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Il sogno di Marina

In punta di piedi, senza far rumore, Marina s’era accostata alla finestra e osservava i raggi del
primo sole mattutino filtrare dalla persiana semichiusa, andando a formare una lama di luce che,
dopo aver rischiarato il pavimento in parquet della stanza, colpiva in pieno il suo cuscino.

Se ne stava così, con la testa adagiata su un braccio, lo sguardo che vagava pigro fra l’elegante
armadio in mogano e gli arabeschi della carta da parati, cercando di rannodare il filo dei suoi
pensieri.

Intanto, ascoltava il lento e regolare respiro del suo amante clandestino, ancora profondamente
addormentato, e seguiva il ritmico alzarsi e abbassarsi della sua schiena nuda.

Era giovane, Marina.

Il selvaggio ardore della vita pulsava in lei, irradiandosi dallo sguardo duro e luminoso degli
occhi neri, dalla liscia pelle d’avorio e dalle dolci curve generose ch’essa disegnava attorno al
suo corpo, dalle labbra rosse e piene, leggermente schiuse.

Era felice, Marina. Molto felice. Eppure...

Gettò una rapida occhiata fuori dalla stanza, lasciandosi abbagliare dalla luce rosso-arancio del
sole ancora basso sull’orizzonte. La strada sotto di lei era addormentata, deserta.

Un fruscio lontano; un’auto solitaria di passaggio, diretta chis sà dove. Magari qualcuno, là
dentro, raggiungeva la sua felicità in un altro nido, caldo e accogliente come il suo, in cui un
altro amore l’aspettava.

Che cos’era quella strana sensazione?

Malgrado fosse tutto così bello, non riusciva a fare a meno di riandare con la mente a ricordi
lontani. Riviveva la sua prima infanzia: il sorriso della nonna che lavorava a maglia; quello di
suo padre che le teneva il manubrio mentre cercava di reggersi in equilibrio sulla bicicletta;
quello della sua amichetta del cuore, Amelia, mentre faceva la conta per decidere chi delle due
dovesse nascondersi al prossimo giro.

E poi la scuola: la maestra severa, inquietante, con quel velo nero sulla testa; la penna e il
calamaio sul banco, con l’abbecedario aperto accanto; il gesso sulla lavagna a tracciare numeri,
mentre cercava di imparare le addizioni.

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E poi il dolore: quelle esplosioni fortissime, assordanti; l’allarme che suonava; il rumore degli
aeroplani nel cielo e della mitraglia; la radio che annunciava ogni giorno i bollettini di guerra.

Marina si allontanò dalla finestra, a passi lenti e leggeri per evitare di far rumore. Con molta
cautela scostò il lenzuolo, si sedette e poi si distese su un fianco, lo sguardo rivolto verso di lui,
verso quel corpo giovane e forte che tanto amava.

L’aveva conosciuto alla fine della guerra, quand’era ancora una ragazzina di quindici anni.

Lui ne aveva solo due di più: per questo suo padre non voleva che lo sposasse.

Quante storie! Ti ci vuole un uomo vero, le diceva, uno con un bel lavoro, che abbia una casa,
che ti possa garantire un futuro roseo, una famiglia felice e prospera…

Un grugnito e un movimento improvviso del braccio.

No: era ancora addormentato.

E pensare che al suo posto avrebbe dovuto sposare quel vecchio orso di Gianni, più anziano di
lei di tredici anni, con la fronte spaziosa e le mani sudaticce, due spessi occhiali da miope e un
carattere intrattabile.

Non scambiava mai una parola con nessuno.

Non l’aveva mai visto sorridere.

Ma lei si era rifiutata, aveva fatto fuoco e fiamme, tirando avanti per ben cinque anni e, quando
sembrava che non potesse più evitare di diventare la moglie di un uomo che non amava, aveva
deciso di fuggire con lui, lui che aveva amato fin dal primo sguardo, lui che, nel frattempo, si era
anche trovato un lavoro, seppur non redditizio come quello di Gianni.

Ha senso, pensava Marina, continuare a rimuginare sul passato con tanta insistenza per una
donna della mia età?

È normale che i ricordi dell’infanzia siano così vividi, così precisi, come se risalissero al mese
scorso?

Ecco che cosa c’era che non andava; ecco che cos’era quella strana sensazione…

I suoi muscoli si contrassero.

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Le spalle e le braccia si stirarono. Con un profondo sospiro, il ragazzo si girò di fianco e sorrise
alla bellissima donna che gli giaceva accanto.

Lei distese le labbra rosse e provocanti, lasciando scoperto il bianco dei denti perfetti.

Eppure, i suoi occhi scuri e seducenti mandavano una luce enigmatica: lasciavano intravedere
pensieri che si perdevano lontano nello spazio e nel tempo.

«Che cos’hai, amore?» le chiese lui, cogliendo la stranezza del suo sguardo.

«C’è qualcosa che non va?».

Marina non rispose subito. Si morse il labbro inferiore, indecisa se dire o non dire, che cosa dire
e come dirlo.

«Lo sai che con me puoi sempre confidarti, vero?» incalzò lui.

«Di qualunque cosa si tratti».

E alla fine lei si decise: non poteva tenergli nascosto ciò che aveva nel cuore.

Si fidava di lui più che di ogni altra persona al mondo.

Esitò ancora un momento, cercando le parole giuste.

«Certe volte ho una strana sensazione» fece poi.

«Mi sembra che ciò che sto vivendo adesso non sia reale».

Lui aggrottò le sopracciglia.

«Non capisco che cosa vuoi dire. Spiegati meglio».

«I ricordi del mio passato riaffiorano continuamente. Sono vividi come se li avessi vissuti pochi
giorni fa. Anzi, a volte mi sembra quasi di riviverli di nuovo. È una cosa così strana! E poi…»

Ma si bloccò, indecisa.

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«Va’ avanti, dai» la esortò lui, che era tutto concentrato sulle sue parole.

«Beh, certe volte… lo so che sembra assurdo, ma certe volte ho l’impressione di aver già vissuto,
in un passato lontano, tutti i momenti che sto vivendo ora».

«Hai dei déjà vu?»

«No, non proprio. È difficile da spiegare. È come se, anziché vivere davvero la mia vita di tutti
i giorni, io la stessi semplicemente ricordando e mi stessi solo illudendo di viverla adesso per la
prima volta».

Lui restò con le sopracciglia aggrottate, concentrato nello sforzo di decifrare le parole della sua
donna, così oscure, così difficili da comprendere.

Poi, arresosi, scosse la testa e la guardò divertito.

«Forse non riuscirò mai a capire che cosa vuoi dire» ammise. «Per me, c’è solo una cosa che
conta».

«Che cosa?» chiese Marina.

«Questo» rispose lui, scivolandole più vicino e cingendole dolcemente la vita con un braccio.

Lei sorrise, felice di quel gesto, e cacciò via dalla mente tutti i pensieri strani e contorti che
l’assillavano.

Si sentiva amata, protetta e coccolata; dopo un po’ chiuse gli occhi e, con quel peso caldo e
rassicurante sul grembo, si addormentò.

Quando Marina riaprì gli occhi, non avvertiva più il contatto di quel braccio sulla pelle: il suo
amante era scomparso e lei giaceva sola nel letto freddo.

Si sentiva stranamente debole e pesante.

Guardandosi intorno, vide che l’arredamento era piuttosto diverso da come lo ricordava: sul
pavimento non c’era più il legno del parquet, ma una dura moquette verdastra; le pareti non erano
più ricoperte dagli arabeschi della carta da parati, ma bianche e asettiche; l’armadio in mogano,
con tutte le sue belle decorazioni e le sue linee morbide, era sparito; al suo posto, un armadio più
piccolo, squadrato, bianco come le pareti, del tutto impersonale.

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Dev’essere un brutto sogno, pensò Marina, solo un brutto sogno.

Ora chiudo gli occhi per qualche istante e, quando li riaprirò, sarò di nuovo nella bella camera
in cui mi sono addormentata poco fa, accanto all’uomo che amo, sfiorata dalla luce del sole
mattutino.

Così pensò Marina, e così fece.

Ma per quanto provasse e riprovasse, per quante volte chiudesse gli occhi e si concentrasse, si
ritrovava sempre in quella stanza triste e solitaria.

Poi, d’improvviso, una porta si aprì alla sua destra.

Entrò una donna magra, dai riccioli castani, tenendo per mano un uomo alto con un paio
d’occhiali e un vestito elegante.

A un breve cenno del loro capo, dalla stessa porta spuntarono tre faccine vispe ed eccitate.

Erano tre graziosissimi ragazzini: due maschietti e una femminuccia.

Marina non poté fare a meno di sorridere ai loro adorabili visetti.

Eppure, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare chi fossero quelle persone.

Dopo qualche minuto, la porta si aprì di nuovo ed entrò un uomo basso e corpulento, dalla
calvizie incipiente, accanto a una signora bionda e raffinata; li seguivano un giovanotto tarchiato
e una ragazza adolescente, con gli occhi bassi e timidi.

Confusa e spaesata, Marina stette per un po’ a osservare lapiccola folla sorridente che si era
radunata nella sua stanza.

Da come si comportavano, pareva che la conoscessero, ma lei, pur sforzandosi, non riusciva a
riconoscere nessuno.

Poi, di colpo, si rese conto che la donna riccia aveva i suoi stessi occhi scuri, mentre l’uomo sulla
destra, quello basso e un po’ calvo, aveva la forma del naso identica alla sua.

E i capelli neri e lisci della ragazza adolescente, non erano forse tali e quali ai suoi? e le piccole
orecchie del giovanotto tarchiato? sembrava che qualcuno le avesse staccate dalla sua testa per
poi incollarle ai lati di quella faccia tonda!

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Così, facendo più attenzione, si ritrovò a fissare le sue labbra carnose, come riflesse in uno
specchio, sul volto della bambina che si stringeva all’uomo alto dal vestito elegante, mentre gli
altri due ragazzini, che la osservavano incuriositi, avevano il suo stesso taglio di sopracciglia.

«Come stai, nonna?» chiese a un certo punto la ragazza timida, avvicinandosi a lei, dopo aver
finalmente sollevato gli occhi e smesso di fissare il pavimento.

Marina cercò di risponderle che stava bene, ma si rese conto che le parole non le uscivano di
bocca: era troppo debole.

Allora, si limitò a sorridere.

La ragazza le sorrise radiosa in risposta e le afferrò una mano, con affetto.

Incoraggiati da quel successo, tutti gli altri cominciarono ad agitare le mani in segno di saluto.
Lei, con enorme fatica, sollevò il braccio libero e scosse leggermente la mano a sua volta: vide
che era magra, venosa, tutta ricoperta di croste e di lividi violacei.

Era felice, Marina. Molto felice.

Ma era anche tanto stanca.

Lasciò ricadere il gomito sul materasso e vide svanire attorno a sé la stanza e la piccola folla che
la circondava: era tornata nella sua bella camera dalle pareti arabescate, col pavimento in parquet
e l’armadio in mogano; ora avvertiva di nuovo, sulla pelle, il dolce e familiare contatto col
braccio del suo uomo, che le cingeva la vita.

Si sentiva amata, protetta e coccolata; dopo un po’ chiuse gli occhi e, con quel peso caldo e
rassicurante sul grembo, si addormentò.

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