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La turista sul Nilo

Sono io colui che uscito dai flutti del fiume


ebbe in dono l’Api (l’inondazione)
per cui anche il Nilo è in mio potere.

IL LIBRO DEI MORTI

Il Cairo è la saturazione materiale comune di paradiso e inferno


sulla Terra. Tra una bancarella straripante di essenze ed erbe
officinali e un ambulante che vende panini alessandrini al fegato in
mezzo a due corsie di taxi, cerco di tenere l’equilibrio su un
marciapiede malandato mentre donne corpulente mi spingono in
varie direzioni. Qui ogni passo può essere una gomitata casuale, un
rivolo d’acqua di fogna che ti scorre sotto o, come adesso, un gatto
spiccicato per terra, da vederne le viscere. Ma come? Solo ieri avevi
scritto sul tuo diario di viaggio che la vita è stupenda. Come fa la
vita a essere stupenda se permette la morte in bella vista nel mezzo
di mercanti indifferenti, la mendicante rantolante a terra, il bambino
ricoperto di pustole seduto in un angolo buio di un caravanserraglio,
in una città tra le più grandi del mondo? E come fa la vita a essere
terribile, quando partono gli stormi di aironi a forma di V perfetta, e
quando si accende l’usuale tramonto d’ocra sul Nilo, facendo
esplodere ogni granello di polvere in nebulose d’oro, per centinaia
di chilometri, mentre mille moschee risuonano in contemporanea il
loro grazie a Dio?
E poi, tra l’inferno e il paradiso, ci sono quei momenti di poesia e
sensualità che vanno ad arricchire questo diario itinerante. Come
quando il pullman su cui mi trovavo ha lasciato l’ultima stazione,
prima di giungere alla capitale egiziana. Quando dall’alto del mio
finestrino ho guardato in giù e un soldato arabo ha racconto i miei
occhi. Li ha sorretti nel suo sguardo per tutto il tempo delle manovre
del mezzo, senza mai lasciarlo cadere un istante, senza sapere chi
fossi e consapevole che non ci saremmo incrociati mai più in questo
mondo. Ma in quei secondi, all’insaputa di tutti, un soldato e una
turista senza parlarsi stavano rompendo le regole. Due sconosciuti
separati da un vetro e due metri di dislivello, lui a guardarmi da
sotto come stesse adorando una dea. Non scorderò mai quello
sguardo e il suo coraggio.

Giorgio non è potuto venire. Aveva del lavoro da svolgere in hotel, e


poi non si sarebbe mai abbassato a condividere un viaggio tanto
spartano. Ripenso alle spigolature dell’ultima volta che abbiamo
fatto l’amore. Con lui tutto è spigoli: la cerebralità del nostro
connubio rende molto difficile l’abbandonarsi ai sensi. Perfino
quando dorme, il suo corpo magro è pieno di spigoli, o forse sono le
posizioni che assume. Fatto sta che quando nel sonno cerco di
abbracciarlo, non ci riesco quasi mai. Il suo essere è pieno di angoli
acuti, come il suo pensiero. Giorgio sembra fatto per pungere più
che per realizzare la circolarità di un abbraccio o di un amplesso.
Un airone in volo mi distrae, sono di nuovo in movimento: questa
volta sul treno diretto a sud, destinazione Assuan. Le distese di
palmeti e canali d’acqua dolce che costeggiano i binari mi fanno di
nuovo sperare che potrebbe essere un’entità divina a reggere questo
mondo.
Quasi ovunque, tranne nei mercati, sono l’unica donna. Gli uomini,
qui, mi guardano tutti. Non c’è quella tendenza a rifuggire lo
sguardo delle ultime generazioni in Europa, per rispetto o per paura
della femmina. Qui ti trafiggono gli occhi, e sei sempre tu, donna, la
prima a lasciare il contatto. Non la vivo come maleducazione, bensì
come sintomo di spiccata personalità. Se poi viaggi sola, ti viene
naturale come l’appetito, qualche volta, chiederti quale grado di
virilità e di depravazione nasconda uno sguardo così.
Ora che lascio il treno, come dopo le lunghe tratte sui pullman
dell’East Delta, la presenza degli uomini ha riempito tutti gli
ambienti di un aroma di testosterone misto a colonia a buon
mercato. L’alcool del profumo prevale sugli altri componenti
aromatici, così come questa mascolinità pesante ha la meglio sulle
preziose fragilità di ogni ragazzo. Ovunque mi giri, sono circondata
da una popolazione così giovane da caricare l’aria di un’energia
esplosiva, dinamica, immune a ogni disciplina. Le pelli olivastre, gli
occhi neri, i movimenti scattanti. La mascolinità regna sovrana.

Sul binario mi attende la guida che mi scorterà per qualche giorno


lungo il viaggio sul Nilo, in feluca. Ho scelto infatti di sperimentare
l’antico sistema di navigazione per inoltrarmi nelle profondità di
questa misteriosa e lussureggiante regione. È un signore di una certa
età e ha l’aria molto professionale. Indossa un profumo francese che
conosco, sintomo di appartenenza a un ceto sociale benestante.
Accompagnandomi all’auto, afferrata la mia valigia, senza perdere
tempo mi illustra il programma dei giorni a seguire. Riga dritto, e si
aspetta di far rigare dritto me.
L’unico sonnolento pomeriggio che passiamo ad Assuan, prima
dell’imbarco, Mohsen non fa altro che scacciare i giovani
impertinenti che, attirati dal passaggio di una straniera, provano in
tutti i modi a vendermi qualcosa o a vendere se stessi. Non mancano
certi sguardi lascivi, quando Mohsen si distrae, all’Isola dell’Amore,
Philae, e sulla grande diga. Pare che l’aria di tutto un paese sia
intrisa di una libidine inespressa, vibrante, esplosiva.

La sera ci imbarchiamo. Qui le acque del Nilo sono trasparenti come


acqua minerale. Quando Mohsen ed io saliamo sulla feluca, il sole
delle sei sparge la sua cipria violacea su graffi di nuvole bianche e
un bacino fluviale florido come una madre. La guida mi presenta il
capitano dell’imbarcazione, un signore nubiano dall’aria
aristocratica nonostante il suo umile mestiere, e il suo assistente,
Samir, un giovane dalla pelle scura e lo sguardo da cerbiatto.
Mohammed, il capitano, parla un poco di inglese; Samir solo arabo.
Quest’ultimo mi tende una mano affusolata e forte, scura. La
magrezza del suo corpo dà un tocco di fragilità commovente
all’aspetto maestoso conferitogli dalla galabeya e dall’eleganza
innata del suo portamento.
Sistemato ogni oggetto personale, i due danno inizio allo spettacolo
che è il salpare. Mentre Mohammed ritira la pensilina di legno da
cui siamo saliti, e con un lungo remo preme forte contro la riva di
terra, Samir sale sull’albero della feluca agile e rapido come un
gatto. I suoi piedi si muovono sicuri sui puntelli di legno mal fissati,
ed è lui a far spiegare la vela bianca e rammendata nel vento ogni
mattina, di lì ai prossimi cinque giorni. Poi, Samir e capitano si
siedono vicini, a poppa, dedicandosi al timone. Così ha inizio la
navigazione ad ampie anse attraverso il Nilo, corrente favorevole e
vento contrario. Direzione Kom Ombo.
Ci scorrono di fianco rive che sono veri e propri giardini benedetti,
rigogliosi, interminabili, per ore che diventeranno giorni interi.
Sull’acqua, piana, quieta, non c’è molto altro da fare che guardarsi
attorno, osservarsi a vicenda senza ansie, tacere e far disperdere il
proprio pensiero attraverso gli spazi aperti e i piani verdi delle
sponde. I tre uomini che mi accompagnano stanno ben attenti a non
avvicinarmisi mai troppo e a non interrompere il silenzio per non
disturbare quella visione e quel raccoglimento. Cercano di rendersi
il più possibile simili a ombre che si adoperano serratamente attorno
a me, per il mio bene. I loro movimenti sono lenti ed elastici, eppure
paiono seguire un copione fisso che non lascia mai molto spazio
all’inoperosità: seguire i cambiamenti del vento e l’andamento del
fiume con il timone, preparare i pasti per tempo, pulire di continuo
la chiglia e la coperta - trasformata in un enorme materasso per
farmi viaggiare coricata a pelo d’acqua - controllare la boma e le
sartie, giocare coi serpenti delle corde bianco sporco, profumate di
acqua palustre. Sembrano parte di un’unica installazione, un
concerto sinfonico silenzioso o una danza non codificata.
Soprattutto Mohammed e Samir, portano in ogni loro gesto quella
solennità e quell’orgoglio tipici della Nubia più remota.

La prima tappa è appunto a Kom Ombo, in cui si venerava il dio


Sobek dalla testa di coccodrillo, simbolo virile della fertilità del Nilo
e del suo potere, vivificante e distruttivo, fino a prima che la grande
diga di Assuan lo addomesticasse cessando per sempre le sue piene
e il suo limo. È Samir a condurmi a terra, aspettandomi a sorpresa
sulla stretta pensilina, una mano tesa per aiutarmi a scendere sulla
terra ferma. Un gesto così intimo, penso, per questa mentalità così
pudica, eppure un gesto che lui ripeterà per me ad ogni ormeggio,
precedendomi a piedi scalzi con la sua solita agilità animale. Sulla
riva mi consegna alla guida per la visita del sito, rientrando in feluca
senza emettere suono, dietro un sorriso privo di pesi. Questo e certi
sguardi timidi mi fanno pensare che sia ancora vergine. Quanti anni
avrà? Venti? Ventidue? In quel luogo sconosciuto, appena a dieci
metri da lì sento mancare l’aura incisiva della sua esile presenza.

La seconda tappa è su un’isola senza nome, satura di piantagioni di


banani e alberi di mango, i cui fiori emanano un aroma talmente
forte che ci si stamperà nel naso per giorni, quello che per me sarà
per sempre, nella mia memoria, il profumo del Nilo. Queste brevi
soste ci danno modo di lavarci da otri d’acqua che abbiamo in
dotazione, a turni, nascosti dietro palme miste a grano, e di
familiarizzarmi con una natura mai vista: fiori, terra rossa e profili
di fogliame in una cornice da Mille e una notte.
Nel piccolo pertugio che mi hanno riservato per il sonno, Samir mi
prepara ogni sera, come un altarino, una candela accesa e un
bastoncino di incenso al patchouli. Le sere si passano cullati dalle
miti acque di questo fiume antico, responsabile di una civilizzazione
quasi leggendaria, ormeggiati a una costa selvaggia, con una luna
placida che sale malandrina a notte fonda. Non riesco mai a
staccarmi dalla sua luce sull’acqua immobile del Nilo per andare a
dormire. Il capitano e il suo assistente, nelle loro vesti color della
polvere, a quell’ora si sono già avvolti nei loro panni sullo sfondo di
quella scia luminosa, come guardiani del mio viaggio e del mio
corpo. Il più giovane, prima di dormire, ascolta nenie ignote al
cellulare come fossero la fiaba della buonanotte, poi si raggomitola
in quel morbido plaid come una mummia sottile, fragile ed eterna,
emettendo dolci sospiri. Quella sua magrezza abbandonata a quel
modo, quando siede di traverso al timone, o quando dorme - come
arresa per sempre alla forza di gravità senza alcuno dei nostri
tentativi di opporle resistenza con l’agitazione - gli conferisce un
carattere dannatamente sensuale e inarrivabile. È come un corpo
distaccato dalla ragione, perduto nei sensi, dimentico, una forza
recondita, un simbolo carnale traslato. Il suo sospirare dolce, come
fosse da solo in un letto candido in cui lo hanno drogato per
dormire, contro quella luna che da anni gli fa da madre per questi
sentieri liquidi, fa pensare che in certi punti del mondo la dolcezza
dei sensi trabocchi come fiumi e pervada tutto.

La notte tardi, a sorpresa arriva il vento. Sono sola nell’unico spazio


riparato sotto la chiglia, sotto il livello dell’acqua. Questa notte non
siamo appoggiati ad uno degli eterei e sensuali palmeti, contro la
morbidezza di una riva senza nome. No, oggi abbiamo affondato
l’ancora addirittura sotto un sito archeologico: Gebel Silsila. Pare
impossibile che dormiremo qui, sotto resti archeologici antico-egizi
che segnavano il confine con la Nubia, rimasti ad indicarci la riserva
di arenaria per la costruzione dei templi poi divenuti immortali.
L’illuminazione artificiale rende arancioni, contro le stelle, ex tombe
e bassorilievi; le fa vive in un color carne che spezza il buio e, per
una volta, farà impallidire la luna.
Sono sotto la chiglia da una mezz’ora, avvolta nella morbidezza del
sacco a pelo che mi ha prestato Giorgio, che il vento comincia a
soffiare provocando piccole onde. Nei giorni, il tessuto ha
lentamente perduto il suo odore. La prima notte mi faceva
compagnia e piacere. Ora il non avvertirlo più mi fa sentire libera,
zingara in movimento. Per un istante, penso che ho voglia di fare
l’amore, e mi sento in trappola. Non mi aspettavo quell’appetito e
non potrò offrire nulla al mio corpo affinché si plachi. Giorgio non
c’è mai a condividere questi estemporanei morsi di vita. Cerco di
non pensarci, ma già temo una notte lunga. Il posto è mistico e la
vita è illogica.
La feluca comincia a ondeggiare piacevolmente, con questo vento
nuovo, anche se i rumori della ghiaia sul fondale e dell’ancora che si
muove mi allarmano un po’. Non ho familiarità con questa esistenza
di naviganti d’acqua dolce, né con la sua musica.
La mia candela è ancora accesa: ogni sera mi piace lasciarla
spegnere da sola. Non so quindi se è un gioco del suo fuoco e se ho
visto bene, ma appena fuori dalla tendina che chiude la mia tana lì
sotto, scorgo il movimento di un ombra. No, non mi sono sbagliata,
perché adesso, tra i dolci primi aliti di un vento in aumento, avverto
lo struscio delicato di un indumento. Cotone. Credevo che gli altri
stessero già dormendo, li ho salutati prima mentre si avvolgevano
nei loro panni sul grande materasso esterno. Resto in ascolto, vento
e suoni d’acqua mi ingannano. Forse è Samir che controlla che tutto
sia in ordine, visto che il fiume d’un tratto si è fatto inquieto. Sarà
mezzanotte, o l’una, non lo so. Poiché viviamo sintonizzati sui ritmi
naturali del sole, sembra buio da un’eternità. Mi passa per la mente
per un attimo il momento del mio ritorno. Accantonando le solite
tensioni presenti tra me e Giorgio, immagino di saltargli addosso
all’istante, appena appoggiato il bagaglio, fare l’amore appena
entrata in casa, sul tappeto del salotto. Mi scordo sempre che la
realtà che mi accoglierà non assomiglia mai al quadretto che avevo
immaginato. Gli anni passano, e ci credo ogni volta. La barca
dondola. La candela si spegne in un sospiro. E un uomo entra nel
mio spazio.
Si porta dietro un raggio di luna, per un istante, e il profumo
dell’acqua dolce, come di lago. Poi, al ricadere della tendina, il buio,
odore di cotone e bucato e di pelle scura, temprata da una vita sul
fiume.
No, non mi sento allarmata né spaventata. Anzi, la sua imprevista
presenza ora che i rumori di sassi dei fondali, cigolii e scricchiolii
aumentano, mi rincuora. Non faccio in tempo a pensare che una
bocca prominente mi spinge indietro, rivelandomi senza possibilità
d’errore l’incursione di Samir. Il suo bacio non mi lascia quasi
respirare: è avvolgente come un fiore di magnolia. Non ho chiuso la
zipdel sacco a pelo. Lo scaltro marinaio ci mette un attimo a
scalzarlo via per ritrovare il mio corpo. Lì si ferma: è una pausa nel
pieno di un allegro. Indugia un poco sulla seta della mia sottoveste,
come se le sue mani indurite assorbissero dopo tanto tempo qualche
sorso di morbidezza, avide di qualcosa di tenero. Ma quel fragile
tessuto non basta a saziare la loro fame antica, anzi non fa che
rendere tutta la sua pelle famelica: l’esplorazione di me diventa cosa
urgente.
È sorprendente come questo giovane che credevo vergine sappia
orientarsi nel buio: la sua mano destra, cocciuta, non mi dà il tempo
di fiatare nel passare dalla seta al punto più tenero di me. – Samir –
vorrei chiamarlo offesa: l’assistente così educato e mansueto si è
trasformato all’improvviso in un corsaro. Ma non si può proferire
suono: pochi metri e una tendina ci separano dai due uomini sdraiati
sotto le stelle. Il suo unico linguaggio adesso è un respiro forte, che
sparge nella mia bocca e sul mio viso calore lavico e aroma di
sandalo. Ancora, vorrei gridare forte il suo nome, ma non realmente
arrabbiata, supplicante semmai, perché ora le sue dita titillano il mio
bottone magico giocandoci come se lo avessero studiato per anni. La
feluca dondola, Samir con le sue dita lunghe si prende il suo tempo,
provocandomi ad urlare il suo nome morbido non per riprenderlo,
semmai per scongiurarlo, adesso. Ma sa che sono costretta al
silenzio. Per questo si gode ogni mio sospiro come fosse
un’ulteriore prova della sua conquista.
Non conosce ostacoli, si muove come se non avesse un minimo
timore, come se avesse già saputo fin dall’inizio che non l’avrei
spinto via, come se potesse fidarsi ciecamente del mio silenzio. Un
fallimento gli sarebbe costato il posto di lavoro: il suo capitano
dorme sonni beati appena lì fuori. Tanta forza e tanto vigore di
muscoli da una tale magrezza sono come una rivelazione.
La prima volta che cerco di fargli un gesto di consenso, aprendo la
mia mano tra i suoi capelli ricci per tirarglieli come in una carezza,
non faccio in tempo a terminare l’atto che lui spinge il suo tesoro
nascosto dentro di me. Sono senza respiro: è grande, molto più
corposo di quello di Giorgio, e dà tutta l’impressione di non voler
lasciare vuota una briciola di me. Le onde danno un ritmo regolare
ai suoni d’acqua e al movimento della barca, e lui comincia a
dondolare, sopra di me, dentro di me, nel cuore del fiume. Il suo
membro sembra riempire ogni cavità del mio corpo e del mio
pensiero. Lo muove una sorta di comandamento che deve avergli
rivelato il mio desiderio e la mia cieca disponibilità. Su di me,
continua a strofinarsi cotone bianco e pelle scura. Intanto, mi
mordicchia la bocca e alternativamente me la bacia, con le sue
labbra importanti, africane, e in tutto questo non c’è un attimo in cui
perda il rispetto per il mio corpo e una dolcezza nobile, ferma,
esperta. Vorrei dire tante cose ma non posso, e poi non capirebbe,
non abbiamo neanche una lingua in comune e soprattutto non mi
verrebbe fuori niente se non l’urlo del suo nome. Vorrei gridarlo in
modo selvaggio, poi come una preghiera, poi come un canto, come
la supplica di una mendicante, come un rimprovero, e ancora come
una dichiarazione d’amore, e come l’ululato di un animale in calore.
Invece, tutto questo non fa che condensarsi nei nostri sospiri caldi,
roventi, che ci scambiamo da bocca a bocca mentre lui accelera i
suoi movimenti avvicinandomi alla frontiera dello svenimento. E
mentre mi penetra sempre meglio e sempre più forte, in modo quasi
impercettibile mi sospira nell’orecchio, in un misto inglese dal duro
accento arabo: – Voglio il tuo servizio completo. – Un’onda più
forte delle altre fa sì che Samir mi trafigga con forza accecante,
adesso. Vuole che il mio servizio sia completo, Samir non vuole
lasciarmi insoddisfatta con guida sul Nilo e bei panorami e nessuna
caramella per il mio corpo. Vuole che il mio viaggio sia completo,
vuole che nulla resti inappagato, che la turista lodi il sogno, che la
navigazione per quei luoghi mistici e duri sia per me un cerchio che
si chiude in uno scatto, in modo da non rimpiangere niente, in modo
che l’incanto sia pieno. Ho paura che se segue un’altra ondata simile
mi metterò a urlare. Sembra che lui lo sappia, perché adesso la sua
bocca avvolgente diventa come un bavaglio, mentre continua a
spingere, su e giù, come la marea artigiana del suo limo. Sa che sto
per svenire e per venire, controlla movimenti e direzioni come un
vero capitano, adesso mette la sua mano affusolata chiusa a conca
sulla mia bocca e dà tre colpi netti, affondati, che mi fanno morire.

Se ne va non appena mi sono addormentata. Non scappa via come


un lupo che ha appena ucciso, non sembra preoccuparsi del pericolo
che sta correndo con l’ospite, con la turista. Il sacco a pelo adesso
profuma solo di patchouli, sandaloe di uomo di fiume. La vita è
come se si rigenerasse ad ogni istante, potendo cancellare patti,
propositi e progetti con un semplice lieve movimento d’acqua a
increspare quello che un tempo si riteneva un disegno.
La mattina è un raggio di sole attraverso la tendina bordeaux, e il
profumo del pane del villaggio, l’aish baladi che Samir ligio al suo
dovere sta biscottando per me. Esco come al solito a quattro zampe
da sotto la chiglia, sotto lo splendore del tempio egizio scolpito nella
roccia di porpora. Davanti a quella visione, siede Samir, accucciato
sui talloni, nell’usuale posa flessa improponibile a un occidentale.
Mi sorride senza preoccuparsi se il capitano stia guardando o meno.
Quest’ultimo, si accorge di me dopo del giovane e mi augura il
buongiorno eretto contro l’albero dell’imbarcazione, sabah al kheir
ya Madame. Al solito, mi servono la colazione principesca sul
grande materasso, poi si ritirano con la guida a bere caffè forte e
fumare narghilè sulla riva, lasciando solo per me tutto lo spazio
della feluca. Mi fa un po’ male questo comportamento da sottoposti,
soprattutto da parte di Samir. Ma le regole sono regole, e io sono la
turista.
Il giorno si dispiega tra la visita a quelle rovine, un’altra
perlustrazione a un’isola di aironi bianchi, bufali regali e canne da
zucchero, Ramadi, poi l’arrivo alla cittadina di Edfu. In tutto questo,
Samir continua a comportarsi col contegno impeccabile di sempre,
come se nulla fosse successo, fino quasi a farmi credere di essermi
sognata tutto. Quando rientro sotto la chiglia a scrivere l’ultima
parte del mio diario di viaggio, prima di sbarcare ad Edfu lasciando
per sempre la feluca, annuso il sacco a pelo ma non c’è traccia
dell’odore del giovane marinaio. Lo arrotolo per partire. Mohsen sta
già raccogliendo i miei bagagli per aiutarmi a scendere, un’auto ci
aspetterà lungo la corniche del Nilo da lì a poco. Ficco fuori la testa
alla ricerca di Samir, e scopro che ha lasciato la barca per prender
parte alla preghiera del pomeriggio alla prima moschea. Non c’è
tempo abbastanza, non lo vedrò più. Chiedo un attimo per ritirarmi e
finire di scrivere, sotto le reti da pesca della chiglia in cui ho tradito
mio marito o ho sognato di farlo. Mohsen acconsente. E la mia
penna scrive.

“Mi aprirai la porta, e non ci sarà tempo per ragionare. Nessuna


speranza di raccontare: ti spingerò sdraiato sul tuo stupido tappeto
di mucca, e ogni volta che cercherai di sederti ti sbatterò giù, la
mano sul tuo torace o attorno al collo. Ti aprirò la zip e non avrai il
tempo di salutarmi, perché la mia bocca sarà per te il fiore di
magnolia che mi ha insegnato un marinaio d’acqua dolce. Mentre
la vicina ficcanaso drizzerà le orecchie, ti lascerai violentare
chiedendoti se mi conosci. Non riuscirai a capire il perché, ma sarai
più eccitato che mai, e dopo che il mio Nilo ti avrà investito fino a
disperare di poterti alzare di lì, verrai come una fontana, ma io sarò
più veloce di te. E allora forse capirai, che regalo ti ho portato dal
viaggio; mi lascerai spezzare i tuoi angoli acuti, e per una volta
rinuncerai alle parole e all’idea di dirigere qualcosa che è per sua
natura torrenziale.”
Sonia Serravalli
SONIA SERRAVALLI è nata a Ferrara nel 1973 e da molti anni
vive tra l'Italia e il Sinai. Ha pubblicato L'oro di Dahab. Creando
ponti (Il Filo, 2007; tra i vincitori del Premio Rhegium Julii 2007) e
Se baci la rivoluzione (IBUC, 2012). Ha pubblicato inoltre numerosi
articoli sulla rivista di bordo Racconti Per Un Viaggio (Fortuna
Editore), sulla rubrica Ponti a sud, e sulla rivista Helios Magazine.
Nel 2011 ha seguito giorno per giorno la Rivoluzione egiziana e ne
ha scritto sul suo blog Rivoluzionando.wordpress.com.
Fotografie
di S. Serravalli

Fotografia di S. Serravalli

Fotografia di S. Serravalli
Fotografia di S. Serravalli
La turista sul Nilo
© 2012 by Sonia Serravalli

ISBN 978-88-6665-227-4

ATLANTIS/LITE EDITIONS
Collana diretta da Lorenzo Mazzoni e Marco Belli
http://atlantis.lite-editions.com

AC edizioni Srl – Lite Editions Sede legale: via Elia Lombardini 6, 20143 Milano
Prima edizione digitale: 2012
info@lite-editions.com www.lite-editions.com

Progetto grafico: Marco De Luca info@dlassociatesdesign.com

Immagine di copertina: S. Serravalli

Questo libro non è trasferibile. Non può essere venduto, scambiato o copiato in quanto è
una violazione delle leggi sul copyright.
Questo libro è un lavoro di finzione. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono prodotti
dell'immaginazione dell'autore o degli autori o sono usati in modo fittizio e funzionale
all'immaginazione degli autori stessi, non devono essere considerati come reali. Ogni
somiglianza a persone vive e/o morte, eventi realmente accaduti, luoghi e/o organizzazioni
realmente esistenti è da considerarsi totalmente accidentale e/o casuale.

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