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Savino Balzano può essere inserito senza troppe difficoltà nella categoria della sinistra sovranista

che andava molto di moda una decina di anni fa. Nel suo libro sembra ricondurre la maggior parte
dei mali che affliggono il paese all’adesione all’UE. Non ci convince per niente questa ricostruzione
che rischia di diventare un forte alibi per la classe imprenditoriale italiana che ha sempre avuto
enormi difficoltà nel gestire il conflitto distributivo alimentato dal movimento operaio.
Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo ricostruiscono bene questo problema tipico dei
sovranisti criticando uno dei loro capostipiti a sinistra, ovvero Alberto Bagnai.
Come per l’economista italiano anche per Balzano sembra esistere una storia economica prima della
perdita della sovranità monetaria e una storia successiva che coincide con l’adesione all’euro e a
tutti i processi preparatori come lo Sme.
Prima dell’euro c’era un modo di politiche espansive a sostegno delle rivendicazioni dei lavoratori,
dopo l’euro c’è stata l’austerità e la macelleria sociale. Sentiamo come ricostruiscono la crisi del
1963-1964 nel nostro paese Riccardo Bellofiore e Francesco Garibaldo. Si tratta di una fase storica
contraddistinta dai cambi fissi di Bretton Woods, la Banca centrale non era autonoma dal Tesoro e
c’era la tanto agognata sovranità monetaria.

“Le lotte salariali, conseguenza del pieno impiego nel triangolo industriale seguita agli anni
ruggenti del miracolo economico di fine Cinquanta - primissimi Sessanta, rovesciarono in un anno
solo il rapporto salario-produttività dal 1950. […] Il Governatore della Banca centrale […] optò per
una difesa strenua dei margini di profitto delle imprese per il tramite di una strategia inflazionistica,
sostenendola con la tesi che alti profitti significavano alti investimenti, e per questo andavano
ristabiliti. L’esito fu un passivo della bilancia commerciale (in verità erano andati in rosso anche i
movimenti di capitale, per fughe illegali), che fu assunta come motivazione di una svolta a 180
gradi, verso una deflazione della quantità di moneta, e quindi un aumento del tasso di interesse, una
caduta degli investimenti, del reddito, dell’occupazione. I capitalisti italiani – questa purtroppo è
una storia di lungo periodo e a nostro parere (che qui seguiamo Marcello De Cecco) all’origine
delle traversie del nostro paese – hanno avuto un’incapacità di reagire a quel conflitto distributivo in
un’ottica di qualche respiro”1.

Per il movimento operaio la conseguenza fu una ristrutturazione del sistema produttivo senza
investimenti e con un costante aumento dell’intensità del lavoro contro cui si sono sollevati con
rabbia negli anni successivi determinando la ristrutturazione della fabbrica fordista. La vecchia
lezione trontiana della lotta di classe che guida lo sviluppo del capitale è sempre valida.
Il secondo fenomeno inflattivo che permette di fare luce sul modo in cui il conflitto distributivo
viene gestito nel paese risale agli anni ‘70. Parliamo delle svalutazione tra il 1973 e il 1979 in
risposta ad aumento dei salari superiori agli aumenti di produttività che fu una prova di forza nei
confronti del movimento operaio.

“Il ‘successo’ di quella manovra, se così lo si vuole chiamare, venne dal tipo particolare di
svalutazione che fu praticata, e dal particolare contesto internazionale che la rendevano possibile. Il
contesto internazionale era quello di un dollaro che tendeva alla svalutazione rispetto al marco. La
scelta politica delle autorità di politica economica fu di agganciarci al dollaro, e dunque di
svalutarci rispetto al marco, riducendo l’impatto negativo dal lato delle importazioni (dove la valuta
significativa era per noi quella statunitense), massimizzando l’impatto positivo sull’esportazione (la
nostra area principale di sbocco essendo al contrario l’area del marco). Ciò consentì di dare una
mano alle imprese nel conflitto distributivo con i salari. Una svalutazione ‘differenziata’ e non
socialmente neutrale”2.

1 Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo, Mariana Mortàgua, Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea,
Rosenberg&Sellier, Torino 2019, p.140
2 Ivi, p.142
Queste svalutazioni fecero guadagnare un vantaggio competitivo alle nostre imprese perché
eccedenti rispetto all’inflazione passata ma, come negli anni ‘60, non lo utilizzarono per aumentare
le proprie quote di mercato all’estero. Preferirono aumentare i prezzi piuttosto che aumentare la
produttività delle imprese attraverso una strategia di investimenti.

L’adesione allo Sme viene letta da Bellofiore e Garibaldo come un tentativo di impedire le
svalutazioni competitive per incentivare, in maniera fallimentare, la ristrutturazione produttiva del
paese che, come afferma Augusto Graziani, in realtà produsse solo un adeguamento tecnologico.
Sarà questo il leitmotiv del periodo precedente l’adesione all’euro. Quello che ci interessa segnalare
sono le modalità con cui queste azioni sono sempre state implementate. Hanno un preciso segno di
classe e offrono un sostegno ad una classe imprenditoriale inadeguata che oggi, non potendo
contare sulla svalutazione, comprime costi e diritti dei lavoratori per mantenere la competitività
delle nostre produzioni e nel frattempo accumula profitti che si guarda bene dall’investire per
competere attraverso gli aumenti di produttività garantiti dall’innovazione tecnologica o l’economia
di scala impossibili in un paese dominato da PMI.
Noi non le consideriamo delle vittime ma causa del problema dei bassi salari e della bassa crescita
del paese e ci battiamo per delle leggi capaci di spingerle verso accorpamenti sempre maggiori.

Da quanto detto, è chiaro che i nostri problemi come paese non iniziano per colpa dell’Europa ma
sono decisamente precedenti e non siamo diventati un’economia orientata all’exoport aderendo
all’euro.

Per quanto riguarda il salario minimo, Balzano fa notare dei giusti limiti di questa misura che
effettivamente non sono stati sottolineati a sufficienza dai suoi sostenitori. Abbiamo anche noi avuto
la sensazione che spesso viene presentata come la cura magica a tutti i problemi della nostra
economia. Non è così e lo ricorda benissimo Salvo Leonardi facendo un bilancio pragmatico delle
differenze, i pro e i contro tra salario minino e contrattazione collettiva:

“A lungo, sindacati mediamente più forti che non oggi, hanno rivendicato per sé la sovranità
salariale, ritenendola parte incedibile del proprio core business, mediante la contrattazione
collettiva. Italiani e scandinavi si attestano ancora oggi su questa linea interpretativa, timorosi di un
depotenziamento dell’autonomia collettiva. Concepito per ovviare a talune debolezze del sindacato
e della contrattazione, il SML potrebbe finire col suggellare definitivamente il declino di entrambi,
come nel caso francese.

In termini generali, la legge ha l’indiscutibile pregio di fornire, rispetto alla contrattazione, maggiori
garanzie riguardo alla universalità della sua copertura, come anche della certezza ed esigibilità dei
trattamenti che dispone. Tende a ridurre i differenziali fra i vari settori e può sospingere verso l’alto
l’intera dinamica salariale. Non vi sono contraccolpi sull’occupazione, come hanno dimostrato
l’economia tedesca e l’ultimo Nobel per l’economia, laddove invece talune agevolazioni
contributive volte a ridurre il costo per le imprese, provoca ricadute su pensioni e welfare. Al
contempo, il SML tende ovunque ad attestarsi su livelli assoluti e relativi bassi, e anche molto bassi.
Senza integrazioni del welfare e/o della contrattazione, e questo va sottolineato, nessun paese a
minimo legale consente di uscire dalla condizione di working poor. Accentua la dimensione
tecnocratica della determinazione salariale, nelle sedi tripartite. E’ più soggetta alla contingenza
politica; che può si dare mano libera a governi come quello Sanchez o Scholtz, per fare in un balzo
seri progressi. Ma può anche risentire dei congelamenti durante esecutivi ostili, come negli USA, o
divenire la prima vittima delle restrizioni austeritarie, come in Grecia.

Di contro, i vantaggi e gli svantaggi del sistema contrattuale sono pressoché rovesciati. Stabilisce
livelli minimi comparativamente più alti; è più duttile in rapporto alla qualifica dei lavoratori;
preserva il ruolo delle parti sociali e del sindacato quale autorità salariale ed è relativamente meno
esposto alla contingenza politica-economica; con o senza governi pro-labor. Ma offre minori
garanzie di universalità, certezza ed esigibilità; patisce di una maggiore dispersione dei differenziali
fra settori”3.

Leonardi conclude il ragionamento affermando come un possibile salario minimo non sia
sufficiente per abbattere il lavoro povero perché devono essere colpite anche le leggi che lo hanno
prodotto. Questa è evidentemente una questione politica che chiede uno sforzo congiunto delle
forze di sinistra e dei sindacati. Credo che Balzano possa essere d’accordo con una simile
conclusione vista l’enfasi con cui sottolinea la necessità di non soffermarsi sulle leggi ma sulla
politica che le deve sostenere.
Quello che non ritorna nel suo ragionamento è perché parla di trappola. Non ha portato molte prove
a sostegno di ciò. Ad esempio, perché dovrebbe abbattere i salari dove la disoccupazione è più alta e
farli crescere dove la disoccupazione è più bassa?
Prendiamo l’esempio di un paese paragonabile al nostro per tassi di disoccupazione, ovvero la
Spagna. Qualora la tesi di Balzano fosse vera, gli aumenti del salario minimo promossi dal governo
Sanchez per affrontare l’inflazione si sarebbero dovuti tradurre in un calo degli aumenti salari
derivanti dalla contrattazione collettiva perché i padroni spagnoli si sarebbero potuti appellare ad un
minimo fissato per legge con cui garantire la riproduzione dignitosa della forza lavoro. Stando ai
dati di maggio 2023, sindacati e imprese hanno contratto aumenti del 10% nei prossimi tre anni 4.
Certo, sono accordi non vincolanti che dovranno essere tradotti nei rinnovi dei contratti collettivi e
questa è una questione di rapporti di forza ma resta il dato. Nessun padrone spagnolo si è appellato
all’esistenza del salario minimo per tirarsi fuori dalla trattativa.
Noi crediamo che il salario minimo possa essere uno strumento molto utile per fissare, durante le
trattative con la controparte, una soglia sotto la quale non è possibile scendere. Si tratta di uno
strumento utile per costringere i padroni a competere investendo e non comprimendo il costo del
lavoro. Per fare ciò serve la volontà politica, che non può discendere da un governo di estrema
destra, non tecnocratico solo perché segue le direttive di Bruxelles mentre lavora per spostare tutte
le istituzioni dell’UE a destra, basti vedere quali idee stanno prendendo piede per la gestione dei
flussi migratori o sulla transizione ecologica, e corporativo come quello attuale, ma dalla capacità di
cambiare i rapporti di forza in favore del lavoro.

3 Salvo Leonardi, Opportunità e limiti del salario minimo legale: un raffronto europeo,
https://eticaeconomia.it/opportunita-e-limiti-del-salario-minimo-legale-un-raffronto-europeo/
4 Salari più alti, in Spagna si può, https://www.collettiva.it/copertine/internazionale/salari-piu-alti-in-spagna-si-puo-
t1sn83o0

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