in fondo, le due cause non siano identiche. Una stessa idea non può
esprimere qui una realtà, e là una realtà diversa, a meno che questa
dualità sia solo apparente. Se, presso alcuni popoli, le idee di sacro, di
anima, di dèi si spiegano su base sociologica, si deve scientificamente
presumere che, in linea di principio, la stessa spiegazione valga per tut-
ti i popoli in cui si ritrovano le stesse idee con gli stessi caratteri essen-
ziali. Supponendo quindi che non ci siamo sbagliati, alcune, almeno,
delle nostre conclusioni possono essere legittimamente generalizzate.
È venuto il momento di enunciarle. E un’induzione di questa natura,
avendo come base un esperimento ben definito, è meno temeraria di
tante generalizzazioni sommarie che, cercando di attingere in un sol
colpo l’esperienza delle religioni senza appoggiarsi sull’analisi di alcu-
na religione particolare, corrono il rischio di perdersi nel vuoto.
1
Una sola forma dell’attività sociale non è stata ancora espressamente connessa alla
religione: l’attività economica. Tuttavia le tecniche che derivano dalla magia rivelano, per
questo stesso fatto, origini indirettamente religiose. Inoltre, il valore economico è una spe-
cie di potere o efficacia, e noi conosciamo l’origine religiosa dell’idea di potere. La
ricchezza può conferire del mana; vuol dire che essa ne ha. Da ciò, si vede che le idee di
valore economico e di valore religioso non devono essere prive di rapporto. Ma il proble-
ma di sapere quale sia la natura di questi rapporti non è ancora stato studiato.
2
È per questo motivo che Frazer e anche Preuss collocano le forze religiose imperso-
nali al di fuori, o quanto meno, al limite della religione, per riportarle alla magia.
484 ÉMILE DURKHEIM
bene, l’ideale risponde alla stessa definizione: non si può quindi spie-
gare l’uno senza spiegare l’altro. Abbiamo visto, infatti, che se la vita
collettiva, quando raggiunge un certo grado di intensità, risveglia il
pensiero religioso, ciò avviene perché determina uno stato di efferve-
scenza che muta le condizioni dell’attività psichica. Le energie vitali
sono sovraeccitate, le passioni più vive, le sensazioni più forti; ve ne
sono alcune che si producono solo in questo momento. L’uomo non
si riconosce più; si sente trasformato e, di conseguenza, trasforma
l’ambiente che lo circonda. Per rendersi conto delle impressioni par-
ticolari che prova, egli attribuisce alle cose con cui è più direttamen-
te in rapporto proprietà che esse non hanno, poteri eccezionali, virtù
che gli oggetti dell’esperienza comune non posseggono. In una paro-
la, al mondo reale in cui si svolge la sua vita profana ne sovrappone
un altro che, in un certo senso, esiste soltanto nel suo pensiero, ma al
quale egli attribuisce, rispetto al primo, una sorta di dignità maggio-
re. Esso è dunque, a questo duplice titolo, un mondo ideale.
Così, la formazione di un ideale non costituisce un fatto irriducibi-
le, che sfugge alla scienza; dipende da condizioni che l’osservazione
può stabilire; è un prodotto naturale della vita sociale. Perché la so-
cietà possa assumere coscienza di sé e mantenere, al grado di intensità
necessario, il sentimento della propria natura, occorre che si riunisca
e si concentri. Orbene, questa concentrazione determina un’esaltazio-
ne della vita morale che si traduce in un insieme di concezioni ideali
in cui si riflette la nuova vita così risvegliata; esse corrispondono a
questo afflusso di forze psichiche che si sovrappongono allora a quel-
le di cui disponiamo per i compiti quotidiani dell’esistenza. Una so-
cietà non può né crearsi né ricrearsi senza, nello stesso tempo, creare
qualcosa di ideale. Questa creazione non è per essa una specie di atto
supplementare, con cui si completerebbe, una volta formatasi; è l’atto
con cui si fa e si rifà periodicamente. Perciò, quando si oppongono la
società ideale e la società reale come due antagoniste che ci trascine-
rebbero in direzione contraria, si pongono in essere e si oppongono
delle astrazioni. La società ideale non è al di fuori della società reale;
ne fa parte. Lungi dall’essere divisi tra di esse come tra due poli che si
respingono, noi non possiamo appartenere all’una senza appartenere
anche all’altra. Una società non è costituita semplicemente dall’insie-
me degli individui che la compongono, ma, in primo luogo, dall’idea
che essa si forma di sé. E senza dubbio, accade che essa esiti sul modo
in cui deve concepirsi: si sente trascinata in direzioni opposte. Ma
questi conflitti, quando sorgono, hanno luogo non già tra l’ideale e la
realtà, ma tra ideali differenti, tra quello di ieri e quello di oggi, tra
CONCLUSIONE 487
quello che ha per sé l’autorità della tradizione e quello che sta solo
costituendosi. C’è certamente motivo di indagare perché mai gli idea-
li si sviluppino; ma qualsiasi soluzione si dia a questo problema, rima-
ne però che tutto avviene nel mondo dell’ideale.
Anziché essere dovuto a qualche potere innato dell’individuo, l’i-
deale collettivo espresso dalla religione è stato piuttosto idealizzato
dall’individuo in base alle esigenze della vita collettiva. Assimilando
gli ideali elaborati dalla società egli è diventato capace di concepire
l’ideale. È la società che, trascinandolo nella sua sfera d’azione, ha fat-
to sorgere in lui il bisogno di elevarsi al di sopra del mondo dell’espe-
rienza e gli ha, in pari tempo, fornito i mezzi per concepirne un altro.
Essa ha infatti costruito questo mondo nuovo costruendo se stessa,
poiché ne costituisce l’oggetto. Perciò, sia nell’individuo che nel
gruppo, la capacità di idealizzare non ha nulla di misterioso. Non è
una specie di lusso di cui l’uomo potrebbe fare a meno, ma una con-
dizione della sua esistenza. L’uomo non sarebbe un essere sociale, non
sarebbe cioè un uomo, se non l’avesse acquisita. Senza dubbio, incar-
nandosi negli individui, gli ideali collettivi tendono a individualizzar-
si. Ognuno li intende a modo suo, li segna della sua impronta; toglie
loro alcuni elementi e ne aggiunge altri. L’ideale personale si separa
così dall’ideale sociale man mano che la sua personalità individuale si
sviluppa e diventa una fonte autonoma di azione. Ma se si vuole com-
prendere questa attitudine, tanto singolare in apparenza, a vivere fuo-
ri del reale, basta ricollegarla alle condizioni sociali da cui dipende.
Non bisogna perciò considerare questa teoria della religione co-
me una semplice riedizione del materialismo storico: ciò sarebbe un
singolare fraintendimento del nostro pensiero. Mostrando nella reli-
gione una cosa essenzialmente sociale, non intendiamo affatto dire
che essa si limiti a tradurre, in un altro linguaggio, le forme materiali
della società e le sue necessità vitali immediate. Senza dubbio, è evi-
dente che la vita sociale dipende dal suo substrato e ne porta il se-
gno, come la vita mentale dell’individuo dipende dall’encefalo e anzi
da tutto l’organismo. Ma la coscienza collettiva non è un semplice
epifenomeno della sua base morfologica, così come la coscienza indi-
viduale non è una semplice efflorescenza del sistema nervoso. Affin-
ché essa appaia, è necessario che si produca un sistema sui generis
delle coscienze individuali. Orbene, questa sintesi ha l’effetto di svi-
luppare un mondo di sentimenti, di idee, di immagini che, una volta
nate, obbediscono a leggi proprie. Esse si richiamano, si respingono,
si fondono, si dividono, si moltiplicano senza che queste combina-
zioni siano direttamente comandate e determinate dalla situazione
488 ÉMILE DURKHEIM
3
Cfr. supra, pp. 440 sgg. Su questo steso argomento cfr. Durkheim 1898b, pp. 273-302.
CONCLUSIONE 489
II
III
ritrovare una percezione quale l’abbiamo provata una prima volta; in-
fatti, anche se la cosa percepita non è mutata, noi non siamo quelli di
prima. Il concetto, invece, è al di fuori del tempo e del divenire; è sot-
tratto a questa agitazione; si direbbe che è situato in una regione diver-
sa dello spirito, più serena e più calma. Esso non si muove da solo, in
virtù di un’evoluzione interna e spontanea; al contrario, resiste al muta-
mento. È un modo di pensare che, in ogni momento del tempo, è fisso
e cristallizzato (James 1890, vol. I, p. 464). Nella misura in cui è ciò che
deve essere, è immutabile. Se muta, ciò non vuol dire che la sua natura
sia quella di mutare; vuol dire che abbiamo scoperto in esso qualche
imperfezione; che ha bisogno di essere rettificato. Il sistema di concetti
con cui pensiamo nella vita corrente è quello espresso nel vocabolario
della nostra lingua materna; infatti ogni parola traduce un concetto.
Orbene, la lingua è fissa; non cambia che molto lentamente e, di conse-
guenza, lo stesso avviene per l’organizzazione concettuale che esprime.
Lo scienziato si trova nella stessa situazione di fronte alla terminologia
particolare impiegata dalla scienza a cui si dedica, e, quindi, di fronte
allo specifico sistema di concetti a cui questa terminologia corrisponde.
Senza dubbio, egli può compiere delle innovazioni, ma si tratterà sem-
pre di una violenza esercitata su modi di pensare istituiti.
Al pari che relativamente immutabile, il concetto è, se non univer-
sale, almeno universalizzabile. Un concetto non è il mio concetto; mi
è comune con gli altri uomini o, in tutti i casi, può essere loro comu-
nicato. Mi è impossibile far passare una sensazione dalla mia coscien-
za nella coscienza di altri; essa è strettamente collegata al mio organi-
smo e alla mia personalità e non può esserne staccata. Tutto quello
che posso fare è di invitare gli altri a mettersi di fronte allo stesso og-
getto e a esporsi alla sua azione. Al contrario, la conversazione, i rap-
porti intellettuali tra gli uomini consistono in uno scambio di concet-
ti. Il concetto è una rappresentazione essenzialmente impersonale: è
attraverso di esso che le intelligenze umane comunicano4.
La natura del concetto, così definito, rivela le sue origini. Se è co-
mune a tutti, ciò vuol dire che è opera della comunità. Esso non reca
l’impronta di nessuna intelligenza particolare, poiché è elaborato da
4
Questa universalità del concetto non deve essere confusa con la sua generalità: si
tratta di cose molto diverse. Ciò che chiamiamo universalità è la proprietà di essere comu-
nicato a una molteplicità di spiriti, e perfino, in linea di principio, a tutti gli spiriti; questa
comunicabilità è del tutto indipendente dal suo grado di estensione. Un concetto che si
applica a un solo oggetto, la cui estensione, di conseguenza, sia minima, può essere univer-
sale nel senso di essere identico per tutti gli intelletti: tale è il concetto di una divinità.
498 ÉMILE DURKHEIM
5
Si obietterà che spesso, nell’individuo, per il solo effetto della ripetizione, modi di
agire o di pensare si fissano e si cristallizzano in forma di abitudini che resistono al cam-
biamento. Ma l’abitudine è soltanto una tendenza a ripetere automaticamente un atto o
un’idea, tutte le volte che le stesse circostanze la rievocano; essa non implica che l’idea o
l’atto siano costituiti allo stato di tipi esemplari, proposti o imposti allo spirito o alla sua
volontà. Soltanto quando un tipo di questo genere è prestabilito, cioè quando è istituita
una regola o una norma, l’azione sociale può e deve essere presunta.
CONCLUSIONE 499
ti; infatti essi sarebbero allora più poveri di queste come contenuto
intellettuale, mentre in realtà sono ricchi di un sapere che supera
quello dell’individuo medio. Non sono enti astratti forniti di realtà
soltanto nelle coscienze particolari, ma rappresentazioni altrettanto
concrete di quelle che l’individuo può formarsi del suo ambiente
personale: esse corrispondono al modo in cui questo essere partico-
lare che è la società concepisce le cose della propria esperienza. Se,
infatti, i concetti sono il più delle volte delle idee generali, se espri-
mono categorie e classi piuttosto che oggetti particolari, ciò avviene
perché i caratteri singolari e mutevoli degli esseri interessano assai
raramente la società; in ragione stessa della sua estensione, essa può
essere influenzata soltanto dalle loro proprietà generali e permanenti.
È dunque su questo aspetto che verte la sua attenzione: è nella sua
natura di considerare più spesso le cose in grandi entità e nell’aspet-
to che hanno più generalmente. Ma in ciò non c’è alcuna necessità; e,
in ogni caso, anche quando queste rappresentazioni hanno il caratte-
re generico che è loro abituale, esse sono opera della società, e sono
ricche della sua esperienza.
È in ciò, d’altra parte, che consiste il valore che ha per noi il pen-
siero concettuale. Se i nostri concetti non fossero che idee generali,
essi non arricchirebbero molto la nostra conoscenza; infatti il genera-
le, come si è già detto, non contiene nulla di più del particolare. Ma
se sono, innanzitutto, rappresentazioni collettive, essi aggiungono, a
ciò che può insegnarci la nostra esperienza personale, tutto il patri-
monio di saggezza e di scienza che la collettività ha accumulato nel
corso dei secoli. Pensare per concetti, non significa solo considerare
il reale nel suo aspetto più generale; significa proiettare sulla sensa-
zione una luce che la illumina, la penetra e la trasforma. Concepire
una cosa è al tempo stesso apprenderne meglio gli elementi essenzia-
li, collocarla in un insieme; infatti ogni civiltà ha il suo sistema orga-
nizzato di concetti che la caratterizza. Di fronte a questo sistema di
nozioni, lo spirito individuale è nella stessa situazione del νου ~ς di
Platone di fronte al mondo delle Idee. Esso si sforza di assimilarle,
perché ne ha bisogno per poter comunicare con i suoi simili; ma l’as-
similazione è sempre imperfetta. Ognuno di noi le vede a modo suo.
Ve ne sono alcune che ci sfuggono completamente, che restano al di
fuori del nostro angolo visuale; ve ne sono delle altre di cui cogliamo
soltanto alcuni aspetti. Ve ne sono altre ancora, e numerose, che
deformiamo pensandole; infatti, essendo collettive per natura, esse
non possono individualizzarsi senza essere ritoccate, modificate e,
quindi, falsate. Da ciò deriva che facciamo tanta fatica a intenderci,
500 ÉMILE DURKHEIM
tratta di una prima intuizione del regno della verità. Senza dubbio, a
partire dal momento in cui ebbe così coscienza di questa più alta in-
tellettualità, egli si sforzò di scrutarne la natura; cercò di vedere da
dove queste rappresentazioni superiori traessero le loro prerogative
e, nella misura in cui credette di averne scoperto le cause, si sforzò
di mettere lui stesso in opera queste cause per ottenere, con le sue
forze, gli effetti che esse comportano; cioè si accordò il diritto di
formulare egli stesso concetti. Così, la facoltà concettuale si indivi-
dualizzò. Ma, per ben comprendere le origini della funzione, occor-
re riportarla alle condizioni sociali da cui essa dipende.
Si obietterà che noi mostriamo il concetto in uno solo dei suoi
aspetti, e che esso non ha unicamente il compito di assicurare l’ac-
cordo reciproco degli spiriti, ma anche, se non di più, quello di assi-
curare il loro accordo con la natura delle cose. Sembra che esso non
trovi compiutamente la sua ragion d’essere che a condizione di esse-
re vero, cioè oggettivo, e che la sua impersonalità sia solamente una
conseguenza della sua oggettività. È nelle cose, concepite quanto più
possibile adeguatamente, che gli spiriti dovrebbero comunicare. Noi
non neghiamo che l’evoluzione concettuale avvenga in parte in que-
sto senso. Il concetto che, in origine, è ritenuto vero perché è collet-
tivo tende a diventare collettivo soltanto a condizione di essere rite-
nuto vero: gli domandiamo i suoi titoli prima di accordargli la nostra
fiducia. Ma innanzitutto, non bisogna perdere di vista che oggi la
maggioranza dei concetti di cui ci serviamo non sono costruiti meto-
dicamente; noi li ricaviamo dal linguaggio, cioè dall’esperienza co-
mune, senza che siano stati sottoposti a alcuna critica preliminare. I
concetti scientificamente elaborati e criticati sono sempre in grande
minoranza. Inoltre, tra essi e quelli che derivano tutta la loro autorità
dal solo fatto di essere collettivi vi sono soltanto differenze di grado.
Una rappresentazione collettiva, per il solo fatto di essere collettiva,
presenta già garanzie di oggettività; perché non è senza ragione che
essa ha potuto generalizzarsi e conservarsi con una sufficiente persi-
stenza. Se fosse in disaccordo con la natura delle cose, non avrebbe
potuto conquistare un dominio esteso e prolungato sugli spiriti. In
fondo, ciò che costituisce la fiducia ispirata dai concetti scientifici è
che essi sono suscettibili di essere controllati metodicamente. Orbe-
ne, una rappresentazione collettiva è necessariamente soggetta a un
controllo indefinitamente ripetuto: gli uomini che vi aderiscono la
verificano con la loro personale esperienza. Essa non potrebbe per-
ciò essere del tutto inadeguata al suo oggetto. Può esprimerlo, senza
dubbio, con l’aiuto di simboli imperfetti; ma anche i simboli scienti-
502 ÉMILE DURKHEIM
6
È perciò falso che una rappresentazione non abbia valore oggettivo per il fatto di
avere un’origine sociale.
CONCLUSIONE 503
IV
7
Si parla spesso dello spazio e del tempo come se fossero soltanto l’estensione e la du-
rata concreta, quali può sentirle la coscienza individuale, ma impoverite dall’astrazione. In
realtà, essi sono rappresentazioni di tutt’altro genere, costruite con altri elementi, secondo
un piano molto differente, e in vista di fini anch’essi diversi.
506 ÉMILE DURKHEIM
bile (cfr. Durkheim, Mauss 1903, pp. 40 sgg.). Per la stessa ragione, il
ritmo della vita collettiva domina e abbraccia i ritmi diversi di tutte le
vite elementari da cui risulta; di conseguenza, il tempo che lo esprime
domina e comprende tutte le durate particolari. È il tempo totale. La
storia del mondo per lungo tempo non è stata altro che un aspetto del-
la storia della società. L’una comincia con l’altra; i periodi della prima
sono determinati dai periodi della seconda. Ciò che misura questa du-
rata impersonale e globale, ciò che fissa i punti di riferimento rispetto
ai quali essa è divisa e organizzata, sono i movimenti di concentrazione
o di dispersione della società; più in generale, sono le necessità perio-
diche di un rinnovamento collettivo. Se questi movimenti critici si con-
nettono spesso a qualche fenomeno materiale, per esempio alla ricor-
renza regolare di un determinato astro o all’alternarsi delle stagioni, è
perché sono necessari segni oggettivi che rendano percepibile a tutti
questa organizzazione essenzialmente sociale. Analogamente, infine, la
relazione causale, dal momento in cui è posta collettivamente dal grup-
po, risulta indipendente da ogni coscienza individuale; essa aleggia al
di sopra di tutti gli spiriti e di tutti gli avvenimenti particolari. È una
legge di un valore impersonale. Abbiamo mostrato che è appunto così
che pare che essa sia sorta.
Un’altra ragione spiega come gli elementi costitutivi delle categorie
abbiano dovuto essere tratti dalla vita sociale: il fatto che le relazioni
che esse esprimono non potevano diventare coscienti che nella e in
virtù della società. Se, in un certo senso, esse sono immanenti alla vita
dell’individuo, questi non aveva nessun motivo e nessun mezzo di im-
pararle, di rifletterle, di esplicitarle e di erigerle in nozioni distinte. Per
orientarsi personalmente nello spazio, per sapere in quali momenti de-
ve soddisfare le diverse necessità dell’organismo, egli non aveva alcun
bisogno di farsi, una volta per tutte, una rappresentazione concettuale
del tempo o dello spazio. Molti animali sanno ritrovare il cammino che
li conduce ai luoghi loro familiari; essi vi ritornano al momento oppor-
tuno, senza tuttavia possedere alcuna categoria; le sensazioni bastano a
dirigerli automaticamente. Esse basterebbero anche all’uomo se i suoi
movimenti dovessero soddisfare soltanto a bisogni individuali. Per ri-
conoscere che una cosa somiglia a altre di cui abbiamo già esperienza,
non è affatto necessario collocare le une e le altre in generi e in specie:
la maniera in cui le immagini simili si attirano e si fondono basta a da-
re il senso della somiglianza. L’impressione del già visto, del già prova-
8
In fondo, i concetti di totalità, di società, di divinità, sono probabilmente aspetti di-
versi di un’unica nozione.
CONCLUSIONE 507
to, non implica alcuna classificazione. Per distinguere le cose che dob-
biamo ricercare da quelle che dobbiamo fuggire, dobbiamo soltanto
riportare gli effetti delle une e della altre alle loro cause mediante un
legame logico, allorché sono in gioco soltanto convenienze individuali.
Le sequenze puramente empiriche, le forti connessioni tra rappresen-
tazioni concrete sono, per la volontà, delle guide altrettanto sicure.
Non solo l’animale non ne ha altre, ma molto spesso la nostra persona-
le esperienza non presuppone nulla di più. L’uomo esperto è quello
che ha, di ciò che bisogna fare, una sensazione molto precisa, ma che
sarebbe, il più delle volte, incapace di tradurla in legge.
Le cose stanno diversamente per la società. Essa non è possibile che
se gli individui e le cose che la compongono sono ripartiti in diversi
gruppi, cioè classificati, e se questi gruppi sono anch’essi classificati gli
uni rispetto agli altri. La società presuppone quindi un’organizzazione
cosciente di sé che non è altro che una classificazione. Questa organiz-
zazione della società si comunica naturalmente allo spazio che occupa.
Per prevenire ogni urto, occorre che, a ogni gruppo particolare, sia ri-
servata una determinata parte dello spazio: in altri termini, occorre che
lo spazio totale sia diviso, differenziato, orientato, e che queste divisioni
e questi orientamenti siano conosciuti da tutti. D’altra parte, ogni con-
vocazione a una festa, a una caccia, a una spedizione militare implica
che le date siano fissate, convenute e, di conseguenza, che un tempo co-
mune sia stabilito e che tutti lo concepiscano allo stesso modo. Infine, il
concorso di parecchi in vista di uno scopo comune non è possibile che
se ci si accorda sul rapporto che esiste tra questo scopo e i mezzi che
permettono di conseguirlo, cioè se da parte di tutti coloro che coopera-
no alla stessa impresa viene ammessa un’unica relazione causale. Non
c’è quindi da stupirsi che il tempo sociale, le classi sociali, la causalità
collettiva siano alla base delle categorie corrispondenti, in quanto è sot-
to le loro forme sociali che le diverse relazioni sono state per la prima
volta intuite con una certa chiarezza dalla coscienza umana.
Riassumendo, la società non è affatto l’essere illogico o alogico, in-
coerente e fantastico che ci si compiace troppo spesso di vedere in essa.
Al contrario, la coscienza collettiva è la forma più alta della vita psichi-
ca, poiché è una coscienza di coscienze. Collocata al di fuori e al di so-
pra delle contingenze individuali e locali, essa considera le cose nel loro
aspetto permanente e essenziale che fissa in nozioni comunicabili. Ve-
dendo dall’alto, essa vede lontano; a ogni istante di tempo essa abbrac-
cia tutta la realtà conosciuta; è per questo che essa sola può fornire allo
spirito schemi che si applichino alla totalità degli esseri e che permetta-
no di pensarli. Questi schemi non sono creati artificialmente; essa li tro-
508 ÉMILE DURKHEIM
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