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Come è assemblata la mente oggigiorno dell'uomo comune e non?

Premetto innanzitutto la volontà di disequivocare sul valore concettuale della stessa


parola mente. Per me la mente è soltanto una parola, certamente un concetto, ma
nulla di ontologicamente fondato e da ricondurre ad un sublime altare della verità. La
mente non è uno statuto ontologico in sé, non un oggetto reale esaminabile come un
lampadario, un cilindro, o un forno a legna, ma un'astrazione concettuale che poi
diviene essenza reale per l'alta considerazione che nutriamo verso le nostre stesse
invenzioni linguistiche e concettuali. La mente è piuttosto l'etichetta sintetica che si
utilizza per definire la somma di processi psico-comportamentali negli esseri umani,
negli animali e negli esseri senzienti. Ora: la questione sull'indagine critica e l'analisi
di un fenomeno fisico-psichico divengono particolarmente spinose nel momento in
cui si giunge alla consapevolezza che il mezzo con cui si opera l'osservazione è
l'oggetto osservato stesso, per via di quel fenomeno che definiamo con il termine di
autocoscienza. Noi non sappiamo se altri esseri dotati di sviluppo cognitivo e mentale
di facoltà superiori conducano riflessioni e ricerche come noi (ci pare improbabile nel
mondo animale e nulla ancora sappiamo per certo di civiltà extra-terrestri; nell'uno
come nell'altro caso comunque proiettiamo su quelli il nostro modo di funzionare,
cioè necessariamente li antropomorfizziamo), ma quello che a loro ci accomuna è
indubbiamente l'espressione dell'intelligenza, quale facoltà della natura e della vita
stessa. Il quid dell'essenza vitale dà moto al mondo e ai suoi fenomeni che nel caso
della specie umana si è amplificato sino ai risultati più prodigiosi del pensiero e della
tecnica attuali. Quale civiltà di uomini abbiamo saputo realizzare opere d'ingegno e
pensiero per davvero notevoli, ma anche ovviamente forme di degrado e
abbruttimento di impatto straordinari. Cosa determina questo giudizio valoriale che io
ho qui appena espresso sommariamente? L'asservimento, per usare una parola dura e
risoluta, al giudizio morale tra bene e male sulle cose e su noi stessi. A monte di tutto
noi giudichiamo e non possiamo farne a meno in termini di bene e male. Il
fondamento morale della vita umana è il marchio che ci distingue da tutte le altre
creature, o perlomeno esso è elaborato sino al sommo grado di una cultura di valori,
idee, concetti, convincimenti, pensiero e princìpi. Il bene od il benessere sono
connaturati alla forza prorompente della creatura vivente che vuole sopravvivere ed
esistere al massimo della pienezza possibile. La nostra vita è intrinsecamente legata
alla potenza ed alla volontà di raggiungerla ed esercitarla, poiché in questo modo
potremo procurarci il maggior bene, la massima felicità, la più piena realizzazione. Se
questa però è una comprovata verità non altrettanto oggettiva sarà la sostanza di
questo bene a cui ambiamo e vogliamo fare nostro. Per l'uno il bene è la tal cosa, per
un altro quella. Da qui l'altra verità secondo cui il bene non è il bene in sé, ma una
disposizione arbitraria di codesto bene, nella sostanza, nella descrizione, nella
quantità e nel modo per procurarselo. Così ovviamente è per i suoi contrari, cioè il
male ed il malessere. Ci sembrerà quindi bizzarro che qualche individuo desideri
addirittura un male, un malessere od un malanno, ma siccome il principio reale su cui
tutto ruota è la volontà arbitraria del singolo non dovremmo stupirci di chi
contravviene a riguardo di ciò che si intende quale bene generale, o concezione
assoluta del bene (il Bene); piuttosto dovremmo domandarci da dove provenga questa
definizione generale del bene, questo criterio assoluto che ne descrive la sua sostanza
oggettiva e non soggettiva. Saranno certo le riprove delle nostre sperimentazioni
empiriche, ripetute più e più volte lungo la vita, a stabilire cosa ci dia piacere e cosa
male, od il confronto con gli altri a decretare cosa sia il bene secondo la condivisione
di un comune sentire. Allora per via della statistica, essendo la maggior parte di noi
accomunata da un medesimo convincimento, affermeremo cosa sia il bene e quindi
stabiliremo anche cosa sia la verità, che poi concilieremo con il bene, la felicità o
altre virtù in una summa valoriale di princìpi, e verità assolute e generali. Se
possiamo dibattere e avere contrarietà tra di noi su cosa sia il bene, non porremo in
dubbio la questione che tutti vogliono il bene e non il male, se anche l'uno vorrà un
male perché lo intende bene, od uno il bene anche se esso è più propriamente un
male. Quindi appunto il bene non può essere bene in sé, ma soltanto ciò che noi
reputiamo tale. E la questione si complica quando poi un momento od in un caso la
medesima cosa è per noi un bene che desideriamo e la volta dopo lo ricacciamo
perché è divenuto un male. Noi diremo: “Qualunque cosa sia il bene, io lo voglio, e
quindi questa è una verità”, ma questo non afferma la veridicità del bene, ma soltanto
è vero che: “Io voglio!”. Quindi la verità non è precisamente il bene, ma il volere e
l'oggetto del volere passa in secondo piano in quanto contenuto di verità o bene in sé.
Perché allora ci ostiniamo a seguire Aristotele, per esempio, affermando che la
felicità, ossia quindi il bene, sono lo scopo della vita? E perché continuiamo a
ritenere che tutte le equipollenze del bene (l'amore, la giustizia, la verità, la virtù,
ecc...) siano gli oggetti della nostra volontà protesa? Innanzitutto perché queste
parole, queste essenze concettuali, hanno un sapore buono e per quanto sublimi ed
elevate sono il modo più pratico e dozzinale per tagliar corto e sbrigare
definitivamente la faccenda del vivere. Se rimanessimo in balia dell'infinita
congettura, nella tribolazione d el pensiero che si autoalimenta senza fine, allora non
perverremmo mai a nulla, perché il pensare incessante sull'oggetto desiderato e a
come pervenirvi non ci consentirebbe nessuna azione efficace per ottenerlo, ma
rimarremmo nel pensiero e nell'immaginazione sterile, nel calcolo di un guadagno
definitivo e perfetto che mai comunque giungerà.
La seconda ragione, più temibile, è che la nostra mente, il nostro pensiero,
funzionano solo per precetti virtuosi, ideali e princìpi universali del Bene, quale causa
ultima della nostra mentalità teleologica e morale. Essendo il bene non più un'utilità
arbitraria, ma un valore idealistico che coincide con Dio e la sua gloria, noi allora,
volendo Dio, non vorremo altro se non il Bene, poiché Dio è bene e amore.
Se non solo un precetto religioso, un'adesione alla religione (si pensi non solo al dio
cristiano, ma alla divinità di ogni tempo e luogo), questa impostazione mentale
diviene un intero modo di pensare, giacché anche il laico o sinanco l'ateo professano
un'etica e posseggono una loro morale. Ciò è quindi l'esplicitazione di una volontà di
bene e che del bene si faccia la propria causa e scopo, se anche questo bene avrà
connotazioni diverse dalla religione o addirittura irreligiose o eretiche.
Il bene è un principio sacro, un comandamento, una legge universale a cui si deve
obbedienza in quanto valore in sé a cui aderire obbligatoriamente ed in questo sta la
polemica verso la morale, il bene ed il sacro di Max Stirner. Se il religioso imporrà
l'articolo di fede quale dovere per impostazione dogmatica, l'ateo o l'irreligioso
faranno lo stesso nei confronti della ragione, quale bene in sé, fine e mezzo per
pervenire ad un bene ultimo, sia esso la libertà (di pensiero), i diritti civili,
l'uguaglianza, l'umanità, ecc... Anche l'umanista si comporta dogmaticamente nei
confronti del bene, conciliando inoltre un principio universale con una causa
universale quale quella dell'Umanità, ossia un'altra entità astratta. Egli è devoto verso
l'Uomo e non Dio, ma in esso ripone il bene, la verità, i valori e la virtù del secondo,
che è solo un'astrazione e non un soggetto esistente come l'uomo singolo, l'individuo,
l'Io. Se poi l'Uomo degenera nelle sue sottospecie di cittadino, famigliare, lavoratore,
compagno amoroso, amico, confidente, ruolo sociale, eccetera... sarà molto difficile
realizzare lo scopo di una virtù o di un bene perfetti, perché non resta che interpretare
i surrogati dell'Uomo, non recitare la parte di protagonista, ma i ruoli secondari, fare
il caratterista, la spalla. Se anche l'Uomo o Dio sono perfetti, giacché la loro sostanza
è fatta solo di cose buone e nobili, soltanto l'Io del singolo può pervenire a tale
discernimento e obbiettività di giudizio su queste rilevanti questioni e quindi anche
solo per questa ragione è già superiore e più perfetto di quelle astrazioni concettuali.
Egli potrà non essere perfetto nel senso di agire unicamente ispirato dal bene, o
dall'amore o dalla giustizia, ma riconoscerà sempre il primato della propria volontà,
senza la quale sarebbe solo un fantoccio in balia delle idee siano esse buone o cattive,
sublimi o spregevoli. Se esso operasse soltanto per cose buone e giuste secondo una
comune concezione di quelle o sarebbe il Dio-Uomo stesso o non esisterebbe affatto.
Tutta l'ambizione dei religiosi e degli uomini morali di rendere il singolo un vaso di
perfetta virtù morale è stato lo sforzo proteso per millenni che ha portato la tensione
interiore sino al culmine dello spasmo, del logoramento psicologico, della follia e di
una tremenda infelicità tra gli uomini. Lassù in alto rimaneva la realizzazione dello
spirito perfetto, quaggiù in terra un verminaio di miserabili peccatori, condannati per
sempre all'inferno e alla dannazione. Questa è l'eredità lasciataci dai nostri padri, dai
nostri maestri di scuola e preti, dalle nostre istituzioni umane e da tutti noi stessi.
Quando predichiamo il valore delle nostre idee e convincimenti, quando vogliamo
semplicemente dire la nostra in realtà così intendiamo: “Io so come si viva, non tu. E
adesso te lo insegno!”. La concezione del bene individuale si erige a bene universale,
ossia verità assoluta. Cosa resta del tenersi ad un passo dall'inconoscibilità
dell'individuo che abbiamo di fronte, da questa ragguardevole verità ulteriore, quale
contraddi zioni con altri precetti come il rispetto dell'altro, di tutti, dell'uomo e del
diverso? Tutti non sono uguali, ma diversi, in quanto unici. Va da sé che nessuno
potrà legittimarsi a dire la verità o a stabilire un bene che valga per tutti. Solo la
volontà di disporre della volontà propria legittima l'imposizione di un valore, un'idea
o una disposizione generale. Se anche cercheremo di convincere l'altro con il
ragionamento è perché riteniamo che la ragione sia un valore di bene a cui ispirarci
doverosamente, giacché chi non agisce secondo ragione non è un individuo degno di
rispetto, ma solo un uomo a metà, giacché l'umanità si realizza in noi sono se agiamo
e pensiamo in accordo con la razionalità e la logica. Ma a che ci serve questo? A
mantenere buone relazioni con gli altri, a godere della loro stima verso di noi, a fare
di noi persone meritevoli ai loro occhi. Ci guarderemo molto bene infatti dal
confidare ad uno sconosciuto o a qualcuno che non ci sia particolarmente vicino ed
intimo i nostri pensieri più bizzarri o immorali, le nostre fantasie irreali e pericolose,
che destano scandalo o attentano all'ordine costituito od alla pubblica sicurezza. Se
come più in alto affermavo rimaniamo nella congettura e nella fantasticheria irreale è
perché ci tratteniamo dal compiere gesti immorali per paura o di un biasimo o di una
punizione, ma anche la nostra proclamata adesione al bene non garantisce il fatto che
noi non pensiamo cose maligne o compiamo atti spregevoli. Poiché asserviti al
dovere del bene riterremo piuttosto di dover correggere le nostre manchevolezze per
produrre solo azioni o pensieri puri giacché l'universale è entrato in noi ed esso ci
domina come il demonio domina i posseduti. Invece che lasciar fluire qualunque cosa
ci passi per la testa o la parola, siamo noi i nostri primi censori di noi stessi, nutriamo
lo sbirro dentro e fuori di noi al pari dell'angelo custode che sorveglia la salvezza
della nostra anima.
Si sia fedeli o irreligiosi, devoti al sacramento o scienziati, si adotti la categoria
dell'anima o quella della mente, noi poniamo su di noi un concetto sacro che
convoglia ogni nostra azione verso un dover d'essere più importante di noi stessi. A
che importa a me dell'anima, della mente o dell'inconscio, quando per custodire
questi nobili concetti debbo tenere a freno la mia lingua o la mia mano? Avrò salvato
la mia purezza, ma ho anche represso la mia volontà, del tutto e sempre conscia. Mi
dovrei forse guardare le spalle dall'inconscio, da questo spettro demoniaco in me che
mi fa fare cose su cui non ho potere solo perché “l'inconscio esiste, lo ha detto la
scienza”? Io ci vedo solo uno spauracchio dello psicologo-prete, dello scienziato-
poliziotto. Non esiste l'inconscio, è solo un suggestivo gioco di parole, una fantasia
del linguaggio e dei “meandri della mente”, ossia della vastità del mio ipotetico regno
dello spirito. Se è inconscio non lo posso conoscere per definizione, se lo rendo
conscio allora non è più inconscio. Se arrivo a comprendere questo, qui, dentro
questo Io che vi parla, può esserci un'inconscio? E svelato questo? Può rimanere in
voi un inconscio? Soltanto se ci credete e se per voi questo concetto ha rilevanza e
utilità. La moderna disciplina psicologica o psichiatrica riporta la questione sul piano
della ragione e della verità scientifica. Ritenendo che la scienza operi più
efficacemente e con maggior risultato della fede o della convinzione religiosa, non si
pone però in discussione il fatto di volere adoperarsi unicamente per una causa di
bene e che questo bene debba poi comunque rimanere morale e coscienzioso. Prima
era l'anima ad essere impura, ora è il ragionamento a non esserlo. Il paziente
psicologico o psichiatrico non ragiona bene e quello che il professionista mentale fa è
quello di instradarlo verso un tipo di ragionamento sensato, obbiettivo, logico, lucido,
armonico e funzionale. I processi di pensiero e l'elaborazione concettuale devono
procedere secondo un criterio di opportunità, di buon senso. Si sottintenderà che il
paziente soffra perché “pensa male” o pensa le cose sbagliate. Certamente, in accordo
con Eschilo, il dolore è un errore della mente, ma di quale mente stiamo parlando? Se
questa mente, questa nuova astrazione dell'uomo razionale, deve essere costituita da
soli princìpi virtuosi e ispirati dal bene, allora tutte le volte che l'individuo soffre è
perché la sua mente non è la mente di Dio o dell'Uomo, ma è soltanto la sua. Se però
fosse soltanto la sua non soffrirebbe nemmeno perché essa sarebbe totalmente in
accordo con la propria volontà, mentre invece la sofferenza scaturisce proprio
dall'attrito tra la volontà propria e i precetti di ordine universale. Da qui la
condizione generalizzata della nevrosi negli uomini contemporanei e ugualmente
comunque antichi che vogliono e volevano mantenere allo stesso tempo dentro e
fuori di loro due verità inconciliabili: la volontà propria e d il proprio sentire e i
precetti della società e i valori universali. Può darsi che l'ulteriore libertà individuale
guadagnata dei moderni abbia accentuato questo malessere.
Il mio amoruccio mi ha lasciato ed io soffro, ma perché avevo presupposto che
l'amore tra noi non sarebbe mai finito, sarebbe stato eterno come Dio; ho perso il
lavoro ed ora mi trovo in miseria, ma perché presupponevo di essermi garantito una
vita sicura stando alle regole del dovere sociale, mentre invece la vita non è affatto
sicura e i diritti e le tutele dello Stato sono vane illusioni; ho perso al tavolo da gioco
e non ho pagato il creditore e questi ora viene a cercarmi, ma perché accetto che
l'onore comporti il rimettere i propri debiti (date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio
ciò che è di Dio) e non attento alla mia reputazione negando di pagare, perché voglio
restare un uomo morale; perdo un figlio o un amore importante e soffro, poiché
confidavo nel fatto che se ne vadano prima i vecchi e i malati e la natura abbia una
sua moralità e logica lineare o che abituato alla frequentazione ed alla presenza della
persona cara ella sia eterna e non mi abbandonerà mai. Invece è piuttosto che non ho
un buon rapporto con la morte e su di essa non ho mai riflettuto seriamente, perché ho
procrastinato la questione, evitando di rovinarmi il momento spensierato,
rimettendomi alla verità di fede, alla speranza nell'aldilà o ad altre puerili fandonie.
Come che la natura sia buona, poiché in un sincretico odierno revival del panteismo
la si fa coincidere con la divinità e il bene. La natura invece è amorale e non aspira a
concetti o valori ma unicamente al proprio scopo che non è né buono, né cattivo.
Essendone io un suo prodotto, anche io mi colloco al di là del bene e del male. La
natura non crea copie, ma soli pezzi unici, e così la vita non può essere intesa per
ognuno come l'eventualità di una statistica confrontandosi con lavita degli altri, ma è
un'esperienza singolare ed irripetibile. Quindi, di tutto quanto, le eccezioni si
confermano regola, l'unica legge è che non ci sono leggi e la vita è un fenomeno di
cui si può parlare, ma non si può conoscere. Le convinzioni generali sul fatto che la
“vita sia questa” o che “così funzioni” sono azzardi ingenui che confidano nel valori
dei postulati infondati, mentre solo il coraggio e il disincanto consentono una vita
godibile e realizzabile autenticamente. Si guardi bene quale preconcetto si scaglia
addosso chiunque. Riterremo che uno sciocco si stia presto avviando alla sua rovina,
mentre un uomo coscienzioso e avveduto godrà di una vita felice e robusta. Questi
sono pregiudizi ispirati da un certo modo di vedere le cose, secondo le abitudini e i
valori che ci siamo inculcati a vicenda. Invece abbiamo quotidianamente la notizia
dataci dai gazzettieri del successo traboccante di stupidi e ignoranti o vediamo nei più
virtuosi compiere gesti di una totale imbecillità o dissennatezza. “Essere irragionevoli
è un diritto umano” enunciò Arthur Schopenhauer, ma il vecchio rancoroso, per
quanto probabilmente odioso, aveva fiuto per gli uomini e ne sapeva abbastanza per
scorgere le falle del pensiero e della civiltà. Anche in una persona che ci sta antipatica
e sa solo esprimere astio ed odio potremmo scorgere qualche qualità se solo non
imponessimo su di essa un giudizio morale definitivo. O nell'uomo virtuoso
potremmo cogliere certe sue imprecisioni di metodo o ritenerlo noioso.
Indubbiamente una vecchia canaglia sa il fatto suo ed un uomo sereno profonde
nell'ambiente circostante un sentimento gradevole ed un umore più leggero di chi è
appesantito dal pensiero. Chi resta in silenzio probabilmente non sbaglia mai, ma
quando il suo mutismo si farà assordante, quando nemmeno noi ce la faremo più a
reggerlo e vorremo rompere qualche sacralità non riusciremo a trattenerci dal
rivolgergli la parola per indurlo a parlare e se questo si ostinerà a non proferire
parola, molto probabilmente gli metteremo le mani addosso per... scuoterlo. Noi
sempre vogliamo fare degli altri qualcosa, ma il pericolo è grande quando
innanzitutto non sappiamo cosa fare di noi o non sappiamo perché facciamo le cose.
Questa riflessione è il senso finale di questo mio scritto giunto ormai al suo termine.
Sia l'uomo comune che quello che si distingue dai più provengono da una cultura
morale ed universale. E' molto raro trovare un'individualità totale che nel pensiero e
nell'azione si esprima in modi totalmente singolari, giacché il contenitore entro cui è
inserita, il contesto sociale, non permettono lo sviluppo di tale originalità. Noi
restiamo nelle pastoie del pensiero virtuoso, dei valori e dei giudizi morali, nella
storia universale del sacro.
Lo sviluppo della psicologia individuale, le varie fasi di affrancamento dai dogmi
religiosi ed il processo di democratizzazione degli ultimi 250 anni hanno permesso di
godere di una maggiore autonomia psicologica e comportamentale. Ma anche tali
conquiste della libertà non sono totalmente raggiunte, poiché è proprio ora che il
potere secolare e temporale, l'ordine costituito delle gerarchie del pensiero e delle
istituzioni umane stanno sferrando il loro ultimo attacco negli attuali rigurgiti
storicisti, nel rantolo di un moribondo che sta per esalare l'ultimo respiro.
Dall'autoritarismo dello Stato, alla bigotteria pretesca dei religiosi, o la fede
spiritualista dei cartomanti o degli astrologi, dagli adoratori della Natura o gli
animalisti, dalle vecchie ideologie comuniste ai più moderni intellettualismi della
critica, o della scienza o dell'ingegneria, tutto culmina nel parossismo dello scontro
concettuale, valoriale, nell'epica, cinematografica battaglia, tra le forze del bene e le
orde del male. Poiché ancora dopo millenni si disquisisce sul bene e sul male e si è
pronti alla battaglia -o alla guerra nucleare- si rimane nella Storia e nei suoi ricorsi.
Peccato solo che tutti ritengano di appartenere alle forze del bene e sempre e solo...
gli altri siano membri delle orde del male. In accordo con lo sviluppo della tecnica e
delle tecnologie l'uomo odierno, comune e non, si trova a fronteggiare l'ultima
battaglia verso una più piena libertà verso quelle stesse istituzioni millenarie che creò
proprio per liberarlo dal mondo e dalla sua oppressione. La vittima si è fatta
carnefice, il liberatore è divenuto guardia carceraria. Non dovremo infatti ritenere che
la proclamazione di uno status della libertà e di una umanità libera equivalga alla
libertà del pensiero, dal pensiero! e dalle cose. Se potremo anche innalzare il
vessillo della libertà sui nostri sfruttatori e guardie, dovremo ancora considerare
quanto di asservito al sublime ideale della libertà stessa riecheggia ancora in noi e se
questa non rimanga in pieno sodalizio con i precetti di virtù e moralità che ci hanno
teso questo infinito tranello dei processi storici. Che faremo domani, vinta la guerra
dei nostri carnefici? Li perdoneremo in nome della nostra perfetta umanità realizzata
o li condurremo ad una esecuzione? Proclameremo lo status culturale di una libertà
egoistica ed individuale o accomoderemo i medesimi valori morali di sempre in una
rivoluzione progressista e democratica? Anche il pericolo di erigere i princìpi
dell'individualismo a dogma imperante di una cultura e società fondate su tali concetti
è grave e ci rigetta nella logica della storia universale del sacro. Per questo, in
accordo e riconoscimento verso Max Stirner, pongo queste parole nel valore e nella
causa del nulla, dell'incongruo e dell'effimero.

AV

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