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Roma Relax Tour

2023

Finalmente giovedì sette dicembre entro nel parterre del Palasport, questa sera Calcutta canta
per la prima volta a Roma, il clima da pre-concerto è quasi magico, l’atmosfera che il pubblico
trasmette è quella di un estremo relax.
Frank Matano il 1° gennaio 2023 su Instagram aveva scritto una serie di previsioni per l’anno
nuovo, una era questa: “Uscirà un album di Calcutta, dai non ce la facciamo più”. Un clima
d’attesa così intenso nella musica italiana forse non c’era mai stato, eppure questa sera nel
palazzetto, di tutta questa aspettativa, non è rimasta che una piuma.
Alzo la testa per vederla salire trasportata dalle correnti ascensionali che si vanno formando
all’ingresso del pubblico, e il mio sguardo invece scopre l’enorme mongolfiera sopra al palco e
al parterre, morbida, dilatata, fono assorbente, quasi un oggetto da un altro pianeta che si trova
ora a galleggiare su di noi. Mentre osservo la sua cascata di amplificatori dall’alto in basso, ho
la sensazione che la qualità del suono sarà molto buona, e ben distribuita tra parterre e
gradinate, in effetti nelle interviste Calcutta aveva specificato la grande attenzione al suono nei
suoi concerti.
Il palazzetto si riempie, l’attesa cresce, un display in cima alla mongolfiera segna l’ora, poi il
buio e si comincia con “Coro”. Il palco è ancora vuoto, il pubblico la canta tutta, mentre la
band e Edoardo prendono posto. Il suono dalle casse è limpido, in primo piano la voce solista,
siamo già in volo dentro al cielo azzurrissimo e le bianche nuvole proiettate da tutti gli schermi
che saranno la scenografia dello spettacolo. Potremmo essere su un’astronave per un viaggio in
luoghi e tempi che abbiamo vissuto quasi senza saperlo. Intanto durante il brano si evidenzia,
grazie alle proiezioni anche un’enorme tenda a led in primissimo piano che verrà usata sia
come sipario luminescente, che come parte integrante dello show.
Per chi ricorda lo stadio di Latina è subito chiaro che la poetica visiva di Calcutta abbia fatto un
bel balzo in avanti, mantenendo quella freschissima identità digitale che era evidente fin dal
luglio 2018. Riportare il nostro quotidiano visivo a dimensioni espanse, per vederlo meglio, per
riderci su, per prendere coscienza del flusso abituale di dati che scorrono dalla retina fino in
fondo ai nostri desideri. E’ l’equivalente della scrittura di Calcutta che include sempre
un’attenzione insolita per il presente che a volte ci sfugge, lasciandoci addosso solo una traccia
di memoria incompleta. Cantare con lui è come voltarsi un attimo per ritrovare quanto
sembrava perso.
Appena parte “2 minuti” è chiaro per tutti che l’album ha fatto breccia nel cuore del pubblico,
ci sono intere sezioni del brano dove Edoardo potrebbe smettere di lavorare e godersi lo
spettacolo di questa enorme intensità che fuoriuscita dalla sua fantasia adesso riverbera
attraverso la voce delle persone.
Questa emozione diffusa, calda, intima, è diventata l’anima del palazzetto, mentre quasi
inavvertitamente, la band, il cantautore e tutta la scenografia diventano sempre più presenti
negli sguardi delle persone.
Calcutta è vestito di nero con un gilet in pelle, occhiali da sole con lenti trasparenti e un
cappellino di lana, quando lo osservi è sempre tutt’uno con il microfono e l’asta. Il corpo
proteso in modo da far lavorare al meglio il diaframma. Canta con una maturità vocale che è
cresciuta in questi 4 anni, ed allora si capisce bene che quel dire nelle interviste a proposito di
questi anni passati fuori dalle scene “sono stato sul divano a guardare la tv, e poi… di cose ne
ho fatte” è un modo morbido per dribblare quella costante ricerca, da parte dei giornalisti, di
una narrazione privata, intima e dettagliata sul lavoro fatto come artista, per raggiungere i suoi
obbiettivi e il cuore delle persone. I dettagli servono solo nelle canzoni, quelli delle interviste
impoveriscono la fantasia di chi ascolta.
Mentre voliamo attraverso i suoi album con “Controtempo”, “Milano”, “Orgasmo”, possiamo
percepire la naturalezza aereostatica che contraddistingue la sua continuità narrativa.
Le grafiche hanno un felice riferimento agli anni 70’ e all’interazione con il contemporaneo.
Sono spesso interattive nel presente dello spettacolo, come quando un worm marshmallow rosa
copre il volto del cantante. È come se si vedesse un bambino giocare con After Effects in
diretta, volti di donna volanti che creano effetti multicolor, città formate dall’unione dei puntini
che prima erano stelline lontanissime, tutta una sezione dedicata alla band, con un cameraman
che in diretta ne riprende le abilità e la concentrazione, uno per uno, meglio della classica
presentazione nel quasi finale.
Il pubblico è caldissimo, e Calcutta salta oltre la sua classica ritrosia. Piccoli momenti di
divertimento condiviso, un ringraziamento al proprietario del localino in cui ci troviamo,
l’esternazione della fatica a suonare nel palazzetto per problemi tecnici da cavalcare, ma il
riconoscimento di un pubblico che porta avanti con tutta la band questo spettacolo.
La sensazione è quella di un reciproco abbraccio tra l’artista e il suo pubblico, in una serata
memorabile.
Color e cori per “Kiwi”, ballerini alieni per “Loneliness”, e un meraviglioso effetto per “In giro
con te” per far viaggiare Calcutta e il palazzetto dentro a Google Maps, e così siamo trasportati
ancora più dentro al mondo di Edoardo. È un viaggio fino ad “Oroscopo” in versione electro e
rallentata, in un’atmosfera magica, come piace a Edoardo, con uno switch sul cantato in
controtempo a voce nuda, come a dire che le sorprese non finiscono mai. Questa è epica
contemporanea, un’apoteosi, lui che solleva la barra del microfono, scrosci di applausi, in
questi tempi fatti di esibizionismo egocentrico, si sta festeggiando invece una vittoria collettiva
fatta di poesia e intimità. Una rarità che questa sera emana luce sulla scena.
Dopo una breve pausa fatta di musica elettronica ed effetti visual sulla tenda led, il concerto
riprende da “Sorriso”, dove ai primi piani del pubblico vengono applicati in diretta delle bocche
sorridenti enormi, esagerate. L’ironia di Edoardo contamina il palazzetto, lo libera in una
sincera esigenza di leggerezza.
La scaletta è efficace e non lascia indietro nessuna delle grandi emozioni del percorso che
pubblico e Calcutta hanno fatto dal 2015, sappiamo “tutti” quale sarà l’ultima canzone del
concerto, ma intanto ci si lascia trasportare avanti e indietro nel tempo, passando da
“Frosinone”, attraversando “Del verde”, e lasciandosi cullare da “Preoccuparmi”.
“SSD” è un gioello da qualunque parte la si osservi, la grafica che porta alle origini del mondo,
il testo nella vibrazione del pubblico mentre la canta, e il sottotesto sempre più vivido. Si
definisce ancora meglio quell’idea di incontro che era stato tanto atteso, e che non può essere
fatto solo di allegria. In questi quattro anni sono successe molte cose, al pubblico e a Calcutta.
L’album ne racconta una parte.
Sullo sfondo di un mondo che prova sempre a stereotipizzare la nostra esperienza, si può
ricordare in maniera lisergica, a dispetto delle memorie digitali, ci si può lasciar andare dentro
al buio che la nostra società teme, e ci si può sentire presenti o assenti a seconda della vicinanza
di chi ci ama davvero, senza rimanere schiacciati da quella mancanza.
Si viaggia veloci, cantando “Paracetamolo” su questa astronave che ci ha portati lontano. Su
“Pesto” Calcutta è in ginocchio ad aumentare l’intimità dentro ad un luogo così grande come il
palazzetto, riuscendo però così a far sentire quella vicinanza, quella ricerca di sincerità di cui
tutti abbiamo bisogno.
Il finale, lo sapevano fin dal primo ascolto dell’album che sarebbe stato quello: “Tutti”.
Se le canzoni precedenti non fossero state così belle il pubblico oggi sarebbe venuto per cantare
questa, tutti insieme, per certificare con la presenza e la voce, che si, si può anche ammettere
una sconfitta epocale, una fragilità personale, senza che nulla finisca, anzi.

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