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Un palco di legno appena rialzato e una quarantina di sedie in cerchio di fronte;

l’arredamento è nel suo minimo indispensabile ma questo è più che sufficiente a creare un ambiente
di dialogo ed apertura nei confronti del gruppo che partecipa a questi seminari
In ogni incontro, ogni singola volta che sono entrata all’interno della casa circondariale, ho
sempre cercato di farlo senza un giudizio già pienamente formato; un’idea non condizionata della
personale conoscenza ed esperienza pregressa, un insieme di elementi oggettivi attinti da tutto il
mio bagaglio culturale, è stato l’unico materiale che portavo con me dopo essermi liberata di tutto
ciò che collega con l’esterno, dal borsello al telefono.
Anche nel caso di quest’incontro, nel foglio a quadri ripiegato che lasciavo fra le pagine del
libro, avevo soltanto un piccolo riassunto schematico del testo e nulla più.
Questo perché l’obiettivo è costantemente stato quello di ascoltare le riflessioni degli altri,
spostarmi di prospettiva in prospettiva ed accumulare più punti di vista possibili, ricompensa
preziosa quando si lavora in gruppi eterogenei come è quello che ha partecipato al progetto.
Di solito, dopo i primi interventi, inizio ad intravedere un qualche schema, dei punti che
colleghino le varie opinioni, che diano un senso anche a ciò che ho fra le mani,, che mi facciano
intravedere una struttura di significati seppur espressa con concetti diversi.
Ma nel caso della solitudine è stato diverso.
Non mi sono mai rivista nelle parole degli altri. Non ho mai condiviso, neanche in parte, ciò che gli
altri vivevano nella solitudine. Non mi sono sentita vicina a nessuna parola usata per descriverla.
Sentirsi o Essere.
La solitudine è uno stato che coincide con entrambe, che vive dei nostri vissuti e si carica di
significati che gli attribuiamo. La solitudine vissuta nel quotidiano assume la forma di una
mancanza, di una sottrazione rispetto al tessuto sociale nel quale siamo pienamente e
volontariamente sommersi; così, chi è solo, si sente solo perché in deficit di qualcosa che
precedentemente sentiva di possedere. La solitudine come intralcio al divenire completi,
pienamente strutturati di tutto ciò che la vita mette a disposizione, compresa una soddisfacente vita
collettiva.
La solitudine perde in questa sua forma ogni possibilità di riscattarsi e di essere motore
costruttivo, reclusa nello spazio in cui prevale una certa sofferenza dal punto di vista funzionale e
biologico: come un cuore sofferente inizia a battere in maniera più affannosa e si sforza di fare quel
lavoro che in piena salute è ciò per cui è stato progettato senza però riuscire pienamente, così
l’Uomo Solo soffre e non vive a pieno la sua vita sentendo di dover arrancare per svolgere le stesse
attività che in compagnia riesce a portare facilmente a termine.
Se invece riuscissimo a dare dignità alla Solitudine, a concepirla come uno stato non
ordinario e per tanto capace di arricchirci con il suo punto di vista fuori dal quotidiano allora
potremmo attingere a tutte le nuove riflessioni e a trarne frutti mai coltivati in nessun’altro terreno.
La solitudine infatti è anche fra le condizioni base per poter liberare la mente dai molti
fattori esterni, è la porta d’ingresso nell’interno, l’anticamera di una profonda analisi del sé.
Là dove non incappassimo per qualche tempo in disturbi e influenze esterne potremmo immergerci
nell’abisso alla ricerca di una reale ed individuale autenticità.
Vederci per come siamo senza la percezione che coloro i quali ci stanno intorno tendono a
rimandarci in quanto osservatori esterni delle nostre azioni e dei nostri atteggiamenti è un obiettivo
che necessità di pazienza, blabla e solitudine.
Solo nel puro silenzio interiore ed esterione credo sia possibile essere autenticamente sé stessi senza
congetture, schemi, ruoli.
Goffman, all’interno del suo modello drammaturgico, sottolineava come unicamente nel
retroscena, quando smettiamo di essere attori di parti prestabilite con lo scopo di mantenere un
qualche equilibrio sociale, si potesse essere pienamente ciò che sentiamo di essere. Dietro le quinte
non ci sono pressioni, aspettative, pretese che possano influenzarci o spingere i pensieri e le azioni;
c’è solo la nostra coscienza più intima e appartenente unicamente ad un “Io” centrale.
I filtri spariscono, sparisce il desiderio di camuffare e di attenersi ad un certo codice morale.
Semplicemente siamo.
E questa solitudine, quella dell’essere (fisicamente) soli ma sentirsi sufficienti a sé stessi, è
edificante.
E’ una condizione che porta alla scoperta e all’arricchimento di quello spazio in noi che rimane
prevalentemente nascosto e protetto, di ciò che realmente vogliamo, di ciò che ci fa stare bene.
E’ uno spazio di puro pensiero personale.
Ammetto che sullo sfondo, la mente continua a sottolinearmi che questa Solitudine che ho
imparato a conoscere grazie al seminario non sia per tutti; per mancanza di strumenti ad affrontare
ciò con cui verremmo a confrontarci o per mancanza di interesse nei confronti di ciò che ci
caratterizza dall’interno non fa differenza ma perché non tutti si interrogano su certi perché che solo
una discesa solitaria nelle nostre profondità potrebbe soddisfare.
Ragionare di questo fra e con gli ospiti della casa circondariale apre ancor più la mente alla
possibilità che la lettura della solitudine sia concetto relativamente frainteso, che dovremmo ben
approfondire le percezioni sulla solitudine.
Parlare insieme ad una trentina di persone di questo argomento specifico è stata
un’esperienza alienante ed al contempo fortemente coadiuvante ad un’analisi che ci accompagnerà
ancora per molto.

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