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Conclusione

All’inizio di quest’opera si è anticipata la conclusione che la reli-


gione di cui iniziavamo lo studio contenesse gli elementi più caratte-
ristici della vita religiosa. Si può verificare adesso l’esattezza di tale
proposizione. Per quanto semplice sia il sistema che abbiamo studia-
to, vi abbiamo ritrovato tutte le grandi idee e i principali atteggia-
menti rituali che sono alla base anche delle grandi religioni più pro-
gredite: la distinzione delle cose tra sacre e profane, la nozione di
anima, di spirito, di personalità mitica, di divinità nazionale e anche
internazionale, il culto negativo con le pratiche ascetiche che ne co-
stituiscono la forma esasperata, i riti di oblazione e di comunione, i
riti imitativi, i riti commemorativi, i riti piaculari, nulla di essenziale è
assente. Abbiamo quindi ragione di sperare che i risultati ai quali sia-
mo pervenuti non siano specifici del solo totemismo, ma possano
aiutarci a comprendere che cosa sia la religione in generale.
Si obietterà che una sola religione, quale che possa essere la sua
area di estensione, costituisce una base troppo ristretta per una simile
induzione. Non vogliamo certamente disconoscere che un’ampia veri-
fica possa aumentare l’autorità di una teoria. Ma non è meno vero che,
quando una legge è stata provata attraverso un esperimento ben con-
dotto, questa prova è valida universalmente. Se, persino in un unico
caso, uno scienziato giungesse a scoprire il segreto della vita, fosse an-
che quello dell’essere protoplasmatico più semplice che si possa con-
cepire, le verità così ottenute sarebbero applicabili a tutti i viventi, an-
che i più elevati. Se dunque, nelle umilissime società che abbiamo stu-
diato, siamo riusciti realmente a scorgere alcuni degli elementi da cui
sono costituite le nozioni religiose fondamentali, non c’è ragione per
non estendere alle altre religioni i risultati più generali della nostra ri-
cerca. Non è concepibile, infatti, che, secondo le circostanze, un unico
effetto possa derivare ora da una causa e ora da un’altra, a meno che,
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in fondo, le due cause non siano identiche. Una stessa idea non può
esprimere qui una realtà, e là una realtà diversa, a meno che questa
dualità sia solo apparente. Se, presso alcuni popoli, le idee di sacro, di
anima, di dèi si spiegano su base sociologica, si deve scientificamente
presumere che, in linea di principio, la stessa spiegazione valga per tut-
ti i popoli in cui si ritrovano le stesse idee con gli stessi caratteri essen-
ziali. Supponendo quindi che non ci siamo sbagliati, alcune, almeno,
delle nostre conclusioni possono essere legittimamente generalizzate.
È venuto il momento di enunciarle. E un’induzione di questa natura,
avendo come base un esperimento ben definito, è meno temeraria di
tante generalizzazioni sommarie che, cercando di attingere in un sol
colpo l’esperienza delle religioni senza appoggiarsi sull’analisi di alcu-
na religione particolare, corrono il rischio di perdersi nel vuoto.

Il più delle volte, i teorici che hanno cercato di esprimere la reli-


gione in termini razionali l’hanno considerata, in primo luogo, come
un sistema di idee, rispondente a uno scopo determinato. Questo og-
getto è stato concepito in diverse maniere: come natura, infinito, in-
conoscibile, ideale ecc.; ma queste differenze poco importano. In tut-
ti i casi, erano le rappresentazioni, le credenze che venivano assunte
come l’elemento essenziale della religione. Quanto ai riti, essi non
apparivano, da questo punto di vista, che una traduzione esteriore,
contingente e materiale, di quegli stati interni che erano ritenuti, essi
soltanto, forniti di un valore intrinseco. Questa concezione è talmen-
te diffusa che il più delle volte le dispute concernenti la religione ver-
tono sulla questione se essa possa o meno conciliarsi con la scienza,
cioè se, a fianco della conoscenza scientifica, vi sia posto per un’altra
forma di pensiero che sarebbe specificamente religioso.
Ma i credenti, cioè gli uomini che, vivendo la vita religiosa, hanno
la sensazione diretta di ciò che la costituisce obiettano a questo modo
di vedere che esso non risponde alla loro esperienza quotidiana. Essi
sentono, infatti, che la vera funzione della religione non è quella di
farci pensare, di arricchire la nostra conoscenza, di aggiungere alle
rappresentazioni che dobbiamo alla scienza altre rappresentazioni di
diversa origine e di diverso carattere, ma è quella di farci agire, di aiu-
tarci a vivere. Il fedele che ha comunicato con il suo dio non è soltan-
to un uomo che vede verità nuove, ignorate dal non credente; egli è
un uomo che può di più. Egli sente in sé una forza maggiore sia per
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sopportare le difficoltà dell’esistenza sia per vincerle. Egli è sollevato


al di sopra delle miserie umane perché è sollevato al di sopra della sua
condizione di uomo; si crede salvo dal male, quale che sia, comunque,
la forma in cui concepisce il male. Il primo articolo di ogni fede è la
credenza nella salvezza attraverso la fede. E non si vede come una
semplice idea potrebbe avere questa efficacia. Un’idea, infatti, non è
che un elemento di noi stessi; come potrebbe conferirci poteri supe-
riori a quelli che abbiamo per nostra natura? Per quanto sia ricca di
virtù affettive essa non potrebbe aggiungere nulla alla nostra vitalità
naturale; essa può soltanto liberare le forze emotive che sono in noi,
ma né crearle né accrescerle. Dal fatto che ci rappresentiamo un og-
getto come degno di essere amato e ricercato, non deriva che ci sen-
tiamo più forti; ma occorre che da questo oggetto scaturiscano ener-
gie superiori a quelle di cui disponiamo e, inoltre, che noi possediamo
qualche mezzo per farle penetrare in noi e mescolarle alla nostra vita
interiore. Orbene, a questo fine, non basta che noi le pensiamo, ma è
indispensabile che ci collochiamo nella loro sfera d’azione, che ci vol-
giamo dal lato da cui possiamo meglio sentire la loro influenza; in una
parola, occorre che agiamo e che ripetiamo gli atti necessari, tutte le
volte che è utile per rinnovarne gli effetti. Si può intravedere come, da
questo punto di vista, tale insieme di atti regolarmente ripetuti che
costituisce il culto riacquisti tutta la sua importanza. Infatti, chiunque
abbia realmente praticato una religione sa bene che il culto suscita
queste impressioni di gioia, di pace interiore, di serenità, di entusia-
smo che costituiscono, per il fedele, come la prova sperimentale delle
sue credenze. Il culto non è semplicemente un sistema di segni attra-
verso i quali la fede si traduce all’esterno, ma è la collezione dei mezzi
con cui essa si crea e si ricrea periodicamente. Che consista in mano-
vre materiali o in operazioni mentali, è sempre esso che è efficace.
Il nostro studio è fondato interamente sul postulato che il senti-
mento unanime dei credenti di tutti i tempi non possa essere pura-
mente illusorio. Come un recente apologeta della fede (James 1902),
noi ammettiamo dunque che le credenze religiose abbiano la loro ba-
se in un’esperienza specifica il cui valore dimostrativo, in un certo
senso, non è inferiore a quello degli esperimenti scientifici, pur essen-
do diverso. Anche noi pensiamo che “un albero si riconosce dai suoi
frutti” (James 1906, p. 19) e che la sua fecondità sia la prova migliore
di ciò che valgono le sue radici. Ma dal fatto che esista, se si vuole,
un’“esperienza religiosa” e che essa sia fondata in qualche maniera –
esiste, d’altronde, un’esperienza che non lo sia? – non consegue affat-
to che la realtà che ne costituisce il fondamento sia oggettivamente
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conforme all’idea che se ne fanno i credenti. Il fatto stesso che il mo-


do in cui essa è stata concepita sia infinitamente variato secondo i
tempi basta a provare che nessuna di queste concezioni la esprime
adeguatamente. Se lo scienziato pone come un assioma che le sensa-
zioni di calore, di luce, che provano gli uomini corrispondano a qual-
che causa oggettiva, non ne conclude però che questa sia quale appa-
re ai sensi. Analogamente, se le impressioni che i fedeli provano non
sono immaginarie, tuttavia esse non costituiscono intuizioni privile-
giate; non c’è alcuna ragione di pensare che esse ci informino meglio
sulla natura del loro oggetto di quanto le sensazioni comuni ci infor-
mano sulla natura dei corpi e delle loro proprietà. Per scoprire in che
cosa consista questo oggetto, occorre quindi far subire loro un’elabo-
razione analoga a quella che ha sostituito alla rappresentazione sensi-
bile del mondo una rappresentazione scientifica e concettuale.
Orbene, questo è precisamente ciò che abbiamo tentato di fare e
abbiamo così visto che questa realtà, che le mitologie si sono rappre-
sentate in tante forme diverse, ma che è la causa oggettiva, universale
e eterna delle sensazioni sui generis di cui è fatta l’esperienza religiosa,
è la società. Abbiamo mostrato quali forze morali essa sviluppi e co-
me essa susciti quel sentimento di appoggio, di salvaguardia, di di-
pendenza protettiva che unisce il fedele al suo culto. È essa che lo ele-
va al di sopra di sé: è essa stessa che lo fa. Ciò che fa l’uomo è questo
insieme di beni intellettuali che costituisce la civiltà, e la civiltà è ope-
ra della società. Così si spiega il ruolo preponderante del culto in tut-
te le religioni, di qualsiasi specie esse siano. Infatti la società non può
far sentire la sua influenza a meno di costituire un atto, e essa costitui-
sce un atto soltanto se gli individui che la compongono sono riuniti e
agiscono in comune. È attraverso l’azione comune che essa prende
coscienza di sé e si determina; essa è innanzitutto una cooperazione
attiva. Anche le idee e i sentimenti collettivi non sono possibili che in
virtù di movimenti esteriori che li simboleggiano, così come si è stabi-
lito (cfr. supra, pp. 288 sgg.). È dunque l’azione che domina la vita re-
ligiosa per il solo fatto che la società ne è l’origine.
A tutte le ragioni addotte per giustificare questa concezione se ne
può aggiungere un’altra che emerge da tutta questa opera. Abbiamo
stabilito nel corso dell’analisi che le categorie fondamentali del pen-
siero e, di conseguenza, della scienza, hanno origini religiose. Abbia-
mo visto che lo stesso vale per la magia e, di conseguenza, per le di-
verse tecniche che ne sono derivate. D’altra parte, si sa da lungo tem-
po che, fino a un momento relativamente avanzato dell’evoluzione, le
regole della morale e del diritto non si distinguevano dalle prescrizio-
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ni rituali. Si può quindi dire, riassumendo, che quasi tutte le grandi


istituzioni sociali sono sorte dalla religione1. Orbene, perché i princi-
pali aspetti della vita collettiva siano cominciati come aspetti partico-
lari della vita religiosa occorre evidentemente che la vita religiosa fos-
se la forma preminente e quasi un’espressione abbreviata di tutta la
vita collettiva. Se la religione ha generato tutto ciò che c’è di essenzia-
le nella società è perché l’idea della società è l’anima della religione.
Le forze religiose sono quindi forze umane, forze morali. Senza
dubbio, dato che i sentimenti collettivi non possono prendere co-
scienza di sé che fissandosi su oggetti esterni, esse non hanno potuto
costituirsi senza trarre dalle cose qualcuno dei loro caratteri: hanno
così acquisito una specie di natura fisica; a questo titolo, sono venute
a mescolarsi alla vita del mondo materiale ed è attraverso di esse che
si è creduto di spiegare ciò che vi accade. Ma quando esse vengono
considerate soltanto sotto questo aspetto e in questa funzione, si
scorge unicamente ciò che hanno di più superficiale. In realtà, è dal-
la coscienza che sono tratti gli elementi essenziali di cui sono costi-
tuite. Sembra di solito che esse rivestano un carattere umano soltan-
to quando sono concepite in forma umana2; ma anche le più imper-
sonali e le più anonime non sono altro che sentimenti oggettivati.
È a condizione di considerare le religioni sotto questo aspetto che
è possibile scorgerne il significato autentico. Fermandosi alle appa-
renze, i riti fanno spesso l’effetto di operazioni puramente manuali:
sono unzioni, lavaggi, pasti. Per consacrare una cosa, la si mette a
contatto con una fonte di energia religiosa, così come, oggi, per scal-
dare un corpo o per elettrizzarlo, lo si mette a contatto con una fon-
te di calore o di elettricità; i procedimenti adoperati nell’uno e nel-
l’altro caso non sono essenzialmente diversi. Così interpretata, la tec-
nica religiosa sembra essere una specie di meccanica mistica. Ma
queste manovre materiali non sono che l’involucro esterno sotto il
quale si celano le operazioni mentali. In definitiva, si tratta non già di
esercitare una specie di costrizione fisica su forze cieche e, d’altron-

1
Una sola forma dell’attività sociale non è stata ancora espressamente connessa alla
religione: l’attività economica. Tuttavia le tecniche che derivano dalla magia rivelano, per
questo stesso fatto, origini indirettamente religiose. Inoltre, il valore economico è una spe-
cie di potere o efficacia, e noi conosciamo l’origine religiosa dell’idea di potere. La
ricchezza può conferire del mana; vuol dire che essa ne ha. Da ciò, si vede che le idee di
valore economico e di valore religioso non devono essere prive di rapporto. Ma il proble-
ma di sapere quale sia la natura di questi rapporti non è ancora stato studiato.
2
È per questo motivo che Frazer e anche Preuss collocano le forze religiose imperso-
nali al di fuori, o quanto meno, al limite della religione, per riportarle alla magia.
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de, immaginarie, ma di raggiungere le coscienze, di tonificarle, di di-


sciplinarle. Si è detto talvolta che le religioni inferiori erano materia-
listiche. L’espressione è però inesatta. Tutte le religioni, anche le più
grossolane, sono, in un certo senso, spiritualistiche: le potenze che
esse mettono in gioco sono, soprattutto, spirituali e, d’altra parte, la
loro funzione principale è quella di agire sulla vita morale. Si com-
prende così che ciò che è stato fatto in nome della religione non po-
trebbe essere stato fatto invano: perché è necessariamente la società
degli uomini, cioè l’umanità, che ne ha raccolto i frutti.

Ci si chiederà, tuttavia, qual è esattamente la società che costituisce


il substrato della vita religiosa? È forse la società reale, quale esiste e
funziona sotto i nostri occhi, con l’organizzazione morale, giuridica, che
si è laboriosamente costituita nel corso della storia? Ma essa è piena di
tare e di imperfezioni. Il male vi è affiancato al bene, la verità vi è a ogni
istante oscurata dall’errore. Come un essere costituito tanto grossolana-
mente potrebbe ispirare i sentimenti d’amore, l’entusiasmo ardente, lo
spirito di abnegazione che tutte le religioni reclamano dai loro fedeli?
Questi esseri perfetti che sono gli dèi non possono aver tratto la loro fi-
sionomia da una realtà così mediocre, talvolta perfino così bassa.
Si tratta, piuttosto, della società perfetta, in cui la giustizia e la ve-
rità regnerebbero sovrane, da cui il male, in tutte le sue forme, sarebbe
estirpato? Non si contesta che essa sia in stretto rapporto con il senti-
mento religioso; infatti, si dice, le religioni tendono a realizzarla. Se
non che, questa società non è un dato empirico, definitivo e osservabi-
le; è una chimera, è un sogno di cui gli uomini hanno cullato le loro
miserie, ma che non hanno mai vissuto nella realtà. È una semplice
idea che traduce nella coscienza le nostre aspirazioni più o meno oscu-
re verso il bene, il bello, l’ideale. Ora, queste aspirazioni hanno le loro
radici in noi; provengono dalle profondità stesse del nostro essere; non
c’è nulla quindi fuori di noi che possa renderne conto. D’altronde, es-
se sono già religiose di per sé; la società ideale presuppone dunque la
religione, anziché poterla spiegare (Boutroux 1908, pp. 206-207).
Ma innanzitutto, considerare la religione soltanto nel suo aspetto
idealistico significa semplificare arbitrariamente le cose: essa è reali-
stica a modo suo. Non c’è bruttura fisica o morale, non vi sono vizi o
mali che non siano stati divinizzati. Vi sono stati dèi del furto e del-
l’astuzia, della lussuria e della guerra, della malattia e della morte.
Perfino il cristianesimo, per quanto elevata sia la sua idea della divi-
nità, è stato obbligato ad accordare un posto nella sua mitologia allo
spirito del male. Satana è un personaggio essenziale del sistema cri-
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stiano; orbene, se egli è un essere impuro, non è però un essere pro-


fano. L’anti-dio è un dio, inferiore e subordinato, è vero, ma dotato
di estesi poteri; è anche oggetto di riti, almeno negativi. La religione,
dunque, lungi dall’ignorare la società reale e farne astrazione, ne è
quindi l’immagine; ne riflette tutti gli aspetti, anche i più volgari e ri-
pugnanti. Tutto vi si ritrova e se, il più delle volte, vi si vede trionfare
il bene sul male, la vita sulla morte, le potenze della luce su quelle
delle tenebre, è perché così accade nella realtà. Infatti, se il rapporto
tra queste cose fosse invertito, la vita sarebbe impossibile; ma, di fat-
to, essa si conserva e tende anzi a svilupparsi.
Ma se, attraverso le mitologie e le teologie, si vede chiaramente tra-
sparire la realtà, è però vero che essa vi si trova ingrandita, trasformata,
idealizzata. Da questo punto di vista, le religioni più primitive non si
differenziano da quelle più recenti e più raffinate. Abbiamo visto, per
esempio, come gli arunta collochino all’origine dei tempi una società
mitica la cui organizzazione riproduce esattamente quella che esiste
ancora oggi; essa comprende gli stessi clan e le stesse fratrie, è soggetta
alla stessa regolamentazione matrimoniale, pratica gli stessi riti. Ma i
personaggi che la compongono sono esseri ideali, dotati di poteri e di
virtù a cui non può pretendere il comune mortale. La loro natura non
è soltanto più alta, è differente, perché partecipa a un tempo dell’ani-
malità e dell’umanità. Le potenze cattive vi subiscono una metamorfo-
si analoga: anche il male viene sublimato e idealizzato. La questione
che si pone è di sapere da dove provenga questa idealizzazione.
Si risponde che l’uomo ha una naturale capacità di idealizzare, cioè
di sostituire al mondo della realtà un mondo diverso in cui si trasporta
con il pensiero. Ma ciò vuol dire cambiare i termini del problema; non
vuol dire risolverlo e neppure farlo progredire. Questa idealizzazione
sistematica costituisce una caratteristica essenziale delle religioni. Spie-
garle con un potere innato di idealizzare vuol dire semplicemente so-
stituire una parola con un’altra che è l’equivalente della prima; sarebbe
come dire che l’uomo ha creato la religione perché aveva una natura
religiosa. Tuttavia, l’animale conosce un solo mondo: quello che perce-
pisce mediante l’esperienza interna e esterna. Soltanto l’uomo ha la fa-
coltà di concepire l’ideale e di aggiungerlo al reale. Da dove gli viene
questo singolare privilegio? Prima di farne un fatto primario, una virtù
misteriosa che sfugge alla scienza, bisogna ancora assicurarsi che non
dipenda da condizioni empiricamente determinabili.
La spiegazione della religione da noi proposta ha appunto il van-
taggio di cercare una risposta a questo problema. Ciò che definisce il
sacro è appunto il fatto di essere sovrapposto (surajouté) al reale; or-
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bene, l’ideale risponde alla stessa definizione: non si può quindi spie-
gare l’uno senza spiegare l’altro. Abbiamo visto, infatti, che se la vita
collettiva, quando raggiunge un certo grado di intensità, risveglia il
pensiero religioso, ciò avviene perché determina uno stato di efferve-
scenza che muta le condizioni dell’attività psichica. Le energie vitali
sono sovraeccitate, le passioni più vive, le sensazioni più forti; ve ne
sono alcune che si producono solo in questo momento. L’uomo non
si riconosce più; si sente trasformato e, di conseguenza, trasforma
l’ambiente che lo circonda. Per rendersi conto delle impressioni par-
ticolari che prova, egli attribuisce alle cose con cui è più direttamen-
te in rapporto proprietà che esse non hanno, poteri eccezionali, virtù
che gli oggetti dell’esperienza comune non posseggono. In una paro-
la, al mondo reale in cui si svolge la sua vita profana ne sovrappone
un altro che, in un certo senso, esiste soltanto nel suo pensiero, ma al
quale egli attribuisce, rispetto al primo, una sorta di dignità maggio-
re. Esso è dunque, a questo duplice titolo, un mondo ideale.
Così, la formazione di un ideale non costituisce un fatto irriducibi-
le, che sfugge alla scienza; dipende da condizioni che l’osservazione
può stabilire; è un prodotto naturale della vita sociale. Perché la so-
cietà possa assumere coscienza di sé e mantenere, al grado di intensità
necessario, il sentimento della propria natura, occorre che si riunisca
e si concentri. Orbene, questa concentrazione determina un’esaltazio-
ne della vita morale che si traduce in un insieme di concezioni ideali
in cui si riflette la nuova vita così risvegliata; esse corrispondono a
questo afflusso di forze psichiche che si sovrappongono allora a quel-
le di cui disponiamo per i compiti quotidiani dell’esistenza. Una so-
cietà non può né crearsi né ricrearsi senza, nello stesso tempo, creare
qualcosa di ideale. Questa creazione non è per essa una specie di atto
supplementare, con cui si completerebbe, una volta formatasi; è l’atto
con cui si fa e si rifà periodicamente. Perciò, quando si oppongono la
società ideale e la società reale come due antagoniste che ci trascine-
rebbero in direzione contraria, si pongono in essere e si oppongono
delle astrazioni. La società ideale non è al di fuori della società reale;
ne fa parte. Lungi dall’essere divisi tra di esse come tra due poli che si
respingono, noi non possiamo appartenere all’una senza appartenere
anche all’altra. Una società non è costituita semplicemente dall’insie-
me degli individui che la compongono, ma, in primo luogo, dall’idea
che essa si forma di sé. E senza dubbio, accade che essa esiti sul modo
in cui deve concepirsi: si sente trascinata in direzioni opposte. Ma
questi conflitti, quando sorgono, hanno luogo non già tra l’ideale e la
realtà, ma tra ideali differenti, tra quello di ieri e quello di oggi, tra
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quello che ha per sé l’autorità della tradizione e quello che sta solo
costituendosi. C’è certamente motivo di indagare perché mai gli idea-
li si sviluppino; ma qualsiasi soluzione si dia a questo problema, rima-
ne però che tutto avviene nel mondo dell’ideale.
Anziché essere dovuto a qualche potere innato dell’individuo, l’i-
deale collettivo espresso dalla religione è stato piuttosto idealizzato
dall’individuo in base alle esigenze della vita collettiva. Assimilando
gli ideali elaborati dalla società egli è diventato capace di concepire
l’ideale. È la società che, trascinandolo nella sua sfera d’azione, ha fat-
to sorgere in lui il bisogno di elevarsi al di sopra del mondo dell’espe-
rienza e gli ha, in pari tempo, fornito i mezzi per concepirne un altro.
Essa ha infatti costruito questo mondo nuovo costruendo se stessa,
poiché ne costituisce l’oggetto. Perciò, sia nell’individuo che nel
gruppo, la capacità di idealizzare non ha nulla di misterioso. Non è
una specie di lusso di cui l’uomo potrebbe fare a meno, ma una con-
dizione della sua esistenza. L’uomo non sarebbe un essere sociale, non
sarebbe cioè un uomo, se non l’avesse acquisita. Senza dubbio, incar-
nandosi negli individui, gli ideali collettivi tendono a individualizzar-
si. Ognuno li intende a modo suo, li segna della sua impronta; toglie
loro alcuni elementi e ne aggiunge altri. L’ideale personale si separa
così dall’ideale sociale man mano che la sua personalità individuale si
sviluppa e diventa una fonte autonoma di azione. Ma se si vuole com-
prendere questa attitudine, tanto singolare in apparenza, a vivere fuo-
ri del reale, basta ricollegarla alle condizioni sociali da cui dipende.
Non bisogna perciò considerare questa teoria della religione co-
me una semplice riedizione del materialismo storico: ciò sarebbe un
singolare fraintendimento del nostro pensiero. Mostrando nella reli-
gione una cosa essenzialmente sociale, non intendiamo affatto dire
che essa si limiti a tradurre, in un altro linguaggio, le forme materiali
della società e le sue necessità vitali immediate. Senza dubbio, è evi-
dente che la vita sociale dipende dal suo substrato e ne porta il se-
gno, come la vita mentale dell’individuo dipende dall’encefalo e anzi
da tutto l’organismo. Ma la coscienza collettiva non è un semplice
epifenomeno della sua base morfologica, così come la coscienza indi-
viduale non è una semplice efflorescenza del sistema nervoso. Affin-
ché essa appaia, è necessario che si produca un sistema sui generis
delle coscienze individuali. Orbene, questa sintesi ha l’effetto di svi-
luppare un mondo di sentimenti, di idee, di immagini che, una volta
nate, obbediscono a leggi proprie. Esse si richiamano, si respingono,
si fondono, si dividono, si moltiplicano senza che queste combina-
zioni siano direttamente comandate e determinate dalla situazione
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della realtà sottostante. La vita così prodotta gode anzi di un’indi-


pendenza abbastanza grande per potersi talvolta impegnare in mani-
festazioni senza scopo, senza utilità alcuna, per il solo piacere di af-
fermarsi. Abbiamo mostrato precisamente che questo è spesso il caso
dell’attività rituale e del pensiero mitologico3.

Ma se la religione è un prodotto di cause sociali, come spiegare il


culto individuale e il carattere universalistico di certe religioni? Se è
nata in foro externo, come ha potuto passare nel foro interiore del-
l’individuo e addentrarvisi sempre più profondamente? Se è opera di
società definite e individualizzate, come ha potuto staccarsene fino a
essere considerata cosa comune dell’umanità?
Nel corso della nostra ricerca abbiamo incontrato i primi germi
della religione individuale e del cosmopolitismo religioso, e abbiamo
visto come si siano formati; abbiamo così gli elementi più generali
della risposta da dare a questa duplice questione.
Si è mostrato, infatti, come la forza religiosa che anima il clan, in-
carnandosi nelle coscienze particolari, si particolarizzi anch’essa. Co-
sì si formano gli esseri sacri secondari: ogni individuo ha i suoi, fatti
a sua immagine, associati alla sua vita intima, legati al suo destino: si
tratta dell’anima, del totem individuale, dell’antenato protettore, ecc.
Questi esseri sono oggetto di riti che il fedele può celebrare da solo,
al di fuori di ogni gruppo; si tratta quindi di una prima forma di cul-
to individuale. Certamente, è ancora un culto molto rudimentale; ma
ciò dipende dal fatto che, essendo la personalità individuale ancora
poco distinta, ed essendole attribuito uno scarso valore, il culto che
la esprimeva non poteva essere ancora molto sviluppato. Man mano
che gli individui si sono maggiormente differenziati e il valore della
persona è cresciuto, il culto corrispondente ha occupato un posto
più grande nell’insieme della vita religiosa, nello stesso tempo in cui
si è chiuso più ermeticamente al di fuori.
L’esistenza di culti individuali non implica dunque nulla che con-
traddica o dia fastidio a una spiegazione sociologica della religione;
perché le forze profane a cui essi si rivolgono non sono che forme in-
dividualizzate delle forze collettive. Perciò, per quanto la religione
sembri appartenere interamente al foro interiore dell’individuo, è an-
cora nella società che risiede la fonte viva alla quale si alimenta. Pos-
siamo valutare adesso quanto valga quell’individualismo radicale che

3
Cfr. supra, pp. 440 sgg. Su questo steso argomento cfr. Durkheim 1898b, pp. 273-302.
CONCLUSIONE 489

vorrebbe fare della religione una cosa puramente individuale: esso


disconosce le condizioni fondamentali della vita religiosa. Se è rima-
sto finora allo stadio di aspirazioni teoriche mai realizzate, è perché è
irrealizzabile. Nel silenzio della meditazione si può elaborare una fi-
losofia, non già una fede. Infatti una fede è, innanzitutto, calore, vita,
entusiasmo, esaltazione di tutta l’attività mentale, trasporto dell’indi-
viduo al di sopra di se stesso. Orbene, come potrebbe egli, senza
uscire da sé, aumentare le energie che possiede? Come potrebbe au-
totrascendersi con le sue sole forze? La sola fonte di calore con cui
possiamo riscaldarci moralmente è quella che forma la società dei
nostri simili; le sole forze morali con cui possiamo sorreggere e ac-
crescere le nostre sono quelle che ci provengono dagli altri. Ammet-
tiamo pure che esistano realmente esseri più o meno analoghi a quel-
li che ci rappresentano le mitologie. Affinché possano avere sulle ani-
me l’azione utile che costituisce la loro ragion d’essere è necessario
credere in loro. Orbene, le credenze non sono attive che quando so-
no condivise. Si può ben conservarle qualche tempo con uno sforzo
del tutto personale; ma esse non nascono né si acquisiscono così; è
anche dubbio che possano conservarsi in queste condizioni. Infatti,
l’uomo che ha una fede autentica ha un bisogno invincibile di diffon-
derla; per questo motivo, esce dal suo isolamento, si avvicina agli al-
tri, cerca di convincerli e l’ardore delle convinzioni che suscita viene
a rafforzare la sua. Essa si estinguerebbe presto se rimanesse sola.
Per l’universalismo religioso valgono le stesse considerazioni svol-
te a proposito dell’individualismo. Lungi dall’essere un attributo
esclusivo di qualche grande religione, noi l’abbiamo trovato, non cer-
tamente alla base, ma al vertice del sistema australiano. Bunjil, Dara-
mulum, Baiame non sono semplici dèi tribali; ognuno di essi è ricono-
sciuto da molte tribù diverse. Il loro culto è, in un certo senso, inter-
nazionale. Questa concezione è molto prossima a quella che si ritrova
nelle teologie più recenti. Perciò alcuni studiosi si sono creduti auto-
rizzati a negarne l’autenticità, per quanto incontestabile essa sia.
Abbiamo infatti potuto mostrare come essa si sia formata.
Tribù vicine e di eguale civiltà non possono non essere in rappor-
ti costanti tra loro. Ogni specie di circostanze ne favoriscono loro
l’occasione: oltre al commercio, che è allo stato rudimentale, vi sono
i matrimoni; perché i matrimoni internazionali sono molto frequenti
in Australia. In questi incontri, gli uomini prendono naturalmente
coscienza della parentela morale che li unisce. Essi hanno la stessa
organizzazione sociale, la stessa divisione in fratrie, clan e classi ma-
trimoniali; praticano gli stessi riti di iniziazione o riti del tutto simili.
490 ÉMILE DURKHEIM

Scambi reciproci o convenzioni finiscono con il rafforzare queste so-


miglianze spontanee. Gli dèi ai quali erano collegate istituzioni così
chiaramente identiche potevano difficilmente restare distinti negli
spiriti. Tutto li avvicina e, di conseguenza, anche supponendo che
ogni tribù ne abbia elaborato la nozione in maniera indipendente,
dovevano per forza tendere a confondersi gli uni con gli altri. D’altra
parte, è probabile che essi siano stati in origine concepiti proprio
nelle assemblee inter-tribali. Si tratta infatti, in primo luogo, di dèi
dell’iniziazione e, nelle cerimonie di iniziazione, sono generalmente
rappresentate tribù diverse. Se si sono dunque formati esseri sacri
che non si riferiscono ad alcuna società, geograficamente determina-
ta, ciò non vuol dire però che essi abbiano un’origine extra-sociale.
Ciò vuol dire invece che, oltre a questi gruppi geografici, ne esistono
altri dai contorni meno precisi: essi non hanno frontiere tracciate, ma
comprendono ogni specie di tribù più o meno vicine e parenti. La vi-
ta sociale particolare che ne deriva tende a diffondersi in un’area
senza limiti definiti. Naturalmente, i personaggi mitologici che corri-
spondono a essa hanno il medesimo carattere; la loro sfera di in-
fluenza non è limitata; essi si innalzano al di sopra delle tribù parti-
colari e al di sopra dello spazio. Sono i grandi dèi internazionali.
Orbene, in questa situazione non c’è nulla di proprio della sola
società australiana. Non c’è popolo o Stato che non sia innestato in
un’altra società, più o meno illimitata, che comprende tutti i popoli,
tutti gli Stati con cui il primo è direttamente o indirettamente in rap-
porto; non c’è vita nazionale che non sia dominata da una vita collet-
tiva di natura internazionale. Nella misura in cui si avanza nel corso
della storia, questi raggruppamenti internazionali assumono un’im-
portanza e un’estensione maggiore. Si vede perciò come, in alcuni
casi, la tendenza universalistica abbia potuto svilupparsi fino al pun-
to di influire non solo sulle idee più elevate del sistema religioso, ma
anche sui principi stessi su cui esso si fonda.

II

Nella religione c’è quindi qualcosa di eterno che è destinato a so-


pravvivere a tutti i simboli particolari di cui il pensiero religioso si è
successivamente circondato. Non può esserci società che non senta il
bisogno di conservare e di rinsaldare, a intervalli regolari, i sentimen-
ti collettivi e le idee collettive che costituiscono la sua unità e la sua
personalità. Orbene, questo rinnovamento morale non può essere ot-
CONCLUSIONE 491

tenuto che per mezzo di riunioni, di assemblee, di congregazioni in


cui gli individui, strettamente riuniti tra loro, riaffermino in comune i
loro sentimenti comuni; da ciò derivano cerimonie che, per il loro
oggetto, per i risultati che producono, per i procedimenti impiegati,
non differiscono per natura dalle cerimonie propriamente religiose.
Quale differenza essenziale c’è tra un’assemblea di cristiani che cele-
brano le principali date della vita di Cristo, o di ebrei che festeggiano
l’uscita dall’Egitto o la promulgazione del decalogo, e una riunione
di cittadini che commemora l’istituzione di una nuova carta morale o
qualche grande avvenimento della vita nazionale?
Se oggi abbiamo qualche difficoltà a rappresentarci in cosa po-
tranno consistere queste feste e cerimonie dell’avvenire è perché at-
traversiamo una fase di transizione e di mediocrità morale. Le grandi
cose del passato, quelle che entusiasmavano i nostri padri, non risve-
gliano più in noi lo stesso ardore, sia perché sono entrate nell’uso co-
mune al punto che non ne siamo più coscienti, sia perché non rispon-
dono più alle nostre attuali aspirazioni; e tuttavia, non si è prodotto
ancora nulla che le sostituisca. Non possiamo più appassionarci per i
principi in nome dei quali il cristianesimo raccomandava ai padroni
di trattare umanamente gli schiavi, e, d’altra parte, l’idea che esso
propone dell’eguaglianza e della fratellanza umana ci sembra lasciare
troppo spazio a ingiuste disuguaglianze. La sua pietà per gli uomini ci
sembra troppo platonica; ne vorremmo un’altra più efficace; ma non
vediamo ancora chiaramente ciò che essa deve essere né come potrà
realizzarsi di fatto. In una parola, gli antichi dèi invecchiano o muoio-
no, e di nuovi non ne sono ancora nati. È questo che ha reso vano il
tentativo di Comte di organizzare una religione in base a vecchi ricor-
di storici, artificialmente risvegliati: è soltanto dalla vita stessa, e non
già da un passato morto, che può scaturire un culto vivo. Ma questo
stato di incertezza e di agitazione confusa non potrà durare a lungo.
Verrà un giorno in cui le nostre società conosceranno ancora momen-
ti di effervescenza creativa da cui sorgeranno nuovi ideali, da cui sca-
turiranno nuove formule che serviranno, per un certo tempo, da gui-
da all’umanità; e una volta vissute queste ore, gli uomini proveranno
spontaneamente il bisogno di riviverle ogni tanto nel pensiero, cioè di
conservarne il ricordo per mezzo di feste che ne ravvivino regolar-
mente i frutti. Abbiamo già visto come la Rivoluzione abbia istituito
un intero ciclo di feste per mantenere in uno stato di perpetua giovi-
nezza i principi a cui si ispirava. Se l’istituzione decadde presto, ciò
avvenne perché la fede rivoluzionaria non durò che poco tempo; per-
ché le delusioni e lo scoraggiamento succedettero rapidamente al pri-
492 ÉMILE DURKHEIM

mo momento di entusiasmo. Ma, benché l’opera sia fallita, essa ci


permette di rappresentarci ciò che avrebbe potuto essere in altre con-
dizioni; e tutto lascia pensare che verrà presto o tardi ripresa. Non ci
sono vangeli immortali e non c’è ragione di credere che l’umanità sia
ormai incapace di concepirne di nuovi. Quanto a sapere come saran-
no i simboli in cui si esprimerà la nuova fede, se essi assomiglieranno
o meno a quelli del passato, se saranno più adeguati alla realtà che
dovranno tradurre, è un problema che supera la nostra facoltà di pre-
visione e che, d’altronde, non concerne la sostanza delle cose.
Ma le feste, i riti, in una parola il culto, non costituiscono tutta la
religione. Questa non è soltanto un sistema di pratiche; è anche un
sistema di idee che ha lo scopo di esprimere il mondo; abbiamo visto
che anche le più umili hanno la loro cosmologia. Qualsiasi rapporto
ci sia tra questi due elementi della vita religiosa, essi non cessano
però di essere molto diversi. L’uno è rivolto verso l’azione che esso
sollecita e regola, l’altro verso il pensiero che esso arricchisce e orga-
nizza. Essi non dipendono quindi dalle stesse condizioni e, di conse-
guenza, possiamo chiederci se il secondo risponda a necessità tanto
universali e permanenti quanto il primo.
Quando si attribuiscono al pensiero religioso caratteri specifici,
quando si crede che abbia la funzione di esprimere, con metodi pro-
pri, tutto un aspetto del reale che sfugge alla conoscenza comune e
alla scienza, ci si rifiuta naturalmente di ammettere che la religione
possa mai decadere dal suo ruolo speculativo. Ma l’analisi dei fatti
non ci è sembrata dimostrare questa specificità. La religione che ab-
biamo studiato è una di quelle in cui i simboli adoperati sono i più
sconcertanti per la ragione. Tutto vi sembra misterioso. Questi esseri
che partecipano contemporaneamente dei domini più eterogenei,
che si moltiplicano senza cessare di essere unici, che si frammentano
senza diminuirsi, sembrano, di primo acchito, appartenere a un
mondo completamente diverso da quello in cui viviamo; si è giunti
fino ad asserire che il pensiero che lo ha costituito ignorasse total-
mente le leggi della logica. Mai, forse, il contrasto tra ragione e fede è
stato più netto. Se dunque ci fu un momento nella storia in cui la lo-
ro eterogeneità doveva apparire con evidenza fu ben quello. Orbene,
contrariamente alle apparenze, abbiamo constatato che le realtà a cui
si applica la speculazione religiosa sono le stesse che saranno più tar-
di oggetto della riflessione degli scienziati: la natura, l’uomo, la so-
cietà. Il mistero che sembra avvolgerle è del tutto superficiale e si
dissolve a un’osservazione più profonda: basta allontanare il velo di
cui l’immaginazione mitologica le ha ricoperte perché esse appaiano
CONCLUSIONE 493

quali sono. La religione si sforza di tradurre queste realtà in un lin-


guaggio intelligibile che non differisca per natura da quello usato
dalla scienza; dall’una come dall’altra parte si tratta di collegare le
cose le une alle altre, di stabilire tra loro relazioni interne, di classifi-
carle e di sistematizzarle. Abbiamo anzi visto che le nozioni essenzia-
li della logica scientifica sono di origine religiosa. Senza dubbio la
scienza, per poterle utilizzare, le sottopone a una nuova elaborazio-
ne; le libera da ogni specie di elemento occasionale; in generale in-
troduce, in tutte le sue pratiche, uno spirito critico che la religione
ignora; si circonda di precauzioni per “evitare la precipitazione e la
prevenzione”, per tenere lontane le passioni, i pregiudizi e tutte le in-
fluenze soggettive. Ma questi perfezionamenti metodologici non ba-
stano a differenziarla dalla religione. L’una e l’altra, da questo punto
di vista, perseguono lo stesso scopo; il pensiero scientifico non è che
una forma più perfetta del pensiero religioso. Sembra dunque natu-
rale che questo scompaia progressivamente davanti al primo, nella
misura in cui diventa più adatto ad assolvere il suo compito.
È fuor di dubbio, infatti, che questo regresso si sia prodotto nel
corso della storia. Nata dalla religione, la scienza tende a sostituirsi a
essa per tutto quanto concerne le funzioni conoscitive e intellettuali.
Già il cristianesimo ha consacrato definitivamente questa sostituzio-
ne nell’ordine dei fenomeni materiali. Vedendo nella materia la cosa
profana per eccellenza, ne ha facilmente lasciato la conoscenza a una
disciplina estranea, tradidit mundum hominum disputationi; è così
che le scienze della natura hanno potuto stabilirsi e far riconoscere la
propria autorità senza incontrare difficoltà troppo grandi. Ma il cri-
stianesimo non poteva abbandonare altrettanto facilmente il mondo
delle anime; perché è soprattutto sulle anime che il dio dei cristiani
aspira a regnare. È per questo che, per lungo tempo, l’idea di sotto-
porre la vita psichica alla scienza ha fatto l’impressione di una specie
di profanazione; ancora oggi, essa ripugna a molti. E tuttavia, la psi-
cologia sperimentale e comparativa si è costituita e oggi bisogna fare
i conti con essa. Ma il mondo della vita religiosa e morale resta anco-
ra precluso. La grande maggioranza degli uomini continua a credere
che esso rappresenti un ordine di cose in cui lo spirito può penetrare
soltanto attraverso vie molto particolari. Da ciò derivano le vive resi-
stenze che si incontrano ogni volta che si cerca di considerare scienti-
ficamente i fenomeni religiosi e morali. Ma, a onta delle opposizioni,
questi tentativi si ripetono e questa stessa persistenza permette di
prevedere che quest’ultima barriera finirà per cedere e che la scienza
si stabilirà da signora anche in questa zona riservata.
494 ÉMILE DURKHEIM

Ecco in cosa consiste il conflitto tra la scienza e la religione. Spes-


so se ne ha un’idea inesatta. Si dice che la scienza nega la religione in
linea di principio. Ma la religione esiste; è un sistema di fatti dati; in
una parola, è una realtà. Come potrebbe la scienza negare la realtà?
Inoltre, in quanto la religione è azione, in quanto è un mezzo per far
vivere gli uomini, la scienza non potrebbe prenderne il posto, perché
non la crea; essa può ben cercare di spiegare la fede, ma, per questo
stesso motivo, la presuppone. Non c’è dunque conflitto che in un
punto limitato. Delle due funzioni a cui la religione adempiva in ori-
gine, c’è n’è una, ma una sola, che tende sempre più a sfuggirle: è la
funzione speculativa. Ciò che la scienza contesta alla religione non è
il diritto di esistere, ma il diritto di dogmatizzare sulla natura delle
cose, è la specie di competenza particolare che essa si attribuiva per
conoscere l’uomo e il mondo. Infatti, essa non conosce neppure se
stessa. Non sa né di che cosa è fatta né a quali bisogni risponde. È es-
sa stessa oggetto di scienza; e perciò è ben lontana dal poter dettare
legge alla scienza! E dato che, d’altro canto, fuori dal reale a cui si
applica la riflessione scientifica, non esiste un oggetto proprio sul
quale verta la speculazione religiosa, è evidente che questa non po-
trebbe esercitare in avvenire la stessa funzione che nel passato.
Tuttavia, essa sembra destinata a trasformarsi piuttosto che a sparire.
Si è detto che nella religione c’è qualcosa di eterno; è il culto, la fe-
de. Ma gli uomini non possono celebrare cerimonie se non vi vedono
una ragion d’essere, né accettare una fede che non comprendono in
alcun modo. Per diffonderla o semplicemente per conservarla biso-
gna giustificarla, cioè farne la teoria. Una teoria di questo genere è,
senza dubbio, tenuta a appoggiarsi sulle diverse scienze, dato che esse
esistono; sulle scienze sociali in primo luogo, poiché la fede religiosa
ha le sue origini nella società; sulla psicologia, poiché la società è una
sintesi di coscienze umane; sulle scienze della natura infine, poiché
l’uomo e la società sono in funzione dell’universo e non possono es-
serne astratti che artificialmente. Ma per quanto importanti possano
essere gli elementi presi alle scienze costituite, non possono bastare; la
fede, infatti, è in primo luogo uno slancio ad agire e la scienza, per
quanto la si spinga innanzi, rimane sempre lontana dall’azione. La
scienza è frammentaria, incompleta; avanza lentamente e non è mai
compiuta; la vita, essa, non può attendere. Teorie che sono destinate a
far vivere, a far agire, sono dunque obbligate a superare la scienza e a
completarla prematuramente. Esse non sono possibili senza che le esi-
genze della pratica e le necessità vitali, che noi sentiamo senza conce-
pirle distintamente, spingano avanti il pensiero, oltre ciò che la scien-
CONCLUSIONE 495

za ci permette di affermare. Perciò, le religioni, anche quelle più ra-


zionali e laicizzate, non possono e non potranno mai fare a meno di
una forma molto particolare di speculazione che, pur avendo gli stessi
oggetti della scienza, non potrà tuttavia essere propriamente scientifi-
ca: le intuizioni oscure della sensazione e del sentimento si sostitui-
scono spesso alle ragioni logiche. Da un lato, questa speculazione as-
somiglia dunque a quella incontrata nelle religioni del passato; ma, da
un altro lato, se ne distingue. Pur accordandosi il diritto di sorpassare
la scienza, deve cominciare con il riconoscerla e con il trarne ispira-
zione. Dal momento in cui si è stabilita l’autorità della scienza bisogna
tenerne conto; si può andare più avanti della scienza sotto la pressio-
ne della necessità, ma bisogna partire da essa. Non si può affermare
nulla che essa neghi, non si può negare nulla che affermi, non si può
stabilire nulla che non si appoggi, direttamente o indirettamente, sui
principi tratti da essa. A partire da questo punto, la fede non esercita
più, sul sistema delle rappresentazioni che si può continuare a chia-
mare religiose, la stessa egemonia di prima. Di fronte a essa, si leva
una potenza rivale che, nata dal suo grembo, la sottopone ormai alla
sua critica e al suo controllo. E tutto fa prevedere che questo control-
lo diventerà sempre più esteso e più efficace, senza che sia possibile
assegnare un limite alla sua influenza futura.

III

Ma se le nozioni fondamentali della scienza hanno un’origine reli-


giosa, come la religione ha potuto generarle? Di primo acchito non si
riesce a cogliere quali rapporti possano sussistere tra la logica e la re-
ligione. Anzi, poiché la realtà che il pensiero religioso esprime è la
società, la questione può porsi nei termini seguenti che ne fanno ap-
parire ancora meglio tutta la difficoltà: che cosa ha potuto fare della
vita sociale una fonte tanto importante di vita logica? Nulla, sembra,
la predestinava a questo ruolo; infatti gli uomini evidentemente non
si sono associati per soddisfare a bisogni speculativi.
Si troverà forse temerario affrontare qui un problema di tale com-
plessità. Per poterlo trattare come occorre, bisognerebbe che le con-
dizioni sociologiche della conoscenza fossero conosciute meglio di
quanto non lo siano; cominciamo appena a intravederne qualcuna.
Tuttavia, la questione è tanto seria ed è così direttamente implicata
da quello che precede che dobbiamo fare uno sforzo per non lasciar-
la priva di risposta. Forse, d’altro canto, non è impossibile porre fin
496 ÉMILE DURKHEIM

da ora qualche principio generale, che sia almeno in grado di indi-


carne la soluzione.
La materia del pensiero logico è costituita di concetti. Cercare co-
me la società possa aver partecipato alla genesi del pensiero logico
conduce quindi a domandarsi come essa possa aver preso parte alla
formazione dei concetti.
Se, come accade di solito, si intende il concetto solamente come
un’idea generale, il problema sembra insolubile. L’individuo, infatti,
può, con i suoi propri mezzi, comparare le sue percezioni o le sue im-
magini, far scaturire ciò che esse hanno di comune, in una parola gene-
ralizzare. È dunque difficile scorgere perché mai la generalizzazione
non sarebbe possibile che nella società e attraverso di essa. Ma innan-
zitutto, è inammissibile che il pensiero logico sia caratterizzato esclusi-
vamente dalla maggiore estensione delle rappresentazioni che lo costi-
tuiscono. Se le idee particolari non hanno nulla di logico, perché sa-
rebbe altrimenti per le idee generali? Il generale non esiste che nel par-
ticolare; esso è il particolare semplificato e impoverito. Il primo non
potrebbe dunque possedere virtù e privilegi che il secondo non possie-
de. Inversamente, se il pensiero concettuale può venire applicato al ge-
nere, alla specie, alla varietà, per quanto ristretta essa sia, perché mai
non potrebbe estendersi all’individuo, cioè al limite verso cui tende la
rappresentazione con il progressivo diminuire della sua estensione? In-
fatti, esistono molti concetti che hanno per oggetto gli individui. In
ogni specie di religione, gli dèi sono individualità distinte le une dalle
altre; ciononostante, essi vengono concepiti, non percepiti. Ogni po-
polo si rappresenta in una certa forma, che varia a seconda dei tempi, i
suoi eroi storici o leggendari; e queste rappresentazioni sono concet-
tuali. Infine, ciascuno di noi si forma una certa nozione degli individui
con cui è in rapporto, del loro carattere, della loro fisionomia, dei trat-
ti distintivi del loro temperamento fisico e morale: queste nozioni sono
autentici concetti. Senza dubbio sono, in genere, abbastanza grossola-
ni; ma anche tra i concetti scientifici ve ne sono forse molti che siano
perfettamente adeguati al loro oggetto? Da questo punto di vista, tra
gli uni e gli altri, vi sono solo differenze di grado.
È dunque in base ad altri caratteri che occorre definire il concet-
to. Esso si oppone alle rappresentazioni sensibili di ogni genere –
sensazioni, percezioni o immagini – per le proprietà seguenti.
Le rappresentazioni sensibili sono in un flusso perpetuo; esse si so-
spingono tra loro come le onde di un fiume e, anche durante il tempo
in cui durano, non rimangono simili a se stesse. Ognuna di esse è in
funzione dell’istante preciso in cui ha luogo. Noi non siamo mai certi di
CONCLUSIONE 497

ritrovare una percezione quale l’abbiamo provata una prima volta; in-
fatti, anche se la cosa percepita non è mutata, noi non siamo quelli di
prima. Il concetto, invece, è al di fuori del tempo e del divenire; è sot-
tratto a questa agitazione; si direbbe che è situato in una regione diver-
sa dello spirito, più serena e più calma. Esso non si muove da solo, in
virtù di un’evoluzione interna e spontanea; al contrario, resiste al muta-
mento. È un modo di pensare che, in ogni momento del tempo, è fisso
e cristallizzato (James 1890, vol. I, p. 464). Nella misura in cui è ciò che
deve essere, è immutabile. Se muta, ciò non vuol dire che la sua natura
sia quella di mutare; vuol dire che abbiamo scoperto in esso qualche
imperfezione; che ha bisogno di essere rettificato. Il sistema di concetti
con cui pensiamo nella vita corrente è quello espresso nel vocabolario
della nostra lingua materna; infatti ogni parola traduce un concetto.
Orbene, la lingua è fissa; non cambia che molto lentamente e, di conse-
guenza, lo stesso avviene per l’organizzazione concettuale che esprime.
Lo scienziato si trova nella stessa situazione di fronte alla terminologia
particolare impiegata dalla scienza a cui si dedica, e, quindi, di fronte
allo specifico sistema di concetti a cui questa terminologia corrisponde.
Senza dubbio, egli può compiere delle innovazioni, ma si tratterà sem-
pre di una violenza esercitata su modi di pensare istituiti.
Al pari che relativamente immutabile, il concetto è, se non univer-
sale, almeno universalizzabile. Un concetto non è il mio concetto; mi
è comune con gli altri uomini o, in tutti i casi, può essere loro comu-
nicato. Mi è impossibile far passare una sensazione dalla mia coscien-
za nella coscienza di altri; essa è strettamente collegata al mio organi-
smo e alla mia personalità e non può esserne staccata. Tutto quello
che posso fare è di invitare gli altri a mettersi di fronte allo stesso og-
getto e a esporsi alla sua azione. Al contrario, la conversazione, i rap-
porti intellettuali tra gli uomini consistono in uno scambio di concet-
ti. Il concetto è una rappresentazione essenzialmente impersonale: è
attraverso di esso che le intelligenze umane comunicano4.
La natura del concetto, così definito, rivela le sue origini. Se è co-
mune a tutti, ciò vuol dire che è opera della comunità. Esso non reca
l’impronta di nessuna intelligenza particolare, poiché è elaborato da

4
Questa universalità del concetto non deve essere confusa con la sua generalità: si
tratta di cose molto diverse. Ciò che chiamiamo universalità è la proprietà di essere comu-
nicato a una molteplicità di spiriti, e perfino, in linea di principio, a tutti gli spiriti; questa
comunicabilità è del tutto indipendente dal suo grado di estensione. Un concetto che si
applica a un solo oggetto, la cui estensione, di conseguenza, sia minima, può essere univer-
sale nel senso di essere identico per tutti gli intelletti: tale è il concetto di una divinità.
498 ÉMILE DURKHEIM

un’intelligenza unica in cui tutte le altre si incontrano e in cui vengo-


no, in qualche modo, ad alimentarsi. Se ha maggiore stabilità delle
sensazioni o delle immagini, è perché le rappresentazioni collettive
sono più stabili delle rappresentazioni individuali; infatti, mentre l’in-
dividuo è sensibile anche ai piccoli cambiamenti che si producono nel
suo ambiente interno o esterno, soltanto avvenimenti di una certa gra-
vità possono riuscire a influenzare la struttura della società. Ogni vol-
ta che siamo in presenza di un tipo5 di pensiero o di azione, che si im-
pone uniformemente alle volontà o alle intelligenze particolari, questa
pressione esercitata sull’individuo rivela l’intervento della collettività.
D’altra parte, si diceva prima che i concetti con cui abitualmente pen-
siamo sono quelli consegnati al nostro vocabolario. Orbene, non c’è
dubbio che il linguaggio e, quindi, il sistema di concetti che esso tra-
duce, sia il prodotto di un’elaborazione collettiva. Ciò che esprime è
la maniera in cui la società nel suo insieme si rappresenta gli oggetti
dell’esperienza. Le nozioni che corrispondono ai diversi elementi del-
la lingua sono dunque rappresentazioni collettive.
Il contenuto stesso di queste nozioni conferma quanto si è detto.
Anche tra quelle che adoperiamo abitualmente non vi sono, infatti,
parole il cui significato non sorpassi più o meno largamente i limiti
della nostra esperienza personale. Spesso un termine esprime cose
che non abbiamo mai percepito, esperienze che non abbiamo mai fat-
to o di cui non siamo mai stati testimoni. Anche quando conosciamo
qualcuno degli oggetti a cui si riferisce, essi illustrano l’idea soltanto a
titolo di esempi particolari, ma, da soli, non sarebbero mai stati suffi-
cienti a costituirla. Nelle parole, si trova dunque condensata un’intera
scienza alla quale non ho collaborato, una scienza più che individuale;
e essa mi sorpassa a tal punto che non posso neppure appropriarmi
completamente di tutti i suoi risultati. Chi di noi conosce tutte le pa-
role della lingua che parla e il significato integrale di ogni parola?
Questa osservazione permette di determinare in quale senso in-
tendiamo dire che i concetti sono rappresentazioni collettive. Se so-
no comuni a un intero gruppo sociale, essi non rappresentano però
una semplice media tra le rappresentazioni individuali corrisponden-

5
Si obietterà che spesso, nell’individuo, per il solo effetto della ripetizione, modi di
agire o di pensare si fissano e si cristallizzano in forma di abitudini che resistono al cam-
biamento. Ma l’abitudine è soltanto una tendenza a ripetere automaticamente un atto o
un’idea, tutte le volte che le stesse circostanze la rievocano; essa non implica che l’idea o
l’atto siano costituiti allo stato di tipi esemplari, proposti o imposti allo spirito o alla sua
volontà. Soltanto quando un tipo di questo genere è prestabilito, cioè quando è istituita
una regola o una norma, l’azione sociale può e deve essere presunta.
CONCLUSIONE 499

ti; infatti essi sarebbero allora più poveri di queste come contenuto
intellettuale, mentre in realtà sono ricchi di un sapere che supera
quello dell’individuo medio. Non sono enti astratti forniti di realtà
soltanto nelle coscienze particolari, ma rappresentazioni altrettanto
concrete di quelle che l’individuo può formarsi del suo ambiente
personale: esse corrispondono al modo in cui questo essere partico-
lare che è la società concepisce le cose della propria esperienza. Se,
infatti, i concetti sono il più delle volte delle idee generali, se espri-
mono categorie e classi piuttosto che oggetti particolari, ciò avviene
perché i caratteri singolari e mutevoli degli esseri interessano assai
raramente la società; in ragione stessa della sua estensione, essa può
essere influenzata soltanto dalle loro proprietà generali e permanenti.
È dunque su questo aspetto che verte la sua attenzione: è nella sua
natura di considerare più spesso le cose in grandi entità e nell’aspet-
to che hanno più generalmente. Ma in ciò non c’è alcuna necessità; e,
in ogni caso, anche quando queste rappresentazioni hanno il caratte-
re generico che è loro abituale, esse sono opera della società, e sono
ricche della sua esperienza.
È in ciò, d’altra parte, che consiste il valore che ha per noi il pen-
siero concettuale. Se i nostri concetti non fossero che idee generali,
essi non arricchirebbero molto la nostra conoscenza; infatti il genera-
le, come si è già detto, non contiene nulla di più del particolare. Ma
se sono, innanzitutto, rappresentazioni collettive, essi aggiungono, a
ciò che può insegnarci la nostra esperienza personale, tutto il patri-
monio di saggezza e di scienza che la collettività ha accumulato nel
corso dei secoli. Pensare per concetti, non significa solo considerare
il reale nel suo aspetto più generale; significa proiettare sulla sensa-
zione una luce che la illumina, la penetra e la trasforma. Concepire
una cosa è al tempo stesso apprenderne meglio gli elementi essenzia-
li, collocarla in un insieme; infatti ogni civiltà ha il suo sistema orga-
nizzato di concetti che la caratterizza. Di fronte a questo sistema di
nozioni, lo spirito individuale è nella stessa situazione del νου ~ς di
Platone di fronte al mondo delle Idee. Esso si sforza di assimilarle,
perché ne ha bisogno per poter comunicare con i suoi simili; ma l’as-
similazione è sempre imperfetta. Ognuno di noi le vede a modo suo.
Ve ne sono alcune che ci sfuggono completamente, che restano al di
fuori del nostro angolo visuale; ve ne sono delle altre di cui cogliamo
soltanto alcuni aspetti. Ve ne sono altre ancora, e numerose, che
deformiamo pensandole; infatti, essendo collettive per natura, esse
non possono individualizzarsi senza essere ritoccate, modificate e,
quindi, falsate. Da ciò deriva che facciamo tanta fatica a intenderci,
500 ÉMILE DURKHEIM

che anzi, spesso, ci mentiamo reciprocamente, senza volerlo: infatti


adoperiamo tutti le stesse parole senza dare loro lo stesso senso.
Si può allora scorgere quale sia la parte della società nella genesi
del pensiero logico. Questo è possibile soltanto a partire dal mo-
mento in cui, al di sopra delle rappresentazioni fugaci che deve al-
l’esperienza sensibile, l’uomo è arrivato a concepire un mondo di
idee stabili, luogo comune delle intelligenze. Pensare logicamente,
infatti, è sempre, in qualche misura, pensare in maniera impersona-
le; è anche pensare sub specie aeternitatis. Impersonalità, stabilità,
queste sono le due caratteristiche della verità. Orbene, la vita logica
presuppone evidentemente che l’uomo sappia, almeno confusamen-
te, che c’è una verità distinta dalle apparenze sensibili. Ma come ha
potuto egli giungere a questa concezione? Si ragiona il più delle vol-
te come se essa avesse dovuto presentarsi spontaneamente a lui, da
quando aprì gli occhi al mondo. Tuttavia, non c’è nulla nell’espe-
rienza immediata che possa suggerirla; anzi, tutto la contraddice. Il
bambino e l’animale non ne hanno neanche il sospetto. La storia
mostra, d’altra parte, che essa ha impiegato secoli a svilupparsi e a
costituirsi. Nel nostro mondo occidentale, è con i grandi filosofi del-
la Grecia che essa ha assunto, per la prima volta, una chiara coscien-
za di sé e delle conseguenze che implica; e, quando se ne fece la sco-
perta, fu una meraviglia, che Platone ha tradotto in un magnifico
linguaggio. Tuttavia, anche se l’idea si espresse in formule filosofi-
che soltanto in quest’epoca, essa preesisteva necessariamente allo
stato di oscuro sentimento. I filosofi hanno cercato di chiarire que-
sto sentimento; essi però non l’hanno creato. Perché potessero ri-
fletterlo e analizzarlo, occorreva che fosse loro già presente e si trat-
tava quindi di sapere da dove venisse, cioè su quale esperienza fosse
fondato. Questo fondamento è l’esperienza collettiva. È sotto la for-
ma del pensiero collettivo che il pensiero impersonale si è, per la
prima volta, rivelato all’umanità; e non si vede per quale altra via sa-
rebbe potuta avvenire questa rivelazione. Per il solo fatto che la so-
cietà esiste, esiste anche, al di fuori delle sensazioni e delle immagini
individuali, tutto un sistema di rappresentazioni fornite di meravi-
gliose proprietà. Per mezzo loro, gli uomini si comprendono, le in-
telligenze si compenetrano. Esse hanno in sé una specie di forza, di
ascendente morale in virtù del quale si impongono agli spiriti parti-
colari. Da allora l’individuo si rende conto, almeno oscuramente,
che al di sopra delle sue rappresentazioni private esiste un mondo di
nozioni-tipo sulle quali deve regolare le proprie idee; egli intravede
un dominio intellettuale del quale fa parte, ma che lo trascende. Si
CONCLUSIONE 501

tratta di una prima intuizione del regno della verità. Senza dubbio, a
partire dal momento in cui ebbe così coscienza di questa più alta in-
tellettualità, egli si sforzò di scrutarne la natura; cercò di vedere da
dove queste rappresentazioni superiori traessero le loro prerogative
e, nella misura in cui credette di averne scoperto le cause, si sforzò
di mettere lui stesso in opera queste cause per ottenere, con le sue
forze, gli effetti che esse comportano; cioè si accordò il diritto di
formulare egli stesso concetti. Così, la facoltà concettuale si indivi-
dualizzò. Ma, per ben comprendere le origini della funzione, occor-
re riportarla alle condizioni sociali da cui essa dipende.
Si obietterà che noi mostriamo il concetto in uno solo dei suoi
aspetti, e che esso non ha unicamente il compito di assicurare l’ac-
cordo reciproco degli spiriti, ma anche, se non di più, quello di assi-
curare il loro accordo con la natura delle cose. Sembra che esso non
trovi compiutamente la sua ragion d’essere che a condizione di esse-
re vero, cioè oggettivo, e che la sua impersonalità sia solamente una
conseguenza della sua oggettività. È nelle cose, concepite quanto più
possibile adeguatamente, che gli spiriti dovrebbero comunicare. Noi
non neghiamo che l’evoluzione concettuale avvenga in parte in que-
sto senso. Il concetto che, in origine, è ritenuto vero perché è collet-
tivo tende a diventare collettivo soltanto a condizione di essere rite-
nuto vero: gli domandiamo i suoi titoli prima di accordargli la nostra
fiducia. Ma innanzitutto, non bisogna perdere di vista che oggi la
maggioranza dei concetti di cui ci serviamo non sono costruiti meto-
dicamente; noi li ricaviamo dal linguaggio, cioè dall’esperienza co-
mune, senza che siano stati sottoposti a alcuna critica preliminare. I
concetti scientificamente elaborati e criticati sono sempre in grande
minoranza. Inoltre, tra essi e quelli che derivano tutta la loro autorità
dal solo fatto di essere collettivi vi sono soltanto differenze di grado.
Una rappresentazione collettiva, per il solo fatto di essere collettiva,
presenta già garanzie di oggettività; perché non è senza ragione che
essa ha potuto generalizzarsi e conservarsi con una sufficiente persi-
stenza. Se fosse in disaccordo con la natura delle cose, non avrebbe
potuto conquistare un dominio esteso e prolungato sugli spiriti. In
fondo, ciò che costituisce la fiducia ispirata dai concetti scientifici è
che essi sono suscettibili di essere controllati metodicamente. Orbe-
ne, una rappresentazione collettiva è necessariamente soggetta a un
controllo indefinitamente ripetuto: gli uomini che vi aderiscono la
verificano con la loro personale esperienza. Essa non potrebbe per-
ciò essere del tutto inadeguata al suo oggetto. Può esprimerlo, senza
dubbio, con l’aiuto di simboli imperfetti; ma anche i simboli scienti-
502 ÉMILE DURKHEIM

fici sono sempre approssimativi. È precisamente questo principio


che si trova alla base del metodo da noi seguito nello studio dei feno-
meni religiosi: noi consideriamo come un assioma che le credenze re-
ligiose, per quanto strane possano essere talvolta in apparenza, han-
no una loro verità che occorre scoprire6.
Inversamente, anche i concetti costruiti in base a tutte le regole
della scienza sono ben lungi dal derivare la loro autorità unicamente
dal loro valore oggettivo. Non basta che siano veri per essere creduti.
Se non sono in armonia con le altre credenze, con le altre opinioni, in
una parola con l’insieme delle rappresentazioni collettive, verranno
negati; gli spiriti saranno loro chiusi; sarebbe, di conseguenza, come
se non esistessero. Se, oggi, basta in genere che portino il contrasse-
gno della scienza per incontrare una specie di credito privilegiato, è
perché noi abbiamo fede nella scienza. Ma questa fede non differisce
essenzialmente dalla fede religiosa. Il valore che noi attribuiamo alla
scienza dipende insomma dall’idea che ci facciamo collettivamente
della sua natura e della sua funzione nella vita; ciò vuol dire che esso
esprime uno stato d’opinione. E infatti, tutto nella vita sociale, anche
la scienza, si basa sull’opinione. Senza dubbio, si può assumere l’opi-
nione come oggetto di studio e farne la scienza; è in questo che consi-
ste principalmente la sociologia. Ma la scienza dell’opinione non pro-
duce l’opinione; non può che illustrarla e renderla più cosciente di sé.
In questa maniera, è vero, essa può indurla a mutare; ma la scienza
continua a dipendere dall’opinione anche nel momento in cui sembra
dettarle legge; perché, come abbiamo mostrato, è dall’opinione che
trae la forza necessaria per agire sull’opinione (cfr. supra, p. 266).
Dire che i concetti esprimono la maniera in cui la società si rappre-
senta le cose significa dire anche che il pensiero concettuale è coevo al-
l’umanità. Noi ci rifiutiamo quindi di considerarlo il prodotto di una
cultura più o meno tardiva. Un uomo che non pensasse mediante con-
cetti non sarebbe un uomo; perché non sarebbe un essere sociale. Ri-
dotto alle sole percezioni individuali, egli non sarebbe distinto dall’ani-
male. Se la tesi contraria ha potuto essere sostenuta, è perché il concet-
to è stato definito in base a caratteri che non gli sono essenziali. Lo si è
identificato con l’idea generale (Lévi-Bruhl 1910, pp. 131-138) e con
un’idea generale nettamente delimitata e circoscritta (p. 446). In que-
ste condizioni, è potuto sembrare che le società inferiori non conosca-

6
È perciò falso che una rappresentazione non abbia valore oggettivo per il fatto di
avere un’origine sociale.
CONCLUSIONE 503

no il concetto propriamente detto: infatti esse posseggono soltanto


procedimenti di generalizzazioni rudimentali, e le nozioni di cui si ser-
vono non sono generalmente definite. Ma la maggior parte dei nostri
concetti attuali hanno la stessa indeterminazione; noi ci sforziamo di
definirli soltanto nelle discussioni e quando facciamo opera di studiosi.
D’altra parte, abbiamo visto che concepire non significa generalizzare.
Pensare concettualmente non è soltanto isolare e raccogliere insieme i
caratteri comuni a un certo numero di oggetti; è collocare il variabile
sotto il permanente, l’individuale sotto il sociale. E poiché il pensiero
logico comincia con il concetto, ne consegue che esso è sempre esisti-
to; non c’è stato nessun periodo storico durante il quale gli uomini ab-
biano vissuto, in modo cronico, nella confusione e nella contraddizio-
ne. Certo, occorre insistere sui caratteri differenziati che la logica pre-
senta nei vari momenti storici; essa si sviluppa come le società stesse.
Ma per quanto reali siano le differenze, esse non devono far trascurare
le somiglianze che non sono meno essenziali.

IV

Possiamo ora affrontare un’ultima questione, già posta nell’Intro-


duzione (cfr. supra, pp. 68-69) e rimasta sottintesa in tutta questa
opera. Abbiamo visto che alcune, almeno, delle categorie, sono cose
sociali. Si tratta di sapere da dove provenga loro questo carattere.
Senza dubbio, dal momento che esse stesse sono concetti, si com-
prende facilmente che siano opera della collettività. Non esistono an-
zi concetti che presentino allo stesso grado i segni distintivi di una
rappresentazione collettiva. Infatti, la loro stabilità e la loro imperso-
nalità sono spesso ritenute assolutamente universali e immutabili.
D’altra parte, dato che esse esprimono le condizioni fondamentali
dell’intesa tra gli spiriti, appare evidente che non hanno potuto esse-
re elaborate che attraverso la società.
Ma, in ciò che le concerne, il problema è più complesso: esse so-
no sociali in un altro senso e per così dire in secondo grado. Non sol-
tanto derivano dalla società, ma le cose stesse che esprimono sono
sociali. Non soltanto la società le ha istituite, ma aspetti diversi del-
l’essere sociale rappresentano il loro contenuto: la categoria di gene-
re è stata all’inizio indistinta dal concetto di gruppo umano; è il rit-
mo della vita sociale che sta alla base della categoria del tempo; è lo
spazio occupato dalla società che ha fornito la materia della categoria
di spazio; è la forza collettiva che è stata il prototipo del concetto di
504 ÉMILE DURKHEIM

forza efficiente, elemento essenziale della categoria di causalità. Tut-


tavia, le categorie non sono fatte per essere applicate unicamente al
regno sociale; esse si estendono a tutta la realtà. Come mai i modelli
su cui sono state elaborate furono tratti dalla società?
Si tratta di concetti eminenti che giocano un ruolo preponderante
nella conoscenza. Le categorie hanno, infatti, la funzione di domina-
re e di abbracciare tutti gli altri concetti: esse costituiscono l’inqua-
dratura permanente della vita mentale. Orbene, perché possano ab-
bracciare un tale oggetto occorre che si siano formate sulla base di
una realtà egualmente ampia.
Senza dubbio, le relazioni che esse esprimono esistono, in maniera
implicita, nelle coscienze individuali. L’individuo vive nel tempo e pos-
siede, come si è detto, un certo senso dell’orientamento temporale.
Egli è collocato in un determinato punto dello spazio e si può sostene-
re, con buone ragioni, che tutte le sue sensazioni abbiano qualche ele-
mento spaziale (cfr. James 1890, vol. I, p. 134). Egli ha coscienza delle
somiglianze; in lui, le rappresentazioni similari si richiamano, si acco-
stano e la rappresentazione nuova, formata dal loro accostamento, ha
già qualche carattere generico. Abbiamo anche la sensazione di una
certa regolarità nell’ordine di successione dei fenomeni; anche l’anima-
le non ne è incapace. Tutte queste relazioni sono relazioni personali
dell’individuo che vi è impegnato e, di conseguenza, la nozione che ne
può acquisire non può, in nessun caso, estendersi al di là del suo ri-
stretto orizzonte. Le immagini generiche che si formano nella mia co-
scienza attraverso la fusione di immagini similari non rappresentano
altro che gli oggetti che ho percepito direttamente; in ciò non c’è nulla
che possa darmi l’idea di una classe, cioè di uno schema capace di
comprendere il gruppo totale di tutti gli oggetti possibili che soddisfa-
no alla medesima condizione. E anzi bisognerebbe possedere già pri-
ma l’idea di gruppo, che il solo spettacolo della nostra vita interiore
non basterebbe a risvegliare in noi. Ma soprattutto non c’è esperienza
individuale, per quanto estesa e prolungata, che possa farci sospettare
l’esistenza di un genere totale, capace di abbracciare l’universalità de-
gli esseri, e di cui gli altri generi sarebbero solamente specie coordina-
te tra loro o subordinate le une alle altre. Questa nozione del tutto, che
sta alla base delle classificazioni da noi riportate, non può venirci dal-
l’individuo, che non è altro egli stesso che una parte di fronte al tutto e
coglie soltanto una frazione minima della realtà. E tuttavia, non c’è
forse una categoria più essenziale: dato che la funzione delle categorie
è di riunire tutti gli altri concetti, la categoria per eccellenza sembra
appunto il concetto stesso di totalità. I teorici della conoscenza lo po-
CONCLUSIONE 505

stulano abitualmente come se esso sorgesse da sé, mentre esso supera


infinitamente il concetto di ogni coscienza individuale presa a parte.
Per le stesse ragioni, lo spazio che io conosco con i miei sensi, di
cui sono il centro e in cui tutto è disposto in rapporto a me non può
essere lo spazio totale, che contiene tutte le estensioni particolari, e
in cui, anzi, esse sono coordinate rispetto a punti di riferimento im-
personali, comuni a tutti gli individui. Anche la durata concreta che
io sento scorrere in me e insieme a me non può darmi l’idea del tem-
po totale: la prima non esprime che il ritmo della mia vita individua-
le; il secondo deve corrispondere al ritmo di una vita che non è quel-
la di alcun individuo particolare, ma è quella invece a cui tutti parte-
cipano7. Analogamente, infine, le regolarità che posso percepire nel
modo in cui le mie sensazioni si succedono possono ben avere valore
per me; esse spiegano come, essendomi dato l’antecedente di una
coppia di fenomeni di cui ho sperimentato la costanza, io tenda ad
aspettarmi il conseguente. Ma questo stato di attesa personale non
può essere confuso con la concezione di un ordine universale di suc-
cessione che si impone alla totalità degli spiriti e degli avvenimenti.
Poiché il mondo espresso dal sistema totale dei concetti è quello
che si rappresenta la società, soltanto la società può fornirci le nozioni
più generali secondo cui esso deve venir rappresentato. Soltanto un
soggetto che comprenda tutti i soggetti particolari è capace di abbrac-
ciare un tale oggetto. Poiché l’universo non esiste che in quanto è pen-
sato ed è pensato totalmente soltanto dalla società, esso prende posto
in questa; diventa un elemento della sua vita interiore, e così anch’essa
diviene il genere totale al di fuori del quale nulla esiste. Il concetto di
totalità non è che la forma astratta del concetto di società: essa è il tut-
to che comprende tutte le cose, la classe suprema che racchiude tutte
le altre classi. Questo è il principio profondo sul quale si fondano que-
ste classificazioni primitive in cui gli esseri di tutti i domini sono situa-
ti e classificati in quadri sociali allo stesso titolo degli uomini8. Ma se il
mondo è nella società, lo spazio che esso occupa si confonde con lo
spazio totale. Abbiamo visto, infatti, come ogni cosa abbia il suo posto
assegnato nello spazio sociale; quanto questo spazio totale sia diverso
dalle estensioni concrete percepite dai sensi è chiaramente mostrato
dal fatto che questa localizzazione è del tutto ideale e non assomiglia
affatto a quella che si avrebbe sulla semplice base dell’esperienza sensi-

7
Si parla spesso dello spazio e del tempo come se fossero soltanto l’estensione e la du-
rata concreta, quali può sentirle la coscienza individuale, ma impoverite dall’astrazione. In
realtà, essi sono rappresentazioni di tutt’altro genere, costruite con altri elementi, secondo
un piano molto differente, e in vista di fini anch’essi diversi.
506 ÉMILE DURKHEIM

bile (cfr. Durkheim, Mauss 1903, pp. 40 sgg.). Per la stessa ragione, il
ritmo della vita collettiva domina e abbraccia i ritmi diversi di tutte le
vite elementari da cui risulta; di conseguenza, il tempo che lo esprime
domina e comprende tutte le durate particolari. È il tempo totale. La
storia del mondo per lungo tempo non è stata altro che un aspetto del-
la storia della società. L’una comincia con l’altra; i periodi della prima
sono determinati dai periodi della seconda. Ciò che misura questa du-
rata impersonale e globale, ciò che fissa i punti di riferimento rispetto
ai quali essa è divisa e organizzata, sono i movimenti di concentrazione
o di dispersione della società; più in generale, sono le necessità perio-
diche di un rinnovamento collettivo. Se questi movimenti critici si con-
nettono spesso a qualche fenomeno materiale, per esempio alla ricor-
renza regolare di un determinato astro o all’alternarsi delle stagioni, è
perché sono necessari segni oggettivi che rendano percepibile a tutti
questa organizzazione essenzialmente sociale. Analogamente, infine, la
relazione causale, dal momento in cui è posta collettivamente dal grup-
po, risulta indipendente da ogni coscienza individuale; essa aleggia al
di sopra di tutti gli spiriti e di tutti gli avvenimenti particolari. È una
legge di un valore impersonale. Abbiamo mostrato che è appunto così
che pare che essa sia sorta.
Un’altra ragione spiega come gli elementi costitutivi delle categorie
abbiano dovuto essere tratti dalla vita sociale: il fatto che le relazioni
che esse esprimono non potevano diventare coscienti che nella e in
virtù della società. Se, in un certo senso, esse sono immanenti alla vita
dell’individuo, questi non aveva nessun motivo e nessun mezzo di im-
pararle, di rifletterle, di esplicitarle e di erigerle in nozioni distinte. Per
orientarsi personalmente nello spazio, per sapere in quali momenti de-
ve soddisfare le diverse necessità dell’organismo, egli non aveva alcun
bisogno di farsi, una volta per tutte, una rappresentazione concettuale
del tempo o dello spazio. Molti animali sanno ritrovare il cammino che
li conduce ai luoghi loro familiari; essi vi ritornano al momento oppor-
tuno, senza tuttavia possedere alcuna categoria; le sensazioni bastano a
dirigerli automaticamente. Esse basterebbero anche all’uomo se i suoi
movimenti dovessero soddisfare soltanto a bisogni individuali. Per ri-
conoscere che una cosa somiglia a altre di cui abbiamo già esperienza,
non è affatto necessario collocare le une e le altre in generi e in specie:
la maniera in cui le immagini simili si attirano e si fondono basta a da-
re il senso della somiglianza. L’impressione del già visto, del già prova-

8
In fondo, i concetti di totalità, di società, di divinità, sono probabilmente aspetti di-
versi di un’unica nozione.
CONCLUSIONE 507

to, non implica alcuna classificazione. Per distinguere le cose che dob-
biamo ricercare da quelle che dobbiamo fuggire, dobbiamo soltanto
riportare gli effetti delle une e della altre alle loro cause mediante un
legame logico, allorché sono in gioco soltanto convenienze individuali.
Le sequenze puramente empiriche, le forti connessioni tra rappresen-
tazioni concrete sono, per la volontà, delle guide altrettanto sicure.
Non solo l’animale non ne ha altre, ma molto spesso la nostra persona-
le esperienza non presuppone nulla di più. L’uomo esperto è quello
che ha, di ciò che bisogna fare, una sensazione molto precisa, ma che
sarebbe, il più delle volte, incapace di tradurla in legge.
Le cose stanno diversamente per la società. Essa non è possibile che
se gli individui e le cose che la compongono sono ripartiti in diversi
gruppi, cioè classificati, e se questi gruppi sono anch’essi classificati gli
uni rispetto agli altri. La società presuppone quindi un’organizzazione
cosciente di sé che non è altro che una classificazione. Questa organiz-
zazione della società si comunica naturalmente allo spazio che occupa.
Per prevenire ogni urto, occorre che, a ogni gruppo particolare, sia ri-
servata una determinata parte dello spazio: in altri termini, occorre che
lo spazio totale sia diviso, differenziato, orientato, e che queste divisioni
e questi orientamenti siano conosciuti da tutti. D’altra parte, ogni con-
vocazione a una festa, a una caccia, a una spedizione militare implica
che le date siano fissate, convenute e, di conseguenza, che un tempo co-
mune sia stabilito e che tutti lo concepiscano allo stesso modo. Infine, il
concorso di parecchi in vista di uno scopo comune non è possibile che
se ci si accorda sul rapporto che esiste tra questo scopo e i mezzi che
permettono di conseguirlo, cioè se da parte di tutti coloro che coopera-
no alla stessa impresa viene ammessa un’unica relazione causale. Non
c’è quindi da stupirsi che il tempo sociale, le classi sociali, la causalità
collettiva siano alla base delle categorie corrispondenti, in quanto è sot-
to le loro forme sociali che le diverse relazioni sono state per la prima
volta intuite con una certa chiarezza dalla coscienza umana.
Riassumendo, la società non è affatto l’essere illogico o alogico, in-
coerente e fantastico che ci si compiace troppo spesso di vedere in essa.
Al contrario, la coscienza collettiva è la forma più alta della vita psichi-
ca, poiché è una coscienza di coscienze. Collocata al di fuori e al di so-
pra delle contingenze individuali e locali, essa considera le cose nel loro
aspetto permanente e essenziale che fissa in nozioni comunicabili. Ve-
dendo dall’alto, essa vede lontano; a ogni istante di tempo essa abbrac-
cia tutta la realtà conosciuta; è per questo che essa sola può fornire allo
spirito schemi che si applichino alla totalità degli esseri e che permetta-
no di pensarli. Questi schemi non sono creati artificialmente; essa li tro-
508 ÉMILE DURKHEIM

va in sé e non fa che prenderne coscienza. Essi traducono modi di esse-


re che si incontrano in tutti i gradi del reale, ma che appaiono in piena
luce soltanto al vertice, poiché l’estrema complessità della vita psichica
che vi si svolge richiede un maggiore sviluppo della coscienza. Attribui-
re al pensiero logico origini sociali non vuol dire quindi abbassarlo, di-
minuirne il valore, ridurlo a un semplice sistema di combinazioni artifi-
ciali; significa, al contrario, riferirlo a una causa che lo implica natural-
mente. Ciò non vuol dire certamente che nozioni elaborate in questo
modo possano risultare immediatamente adeguate ai loro oggetti. Se la
società è qualcosa di universale rispetto all’individuo, essa non cessa
però di essere anche un’individualità che ha la propria fisionomia per-
sonale e la propria idiosincrasia; è un soggetto particolare e che, di con-
seguenza, particolarizza ciò che pensa. Le rappresentazioni collettive
contengono dunque, anch’esse, elementi soggettivi ed è necessario che
siano progressivamente epurate per essere più vicine alle cose. Ma, per
quanto grossolane possano essere in origine, rimane però il fatto che
rappresentano il germe di una nuova mentalità a cui l’individuo non
avrebbe mai potuto elevarsi con le sue sole forze: da quel momento, era
aperta la via al pensiero stabile, impersonale e organizzato che doveva
in seguito soltanto sviluppare la propria natura.
D’altra parte, le cause che hanno determinato questo sviluppo sem-
brano non differire in modo specifico da quelle che ne hanno suscitato
il germe iniziale. Se il pensiero logico tende sempre più a sbarazzarsi
degli elementi soggettivi e personali che si trascina ancora dietro alla
sua origine, non è perché siano intervenuti fattori extra-sociali; è piutto-
sto perché si è progressivamente sviluppata una vita sociale di nuovo
genere. Si tratta di una vita internazionale che ha l’effetto di universaliz-
zare le credenze religiose. Man mano che essa si estende, l’orizzonte
collettivo si allarga; la società cessa di apparire come il tutto per eccel-
lenza, per diventare la parte di una totalità molto più vasta, con frontie-
re indeterminate e suscettibili di estendersi indefinitamente. Perciò, le
cose non possono più essere contenute negli schemi sociali in cui erano
classificate in origine; esse richiedono di venire organizzate secondo
principi che siano loro propri e, così, l’organizzazione logica si differen-
zia dall’organizzazione sociale e diventa autonoma. Ecco, si direbbe,
come il vincolo che univa inizialmente il pensiero a determinate indivi-
dualità collettive va sempre più distaccandosene; ecco come, di conse-
guenza, esso diventa sempre più impersonale e si universalizza. Il pen-
siero veramente e propriamente umano non è un dato primitivo; è un
prodotto della storia; è un limite ideale al quale ci avviciniamo sempre
più, ma che, con tutta probabilità, non arriveremo mai a raggiungere.
CONCLUSIONE 509

Così, anziché esserci tra la scienza da un lato, e la morale e la reli-


gione dall’altro, quella specie di antinomia che si è tanto spesso am-
messa, questi diversi modi dell’attività umana derivano, in realtà, da
un’unica fonte. È quel che aveva ben compreso Kant, il quale aveva
perciò postulato la ragione speculativa e la ragione pratica come due
aspetti differenti della medesima facoltà. Ciò che, secondo lui, fa la
loro unità è il fatto che esse sono entrambe orientate verso l’universa-
le. Pensare razionalmente significa pensare secondo leggi che si im-
pongono all’universalità degli esseri ragionevoli; agire moralmente si-
gnifica condursi secondo massime che possono, senza contraddizioni,
essere estese a tutte le volontà. In altri termini, la scienza e la morale
implicano che l’individuo sia capace di elevarsi al di sopra del proprio
punto di vista e di vivere una vita impersonale. E non c’è dubbio, in-
fatti, che questo sia un carattere comune a tutte le forme superiori del
pensiero e dell’azione. Tuttavia, ciò che il kantismo non spiega è inve-
ce l’origine di questa contraddizione che l’uomo viene così a realizza-
re. Perché egli è costretto a farsi violenza per trascendere la propria
natura di individuo, e inversamente, perché la legge impersonale è
obbligata a scendere e a incarnarsi negli individui? Si dirà forse che
esistono due mondi antagonisti di cui noi partecipiamo egualmente: il
mondo della materia e dei sensi da una parte, il mondo della ragione
pura e impersonale dall’altra? Ma questa risposta non fa che ripro-
porre la questione in termini appena diversi; infatti, si tratta di sapere
precisamente perché dobbiamo vivere contemporaneamente queste
due esistenze. Perché questi due mondi, che sembrano contraddirsi,
non restano estranei l’uno all’altro e che cosa li obbliga a compene-
trarsi reciprocamente a dispetto del loro antagonismo? La sola spiega-
zione che sia mai stata data di questa singolare necessità è l’ipotesi
della caduta, con tutte le difficoltà che essa implica e che è inutile ri-
cordare in questa sede. Al contrario, ogni mistero scompare dal mo-
mento in cui si riconosce che la ragione impersonale non è che un al-
tro nome dato al pensiero collettivo. Infatti questo non è possibile che
in virtù del raccogliersi in gruppi degli individui; esso quindi li pre-
suppone e, a loro volta, essi lo presuppongono perché non possono
conservarsi che riunendosi. Il regno dei fini e delle verità impersonali
può realizzarsi soltanto con il concorso delle volontà e delle sensibilità
particolari, e le ragioni per cui queste vi partecipano sono le stesse per
cui esse concorrono. In una parola, c’è qualcosa di impersonale in noi
perché in noi c’è qualcosa di sociale e, dato che la vita sociale com-
prende a un tempo rappresentazioni e pratiche, questa impersonalità
si estende naturalmente alle idee come agli atti.
510 ÉMILE DURKHEIM

Ci si meraviglierà forse di vederci riferire alla società le forme più


elevate della mentalità umana: la causa sembra molto umile, di fronte al
valore che attribuiamo all’effetto. Tra il mondo dei sensi e degli appetiti
da un lato, e quello della ragione e della morale dall’altro, la distanza è
così considerevole che il secondo sembra non abbia potuto sovrapporsi
al primo che in virtù di un atto creativo. Ma attribuire alla società que-
sta importanza preponderante non vuol dire negare questa creazione;
perché la società dispone appunto di una potenza creatrice che nessun
essere osservabile può eguagliare. Ogni creazione, infatti, a meno di non
essere un’operazione mistica che sfugge alla scienza e all’intelligenza, è il
prodotto di una sintesi. Orbene, se le sintesi delle rappresentazioni par-
ticolari che si producono in seno a ogni coscienza individuale sono già,
da sole, produttrici di novità, quanto più efficaci saranno queste vaste
sintesi di coscienze complete che sono le società! Una società è il più
fiorente fascio di forze fisiche e morali di cui la natura ci offra lo spetta-
colo. In nessun luogo si trova una tale ricchezza di materiali diversi,
portati a un simile grado di concentrazione. Non è quindi sorprendente
che ne scaturisca una vita più alta, la quale, reagendo sugli elementi da
cui risulta, li eleva a una forma superiore d’esistenza e li trasforma.
Perciò, la sociologia sembra chiamata ad aprire una nuova via alla
scienza dell’uomo. Finora, si era di fronte a questa alternativa: o spie-
gare le facoltà superiori e specifiche dell’uomo riconducendole alle
forme inferiori dell’interesse, la ragione ai sensi, lo spirito alla materia,
il che voleva dire negare la loro specificità; oppure collegarli a qualche
realtà sovra-sperimentale che veniva postulata, ma di cui nessuna os-
servazione può stabilire l’esistenza. Ciò che metteva in imbarazzo lo
spirito è che l’individuo era ritenuto finis naturae: sembrava che al di
là non vi fosse nulla, o almeno nulla che la scienza potesse cogliere. Ma
dal momento in cui si è riconosciuto che al di sopra dell’individuo vi è
la società, e che questa non è un essere nominale e razionale, ma un si-
stema di forze operanti, diventa possibile un nuovo modo di spiegare
l’uomo. Per conservare i suoi attributi distintivi non è più necessario
collocarli al di fuori dell’esperienza. O almeno, prima di giungere a
questo caso estremo, conviene ricercare se ciò che, nell’individuo, tra-
scende l’individuo non provenga da questa realtà super-individuale,
ma data nell’esperienza, che è la società. Certamente, non si potrebbe
dire fin d’ora dove possano spingerci queste spiegazioni, e se esse sia-
no in grado di eliminare tutti i problemi. Ma è altrettanto impossibile
indicare in anticipo un limite che esse non potrebbero superare. Oc-
corre perciò mettere alla prova l’ipotesi e sottoporla metodicamente al
controllo dei fatti. Si tratta di ciò che abbiamo cercato di realizzare.
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lia, a cura di J. D. Woods, Adelaide, E. S. Wiggs and Son.

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