nome, aveva svolto questa mansione per più di venticinque anni, lasciando
via via cinque importanti aziende proprio nel momento in cui aveva
ottenuto notevoli risultati nella riorganizzazione dei sistemi produttivi.
Federico è uno specialista nella riorganizzazione delle risorse di un’azienda
quando questa deve incrementare la produttività e ridurre le spese, e
utilizzare quindi al meglio le risorse disponibili. Può apparire curioso il
fatto che tutte e cinque le volte aveva raggiunto l’obiettivo di rimettere in
sesto l’azienda da cui era stato assunto, e questo gli era stato chiaramente
riconosciuto. Il problema ciclicamente riemerso era che, una volta raggiunto
lo scopo di far funzionare al meglio la macchina produttiva, la proprietà o
gli amministratori avevano inserito nel suo team di lavoro persone a lui non
gradite, spesso familiari dei proprietari dell’azienda o persone comunque
raccomandate. Federico, essendo un idealista, aveva sempre rifiutato di
avere nel suo team sia persone incapaci di svolgere il loro compito,
gravando così sui colleghi, sia soggetti che si ponevano in maniera
arrogante con gli altri in virtù della loro posizione privilegiata. In tutti i casi
si era rivolto all’amministratore delegato o alla proprietà perorando le sue
ragioni ideali, ma di fronte al diniego ogni volta aveva dato le dimissioni,
per cercare una nuova azienda ove poter realizzare l’«organizzazione
perfetta». Facile comprendere come questa sua ricerca della perfezione lo
avesse portato a irrigidirsi sempre di più, e a collezionare una serie di
successi che si tramutavano in rabbiosi autolicenziamenti.
Nel raccontare la sua storia, Federico non era nemmeno lontanamente
toccato dall’idea che proprio il suo rigido copione lo aveva portato a un
passo dal suicidio, ma si sentiva anzi eroico nel suo rifiuto di tutto ciò che
trovava profondamente immorale.
Dopo l’ultimo episodio si era rifugiato in famiglia, pensando che così
avrebbe potuto evitare di confrontarsi con tanta immoralità e invecchiare
serenamente grazie ai consistenti guadagni già realizzati. Purtroppo,
essendo una persona bisognosa di azione, l’aver deciso una sorta di
pensionamento anticipato non solo non lo aveva aiutato a stare meglio, ma
lo aveva condotto gradatamente dentro il cupo abisso della depressione,
corroso da un’irrefrenabile rabbia verso il mondo e verso gli uomini, che
finiva per riversarsi sulla moglie e sui figli.
In questo caso, la strategia di soluzione fu quella di suggerirgli di passare
nel mezzo del suo dolore e della sua rabbia per venirne fuori. Gli fu quindi
indicato, come primo passo terapeutico, di redigere una sorta di «romanzo
criminale» della sua storia personale, in cui doveva descrivere in modo
puntuale e analitico tutti i passaggi delle cinque esperienze che da successo
si erano tramutate in disastro. Federico fu dapprima riluttante, con il
pretesto che essendo un ingegnere era più abituato a fare schemi che non a
scrivere. A questa sua obiezione fu risposto che avrebbe potuto
schematizzare tutto il suo «romanzo criminale», l’importante era che
risultasse leggibile e comprensibile a chiunque.
Come il lettore può ben capire, questa prescrizione è un modo velato,
utile per un caso clinico, per far sì che la persona analizzi e valuti sia le sue
tentate soluzioni di successo che quelle fallimentari.
Dopo due settimane, Federico tornò con un lungo scritto articolato per
ognuna delle esperienze professionali svolte, che pretese di leggere e
discutere per esteso, cominciando dal titolo che aveva dato al suo romanzo,
ovvero «il manager moralista». Come si può capire già dal titolo, passando
in rassegna le sue esperienze dopo il nostro colloquio, per la prima volta
aveva visto le cose da una prospettiva differente: il ripetersi di un copione
entro il quale lui, in maniera moralistica e inquisitoria, giudicava e
condannava gli amministratori delle diverse aziende per comportamenti non
corretti e per questo finiva poi per rifiutarli lui stesso, dando le dimissioni.
In altri termini, quello che gli era apparso chiaro di se stesso era una vera e
propria incapacità di adattamento, legata alle sue rigide convinzioni morali.
Non solo, ma si era reso anche conto che in tutte quelle occasioni, con un
minimo di flessibilità in più, avrebbe potuto gestire le persone indesiderate,
facendole crescere e diventare persone con un ruolo attivo in un team
funzionale. Ma in virtù della sua rigidità, aveva sempre pensato che gli
aspetti relazionali fossero superflui dentro un’azienda, e che contassero solo
i numeri, i calcoli e l’efficienza produttiva.
Dopo aver letto e commentato tutto il suo scritto, raccontò anche che in
quei giorni aveva cominciato a uscire dal proprio isolamento, ricontattando
vecchi amici e colleghi con l’idea di rimettersi in gioco professionalmente,
ma con un atteggiamento mentale diverso.
Il lavoro con Federico, ovviamente, aveva come obiettivo quello di
renderlo gradualmente più capace di gestire tutto ciò che non collimava
perfettamente con le sue idee e convinzioni. Ma quello che ci interessa in
questa sede è sottolineare come in questo caso sia stato sufficiente, per
produrre un reale cambiamento personale oltre che terapeutico, far
analizzare e valutare sistematicamente al soggetto le sue tentate soluzioni
che, per quanto basate su una causa giusta, lo avevano condotto a scavarsi
sotto i piedi l’abisso entro il quale era poi caduto.
IL LEADER AMICO
Un esempio illuminante di tutto ciò è rappresentato dal caso di un giovane
manager di una importante griffe di moda, uno dei membri giovani della
famiglia titolare del marchio. Il problema era rappresentato dal fatto che i
suoi collaboratori e i loro sottoposti, benché gerarchicamente alle sue
dipendenze, tendevano a non rispettare le sue direttive e a essere demotivati
rispetto ai progetti del gruppo, rallentando l’esecuzione di ciò che avrebbe
condotto al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Iniziando ad
analizzare insieme le sue tentate soluzioni, emerse chiaramente la sua
posizione di leader democratico, incapace di farsi rispettare e seguire: il
giovane si poneva rispetto ai suoi collaboratori in modo paritario, li trattava
in modo caldo, preoccupandosi continuamente del loro stato, delle loro
difficoltà, spesso anche di quelle non inerenti al lavoro. Questo potrebbe
sembrare al lettore il capo veramente ideale, e forse sarebbe così se i
collaboratori fossero tutti persone pienamente responsabili, che non hanno
bisogno di essere stimolate o controllate. Inoltre, ogni qual volta emergeva
un errore commesso dai suoi sottoposti, la sua strategia era quella di
dialogare con la persona in questione, cercando di capire le motivazioni
dell’errore, anche in questo caso in modo paritario, senza mai assumere una
posizione recriminatoria o punitiva. Come si può facilmente comprendere,
un leader che cerca di essere amico dei suoi collaboratori e sottoposti
ottiene risposte sul piano personale e affettivo, ma perde completamente il
suo potere ingiuntivo, ad esempio rispetto alla correzione degli errori dei
dipendenti. L’ambivalenza che si viene a creare è che «se sei un amico mi
devi comprendere e mai criticare, tanto meno punire, perché sei al mio
stesso livello e pertanto mi posso permettere di dirti cose o di non fare cose
che mi chiedi, dimenticando che tu sei il mio capo». Nel caso specifico,
inoltre, l’ambivalenza era resa ancora più ambigua dal fatto che il giovane
manager faceva parte della famiglia di cui la griffe porta il nome, per cui si
può supporre che certi collaboratori tendessero a rispondere alla sua ricerca
di rapporti amicali anche in vista di possibili vantaggi personali.
Una volta esplicitata con lui la situazione, e i suoi tentativi fallimentari di
correggere i comportamenti disfunzionali dei collaboratori, applicando la
tecnica del come peggiorare egli giunse immediatamente a rilevare che
sarebbe stato sufficiente continuare a mantenere le stesse strategie finora
applicate. Pertanto il cambiamento divenne una necessità ineluttabile.
Fu decisamente curioso vedere le sue reazioni emotive a questa scoperta:
è quella che chiamiamo esperienza emozionale correttiva. Per la prima
volta, infatti, durante il colloquio il giovane manager espresse con toni forti
la sua indignazione verso se stesso, in primo luogo per la sua valutazione
completamente errata della situazione, e poi per le sue fallimentari tentate
soluzioni.
Una volta stabilita questa nuova visione rispetto alla sua realtà
problematica, fu facile concordare con lui come sostituire le sue azioni
fallimentari con altre che potessero essere più efficaci. In particolare,
stabilendo finalmente una comunicazione gerarchica, e assumendo la
posizione di chi delega i compiti ai collaboratori, ma poi controlla e se
necessario corregge, anche con durezza. Egli stesso è giunto a ricordare
come un leader, per essere seguito, deve prima di tutto essere ammirato e
rispettato.
IL CAMPIONE RIFIUTATO
Un esempio a questo riguardo è rappresentato da un calciatore
professionista che si è rivolto a me per un problema che gli stava rendendo
difficile dare il meglio nella sua professione. Il calciatore era il leader
indiscusso della squadra, colui a cui tutti facevano riferimento per le sue
indubbie doti. Per questo, ogni qual volta le cose non andavano bene in
campo, tutti, dai suoi compagni all’allenatore ai tifosi, se la prendevano con
lui. Certo, succedeva anche il contrario, cioè era il primo a essere osannato
ogni qual volta la squadra otteneva risultati eccellenti. Ma dato che negli
ultimi tempi le cose non andavano più così tanto bene, la situazione più
frequente era quella di sentirsi addosso sguardi carichi di rancore. La sua
reazione era quella di deprimersi e perdere la motivazione, come se ormai
nulla valesse più la pena. Dotato fin da bambino di un talento innato, da
sempre veniva osannato per le sue doti e non aveva mai dovuto fare fatica
per raggiungere performance atletiche eccellenti. In altri termini, abbiamo
un campione che produce spontaneamente risultati straordinari e non uno di
quelli che la performance elevata deve sudarsela. Questo fa sì che, mentre il
secondo è abituato a superare gli ostacoli e a gestire la frustrazione di un
eventuale fallimento, il primo, di fronte all’insuccesso, crolla poiché non è
in grado di gestirne gli effetti e di reagire nella maniera adeguata. Il
campione affermava che nella sua carriera c’erano già stati periodi bui, ma
che si era sempre ripreso rapidamente, mentre questa volta si sentiva in
grave difficoltà proprio a causa dell’ostilità che avvertiva nei suoi confronti.
A questo punto, gli venne chiesto di immaginare quale sarebbe stato lo
scenario ideale, una volta superato il problema. Questi, senza grande sforzo,
riferì che sarebbe stato rappresentato da una situazione in cui andare agli
allenamenti sereno e contento, per vedere i suoi compagni compiaciuti nel
giocare con lui, sorridenti e disponibili nei suoi confronti, con l’allenatore
che lo incentivava in modo allegro a trascinare la squadra, come avveniva
di solito quando il campione era in forma, e per finire con la tifoseria che lo
applaudiva e lo incitava.
Dopo aver raccolto questa chiara immagine, gli fu chiesto di pensare se
le sue usuali reazioni di chiusura quando le cose non andavano bene fossero
un modo per ridurre o al contrario alimentare gli atteggiamenti e i
comportamenti indesiderati nei suoi confronti. Non ebbe difficoltà a
rispondere che ciò che stava facendo contribuiva solo a peggiorare la
situazione. Di nuovo, si dimostra che il cambiamento delle azioni in corso è
un’esigenza inevitabile.
A questo punto, gli fu suggerito di fare un esperimento durante la
settimana: comportarsi come se le cose andassero al meglio anche se non
era ancora così. In termini più concreti, comportarsi con i compagni,
l’allenatore e i tifosi come se tutto andasse al meglio, a cominciare dalle
cose più piccole. Salutare tutti con un sorriso; essere disponibile nei
confronti degli altri; mai farsi vedere cupo e chiuso in se stesso né, tanto
meno, reagire aggressivamente a eventuali provocazioni; mantenere in
generale una comunicazione basata sul far sentire agli altri la sua gentilezza
e il suo compiacimento nel contatto con loro. Il calciatore commentò che
questo avrebbe voluto dire «far finta» che tutto fosse ok. Gli fu risposto che
la finzione reiterata diviene realtà e fu invitato a fare l’esperimento.
La settimana successiva, il campione rifiutato si presentò sorridente e
allegro, dichiarando immediatamente: «Non sto facendo finta, sono davvero
contento perché questa domenica la partita è andata benissimo, abbiamo
vinto 4 a 0 e io ho giocato al meglio. Non so se dipende da quello che lei mi
ha chiesto, però le cose sono cambiate e adesso mi sento proprio bene».
Visto che l’esperimento era andato bene gli fu suggerito di continuare,
per verificarne il reale effetto. Il calciatore continuò a mantenere i suoi
elevati standard di rendimento.
Dopo questo rapido cambiamento, chiese di essere aiutato a «crescere»
ovvero a imparare a gestire i momenti difficili senza deprimersi.
Sarà chiaro al lettore come in questo caso la tecnica dello scenario oltre il
problema ha permesso di indicare un modo per realizzare quella che poteva
sembrare solo una bella fantasia. Tutti noi tendiamo a costruirci profezie che
si autorealizzano: il trucco è saperle orientare verso risultati funzionali, e
non lasciare che ci si ritorcano contro.
Il domandarsi quale sarebbe la realtà come se il problema fosse risolto o
l’obiettivo raggiunto svolge anche un altro ruolo importante, che è quello di
farci vedere quali sarebbero gli effetti collaterali indesiderati del successo
del nostro progetto. Molto frequentemente, come ho già accennato, gli
esseri umani tendono a sottovalutare che il verificarsi di un qualsiasi
cambiamento attiva una reazione a catena di eventi ulteriori. Come nella
nota metafora utilizzata nella teoria delle catastrofi, un semplice battito d’ali
di una farfalla può innescare una concatenazione di eventi che conduce a un
uragano a qualche migliaio di chilometri di distanza. Si può rilevare un
effetto Butterfly, come viene definito, ogni qual volta introduciamo un
cambiamento benché minimale in un sistema complesso. Ci appare quindi
importante poter prevedere questo tipo di processo, soprattutto quando va in
direzione negativa, per poterne evitare gli effetti.
A questo riguardo, il caso forse più emblematico è rappresentato dalla
cosiddetta «rivoluzione verde» per il combustibile delle automobili. Come
il lettore saprà, negli ultimi anni i movimenti ecologisti hanno fatto enormi
pressioni per la messa a punto di un propellente ecologico, e dalle ricerche
di alcuni scienziati si è giunti alla produzione del bioetanolo. Anziché dal
petrolio, questo carburante è prodotto dalla lavorazione dei cereali, in modo
da ottenere una sorta di «benzina ecologica». L’invenzione è stata
immediatamente recepita da molte case automobilistiche, per rendere le
loro auto non inquinanti ed ecologiche. Purtroppo, a distanza di qualche
anno ci si è accorti del fatto che la maggior parte del raccolto mondiale di
cereali, dapprima utilizzato principalmente a scopi alimentari, si è spostata
invece verso la produzione di combustibile. Ciò ha provocato un immediato
innalzamento dei prezzi e una minore disponibilità per uso alimentare, e i
prezzi di pasta, pane, biscotti, ecc., sono andati alle stelle. Tutto ciò non
solo ha messo in crisi le economie delle famiglie nei paesi economicamente
benestanti, ma ha anche azzerato le scorte per gli aiuti umanitari ai paesi
dove si muore ancora di fame, peggiorandone così la situazione. Come se
non bastasse, si è prodotto un secondo effetto collaterale davvero
paradossale. A seguito dell’aumento della domanda di cereali per la
produzione di combustibile, in Sud America, in Africa e in alcuni paesi
orientali si è cominciato a deforestare molte zone per trasformarle in campi
di produzione di cereali. In altre parole, un progetto che avrebbe dovuto
proteggere il nostro ecosistema dall’inquinamento ha finito per ridurre i
grandi «polmoni verdi» del pianeta.
Oscar Wilde ci ricorda che «è con le migliori intenzioni che si producono
gli effetti peggiori». E questo avviene soprattutto quando non si prevedono
adeguatamente gli effetti delle nostre azioni e ci si limita a valutazioni
effimere, senza prendere in considerazione i possibili effetti boomerang.
«Anche il viaggio più lungo inizia con il primo passo». Così la saggezza più
antica ci indica la strada per l’applicazione di soluzioni a problemi anche
complessi e resistenti al cambiamento. Nei fatti, per rendere applicabile una
strategia messa a punto per sbloccare una situazione problematica, è
fondamentale iniziare dal più piccolo ma concreto cambiamento ottenibile.
Iniziare dal passo più semplice ci salva dalle nostre eventuali incapacità nel
realizzare grandi azioni, e al tempo stesso riduce la resistenza al
cambiamento del sistema sul quale si interviene.
Un esempio che mostra per contrasto quanto sia importante considerare i
cambiamenti più piccoli rispetto a quelli più grandi nella soluzione di un
problema ci viene di nuovo da un ambiente certo non privo di risorse
intellettuali: stiamo parlando di nuovo della NASA. Tra i tanti progetti
realizzati dagli studiosi della NASA c’è pure la penna spaziale, in grado di
scrivere anche in assenza di gravità, cosa che per ovvi motivi non possono
fare né le penne a sfera né le stilografiche. Il progetto prese avvio proprio
per risolvere il problema di permettere agli astronauti di scrivere e prendere
appunti, superando la difficoltà imposta dalla loro particolare condizione.
Il progetto ebbe successo, ma costò svariati milioni di dollari, molte
energie e molto tempo per le sperimentazioni. La cosa curiosa è che i russi,
che disponevano certamente di minori risorse economiche nella corsa allo
spazio, avevano risolto il problema in modo decisamente più semplice:
usavano una matita. Questo strumento di antichissima progettazione, infatti,
può scrivere in qualsiasi condizione di gravità e ha un costo decisamente
molto basso.
Potremmo dire che il bisogno aguzza l’ingegno, usando il buonsenso
popolare. Mentre a un’osservazione più attenta possiamo dire che talvolta si
guarda lontano, quando in realtà la soluzione è vicina, e che questo è un
fenomeno direttamente proporzionale alla nostra intelligenza e alle risorse a
nostra disposizione.
Tenga presente il lettore che qualunque sistema vivente, dal più
infinitesimale al più complesso, possiede la caratteristica di resistere al
cambiamento del proprio equilibrio quando questo si è consolidato da un
certo periodo di tempo. Questo fenomeno sorprendente fu definito
omeostasi dal fisiologo Claude Bernard, che osservò i sistemi biologici e la
loro tendenza a mantenere l’equilibrio costituito, persino in presenza di
disfunzioni o malattie. Pertanto il buon Problem Solver, come l’antico
stratega, inizierà ad applicare la strategia ideata concentrandosi sul più
piccolo e apparentemente innocuo intervento da realizzare. Questo sarà
seguito dal secondo, e così via. Di solito non è necessario procedere
realizzando tutti i piccoli passi significativi dal punto di partenza al punto
d’arrivo dell’intervento, poiché, una volta innescata la progressione, questa
da graduale si trasforma in esponenziale. In altri termini, si assiste
all’effetto valanga: la palla di neve rotolando si ingigantisce fino a
trasformarsi in una valanga inarrestabile.
Frequentemente, tuttavia, si incontra il problema di capire quale debba
essere la prima mossa rispetto alle successive all’interno di un processo di
cambiamento, proprio per la tipica tendenza ad accelerare tale dinamica. A
questo riguardo il Problem Solving Strategico propone una tecnica facile da
utilizzare e straordinariamente efficace, allo scopo di pianificare la
sequenza di azioni da intraprendere per raggiungere l’obiettivo prefissato.
È la tecnica che prende il nome da ciò che fanno le guide alpine esperte per
progettare la scalata di una montagna. Invece di partire dalla base della
montagna, nello studio del percorso da seguire prendono avvio dalla vetta e
andando a ritroso tracciano la rotta e le sue tappe fino all’attacco. Questo
procedimento si è dimostrato empiricamente in grado di evitare la
progettazione di percorsi fuorvianti rispetto all’obiettivo, permettendo di
realizzare il percorso più agevole fino alla cima. Quando si ha un problema
complesso da risolvere, al fine di costruire una strategia efficiente oltre che
efficace, risulta utile partire dall’obiettivo da raggiungere e immaginare lo
stadio subito precedente, poi lo stadio precedente ancora, sino a giungere al
punto di partenza. In questo modo il percorso viene suddiviso in una serie
di stadi; ciò significa frazionare l’obiettivo finale in una serie di micro-
obiettivi che tuttavia prendono avvio dal punto d’arrivo per tornare sino al
primo passo da eseguire.
Questa strategia mentale controintuitiva permette dunque di costruire
agevolmente la sequenza di azioni da realizzare per risolvere un problema,
partendo dal più piccolo ma concreto cambiamento possibile.
Grafico 2
ARTE O TECNOLOGIA?
IL GUERRIERO SPAVENTATO
Un caso decisamente singolare è rappresentato da un campione di sport da
combattimento, che venne a chiedermi aiuto a causa di una sua paradossale
difficoltà nella disciplina in cui era un vero e proprio fuoriclasse. L’atleta
era spaventato da due avversari e si sentiva incapace di affrontarli sul ring,
tanto da aver già evitato letteralmente di incontrarli, sfuggendoli
nell’organizzazione dei suoi incontri. Il problema, trattandosi di un
professionista, era che non avrebbe potuto procrastinare ancora lo scontro
con questi due rivali, poiché tutti e tre erano giunti al livello massimo
internazionale della loro categoria, e presto avrebbero dovuto combattere
tra di loro per stabilire il detentore del titolo. Il problema era chiaro, così
come era chiaro che l’obiettivo sarebbe stato non solo farlo combattere
contro i suoi rivali, ma farlo combattere senza che si sentisse spaventato.
Le sue tentate soluzioni erano: il tentativo di evitamento che aveva, come
già detto, portato avanti sinora ma che non era più proponibile; il tentativo
di non pensare ai due avversari poiché, quando la sua mente andava in
quella direzione, riferiva di sentire veri e propri brividi di paura. Ciò lo
aveva indotto anche a non fare ciò che si fa di solito in tali discipline,
ovvero studiare l’avversario e le sue caratteristiche, utilizzando le
videoregistrazioni dei suoi incontri. Lo sportivo affermava che, ogni volta
che gli era capitato di vedere i due colleghi combattere, si era convinto di
non essere alla loro altezza, non sul piano della tecnica e della capacità
marziale, ma a livello di carattere. I due rivali apparivano molto più
aggressivi, decisamente più «cattivi» nei loro scontri sul ring ed era questo
che gli incuteva un profondo timore, tanto da aver smesso anche di
studiarli.
Come già accennato in precedenza, per tutti i problemi che si basano
sulla paura, la classe usuale di tentate soluzioni messe in atto dalle persone
è proprio quella che mostrava il nostro «guerriero spaventato»: il rifiuto di
affrontare la paura e la tendenza a eludere le situazioni vissute come
minacciose. Queste due tentate soluzioni fallimentari conducono
all’incremento della paura e non alla sua riduzione; molto spesso, anzi, la
trasformano in vero e proprio panico.
Come nella maggioranza dei casi di questo tipo l’atleta fu guidato,
attraverso una tecnica messa a punto specificamente per questa classe di
problemi, a guardare in faccia la sua paura, per trasformarla in «coraggio».
Fu dapprima guidato a esercitarsi ogni giorno, per uno spazio di tempo
prefissato e in una situazione isolata, a calarsi nelle peggiori fantasie
rispetto al combattimento con i due rivali. L’indicazione è di lasciarsi
andare a tutto ciò che in quello spazio viene fuori, tutte le emozioni e le
sensazioni evocate dal portare alla mente le peggiori fantasie devono essere
lasciate libere di esprimersi. La conseguenza di questa prescrizione è che si
produce un vero e proprio effetto paradosso: l’evocare volontariamente la
paura e tutte le immagini connesse ne blocca l’espressione a livello psico-
fisiologico. Questo è ciò che si deve far scoprire al soggetto, in modo da
metterlo nella condizione di essere come san Tommaso, colui che tocca con
mano per credere. Una volta realizzato questo primo obiettivo, con un vero
e proprio training si insegna progressivamente alla persona ad aumentare
volontariamente la paura per ridurla.
Nel caso del nostro combattente l’esito fu per lui davvero sorprendente,
in quanto mai avrebbe pensato che il miglior modo per sedare la paura fosse
alimentarla volontariamente.
Fatta questa scoperta e addestrandosi con impegno, l’atleta cominciò a
studiare i propri futuri contendenti analizzando puntualmente le
registrazioni dei loro combattimenti più importanti. Questo lo condusse a
ridimensionare notevolmente i suoi avversari, cominciando a rilevare nei
loro stili di combattimento aggressivo numerose debolezze su cui far leva
durante i futuri incontri. Ma rimaneva un’altra esperienza concreta da fargli
fare, prima che fosse del tutto pronto ad affrontare i due aggressivi rivali:
quella di riuscire a fronteggiarne lo sguardo «cattivo» senza sentirsi
schiacciato dalla loro personalità. A questo scopo gli fu indicato di
conoscerli prima di incontrarli sul ring, anzi di invitare elegantemente
ognuno dei due a un conviviale incontro prima dei duelli previsti. In altri
termini, il nostro atleta invitò a cena ognuno degli altri due, con il dichiarato
scopo di conoscere al di fuori del ring la persona con la quale avrebbe
dovuto combattere. L’indicazione ricevuta era di mostrarsi con loro il più
cortese possibile, ma al tempo stesso di mantenere, durante l’incontro, lo
sguardo sul futuro contendente. Senza nessun atteggiamento di sfida, ma
come si farebbe con una persona che si ha tutto l’interesse a conoscere. Il
suggerimento fu motivato dicendo che se si considerano gli occhi lo
«specchio dell’anima», si deve guardarli per capire cosa ci possa essere
dietro quello sguardo cattivo sul ring.
Fu così che il nostro atleta, incontrando i due rivali, poté conoscere la
persona che stava al di là del personaggio. In un caso riferì di essersi trovato
di fronte una persona insicura e messa totalmente in soggezione dalla sua
gentilezza, tanto da mostrare più volte durante la chiacchierata a tavola
chiari segni di imbarazzo. Il secondo avversario, invece, era apparso come
un vero e proprio istrione da palcoscenico che per tutta la cena aveva esibito
le sue doti fuori dal ring. Ad esempio, il fatto di essere un fantastico
amatore o di saper cantare meglio dei cantanti professionisti. A questo
riguardo il nostro atleta citò il motto di uno dei suoi vecchi maestri: «Chi si
esibisce non brilla».
Fu così che il nostro guerriero da spaventato tornò a essere sereno,
avendo totalmente ridimensionato i suoi avversari da un lato e le sue
reazioni fobiche dall’altro. Il torneo internazionale a cui parteciparono tutti
e tre gli atleti si concluse con la vittoria ex aequo del nostro e dell’istrione,
mentre l’insicuro arrivò secondo. La cosa curiosa è che i tre sono diventati
veri e propri amici. Il nostro guerriero non più spaventato mi riferì che
entrambi lo avevano definito come il più preparato e coraggioso tra tutti i
contendenti che avessero mai incontrato. La fragilità accettata e gestita
diviene un punto di forza, la gentilezza può sconfiggere la brutalità.
IN CASO DI PATOFOBIA
Una delle forme più ricorrenti di disturbo psicologico moderno è senza
dubbio la patofobia, ovvero la fissazione fobica di avere una malattia. Le
più usuali sono le cardiopatie, i tumori, le sclerosi e le malattie infettive, ma
non ci sono limiti a tale disturbo. Questa forma ossessiva di preoccupazione
conduce i soggetti a continui esami clinici e consulti medici. Si è stimato
che oltre la metà degli esami diagnostici richiesti al servizio sanitario
nazionale siano inutili. Se a ciò si aggiungono le consultazioni mediche
private e il moderno accesso «on line» a siti di diagnostica medica, si può
considerare quanto sia esteso questo problema e quali siano le sue ricadute
sul sistema sociale e sanitario, oltre che sul singolo individuo. Se si
considera anche questa patologia come una specifica classe di problema con
un suo funzionamento ricorrente, si rileva che tutti coloro che manifestano
questo disturbo mettono in atto le stesse modalità disfunzionali per
combatterlo. Il patofobico cerca continue rassicurazioni rispetto alla sua
salute, si sottopone a frequenti esami clinici e cerca di evitare di ascoltare il
proprio corpo, poiché ogni segnale che ne riceve lo spaventa. Anche in
questo caso, queste tre tentate soluzioni non solo non riducono il problema,
ma lo alimentano. Di conseguenza diventano il bersaglio dell’intervento
strategico, volto ad azzerare il meccanismo vizioso che crea e nutre la
patofobia.
Prendiamo ad esempio il caso ricorrente della persona ossessionata
dall’avere una cardiopatia, che la condurrà inevitabilmente a un infarto.
Questa persona di solito cerca rassicurazione continua da parte del suo
medico e si sottopone a qualunque esame diagnostico in ambito
cardiologico. Vorrebbe non sentire mai il suo cuore, o sentirlo sempre
regolare, perché ogni sua presunta alterazione la manda nel panico.
La tecnica messa a punto per bloccare e riorientare il circolo vizioso
patologico è quella di prescrivere alla persona di eseguire un controllo
sistematico del suo cuore. Ovvero: a ogni ora del giorno, alle 8, alle 9, alle
10 e così via, dovrà rilevare il battito cardiaco ascoltando il polso e
prendendone nota. La procedura va ripetuta tre volte, con un minuto di
intervallo tra una rilevazione e l’altra. In tal modo, avremo un vero e
proprio «diario di bordo» del suo cuore.
È sorprendente vedere come il cuore di queste persone funzioni
normalmente, e come nelle rilevazioni ripetute tenda a divenire ancor più
regolare e con un battito del tutto rassicurante. Per i soggetti questo
rappresenta una scoperta disarmante, che produce un’«esperienza
emozionale correttiva» delle precedenti convinzioni fobiche.
Il trattamento procede mantenendo la prescrizione, ridotta però a una
frequenza di ogni 2 ore, e associata all’invito ad azzerare ogni richiesta di
rassicurazione e di altri esami diagnostici.
Di solito il paziente «guarisce» nell’arco di qualche settimana, mentre si
riduce gradualmente la rilevazione quotidiana del battito cardiaco, sino a
considerarla eventuale presidio terapeutico in caso di preoccupazione.
Il lettore scettico può sperimentarlo su di sé: rilevare costantemente il
battito per tre volte consecutive riorienta all’inverso il fenomeno patogeno
di voler controllare, e perciò alterare, il proprio ritmo cardiaco, creando così
rassicurazione ove si trovava spavento.
LEADERSHIP DISFUNZIONALE
Una delle difficoltà più frequenti che si incontrano nelle organizzazioni
riguarda la gestione della leadership da parte di manager e dirigenti. Troppo
spesso, infatti, si sottovaluta il fatto che il ruolo di «capo» di per sé non
trasforma una persona in un leader. Le problematiche conseguenti a una
leadership inefficace possono essere molteplici, e la più evidente è il
malfunzionamento dell’organizzazione che a questa leadership fa
riferimento.
Tra le tante forme di «leader incapace» ho scelto di presentare qui quella
che più frequentemente si presenta negli ultimi tempi: l’incapacità di
delegare e controllare.
Se si utilizza la «tecnica dello scenario» e si immagina il leader ideale,
questi dovrebbe certo avere numerose competenze tecniche, ma soprattutto
quella di far lavorare in autonomia i suoi sottoposti per farne emergere le
capacità personali. Al tempo stesso si richiede che ne controlli la
performance, correggendo gli errori e incentivando i successi. A tali
capacità di gestione si dovrebbe poi aggiungere un carisma personale tale
che il leader venga ammirato e seguito da parte dei suoi collaboratori.
Cesare era un grande condottiero, seguito per timore più che per
ammirazione; Alessandro Magno era il leader amato e ammirato, e per
questo seguito ovunque dai suoi soldati.
Il caso è quello di un’azienda di distribuzione sul mercato di un prodotto
molto avanzato nel campo dell’arredamento e non solo, una particolare
forma di materasso e letto in grado di garantire un sonno migliore anche ai
peggiori insonni. L’azienda non era certo in crisi, anzi poteva esibire un
solido fatturato, ma nutriva aspirazioni di un’ulteriore crescita di quote di
mercato. Dato tale obiettivo, insieme ai due responsabili della proprietà fu
progettato un percorso di formazione-cambiamento per il gruppo di
dirigenti regionali, al fine di migliorarne le performance manageriali.
La prima giornata in aula fu gestita facendo lavorare i 19 manager di area
sulla tecnica avanzata dello «scenario ideale», relativo in questo caso alla
situazione futura del loro gruppo di lavoro. Ognuno di loro aveva circa una
decina di sottoposti, esperti di marketing e vendita diretta. Nel far esporre a
ognuno la propria immagine ideale, emerse immediatamente il dato
secondo cui la stragrande maggioranza dei manager aspirava ad avere un
gruppo di collaboratori in grado di seguire alla lettera le indicazioni, e al
tempo stesso capace di metterle in pratica senza un continuo bisogno di
supporto. Grazie all’utilizzo di questo espediente, si poté dare subito una
definizione del problema che non permetteva all’azienda di andare oltre i
risultati già ottenuti: la presenza, nella maggioranza delle aree, di un
modello disfunzionale di interazione tra il manager e i suoi collaboratori.
La difficoltà era rappresentata dal fatto che i presenti in aula si
lamentavano di dover continuamente intervenire sui problemi che i
collaboratori non sapevano gestire autonomamente. Questo li costringeva a
dedicare una parte rilevante del loro tempo a tali correttivi, anziché allo
sviluppo di nuove reti di vendita. In altri termini, i leader spendevano la
maggior parte del loro tempo a sostituirsi ai loro sottoposti nell’affrontare le
difficoltà che questi ultimi non riuscivano a fronteggiare. Di conseguenza,
non solo erano sovraccarichi di lavoro che non era di loro diretta
competenza, ma rischiavano anche di deresponsabilizzare i propri
collaboratori, minandone l’autostima personale. Se un leader si sostituisce
al collaboratore intervenendo direttamente per risolvere i suoi problemi,
anziché seguirne la crescita professionale e mostrandogli come superare il
proprio limite, costruisce una struttura di collaboratori incapaci e frustrati.
Questi dipenderanno sempre da lui, mettendolo nella condizione di dover
intervenire personalmente, e di accentrare su di sé tutte le responsabilità. A
conferma di questa ipotesi iniziale, le tentate soluzioni messe in atto fino ad
allora dal gruppo di manager di area erano per lo più interventi diretti sui
clienti, per sanare problematiche sorte con i collaboratori, insieme ad
atteggiamenti paternalistici di richiamo nei confronti del collaboratore in
difficoltà. Come dire: «Ti rimprovero perché non sei capace, ma poi faccio
io al tuo posto». Questa ambivalenza strategica inchioda il collaboratore
alla propria incapacità e costringe il suo capo a doversi continuamente
sostituire a lui.
A questo punto, proponemmo di lavorare con la tecnica del «come
peggiorare», facendo emergere chiaramente la disfunzionalità del loro
modello di rapporto con i collaboratori e il fatto che, se questo fosse stato
reiterato, non solo l’azienda non avrebbe raggiunto risultati migliori, ma
avrebbe conosciuto un graduale arretramento. Così suscitammo il timore
del fallimento con l’immagine chiara di come realizzarlo: in tale situazione,
un cambiamento di strategie diveniva non solo necessario, ma
indispensabile.
A questo punto, sulla base del confronto tra lo «scenario oltre il
problema» e il «come peggiorare», applicammo la «tecnica dello scalatore»,
costruendo a ritroso tutti gli step necessari per giungere dalla realtà presente
all’obiettivo desiderato. Il processo di cambiamento si basò
fondamentalmente sulla prescrizione di delegare i compiti, di controllarne
l’esecuzione e di intervenire sul collaboratore se questi non avesse eseguito
bene la consegna, ma per insegnargli come fare, senza sostituirsi a lui. Tutto
ciò avvenne progressivamente, partendo da obiettivi minimi in crescita
graduale.
Questo lavoro è proseguito per circa sei mesi, con un incontro mensile
del gruppo con il nostro team per supervisionare la trasformazione da leader
incapaci a leader effettivamente in grado di delegare e controllare.
L’azienda nell’anno successivo al nostro intervento ha totalizzato il miglior
fatturato nella sua storia.
TRASFORMARE LA DIFFIDENZA IN FIDUCIA
Alla fine degli anni Ottanta, a causa di una prima importante crisi del
settore, il comparto pratese del tessile dovette affrontare una situazione
economica e lavorativa difficile. Un’importante società di consulenza aveva
ricevuto l’incarico dall’amministrazione pubblica provinciale e regionale di
risolvere la difficoltà, introducendo variazioni nell’organizzazione del
lavoro. Lo studio di consulenza si mise al lavoro e, dopo aver valutato bene
la situazione del comparto locale di Prato, mise a punto una soluzione
innovativa capace di salvare le aziende dalla crisi. Si trattava di trasformare
i singoli laboratori in competizione tra loro in isole produttive. Questi,
infatti, nel gioco della concorrenza puntavano al ribasso dei costi per
mantenere la propria presenza sul mercato, accentuando in tal modo la
competizione tra i singoli laboratori, la riduzione dei costi di produzione e
dei ricavi economici. L’idea era quella di mettere insieme più laboratori in
capannoni che accorpassero le attività di più persone, costruendo una catena
produttiva in cui ogni operatore avesse una sua parte di responsabilità. Ciò
avrebbe abbassato i costi della produzione aumentandone la qualità. Tutti
avevano da guadagnare da un’operazione di ristrutturazione aziendale così
concepita.
Inoltre, tutto questo veniva realizzato grazie a fondi regionali ed europei,
quindi a costo zero per i laboratori e con il vantaggio di abbassare i costi
produttivi per ognuno di loro e di aumentare i guadagni. Grazie a questa
operazione si sarebbero garantite più commesse, e mantenuto o aumentato il
livello di produzione.
Il progetto apparve vincente e le amministrazioni incaricarono la società
di portarla avanti. Si procedette così alla realizzazione della prima isola
produttiva pilota, per poi giungere a metterne in piedi una serie, una volta
verificata la reale efficacia del progetto. Tutto andò bene, fino al momento
in cui i responsabili della società dovettero selezionare il primo gruppo di
lavoratori. Tuttavia sorse un problema: per quanto il progetto apparisse
vantaggioso per tutti, i soggetti che per anni erano stati in rivalità tra loro e
spesso in conflitto erano riluttanti a riunirsi sotto la stessa bandiera. In altri
termini, il fattore umano- relazionale andava contro i corretti calcoli
economico-produttivi.
A questo punto, la società di consulenza, composta da ingegneri, legali
ed economisti si trovò disarmata, poiché incapace di risolvere tale assurdo
problema. Due dei componenti di quella società parteciparono a un
seminario tenuto da Paul Watzlawick e da me sul tema del cambiamento.
Alla fine dell’incontro, si rivolsero a noi per chiedere un aiuto per affrontare
la situazione. In effetti, vista con gli occhi di un economista o di un
ingegnere la circostanza appariva assurda. Avevamo infatti persone vicine
al tracollo produttivo ed economico che si rifiutavano di lavorare insieme
per qualcosa che li avrebbe protetti e tutelati. Quando chiedemmo ai
consulenti se questa fosse la realtà unicamente del gruppo pilota, ci
risposero che la stessa situazione si era presentata un po’ in tutti i gruppi.
Era quindi chiaro che il problema non riguardava una minoranza, ma
derivava da una situazione di rivalità e conflitto, reiterata nel tempo, di un
intero settore produttivo. Così si rischiava di far fallire completamente un
progetto che avrebbe evitato il crollo totale di quell’area produttiva, con
tutte le conseguenze immaginabili.
L’obiettivo concordato fu quello di riuscire a trasformare quella
situazione di reciproca sfiducia e diffidenza tra i responsabili dei singoli
laboratori tessili in piena collaborazione tra tutti.
Tutte le prime tre fasi del Problem Solving Strategico sono state
realizzate con i consulenti, e non con i diretti interessati, in quanto in realtà
erano loro i fornitori e gli applicatori delle tentate soluzioni disfunzionali.
Questo ci condusse a rilevare e concordare con loro che, in questo caso, era
necessario l’intervento diretto di qualcuno esterno al progetto, che potesse
lavorare non sugli aspetti lavorativi ed economici ma sulle dinamiche
relazionali. Un po’ come nel caso della nave fatta emergere con le palline
da ping-pong, si trattava di realizzare un intervento che potesse far
cambiare nelle persone la disposizione nei confronti dell’altro.
Fu così pianificato un primo incontro con il gruppo di soggetti che
avrebbero dovuto realizzare la prima isola produttiva, dicendo loro che gli
esperti avrebbero tentato di far sì che la loro valutazione reciproca mutasse,
permettendo loro di lavorare insieme. Una dichiarazione che può sembrare
puramente formale, ma che in realtà era molto di più, poiché volevamo
creare subito un effetto aspettativa che generasse il ben noto effetto
Hawthorne: il fatto che le persone sappiano che viene impiegato un esperto
per migliorare la loro realtà produce, già di per sé, una predisposizione al
cambiamento. Qualcosa di simile all’effetto placebo o, meglio, a quando ci
basta sapere che il medico illustre ci curerà per farci sentire meglio, per
effetto dell’aspettativa che si viene a creare.
L’incontro, realizzato in una sala pubblica per evitare qualunque aspetto
clinicizzante, fu giocato proponendo ai partecipanti l’applicazione delle due
tecniche avanzate di Problem Solving: lo «scenario al di là del problema» e
il «come peggiorare».
Il lettore immaginerà che in questo caso i soggetti non erano certo degli
intellettuali né degli scienziati, ragion per cui indurli a fare un lavoro
puramente mentale non fu cosa facile. Si dovette impiegare un’intera
giornata nella quale fu necessario da un lato raccogliere le risposte offerte
alle varie declinazioni delle domande proprie delle due tecniche di Problem
Solving, dall’altro gestire sul campo le dinamiche conflittuali tra i vari
membri del gruppo. Alla fine della giornata, tuttavia, si era finalmente
riusciti a creare in loro un’aspettativa positiva rispetto al progetto e
all’eventuale collaborazione con i colleghi. Questo fu il risultato dell’aver
evocato in ognuno di loro, attraverso la tecnica del «come peggiorare», una
concreta sensazione di paura per la possibile evoluzione del lavoro nel caso
in cui il progetto fosse fallito, e il fallimento fosse dovuto alla loro
incapacità di collaborare e fidarsi reciprocamente.
Per gestire questa sensazione, e per non trasmettere loro un’idea
moralista della bontà degli esseri umani, chiudemmo la giornata
proponendo di risolvere un ben noto dilemma logico che ci sembrava
adattarsi perfettamente alla situazione: il dilemma dei due prigionieri.
Questo autentico paradosso semantico ha rappresentato un rompicapo per
generazioni di logici e di matematici, poiché non può avere una spiegazione
puramente razionale, ma richiede la messa in gioco di aspetti relazionali ed
emotivi che non possono essere calcolati con certezza.
Si tratta di questo: un giudice si trova a dover condannare due truffatori,
e per decidere la pena li fa rinchiudere in due celle lontane l’una dall’altra.
Poi propone a ognuno di loro il seguente dilemma: «Se tu ti dichiari
innocente e il tuo compagno si dichiara colpevole, tu sarai immediatamente
libero e lui sarà condannato a 5 anni di carcere. Se tu ti dichiari colpevole e
lui innocente accadrà il contrario, lui sarà libero e tu andrai in carcere per 5
anni. Se entrambi vi dichiarate innocenti, visto che ci sono prove della
vostra colpevolezza, sconterete entrambi 3 anni di carcere. Se entrambi vi
dichiarate colpevoli, sconterete invece solo 3 mesi di carcere».
La complicazione è rappresentata dal fatto che ognuno dei due deve
fidarsi dell’altro e confidare nel fatto che l’altro si fidi di lui, e viceversa.
Infatti se entrambi confidano nell’altro e si dichiarano colpevoli, lo scotto
da pagare è minimo per entrambi, ma basta che uno dei due «tradisca» la
fiducia perché l’altro subisca la pena massima...
Come spesso accade, quando in situazioni come queste si usano tecniche
che apparentemente decontestualizzano il problema, per poi
ricontestualizzarlo da una prospettiva differente, si possono osservare effetti
curiosi. Nel nostro caso si osservò una netta modifica delle disposizioni non
verbali tra i partecipanti, che passarono dalla tendenza all’evitamento del
contatto oculare e di ogni ammiccamento a un gioco di sguardi,
ammiccamenti e sorrisi reciproci immediatamente rilevabile da un
osservatore.
Grazie a questo sorprendente e illuminante dilemma e al suo calzare
perfettamente alla situazione, l’effetto quasi magico osservato alla fine della
giornata dai membri della società di consulenza ebbe un esito decisamente
positivo nelle settimane successive. Il progetto dell’isola produttiva prese
avvio, e per i consulenti non fu più impossibile costruire la filiera di
produzione selezionando per ognuna delle fasi di produzione i soggetti più
idonei.
Il progetto, come la storia della realtà pratese insegna, ha avuto un tale
successo che è stato poi replicato in numerose altre aree produttive italiane
con problemi simili.
Potremmo commentare sottolineando, contrariamente a ciò che
comunemente si pensa, che non sono le organizzazioni a fare gli uomini, ma
gli uomini a fare le organizzazioni. L’uomo non è figlio delle circostanze:
l’uomo è colui che le crea.
LICENZIARE ETICAMENTE
Quando un’azienda giunge alla difficile decisione di licenziare dei
dipendenti, di solito le valutazioni sono strettamente collegate ai vantaggi
che ne può trarre l’azienda, a discapito di quelli dei lavoratori. Questo
sembrerebbe un inevitabile dato di realtà ma, come sarà dimostrato
nell’esempio che segue, si può talora riuscire a fare qualcosa di differente.
Il caso che mi preme ricordare non è stato gestito né da me in prima
persona né dai miei collaboratori che si occupano di formazione e
consulenza aziendale, bensì da un nostro allievo della Scuola di
Comunicazione, che ha conseguito anche il titolo di Formatore dopo aver
preso parte al Corso di formazione per Formatori che ogni anno si tiene
presso il nostro Centro. Si tratta del manager di un’importante azienda che
produce cappe per cucine e camini, che si è trovato di fronte all’ineluttabile
decisione di licenziare centinaia di persone per il crollo del mercato dovuto
alla grave crisi dell’ultimo anno.
Di fronte a questo compito così difficile, il manager ha scelto di porsi in
una prospettiva diversa da quelle con cui in genere si procede al taglio degli
organici. Di solito si tagliano le persone che rappresentano per l’azienda
una risorsa minore o un maggior costo o, seguendo un’indicazione di tipo
sindacale, si garantisce il posto a chi ha più anzianità rispetto a chi ne ha
meno. La prospettiva non ordinaria scelta dal nostro uomo nell’affrontare il
dilemma è stata quella di chiedersi chi potesse essere meno danneggiato dal
licenziamento. In questo modo è giunto a pensare che si dovessero
licenziare le persone con maggior probabilità di reinserimento professionale
immediato. Pertanto la sua attenzione si è spostata dal pensare di chi fosse
più utile all’azienda al decidere chi potesse essere ricollocato più
velocemente a livello professionale in settori produttivi analoghi.
A tale scopo, ha incaricato una società di replacement di gestire le
possibilità di ricollocamento dei profili professionali dei dipendenti,
giungendo così a proporre loro, in modo onesto e chiaro, la sua intenzione
di licenziare per primi coloro che avrebbero avuto la possibilità di
immediato ricollocamento sul territorio nazionale. In tal modo avrebbe
potuto tenere per ultimi coloro che avrebbero trovato più difficoltà a trovare
una nuova occupazione, nella speranza di una ripresa del mercato che
potesse scongiurare questa triste possibilità.
Ciò che mi sembra particolarmente positivo è che per la prima volta mi è
sembrato di assistere a un licenziamento etico. Vale a dire che di fronte a
una reale crisi del mercato e a una reale esigenza di licenziare una parte dei
dipendenti per poter mantenere il posto di lavoro agli altri, si è provveduto a
stabilire chi doveva uscire dall’azienda in base alle possibilità che ciascuno
aveva di essere ricollocato, offrendogli direttamente tale possibilità. Per
tutti, infatti, il manager si è preso la responsabilità di trovare, insieme alla
società di replacement, la migliore soluzione di rioccupazione,
predisponendo per ognuno di loro un profilo valutativo che ne facilitasse
l’inserimento nella nuova azienda.
Tutto questo rappresenta un esempio di come un approccio strategico al
Problem Solving possa essere utilizzato non solo per obiettivi di successo,
ma anche quando si debbano prendere decisioni critiche come quella di
licenziare dei collaboratori per mantenere in piedi la propria azienda.
MIGLIORARE I MIGLIORI
Una delle competenze più importanti per un Problem Solver è rappresentata
dalla sua capacità di comunicare efficacemente. In questo testo non c’è lo
spazio necessario per trattare anche il tema della Comunicazione Strategica,
che rappresenta la seconda anima del nostro approccio alla soluzione dei
problemi umani, e per questo rimandiamo il lettore ai testi già pubblicati sul
tema. Tuttavia, nel presentare esempi di intervento, non ci si può esimere
dal citare anche questa parte fondamentale del nostro lavoro, in quanto
spesso è la formazione alla comunicazione strategica il veicolo per la
realizzazione del Problem Solving Strategico.
Come, ad esempio, nel caso di una delle più importanti società al mondo
di consulenza e gestione delle organizzazioni produttive, un vero e proprio
marchio di qualità totale, e che si rivolse a noi per un confronto tra i nostri
due modelli. Durante tale interscambio di strategie di Problem Solving,
tuttavia, emerse un fattore che loro avrebbero potuto migliorare
significativamente: la capacità di comunicare più efficacemente con i loro
clienti, costruendo una relazione migliore in modo da incrementare la
collaboratività e aggirare più agevolmente le resistenze al cambiamento. Mi
si conceda di evidenziare che la capacità di riconoscere i propri limiti e il
tendere al miglioramento continuo sono propri solo dei migliori, e non è
quindi un caso che questa società abbia così tanto successo.
Con questo scopo, analizzammo quale fosse il loro problema ed emerse
rapidamente una chiara discrepanza tra il modello di intervento decisamente
strategico e il modo di comunicare, invece, decisamente cognitivo. In altri
termini, presentavano ai loro clienti le soluzioni strategiche per i problemi
delle loro organizzazioni in modo diretto e razionale, come in un semplice
passaggio di informazioni. Al contrario, se si vuole indurre qualcuno a
cambiare idee e azioni, è importante utilizzare uno stile di comunicazione
persuasivo. Tale realtà rendeva il loro lavoro ben più faticoso, con la
frustrazione di vedere come le loro soluzioni non fossero applicate dai loro
clienti.
Sulla base di questa rivelazione è stato realizzato un vero e proprio
addestramento alle tecniche di comunicazione, in modo che quegli
eccellenti Problem Solver divenissero anche comunicatori efficaci.
Tra le «invenzioni tecnologiche» realizzate, la tecnica del «dialogo
strategico» e quella del «rendere magiche le parole» rappresentano una vera
e propria punta di diamante del nostro lavoro. La prima è una raffinata
struttura per rendere un singolo colloquio un vero e proprio processo di
cambiamento strategico. La seconda concerne l’uso del linguaggio non
verbale e paraverbale, per rendere la comunicazione verbale più suggestiva
e influente.
Se non sono in grado di persuadere qualcuno a seguire le mie
indicazioni, queste, per quanto efficaci, saranno fallimentari perché
verranno ignorate. Una delle più grandi doti di Alessandro Magno, per
tornare a citare il geniale condottiero, era proprio la capacità di persuadere i
soldati a seguirlo nelle sue imprese e i nemici ad arrendersi senza
combattere. Il sovrano macedone aveva al suo seguito il maestro di retorica
Antisarco, allievo di Protagora, che lo aiutava a preparare i suoi famosi
discorsi. Tra le strategie retoriche di Alessandro, quella che più mi piace
riguarda le domande con illusione di alternativa di risposta, da lui utilizzate
nei confronti dei regnanti di città o stati che voleva conquistare. Prima di
iniziare un attacco si presentava al regnante di turno, proponendogli quanto
segue: «Preferisci che io distrugga il tuo regno, uccida tutti i tuoi sudditi,
rada al suolo le tue città, cancelli dalla storia la tua genia, oppure che ti lasci
a regnare come satrapo di una delle province dell’Impero Universale di
Alessandro, mantenendo tutti i tuoi privilegi e salvando le tue genti?» Non è
un caso che la stragrande maggioranza scegliesse di divenire satrapo
dell’Impero Universale di Alessandro. In questo modo, grazie a una forma
raffinata di comunicazione e strategia, il più grande condottiero della storia
vinse senza combattere la maggior parte delle sue battaglie.
Capitolo 6
CONCLUSIONI
Nardone G., 1993, Paura, Panico, Fobie, Ponte alle Grazie, Firenze.
Il volume espone il puntuale resoconto di un’esperienza di ricerca empirica
in campo clinico. Per la prima volta vengono definiti in maniera dettagliata
i differenti sistemi percettivo-reattivi tipici dei diversi tipi di disturbi fobici,
ovvero le differenti modalità di percezione e reazione della realtà tipiche
delle persone che soffrono di questo tipo di problemi. L’autore distingue
cinque differenti sistemi percettivo-reattivi, che richiedono analoghe
varianti nel protocollo di trattamento: il disturbo agorafobico, la sindrome
di attacchi di panico, la sindrome composita di agorafobia e attacchi di
panico, la sindrome ossessivo-compulsiva, la sindrome fobico-
ipocondriaca. Per ogni disturbo viene presentata la sequenza per stadi del
processo terapeutico, con le relative invenzioni terapeutiche.
Watzlawick P., Nardone G., 1997 (a cura di), Terapia breve strategica,
Raffaello Cortina Editore, Milano.
Questo volume risponde molto bene all’esigenza di fornire una panoramica
il più possibile completa ed esaustiva della Terapia Breve Strategica. Il libro
è articolato in saggi redatti dagli autori più rappresentativi dell’approccio
strategico: Heinz von Foerster, Ernst von Glasersfeld, Stefan Geyerhofer,
Paul Watzlawick, Jeffrey Zeig, Cloé Madanes, Steve de Shazer, John
Weakland e lo stesso Giorgio Nardone. Gli autori accompagnano la rigorosa
esposizione teorica con numerosi esempi concreti tratti dalla pratica clinica.
Nel saggio di Giorgio Nardone vengono presentati alcuni esempi di
strategie e stratagemmi originali per il trattamento di disturbi specifici,
come il disturbo da attacchi di panico, le compulsioni, il dubbio ossessivo,
la depressione, la bulimia e il blocco della performance.
Nardone G., Giannotti E., Rocchi R., 2001, Modelli di famiglia, Ponte
alle Grazie, Milano.
In questo libro Giorgio Nardone, insieme ai suoi collaboratori, riassume il
risultato di anni di ricerca-intervento rivolta all’osservazione dei molteplici
schemi di organizzazione familiare emergenti nel panorama italiano attuale.
Sono sei i modelli di famiglia individuati: l’iperprotettivo, il democratico-
permissivo, il sacrificante, il delegante, l’intermittente, l’autoritario.
Ognuno di questi modelli viene illustrato attraverso l’esposizione di
emblematiche storie cliniche; le strategie di soluzione sono semplici e
chiare, le terapie rapide ed efficaci. Il risultato è una nitida fotografia della
situazione emergente all’interno della famiglia e dei suoi modelli di
riferimento, ma soprattutto del percorso possibile e attuabile verso la
risoluzione di nodi problematici e pericolose conflittualità.
Loriedo C., Nardone G., Watzlawick P., Zeig J.K., 2002, Strategie e
stratagemmi della psicoterapia, Franco Angeli, Milano.
In questo volume gli autori affiancano esposizioni teoriche approfondite ed
esemplificazioni cliniche di trattamento, guidando così il lettore a cogliere
pienamente lo sviluppo di un intervento di psicoterapia breve, osservandolo
in vivo. Il contributo di Giorgio Nardone prende avvio dall’esposizione di
come, a partire dai primi modelli strategici, il modello di Terapia Breve
Evoluta si sia venuta sviluppando e si caratterizzi per la costruzione e l’uso
di specifici protocolli di trattamento per specifiche patologie. La puntuale
trascrizione di sei sedute di un caso esemplare di trattamento di una fobia
con attacchi di panico rivela strategie e stratagemmi in cui le due anime di
un intervento strategico, rigore e creatività, si fondono e si alimentano
reciprocamente, dando vita a un intervento caratterizzato da una
sorprendente efficacia ed efficienza.
Nardone G., 2003, Non c’è notte che non veda il giorno, Ponte alle
Grazie, Milano.
Il disturbo da attacchi di panico è fra i più diffusi e invalidanti, poiché
minaccia e compromette la vita quotidiana di moltissime persone.
L’obiettivo di questo testo è presentare al lettore in modo chiaro e
accessibile le conoscenze attuali relative al funzionamento delle patologie
da panico e, soprattutto, la terapia dimostratasi concretamente efficace e
rapida per il loro superamento. Vengono qui affrontate diverse «forme del
panico», in una classificazione operativa delle paure patologiche e del loro
trattamento: la paura di perdere il controllo, la paura di volare, la paura
dell’altezza, la paura di perdere le persone care, la paura degli animali,
l’agorafobia, la claustrofobia, la paura del rifiuto sociale, le fissazioni
ipocondriache, le ossessioni compulsive, la dismorfofobia.
Nardone G., 2003, Cavalcare la propria tigre, Ponte alle Grazie, Milano.
In questo libro Giorgio Nardone analizza l’arte dello stratagemma e
presenta la sua sintesi personale che riduce la miriade di stratagemmi che si
ritrovano in letteratura in 13 stratagemmi essenziali. Ognuno di questi
rappresenta un criterio logico non ordinario applicabile alle circostanze
problematiche più differenti e indispensabile ogniqualvolta gli interventi
logici ordinari si rivelino fallimentari. Ogni stratagemma viene narrato
attraverso l’utilizzo di esempi tratti dagli ambiti più svariati. Cavalcare la
propria tigre rappresenta una lettura entusiasmante e stimolante per
chiunque si interessi di cambiamento e desideri apprendere come ottenere
«il massimo risultato con il minimo sforzo».
Nardone G., Salvini A., 2004, Il dialogo strategico, Ponte alle Grazie,
Milano.
Questo libro rappresenta il punto d’arrivo di un percorso di ricerca,
applicazione clinica e consulenza manageriale realizzate nell’arco di oltre
quindici anni presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo. Tecnica
evoluta per condurre un singolo colloquio «terapeutico», il dialogo
strategico è capace di indurre rapidi e radicali cambiamenti
nell’interlocutore a partire già dal primo incontro. Guidando la persona non
solo a «capire» ma soprattutto a «sentire» in maniera differente la propria
situazione problematica e cosa dovrebbe fare per cambiare, questa
sofisticata tecnica produce una vera e propria «esperienza emozionale
correttiva» in chi lo vive. In questo modo, il cambiamento non è reso solo
auspicabile, ma inevitabile.
Nardone G., Watzlawick, P., 2005, Brief Strategic Therapy, Rowman &
Littlefield Publishers Inc., MD, USA.
Questo volume, rivolto prevalentemente al lettore specialista di lingua
inglese, espone un quadro completo della Terapia Breve Strategica nei suoi
aspetti teorici e pratici che la contraddistinguono dalle altre psicoterapie.
Gli autori presentano tecniche evolute di trattamento messe a punto per
specifiche patologie attraverso la ricerca empirico-sperimentale portata
avanti al CTS di Arezzo. I risultati della ricerca, condotta su circa 3500 casi
trattati presso il Centro nel periodo 1988-1998, mostra un’efficacia media
dell’86% con una durata media del trattamento che, nel corso degli anni, è
scesa fino a 5-6 sedute. I casi esposti sono utilizzati per dimostrare
l’efficacia del metodo e mostrano come la terapia possa diventare un
viaggio ben pianificato (rigoroso sebbene non rigido) il cui punto di
partenza, direzione, destinazione e durata possono essere previsti fin
dall’inizio.
Nardone G., Rampin M., 2005, La mente contro la natura, Ponte alle
Grazie, Milano.
Anni di lavoro del CTS nell’ambito dei disturbi sessuali hanno permesso di
sviluppare tecniche terapeutiche orientate allo sblocco di ciò che la mente
intrappola della sessualità. Il libro, attraverso il racconto di casi concreti, si
propone di analizzare le principali tentate soluzioni ridondanti che più
frequentemente sono alla base dei disturbi sessuali e le relative tecniche
terapeutiche messe a punto all’interno dell’approccio strategico per
risolvere questo tipo di problemi. Ansia da prestazione, disturbi del
desiderio, anorgasmia, eiaculazione precoce, impotenza, paura della
penetrazione, parafilie, paranoie sessuali. Ognuno di questi disturbi può
essere affrontato e risolto in tempi estremamente rapidi, se si utilizza lo
stratagemma giusto.
Nardone G., Loriedo C., Zeig J., Watzlawick P., 2006, Ipnosi e terapie
ipnotiche, Ponte alle Grazie, Milano.
Per più di un decennio gli autori di quest’opera hanno studiato le
caratteristiche della comunicazione ipnotica e sono giunti a elaborare nuovi
metodi per impiegarla con successo nel campo della Terapia Breve.
Essendo un metodo «naturale» e fondandosi sulle caratteristiche individuali
del soggetto, l’ipnosi si rivela efficacissima per aiutare i pazienti a liberarsi
dai propri comportamenti patologici. Particolarmente efficace appare la
cosiddetta «ipnosi senza trance», qui trattata da Giorgio Nardone, che
permette di aggirare le resistenze al cambiamento delle persone senza
ricorrere necessariamente a un’induzione formale della «trance». L’autore
descrive in dettaglio le varie tecniche della comunicazione suggestiva,
verbali e non verbali, che permettono di «sintonizzarsi» sul paziente e
rendere il cambiamento inevitabile, ovvero di «rendere magiche le parole».
Muriana E., Pettenò L., Verbitz T., 2006, I volti della depressione:
curarsi in tempi brevi, Ponte alle Grazie, Milano.
Le autrici di questo libro, grazie a un laborioso lavoro di ricerca-intervento
condotto presso il CTS di Arezzo, hanno studiato come si forma, come si
mantiene e come si interrompe l’ideazione depressiva. La depressione non
viene qui vista come una malattia, ma come una sofferenza, effetto di disagi
diversi, che si manifesta con molte facce tutte accomunate da uno stesso
atteggiamento di rinuncia. A seconda dei modi in cui viene realizzata la
rinuncia, sono state individuate varianti differenti del quadro depressivo: il
depresso radicale, l’illuso-deluso di sé, l’illuso-deluso degli altri, il
moralista. L’opera, ricca di esempi clinici, è stata scritta in maniera che
chiunque possa leggerla e comprenderne chiaramente i contenuti. Il lettore
potrà così constatare che la depressione non è un male incurabile e che il
suo superamento non richiede necessariamente terapie talvolta più
devastanti della malattia stessa.
Nardone G., 2007, Cambiare occhi, toccare il cuore, Ponte alle Grazie,
Milano.
Cambiare occhi, toccare il cuore non è un libro di terapia tout court, bensì
una sorta di «manuale» in cui Giorgio Nardone ha raccolto e condensato
anni di pratica clinica nell’utilizzo degli aforismi terapeutici. L’aforisma
viene qui considerato una vera e propria tecnica strategica. Come in una
sorta di danza interattiva, in questa raccolta si alternano «perle di saggezza
rubate», ovvero aforismi di autori famosi, e «gemme trovate», ovvero
pensieri formulati dalla stesso autore durante vent’anni di sedute
terapeutiche grazie all’incontro con oltre diecimila pazienti.
Nardone G., 2008 (con E. Balbi), Solcare il mare all’insaputa del cielo,
Ponte alle Grazie, Milano.
«Lezioni sul cambiamento terapeutico e le logiche non ordinarie» è il
sottotitolo di questo testo in cui Giorgio Nardone espone temi tanto
complessi quanto fondamentali per chiunque si interessi di cambiamento
strategico. Mediante un sempre più consapevole uso terapeutico del
paradosso, della credenza e della contraddizione nella sua pratica clinica e
consulenziale, Giorgio Nardone è giunto a individuare quelle costanti che
permettono, caso per caso, di scegliere la strategia più adatta per affrontare
e risolvere le più importanti patologie su scala individuale, di gruppo o
aziendale. Dalla terapia di coppia al disturbo di panico, dal disturbo
compulsivo alle paranoie e i deliri, dai problemi sessuali agli interventi
aziendali, questo libro riassume in sé una molteplicità non solo di esempi
ma anche di livelli di lettura che lo rendono un testo ineludibile per
chiunque voglia perfezionare la propria capacità di Problem Solving, in
ambito terapeutico, aziendale o in qualsiasi altro contesto in cui l’efficacia e
la rapidità dell’intervento siano fattori essenziali.
Giorgio Nardone
È inoltre:
– Coordinatore del Network Mondiale di Psicoterapia Breve Strategica e
Sistemica e della Rivista Europea di Psicoterapia Breve Strategica e
Sistemica.
– Codirettore della rivista Journal of Brief, Strategic and Systemic
Therapies.
– Fondatore emerito di The American Association of Brief & Strategic
Therapists.
– Direttore della collana «Saggi di Terapia Breve», Ponte alle Grazie,
Milano.
1.
Psicologa-psicoterapeuta, è ricercatore associato presso il Centro di Terapia Strategica di
Arezzo e docente della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Breve Strategica. È
responsabile organizzativo della Scuola di comunicazione, problem solving e coaching
strategico di Milano e docente di master clinici e organizzativi in Italia e all’estero. Dal
2000 è responsabile dello studio di Milano, affiliato al cts di Arezzo, dove svolge attività
di psicoterapia breve, consulenza e coaching, e coautrice di diversi libri pubblicati in
questa stessa collana.
INDICE
Presentazione
Frontespizio
Pagina di copyright
Concordare l’obiettivo
IL MANAGER MORALISTA
IL LEADER AMICO
IL CAMPIONE RIFIUTATO
IL GUERRIERO SPAVENTATO
IL VIOLINISTA A METÀ
IN CASO DI PANICO
IN CASO DI PATOFOBIA
LEADERSHIP DISFUNZIONALE
LICENZIARE ETICAMENTE
MIGLIORARE I MIGLIORI
Capitolo 6. Conclusioni
Bibliografia