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Edoardo Massimilla

INTORNO A WEBER
Scienza, vita e valori
nella polemica su Wissenschaft als Beruf

L I G U O R I E D I T O R E
La Cultura Storica 13
Collana di testi e studi
diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore

Segreteria di redazione
Domenico Conte e Edoardo Massimilla
Edoardo Massimilla

INTORNO A WEBER
Scienza, vita e valori
nella polemica su «Wissenschaft als Beruf»

ISSN 1972-0688

Liguori Editore
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© 2000 by Liguori Editore, S.r.l.


Tutti i diritti sono riservati
Prima edizione italiana Ottobre 2000

Massimilla, Edoardo:
Intorno a Weber. Scienza, vita e valori nella politica su «Wissenschaft als Beruf»/Edoardo Massimilla
La cultura storica
Napoli : Liguori, 2000

ISBN 978 - 88 - 207 - 3189 - 2 (a stampa)


eISBN 978 - 88 - 207 - 6439 - 5 (eBook)

ISSN 1972-0688

1. Razionalizzazione 2. Disincantamento I. Titolo II. Collana III. Serie

Aggiornamenti:
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INDICE

IX Introduzione

1 Capitolo primo
Scienze della cultura e fenomenologia dei valori: la posizione
di Ernst Robert Curtius

21 Capitolo secondo
Sull’utilità e sul danno della «vecchia» e della «nuova scienza»
per la vita: Erich von Kahler contro Max Weber

77 Capitolo terzo
L’oggettivazione scientifica e il fondamento storico-sociale
dell’Erleben: Arthur Salz in difesa di Max Weber

125 Capitolo quarto


Rivoluzione della scienza e rivoluzione conservatrice: la
posizione di Ernst Krieck

175 Capitolo quinto


Avalutatività, valutazione e filosofia dei valori: Jonas Cohn
critico di Max Weber

219 Elenco delle abbreviazioni

221 Indice dei nomi


INTRODUZIONE

Nell’importante saggio Max Weber und Karl Marx, apparso nel 1932 sul
volume sessantasettesimo dell’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpo-
litik», Karl Löwith formula una lucida critica ante litteram delle molte
interpretazioni novecentesche del pensiero di Weber in vario modo fon-
date su una considerazione autonoma e/o su una valorizzazione autonoma
1
dei suoi contributi alla metodologia delle scienze storico-sociali . Löwith
afferma infatti che «la tendenza alla costruzione e il carattere “nominali-
stico” dei fondamentali concetti metodologici di Weber e di tutta la sua
forma di scientificità non sorgono da un’esigenza immediata della scienza
in quanto tale (...) ma sono anch’essi espressione conseguente di una ben
determinata posizione dell’uomo di fronte alla realtà»2. Tale posizione è
quella propria del «moderno “essere nel mondo”» giunto al suo compimento
la cui «peculiarità storica» è rappresentata per Weber dalla vorticosa accele-
razione e dal successo universale del millenario processo di razionalizza-
zione e disincantamento del mondo, di cui la scienza stessa, nella sua

1
All’origine della fortuna di questo genere di letture del pensiero di Weber v’è, come è
noto, non solo la parte terza della celebre opera di Talcott Parsons The Structure of Social
Action, New York, 1937 (seconda edizione, Glencoe, 1949; tr. it. La struttura dell’azione
sociale, a cura di M. A. Giannotta, Bologna, 1987), ma anche il notevolissimo scritto di
Alexander von Schelting Max Webers Wissenschaftslehre, Tübingen, 1934, i cui contenuti
sono parzialmente anticipati nel saggio Die logische Theorie der historischen Kulturwissenschaft
von Max Weber und im besonderen sein Begriff des Idealtypus (in «Archiv für Sozialwissenschaft
und Sozialpolitik», 49, 1922, pp. 623 sgg.).
2
K. Löwith, Max Weber und Karl Marx (1932), in Id., Sa¨mtliche Schriften, vol. V, Stuttgart,
1988, pp. 324-407, p. 344; tr. it. Max Weber e Karl Marx, a cura di A. Künkler-Giavotto, in
Id., Marx, Weber, Schmitt, Roma – Bari, 1994, pp. 1-90, pp. 24-25. Löwith adopera il
medesimo schema argomentativo contro le posizioni antiweberiane di Scheler e della sua
scuola, sostenendo che i concetti metodologici di Weber «non possono neppure essere
confutati movendo da i “fenomeni” (...) poiché in tal caso si presupporrebbe che i fenomeni
siano accessibili solo attraverso un logos» (ibidem).
x INTORNO A WEBER

3
attuale configurazione, è nel contempo un portato e un veicolo . «La
“costruzione” tipico-ideale – continua infatti Löwith – presuppone un
uomo specificamente “senza illusioni”, che, trovandosi in un mondo dive-
nuto oggettivamente privo di senso, disincantato, e perciò spiccatamente
“realistico”, viene rigettato su se stesso ed è dunque obbligato a ristabilire
da solo il senso e la connessione delle cose, a ristabilire il rapporto con la
realtà come “suo”, e “a creare” il senso sul piano pratico e su quello
teoretico»4.
Löwith è convinto che una simile caratterizzazione di fondo della
«problematica del mondo umano moderno» – nella quale egli individua
quella «totalità» che tanto Marx quanto Weber «hanno dapprima visto nel
suo significato per farla poi oggetto delle loro indagini»5 – derivi da una
profonda assimilazione da parte di Weber dell’annuncio nietzscheano della
“morte di Dio”6. Proprio in tal senso Löwith riconduce «la spregiudicatezza
scientifica di Weber» al «non-essere-più-prevenuto da pregiudizi (...) “tra-
scendenti” nel senso più ampio, trascendenti la prosaica quotidianità di un
mondo disincantato»7. A questo genere di pregiudizi va ascritta «anche la
fede – condivisa dal marxismo – nello “sviluppo” e nel “progresso” oggetti-
vi», la cui «necessità (...) si fa sentire soltanto “quando nasce il bisogno di
attribuire un ‘senso’ mondano [diesseitigen] e tuttavia oggettivo al corso,
divenuto privo di significato religioso, del destino dell’umanità”»8. Per
Weber infatti questo bisogno di “continuare ad additare l’ombra di Dio”
anche dopo la morte di Dio9 non è altro che «un’inconseguenza nei rispetti
della mondanità [Diesseitigkeit]», la quale tradisce una mancata accettazione
del fatto che «la “realtà” si manifesta ora alla “luce” della mondanità» e che

3
Cfr. ivi, p. 343 in nota; tr. it. cit., p. 24 in nota.
4
Ivi, p. 344; tr. it. cit., p. 25.
5
Ivi, p. 407; tr. it. cit., p. 90.
6
Cfr. ivi, pp. 335, 358 e 359-360 in nota; tr. it. cit., pp. 16, 40 e 41 in nota. Per un’analoga
interpretazione del rapporto di Weber con Nietzsche si veda F. Tessitore, Introduzione a Lo
storicismo, Roma – Bari, 1991, pp. 200-201: «Pur al di qua di assai probabili o addirittura certe
incidenze di Nietzsche su di lui, è indubbio che Weber ricavi tutte le logiche conseguenze
dalla crisi in cui Nietzsche aveva gettato il concetto di verità oggettiva sostituendovi la
ricerca del significato della vita tra le infinite “interpretazioni” (e non “fatti”) che possono
darsi del mondo, del quale non si dà uno ma innumerevoli sensi».
7
K. Löwith, Max Weber und Karl Marx, cit., p. 345; tr. it. cit., p. 26.
8
Ibidem. Il passo di Weber citato da Löwith è tratto dalla prima parte del saggio su
Roscher e Knies. Il corsivo è di Löwith.
9
Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza (1882), tr. it. a cura di F. Masini, Milano, 1978, pp. 114
sg., aforismi 108 (Nuove battaglie) e 109 (Stiamo all’erta).
INTRODUZIONE xi

dunque «l’interpretazione di questo mondo [Welt] divenuto prosaico deve


anzitutto orientarsi secondo il processo di razionalizzazione attraverso il
10
quale il mondo è divenuto disincantato e privo di illusioni» . Una posizione
cosı̀ radicale – che, a ben guardare, è già contenuta in nuce nella caratteriz-
zazione del mondo umano moderno mediante la nozione di «razionalizza-
zione» e non già mediante quella marxiana di «autoalienazione» – rappre-
senta secondo Löwith il nucleo originario della critica di Weber alla
concezione materialistica della storia11 e, nel contempo, il presupposto del
suo peculiarissimo «individualismo»12 al quale egli perviene «accettando (...)
in forma definitiva la produttività della contraddizione» fra il mondo disin-
cantato e burocratizzato e la «libera responsabilità personale» che solo in
un mondo siffatto trova «la sua necessaria controparte»13.
A detta dello stesso Löwith questa Grundposition – per la quale Weber,
al pari di Marx, può essere ritenuto a tutti gli effetti un filosofo «sebbene in
un senso insolito ed eccezionale»14 – è espressa con particolare chiarezza e

10
K. Löwith, Max Weber und Karl Marx, cit., pp. 345-346; tr. it. cit., pp. 26-27.
11
Cfr. ivi, pp. 400 sgg.; tr. it. cit., pp. 83 sgg.
12
Ivi, p. 365; tr. it. cit., p. 46.
13
Cfr. ivi, pp. 364-366; tr. it. cit., pp. 46-47: «l’elemento positivo della mancanza di una
fede in qualcosa che trascenda il destino del tempo e l’esigenza del giorno – una fede in
valori, significati e validità oggettivamente esistenti – tale elemento positivo non è che la
soggettività della responsabilità razionale, in quanto mera responsabilità personale dell’indivi-
duo di fronte a se stesso (...). L’atteggiamento fondamentale assunto da Weber in questo
mondo razionalizzato, e che determina anche la sua “metodologia”, è quello dell’individuo
che agisce su responsabilità propria, che si regge su di sé senza un sostegno oggettivo (...). Il
presupposto di tale posizione è però proprio quel mondo di “canoni”, istituzioni, organizza-
zioni e garanzie alle quali l’individuo si oppone. La posizione di Weber è in se stessa
essenzialmente opposizione, il suo avversario è la sua necessaria controparte (...). “Democrazia
di dirigenti che si serve della ‘macchina’” in antitesi a una democrazia senza dirigenti, ma in
antitesi anche ad una classe dirigente che non ha nulla da dirigere in quanto si sottrae alla
“macchina” – questa è la crassa formula politica che compendia il movimento di principio
compiuto da Weber all’interno della contraddizione. Accettando cosı̀ in forma definitiva la
produttività della contraddizione, Weber si trova in una posizione diametralmente opposta a
quella di Marx, il quale in ciò rimane (...) un hegeliano, poiché voleva in linea di principio
superare le “contraddizioni” della società borghese, seppure non come Hegel, cioè conser-
vandole nell’organizzazione assoluta dello Stato, bensı̀ eliminandole completamente in una
società divenuta assolutamente priva di antitesi. Al contrario la contraddizione sempre di
nuovo risolta del riconoscimento di un mondo razionalizzato nella controtendenza alla
libera responsabilità personale costituiva la forza motrice di tutto il comportamento di
Weber».
14
Ivi, p. 329; tr. it. cit., p. 10. A suffragio di questa tesi Löwith cita alcuni stralci del
discorso in memoria di Max Weber che Karl Jaspers pronunciò di fronte agli studenti di
Heidelberg il 17 luglio 1920 e che venne pubblicato a Tubinga nel 1921 (tr. it. parziale
xii INTORNO A WEBER

«con un’efficacia quasi demagogica» nella celebre conferenza sulla scienza


come professione15 che Weber tenne a Monaco il 7 novembre 1917 di
fronte alla sezione bavarese del Freistudentischer Bund16. A questa lega di
studenti universitari indipendenti dalle tradizionali corporazioni studente-
sche (nata nel 1900 dalla fusione di un’ampia costellazione di associazioni
preesistenti e giunta alla sua massima espansione prima della guerra mon-
diale) aderiva anche Löwith che fu presente all’evento. In una bella pagina
di Mein Leben in Deutschland vor und nach 1933 egli rievoca efficacemente il
grande trasporto emozionale suscitato dal discorso di Weber. «Ho ancora
davanti agli occhi la sua figura, pallida e affaticata, che a passi rapidi
attraversa la sala affollatissima e si avvia al palco (...). Il suo volto, circon-
dato da una barba ispida, ricordava il cupo fervore delle figure dei profeti di
Bamberga. Parlò completamente a braccio e senza pause (...). L’impressione
fu sconvolgente. Nelle sue frasi erano condensati l’esperienza e il sapere di
tutta una vita, tutto era attinto direttamente dall’interno e ripensato con
intelligenza critica, e aveva un’enorme potenza di persuasione grazie alla
carica umana che la sua personalità gli dava. Al rigore dell’impostazione del
problema corrispondeva la rinuncia a qualsiasi soluzione a buon mercato.

nell’antologia: K. Jaspers, La mia filosofia, a cura di R. De Rosa, con un’avvertenza di N.


Bobbio, Torino, 1981, pp. 91-101). Tale commemorazione – secondo la quale Weber
avrebbe «dato all’idea del filosofo una nuova realtà» conferendo «all’esistenza filosofica un
carattere in corrispondenza con le condizioni concrete e particolari dell’epoca» (ivi, p. 101) –
suscitò, come è noto, le ire del filosofo neokantiano Heinrich Rickert (uno dei più
importanti interlocutori di Weber) che non a caso nel 1921 si dichiarò apertamente
contrario alla nomina di Jaspers a docente di filosofia presso l’università di Heidelberg.
15
K. Löwith, Max Webers Stellung zur Wissenschaft (1964), in Id., Sa¨mtliche Schriften, vol. V,
cit., pp. 419-447, p. 446. In questo saggio, originariamente pubblicato sul volume diciotte-
simo di «Merkur» con il titolo Die Entzauberung der Welt durch Wissenschaft. Zu Max Webers
100. Geburtstag, Löwith riprende i nuclei concettuali portanti dello scritto del 1932 su Weber
e Marx concentrando però il discorso su Wissenschaft als Beruf. Il saggio ha avuto diverse
edizioni tedesche. Da una di queste edizioni, che si discosta significativamente dall’ultima
(quella sopra citata), è tratta la traduzione italiana Max Weber e il disincanto del mondo, a cura
di A. M. Pozzan, in K. Löwith, Marx, Weber, Schmitt, cit., pp. 93-121.
16
Alcune ricerche condotte sui quotidiani bavaresi del periodo hanno definitivamente
smentito la tesi, sostenuta tra gli altri da Marianne Weber e da Löwith, secondo cui Weber
avrebbe pronunciato per la prima volta la sua conferenza nell’inverno 1918-19. Resta invece
incerto se Weber abbia ripetuto tale conferenza poco prima del 28 gennaio 1919, che è la
data in cui egli tenne la sua seconda conferenza per la «Lega degli studenti liberi», quella
egualmente importante ma forse meno incisiva sulla politica come professione. Sull’intera
questione cfr. W. Schluchter, Einleitung a M. Weber, Gesamtausgabe, vol. XVII, a cura di
W. J. Mommsen e W. Schluchter in collaborazione con B. Morgenbrod, Tübingen, 1992, pp.
1-46, par. 5 (pp. 43-46).
INTRODUZIONE xiii

Egli strappava tutti i veli al mondo dei desideri, eppure ciascuno di noi
finiva col sentire che al cuore di questo intelletto lucido c’era un senso di
17
umanità profondissimo» .
Tuttavia, pur coinvolgendo fortemente l’uditorio, la conferenza di We-
ber non suscitò affatto unanimi consensi. Da questo punto di vista è
particolarmente significativa la testimonianza di Immanuel Birnbaum, il
dirigente del Freistudentischer Bund che più di ogni altro si peritò di
organizzare l’incontro18. Infatti in una lettera del 26 novembre 1917 Birn-

17
K. Löwith, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933 (1986), tr. it. a cura di E. Grillo,
Milano, 1988, p. 37. — La conferenza di Weber doveva essere la prima di un ciclo
organizzato dalla sezione bavarese della «Lega degli studenti liberi» e intitolato Geistige
Arbeit als Beruf. All’origine di questa iniziativa stava il clamore suscitato dall’articolo di Franz
Xaver (pseudonimo di Alexander) Schwab Beruf und Jugend, apparso su «Die weißen
Blätter» nel maggio del 1917 (pp. 97-113). Radicalizzando le posizioni della maggioranza
degli studenti liberi – che, in nome dei principi humboldtiani di unità e libertà della scienza,
si volgevano contro l’eccessivo adattamento delle università alle esigenze dell’ordinamento
socio-economico capitalistico, e dunque contro ogni specialismo dimentico delle comuni
questioni di principio del sapere (cfr. F. Behrend, Der freistudentische Ideenkreis. Programmati-
sche Erkla¨rungen, München, 1907) – Schwab giunge a mettere in discussione la politica
culturale del Freistudentischer Bund di cui pure era stato un leader, nonché quella di ogni altra
associazione della gioventù tedesca (cfr. A. Schwab, Beruf und Jugend, cit., pp. 105-106). Più
in generale, egli si scaglia contro tutti i «riformatori di vita borghesi» (ivi, p. 104) la cui
azione è condannata all’inefficacia perché non individua nella nozione specificamente
moderna di professione il problema cardine dell’«umanità europeo-occidentale e americana»
(ivi, p. 97) e dunque il vero nemico da combattere. Ciò che infatti differenzia «il perverti-
mento moderno» (ivi, p. 110) dallo «stato di compiutezza» proprio del mondo greco (ivi, p.
106) è l’idea di considerare le attività settoriali e remunerative degli uomini come uno scopo
a sé e non più come un semplice mezzo finalizzato allo scopo del “ben vivere”. L’ideale
moderno di vita professionale è dunque per Schwab un «mostro rovinoso» che «sta al centro
del nostro mondo» e che «distende i suoi attraenti tentacoli verso tutto ciò che è giovane»
(ivi, p. 105). Il massimo del pervertimento si verifica poi nel caso delle “professioni
intellettuali” (quali quella dell’uomo di legge, dell’artista, del funzionario pubblico, dell’inse-
gnante etc.), in cui il livello di trasfigurazione etica della vita professionale giunge al suo
massimo grado facendo sı̀ che il guadagno e l’attività spirituale si confondano di continuo
fra loro in maniera perniciosa e inestricabile. Nel suo articolo Schwab menziona anche i
fratelli Max e Alfred Weber, definendoli come gli unici studiosi che abbiano tematizzato in
maniera adeguata il problema della professione e che ne abbiano colto fino in fondo la
portata (cfr. ivi, p. 104).
18
Birnbaum aveva iniziato i propri studi a Friburgo con Gerhart von Schulze-Gävernitz,
Heinrich Rickert e Friedrich Meinecke. Si trasferı̀ poi a Königsberg dove aderı̀ alla «Lega
degli studenti liberi» e infine, nel semestre estivo del 1913, a Monaco, dove seguı̀ i corsi di
Lujo Brentano e Heinrich Wölfflin. Si tratta, come si vede, di studiosi molto vicini a Max
Weber, che Birnbaum ebbe modo di conoscere anche di persona nel corso di alcune
discussioni politiche svoltesi a casa di Brentano (cfr. I. Birnbaum, Achtzig Jahre dabeigewesen.
Erinnerungen eines Journalisten, München, 1974, pp. 60-61; ma si veda anche Id., Erinnerungen
xiv INTORNO A WEBER

baum mette al corrente Weber delle risonanze del suo intervento sugli
aderenti ad un «movimento mai orientato in maniera molto unitaria» quale
quello degli «studenti liberi», e sottolinea come, contro le sue posizioni, si
fosse formata «per la prima volta una coalizione fra due gruppi solitamente
divergenti: quello dei fanatici dell’“uso scientifico dell’intelletto” che guar-
dano alle università come a scuole d’avviamento alla razionalizzazione della
vita (...) e quello degli amici della Bildung che nelle università desiderereb-
bero vedere istituito il coronamento di un programma educativo universale
e poliedrico». Questa inedita alleanza – continua Birnbaum – detiene senza
dubbio il predominio politico all’interno del movimento, mentre «solo un
piccolo gruppo si riconosce completamente» nelle parole di Weber, es-
sendo predisposto in tal senso dalla lettura del «saggio del prof. Husserl
19
apparso su “Logos”» , ma anche dalla conoscenza del «Methodenstreit fra gli
storici» e del «dibattito sui giudizi di valore sviluppatosi nell’ambito dell’e-
conomia politica»20.
Quando poi la conferenza di Weber venne pubblicata nel clima arro-
ventato del primo dopoguerra21, alcune delle caratteristiche di questa imme-
diata ricezione si ripresentarono ingigantite nella vivace polemica che ne
seguı̀ e che la presente ricerca intende ricostruire facendo intenzionalmente
perno su alcuni dei suoi protagonisti meno noti. Da un lato infatti le tesi di
Wissenschaft als Beruf – cioè dell’opera in cui Weber tematizza nel modo
più diretto ed esplicito il problema della posizione della scienza nel mondo
razionalizzato, politeistico e disincantato della modernità occidentale giunta

an Max Weber, in R. König – J. Winckelmann, a cura di, Max Weber zum Geda¨chtnis,
seconda edizione, Köln – Opladen, 1985).
19
Birnbaum si riferisce naturalmente a Philosophie als strenge Wissenschaft, pubblicato sul
primo volume di «Logos» nel 1911 (pp. 289-341).
20
Cito da un ampio stralcio della lettera di Birnbaum a Weber riportato alle pp. 60-61
dell’editorischer Bericht di M. Weber, Wissenschaft als Beruf, in Id., Gesamtausgabe, vol. XVII,
cit., pp. 49-111 (d’ora in poi WaB), pp. 49-69. A proposito del «dibattito sui giudizi di
valore» cui fa riferimento Birnbaum (e della sua ripresa nell’ambito della sociologia tedesca
della seconda metà del Novecento) si veda H. Keuth, Wissenschaft und Werturteil. Zu Wertur-
teilsdiskussion und Positivismusstreit, Tübingen, 1989.
21
La prima edizione a stampa di Wissenschaft als Beruf, pubblicata a Monaco e Lipsia per i
tipi della Duncker & Humblot, risale al luglio del 1919. Sulla genesi e sulla vicenda editoriale
della conferenza weberiana si veda l’informatissimo Editorischer Bericht di WaB prima citato
e M. Weber, La scienza come professione, a cura di P. Volonté (con testo tedesco a fronte),
Milano, 1997, pp. 55-58. Questa traduzione italiana contiene anche un’utile nota bibliogra-
fica che dall’immensa mole della letteratura secondaria su Weber scorpora una serie di studi
concernenti più da vicino la sua concezione del sapere scientifico e in particolare il Vortrag
sulla scienza come professione (cfr. ivi, pp. 153-157).
INTRODUZIONE xv

22
al suo compimento – lasciarono tutt’altro che indifferenti i contemporanei
che anzi ne colsero appieno la portata. Ciò è eloquentemente testimoniato
dai numerosi interventi dedicati nei primi anni Venti al Vortrag weberiano e
dovuti alla penna di studiosi accademici o non accademici, ma comunque
provenienti dai più diversi ambiti disciplinari. D’altro lato però, chi consi-
deri tali interventi nel loro insieme, non può non constatare che il dissenso,
non di rado aspro, prevale di gran lunga sul consenso, dando vita anche
stavolta a inedite alleanze tra prospettive teoriche differenti e perfino
contrapposte.
Contro le tesi sostenute nella conferenza sulla scienza come professione
– che si trasforma ben presto in una sorta di testamento spirituale di Weber
prematuramente scomparso nel giugno del 1920 – si volgono anzitutto le
critiche provenienti dal campo della “fenomenologia dei valori”, e cioè
quelle di Max Scheler, ma ancor prima quelle di un suo seguace d’ecce-
zione, il giovane Ernst Robert Curtius, unanimemente considerato uno dei
più importanti critici letterari del Novecento. In questo ambito la riflessione
weberiana circa le possibilità e i limiti della scienza nell’orizzonte del
mondo disincantato è vista come la tipica espressione di un modo di
pensare nominalistico, ossia di un atteggiamento dello spirito che non si
limita a constatare la fine di un mondo di forme storicamente determinato
(cioè di una particolare declinazione dell’ordine oggettivo delle forme), ma
giunge a negare che si diano in generale forme oggettive e a sostenere che
ogni forma è trasposta nell’ambito contenutistico delle cose dall’arbitrio
della soggettività umana. Proprio in base a questo modo di pensare Weber
nega alla visione eidetica ogni ruolo nell’ambito della formazione dei
concetti scientifici e nel contempo considera il politeismo dei valori della
propria epoca non già come un fenomeno transitorio, come una patologia
storica da sanare, ma piuttosto come la definitiva attestazione dell’inesi-
stenza di un sistema di valori oggettivi che si offrono all’esperienza emozio-
nale pura conferendo un senso alla vita dell’uomo.
A questo tipo di obiezioni fanno in qualche modo eco critiche prove-
nienti da un campo diverso perché pienamente ascrivibile al variegato
filone della “filosofia della vita”. È il caso dell’attacco sferrato contro Weber
da Erich von Kahler, uno studioso esterno all’università e molto vicino al
circolo di Stefan George. Certo qui l’argomentazione non fa perno sul tema
dei valori e della loro oggettività (giacché la stessa centralità del problema

22
Cfr. a questo proposito P. Volonté, Il destino della scienza nel mondo disincantato,
introduzione a M. Weber, La scienza come professione, cit., pp. 7-47.
xvi INTORNO A WEBER

del valore è per Kahler un segno inequivocabile di decadenza), quanto


piuttosto su quello di ascendenza goetheano-nietzscheana della “vita for-
mata” e della “forma vivente”, vista come il luogo ove ogni genere di sapere
sorge e infine ritorna. Ma anche secondo Kahler Weber è colui che non si
limita a descrivere impietosamente la situazione attuale dell’uomo moderno
e della sua scienza razionale e specialistica, ma tenta di cristallizzare questa
situazione patologica proiettandola in un futuro indefinito. Cosı̀ facendo
egli non si avvede che tanto l’uomo moderno quanto la scienza razionale
moderna non sono che i prodotti, essenzialmente transitori, di una lunga e
dolorosa metamorfosi che conduce dall’antica umanità ellenica alla nuova
umanità tedesco-europea in procinto di venire alla luce, o, che è lo stesso,
dall’antica sapienza ellenica alla neue Wissenschaft prossima ventura.
Quest’idea kahleriana della “nuova scienza”, senz’altro molto diffusa
nell’ambito del George-Kreis, trova subito un’inquietante traduzione politica
negli scritti di un altro studioso non accademico e addirittura autodidatta, il
pedagogista Ernst Krieck, limitrofo agli ambienti della “rivoluzione conser-
vatrice” e destinato a divenire negli anni Trenta una delle figure di primo
piano dell’intellighenzia nazionalsocialista. Krieck si schiera decisamente
contro Weber e in favore di Kahler, ma nel contempo assume che “vita
formata” e “forma vivente” si diano solo nell’ambito della comunità popo-
lare organica, concepita come un Noi collettivo radicato nelle profondità
abissali di un passato protostorico (anzi essenzialmente non-storico): come
un Gemeinsubjekt di cui l’individuo non è che una funzione e di cui la nuova
scienza deve costruire il mito. In una posizione di tal fatta traspaiono
chiaramente alcune delle caratteristiche più pericolose (o almeno più im-
mediatamente pericolose) del clima culturale tedesco del primo dopo-
guerra, lo stesso clima che Thomas Mann descrive, con la consueta
maestria, in quelle parti del capitolo trentaquattresimo del Doktor Faustus in
cui tratta delle discussioni che si tenevano a Schwabing presso la casa del
grafico e miniatore di libri Sixtus Kridwisz. Quale era infatti il «mondo
avvenire» che nel corso di tali discussioni prendeva corpo dinanzi all’animo
interessato e nel contempo angosciato di Serenus Zeitblom? «Era un
mondo vecchio e nuovo, rivoluzionario e reazionario, nel quale i valori
connessi con l’idea dell’individuo, diciamo dunque: libertà, diritto, ragione,
erano del tutto snerbati o ripudiati, o per lo meno avevano assunto un
significato del tutto diverso da quello degli ultimi secoli (...). Al pensiero era
data la libertà di giustificare la violenza, come settecento anni prima la
ragione era stata libera di discutere la fede e di dimostrare il dogma. Questo
era il suo compito, compito che oggi toccava al pensiero, o gli sarebbe
INTRODUZIONE xvii

toccato domani. È ben vero che l’indagine aveva dei presupposti – e come
non ne aveva! Erano la violenza, l’autorità della comunità, e lo erano con
tanta naturalezza che alla scienza non balenava nemmeno il pensiero di
non essere libera. Soggettivamente lo era senz’altro – entro un vincolo
23
oggettivo cosı̀ incarnato e naturale da non essere sentito come catena» .
Mettendo per ora da parte la posizione antiweberiana di Krieck – che
se paragonata alle posizioni prima citate appare concettualmente piuttosto
rozza, ma che nonostante ciò, o forse proprio a causa di ciò, illumina per
contrasto alcuni tratti di fondo, non sempre adeguatamente evidenziati,
della riflessione di Weber24 –, mi sembra particolarmente significativo porre
in rilievo un ulteriore elemento di connessione tra gli interventi di Curtius e
di Scheler e quello di Kahler nella polemica su Wissenschaft als Beruf. In
entrambi i casi, infatti, Weber è interpretato in continuità con Kant, anzi è
visto come il più radicale dei suoi discepoli, come colui che ha portato fino
alle estreme conseguenze il progetto di desostanzializzazione e nel con-
tempo di devitalizzazione della ragione avviato dal criticismo.
Anche su questo sfondo – e non solo su quello delle polemiche fra
Heinrich Rickert e Karl Jaspers circa la considerazione di Weber come
filosofo25 – vanno letti i prudenti distinguo avanzati dal neokantiano Jonas

23
T. Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverku¨hn narrata da un
amico (1947), tr. it. e intr. a cura di E. Pocar, Milano, 1978, pp. 436-437. Del resto in uno dei
mentori della cerchia di Kridwisz, il poeta Daniel zur Höhe, «un uomo allampanato (...) che
portava una specie di talare nero molto accollato e aveva un profilo da uccello rapace» (ivi,
p. 432), è difficile non riconoscere a prima vista una controfigura di George.
24
Penso ad esempio a quanto ha recentemente affermato Fulvio Tessitore in rapporto alla
vexata quaestio della valorizzazione weberiana del capo carismatico contro i rischi della
razionalizzazione burocratica. Weber – egli scrive – è convinto sostenitore «della non
comprimibile dialettica tra razionalità e storicità, la quale non si compone in una sintesi
conciliante o in un reciproco assorbimento, giacché la storia impone lo scacco della ragione
e questa di quella, rendendo impossibile l’inerenza dell’una all’altra nel pur continuo
richiamarsi dell’una all’altra, attraverso cui si costruisce, con il conferimento di senso, il
“continuo” entro il quale è dato cogliere l’intelligibilità delle sezioni finite dell’infinità
insensata» (F. Tessitore, Lo storicismo come filosofia dell’evento, relazione al convegno di studi
su “I percorsi dello storicismo italiano nel secondo Novecento”, Anacapri, 22-24 settembre
2000, attualmente in corso di pubblicazione). Ecco perché «Weber, nonostante il riconosci-
mento della funzione del Fu¨hrer e anzi proprio per questa ammissione» risulta «costituzio-
nalmente contrario (...) ad ogni tipo di totalitarismo (ad iniziare da quello nazista)» (ivi).
25
Cfr. supra, nota 14. — La riflessione di Jaspers sulla scienza è, fin dal suo primo sorgere,
fortemente influenzata da quella di Weber: si veda in questo senso lo scritto Die Idee der
Universita¨t (Berlin, 1923), che è particolarmente significativo per la nostra connessione di
discorso, giacché i suoi referenti principali sono Wilhelm von Humboldt e il Weber di
Wissenschaft als Beruf.
xviii INTORNO A WEBER

Cohn, allievo di Rickert e professore di filosofia a Friburgo. Da un lato


infatti Cohn ribadisce in accordo con Weber che i giudizi di valore
debbono essere rigorosamente banditi dall’ambito delle scienze empiriche,
e dunque anche da quello delle scienze storico-sociali, il che risulta senz’al-
tro possibile se si tiene adeguatamente conto della fondamentale distin-
zione rickertiana tra Wertbeziehung e Wertung. D’altro lato però Cohn si
preoccupa di mettere in luce come gli oggetti delle scienze storico-culturali,
ma anche quelli della biologia, non siano in se stessi concepibili se non
sullo sfondo del riconoscimento teoretico di un sistema aperto di valori
formali che costituiscono le condizioni logiche della loro pensabilità pro-
prio allo stesso modo in cui le categorie costituiscono le condizioni logiche
della pensabilità dell’oggetto in generale. Si tratta, come si vede, di una
posizione nettamente divergente da quella di Weber per il quale l’unico
“presupposto trascendentale” delle scienze della cultura risiede nel fatto che
l’uomo è un essere culturale dotato della capacità e della volontà di
attribuire un senso a un mondo in sé privo di senso. E tale divergenza si
chiarisce ancor meglio se si considera che per Cohn i valori formali di cui
prima non costituiscono solo le condizioni di possibilità delle scienze della
vita e delle scienze della cultura, ma rappresentano anche l’orizzonte che
delimita e orienta l’agire pratico dell’uomo, la cui inevitabile componente
prospettica e situazionale non consente affatto di parlare di un politeismo
dei valori cosı̀ come Weber lo intende.
Dall’intervento di Cohn nella polemica su Wissenschaft als Beruf – che
anticipa di qualche anno quello più tardo e in qualche modo più reticente
di Rickert – trapela dunque con chiarezza la lontananza logica e nel
contempo etica che separa la filosofia dei valori neokantiana (e il suo
progetto di un ampliamento non traumatico della critica della ragione) dal
“kantismo” di Weber. Quest’ultimo, infatti, non ha solo assimilato a fondo
la dura lezione di Nietzsche assumendo come punto di non ritorno la
progressiva e ormai compiuta trasformazione del «mondo vero» (e di
quello «apparente» che ne è l’indissolubile correlato) in una «favola»26, ma
ha anche cercato di determinare come si possa ancora conoscere e agire in
questa nuova e rarefatta atmosfera, in questa «terra» sciolta «dalla catena del
suo sole»27. Certo, nel rispondere a tale interrogativo, Weber si allontana in

26
Cfr. F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli (1888), in Id., Opere, edizione critica diretta da
G. Colli e M. Montinari, Milano, 1964 sgg., vol. VI, tomo III, tr. it. a cura di F. Masini,
Milano, 1970, pp. 75-76.
27
F. Nietzsche, La gaia scienza, cit., aforisma 125 (L’uomo folle), p. 125.
INTRODUZIONE xix

qualche modo anche da Nietzsche, avvicinandosi invece – seppure in piena


autonomia di giudizio e con maggiore consapevolezza logica – alla tradi-
zione dello storicismo critico che va da Humboldt a Ranke e da Ranke a
Dilthey e della quale proprio la riflessione weberiana costituisce per molti
versi un possibile compimento28. Weber infatti, a cagione dell’indirizzo
radicalmente antimetafisico del suo pensiero, avrebbe potuto ben sottoscri-
vere l’affermazione di Dilthey secondo la quale «l’uomo non può compren-
dere se stesso attraverso nessun genere di vuota elucubrazione sopra di sé»
da cui può solo derivare «la grande miseria nietzscheana della soggettività
esasperata», giacché «soltanto nella comprensione della realtà storica che
egli stesso produce, l’uomo perviene alla coscienza del suo potere, nel bene
e nel male»29.

28
È questa la tesi storiografica di fondo dei contributi dedicati a Max Weber da Fulvio
Tessitore, di cui si veda in particolare – oltre a Introduzione a Lo storicismo, cit., pp. 200-208
e Lo storicismo come filosofia dell’evento, cit., par. 5 – i saggi Max Weber e lo storicismo (1983),
Troeltsch, Weber e il destino dello storicismo (1993) e La questione dello storicismo, oggi (1997), ora
in Id., Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo. IV, Roma, 1998, pp. 159-196, 149-158 e
231-289. Nella prefazione a tale volume Tessitore, pur riconoscendo di aver rivolto a Weber
«un lavoro estrinsecamente non paragonabile a quello dedicato a Meinecke e a Troeltsch»,
afferma che «questa geniale figura è divenuta sempre più centrale» nella sua «personale
lettura dello storicismo (...) critico e problematico», inteso come «la filosofia più drasticamente
alternativa all’ontologia metafisica» (ivi, p. 5).
29
W. Dilthey, Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt (1901), in Id.,
Gesammelte Schriften, vol. III, terza edizione, Stuttgart – Göttingen, 1962, pp. 207-268, p. 210;
tr. it. Il secolo XVIII e il mondo storico, a cura di F. Tedeschi Negri, Milano, 1977, p. 27. Già in
una lettera al conte Yorck del maggio 1897 Dilthey sostiene la necessità di coltivare la
«coscienza storica che l’uomo non può togliersi la pelle e trovarsi come è in sé», ed aggiunge
tra parentesi che proprio «su ciò Nietzsche divenne pazzo» (P. Yorck von Wartenburg –
W. Dilthey, Carteggio 1877-1897, 1923, tr. it. a cura di F. Donadio, Napoli, 1983, p. 345).
Sulla stessa questione egli ritorna anche in un inquietante testo privato del 1903: «Invano, in
una solitaria considerazione di sé, Nietzsche cercò la natura originaria, la sua essenza
astorica. Egli tirò via una pelle dopo l’altra. E cosa rimase poi? Ancora e soltanto qualcosa di
storicamente condizionato: i tratti dell’uomo di potenza del rinascimento» (W. Dilthey,
Traum, 1903, in Id., Gesammelte Schriften, vol. VIII, terza edizione, Stuttgart – Göttingen,
1962, pp. 220-226, p. 226). Da questi giudizi di Dilthey su Nietzsche prende le mosse il
saggio di A. Giugliano, Nietzsche e la genesi del mondo umano (con un’eco da Rilke), in Id.,
Nietzsche Rickert Heidegger (ed altre allegorie filosofiche), Napoli, 1999, pp. 139-170, che mette
bene in luce ciò che differenzia Nietzsche dagli autori del cosiddetto storicismo tedesco
contemporaneo (per i quali il suo pensiero rimane comunque, seppure in modalità diverse,
un ineludibile momento di confronto e di autochiarificazione). L’intenzionalità ultima del
pensiero di Nietzsche è infatti «quella di un regresso “trascendentale” infinito che cerca di
attingere la scaturigine primordiale del costituirsi della vita stessa in quanto vita e in quanto
vita di una “soggettività”, appunto sollevando una “pelle” dopo l’altra, attraverso uno
svuotamento di tutte le categorizzazioni e stratificazioni storiche onde attingere quel “vuoto”
xx INTORNO A WEBER

Un simile quadro interpretativo appare peraltro ulteriormente raffor-


zato se si considera che lo studioso che nel corso della polemica su
Wissenschaft als Beruf si schiera con più decisione in favore di Weber (tanto
da essere addirittura identificato da qualche interprete come un portavoce
del Weber-Kreis) si richiama esplicitamente a Dilthey, e in particolare
all’ultima fase del Denkweg di Dilthey, quella nella quale il filosofo renano
concentra la propria attenzione sul nesso tra Erlebnis, Ausdruck e Verstehen e
cerca di ripensare la nozione hegeliana di spirito oggettivo sottraendola alla
costruzione metafisica di Hegel e mettendola piuttosto in connessione con
la «coscienza storica della finitudine di ogni fenomeno storico, di ogni
situazione umana e sociale» – vista non già come una relativistica e
rassegnata inclusione dell’uomo “nella” storia (che è in fondo una forma
imperfetta e deteriore di metafisica), ma al contrario come «l’ultimo passo
verso la liberazione dell’uomo», il quale «perviene alla sovranità di attribuire
a ogni Erlebnis il suo contenuto e di darsi a esso completamente, con
franchezza, senza il vincolo di alcun sistema filosofico o religioso»; il quale,
dunque, non cerca più come «in passato» di «penetrare la vita in base al
mondo», essendo oramai pienamente consapevole che «c’è solo la via che
procede dall’interpretazione della vita al mondo» e che «la vita esiste solo
nell’Erleben, nell’intendere e nella comprensione storica»30.
Non mi riferisco qui a Ernst Troeltsch, che «interviene, certo, a difen-
dere la “scienza tradizionale” rappresentata da Max Weber (...) dall’attacco
di Erich von Kahler a nome di una Jugend affascinata dalla personalità e
dagli ideali di George», ma che tuttavia scorge «nella “nebulosità” e nel

da cui derivare l’autentica legge e vibrazione interna della storia e della scienza storica» (ivi,
p. 141). Ciò «pone innanzitutto in gioco e perciò filosoficamente in pericolo l’interrogante
stesso, la sua “soggettività”, esponendolo al rischio di naufragare in sé nella esasperata
miseria del proprio fuori-di-sé. Insomma, decidendo di saltare al di là della propria “ombra”,
Nietzsche aveva proceduto verso la decisa infrazione metafisica del monito filosofico-critico
che (...) Dilthey aveva formulato» (ivi, pp. 141-142). Ma a causa della dialettica insita nel
concetto stesso di limite, solo «l’infrazione» nietzscheana «chiarisce» fino in fondo «il senso
del limite che era stato posto da Dilthey come insuperabile» (ivi, p. 142). E’ questa la ragione
ultima dell’importanza che il “corpo a corpo” con Nietzsche riveste per tutti gli autori dello
storicismo tedesco contemporaneo.
30
Queste citazioni diltheyane, che anticipano in maniera addirittura sorprendente un
tema di fondo della conferenza di Weber sulla scienza come professione, sono tratte
dall’ultimo (e giustamente famoso) paragrafo di W. Dilthey, Plan der Fortsetzung zum
Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, 1910-1911, in Id., Gesammelte
Schriften, vol. VII, settima edizione, Stuttgart – Göttingen, 1979, pp. 191-291, pp. 290-291; tr.
it. parziale Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Id., Critica
della ragione storica, a cura di Pietro Rossi, Torino, 1982, pp. 291-384, pp. 383-384.
INTRODUZIONE xxi

“dialettismo” di questa rivoluzione nelle scienze dello spirito» l’espressione


di «un problema fondamentale della scienza e dello spirito moderni: “il
superamento del relativismo riconoscendo però l’individualismo, l’acquisi-
zione di una verità valida riconoscendo però l’illimitato flusso della realtà,
la visione totale delle formazioni della vita tenendo però fermo il rigore
31
della ricerca”» . Mi riferisco piuttosto all’economista Arthur Salz, allievo di
Lujo Brentano e assiduo collaboratore dell’«Archiv für Sozialwissenschaft
und Sozialpolitik», che da un lato difende animosamente Weber dalle
critiche di Kahler (di cui pure era intimo amico) accusando la «nuova
scienza» dei georgeani di essere in ultima istanza il frutto di una concezione
biologistica e organicistica della vita umana e sociale che risulta non solo
inadeguata ma anche politicamente irresponsabile, dall’altro cerca di ripor-
tare le connessioni e le cesure tracciate da Weber fra la scienza e la vita
nell’alveo dello storicismo diltheyano interpretandole sullo sfondo dell’i-
naggirabile rapporto di tensione polare che lega l’Erleben soggettivo inter-
soggettivamente condizionato e il mondo delle sue molteplici oggettiva-
zioni32.
Come emerge già da questi rapidi cenni introduttivi, la polemica su
Wissenschaft als Beruf, pur essendo quantitativamente meno appariscente di
quella pressoché coeva circa il «famigerato operone»33 di Oswald Spengler
sul tramonto dell’occidente, non è per questo meno sintomatica. Anche
nelle scabre pagine del Vortrag weberiano si parla infatti di un “tramonto”,
quello della millenaria e proteiforme concezione della scienza come «“via
per giungere al vero essere”, “alla vera arte”, “alla vera natura”, “al vero
Dio”, “alla vera felicità”»34. Per Weber questo tramonto è un «dato di fatto»
definitivo e irreversibile «della nostra situazione storica», e il problema
diviene quello di stabilire se una scienza che non è più «una parte delle
riflessioni dei sapienti e dei filosofi sul senso del mondo» ma piuttosto «una
“professione” (...) posta al servizio della consapevolezza di sé e della
conoscenza di situazioni di fatto»35 possa ancora offrire qualcosa alla «vita

31
G. Cantillo, Ernst Troeltsch e la cultura del suo tempo, in «Criterio», 9 (1991), 1-2, pp.
11-22, p. 16.
32
Un tentativo di ricostruzione e di interpretazione complessiva del dibattito su Wissen-
schaft als Beruf è contenuto nel capitolo finale dell’ampio volume di Klaus Lichtblau
Kulturkrise und Soziologie um die Jahrhundertwende. Zur Genealogie der Kultursoziologie in
Deutschland (Frankfurt a. M., 1996).
33
B. Croce, Teoria e storia della storiografia (terza edizione, 1927), a cura di G. Galasso,
Milano, 1989, p. 369.
34
WaB, p. 93; tr. it. cit., p. 99 (qui e in seguito con qualche modifica).
35
WaB, p. 105; tr. it. cit., p. 123.
xxii INTORNO A WEBER

36
puramente personale» di coloro che rifiutano di compiere – in maniera
coerente o incoerente, sincera o insincera – il «sacrificio dell’intelletto» e
affrontano piuttosto «con coraggio virile» il «destino del tempo»37. Invece
per i critici di Weber, ma anche per qualcuno dei suoi difensori (gli uni e gli
altri rappresentanti, e più spesso epigoni, delle principali correnti filosofiche
tedesche del primo Novecento), il tramonto in questione è solo un’eclissi
spaventevole ma pur sempre temporanea oppure il necessario prodromo di
un nuovo sole e di una nuova alba. Da questo punto di vista proprio
l’opposizione a Weber fa emergere con chiarezza l’intenzionalità ultima che
accomuna fra loro le posizioni di questi autori, che sono sı̀ per tanti versi
contrastanti, ma che si configurano tutte come tentativi di ricomporre – in
modo più o meno tradizionale – un orizzonte ontologico unitario entro cui
l’individualità sia davvero in grado di vivere e prosperare. In ciò esse
consentono con posizioni di poco successive, e di ben altra levatura teorica,
che già allora erano in incubazione nel panorama filosofico tedesco (penso
ad esempio a Heidegger), e dissentono invece da Weber in consonanza col
quale si potrebbe quasi affermare l’inverso, e cioè che l’individualità può sı̀
soccombere in un mondo razionalizzato e disincantato, «in un tempo
estraneo a Dio e senza profeti»38, ma può anche vivere e prosperare come
mai è stato possibile fino ad ora39.

* * *

I cinque capitoli del presente volume nascono dalla rielaborazione, e


talvolta dalla fusione, di saggi apparsi separatamente a partire dal 1996. La
maggior parte di essi è costituita dalle introduzioni alle traduzioni italiane
da me curate degli interventi di Curtius, Kahler, Salz, Krieck e Cohn nella
polemica su Wissenschaft als Beruf.
Nel licenziare questa ricerca che mi ha accompagnato per molti anni,
sento il bisogno di onorare alcuni debiti di gratitudine. Il primo e più
importante è quello contratto col mio maestro prof. Fulvio Tessitore, non
solo perché la sua interpretazione di Weber rappresenta, per cosı̀ dire,
l’ipotesi di fondo che la mia indagine ha cercato di saggiare, ma anche e
soprattutto per la sua quotidiana lezione di rigore intellettuale e di profonda

36
WaB, p. 104; tr. it. cit., p. 121.
37
WaB, p. 110; tr. it. cit., p. 131.
38
WaB, p. 106; tr. it. cit., p. 125.
39
Cfr. supra, nota 13.
INTRODUZIONE xxiii

umanità. Debbo molto anche al prof. Giuseppe Cacciatore che, con la sua
consueta generosità, ha seguito il mio lavoro in tutte le sue fasi ed è stato
con me prodigo di preziosi consigli e di utilissime sollecitazioni. Sono
inoltre grato al prof. Giuseppe Cantillo e all’amico prof. Giuseppe Antonio
Di Marco che, in maniera diversa, hanno tra i primi richiamato la mia at-
tenzione sulla rilevanza storica e nel contempo teorica della polemica sul
Vortrag weberiano. Sono infine grato a Leonardo Pica Ciamarra e Valeria
Pinto, con i quali ho lungamente discusso i contenuti del capitolo su
Kahler, e ad Antonello Giugliano per le molte indicazioni da lui ricevute su
Jonas Cohn.
Dedico il libro a Marilia.

E. M.
1

SCIENZE DELLA CULTURA


E FENOMENOLOGIA DEI VALORI:
LA POSIZIONE DI ERNST ROBERT CURTIUS

1. Nato a Thann presso Mulhouse da una famiglia che annoverava già fra i
1
suoi membri insigni uomini di studio , Ernst Robert Curtius (1886-1956)
visse la propria fanciullezza in Alsazia, terra di incontri, di scontri e di
fecondi innesti tra la Francia e la Germania. L’aperta atmosfera alsaziana di
fine Ottocento e di inizio Novecento pervase profondamente l’animo del
futuro romanista coniandone il destino di interprete (in anni difficili, anzi
difficilissimi) del dialogo fra la cultura tedesca e quella francese2. Un dialogo

1
Il nonno paterno di Ernst Robert fu Ernst Curtius (1814-1896), storico e archeologo del
mondo greco che divenne professore universitario a Berlino e precettore del principe
Federico Guglielmo (il futuro imperatore Federico III). Il fratello minore di Ernst, e dunque
il prozio di Ernst Robert, fu il filologo classico Georg Curtius (1820-1885), autore di una
Griechische Schulgrammatik che ebbe più di venti edizioni.
2
Sulla figura e sull’opera di Ernst Robert Curtius mi limito qui a rimandare a: H.
Lausberg, Ernst Robert Curtius, 1886-1956, in Bonner Gelehrte. Beitra¨ge zur Geschichte der
Wissenschaften in Bonn (150 Jahre Rheinische Friedrich-Wilhelms-Universita¨t zu Bonn
1818-1968), Bonn, 1970, pp. 214-235; A. R. Evans, On Four Modern Humanists. Hofmannsthal
– Gundolf – Curtius – Kantorowicz, Princeton, 1970, pp. 88-145; S. Gross, Ernst Robert Curtius
und die deutsche Romanistik der zwanziger Jahre. Zum Problem nationaler Images in der
Literaturwissenschaft, Bonn, 1980; L. Ritter Santini, Il piacere delle affinità, intr. a E. R.
Curtius, Letteratura della letteratura. Saggi critici, tr. it. a cura di L. Ritter Santini, Bologna,
1984, pp. 9-76; W. Berschin – A. Rothe (a cura di), Ernst Robert Curtius. Werk, Wirkung, Zu-
kunftsperspektiven, Heidelberger Symposion zum hundersten Geburtstag 1986, Heidelberg,
1989; W. D. Lange (a cura di), «In Ihnen begegnet sich das Abendland». Bonner Vortra¨ge zur
Erinnerung an Ernst Robert Curtius, Bonn, 1990; R. Antonelli, Filologia e modernità, intr. a E.
R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, tr. it. a cura di R. Antonelli (1992),
Firenze, 1997, pp. VII-XXXIV; D. Hoeges, Kontroverse am Abgrund: Ernst R. Curtius und Karl
Mannheim. Intellektuelle und “freischwebende Intelligenz” in der Weimarer Republik, Frankfurt a.
2 INTORNO A WEBER

che – anche grazie alla «scoperta, attraverso Stefan George, del valore
simbolico dell’alta Renania che lo aveva riempito di nostalgia per l’Occi-
dente»3 – Curtius concepı̀ fin dall’inizio come una risposta all’appello delle

M., 1994; J. Ben (a cura di), Ernst Robert Curtius et l’ide´e d’Europe, actes du colloque de
Mulhouse et Thann des 29, 30 et 31 janvier 1992, Paris, 1995; E. Raimondi, Curtius, l’Europa
e l’utopia, in «Intersezioni», XVII (aprile 1997), 1, pp. 5-18; L. Simonis, Genetisches Prinzip:
zur Struktur der Kulturgeschichte bei Jacob Burckhardt, Georg Lukács, Ernst Robert Curtius und
Walter Benjamin, Tübingen, 1998; C. Jacquemard-De Gemeaux, Ernst Robert Curtius
(1886-1956); origines et cheminements d’un esprit europe´en, Bern, 1998; M. S. Fischer, “Europa”
und “das Nationale” bei Ernst Robert Curtius: ein Essay, Aachen, 2000. Una bibliografia degli
scritti di Curtius chiude la Freundesgabe fu¨r Ernst Robert Curtius zum 14. April 1956, a cura di
M. Rychner e W. Boehlich, Bern, 1956 (pp. 213-234). A questo volume miscellaneo
parteciparono, fra gli altri, Thomas Stearns Eliot, Gottfried Benn e José Ortega y Gasset. Ma
una bibliografia più completa e aggiornata è quella curata da Lea Ritter Santini in appendice
a E. R. Curtius, Letteratura della letteratura, cit., pp. 411-429. Sulla recezione delle opere di
Curtius cfr. E. J. Richards, Modernism, Medievalism and Humanism. A Research Bibliography on
the Reception of the Works of Ernst Robert Curtius, Tübingen, 1983 (parzialmente pubblicato in
tr. it. in appendice a E. R. Curtius, Letteratura della letteratura, cit., pp. 431-486).
3
R. Antonelli, Filologia e modernità, cit., p. XI. Curtius aveva conosciuto Stefan George e
Friedrich Gundolf nell’inverno 1906-1907 frequentando il salotto berlinese della pittrice
Sabine Lepsius (una sua lontana parente che all’amicizia col poeta svevo dedicò lo scritto
Stefan George. Geschichte einer Freundschaft, Berlin, 1935). In seguito Curtius si incontrò spesso
con George (a Heidelberg, a Darmstadt, in Svizzera, ma anche a Bingen). Cfr. E. R. Curtius,
Incontro con Stefan George (1950), tr. it. in Id., Letteratura della letteratura, cit., pp. 201-218.
Tuttavia Lea Ritter Santini (Il piacere delle affinità, cit., p. 58, nota 2) ha giustamente
sottolineato che il «distante dagherrotipo» di George contenuto nelle pagine degli anni
Cinquanta è assai lontano dal George della giovinezza di Curtius che fu «segnata dall’ammira-
zione per il “Maestro” e per i discepoli da lui eletti» (ammirazione che pervade le lettere a
Gundolf degli anni Dieci ed è ancora assai viva in una presentazione di George al pubblico
italiano scritta per «Il Baretti», anno II, 5 marzo 1925). — A proposito della valorizzazione
georgeana del paesaggio renano e della Lotaringia (il regno franco di mezzo) – valorizzazione
che non è del tutto assimilabile a quella della Geheimes Deutschland – si vedano le pagine
dedicate al poeta svevo da Ladislao Mittner nella sua Storia della letteratura tedesca (vol. III-2,
tomo I, Torino, 1971, pp. 951 sgg., in part. pp. 956-959). A questa componente specifica del
«nuovo classicismo» di George (a proposito del quale cfr., in generale, le acute osservazioni di
R. Delle Donne, Kantorowicz e la sua opera su Federico II nella ricerca moderna, in A. Esch – N.
Kamp, a cura di, Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr
1994, Tübingen, 1996, pp. 67-86, in part. pp. 73-76) Curtius si richiama ancora in un luogo
molto significativo della sua opera più importante. «Secondo i criteri correnti – egli infatti
scrive nel primo capitolo di Europa¨ische Literatur und lateinisches Mittelalter – la storia
letteraria dell’Europa moderna avrebbe inizio appena intorno al 1500. Il che equivale a
proporre una descrizione totale del Reno realizzandola poi solo per il tratto da Magonza a
Colonia. È ben vero che esiste anche una storia letteraria “medievale”: essa ha inizio intorno
al 1000, cioè – per dirla ancora in metafora – all’altezza di Strasburgo, per il Reno. Ed allora,
dove troviamo la storia letteraria dal 400 al 1000? Dovremmo cominciare da Basilea... Ma il
primo tratto viene ignorato, per un motivo semplicissimo: le opere letterarie di questi secoli
ERNST ROBERT CURTIUS 3

“potenze dell’origine” e dunque come la sola via di salvezza di fronte alla


crisi del mondo europeo. Da questo punto di vista è senz’altro significativo
un’episodio della sua giovinezza giustamente messo in rilievo dalla docu-
mentata biografia di Heinrich Lausberg: nel 1904, ancora diciottenne,
Curtius, dopo un viaggio sul Reno, giunse a Colonia «dove la chiesa di
Maria in Campidoglio gli fece la più profonda impressione» poiché «l’u-
nione del cristianesimo con la romanità contenuta nel nome della chiesa gli
4
sembrò già allora la sostanza stessa dell’Europa» .

sono scritte – salvo trascurabili eccezioni – in lingua latina. Perché? Perché (...) i Germani si
lasciarono assimilare da Roma, cioè dalla Chiesa Romana. E dobbiamo guardare ancora più
all’indietro. La letteratura dell’Europa “moderna” è tanto legata a quella dell’Europa mediter-
ranea come se il Reno accogliesse le acque del Tevere. L’ultimo grande poeta di origine
franco-renana, Stefan George, si sentiva legato, per segreta affinità elettiva, sia alla Germania
romana sia al regno franco di Lotario, da cui discendeva la sua stirpe» (cfr. E. R. Curtius,
Europa¨ische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, 1948; seconda edizione rivista 1954; tr.
it. cit., p. 18). A comprova di ciò Curtius cita (ivi, pp. 18-19) alcuni dei «motti renani»
contenuti nell’opera di George Der Siebente Ring (1907): «Ein fürstlich paar geschwister hielt
in frone / Bisher des weiten Innenreiches mitte. / Bald wacht aus dem jahrhundertschlaf das
dritte / Auch echte Kind und hebt im Rhein die krone» [«Due principi fratelli hanno tenuto /
vassallo il centro del vasto regno interno. / Dal suo sonno di secoli si sveglia / il terzo vero
erede e leva la corona alta sul Reno]; «Sprecht von des Festes von des Reiches nähe – /
Sprecht erst vom neuen wein im neuen schlauch: / Wenn ganz durch eure seelen dumpf und
zähe / Mein feurig blut sich regt, mein römischer hauch» [«Dite di vicinanza della festa,
dell’Impero, / solo del vino nuovo in nuovi otri dite: / quando per le vostre opache dure
anime ribolle / il mio sangue di fuoco, il mio respiro romano»]. — D’altronde anche in Incontro
con Stefan George, cit., Curtius ribadisce, contro le tesi di Friedrich Wolters, l’origine francese
della famiglia di George (pp. 203-206) e afferma che, durante una visita a Bingen dell’aprile
1911, quest’ultimo gli avrebbe detto: «Ci fu un momento in cui esitai a decidere se diventare
poeta tedesco o francese» (p. 215). Tuttavia Curtius riconosce che «da quegli ultimi anni
prima della guerra, l’allontanamento di George dalla Francia divenne sempre più sensibile: la
Germania successe alla Lorena» (ivi, p. 207). E poco dopo afferma: «Andai da George come
ammiratore convinto, anche se due cose – del tutto diverse – mi inquietavano. Potevo ben
rispettare il culto di Massimino, ma non condividerlo; amavo appassionatamente il mondo
ellenico, ma appartenevo al mondo cristiano. George era per me il massimo poeta vivente, ma
ammiravo anche alcuni francesi viventi e progettavo di scrivere su di essi. Per questi due punti
speravo nella tolleranza di George. Non la ottenni» (ivi, p. 214). Bisogna peraltro ricordare
che George non permise che il libro di Curtius Die literarischen Wegbereiter des neuen
Frankreich (Potsdam, 1919) fosse pubblicato per i tipi della Bondi fra i «Werke der
Wissenschaft aus dem Kreise der Blätter für die Kunst». Sulle motivazioni di questa scelta,
maturata già prima di conoscere il manoscritto, cfr. S. George – F. Gundolf, Briefwechsel, a
cura di R. Boehringer e P. Landmann, München – Düsseldorf, 1962, pp. 284-286: da un lato
George non riteneva che fosse «assolutamente il tempo adatto» per un’opera come quella di
Curtius, dall’altro egli asseriva che lo «spirito neofrancese» magnificato da Curtius finisse in
realtà per risolversi «in un cattolicesimo riscaldato».
4
H. Lausberg, Ernst Robert Curtius, cit., p. 215 (il corsivo è mio). Curtius parla di questa
4 INTORNO A WEBER

Pur muovendo da un iniziale interesse per il sanscrito e per la lingui-


stica comparata, Curtius si volse ben presto alla filologia moderna. A
Strasburgo fu allievo del grande studioso di filologia romanza Gustav
5
Gröber con il quale si laureò nel 1910 . Se da un lato Gröber suscitò in
Curtius l’interesse per il Medioevo (che dal 1930 costituı̀ il suo oggetto di
ricerca privilegiato), dall’altro ne incoraggiò il congenito amore per la
letteratura francese. Infatti l’ampio progetto di indagine scientifica del
mondo culturale e letterario francese, che Curtius sviluppò sistematica-
mente a partire dai primi corsi universitari di Bonn6, fu da lui concepito già
negli anni di Strasburgo.
Tuttavia la guerra mondiale – alla quale Curtius partecipò come uffi-
ciale combattente sul fronte francese e su quello polacco procurandosi una
ferita nei pressi di Varsavia – operò la totale dissoluzione dell’orizzonte
storico ed umano entro il quale si era naturalmente compiuta la sua
formazione di studioso. Sicché, dopo la terribile esperienza bellica, il
progetto di promuovere una reciproca comprensione tra la cultura francese
e quella tedesca che avrebbe dovuto costituire l’asse portante di un’Europa
intimamente pacificata perché nuovamente consapevole delle proprie co-
muni radici romane e cristiane (della propria «sostanza»), divenne sempre
più per Curtius, ancor prima che un obiettivo scientifico, una necessità

esperienza giovanile in Incontro con Stefan George, cit., pp 209-210: «Ero cresciuto nell’Alta
Renania. A diciotto anni avevo fatto, con due amici di Strasburgo, un piccolo viaggio sul
Reno, abbreviato solo dai pochi soldi che s’aveva (...). La nostra meta era Colonia, dove
c’era ancora, in quel tempo, Maria in Capitol. Questa chiesa (...) mi attirava più di ogni altra.
Cosa non significava questo incontro di parole: Maria e Capitol! Cristianesimo e mondo
romano erano tangibili in una testimonianza storica, fissi nella stessa costruzione; come una
garanzia e una presenza. Era stata una guida per un cammino: il preludio alla scoperta del
Reno, che dovevo fare più tardi grazie a George» (il corsivo è mio). Mi sembra che questa
testimonianza conservi il proprio rilievo nonostante il fatto che in Curtius sia presente la
tendenza a favorire «una sorta di ipostatizzazione simbolica della propria biografia culturale»
(R. Antonelli, Filologia e modernità, cit., p. XI). D’altronde cfr. anche la lettera del 1912
inviata da Roma a Friedrich Gundolf dopo un pomeriggio di primavera passato al Foro: «In
me ancora tutto è in fermento e non so che cosa voglio diventare. So soltanto che non vivrò
mai più un tale spostamento del centro di gravità, che non vivrò mai più una tale
rivelazione» (cito da H. Lausberg, Ernst Robert Curtius, cit., p. 218).
5
Cfr. E. R. Curtius, Einleitung zu einer neuen Ausgabe der Quatre livre des Reis, Inaugural-
Dissertation, Straßburg, 1910; Halle, 1911. L’edizione critica de Li quatre livre des Reis fu
pubblicata da Curtius a Dresda nel 1911.
6
A Bonn Curtius ottenne l’abilitazione all’insegnamento universitario nel 1913 con uno
scritto su Ferdinand Brunetière come storico della letteratura e critico letterario che venne
pubblicato l’anno dopo (E. R. Curtius, Ferdinand Brunetie`re. Beitrag zur Geschichte der
franzo¨sischen Kritik, Straßburg, 1914).
ERNST ROBERT CURTIUS 5

morale ed una scelta di vita. In una lettera ad Heinrich Mann del 7


novembre 1917 egli infatti scrive: «Se ricondurre l’Europa a riflettere su se
stessa è il grande e serio compito dell’avvenire – il tentativo allora di parlare
ai giovani tedeschi dello spirito latino significa collaborare a questo com-
pito. Si tratta di un alto fine»7. E una volta nominato dapprima professore
straordinario a Bonn (1919), poi professore ordinario a Marburgo (1920),
Heidelberg (1924) e Bonn (1929), Curtius si mantenne fedele a questa
convinzione, adoperandosi instancabilmente nel corso degli anni Venti in
qualità di mediatore dello «spirito francese» in Germania8.
Nei suoi scritti Curtius cerca in particolare di mettere in luce come,
anche al di là del Reno, la crisi del positivismo e il forte impulso esercitato
dalla filosofia di Bergson9 stessero facendo emergere, seppure fra mille
impedimenti, un’esprit nouveau che egli interpreta decisamente come la
rinascita di una “Francia segreta” legata da un profondo vincolo di consan-
guineità con il mondo germanico. Una posizione, la sua, non lontana da
quella magnificamente espressa dal Thomas Mann delle Betrachtungen eines
Unpolitischen quando – nelle pagine dedicate all’Annoince faite à Marie di

7
Cito da L. Ritter Santini, Il piacere delle affinità, cit., p. 10.
8
Franzo¨sischer Geist im neuen Europa è il titolo di un’opera di Curtius edita a Stoccarda
nel 1925, il cui primo capitolo, dedicato a Proust, fu ripubblicato tre anni dopo in traduzione
francese (Marcel Proust, tr. fr. di A. Pierhal, Paris, 1928). Oltre al già menzionato Die
literarischen Wegbereiter des neuen Frankreich, si possono anche ricordare: Der Syndacalismus
der Geistesarbeiter in Frankreich, Bonn, 1921; Maurice Barre`s und die geistigen Grundlagen des
französischen Nationalismus, Bonn, 1921; Balzac, Bonn, 1923. In questi volumi e in una lunga
serie di scritti minori Curtius si sofferma, oltre che su Proust, Barrès e Balzac, anche su Gide,
Rolland, Claudel, Suarès, Péguy, Valéry etc. Già a partire dai Wegbereiter (notevolmente
ampliati nella seconda edizione del 1920 e in particolare nella terza del 1923), le opere di
Curtius trovarono in Francia un’ottima accoglienza, specie sulle pagine della «Nouvelle
revue française». «Grazie al suo recensore francese, Aline de Saint-Hubert (...), Curtius
conosce Gide e viene introdotto nei grandi ed esclusivi luoghi della cultura francese, a
Colpach, Parigi, Cuverville, Pontigny» (R. Antonelli, Filologia e modernità, cit., p. XI).
9
Soggiornando a Parigi nel 1909, Curtius ebbe modo di ascoltare una serie di lezioni
tenute da Bergson al Collège de France. «Egli intese la fenomenologia di Bergson come una
filosofia della conservazione della tradizione e, dalle riflessioni di Bergson sul concetto di
dure´e, trasse la conseguenza che il tempo può essere vissuto ed esperito come “contenitore
della durata”. Quanto al presupposto e allo strumento per realizzare la possibilità di questo
Erlebnis, Curtius si appropriò di un altro concetto centrale della fenomenologia di Bergson:
l’intuizione (oggi diremmo “l’empatia”) doveva procedere oltre le differenze storiche e
assicurare la possibilità di partecipare alle sostanze spirituali superando ogni divisione
d’ordine temporale» (H. U. Gumprecht, «Zeitlosigkeit, die durchscheint in der Zeit». U¨ber E. R.
Curtius’ unhistorisches Verha¨ltnis zur Geschichte, in W. Berschin - A. Rothe, a cura di, Ernst
Robert Curtius. Werk, Wirkung, Zukunftsperspektiven, cit., pp. 227-241, p. 229).
6 INTORNO A WEBER

Paul Claudel, al «ricchissimo spirito cristiano» di questa «opera poetica


francese» e alla «sua celestiale umanità»10 – afferma nonostante tutto il suo
misogallismo: «Francia e Germania, una volta erano unite nel seno materno
dei tempi, prima che le vie della loro vita divaricassero e odio mortale
insorgesse fra loro»11.
L’intenso lavoro condotto da Curtius sulla Francia trovò un momento
di compendio nell’opera Die franzo¨sische Kultur, che fu edita a Stoccarda nel

10
T. Mann, Considerazioni di un impolitico (1918), tr. it. a cura di M. Marianelli e M.
Ingenmey, Milano, 1997, p. 407. Nei Wegbereiter anche Curtius mette fortemente in rilievo la
figura di Claudel come vero e grande Ur-Dichter, nonostante la contrarietà di George e di
Gundolf che avevano richiamato la sua attenzione sulle poesie di guerra dell’autore francese.
A proposito di tali poesie Mann scrive: «Anche la Francia di Claudel ci odia, lo so. Ma
quello è un odio migliore, più nobile di quello del retore bourgeois, questo nessuno me lo
toglie di testa. Che importanza può avere se il poeta dell’Annunciazione, dopo aver vissuto in
Germania come console, durante la guerra oltraggiò la Germania in uno sfogo di ardore
patriottico? Nel fondo dell’anima sua deve nutrire i sentimenti di quel nobiluomo campa-
gnolo della Francia settentrionale che disse a Guglielmo II in visita al suo castello: “Sire, Lei
è nostro nemico, ma resta pur sempre il fatto che Lei è un imperatore, non un avvocato”»
(ivi, p. 408). Tuttavia in Franzo¨sischer Geist im neuen Europa Curtius – obbedendo in ritardo
all’ordine di George – ignora del tutto il nome di Claudel.
11
T. Mann, Considerazioni di un impolitico, cit, p. 408. «Le unisce sempre – continua
Thomas Mann – un comune bene artistico e metafisico che a nessuna di loro può essere
assegnato per intero: il gotico che la Francia creò dallo spirito tedesco» (ibidem). E poco
prima cita un passo dell’Annoince di Claudel che chiarisce fino in fondo che cosa egli intenda
quando parla del gotico come «comune bene artistico e metafisico»: «Va su in cielo d’un sol
tratto! Quanto a me, per salire anche un poco mi occorre tutto il lavoro di una cattedrale e
delle sue fondamenta» (ibidem). Thomas Mann avvertı̀ che le sue posizioni sulla questione
franco-tedesca presentavano alcune affinità con quelle di Curtius. Infatti, dopo aver letto i
Wegbereiter, egli scrisse a Curtius in una lettera datata 4 dicembre 1920: «Ai miei occhi
rappresenta un’opera di mediazione critica di primo rango, l’azione di un buon europeo e in
futuro La ringrazieranno e sarà certamente più apprezzata di quanto non possa accadere
oggi» (cito da L. Ritter Santini, Il piacere delle affinità, cit., p. 14). Tuttavia, a differenza di
Curtius, Mann, che si sentiva erede sia come uomo che come artista di un mondo nordico,
moralistico e protestante, era costantemente animato da una profonda diffidenza nei
confronti del mondo latino: «Questi latini – dice Tonio Kröger – non hanno coscienza negli
occhi». Non a caso, nella lettera prima citata, Mann rivela a Curtius di essersi sentito
particolarmente attratto dalla figura di André Suarès, che viene presentato nei Wegbereiter
come «l’uomo del Nord» per il quale «l’anima è più importante del corpo, il suono è più
importante della vista». Cfr. però la lettera inviata da Curtius a Carl Schmitt il 6 dicembre
1921 ed ora pubblicata in Briefe von Ernst Robert Curtius an Carl Schmitt, 1921-1922, in
«Archiv für das Studium der neueren Sprachen», 1981, n. 218, pp. 1-16: «Sono disposto ad
amare i latini, ma a nessun costo vorrei essere uno di loro (...). Come tedesco mi servo del
privilegio tedesco di comprendere, con empatica intelligenza, anche ciò che è straniero: la
grandiosa rigidità della volontà ordinatrice romano-latina. La vorrei aufheben nel triplice
senso hegeliano. Un simile atto non sarebbe possibile da parte latina».
ERNST ROBERT CURTIUS 7

1930 e che, solo due anni dopo, venne pubblicata a Parigi in traduzione
12
francese . Tuttavia non bisogna credere che nel corso degli anni Venti
l’attenzione di Curtius fosse limitata alla Francia. Infatti, già tra il 1924 e il
1925, l’Europa franco-tedesca cominciò ad apparirgli troppo ristretta e
troppo profondamente segnata da anguste questioni di politica nazionale.
Non a caso, proprio a partire da quegli anni, egli dedica una serie di saggi
ad autori spagnoli come Miguel de Unamuno e José Ortega y Gasset. Per
quanto riguarda invece il mondo anglosassone, Curtius traduce nel 1927
The Waste Land 13 e pubblica nel 1929 un pionieristico studio su James Joyce
und sein Ulysse14. L’Ulisse e La terra desolata: due opere il cui spazio è
l’Europa occidentale e il cui tempo è la sua tradizione letteraria da Omero
in poi. Inoltre, dalla seconda metà degli anni Venti, Hofmannsthal sostitui-
sce George come suprema «autorità spirituale e morale». «L’Austria di
Hofmannsthal – Curtius infatti scrive nel saggio del 1929 Hugo von Hof-
mannsthal: in memoriam – aveva conservato le dimensioni spirituali della
vecchia monarchia universale e l’eredità culturale delle sue classi aristocrati-
che (...). Noi tedeschi ci avviciniamo al mondo latino come bisognosi: lui,
austriaco, lo governava come chi lo possiede, non aveva bisogno di
conquistare ciò che gli apparteneva; entrava in un paese ereditato in cui si
riconosceva»15. E nel saggio del 1934 George, Hofmannsthal und Calderón
Curtius aggiunge che la missione «quasi sovrumana» di Hofmannsthal fu
quella «di ridiscendere “alla radice delle cose”, di ritrovare fra i tesori
distrutti della tradizione le forze della salvezza e, infine, di innalzare ancora
le immagini di un mondo restaurato»16. Dunque, anche chi consideri la
produzione scientifica di Curtius fino ai primi anni Trenta, ha già in mano
tutti gli elementi per intendere le ragioni del giudizio che, molti anni dopo,

12
E. R. Curtius – A. Bergsträsser, Frankreich, Band I: E. R. Curtius, Die franzo¨sischen
Kultur. Eine Einfu¨hrung, Stuttgart, 1930 (Essai sur la France, tr. fr. di J. Benoist-Méchin, Paris,
1932). A due anni dalla sua apparizione, il volume di Curtius venne anche tradotto in inglese
e in svedese.
13
In «Neue Schweizer Rundschau», aprile 1927, pp. 362 sgg.
14
Zürich, 1929.
15
E. R. Curtius, Hugo von Hofmannsthal: in memoriam (1929), tr. it. in Id., Letteratura della
letteratura, cit., pp. 165-176, p. 172.
16
E. R. Curtius, George, Hofmannsthal e Calderón (1934), tr. it. in Id., Letteratura della
letteratura, cit., pp. 174-200, p. 199. «La sua più profonda intuizione – continua Curtius
operando su Hofmannsthal «una vera e propria proiezione» (R. Antonelli, Filologia e
modernità, cit., p. XV) – fu “che la vita non può essere vissuta che con legami legittimi”. Il suo
compito, la sua dolorosa e faticosa missione in quest’epoca fu purificare e trasfigurare questi
legami» (E. R. Curtius, George, Hofmannsthal e Calderón, cit., p. 199).
8 INTORNO A WEBER

espresse su di lui Thomas Eliot: «Non possiamo determinare il vero rango


e il vero significato degli autori di rilievo che scrivono nella nostra lingua
senza l’aiuto di critici stranieri dotati di un punto di vista europeo. Infatti
solo tali critici possono dirci se un autore è di importanza europea. E di
questo genere di critici Curtius è uno dei più illustri della nostra epoca»17.

17
T. S. Eliot, Brief u¨ber Ernst Robert Curtius, in M. Rychner – W. Boehlich (a cura di),
Freundesgabe fu¨r Ernst Robert Curtius, cit., pp. 25-27, pp. 26-27. — Al deterioramento del clima
politico successivo al 1930, Curtius reagı̀ con il saggio Deutscher Geist in Gefahr (Stuttgart,
1932) che ebbe tre edizioni nel giro di due anni. In questa Streitschrift lo studioso alsaziano
stigmatizza duramente la barbarie montante denunciando «la capitolazione della Bildung
tedesca, l’odio per la cultura e i suoi retroscena politico-sociologici» (come egli stesso
afferma sedici anni più tardi nella brevissima prefazione alla prima edizione di Europa¨ische
Literatur und lateinisches Mittelalter, tr. it. cit., p. 9, con qualche modifica). Ma uno solo è per
Curtius l’antidoto a questo veleno: la riscoperta delle comuni radici romane e cristiane delle
nazioni europee. Per tale motivo Hans Ulrich Gumprecht, nel saggio «Zeitlosigkeit, die
durchscheint in der Zeit». U¨ber E. R. Curtius’ unhistorisches Verha¨ltnis zur Geschichte (cit., in part.
pp. 231 sgg.), ha giustamente insistito sulla necessità di cogliere – al di là di ogni
stilizzazione – il carattere eminentemente conservatore della posizione di Curtius, nonché
della sua stessa contrapposizione al nazismo (interpretato come la variante tedesca di una
più generale rebelión de las masas). A suffragio della propria tesi Gumprecht sottolinea alcuni
indizi rivelatori: ad esempio l’ostilità di Curtius all’etica filosofica kantiana che, consistendo
nella «riduzione della morale ad una legge che ha un carattere puramente formale», gli
appare «inconciliabile col cristianesimo» il quale «ci ingiunge l’Amore, vale a dire un
contenuto e non una forma» (Undatiert Brief an Charles Du Bos, 1929, in H. e J. M.
Dieckmann, a cura di, Deutsch-franzo¨sische Gespra¨che 1920-1950: La Correspondance de Ernst
Robert Curtius avec Andre´ Gide, Charles Du Bos et Vale´ry Larbaud, Frankfurt a. M., 1980, p.
283); oppure il suo apprezzamento per la filosofia di Heidegger letta come una restaurazione
dell’ontologia, come «una nuova dottrina dell’essere» (E. R. Curtius, Deutscher Geist in
Gefahr, cit., terza edizione, 1933, p. 28). In ogni caso, dopo la pubblicazione di Deutscher
Geist in Gefahr, Curtius subı̀ non pochi attacchi. Un collega di Bonn, il germanista Hans
Naumann, ravvisò nel suo scritto un attentato alle «potenze vitali» del popolo tedesco (cfr.
H. Naumann, Deutsche Nation in Gefahr, Stuttgart, 1932). E un anno dopo l’ostilità dei nazisti
nei confronti di Curtius trovò piena espressione nell’articolo di Herman Sauter Deutscher
Geist in Gefahr?, pubblicato il 24 marzo 1933 sul «Völkischer Beobachter», il giornale
ufficiale del partito. «L’articolo di Sauter si conclude con un tetro ammonimento: l’attività di
Curtius come studioso e come ricercatore può ricoprire un compito importante nella Nuova
Germania, ma il Kulturpolitiker Curtius non è in grado di insegnare poiché non possiede una
sufficiente conoscenza delle “vere, cioè biologiche radici della cultura tedesca”» (E. J.
Richards, Modernism, Medievalism and Humanism, tr. it. cit., p. 446). Significativa è anche la
testimonianza di Eliot: «In seguito alla conquista del potere da parte di Adolf Hitler,
avemmo paura per l’autore di Deutscher Geist in Gefahr» (T. S. Eliot, Brief u¨ber Ernst Robert
Curtius, cit., p. 27). – Dopo l’ascesa del nazismo, Curtius si chiuse nella propria attività di
ricerca preparando i materiali per Europa¨ische Literatur und lateinisches Mittelalter. «Il mio
libro – egli scrive nella prefazione alla seconda edizione del 1954 – non è il prodotto di
finalità puramente scientifiche, ma della preoccupazione per la salvaguardia della cultura
occidentale. Tenta infatti di mettere in luce con nuovi metodi l’unità di questa tradizio-
ERNST ROBERT CURTIUS 9

Ritengo però che proprio la particolare attenzione del giovane Curtius


alla cultura francese (nonché la peculiare natura di questa attenzione, tesa
fin dal principio a rivitalizzare le comuni radici romane e cristiane del
mondo europeo e perciò essa stessa foriera di tutti i successivi allargamenti
d’orizzonte) consenta di comprendere il motivo per il quale, dopo la
pubblicazione di Wissenschaft als Beruf, egli – che aveva allora solo trentatré
anni e che, otto anni prima, aveva conosciuto personalmente Max Weber18
– avvertisse subito il bisogno di prendere la parola con una lunga recen-
sione apparsa su «Die Arbeitsgemeinschaft» nel gennaio del 192019. Infatti
nel Vortrag weberiano c’è un passo al quale Curtius non fa mai esplicita-
mente riferimento ma dal quale dovette sentirsi profondamente scosso. È il
passo in cui Weber, dopo aver individuato nella «lotta insanabile» che
sussiste «tra i diversi ordinamenti di valore del mondo» la ragione ultima

tne nello spazio e nel tempo. Nel caos spirituale contemporaneo è divenuto necessario, ma
anche possibile, dimostrare questa unità. Ma ciò può essere fatto solo da un punto di vista
universale. Questo punto di vista è offerto dalla latinità» (tr. it. cit., p. 7). Sul complesso
impianto di questa opera, sull’importanza che essa attribuisce alla retorica, sui «nuovi
metodi» della topica storica, della metaforica storica etc., non è assolutamente possibile
soffermarsi in questa sede. Per un primo inquadramento di Europa¨ische Literatur e dell’ampio
dibattito da essa suscitato cfr.: H. Weinrich, Thirty Years after Ernst Robert Curtius Book
“Europa¨ische Literatur und lateinisches Mittelalter” (1948), in «Romanic Review», 69 (1978), pp
261-278; E. J. Richards, Modernism, Medievalism and Humanism, tr. it. cit., pp. 449 sgg.; R.
Antonelli, Filologia e modernità, cit., in part. pp. XXII sgg. Nel 1954 l’Università della
Sorbona conferı̀ a Curtius una laurea honoris causa: tale evento rappresentò senza dubbio
l’adeguato suggello della sua vita di «uomo di lettere europeo» (T. S. Eliot, Brief u¨ber Ernst
Robert Curtius, cit., p. 26) se si pensa che egli fu il primo tedesco a ricevere una simile
onorificenza dal 1933 e solo il terzo dal 1914. Due anni dopo, nell’aprile del 1956, Curtius
morı̀ a Roma all’età di settant’anni.
18
Nel dicembre del 1911 Curtius, che si trovava a Heidelberg per preparare la sua
Habilitationsschrift, era stato ospite di Max e di Marianne Weber. Attratto dalla presenza di
Gundolf, egli aveva già trascorso a Heidelberg il semestre estivo del 1910 frequentando il
seminario filosofico di Windelband. (cfr. A. Rothe, E. R. Curtius in Heidelberg. Versuch einer
Spurensicherung, in W. Berschin - A. Rothe, a cura di, Ernst Robert Curtius. Werk, Wirkung,
Zukunftsperspektiven, cit, pp. 57-102, in part. p. 58).
19
Il sottotitolo di questa rivista – edita a Lipsia e diretta da R. Erdberg, V. H. Hollmann e
W. Picht – era «Monatschrift für das gesamte Volkshochschulwesen». La recensione di
Curtius è preceduta da una nota redazionale che sottolinea come il problema in discussione,
quello del legame fra la scienza e la vita, riguardi direttamente «i presupposti metodologici
dell’insegnamento nell’università popolare», dal momento che quest’ultima «interpreta se
stessa come istituto di formazione su base scientifica» (E. R. Curtius, Max Weber u¨ber
Wissenschaft als Beruf, in «Die Arbeitsgemeinschaft», gennaio 1920, pp. 197-203, d’ora in poi
MWWB, pp. 197-198; tr. it. Max Weber sulla scienza come professione, a cura di E. Massimilla,
in «Giornale critico della filosofia italiana», sesta serie, XVIII, fasc. II, maggio-agosto 1998,
pp. 258-263, p. 258).
10 INTORNO A WEBER

dell’«impossibilità di patrocinare “scientificamente” gli atteggiamenti prati-


20 21
ci» , cerca di esemplificare questa «fondamentale circostanza di fatto» non
solo richiamandosi all’insegnamento di Nietzsche e di Baudelaire circa il
conflitto sempre possibile e sempre ricorrente fra il bello, il buono, il sacro
e il vero, ma anche in maniera meno «elementare»22 e più storicamente
concreta. «Come si possa fare – Weber scrive – a decidere “scientifica-
mente” tra il valore della cultura francese e quello della cultura tedesca, io lo
ignoro», e aggiunge subito dopo: «anche qui c’è un antagonismo tra divinità
diverse, in ogni tempo»23. Non stupisce, dunque, il sollecito interessamento
dimostrato da Curtius per Wissenschaft als Beruf: lo scritto di Weber dovette
infatti apparire allo studioso alsaziano come una severa ingiunzione a
riflettere fino in fondo sulle “condizioni di possibilità” e sui presupposti
teorici ultimi del proprio ambizioso progetto culturale.

2. Dopo aver ripercorso i passaggi salienti del testo recensito, Curtius


caratterizza subito la rigida separazione propugnata da Weber fra la scienza
empirica specialistica e il “bisogno pratico” della vita come una «reazione di
difesa» nei confronti delle caotiche esigenze della «giovane generazione»
che, nella sua brama d’assoluto, mostra un’assoluta «noncuranza nei con-
fronti del semplice sapere fattuale»24. E se tale reazione corre il rischio di
apparire dimentica del fatto che «i reduci della guerra sono in uno stato
d’animo che non ha precedenti» e sembra misconoscere «la migliore
volontà di vita della gioventù odierna»25, tuttavia, chiunque abbia orecchi
per cogliere i toni e i semitoni di una voce, si accorge subito che l’atteggia-
mento di Weber non è affatto freddo e distaccato, ma reca tutto il peso
«della sua forte personalità e della sua tragica tensione etica»26. In partico-
lare Curtius rivela la sua grande sensibilità di lettore quando sottolinea che
in Wissenschaft als Beruf Weber si pronuncia «sul problema della scienza in
un’autocaratterizzazione certamente involontaria, ma che si palesa tale già
attraverso il genere delle sue citazioni: Isaia, il Salterio, Tolstoj»27.
E tuttavia, proprio a causa di questo completo coinvolgimento sogget-

20
WaB, p. 99; tr. it. cit., p. 111.
21
WaB, p. 104; tr. it. cit., p. 121.
22
WaB, p. 100; tr. it. cit., p. 111.
23
Ibidem.
24
MWWB, p. 200; tr. it. cit., p. 260.
25
Ibidem.
26
MWWB, p. 204; tr. it. cit., p. 263.
27
MWWB, p. 201; tr. it. cit., p. 260.
ERNST ROBERT CURTIUS 11

tivo, la posizione di fondo di Weber sul nesso che intercorre fra la scienza,
28
la vita e i valori appare a Curtius fortemente «unilaterale» , tanto da un
punto di vista metodologico e storico, quanto da un punto di vista più
generalmente filosofico.
a) Curtius ritiene anzitutto che l’ideale weberiano di una scienza ogget-
tiva e avalutativa – la quale, in nome della dedizione alla propria Sache,
implichi «l’esclusione di ogni impulso personale»29 – sia modellato sul
paradigma della «scienza naturale meccanica degli ultimi tre secoli»30 e
dunque risulti assolutamente inadeguato all’ambito delle Geisteswissenschaft-
en. Egli sottolinea invece come in tutte le «scienze storiche della cultura» –
ossia in tutte quelle scienze i cui risultati sono strettamente dipendenti
«dall’ampiezza e dalla forza di partecipazione spirituale con cui lo studioso
(...) ha vissuto ed esperito le qualità di valore del proprio campo di lavoro»
– l’Erleben sia in realtà «una funzione della personalità che è condizione
della conoscenza»31.
D’altra parte che il sapere assolutamente disinteressato non rappresenti
affatto «l’unico ed eterno archetipo di ricerca conoscitiva sistematica»32 è
per Curtius anche una verità storico-fattuale. Basta infatti evitare ogni
proiezione retrospettiva per accorgersi quanto sia lontano questo ideale
conoscitivo del «rassegnato uomo del diciannovesimo secolo che è domi-
nato dall’etica del dovere kantiana» da quello di Platone «che della rela-
zione amorosa con l’oggetto della conoscenza fa un presupposto metodico
del conoscere»33.
Proprio questa immagine storicamente e metodologicamente limitata
della «ricerca conoscitiva sistematica» è per Curtius alla base della convin-
zione weberiana secondo la quale – a differenza di ciò che accade per
l’opera d’arte – «il destino, o meglio il senso» di «ogni lavoro scientifico
“compiuto”» risiede nel fatto che esso «implica il sorgere di nuove do-
mande e vuole invecchiare ed essere “superato”»34 – convinzione che reca
come suo corollario il problema che Weber pone in primo luogo a se
stesso e poi a ogni uomo dedito alla scienza “per amore della scienza”:
«Che cosa pensa egli di ottenere di sensato con queste creazioni inesorabil-

28
Ibidem.
29
MWWB, p. 202; tr. it. cit., p. 262.
30
MWWB, p. 201; tr. it. cit., p. 260.
31
MWWB, p. 202; tr. it. cit., p. 262.
32
MWWB, p. 201; tr. it. cit., p. 261.
33
MWWB, p. 202; tr. it. cit., p. 262.
34
WaB, p. 85; tr. it. cit., p. 85.
12 INTORNO A WEBER

mente destinate ad invecchiare, ossia aggiogandosi a questa attività setto-


35
riale protraentesi all’infinito?» . Curtius ritiene infatti che la terrificante idea
di un progresso infinito, inteso come un continuo incremento della specia-
lizzazione e una continua relativizzazione dei risultati precedentemente
raggiunti, sia in realtà tutta modellata sulla «scienza naturale esplicativa»36 e
vacilli già di fronte a quelle scienze che, come la storia, procedono in
maniera interpretativa e hanno di mira «le qualità di valore» dei loro
oggetti: «Mommsen o Ranke – egli scrive – non potranno mai essere
superati nel senso in cui possono essere superati Lavoisier o Liebig»37.
L’ambito in cui però «la teoria del progresso» di Weber si rivela
«assolutamente priva di senso»38 è quello della filosofia, che è qualcosa di
radicalmente diverso dalle scienze empiriche sebbene altrettanto ed anche
più indispensabile di esse. Ma per Curtius Weber non coglie il peculiare
modo d’essere della filosofia giacché la riduce a una «disciplina speciali-
stica» che è senz’altro capace di «costringere o quanto meno aiutare il
singolo a rendersi conto del senso ultimo del proprio operare», ma non già
perché è in grado di indicargli una meta e una destinazione, bensı̀ soltanto
perché è in grado di mostrargli che «una certa posizione pratica può
dedursi quanto al suo senso con intima coerenza e quindi con serietà da
questa o da quella concezione fondamentale del mondo (...), ma non da
altre»39.
b) Il tema dell’ «esclusione della filosofia» in Weber – che, per dirla con
Max Scheler, condanna la sua anima di «puro germanico» e di «puro
protestante» a oscillare di continuo «fra l’ascetico scienziato specialista e il
derviscio danzante»40 – ci porta senza dubbio al cuore della critica mossa da
Curtius a Wissenschaft als Beruf. Il riferimento all’autore di Der Formalismus
in der Ethik und die materiale Wertethik non è del resto un riferimento
arbitrario, visto che proprio sulla scorta di Scheler, e nelle modalità di
Scheler, Curtius tende a considerare il problema dei valori come il pro-

35
WaB, p. 86; tr. it. cit., p. 87.
36
MWWB, p. 201; tr. it. cit., p. 261.
37
Ibidem.
38
Ibidem.
39
WaB, p. 104; tr. it. cit., p. 121.
40
M. Scheler, Max Webers Ausschaltung der Philosophie (Zur Psychologie und Soziologie der
nominalistischen Denkart) (1921-1923), in Id., Gesammelte Werke, vol. VIII, a cura di Maria
Scheler, Bern – München, 1960, pp. 430-438 (d’ora in poi MWAP), pp. 431-432; tr. it.
L’esclusione della filosofia in Max Weber. Sulla psicologia e sulla sociologia del modo di pensare
nominalistico, in Id., Lo spirito del capitalismo e altri saggi, a cura di R. Racinaro, Napoli, 1988,
pp. 145-155, p. 147.
ERNST ROBERT CURTIUS 13

41
blema fondamentale della filosofia . Sicché per lui l’inadeguata concezione
weberiana della filosofia (della quale l’unilaterale concezione della scienza
non è che un riflesso) si rivela chiaramente nel modo in cui Weber affronta
il problema dei valori. Infatti Curtius individua la tesi di fondo di Wissen-
schaft als Beruf nell’idea di un «conflitto dei valori» concepito come una
«datità radicata nel fondamento del mondo» che deve essere «semplice-
mente assunta come uno stato di fatto», ma ritiene nel contempo che
proprio questa «tesi assiologica» da cui tutte le altre dipendono sia assoluta-
mente priva di una «fondazione teoretica»42.
Facendo esplicitamente riferimento a Vom Umsturz der Werte – cioè
all’opera in cui Scheler assume «l’ordinamento gerarchico positivo dei
valori» fenomenologicamente delucidato in Der Formalismus in der Ethik
come «punto fermo tacitamente presupposto per la critica del nostro
tempo e del suo ethos»43 –, Curtius sostiene che Weber non si domanda
mai se «l’anarchia dei valori», lungi dall’essere un dato strutturale, non sia
invece l’indice di una situazione patologica in cui versa «l’odierna civiltà
europeo-occidentale»44. Più in generale, Weber non si domanda se l’impos-
sibilità della scienza avalutativa di «provare» un sistema di valori (ossia di

41
Sui rapporti fra Scheler e Curtius cfr. W.-D. Lange, Ernst Robert Curtius und Max
Scheler. Eine Skizze, in F.-L. Kroll (a cura di), Wege zur Kunst und zum Menschen. Festschrift
fu¨r Heinrich Lu¨tzeler zum 85. Geburtstag, Bonn, 1987, pp. 265-273. Recensendo Europa¨ische
Literatur und lateinisches Mittelalter («American Journal of Philology», LXX, 1949, pp.
425-431) Leo Spitzer definisce il giovane Curtius come un «acolyte of Bergson’s intuitio-
nism and of Scheler’s phenomenology» (p. 425), pur sostenendo che l’opera del 1948 segna
un abbandono di tutte le tendenze estetiche e filosofiche precedenti. Tuttavia in Europa¨ische
Literatur non mancano affatto significativi riferimenti a Scheler (come del resto a Bergson).
Cfr. ad esempio il cap. IX (Eroi e sovrani), tr. it. cit., p. 189: «Scheler, nel suo sistema etico,
enumera cinque specie di valori fondamentali, nel seguente ordine decrescente: la santità, le
doti intellettuali, la nobiltà d’animo, l’utilità, la bellezza. Ad essi corrispondono cinque “tipi
ideali di persone” o “modelli”: il santo, il genio, l’eroe, il leader carismatico, l’artista. Il “tipo”
dell’eroe è associato al valore fondamentale della nobiltà d’animo». Ma si veda anche E. R.
Curtius, Goethe: temi del suo mondo (1949), tr. it. in Id., Letteratura della letteratura, cit., pp.
375-390, p. 384: «Max Scheler ha cercato, nella sua Ethik, una gerarchia ontologica di “valori
personali” o di “tipi modelli”: a mia conoscenza è l’unico fra i filosofi, il che è davvero
motivo di rammarico. Sarebbe un chiarimento salutare per la nostra cultura e le permette-
rebbe di comprendere meglio se stessa, di arrivare a conoscere la natura del santo, del
saggio, del poeta, del pensatore, dell’eroe e le insegnerebbe a dividerli gerarchicamente».
42
MWWB, pp. 201-202; tr. it. cit., p. 261.
43
Cfr. M. Scheler, Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsa¨tze (1915; con questo
titolo a partire dalla seconda edizione del 1919), ora in Id., Gesammelte Werke, vol. III, a cura
di Maria Scheler, Bern – München, 1955, Vorrede zur ersten Auflage, p. 8.
44
MWWB, p. 202; tr. it. cit., pp. 261-262.
14 INTORNO A WEBER

45
svilupparlo dal proprio intimo) significhi davvero che la valutazione sia un
ambito assolutamente inintellegibile dove domina la risoluzione individuale
– il «sic volo, sic iubeo»46 – o se invece non sia possibile rendere «filosofica-
47
mente» «evidente» una gerarchia di valori oggettivi .
Parallelamente Weber ritiene che la scienza nel suo complesso possa
solo essere indagata come componente di un processo storico-fattuale
plurifattoriale quale il processo di razionalizzazione, e che quest’ultimo
possa a sua volta essere scientificamente ricostruito solo dopo aver deciso –
in maniera del tutto “irrazionale” – che ciò che la scienza può conoscere sia
«degno di essere saputo»48. In Wissenschaft als Beruf Weber infatti scrive: «se
(...) la scienza sia degna di diventare la “vocazione professionale” di qual-
cuno e se essa stessa possieda una “vocazione professionale” oggettiva-
mente valida, è di nuovo un giudizio di valore sul quale non è lecito
pronunciarsi in aula. Per l’insegnamento, infatti, la risposta affermativa è un
presupposto. Col mio stesso lavoro rispondo di persona affermativamente»49.
Ma Curtius mette in rilievo che in una simile prospettiva teorica c’è
un’eventualità che resta del tutto esclusa, quella che la scienza possieda,
oltre a una genealogia storico-fattuale, anche un senso e un valore oggetti-
vamente determinabili «a partire da una visione globale dei valori della vita
e del loro ordine gerarchico»50. E pur non volendo addentrarsi «nei compli-
catissimi problemi della dottrina filosofica del valore»51, Curtius non esita a
fare esplicitamente riferimento ai «tratti fondamentali» di tale Gesamtan-
52
schauung che gli appare «dotata di un universale carattere fondativo» .
«Anche se non siamo dei metafisici – egli scrive –, sappiamo precisamente:
che v’è un sacro, un buono, un bello e un vero; che non occorre che essi
siano in conflitto fra loro; che un uomo è tanto più dotato di valore quanto
più profondamente e ampiamente contempla e realizza questi valori; che
dobbiamo essere prima uomini e poi studiosi; che è possibile inquadrare il
senso della scienza nel senso complessivo della vita; che è nefasto, cattivo e
insensato se noi che ci dedichiamo alla scienza (...) costruiamo una barriera
tra la nostra esistenza di scienziati e la nostra esistenza di uomini»53.

45
Cfr. MWWB, p. 199; tr. it. cit., p. 259.
46
MWAP, p. 432; tr. it. cit., p. 148.
47
MWWB, p. 199; tr. it. cit., pp. 259-260.
48
WaB, p. 93; tr. it. cit., p. 101. Cfr. MWWB, p. 199; tr. it. cit., p. 259.
49
WaB, p. 105; tr. it. cit., p. 123.
50
MWWB, p. 203; tr. it. cit., p. 262.
51
MWWB, p. 202; tr. it. cit., p. 261.
52
MWWB, p. 203; tr. it. cit., p. 262.
53
Ibidem; tr. it. cit., pp. 262-263.
ERNST ROBERT CURTIUS 15

Con tali osservazioni Curtius, da attento lettore di Der Formalismus in


der Ethik e di Vom Umsturz der Werte, giunge ad anticipare alcuni degli
argomenti che, pochi anni dopo, Scheler stesso farà valere contro Wissen-
54
schaft als Beruf . Infatti nel manoscritto del 1921-1923 Max Webers Aus-
schaltung der Philosophie Scheler rimprovera a Weber di non aver mai rico-
nosciuto nella storia il tipo del saggio «in cui l’anima mantiene l’equilibrio
mosso, sensibile e bello delle sue diverse forze, in quanto continuamente
traspone – per cosı̀ dire – il bene nel sapere e il sapere nel bene»55: in cui,
dunque, il momento della «contemplazione» e quello della «realizzazione»
si compenetrano fra loro fluidificando ogni rigida «barriera» innalzata fra la
«scienza» e la «vita».
Interrogandosi poi sui presupposti ultimi di tale esclusione della sag-
gezza (la quale «non per niente a partire da Socrate è cosı̀ strettamente
legata all’essenza della filosofia in quanto arte spirituale e tecnica dell’espo-
sizione delle idee»)56, Scheler punta l’indice contro il «nominalismo» di
Weber57, vale a dire contro ciò che Curtius definisce la mancanza di una
«visione globale» che risulti «dotata di un universale carattere fondativo».
«Per lui – Scheler scrive – era ovvio che tutti i concetti della scienza, in
quanto tali, non possedessero oggetti autonomi né un riempimento ad essi
proprio per mezzo di un’intuizione dell’essenza pura di un ambito contenu-
tistico, ed era altresı̀ ovvio che i concetti in questione si limitassero
piuttosto a indicare in maniera inequivocabile le analogie di una cerchia di
fatti sensibilmente dati con un “nome” arbitrariamente scelto, o che fossero
costruzioni autonome di casi limite “tipico ideali”, il cui unico valore
consisterebbe nella forza di padroneggiare, mettendolo in ordine, un mate-
riale storico dato»58. È proprio questo nominalismo che prefigura, secondo

54
Non a caso Scheler, riallacciandosi alla «discussione letteraria assai notevole» accesasi
dopo la pubblicazione della conferenza weberiana, non dimentica di citare la recensione di
Curtius accanto ai saggi molto più ampi di Erich von Kahler, Arthur Salz ed Ernst Troeltsch
(cfr. M. Scheler, Weltanschauungslehre, Soziologie und Weltanschauungssetzung, 1922, in Id.,
Gesammelte Werke, vol. VI, a cura di Maria Scheler, Bern – München, 1963, pp. 13-26, d’ora
in poi WSW, p. 19; tr. it. Teoria della “Weltanschauung”, sociologia e posizione della “Weltan-
schauung”, in Id., Lo spirito del capitalismo, cit., pp. 125-144, p. 125).
55
MWAP, pp. 431-432; tr. it. cit., p. 147.
56
MWAP, p. 431; tr. it. cit., p. 147.
57
MWAP, p. 433; tr. it. cit., p. 149.
58
Ibidem. «Egli – continua Scheler – non ammetteva una distinzione sostanziale fra
l’“astrazione ideante” – in cui il singolo caso dato funge solo da modello e da esempio per
afferrare in esso (non con un’astrazione positiva e negativa dai suoi connotati empirici)
l’essenza di questa cosa stessa – e l’astrazione empirica, induttiva, dei cosiddetti tratti comuni
di molteplici situazioni di fatto casuali» (ibidem).
16 INTORNO A WEBER

Scheler, l’assoluta impossibilità weberiana di coniugare insieme scienza e


vita, logos ed ethos, uomo teoretico e uomo pratico, avendo come esito
inevitabile quel «conflitto dei valori» che a Curtius appariva significativa-
mente privo di «fondazione teoretica». Infatti per Scheler solo «l’essenza (e
l’ordinamento essenziale) del mondo delimita allo stesso tempo» tanto «la
possibilità di esistenza delle cose» quanto «la possibilità di essere valore di
questo esistente». «Essa costituisce pertanto un necessario ponte fra ciò che
in Max Weber si separa in maniera puramente e rigidamente dualistica: il
dover-essere, da una parte, e l’effettualità avalutativa esistente, dall’altra.
Nell’ordinamento essenziale lo spirito scorge un essere e un ordinamento
che, ancora prima della distinzione, giace in ciò che “è” la contingente,
casuale effettualità dell’esistenza, e in ciò che essa “deve” essere ed eventual-
mente “deve” diventare. Chi dunque non soltanto insegni come dottrina
che l’idea è oggettivamente esistente e ha validità sia sulle cose sia sullo
spirito, bensı̀ eserciti anche veramente la techne e l’arte dell’Œδε ν τω̃ν Œδεω̃ν,
può in generale non andare a finire in quel dualismo di esistente e dovuto in
cui oscillava tanto il pensiero di Max Weber quanto quello dei suoi maestri
filosofici Windelband e Rickert»59.

3. Mi sembra dunque che, di fronte all’ineliminabile possibilità del conflitto


sancita dal politeismo dei valori di Weber, il giovane Curtius – come uomo
del dialogo fra mondi culturali certamente differenti ma pur sempre conce-
piti come differenti declinazioni della medesima identità – individui come
proprio riferimento filosofico privilegiato il «grande movimento antinomi-
nalistico (...) introdotto dalle Logische Untersuchungen di Edmund Husserl»60
e, in particolare, la fenomenologia di Scheler. Per quest’ultimo «l’errore
radicale» di Max Weber consiste nell’idea secondo la quale «i valori
materiali hanno soltanto significato soggettivo», per cui «non ci può essere
una via di conoscenza vincolante di cose e valori oggettivi, di beni e di sistemi di
beni, al di là della scienza positiva»61. Da questa idea – continua Scheler
mettendo chiaramente in luce la ragione per la quale il suo pensiero
esercitò su Curtius una prepotente forza di attrazione – deriva come
conseguenza inevitabile «che non ci può essere un “convincere” e un
arricchirsi spirituale tra i rappresentanti di diversi sistemi di valore. Ma è
vero il contrario»62.

59
MWAP, p. 434; tr. it. cit., pp. 150-151.
60
MWAP, p. 433; tr. it. cit., p. 149.
61
MWAP, p. 431; tr. it. cit., p. 146.
62
Ibidem. Cfr. MWWB, p. 199; tr. it. cit., p. 259: «Max Weber giunge (...) ad un
ERNST ROBERT CURTIUS 17

L’ascendenza scheleriana delle riflessioni di Curtius consente, a mio


avviso, anche di comprendere perché egli dipinga l’immagine di un Weber
tutto schiacciato sul paradigma della «scienza naturale meccanica degli
ultimi tre secoli» e assolutamente ignaro dell’importanza che la nozione di
valore riveste nell’ambito delle «scienze storiche della cultura». A Curtius si
potrebbe infatti obiettare fin troppo facilmente: che Weber, avendo davvero
avuto Rickert fra i suoi «maestri filosofici», è ben consapevole del ruolo
svolto dalla «relazione al valore» nella costruzione dell’oggetto delle scienze
storico-sociali63; o anche che, proprio in ragione di tale consapevolezza e
nel contempo in ragione del deciso rifiuto di «un concetto obiettivo e
64
sistematico di cultura» fondato su di un «sistema di valori validi» , Weber
distingue nettamente il progresso delle scienze della natura da quello delle
scienze storico-sociali e considera queste ultime votate ad un destino di
«eterna giovinezza»65, almeno «finché nessun irrigidimento cinese della vita
spirituale farà desistere l’umanità dal porre nuove questioni alla vita sempre
parimenti inesauribile»66.
Ritengo però che per cogliere alla radice la posizione di Curtius sia
necessario tener conto del fatto che per lui, come per Scheler, il problema
dell’«impulso personale» che solo consente allo scienziato della cultura «di
vivere ed esperire le qualità di valore del proprio campo di lavoro», lungi
dall’essere un problema gnoseologico settoriale, nasconde in realtà una
questione filosofica di importanza fondamentale, quella del rifiuto del
formalismo non solo kantiano ma anche neokantiano in nome della natura
«materiale» dei valori, ossia della loro natura contenutistica e “oggettiva”
(nel doppio senso del termine). Basti ricordare che in Der Formalismus in
der Ethik Scheler sottolinea: che i valori assoluti ed eterni (diversi tanto dai

soggettivismo che egli formula in maniera nitida e che, rigorosamente assunto, esclude ogni
accordo fondato su di una base comune».
63
Certo per Weber, come per Rickert, la «relazione teoretica al valore» [Wertbeziehung] è
cosa ben diversa dalla «valutazione» [Wertung], e tuttavia presuppone pur sempre «che noi
siamo esseri culturali, dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente
posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso» (M. Weber, L’“oggettività”
conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, 1904, in Id., Il metodo delle scienze
storico-sociali, a cura di Pietro Rossi, Torino, 1981, pp. 53-141, p. 96).
64
H. Rickert, Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft (1899), settima edizione, Tübingen,
1926, pp. 136-137; tr. it. Il fondamento delle scienze della cultura, a cura di L. Rossetti e M.
Signore, Ravenna, 1979, p. 177.
65
M. Weber, L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, cit., p. 126
66
Ivi, p. 101.
18 INTORNO A WEBER

«beni» che li incorporano quanto dai «fini» che, come termini di un’aspira-
zione, possono essere o non essere dotati di valore) sono appresi nell’«espe-
rienza emozionale pura» la quale è un’esperienza intenzionale irriducibile
tanto alla ragione quanto agli stati emotivi empirici; che la gerarchia dei
valori è parimenti appresa attraverso l’atto del «preferire» (ossia dell’ante-
porre e del posporre), anch’esso intenzionale e ben diverso dall’atto empi-
rico dello scegliere fra beni diversi; che ad apprendere i valori e la loro
gerarchia è la persona considerata come l’unità concreta dei suoi atti
intenzionali. Su questo sfondo appare chiaro perché nella recensione a
Wissenschaft als Beruf Curtius definisca il «ruolo della personalità nel pro-
cesso di conoscenza» come il «punto principale dell’intera discussione»67, e
perché a tale proposito si richiami all’erotica platonica, ossia al luogo della
tradizione filosofica occidentale ove il rapporto dell’anima con le idee si
configura in maniera paradigmatica come un rapporto che investe tutta
intera la vita dell’uomo68. Ma «Weber considera “personale” eguale a
“soggettivo” – invece di considerarlo eguale a straordinariamente e massi-
mamente oggettivo»69.

67
MWWB, p. 202; tr. it. cit., p. 262.
68
Più tardi Curtius parlerà di una «connessione metafisica fondamentale fra amore e
conoscenza che Max Scheler ha fondato filosoficamente» (cito da W.-D. Lange, Ernst
Robert Curtius und Max Scheler, cit., p. 265).
69
WSW, p. 18; tr. it. cit., p. 133. D’altronde va detto che per Scheler il modo di pensare
nominalistico di Max Weber, da cui deriva siffatta identificazione del «personale» col
«soggettivo», non è affatto privo di una ricaduta ben precisa quando si ragiona «dell’ambito
contenutistico speciale della storia universale in quanto storia dello spirito e storia reale». «La
conoscenza della storia – egli infatti scrive in una pagina che vale la pena rileggere – è, in
primo luogo, il comprendere l’actus, in cui, in ogni istante della storia, la storia diviene: l’actus
che, insieme, tanto costituisce ciò che di volta in volta è il nuovo, quanto fa giacere l’altro, in
quanto divenuto e divenuto cosı̀, per cosı̀ dire dietro di sé, come “traccia” del movimento
dinamico della vita. Questo actus per cui la storia (...) diviene è precisamente, ad ogni istante,
l’essenza della storia (...). Questo actus sta prima e al di là del suo terminus a quo (del morto
essere divenuto) e del suo terminus ad quem. È l’“istante” eterno, che muta solo individual-
mente dal punto di vista del contenuto, istante in cui la storia “diviene” – l’istante che non
soltanto determina in maniera sovrana il futuro, ma che proprio cosı̀ determina il contenuto
di senso del passato storico (...). Gli elementi che costituiscono l’esser-divenuto della storia,
che le fonti, i monumenti ecc. c’insegnano a conoscere, sono semplicemente la variopinta
periferia di fenomeni attraverso i quali noi dobbiamo guardare l’essenza e le qualità specifiche
di ogni actus vitale costituente storia. E tutto ciò che noi, in quanto agenti, vogliamo formare,
costituire, non può essere apportato al divenuto dall’esterno – a partire da un riconoscimento
del valore puramente formale o da un vuoto dover-essere, che per definizione non può mai
sapere ciò che deve fare – bensı̀ deve essere già posto nelle direzioni di valore di ogni atto
vitale». Tuttavia «il nominalista storico – che è sempre anche un nominalista del suo presente
– non può non trascurare, per principio, quest’anima diveniente della storia, eternamente
ERNST ROBERT CURTIUS 19

Peraltro proprio il fatto di concepire, sulla scorta di Scheler, il problema


della personalità e quello della gerarchia oggettiva dei valori come due
problemi strettamente connessi, consente a Curtius di rivalutare le aspre
critiche mosse dalla Jugendbewegung al sapere accademico, muovendo da
un punto di vista che da un lato è indubbiamente limitrofo a quello di
Stefan George e dei suoi discepoli70, ma dall’altro risulta complessivamente
orientato in un senso molto più tradizionale. Infatti nella recensione a
Weber Curtius si preoccupa di scagionare il movimento giovanile dall’ac-
cusa di dar vita soltanto a una sterile rivolta contro la scienza, affermando
che «quando questa gioventù esige “personalità” ed “Erleben”, in tale esi-
genza è comunque contenuto il pensiero pienamente giustificato secondo
cui il senso dell’esistenza scientifica deve essere ancorato in una interpreta-
zione di senso della natura umana»71.

pulsante, a partire da cui emerge il senso storico del passato e il contenuto possibile del
futuro: il mare infinito dei variopinti elementi dell’esser-divenuto irrigidisce il suo spirito,
cieco di fronte alle idee, ed egli non ha un ago magnetico e una stella per navigare sul mare.
Ma il “futuro” e ciò che egli o altri “devono” fare per esso rimane di fronte a lui non solo
incalcolabile (ciò che esso e`), bensı̀ rimane anche non vincolato da alcuna possibilità
storico-evolutiva né da alcun margine saldo, come terra azzurra dei suoi sogni, in cui
naturalmente egli poi possa indicare delle istanze qualsiasi. Cosı̀, anche in questo caso, una
conseguenza del modo di pensare nominalistico è di nuovo il rigido dualismo fra storia e vita,
fra la storia e la libera configurazione del futuro secondo ideali, valori, fini». (MWAP, pp.
435-436; tr. it. cit., pp. 151-152). Una posizione analoga è riscontrabile in E. Troeltsch, Lo
storicismo e i suoi problemi (1922), vol. II, tr. it. a cura di G. Cantillo e F. Tessitore, Napoli, 1989,
p. 337: «Weber non ha alcuna simpatia per il concetto di sviluppo, per la sua logica
particolare e per la sua particolare profondità metafisica. Anzi, egli giunge perfino ad
escluderlo nettamente e consapevolmente (...). In tal modo è però esclusa in linea di principio
la reale penetrazione nella dinamica interna, nella interna tensione e ritmica dell’accadere,
nell’intrecciarsi di essere e valore e nel crescere di questo intreccio».
70
Basti pensare, ad esempio, al saggio antiweberiano e georgeano di Erich von Kahler Der
Beruf der Wissenschaft, che si pone fin dall’inizio «dalla parte di una gioventù (...) convinta
dell’inesorabile necessità di una rivoluzione spirituale» (E. von Kahler, Der Beruf der
Wissenschaft, Berlin, 1920, d’ora in poi BdW, p. 8; tr. it. La professione della scienza, a cura di
E. Massimilla, con una presentazione di F. Tessitore, Napoli, 1996, p. 66). A proposito di
questo scritto cfr. infra, cap. II.
71
MWWB, pp. 202-203; tr. it. cit., p. 262. A misurare, sia nella forma che nel contenuto, il
maggiore tradizionalismo delle posizioni di Curtius rispetto a quelle del George-Kreis basti per
ora il confronto con questo passo del saggio di Kahler: «Creare un nuovo spirito è in fondo la
stessa cosa che innalzare un nuovo corpo vivente, e se oggi vogliamo immettere in tutto un
nuovo spirito, anche questo fatto accade solo perché sentiamo un nuovo essere organico in
carne e ossa che è in procinto di venire alla luce e di prendere forma. Ma noi non ci curiamo
delle designazioni di ciò che siamo e di ciò che facciamo. Non sappiamo se nella nostra fede
nelle idee vuole trovare espressione una nuova forma di religio, ossia una nuova forma di
legame retrospettivo con le alte potestà. Non sappiamo se ciò che affermiamo è una profezia
20 INTORNO A WEBER

Rimane naturalmente aperta una questione di fondo, e cioè se il


«politeismo» weberiano, che rifiuta ogni gerarchia di valori oggettiva tanto
materiale quanto formale, sia davvero privo di «fondazione teoretica»
(come ritengono Curtius e Scheler), o se al contrario proprio esso rappre-
senti, col suo conflittuale prospettivismo, un esito assolutamente obbligato
laddove l’essenza del valore venga pensata in maniera più originaria di
quanto accada nella «filosofia erudita della fine del XIX secolo e dell’inizio
72
del XX», cioè nella «filosofia dei valori» e nella «fenomenologia dei valori» .
Quest’ultima sembra essere la convinzione di Heidegger il quale – com-
mentando l’asserzione iniziale del frammento 715 di Der Wille zur Macht
(«Il punto di vista del “valore” è il punto di vista di condizioni di
conservazione-potenziamento rispetto a formazioni complesse di relativa du-
rata di vita entro il divenire»)73 – scrive: «In quanto punto di vista, il valore
è posto ogni volta dal vedere; soltanto mediante la posizione esso diventa,
per il mirare a qualcosa, un “punto” appartenente alla prospettiva di questo
mirare a qualcosa. I valori non sono dunque qualcosa di sussistente prima e
in sé, tali da poter diventare occasionalmente anche dei punti di vista (...).
Ciò che vale non vale perché è un valore in sé, ma il valore e` valore perché
vale. Vale perché è posto come valente. È posto in tal modo da un mirare a
qualcosa che, soltanto mediante questo mirare, riceve il carattere di ciò di
cui bisogna tener conto e che pertanto vale». Perciò «una volta che il pensiero
del valore e` emerso», allora «parlare di “valori in sé” è una sconsideratezza o
una mistificazione oppure ambedue le cose contemporaneamente»74.

o è qualcosa d’altro. Lambiccarsi il cervello su ciò e stabilire ciò non è affar nostro ed è anche
una questione priva di rilievo per il nostro stesso fare. Possiamo essere chiamati in qualunque
modo si voglia e riprovati in qualunque forma si voglia. Noi seguiamo le nostre direttive
interne e attingiamo da loro la nostra legittimità e la nostra responsabilità» (BdW, p. 100; tr. it.
cit., p. 173). D’altronde Scheler stesso, pur definendo Der Beruf der Wissenschaft come un
«libro bello e profondamente legittimo nella sua tendenza fondamentale», prende decisa-
mente le distanze dallo spirito “rivoluzionario” e “romantico” con cui Kahler affronta il
problema del rinnovamento della scienza (WSW, p. 17; tr. it. cit., p. 131).
72
M. Heidegger, Nietzsche (1961), a cura di F. Volpi, Milano, 1995, p. 617 (il corsivo è
mio)
73
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Id., Opere, cit., vol. VIII, tomo II, tr. it. a
cura di S. Giametta, Milano, 1971, p. 247.
74
M. Heidegger, Nietzsche., cit., pp. 619-620 (l’ultimo corsivo è mio). D’altra parte – pur
non volendo affatto costruire azzardati parallelismi tra due prospettive teoriche cosı̀ radical-
mente divergenti come quella di Heidegger e quella di Weber – non si può dimenticare che, se
per Heidegger «pensare a fondo il pensiero del valore nella sua essenza metafisica» significa
«prendere realmente sul serio il nichilismo» (ivi, p. 617), per Weber l’eterno conflitto dei valori
e la necessità di decidere tra di essi è in ultima istanza il portato del fatto che «la vita (...) si
fonda su se stessa e viene compresa a partire da se stessa» (WaB, p. 104; tr. it. cit., p. 37).
2

SULL’UTILITÀ E SUL DANNO


DELLA «VECCHIA» E DELLA «NUOVA SCIENZA»
PER LA VITA:
ERICH VON KAHLER CONTRO MAX WEBER

1. Dopo la lunga recensione di Curtius, uno dei momenti sorgivi e nel


contempo più importanti del vivace dibattito suscitato dalla pubblicazione
di Wissenschaft als Beruf è senza dubbio rappresentato dallo scritto antiwe-
beriano di Erich von Kahler Der Beruf der Wissenschaft, edito a Monaco nel
1920 per i tipi della Bondi. Tuttavia, a differenza di Curtius, Kahler – un
1
libero studioso d’origine ebraica vicino al circolo di Stefan George – si

1
Erich (Gabriel) Kahler o von Kahler – come, a ventinove anni, egli fece ufficialmente
modificare il suo cognome – nacque a Praga il 14 ottobre 1885 da un’importante famiglia di
industriali d’origine ebraica (il nonno paterno fu presidente della borsa di Praga). Dopo aver
frequentato le scuole nella sua città natale e a Vienna, Kahler studiò storia e filosofia a
Berlino, Monaco e Heidelberg, ove venne in contatto con il Weber-Kreis e in particolare con
Alfred Weber e Arthur Salz. Agli stessi anni risale il suo stretto sodalizio con Friedrich
Gundolf e con gli altri membri del George-Kreis. Nel 1911 conseguı̀ la laurea in filosofia a
Vienna con una tesi sui rapporti fra diritto e morale. Successivamente si stabilı̀ a Wolfrats-
hausen, un piccolo centro nei pressi di Monaco. Nel 1933, dopo l’ascesa al potere di Hitler,
Kahler fuggı̀ dapprima a Vienna e a Praga, poi a Zurigo (1935-1938) dove strinse amicizia
con Thomas Mann. Nell’ottobre del 1938 Kahler seguı̀ quest’ultimo a Princeton nel New
Jersey ove rimase fino alla fine della sua vita. Nella propria casa di Princeton Kahler ospitò
Hermann Broch dal 1942 al 1949. Fra i suoi interlocutori abituali possono essere anche
annoverati Albert Einstein, Ernst Kantorowicz, Ben Shahn e Wolfgang Pauli. Kahler morı̀ a
85 anni, il 28 giugno 1970. Per una bibliografia degli scritti di e su Erich von Kahler cfr. I. B.
Jonas - K. W. Jonas, Das Werk Erich von Kahlers. Eine Bibliographie, in «Modern Austrian
Literature», 19 (1986), 1, pp. 63-94. Ma si veda anche G. Lauer, Die verspa¨tete Revolution.
Erich von Kahler Wissenschaftsgeschichte zwischen konservativer Revolution und Exil, Berlin –
New York, 1995, pp. 519-534. Prima di Der Beruf der Wissenschaft, gli scritti più significativi
di Kahler sono senza dubbio Weltgesicht und Politik (Heidelberg, 1915) e Das Geschlecht
22 INTORNO A WEBER

confronta con Weber da una prospettiva di fondo che, in via di prima


approssimazione, potremmo definire lebensphilosophisch. Difatti, a un primo
livello di lettura, Der Beruf der Wissenschaft si presenta senza dubbio come
una vibrata denuncia dell’inutilità e del danno per la vita della scienza
razionale moderna nel suo complesso. Tale denuncia risulta peraltro –
come afferma Ernst Troeltsch – «profondamente commovente dal punto di
2
vista umano» poiché Kahler si pone fin dall’inizio nell’ottica della gioventù

Habsburg (München, 1919). Quest’ultimo fu inviato a Robert Musil da Efrain Fischer,


condirettore di «Der Neue Merkur» (la rivista che ne curò la pubblicazione). Musil apprezzò
molto lo scritto di Kahler e se ne servı̀ per delineare le caratteristiche della “Cacania” in Der
Mann ohne Eigenschaften (parte prima, paragrafo 8). A tale proposito cfr. R. Musil a E.
Fischer, 4 luglio 1919, in R. Musil, Saggi e lettere, 2 voll., Torino, 1995, vol. II, p. 567.
Meritano però di essere menzionati anche due brevi saggi in cui Kahler, pur senza mai
riferirsi esplicitamente a Weber, anticipa alcune delle riflessioni contenute in Der Beruf der
Wissenschaft. Essi sono Die Krisis in der Wissenschaft («Der Neue Merkur», 3, 1919, 2, pp.
115-127) e Die menschliche Wirkung der Wissenschaft, («Der Neue Merkur», 3, 1919, 3, pp.
203-210); tr. it. in E. von Kahler, La crisi della scienza, a cura di E. Massimilla, Soveria
Mannelli (Catanzaro), 1997. Tra le opere di Kahler successive a Der Beruf der Wissenschaft si
possono ricordare: Israel unter den Vo¨lkern (München, 1933); Der deutsche Charakter in der
Geschichte Europas (Zürich, 1937); Man the Measure. A New Approach to History (New York,
1943); Die Verantwortung des Geistes. Gesammelte Aufsa¨tze (Frankfurt a. M., 1952); The Tower
and the Abyss. An Inquiry into the Transformation of the Individual (New York, 1957; tr. it.
Milano, 1963); Die Philosophie von Hermann Broch (Tübingen, 1962); Der Sinn der Geschichte
(Stuttgart, 1964); Stefan George: Gro¨ße und Tragik (Pfullingen, 1964); Out of Labyrinth. Essays
on Clarification (New York, 1967); The Disintegration of Form in the Arts (New York, 1968);
The Orbit of Thomas Mann (Princeton, 1969); Untergang und U¨bergang. Essays (München,
1970). Di grande interesse è anche la voluminosa corrispondenza di Kahler: a tale proposito
cfr. in part. T. Mann - E. von Kahler, Briefwechsel 1931-1955, a cura di M. Assmann,
Hamburg, 1993. Per un profilo generale della figura e dell’opera di Erich von Kahler mi
limito qui a rimandare alla Festschrift fu¨r Erich Kahler curata da Eleanor L. Wolff e Herbert
Steiner e pubblicata a New York nel 1951, alla monografia di Anna Kiel, Erich Kahler. Ein
“uomo universale” des 20. Jahrhunderts, Bern – Frankfurt a. M. – New York – Paris, 1989 e in
part. alla già citata monografia di Gerhard Lauer. Ma si veda anche D. Conte, Fondamento e
stabilità tra catastrofi: su di uno scritto giovanile di Erich von Kahler, in «Giornale critico della
filosofia italiana», sesta serie, XVIII, fasc. I, gennaio-aprile 1998, pp. 44-52 (specificamente
dedicato a Der Beruf der Wissenschaft) e E. Massimilla, La critica della nozione di razza
nell’«Israel unter den Vo¨lkern» di Erich von Kahler, in P. Amodio - R. De Maio - G. Lissa (a
cura di), La Sho’ah tra interpretazione e memoria, Napoli, 1998, pp. 471-487.
2
E. Troeltsch, Die Revolution in der Wissenschaft, in «Schmollers Jahrbuch», 45, 1921, pp.
1001-1030, ora in Id., Gesammelte Schriften, vol. IV, a cura di H. Baron, Tübingen, 1925, pp.
653-677 (d’ora in poi RiW), p. 668. Die Revolution in der Wissenschaft, pur nascendo come
Besprechung del testo di Kahler e della replica a Kahler di Arthur Salz (su cui cfr. infra, cap.
III), è ben lungi dall’essere una semplice recensione. Infatti Troeltsch discute questi due libri
collocandoli fin dall’inizio sullo sfondo di un sommovimento spirituale complessivo che nei
primi decenni del nostro secolo interessa, secondo lui, l’intero ambito delle Geisteswissen-
ERICH VON KAHLER 23

tedesca del dopoguerra, una gioventù che, a suo dire, ha vissuto il crollo
militare e politico del Reich guglielmino come l’esito ultimo e catastrofico
di un processo di decomposizione di lungo, anzi di lunghissimo periodo.
«Dietro di noi – Kahler scrive – ci sono tutte le esperienze più serie,
esperienze a stento sopportabili per una giovane coscienza; dietro di noi c’è
qualcosa di terribile che non ha avuto inizio soltanto con questa guerra.
Dietro di noi c’è la desolazione indicibile e invisibile di tutto l’ultimo secolo
con l’agonia del quale la nostra gioventù è sorta, c’è l’Erlebnis profonda-
mente impresso di un processo mortale che cresce a poco a poco fino
all’incubo più immenso che sia mai esistito»3.
In seguito apparirà chiaro che termini come «agonia» o «processo
mortale» non vanno qui intesi solo in senso metaforico. Ma per ora è più
importante sottolineare come secondo Kahler proprio la gioventù tedesca,
che, essendo incalzata dalla «morte in ogni sua forma, grado e misura», ha

schaften e che ha nel George-Kreis la sua punta di diamante. Troeltsch individua in pensatori
come Bergson, Nietzsche, Dilthey, Simmel e Husserl il retroterra filosofico proprio di questa
nuova tendenza e considera quali sue componenti essenziali «la libertà dal causalismo
positivistico e dal determinismo, il superamento del formalismo neokantiano che inutil-
mente si sforza di ricavare da mere forme un ideale culturale etico, l’orientamento sull’im-
mediatezza dell’Erleben di tendenze culturali che non devono essere analizzate ma com-
prese, il significato formativo e simbolizzante di ogni selezione e interpretazione storica, le
visioni di un nuovo platonismo fenomenologico che contemplano e fondano leggi d’es-
senza» (RiW, p. 658). Inoltre Troeltsch avanza un’interpretazione complessiva del movi-
mento di “rivoluzione della scienza” definendolo come un «nuovo romanticismo» che, allo
stesso modo del primo, gli appare spiritualmente molto ricco ma politicamente reazionario.
«Come il vecchio romanticismo – Troeltsch infatti scrive – era un momento della grande
reazione mondiale contro le ideologie e gli sconvolgimenti pratici della rivoluzione francese,
allo stesso modo il nuovo romanticismo è un momento della reazione mondiale inevitabile
ed imminente contro l’odierna rivoluzione dell’illuminismo e dei suoi dogmi razionalistici e
socialistici. Come il vecchio romanticismo e la visione del mondo storica nata da esso erano
molto più ricchi spiritualmente della filosofia dell’illuminismo, cosı̀ lo è anche il nuovo
romanticismo. Ma come il vecchio romanticismo era essenzialmente contemplativo e
aristocratico e perciò in svantaggio rispetto all’attività della rivoluzione, cosı̀ accadrà anche
per il nuovo romanticismo. Esso non condurrà ad alcuna restaurazione permanente, bensı̀
dovrà lasciare intatte le ferree rocce dei rapporti economico-sociali. Esso trasformerà però
profondamente le ideologie e i sentimenti della vita dominanti» (RiW, pp. 676-677).
Giuseppe Cantillo ha giustamente e a più riprese richiamato l’attenzione sull’importanza di
questo saggio di Troeltsch (di cui è in corso di pubblicazione una traduzione italiana a cura
e con una postfazione di Valeria Pinto). Cfr.: G. Cantillo, Introduzione a E. Troeltsch,
L’essenza del mondo moderno, Napoli, 1977, in part. pp. 55-64; G. Cantillo, Leben und Formen.
Bemerkungen u¨ber E. Troeltsch und die Kultur seiner Zeit, in «Troeltsch-Studien», 4 (1987), pp.
67-72 e Id., Ernst Troeltsch e la cultura del suo tempo, cit.
3
BdW, p. 31; tr. it. cit., p. 94.
24 INTORNO A WEBER

conosciuto il pericolo più estremo ed è stata privata di tutti i suoi averi


materiali e spirituali («dal pane quotidiano fino alle nostre scienze e alle
nostre fedi cadute in prescrizione»), proprio la gioventù tedesca si scopre
d’un colpo immensamente più ricca di prima, nella misura in cui viene
rimandata in maniera inappellabile all’unica certezza che essa possiede
ancora, vale a dire alla propria vita: «La via è sgombra e noi scopriamo di
vivere, scopriamo di nuovo in maniera del tutto originaria che cos’è la
vita»4. A partire da questo nuovo inizio, da questo punto-zero che è poi il
punto di vista del vivente e delle sue più profonde esigenze, la Jugend di
Kahler si rapporta criticamente «a ogni singola esistenza e a ogni singola
5
forma di attività» , e dunque anche alla scienza razionale moderna. «Noi ci
interroghiamo in questo modo: “Ecco la nostra vita. Essa ha questi e questi
altri elevati bisogni. Ciò che designa se stessa come scienza è appropriata, e
in che grado, a soddisfare tali bisogni?” Da questo fatto dipende la legitti-
mità della sua esistenza o almeno il rango della sua esistenza per noi»6.
Muovendo da una simile prospettiva, Kahler legge Wissenschaft als Beruf
innanzi tutto come una «confessione» e una «rinuncia»7: come la confessione

4
BdW, p. 32; tr. it. cit., pp. 94-95. Queste affermazioni di Kahler sono peraltro rappresen-
tative di una tendenza largamente diffusa in una parte della cultura tedesca del primissimo
dopoguerra che compie il tentativo di riscattare dall’insensatezza la tragica esperienza della
guerra e della sconfitta connettendola con il raggiungimento, a lungo agognato, di un punto
di vista più puro e originario sulla vita e sul mondo. Marino Freschi (La letteratura del Terzo
Reich, Roma, 1997, pp. 22 sgg.) ha giustamente richiamato l’attenzione su di un documento
significativo di tale clima culturale. Si tratta del romanzo di Walter Flex Ein Wanderer
zwischen beiden Welten che venne pubblicato alla fine del 1916, ossia un anno prima che
l’autore perisse in battaglia, raggiungendo in breve una tiratura di oltre mezzo milione di
copie. Esso narra dell’intima amicizia di guerra sorta tra Flex e un proprio compagno d’armi,
Ernst Wurche, la cui eroica morte chiude il racconto. Durante l’ultimo incontro tra i due
giovani, che avviene sul fronte orientale, l’autore-protagonista narra tristemente a Wurche di
un commilitone caduto al suo primo combattimento. «“Un salto, una caduta – morto! E per
questo unico passo tanta pena e tanto amore”. “Non per questo unico salto”, m’interruppe
l’amico, “bensı̀ affinché lui lo potesse fare con uno sguardo limpido e impavido, con uno
sguardo umano! e ciò non dovrebbe bastare?”. Lo guardai e tacqui. Tacqui per la gioia».
5
BdW, p. 33; tr. it. cit., p. 95.
6
BdW, p. 10; tr. it. cit., p. 68.
7
BdW, pp. 8 e 31; tr. it. cit., pp. 66 e 93. Il saggio di Kahler è interamente costruito come
una puntuale replica alle tesi espresse da Weber in Wissenschaft als Beruf. E tuttavia – come
Kahler stesso afferma nella breve Vorbemerkung – «l’importanza di questo scritto non risiede
nella polemica, bensı̀ nell’erompere di una nuova concezione fondamentale» che nel
«professor Max Weber» ha solo trovato il degno avversario «per delinearsi nel modo giusto e
divenire storicamente operante» (BdW, p. 5; tr. it. cit., p. 63).
ERICH VON KAHLER 25

a lungo attesa da parte della scienza razionale moderna – che, alla maniera
del George-Kreis, egli denomina «vecchia scienza» – della propria incapacità
«di offrirci (...) la determinazione spirituale della nostra vita» e come la sua
8
«esplicita rinuncia (...) alla guida spirituale dell’uomo» . Tale gli appare infatti
l’affermazione weberiana secondo la quale il sapere scientifico, in base al suo
attuale e definitivo stadio di autoconsapevolezza, risulta del tutto privo di
ogni valenza soteriologica; secondo la quale, dunque, una volta «naufragate
tutte le precedenti illusioni», è ormai un «fatto incontestabile» che la scienza
sia assolutamente incapace di rispondere «all’unica domanda importante per
noi: “Cosa dobbiamo fare? Come dobbiamo vivere?”»9. Tale gli appare, di
conseguenza, anche la netta distinzione operata da Weber tra Lehrer e
Fu¨hrer, il primo determinato unicamente come «un uomo che fornisce fatti e
calcolabilità logica», il secondo concepito soltanto come «un demagogo e un
profeta»10. Secondo Kahler perfino la circostanza che Weber si chieda se la
scienza conservi ancora un qualche valore per la «“vita” pratica e personale»11
che non sia riducibile alla sua funzione in vista del progresso tecnico è indice
di un profondo spirito di rassegnazione. Assolutamente insoddisfacente gli
sembra infine la risposta affermativa che pure Weber offre a questa domanda
quando sostiene che le scienze non si limitano a fornire «delle conoscenze
sulla tecnica per padroneggiare la vita mediante il calcolo», e nemmeno a
fornire «i metodi del pensare», vale a dire «gli strumenti e la preparazione» al
suddetto scopo12, ma sono anche in grado di promuovere «la chiarezza e il
senso di responsabilità»13 mostrando quali mezzi possano e debbano essere
accettati e adoperati in conformità ad una determinata presa di posizione
ultima, e soprattutto quale presa di posizione ultima, ossia quale visione del
mondo, sia già di fatto presupposta (più o meno consapevolmente) in un de-
terminato modo d’agire. «A questo residuo – Kahler infatti scrive – è ridotta
la grande sapienza antica (...). E la grande e fondamentale domanda rivolta
alla sapienza: Cosa dobbiamo fare? Chi le darà risposta? (...). Proprio qui ci
troviamo di fronte a quell’alzata di spalle ahimè risaputa fino alla nausea che
dice: ciò non è nelle nostre competenze, non lo sarà mai, non lo è già in linea
di principio. Noi dobbiamo offrirvi un sapere circa i fatti che è calcolabile e
calcolato. Quel che resta sarebbe in grado di offrirvelo un redentore o un

8
BdW, p. 31; tr. it. cit., p. 93.
9
WaB, p. 93; tr. it. cit., p. 99.
10
BdW, p. 29; tr. it. cit., p. 90.
11
WaB, p. 103; tr. it. cit., p. 119.
12
Ibidem.
13
WaB, p. 104; tr. it. cit., p. 121.
26 INTORNO A WEBER

profeta, ma oggi lo cerchereste invano perché non c’è e non c’è necessaria-
14
mente» .
D’altronde per Kahler la scienza moderna manifesta la propria difetti-
vità non appena è posta a confronto con le varie forme di «sapere» [Wissen]
che sono state via via appannaggio delle «formazioni organiche viventi»
[lebendige organische Gebilde], – formazioni che possono essere personali o
sovrapersonali, ma sono sempre contrassegnate, come la vita stessa insegna,
dalla loro profonda unità e dalla loro irriducibile singolarità15. Molte e
diverse sono state le forme di sapere che si sono succedute nel corso del
tempo e che hanno di volta in volta tenuto il campo: l’istinto profonda-
mente impresso nel sangue dell’animale e del selvaggio, il “sano intelletto
umano” del contadino e del cittadino del passato, la sapienza dell’uomo
grande etc. Ma c’è un aspetto che le accomuna tutte: ognuna di esse
esibisce in maniera molto chiara il proprio essenziale riferimento alla
concreta formazione organica alla quale appartiene; ognuna di esse risulta
adeguata unicamente a tale formazione organica, ossia al suo agire, al suo
aver bisogno e al suo patire. «Per ciò che attiene al sapere – Kahler infatti
scrive – si tratta sempre del determinato essere che deve sapere. Il sapere
non è possibile e non esiste senza colui che sa: esso sussiste unicamente per
lui ed è originariamente connesso nell’orizzonte della sua unità e della sua
singolarità»16. Più specificamente tutte le forme di sapere «non sono nien-
t’altro che il giungere a compimento (...) della formazione organica, nien-
t’altro che il suo estrarre e infine detenere la propria particolare legge vitale,
la qual cosa comprende già in sé anche il prendere coscienza delle leggi
vitali di tutte le potenze viventi circostanti e sovrastanti»17. È questo che
Kahler intende quando dice che il termine «sapere» esprime sempre «la
medesima e univoca capacità di venire a contatto col proprio destino»18; o
quando spiega che il sapere «è lo spirito della formazione organica»19,
spirito che a sua volta «è il corpo vivente stesso qualora divenga degno di

14
BdW, p. 30; tr. it. cit., p. 91.
15
Cfr. BdW, p. 34; tr. it. cit., pp. 96-97: «La vita ci dà in maniera indelebile due
insegnamenti del tutto determinati: l’uno si chiama unità, l’altro singolarità. L’uno ci insegna
che tutte le forze, le proprietà e gli effetti della formazione organica vivente sono reciproca-
mente legati in maniera davvero indissolubile. L’altro ci insegna l’incommutabile esserci
soltanto una volta ed essere solo una volta cosı̀ nello spazio e nel tempo della formazione
organica vivente».
16
BdW, p. 55; tr. it. cit., pp. 120-121.
17
Ibidem; tr. it. cit., p. 120.
18
BdW, p. 53; tr. it. cit., p. 118.
19
BdW, p. 56; tr. it. cit., p. 122.
ERICH VON KAHLER 27

sé nella maniera più profonda», ossia «il corpo vivente stesso colto nel
proprio senso, nel senso che riposa al suo interno»20; o, infine, quando
afferma che sapere significa «eternare la creatura organica»21.
Su questa cruciale identificazione del sapere con il «giungere a compi-
mento» del vivente che lo detiene dovremo tornare in seguito. Tuttavia
appare fin d’ora evidente che, se questo è il paradigma del vero sapere,
allora la scienza razionale moderna, nella sua configurazione ultima, non è
un vero sapere. Infatti le sue conoscenze e i suoi calcoli, lungi dall’essere
prodotti a partire da una concreta formazione organica e in vista di essa,
«pretendono di possedere un’esistenza in sé e per sé, un’esistenza universal-
mente valida, astratta e collocata al di fuori dello spazio e del tempo»22.
Non a caso il loro unico referente sembra essere un’altra astrazione, ossia
quella nozione di «umanità» sotto la quale finora non si è rappresentato
«null’altro che la somma propriamente irrappresentabile di tutte le caratte-
ristiche più esteriori dell’uomo»23.
Non c’è dunque da meravigliarsi che la scienza razionale moderna, a
differenza di ogni vero sapere, risulti strutturalmente incompiuta. Infatti,
poiché essa non si irradia da nessun centro organico e non ruota attorno a
nessun centro organico, si estende necessariamente all’infinito e genera, a
partire da ogni singola questione, questioni sempre nuove: «Max Weber
stesso osserva – Kahler scrive – che nessuno specialista padroneggia oggi il
proprio settore nello stesso modo in cui finanche il più primitivo detentore
del sapere, ossia l’uomo selvaggio, padroneggiava tutto il suo mondo»24. Il

20
BdW, p. 100; tr. it. cit., p. 172.
21
BdW, p. 57; tr. it. cit., p. 123.
22
BdW, p. 55; tr. it. cit., p. 121.
23
BdW, p. 56; tr. it. cit., p. 121.
24
BdW, p. 55; tr. it. cit., p. 121. Cfr. WaB, pp. 86-87; tr. it. cit., pp. 87 e 89. Per Kahler la
radicale incompiutezza della scienza razionale moderna è testimoniata in maniera molto
esplicita dalla crisi della fisica classica consumatasi fra la fine dell’Ottocento e i primi
decenni del Novecento. Cfr. a tale proposito BdW, p. 49; tr. it. cit., p. 113: «Occorre solo
richiamare alla memoria gli ultimi inquietanti sviluppi in diversi ambiti della scienza della
natura, quali ad esempio la radioattività, la nuova teoria dell’atomo e dell’etere, la teoria
della relatività, per accorgerci che dopo un lavoro di molte generazioni il nostro “sapere” (...)
ha prodotto una situazione che difficilmente ci consente di rispondere con sicurezza a una
sola delle molte questioni da molto tempo credute risolte e che di contro ha arrecato
miriadi di nuove domande e di nuove incertezze. Chi può affermare ancora una volta che
qualcosa è immutabile per sempre, quando sono messi in dubbio gli elementi, l’etere, e la
validità della gravitazione?». Quando nel 1938 Kahler si trasferı̀ a Princeton, fece personal-
mente la conoscenza di Albert Einstein del quale divenne amico e interlocutore. Non a caso
Einstein partecipò con un proprio contributo alla Festschrift in onore di Kahler.
28 INTORNO A WEBER

tema del padroneggiamento del mondo ci conduce, peraltro, ad un’ulte-


riore peculiarità della scienza razionale moderna: essa, lı̀ dove si traduce in
tecnica, mostra (a prescindere dalle intenzioni soggettive) una caratteristica
ambivalenza in base alla quale ogni vantaggio è sempre pronto a trasfor-
marsi in uno svantaggio, ogni guadagno è sempre pronto a trasformarsi in
una perdita. «Abbiamo imparato a curare innumerevoli malattie – afferma
infatti Kahler – e ne sorgono altre terribili e del tutto nuove. Abbiamo
appreso le regole dell’igiene e della sicurezza e ci hanno aggredito debo-
lezze, impotenze e pericoli del tutto inattesi e molto più giganteschi di
prima. Abbiamo studiato i più complicati strumenti e le più complicate
istituzioni per conservare e congiungere inaudite masse di uomini su
distanze spaziali e per durate temporali prima sconosciute, ma siamo
pervenuti nel contempo ai più complicati strumenti e alle più complicate
istituzioni per disperdere e annientare in misura imponente le medesime
masse di uomini»25. E nel tentativo di mettere a nudo le radici profonde di
questa inquietante ambivalenza, egli avrebbe probabilmente sottoscritto ciò
che dodici anni dopo la pubblicazione di Der Beruf der Wissenschaft Ernst
Jünger scrive in Der Arbeiter: «Non si può parlare di una tecnica in sé, cosı̀
come non esiste una ragione in sé; ogni vita possiede la sua tecnica che le è
commisurata e innata»26.
Tuttavia per Kahler le caratteristiche essenziali della scienza razionale
moderna emergono nella maniera più nitida non già quando la si paragona
con il paradigma generico del vero sapere, bensı̀ quando la si mette più
specificamente a confronto con quello che è di solito ritenuto, «senza le
sottili eppure necessarie distinzioni»27, il suo luogo d’origine, vale a dire il
sapere della Grecia antica. È infatti nel corso di tale confronto che viene
alla luce quella netta contrapposizione fra antike Idee e moderner Begriff che
rappresenta senza dubbio uno dei nuclei teorici più importanti di Der Beruf
der Wissenschaft 28.

25
BdW, p. 49; tr. it. cit., pp. 113-114.
26
E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma (1932), tr. it. a cura di Q. Principe, Parma, 1991, p.
69.
27
BdW, p. 12; tr. it. cit., p. 71.
28
Kahler sottolinea con forza che Weber stesso «percepisce la cattiva trasformazione che
si è compiuta nella scienza dai tempi antichi alla nostra epoca» (BdW, p. 10; tr. it. cit., p. 69).
Ed effettivamente in Wissenschaft als Beruf Weber mette in rilievo che, se si assume come
punto di partenza il famoso mito platonico della caverna secondo il quale è «la verità della
scienza che sola non va a caccia di ombre e apparenze, ma del vero essere» (WaB, p. 89; tr.
it. cit., p. 91), non si può non riconoscere che ai nostri giorni la situazione si è del tutto
capovolta. «Oggi – egli infatti scrive – proprio la gioventù nutre un sentimento nei confronti
ERICH VON KAHLER 29

Kahler prende le mosse dal problema della causa che, a prima vista,
sembra accomunare la Grecia antica e il mondo moderno, mettendo in
evidenza come in realtà, quando l’antichità greca si interroga sulle cause di
ciò che esiste e di ciò che avviene, essa riveli un modo di pensare che è del
tutto diverso da quello della compiuta modernità. Secondo Kahler se si
vuole davvero comprendere tale modo di pensare (che peraltro permane
immutato fin da quando alla domanda circa le cause dei fenomeni il
mondo greco rispondeva facendo ricorso all’azione di demoni o di dei),
«bisogna completamente fare a meno (...) di una componente essenziale
dell’intero sentimento della vita che è divenuta per gli uomini moderni
un’ovvietà senza la quale essi non possono pensare e sentire più nulla, vale
a dire della nozione del nudo tempo, dello sviluppo della “storia” inteso nel
nostro senso». «Certo – continua Kahler – anche le cosmogonie e le
mitologie cosı̀ come le prime cronache epiche sono qualcosa di simile alla
storia. Ma guardando più a fondo ci si accorge che esse sono storia
dell’origine e non già storia del divenire e della meta, che esse sono orientate
nella direzione del provenire e non in quella del progredire, che non ci si
rivolgeva a loro per sapere come si e` divenuti ciò che oramai si è oggi, e
magari solo per apprendere come si diviene in generale e come si diviene
ulteriormente, bensı̀ per sapere come si e` nel fondamento più intimo e

della scienza che è l’esatto opposto: le formazioni del pensiero scientifico sono percepite
come un regno sotterraneo di astrazioni artificiose che con le loro mani esangui si sforzano,
senza mai riuscirvi, di cogliere il sangue e la linfa della vita reale» (WaB, p. 89; tr. it. cit., pp.
91 e 93). Tuttavia secondo Weber «l’appassionato entusiasmo di Platone nella Repubblica si
spiega in ultima istanza considerando che allora per la prima volta si era consapevolmente
scoperto il senso di uno dei grandi strumenti di ogni conoscenza scientifica: il concetto»
(ibidem; tr. it. cit., p. 93). Kahler legge questa affermazione di Weber come un tentativo di
rendere conto dell’altissimo rango attribuito da Platone alla scienza richiamandosi soltanto
«all’appassionata gioia dello scopritore per la scoperta del concetto, del concetto come ancora
oggi lo conosciamo» (BdW, p. 11; tr. it. cit., p. 69; il secondo corsivo è mio). Ma una simile
spiegazione appare a Kahler «fortemente retrospettiva e ispirata da un’alterigia progressista
che valuta le cose in modo intellettualistico» (ibidem). Egli ritiene infatti che «la summenzio-
nata differenza di posizione della scienza nei confronti della vita (...) deriva (...) da null’altro
che dalla stessa fondamentale diversità che separa l’idea antica dal concetto moderno»
(ibidem). Resta però da stabilire se, al di là di una mera questione terminologica, Weber
stesso – pur muovendo da un punto di vista radicalmente diverso da quello di Kahler – non
fosse profondamente consapevole dell’esistenza di un simile iato, fondato in ultima istanza
sulla valenza ontologica attribuita dal mondo antico ai “concetti”. A tale proposito cfr. WaB,
pp. 89-90; tr. it. cit., p. 93: «Sembrava (...) che, se solo si fosse scoperto l’esatto concetto del
bello, del buono, o anche, per esempio, del coraggio, dell’anima o di quant’altro, sarebbe
stato possibile comprenderne anche il vero essere. Ciò sembrava a sua volta fornire la via
per sapere e insegnare il modo giusto di agire nella vita e, soprattutto, come cittadino».
30 INTORNO A WEBER

29
come si è ancora oggi» . Per Kahler alle radici di tutto ciò v’è senza dubbio
il fatto che «il cosmo arcaico è stabile», ossia il fatto che «mediante il
vincolo di una sostanza prima ed eterna esso, come un cielo durevole, si
curva a volta al di sopra di ogni cosa terrena»30. Dunque, anche quando nel
mondo greco «si parla di mutamento e di movimento, non si intende il
nostro movimento che tende a qualcosa e trascina e modifica tutto con sé,
bensı̀ un movimento simile a quello del mare, un movimento in sé, un
movimento eterno, non faticoso e privo di futuro»31. Solo sulla base di
questi presupposti diviene veramente chiaro che, quando il greco antico si
interroga sulle cause dei fenomeni, egli, a differenza dell’uomo moderno,
«non intende ancora qualcosa di anteriore in senso puramente temporale,
bensı̀ qualcosa che copre stabilmente in guisa di volta, o qualcosa di
internamente in quiete che giace nel profondo, in ogni caso qualcosa che
continua a operare sempre. La causa [Ursache] temporale fa tutt’uno con il

29
BdW, p. 12; tr. it. cit., pp. 70-71. Cfr. a questo proposito M. Eliade, Trattato di storia
delle religioni (1948), tr. it. a cura di V. Vacca, Torino, 1988, pp. 408-409: «La storia, nella
prospettiva della mentalità primitiva, coincide con il mito: ogni avvenimento (ogni congiun-
tura che abbia un senso), per il fatto stesso di prodursi nel tempo, rappresenta una rottura della
durata profana e un’invasione del Grande Tempo. Ogni avvenimento, appunto in quanto è
avvenuto, è comparso nel tempo, è una ierofania, una “rivelazione”. Il paradosso di questo
“avvenimento = ierofania” e di questo “tempo storico = tempo mitico” è paradossale
soltanto in apparenza; per dissipare il paradosso basta mettersi nelle speciali condizioni della
mentalità che li ha concepiti. Perché il primitivo, in fondo, trova significato e interesse nelle
azioni umane (...) soltanto nella misura in cui dette azioni ripetono i gesti rivelati dalle
divinità, dagli eroi civilizzatori o dagli antenati. Tutto quel che non rientra nell’ambito di
queste azioni significative, non avendo un modello transumano, non ha nome né impor-
tanza. Ma tutte queste azioni archetipali furono rivelate allora, in illo tempore, in un tempo
che non potrebbe essere localizzato cronologicamente, nel tempo mitico. Però queste azioni
rivelandosi hanno anche creato un “principio”, un “avvenimento”, che viene a inserirsi nella
prospettiva grigia e uniforme della durata profana (durata in cui appaiono e scompaiono gli
atti insignificanti), e cosı̀ costruisce la “storia”, la serie di “avvenimenti che hanno un senso”,
ben distinti dalla fuga dei gesti automatici e senza significato. Sicché, per paradossale che
sembri, quel che potremmo chiamare la “storia” delle società primitive si riduce esclusiva-
mente agli avvenimenti mitici successi illo tempore e che non hanno mai cessato di ripetersi
fino ai nostri giorni. Tutto quel che agli occhi di un moderno è realmente “storico”, cioè
unico e irreversibile, il primitivo lo considera senza importanza, perché non ha un prece-
dente mitico-storico». Ma cfr. anche ivi, pp. 423 sgg. e 446 sgg. (in part. p. 448, ove Eliade
afferma che «l’interessamento dell’uomo arcaico per le realtà significative, creatrici, paradig-
matiche ... sopravvive ancora nei primi storici del mondo antico per i quali il “passato” aveva
un senso unicamente in quanto era un esempio da imitare»).
30
BdW, p. 12; tr. it. cit., p. 71.
31
Ibidem.
ERICH VON KAHLER 31

fondamento originario [Urgrund] che continua a operare in maniera spaziale


32
o in maniera spaziale-eterna (metafisica)» .
Proprio a partire da questa intima unità fra Ursache e Urgrund che
caratterizza il modo di pensare dei greci Kahler prende in esame quello
che, a suo parere, è il frutto più alto di tale modo di pensare, vale a dire
«l’idea platonica, in cui è contenuta tanto la causa quanto il fondamento
originario»33. «Essa – Kahler scrive – non è null’altro che l’eternità o la
divinità del vivente, o, meglio ancora, il vivente stesso colto nella sua più
profonda profondità, nella sua divinità. Agli dei, intesi come archetipi dei
grandi tipi umani, corrispondono le idee continuamente operanti, che sono
gli archetipi profondi delle relazioni e degli atteggiamenti fondamentali
degli uomini o della realtà circostante e vincolante del mondo umano, che
sono in ogni caso archetipi, noccioli della realtà vivente»34. Ecco perché la
dialettica platonica non coglie le idee mediante un processo di astrazione
che, allontanandosi dal caso singolo, pretende di giungere a definizioni
universalmente valide, ma le coglie piuttosto mediante una riflessione
dialogica che porta al cuore del caso singolo, ossia alla concreta intuizione
del suo senso fondamentale. Ma qual è il “caso singolo” o, in termini più
espliciti, la determinata formazione organica i cui particolarissimi archetipi
si raccolgono nell’iperuranio platonico? Secondo Kahler questa formazione
organica non è altro che «la reale umanità ellenica»35. Anzi i caratteri di
stabilità e di univocità delle idee antiche su cui Kahler torna di continuo è,
a suo giudizio, essenzialmente legata al fatto che «per gli Elleni c’è in ogni
tempo e in ogni luogo un’unica umanità dotata di valore e tale umanità è
quella ellenica di fronte ai barbari»36. In buona sostanza l’umanità ellenica
«era cosı̀ e si rappresentava anche cosı̀» poiché, come abbiamo visto in
precedenza, «sapere non vuol dire nient’altro che illuminare la propria più
intima struttura, laddove questa illuminazione (...) ha poi un effetto retroat-
tivo e trae nuovamente in avanti la realtà stessa»37.
L’unità fra la causa e il fondamento originario propria del pensiero
greco continua a caratterizzare anche la filosofia scolastica e il razionalismo
seicentesco che sono le forme di sapere corrispondenti alla trasformazione
dell’umanità ellenica nel più vasto «ecumene romano e cristiano-medievale»

32
Ibidem.
33
Ibidem.
34
BdW, pp. 12-13; tr. it. cit., pp. 71-72.
35
BdW, p. 20; tr. it. cit, p. 80.
36
Ibidem.
37
BdW, p. 67; tr. it. cit., p. 135.
32 INTORNO A WEBER

e all’incipiente dissoluzione di tale ecumene in nazioni, ceti, classi, confes-


38
sioni e «umanità diverse ed equivalenti» . Ciò che rende possibile una
simile sussistenza è il fatto che anche in queste forme di sapere gioca un
ruolo essenziale la preliminare intuizione di una singola totalità, intuizione
che tuttavia si va progressivamente affievolendo nella misura in cui il suo
contenuto vivente non è più costituito da un’umanità divinizzata e dal suo
mondo, ma dapprima dalla paradossale divinità di Cristo e poi dalla
sostanza divina che pervade ogni cosa39. Per ciò che riguarda in particolare
i grandi sistemi razionalistici, Kahler designa la loro epoca «come il luogo
spirituale d’appartenenza della metodica scientifica ancor oggi in vigore»40,
poiché ritiene che in tali sistemi i procedimenti analitici e induttivi della
scienza moderna allo stato nascente abbiano trovato un aureo quanto
effimero punto d’equilibrio con l’elemento sintetico e deduttivo radicato
nell’intuizione della sostanza fondamentale. Infatti proprio nell’ambito dei
sistemi razionalistici «il concetto comincia a costituirsi come un prodotto
intermedio derivante da una recondita intuizione che si va spegnendo e da
un’astrazione palese che si trova allo stadio iniziale. Nella misura in cui
l’intuizione vi ha parte e mantiene in piedi la connessione con la grande
unità della vita non più umana ma cosmica, esso rappresenta ancora l’unica
realtà vivente, anche se rarefatta, partecipata, molto lontana, non più vissuta
in modo immediato e umano (...). D’altro canto questo concetto allo stadio
iniziale, nella misura in cui l’astrazione vi ha parte e afferra congiuntamente
delle caratteristiche universali disfacendo analiticamente la vita empirica, è
già il risultato spettrale di un’operazione logica condotta in maniera indut-
tiva, di un’operazione “di calcolo”, il segno per qualsiasi cosa che può
verificarsi spesso: vale a dire il concetto nel senso proprio e attuale»41.
Tale «concetto nel senso proprio e attuale», su cui si impernia la
scienza moderna giunta alla sua piena maturità, nasce dunque quando al
«concetto misto dogmatico-razionale»42 è sottratto ogni aspetto connesso
con l’intuizione di una totalità vivente. Kahler ritiene che quest’impresa, a
lungo preparata dalla filosofia inglese da Ockham a Hume, è portata defini-

38
BdW, p. 68; tr. it. cit., p. 135.
39
Secondo Kahler la mistica medioevale e quella dell’età moderna documentano con
esemplare chiarezza come divenga sempre più «difficile e impegnativo intuire e contemplare
in maniera vivida questa divinità e tutti i suoi attributi e le sue connessioni» (BdW, p. 69; tr.
it. cit., p. 136).
40
BdW, p. 13; tr. it. cit., p. 72.
41
BdW, p. 14; tr. it. cit., p. 73.
42
BdW, p. 18; tr. it. cit., p. 78.
ERICH VON KAHLER 33

tivamente a compimento dal criticismo kantiano che, per tale motivo,


rappresenta un fondamentale punto di cesura con la tradizione. Certo Kant
si avvale del fatto che con il razionalismo la totalità vivente, pur se continua
ad essere intuita, viene del tutto assimilata, nella sua struttura interna, alla
ragione umana pienamente dispiegata. In fondo «Kant fa solamente una
cosa. Egli annienta definitivamente (...) l’elemento intuitivo globale, quello
che mette in atto uno sguardo d’insieme e lo rivolge nel profondo, ossia
quello che in generale guarda; annienta dunque la presunzione per eccel-
lenza dell’unità e della singolarità cosmica, vale a dire la sostanza metafisica
fondamentale. Kant la annienta mettendola a nudo come un elemento
dogmatico, come un elemento extra-razionale (...), come un elemento
malsicuro. E ciò che resta è la ragion pura stessa, priva di sostanza. La
ragione priva di sostanza, ossia la ragione intesa come la mobile forza
trascendentale, e non più come una forma depositata all’interno e una
costruzione stabile»43.
Secondo Kahler questa assoluta desostanzializzazione della ragione
operata da Kant, se da un lato corrisponde alla completa dissoluzione di
quella formazione organica il cui nucleo primigenio era costituito dall’uma-
nità ellenica, dall’altro è alle radici del fatto che nella ricerca scientifica
moderna la questione della causa e quella del fondamento originario – o,
come egli anche dice, la questione del tempo e quella dello spazio –
mutano profondamente di significato e per tale motivo divergono.
Infatti, se la ricerca causale della scienza razionale moderna ha radical-
mente cambiato direzione rispetto alla ricerca causale del pensiero greco
(che, come abbiamo visto, era del tutto assimilabile all’interrogazione circa
l’Urgrund), ciò è avvenuto in quanto «il punto d’origine, ossia la causa prima
e i grandi stadi a essa successivi non sono più dati dal dogma e dalla sua
interpretazione intuitiva in maniera tale che la ricerca causale possa correre
su percorsi già tracciati dalla totalità e perciò univoci ed essenziali»44. Ormai
è dato soltanto «il nebuloso terreno dell’empiria»45 a partire dal quale la
«mobile forza» della ragione costruisce ipoteticamente innumerevoli catene
causali procedendo a tentoni verso una causa prima che, una volta privata
di ogni riempimento intuitivo, è divenuta un pallido fantasma, un semplice

43
BdW, p. 15; tr. it. cit., pp. 74-75. La determinazione dell’età del razionalismo come
“periodo classico” della scienza razionale moderna al quale il criticismo kantiano infligge un
colpo mortale è ampiamente anticipata da Kahler nel saggio del 1919 Die Krisis in der
Wissenschaft (tr. it. cit., pp. 43 sgg.).
44
BdW, p. 16; tr. it. cit., pp. 75-76.
45
Ibidem; tr. it. cit., p. 76.
34 INTORNO A WEBER

ideale regolativo affatto irraggiungibile. «La struttura quietamente digra-


dante dell’unica serie causale saldamente determinata si trasforma nella
46
funzione autonoma e irrequieta della causalità meccanica» , la quale, proprio
a causa del suo intrinseco modo di procedere, deve sempre dissolvere ogni
provvisorio punto fermo a cui perviene nelle sue cause prossime e remote.
È proprio qui che si colloca, secondo Kahler, l’origine recondita di quel
«progresso infinito»47 che in Wissenschaft als Beruf è messo in risalto come una
legge fatale della scienza. Sicché quando Weber scrive che «ogni lavoro
scientifico “compiuto” implica il sorgere di nuove domande e vuole invec-
chiare ed essere “superato”»48, egli appare a Kahler come un fedele esecu-
tore testamentario della filosofia kantiana.
Qualcosa di analogo accade anche per ciò che riguarda la ricerca del
fondamento originario. Kahler infatti scrive: «La struttura essenziale e di
principio del mondo, insieme con le sue vette più alte, i suoi ranghi e i suoi
modi, non è più data dal dogma e dalla sua interpretazione intuitiva che
penetra l’esperienza – è data soltanto la forza trascendentale della ragione
umana e il suo mondo empirico, apparente e inferiore e le due cose
coincidono»49. In altri termini «la struttura del sistema è diventata la funzione
della sistematica»50, il cui principale problema è quello di dare forma ad un
materiale empirico che – nello spirito del ragionamento di Kahler –
potrebbe essere definito inorganico, nella misura in cui non ha più in se
stesso la propria forma. Ma questo sforzo è costantemente inficiato dalla
«paralizzante coscienza» che ogni forma oggettiva cosı̀ reperita è solo il
risultato dell’attività formativa della soggettività: «Niente più giace con
certezza sopra di noi e dietro di noi, tutto giace in maniera incerta sotto di
noi e davanti a noi»51. Inoltre, non poggiando più su un’istanza complessiva
già data, l’attività formativa può prendere le mosse da prospettive sempre
nuove e può scindere l’esperienza a partire da infiniti punti di vista, ognuno
dei quali, però, dovendo produrre da sé l’istanza complessiva di cui difetta,
pretende coerentemente di esercitare la propria sovranità su tutta la realtà
empirica che può raggiungere. Da ciò derivano, secondo Kahler, altre due
caratteristiche peculiari della scienza moderna messe in risalto da Weber (il
quale, ancora una volta, non fa che portare fino alle estreme conseguenze la

46
Ibidem.
47
Ibidem; tr. it. cit., p. 75.
48
WaB, p. 85; tr. it. cit., p. 85.
49
BdW, p. 17; tr. it. cit., p. 76.
50
Ibidem; tr. it. cit., p. 77.
51
Ibidem.
ERICH VON KAHLER 35

lezione kantiana). La prima consiste nell’inarrestabile tendenza alla specia-


lizzazione cui la ricerca scientifica è soggetta. La seconda consiste nel fatto
che la scienza moderna costituisce una componente di primaria importanza
nel processo di «razionalizzazione» (o di «disincantamento») del mondo
occidentale, processo il quale – a detta di Weber stesso – si sostanzia
unicamente nel «sapere» o nella «fede che, se solo lo si volesse, si potrebbe
sempre giungere a conoscere le condizioni di vita alle quali sottostiamo,
che dunque, per principio, non sono lı̀ in gioco potenze misteriose e
incalcolabili, e che al contrario tutte le cose – in linea di principio – si
possono dominare mediante il calcolo»52.
Solo sullo sfondo di tali considerazioni storiche e teoriche risulta
pienamente comprensibile la netta distinzione operata da Kahler fra le
costruzioni concettuali della scienza razionale moderna e le idee antiche.
Kahler ritiene infatti che, se in ogni attività di pensiero esistono due
tendenze profondamente intrecciate fra loro, una all’unificazione e un’altra
alla differenziazione, tali tendenze si configurano in una maniera del tutto
diversa nell’idea antica e nel concetto moderno. Nella fattispecie la prima
tendenza si configura nell’idea antica come «generalizzazione» [Generalisie-
rung] e nel concetto moderno come «universalizzazione» [Verallgemeine-
rung], mentre la seconda tendenza si configura nell’idea antica come
«specificazione» [Spezifikation] e nel concetto moderno come «specializza-
zione» [Spezialisierung]. Al fine di rendere sinteticamente conto del signifi-
cato di questi termini Kahler scrive: «La generalizzazione antica – ed essa
era lı̀ generalizzazione nel vero senso della parola, ossia riunificazione con
l’originario fondamento divino e rammemorazione di questo – conduceva
essenzialmente (a causa della fortunata situazione del tempo) a ciò che è
più concreto e più reale, al vivente, anzi entro la più profonda profondità
del vivente di allora, e dunque alla fin fine era essenzialmente specificazione.
La “specializzazione” moderna, che dissolve il vivente, conduce essenzial-
mente al di fuori di esso, nell’astrazione, e dunque alla fin fine è essenzial-
mente universalizzazione»53. In altri termini per Kahler, mentre le idee
antiche sono la meta di un processo nel corso del quale un essere vivente
ben determinato viene ricondotto ai propri archetipi, i concetti moderni
sono invece il frutto di un processo di analisi e di astrazione che porta via
via sempre più lontano da ogni specie di formazione organica.

52
WaB, pp. 86-87; tr. it. cit., pp. 87 e 89. Sulla traduzione italiana di questo brano della
conferenza di Weber cfr. E. Massimilla, A proposito di un passo di «Wissenschaft als Beruf» e
della sua traduzione italiana, in «Archivio di storia della cultura», XI (1998), pp. 215-219.
53
BdW, pp. 18-19; tr. it. cit., p. 78.
36 INTORNO A WEBER

Solo il confronto con l’antica sapienza ellenica consente dunque a


Kahler di argomentare e circostanziare adeguatamente la propria tesi
secondo la quale la scienza razionale moderna – che pure da tale sapienza
deriva – non è un vero sapere perché, non avendo più alle proprie spalle
una formazione organica, non si impernia attorno all’intuizione dell’essenza
del vivente e dunque “non serve alla vita”, nel senso che non rappresenta
un mezzo per il potenziamento e il compimento di una determinata forma
di vita. La scienza razionale moderna è quindi «intelletto» e non «spirito»,
se si tiene presente che per Kahler l’intelletto – che è «il supremo senso
della materia» – e lo spirito potevano essere confusi fra loro «soltanto in un
tempo come quest’ultimo in cui un grande corpo organico si è dissolto del
tutto trasformandosi in materia», giacché «dove non si conosce il corpo
organico, lı̀ non si conosce neanche lo spirito»54.

54
BdW, p. 100; tr. it. cit., pp. 172-173. — Secondo Kahler l’assoluta mancanza di cono-
scenza dell’“organico” da parte della propria epoca è anche all’origine della centralità da essa
attribuita al «problema del valore», che non a caso è il problema «al quale Max Weber ruota
attorno di continuo» (BdW, p. 23; tr. it. cit., p. 84). Kahler ritiene infatti che, se si pensa a
partire dall’uomo visto come «una particolare forma vivente e mortale della natura», come
«una straordinaria creatura organica» (BdW, p. 42; tr. it. cit., p. 106), la questione dei valori
da un lato perde di colpo la propria preminenza, dall’altro subisce una radicale trasvaluta-
zione. Ciò in quanto ogni formazione organica deve essere fin dall’inizio concepita come
una determinata prospettiva di interpretazione del mondo e di se stessa nel mondo, dunque,
se si vuole, come un peculiarissimo sistema di valutazioni e di valori. Questo è il motivo per
il quale «l’uomo che agisce, l’uomo che vive davvero» (BdW, p. 24; tr. it. cit., p. 84) – al pari di
ogni altra formazione organica (di un animale, di una pianta etc.) – non si trova mai davanti
al problema di una scissione fra il suo essere e il suo dover essere: «il nostro dover essere –
Kahler infatti scrive – non è nient’altro che il nostro essere più profondo» (BdW, p. 44; tr. it.
cit., p. 108). Egli si trova piuttosto davanti al problema di riuscire ad attuare pienamente il
suo essere più profondo che coincide senza alcun residuo con l’insieme delle sue valutazioni.
Muovendo da un simile punto di vista Kahler prende nettamente le distanze da tutte le
filosofie dei valori di stampo neokantiano che, quando parlano di un «vero in sé», di un
«bello in sé» e di «un buono in sé», non fanno altro che astrarre le caratteristiche comuni al
vero, al bello e al buono cosı̀ come si sono concretamente configurati in rapporto alla vita
delle singole forme di umanità che si sono storicamente avvicendate, per poi consolidare
queste pallide astrazioni «in concetti del dovere (quali sono per l’appunto i valori)» (BdW, p.
42; tr. it. cit., pp. 105-106; il corsivo è mio). Proprio al fine di marcare tutta l’artificiosità di
una simile operazione Kahler scrive: «I valori che valgono in base alla nostra nuova
posizione non possono (...) assolutamente più essere il vero, il buono, il bello (...). Al giorno
d’oggi le vecchie designazioni di valore sono soltanto parole vuote fino a quando non
ricevono un significato peculiare dall’essere organico stesso, dall’essere organico particolare
e reale» (BdW, p. 43; tr. it. cit., p. 107).
È noto che anche Weber, pur riconoscendo apertamente e a più riprese il proprio debito
intellettuale con Rickert, differenzia la sua posizione da quella delle filosofie dei valori
neokantiane. Tuttavia Weber pone l’accento sul fatto che tali filosofie tendono immancabil-
ERICH VON KAHLER 37

2. Kahler è dunque convinto che la scienza razionale moderna non sia altro
che uno pseudosapere il quale ha origine nel processo di dissoluzione di un

mente ad adombrare l’esistenza di una «lotta mortale» fra i valori laddove questi ultimi
vengono coerentemente assunti in piena conformità al loro senso. Cfr. M. Weber, Il
significato della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche (1917) in Id., Il metodo delle
scienze storico-sociali, cit., pp. 309-375, p. 332: «Una considerazione non più empirica, ma
interpretativa, cioè una genuina filosofia dei valori, non potrebbe (...) dimenticare (...) che
uno schema concettuale dei “valori”, per quanto bene ordinato, sarebbe incapace di rendere
conto proprio del punto cruciale della questione. Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi,
ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità
di conciliazione, come tra “dio” e il “demonio”. Tra di loro non è possibile nessuna
relativizzazione e nessun compromesso». Questo fatto impone all’uomo la necessità di una
scelta fra visioni del mondo diverse e contrastanti che ha sempre il carattere di una
decisione ultima, ossia tale da non poter essere scientificamente fondata in alcun modo.
Nella prospettiva di Kahler, invece, non si dà mai una scelta fra valori, una scelta fra visioni
del mondo equivalenti. «L’uomo che vive davvero», infatti, non può mai scegliere indifferen-
temente tra varie Weltanschauungen contrapposte tra loro perchè, al pari della monade
leibniziana, è egli stesso una Weltanschauung, un ‘‘mondo concentrato’’. Proprio per questo
motivo Kahler ritiene che il «politeismo dei valori» sostenuto da Weber in Wissenschaft als
Beruf sia qualcosa di sostanzialmente differente dal politeismo antico: «Nell’antichità – egli
infatti scrive – vi sono lotte fra dei, vi sono lotte fra concezioni, ma non avrebbe mai potuto
esserci una scelta intesa nel senso che in un certo luogo e in una certa ora sussistano due
possibilità in linea di principio equivalenti da trattare a seconda degli atteggiamenti fonda-
mentali di un uomo. Non erano i diversi atteggiamenti fondamentali e di principio a dettar
legge, ma la vita univoca di quel luogo e di quell’ora, e ci si recava dal sapiente per
apprendere la sola e unica possibilità, la legge che è l’unico destino, il dio di quella
particolare ora e di quel particolare luogo» (BdW, p. 27; tr. it. cit., p. 88). Invece il politeismo
dei valori weberiano rappresenta proprio il frutto della dissoluzione di ogni «vita univoca»,
ed in tal senso non è nient’altro che «relativismo pratico» (BdW, p. 28 in nota; tr. it. cit., p. 89
in nota). Ciò rimane vero nonostante il secco diniego opposto da Weber a questo modo di
caratterizzare la sua posizione. «Poniamo – afferma infatti Kahler – che io dica a qualcuno:
in questo caso vi sono parecchie possibilità di agire a seconda del principio per il quale ti
decidi. Puoi scegliere questo ma anche quello: non è affar mio e non è in mio potere dare un
giudizio sulla tua scelta, bensı̀ debbo in linea di principio riconoscere tutte le scelte nel loro
insieme. Oppure poniamo che io dica a qualcuno: in questo caso e in queste determinate
circostanze v’è soltanto un unico modo di agire del tutto determinato, necessario e giusto. In
altre circostanze, in un’altra ora, in un altro luogo v’era un altro modo di agire che era giusto
in maniera altrettanto unica, ma oggi questo e solo questo è l’unico modo d’agire giusto.
Quale delle due asserzioni – domando io – corrisponde alla posizione del relativismo
pratico?» (ibidem).
Per ciò che attiene ai motivi per i quali Weber rifiuta come «il più grande dei fraintendi-
menti» (M. Weber, Il significato della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche, cit.,
p. 333) ogni tentativo di designare come relativismo l’assunzione del Grundsachverhalt che
«la vita, in quanto si fonda su se stessa e viene compresa a partire da se stessa, conosce
soltanto (...) l’inconciliabilità e dunque l’irrisolvibilità della lotta tra i punti di vista ultimi in
generale possibili rispetto alla vita, vale a dire la necessità di decidere tra di essi» (WaB, pp.
38 INTORNO A WEBER

determinato essere organico e nel contempo accelera tale processo di


dissoluzione in base alla stretta intimità che sempre sussiste fra la vita e il
sapere e che opera non solo in positivo ma anche in negativo. Ovviamente
una simile convinzione fa sı̀ che Kahler prenda nettamente le distanze da
ogni ingenua celebrazione del progressivo disincantamento del mondo in
quanto tale, ossia da ogni forma di compiacimento per quel «progresso
razionale» [rationaler Fortschritt] di cui la scienza moderna costituisce una
componente essenziale. Già sul piano della pura teoria posizioni di questo
tipo gli appaiono soltanto come la «trasvalutazione positiva dell’infinito
provvisorio, dell’infinita disperazione che la scienza razionale vede davanti
55
a sé» . Se poi il progressivo disincantamento del mondo è giudicato sul
piano dei suoi risultati pratici – vale a dire in rapporto all’effettiva realizza-
zione della grande promessa di dominare mediante il calcolo le condizioni
della nostra vita sottraendole all’influsso di «potenze misteriose e incalcola-
bili» – allora Kahler ritiene non solo che il bilancio risulti del tutto
fallimentare, ma anche che ogni tentativo di negare questa elementare
verità «suoni» ormai «come uno scherno blasfemo»56. Basta pensare – egli
dice – a ciò che ha significato l’esperienza bellica non solo per la Germania
ma anche per le nazioni vincitrici, e domandarsi poi se gli statisti europei,
che nel momento della decisione avevano a disposizione tutti i più moderni
mezzi di previsione scientifica, avrebbero lo stesso scatenato il conflitto

104-105; tr. it. cit., pp. 121 e 123); per quanto inoltre attiene alla struttura e agli impliciti
presupposti filosofici dell’argomentazione mediante la quale Weber ribalta l’accusa di
relativismo proprio su coloro che – al pari di Kahler – concepiscono il Leben e l’Erleben
come un «sostrato conciliativo», come «una garanzia sia pure indeterminata»: mi limito qui a
rimandare a G. A. Di Marco, Marx Nietzsche Weber, Napoli, 1984, pp. 179-219. Voglio però
ricordare un passo di Der Sinn der “Wertfreiheit” in cui Weber marca molto nettamente la
differenza che sussiste fra il “vivente in generale” e il “vivente uomo”, almeno nella misura in
cui quest’ultimo ha la forza di assumere su di sé il risultato finale e inaspettato del pieno
dispiegarsi della sua volontà di verità (della sua volontà, cioè, di porsi dal punto di vista della
monade divina). Trattando del conflitto irrisolvibile che oppone fra loro la molteplicità dei
valori e dei significati prospettici conferiti all’accadere, Weber infatti scrive: «Il frutto
dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non
consiste in nient’altro che nel dover conoscere questa antitesi e nel dover quindi considerare
che ogni importante azione singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve
procedere come un evento naturale, bensı̀ essere condotta consapevolmente – rappresenta
una concatenazione di decisioni ultime, mediante cui l’anima (come per Platone) sceglie il
proprio destino – e cioè il senso del suo agire e del suo essere» (M. Weber, Il significato della
“avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche, cit., pp. 332-333).
55
BdW, p. 22; tr. it. cit., p. 82.
56
BdW, p. 47; tr. it. cit., p. 111.
ERICH VON KAHLER 39

qualora avessero potuto effettivamente calcolare le conseguenze delle loro


azioni. Risulterà allora pienamente evidente come «da millenni non sia
accaduto alcun avvenimento in cui (...) i piani, le volontà e le iniziative degli
uomini abbiano mutato direzione in maniera cosı̀ demoniaca e beffarda, e
in cui abbiano fatto la loro comparsa uomini cosı̀ disperatamente deboli e
potenze cosı̀ assolutamente incalcolabili che prima non esistevano»57. Ma
per Kahler la catastrofe bellica non rappresenta altro che «l’apocalittico
concentrato e la disumana caricatura» del progresso razionale e del suo
mondo, progresso razionale che, preso di per se stesso, si è ormai rivelato
chiaramente come «un folle vortice che nessuno più governa»58.
Tuttavia il discorso non si chiude qui. Infatti in Der Beruf der Wissen-
schaft Kahler afferma a più riprese che il progresso razionale acquista un
significato del tutto diverso per colui che cessa di considerarlo in se stesso e
lo considera invece nel suo essenziale rapporto con il «progredire vivente»
[lebendiges Weiterschreiten] che nascostamente lo governa: «Ciò per cui il
progresso razionale nella sua interezza ha rappresentato solo un mezzo
subordinato è stata la vita nel suo progredire»59. Dell’esistenza di questo
lebendiges Weiterschreiten e del ruolo predominante che esso gioca nei
confronti del progresso razionale si è reso pienamente conto – secondo
60
Kahler – anche «l’ultimo avamposto della vecchia scienza» , vale a dire
Henri Bergson, con la sua filosofia dell’e´lan vital. Questo fatto rappresenta
per Kahler una conseguenza diretta del sempre più prepotente irrompere
nel quotidiano delle «potenze misteriose e incalcolabili» che si credeva di
aver domato una volta per tutte, sia nella forma di una realtà vivente che
sembra sfuggire sistematicamente a ogni concettualizzazione scientifica, sia
nella forma di una retroazione del tutto imprevista e imprevedibile delle
concettualizzazioni scientifiche sulla realtà vivente. Nondimeno Kahler
ritiene che Bergson non sia riuscito a portare alla luce il significato
complessivo del divenire e del progredire della vita nella misura in cui non
lo ha riconosciuto come un tendere – solo in apparenza caotico e disordi-
nato – ad un nuovo essere vivente. «Di questo progredire della vita nel suo
complesso si avvede soltanto chi sente formarsi la nuova unità organica, chi
lancia uno sguardo d’insieme sul disincantamento del mondo e lo coglie

57
BdW, p. 48; tr. it. cit., p. 112.
58
Ibidem.
59
BdW, p. 51; tr. it. cit., p. 116.
60
BdW, p. 46; tr. it. cit., p. 110.
40 INTORNO A WEBER

come una sola cosa con l’incanto irrazionale che è cresciuto di nascosto
insieme a esso»61.
Ma allora la distinzione fra il «progresso razionale» e il «progredire
vivente» diviene per Kahler un modo per mettere in evidenza come la
scienza razionale moderna (che è il nucleo propulsore del progresso
razionale) non sia solo il frutto e insieme l’elemento catalizzatore del
processo di dissoluzione di una determinata formazione organica, ma sia
anche il corrispettivo – sul piano della coscienza – della lenta e sotterranea
fase di gestazione di una nuova formazione organica, la quale, una volta
venuta alla luce, richiederà un nuovo sapere ad essa adeguato. Più specifica-
mente Kahler scrive in una pagina che vale la pena di riportare per esteso:
«Se si centra lo sguardo sul grande movimento dell’essere umano, ci si
rende conto che soltanto nell’antichità si è data una compiuta unità
dell’uomo, la quale, muovendo nella sua forma più profonda dal mondo
greco, è confluita nell’impero romano e nella chiesa romana; ci si rende
conto che soltanto allora si è dato un sapere umano compiuto e reale che
alla fine è confluito nell’unica vera fede ed è divenuto tutt’uno con essa. Ciò
che è avvenuto da allora (...) è stata soltanto la lenta e penosa decomposi-
zione di quell’unità e di quel sapere a causa del dispiegarsi della ragione,
nonché la concentrazione di una nuova unità e di un nuovo sapere cresciuti
in maniera non appariscente alle spalle del processo di decomposizione.
Tutte le unità e tutti i saperi che i grandi spiriti nazionali e mondiali (...)

61
BdW, p. 51; tr. it. cit., p. 116. Le considerazioni di Kahler su Bergson sono senza dubbio
congruenti con quanto Troeltsch scrive circa la valenza attribuita al filosofo francese dai
fautori di una «rivoluzione nella scienza». Infatti, secondo Troeltsch, Bergson è per loro un
punto di riferimento importante nella misura in cui «insegna nuovamente un’originaria e
immediata trasposizione nell’intimo movimento della vita (...) e, a partire da ciò, si assume il
compito di dimostrare che la natura meccanica, assieme alla conoscenza matematizzante ad
essa correlata, è un prodotto secondario (...) dello sviluppo (...) della vita nel mondo» (RiW,
p. 656). E tuttavia il limite di Bergson era generalmente avvertito nella «mancanza di
direzione o mancanza di idee del suo concetto di vita» (RiW, p. 657). Naturalmente, anche
nel registrare questa situazione, Troeltsch fa riferimento al proprio orizzonte teorico, e
dunque presuppone l’esistenza di un rapporto di polarità fra la «vita» e le «idee» che, se
gioca un ruolo di primo piano nell’ambito del suo «storicismo etico», è sostanzialmente
estraneo all’orizzonte teorico di Kahler. Sulla centralità del problema etico nello storicismo
di Ernst Troeltsch ha per primo richiamato l’attenzione F. Tessitore (Troeltsch e lo storicismo
etico, in «Clio», 3, 1967, 2, pp. 213-230; ora in Id., Contributi alla storia e alla teoria dello
storicismo. IV, cit., pp. 41-57). Cfr. anche Id., Introduzione a Lo storicismo, cit., pp. 216-228. Un
sicuro punto di riferimento per la comprensione del pensiero di Troeltsch è comunque
rappresentato dai molti studi che G. Cantillo ha dedicato a questo autore, ed anzitutto
dalla sua monografia Ernst Troeltsch, Napoli, 1979.
ERICH VON KAHLER 41

hanno edificato lungo questo cammino, sono stati, per l’appunto, solo
edificati lungo il cammino, sono stati delle stazioni provvisorie se considerati
in rapporto all’essere umano (...). Solo oggi si rende di nuovo visibile
dinanzi all’essere umano un grande porto, solo oggi si approssimano di
nuovo raccoglimento, unità e quiete, e si cessa di sognare quell’ultimo
62
sogno febbrile rappresentato dal progresso infinito» .
Quando però si tratta di delineare in maniera concreta il nuovo essere
vivente che è sul punto di venire alla luce, Kahler avanza un duplice ordine
di considerazioni. a) Da un lato, infatti, egli sostiene che tale essere vivente
è l’uomo tedesco, anzi, più precisamente, il popolo tedesco, nella misura in
cui solo un popolo nella sua interezza costituisce un’unità organica signifi-
cativa in rapporto ad un mondo-ambiente che si è ormai planetarizzato63.
Proprio in questo senso Kahler afferma perentoriamente: «oggi in Germa-
nia risiede lo sviluppo del mondo»64. Una simile convinzione, lungi dall’es-
sere scossa, è addirittura corroborata dalle spaventose condizioni del paese
all’indomani della prima guerra mondiale. «In conformità al suo senso –
Kahler infatti scrive – la Germania fu gettata fino agli estremi limiti
dell’indigenza moderna perché essa deve partorire una trasformazione di
primaria importanza. La Germania è divenuta il luogo del collasso del
vecchio perché deve divenire il luogo della vittoria del nuovo»65. In altri
termini: è certamente vero che la Germania è la nazione che ha vissuto la
più completa dissoluzione di ogni vincolo organico poiché in essa «si è
sviluppato fino alla sua purezza esemplare quel terribile tipo di uomo
funzionale» il quale sembra del tutto risolto nella sua ristretta attività
specialistica e del tutto distaccato «da ogni intima comunità di anime e di
sangue»66; e tuttavia per Kahler vale la legge del τe πÀ©ει µÀ©ο̋; infatti il
popolo tedesco – come nessun altro popolo – ha compreso sulla propria
pelle di essere una creatura vivente e mortale la quale possiede una sua

62
BdW, p. 59; tr. it. cit., p. 125.
63
Cfr. BdW, p. 60; tr. it. cit., pp. 126-127: «L’ecumene si è esteso passando dall’ampiezza
di un solo paese e dalla profondità di una successione di generazioni che discendono
miticamente l’una dall’altra alla rotondità del globo terrestre e alla profondità di un lungo
ciclo storico di discendenza che riguarda intere nazioni. Nel mezzo di questo spazio (...) non
è più l’ora della singola persona umana, che qui può ormai a malapena conservarsi e
sostenersi. La nuova unità dovrà essere una comunità vera e propria e si troverà di fronte (...)
grandi comunità dello stesso tipo. In ogni caso il baricentro della nuova posizione poggerà
sulla comunità e non più sulla singola persona».
64
BdW, p. 35; tr. it. cit., p. 98.
65
Ibidem.
66
Ibidem.
42 INTORNO A WEBER

vocazione in vista di un’ora affatto determinata dell’uomo; ma esso ha


anche compreso che «quest’ora dell’uomo per la quale proprio il tedesco
possiede la vocazione, se mai comincerà, sta per cominciare ora, in questo
67
periodo in cui, lo si voglia o no, tutto ruota attorno alla Germania» .
b) D’altro lato, però, Kahler è egualmente convinto che la nuova entità
organica in via di formazione presenti un’essenziale rimando all’«intera
umanità», un’umanità, tuttavia, che non è più concepita soltanto come
l’astratto referente della scienza razionale moderna, bensı̀ risulta «per la
prima volta intuibile come un’esistenza singola e concreta»68. Da questo fatto
deriva la dimensione immediatamente sovrapersonale e sovranazionale che
in Der Beruf der Wissenschaft Kahler attribuisce al Deutschtum. «All’uomo
tedesco – egli infatti scrive – spetta per primo il dono di uscire fuori (...)
dalla sfera soggettiva, ossia il dono di coniare la sfera soggettiva peculiar-
mente tedesca in maniera immediatamente oggettiva, in maniera tale,
dunque, che essa risulti dotata di una validità più alta (...). Ciò che è tedesco
si manifesterà subito come ciò che è europeo, come un nuovo essere
umano, o non si manifesterà affatto»69.
In ogni caso, al di là di tutto ciò, a noi interessa principalmente
prendere in esame il modo in cui Kahler configura il nuovo sapere
adeguato alla formazione organica che egli vede profilarsi all’orizzonte. Di
tale sapere c’è, secondo Kahler, un urgente bisogno. Infatti soltanto me-
diante i suoi uffici può essere «preparata e educata»70 in Germania una

67
BdW, p. 39; tr. it. cit., p. 102. A simili considerazioni sono strettamente connesse le
prese di posizione politiche che Kahler manifesta in Der Beruf der Wissenschaft, prese di
posizione in verità piuttosto generiche ma comunque orientate in maniera decisamente
antiparlamentare. Infatti secondo Kahler il parlamentarismo inglese, che si fonda su di un
sentimento nazionale saldo e unitario in grado di ricondurre nei suoi giusti limiti ogni
contrasto, non è esportabile in Germania dove finisce per tradursi soltanto nell’assurda
pretesa coltivata da ogni partito di rappresentare il tutto. In nome di astratte Weltanschauung-
en o di interessi economici settoriali i partiti finiscono dunque per condurre una «sterile e
intollerabile battaglia sul corpo vivente del popolo» (BdW, p. 38; tr. it. cit., p. 101). Il popolo
tedesco ha piuttosto bisogno di una Fu¨hrerschaft che Kahler concepisce sulla falsariga della
Repubblica platonica e dei suoi filosofi reggitori. Tale Fu¨hrerschaft, «in conformità al modo
d’essere del tedesco», dovrà essere costituita «da molti che operano insieme e non da uno
solo» (BdW, p. 39; tr. it. cit., p. 102); inoltre, pur essendo assolutamente unitaria, essa
conoscerà un’interna stratificazione fondata sui «diversi gradi di visione d’insieme» (BdW, p.
41; tr. it. cit., p. 104) di cui si dimostreranno capaci i suoi membri.
68
BdW, p. 61; tr. it. cit., p. 127.
69
BdW, p. 58; tr. it. cit., p. 124. Sulle non poche assonanze di queste posizioni di Kahler
con quelle della cosiddetta «rivoluzione conservatrice» cfr. infra, cap. IV.
70
BdW, p. 39; tr. it. cit., p. 102.
ERICH VON KAHLER 43

classe dirigente la quale, nella misura in cui diviene capace di contemplare


la peculiare determinazione essenziale del popolo tedesco nonché del
mondo storico che lo circonda, diviene altresı̀ capace di condurre il popolo
tedesco alla sua vera destinazione, laddove questo fatto non ha – come
sappiamo – solo una valenza nazionale, bensı̀ involve la piena realizzazione
di «un nuovo essere umano». Ciò nonostante Kahler ritiene che del nuovo
sapere «non si potrà certo dire (...) che avrà superato uno qualunque dei
vecchi saperi, poiché esso sarà solo pienamente corrispondente alla nuova
posizione della sua unità di riferimento, proprio come ognuno di quei
71
saperi precedenti era pienamente corrispondente alla sua» . In altri termini,
solo quando l’uomo nuovo che sta per sorgere – una creatura organica
d’una complessità mai vista prima – riuscirà davvero a venir fuori da tutte le
scissioni razionali e a detenere la forma di sapere pienamente adeguata alle
sue più profonde esigenze, egli conquisterà una «padronanza della vita»72
pari, e soltanto pari, a quella che il semplice istinto garantiva un tempo al
selvaggio. Proprio in questo senso Kahler scrive che il nuovo sapere è «più
vasto rispetto a quello di prima, ma non più grande di esso se considerato
in rapporto a ciò che deve essere saputo»73. Infatti, nella misura in cui «la
forma dell’essere umano si è mutata e ha continuato a farlo», anche «la
forma in cui gli si manifesta il destino si è mutata in maniera corrisponden-
te», sicché «la relazione fondamentale fra le due forme in questione rimane
la stessa attraverso ogni movimento della totalità»74.
Ciò detto, è della massima importanza sottolineare che per Kahler il
sapere conforme all’unità organica ormai alle porte deve necessariamente
costituirsi come una «nuova scienza», vale a dire come un sapere caratteriz-
zato da un rapporto di continuità e nel contempo di rottura con la scienza
razionale moderna.
A tale proposito si deve anzitutto tener conto del fatto che la distin-
zione fra alte Wissenschaft e neue Wissenschaft era moneta corrente nell’am-
bito del George-Kreis. Infatti è certamente vero quanto ci tramanda Kurt
Breysig, ossia che George aveva poche conoscenze scientifiche e una
scarsissima inclinazione per la scienza75. Inoltre viene spesso citata la
lapidaria sentenza del “maestro”: «nessuna strada conduce da me alla

71
BdW, p. 60; tr. it. cit., p. 126.
72
BdW, p. 51; tr. it. cit., p. 116.
73
BdW, pp. 53-54; tr. it. cit., p. 119.
74
BdW, p. 53; tr. it. cit., p. 118.
75
K. Breysig, Aus meinen Tagen und Tra¨umen, Amsterdam, 1960, p. 36.
44 INTORNO A WEBER

scienza»76. E tuttavia – come ha giustamente sottolineato Heinz Raschel77 –


per comprendere davvero la posizione dei georgeani nei confronti della
scienza conviene prendere le mosse dalla testimonianza di Edith Land-
mann secondo la quale il poeta svevo affermava che le Geisteswissenschaften
sono irrimediabilmente corrotte ed esercitano un’azione corruttrice «perché
trattano allo stesso modo ciò che è grande e ciò che è piccolo, non
conoscono alcuna scelta e promettono, secondo determinate prescrizioni,
di portare chiunque al traguardo. Esse insegnano come produrre qualcosa
dal niente»78. Sulla base di questa testimonianza risulta infatti più chiaro
perché fra i discepoli di George – e specie fra quelli di seconda generazione
come Friedrich Gundolf ed Ernst Bertram – potesse sorgere l’idea di una
«nuova scienza», ossia di un nuovo modo di praticare le scienze dello
spirito alternativo a quello tradizionale e ai suoi presunti difetti. E tale idea
non rimase allo stadio di una mera aspirazione, come mostrano chiara-
mente due collane di studi: i Werke der Wissenschaft aus dem Kreise der
Bla¨tter fu¨r die Kunst, pubblicati a Berlino dalla casa editrice Bondi a partire
dal 1911, e i Werke der Schau und der Forschung aus dem Kreise der Bla¨tter fu¨r
die Kunst, pubblicati a Breslavia dalla casa editrice Hirt a partire dal 192179.

76
Cfr. E. Salin, Um Stefan George, seconda edizione, München – Düsseldorf, 1954, p. 249.
77
Cfr. H. Raschel, Das Nietzsche-Bild im George-Kreis. Ein Beitrag zur Geschichte der
deutschen Mythologeme, Berlin – New York, 1984, p. 84.
78
E. Landmann, Gespra¨che mit Stefan George (1913-1931), Düsseldorf – München, 1963, p.
81.
79
Se si scorrono i titoli di queste collane ci si rende subito conto che i georgeani si
dedicarono in prevalenza allo studio di grandi personaggi storici e di grandi personalità
artistiche e filosofiche. Più specificamente essi diedero vita a quel nuovo tipo di ricerca
storica che è conosciuto sotto il nome di Gestaltbiographie. Questo genere di biografia non si
preoccupa in primo luogo di riportare le azioni e le opere dei grandi uomini di ogni tempo a
una ben definita sequenza di vissuti né di spiegarle a partire da una somma di influssi storici
precisamente determinata, laddove una simile deroga ai dettami del metodo critico si fonda
sulla convinzione che tali opere e tali azioni acquistano il loro autentico significato solo se
sono viste come momenti parziali di una forma vivente saldamente conchiusa nella sua stabile
unità (cfr. H.-G. Gadamer, Stefan George (1868-1933), in H. J. Zimmermann, a cura di, Die
Wirkung Stefan Georges auf die Wissenschaft. Ein Symposium, Heidelberg, 1985, pp. 39-49, p.
43). Per tale motivo i testi scientifici dei georgeani, pur essendo spesso filologicamente ben
fondati, risultano sempre tesi a una stilizzazione e mitizzazione dell’eroe, del poeta o del
filosofo di turno, la cui vita sembra sfuggire completamente all’influenza di tutti quei fattori
che condizionano in maniera determinante il comportamento delle masse. A tale proposito
vale senz’altro la pena di ricordare il giudizio di Meinecke secondo il quale la «tendenza
verso gli alti e i massimi valori culturali si manifesta nella maniera più tipica nella scuola (...)
dei seguaci di Stefan George, perché essa si pone esigenze rigorose, nelle sue prove migliori,
immuni dagli errori di un modo di lavorare sciatto, e spesso caratterizzate da un’alta
perfezione formale, ma con una tendenza al raffinamento eccessivo e alla rarefazione
ERICH VON KAHLER 45

Giunti a questo punto del nostro discorso è dunque indispensabile


aprire una digressione per delineare alcuni tratti tipici della distinzione fra
«vecchia scienza» e «nuova scienza» cosı̀ come essa si configura teorica-
mente negli scritti dei discepoli di George. A tal fine è preliminarmente
necessario chiarire che per tutti i georgeani ciò che sta dietro ad ogni
autentico sapere non è la volontà di pervenire ad una conoscenza oggettiva
e verificabile ma la volontà di potenziare la vita e soprattutto di darle
forma. Questa convinzione di fondo è espressa in maniera esemplare in un
passo di una lettera scritta da Gundolf al germanista Friedrich von der
Leyen nel luglio del 1911: «Mi preme ovviare al Suo pregiudizio che la
nostra contrapposizione a certe forme e certi metodi del razionalismo
odierno derivino da un disprezzo del pensiero metodico in generale. Noi
onoriamo la scienza come un mezzo di plasmazione [Gestaltung] della vita
(...). La nostra battaglia si volge contro il mero volontarismo, nella misura
in cui con questo termine si intende la divinizzazione dell’istinto, della
vitalità priva di forma [der ungestalten Vitalita¨t], della pienezza caotica e
indistinta, proprio allo stesso modo in cui si volge contro il mero essere
80
concettuale, contro l’analisi fine a se stessa» . D’altra parte, in questa
concezione del vero sapere come «mezzo di plasmazione della vita» si
riflette in pieno quella sorta di «religiosità pagana» generalmente propria
del George-Kreis, religiosità che – per dirla con le parole di Marianne Weber
– adorava «il senso sommo dell’esistenza nell’incarnazione terrena del
divino» e considerava «la bellezza formata, la kalokagathia dei greci, norma
suprema dello sviluppo umano»81.

dell’atmosfera spirituale, nella quale le grossolane causalità terrene si dissolvono» (F.


Meinecke, Causalità e valori nella storia, 1928, in Id., Pagine di storiografia e filosofia della storia,
a cura di G. Di Costanzo, Napoli, 1984, pp. 241-271, p. 254). Fra i migliori risultati concreti
della «nuova scienza» dei georgeani si possono comunque ricordare, oltre all’edizione
storico-critica delle opere di Hölderlin dovuta a Norbert von Hellingrath (1913-1916), i libri
di Gundolf su Shakespeare (1911) e su Goethe (1916), il Nietzsche di Bertram (1918) – il cui
significativo sottotitolo è Versuch einer Mythologie – e il più tardo Kaiser Friedrich der Zweite di
Ernst Kantorowicz (1927).
80
F. Gundolf a F. von der Leyen, 6 luglio 1911, in H.-J. Zimmermann (a cura di), Die
Wirkung Stefan Georges auf die Wissenschaft, cit., pp. 109-111, p. 109. Ma cfr. anche F.
Wolters, Stefan George und die Bla¨tter fu¨r die Kunst. Deutsche Geistesgeschichte seit 1890,
Berlin, 1930, p. 487.
81
Marianne Weber, Max Weber. Una biografia (1926), tr. it. a cura di B. Forino, Bologna,
1995, pp. 538-539. Della religiosità pagana di George e della sua cerchia è convinto anche
Troeltsch il quale scrive a proposito del poeta svevo: «Egli vuole creare, come l’ellenicità
aristocratica e spartanofila, un’aristocrazia che ponga in completa armonia spirito e corpo
(...). “Ellenico-cattolico” lo definisce una volta Gundolf, dove con “cattolico” è inteso
l’elemento misterico, propriamente anticristiano, del cattolicesimo. Lo spirito dell’insieme è
46 INTORNO A WEBER

Muovendo da un simile presupposto i georgeani sono dunque soliti


distinguere fra un sapere fruttuoso e uno infruttuoso, fra un sapere vivo e
82
uno morto . La scienza tradizionale, la vecchia scienza, è un sapere
infruttuoso che risulta ostile alla vita dotata di forma e fallisce il compito di
educare la gioventù in quanto per essa «tutto può divenire oggetto, tutto ha
dinanzi alla ricerca lo stesso diritto e la ricerca della verità è il dovere dello
spirito e il senso della vita»83. Invece la neue Wissenschaft, in relazione al
compito intrinsecamente “formativo” che la caratterizza, compie sempre
una «scelta»84, anzi – come parte integrante di un movimento spirituale più
complessivo – è essa stessa una delle manifestazioni di una «forza che
sceglie e dà forma»85. La nuova scienza si occupa infatti solo di ciò «che
feconda, suscita forze e accresce il sentimento vitale», mentre tutto il resto è
per lei «morto», è «macerie», oppure, nel migliore dei casi, è «concime o
malta»86. È questo il motivo più profondo per il quale secondo i discepoli di
George l’indagine storica deve avere come proprio oggetto privilegiato e
come proprio criterio di selezione i grandi uomini del passato. Infatti la
loro esistenza costituisce per ogni uomo vivente, ossia per ogni uomo che
agisce e patisce, un bene inestimabile nella misura in cui rivela nel modo
più chiaro la possibilità di una gestalte Vitalita¨t ed è dunque «la forma più
alta in cui noi facciamo esperienza del divino»87. Proprio in questo senso
Gundolf scrive: «I grandi sono grandi a causa della loro mai esaurita novità
e non a causa della loro immobile antichità..., perché dopo mille anni sono e
non perché mille anni fa erano»88.

sı̀ religioso, ma da cima a fondo pagano e rigidamente aristocratico, in ogni caso fondamen-
talmente orientato contro il dualismo cristiano, contro lo spiritualismo e contro la relativa
etica dell’amore per l’uomo e della pura interiorità, assolutamente contro ogni tipo di
protestantesimo» (RiW, p. 659). Invece Max Weber, anche se o, forse, proprio perché
ammirava in George il «maestro della forma», l’artista dal quale «intere province delle
possibilità emotive» erano state «conquistate all’espressione», non riteneva affatto possibile
attribuire un reale afflato religioso alla sua poesia, né, più in generale, al culto della
«personalità formata» del George-Kreis (cfr. Marianne Weber, Max Weber, cit., pp. 536 sgg.,
in part. pp. 538-540).
82
Cfr. F. Gundolf, Wesen und Beziehung, in «Jahrbuch für die geistige Bewegung», 2
(1911) e Id., Vorwort a Shakespeare und der deutsche Geist, Berlin, 1911.
83
F. Gundolf, Dichter und Helden, Heidelberg, 1921, p. 23.
84
Cfr. K. Hildebrandt, Gesundheit und Krankheit in Nietzsches Leben und Werk, Breslau,
1926, p. 2.
85
F. Gundolf, Dichter und Helden, cit., p. 24.
86
Ivi, p. 23.
87
Ivi, p. 25.
88
Ivi, p. 24.
ERICH VON KAHLER 47

I georgeani sanno bene che un simile atteggiamento nei confronti


dell’oggetto della conoscenza non può soddisfare le esigenze di oggettività
e verificabilità della scienza tradizionale, ma ritengono che tali esigenze non
siano nient’altro che il portato di un modo di pensare «piattamente razio-
89
nalistico» . Infatti per essi l’assoluta oggettività da un lato non è in alcun
modo compatibile con l’effettiva condizione umana e dall’altro si arresta
alla superficie delle cose e occulta il loro più profondo contenuto di verità90.
Questi due aspetti della questione, pur essendo fra loro potenzialmente
conflittuali, tuttavia coesistono sempre l’uno accanto all’altro negli scritti
del George-Kreis poiché vengono in ultima istanza tenuti insieme dal culto
per «l’incarnazione terrena del divino», per la «forma coniata che vivendo si
sviluppa»91. Naturalmente, pur in questa sostanziale unità di vedute, c’è chi,
come Edith Landmann, richiamandosi direttamente alla tradizione filoso-
fica antica e medievale, sottolinea maggiormente il fatto che la verità più
alta è restituita solo da una Gesamterkenntnis «intuitiva», «sovrarazionale» e
«sovrasensibile»92, la quale, però, non può essere contrapposta all’arte e alla
poesia93 e ha la fede (o comunque la credenza) come suo presupposto
essenziale e come suo risultato ultimo94. Altri, invece, sottolineano maggior-
mente le profonde radici vitali di ogni specie di “teoria”, come ad esempio
fa Gundolf quando in una pagina di Dichter und Helden afferma: «Gli
uomini non sono il sostrato delle idee, bensı̀ i loro creatori e i loro
contenuti. L’uomo reale viene sempre prima dell’idea: le idee sono mezzi o
conseguenze, non cause originanti [Ur-sachen]»95.
In ogni caso i georgeani prendono decisamente le distanze tanto dalle
astrazioni universalizzanti e dissolventi della scienza razionale moderna –
che, nel corso dell’Ottocento, erano giunte a penetrare finanche nel campo
della storia – quanto dalla sfrenata tendenza alla specializzazione, la quale,
dal loro punto di vista, non è altro che il portato delle infinite possibilità di
combinazione fra costruzioni concettuali astratte che hanno perso ogni

89
K. Hildebrandt, Gesundheit und Krankheit in Nietzsches Leben und Werk, cit., p. 2.
90
Cfr. B. Vallentin, Napoleon und die Deutschen, Berlin, 1926, p. 44.
91
«Gepra¨gte Form, die lebend sich entwickelt» è l’ultimo verso di ∆ α ݵον, Da¨mon. Zeit, la
prima delle cinque stanze goetheane il cui titolo complessivo è Urworte. Orphisch. A questo
verso di Goethe – invero molto citato – si richiama anche Kahler (BdW, p. 44; tr. it. cit., p.
107).
92
E. Landmann, Die Transcendenz des Erkennens, Berlin, 1923, pp. 248 e 261. Più in
generale cfr. pp. 236 sgg.
93
Cfr. ivi, p. 289.
94
Cfr. ivi, p. 274.
95
F. Gundolf, Dichter und Helden, cit., p. 25.
48 INTORNO A WEBER

solido ancoraggio ad un centro organico ben determinato. Di conseguenza


la neue Wissenschaft, che deve essere «una scienza che guarda e non solo
una scienza che pensa»96, si concentra sulla singola totalità individuale e
sulla sua intima struttura, dalla quale soltanto può trasparire d’un colpo la
97
vera universalità del genere . D’altro canto la nuova scienza, a causa delle
medesime esigenze da cui è sorta, ha sempre un suo immanente fine
pratico, che è quello della creazione di un mito e dunque di un culto che
serva da concreto orientamento alla vita presente, la quale, pur nella sua
straordinaria complessità, anela con forza ad una forma unitaria98.
Dal punto di vista prettamente metodologico tutto ciò si riverbera da
un lato nel privilegiamento dell’«entusiasmo» e dell’«ispirazione» concepiti
rispettivamente come quel «cercare vivente» e quel «trovare vivente» che lo
zelo critico non potrà mai sostituire99, dall’altro nella netta separazione fra il
momento dell’«esposizione» e quello della «ricerca», nel quale l’opera,
essendo ancora informe e incompiuta, deve pudicamente rimanere nascosta
agli occhi del popolo che «deve abituarsi a ricevere solo opere compiute,
armoniche e complete», le uniche in grado di offrirgli «una disciplina
spirituale complessiva che porta all’unità e una disciplina spirituale com-
plessiva che esige l’unità»100. Inoltre per tutti i discepoli di George è
completamente falsa la convinzione della «vecchia scienza» secondo cui
chiunque può conoscere qualsiasi cosa, perché in realtà ogni individuo, a
causa del suo più profondo modo d’essere, è sempre predestinato a cono-
scere soltanto un certo oggetto e non un altro101.

96
BdW, p. 81; tr. it. cit., p. 150. Sulla polarità fra Sehen e Denken (o, per adoperare la
terminologia kahleriana, fra Schauen e Denken) cfr. G. Cantillo, Metafisica critica e teoria della
conoscenza. Il confronto di Troeltsch con Rickert, in Id., L’eccedenza del passato, Napoli, 1993, pp.
247-298.
97
Cfr. E. Landmann, Die Transcendenz des Erkennens, cit., p. 249: «Nella conoscenza
complessiva causalità e legge (...) non sono una dipendenza funzionale, bensı̀ sono il derivare
dell’individuale dal tipico, sono il derivare di ciò che si muta e si sviluppa dall’essenza (...).
La conoscenza complessiva (...) non è soltanto posizione d’esistenza ma nel contempo è
coglimento dell’essenza, è coglimento dell’universale nel singolare e del singolare come
universale. Essa coglie con gli oggetti empirici e negli oggetti empirici il tipo o l’archetipo
degli oggetti».
98
Cfr. F. Gundolf, Dichter und Helden, cit., p. 27: «La venerazione per i grandi uomini o è
religiosa o è priva di valore»; p. 29: «I modelli sono nel contempo legge e applicazione della
legge. Il loro fare e il loro operare è culto. La loro vita e il loro essere è mito».
99
Cfr. BdW, p. 75; tr. it. cit., p. 143.
100
BdW, pp. 86-87; tr. it. cit., pp. 156-157.
101
Cfr. E. Landmann, Die Transcendenz des Erkennens, cit., p. 281 e F. Wolters, Stefan
George und die Bla¨tter fu¨r die Kunst, cit., p. 487. Per Gundolf solo il poeta può comprendere
fino in fondo le grandi figure del passato perché solo il simile può conoscere il simile (F.
ERICH VON KAHLER 49

Dunque la neue Wissenschaft del circolo di George si configura tipica-


mente come un nuovo modo di praticare la scienza – o, più specificamente,
le scienze dello spirito102 – che si oppone in maniera radicale ad ogni forma
di positivismo e di neokantismo e combina l’interesse dello storicismo
ottocentesco per l’individuale, da un lato con una ripresa religioso-
estetizzante di motivi propri del platonismo e della metafisica classica,
dall’altro con una lettura della seconda delle Unzeitgema¨ße Betrachtungen di
Nietzsche che accentua fino all’estremo le virtù della considerazione monu-
mentale del passato103. Ora, è evidente che nel codice genetico di una simile

Gundolf, George, terza edizione, Berlin, 1930, p. 115). Analogamente per Kahler «ogni
ricercatore si dedicherà all’esposizione ideale di una formazione organica alla visione della
quale è predestinato per via di un’interiore inclinazione e di un’interiore relazione con essa»
(BdW, p. 96; tr. it. cit., p. 167).
102
Secondo Troeltsch le nuove teorie dei georgeani non interessarono «le scienze della
natura ma le scienze dello spirito» poiché nelle scienze della natura «la connessione con la
tecnica è cosı̀ stretta che qualunque fantasticheria e rilassamento filosofico subito si rivar-
rebbe nel modo peggiore sotto il profilo pratico (...). Qui è posto un saldo argine contro
ogni dilettantismo, nobile o ignobile che sia» (RiW, p. 655). Gadamer sostiene invece che
George esercitò un influsso anche su molti giovani studiosi di scienze naturali. In particolare
egli riscontra una certa affinità col caso di Goethe. Infatti secondo Gadamer anche in
rapporto a George le considerazioni morfologiche trovarono, nei primi decenni del Nove-
cento, una nuova legittimazione, e ciò tanto nel campo della chimica, della mineralogia e
della geologia, quanto nel campo della biologia e della medicina (cfr. H.-G. Gadamer, Stefan
George, cit., pp. 42-43).
103
L’unilateralità di tale lettura di Vom Nutzen und Nachteil der Historie fu¨r das Leben – che
con Die Geburt der Trago¨die e lo Zarathustra è una delle tre opere di Nietzsche su cui si
appunta tutta l’attenzione di George e dei suoi discepoli – può forse essere mostrata nella
maniera migliore da un passo di questo scritto in cui si tratta dei «danni che la storia
monumentale può fare tra i potenti e gli attivi» (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della
storia per la vita, 1874, tr. it. di S. Giametta, Milano, 1979, p. 21). Formulando una calzante
critica ante litteram del modo di fare storia del George-Kreis, Nietzsche infatti scrive: «Se la
considerazione monumentale del passato domina sulle altre forme di considerazione, voglio
dire sull’antiquaria e sulla critica, lo stesso passato ne soffre danno: intere, grandi parti di esso
vengono dimenticate, spregiate, e scorrono via come un grigio e ininterrotto flusso, mentre
emergono come isole solo singoli fatti abbelliti; nei rari personaggi che in genere divengono
visibili, salta agli occhi un che di innaturale e di meraviglioso, come l’anca d’oro che i
discepoli di Pitagora volevano vedere nel loro maestro» (ivi, p. 21). — Nietzsche, insieme a
Goethe e a Hölderlin, era considerato dal George-Kreis come un precursore della «nuova
scienza». D’altra parte il concetto stesso di neue Wissenschaft rappresenta in qualche modo
una ripresa della fro¨hliche Wissenschaft nietzscheana. Più in generale a Nietzsche era costante-
mente attribuita una sorta di funzione “giovannea” nei confronti di George. Cfr. ad esempio
F. Gundolf – K. Hildebrandt, Nietzsche als Richter unserer Zeit, Breslau, 1923: «Nietzsche
aprı̀ la via, fu un predecessore, non colui che realizza» (p. 100); «Solo George e` ciò che
Nietzsche strenuamente persegue» (p. 103). Ma su tutto ciò si veda H. Raschel, Das
50 INTORNO A WEBER

“teoria della scienza” è iscritta una forte e direi quasi programmatica


sottovalutazione di molti dei problemi che non solo sono al centro della
riflessione di Weber ma rappresentano anche una costante preoccupazione
di tutti i principali esponenti dello storicismo tedesco contemporaneo:
quello dell’impossibilità di attribuire alla scienza empirica e ai suoi risultati
un’immediata funzione salvifica nei confronti della vita, quello dell’avaluta-
tività e dell’oggettività delle discipline storico-sociali, quello della costru-
zione dell’oggetto delle scienze storico-sociali mediante le procedure di
concettualizzazione proprie di tali discipline, etc. Ma, anche al di là di simili
questioni di fondo, agli storicisti non poteva non sembrare che la «nuova
scienza» dei georgeani, proprio se considerata alla luce delle sue prestazioni
migliori, rischiasse di peccare d’ingratitudine nei confronti del modo tradi-
zionale di praticare la ricerca scientifica e, nella fattispecie, la ricerca storica.
A tale proposito è esemplare ciò che Friedrich Meinecke scrive in generale
circa i «nuovi sintetici» in un saggio del 1923 dedicato a Spengler: «Si vuole
subito dialogare con l’“anima” della cosa, – e si possono utilizzare a questo
fine le enormi quantità di sapere che sono state accumulate attraverso la
ricerca dell’ultimo secolo, per costruirsi, con una rapida scelta di questo e di
quel materiale da costruzione adatto, il nuovo tempio agognato. Nel
frattempo si dimentica spesso che si deve alle disprezzate scienze speciali-
stiche non solo il materiale fattuale, con cui vengono costruite le nuove
ardite “sintesi” della vita storica, ma anche il dirozzamento e la spiritualiz-
zazione dello sguardo storico, proprio la spinta nelle profondità ultime
delle cose di cui adesso ci si gloria (...). La differenza tra la scienza quale si è
sviluppata fin qui, almeno per quanto riguarda i suoi membri più ingegnosi
e vivi, e i nuovi sintetici non sta tanto negli scopi del conoscere, quanto nel
modo di lavorare (...), nella maggior quantità di senso della responsabilità e
di dovere, di modestia e di autodisciplina, con cui essa svolge il suo
lavoro»104.

Nietzsche-Bild im George-Kreis, cit. e F. Weber, Die Bedeutung Nietzsches fu¨r Stefan George und
seinen Kreis, Frankfurt a. M., 1989.
104
F. Meinecke, Sulla riflessione storica di Spengler, 1923, in Id., Pagine di storiografia e
filosofia della storia, cit., pp. 225-240, pp. 229-230. Nello stesso senso, trattando delle opere di
Gundolf, Troeltsch afferma che tutte le componenti che concorrono a formare il suo vero
talento corrispondono in realtà «alla migliore tradizione del genuino storicismo del dician-
novesimo secolo» (RiW, p. 661). — La letteratura critica sul George-Kreis è naturalmente
molto ampia. Mi limito qui a rimandare, oltre che alle opere già citate, all’informata
monografia di Stefan Breuer, As̈tetischer Fundamentalismus: Stefan George und der deutsche
Antimodernismus, Darmstadt, 1995 e al bel saggio di Laura Bazzicalupo, Storia tipologica e
sapere esoterico nel George-Kreis, in «Diritto e cultura», VI (gennaio-giugno 1996), 1, pp.
ERICH VON KAHLER 51

Ora, non c’è dubbio che Der Beruf der Wissenschaft rappresenti – come
subito si accorse Troeltsch – uno dei documenti più significativi e insieme
più espliciti del modo in cui la «nuova scienza» era generalmente concepita
nel George-Kreis. E tuttavia mi sembra importante sottolineare che, per
quello che attiene nello specifico alla posizione teorica di Kahler, la critica
rivolta da Meinecke ai «nuovi sintetici» non coglie nel segno fino in fondo.
Infatti in Kahler (a differenza che in altri georgeani) è particolarmente viva
la convinzione che la «nuova scienza», per essere davvero all’altezza del suo
referente organico e dunque del suo Beruf, deve essere capace di includere
in una nuova visione sintetica tutte le astrazioni e tutti i risultati specialistici
della scienza razionale moderna, deve essere, cioè, «un sapere che rac-
chiuda e fonda in sé anche tutto il lavoro moltiplicatore della ragione»105.
Che la neue Wissenschaft kahleriana non sia dimentica del cordone
ombelicale che la lega alla scienza razionale moderna lo mostra già la dura
polemica contenuta in Der Beruf der Wissenschaft contro ogni forma di
irrazionalismo vitalistico, contro «i molti e confusi individui irruenti della
nostra gioventù che hanno in bocca le parole Leben ed Erleben in modo
troppo leggero e irresponsabile o addirittura marcio e falso»106. Tale pole-
mica non è solo condotta in nome del desiderio di «una forza stabilizzatri-
ce»107 non più debole bensı̀ più forte di quella ancora in qualche modo
garantita dalle esigenze di rigore della scienza tradizionale108, ma è anche
condotta in nome della piena consapevolezza che per il sentimento vitale
109
del presente «è del tutto falso e impossibile» collocarsi in una posizione di
assoluta innocenza. Riecheggiando toni hegeliani, Kahler infatti scrive:
«L’intelletto è in noi e non può essere estirpato. Non si può superare il suo
indisciplinato proliferare eliminandolo a favore di un’unità subordinata, ma
solo inserendolo nell’ambito di un’unità sovraordinata»110. Si tratta dunque

137-150. Ma si vede anche il «George-Jahrbuch», edito a Tubinga dal 1996 per conto della
Stefan-George-Gesellschaft di Bingen.
105
BdW, p. 60; tr. it. cit., p. 126.
106
BdW, p. 33; tr. it. cit., p. 95.
107
Ibidem; tr. it. cit., p. 96.
108
Ernst Troeltsch insiste a più riprese sul desiderio di una «nuova legge» e di un «nuovo
dogma» che caratterizza l’intero movimento di «rivoluzione nella scienza» e in particolare il
George-Kreis. Cfr. RiW, pp. 654, 658 sg., 668 etc. Ma si veda anche la lettera di Gundolf a
von der Leyen prima citata (cfr. supra, nota 80).
109
BdW, pp. 33-34; tr. it. cit., p. 96.
110
BdW, p. 34; tr. it. cit, p. 96. Ma cfr. anche BdW, p. 60; tr. it. cit., p. 126: «Nell’essere
umano d’oggi e in tutte le sue forme di vita l’intelletto è portato in auge, sicché chi in
52 INTORNO A WEBER

di configgere «il ridestato sentimento vitale nella facoltà della ragione»,


poiché solo cosı̀ da un lato «esso si munisce di ragione e si accresce in lei»
e dall’altro «la ragione lavora nuovamente e rigorosamente ai suoi ordi-
111
ni» . In questo stesso orizzonte si iscrive anche la critica che Kahler
muove all’esaltazione moderna e romantica dell’individuo, a quei «fanatici –
si chiamino essi poeti, filosofi o teosofi – che fanno derivare la loro
conoscenza dal loro sentire». Kahler non esita infatti a dichiarare che ad
essi «saremmo ancora costretti a preferire i razionalisti puri, se non aves-
simo compreso che le due specie sono l’una la condizione dell’altra.
L’uomo funzionale che compie un capovolgimento dal pensare al sentire
diviene un “individuo”. Quest’ultimo, per quanto collocato sull’altro ver-
sante, è un identico frammento, un identico pezzo di caos»112.
Ma, al di là di tutto ciò, in Der Beruf der Wissenschaft Kahler afferma a
chiare lettere che «il nuovo sapere (...) può essere soltanto scienza in un
senso insieme vecchio e nuovo, in un senso che rifonda la materia e l’esten-
sione di quella che finora veniva denominata scienza nella forma antichis-
sima ed eterna che è la sola e unica a poter essere chiamata sapere»113. In
altri termini egli ritiene che non sia possibile alcun ritorno a forme di
sapienza artistica o religiosa che pretendano di agirare del tutto il lavoro
demolitorio ma insieme preparatorio della scienza razionale moderna.
Certo, con tali forme di sapienza il nuovo sapere avrà «la più intima
parentela», nella misura in cui la vera arte e la vera religiosità si sviluppano
sempre «dal centro di una formazione organica» e si esprimono «in opere
plastiche organiche viste, visibili e conchiuse e non già in frammenti di fatti
e di calcolabilità»114. E tuttavia il nuovo sapere «non potrà più consistere di
verità di pura fede»115 poiché l’enorme estensione e l’interna pluralità e
motilità di «ciò che deve essere saputo» – ossia della nuova formazione
organica – non gli consentono più di fondarsi «sull’unità univoca e ferma del
Demiurgo»116, vale a dire di configurarsi in maniera mitico-personale: affer-
mazioni, queste, che rappresentano un obiettivo elemento di differenzia-
zione della posizione di Kahler dall’idea dei georgeani più ortodossi di

quest’epoca vuole liberarsi totalmente dell’intelletto e sacrificarlo, non potrà più in ultima
istanza rimanere nel vero».
111
BdW, p. 34; tr. it. cit., p. 96.
112
BdW, pp. 64-65; tr. it. cit., p. 131.
113
BdW, p. 60; tr. it. cit., p. 126 (il secondo corsivo è mio).
114
BdW, p. 65; tr. it. cit., p. 132.
115
BdW, p. 60; tr. it. cit., p. 126.
116
BdW, pp. 45-46; tr. it. cit., p. 109. Ma cfr. anche BdW, pp. 60-61; tr. it. cit., p. 127.
ERICH VON KAHLER 53

funzionalizzare la neue Wissenschaft alla creazione di una nuova mitologia.


Ma Kahler va ancora oltre. Egli sostiene che per gli stessi motivi per i quali
il nuovo sapere non può configurarsi in maniera mitico-personale, esso
«non può neanche assumere una configurazione simbolica»117 e quindi non
può presentarsi come poesia. Infatti il «dichten» [poetare], qualsiasi sia il suo
effettivo valore, non riesce più a «ver-dichten» [condensare] efficacemente
«spazi» ormai divenuti «troppo grandi», e per tale motivo è inevitabilmente
destinato ad essere visto come qualcosa di meramente «soggettivo» che è
incapace di «far leva (...) sul perimetro complessivo della nostra vita
odierna»118. Nel processo di determinazione del nuovo sapere perde dunque
ogni valore effettivamente risolutivo anche lo stesso riferimento a George
che pure Kahler celebra in Der Beruf der Wissenschaft come «quell’alta figura
dal cui mutamento vivente traiamo ai nostri giorni conforto e rinvigori-
mento per questa nostra impresa»119.
Davvero essenziale per la determinazione della neue Wissenschaft di
Kahler risulta invece proprio il suo stretto legame con la scienza razionale
moderna, la quale, considerata di per sé, è certamente un «non sapere», e
tuttavia possiede – per dirla con Max Scheler – un «diritto storico relati-
vo»120, non solo perché rappresenta il corrispettivo, sul piano della co-

117
BdW, p. 65; tr. it. cit., p. 132.
118
Ibidem; tr. it. cit., pp. 132-133.
119
Ibidem; tr. it. cit, p. 132. Che Kahler fosse in buona sostanza un “georgeano eterodosso”
è cosa che non sfuggı̀ né a George né a Gundolf. Certo quest’ultimo, in una lettera a Kahler
del febbraio 1920, elogia senza riserve Der Beruf der Wissenschaft (che – è bene non
dimenticarlo – fu sı̀ pubblicato nella collana dei Werke der Wissenschaft aus dem Kreise der
Bla¨tter fu¨r die Kunst, ma senza recare sul frontespizio il simbolo della svastica che era il
contrassegno ufficiale del circolo di George). Tuttavia in un’altra lettera scritta nell’ottobre
dello stesso anno Gundolf comunica a Kahler le critiche mosse da George al suo saggio
antiweberiano, critiche che Gundolf afferma apertamente di condividere. Il principale punto
di disaccordo è individuato nel fatto che Kahler sottovaluta la possibilità che singole
personalità, e in particolare singoli poeti, forniscano un contributo determinante alla crea-
zione del futuro, esponendosi cosı̀ al pericolo che anche la neue Wissenschaft divenga
qualcosa di “sterile”. D’altronde molti anni più tardi Kahler stesso, in una lettera a Michael
Landmann del gennaio 1963, scrive: «Né il mio procedere oltre le configurazioni dei grandi
uomini in direzione delle configurazioni degli organismi sovraindividuali e collettivi, e
neanche le mie concezioni e i miei piani per una radicale trasformazione della scienza
furono sostenuti dal modo di pensare di fondo del George-Kreis». Su tutto ciò si veda A.
Kiel, Erich Kahler, cit., pp. 39-40. Ma cfr. anche G. Lauer, Die verspa¨tete Revolution, cit., pp.
181 sgg.
120
Scheler adopera questa espressione a proposito del «modo di pensare nominalistico»
che caratterizza, dal suo punto di vista, la riflessione di Weber: cfr. MWAP, p. 436; tr. it. cit.,
p. 153. Nel saggio sulla rivoluzione nella scienza Troeltsch considera «la scuola sheleriana»
come «un gruppo che è strettamente affine alla scuola di George» (RiW, p. 666). «Anche la
54 INTORNO A WEBER

scienza, dell’effettiva dissoluzione di una formazione organica, ma anche


perché rappresenta la necessaria premessa per la costruzione di un sapere
veramente adeguato alla nuova formazione organica in procinto di venire
alla luce. «Il nostro lavoro – Kahler infatti scrive – avrà dunque in comune
con la vecchia scienza (...) il fatto di intraprendere l’effettiva elaborazione
trasformativa, anzi in generale solo formativa, di tutti gli estesi territori, di
121
tutto il “materiale” che la vecchia scienza razionale ha reperito» . È questa
la motivazione ultima per la quale la nuova scienza, al pari della scienza
tradizionale, non può essere frutto del dilettantismo, ma sarà il prodotto di
una ben definita comunità scientifica contraddistinta dall’identità dei propri
intenti e delle proprie procedure metodologiche. Non a caso Kahler af-
ferma subito dopo: «Il nostro lavoro avrà inoltre in comune con la vecchia
scienza il fatto che anch’esso, in vista di un simile proposito, deve porre alla
propria base una comunità sovrapersonale improntata alla cooperazione
nonché una rigorosa disciplina sovrapersonale. Bisognerà che ci siano molti
spiriti che dovranno assumere su di loro e dividere fra loro, in un unico
senso, questo gigantesco lavoro; bisognerà che ci sia un modo di procedere
e di verificare pianificato in maniera molto determinata, vale a dire un
metodo stabilito che guidi questo lavoro, il quale non deve essere più
compiuto in nessun altro modo e – nel mondo in cui viviamo – deve essere
salvaguardato dall’arbitrio dilettantistico»122.

3. Tuttavia proprio la giusta valutazione del ruolo che Kahler attribuisce


alla scienza razionale moderna nel processo di formazione della neue
Wissenschaft ci consente di giungere al cuore della critica che egli rivolge a
Weber. Sappiamo infatti che per Kahler Wissenschaft als Beruf – anche al di
là delle intenzioni di Weber – offre al lettore una precisa radiografia delle
caratteristiche proprie della scienza razionale moderna la quale, giunta al

scuola scheleriana – egli infatti scrive – fonda su Nietzsche, Bergson, Dilthey e Simmel una
teoria fondamentalmente anti-intellettualistica e anti-borghese, fortemente orientata estetica-
mente, che sfocia nell’intuizione e nella visione dello sviluppo, trasformando il moderno
storicismo in una sorta di platonismo e collegandolo con l’idea cattolica di autorità e
comunità. Soltanto l’adesione alla fenomenologia husserliana è qui accentuata ancora più
fortemente di quanto lo sia lı̀ [nella scuola di George]. Ma per il resto è del tutto identico il
disprezzo rivoluzionario per la scienza borghese, per le moderne formazioni politico-sociali,
per lo specialismo professorale, per le convenzioni treitschkeano-bismarckiane» (ibidem).
121
BdW, p. 66; tr. it. cit., p. 133.
122
Ibidem. D’altra parte, fin dalle prime pagine di Der Beruf der Wissenschaft, Kahler
dichiara di voler perseguire «una nuova fondazione universale, chiara e metodologicamente
salda della teoria scientifica» (BdW, p. 8; tr. it. cit., p. 66).
ERICH VON KAHLER 55

suo pieno compimento, si rivela chiaramente come un «non sapere». Ora, è


evidente che una simile radiografia risulta tanto più significativa quanto più
Kahler riconosce che la scienza razionale moderna non è un semplice
incidente di percorso, bensı̀ è una «fatale necessità»123 derivante non solo
dal processo di dissoluzione di un determinato essere umano e del suo
sapere, ma anche dal sotterraneo processo di formazione di un nuovo
essere umano e del nuovo sapere ad esso adeguato. Ma per Kahler l’errore
capitale di Weber consiste nel fatto che egli assume questa dolorosa fase di
travaglio – la quale, nell’immediato, ha prodotto soltanto una «diminuzione
dell’essere umano»124 nella misura in cui ha sostituito all’«uomo tutto
intero» di un tempo125 null’altro che «i moderni uomini-funzione»126 – come
una situazione assolutamente definitiva e insuperabile. Per tale motivo tutti
quegli aspetti della scienza razionale moderna che, secondo Kahler, rice-
vono il loro senso e la loro giustificazione ultima solo se essa viene
interpretata come un momento di transizione dall’antica sapienza ellenica
alla neue Wissenschaft (vale a dire l’astrattezza delle sue costruzioni concet-
tuali, la sua inarrestabile tendenza allo specialismo, la strutturale provviso-
rietà dei suoi risultati, la sua incapacità di fornire una risposta ai più
profondi bisogni del vivente etc.) divengono surrettiziamente, nelle mani di
Weber, altrettante connotazioni essenziali della scienza in quanto tale127.
D’altra parte secondo Kahler il titolo stesso della conferenza weberiana

123
BdW, p. 54; tr. it. cit., p. 119.
124
Ibidem.
125
BdW, p. 40; tr. it. cit., p. 103.
126
BdW, p. 54; tr. it. cit., p. 119.
127
Naturalmente, se si assume il punto di vista di Weber, la critica kahleriana alle tesi
espresse in Wissenschaft als Beruf risulta del tutto extra-scientifica. Infatti Kahler muove da un
concetto di scienza razionale moderna che, essendo in ultima istanza fondato sul terreno di
una «metafisica organica» (cfr. M. Weber, Il significato dell’“avalutatività” nelle scienze sociolo-
giche ed economiche, cit., p. 333), pretende di rispecchiare immediatamente lo stato delle cose
ed è dunque ben lungi dal costituire «la formulazione logicamente chiara delle domande che
l’osservatore pone al materiale empirico su cui si svolgerà l’indagine» (G. A. Di Marco,
Capitalismo e razionalismo occidentali come problemi di storia universale in Max Weber, in «Atti
dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche», 102, 1991, pp. 87-120, p. 91). In altri termini
Kahler è completamente ignaro della dicotomia fra l’evidenza dei concetti e la validità
empirica dei giudizi che caratterizza le moderne scienze della cultura, almeno nella misura
in cui esse mirano alla conoscenza di situazioni di fatto (su tale dicotomia cfr. ivi, pp. 90
sgg.). Ma che la scienza sia oggi «una “professione” (...) posta al servizio della consapevo-
lezza di sé e della conoscenza di situazioni di fatto» rappresenta per Weber «un dato di fatto
ineluttabile della nostra situazione storica al quale non possiamo sottrarci se vogliamo
rimanere fedeli a noi stessi» (WaB, p. 105; tr. it. cit., p. 123).
56 INTORNO A WEBER

– che pone immediatamente la questione della «scienza come Beruf» senza


interrogarsi anzitutto sulle profonde mutazioni che la scienza razionale
moderna deve subire perché sia effettivamente possibile parlare di un «Beruf
128
della scienza», ossia, in definitiva, di un suo «senso umano» – mostra in
maniera molto chiara che Max Weber «accetta la scienza nella sua condi-
zione presente come un dato di fatto immutabile, la accetta proprio cosı̀
come essa ha fissato se stessa, mediante un’immagine da lei coltivata, entro
la totalità della “vita moderna” evoluta»129. Peraltro un simile assunto è
consustanziale al modo d’essere stesso della «vecchia scienza». Infatti que-
st’ultima, non essendo propriamente null’altro che il trapassare da una
forma di sapere ad un’altra (o, che è lo stesso, da una formazione organica
compiuta ad un’altra), si trova sempre nella «strana e paradossale situazione
di predicare incessantemente il progresso e lo sviluppo e di non riuscire
tuttavia a rappresentarsi che un progresso e uno sviluppo potrebbero un bel
giorno afferrare e in parte liquidare anche lei stessa, unitamente al suo
intero fondamento e al suo intero terreno, a ogni suo presupposto e a ogni
suo dato di fatto»130. Sicché quello che in definitiva Kahler contesta a
Weber – assunto come il tipico Vertreter della scienza razionale moderna131
e come il più conseguente discepolo della lezione kantiana secondo cui non
si dà alcun mondo di forme viventi giacché ciò che dà forma è solo la
«mobile forza trascendentale» della ragione umana – è il disperato tentativo
di irrigidire e perennizzare una situazione di passaggio fra un mondo di
forme viventi che non è più e un mondo di forme viventi che non è ancora,
tentativo condotto unicamente in vista del fatto che proprio questa situa-
zione di passaggio costituisce la condizione di possibilità e il terreno di
coltura della vecchia scienza.
Kahler ritiene invece che, cosı̀ come il lento processo di dissoluzione
dell’umanità antica in molteplici umanità diverse ed equivalenti prepara
nascostamente l’avvento di un uomo nuovo, allo stesso modo il lento
processo di disarticolazione dell’antica unità del sapere nelle costruzioni
concettuali della scienza razionale moderna tende nascostamente alla crea-
zione di una nuova unità del sapere. In altri termini il senso riposto della
«vecchia scienza» è, secondo Kahler, proprio quello di essere, suo mal-

128
BdW, p. 7; tr. it. cit, p. 65.
129
BdW, p. 9; tr. it. cit., pp. 67-68.
130
BdW, p. 31; tr. it. cit., p. 93.
131
BdW, p. 8; tr. it. cit., p. 67. Kahler conferisce questo ruolo a Weber non già perché
ritiene che egli sia il «rappresentante medio» della «vecchia scienza», ma proprio perché
ritiene che egli sia «la sua possibilità più alta» (ibidem). Cfr. supra, nota 7.
ERICH VON KAHLER 57

grado, un lungo lavoro preparatorio in vista della «nuova scienza». Que-


st’ultima, al pari dell’antica sapienza ellenica, sarà essenzialmente una
«scienza che guarda» e non solo una denkende Wissenschaft come la scienza
razionale moderna, la quale è del tutto cieca perché è del tutto priva di
un’unità organica di riferimento. Kahler infatti scrive: «Presto la scienza
invocherà invano l’ispirazione cosı̀ come nello Stato si invoca invano un
capo, se la confusione che si accumula enormemente e che la ragione
incrementa non viene metodicamente arrestata, se dunque il guardare e
l’unità organica non vengono di nuovo innalzati al legittimo posto di
governo. Proprio questo è il nostro compito metodico: innalzare al posto di
132
governo l’unità organica e la forza che può percepirla, il guardare» . Tuttavia
questa schauende Wissenschaft, per essere davvero all’altezza della straordina-
ria complessità che caratterizza la nuova formazione organica alla quale
inerisce, non dovrà prescindere dalla «gran copia di materiali»133 messi a
disposizione dalle costruzioni concettuali della scienza razionale moderna,
ma dovrà piuttosto essere capace di porsi da «un punto di vista dominante»
ad essa sconosciuto in relazione al quale i materiali in questione «convo-
lano all’improvviso verso un ordine necessario»134.
Se però in Der Beruf der Wissenschaft si cerca una definizione precisa ed
esauriente di questo nuovo «punto di vista», non si può non rimanere
delusi. Non a caso Troeltsch, nelle pagine di Die Revolution in der Wissen-
schaft in cui tratta specificamente del saggio di Kahler, afferma: «Come in
dettaglio debba atteggiarsi la nuova scienza (...) è qui impossibile riferirlo.
Perlomeno per me, è cosa difficilmente comprensibile e cosı̀ poco giunta a
maturazione che il riferirlo non varrebbe la pena»135. D’altra parte Kahler
stesso riconosce in qualche modo la provvisorietà delle sue considerazioni:
infatti, per quanto attiene alla precisa determinazione del proprio «compito
positivo», egli rimanda «a un futuro e più esteso lavoro» (mai pubblicato)
che avrebbe dovuto affrontare anzitutto il problema di una «più profonda
fondazione teoretico-conoscitiva» della nuova scienza136.
Tuttavia, ciò che è senz’altro possibile rilevare nel saggio del 1920 è una
piena partecipazione della neue Wissenschaft kahleriana al culto per l’intangi-
bilità della forma vivente generalmente proprio del George-Kreis. «Ogni

132
BdW, p. 76; tr. it. cit., p. 145.
133
BdW, pp. 89-90; tr. it. cit., p. 160.
134
BdW, p. 90; tr. it. cit., p. 161.
135
RiW, p. 671. A proposito di questo saggio di Troeltsch cfr. supra, nota 2.
136
BdW, p. 67; tr. it. cit., p. 134.
58 INTORNO A WEBER

essere vivente deve fin dal principio essere guardato ed essere dato come
un’unità sostanziale. Esso non deve dunque essere scomposto in differenti
relazioni concettuali estrapolate dall’universalizzazione di formazioni che si
somigliano – come il linguaggio, il diritto, la religione, il costume, le arti
etc., oppure come i fenomeni anatomici, fisiologici, psicologici e biologici –
e non deve neanche essere dissolto in un baluginio di “motivi” particolari,
137
di “influssi” e di relazioni causali» . Ma, in conformità al modo in cui
Kahler pensa il rapporto fra la vecchia e la nuova scienza, tale posizione di
fondo si traduce in lui nella convinzione della natura solo apparente e
provvisoria di tutte le astrazioni concettuali, le quali sono destinate prima o
poi ad essere riassorbite nella visione di una totalità individuale più ampia.
Proprio in questo senso Kahler scrive: «La nostra prima e fondamentale
proposizione è la seguente: non c’e` nulla di universale, allo stesso modo in
cui non c’è nulla di ripetibile. Valgono unicamente in rapporto a noi come
universali (...) questa e quella peculiarità, questo e quel tratto di divenire che
appartengono a esseri più grandi e più estesi, ma particolari, singoli e unici;
a esseri, cioè, (...) la cui totalità, particolarità e singolarità non era finora
raggiungibile o non è ancora raggiungibile dal nostro sguardo. Nell’intero
ambito della realtà vivente ci sono soltanto esseri superiori e inferiori, più
grandi e più piccoli, di diversa specie e di diversa misura, ma questi esseri
sono tutti assolutamente particolari e unici. Ciò che in loro sembra ripetersi
appartiene all’essere di volta in volta superiore nel quale essi sono inclusi
senza perciò perdere la propria esistenza particolare»138.
Il brano testé citato, nella misura in cui rimanda all’ordine gerarchico
che lega fra loro le formazioni organiche più grandi e quelle più piccole,
rivela anche un altro tratto peculiare della «nuova scienza» di Kahler:
l’importanza che essa conferisce allo studio delle totalità individuali sovra-
personali, come la stirpe, il popolo, la nazione etc. Certo in Der Beruf der
Wissenschaft Kahler scrive che nell’ambito delle cosiddette scienze dello
spirito «un primo passo pienamente compiuto nella nostra direzione pos-
siamo trovarlo solo nell’esposizione della vita dei grandi uomini, in cui
Friedrich Gundolf, in una nuova e conchiusa concordanza organica, ha
dato forma alla figura di Goethe (...) in maniera del tutto indipendente da
ogni punto di vista concettuale applicabile dall’esterno»139. E tuttavia la
Gestaltbiographie di Gundolf rappresenta per l’appunto solo «un primo

137
BdW, p. 92; tr. it. cit., p. 162.
138
BdW, p. 80; tr. it. cit., p. 149.
139
BdW, p. 79; tr. it. cit., p. 148.
ERICH VON KAHLER 59

passo», un inizio140, poiché si arresta al livello della persona singola, mentre


– come sappiamo – Kahler è convinto della dimensione essenzialmente
comunitaria della formazione organica in procinto di venire alla luce, di
quella formazione organica, cioè, alle cui esigenze la nuova scienza deve
essere pienamente conforme141. D’altra parte secondo Kahler il peculiare
punto di vista della neue Wissenschaft non si è fatto valere e non è destinato
a farsi valere solo nel campo tradizionalmente proprio delle scienze dello
spirito. «Singoli studiosi di scienze naturali – egli scrive – cercano di
fondere anatomia, fisiologia e biologia nella loro osservazione delle forme
organiche e di superare, muovendo dal vivente, i modi di vedere di ordine
concettuale. Cosı̀ Jacob von Uexküll vede già in un modo nuovo la
profonda relazione reciproca e metacausale fra “mondo interno e mondo-
ambiente” che caratterizza gli organismi viventi; cosı̀ nel lavoro di Oscar
Hertwig è già ideata una via di mezzo fra le dottrine più estreme che segue
fedelmente e delicatamente la vita. Questi biologi si sono spinti fino a un

140
Cfr. BdW, p. 80; tr. it. cit., p. 149.
141
Troeltsch stesso pone in rilievo come per Kahler il limite delle opere di Gundolf e
degli altri georgeani sia quello di occuparsi soltanto di «figure individuali», laddove «il vero
ideale» sarebbe piuttosto quello di riuscire a cogliere mediante lo stesso metodo Vo¨lker,
Kulturkreise e biologische Artkreise (RiW, p. 672). D’altra parte Kahler non rimanda unica-
mente a Gundolf. Infatti, sebbene solo in seconda istanza, egli si richiama anche ai molti
Kulturwissenschaftler dei primi decenni del Novecento i cui tentativi «sono diretti a vedere in
maniera unitaria le differenti espressioni della vita, e cioè il linguaggio, le arti, la politica,
l’economia, etc.» (BdW, p. 79; tr. it. cit., p. 148). Tuttavia secondo Kahler il limite del lavoro
di questi studiosi risiede proprio nel fatto che essi «muovono ancora dalle astrazioni e
cercano un tipo di sintesi per la quale funge ancora da mantello il vecchio, vago e
onnicomprensivo concetto di cultura» (ibidem). Come Troeltsch sottolinea ironicamente, la
«lista» di Kahler è «piuttosto variopinta» (RiW, cit., p. 671). Essa riunisce insieme Cassirer,
Scheler, Alfred Weber, Pannwitz e Spengler, nonché il grande storico del diritto tedesco
Otto von Gierke (cfr. BdW, pp. 79-80; tr. it. cit., p. 148). Fra tutti questi nomi, quello che
stupisce maggiormente a causa delle posizioni teoriche nettamente antikantiane di Kahler è
senza dubbio il nome di Cassirer. Tuttavia è innegabile che la dissoluzione dell’antica
sapienza ellenica nella scienza razionale moderna che viene descritta in Der Beruf der
Wissenschaft sembra in qualche modo ripercorrere i tratti salienti del lungo itinerario che in
Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit conduce dall’antica
centralità della nozione di «sostanza» alla moderna centralità della nozione di «funzione».
Resta però fermo che il modo in cui Kahler valuta un simile processo – almeno nella misura
in cui quest’ultimo viene considerato in se stesso – è diametralmente opposto a quello di
Cassirer. Fra i precursori ancora più remoti della neue Wissenschaft Kahler cita, oltre a
Goethe e a Dilthey, anche i grandi storici tedeschi dell’Ottocento, come ad esempio Ranke
e Burckhardt, i quali «non avrebbero mai potuto portare a compimento le loro illustri opere
di storia universale e di storia dell’umanità se un senso grande e unificante non avesse
infiammato (...) la loro ricerca» (BdW, p. 91; tr. it. cit., pp. 161-162).
60 INTORNO A WEBER

grado di conoscenza del vivente che purtroppo, quasi senza alcuna ecce-
zione, non troviamo ancora in coloro che trattano i cosiddetti ambiti “cul-
turali”»142.
Per quanto attiene alla determinazione concreta della «nuova scienza»

142
BdW, p. 79; tr. it. cit., pp. 147-148. L’embriologo Oscar Hertwig (1849-1922) fu allievo
e ammiratore di Haeckel. Nel 1875, durante una spedizione di ricerca nel Mediterraneo
compiuta al seguito di quest’ultimo, egli ebbe modo di studiare le uova di riccio di mare che
sono particolarmente adatte, a causa della loro trasparenza, all’osservazione delle prime fasi
dello sviluppo embrionale. In tali circostanze Hertwig osservò per la prima volta al
microscopio che nella fecondazione si verifica l’ingresso del nucleo dello spermatozoo nella
cellula uovo e la fusione dei due nuclei. Nei decenni successivi, contro le teorie preformiste
di Roux e di Weismann, Hertwig sostenne con forza una visione epigenetica dell’ontoge-
nesi: cfr. O. Hertwig, Zeit- und Streitfragen der Biologie, 2 voll., Jena, 1894. In Der Beruf der
Wissenschaft Kahler si richiama specificamente all’opera di Hertwig Das Werden der Organi-
smen. Zur Widerlegung von Darwin’s Zufallstheorie durch das Gesetz in der Entwicklung (terza
edizione modificata, Jena, 1922), e afferma che la trattazione ivi contenuta circa la «correla-
zione nel processo di sviluppo» mostra una capacità di penetrazione nell’essenza del vivente
molto maggiore di quella che si esprime nell’unilateralità delle indagini causali condotte
dalle discipline storico-culturali (cfr. BdW, p. 79 in nota; tr. it. cit., p. 148 in nota). Kahler
attribuisce anche una grande importanza al rifiuto opposto da Hertwig di fronte ai tentativi
di ricondurre i fenomeni fisiologici alle loro componenti fisico-chimiche (cfr. BdW, p. 85 in
nota; tr. it. cit., p. 154 in nota).
Tuttavia, per quanto attiene alla concezione degli organismi viventi come entità originarie
che non permettono né comportano un’ulteriore soluzione, è forse più significativo il
riferimento di Kahler a Umwelt und Innenwelt der Tiere (Berlin, 1909), una delle principali
opere di Jacob von Uexküll (1864-1944). Uexküll fu uno scienziato che giocò un ruolo di
primo piano nelle origini dell’etologia e formò alla sua scuola un gran numero di zoologi
tedeschi fra le due guerre. A tale proposito cfr. B. Fantini, L’etologia, in Storia della scienza
moderna e contemporanea, diretta da Paolo Rossi, Torino, 1988, vol. III, tomo 2, pp. 905-919,
pp. 906-907: «Durante gli studi di fisiologia, von Uexküll si era dedicato ai riflessi negli
animali marini e ai meccanismi della visione. Attribuendo un ruolo attivo alle strutture
sensorie degli animali, per cui l’occhio non può essere considerato una specie di macchina
fotografica, ma qualcosa capace di selezionare gli aspetti importanti dell’ambiente in cui si
trova l’animale, egli abbandonò lo studio della “fisiologia strumentale”, basandosi sulla
osservazione del comportamento allo scopo di esplorare “la cooperazione armoniosa degli
organi all’interno del corpo animale”. Egli divenne cosı̀ interessato a una visione olistica, ad
una biologia dell’“animale intero”». Proprio a partire da tale prospettiva teorica Uexküll
introdusse in biologia il concetto di Umwelt sostenendo che a ogni organismo vivente
corrisponde un peculiare mondo-ambiente che può essere adeguatamente compreso non già
muovendo da una presunta realtà oggettiva, ma solo attraverso lo studio del comporta-
mento animale. – Anna Kiel (Erich Kahler, cit., pp. 96-97) riporta alcuni passi di una lettera
di ringraziamento che Uexküll scrisse nell’ottobre del 1920 a Kahler dopo aver ricevuto una
copia di Der Beruf der Wissenschaft. In essa l’illustre biologo si riconosce nella concezione del
vivente di Kahler. Tuttavia da un lato Uexküll radicalizza la critica a Weber (definito come
un politico più che come uno scienziato) e afferma che l’economia politica in genere non è
altro che «un gioco di scacchi con dati e cifre», d’altro lato sottolinea come nelle opere dei
ERICH VON KAHLER 61

kahleriana, vi è solo un ultimo punto che in Der Beruf der Wissenschaft


emerge in maniera sufficientemente chiara. Secondo Kahler, cosı̀ come il
complicato processo che porta dall’antica sapienza ellenica alla scienza
razionale moderna si condensa tutto nella trasformazione dell’idea in
concetto, allo stesso modo il complicato processo che porta dalla scienza
razionale moderna alla neue Wissenschaft deve a sua volta condensarsi nella
trasformazione del concetto in un nuovo genere di idea. «Ogni possibilità
di rinnovamento del nostro mondo – Kahler infatti scrive – è racchiusa
soltanto in una nuova metamorfosi del concetto in idea, ma in un’idea
nuova e configurata in maniera più ampia»143. Dunque la nuova scienza
«non darà la caccia all’infinito a un immaginario sistema di concetti», ma
cercherà piuttosto di cogliere «il reale ordine cosmico delle idee, ossia degli
archetipi viventi»: per tale motivo «essa non specializzerà e universalizzerà
come la vecchia scienza, ma generalizzerà e specificherà di nuovo alla
maniera di Platone»144. E tuttavia ciò non significa affatto un puro e
semplice ritorno all’idea antica, in quanto nella nostra epoca l’unificazione
del molteplice non può più fondarsi come nell’antichità «sull’unità univoca e
ferma del Demiurgo», ma solo «sull’unità ferma e nel contempo fluente della
vita»145.
D’altra parte Kahler non compie mai il tentativo di chiarire fino in
fondo la particolare fisionomia di quell’«idea nuova e configurata in ma-
niera più ampia» che – a suo dire – dovrebbe rappresentare l’oggetto
precipuo della neue Wissenschaft. Anzi, egli non compie nemmeno un
necessario passo preliminare, poiché non elabora alcuna forma di distin-
146
zione fra scienze eidetiche e scienze empiriche . Questa omissione rappre-
senta senza dubbio uno dei limiti teorici più evidenti di Der Beruf der
Wissenschaft147. Ritengo tuttavia plausibile che in ogni genere di rifonda-

rappresentanti veramente grandi della scienza razionale moderna – ad esempio nelle opere
di Bunsen o di Helmholtz – l’intuizione svolga sempre un ruolo di primaria importanza.
143
BdW, p. 69; tr. it. cit, p. 136.
144
BdW, p. 81; tr. it. cit., p. 150.
145
BdW, pp. 45-46; tr. it. cit., p. 109-110.
146
Nell’ambito del George-Kreis un esplicito tentativo in questo senso è compiuto da Edith
Landmann la quale distingue fra loro una Gesamterkenntnis che «ha come oggetto l’ente» da
un Teilerkennen che «conosce solo elementi dell’ente», laddove la seconda specie di cono-
scenza, pur essendo «necessaria», è del tutto subordinata alla prima (E. Landmann, Die
Transcendenz des Erkennens, cit., p. 236). A tale proposito cfr. anche supra, nota 97.
147
In Die Revolution in der Wissenschaft Troeltsch lamenta il fatto che Kahler non operi
alcuna distinzione fra «le scienze positive, più o meno esatte» e «la filosofia che si rivolge al
tutto», e che inoltre non distingua né le scienze né la filosofia dalla «condotta di vita
pratico-personale» (RiW, p. 672). Tuttavia Troeltsch propone una distinzione e un’articola-
62 INTORNO A WEBER

zione scientifica troppo ravvicinata di una “dottrina delle idee” Kahler


sentisse istintivamente il pericolo di irrigidire eccessivamente la vita e
dunque di travisarne alla radice l’essenza. Questa preoccupazione di bilan-
ciare costantemente fra loro – per dirla con Gundolf – il momento della
Vitalita¨t e quello della Gestalt, o, in altri termini, il fluire eracliteo della vita
da un lato e l’elemento parmenideo insito in ogni particolare configura-
zione della vita e ancor più in ogni sapere della vita dall’altro, attraversa, del
resto, tutto il saggio antiweberiano di Kahler, che sembra ad ogni momento
presupporre un punto di vista ultimo in grado di mostrare come la
distinzione fra la vita, il vivente e il sapere non sia in realtà che l’articola-
zione della loro originaria e inscindibile unità.

4. Va subito detto che un simile punto di vista ultimo non viene mai
esplicitamente e consapevolmente tematizzato in Der Beruf der Wissenschaft.
Esso rappresenta piuttosto l’alveo in cui appaiono già sempre incardinate,
in maniera del tutto implicita, tanto le argomentazioni polemiche di Kahler
contro la scienza del suo tempo e l’umanità del suo tempo quanto il modo

zione di queste tre dimensioni che non si radica in ultima istanza nella rifondazione di
un’eidetica (pur essendo questa un’esigenza alla quale egli non rimase affatto insensibile),
quanto piuttosto nell’assoluta centralità del problema etico. A tale proposito cfr. RiW, p.
673: «La scienza può essere solo positiva e specialistica (...). Io mi dichiaro interamente per la
vecchia scienza perché al di fuori di essa in generale non ce n’è alcuna. Ciò che Max Weber
dice su di essa è, nella sua chiarezza e nel suo sentimento virile, l’unica cosa vera. A tale
riguardo per me non c’è da sprecare altro fiato. Certamente qualcosa di diverso è però la
filosofia, che in generale non è una scienza esatta e positiva, ma che piuttosto, a partire da
qualsiasi punto si voglia, deve aprirsi la strada verso un coglimento del tutto e conseguire in
primo luogo un saldo rapporto con le scienze particolari. Su questo personalmente la penso
in modo affatto diverso da Weber e credo che certi istinti percepibili nel lavoro di von
Kahler giungano più vicini alla verità dello scetticismo di Weber, anche per me impossibile,
e del suo eroismo che afferma i valori a forza (...). E qualcosa di ancora diverso è la condotta
di vita pratico-personale nell’ambito della vita privata e pubblica. Negli uomini seri essa deve
basarsi su una fede o su una visione del mondo, e però non può semplicemente spingere da
parte con disgusto e disprezzo i rapporti di vita pratici, ma deve calarsi in essi e organizzarsi
in essi». In ogni caso, il giudizio sull’inadeguata concezione weberiana della filosofia
contenuto nel passo testé citato non sfugge a Scheler che sottolinea esplicitamente la
convergenza, su questo punto, tra le sue posizioni e quelle di Troeltsch (cfr. WSW, p. 19; tr.
it. cit., p. 134). Per ciò che invece riguarda Kahler Scheler scrive: «invece di chiedere una
riforma della filosofia in senso ideale, materiale e rigorosamente ontologico (dal momento che
egli scorge, molto giustamente, che le tesi di Max Weber sono del tutto disastrose per ogni
formazione spirituale), domanda del tutto infondatamente una “rivoluzione della scienza” –
invece di chiedere, tutt’al più, una spiritualizzazione vivente delle scienze per mezzo di una
filosofia contenutistica, di una filosofia dell’essere, riformata e materiale» (ibidem).
ERICH VON KAHLER 63

in cui egli concepisce la storia della scienza occidentale e dell’uomo


occidentale. Tuttavia, se si vuole arrischiare un’interpretazione che miri a
portare alla luce proprio questo importante non detto, un’indicazione
preziosa può a mio parere esserci fornita da un passo di Die Krisis in der
Wissenschaft, un breve scritto del 1919 in cui Kahler anticipa alcuni dei temi
da lui più estesamente trattati in Der Beruf der Wissenschaft148. In tale scritto
Kahler constata che i giovani della sua epoca che seppero scavare al di
sotto dell’insensato specialismo delle discipline scientifiche (nelle quali «lo
slancio della loro gioventù» e «la loro volontà di vita spirituale» avevano
invano riposto cosı̀ tante speranze) «dovettero accorgersi che i loro fonda-
menti, i fondamenti dell’intero sapere del mondo, avevano cominciato a
porsi in movimento verso un nuovo caos»149. In queste asserzioni di Kahler,
che adombrano una generale concezione del sapere e della conoscenza,
sembra in qualche modo risuonare la celebre sentenza iniziale del fram-
mento 515 di Der Wille zur Macht, in cui Nietzsche dice: «Non “conoscere”,
ma schematizzare, – imporre al caos tutta la regolarità e tutte le forme
sufficienti al nostro bisogno pratico»150.
Ora, è noto che nel terzo capitolo del Nietzsche, quello dedicato alla
volontà di potenza come conoscenza, Heidegger scrive: «in queste parole è
insita l’affermazione decisiva della concezione nietzscheana della conoscen-
za»151. Tuttavia, nel tentativo di portare alla luce tale concezione, Heidegger
è particolarmente attento a sottolineare come essa non abbia «nulla a che
fare con la costruzione di una noiosa e separata “teoria della conoscenza”,
dove la domanda del conoscere domanda di qualcosa che, per chi do-
manda, è già da sempre, in un modo o nell’altro, definitivamente o
temporaneamente deciso prima»152. Per Heidegger si tratta invece di mo-
strare che in Nietzsche – il quale, come tutti i veri pensatori, pensa sempre
in una prospettiva ontologica153 – «la domanda dell’essenza della conoscenza

148
Cfr. supra, nota 1.
149
E. von Kahler, Die Krisis in der Wissenschaft, cit., p. 115; tr. it. cit., p. 37.
150
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Id., Opere, cit., vol. VIII, tomo III, tr. it. a
cura di S. Giametta, Milano, 1974, p. 122.
151
M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 457.
152
Ivi, p. 456.
153
Cfr. ivi, pp. 394-396: «Diamo il nome di “pensatori” a quegli eletti tra gli uomini che
sono destinati a pensare un unico pensiero – e questo sempre “sull’”ente nel suo insieme (...). Il
pensatore domanda per fondare l’essere degno di domanda dell’ente nel suo insieme. Il
ricercatore scientifico si muove sempre sul terreno del già deciso: che c’è natura, che c’è
storia, che c’è arte, che queste cose possono essere fatte oggetto d’osservazione. Per il
pensatore non c’è nulla di simile; egli sta nella decisione che stabilisce che cosa in generale è
e che cosa l’ente è».
64 INTORNO A WEBER

è già, sempre e ovunque, un progetto speculativo dell’essenza dell’uomo e


della sua posizione in mezzo all’ente e un progetto dell’essenza di questo
stesso ente»154. La magistrale interpretazione che Heidegger offre della
annotazione di Nietzsche sull’essenza della conoscenza alla quale anche
Kahler sembra fare riferimento merita dunque di essere qui richiamata nelle
sue linee portanti perché si muove fin dall’inizio su di un piano che è
particolarmente interessante proprio ai fini del nostro discorso, promet-
tendo – per cosı̀ dire – di affrontare il problema della conoscenza, il
problema dell’uomo e il problema della realtà come un unico e medesimo
problema155.
Già dal punto di vista formale – afferma Heidegger – il conoscere
consiste sempre nel rapporto tra qualcuno che conosce con il conoscibile
ed il conosciuto. Sicché ciò che nella sua annotazione Nietzsche propria-
mente dice è: il conoscere non è “conoscere” nel presunto senso
dell’immagine-copia passiva ma «schematizzare», ossia imporre una certa
dose di regolarità e di forme; il conoscibile, ciò in cui il conoscere si
imbatte fin dall’inizio, non è un mondo ben connesso ed ordinato ma è
«caos»; chi conosce, ciò che determina la misura delle forme regolatrici
imposte al caos, non è il rappresentare teoretico, ma la prassi di vita, il

154
Ivi, p. 462.
155
Naturalmente prescindiamo qui in maniera del tutto strumentale da quegli aspetti della
lettura heideggeriana dello pseudoaforisma 515 di Der Wille zur Macht che rimandano in
maniera più diretta al confronto speculativo di Heidegger con Nietzsche. D’altra parte
Heidegger stesso sembra contemplare la possibilità di un «seguire, ripensandolo, il corso del
pensiero di Nietzsche» che, pur non essendo il frutto di un «confronto speculativo», non è
neanche riducibile alle mere «constatazioni storiografiche di quello che è successo». Cfr. ivi,
pp. 398-399: «Finché uno non è egli stesso costretto al confronto speculativo con Nietzsche,
il seguire, ripensandolo, il corso del pensiero di Nietzsche può avere come fine soltanto
quello di avvicinarsi consapevolmente a ciò che accade [geschieht] nella storia [Geschichte]
dell’età moderna. Ciò che accade vuol dire: ciò che regge e forza la storia, ciò che innesca le
casualità e dà spazio fin da principio alle risoluzioni, ciò che nell’ente, rappresentato in
termini di oggetto e stato di cose, e` ciò che è. Ciò che cosı̀ accade, non lo esperiamo mai
mediante constatazioni storiografiche di quello che è “successo” [passiert]. Come questa
espressione lascia bene intendere, ciò che “succede” è quello che ci passa accanto sull’avan-
scena e sul retroscena del teatro pubblico degli avvenimenti e delle opinioni che emergono.
Ciò che accade non può né potrà mai essere reso conoscibile in termini storiografici. Lo si
può sapere soltanto in termini di pensiero, capendo ciò che la metafisica che predetermina
l’epoca ha elevato a pensiero e parola. Indifferente rimane quella che altrimenti viene
chiamata la “filosofia” di Nietzsche e che viene diligentemente comparata con le filosofie
precedenti. È invece inaggirabile ciò che è giunto a esprimersi nel pensiero nietzscheano
della volontà di potenza come fondamento storico di ciò che accade nella forma dell’età
moderna della storia occidentale».
ERICH VON KAHLER 65

«bisogno pratico». «La struttura essenziale del conoscere ha ora i suoi


contorni precisi: il conoscere è schematizzare, ciò che deve essere cono-
156
sciuto e il conoscibile sono il caos, e chi conosce è la prassi di vita» .
Tuttavia per Heidegger dare un effettivo riempimento a questi contorni,
vuol dire essere posti davanti a una duplice necessità. Da un lato si tratta di
far fronte alle perplessità del senso comune il quale ritiene che conoscere
significhi porsi in un atteggiamento essenzialmente rappresentativo nei
confronti delle cose e che il mondo con cui non solo il conoscere ma anche
la nostra prassi di vita ha immediatamente a che fare si presenti fin
dall’inizio come un mondo ben connesso e ordinato. Dall’altro lato, però, si
tratta nel contempo di sfuggire ad una lettura di tipo puramente erkenntnis-
theoretisch delle parole di Nietzsche, la quale, contro le perplessità del senso
comune, si limita in fin dei conti a evidenziare che quanto è già avvenuto
nel nostro mondo ben connesso è proprio la connessione, ossia proprio
l’imposizione di schemi, di regolarità e di forme. Infatti, interpretate in
questa chiave, «le esposizioni di Nietzsche sulla conoscenza assomigliano
effettivamente alle ricerche sui processi vitali e conoscitivi che vengono
fatte in un qualsiasi istituto di psicologia o zoologia, solo che queste
ricerche sui processi conoscitivi – umani o animali – compiute nell’ambito
di un istituto possono appellarsi al fatto di essere esatte, mentre Nietzsche
procederebbe aiutandosi con alcune espressioni generiche della biologia»157.
Di tutt’altro genere è invece l’assunto fondamentale che guida Heidegger
nella delucidazione del frammento di Nietzsche. «Evidentemente – egli
infatti scrive – nella determinazione nietzscheana dell’essenza della cono-
scenza (...) v’è un risalire a ciò che rende possibile e regge quel rappresen-
tare un mondo ordinato e connesso, l’unico rappresentare che ci sia
anzitutto e per lo più familiare. Si azzarda cosı̀ il tentativo di risalire,
conoscendo, dietro il conoscere. Il conoscere, inteso come schematizza-
zione, viene ricondotto al bisogno vitale pratico e al caos quali condizioni
della sua possibilità e necessità. Se intendiamo la prassi di vita, da un lato, e
il caos, dall’altro, come ciò che in ogni caso non è niente, ma un ente
presente in tale e in tal altro modo, allora, in una tale caratterizzazione
dell’essenza della conoscenza, è insita una riconduzione della sua struttura
essenziale a un ente che già è, forse addirittura all’ente nel suo insieme»158.
È noto però che secondo Heidegger il pensiero unico che Nietzsche pensa

156
Ivi, p. 459.
157
Ivi, p. 462.
158
Ivi, p. 461.
66 INTORNO A WEBER

sull’ente nel suo insieme, la «tesi duplice eppure unitaria» della sua metafi-
sica è: «l’ente nella sua totalità è “vita”» e «l’essenza della vita è “volontà di
159
potenza”» . Dunque termini come «caos», «bisogno pratico», «schematiz-
zazione» non possono essere chiarificati separatamente l’uno dall’altro, ma
possono solo trovare una chiarificazione reciproca sul fondamento comune
del pensiero della vita intesa come volontà di potenza.
Muovendo da questi presupposti, Heidegger comincia col tematizzare il
concetto di caos che egli ritiene adoperato da Nietzsche non solo e non
tanto nell’usuale accezione moderna – in cui esso indica «lo scompigliato, il
confuso, ciò che si accavalla precipitandosi» – ma anche e principalmente
in un senso proprio che scaturisce dalla «posizione di fondo» del suo
pensiero160. Se partendo da una qualsiasi innocua e ben definita esperienza
percettiva risaliamo al di là del nostro immediato assalire linguisticamente
le cose e le loro qualità, ci imbattiamo subito «nella ressa delle sensazioni»
di cui parlava Kant, «cioè nel caos»161. Ma la ressa di sensazioni che ci
incalza sempre e di continuo non è solo una ressa di sensazioni “esterne”
bensı̀ anche una ressa di quelle che i fisiologi chiamano propriocezioni162.
Questa notazione è importante perché consente ad Heidegger una prima
determinazione del caos come qualcosa che non sta semplicemente di
fronte al vivente uomo come un che di diverso da ciò che egli stesso è: il
caos «è la cosa più vicina, ed è tanto vicina che non sta neppure “vicino” a
noi in un “di fronte”, ma che siamo noi stessi a essere – in quanto esseri
corporei», laddove però «la vita vive essendo corpo» e dunque «l’essere
corpo (...) nomina qualcosa che nella conoscenza del vivente deve essere
esperito e tenuto presente per prima cosa e costantemente»163. Ma non meno
importante è l’altra faccia della medesima riflessione: se il caos non è
qualcosa di semplicemente “esterno” all’uomo come corpo vivente, esso
non è neppure qualcosa di semplicemente “interno” all’uomo come corpo
vivente. Heidegger infatti scrive: «L’essere corpo della vita non è qualcosa
di per sé separato (...) ma è insieme condotto [Durchlaß] e passaggio
[Durchgang]. Attraverso questo corpo fluisce un flusso di vita di cui noi di

159
Ivi, p. 408.
160
Ivi, p. 463.
161
Ivi, p. 465.
162
Cfr. ivi, pp. 464-465: «Contemporaneamente e insieme ai dati dei sensi detti e
cosiddetti esterni, urgono e aizzano, spingono e tirano, attraggono e rigettano, travolgono e
sorreggono le “sensazioni” del “senso interno” che (...) vengono accertate come stati
corporali».
163
Ivi, p. 465.
ERICH VON KAHLER 67

volta in volta avvertiamo soltanto una parte minima e sfuggente, e questa, a


sua volta, sempre secondo la ricettività del rispettivo stato corporale. Il
nostro corpo stesso è immerso e lasciato sospeso in questo fluire della vita
(...). Quel caos della nostra regione sensitiva che chiamiamo regione corpo-
164
rale non è che un ritaglio del grande caos che è il “mondo” stesso» .
Sicché in definitiva «caos è per Nietzsche un termine che non esprime
uno scompiglio qualsiasi nel campo delle sensazioni, forse nemmeno uno
scompiglio»165; per Nietzsche «“caos”, e il mondo come caos, vuol dire:
l’ente nel suo insieme progettato in relazione al corpo e al suo vivere come
corpo»166. Come mondo, come flusso di vita, il caos è «l’indomita pienezza
inesauribilmente accavallantesi di ciò che crea e distrugge se stesso, in cui
soltanto legge e non legge si formano e si corrompono»; «questa stessa
realtà» appare «nelle sembianze del confuso e della ressa» ai «singoli esseri
viventi» che, «pensati in termini leibniziani», sono «“specchi viventi”, “punti
metafisici”, nei quali si raccoglie e si fa vedere, nella chiarezza definita di
una rispettiva prospettiva, la totalità del mondo»167. Cercando di compren-
dere in che senso Nietzsche afferma che il conoscibile è caos siamo dunque
rimandati secondo Heidegger a «ciò che conosce, che coglie il mondo e se
ne impadronisce»168, e questo avviene perché il caos – in quanto totalità del
mondo, in quanto flusso di vita – si presenta sempre «in riferimento a un
vivente, al suo vivere ed essere corpo»169. «Il conoscibile e il conoscente –
Heidegger infatti scrive – si determinano rispettivamente, uniti nella loro
essenza, in base allo stesso fondamento essenziale. Non è consentito
separarli e volerli incontrare separatamente. Il conoscere non è come un
ponte che a un certo punto, e a posteriori, unisce due sponde di un fiume
sussistenti di per sé, ma è esso stesso un fiume che solo fluendo crea le
sponde e le volge l’una verso l’altra in modo più originale di quanto possa
mai fare un ponte»170.
Tuttavia nella sentenza di Nietzsche, quando si parla di ciò che cono-
sce, di ciò che schematizzando si oppone al caos, non si parla del corpo

164
Ivi, pp. 465-466. Non a caso «Nietzsche, nel suo ultimo periodo, afferma assai sovente
che bisogna fare del corpo il filo conduttore non soltanto per la considerazione degli uomini,
ma anche per la considerazione del mondo» (ivi, p. 466).
165
Ivi, p. 466.
166
Ivi, p. 467.
167
Ivi, p. 468.
168
Ibidem.
169
Ivi, p. 469.
170
Ivi, pp. 468-469.
68 INTORNO A WEBER

vivente, ma del «bisogno pratico». È chiaro dunque che il significato di


questa espressione non è affatto cosı̀ ovvio e banale come sembrerebbe a
prima vista. Infatti «l’essenza di quello che Nietzsche chiama qui “il nostro
bisogno pratico” deve stare in una connessione essenziale, anzi, in una unità
171
essenziale con la vitalità della vita che è corpo vivente» . Sicché, se per
comprendere in che senso Nietzsche designa il conoscibile come «caos»
siamo stati rimandati alla vita che è corpo vivente, e da essa al conoscente
determinato come «bisogno pratico», ora, per comprendere in che senso
Nietzsche designa il conoscente come «bisogno pratico», siamo rimandati –
come in un movimento a spirale – alla «vitalità» stessa, ossia alla costitu-
zione essenziale della vita che è corpo vivente. A tale proposito, in una
pagina di grande densità ma anche di esemplare chiarezza, Heidegger
scrive: «Ogni essere vivente, e a maggior ragione l’uomo, è assalito da ogni
parte, incalzato e penetrato dal caos, indomito e travolgente, che lo trascina
via nel suo flusso. Sembrerebbe cosı̀ che proprio la vitalità della vita, in
quanto questa è questo puro fluire (...), trascini e sospinga il vivente stesso
nel suo fluire proprio e ve lo lasci cosı̀ scorrere e fluire via, dissolvendolo.
Vita non sarebbe altro allora che dissoluzione e annientamento. “Vita” è
tuttavia la denominazione per indicare l’essere, ed essere vuol dire: essere
presente, resistere allo scomparire e allo svanire, sussistere, stabilità. Se
dunque la vita e` questo caotico essere corpo e incalzare pressato da ogni
parte, se essa deve essere ciò che è in senso vero e proprio, allora è
importante per il vivente, contemporaneamente e in modo parimenti
originario, resistere al suo impulso e al suo impellere (...). È perciò insito
nell’essenza dell’impulso impellente qualcosa a lui conforme, cioè impul-
sivo, che spinge a non soggiacere all’impeto, ma a stare in esso, sia pure
soltanto per potere essere incalzabile e incalzantesi (...). Lo stabile e l’im-
pulso che a esso spinge non sono perciò qualcosa di estraneo, di contraddi-
cente l’impulso vitale, ma corrispondono all’essenza della vita che è corpo
vivente: il vivente, per vivere, deve, in vista di se stesso, spingere a qualcosa di
stabile»172. La «vitalità», ossia l’essenza stessa della vita che è corpo vivente,
rimane dunque determinata non come stabilità, ma come instabilità e nel
contempo stabilizzazione dell’instabile, non come autoconservazione, ma
come potenziamento ed espansione che ha però bisogno di conservarsi in
quanto potenziamento ed espansione. In una parola, rimane determinata
come volontà di potenza, se è vero che volontà di potenza vuol dire

171
Ivi, p. 469.
172
Ivi, pp. 469-470.
ERICH VON KAHLER 69

173
«imprimere al divenire il carattere dell’essere» , ossia «la stabilizzazione del
174
divenire nella presenza» .
Solo ora è possibile comprendere perché, quando Nietzsche afferma
che è il «nostro bisogno pratico» a dettare la misura della schematizzazione
del caos, l’espressione «bisogno pratico» non può essere intesa né come
bisogno di autoconservazione del vivente – l’autoconservazione infatti non
costituisce di per se´ l’essenza della vita –, né semplicemente come bisogno
di attività pratica, almeno nella misura in cui quest’ultima viene concepita
come attuazione di fini, realizzazione di propositi, conseguimento di suc-
cessi e risultati. «Pensata in senso originario, prassi non significa attività
come realizzazione; piuttosto, una tale attività è fondata nell’atto del vivere
stesso: atto nel senso della vitalità della vita. “Bisogno pratico” vuol dire
ora: avere bisogno e necessità di ciò che è insito nell’essenza della prassi
come atto del vivere. Il vivente, per la sua vitalità, e in base a essa, necessita
come prima cosa di ciò che è importante per lui in quanto vivente, cioè di
“vivere”, di “essere”, di non soggiacere – secondo quanto detto in prece-
denza – al travolgimento del proprio carattere di caos, ma di installarvisi e
starvi. Tale stare nel travolgimento significa: stare in opposizione all’im-
peto, portarlo in qualche modo a stare – non però in modo che la vita stia
ferma e cessi, ma in modo che sia assicurata nella sua sussistenza proprio in
quanto vivente (...). Poiché questa assicurazione è possibile soltanto me-
diante uno stabilizzare e un fissare il caos, la prassi in quanto assicurazione
della sussistenza richiede la trasposizione di ciò che incalza in qualcosa che
sta, nelle figure, negli schemi. La prassi e` in se´ – in quanto assicurazione della
sussistenza – un bisogno di schemi»175.
Allo stesso modo si comprende fino in fondo il senso della metafora
heideggeriana prima citata secondo la quale la conoscenza non è per
Nietzsche un ponte che unisce due sponde di un fiume che stanno già l’una
di fronte all’altra (la sponda del «conoscibile» e quella del «conoscente»),
ma è piuttosto il fiume medesimo che, fluendo, crea le proprie sponde.

173
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, in Id., Opere, cit., vol. VIII, tomo I, tr. it. a
cura di S. Giametta, Milano, 1975, p. 297.
174
M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 538. Cfr. ibidem: «Nel pensiero della volontà di
potenza, ciò che in senso sommo e più autentico diviene ed è mosso – la vita stessa – deve
essere pensato nella sua stabilità. Certo, Nietzsche vuole il divenire e ciò che diviene come il
carattere fondamentale dell’ente nel suo insieme; ma egli vuole il divenire, proprio e prima
di tutto, come ciò che permane – come l’“ente” in senso vero e proprio; cioè essente nel senso
dei pensatori greci».
175
Ivi, pp. 470-471.
70 INTORNO A WEBER

«Prassi e caos – Heidegger infatti scrive – si coappartengono in modo


essenziale. Ora, la loro connessione non deve essere affatto presentata nel
seguente modo: qui un essere vivente sussistente, nel cui interno, come in
una gabbia, emergono “bisogni pratici”, e là, “fuori” da questo essere
vivente, il caos. Piuttosto, il vivente in quanto prassi, cioè in quanto
assicurazione (...) della sua sussistenza, è anzitutto posto in un caos in
quanto è esso stesso caos. Il caos, a sua volta, in quanto impeto travolgente
del vivente, rende necessaria, per la sussistenza dell’essere vivente, l’assicura-
zione prospettica della sussistenza. Il bisogno di schematizzare e` in se´:
mirare allo stabile e alla sua fissazione, cioè alla sua percepibilità. Questo
176
“bisogno pratico” è la ragione» .
Che proprio una simile “ontologia della vita” di stampo nietzscheano
costituisca in fin dei conti lo sfondo più o meno consapevole delle rifles-
sioni storico-culturali di Kahler mi sembra eloquentemente testimoniato da
una serie di considerazioni teoriche sulle nozioni di «vivente» e di «vita»
che sono contenute in Der Beruf der Wissenschaft. Infatti, se in questo scritto
Kahler guarda con indubbia attenzione alle “scienze della vita” del proprio
tempo177, tale attenzione è ben lungi dal tradursi in un ingenuo biologismo.
Kahler tende piuttosto, sebbene in maniera non sempre limpida, a conferire
al Leben una generale portata ontologica, adoperando il termine «vita» non
solo in riferimento al mondo organico strettamente inteso, ma anche e
principalmente per indicare la totalità dell’ente. In un passo difficilmente
equivocabile egli infatti scrive: «L’umanità e le forme organiche che la
preparano e la circondano debbono essere comprese all’interno delle so-
stanze cosmiche – anche le sostanze cosmiche sono vita, vita unica, singola
e particolare, la qual cosa comincia oggi a divenire sempre più visibile
qualora si deponga la ristretta definizione biologica della vita che è commi-
surata ad una particolare forma di sostanza»178. Peraltro solo una simile
convinzione di fondo consente a Kahler di reperire le prime tracce del
nuovo modo di fare scienza da lui teorizzato anche in quelle discipline –
come ad esempio la fisica – che studiano la cosiddetta “natura inanimata”:
«non si può dimenticare che la teoria della relatività congiunge spazio e
tempo in un senso che risulta evidente per la nostra nuova concezione,
anche se lo fa ancora in una maniera puramente concettuale e statica»179.

176
Ivi, p. 473.
177
Cfr. supra, nota 142.
178
BdW, p. 95; tr. it. cit., p. 166 (il corsivo è mio).
179
BdW, pp. 79-80; tr. it. cit., p. 148. Abbiamo già accennato in precedenza che la
scissione fra la dimensione dello spazio e quella del tempo coincide, per Kahler, con la netta
ERICH VON KAHLER 71

Tuttavia la totalità dell’ente, proprio in quanto vita, si presentifica


sempre nella prospettiva ben definita di una particolare forma di sostanza
vivente ed è essa stessa la paradossale totalità di queste prospettive: Kahler
parla infatti di «uno spazio straordinariamente riempito, movimentato e animato
da molte e ben determinate formazioni organiche della più diversa specie, gran-
dezza e dimensione» che, «pur nella sua grande quiete complessiva», «si trasforma
180
con noi e si trasforma nel suo gioco di effetti» . D’altra parte l’essenza stessa
della vita che vive nei singoli viventi è caratterizzata da Kahler non già nel
senso del mero fluire, bensı̀ proprio nel senso della volontà di potenza,
dello «stare nel travolgimento», della «stabilizzazione del divenire nella
presenza». Allorquando prende le distanze da Bergson e dal suo «progre-
dire vivente» che «non significa nient’altro che movimento, nient’altro che
“pura durata”», Kahler infatti scrive: «Noi scopriamo che la vita, pur
continuando a incalzare costantemente e senza interruzioni, erige sulla sua
via delle pietre miliari che sono costituite da molte e multiformi concentra-
zioni, ossia dalle formazioni organiche (...). Esse divengono (...) nella misura
in cui incanalano il grande movimento vitale che le attraversa; ma nel
contempo esse sono, nella misura in cui (...) fermano circolarmente al loro
interno il movimento vitale»181. E la lezione nietzscheana circa la comune
radice che lega nel profondo «il desiderio d’essere» e «il desiderio di
divenire»182 riecheggia ancora in una delle pagine finali di Der Beruf der
Wissenschaft nella quale Kahler afferma che «l’essere vivente deve essere
colto tanto come un essere quanto come un accadere, tanto come una
creatura quanto come una volontà creatrice»183.
Inoltre, solo il riferimento a un orizzonte teorico nel cui ambito ogni
genere di conoscenza risulta essenzialmente radicata nel bisogno della
totalità dell’ente, intesa come vita che vive come corpo vivente, di dare una
forma stabile all’impellere che essa stessa è, offre una chiave interpretativa
unitaria alla quale ricondurre le riflessioni di Kahler sulla scienza razionale
moderna e sul sapere in generale, sottraendole cosı̀ alla pericolosa oscilla-
zione tra un modello positivo di sapere il cui compito è quello di articolare

distinzione fra Urgrund e Ursache che caratterizza la scienza razionale moderna, ma è del
tutto sconosciuta all’antica sapienza ellenica.
180
BdW, p. 63: tr. it. cit., pp. 129-130.
181
BdW, pp. 61-62; tr. it. cit, pp. 127-128 (l’ultimo corsivo è mio).
182
Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza (1882), cit., aforisma 370 (Che cos’e` romanticismo?), p.
235.
183
BdW, p. 91; tr. it. cit., p. 162.
72 INTORNO A WEBER

184
discorsivamente un’«eternità oggettiva» già data nell’intuizione e di ri-
specchiarne fedelmente gli ordini e le stratificazioni (cui fa da pendant la
critica al «nominalismo», o «quanto meno» al «concettualismo»185 della
scienza razionale moderna dopo Kant) e un modello positivo di sapere che,
lungi dal rispecchiare la realtà, la organizza prospetticamente sulla base del
particolare punto di vista e delle particolari esigenze del suo detentore (cui
fa da pendant la critica alla scienza razionale moderna come una scienza
che non serve alla vita, che non «ridesta le forze»)186. Da questo punto di
vista mi sembrano assai significative le osservazioni circa il Lebenssinn della
scienza razionale moderna che sono contenute in Die menschliche Wirkung
der Wissenschaft, un altro breve scritto di Kahler pubblicato nel 1919 che,
come Die Krisis in der Wissenschaft, anticipa alcune delle tematiche svilup-
pate poi nel saggio antiweberiano del 1920: da un lato, infatti, la scienza
razionale moderna viene attaccata da Kahler perché esiste e lavora ormai
solo in vista dell’«utilità pratica» e del «progresso tecnico» ed è completa-
mente dimentica delle più nobili ragioni d’essere d’ogni sapere che sono
l’Erhebung e l’Erziehung dell’uomo187; d’altro lato, però, egli afferma che alla
radice di tale dimenticanza non c’è tanto il venir meno del puro interesse
teoretico quanto piuttosto proprio un eccesso di purezza, dal momento che
la scienza moderna viene polemicamente contrassegnata come un sapere
che ha preteso di esistere «soltanto in vista di se stesso»188. Invece ogni
forma di sapere, e dunque il sapere nella sua essenza, «deve governare un
bisogno umano che è più sublime e universale di ogni altro e tuttavia è un
bisogno elementare, vale a dire (...) il bisogno dell’uomo di vivere nel senso più
alto, ossia di vivere spiritualmente»189 – precisazione, quest’ultima, che
acquista il suo giusto significato solo se si tien fermo che Kahler rifugge con
decisione da ogni genere di contrapposizione fra «spirito» e «corpo viven-
te», ritenendo, come sappiamo, che «lo spirito è il corpo vivente stesso
qualora esso divenga degno di sé nella maniera più profonda, è il corpo
vivente stesso colto nel proprio senso, nel senso che riposa al suo interno»,
per cui, se «non si conosce il corpo organico», allora «non si conosce
neanche lo spirito»190.

184
E. von Kahler, Die Krisis in der Wissenschaft, cit., 120; tr. it. cit., p. 43.
185
Ivi, p. 117; tr. it. cit., p. 40.
186
Ivi, p. 115; tr. it. cit., p. 37.
187
E. von Kahler, Die menschliche Wirkung der Wissenschaft, cit., p. 203; tr. it. cit., p. 53.
188
Ivi, p. 205; tr. it. cit., p. 55.
189
Ibidem (il corsivo è mio).
190
BdW, p. 100; tr. it. cit., p. 172. Naturalmente entro l’orizzonte teorico all’interno del
quale si muovono, a mio giudizio, le riflessioni di Kahler sul rapporto fra la vita e il sapere,
ERICH VON KAHLER 73

Tutto ciò risulta altresı̀ perfettamente congruente con la concezione


della storia dell’umanità europea e della scienza europea che, come ab-
biamo visto, Kahler sviluppa in Der Beruf der Wissenschaft. Egli guarda
infatti alla storia occidentale come a un lungo e travagliato processo di
metamorfosi che conduce da una forma compiuta di vita umana ad un’altra,
ossia dall’umanità greca ad una nuova umanità prossima ventura. È chiaro
che un simile processo presenta, e non può non presentare, un preciso
riscontro sul piano del sapere, costituito da un’altrettanto lunga e travagliata
fase di transizione dall’antica sapienza ellenica ad una neue Wissenschaft
anch’essa agli albori: se infatti i Greci furono ciò che furono perché
«impararono a poco a poco a organizzare il caos, concentrandosi, secondo
191
l’insegnamento delfico, su se stessi, vale a dire sui loro bisogni veri» ,
anche all’“uomo nuovo” è del tutto consustanziale il bisogno di un’adeguata
stabilizzazione del caos che egli stesso è. Codesta fase di transizione
dall’antico sapere ad una «nuova scienza» il cui profilo si intravede appena
comprende, secondo Kahler, l’intera parabola storica della scienza razionale
moderna: quest’ultima affonda infatti le proprie radici nell’ecumene
ellenistico-romano e cristiano-medievale ed ha il suo momento di apogeo
nell’età dei grandi sistemi razionalistici, mentre nel corso dell’Ottocento e
nei primi decenni del Novecento vive la propria epoca di crisi, epoca alla
quale hanno spianato la strada Kant e i suoi epigoni.

se lo spirito non è pensabile in contrapposizione al corpo vivente, neanche il corpo vivente è


pensabile in contrapposizione allo spirito. Non a caso Heidegger – nell’affermare che per
Nietzsche «rappresentare, pensare razionalmente l’ente» non è «una remota occupazione
speciale dell’intelletto teoretico», non è «nulla di estraneo alla vita», bensı̀ è «la prassi della
vita, l’originaria assicurazione della propria sussistenza» e dunque «la legge fondamentale
dell’atto della vita umana in quanto tale» – rigetta decisamente «una diffusissima interpreta-
zione di Nietzsche secondo la quale questi concepirebbe lo “spirito come antagonista
dell’anima”, cioè della vita, quindi in fondo lo rinnegherebbe e rinnegherebbe il concetto».
«Già che si possono adoperare formule del genere – Heidegger infatti scrive –, bisognerebbe
allora dire: lo spirito non è l’“antagonista”, ma il battistrada dell’anima (...). Certo, lo spirito è
pure un antagonista contro la vita, se questa vita, in quanto mero ribollire e vuoto spumeg-
giare di esperienze vissute, è rivendicata come l’essenza» (M. Heidegger, Nietzsche, cit., pp.
477-478). — Adoperando la «formula» dell’antagonismo fra Seele e Geist Heidegger fa polemi-
camente riferimento a Ludwig Klages il quale concepisce effettivamente i rapporti fra vita e
spirito nei termini di una netta opposizione. Cfr. L. Klages, Der Geist als Widersacher der
Seele (1929), Bonn, 1972, p. 68: «lo spirito “è”; la vita trascorre. Lo spirito giudica; la vita
esperisce. Il giudizio è un fatto; la vita è un pathos. Lo spirito coglie l’essente; la vita
esperisce l’accadere». Va detto però che Klages interpreta Nietzsche come il tipico rappre-
sentante di una filosofia fondata sul predominio moderno dello spirito e della sua hybris. Cfr.
in particolare Id., Die psychologischen Errungenschaften Nietzsches, Leipzig, 1926.
191
F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cit., p. 98.
74 INTORNO A WEBER

Proprio per questo motivo la scienza razionale moderna, anche se viene


presa in considerazione nel suo “periodo classico” e – per cosı̀ dire –
“realistico”, presenta sempre dei limiti invalicabili, che sono i limiti insiti nel
suo essere non già il sapere di una forma di vita umana davvero compiuta
(e dunque il “mezzo” mediante il quale essa «ferma circolarmente al proprio
interno il movimento vitale»), quanto piuttosto il sapere – o piuttosto lo
pseudosapere – di una forma di vita umana essenzialmente transitoria che è
affatto incapace di imprimere al proprio divenire il carattere dell’essere e
che perciò, quasi fosse una sorta di crisalide, risulta necessariamente biso-
gnosa di un rigido bozzolo protettivo che sembra non aver più nulla a che
vedere col vivente. Non a caso in Die Krisis in der Wissenschaft Kahler
sostiene che nel codice genetico della scienza razionale moderna in quanto
tale è inscritto un assunto che le deriva «dalla filosofia pre-kantiana», vale a
dire «l’assunto di un’eternità in sé e per sé, non già insita nel vivente e
fluente al suo interno, ma sovrapposta ad esso e in un certo qual modo tale
da includerlo in se stessa»192.
Ecco perché, al di là delle apparenza, Kahler non rimpiange mai e non
mira in alcun caso a restaurare l’aureo equilibrio fra sintesi e analisi,
deduzione e induzione, logica e esperienza proprio della scienza razionale
moderna nell’età dei grandi sistemi dogmatici. Kahler mira piuttosto a
mettere in evidenza che la crisi irreversibile della scienza razionale moderna
significa il suo trapassare in qualcosa d’altro, in una neue Wissenschaft resa
ormai indispensabile da un più ampio processo di trasformazione che «si
prepara da secoli» e la cui radice, «ammesso che possa essere reperita in un
ambito ancora afferrabile, si situa (...) solo a grande profondità, ossia
nell’umano stesso»193. Da questo punto di vista la medesima deriva nomina-
listica della scienza contemporanea viene salutata da Kahler come un male
necessario e gravido di futuro. In Die Krisis in der Wissenschaft egli infatti
scrive: «Cosı̀ come la sistematica, con i suoi innumerevoli irraggiamenti
concettuali, ha profondamente sconvolto le vecchie consistenze della realtà
effettiva e ha trascinato l’indagine scientifica in un empirismo e in uno
storicismo sempre più irruenti e indisciplinati, fino a far sı̀ che nel materiale
detritico della contemplazione troppo ravvicinata e molteplice si vada
ormai imponendo sotto gli involucri avvizziti – anche se in maniera ancora
indomabile e caotica – la nuova plasticità del vivente considerato nel suo
fluire; allo stesso modo la causalità induttiva, irraggiando a tentoni innume-

192
E. von Kahler, Die Krisis in der Wissenschaft, cit., p. 120; tr. it. cit., p. 43.
193
E. von Kahler, Die menschliche Wirkung der Wissenschaft, cit., p. 209; tr. it. cit., p. 61.
ERICH VON KAHLER 75

revoli serie causali a partire da ogni minimo punto empirico, suscita il


bisogno e il sentimento di una connessione più stretta, più profonda e più
comprensiva, della connessione che domina in ogni vivente considerato nel
194
suo fluire» . Il bozzolo della crisalide deve pur andare in pezzi affinché
possa venire finalmente alla luce la nuova forma vivente che esso racchiude.

194
E. von Kahler, Die Krisis in der Wissenschaft, cit., p. 125; tr. it. cit., p. 49.
3

L’OGGETTIVAZIONE SCIENTIFICA
E IL FONDAMENTO STORICO-SOCIALE
DELL’ERLEBEN:
ARTHUR SALZ IN DIFESA DI MAX WEBER

1. Nel saggio introduttivo all’edizione inglese dell’ampia biografia di Max


Weber scritta da sua moglie Marianne, Günther Roth, dopo aver ricordato
gli «stretti contatti, pur se spesso piuttosto tesi» che esistevano ad Heidel-
berg tra i seguaci di Weber e quelli di Stefan George1, afferma che, quando
«immediatamente dopo la morte di Weber Erich von Kahler sferrò un
attacco frontale dal campo georgeano a Wissenschaft als Beruf», la risposta
non si fece attendere: «subito Arthur Salz controbatté con un pamphlet dal
titolo Fu¨r die Wissenschaft gegen die Gebildeten unter ihren Vera¨chtern»2.
Questo scritto – che allude apertamente ai discorsi sulla religione di
Schleiermacher, anch’essi rivolti an die Gebildeten unter ihren Vera¨chtern – fu
pubblicato a Monaco nel 1921 e rappresenta senza dubbio un altro mo-
mento significativo della polemica accesasi nei primissimi anni Venti at-
torno alla conferenza di Weber sulla scienza come professione3. Per tale

1
Cfr. G. Roth, Marianne Weber e il suo ambiente (1988), in Marianne Weber, Max Weber,
cit., pp. 9-66, p. 41: «Prima della guerra erano sorti a Heidelberg tre circoli: wagneriani,
weberiani e georgeani. Non c’era alcuna sovrapposizione tra il gruppo dei weberiani e la
cerchia raccolta intorno allo storico dell’arte wagneriano Henry Thode e a sua moglie
Daniela – figlia naturale di Richard Wagner e Cosima von Bülow; quello che Simmel definı̀
“l’incrociarsi dei circoli sociali” portò invece a stretti contatti, pur se spesso piuttosto tesi,
con i georgeani». Sui circoli culturali di Heidelberg prima della guerra si veda H. Tompert,
Lebensformen und Denkweisen der akademischen Welt Heidelbergs im Wilhelminischen Zeitalter,
Lübeck, 1969.
2
G. Roth, Marianne Weber e il suo ambiente, cit., p. 42.
3
Basti pensare che lo scritto di Troeltsch Die Revolution in der Wissenschaft nasce come
78 INTORNO A WEBER

motivo, nelle pagine che seguono, cercherò di prenderne in esame i


contenuti portanti e di metterne in evidenza la prospettiva teorica di fondo.
Tuttavia è prima opportuno fornire alcune informazioni sulla figura oggi
pressoché dimenticata del suo autore.
Quando pubblica Fu¨r die Wissenschaft Arthur Salz – che Troeltsch
4
definisce uno «studioso vicino al George-Kreis» quasi a riprova di quell’«in-
crociarsi dei circoli sociali» di cui parla Simmel5 – ha circa quaranta anni.
Nato a Staab in Boemia il 31 dicembre 1881 e proveniente anch’egli – al
pari di Kahler – da una famiglia di industriali ebrei, Salz frequenta il
Gymnasium nella città cecoslovacca di Pilsen e si iscrive poi all’università di
Berlino ove segue i corsi di economia, ma anche quelli di diritto e di
filosofia. Trasferitosi a Monaco, diviene allievo di Lujo Brentano6 e, nel
1903, si laurea summa cum laude in economia politica. Durante i tre anni
successivi Salz lavora in Cecoslovacchia ove dirige dapprima uno stabili-
mento industriale e poi un’azienda agricola. Ciò nonostante nel 1905 egli
dà alle stampe un ampio studio storico-critico sulla teoria del fondo salari
che appare in una collana diretta da Brentano e Walther Lotz7. Nello stesso
anno, sempre sotto il patrocinio del suo «venerato maestro»8, Salz porta a

Besprechung dello scritto di Kahler e di quello di Salz (cfr. supra, cap. II, nota 2). Anche
Scheler menziona Salz come uno dei protagonisti della «discussione letteraria assai note-
vole» suscitata da Wissenschaf als Beruf (WSW, p. 13; tr. it. cit., p. 125), e poco dopo lo
colloca, insieme a Jaspers e a Radbruch, tra gli «amici» di Weber (WSW, p. 19; tr. it. cit., p.
134). Cfr. infine la recensione congiunta di Franz Wolfgang agli scritti di Weber, Kahler e
Salz (in «Zeitschrift für Volkswirtschaft und Sozialpolitik», N.F., 2, 1922, 1-3, pp. 182-184).
4
RiW, p. 673.
5
Cfr. supra, nota 1.
6
Lujo Brentano (1844-1931), fratello minore del filosofo Franz Brentano, fu dapprima
collaboratore dell’Ufficio statistico prussiano diretto da Christian Lorenz Ernst Engel e poi
professore di economia in molte università tedesche. Esponente di punta dei cosiddetti
Katheder-Sozialisten, fu tra i fondatori del Verein fu¨r Sozialpolitik. Studioso della storia dei
sindacati operai, Brentano riteneva che il mercato del lavoro dovesse essere regolato dallo
Stato e sottratto alle regole del laissez-faire a causa dell’intrinseca debolezza del singolo
salariato nella compravendita che ha per oggetto le sue prestazioni lavorative. Nei primi
decenni del Novecento egli partecipò al dibattito sulle origini del capitalismo in una
posizione critica nei confronti delle tesi di Sombart circa il peculiare “spirito” del capitalismo
moderno: Brentano tendeva infatti a far risalire la nascita del capitalismo all’avvento del
commercio e dell’economia monetaria e dunque a stemperare le differenze tra capitalismo
antico e capitalismo moderno. Nel 1919 rappresentò la Germania alla conferenza economica
di Londra e nel 1927 fu insignito del premio Nobel per la pace.
7
A. Salz, Beitra¨ge zur Geschichte und Kritik der Lohnfondstheorie, (Münchener Volkswirt-
schaftliche Studien, a cura di Lujo Brentano e Walther Lotz, 70), Stuttgart – Berlin, 1905.
8
Cfr. A. Salz, Die Rechtfertigung der Sozialpolitik (ein Bekenntnis), Heidelberg, 1914, p. 3.
ARTHUR SALZ 79

termine, assieme a Hugo Ephraim, la traduzione tedesca dei Principles of


Economics di Alfred Marshall (1891), un libro di testo che ha dominato per
9
decenni l’insegnamento dell’economia nei paesi di lingua inglese .
Nel 1907 Salz ottiene la libera docenza presso l’università di Heidel-
berg, ma, fino al 1909, compie molti viaggi in Europa trascorrendo sog-
giorni di studio presso le università di Vienna, di Roma e di Praga10.
Tuttavia, una volta stabilitosi a Heidelberg, Salz partecipa intensamente alla
vita culturale della città e diviene un assiduo frequentatore della bella casa
dei Weber, situata sulla riva meridionale del Neckar. Egli entra cosı̀ a far
parte a pieno titolo – con Lask, con Jaspers, ma anche con Gundolf – di
quella giovane generazione di cui parla Marianne Weber che «viene pian
piano costituendo un nuovo gruppo» accomunato dalla «riverente ammira-
zione» per il marito11. Nel 1912 Salz sposa Sophie Kantorowicz, sorella
dello storico georgeano Ernst Kantorowicz12. L’anno successivo, pubblica
una monumentale monografia sullo sviluppo dell’industria mineraria, vetra-
ria e tessile in Boemia nel corso dell’età moderna13. Il tema della genesi
storica del capitalismo moderno, congiuntamente a quello della politica
sociale e della sicurezza sociale, predomina anche negli interventi di Salz
sull’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» al quale egli collabora
in maniera assidua specie nel corso degli anni Dieci14. Fra questi interventi

9
A. Marshall, Handbuch der Volkswirtschaftslehre, vol. I, tradotto da Hugo Ephraim e
Arthur Salz con il consenso dell’autore dalla quarta edizione dell’originale inglese, con una
prefazione di Lujo Brentano, Stuttgart – Berlin, 1905. Alfred Marshall (1842-1924), che è
senza dubbio la figura più rilevante dell’economia britannica fra la fine dell’Ottocento e gli
inizi del Novecento, fu il fondatore della cosiddetta “scuola economica di Cambridge”.
10
A Praga, nel 1909, il Verein fu¨r Geschichte der Deutschen in Boehmen pubblica un breve
scritto di Salz intitolato Wallenstein als Merkantilist.
11
Marianne Weber, Max Weber, cit., p. 446. A Heidelberg Salz incontra anche Simmel
che, in una lettera del 25 maggio 1912, scrive a György Lukács: «Conosce il dott. Salz, libero
docente a Heidelberg? È una persona estremamente fine e interessante, se lo desidera posso
introdurLa presso di lui.» (G. Lukács, Epistolario 1902-1917, a cura di É. Karádi e É. Fekete,
tr. it di A. Scarponi, Roma, 1984, pp. 295-296). Ma è forse con Alfred Weber, il fratello
minore di Max, che Salz stringe l’amicizia più stretta e il più forte sodalizio intellettuale.
12
Nello stesso anno Salz pronuncia una conferenza di fronte ai giovani industriali. Il testo
a stampa della conferenza (Der Unternehmer unserer Zeit, Heidelberg, 1912) è dedicato a Else
Jaffé von Richthofen, una delle figure femminili fondamentali non solo del Weber-Kreis, ma
anche della vita di Max Weber.
13
A. Salz, Geschichte der Bo¨hmischen Industrie in der Neuzeit, München – Leipzig, 1913. Lo
studio, che supera le seicento pagine, è edito dalla Duncker & Humblot.
14
Non bisogna dimenticare che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (ossia
proprio negli anni della formazione universitaria di Salz) entrambe queste tematiche erano
state al centro dello scontro tra la prima e la seconda generazione del Verein fu¨r Sozialpolitik
80 INTORNO A WEBER

v’è pure un lungo saggio sulla storia dell’idea di Beruf nel quale Salz
riprende e discute «le profonde tesi di Weber» sull’etica protestante e lo
15
spirito del capitalismo . Tali indagini ottengono, nel loro complesso, un
buon apprezzamento: basti pensare che in un saggio scritto nel gennaio del
1914 Max Scheler, dopo aver constatato che «il problema dell’essenza e
dell’origine dello “spirito capitalistico” (...) da una serie di anni in qua (...)
non dà tregua ad alcune delle nostre teste migliori», non esita ad annove-
rare tra queste ultime, oltre a Weber e a Troeltsch, anche Arthur Salz16.
Nel 1914, allo scoppio della guerra, Salz si arruola nell’esercito austriaco
e presta servizio come ufficiale per tutta la durata del conflitto. Egli
combatte in Turchia, in Siria e in Russia e viene più volte decorato.
Divenuto außerordentlicher Professor a Heidelberg nel 1917, ottiene in

(e cioè tra la generazione di Brentano e di Schmoller e quella di Sombart e dei fratelli


Weber).
15
A. Salz, Zur Geschichte der Berufsidee, in «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpoli-
tik», 37 (1913), pp. 380-423, in part. pp. 408 sgg. Gli altri saggi di Salz apparsi sulla celebre
rivista fondata da Max Weber, Werner Sombart ed Edgard Jaffé sono: Kornteuerung und
Handelspolitik, 29 (1909), pp. 834-868; Kritische Bemerkungen zum o¨sterreichischen Gesetzent-
wurf einer Sozialversicherung, 30 (1910), pp. 425-454; Bernard Bolzanos Utopie «Vom Besten
Staate», 31 (1910), pp. 498-519; Kulturtendenzen in der Fru¨hzeit des Industriekapitalismus, 33
(1911), pp. 500-522; Kritische Betrachtungen zum Streite u¨ber das Bevo¨lkerungsproblem, 35
(1912), pp. 115-122; Auswanderung und Schifffahrt. (Mit besonderer Beru¨cksichtigung der
o¨sterreichischen Verha¨ltnisse), 39 (1915), pp. 90-124 e 42 (1916-1917), pp. 842-884; Ueber das
Problem der «Dekadenz» des Islam, 47 (1920-1921), pp. 376-417; Der Imperialismus der Vereinig-
ten Staaten, 50 (1923), pp. 565-616; Der Sinn der kapitalistischen Wirtschaftsordnung, 52 (1924),
pp. 577-612; Der Begriff der «Elastizita¨t» in der theoretischen Nationalo¨konomie, 57 (1927), pp.
336-391. Sull’«Archiv» Salz pubblica anche alcune lunghe recensioni e un paio di brevi
repliche: Ein Schlußwort u¨ber die o¨sterreichische Sozialversicherung, 31 (1910), pp. 213-214; In
eigener Sache, 38 (1914), pp. 527-538; Ueber einige Beziehungen des Naturrechts zur Sozialphilo-
sophie, 39 (1915), pp. 525-556; F. M. Dostojewskis Politische Schriften, 41 (1916), pp. 475-492;
Literatur des Bolschewismus, 46 (1918-1919), pp. 784-805; Memorials of Alfred Marshall, 57
(1927), pp. 194-200. — Oltre che all’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», Salz
collabora anche alla «Zeitschrift für Volkswirtschaft, Sozialpolitik und Verwaltung» (ove
pubblica il lungo saggio U¨ber Arbeitswert und Arbeitsleid. Eine wertkritische Studie, 20, 1911,
pp. 289-352), al «Weltwirtschaftliches Archiv» e, dopo l’emigrazione negli Stati Uniti, alla
«American Economic Review». Inoltre egli partecipa con propri contributi ad un gran
numero di opere collettive, tra cui la quarta sezione dei Grundriss der Sozialo¨konomik
(dedicata agli elementi specifici della moderna economia capitalistica) e la Festgabe per gli
ottant’anni di Alfred Weber (a cura di Edgar Salin, Heidelberg, 1948) nella quale pubblica il
saggio The metamorphosis of power (in questa stessa opera appare anche un saggio di Kahler,
intitolato Das Problem der Demokratie).
16
M. Scheler, Il borghese (1914), in Id., Lo spirito del capitalismo, cit., pp. 39-64, pp. 41-42.
Scheler individua a ragione il momento iniziale di questo dibattito nel celebre libro di
Sombart sul capitalismo moderno edito nel 1902.
ARTHUR SALZ 81

seguito una cattedra a Monaco dove si trasferisce con la propria famiglia.


Qui Salz si incontra molto spesso con Max Weber che dal giugno del 1919
tiene i propri corsi presso l’università di Monaco in qualità di titolare della
cattedra che era stata di Lujo Brentano. Ma tra la fine di aprile e l’inizio di
maggio Salz era rimasto coinvolto negli eventi della turbolenta primavera
di quell’anno. Infatti, durante la violenta repressione della repubblica dei
soviet bavarese messa in atto dalle truppe governative e dai Freikorps, Salz
aveva cercato di porgere il proprio aiuto a Eugen Leviné, uno dei capi della
rivoluzione che, alcuni anni prima, egli aveva conosciuto a Heidelberg.
Dopo l’arresto e l’esecuzione di Leviné, contro Salz viene dunque spiccata
un’accusa per favoreggiamento che (nonostante i tentativi di intercessione
di Max Weber) fa, seppure lentamente, il proprio corso. Cosı̀, nel 1920, Salz
perde la cattedra ed è costretto a tornare a Heidelberg17.
Nello stesso anno Salz cura la riedizione di due opere di Adam Müller18
le quali appaiono entrambe per i tipi della Drei Masken, la casa editrice

17
A tale proposito cfr. R. Meyer-Leviné, Levine´. Leben und Tod eines Revolutiona¨rs,
München, 1972, pp. 27, 178, 194 sgg. e 201 sg. Circa l’atteggiamento di Weber in questa
circostanza, si veda una lettera alla moglie della primavera del 1920 in cui egli scrive: «I Salz
stanno per essere “espulsi”. Ho messo tutto in movimento per impedire quest’assurdità,
tuttavia l’“alto governo bavarese” trova che Salz sia “sospetto”. Sascha [Sophie Kantorowicz]
ne ha abbastanza di questo trattamento; d’altra parte, è una donna fiera e formidabile, e
malgrado la faccenda sia ancora ferma presso il ministero, è probabile che partiranno
spontaneamente e si compreranno qualcosa altrove» (Marianne Weber, Max Weber, cit., p.
791). — D’altronde l’anno prima Weber aveva preso le difese anche di alcuni dei capi della
repubblica dei soviet, come il commissario alla socializzazione Otto Neurath (che in seguito
fu tra i fondatori del circolo di Vienna), o lo studente Ernst Toller «la cui ispirazione
idealistica» era «ai suoi occhi altrettanto certa che la sua immaturità politica» (ivi, p. 755):
«Dio – soleva dire Weber – ne ha fatto un politico in un accesso di collera» (ibidem).
18
A. H. Müller, Vorlesungen u¨ber die deutsche Wissenschaft und Literatur, a cura e con una
prefazione di Arthur Salz, München, 1920 e Id., Zwo¨lf Reden u¨ber die Beredsamkeit und deren
Verfall in Deutschland, a cura e con una prefazione di Arthur Salz, München, 1920. Per un
essenziale profilo bio-bibliografico di Adam Heinrich Müller (1779-1829) cfr. G. Bevilacqua
(a cura di), I romantici tedeschi, Milano, 1996, vol. III, tomo 1, pp. 477-480. Su questa
complessa figura di pensatore romantico e reazionario cfr. in particolare: J. Baxa, A. Mu¨ller.
Ein Lebensbild aus der Befreiungskriegen und aus der deutschen Restauration, Jena, 1930; L.
Marino, Adam Mu¨ller: dialettica e contro-rivoluzione, in «Rivista di filosofia», 59 (1968), pp.
267-315; B. Koehler, As̈thetik der Politik: Adam Mu¨ller und die politische Romantik, Stuttgart,
1980; T. Harada, Politische O¨konomie des Idealismus und der Romantik: Korporativismus von
Fichte, Mu¨ller und Hegel, Berlin, 1989; M. Emmrich, Heinrich von Kleist und Adam Mu¨ller:
mythologisches Denken, Frankfurt a. M., 1990; J. Marquardt, «Vermittelnde Geschichte»: zum
Verha¨ltnis von a¨sthetischer Theorie und historischem Denken bei Adam Heinrich Mu¨ller, Stuttgart,
1993; E. Achermann, Worte und Werte: Geld und Sprache bei Gottfried Wilhelm Leibniz,
Johann Georg Hamann und Adam Mu¨ller, Tübingen, 1997.
82 INTORNO A WEBER

monachese che, un anno dopo, pubblica anche Fu¨r die Wissenschaft. Fin
dalla Vorbemerkung Salz qualifica il proprio scritto come una «discussione
critica» di Der Beruf der Wissenschaft e della polemica ivi condotta da Kahler
contro la concezione weberiana della scienza. Ciò nonostante egli afferma
che Der Beruf der Wissenschaft «merita sicuramente un posto importante tra
le manifestazioni della vita spirituale della nazione per la grande serietà con
la quale tocca un problema fondamentale della nostra vita d’oggi». Del
resto Salz era da tempo amico intimo di Kahler: lo testimonia il fatto che,
durante i disordini del 1919, questi non aveva esitato un momento ad
accoglierlo presso la propria abitazione a Wolfratshausen (una cittadina
non lontana da Monaco). Ecco perché Salz si rammarica vivamente «che
un’amicizia pluriennale e molto provata non sia di tutela contro la diversità
delle opinioni su questioni fondamentali». E tuttavia egli non può né vuole
dissimulare questa diversità essendo convinto che alcune Fragen des Wissens
sono anche Gewissensfragen e che nessuna amicizia può davvero prosperare
quando queste ultime vengono eluse19.

19
A. Salz, Fu¨r die Wissenschaft gegen die Gebildeten unter ihren Vera¨chtern, München, 1921
(d’ora in poi FW), p. 5; tr. it. Per la scienza contro i suoi colti detrattori, a cura di E. Massimilla,
Napoli, 1999, p. 65. — Nel corso degli anni Venti Salz dirige gli «Heidelberger Studien aus
dem Institut für Sozial- und Staatswissenschaften», e insegna, oltre che a Heidelberg, anche
a Francoforte sul Meno e a Mannheim. Nel 1923 pubblica a Berlino un breve testo intitolato
Das ewige Frankreich e, due anni dopo, traduce The servile state di Hilaire Belloc dalla
seconda edizione del 1913 (Der Sklavenstaat, Leipzig – Berlin, 1925). Ma le opere in cui
confluiscono e giungono a compimento tutte le precedenti riflessioni di Salz sulla genesi e
sulla struttura del capitalismo sono Macht und Wirtschaftsgesetz. Ein Beitrag zur Erkenntnis des
Wesens der kapitalistischen Wirtschaftsverfassung, Leipzig – Berlin, 1930 e Das Wesen des
Imperialismus: Umrisse einer Theorie, Leipzig – Berlin, 1931 (entrambe pubblicate dalla casa
editrice Teubner). Al centro di queste due opere sta la complessa questione dei rapporti fra
la sfera dell’economia e quella della politica le quali costituiscono «le condizioni ultime della
nostra esistenza sociale» (A. Salz, Macht und Wirtschaftsgesetz, cit., p. 1). Nel primo libro Salz
si interroga circa i limiti che l’esistenza delle leggi economiche pone agli interventi del
potere politico nell’ambito dell’economia. In tal modo egli si inserisce in un dibattito di
lungo periodo al quale Eugen von Böhm-Bawerk (il celebre allievo di Menger che fu più
volte ministro delle finanze dell’impero austro-ungarico) aveva offerto un contributo classico
(Macht oder o¨konomisches Gesetz?, in «Zeitschrift für Volkswirtschaft, Sozialpolitik und Ver-
waltung», 23, 1914) ponendo l’accento sul carattere deterministico delle leggi economiche e
sulla natura a-istituzionale del capitale. Sulla base di una serie di considerazioni teoriche e
storiche sul concetto di potenza e su quello di legge economica, sul capitalismo e sullo Stato
moderno, Salz guarda con scetticismo alla possibilità che decisioni di ordine politico
esercitino una durevole influenza sui prezzi e sui salari. Egli è piuttosto convinto che gli Stati
debbano fare un passo indietro nei confronti della vita economica, favorendo la piena
affermazione di un regime di libera concorrenza i cui maggiori beneficiari sono proprio i
consumatori (qualsiasi sia la loro classe sociale). In tal modo gli Stati riguadagneranno
ARTHUR SALZ 83

2. Fu¨r die Wissenschaft è senza dubbio un testo di non facile interpretazione,


un testo ricco di metafore, di citazioni e di rimandi interni che, solo da un
certo punto in poi, si compongono a fatica in una prospettiva teorica
unitaria. Tale difficoltà di lettura è in qualche modo registrata da Ernst
Troeltsch che, nel recensire insieme il libro di Kahler e quello di Salz, scrive
a proposito di quest’ultimo: «Qui non è possibile riportare le molte sottili
notazioni sulla scienza moderna e sul suo rapporto con lo Stato, la società,
la divisione delle professioni, la libertà di giudizio ecc., e neppure le molte
ovvietà, osservazioni strategiche e costruzioni storiche ad esse legate»20. Ciò
nonostante un primo gruppo di argomenti che Salz avanza contro Kahler
può essere ricondotto al medesimo comun denominatore, e cioè al convin-
cimento che in Der Beruf der Wissenschaft sia del tutto assente una responsa-
bile valutazione dei più ampi presupposti e delle più generali conseguenze
dell’attacco condotto contro la «vecchia scienza» e contro le università in
cui essa abita.
Per comprendere il rilievo attribuito da Salz a questa critica bisogna
anzitutto considerare che egli è sostanzialmente d’accordo con Kahler sulla
portata dirompente che l’esperienza della guerra ha avuto in Europa e
soprattutto in Germania. Infatti – avvalendosi fin da subito del concetto di

anche il rispetto dei loro cittadini, un rispetto che hanno perso non riuscendo ad espletare
gli enormi compiti assistenziali che – in una sorta di delirio di onnipotenza – si sono
erroneamente attribuiti. Per converso, gli imprenditori debbono accettare di essere sempre
sottoposti alla pressione che l’economia capitalistica in quanto tale esercita su di loro, e non
già invocare l’intervento dello Stato ogni qual volta si presenta una congiuntura sfavorevole
(non bisogna dimenticare che Salz scrive a ridosso della grande crisi del ’29). In Das Wesen
des Imperialismus Salz si interroga invece sul ruolo esercitato dai fatti economici sulla politica
di potenza degli Stati, confrontandosi criticamente con la teoria marxista-leninista dell’impe-
rialismo come fase suprema del capitalismo. — Nel 1933, dopo l’avvento al potere dei nazisti,
Salz rassegna le proprie dimissioni dall’università di Heidelberg e, abbandonata la Germania,
trascorre un anno presso l’università inglese di Cambridge. Nel 1934 emigra con la propria
famiglia negli Stati Uniti ove diviene dapprima guest professor presso l’Ohio State University
di Columbus (1934-1937), poi full professor presso la stessa università (1937-1952), e infine,
dal 1952 in poi, professore emerito. Già membro della Royal Economic Society, dal 1934 Salz
entra anche a far parte della American Economic Association. Nei tre decenni trascorsi negli
Stati Uniti, egli risiede a Columbus e poi a Worthington (Ohio), dove muore, a quasi
ottantadue anni, il 10 agosto 1963. — Alcune notizie biografiche e bibliografiche su Arthur
Salz sono contenute in Stefan George. Dokumente seiner Wirkung, a cura di L. Helbing e C. V.
Bock, Amsterdam, 1974, pp. 216-220. Altre informazioni mi sono state fornite dagli archivi
dell’Ohio State University grazie alla cortese disponibilità di Raimund Erhard Goerler e di
Julie Klema.
20
RiW, p. 674.
84 INTORNO A WEBER

Lebensgefu¨hl sul quale dovremo soffermarci in seguito – Salz apre il proprio


scritto affermando che «l’età della sicurezza si è chiusa per un periodo di
tempo incalcolabile», laddove la sicurezza è da lui designata come «il
sentimento della vita dominante dell’epoca storica che è finita con la
guerra», un «sentimento della vita borghese» di cui era tuttavia partecipe
21
non solo la borghesia, ma anche il proletariato . L’epoca storica che si è
aperta con la guerra è dunque un’epoca di sovvertimenti che coinvolgono
in un groviglio inestricabile i destini dei singoli e quelli dei popoli e che
sembrano non lasciare insensibili nemmeno le eterne leggi della natura
(come mostra la crisi della fisica newtoniana). Ed infatti il «contrassegno»
di questa nuova epoca, e nel contempo il solo risultato veramente duraturo
della guerra, è «lo scotimento della sicurezza, la minaccia di tutti i fonda-
menti interni ed esterni della nostra vita»22.
Tuttavia affinché «questa eroica rinuncia alla sicurezza» non conduca
puramente e semplicemente «alla rovina», è comunque necessario ritrovare
«un nuovo equilibrio» sia pure «minacciato e labile»23. Proprio in vista di
questo nuovo equilibrio (e delle sue condizioni di possibilità) Salz guarda
con timore alla leggerezza con la quale, «assieme a tutte le altre conquiste
della nostra civilizzazione», anche «la scienza e i suoi fondamenti» vengono
posti in mora24. Convinti assertori della «crisi della scienza» non sono più
soltanto gli ideologi marxisti che «già da lungo tempo» vedono in essa un
«dispositivo di potenza borghese», ma anche una schiera di «spiriti più
puri» che, al pari Kahler, si fanno forieri del «terribile annuncio» secondo
cui «la scienza odierna si è cacciata con i suoi metodi in un vicolo cieco dal
quale non esiste una via d’uscita che non passi per una completa inversione
di rotta e per un rinnovamento integrale»25.
Alla radice di questo tentativo di «detronizzare» la «vecchia scienza»
v’è, secondo Salz, la convinzione che essa abbia già rinunciato da sé a
guidare la «vita spirituale della nazione» asservendosi ai più bassi interessi
pratici o trasformandosi in un inutile e infecondo lusso intellettuale26. «La

21
FW, p. 9; tr. it. cit., p. 69.
22
Ibidem. In una delle pagine finali di Fu¨r die Wissenschaft Salz afferma in maniera più
storicamente determinata: «Oggi in Germania stiamo vivendo ed esperendo due crolli: il
crollo dell’opera politica di Bismarck e il crollo dell’opera scientifica di Marx» (FW, pp.
87-88; tr. it. cit., p. 153).
23
FW, pp. 9-10; tr. it. cit., p. 69.
24
FW, p. 10; tr. it. cit., p. 70.
25
Ibidem.
26
Ibidem.
ARTHUR SALZ 85

scienza non sarebbe stata propriamente detronizzata, bensı̀ avrebbe abdi-


cato da se stessa escludendosi dalle forze formative e plasmatrici della
nazione. Ma se la scienza non fosse caduta in una specie di disperata
rassegnazione, sarebbe stato necessario cacciarla via dal tempio, giacché
essa non ha più adempiuto e compiuto il suo più alto ufficio presso l’altare
27 28
della vita» . Per converso sarebbe già visibile «una nuova scienza» ade-
guata ai bisogni più profondi ed elementari del vivente, una scienza non già
«arenata nei ghiacci eterni del freddo e inanimato mondo dei concetti», ma
«di nuovo illuminata e riscaldata dal sole della vita»29. Si tratterebbe soltanto
di «insediarla sul trono vacante e abbandonato»30.
Salz designa questo modo di pensare (di cui Der Beruf der Wissenschaft
costituisce un documento paradigmatico) come «pensiero rivoluzionario»,
ove con tale espressione egli intende «un pensiero a responsabilità parziale
nell’ambito del quale la cura per la realizzazione del pensato viene rimessa
ad un’altra parte (di preferenza alla vita) e soltanto la critica e la formula-
zione di ciò che è desiderabile vengono assunte sulle proprie spalle»31. Agli
antipodi del «pensiero rivoluzionario» si colloca dunque il modo di pensare
di cui Salz si fa sostenitore e che egli denomina «pensiero conservatore»,
«pensiero a responsabilità globale»32 o anche «pensiero da uomini di
Stato»33. Infatti per questo genere di pensiero «proprio la realizzazione del
pensato – ossia (...) il fatto che esso si lasci proiettare sulla realtà senza
alcun resto – costituisce la pietra di paragone che decide del valore del
pensato»34. Perciò soltanto il pensiero conservatore – «che non solo ricono-
sce bensı̀ postula il bisogno di riforma e la possibilità di riforma», ma che
nel contempo «rimane del tutto consapevole della propria responsabilità
davanti al passato e di fronte al resto del mondo»35 – giunge davvero «fino
al divenire creativo della forma», giacché si rifiuta di rimettere «al caso, al
destino o a un’altra potenza incomprensibile» il «come» della sua realizza-
zione «che è proprio ciò che conta»36.

27
FW, pp. 10-11; tr. it. cit., p. 70.
28
FW, p. 11; tr. it. cit., pp. 70-71.
29
FW, p. 21; tr. it. cit., p. 81.
30
FW, p. 11; tr. it. cit., p. 71.
31
Ibidem.
32
FW, p. 13; tr. it. cit., p. 73.
33
FW, p. 11; tr. it. cit., p. 71.
34
Ibidem.
35
FW, p. 13; tr. it. cit., p. 73.
36
FW, p. 11; tr. it. cit., p. 71.
86 INTORNO A WEBER

In seguito vedremo come non sia affatto un caso che Salz, discorrendo
della scienza e della sua presunta crisi, faccia uso di tutte queste metafore
politiche. Ora è invece necessario gettare uno sguardo più ravvicinato sulle
obiezioni che egli muove a Kahler per rendere concretamente evidente il
carattere rivoluzionario e irresponsabile del suo pensiero. Troeltsch ricon-
duce tali obiezioni alla circostanza che Salz – da buon «economista poli-
37
tico» e da buon «sociologo» – possiede una maggiore consapevolezza del
fatto che ogni rivoluzione spirituale, anche quella propugnata dai geor-
geani, ha sempre da fare i conti con la «ferrea roccia dei reali rapporti
sociali ed economici»38 nei quali deve calarsi e organizzarsi. Tale interpreta-
zione piuttosto riduttiva si inquadra bene nella tendenza di Troeltsch ad
assimilare la posizione di fondo di Kahler e quella di Salz: anche quest’ul-
timo – egli infatti scrive – «misura la storia dello spirito tedesco da Lutero a
Nietzsche e George, mentre noi più anziani siamo soliti misurarla in
generale da Lutero fino a Goethe e Helmholtz»39. Ma, a ben guardare, il
discorso di Salz non si muove soltanto al livello sottolineato da Troeltsch,
bensı̀ si sviluppa contemporaneamente su più piani e richiede dunque una
diversa interpretazione complessiva.
a) In primo luogo Salz ritiene che, «anche se Kahler avesse ragione con
la sua critica distruttiva di tutta la scienza quale si è venuta caratterizzando
fino ad oggi», tuttavia «questa critica stessa sarebbe un’impresa inattuale»,
perché nella situazione presente «il compito dell’uomo spirituale in vista
della sua autoconservazione» non è quello di fare piazza pulita delle poche
illusioni residue, bensı̀ è «quello di raccogliere e preservare ciò che ancora
si regge»40. Una simile necessità dovrebbe del resto essere avvertita in
maniera particolarmente viva proprio dai rappresentanti della nuova
scienza se è vero che in essi – come vuole Kahler – lo studioso e il capo
politico sono sostanzialmente destinati a coincidere41. «Togliete al popolo
finanche la fede nella scienza – Salz infatti scrive – e gli avrete tolto l’ultima
cosa nei confronti della quale nutriva ancora un profondo rispetto, aprendo
cosı̀ tutte le porte al caos e all’anarchia»42.
b) Una simile «responsabilità politica»43 non può essere declinata affer-

37
RiW, p. 675.
38
RiW, p. 673.
39
RiW, p. 675. Troeltsch fa riferimento a FW, p. 36; tr. it. cit., p. 97.
40
FW, p. 22; tr. it. cit., p. 82.
41
Cfr. BdW, pp. 39-41; tr. it. cit., pp. 103-105.
42
FW, pp. 21-22; tr. it. cit., p. 81.
43
FW, p. 22; tr. it. cit., p. 82.
ARTHUR SALZ 87

mando che la vecchia scienza ha già rinunciato da sé alla sua funzione di
guida della vita nazionale. Salz ritiene infatti del tutto errata la convinzione
di Kahler secondo cui la riflessione sulla scienza razionale moderna che
Weber sviluppa in Wissenschaft als Beruf sarebbe interamente dominata da
uno stanco sentimento di rassegnazione. In realtà Weber, ben sapendo che
in tempi di travaglio si tende a riporre nella scienza attese spropositate alle
quali fanno immancabilmente seguito cocenti delusioni, si preoccupa sol-
tanto – da vero esponente di un pensiero «a responsabilità globale» – di
chiarire i limiti di ciò che ci si può effettivamente attendere da essa: «oggi –
nell’atmosfera rivoluzionaria degli spiriti e in rapporto al clima di esalta-
zione prometeica – occorre, prima di tutto il resto, la conoscenza dei limiti,
la posizione del limite derivante dalla scrupolosa conoscenza di ciò che è, e
44
ciò tanto nella vita politica ed economica quanto nella vita spirituale» .
c) Più specificamente, Kahler non si avvede che, nel corso dell’intera
riflessione di Weber sulla scienza come professione, l’accento batte costan-
temente «sul termine professione, cioè sulle condizioni d’esistenza e di lavoro
della scienza odierna»45. Anche lo studioso, al pari di ogni altro uomo,
soggiace infatti alla coercizione dei rapporti sociali moderni che (sulla base
di un criterio per altri versi vantaggioso e condivisibile) comprimono la
ricchezza della vita individuale nella gabbia d’acciaio della vita professio-
nale. Ecco perché oggi «l’uomo di scienza (...) è necessariamente uno
specialista»: «non già (...) perché il suo talento è sufficiente soltanto a
specializzarsi invece di godere della fortuna faustiana di essere un genio
universale, bensı̀ semplicemente perché è costretto a esercitare la scienza
come professione, cioè, fra le altre cose, a inserirsi con la sua erudizione in
una qualche collocazione nell’ambito del lavoro sociale complessivo – che
è strutturato professionalmente e in base alla divisione del lavoro – per
potere in generale vivere di ciò che sa o di ciò che può»46. Solo partendo
dalla piena e seria accettazione di questo stato di cose – che, nonostante
tutti i lamenti di coloro che lo deprecano, appare per ora inamovibile – lo
studioso può porsi credibilmente l’obiettivo di non rimanere del tutto
chiuso nella sua specializzazione e «di stabilire cosı̀ un accettabile accordo
fra ciò che richiede l’ideale della compiuta personalità cosmica e ciò che
ottiene con la forza la dura necessità della vita»47.

44
FW, p. 13; tr. it. cit., p. 73.
45
FW, p. 12; tr. it. cit., p. 72.
46
FW, p. 13; tr. it. cit., pp. 73-74.
47
FW, p. 14; tr. it. cit., p. 74.
88 INTORNO A WEBER

d) Per converso Kahler – come è costume di tutti i pensatori «a


responsabilità parziale» – non si rende conto che l’effettiva realizzazione
della sua rivoluzione nella scienza comporterebbe «nulla di più e nulla di
meno che un totale sovvertimento dei fondamenti della nostra vita socia-
48
le» . Infatti non già «il caso raro e fortunato del genio scientifico», ma «il
tipo, e dunque la media, dei futuri studiosi di nuovo stile»49, avendo l’occhio
fisso all’integrità della formazione organica, dovrebbe essere sovranamente
indifferente nei confronti di tutte le distinzioni disciplinari che attraversano
il sapere50. Inoltre questo stesso tipo medio, non accettando affatto la
distinzione «fra l’habitus professorale e quello politico»51, non potrebbe in
nessun caso vestire i panni del professore universitario. Ma allora la sua
“proiezione sulla realtà” risulterebbe possibile «solo se la specializzazione
professionale e la divisione del lavoro» venissero «eliminate dalla società»52,
la quale dovrebbe accettare di mantenere in una sorta di pritaneo tutti gli
uomini di scienza senza esigere da loro alcuna prestazione d’opera.
e) Tuttavia per Salz la questione apparentemente esteriore dell’organiz-
zazione sociale della ricerca scientifica nonché del suo finanziamento
rappresenta in realtà una componente non isolabile d’un problema più
generale e profondo, quello del rapporto tra il complesso delle relazioni
sociali e la loro dinamica storica da un lato e i contenuti e metodi del
sapere scientifico dall’altro. Proprio in questo senso, dopo avere sottoli-
neato che anche l’Accademia platonica, «ossia l’archetipo eternamente
degno d’onore del libero insegnamento scientifico, venne “finanziata” in
modo assolutamente ben determinato per tutti i secoli della sua esistenza»,
Salz scrive: «È del massimo valore simbolico il fatto che nell’Accademia
platonica, che era una corporazione religiosa (©Ýασο̋), accanto ad Atena –
la divinità protettrice dell’intero impianto – fossero venerati come numi
tutelari della creazione spirituale anche i numi tutelari dei lavoratori della

48
FW, p. 13; tr. it. cit., p. 73.
49
FW, p. 16; tr. it. cit., p. 76.
50
A proposito di questa osservazione di Salz, è utile richiamare un passo di Kahler che ho
già citato in precedenza: «Ogni essere vivente deve fin dal principio essere guardato ed essere
dato come un’unità sostanziale. Esso non deve dunque essere scomposto in differenti
relazioni concettuali estrapolate dall’universalizzazione di formazioni che si somigliano –
come il linguaggio, il diritto, la religione, il costume, le arti etc., oppure come i fenomeni
anatomici, fisiologici, psicologici e biologici – e non deve neanche essere dissolto in un
baluginio di “motivi” particolari, di “influssi” e di relazioni causali» (cfr. supra, cap. II, nota
137).
51
BdW, p. 40; tr. it. cit., p. 103.
52
FW, p. 16; tr. it. cit., p. 76.
ARTHUR SALZ 89

53
creta che erano insediati poco lontano, vale a dire Efesto e Prometeo» .
Del resto, che l’organizzazione sociale del lavoro scientifico non sia per
Salz un semplice involucro indifferente ai propri contenuti, emerge in
maniera molto chiara anche laddove egli mette in luce che la nuova scienza
di Kahler, rompendo ogni legame con l’università, finirebbe ipso facto per
perdere ogni legame con tutta quella «tradizione venerabile»54 della cultura
tedesca che, da Melantone in poi, è convinta dell’esistenza di un’indissolu-
bile connessione tra la vita spirituale della nazione e i suoi istituti di cultura.
Da tale tradizione non si distacca neppure uno degli auctores per eccellenza
del circolo di Stefan George, vale a dire Nietzsche55 del quale Salz cita a più
riprese lo «stupendo frammento»56 giovanile intitolato Die Zukunft unserer
Bildungsanstalten. Infatti «anche per lui i nostri istituti di cultura sono
qualcosa di più e di diverso da un mantello che ci portiamo sulle spalle.
Essi, “come monumenti viventi di importanti movimenti culturali (...), ci
collegano con il passato del popolo e costituiscono nei loro tratti essenziali
un legato cosı̀ sacro e degno di onore” che Nietzsche parla dell’avvenire dei
nostri istituti di cultura solo nel senso di un’approssimazione – spinta
quanto più in là è possibile – allo spirito ideale da cui sono sorti»57.
Sono dunque questi gli argomenti che Salz adopera per rendere palese
la caratteristica mancanza di responsabilità della polemica condotta da
Kahler e dai georgeani contro Max Weber e contro la scienza moderna.
Ora, a me sembra che, se li si considera nel loro insieme, tali argomenti
non possano essere ricondotti, come pure vorrebbe Troeltsch, ad un modo
di pensare «molto simile» a quello di Kahler, per quanto «più prudente e
più maturo»58 perché maggiormente consapevole del fatto che ogni rivolu-
zione spirituale deve pur sempre porsi il problema di calarsi e organizzarsi
all’interno di ben definiti rapporti sociali ed economici. Ritengo invece –
come ho già accennato in precedenza – che le obiezioni sollevate da Salz
presuppongano tutte una più generale convinzione di fondo, quella se-
condo la quale ogni discorso che abbia ad oggetto il sapere scientifico (o
addirittura la presunta necessità di una sua radicale riforma) non può

53
Ibidem.
54
FW, p. 14; tr. it. cit., p. 75.
55
Sulla lettura del pensiero di Nietzsche da parte di George e della sua cerchia (e in
particolare sulla funzione di predecessore attribuita a Nietzsche nei confronti di George) cfr.
supra, cap. II, nota 103.
56
FW, p. 17; tr. it. cit., p. 78.
57
FW, p. 15; tr. it. cit., pp. 75-76.
58
RiW, p. 675.
90 INTORNO A WEBER

prescindere dall’attenta e puntuale considerazione storica delle relazioni


che intercorrono fra «lo stato della scienza in generale e dei metodi
scientifici in particolare» e «la natura e la forma della costituzione della
59
società e dello Stato che a tale scienza corrispondono» .
Queste relazioni sono secondo Salz «molteplici, ramificate e molto più
profonde di quanto appaiano non solo ad una concezione positivistica ma
anche ad una concezione spiritualistica»60, e tuttavia restano pur sempre
relazioni fra due piani di realtà che rimangono reciprocamente distinti e
«relativamente indipendenti»61. Per tale motivo «la loro chiarificazione» –
che sarebbe «uno dei compiti più meritevoli di una futura sociologia della
cultura»62 – non può certo essere conseguita mediante la brusca reductio ad
unum messa in atto da una «metafisica organica»63 quale è quella che fa da
sfondo alla visione della scienza di Kahler e al suo stesso progetto di una
nuova scienza. In altri termini, Salz respinge con decisione la pretesa di
spiegare d’un colpo i complicati rapporti che legano una determinata
società umana e le sue espressioni spirituali (fra le quali va annoverata
anche la scienza) utilizzando acriticamente la metafora della «formazione
organica», delle sue funzioni e del suo ciclo di vita.
Del resto, questa posizione emerge con chiarezza nella continua pole-
mica che Salz conduce contro l’uso indiscriminato dei concetti di declino e
di degenerazione da parte dei «filosofi della storia», dei «maestri di sa-
pienza» e dei «conoscitori del destino», i quali, in «tempi di grande travaglio
storico», spuntano «come funghi dopo una pioggia calda»64 assumendo il
ruolo di «teorici della decadenza»65. «Oggi – Salz infatti scrive – è addirit-
tura divenuto di moda far ricorso al “declino” e alla “decadenza” al fine di

59
FW, p. 17; tr. it. cit., p. 77.
60
FW, p. 16; tr. it. cit., p. 76.
61
Cfr. FW, p. 88; tr. it. cit., p. 154.
62
FW, p. 16; tr. it. cit., p. 76. Questa «nuova sociologia della cultura» di cui parla Salz,
capace di rendere ragione della tensione polare che sussiste tra una data aggregazione
storico-sociologica e le sue produzioni culturali, rimanda molto da vicino all’idea di
Kultursoziologie elaborata da Alfred Weber a partire dal 1909 ed esposta in forma rigorosa e
sistematica nel saggio del 1921 Prinzipielles der Kultursoziologie («Archiv für Sozialwissen-
schaft und Sozialpolitik», 47, pp. 1-49). Sul debito intellettuale di Salz nei confronti del
fratello minore di Max Weber dovremo tornare anche in seguito: qui mi limito a ricordare
che nel 1930 Salz dedica a quest’ultimo Macht und Wirtschaftsgesetz, che è senza dubbio la
sua opera più significativa.
63
L’espressione «metafisica organica» è un’espressione adoperata polemicamente da Max
Weber (cfr. supra, cap. II, nota 127).
64
FW, p. 21; tr. it. cit., p. 81.
65
Cfr. FW, p. 63; tr. it. cit., p. 127.
ARTHUR SALZ 91

spiegare ogni caso in cui le connessioni non risultano tangibili ed evidenti e


un certo sviluppo appare interrotto, risparmiandosi cosı̀, tramite questo
misero espediente, la fatica di una più profonda riflessione. Perché mai la
scienza e lo spirito non dovrebbero essere coinvolti nella degenerazione se
tutt’intorno, nella vita esterna, ogni cosa è in agitazione, in fermento, in
“declino”? Ma se c’è un segno del declino spirituale del nostro tempo, esso
66
è proprio questo modo irresponsabile di pensare» . Certo, qui l’implicito
obiettivo polemico di Salz non è soltanto Kahler, ma anche e principal-
mente Oswald Spengler. Non bisogna infatti dimenticare che Fu¨r die
Wissenschaft esce proprio durante la «fase più acuta» dello Spengler-Streit che
va dal 1919 al 1922, anni in cui gli interventi sul primo volume di Der
Untergang des Abendlandes «si contano letteralmente a centinaia»67. Ma giova
altresı̀ ricordare che proprio Troeltsch, pur non tralasciando di porre in
luce le molte differenze esistenti tra i georgeani e Spengler68, considera a
ragione l’opera di quest’ultimo come «la prima radicale rivelazione pubblica
della nuova scienza»69.

3. Le obiezioni mosse da Salz al «pensiero a responsabilità limitata» di


Kahler trovano dunque il loro humus comune in un modo di concepire i
rapporti tra la scienza e la società di cui la scienza è espressione che, per
quanto debba essere ulteriormente chiarito, è comunque molto distante da
ogni tentativo di intendere tali rapporti sulla falsariga di quelli che intercor-
rono tra l’organismo vivente e le sue funzioni. Cercherò ora di mostrare
come un’analoga distanza fra Salz e Kahler sia anche riscontrabile nella
specifica concezione della vita e dei suoi rapporti con la scienza che fa da
sfondo ad un secondo gruppo di obiezioni sollevate da Fu¨r die Wissenschaft
contro la nuova scienza dei georgeani. Tali obiezioni, considerate nel loro
insieme, sono essenzialmente volte a delineare una diversa immagine della

66
FW, p. 17; tr. it. cit., pp. 77-78.
67
D. Conte, Introduzione a Spengler, Roma – Bari, 1997, p. 95. — È probabile che, all’inizio
del 1920, Salz sia stato tra i partecipanti al pubblico dibattito organizzato a Monaco tra
Weber e Spengler (cfr. Marianne Weber, Max Weber, cit., pp. 767 sgg.).
68
Cfr. RiW, p. 664: «Il libro di Spengler sul tramonto rigetta il sistema di valori georgeano
come estetismo e richiede per i tempi pericolosi di decadenza spirituale un atteggiamento
assolutamente duro e realistico». D’altra parte anche il giudizio dei georgeani su Spengler è
non di rado improntato ad una netta presa di distanza: basti pensare che in una lettera a
Gundolf del 23 novembre 1918, Kahler afferma che Der Untergang des Abendlandes è un libro
«inaudito, pretenzioso, gonfiato e interiormente vuoto» (cfr. A. Kiel, Erich Kahler, cit., pp.
178-180).
69
RiW, p. 664.
92 INTORNO A WEBER

scienza razionale moderna rispetto a quella costruita in Der Beruf der


Wissenschaft e nel contempo a dimostrare che la pretesa della “nuova
scienza” di chiamarsi ancora “scienza” è solo il frutto di un autofraintendi-
mento.
Salz comincia col mettere in rilievo che Kahler pretende di tirare un
bilancio fallimentare dell’intera scienza tedesca e di proclamare la necessità
di un suo sovvertimento muovendo dal ristretto angolo visuale delle
70
proprie specifiche competenze . Un simile modo di procedere appare a
Salz del tutto inaccettabile: «Per il solo fatto di ammettere la necessità di
una riforma o la possibilità di nuove conoscenze in un singolo campo del
sapere che domino personalmente in maniera più o meno discreta – ma
certamente non del tutto – come l’economia politica o la sociologia, io non
mi considero in grado di affermare che, ad esempio, la chimica organica
tedesca o l’archeologia tedesca o l’ermeneutica tedesca (...) siano senza
alcun dubbio su di un sentiero interrotto»71. Tuttavia Salz è consapevole
che nella prospettiva teorica di Kahler una simile critica ha ben poco peso
giacché si fonda sul presupposto che il destino specialistico della scienza
razionale moderna sia la configurazione ultima di ogni futuro tipo di sapere
e non soltanto il portato della sua fatale mancanza di radicamento in una
formazione organica. «Per Kahler – egli infatti scrive – tali distinzioni sono
superflue poiché v’è soltanto un’unica vera scienza e un unico oggetto di
tutta la scienza: il vivente. Tutta la scienza sarebbe sapere del vivente, e
l’uomo l’archetipo e nel contempo un caso limite o speciale del vivente»72.
Il problema diviene dunque quello di porre radicalmente in discussione
l’assunto di fondo secondo cui l’«unica vera scienza» sarebbe «sapere del

70
Quali fossero le competenze specifiche di una figura “irregolare” di studioso come
quella di Kahler non è facile a dirsi. Non a caso il suo grande amico Hermann Broch,
all’inizio del saggio Geschichte als moralische Anthropologie. Erich Kahlers Scienza Nuova
(«Hamburger Akademische Rundschau», 3, 1949, 6, pp. 408-415) si chiede: «Chi è propria-
mente quest’uomo? È uno storico? Un filosofo? Uno studioso dell’arte? Un sociologo?»; e
subito dopo afferma: «La risposta è palese: egli è stato, fin dal principio, un vedente, e tale è
rimasto» (ivi, p. 106). Nello stesso senso Anna Kiel, nel sottotitolo della sua monografia su
Kahler, lo definisce «un “uomo universale” del ventesimo secolo». In ogni caso, prima di Der
Beruf der Wissenschaft lo scritto più significativo di Kahler è senza dubbio lo studio storico
che egli dedica alla dinastia degli Asburgo (cfr. supra, cap. II, nota 1). L’idea portante di
quest’opera è quella di mettere in rilievo non già le superficiali analogie, ma le profonde
omologie che legano fra loro tutti i membri della stirpe degli Asburgo nel corso di sei secoli
di storia. In questo modo il tempo (al pari dello spazio) diviene una delle dimensioni nelle
quali una formazione organica sovraindividuale proietta il proprio essere unitario.
71
FW, p. 23; tr. it. cit., p. 83.
72
Ibidem.
ARTHUR SALZ 93

vivente» (nel senso non solo oggettivo, ma anche soggettivo del genitivo),
ed è proprio questa la direzione nella quale Salz si muove quando afferma:
«ciò che Kahler chiama nuova scienza non ha più nulla a che fare con ciò a cui
finora, e da alcuni secoli a questa parte, e` stato dato il nome di scienza»73. La
nuova scienza di Kahler, lungi dall’essere l’«unica vera scienza», non è altro,
per Salz, che un tentativo romantico di fare ritorno ad una situazione
premoderna, assimilabile, per molti versi, a quello compiuto all’inizio del-
l’Ottocento dai «filosofi teocratici della restaurazione»74 (de Maistre, de
Bonald, Lamennais) i quali, volgendosi contro il «principio della libera
ricerca» e contro la «sovranità della ragione pensante» intesa come «ragione
individuale», proclamarono la necessità di rimettere sul trono la «ragione
universale fondata sulla rivelazione» e l’autorità della «tradizione»75. Ma, a
differenza di Kahler, «il romanticismo francese» fu almeno «cosı̀ coerente
da pretendere che il primato fra le forze che operano un’azione formatrice
sulla vita fosse detenuto dalla fede»76.
Per giustificare un giudizio cosı̀ drastico Salz cerca dapprima di mettere
in luce le caratteristiche salienti della neue Wissenschaft di Kahler e dei
georgeani per confrontarle poi con quelle che determinano la vera e
inconfondibile fisionomia della scienza razionale moderna.
«La nuova scienza – Salz scrive – è una faccenda del tutto personale,
una funzione fisiologica o biologica del singolo uomo, come il respirare, il
mangiare, il dormire, e, al pari di queste funzioni, serve in linea di principio
e in buona sostanza al bene corporeo-spirituale del singolo uomo e alla sua
autoconservazione nel mondo che lo circonda. Il senso esclusivo della
nuova scienza, scaturendo dai bisogni del singolo individuo ed essendo
valido per lui e riferito a lui, non è l’incremento della vita in generale, ma
l’utilità e il benessere – anche se intesi nella maniera più spirituale e sublime
– dell’esistenza particolare che sa. La nuova scienza è dunque – esprimen-
77
dosi concettualmente – un pragmatismo egocentrico e solipsistico» . Que-
sta definizione della nuova scienza, che suscitò «la veemente protesta di
78
Kahler» , coglie in realtà – se solo si procede oltre il suo immediato intento

73
FW, p. 24; tr. it. cit., p. 84.
74
FW, p. 91; tr. it. cit., p. 156.
75
FW, pp. 90-91; tr. it. cit., p. 156.
76
FW, p. 22; tr. it. cit., p. 82.
77
FW, pp. 27-28; tr. it. cit., pp. 88-89.
78
A. Kiel, Erich Kahler, cit., p. 88. La Kiel – che nella ricostruzione della polemica fra
Kahler e Salz (ivi, pp. 87-91) è appassionatamente schierata dalla parte del primo – fa
riferimento ad una copia di Fu¨r die Wissenschaft rinvenuta nella biblioteca di Kahler che
presenta alcune interessanti annotazioni al margine.
94 INTORNO A WEBER

polemico – un aspetto essenziale della posizione espressa in Der Beruf der


Wissenschaft. Se infatti la vita vive nelle singole formazioni organiche che
sono sempre uniche (per quanto non sempre individuali); e se ogni vero
sapere si radica in quel bisogno “pratico” di divenire e di espandersi, e nel
contempo di conservarsi come un tale divenire e un tale espandersi, che
esprime l’essere di ogni singola formazione organica; allora è evidente che
la nuova scienza, in quanto vero sapere, sarà del tutto funzionale al «bene
corporeo-spirituale» del vivente che la detiene, sia esso pensato come un
singolo uomo oppure come la singola umanità tedesca ed europea in una
certa ora della sua storia.
«Inoltre – continua Salz – la nuova scienza è esoterica nel duplice senso
del termine. Infatti essa: da un lato è accessibile e valida solo per una
ristretta cerchia di sapienti (denominata comunità) e si organizza in un
nuovo e particolare ceto che è un ceto della grazia l’appartenenza al quale
viene conseguita mediante una consacrazione; dall’altro è una scienza che
proviene dall’interno, è una rivelazione visionaria»79. Sicché la nuova
scienza, nella misura in cui si propone di fondarsi sul genio, sull’ispirazione
e sull’entusiasmo, appare a Salz come il sapere misterico di una comunità di
eletti che ha al proprio vertice «un papa denominato “guida” [Fu¨hrer]»80;
inoltre essa, mirando ad essere «una scienza che guarda e non soltanto una
scienza che pensa», si configura per Salz – che qui riecheggia in maniera
palese un motivo polemico assai ricorrente in Weber81 – come un «sapere
tramite forze irrazionali» che «vieta di adoperare la costruzione concettuale
come strumento della messa in forma della materia del sapere» e «proclama
la visione, l’intuizione, l’immaginazione produttiva come fonte di cono-
scenza predominante»82. «In fin dei conti», dunque, la nuova scienza «è
rivelazione, sapere onirico, sapere magico e – se avesse una piena compren-

79
FW, p. 28; tr. it. cit., p. 89.
80
Ibidem. È assolutamente evidente il riferimento diretto alla figura di Stefan George e al
ruolo che il poeta svevo esercitava nell’ambito della sua cerchia.
81
Basti qui ricordare il celebre passo della Vorbemerkung ai Gesammelte Aufsa¨tze zur
Religionssoziologie ove Weber afferma: «La moda o le velleità letterarie inclinano oggi a
credere di poter fare a meno dello specialista o di poterlo degradare a lavoratore subalterno
per il “veggente”. Quasi tutte le scienze devono qualcosa ai dilettanti, spesso devono loro
anche punti di vista di grande valore. Ma il dilettantismo come principio della scienza ne
segnerebbe la fine. Chi vuole la “visione” vada al cinematografo (...). E – vorrei aggiungere –
chi desidera una “predica” vada alla riunione di una setta» (M. Weber, Sociologia della
religione, 2 voll., a cura di Pietro Rossi, Milano, 1982, vol. I, p. 15).
82
FW, p. 28; tr. it. cit., p. 89.
ARTHUR SALZ 95

sione di se stessa – dovrebbe sostenere di poter compiere incantesimi e dar


prova di sé nella magia»83.
Kahler respinge anche questa seconda caratterizzazione della nuova
scienza: «Unerhort falsch! Wo steht das?», egli annota al margine dell’esem-
plare in suo possesso dello scritto di Salz84. Ed in effetti abbiamo visto come
in Der Beruf der Wissenschaft Kahler giunga quasi alla rottura con George e
con i suoi discepoli allorquando distingue il «nuovo sapere» dalle forme di
sapienza magica, artistica e religiosa con cui pure esso è imparentato
dichiarando nel contempo che tale sapere «può essere soltanto scienza in
un senso insieme vecchio e nuovo, in un senso che rifonda la materia e
l’estensione di quella che finora veniva denominata scienza nella forma
antichissima ed eterna che è la sola e unica a poter essere chiamata
sapere»85. Tuttavia – come sottolinea finanche Troeltsch – «Salz non
prende affatto sul serio i tentativi di Kahler di riconciliare questo suo sapere
fondato sulla visione (...) con la scienza levitica e universale del pensiero
comune»86. Anzi, la posizione di diniego espressa da Salz è ancora più
radicale: egli ritiene infatti che tali tentativi di riconciliazione vadano
87
decisamente respinti non solo perché sono «incomprensibili» , ma anche e
principalmente perché sono in palese contrasto con l’autodeterminazione
stessa della nuova scienza. «È un’asserzione intellettualistica indice di un
crasso razionalismo e tale da travalicare tutta l’intellettualizzazione mo-
derna quella secondo la quale questo sapere, che pone la grazia al posto
della ricerca, la consacrazione al posto dell’apprendimento, la vocazione
[Berufung] al posto della professione [Beruf] (...), debba poi essere pensato
come insegnabile e trasmissibile in base a disposizioni metodiche, ossia
come oggetto di una formazione scolastica. Nell’ultima parte del suo scritto
Kahler offre anche indicazioni pedagogiche circa il modo e le categorie con
le quali la nuova scienza deve lavorare, indicazioni che, giusta la caratteriz-
zazione della nuova scienza, non possono coerentemente essere null’altro
che disposizioni o prescrizioni circa il modo di divenire un genio o di
imparare a compiere incantesimi»88.

83
Ibidem. Quest’ultima affermazione polemica di Salz (e non solo essa) va anche letta
sullo sfondo della grande diffusione della cultura magico-esoterica nella Monaco dei primi
decenni del secolo. A tale proposito cfr. G. Galli, Hitler e il nazismo magico. Le componenti
esoteriche del Reich millenario, Milano, 1989 (in part. i primi tre capitoli).
84
Cfr. A. Kiel, Erich Kahler, cit., p. 89.
85
Cfr. supra, cap. II, nota 113.
86
RiW, pp. 674-675.
87
RiW, p. 675.
88
FW, p. 29; tr. it. cit., p. 90.
96 INTORNO A WEBER

Dopo aver caratterizzato la neue Wissenschaft di Kahler e dei georgeani


da un lato come un sapere unicamente funzionale al vivente che lo detiene
e dall’altro lato come un sapere esoterico, Salz ritiene che basti delineare il
«tipo ideale» della «“vecchia” scienza» per rendersi immediatamente conto
dell’assoluta irriducibilità della nuova scienza a quella «prestazione specifica
dello spirito umano» che, nell’età moderna, è stata denominata scienza ed
89
«è stata esercitata come tale in maniera riconoscibile e “professionale”» .
a) «Questa vecchia scienza – Salz infatti scrive ricorrendo di nuovo ad una
serie di efficaci metafore politiche – è in linea di principio non esoterica ma
democratica o demagogica, non gerarchica ma repubblicana. Essa non si
rivolge ad alcuni eletti ma al mercato, non è una dottrina segreta posseduta
solo dai suoi adepti ma un sapere laico e profano. Essa soggiace al
controllo dell’intelletto che pensa, pondera e calcola e non riconosce
nessun’altra sanzione del proprio operato se non la legalità del proprio
pensiero razionale. Essa non è valida soltanto per un ceto particolare o
privilegiato e non è esclusivamente al servizio di una casta o di una
comunità congiunta da legami personali, bensı̀ è una scienza valida per tutti
coloro che hanno tacitamente prestato giuramento alla sua carta costituzio-
nale la quale si fonda sull’assoluta maestà dell’intelletto pensante»90.
b) Tuttavia, mediante questa caratterizzazione della scienza razionale mo-
derna come un sapere fondato sull’intelletto pensante e calcolante e aperto
a tutti coloro che ne riconoscono la sovranità, Salz non intende affatto
eludere il problema pressantemente posto da Kahler del rapporto che
intercorre tra «il sapere» e «colui che sa»91, vale a dire tra la scienza e la vita:
risulterebbe altrimenti del tutto insensata la critica di Troeltsch secondo la
quale Salz, al pari di Kahler, «non conosce alcun criterio immanente del
sapere» e «rende la scienza in vigore totalmente dipendente dai sentimenti
della vita che ad essa corrispondono»92. La differenza fra Salz e Kahler si
gioca piuttosto sul modo di intendere il rapporto (per entrambi fondamen-
tale) tra la scienza e la vita93, nonché sul significato da attribuire al termine
“vita” quando quest’ultimo viene adoperato in riferimento al vivere specifi-
camente umano.

89
Ibidem.
90
FW, pp. 29-30; tr. it. cit., pp. 90-91.
91
Cfr. supra, cap. II, nota 16.
92
RiW, p. 675.
93
Cfr. FW, p. 46; tr. it. cit., p. 108: «La “nuova” scienza, nell’appassionata brama di fissare
la maggiore quantità possibile di vita, di essere interamente riscaldata dalla vita e vicina alla
vita, misconosce il fatto che le vie che conducono alla vita sono molteplici».
ARTHUR SALZ 97

Non a caso Salz, se da un lato respinge con decisione l’orgogliosa


94
pretesa della nuova scienza di «rappresentare il partito della vita» , dall’al-
tro insiste a più riprese sul profondo e misterioso rapporto che lega la vita
alla «vecchia scienza repubblicana, democratica e profana»95. Tale rapporto
è fondato, a suo dire, sulla fiducia reciproca: «allo stesso modo in cui la
“fiducia”, intesa come una peculiare e originaria forza dell’anima, è il
collante invisibile e in fondo incomprensibile che tiene unita ogni colletti-
vità e ogni società, cosı̀ anche l’alleanza fra la scienza e la vita poggia in
ultima istanza sulla fiducia»96. La nuova scienza, che «si atteggia cosı̀
97
entusiasticamente verso la vita» e che nutre l’ambizione di «imbottigliare
98
la vita appena munta» , è in realtà costantemente intenta a «canalizzare»
con circospezione la vita «costringendola al servizio del benessere perso-
nale e dell’autoperfezionamento dei suoi adepti»99. Invece la scienza razio-
nale moderna, anche quando «sembra che (...) si abbandoni in maniera
troppo docile e sicura alla guida o al dominio della ragione, lo fa nella
convinzione che tra la vita e lo sviluppo della ragione esista un patto
segreto che lega indissolubilmente le due parti e dal quale entrambe
traggono profitto»100. Certo vi sono epoche in cui «il libero commercio tra
la scienza e la vita conosce momenti di interruzione, di stanchezza e di
101
esaurimento» . E tuttavia «a lungo andare si ristabilisce sempre uno stato
d’equilibrio fra la vita e il pensiero (...) le cui benefiche conseguenze
possono essere avvertite sul proprio corpo non certo dal singolo nel breve
lasso della sua vita personale, bensı̀ dal succedersi delle generazioni (...).
Perciò la vecchia scienza non ha bisogno di sottolineare ad ogni istante la

94
FW, p. 32; tr. it. cit., p. 93.
95
FW, p. 30; tr. it. cit., p. 91.
96
FW, p. 31; tr. it. cit., p. 92.
97
Ibidem.
98
FW, p. 50; tr. it. cit., p. 113.
99
FW, p. 30; tr. it. cit., p. 91.
100
Ibidem.
101
FW, pp. 30-31; tr. it. cit., p. 92. «Ci sono tempi – continua Salz – in cui la misteriosa
consonanza fra il pensiero e la vita sembra interrotta. La vita, nel suo soffocante profondersi,
trabocca fuori da ogni vaso – come un selvaggio groviglio che si dilata oltre i muri e le
recinzioni – e lascia dietro di sé ogni volontà formatrice e ogni impulso plasmatore dello
spirito scientifico. È una fortuna se in tempi di questo genere la parola decisiva [maß-gebende]
di un poeta riconduce i cuori straziati su strade più tranquille. Ci sono altri tempi in cui
l’impetuoso spirito del pensiero sembra precedere la vita e in cui la vita sembra quasi dormire
o seguire a mala pena e in ritardo l’impeto dei pensieri» (FW, p. 31; tr. it. cit., p. 92).
98 INTORNO A WEBER

sua adesione e la sua fedeltà alla vita, dal momento che essa si concilia nella
102
maniera più intima con la vita, si sa come un suo esponente» .
Queste asserzioni risultano peraltro pienamente comprensibili solo se si
tiene debitamente conto del fatto che per Salz la vita umana – di cui la
scienza è un «esponente» e su cui la scienza esercita un «impulso plasmato-
re»103 – rappresenta qualcosa di diverso dalla formazione organica di Kahler
della quale «l’uomo» costituisce «l’archetipo e nel contempo un caso
limite»104. Infatti quest’ultima – che rimane tutta centrata sulla sua «peculiare
esistenza» anche quando risulta «vincolata» a una «formazione organica
superiore»105 – diviene e si espande di continuo, ma deve nel contempo
imporre il suggello dell’essere al movimento travolgente del suo divenire ed
espandersi, e per tale motivo ha bisogno di sapere. Invece per Salz la vita
umana è essenzialmente Erleben, esperienza vissuta, spirito finito. Come tale
essa non rimane chiusa nella sua peculiarità bensı̀ tende in vari modi ad
andare oltre se stessa, e perciò non si espande ma si oggettiva in produzioni
culturali di carattere universale. D’altronde, solo rapportandosi alle proprie
oggettivazioni culturali, la vita umana si «autochiarifica», ossia diviene
propriamente Erleben, esperienza della vita: la scienza moderna stessa è
infatti definita da Salz come «l’autochiarificazione di un grande e rivoluzio-
nario Erlebnis mediante il quale essa è venuta al mondo»106. Nel contempo,
però, la vita umana è destinata a entrare sempre di nuovo in contrasto con
le proprie oggettivazioni culturali nelle quali la sua assoluta motilità si
«autoaliena»107 e si irrigidisce: ecco perché «il libero commercio tra la
scienza e la vita» conosce fasi alterne, ecco perché «il patto» tra scienza e
vita è «segreto» e la loro reciproca «fiducia» risulta «in fondo incomprensi-
bile». Sicché per Salz ogni discorso sul sapere in generale e sulla scienza
moderna in particolare deve necessariamente assumere come proprio oriz-
zonte la tensione polare che sussiste tra l’Erleben e le sue «emanazioni
culturali»108: una prospettiva, questa, molto lontana dalle convinzioni di

102
Ibidem.
103
Cfr supra, nota 101.
104
Cfr. supra, nota 72.
105
Cfr. BdW, pp. 94-95; tr. it. cit., pp. 165-166.
106
FW, p. 30; tr. it. cit., p. 91.
107
Cfr. FW, p. 55; tr. it. cit., p. 118.
108
L’espressione Kulturemanationen è adoperata da Alfred Weber. Cfr. A. Weber, Der
soziologische Kulturbegriff (1912), in Id., Ideen zur Staats- und Kultursoziologie, Karlsruhe, 1927,
p. 32: «Ciò che ci deve offrire una osservazione dinamica della vita, che deve rendere
concettualmente comprensibile al nostro sentire le emanazioni culturali, è la possibilità di
afferrare cose come il mondo delle idee platoniche nella loro straordinaria bellezza e
ARTHUR SALZ 99

Kahler che non a caso considera il «concetto collettivo» di Kultur come un


109
concetto «vecchio, vago e onnicomprensivo» .
In seguito torneremo in maniera più compiuta e documentata sul modo
in cui Salz mostra di intendere la vita specificamente umana e le sue
relazioni col sapere scientifico. Tuttavia se a ciò che si è detto finora
aggiungiamo soltanto – ma anche su questo punto dovremo tornare – che
l’Erlebnis storico da cui la vecchia scienza è sorta è per Salz un «Erlebnis di
responsabilità», e che proprio per questo motivo la vecchia scienza sog-
giace «a un continuo processo di autocontrollo nel corso del quale prende
sempre più chiaramente coscienza delle sue peculiarità e dei suoi limiti»110,
abbiamo già in mano tutti gli elementi per cogliere il senso complessivo
delle varie osservazioni specifiche sulla scienza razionale moderna che Salz
sviluppa nel corso della sua polemica con Kahler.
a) A differenza della nuova scienza, per la quale ogni forma di sapere è
valida soltanto per il suo detentore, la vecchia scienza, «che a parlare
propriamente dovrebbe essere chiamata scienza moderna»111, mira, secondo
la propria natura, alla validità incondizionata dei suoi risultati. Essa, cioè, in
quanto sapere laico e razionale, radicalizza la tendenza all’universalizza-
zione che è già latente in ogni forma di oggettivazione culturale dell’Erle-
ben, e dunque non si rivolge solo ad un certo uomo o ad un certo popolo in
un dato momento della loro storia, bensı̀ ad un «immaginario regno degli
spiriti»112. Proprio per questo motivo la scienza moderna, in ognuno dei
suoi differenti settori, tende costantemente alla formulazione di leggi che, a
somiglianza di quelle civili, vincolano tutti e sono valide per tutti. Tali leggi,
però, sono più o meno generali e più o meno astratte, non solo a seconda
dell’oggetto di cui si occupano, ma anche a seconda del linguaggio in cui
vengono formulate, giacché «le diverse lingue» sono il primo e inaggirabile
livello «in cui si esprime e si manifesta lo spirito delle nazioni»113. Inoltre
anche la più generale delle leggi in questione rimane perennemente di
natura ipotetica e «può essere corretta sempre di nuovo dall’esperienza»114.
Sicché, mentre la nuova scienza nasconde pudicamente il proprio lavoro di

purezza (...), ed in pari tempo la possibilità di sentirle nate dalla vita in cui esse si sono
trovate».
109
Cfr. supra, cap. II, nota 141.
110
FW, p. 30; tr. it. cit., p. 91.
111
FW, p. 32; tr. it. cit., p. 93.
112
Ibidem.
113
Ibidem; tr. it. cit., pp. 93-94.
114
FW, p. 33; tr. it. cit., p. 94.
100 INTORNO A WEBER

ricerca giacché «il popolo deve abituarsi a ricevere solo opere compiute,
115
armoniche e complete» , la scienza moderna opera apertamente «come se»,
e solo come se, «i presupposti principali con i quali lavora e i suoi
fondamenti di principio fossero validi in eterno»116. Sicché, chi rinfaccia alla
scienza moderna la superba pretesa di volere irretire la vita mediante le
proprie leggi e i propri calcoli, misconosce del tutto, secondo Salz, lo
spirito sperimentale che la anima obbligandola ad ammettere che leggi e
calcoli possano sempre presentare delle eccezioni e che proprio tali ecce-
zioni siano destinate a giocare un ruolo rilevante nei suoi futuri sviluppi.
b) Tuttavia anche l’opinione secondo cui la scienza moderna ha rinun-
ciato per «rassegnazione» alla «conduzione della vita»117 (e in particolare
alla conduzione della vita politica della nazione) costituisce un fraintendi-
mento. È piuttosto vero che essa, in quanto peculiare manifestazione dello
spirito umano costantemente impegnata nella precisa determinazione delle
sue possibilità e dei suoi limiti, è giunta dopo un lungo cammino a rendersi
conto del fatto che l’eccellenza nel sapere non comporta affatto l’eccellenza
nell’agire, sia perché «il perfezionamento e il massimo sviluppo di alcune
forze insite nell’uomo sono necessariamente acquisiti al prezzo della rinun-
cia alla perfezione di altre forze in esso presenti»118, sia perché «tutto l’agire
in atto che eccede il fare calcolante e meccanizzante, tutto l’agire grande ed
eroico» «non deriva dal sapere razionale e concettuale, bensı̀ dalla libertà
dell’uomo» ossia da «radici irrazionali»119. In quest’ultimo senso a Salz
appare davvero emblematica la posizione di Max Weber il quale «trasformò

115
Cfr. supra, cap. II, nota 100.
116
FW, p. 33, tr. it. cit., p. 94 (il corsivo è mio). Certo vi sono epoche in cui la scienza si
irrigidisce venendo meno al proprio originario spirito sperimentale, ed è allora necessaria
l’opera del genio scientifico per scuoterla dal suo torpore. Ma l’avvento del genio scientifico
(cosı̀ come di quello artistico o religioso) non può essere ottenuto con «la forza», con
«l’ostinazione» o con «la magia» come pretenderebbero i sostenitori della vecchia scienza
nel loro pathos rivoluzionario: il genio è piuttosto un «dono» che fa la propria comparsa
solo quando un popolo riesce a garantire le condizioni necessarie – ma non sufficienti – per
la sua insorgenza (cfr. FW, p. 34; tr. it. cit., p. 95).
117
FW, p. 35; tr. it. cit., p. 96.
118
FW, p. 36; tr. it. cit., p. 97.
119
FW, p. 40; tr. it. cit., p. 101 — D’altronde «i risultati della scienza non sono rimasti per
tale motivo privi di frutto per la vita della nazione», il che, secondo Salz, appare assoluta-
mente chiaro se solo si considera che i protagonisti della «rivoluzione di tutte le scienze che
la Germania cagionò alla fine del diciottesimo secolo» non hanno mai «preteso di procla-
marsi capi della nazione» e tuttavia, «dalle loro silenziose stanze di studio», hanno «arrecato
più onore al nome tedesco e alla nazione tedesca che mille capi legittimi» (FW, p. 36; tr. it.
cit., pp. 97-98).
ARTHUR SALZ 101

di nuovo in un confine ben marcato la tenue linea di separazione che Kant


ritenne di dover tracciare (...) tra l’uomo della ragion pura e l’uomo del
dovere eroico» e dunque «nell’eterno conflitto dei valori non ritenne di
120
potersi arrogare alcun ufficio di giudice» .
c) Salz è peraltro convinto che una serie di «principi guida per il lavoro
scientifico»121 enunciati da Kahler possano tranquillamente essere recepiti
dalle discipline storico-sociali senza bisogno «di alcun sovvertimento radi-
cale della scienza»122. Infatti, pur considerando impossibile «rinunciare ad
ogni costruzione concettuale», Salz ritiene condivisibile da «tutti coloro (...)
che oggi si occupano di storia» l’esigenza di operare con «concetti “intuiti-
vi”», vale a dire con concetti «chiari e distinti ma rivivibili» che «non
abbiano perso il legame col grembo materno della vita vissuta»123. Allo
stesso modo egli condivide con Kahler sia il rifiuto delle generalizzazioni
astratte e delle banali analogie che operano una perequazione tra epoche
diverse distruggendo ogni «sensibilità per le differenze»124, sia il rifiuto
dell’interpretazione economicistica dell’accadere storico «che si accompa-
gna alla negazione della peculiare produttività dello spirito»125. «Tuttavia mi
domando invano – scrive Salz – perché, al fine di adempiere a tutto ciò che
costituirà il compito della nostra generazione, debba essere necessaria una
rivoluzione della scienza nella sua interezza. Mi domando cioè per quale
ragione, pur essendo muniti di questa nuova disposizione d’animo, non
possiamo ritenerci eredi e amministratori di un patrimonio secolare e
dobbiamo invece credere che con noi abbia inizio una nuova era dello
sviluppo del mondo»126.
d) D’altronde bisogna guardarsi bene dal caricaturizzare il «reticolo di
concetti»127 che la scienza moderna tesse attorno alla vita senza averne
minimamente compreso il senso e la finalità. «Un certo tipo di produzioni
spirituali – afferma infatti Salz – procede per componenti intermedie e
prodotti intermedi i quali, considerati in sé e per sé e ciascuno singolar-
mente, (...) hanno ben poco significato»128. Richiamandosi in maniera espli-

120
FW, pp. 39-40; tr. it. cit., p. 101.
121
FW, p. 44; tr. it. cit., p. 106.
122
FW, p. 45; tr. it. cit., p. 107.
123
FW, p. 44; tr. it. cit., p. 106.
124
FW, p. 45; tr. it. cit., p. 107.
125
Ibidem.
126
Ibidem; tr. it. cit., p. 108.
127
FW, p. 44; tr. it. cit., p. 106.
128
FW, p. 46; tr. it. cit., p. 108.
102 INTORNO A WEBER

cita alla filosofia del «come se» di Hans Vaihinger e proiettandola all’indie-
tro, attraverso Nietzsche, Lotze e Herbart, fino alla disamina dei differenti
129
generi di idola compiuta da Francesco Bacone , ma rimeditando nel
contempo la lezione weberiana sulla valenza euristica che caratterizza i
«tipi ideali» adoperati dalla sociologia proprio in quanto concetti assoluta-
mente “irreali”, Salz riconosce apertamente che la «produzione scientifica
(...) procede per strade traverse e per finzioni»130. Egli riconosce anche che
un simile modo di procedere investe non di rado la nozione stessa di uomo
adoperata dalla scienza moderna. In tali casi l’uomo viene effettivamente
concepito «come una grandezza stabile, immutabile e rigida, direi quasi
come una piccola unità di calcolo»131. E tuttavia Salz ritiene che ciò non sia
affatto sufficiente a suffragare le accuse di «estraneazione dalla vita» e di
«ottuso razionalismo»132 che Kahler muove alla vecchia scienza. «È vero: la
vecchia scienza giunge talvolta a costruirsi per i suoi scopi un uomo al
quale ascrive qualità e motivazioni che, con tanta esclusività e separatezza,
non si incontrano in nessun uomo singolo della realtà. Essa si plasma un
uomo artificiale prodotto razionalmente e intenzionalmente, e poi, sulla
base di questo schema o di questi schemi, dimostra alcune generalissime
legalità. Di tanto in tanto essa arriva perfino ad attribuire realtà a questa
costruzione ausiliaria – perché é di questo che si tratta –, mentre alla sua
origine c’è soltanto una finzione. Ma le finzioni sono utili ipotesi di lavoro
scientifiche, sono vie traverse, prodotti intermedi della produzione spiri-
tuale che aiutano a ottenere un insieme di nuove conoscenze le quali, forse,
non sarebbero state rinvenute altrimenti»133.
Per chiarire ulteriormente tali asserzioni, Salz si richiama a un esempio
tratto dalla propria disciplina specialistica e del resto già adoperato da
Vaihinger nella Philosophie des Als Ob del 1911: si consideri, egli dice,
l’uomo dell’economia politica classica «che in tutte le situazioni della vita, o
almeno in tutti i rapporti economici, si lascia guidare esclusivamente dal
cosiddetto interesse egoistico razionale», e che dunque «non è solo un
egoista incallito ma, nel contempo, è anche un intelletto illuminato, poiché
(...) sa in ogni situazione cosa è per lui vantaggioso e cosa è per lui
svantaggioso e pondera sempre con precisione vantaggi e svantaggi»134; ora,

129
Cfr. FW, p. 49; tr. it. cit., p. 112.
130
Ibidem.
131
FW, p. 46; tr. it. cit., p. 108.
132
Ibidem.
133
FW, pp. 46-47; tr. it. cit., p. 109.
134
FW, pp. 47-48; tr. it. cit., p. 110.
ARTHUR SALZ 103

non c’è dubbio che quest’uomo «non è mai esistito o al massimo è esistito
solo per approssimazione»; e tuttavia è altrettanto innegabile che una simile
finzione si è rivelata necessaria per isolare «alcune leggi economiche
generali – erroneamente dette leggi naturali dell’economia – che ci offrono
una visione profonda della legalità dell’agire economico e dunque della vita
della società e dello Stato»135. D’altra parte, una volta che si è compreso che
la «concezione “individualistica” della società e dell’economia (...) è soltanto
una “metafora”», bisogna guardarsi bene dal considerare in maniera diversa
– e cioè nell’ottica di un falso e pregiudizievole realismo concettuale – «la
concezione “collettivistica” ad essa contrapposta, che considera lo Stato, la
società, l’economia etc. come esseri viventi “organici”»136. Si tratta infatti in
entrambi i casi di finzioni, seppure di «finzioni dotate di un valore euristico
molto alto (...) che offrono significative visioni della struttura ogni volta
diversa dell’economia e della società dei differenti popoli la cui vita con-
creta si svolge in maniera tale che ora l’una ora l’altra metafora sembra
corrispondere alla verità e risultare valida»137. Proprio da tale consapevo-
lezza scaturisce «il compito di una scienza orientata in senso empirico-
realistico e storico-critico» che «è quello di prendere in esame i limiti,
l’ammissibilità e la validità di tali metafore e di tali finzioni in ogni singolo
caso e di apportare al ritratto stilizzato le necessarie correzioni richieste
dalla realtà»138.

4. L’attenta disamina della polemica che Salz conduce in difesa di Max


Weber contro la nuova scienza di Kahler e dei georgeani mostra dunque
che egli, a differenza di Kahler, concepisce ogni forma di sapere scientifico
da un lato come una peculiare oggettivazione dell’esperienza vissuta (§ 3) e

135
FW, p. 47; tr. it. cit., p. 110.
136
FW, p. 48; tr. it. cit., p. 111.
137
Ibidem.
138
FW, pp. 48-49; tr. it. cit., p. 111. D’altronde Salz ritiene che alcune finzioni concettuali
eccessivamente artefatte – come ad esempio quelle della ricerca psicologica di fine Otto-
cento che mettevano capo ad una completa atomizzazione e meccanizzazione della vita
interiore dell’uomo – siano destinate a sparire da sole con la fine dell’età della sicurezza e del
suo ideale di una «completa armonizzazione della vita con la calcolabilità» (FW, p. 50; tr. it.
cit., pp. 112-113). Ma se è vero che nella nuova epoca aperta dalla guerra nessuno «potrebbe
mai prevedere il modo in cui “l’uomo” uscirà trasformato dal fermento del tempo entro il
quale egli lotta per la propria autoconservazione», allora, per converso, non ha neanche
alcun senso vincolarsi troppo strettamente – come pretenderebbero i georgeani – all’«eterno
e immutabile archetipo» del grande uomo immediatamente colto nella sua compiuta unità
(FW, p. 51; tr. it. cit., pp. 113-114).
104 INTORNO A WEBER

dall’altro come un’espressione relativamente indipendente di un determi-


nato sistema di rapporti sociali (§ 2). Sicché non meraviglia che ad un certo
punto del suo scritto Salz avverta finalmente il bisogno di portare allo
scoperto e di unificare questo duplice baricentro delle sue argomentazioni:
ciò avviene in quelle pagine invero fondamentali di Fu¨r die Wissenschaft
nelle quali egli affronta il problema dei rapporti che intercorrono tra la
scienza e il suo tempo.
Salz comincia col rilevare che, se col termine «tempo» si intende «un
generalissimo sentimento della vita, ossia il modo in cui l’uomo spirituale si
139
sente nella situazione con la quale si vede messo a confronto» , allora non
è difficile ammettere che l’arte plastica, la letteratura e anche la religione
sono in una «stretta connessione col loro tempo»: «esse, a prescindere da
ciò che sono e significano in se stesse, valgono come formazioni nelle quali
lo spirito dei tempi si rispecchia creando la propria espressione»140. Del
resto, proprio questa è la ragione per la quale «arte, letteratura e religione ci
servono come chiavi per la comprensione dell’essenza di tempi diversi dal
nostro, tempi che non abbiamo vissuto in prima persona come un presente
vivente ma che abbiamo interpretativamente ricostruito in base a ciò che
del loro peculiare modo d’essere essi hanno depositato e rivelato nelle loro
opere artistiche, letterarie etc.»141.
Ora, «sarebbe ben strano che un unico modo di produzione dello
spirito umano (...) debba comportarsi diversamente»: sarebbe cioè «ben
strano che solo la scienza si sviluppi senza essere toccata dal proprio tempo
e che questo tempo, con le sue peculiarità, non possa riconoscersi nella sua
scienza»142. E tuttavia nel caso della scienza «sembra aprirsi una contraddi-
zione manifesta e insormontabile che consiste in ciò: da un lato la scienza,
quanto più e quanto meglio corrisponde al proprio ideale formale, quanto
più è “pura” e assoluta, tanto meno conterrà scorie terrene, tanto meno,
cioè, sarà composta da ciò che appartiene soltanto al tempo; ma d’altro lato
essa, quanto più è piena di vita, vicina alla vita e riscaldata dalla vita, quanto
più assorbe e riflette materia vivente, tanto più risulterà vera, giusta e
giovevole nei suoi risultati»143. In altri termini «sembra che la scienza si
comporti come se fosse attratta con la stessa potenza da forze reciproca-

139
Ibidem; tr. it. cit., p. 114.
140
FW, p. 52; tr. it. cit., p. 114.
141
Ibidem.
142
Ibidem; tr. it. cit., p. 115.
143
FW, p. 53; tr. it. cit., p. 115.
ARTHUR SALZ 105

144
mente contrapposte» , oscillando in eterno tra il cielo della pura teoria e le
nourritures terrestres che la vita le offre.
Salz è fermamente convinto che «solo la storia scioglie una simile
contraddizione al pari di altre contraddizioni logiche»145. Non è dunque un
caso che egli dedichi circa un terzo di Fu¨r die Wissenschaft alla disamina
delle relazioni che intercorrono tra la scienza razionale moderna e il tempo
storicamente determinato del quale essa è espressione. Ma prima di scen-
dere del tutto sul piano dell’indagine storiografica, Salz ritiene preliminar-
mente necessario gettare uno sguardo sulla dinamica stessa della vita
storica al fine di penetrarne teoricamente la struttura. Solo in tal modo,
infatti, è possibile mettere adeguatamente in evidenza come il rapporto di
tensione polare che effettivamente sussiste tra l’esperienza vissuta e il sapere
scientifico non sia in realtà essenzialmente differente da quello che connette
l’Erleben e ogni altra forma di espressione e oggettivazione dell’Erleben.
a) «La radice di ogni scienza – afferma in primo luogo Salz – risiede
nell’Erlebnis. Ogni scienza che non viene alimentata da un Erlebnis, da un
intimo scotimento che costituisce il suo impulso originario, è una scienza
nata morta. Soltanto attraverso lo stretto varco di un Erlebnis si accede al
regno del sapere. E si può vivere ed esperire solo ciò che ci è dato, solo ciò
146
che la vita ci arreca» . Il punto di partenza esplicitamente assunto da Salz
è dunque la vita che, in quanto vita cosciente, vita specificamente umana, è
da lui concepita come flusso di Erlebnisse, come esperienza vissuta. Peraltro
ciò che caratterizza nella maniera più originaria tale esperienza vissuta è il
suo essere «un intimo scotimento» [eine innerste Erschu¨tterung], vale a dire il
suo versante patico ed emozionale.
b) «Tuttavia l’Erlebnis non è ancora conoscenza, essere toccato [Ergriffen-
sein] (...) non significa ancora concepire [Begreifen]. Ciò che viene vissuto ed
esperito realmente e profondamente non è per tale motivo già conosciuto
con esattezza»147. Non c’è dubbio che con tale affermazione Salz intenda
riproporre contro Kahler quella distinzione fra «evidenza intuitiva» e «vali-
dità empirica» che, fin dal tormentato saggio su Roscher e Knies, occupa
un posto di fondamentale importanza nelle riflessioni metodologiche di
Max Weber148. Mi sembra però che col termine «conoscenza» Salz finisca

144
Ibidem; tr. it. cit., pp. 115-116.
145
Ibidem; tr it. cit., p. 116.
146
Ibidem.
147
FW, pp. 53-54; tr. it. cit., p. 116.
148
Cfr. M. Weber, Roscher e Knies e i problemi logici della scuola storica dell’economia
(1903-1906), in Id., Saggi sulla dottrina della scienza, tr. it. a cura di A. Roversi, Bari, 1980, pp.
1-141 (in part. la II e la III parte).
106 INTORNO A WEBER

qui per fare riferimento a una dimensione che eccede, almeno tendenzial-
mente, i limiti del sapere scientifico in senso stretto. Egli infatti scrive: «In
rapporto all’Erlebnis, che è unitario e indivisibile ma confuso, la conoscenza
è qualcosa di diverso e di nuovo, direi quasi lo stanco compagno di strada
dell’Erlebnis. Noi siamo costretti a materializzare il nostro Erlebnis interiore,
a esprimerlo in parole, forme e figure, a incarnarlo nella materia per
renderlo comprensibile, a conferirgli dunque un’esistenza separata e svinco-
lata da noi: in questo senso diveniamo creatori e ci assumiamo la fatica del
creare. Ma già facendo ciò rimaniamo attardati rispetto all’immediatezza
149
dell’Erlebnis interiore, anche se, per converso, oltrepassiamo noi stessi» .
«Conoscenza» è dunque ogni forma di espressione linguistica o figurativa
dell’esperienza interiore, e addirittura ogni forma di “materializzazione” (di
oggettivazione) del vissuto soggettivo. Tuttavia, pure intesa in un senso cosı̀
ampio, la conoscenza riesce sempre a superare la dimensione angustamente
solipsistica dell’Erlebnis rendendolo in tal modo comprensibile agli altri ed
anche a se stesso. Nel contempo, però, essa è destinata a rimanere costante-
mente in una posizione di retroguardia rispetto all’immediatezza dell’Erleb-
nis in carne ed ossa150, e a rappresentare quindi «più il necroforo della
passione e il suo canto funebre che la passione stessa»151.
c) Non desta dunque meraviglia che Salz, volendo fornire un esempio
evidente del rapporto di tensione polare che connette e nel contempo
separa la conoscenza e l’Erlebnis, faccia in prima istanza riferimento non già
alla vita scientifica, ma a quella religiosa. «Quest’ultima – egli afferma – si
sente immediatamente consapevole della sua forza e della sua sicurezza, e
tuttavia può sussistere nell’uomo solo nella misura in cui si guadagna il
proprio posto nella realtà e il proprio consolidamento tramite rappresenta-
zioni e concetti. Questo linguaggio figurato rivendica poi la medesima
autorità della vita religiosa, autorità che spetta – a dire il vero – solo
all’Erlebnis che in esso giunge ad espressione. Ma “la contraddizione per cui
siffatto linguaggio esige come dogma e confessione un’autorità assoluta
anche se tale autorità spetta unicamente a ciò che in esso è indissolubil-
mente contenuto, è una contraddizione che non può essere eliminata dal

149
FW, p. 54; tr. it. cit., pp. 116-117.
150
Adoperando un’immagine tratta dalla vita militare, Salz afferma che «la conoscenza si
rapporta all’Erlebnis come le salmerie si rapportano al rispettivo gruppo di combattimento.
Le salmerie sono straordinariamente importanti per la forza d’urto della truppa e debbono
essere tenute rigorosamente in ordine, e tuttavia trottano pur sempre al seguito della truppa:
non sono esse a vincere le battaglie» (ibidem; tr. it. cit., p. 117).
151
FW, p. 64; tr. it. cit., p. 128.
ARTHUR SALZ 107

lavoro dei teologi. Essa potrebbe scomparire soltanto con l’ultimo uomo
152
religioso (Dilthey)”» . La citazione di Dilthey, i cui corsi universitari Salz
ebbe probabilmente modo di seguire quando era studente a Berlino, non
deve e non può passare inosservata. È infatti assolutamente chiaro che
l’impianto stesso della riflessione di Salz risente in maniera determinante
della fase ultima del pensiero di Dilthey nel corso della quale il grande
filosofo renano «appare sempre più convinto che, attraverso la relazione
Erlebnis-Ausdruck-Verstehen, sia possibile un nuovo livello di conciliazione
fra forme e vita, senza che la connessione pencoli ora sul versante della
soggettività dell’esperienza immediata, ora su quello della mera costruzione
(...) concettuale»153.
d) In base a tali premesse Salz ritiene che ogni nuovo Erlebnis conservi
senza dubbio il potere e il diritto di rinnovare ed anche di destabilizzare
tutte le precedenti espressioni ed oggettivazioni dell’esperienza vissuta.
«Tutta la conoscenza precedente, tutto il vecchio “sapere” ringiovanisce
nello splendore di un nuovo Erlebnis, anche le vecchie parole acquistano un
senso nuovo e vitale, e, come se fossero suscitate da un nuovo alito di vita,
sottili e impercettibili sfumature fanno la loro comparsa dietro il velame e la
polvere di ciò che è vecchio e stabilizzato»154. D’altro canto, però, ogni
nuovo Erlebnis sottostà a sua volta all’ineludibile necessità di esprimersi ed
oggettivarsi ed è dunque destinato a ricercare una forma di armonizzazione
con quanto lo ha preceduto. Proprio in questo senso Salz scrive: «Ordi-
nando il nuovo vissuto in connessioni sensate, comprendendolo interpreta-
tivamente e ponendolo in connessione con ciò che abbiamo già vissuto in
precedenza, dandogli diritto di cittadinanza entro la folla complessiva dei
nostri Erlebnisse e nel nostro intero ambito d’esperienza, noi portiamo senso
e ordine all’interno della nostra materia d’Erlebnis cosı̀ come nell’interezza
della nostra vita»155.
e) Ma subito dopo Salz aggiunge: «L’essenza e la peculiarità dello
spirito scientifico, che significa autoconoscenza e autoalienazione, è costi-
tuita dal fatto che noi compiamo questo ordinamento del vissuto non già in
base alla sua significatività per la nostra sola persona, ma in base alla sua

152
FW, p. 54; tr. it. cit., p. 117.
153
G. Cacciatore, Spirito oggettivo e oggettivazione della vita: Dilthey e Hegel, in Id.,
Storicismo problematico e metodo critico, Napoli, 1993, pp. 105-126, p. 116. Anche Troeltsch
sottolinea la vicinanza di Salz alle posizioni di Dilthey (cfr. RiW, p. 675).
154
FW, p. 54; tr. it. cit., p. 117.
155
FW, p. 55; tr. it. cit., p. 118.
108 INTORNO A WEBER

156
significatività “in sé”, vale a dire entro il perimetro del mondo» . Con
quest’ultima affermazione egli vuole mettere in rilievo che, già a questo
punto del discorso, il sapere scientifico inteso in senso stretto non appare
più come un «modo di produzione dello spirito umano» del tutto anomalo
rispetto agli altri. Certo, il sapere scientifico si caratterizza per la radicalità
con la quale persegue il processo di oggettivazione e di universalizzazione
dell’esperienza vissuta condensandola ed irrigidendola nelle sue costruzioni
concettuali, e tuttavia rimane chiaro che un simile processo è già insito, più
o meno larvatamente, anche nelle più semplici forme di espressione dell’Er-
lebnis.
f) D’altronde il processo di oggettivazione e universalizzazione del
vissuto soggettivo che viene portato al massimo sviluppo dal sapere scienti-
fico non è un processo artificialmente indotto che si sovrappone arbitraria-
mente alla natura di tale vissuto, ma costituisce piuttosto l’effettiva realizza-
zione di quanto è già implicito in essa. Infatti, ogni qual volta si prende
attentamente in considerazione l’originario nucleo emotivo di un Erlebnis
personale, è sempre possibile rendersi conto che tale Erlebnis, lungi dall’es-
sere soltanto qualcosa di privato, costituisce anche la particolare risonanza
di un «generale sentimento della vita» dotato d’una valenza sovrapersonale.
In un brano che merita di essere riportato per esteso Salz infatti scrive:
«Sebbene ogni Erleben sia una faccenda soggettiva e personale, tuttavia la
spontaneità e l’arbitrio dei nostri Erlebnisse sono molto più ristretti di
quanto la maggior parte degli uomini sembra presumere. Noi siamo molto
più padroni del “come” che del “che cosa” dell’Erleben. Anzi, finanche
all’interno dei nostri più sottili Erlebnisse, siamo dipendenti da un generale
sentimento della vita o dall’Erlebnis di una vita universale e sovrapersonale.
Si tratta di un sentimento che inafferrabilmente e incomprensibilmente
vibra come un etere interiore entro tutti noi; certo, con più consapevolezza
e più chiarezza in alcuni, come un oscuro presagio e un cieco moto
impulsivo in altri; e tuttavia questo sentimento determina noi tutti e in esso
sono immersi tutti i nostri Erlebnisse. Se muta il generale sentimento della
vita, mutano anche tutti i nostri Erlebnisse e tutte le modalità del nostro
Erlebnis: noi reagiamo in maniera diversa, in un’altra direzione e con un
differente grado di forza. E con ciò muta anche il nostro pensiero che, pur
essendo messo in movimento da un motore soggettivo, tuttavia, oltre ad
essere una “faccenda privata”, possiede sempre nel contempo un elemento
universale, quasi come se fosse il tutto a pensare, quasi come se vi fosse solo

156
Ibidem.
ARTHUR SALZ 109

un pensiero collettivo di cui il pensiero del singolo è soltanto il ripensa-


157
mento e il riflesso» .
g) Tuttavia, dato che non è il tutto a sentire e a pensare ma è solo come
se fosse il tutto a sentire e a pensare, è senz’altro lecito domandarsi quale sia
in realtà la genesi di questo «generale sentimento della vita» che pervade e
accomuna ogni vissuto soggettivo. Poche righe dopo Salz ci dice che tale
sentimento, da cui dipende il pensiero, costituisce a sua volta il «riflesso
interiore» della «situazione del mondo»158. Ma la questione si chiarisce
davvero solo in seguito, e cioè quando Salz, in polemica con Kahler,
sottolinea che ogni scienza – non essendo vita, ma oggettivazione della vita
– non è mai completamente al passo col proprio tempo, bensı̀ è sempre
contrassegnata da «un certo qual correre dietro al tempo»159. Infatti, allo
scopo di esemplificare un simile assunto, Salz si richiama alla nuova e
terribile esperienza dello Stato compiuta dai popoli europei durante la
prima guerra mondiale, un’esperienza nel corso della quale una realtà prima
percepita come lontana e intangibile si è rivelata d’un tratto in tutta la sua
concreta vicinanza al singolo destino di ognuno. Non c’è dubbio – egli dice
– che rispetto ad un Erlebnis di questo tipo l’attuale scienza dello Stato
risulti sostanzialmente inadeguata, e tuttavia ciò non avviene perché tale
scienza è errata fin dalle radici e bisognosa di essere sostituita con una
nuova scienza, bensı̀ perché, quando le esperienze incalzano e tolgono il
respiro, è sempre indispensabile concedere alla scienza il tempo necessario
per assimilarle ed elaborarle. Ma, al di là di tutte queste considerazioni, v’è
un punto che è davvero importante sottolineare, e cioè che per Salz
l’esempio dello Stato non rappresenta affatto un esempio come tutti gli
altri. «L’esempio dello Stato – egli infatti scrive – è davvero perspicuo
perché mediante tale esempio mi è possibile rendere palese ciò che intendo
concretamente con l’espressione un po’ retorica “generale sentimento della
vita”. Questo generale sentimento della vita è una determinatezza interiore
e spirituale che ci è propria, è più ciò che patiamo che ciò che facciamo. È la
temperatura interiore alla quale siamo sottoposti. E non c’è nulla che
condiziona questa temperatura interiore tanto quanto i rapporti sociali alla
cui pressione siamo esposti e che viviamo ed esperiamo come qualcosa di
ineluttabile. Il termine “Stato” è solo l’espressione che raccoglie gli aspetti
maggiormente visibili e tangibili dei rapporti sociali ai quali, comunque ci

157
Ibidem.
158
FW, p. 56; tr. it. cit., p. 119.
159
Ibidem.
110 INTORNO A WEBER

comportiamo, rimaniamo in ogni caso vincolati con la nostra esistenza


160
interna ed esterna» .
Sono dunque i rapporti sociali considerati nel loro insieme che defini-
scono, determinano e modificano quella «situazione del mondo» della quale
il generale sentimento della vita di un’epoca – che vibra in ogni singolo
vissuto soggettivo degli uomini che ad essa appartengono – non è che il
«riflesso interiore»: in questo senso «il nostro generalissimo sentimento
della vita è indissolubilmente connesso allo “Stato” inteso come la totalità
delle condizioni della nostra esistenza collettiva»161. Ma allora la tendenza
dell’Erlebnis ad oggettivarsi in formazioni di carattere universale (quella
tendenza che si manifesta già nel linguaggio, nell’arte e nella religione, ma
che giunge alla sua massima espressione nel sapere scientifico) è fin dal
principio inscritta in un ancora più originario radicamento intersoggettivo
dell’Erlebnis, nella natura intimamente relazionale dell’uomo. Nel con-
tempo, ogni reale mutamento del tessuto di relazioni sociali in cui il singolo
è inserito è destinato a riflettersi sul generale sentimento della vita in cui
«sono immersi tutti i nostri Erlebnisse» e dunque a rendere davvero necessa-
rie nuove e diverse oggettivazioni culturali dell’esperienza vissuta.
Con ciò siamo giunti al cuore della riflessione di Salz. Lo testimonia il
fatto che i due nuclei principali attorno ai quali si articola la sua polemica
con Kahler – ossia da un lato il problema del rapporto tra la scienza e la
società e dall’altro quello del rapporto tra la scienza e la vita in quanto vita
specificamente umana – si fondono ora l’uno con l’altro in maniera assolu-
tamente inestricabile. «Lo Stato vigente – Salz infatti scrive – inteso nel
senso più ampio del termine, inteso cioè come ricapitolazione di tutti i
rapporti sociali e come simbolo della loro potenza, determina a grandi linee
la nostra forma di esistenza, e oggi, come vediamo, la determina anche nei
dettagli. Cosı̀ facendo esso determina anche il nostro generalissimo senti-
mento della vita il quale determina a sua volta il nostro pensiero. (...) a ogni
mutamento radicale delle condizioni della nostra vita sociale fa seguito un
mutamento corrispondente nell’ambito del pensiero scientifico, ovverosia
viene partorita – per esprimerci in maniera moderna e alla moda – una
nuova “visione” scientifica»162. Sono convinto che sia difficile sopravvalutare
l’influenza esercitata su queste posizioni di Salz dalle indagini sociologiche
di Alfred Weber con il quale l’autore di Fu¨r die Wissenschaft (che era di

160
FW, pp. 57-58; tr. it. cit., p. 121.
161
FW, p. 58; tr. it. cit., p. 122.
162
Ibidem; tr. it. cit., p. 121 (il corsivo è mio).
ARTHUR SALZ 111

tredici anni più giovane) strinse a Heidelberg un intenso sodalizio umano e


intellettuale: basti pensare che già nel saggio Der soziologische Kulturbegriff –
nato come relazione inaugurale al secondo convegno della «Società tedesca
di sociologia» svoltosi nell’ottobre del 1912 – il fratello minore di Max
Weber poneva esplicitamente al centro della propria riflessione la nozione
di Lebensgefu¨hl ed affermava che tale sentimento della vita, mutando col
mutare delle singole aggregazioni storico-sociologiche, produce nella sfera
163
della cultura compiti sempre nuovi . Mi sembra però che, accanto al nome
di Alfred Weber, c’è almeno un altro nome che deve essere necessaria-
mente richiamato, ed è ancora quello di Dilthey, in particolare dell’ultimo
Dilthey le cui opere danno «ampio spazio ai concetti di intersoggettività e
di comunanza come forze attive e creative di storia» e tentano «una
rilettura dell’esperienza della vita in termini di totalità produttiva della
prassi umana»164.
h) A questo punto la circostanza che in Fu¨r die Wissenschaft Salz abbia
sempre fatto ricorso a metafore politiche per determinare il modo d’essere
della scienza razionale moderna (ma anche quello della «nuova scienza» dei
suoi avversari) non risulta più il frutto di una scelta arbitraria: «poiché lo
Stato e la scienza si trovano in questa stretta relazione reciproca, nel corso
di queste considerazioni mi sono sempre servito consapevolmente e inten-
zionalmente della terminologia politica, del linguaggio dello Stato, per chia-
rire l’essenza della scienza»165. Si comprende anche meglio in che cosa
consista per Salz il carattere di «illusione romantica» della nuova scienza, la
quale – del tutto incurante del tessuto di rapporti sociali che fondano e
determinano l’Erlebnis che essa vorrebbe portare a espressione – pretende
di porsi «al di fuori dello Stato»166: infatti, se da un lato «ogni scienza, ogni

163
Cfr. anche supra, nota 62 e nota 108. Per una presentazione complessiva dell’opera di
Alfred Weber e delle varie fasi del suo pensiero si veda L. Allodi, Alfred Weber. Una
introduzione, Roma, 1991 (al quale rimando per ulteriori informazioni bibliografiche). Cfr.
anche H. G. Nutzinger (a cura di), Zwischen Nationalo¨konomie und Universalgeschichte: Alfred
Weber Entwurf einer umfassenden Sozialwissenschaft in heutiger Sicht, Marburg, 1995.
164
G. Cacciatore, Scienza e filosofia in Dilthey, 2 voll., Napoli, 1976, vol. II, p. 228. Si pensi
ad esempio al celebre saggio Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften,
edito nel 1910 nelle «Abhandlungen» dell’Accademia Prussiana delle Scienze (tr. it. W.
Dilthey, La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in Id., Critica della ragione
storica, cit., pp. 143-289).
165
FW, p. 59; tr. it. cit., p. 122. Del resto Salz nota che lo Stato ha prestato fin dall’inizio il
suo consolidato linguaggio alla scienza moderna consentendole cosı̀ di portare ad espres-
sione «un nuovo genere di Erlebnis della natura» (ibidem): basti pensare, in questo senso, al
ruolo centrale che il termine “legge” ha assunto in ambito scientifico.
166
FW, p. 58; tr. it. cit., p. 121.
112 INTORNO A WEBER

sapere circa il mondo esige che ci si abbandoni a questo mondo in cui si è


posti, che lo si faccia penetrare in se stessi, che gli si dica di sı̀ e si trovi nel
proprio intimo il coraggio di occuparsi di esso senza piagnistei e senza
l’angoscia di perdere se stessi»167, dall’altro è proprio lo “Stato” (ossia la
«totalità delle condizioni della nostra esistenza collettiva») ciò che identifica
la concreta situazione del mondo che sta alla base del nostro sentire e del
nostro pensare. D’altronde «l’omogeneità che sussiste fra lo Stato o il
sentimento della vita di un tempo e la scienza di quel tempo è comprovata
nella maniera più chiara dalla tendenza della “nuova” scienza a organizzarsi
ancor prima di nascere in una nuova comunità, in una nuova politeia, in un
nuovo ceto, allo stesso modo in cui anche altre dottrine esoteriche si
chiudono in uno Stato o in una chiesa comportandosi come Stato in uno
168
Stato e contrapponendo potenza a potenza» .

5. In perfetta coerenza con la propria impostazione teorica, nell’ultima


parte di Fu¨r die Wissenschaft Salz avverte l’esigenza di scendere «intera-
mente sul terreno dell’esperienza storica»169 al fine di delineare più da vicino
quell’Erlebnis epocale – già definito in precedenza come «Erlebnis di re-
sponsabilità»170 – che sta al fondo del peculiare modo d’essere della scienza
razionale moderna, ossia della scienza ancora oggi dominante. Si tratta, in
altri termini, «di precisare (...) il sentimento della vita che si oggettiva in
questa scienza e attraverso il quale essa si è costruita come una formazione
unitaria quanto al suo contenuto interiore, alla sua direzione di ricerca e al
suo metodo»171. Ma questo vuol dire «fare ritorno (...) a quel tempo in cui la
vecchia scienza era ancora giovane e “incorrotta”, in cui essa, proprio essa,
era la nuova scienza», e cioè «all’età del rinascimento», giacché «il senti-
mento della vita del rinascimento è (...) il nucleo cellulare dal quale e
intorno al quale tale scienza si è sviluppata»172.
Nell’accingersi a delineare questo sentimento della vita, Salz dichiara
subito di limitarsi a «ripetere ciò che è già stato detto più volte e in maniera
173
migliore» . Ed infatti egli si rifà da un lato a Burckhardt e dall’altro alle

167
FW, p. 59; tr. it. cit., p. 122.
168
Ibidem; tr. it. cit., pp. 122-123.
169
FW, p. 60; tr. it. cit., p. 124.
170
Cfr. supra, nota 110.
171
FW, p. 61; tr. it. cit., p. 125.
172
Ibidem.
173
Ibidem. A differenza dei propri avversari (e cioè a differenza di Kahler, ma anche di
Spengler) Salz non ha affatto la tendenza a «spacciare temi all’ordine del giorno per carmina
non prius audita» (D. Conte, Introduzione a Spengler, cit., p. 22).
ARTHUR SALZ 113

profonde innovazioni e ai grandi ampliamenti impressi alla cosiddetta


174
tradizione burckhardtiana a partire dalle indagini di Dilthey . Cosı̀ Salz
definisce «l’Erlebnis del rinascimento» come «l’Erlebnis della liberazione»,
anzi come «il sentimento di libertà stesso» grazie al quale l’individuo
umano, svincolatosi dalle proprie «catene spirituali», «si spinge fino alla
consapevolezza di sé (...) e di tutte le sue forze»175 e procede «a creare e
conquistare nuovamente il mondo» muovendo «dalla sovrana pienezza
della sua potenza»176. Nel contempo, però, egli sottolinea come non sia
affatto casuale che «questo generale sentimento della vita – che è una
rinascita dell’antico spirito pagano più che di quello cristiano (...) – abbia
origine presso le repubbliche italiane, le quali, essendo divenute benestanti
grazie al commercio e all’industria, sviluppano nel corso del loro movi-
mento vitale e della loro lotta incessante con i poteri tradizionali e domi-
nanti una viva coscienza nazionale, un sentimento del proprio valore, della
propria libertà e del proprio potere»177. Inoltre Salz pone l’accento sul fatto
che «l’ebbrezza vitale» del rinascimento non «si scarica» soltanto «in opere
artistiche» e «in azioni piene di forza», ma anche «in opere scientifiche» e
«in una nuova visione del tutto vivente»178. «Dalla pittura all’anatomia, dal
dramma alla filosofia morale, dalle grandi rivelazioni poetiche alle grandi
vedute scientifiche domina lo stesso spirito. L’artista e lo studioso partono
dalla stessa idea: quella secondo cui la natura sussiste di per sé e mediante
se stessa, secondo cui ogni essere reca al suo interno le radici delle sue
azioni, secondo cui le cause degli eventi sono le leggi congenite nelle
cose»179. Naturalmente ciò appare davvero perspicuo solo a patto che, fatte
salve le origini italiane del rinascimento, i suoi confini cronologici e
geografici vengano ampliati a sufficienza: «Ad ognuna delle grandi nazioni
europee – Salz infatti scrive – fu data un bel giorno in sorte un’età del
rinascimento nel campo dell’arte, della religione, della scienza, dello Stato
(...): basta che col termine “rinascimento” non si intenda solo un determi-
nato intervallo temporale, ma lo spirito e il sentimento di un intero secolo.

174
A tale proposito mi limito qui a rimandare al denso saggio di G. Cacciatore, Dilthey e
il Rinascimento, in Id., Vita e forme della scienza storica, Napoli, 1985, pp. 55-139. Cfr. anche
Id., Dilthey e Cassirer interpreti del Rinascimento, in «Rinascimento», seconda serie, XXXVII
(1997), pp. 45-63.
175
FW, p. 61; tr. it. cit., p. 125.
176
FW, p. 62; tr. it. cit., p. 126.
177
FW, p. 63; tr. it. cit., p. 127.
178
FW, p. 62; tr. it. cit., p. 126.
179
FW, p. 63; tr. it. cit., p. 127.
114 INTORNO A WEBER

In ognuna delle grandi nazioni europee l’Erlebnis del rinascimento si è


impresso in maniera diversa a seconda delle sue inclinazioni peculiari e
originarie (...) e però in tutte loro tale Erlebnis si è impresso come uno stato
180
d’animo analogo» . Solo in questa luce acquista pieno spessore storico la
giusta intuizione burckhardtiana del rinascimento come «mirabile mo-
mento di fioritura dello spirito umano di cui ancora oggi viviamo»181, come
originale Neuscho¨pfung da cui «sorge in modo pieno e totale l’uomo
moderno»182.
In Fu¨r die Wissenschaft Salz ripropone con forza siffatta concezione del
rinascimento, e lo fa anzitutto in contrapposizione a Kahler il quale
considera l’umanità ellenica come l’ultimo «momento di fioritura dello
spirito umano» e dunque non tematizza in maniera adeguata il luogo di
genesi del mondo moderno e della sua scienza precludendosi cosı̀ la
possibilità di comprendere la peculiare natura dell’uno e dell’altra. Ciò
nonostante Salz è ben lontano da ogni unilaterale esaltazione del senti-
mento di libertà e di liberazione che domina il rinascimento. Infatti,
rimeditando a fondo la lezione di Weber, egli è consapevole del tremendo
carico di responsabilità insito «in questo disincantamento del mondo attra-
verso l’individuo divenuto sovrano» che contiene già «tutti i germi da cui si
sono sviluppate la civiltà moderna e la moderna civilizzazione»183. Non a
caso il felice destino dell’uomo rinascimentale consiste secondo Salz nel
fatto che egli «non avverte ancora che questa autoliberazione, questo trarsi
fuori dai vecchi ordinamenti e questo abbandono della comunità tradizio-
nale e delle condizioni di vita tradizionali lo spingeranno verso una nuova
ed eroica solitudine»184. In altri termini, l’uomo rinascimentale «non può
ancora abbracciare con lo sguardo ciò che significherà per lui il disincanta-
mento del mondo, allorquando al posto dei demoni e dei santi subentrerà il
freddo e inesorabile demone della ragione che non è possibile muovere a
pietà con una prece»185.
L’Erlebnis del rinascimento – quel «sentimento di libertà» che è il
«riflesso interiore» dei nuovi assetti sociali, economici e politici instauratisi

180
FW, pp. 64-65; tr. it. cit., pp. 128-129.
181
FW, p. 64; tr. it. cit., p. 128.
182
W. Dilthey, Die Kultur der Renaissance in Italien, ein Versuch von Jacob Burckhardt
(1862), in Id., Gesammelte Schriften, vol. XI, terza edizione, Stuttgart – Göttingen, 1965, pp.
70-76, p. 73.
183
FW, p. 63; tr. it. cit., p. 127.
184
FW, p. 62; tr. it. cit., p. 126.
185
Ibidem.
ARTHUR SALZ 115

in Italia e in Europa – si oggettiva, secondo Salz, dapprima in una nuova


arte e poi in una nuova scienza, e cioè nella scienza moderna, la quale «fa la
sua comparsa quando l’arte diventa stanca e si infiacchisce»186. «La nuova
storiografia, la nuova dottrina dello Stato, la nuova scienza della natura etc.
nascono in un nuovo Stato, in una nuova società, entro forme economiche
mutate, e in relazione a un orizzonte che si è enormemente allargato non
solo interiormente e cronologicamente a causa dell’estensione verso il
passato, ma anche esteriormente e spazialmente a causa dei continenti
recentemente scoperti»187. Certo, anche ai suoi albori la scienza moderna, al
pari di ogni altra forma di sapere scientifico, «non è più l’Erlebnis di
ebbrezza in carne ed ossa, quanto piuttosto il suo smorzarsi e il suo
spegnersi»188. Ma, al di là di ciò, «questa scienza serena e audace»189 è ben
lungi dal presentare quei caratteri di astrattezza e di lontananza dalla vita
che Kahler erroneamente le attribuisce. Al contrario la scienza moderna ai
suoi albori è una scienza «poetica e visionaria»190 che «si getta su tutte le
cose mossa da un vero ardore di comprenderle in modo empatico e
partecipe»: come tale, essa è animata da «una passionalità a stento conte-
nuta» ed è vivificata da un «impulso formativo» paragonabile soltanto a
quello che riluce nelle coeve opere di un Michelangelo o di uno Shakespea-
re191. Peraltro tale impulso formativo «è una volontà di potenza assoluta-
mente terrena e umana. Nella scienza non si indaga più Dio e il miracolo
delle sue opere ma si cerca la liberazione dell’uomo: l’uomo e il suo ambito
192
di potenza che si estende all’infinito vengono sacralizzati» .

186
FW, p. 63; tr. it. cit., p. 127. Sulla scorta di Dilthey, Salz ritiene che il sentimento della
vita di una nuova epoca trovi tipicamente la sua più immediata espressione nell’ambito
dell’arte. A tale proposito cfr. W. Dilthey, Die Funktion der Anthropologie in der Kultur des 16.
und 17. Jahrhunderts (1904), in Id., Gesammelte Schriften, vol. II, settima edizione, Stuttgart –
Göttingen, 1964, pp. 416-492, p. 437 (tr. it. La funzione dell’antropologia nella cultura dei secoli
decimosesto e decimosettimo, in Id., L’analisi dell’uomo e l’intuizione della natura. Dal Rinascimento
al secolo XVIII, 2 voll., a cura di G. Sanna, Firenze, 1974, vol. II, pp. 210-302, p. 237):
«Ogniqualvolta una civiltà muore e ne deve sorgere una nuova, il mondo di concetti ch’era
nato dall’antica si intristisce e si dissolve. L’esperienza della vita, quale è stata condizionata
dai mutamenti sociali e dai progressi scientifici, per un certo tempo si emancipa, per cosı̀
dire, dai ceppi del pensiero concettuale e diventa di per se stessa una forza operante sugli
animi. Da ciò segue poi un apprezzamento affatto nuovo dell’arte e della poesia come
espressione immediata di ciò da cui è mossa l’età».
187
FW, p. 63; tr. it. cit., p. 127.
188
Ibidem.
189
FW, p. 64; tr. it. cit., p. 128.
190
FW, p. 63; tr. it. cit., p. 127.
191
FW, p. 64; tr. it. cit., p. 128.
192
Ibidem.
116 INTORNO A WEBER

Sulla base di queste premesse non meraviglia affatto che Salz individui
nella figura e nell’opera di Francesco Bacone il più evidente esempio del
193
«sentimento della vita faustiano proprio della scienza rinascimentale» . Nel
presentare il filosofo inglese come il maggiore esponente di una stagione
davvero rivoluzionaria del pensiero scientifico, Salz sottolinea con forza e
con dovizia di citazioni la sua esigenza di fondare una scienza assoluta-
mente nuova sia quanto ai propri fini che quanto ai propri metodi. Per
Bacone – Salz infatti scrive – il vero ma sempre misconosciuto scopo della
scienza è «il benessere terreno del genere umano»: il sapere non deve
dunque essere verboso e sterile come quello degli antichi, ma deve invece
produrre frutti, e cioè «verità utili»194 a «lenire la miseria e l’angustia di un
genere umano che versa nel bisogno» e ad «ampliare da ogni lato i limiti
del potere umano»195. Ma tale fine può essere perseguito solo mediante un
nuovo metodo, e cioè mediante il metodo sperimentale che, mettendo in
mora la tradizionale concezione esoterica del sapere come prerogativa
esclusiva di individualità eccezionali, mira a garantire «l’assoluta sicurezza
della conoscenza e la raggiungibilità della verità da parte di tutti gli uomi-
ni»196: «Cosı̀ come un compasso o una riga – il paragone è di Bacone –
rendono egualmente abile ogni mano e mettono in grado la persona meno
dotata di tutte di tracciare una circonferenza più esatta o una linea più
dritta di quanto sarebbe possibile anche al migliore dei disegnatori senza
l’aiuto di questi strumenti, allo stesso modo il metodo baconiano giusta-
mente applicato promette ad ognuno una eguale misura di verità e di
sicurezza»197. Tuttavia, anche se la nuova scienza di Bacone è indubbia-
mente caratterizzata da questa «tendenza antigerarchica e livellante, bor-
ghese ed artigianale a rendere superfluo il genio»198, essa partecipa piena-
mente all’appassionato impulso formativo che anima ogni espressione del
Lebensgefu¨hl rinascimentale, e dunque, a differenza della scienza moderna
nella sua configurazione «classica»199, adopera un «procedimento dimostra-
tivo» che «non è propriamente razionalizzante» nella misura in cui si avvale

193
FW, p. 65; tr. it. cit., p. 129.
194
Ibidem.
195
FW, p. 66; tr. it. cit., p. 130. A tale concezione eminentemente pratica del sapere
scientifico Salz connette anche l’intensa partecipazione di Bacone alla vita politica del
proprio paese.
196
Ibidem.
197
FW, p. 67; tr. it. cit., p. 131.
198
FW, p. 66; tr. it. cit., p. 130.
199
Cfr. FW, p. 70; tr. it. cit., p. 135.
ARTHUR SALZ 117

200
di continuo degli apporti dell’intuizione e dell’immaginazione . «Perciò,
quando Kahler ci vuole far credere che nella “vecchia” scienza nata nel
rinascimento la visione o l’intuizione non hanno alcun diritto di cittadi-
nanza (...) giacché essa tollera solo il foraggio secco della ragione astratta,
su questo punto (...) egli viene confutato dalla storia della scienza»201. Ma, a
ben vedere, la polemica nei confronti di Kahler percorre per intero le
pagine di Fu¨r die Wissenschaft che Salz dedica a Bacone nell’intento di
mostrare «quale sia l’aspetto reale di un vero rivoluzionario delle scienze»202.
È infatti contro Kahler e contro la sua riduzione della scienza moderna ad
un momento di transizione del lunghissimo percorso che conduce dall’an-
tica sapienza ellenica alla neue Wissenschaft prossima ventura, che Salz si
richiama a Bacone sottolineando come quest’ultimo sia fermamente con-
vinto che la sua scienza – significativamente intesa come il partus masculus
del proprio tempo – rappresenti un nuovo inizio nell’ambito del sapere e
nel contempo un formidabile strumento mediante il quale il genere umano
potrà finalmente instaurare il regnum hominis sulla terra. Ed è ancora contro
Kahler, e contro la sua concezione premoderna, esoterica e aristocratica del
sapere, che Salz si richiama: da un lato al «modello baconiano dello
scienziato» che (come afferma Klaus Heinrich) «non è l’iniziato contrappo-
sto alla moltitudine priva di sapere né il saggio contrapposto agli stolti, ma
un pioniere che si batte in nome della comunità»; e dall’altro alla conce-
zione baconiana della scientia, interpretata come la prima chiara espressione
del «principio fondamentale dell’Illuminismo europeo» nella quale «è già
prefigurata la battaglia di Hegel contro la scienza come “possesso esoterico
di alcuni singoli” e in favore della “forma intelligibile della scienza” come
“via aperta a tutti e resa uguale per tutti”»203.

200
FW, p. 67; tr. it. cit., p. 131. Salz afferma che il ruolo conferito da Bacone alla
componente «visiva» del conoscere trova la sua più evidente espressione nel titolo di una
delle sue opere: Cogitata et visa.
201
Ibidem; tr. it. cit., pp. 131-132. Secondo Salz, anche prendendo in esame l’intero corso
storico della scienza moderna e non solo i suoi albori, è possibile avvedersi che l’elemento
intuitivo non riveste affatto il ruolo sempre più marginale che Kahler gli assegna, bensı̀ torna
periodicamente a fungere da contraltare alla ragione astratta. Ciò risulta particolarmente
evidente se si guarda alla storia della cultura scientifica e filosofica tedesca considerandola
sia in se stessa, sia alla luce dei giudizi espressi su di essa da autorevoli osservatori stranieri
(come ad es. Taine o Carlyle). A tale proposito cfr. FW, pp. 81-87; tr. it. cit., pp. 146-153.
202
FW, p. 68; tr. it. cit., p. 132.
203
K. Heinrich, L’interpretazione del mito in Francis Bacon, in Id., Parmenide e Giona.
Quattro studi sul rapporto tra filosofia e mitologia (1964), a cura di M. De Carolis, Napoli, 1988,
pp. 41-69, p. 63. I passi di Hegel citati da Heinrich sono tratti dalla prefazione della Pha¨no-
menologie des Geistes.
118 INTORNO A WEBER

Va detto però che, nel tentativo di esemplificare concretamente le


caratteristiche proprie della scienza moderna ai suoi albori (ossia della
scienza rinascimentale), Salz non si richiama solo a Bacone, ma anche a
Jean Bodin, il quale rappresenta «per la storia e per la dottrina filosofica
dello Stato» ciò che «Bacone rappresenta per la scienza in generale»204.
Questa scelta non è priva di legami con la prospettiva teorica ultima di
Salz, giacché, a differenza di Bacone, Bodin «è equo nei confronti del
passato» e rivela una «profonda capacità di penetrare nelle condizioni
concrete dell’Erleben dei popoli, una capacità che rimarrà ineguagliata fino
a Montesquieu»205. Salz sottolinea anche che, «fin dal momento in cui la
scienza della nuova Europa cominciò a costituirsi», i popoli germanici,
dando vita alla Riforma, cominciarono a declinare a loro modo l’Erlebnis
rinascimentale dell’autonomo valore e dell’autonoma forza dell’individualità
umana: infatti, a differenza della «filosofia inglese», lo «spirito tedesco» non
assunse come proprio fine «un incremento orientato soltanto in direzione
dell’elemento terreno e pratico», ma si volse piuttosto a promuovere una
progressiva moralizzazione del mondo e della vita206.
Certo, Salz sa bene che, quando la scienza moderna giunge alla sua
piena maturità (e cioè nel Seicento e nel Settecento), il sentimento della
vita proprio del rinascimento ha ormai subito una profonda metamorfosi.
«Lo spirito costruttivo e formativo – egli infatti scrive – diviene del tutto
lucido e si ritira dall’improvvisa ebbrezza vitale entro l’argine di protezione
della ragione come se si ritirasse in una torre blindata (...). Ai veggenti, ai
creatori, ai plasmatori, agli spiriti onnicomprensivi e appassionati che
afferrano gli oggetti in blocco e in massa e muovono all’attacco della vita
come cavalieri, fanno seguito spiriti metodici e più cauti che sono abituati a
ponderare accuratamente le cose, fanno seguito gli ordinatori dello spirito
(...) che dispongono le idee – o piuttosto i concetti – in fila come dei soldati
e che conducono sistematicamente e impercettibilmente l’ascoltatore dal
semplice al complesso. Descartes assume la guida dell’epoca al posto di
Bacone. È questa l’ora natale del moderno razionalismo europeo che è
ancor oggi operante nella nostra scienza e che in essa si è innalzato il
proprio monumento (...). La concezione poetica della natura e dell’essenza
del mondo si trasforma in una concezione meccanicistica. La scienza
207
diviene “classica”» . L’intelletto pensante, la raison raisonnante che «consi-

204
FW, p. 69; tr. it. cit., p. 134.
205
FW, pp. 69-70; tr. it. cit., p. 134.
206
FW, p. 69; tr. it. cit., pp. 133.
207
FW, p. 70; tr. it. cit., pp. 134-135.
ARTHUR SALZ 119

dera la connessione dei concetti come una sorta di etichetta di corte dello
spirito»208, acquista dunque l’assoluto predominio sulla componente “visiva”
del conoscere. Perfino le passioni vengono scomposte nei loro elementi e
trattate more geometrico, mentre le parole, che prima erano «calde di vita»,
ora «divengono esatte, divengono eguali ai numeri e, come i numeri, si
ordinano in serie e in calcoli che sono connessi tra loro mediante l’anali-
si»209.
Sulle prime, lo iato che si apre fra il Lebensgefu¨hl del rinascimento e
quello dell’«età classica del razionalismo»210 – e perciò anche tra gli albori
della scienza moderna e la sua piena maturità – sembra corroborare le tesi
di Kahler. «In base al sentimento della vita del rinascimento l’uomo viveva
nelle cose e con le cose, dominandole nel contempo come il loro sovrano
signore e plasmatore (...). Invece ora, con la sua ragione, egli vive quasi
contro le cose o comunque di fronte ad esse (...). Trovandosi sempre in una
situazione di opposizione armata nei confronti delle cose (...) l’uomo erige
tra sé e il mondo esterno e oggettivo un muro divisorio ed, erompendo dal
suo baluardo, mira a far sı̀ che questo mondo ribelle divenga docile e
servizievole nei suoi confronti. Posto a paragone con il sentimento della
vita rinascimentale, questo sentimento della vita (...) significa rassegnazio-
ne»211: quella stessa rassegnazione che, secondo Kahler, Weber è costretto a
confessare apertamente quando tira le somme della parabola storica trac-
ciata dalla scienza razionale moderna. Ma per Salz l’età del razionalismo,
pur sperimentando dolorosamente i limiti del rinascimento e del suo
slancio vitale, non è affatto – in quanto tale – un’età dominata da un cupo
sentimento di rassegnazione. «Tramite l’assoluto dominio della ragione
l’uomo crede anzi di rafforzare la sua generale posizione nei confronti della
vita; tramite la limitazione e il restringimento della sua base d’Erleben egli
crede di ampliare la sua base operativa e di fissare in maniera definitiva il suo
punto d’osservazione»212. Questo fatto è assolutamente evidente in Descar-
tes secondo il quale l’uomo può ottenere in tutti i campi il massimo
guadagno dalla ragione se acquisisce la capacità di adoperarla in maniera
ordinata e secondo ben precise regole metodiche.

208
FW, p. 72; tr. it. cit., p. 136.
209
FW, p. 71; tr. it. cit., p. 135. Cfr. anche FW, p. 73; tr. it. cit., p. 138: «Il disincantamento
del mondo, privo dell’inebriato sentimento della vita del rinascimento, conduce a una
cristallizzazione del pensiero e del linguaggio in cui la vita rimane irrigidita come in un
arabesco di ghiaccio».
210
FW, p. 72; tr. it. cit., p. 136.
211
FW, p. 71; tr. it. cit., pp. 135-136.
212
Ibidem; tr. it. cit., p. 136.
120 INTORNO A WEBER

D’altronde «l’età del razionalismo», che culmina nella rivoluzione fran-


cese, non è solo l’età in cui «il pensiero impara a conoscere se stesso» e in
cui «si consolida l’immagine di quella che davvero e a buon diritto può
213
essere denominata scienza» ; non è solo l’età nella quale la scienza,
appellandosi all’«intelletto pensante» inteso come «una forza naturale e
originaria comune a tutti gli uomini», consegue davvero (come auspicava
Bacone) «un pubblico nuovo e più vasto»214; non è solo l’età che ha
elaborato concetti oggi insostenibili, ma dotati di un tale «valore euristico»
che senza di essi «noi non avremmo né una moderna scienza della natura
né una moderna scienza storica»215; ma è anche l’età in cui «le grandi
potenze europee, amministrando e riunendo ordinatamente le loro forze,
hanno gettato le basi del loro dominio mondiale»216. E ciò è dovuto da un
lato al progressivo prevalere nel vecchio continente dell’«“organizzazione”
razionale» del diritto, dello Stato e dell’economia (i processi di burocratiz-
zazione, il trionfo del mercantilismo etc. )217, dall’altro a un pensiero e a un
linguaggio «maggiormente capaci di astrazione» e dunque maggiormente
adatti a operare una mediazione fra le «diverse sfere di civiltà dei popoli
europei», le quali, «venendo fuori dal loro isolamento, prosperano in uno
scambio di idee e non solo di idee e sembrano dare avvio a una civiltà
sovranazionale e non più fondata sulla chiesa e sulla religione, ad una
civiltà universale, profana ed europea»218.
Ma con ciò siamo giunti a un altro punto di forte attrito con Kahler,
secondo il quale «il procedimento dell’astrazione»219 che caratterizza il
razionalismo e la sua scienza è l’inconfondibile contrassegno di un sapere
che si avvia a smarrire del tutto il proprio radicamento in una vivente
formazione organica220. Per Salz invece – che riprende esplicitamente le tesi

213
FW, p. 73; tr. it. cit., p. 138.
214
Ibidem; tr. it. cit., p. 137.
215
FW, pp. 78-79; tr. it. cit., pp. 143-144. Salz ritiene infatti che anche le «scienze della
cultura» hanno tratto inestimabili benefici dagli sforzi compiuti nel Seicento e nel Settecento
per sottoporre ad un’analisi razionale il mondo storico-sociale. Ad esempio «il “progresso” è
certamente un concetto razionalistico non molto utilizzabile, ma, senza essere passati
attraverso il razionalismo, non saremmo probabilmente giunti né all’idea di sviluppo e ai
risultati di ricerca che sono stati promossi da questa idea, né alla giusta rappresentazione (...)
di ciò che sono le forze motrici che operano nell’Erleben dei popoli e nella storia» (FW, p.
78; tr. it. cit., p. 144).
216
FW, p. 73; tr. it. cit., pp. 137-138.
217
FW, p. 72; tr. it. cit., p. 137.
218
FW, p. 73; tr. it. cit., p. 138 (il corsivo è mio).
219
FW, p. 76; tr. it. cit., p. 141.
220
Cfr. supra, cap. II, nota 41.
ARTHUR SALZ 121

221
storiografiche di Dilthey sulla scienza e sulla cultura del Seicento –
proprio l’importanza attribuita dal razionalismo ai procedimenti di astra-
zione testimonia in maniera inconfutabile la sua «strettissima e fatidica
contiguità alla vita»222. Mediante l’astrazione, infatti, il razionalismo e la sua
scienza tentano più o meno consapevolmente di fornire una risposta ai
profondi bisogni vitali della società europea di cui sono espressione, che
sono anzitutto bisogni di unità e di pace.
Ciò in quanto «il dissolvimento del sistema teologico-metafisico medie-
vale»223 e la valorizzazione rinascimentale della «personalità singola e in sé
224
conchiusa» , dopo avere acceso molte speranze, avevano creato in Europa
un’obiettiva tendenza al frazionamento e al conflitto. Anche «il movimento
della Riforma, ossia il più grande Erlebnis religioso della modernità, non era
riuscito a soddisfare, né nell’Europa intera né nei singoli paesi, quel bisogno
di unità che percorreva gli spiriti di allora. La Riforma non era riuscita a
creare una sola confessione e una sola chiesa»225 e l’Europa era precipitata
nel baratro delle guerre di religione. Solo sullo sfondo di questa situazione
può essere rettamente interpretato e giustamente compreso l’intento del
razionalismo di enucleare «massime di valore universale per la conduzione
della vita e per la direzione della società»226 e di attribuire a tali massime sia
un significato descrittivo che una funzione normativa: nasce cosı̀ quel
«sistema naturale delle scienze dello spirito» di cui parla Dilthey che
procede parallelamente con l’altra grande manifestazione intellettuale del
secolo, ossia con la fondazione della moderna scienza della natura, e che
(recuperando alcune idee portanti dello stoicismo romano) si concreta
anzitutto nella fondazione di un diritto naturale e di una teologia naturale.
Anzi Salz, facendo propria l’interpretazione diltheyana di Erasmo come
antesignano del razionalismo teologico e del teismo universalistico227, so-

221
Cfr. in part. W. Dilthey, Das natu¨rliche System der Geisteswissenschaften im 17. Jahrhun-
dert (1892-1893), in Id., Gesammelte Schriften, vol. II, cit., pp. 90-245 (tr. it. Il sistema naturale
delle scienze dello spirito nel secolo decimosettimo, in Id., L’analisi dell’uomo e l’intuizione della
natura, cit., vol. I, pp. 117-311). In Fu¨r die Wissenschaft Salz riporta ampi stralci di questo
saggio diltheyano.
222
FW, p. 74; tr. it. cit., p. 138.
223
FW, p. 75; tr. it. cit., p. 140.
224
FW, p. 76; tr. it. cit., p. 141.
225
FW, p. 75; tr. it. cit., p. 140.
226
W. Dilthey, Das natu¨rliche System der Geisteswissenschaften im 17. Jahrhundert, cit., p. 90;
tr. it. cit., p. 117 (il passo di Dilthey è citato in FW, p. 74; tr. it. cit., p. 139).
227
Sui limiti, ma anche sui meriti, di questa interpretazione cfr. E.-W. Kohls, Erasmus von
Rotterdam in der Deutung Wilhelm Diltheys, in Festschrift fu¨r W. Dress, Berlin, 1966, pp.
158-176.
122 INTORNO A WEBER

stiene che «il razionalismo non fa la sua prima comparsa nell’ambito dello
studio del mondo empirico esterno, ma nell’ambito della teologia», laddove
anche questo prendere le mosse dalla «religione», ossia dal «più profondo
Erlebnis emotivo dell’uomo», mostra in maniera palese che esso, «lungi dal
significare arida razionalità, (...) possiede un versante originariamente uma-
228
no» .
«Il razionalismo – Salz dunque scrive all’indomani della prima guerra
mondiale – è radicato in un sentimento della vita affine a quello del nostro
tempo (...). Nel razionalismo si concentra (...) tutto l’ardente desiderio di
pace proprio di un’epoca scossa da disordini religiosi e bellici e lacerata
dalla discordia degli spiriti. Anzi nel razionalismo questo sentimento da un
lato crea la più chiara espressione di se stesso, dall’altro spera di aver
trovato lo strumento salvifico contro i mali del tempo (...). Essendo nato ed
essendo nutrito dall’irresistibile bisogno della società di allora di giungere a
consolidarsi in idee universalmente valide e in una situazione conforme a
ragione, il sistema razionalistico costituisce il fondamento dell’unità spiri-
tuale dell’Europa, del vero equilibrio europeo che è un equilibrio dello
spirito»229. Ne consegue che l’odierna consapevolezza dei limiti del raziona-
lismo e delle sue astrazioni non deve tradursi (come avviene in Kahler) nel
misconoscimento del fatto che esso si radica profondamente nei bisogni
vitali del suo tempo, e, in primo luogo, nel «bisogno di riunificazione
proprio di un mondo lacerato»230. Si deve al contrario riconoscere che nella
«forza d’astrazione» del razionalismo «v’è un elemento di grande unione fra
i popoli, un elemento che pacifica, concilia e media, un elemento comune a
tutti e tuttavia reale. Infatti questa ragione universale, che cerca ciò che si
colloca al di là di tutte le semplici realtà concrete, che vaga oltre l’intrico e
il disordine dell’esperienza determinata, è, per cosı̀ dire, soltanto il cavallo
che l’ardente desiderio di pace attacca al proprio carro»231.
Se si guarda al razionalismo da questo punto di vista, allora la sua
eredità appare raccolta, sviluppata e potenziata dalla filosofia trascenden-
tale, la quale, non a caso, è sorta in Germania, vale a dire nel «cuore» e nel
«campo di battaglia dell’Europa»232. Riecheggiando ancora una volta Dil-
they, Salz infatti afferma: «La filosofia trascendentale è la quintessenza di

228
FW, p. 75; tr. it. cit., p. 140.
229
FW, p. 74; tr. it. cit., pp. 138-139.
230
FW, p. 77; tr. it. cit., pp. 141-142.
231
Ibidem; tr. it. cit., p. 142.
232
Ibidem.
ARTHUR SALZ 123

tutti gli indirizzi che fanno risalire alla natura creativa dell’uomo il fonda-
mento del conoscere e poi di ogni altra prestazione spirituale. Ricercando
nell’anima l’elemento umano-divino sempre e ovunque operante dietro
tutte le formule, tutti i dogmi e tutte le storie, l’elemento che suscita tutte le
forme della vita, lo spirito germanico e tedesco, mediante questa divinizza-
zione della natura creativa dell’uomo che si manifesta nell’arte, nella reli-
gione, nella morale, nella speculazione e in tutta la storia, crea per sé un
233
regno universale che unifica i popoli» . L’opposizione a Kahler è di nuovo
nettissima, giacché anche quest’ultimo pone in rapporto il razionalismo con
la filosofia trascendentale, ma – come sappiamo – solo in quanto interpreta
sia l’uno che l’altra come momenti successivi di uno sradicamento dap-
prima parziale e poi definitivo dell’umano sapere dal proprio indispensabile
sostrato: per Kahler, infatti, Kant si avvale della circostanza che col raziona-
lismo la totalità vivente, pur se continua ad essere intuita, viene del tutto
assimilata, nella sua struttura interna, alla ragione umana pienamente di-
spiegata, e, a partire da ciò, «fa solamente una cosa», ossia «annienta
definitivamente (...) l’elemento intuitivo globale, quello che mette in atto
uno sguardo d’insieme e lo rivolge nel profondo, ossia quello che in
generale guarda (...). E ciò che resta è la ragion pura stessa, priva di
sostanza. La ragione priva di sostanza, ossia la ragione intesa come la
mobile forza trascendentale, e non più come una forma depositata all’in-
terno e una costruzione stabile»234.
Non meraviglia dunque che Salz, pur riconoscendo ironicamente che
«oggi per ogni liceale è una questione di bon ton aver superato Kant»235, sia
ben lontano dal sottoscrivere il convinto antikantismo di Kahler secondo il
quale è finalmente venuto il tempo di prendere congedo dal filosofo di
Königsberg e dai «suoi coerenti successori» che «hanno condotto il razio-
nalismo fino all’assurdo»236. Al contrario per Salz è proprio questa la
tradizione alla quale la scienza tedesca deve continuare a fare riferimento se
i tedeschi – muovendo dalla convinzione «di essere magari decaduti ma
non degenerati» – vogliono davvero rivendicare il ruolo di custodi del
«patrimonio culturale europeo» e differenziarsi cosı̀ dalle nazioni vincitrici
che «con mezzi assai discutibili danno a intendere di rappresentare una

233
Ibidem. Cfr. W. Dilthey, Das natu¨rliche System der Geisteswissenschaften im 17. Jahrhun-
dert, cit., pp. 109-110; tr. it. cit., pp. 141-142.
234
Cfr. supra, cap. II, nota 43.
235
FW, p. 40; tr. it. cit., p. 102.
236
E. von Kahler, Die Krisis in der Wissenschaft, cit., p. 126; tr. it. cit., p. 50. Per Kahler –
come sappiamo – Weber stesso è uno dei più «coerenti successori» di Kant.
124 INTORNO A WEBER

237
“civilizzazione” anch’essa assai discutibile» . E tuttavia Salz, subendo forte-
mente l’influsso di Max Weber, rimane sempre consapevole del fatto che
questa stessa scelta in favore della «continuità»238 compiuta da studiosi che
si sentono seriamente responsabili nei confronti del mondo al quale appar-
tengono è, in ultima istanza, una scelta fondata su se stessa, dal momento
che nel corso del secolo diciannovesimo «il positivismo delle scienze, ossia
ciò che Kahler chiama la “moltiplicazione del sapere”», ha certamente reso
«il grande agire in atto» sempre più padrone dei propri mezzi e sempre più
consapevole delle proprie conseguenze, ma lo ha anche costretto a rinun-
ciare alla pretesa di giustificare scientificamente le proprie finalità ultime239.
Proprio in questo senso, in una delle pagine finali di Fu¨r die Wissenschaft
Salz scrive: «Quando al giorno d’oggi Kahler sostiene la dottrina secondo la
quale l’uomo, nella misura in cui sa giustamente, e` anche giustamente –
secondo la quale, cioè, se solo noi possedessimo la vera scienza, segui-
remmo anche la retta via –, egli toglie all’uomo qualcosa che ha un valore
maggiore di ogni sapere, gli toglie la possibilità di peccare, gli toglie il
carico e il peso della colpa e della responsabilità e con ciò la possibilità di
essere un uomo. Infatti, nessun sapere giunge fino agli abissi ove si giocano
le tragedie e i conflitti della vita umana»240.

237
FW, p. 88; tr. it. cit., pp. 153-154. Cfr. a tale proposito FW, p. 84 (tr. it. cit., p. 149), ove
Salz cita la seguente affermazione di Taine: «Dal 1780 al 1830 la Germania ha prodotto tutte
le idee della nostra epoca e per mezzo secolo, forse addirittura per un secolo intero, il nostro
compito principale sarà quello di riflettere su di esse».
238
Cfr. FW, p. 80; tr. it. cit., pp. 145-146: «La storia della scienza è la storia dello spirito
umano cha fa ancora meno salti della natura perché è la continuità stessa (...). La scienza
nelle sue trasformazioni non assomiglia a un vulcano le cui momentanee esplosioni
seppelliscono e riducono in cenere tutto ciò che è e che è stato e non lasciano dietro di sé
nient’altro che rovina e decomposizione. Il simbolo della scienza è invece quello dello
spirito stesso, cioè il fuoco, che, fin da quando fu trafugato dal cielo da un amico degli
uomini, viene sorvegliato con premura da mani esperte, viene continuamente fatto ardere in
modo silenzioso e sicuro e non viene mai spento. E ciò accadrà fintantoché lo spirito resterà
in vita». A proposito di questo passo di Fu¨r die Wissenschaf è interessante ricordare che i
Principles of Economics di Alfred Marshall tradotti in tedesco da Salz e da Ephraim (cfr. supra,
nota 9) recavano come esergo il motto leibniziano natura non facit saltum.
239
FW, p. 78; tr. it. cit., p. 143.
240
FW, p. 92; tr. it. cit., p. 158.
4

RIVOLUZIONE DELLA SCIENZA


E RIVOLUZIONE CONSERVATRICE:
LA POSIZIONE DI ERNST KRIECK

1. Dopo aver frequentato dal 1898 al 1900 il Lehrerseminar a Karlsruhe,


Ernst Krieck – nato il 6 luglio 1882 in un piccolo centro del Baden e
proveniente da una famiglia di contadini e artigiani edili – prestò servizio
per ventiquattro anni come maestro di scuola elementare. La formazione
1
del primo rettore nazionalsocialista di un’università tedesca e di uno dei
2
più ascoltati pedagoghi della prima fase del regime hitleriano è dunque una
formazione da autodidatta, fondata su ampie letture filosofiche e letterarie e
fortemente influenzata dalla coeva Kulturkritik3, le cui argomentazioni ven-

1
Quella di Francoforte, di cui Krieck divenne sia professore che rettore nel semestre
estivo del 1933.
2
Lo scritto di E. Krieck Nationalpolitische Erziehung, che fu pubblicato a Lipsia nel 1932 e
che nel 1943 giunse alla sua venticinquesima edizione, rappresenta bene la posizione
standard del regime sulle questioni dell’istruzione almeno fino alla metà degli anni Trenta. A
proposito del ruolo giocato da Krieck nella politica culturale e pedagogica del Terzo Reich
cfr. l’ampia monografia di G. Müller, Ernst Krieck und die nationalsozialistische Wissenschafts-
reform: Motive und Tendenzen einer Wissenschaftslehre und Hochschulreform im Dritten Reich,
Weinheim, 1978 e il più recente contributo di E. Hojer, Nationalsozialismus und Pa¨dagogik:
Umfeld und Entwicklung der Pa¨dagogik Ernst Kriecks, Würzburg, 1997. Si veda anche H.
Wojtun, Die politische Pa¨dagogik von Ernst Krieck und ihre Wu¨rdigung durch die westdeutsche
Pa¨dagogik, Frankfurt a. M., 2000.
3
Tale influenza è palese in E. Krieck, Perso¨nlichkeit und Kultur. Kritische Grundlegung der
Kulturphilosophie, Heidelberg, 1910 e in Id., Lessing und die Erziehung des Menschengeschlechtes,
Heidelberg, 1913. Sono questi i primi scritti di ampio respiro della vastissima produzione di
Krieck, della quale rende conto E. Thomale, Bibliographie Ernst Krieck: Schrifttum, Sekunda¨rli-
teratur, Kurzbiographie, Weinheim, 1970. Si veda anche W. Kunz, Ernst Krieck: Leben und
Werk, Leipzig, 1942 (che era la “monografia ufficiale”) e R. Noltensmeier – E. Weiss, U¨ber
Ernst Krieck, Kiel, 1992.
126 INTORNO A WEBER

gono però recepite alla luce di un predominante interesse politico per i


problemi dell’educazione e dello Stato.
Proprio in ragione della sua posizione di newcomer, Krieck è infatti
particolarmente sensibile all’impatto disgregante esercitato sul tessuto so-
ciale tedesco (già di per sé piuttosto disomogeneo)4 da quella che Ulrich
Beck ha efficacemente denominato «modernizzazione riflessiva»5, e cioè dal
processo nel corso del quale la società borghese classica perde la propria
aura e si trasforma in società di massa6. Di fronte a una Gesellschaft vista
solo come “figura della lacerazione” a mala pena tenuta insieme dalle
necessità materiali, di fronte a una cultura troppo ampia e priva di ogni
vincolo unitario, di fronte a un sapere specialistico che ha smarrito ogni
“volontà di sistema” e nel contempo ogni reale efficacia pedagogica, la

4
H. U. Wehler (Deutsche Gesellschaftsgeschichte, 2 voll., München, 1987) ha giustamente
sottolineato che la storia della Germania, in quanto storia di divisioni religiose e territoriali,
non rende assolutamente possibile parlare di una società borghese tedesca prima del 1848:
«esistevano invece diverse società borghesi, ciascuna con la sua specifica composizione
sociale, con i propri modelli ideali e di vita, con la propria mentalità e il proprio stile» (ivi,
vol. II, p. 238). La rivoluzione industriale e l’unificazione politica significarono un passo
avanti per la formazione di una borghesia nazionale, la cui unità rimase però sempre assai
precaria. V’è inoltre la complessa questione dell’influenza esercitata sul processo di moder-
nizzazione in Germania dal ceto “poco socializzato” del Bildungsbu¨rgertum che è anch’esso il
prodotto di una storia specificamente tedesca. Per un primo orientamento a tale proposito
cfr. J. Kocka (a cura di), Bildungsbu¨rgertum im 19. Jahrhundert, parte IV, Politischer Einfluß
und gesellschaftliche Formation, Stuttgart, 1989.
5
Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità (1986), tr. it. a cura di W.
Privitera, Roma, 2000, p. 15 e passim.
6
Questo processo, radicalizzando il movimento di emancipazione dell’individuo che
caratterizza il mondo moderno (basti solo pensare al suffragio universale o allo svincola-
mento della donna dai ruoli domestici), pone radicalmente in crisi una convinzione basilare
di questo mondo, la quale – come nota suggestivamente P. Kondylis in Der Niedergang der
bürgerlichen Denk- und Lebensform. Die liberale Moderne und die massendemokratische Postmo-
derne, Weinheim, 1991, pp. 23 sgg. – trova le proprie espressioni nell’idea dell’invisible hand
di Adam Smith, nella concezione hegeliana della società come «teatro dell’etico», nell’arte
sinfonica di Beethoven etc.: si tratta della convinzione secondo cui la libertà dell’individuo,
lungi dal condurre all’anarchia, è in realtà il mezzo migliore per fondare l’ordine, la
prevedibilità e la sicurezza. Naturalmente un fatto di tale portata non riguarda solo la
Germania. Ma in Inghilterra, negli Stati Uniti e anche in Francia lo spostamento avviene nel
quadro di una piena partecipazione della borghesia alla vita dello Stato, favorendo processi
di apprendimento reciproco nel corso dei quali i ceti dominanti si adattano progressiva-
mente alle procedure della democrazia di massa e le masse si appropriano progressivamente
di forme “più civilizzate” del discorso politico. Quando invece la borghesia tedesca –
nonostante il suo «rapporto storto in partenza» con la politica (T. Mann, Considerazioni di
un impolitico, cit., p. 128) – volle finalmente partecipare alla vita dello Stato, si trovò di fronte
ad una società di massa già pronta a prendere il sopravvento.
ERNST KRIECK 127

preoccupazione che domina ossessivamente tanto la riflessione di Krieck


quanto il suo impegno politico-culturale è quella di promuovere una
riaffermazione in grande stile dell’unità e dell’identità collettiva della comu-
nità nazionale.
Proprio tale preoccupazione – che si accentuò ancor di più negli anni
della guerra e che fu anche corroborata da una lunga serie di esperienze
professionali nel corso delle quali Krieck, esercitando il proprio ufficio di
educatore, venne a contatto con la gioventù operaia di Mannheim
(1910-1924) – è alla base dello scritto Die deutsche Staatsidee (1917) nel
quale si sostiene la necessità che il popolo tedesco, in conformità alla
propria predisposizione caratteriale e alla propria migliore tradizione di
pensiero, si doti di uno Stato sociale autoamministrato, corporativo e privo
di classi che viene senz’altro concepito come una valida alternativa politica
ed economica tanto al liberalcapitalismo quanto al marxismo. Quest’opera
– che venne pubblicata a Jena dalla casa editrice nazional-popolare di
Eugen Diederichs – è caratterizzata da un progetto politico di fondo, quello
di «ricreare il socialismo a partire dallo spirito del popolo tedesco»7, che
non è molto dissimile dal progetto politico dello Spengler di Preußentum
und Sozialismus8. Negli anni del dopoguerra essa esercitò un influsso sotter-
raneo ma notevole sull’arcipelago della rivoluzione conservatrice: basti
pensare che nell’intitolare Das dritte Reich il suo celeberrimo scritto del
1923 Moeller van den Bruck – uno degli esponenti di primissimo piano del
«nuovo nazionalismo» della destra radicale tedesca9 – subı̀ l’influenza di

7
E. Krieck, Die Revolution der Wissenschaft. Ein Kapitel u¨ber Volkserziehung, Jena, 1920
(d’ora in poi RdW), p. 4; tr. it. La rivoluzione della scienza. Un capitolo sull’educazione del
popolo, in Id., La rivoluzione della scienza e altri saggi, a cura di E. Massimilla, Napoli, 1999,
pp. 61-120, p. 64.
8
Su Preußentum und Sozialismus, pubblicato a Monaco nel 1919, si veda D. Conte, Catene
di civiltà. Studi su Spengler, Napoli, 1994, in part. pp. 38 sgg.
9
Stefan Breuer, dopo aver analiticamente dimostrato che la nozione di «rivoluzione
conservatrice» come si è venuta configurando a partire dal celebre studio di Armin Mohler
risulta inadeguata a fornire una caratterizzazione comune ed esclusiva degli autori e dei
movimenti tradizionalmente inscritti sotto il suo alveo, considera «il concetto di “nuovo
nazionalismo”» come «il candidato più probabile per la riorganizzazione del campo di
ricerca» (S. Breuer, Anatomie der konservativen Revolution, Darmstadt, 1993; tr. it. La rivolu-
zione conservatrice. Il pensiero di destra nella Germania di Weimar, a cura di C. Miglio, Roma,
1995, p. 150). Le caratteristiche tipiche di questo «nuovo nazionalismo» coincidono per
Breuer con i tratti che lo differenziano: dal vecchio nazionalismo prebellico (che col suo
concetto “esclusivo” e non “inclusivo” di nazione era vincolato agli interessi del blocco
sociale dominante); dal nazionalismo democratico della DDP (che evocava il carisma della
nazione e della comunità popolare per fornire legittimità allo Stato democratico e non già
per sottrargliela); e dal nazionalsocialismo (che non faceva perno sul carisma della nazione
128 INTORNO A WEBER

10
Krieck il quale, in un capitolo di Die deutsche Staatsidee , parla del «Terzo
Reich» prossimo venturo come del luogo di una palingenetica conciliazione
fra il singolo e la totalità11.
Lo scritto sull’idea tedesca dello Stato ha un significativo sottotitolo:
Ihre Geburt aus dem Erziehungs- und Entwicklungsgedanke. Krieck è infatti
convinto che il modello di Stato da lui proposto rappresenti soltanto
l’espressione esterna di una comunità nazionale fortemente integrata, e che
tale integrazione sia innanzi tutto il risultato di un’educazione adeguata. Ma
per essere tale l’educazione non deve fondarsi su vuote ideologie e astratte
dottrine, ma deve radicarsi nel modo di sentire profondo del popolo
elaborando, a partire da qui, una “nuova mitologia”, una visione del mondo
unitaria che sia strutturalmente in grado di riscattare la cultura e il sapere
da ogni dispersione specialistica e nel contempo di retroagire efficacemente
sulla comunità popolare rafforzandone l’identità e la coesione.
A quest’idea dell’educazione è improntata non solo la prima elabora-
zione sistematica della pedagogia di Krieck (Philosophie der Erziehung, Jena,
1922) per la quale l’università di Heidelberg gli conferı̀ la laurea honoris
causa in filosofia, ma, a ben guardare, anche gli scritti pedagogici successivi
che egli pubblicò dopo essersi dimesso dall’insegnamento scolastico12.
Senza dubbio in questi scritti Krieck definisce la sua Erziehungswissenschaft
come una scienza pura che deve dar vita a un’indagine storico-etnologico-
comparativa delle forme fondamentali e delle leggi universali dell’educa-
zione. Ma l’educazione stessa viene in primo luogo concepita come un’im-
portante funzione ubiquitaria delle «comunità»: Krieck sottolinea infatti che
ogni genere di agire educativo intenzionale è più o meno consapevolmente
vincolato all’«educazione funzionale», e cioè ai processi di formazione del
singolo esercitati dalle «unità di vita sovrapersonali» di cui il singolo fa
parte e dai «contenuti spirituali oggettivi» che operano in esse. La legge
fondamentale dell’educazione funzionale è dunque per Krieck la legge

intesa come un’individualità sovrapersonale e come un patrimonio in qualche modo già


dato cui si trattava solo di conferire una forma, ma era invece fondato sull’idea della razza e
del suo inesauribile processo di “nobilitazione”, nonché sul carisma insostituibile del Fu¨hrer
che deteneva il monopolio della decisione a tale riguardo). Su tutto ciò cfr. ivi, pp. 149-167.
10
Il capitolo in questione è intitolato Die neue Menschenwu¨rde.
11
A tale proposito cfr. G. Müller, Ernst Krieck und die nationalsozialistische Wissenschaftsre-
form, cit., pp. 58 sgg.
12
E. Krieck, Menschenformung. Grundzu¨ge der vergleichenden Erziehungswissenschaft, Leip-
zig, 1925; Id., Bildungssysteme der Kulturvo¨lker, Leipzig, 1927; Id., Grundriß der Erziehungs-
wissenschaft, Leipzig, 1927.
ERNST KRIECK 129

dell’«equiparazione tipica», e cioè quella dell’assimilazione dell’adolescente


al sistema di valori, alla visione del mondo e al carattere del gruppo sociale
di cui è membro: in questo Typenzucht socio-culturale egli scorge il senso di
ogni educazione. Inoltre Krieck non esita un istante a interpretare le
regolarità emerse dalle sue ricerche storico-comparative come principi
regolativi per l’agire: egli insiste infatti sulla necessità di promuovere
attivamente l’accordo fra l’educazione intenzionale e quella funzionale, e
allo Stato delle società moderne e complesse – che deve essere anzitutto
«Stato della cultura e dell’educazione» – prescrive come compito essenziale
la formazione di un «tipo di cittadino» mediante lo strumento del sistema
scolastico pubblico13.

13
Nel corso degli anni Venti l’impegno politico-culturale di Krieck – che nel ’28 venne
chiamato ad insegnare pedagogia presso l’Accademia pedagogica di Francoforte – si svolse
nell’ambito del Lehrerverein del Baden e di quello tedesco. In polemica con la politica
scolastica della SPD, ma anche con quella del Zentrum e della chiesa cattolica (si veda la
conferenza Staat und Kirche im Kampf um das Bildungswesen pubblicata ad Amburgo nel
1925), egli si avvicinò per qualche tempo alle posizioni degli insegnanti nazional-liberali, ma
le scarse realizzazioni di questi ultimi rafforzarono i suoi dubbi sul parlamentarismo e fecero
riemergere con forza le sue profonde affinità elettive con i circoli völkisch, neoconservatori e
nazional-rivoluzionari della destra radicale. Nel solstizio d’estate del 1931 Krieck tenne nella
località di Taunus presso Francoforte un discorso inneggiante alla nascita del «Terzo Reich»
che causò il suo trasferimento punitivo presso l’Accademia pedagogica di Dortmund (cfr. E.
Krieck, Rede am Feuer, in appendice a Id., Vo¨lkischer Gesamtstaat und nationale Erziehung,
seconda edizione, Heidelberg, 1932). Questo provvedimento disciplinare siglò il definitivo
allontanamento di Krieck dalla Repubblica di Weimar e dallo Stato democratico: nel 1932
egli aderı̀ alla NSDAP e alla lega degli insegnanti nazionalsocialisti per perseguire in questo
ambito il suo progetto di una riforma dell’educazione in senso nazional-popolare. Da allora
Krieck divenne uno dei più importanti propagatori ufficiali delle dottrine pedagogiche del
partito e della politica culturale nazionalsocialista (oltre il già ricordato Nationalpolitische
Erziehung, cfr. E. Krieck, Nationalsozialistische Erziehung, begru¨ndet aus der Philosophie der
Erziehung, Osterwieck, 1933, che nel 1940 giunge alla quinta edizione). Richiamato nel ’32 –
sotto il governo Papen – all’Accademia pedagogica di Francoforte, Krieck, nel semestre
estivo del ’33, divenne professore di pedagogia e rettore dell’Università di Francoforte. Nel
’34 fu chiamato dall’Università di Heidelberg a ricoprire la cattedra di filosofia e pedagogia
(e di tale università fu anche rettore nel biennio 1937-1938). A Heidelberg cercò – senza
grande successo – di porre in atto una riforma della scienza e dell’istruzione superiore sulla
base delle proprie concezioni (cfr. E. Krieck, Wissenschaft, Weltanschauung, Hochschulreform,
Leipzig, 1934).
Ma a partire dal 1935 Krieck, che fino a quel momento si era sentito innanzi tutto un
pedagogo, perseguı̀ sistematicamente il progetto di elaborare una prospettiva teorica com-
plessiva all’interno della quale incardinare la prassi politica del nazionalsocialismo. In netto
contrasto con il principio dell’avalutatività, denunciato come un postulato proprio dell’«i-
deologia della scienza» razionalistico-liberale, Krieck afferma che la conoscenza scientifica è
sempre standortgebunden [legata al posto] giacché costituisce uno strumento mediante il
130 INTORNO A WEBER

2. Sulla base di queste premesse non meraviglia che Krieck, in un articolo


apparso su «Die Tat» nel dicembre del 192014 e intitolato Die Revolution von
innen, assuma una posizione molto dura e sostanzialmente liquidatoria nei
confronti della concezione del sapere scientifico sostenuta da Max Weber
nella conferenza sulla scienza come professione. Facendosi portavoce delle
esigenze di una gioventù che, dopo la catastrofe bellica, sta «povera ma
libera (...) al cospetto del futuro» e che «al sapere richiede di essere guidata
e plasmata»15, Krieck ritiene del tutto incondivisibile, perché assolutamente

quale la comunità popolare lotta per la vita e nel contempo signoreggia la vita. Conforme-
mente a tale assunto, Krieck sostiene la necessità di sostituire alla filosofia un’«antropologia
politica nazional-popolare» intesa come scienza fondamentale capace di risolvere la dicoto-
mia tra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften in una «scienza universale della totalità del
mondo e dell’umanità», e nel contempo di fornire alle discipline specialistiche un paradigma
di ricerca integrante. Tuttavia la pubblicazione della Vo¨lkisch-Politische Anthropologie (3 voll.,
Leipzig, 1936-1938; vol. I: Die Wirklichkeit; vol. II: Das Handeln und die Ordnungen; vol. III:
Das Erkennen und die Wissenschaft), un’opera che Krieck riteneva il suo capolavoro, fu
all’origine di una dura polemica con i teorici nazionalsocialisti della razza, o meglio, con i
teorici nazionalsocialisti di una concezione più strettamente biologica della razza. Senten-
dosi incompreso e screditato, Krieck si dimise dai suoi incarichi accademici e di partito e
perse progressivamente ogni effettiva influenza sulla politica culturale e scolastica del
regime. Sicché, fra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni Quaranta, egli si dedicò in
prevalenza alla prosecuzione delle proprie ricerche. Tra i molti scritti di questo periodo
vanno ricordati in particolare: E. Krieck, Leben als Prinzip der Weltanschauung und Problem
der Wissenschaft, Leipzig, 1938 (su cui si sofferma Giorgio Penzo in Nietzsche e il nazismo. Il
tramonto del mito del superuomo, Milano, 1997, pp. 300 sgg.); E. Krieck, Mythologie des
bu¨rgerlichen Zeitalters, Leipzig, 1939; Id., Der Mensch in der Geschichte. Geschichtsdeutung aus
Zeit und Schicksal, Leipzig, 1940; Id., Natur und Naturwissenschaft, Leipzig, 1942; Id., Heil und
Kraft. Ein Buch germanischer Weltweisheit, Leipzig, 1943. Nel 1945, dopo la sconfitta della
Germania, Krieck fu destituito dall’insegnamento e fu imprigionato nel campo d’interna-
mento di Moosburg (una località nelle vicinanze di Monaco) dove morı̀ il 19 marzo del
1947.
14
La «Tat», edita a Jena da Eugen Diederichs a partire del 1909, fu una delle più
importanti riviste dell’area politico-culturale della rivoluzione conservatrice. Dall’ottobre del
1929 all’agosto del 1933 fu diretta da Hans Zehrer divenendo il punto di coagulo del
cosiddetto Tat-Kreis, un circolo di intellettuali neoconservatori fieramente avversi alla
Repubblica di Weimar, ma con posizioni diverse e altalenanti nei confronti del nazionalso-
cialismo. Cfr.: E. Demant, Vom Schleicher zu Springer: Hans Zehrer als politischer Publizist,
Mainz, 1971; K. Fritzsche, Politische Romantik und Gegenrevolution. Fluchtwege aus der Krise
der bu¨rgerlichen Gesellschaft: Das Beispiel des «Tat»-Kreises, Frankfurt a. M., 1976; I. Maus,
Gesellschaftliche und rechtliche Aspekte der “Konservativen Revolution”, in Id., Rechtstheorie und
Politische Theorie im Industriekapitalismus, München, 1986, pp. 141-171. Si vedano anche le
molte e sottili notazioni sul Tat-Kreis contenute in S. Breuer, Anatomie der konservativen
Revolution, cit.
15
E. Krieck, Die Revolution von innen, in «Die Tat», 12, dicembre 1920, pp. 668-674 (d’ora
ERNST KRIECK 131

inattuale, l’idea di Weber secondo cui la scienza e il suo progresso rappre-


senterebbero «un frammento, il frammento più importante, di quel pro-
16
cesso di intellettualizzazione a cui sottostiamo da millenni» . Infatti già
prima della guerra «la razionalizzazione, la tecnicizzazione e la specializza-
zione della vita» avevano suscitato negli animi «disagio» e «inquietudine»:
«la fede nel tanto esaltato “progresso”» si era dunque incrinata anche
quando erano davvero in pochi a non scorgere in quest’ultimo un «destino
inappellabile»17. Ma ora che la guerra ha spezzato le «coercizioni esteriori»
facendo arretrare il destino «nell’intimo», ora che essa ha reso evidente ad
ognuno che l’avvenire «è una questione di forza di volontà e di forza di
carattere», una scienza che, incurante di tutto questo, continui a pensarsi
come un portato e un veicolo della «razionalizzazione della vita» e del
«“disincantamento” del mondo»18 confessandosi inadeguata a «rispondere
all’unica domanda importante per noi: “Cosa dobbiamo fare? Come dob-
biamo vivere?”»19 assomiglia per Krieck a uno «spettro» che «dovrebbe
rimanere atterrito da se stesso»20.
Senza dubbio le argomentazioni di Weber subiscono, nell’ottica di
Krieck, una drastica semplificazione polemica. In particolare Krieck non si
avvede affatto che Weber, pur prendendo atto impietosamente del naufra-
gio di «tutte le precedenti illusioni» (la scienza come via per giungere al
vero essere, alla vera arte, alla vera natura, al vero Dio, alla vera felicità)21 e
dunque pur ritenendo «assolutamente incontestabile» che la scienza non
possa fornire una risposta diretta alle questioni più urgenti della nostra vita,
considera della massima importanza chiedersi «in che senso essa non dia
risposta, e se non possa invece, anziché rispondere, essere in qualche modo
d’aiuto a chi pone la domanda giustamente»22. In altri termini, è certamente
vero che per Weber il valore della scienza non può più consistere nella
pretesa di dirimere il conflitto fra gli ordinamenti di valore23, giacché essa

in poi Rvi), p. 669; tr. it. La rivoluzione dall’interno, in Id., La rivoluzione della scienza e altri
saggi, cit., pp. 121-127, pp. 121-122.
16
WaB, p. 86; tr. it. cit., p. 87.
17
Rvi, p. 668; tr. it. cit., p. 121.
18
Rvi, p. 669; tr. it. cit., pp. 121-122.
19
WaB, p. 93; tr. it. cit., p. 99.
20
Rvi, p. 669; tr. it. cit., p. 122.
21
WaB, p. 93; tr. it. cit., p. 99. «Su questo punto – afferma Weber – il contrasto fra passato
e presente è enorme» (WaB, p. 88; tr. it. cit., p. 91).
22
WaB, p. 93; tr. it. cit., p. 99.
23
Cfr. WaB, p. 100; tr. it. cit., p. 113: «Su questi dei e sulla loro lotta domina il destino, e
non certo una “scienza”».
132 INTORNO A WEBER

(come sapere empirico-fattuale) non può neanche giustificare scientifica-


24
mente i suoi stessi presupposti valutativi ; e tuttavia ciò non significa che,
almeno per coloro che ne accettano i presupposti, la scienza rimanga
confinata in una «dimensione meramente pratica e tecnica»25 restando priva
di un suo specifico «Beruf (...) nel contesto della vita complessiva dell’uma-
nità»26. Infatti, pur non potendo più ridurre il politeismo dei valori ad un
nuovo monoteismo, la scienza può almeno spiegare «che cosa costituisce il
divino per l’uno e per l’altro, nell’uno e nell’altro ordinamento di valori»27.
Fuor di metafora, essa non si limita a fornire «conoscenze sulla tecnica per
padroneggiare la vita mediante il calcolo»28, ma è anche in grado di
promuovere «la chiarezza e il senso di responsabilità»29 mostrando quali
mezzi possano e debbano essere accettati e adoperati in conformità ad una
determinata presa di posizione ultima, e soprattutto quale presa di posi-
zione ultima sia già di fatto presupposta in un determinato modo di agire.
Ma Weber ritiene che solo la chiarezza e il senso di responsabilità permet-
tono all’«uomo moderno» e in particolare alle «giovani generazioni» di
«fissare lo sguardo sul volto severo del destino del proprio tempo» e di
«essere all’altezza» di una «realtà quotidiana» ormai completamente secola-
rizzata30, vale a dire di una «vita» che, «in quanto si fonda su se stessa (...),
conosce soltanto (...) l’inconciliabilità e dunque l’irrisolvibilità della lotta tra
i punti di vista ultimi in generale possibili rispetto alla vita, vale a dire la
necessità di decidere tra di essi»31. Perciò promuovere la chiarezza e il senso
della responsabilità non è «roba da poco, nemmeno per la vita puramente
personale»32: non a caso Weber attribuisce questa funzione alla «disciplina
specialistica della filosofia» e alle «discussioni di principio fondamental-
mente filosofiche delle altre discipline»33, trasfigurando però a tal punto il

24
Cfr. WaB, p. 93; tr. it. cit., pp. 99 e 101: «Qualsiasi lavoro scientifico presuppone (...) che
ciò che il lavoro scientifico produce sia importante, nel senso di “degno di essere saputo”. (...)
questo presupposto non è a sua volta ulteriormente dimostrabile con i mezzi della scienza.
Se ne può solo indicare il senso ultimo, da accettare o rifiutare a seconda della propria presa
di posizione ultima di fronte alla vita».
25
WaB, p. 87; tr. it. cit., p. 89.
26
WaB, p. 88; tr. it. cit., p. 91.
27
WaB, p. 100; tr. it. cit., p. 113.
28
WaB, p. 103; tr. it. cit., p. 119.
29
WaB, p. 104; tr. it. cit., p. 121.
30
WaB, p. 101; tr. it. cit., pp. 113 e 115.
31
WaB, pp. 104-105; tr. it. cit., pp. 121 e 123.
32
WaB, p. 104; tr. it. cit., p. 121.
33
Ibidem.
ERNST KRIECK 133

significato e il ruolo tradizionalmente conferiti alla filosofia che un filosofo


di professione come Max Scheler non esita – come sappiamo – ad
34
attribuirgli «il completo disconoscimento sostanziale» di quest’ultima .
Ma tali aspetti di Wissenschaft als Beruf rimangono del tutto in ombra
nell’interpretazione di Krieck: per lui Weber non fa altro che fotografare
con esattezza e caparbia conseguenzialità la fase terminale di una scienza
che, pretendendo di «rimanere (...) discosta dall’accadere e dal mutare delle
cose» e di perseguire avalutativamente «la conoscenza della verità», ha
dimenticato di essere una «particolare funzione» della «nostra vita comuni-
taria»35 e si è dunque condannata ad un’improduttiva dispersione tecnico-
specialistica (la quale, peraltro, è essa stessa un effetto e nel contempo un
fattore del processo di dissoluzione della comunità). D’altronde nella pro-
spettiva di Krieck anche il disincantamento del mondo e il politeismo dei
valori non costituiscono affatto, come per Weber, «il destino della nostra
civiltà»36 con cui ognuno deve fare responsabilmente i conti, quanto piutto-
sto una patologia da sanare, giacché i popoli, nelle loro «età migliori»37,
posseggono, anzi incarnano, una sola visione del mondo ed un solo
ordinamento di valori.
Su quest’ultimo punto torneremo in seguito. Qui importa invece soffer-
marsi sull’entusiastica adesione di Krieck alla polemica condotta contro
Wissenschaft als Beruf da Erich von Kahler. Infatti in Die Revolution von innen
Krieck plaude al distruttivo attacco sferrato da Kahler alla «leggenda»
weberiana del «bimillenario processo di razionalizzazione»38. Più in generale
egli loda senza alcuna riserva Der Beruf der Wissenschaft che viene definito
«un libro simbolico, e perciò un libro guida» nel quale si esprime «una
diversa concezione della vita e un diverso obiettivo per il sapere e per la
scienza»39. «Raramente – Krieck scrive – ho riposto un libro con la stessa
soddisfazione e con un’adesione interiore cosı̀ piena. (...) qui, nella parola e
nella forma, preme qualcosa che vive in tutta la giovane generazione e che
sta maturando»40. Ed in effetti, nonostante la radicale diversità della sorte
toccata a Kahler e a Krieck nel corso degli anni Trenta, l’uno costretto a
riparare prima in Austria, in Cecoslovacchia e in Svizzera e poi negli Stati

34
MWAP, p. 431; tr. it. cit., pp. 146-147 (cfr. supra, cap. I, par. 2 e 3).
35
Rvi, p. 669; tr. it. cit., p. 121.
36
WaB, p. 101; tr. it. cit., p. 115.
37
Rvi, p. 673; tr. it. cit., p. 127.
38
Rvi, p. 670; tr. it. cit., p. 122.
39
Rvi, pp. 669-670; tr. it. cit., p. 122.
40
Ibidem.
134 INTORNO A WEBER

Uniti per sfuggire al nazismo, l’altro portato dal nazismo ai vertici del
potere accademico, è innegabile che le idee che essi sviluppano negli anni
del primo dopoguerra sulla vexata quaestio del rapporto fra la scienza e la
vita presentino molti punti di convergenza. Basti pensare alla scelta di un
comune obiettivo polemico (Weber), all’enfasi che entrambi pongono sulla
Jugend tedesca come antesignana di una nuova e più compiuta umanità, al
modello dell’organismo e delle sue funzioni al quale entrambi fanno ricorso
per illustrare quale sia la relazione adeguata fra il sapere e colui che lo
detiene, alla diagnosi condivisa da entrambi di una crisi irreversibile della
scienza razionale moderna nella sua attuale configurazione41, all’esigenza
condivisa da entrambi di una “nuova scienza” adeguata alla nuova forma
vivente che è in procinto di venire alla luce, e cosı̀ via. D’altronde risulta
che Kahler stesso non mancò di riconoscere in Krieck «un combattente in
favore della sua rivoluzione della scienza»42.
Tuttavia è necessario mettere in luce l’immediata ed esclusiva tradu-
zione politica che il discorso di Kahler subisce nell’interpretazione di
Krieck. Non che in Der Beruf der Wissenschaft manchi ogni appiglio ad una
lettura di questo genere, dalla dura polemica condotta contro i partiti, che

41
Cfr. Rvi, p. 669; tr. it. cit., p. 121: «Oggi non c’è più nulla di saldo nella scienza, neanche
nella matematica, nella fisica e nella chimica. Ad essa non resta che acquisire tutto da capo,
fondamento, metodo e fine».
42
G. Lauer, Die verspa¨tete Revolution, cit., p. 252. Nel 1919 anche Thomas Mann, che con
Kahler strinse una profonda amicizia negli anni dell’esilio, non manca di cogliere una certa
affinità fra le idee di quest’ultimo e quelle di Krieck. Il 10 maggio di quell’anno egli è infatti
tra i presenti quando a Monaco, nell’atelier del grafico Emil Preetorius (il Sixtus Kridwisz
del Doktor Faustus: cfr. supra, Introduzione, nota 23), Kahler dà anticipatamente lettura di
alcuni passi di Der Beruf der Wissenschaft. Il giorno dopo Mann annota sul proprio diario di
aver riletto «con la massima simpatia» un precedente scritto di Kahler (Der vorige, der
heutige und der ku¨nftige Feind, Heidelberg, 1914) e di aver letto nel contempo una «buona
brochure» di Ernst Krieck, intitolata Grundriß des neuen Reichs («Die Tat», primo supple-
mento: Neue Wege zum Aufbau Deutschlands, 1919, pp. 90 sgg.). Cfr. T. Mann, Tagebücher
1918-1921, a cura di P. de Mendelsohn, Frankfurt a. M., 1979, p. 234. In due successive
annotazioni diaristiche risalenti al 30 maggio 1919 e al 1 giugno 1920 Mann loda anche altri
scritti di Krieck, e cioè Die deutsche Staatsidee (di cui abbiamo già detto) e Die Revolution der
Wissenschaft (su cui ci soffermeremo in seguito). — Questi apprezzamenti non possono non
suscitare una certa impressione, se si pensa che nel 1937 Krieck, sulla rivista «Volk in
Werden» da lui diretta, pubblica un saggio intitolato Agonie, Schlußwort zu Thomas Mann nel
quale si scaglia con violenza contro lo scrittore in esilio accusandolo di aver mentito al
popolo tedesco con le sue Betrachtungen eines Unpolitischen. Nella lettera scritta il 7 settembre
1945 a Walter von Molo, che gli chiedeva di fare ritorno in Germania, Mann fa riferimento
proprio a questo saggio di Krieck allorquando afferma che «fra gente nutrita per dodici anni
con queste droghe» non è più possibile vivere.
ERNST KRIECK 135

in Germania coltivano la paradossale pretesa di rappresentare il tutto e che


perciò, in nome di dottrine astratte e di interessi economici settoriali,
combattono una «sterile e intollerabile battaglia sul corpo vivente del
popolo»43, all’auspicato avvento di una Fu¨hrerschaft «preparata ed educata»44
dalla nuova scienza e concepita sulla falsariga dei filosofi reggitori della
Repubblica platonica45. Ma Krieck mira in maniera decisa al cuore del
discorso di Kahler e, con una notevole forzatura interpretativa, identifica
senza alcun residuo la «formazione organica vivente» di cui parla quest’ul-
timo (e cioè il punto di partenza da cui ogni vero sapere sorge e infine
ritorna) con la comunità popolare, equiparando per converso la vita indivi-
duale del singolo ad una morta astrazione. «Il terreno a partire dal quale
Kahler solleva la sua critica – Krieck infatti scrive – è il riconoscimento
dell’organismo spirituale della comunità, ossia della reciproca dipendenza e
della mutua interazione di tutte le sue funzioni vitali. Di qui nascerà di certo
per il popolo tedesco un nuovo ethos, un ideale culturale unitario, un
principio di stile che impronterà di sé la conduzione della vita privata e gli
ordinamenti pubblici»46. Una volta compiuto questo passo, Krieck può

43
BdW, p. 38; tr. it. cit., p. 101.
44
BdW, p. 39; tr. it. cit., p. 102.
45
Su tutto ciò cfr. supra, cap. II, nota 67. In Die Revolution von innen anche Krieck
preconizza la prossima resurrezione della «antichissima ed eterna idea della tripartizione
della vita sociale in un ceto magistrale, in un ceto contadino e in un ceto militare», la quale «sorge
sempre come potenza plastica nelle età migliori dei popoli» ed alla quale non bisogna
contrapporre «il nostro deforme e marcio democraticismo» (Rvi, p. 673; tr. it. cit., p. 127).
46
Rvi, p. 670; tr. it. cit., p. 123. Senza dubbio il tema della comunità organica, dell’«intima
comunità d’anime e di sangue» (BdW, p. 35; tr. it. cit., p. 98), è tutt’altro che assente in Der
Beruf der Wissenschaft. Kahler afferma infatti che – a differenza dell’umanità greca – l’umanità
in procinto di sorgere «avrà il suo baricentro non nella persona singola, ma piuttosto nella
comunità» (BdW, p. 51; tr. it. cit., p. 116). «La nuova unità – egli scrive – dovrà essere una
comunità vera e propria che si troverà di fronte (...) grandi comunità dello stesso tipo»
(BdW, p. 60; tr. it. cit., pp. 126-127). La nuova scienza si configurerà dunque come «il sapere
di una comunità» (BdW, p. 96; tr. it. cit., p. 168). È però impossibile sostenere che Kahler
identifichi del tutto e in ogni tempo la nozione di lebendiges organisches Gebilde (dotata di una
generalissima portata ontologica) con quella di comunità organica. Ed è soprattutto impossi-
bile affermare che egli condivida con Krieck un atteggiamento cosı̀ straordinariamente
negativo nei confronti della singola vita personale la quale acquisterebbe senso e compiu-
tezza solo risolvendosi completamente nella comunità popolare di cui fa parte. Per Kahler la
situazione è senz’altro più complessa. Cfr. a tale proposito BdW, pp. 80-81; tr. it. cit., pp.
149-150: «Questa mia vita personale, mentre forma in se stessa un tutto conchiuso, partecipa
della vita della stirpe, del popolo, della forma organica, fino a partecipare in profondità del
vivente stesso (...) nel quale eternità e infinità coincidono. (...) tutte queste vite, fino alla più
sublime, sono chiuse per incanto e sigillate in questa mia vita personale di oggi e di qui (...).
Non posso aver cura di me stesso in modo profondamente vero senza aver cura del carattere
136 INTORNO A WEBER

agevolmente iscrivere non solo se stesso ma anche Kahler tra i fautori della
«rivoluzione conservatrice» prossima ventura e nel contempo fornire di
questo fortunato ossimoro una precisa definizione complessiva. «L’idea
della comunità organica e` la nostra idea propriamente rivoluzionaria: essa ci
libera dall’astratto individualismo, dal dominio del meccanismo e del “pro-
gresso”. Ma la rivoluzione deve essere condotta solo nel suo nome, e
dunque non già come un sovvertimento, ma come “libera via alla crescita
organica”. Perciò questa idea rivoluzionaria è nel contempo un’idea conser-
vatrice. Infatti il riconoscimento che tutto ciò che e` individuale e meccanico deve
necessariamente essere subordinato e incluso all’interno di un organismo sovraindi-
viduale come una funzione al suo servizio è, fin dai tempi antichi, l’idea
propriamente conservatrice. E a tale idea il popolo tedesco è predestinato
dalla predisposizione e dal carattere: da essa nasce la sua missione mon-
diale. La rivoluzione tedesca che è alle porte è una rivoluzione conserva-
trice, e il conservatore radicale è il tipo guida della futura umanità»47.
Questa idea secondo la quale «ogni vera rivoluzione è nella sua intima
essenza una restaurazione» – e cioè «una rinascita dell’umanità e delle
forme di esistenza che deriva dagli strati profondi e non ridotti in rovina
dell’essere del popolo e dell’anima della comunità» – ritorna anche nel
saggio Vom Sinn der Wissenschaft, apparso su «Der Neue Merkur» nell’otto-
bre del 192148. In questo saggio Krieck polemizza con Arthur Salz e col
duplice tentativo che egli compie in Fu¨r die Wissenschaft, quello di difendere
Weber dagli attacchi di Kahler e della «nuova scienza» dei georgeani e nel
contempo di riportare le connessioni e le cesure tracciate da Weber fra la
scienza e la vita nell’alveo dello storicismo diltheyano, interpretandole sullo
sfondo dell’inaggirabile rapporto di tensione polare che lega l’Erleben
soggettivo intersoggettivamente condizionato e il mondo delle sue molte-
plici oggettivazioni. Krieck, pur riconoscendo allo scritto di Salz «pregi e
tratti eccellenti», ravvisa in esso «la mancanza di una posizione complessiva
chiara e univoca paragonabile a quella di cui sono in possesso (...) Weber e
Kahler», i quali, con la loro «antitesi», rappresentano «la massima divarica-
zione» venuta alla luce nel corso della «polemica sulla scienza»49.

nazionale, dell’umanità, dell’eternamente vivente, ma non posso aver cura di niente che appartenga a
un genere superiore, senza aver cura di me stesso e dunque cominciando da me stesso e finendo a me
stesso».
47
Rvi, pp. 670-671; tr. it. cit., p. 123 (il secondo corsivo è mio).
48
E. Krieck, Vom Sinn der Wissenschaft, in «Der Neue Merkur», 5, 7, ottobre 1921, pp.
510-514 (d’ora in poi SW), p. 511; tr. it. Il senso della scienza, in Id., La rivoluzione della scienza
e altri saggi, cit., pp. 129-134, p. 130.
49
SW, p. 512; tr. it. cit., pp. 130-131.
ERNST KRIECK 137

Certo, «la debolezza del punto di vista weberiano risiede da ultimo nel
fatto che esso assolutizza una fase di sviluppo della scienza che pure
pertiene soltanto all’ultima generazione e la proclama come l’unico possi-
50
bile senso e l’unica possibile ragione d’esistenza della scienza» . Ma Krieck
preferisce l’unilaterale «conseguenzialità» di Weber – «sebbene essa trafigga
cosı̀ a fondo la carne» – alle continue oscillazioni di Salz che, «pur
dichiarandosi aderente al partito di Weber, erra attraverso i fronti della
lotta ingaggiata fra le due anime, sentendosi in cuor suo attratto ora da
Weber ora dal punto di vista dell’amico e avversario [Kahler]»51. Infatti chi
asserisce «che il movimento fino ad ora compiuto dallo sviluppo è un fato
ineluttabile anche per il futuro», non può nel contempo affermare «che
questo sviluppo è una funzione conforme ai mutevoli bisogni e ai mutevoli
scopi del flusso di vita che scorre attraverso i secoli»52. In altri termini, «se si
riconosce l’incondizionata autosufficienza logica e la pura razionalità della
scienza, allora le sue radici irrazionali e le sue funzioni irrazionali sono
lasciate fuori»53.
Naturalmente per Krieck il problema è proprio quello di non “lasciare
fuori” le radici e le funzioni irrazionali della scienza, la qual cosa risulta non
solo possibile, ma anche necessaria se si pone mente al fatto che il
«soggetto sovrapersonale» che «produce» e «detiene» la scienza, intesa
come «idea eterna ed eterna forma fondamentale dello spirito oggettivo»,
non è «un mero postulato razionale», ma «esiste concretamente nella
comunità vitale»54. Quest’ultima, concepita da Krieck come un Gemeinsub-
jekt, come un Noi collettivo, possiede sempre «un’immagine complessiva
del tutto (mito, visione del mondo)» che «forma il contenuto totale della
coscienza della comunità»55 e che svolge la funzione fondamentale di
educare e omologare i suoi membri. Krieck ritiene però che il mito,
l’immagine complessiva della totalità, lungi dall’essere un esclusivo pro-
dotto della scienza, costituisca piuttosto la sua atmosfera vitale, l’orizzonte
di precomprensione del mondo che essa condivide con la religione e con
l’arte, con la moralità e con la tecnica, e cioè con le altre espressioni
oggettive della comunità che l’ha partorita. Sicché la scienza che si distacca
completamente dal mito – e dunque anche dalla filosofia che ne è la

50
Ibidem; tr. it. cit., p. 132.
51
SW, pp. 512-513; tr. it. cit., p. 132.
52
SW, p. 512; tr. it. cit., pp. 131-132.
53
Ibidem; tr. it. cit., p. 132.
54
SW, p. 513; tr. it. cit., p. 133.
55
SW, pp. 513-514; tr. it. cit., p. 133.
138 INTORNO A WEBER

traduzione scientifica – incorre nella dura legge in base alla quale «tutto ciò
56
che è isolato e separato è votato alla morte» . Per converso, la scienza che
non si sottrae al «suo senso originario» e alla «sua connessione in una
totalità più alta», e che dunque non dismette il suo «contenuto filosofico»,
partecipa «con i suoi particolari mezzi» al «fine supremo» del mito – quello
della «formazione dei singoli membri della comunità cosı̀ come dell’intera
comunità» – e subordina a tale fine supremo tutte le sue «finalità specifi-
che»57.
Alla fine di Vom Sinn der Wissenschaft, dopo aver cercato di delineare in
estrema sintesi la propria posizione, Krieck rimanda per ulteriori approfon-
dimenti ad uno scritto più ampio: si tratta di Die Revolution der Wissenschaft.
Ein Kapitel u¨ber Volkserziehung, edito a Jena nel 1920 da Eugen Diederichs.
È lo stesso scritto che Krieck invia a Kahler con la dedica «Dem Verfasser
von “Beruf der Wissenschaft” in Verehrung»58, ma è anche lo stesso scritto a
proposito del quale egli afferma nel saggio pubblicato sulla «Tat»: «Ciò che
ho esposto in Die Revolution der Wissenschaft muovendomi alla periferia del
problema ma con lo sguardo rivolto verso il centro, Kahler lo tratta
simultaneamente cogliendone il punto centrale. Mi ha procurato una gran
soddisfazione il fatto che, nonostante tutte le diversità di metodo e di
percorso, i nostri risultati, le nostre intuizioni fondamentali e le nostre
esigenze giungano suppergiù a coincidere»59. È dunque evidente l’assoluta
necessità di prendere in esame in maniera ravvicinata i contenuti e le
argomentazioni di Die Revolution der Wissenschaft, se si vuole davvero

56
SW, p. 514; tr. it. cit., p. 134.
57
Ibidem; tr. it. cit., pp. 133-134. È interessante notare come l’attenzione alle “connessioni
vitali” della scienza sia anche al centro delle critiche che Eduard Spranger muove alle tesi
sostenute da Weber in Wissenschaft als Beruf, tesi che egli discute in un articolo apparso nello
«Hochschulblatt der Frankfurter Zeitung» del 1 dicembre 1921. Spranger rifiuta infatti la
concezione dell’oggettività scientifica di Weber ritenendola astratta e in qualche modo
dimentica tanto delle origini umane e vitali dello spirito di oggettività quanto della
retroazione formativa che lo spirito di oggettività esercita sulla vita e sull’uomo. Va detto
però che Spranger sottolinea esplicitamente come la sua posizione non coincida affatto con
quella di Krieck che non tiene in alcun conto il modo d’essere specifico della scienza e ne
esalta in maniera unilaterale la funzione politico-pedagogica. – Il momento più importante
del confronto tra Weber e Spranger resta comunque la seduta allargata del comitato
direttivo del Verein fu¨r Sozialpolitik tenutasi il 5 gennaio 1914. Nel corso di tale seduta, infatti,
essi presentarono due relazioni contrapposte sul problema dell’ammissibilità e del ruolo dei
giudizi di valore nell’ambito delle scienze economiche e sociologiche. A tale proposito cfr.
H. Keuth, Wissenschaft und Werturteil, cit., pp. 22-54.
58
G. Lauer, Die verspa¨tete Revolution, cit., p. 251.
59
Rvi, p. 670; tr. it. cit., p. 123.
ERNST KRIECK 139

comprendere la posizione specifica assunta da Krieck nel dibattito sulla


scienza e sulle sue relazioni con la vita che fece seguito alla pubblicazione
di Wissenschaft als Beruf.

3. In Die Revolution der Wissenschaft Krieck intende affrontare la questione


della scienza, della sua crisi e della sua palingenesi nell’alveo di un pro-
blema che egli ritiene più generale e nel contempo più urgente, quello
dell’educazione del popolo tedesco che deve (e può) «sollevarsi dalla
60
rovina» . È però importante mettere in rilievo che per Krieck tale educa-
zione è innanzi tutto un’«autoeducazione» [Selbsterziehung]61. Infatti, ciò che
educa i popoli rendendoli attori della storia e non mera «materia per altri
popoli» è «un’idea comune» che da un lato sta sempre davanti a loro come
«compito da adempiere», dall’altro rappresenta un inalienabile patrimonio
insito nell’«autocoscienza popolare», nella «comune memoria del proprio
divenire», ossia nella «tradizione»: «un popolo, che non affonda le proprie
radici nel sottosuolo di tutta la vita spirituale e nelle profondità della
preistoria, non è neanche dotato di un grande avvenire giacché non è
capace di cogliere in se stesso e nell’umanità un compito che ecceda di
molto la sua situazione presente»62. Fin dalle prime battute dello scritto di
Krieck si rende dunque visibile un paradosso che sta al fondo di tutta la sua
riflessione e, a ben guardare, del concetto stesso di rivoluzione conserva-
trice. È il paradosso di una tradizione che, pur essendo concepita come
l’essenza perenne del popolo, ha indiscutibilmente subito una grave cesura
nella «situazione presente» di quest’ultimo. Sicché da un lato essa arretra e
sprofonda in un passato mitico ed oscuro («il sottosuolo di tutta la vita
spirituale», «le profondità della preistoria») che però la pone al riparo dalle
ingiurie del tempo e la rende sempre disponibile come fonte di legittima-
zione, dall’altro si trasforma in un dover-essere la cui realizzazione (proiet-
tata in un futuro radicalmente diverso dall’oggi) è unicamente affidata alla
forza di volontà.
Questo nucleo irrazionale della riflessione di Krieck si manifesta con
estrema chiarezza quando egli determina concretamente l’idea destinata a
fare acquisire al popolo tedesco «una nuova esemplarità fra i popoli»63
mediante la nozione – a noi già familiare – di organische Gemeinschaft.

60
RdW, p. 1; tr. it. cit., p. 61.
61
Ibidem.
62
Ibidem.
63
Ibidem.
140 INTORNO A WEBER

«L’idea della comunità organica – Krieck infatti scrive –, la radicata unità


spirituale di tutti i singoli e di tutti i membri che la compongono, è il
contenuto, il punto di partenza e il fine di tutta quanta l’educazione del
popolo»64.
Ora, nella misura in cui l’idea della comunità organica costituisce il fine
dell’educazione del popolo tedesco, quest’ultima diventa la condizione
indispensabile della «realizzazione effettiva dell’idea»65, la quale, considerata
«in sé», è, al pari di tutte le idee, una «mera possibilità priva di compimen-
to»66. Krieck è infatti durissimo contro «la più ripugnante di tutte le
superstizioni moderne: il fatalismo dello sviluppo», perché ritiene che «nella
storia nulla accada senza la volontà dell’uomo» e che «tutte le potenze
sovrapersonali, tutte le idee debbano essere convertite in azione e realtà dal
volere dell’uomo e tramite la volontà dell’uomo»67. Non a caso, dopo aver
asserito che la vera molla del divenire storico è la «libera posizione dei fini»,
egli afferma: «Il nostro futuro è un problema di formazione della volontà
nella comunità, è un problema di educazione, e non già il problema di una
legalità esterna, derivante da una fede nello sviluppo, sia essa di stampo
hegeliano, marxiano, spengleriano o anche teosofico-psichico: il futuro
scaturisce dall’azione, e non già dal fato o da ciò che è esternamente dato.
La questione è solo se si incontra o meno una stirpe di uomini attivi, dotati
di robuste radici e responsabili davanti al passato e al futuro, una stirpe che
possa diventare il veicolo dello sviluppo e dell’educazione del popolo»68.
È però legittimo chiedersi perché, e soprattutto in che senso, questa
stirpe di educatori del popolo debba essere «dotata di robuste radici» e
debba sentirsi responsabile non solo di fronte al futuro, ma anche di fronte
al passato? D’altronde, come interpretare un’ulteriore affermazione di
Krieck secondo la quale «nella posizione dei fini domina solo la libertà, vale
a dire la necessità interna»69? Una risposta a queste domande va a mio

64
RdW, p. 4; tr. it. cit., p. 64.
65
Ibidem; tr. it. cit., pp. 64-65.
66
RdW, p. 10; tr. it. cit., p. 70.
67
RdW, pp. 9-10; tr. it. cit., p. 70.
68
RdW, p. 10; tr. it. cit., p. 71. Anche in Die Revolution von innen Krieck, discutendo lo
scritto Geist, werde wach! di Paul Ernst (München, 1921), pone il problema della «formazione
di una nobiltà morale, di un ceto unitario e in sé conchiuso di formatori dell’essere del
popolo» (Rvi, p. 672; tr. it. cit., p. 125).
69
RdW, p. 10; tr. it. cit., p. 71. Cfr. anche RdW, pp. 49-50; tr. it. cit., pp. 110-111:
«Nessuna potenza esterna necessita la volontà in una certa direzione (...). Al pari di tutto il
regno della natura, l’uomo, se riesce a conservarsi e riprodursi, ha realizzato la propria
destinazione naturale. Ma anche in questo caso l’universa natura non conosce alcuna finalità
ed alcun riguardo: i terremoti seppelliscono l’uomo, gli incendi lo carbonizzano, le inonda-
ERNST KRIECK 141

parere ricercata nell’idea della comunità organica intesa non più come fine,
ma come Ausgangspunkt dell’educazione del popolo tedesco. Infatti, se è
vero che, contro ogni «fatalismo dello sviluppo», il futuro del popolo
tedesco è determinato soltanto dalla forza di volontà della comunità
popolare e dei suoi educatori, è anche vero che il punto di partenza da cui
questa educazione trae contenuti e scopi è a sua volta fatalmente determi-
nato da una «necessità interna» che, a differenza delle presunte «necessità
70
esterne», risulta effettivamente «inappellabile» . «Una forma di comunità,
qualsiasi sia il suo genere, deve (...) essere ricreata non già muovendo da
una qualunque dottrina, ma dall’essenza e dalla predisposizione caratteriale
del popolo tedesco. Con ciò è dato il punto di partenza della futura
educazione del popolo. Soltanto quel che sorge dall’interno è capace e
degno di avere un futuro. Ma può scaturire dall’interno solo ciò che è già
contenuto in germe nella natura singola, nell’immediata tradizione spiritua-
le»71. Si badi bene: qui Krieck non fa riferimento al passato storico di un
popolo che continua a vivere in maniera nuova e diversa nel suo presente e
nel suo futuro. Ciò che egli ha di mira è piuttosto l’essenza del popolo
tedesco, il suo carattere peculiare ed eterno, il suo archetipo mitico. Ed
infatti, in relazione a tale archetipo, i momenti più felici della storia tedesca
divengono una sequela di manifestazioni temporali della medesima realtà
intemporale, divengono, cioè, delle vere e proprie ierofanie che vanno
additate agli uomini di «questo regno intermedio» e di «questa generazione
di passaggio»72 per mostrare loro di cosa è stato capace (e di cosa potrà
essere ancora capace) ciò che vive nascosto nelle regioni più profonde della
loro anima. «La storia mostra quale forza originaria (...) fosse insita nel

zioni lo annegano, le carestie e le epidemie lo uccidono in massa. Ma tutto ciò non è storia e
non produce storia. Da ciò sorge solo il bisogno, ossia la precondizione della storia. I modi
in cui l’uomo soddisfa il bisogno, i modi in cui egli si erge contro il proprio destino esterno, i
modi in cui gli uomini, con una volontà possente e vittoriosa, si riuniscono nella comunità: è
questo il problema più intimo della filosofia della storia giacché si tratta dell’azione dello
spirito libero che plasma la storia. La forza creativa insegna all’uomo a superare il bisogno, a
ergersi e affermarsi contro il destino: al di sopra del bisogno e del destino l’uomo pone la
sua opera come monumento alla sua libertà» (il corsivo è mio). Ed ancora RdW, p. 51; tr. it.
cit., p. 112: «Nessuna causa esterna e nessuna potenza naturale costringono l’uomo alla
creazione della civiltà e tanto meno alla creazione di una determinata specie di civiltà. E
soprattutto nessuna causa esterna e nessuna potenza naturale costringono un popolo a
guidare la storia. Si tratta di un problema di volontà e di educazione del popolo» (il corsivo
è mio).
70
RdW, p. 10; tr. it. cit., p. 70.
71
RdW, p. 5; tr. it. cit., pp. 65-66.
72
SW, p. 511; tr. it. cit., p. 130.
142 INTORNO A WEBER

tedesco. Questa essenza è ancora presente in uno strato del carattere del
popolo. Essa è certamente latente, ma non è per nulla logora, ed è dunque
pronta a dispiegarsi nuovamente, come mostrano le formazioni sociali
organiche della seconda metà del diciannovesimo secolo. Inoltre la storia
insegna come sia stata alta e originaria l’idea di società propria del pensiero
tedesco da Kant a Hegel. Essa è ancora viva nel fior fiore delle migliori
coscienze del nostro popolo – quelle maggiormente conformi alla sua
peculiare essenza –, e in futuro dovrà solo trovare il proprio compimento
73
nella realtà effettuale» .
Il fulcro attorno al quale ruota tutta la prima parte di Die Revolution der
Wissenschaft74 è dunque l’idea della comunità organica che, attingendo
all’archetipo mitico del popolo tedesco, è l’unica idea adeguata a educarlo,
e cioè a trarlo fuori dalla de-generazione in cui letteralmente versa e a farlo
divenire nuovamente ciò che da sempre è. La critica alle «due supposte
idee» entrate in scena dopo la fine della guerra e la caduta degli Hohenzol-
lern (vale a dire «il democraticismo formale e il marxismo»)75 si basa infatti
sulla ferma convinzione che esse non «traggono origine dal carattere del
popolo» e non possono quindi «essere incorporate dal popolo come un
bene di sua proprietà e di sua invenzione»76.
Non a caso il democraticismo formale, «l’odierna forma di democrazia
di massa»77, mostra la sua inadeguatezza proprio in campo educativo, lı̀
dove avrebbe dovuto superare le indubbie benemerenze della monarchia
operando nel senso di un’educazione del popolo all’autodeterminazione
politica. «Dovrebbe essere compito della democrazia – Krieck infatti scrive
– allevare un carattere popolare forte e durevole, plasmare una volontà
comune con le forme di esistenza e gli organi del volere che ad essa
corrispondono. Invece di far ciò, l’odierna forma di democrazia dissolve
completamente il popolo, che dovrebbe essere una totalità organica e ben
articolata, nei suoi elementi primitivi, allo scopo di portare al potere i
virtuosi caporioni di partito tramite i mezzi della suggestione di massa e
della seduzione di massa (...). Sulla strada di questa democrazia di massa
noi non perverremo all’autodeterminazione, né alla formazione del carat-

73
RdW, p. 5; tr. it. cit., p. 66.
74
Die Revolution der Wissenschaft. Ein Kapitel u¨ber Volkserziehung è divisa in due parti. La
prima parte è intitolata: «Il bisogno spirituale del popolo». La seconda parte (notevolmente
più lunga) è intitolata: «La rivoluzione della scienza».
75
RdW, p. 2; tr. it. cit., p. 62.
76
RdW, p. 1; tr. it. cit., p. 61.
77
RdW, p. 2; tr. it. cit., p. 62.
ERNST KRIECK 143

tere popolare, né alla costituzione di saldi organi di volontà nel popolo, ma
solo a continue oscillazioni e a una durevole insicurezza. L’odierna costitu-
zione dello Stato, costruita a partire dai principi di partito, non ha nulla a
che fare con l’essere del popolo tedesco e con la sua essenza; perciò non
78
può nemmeno operare sul popolo trasformandolo ed educandolo» . D’al-
tronde per Krieck «democraticismo e parlamentarismo» sono solo un
“dono della sconfitta”79, sono cioè le caratteristiche distintive della «dottrina
dello Stato dell’Europa occidentale» che il popolo tedesco ha cercato di far
propria «per amore del “progresso” e degli inganni di Wilson»80, ma
principalmente perché non era in grado «di erigere un modello guida più
alto di configurazione dello Stato»81. Tale innesto, già di per sé pericoloso,
potrebbe addirittura rivelarsi mortale per i tedeschi, giacché questi ultimi
non si sono limitati ad assumere «il principio della democrazia formale»82,
ma – con la costituzione di Weimar – lo hanno addirittura portato fino alle
estreme conseguenze subendone in pieno gli effetti disgreganti. E tuttavia
da un simile azzardo potrebbe anche derivare la «rapida liberazione dalla
formula democratica» e la conseguente «transizione» ad una forma di Stato
più alta, a quello «Stato popolare organicamente articolato» (o «Stato
sociale autoamministrato»)83 che Krieck considera pienamente conforme
all’essenza e alla predisposizione caratteriale del popolo tedesco.
Al democraticismo formale Krieck preferisce in qualche modo il marxi-
smo. Esso «ha realizzato (...) compiti positivi», «ha riunito i lavoratori in
vista della lotta di classe»84, ha insegnato loro «la solidarietà»85, ha cioè
esercitato un’efficace controspinta contro l’atomizzazione della società bor-

78
RdW, pp. 2-3; tr. it. cit., pp. 62-63.
79
Questa espressione è adoperata con ironica amarezza da Heinrich Mann per rimarcare
la scarsa affezione del popolo tedesco alle istituzioni democratiche della Repubblica di
Weimar.
80
Rvi, pp. 671-672; tr. it. cit., p. 124. L’8 gennaio 1918 il presidente americano Th. W.
Wilson aveva annunciato a tutti i belligeranti i suoi quattordici punti programmatici per una
pace giusta. Questa piattaforma fu accolta positivamente dalla maggior parte dei tedeschi,
perché in sintonia con il progetto pangermanista dell’unità di tutti i tedeschi in un unico
Stato. Ma dopo l’umiliante trattamento subito dalla Germania a Versailles, a molti le
promesse di Wilson apparvero come un inganno, come uno strumento della propaganda
bellica alleata.
81
RdW, p. 3; tr. it. cit., p. 63.
82
Ibidem.
83
Ibidem.
84
Ibidem.
85
RdW, p. 5; tr. it. cit., p. 65.
144 INTORNO A WEBER

ghese. Ma le potenzialità storiche del marxismo si sono completamente


esaurite, e cosı̀ il suo impianto teorico «si mummifica in un rapido invec-
chiamento rivelandosi ormai privo di ogni plasticità»86. Il limite fondamen-
tale del marxismo risiede per Krieck nella natura puramente economica del
legame fra i lavoratori che esso propugna: in tal modo questi ultimi
vengono trasformati «in una massa insensibile» e «tenuta insieme con la
colla» che «si orienta sul valore economico assumendolo come unico
articolo di fede» e risulta perciò «priva di spirito e ostile allo spirito»87. Non
a caso nel Doktor Faustus di Thomas Mann il giovane Carl von Teutleben –
un personaggio costruito dallo scrittore sulla falsariga di Krieck88 – afferma:
«Io mi domando se dalla società economica possa sorgere un popolo
nuovo. Guardate un po’ la zona della Ruhr: vi trovate centri di raccolta di
uomini, ma non cellule per la formazione di un nuovo popolo. Andate con
l’accelerato da Leuna a Halle! Vedrete gruppi di operai che sanno discor-
rere molto bene di tariffe, ma dai loro discorsi non si ricava che abbiano
tratto energie popolari dalla loro comune attività. Nell’economia si vede
sempre più la mancanza dell’infinito»89. Questo limite insuperabile del

86
RdW, p. 3; tr. it. cit., p. 64. Krieck infatti scrive: «La teoria dell’impoverimento è già
stata abbandonata in precedenza; la teoria del plusvalore è alla bancarotta; che cosa sia la
collettivizzazione, non lo sa più nessuno, dopo che il progetto della statalizzazione è
necessariamente fallito; la filosofia della storia materialistica, di fronte alla nuova situazione,
ha del tutto perduto il proprio senso lasciando dietro di sé residui di genere assai dubbio»
(RdW, p. 4; tr. it. cit., p. 64).
87
RdW, p. 5; tr. it. cit., p. 65.
88
Cfr. A. Kiel, Erich Kahler, cit., p. 260 e G. Lauer, Die verspa¨tete Revolution, cit., p. 293.
Teutleben (“vita teutonica”) è, nel romanzo di Mann, uno dei membri dell’associazione
cristiana Winfried di Halle, nonché uno dei partecipanti alle gite ristrette del circolo alle
quali prendono parte anche Adrian Leverkühn e Serenus Zeitblom.
89
T. Mann, Doctor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverku¨hn narrata da un
amico, cit., pp. 154-155. «Ma nemmeno il popolo è infinito – notò un altro che non ricordo
bene se fosse Hubmeyer o Schappeler. – Noi teologi non dobbiamo ammettere che il
popolo sia qualcosa di eterno. La capacità di entusiasmi è una bella cosa e il bisogno di fede
è assai conforme alla gioventù, ma è anche una tentazione, e di fronte alla sostanza dei nuovi
legami che vengono offerti dovunque mentre il liberalismo sta morendo bisogna osservare
attentamente se questa sostanza sia anche genuina e se l’oggetto che crea un legame sia un
che di reale, o non forse il prodotto di un, diciamo, romanticismo strutturale che si crea
oggetti ideologici per vie nominalistiche, per non dire finzionalistiche. Secondo la mia
opinione o secondo il mio timore l’idea di popolo ridotta a idolo e quella di Stato visto
come utopia sono due di questi legami nominalistici, e il professarli, il professarsi, per
esempio, tedeschi, non costituisce un obbligo perché non ha niente a che vedere con la
sostanza personale» (ivi, p. 155). Questa replica al discorso di Teutleben riceve l’approva-
zione di Konrad Deutschlin, il membro di maggior spicco del circolo Winfried creato da
Thomas Mann sul modello di Kahler: «Di una certa frequente vacuità nominalistica e
ERNST KRIECK 145

marxismo, che coincide del tutto col suo «celebre fondamento “scientifi-
co”», lo costringe a rimanere aderente «al piano superficiale della mera
negazione e della mera opposizione» e a non poter mai offrire una
«configurazione positiva» del proprio «paradiso»90. Ne sono prova l’imba-
razzo e il disorientamento della socialdemocrazia giunta al potere con la
proclamazione della Repubblica di Weimar, un imbarazzo e un disorienta-
mento che liberano d’un colpo «la nazione (...) da quella camicia di forza
dello spirito che è il marxismo» e la rendono consapevole del fatto che «il
futuro appartiene» sı̀ «al socialismo», ma a un «socialismo» ricreato «a
partire dallo spirito del popolo tedesco»91.
L’alternativa al democraticismo formale e al marxismo – in grado di
integrare fra loro borghesia e proletariato («le due metà del popolo»)92 – è
dunque «il socialismo prossimo venturo e lo Stato sociale organico che ad
esso corrisponde»93, ossia quello Stato delle corporazioni che Krieck aveva
già teorizzato tre anni prima in Die deutsche Staatsidee94. È però importante
rimarcare che per Krieck il nuovo Stato non rappresenta soltanto una forma
di organizzazione politica, giuridica ed economica che ne rimpiazza un’al-
tra, ma attinge ad una fonte di legittimazione assoluta poiché gode di un
radicamento interiore nell’essenza stessa del popolo che ne fa l’unica forma
di organizzazione politica, giuridica ed economica veramente conforme

personale mancanza di sostanza nella professione popolare Hubmeyer ha parlato molto


bene, e si potrebbe generalizzare aggiungendo che non importa mettersi dalla parte di
oggettivazioni capaci di potenziare la vita, se ciò non ha alcuna importanza per la forma di
vita personale, ma vale soltanto per occasioni solenni tra le quali annovero perfino l’ebbro
sacrificio della vita» (ibidem, p. 156). Tutto ciò può utilmente ricollegarsi a quanto ho notato
in precedenza circa la differente valutazione della singola vita personale in Krieck e in
Kahler (cfr. supra, nota 46).
90
RdW, p. 3; tr. it. cit., p. 64.
91
RdW, pp. 3-4; tr. it. cit., p. 64.
92
RdW, p. 5; tr. it. cit., p. 65.
93
RdW, p. 4; tr. it. cit., p. 64.
94
Cfr. a tale proposito Rvi, p. 671; tr. it. cit., pp. 123-124: «Il legame e la crescita
all’interno della comunità si basano sulle funzioni tramite le quali tutti i membri della
comunità sono congiunti con tutti gli altri e si inquadrano cosı̀ nella totalità. La funzione dei
membri della comunità che costituisce la società è la professione, tanto nel senso corrente
quanto nel senso più alto della parola. La funzione professionale lega i singoli ai gruppi
corporativi, ai membri sovrapersonali del popolo. Senza questa articolazione corporativa,
senza ordinamento sociale il popolo non sarebbe che un mucchio casuale e sconnesso di
singoli. Ma è proprio in un mucchio di questo genere che lo Stato moderno ha degradato e
dissolto il popolo ponendo in essere l’anarchia organizzata. (...) il futuro sviluppo farà dello
Stato l’ossatura interna dell’ordinamento sociale stesso e in tal modo dovrà nuovamente far
coincidere Stato e società dopo una separazione che è durata secoli».
146 INTORNO A WEBER

all’archetipo mitico del tedesco. Questa peculiarità del nuovo Stato si


riflette in pieno sul compito di trasformarlo in una realtà storica effettiva,
che si configura «in prima istanza» come «un compito dell’educazione» in
rapporto al quale il criterio dell’«immediata efficacia rispetto allo scopo»
deve «passare in seconda linea»: infatti «anche la legge e l’organizzazione
possono conseguire un’efficacia solo se si collegano con i modi di sentire e
di pensare esistenti e risultano cosı̀ in grado di operare a ritroso su di essi
95
come potenze educatrici» .
Nella prima parte di Die Revolution der Wissenschaft il valore totalizzante
che Krieck attribuisce all’idea della comunità organica – da un lato intesa
come Untergrund della vita spirituale del popolo tedesco in cui «la putrefa-
zione non può insinuarsi»96, dall’altro concepita come fine ultimo di un’edu-
cazione che miri a riscattare il popolo tedesco (e l’intera civiltà occidentale)
dall’attuale stato di decadenza – orienta non solo le sue riflessioni sul
problema dello Stato, ma anche quelle sul problema della religione. Infatti
anche la religione (che è veramente tale solo se è una «religione comunita-
ria» e se dà vita a una «comunità religiosa»)97 presenta secondo Krieck due
caratteristiche essenziali che sono strettamente correlate fra loro.
In primo luogo essa, come espressione immediata del sacro vincolo che
ci lega a Dio e alla comunità, è qualcosa di «sempre presente» che «non si
può fabbricare»98, è «la Urzelle di tutto lo sviluppo della civiltà», è «il
fenomeno originario dello spirito» da cui ogni altro deriva recando con sé
«le tracce della propria origine»99. Questa pervasività dell’elemento religioso
non vale solo per le società umane poco ramificate degli albori («ogni
corporazione, ogni milizia ha avuto in qualche modo il carattere di una
consociazione di culto»)100, ma vale e deve valere per ogni società umana, a
patto che essa non sia ridotta o non voglia ridursi a «un mucchio casuale e
sconnesso di singoli»101. Su questo punto Krieck è chiarissimo: «La reli-
gione, quando è forte e autentica, non occupa un ambito separato della vita

95
RdW, p. 4; tr. it. cit., pp. 64-65.
96
RdW, p. 19; tr. it. cit., p. 80.
97
Ibidem. «Dio e l’anima si rivelano solo nel divenire spirituale, e questo è impossibile
senza la comunità. Per tale motivo la comunità, accanto a Dio e all’anima, è il terzo che è
proclive alla vita» (ibidem).
98
RdW, p. 17; tr. it. cit., p. 77. Non a caso in Die deutsche Staatsidee Krieck sostiene che il
Terzo Reich prossimo venturo sarà ancora fondato sul cristianesimo, per quanto su un
cristianesimo declinato secondo le caratteristiche peculiari dei popoli nordici.
99
RdW, p. 15; tr. it. cit., p. 76.
100
RdW, pp. 19-20; tr. it. cit., p. 80.
101
Cfr. supra, nota 94.
ERNST KRIECK 147

pubblica e una determinata posizione altimetrica nel perimetro dell’esi-


stenza spirituale, ma permea la totalità in ogni ambito e a ogni livello
giungendo fino alle sue ultime ramificazioni. La religione dà a tutte le
forme d’esistenza una fisionomia conforme all’eterno, offre loro una fonda-
zione e un legame in ciò che c’è di più profondo, e perciò costituisce il
principio propriamente spirituale e organico della vita comunitaria. Un
popolo è dunque destinato ad avere carattere e a divenire una comunità
102
organica solo se cresce su un sottosuolo religioso unitario» .
Questo passo ci introduce efficacemente all’altra caratteristica essenziale
che Krieck attribuisce alla religione: essa è «la regina delle potenze educatri-
ci»103, in quanto «integra dall’interno la vita comunitaria esterna»104, in
quanto «dà alla comunità un senso incondizionato che va al di là di ogni
conformità allo scopo, un ancoraggio al fondamento originario ed eterno»,
in quanto «innalza l’organizzazione ad organismo»105. Per tale motivo, se
davvero si vuole che il popolo tedesco continui a sussistere «come popolo
libero, ossia come potenza spirituale indipendente e come Stato libero», è
assolutamente necessario favorire e promuovere la sua «elevazione religio-
sa»106. Certo ciò non significa necessariamente ripristinare «un grande
apparato di dogmi, di sacramenti e di forme di culto», giacché per Krieck –
la cui religione familiare era il pietismo – «chi ha trovato la via che conduce
a Dio non necessità più di ponti e di stampelle»107. E tuttavia non bisogna
dimenticare che «l’intero ambito dei concetti e degli oggetti religiosi, delle
forme di culto, dei dogmi e dei sacramenti deve la sua genesi e la sua
legittimità (...) alla sua funzione educativa», giacché la potenza redentrice
della religione, per essere veramente tale, non deve operare soltanto su di
un esiguo numero di individualità eccezionali, ma sull’intera comunità:
«non si consegue nulla – Krieck infatti scrive – nel caso in cui pochi
procedono con le proprie forze nella direzione del compimento, mentre
tutti gli altri cadono spiritualmente in rovina e si trasformano in bestie,
foss’anche nella forma di una raffinatissima civilizzazione»108.
Se si tiene debitamente presente questo genere di approccio al pro-
blema della religione, si comprende perché la violenta e spesso greve

102
RdW, p. 21; tr. it. cit, p. 82.
103
Ibidem.
104
RdW, p. 15; tr. it. cit., p. 76.
105
RdW, p. 19; tr. it. cit., p. 80.
106
Ibidem.
107
RdW, p. 16; tr. it. cit., pp. 76-77.
108
Ibidem; tr. it. cit., p. 77.
148 INTORNO A WEBER

109
requisitoria di Krieck contro «i covi e i bordelli dello spirito “moderno”» e
contro la sua «cultura intellettualistica» che rispecchia e nel contempo
promuove la dissoluzione della comunità organica finisce per coincidere
del tutto con la denuncia del distacco dell’Occidente dalle sue «radici
religiose»110, nonché degli effetti che da tale distacco necessariamente
derivano. «In tutte le epoche e presso tutte le civiltà è possibile constatare
che, quando crolla la religione, si scioglie il più intimo legame della
comunità, giacché quest’ultima non possiede più un punto attorno al quale
la sua forza spirituale possa cristallizzarsi. Alcune civiltà possono vivere
ancora per lungo tempo dell’eredità che ha lasciato loro la religione che le
ha generate; tuttavia quanto più lo sviluppo si allontana dall’origine, quanto
più la civiltà si ramifica e le ramificazioni si autonomizzano, tanto più le
civiltà in questione divengono incapaci di profondi rinnovamenti, diven-
gono cioè incapaci di rinascere. Ma ciò che non partecipa ad una continua
rinascita, è votato alla morte»111.
Uno dei primi campi in cui si rende visibile questo processo di
decadenza è quello dell’arte. Quest’ultima «non può ben prosperare nell’e-
poca della sua autonomia» nel corso della quale perde non solo «le basi più
profonde della sua visione del mondo», ma anche «la capacità di essere
portatrice e trasmettitrice di valori spirituali»112. Infatti «la grande arte»,
proprio nella misura in cui «cresce e viene fuori dagli inizi e dalle forme che
il popolo stesso ha prodotto e che corrispondono internamente alla sua
essenza» (e qui Krieck rimanda «al significato che hanno potuto avere per il
popolo tedesco ... il canto popolare, il mito, la saga, la favola, la Bibbia di
Lutero e il canto sacro»)113, presenta sempre uno stile ben definito che non
ha immediatamente a che fare col suo “puro” valore artistico, quanto
piuttosto col suo valore pedagogico. Infatti è proprio lo stile che indica al
popolo «la via per la comprensione e la partecipazione» e che garantisce
che l’opera d’arte possa essere integrata «in una legalità che corrisponde del
tutto ai generali ordinamenti della vita e a quanto è ritenuto pubblicamente
valido»114: parole, queste, che non possono non suonare sinistre alla luce
delle persecuzioni alle quali i totalitarismi novecenteschi hanno sottoposto
la cosiddetta “arte degenerata”.

109
RdW, p. 7; tr. it. cit., p. 68.
110
RdW, p. 6; tr. it. cit., p. 66.
111
RdW, p. 15; tr. it. cit., p. 76.
112
RdW, p. 6; tr. it. cit., p. 66.
113
RdW, pp. 7-8; tr. it. cit., p. 68.
114
RdW, p. 8; tr. it. cit., p. 69.
ERNST KRIECK 149

È proprio lo stile che viene meno nell’epoca «dell’art pour l’art e della
115
personalità sovrana dell’artista» . Ma ciò non accade soltanto in campo
estetico. Infatti l’assenza di un «grande stile», che nasce sempre «dall’auten-
tica devozione» e «dalla vera comunità»116, caratterizza in ogni ambito
quella che Krieck (riecheggiando il pur criticato Spengler) denomina «la
civilizzazione della metropoli»117. «Mancanza di scopi definitivi e di valori
ultimi, invasività dell’intelletto e della pura conformità allo scopo, il mezzo
come fine a se stesso, il trafelato rimanere fissi che sostituisce la crescita, la
messa in scena che sostituisce il divenire, l’arbitrio che sostituisce lo stile e
la legge: queste sono le caratteristiche della decadenza (...). E il pericolo più
grave consiste nel fatto che la putrefazione minaccia di contagiare anche
ogni residuo di vita sana, anche i buoni germi che ancora rimangono. Il
popolo prolunga la sua esistenza basandosi sulla finzione: la filosofia del
“come se” è divenuta in maniera inaudita e inattesa un comune patrimonio
pratico»118. Certo la straordinaria «motilità»119 della civilizzazione della
metropoli è un sensibilissimo sismografo che registra tutti i sommovimenti
profondi dell’anima che «cerca nuove possibilità di vita»120. Ma nell’oriz-
zonte di riferimento di tale civilizzazione, sull’arido terreno del suo intellet-
tualismo e del suo relativismo «nessuna vita può svilupparsi davvero e nulla
può crescere»121.
Riecheggiando questa volta il Thomas Mann delle Betrachtungen eines
Unpolitischen122, Krieck sostiene che il simbolo della civilizzazione della
metropoli è «il letterato freddo, sterile e conforme all’intelletto» la cui
esistenza «non ha radici»123. Questa figura – che «domina in maniera quasi
incontrastata il campo dell’arte, guida la gioventù, fabbrica nuove religioni e
nuovi dei ed aspira, in nome della politicizzazione dello spirito, alla
direzione dello Stato e della vita pubblica» – non è in realtà «la guida e il

115
RdW, p. 6; tr. it. cit., p. 66.
116
RdW, p. 7; tr. it. cit., p. 68.
117
RdW, p. 6; tr. it. cit., p. 66.
118
Ibidem; tr. it. cit., pp. 66-67. Krieck fa qui polemicamente riferimento alla Philosophie des
Als Ob di Hans Vaihinger (Berlin, 1911), il cui sottotitolo è: System der theoretischen,
praktischen und religio¨sen Fiktionen der Menschheit auf Grund eines idealistischen Positivismus.
119
RdW, p. 7; tr. it. cit., p. 67.
120
RdW, p. 9; tr. it. cit., p. 70.
121
RdW, p. 7; tr. it. cit., p. 67.
122
Cfr. T. Mann, Considerazioni di un impolitico, cit., in part. il capitolo IV (Il letterato della
civilizzazione), pp. 73-86. Naturalmente le argomentazioni di Krieck sono ben lontane dalla
sottile raffinatezza di quelle di Mann.
123
RdW, p. 7; tr. it. cit., pp. 67-68.
150 INTORNO A WEBER

creatore del nuovo spirito», ma solo «la sua cigolante banderuola» che
«ruota attorno al proprio asse anche parecchie volte nel corso di un
124
anno» , pretendendo ogni volta di dar vita a una nuova Weltanschauung, a
una nuova arte, a una nuova letteratura, e, più di recente, anche a un nuovo
Stato, a una nuova economia e a una nuova società125. In realtà – afferma
sprezzantemente Krieck – qui sarebbe vano cercare «una stabilità che non
sia la mancanza di stabilità e un’essenza che non sia l’inessenzialità ciarlata-
nesca»126. Naturalmente l’opera del letterato (di qualunque genere essa sia)
risulta del tutto priva di stile: «il suo stile è la moda, tanto nel campo dello
spirito e dell’arte, quanto in quello della politica»127. E la moda non è altro
che il disperato tentativo di sostituire «ciò che è proprio» con «l’eclettismo»
e «l’importazione»128. Essa scatena dunque tutta la fobia dell’altro e del
diverso che tormentava l’animo di Krieck: «Mode francesi, mode inglesi,
mode russe nell’arte, nella letteratura e nella politica; e quando la cerchia
culturale dell’Occidente si è esaurita, il trafficante si reca presso gli asiatici,
gli indiani, i cinesi, e poi presso gli abitanti delle isole del Sud e presso i
negri, e porta sul mercato i loro ideali presentandoli come valori vitali e
come strumenti di liberazione. Ed ogni ciarlatano può contare di trovare
dei seguaci e di suscitare una moda. Mancando di un nostro proprio
contenuto di vita, abbiamo cercato di essere tutto, ma proprio tutto, tranne
che essere semplicemente noi stessi, vale a dire il popolo tedesco. Quali
attrattive presenterebbe mai questo fatto? E la vita senza attrattive ed
eccitazioni sempre nuove non ha alcun senso per l’abitante privo di radici
della metropoli e per la sua civilizzazione»129.
Se l’arte rivela in maniera molto precoce il profondo disagio di una
civiltà che si separa dalle sue radici religiose e comunitarie trasformandosi
progressivamente in civilizzazione, lo stesso non si può dire per i costumi e
la vita morale che continuano per lungo tempo a fruire dell’eredità materna
della religione. Secondo Krieck nella storia della civiltà occidentale questa
situazione non subisce radicali modifiche neppure quando Lessing e Kant

124
Ibidem.
125
Proprio per questo motivo all’inizio di Vom Sinn der Wissenschaft Krieck si preoccupa di
sottolineare che la crisi della scienza di cui egli parla «è un fatto accertato», e non già il
frutto del «gesto rivoluzionario di un qualunque letterato avido di innovazioni» (SW, p. 510;
tr. it. cit., p. 129).
126
RdW, p. 7; tr. it. cit., p. 67.
127
Ibidem; tr. it. cit., p. 68.
128
RdW, p. 9; tr. it. cit., p. 69.
129
Ibidem.
ERNST KRIECK 151

proclamano la completa autonomia della vita morale dalla religione. Infatti


«finché l’etica si attiene a un fondamento incondizionato, essa stessa è
ancora un parto della fede. Ciò anche quando la sua esigenza fondamentale
è apparentemente solo di natura formale, come accade nel caso dell’impe-
130
rativo categorico o dell’esigenza di fare il bene per amore del bene» .
Muovendo da questo punto di vista Krieck interpreta la stessa dottrina
kantiana dei postulati della ragion pratica non già come un tentativo di
fondare la religione sulla moralità (e non più la moralità sulla religione),
bensı̀ come un chiaro sintomo del fatto che in Kant il cordone ombelicale
che lega la moralità alla religione non viene per nulla reciso, ma solamente
occultato. «Ogni conoscenza che segue fino alle fondamenta il prospetto
verticale del costume e della moralità, si imbatte necessariamente nel suo
centro vitale e nei valori incondizionati: la moralità è legata alla fede»131.
E tuttavia l’autonomia della moralità proclamata da Lessing e Kant
nasconde per Krieck «grossi pericoli»: «dopo poco tempo da essa conse-
guono aridità e rigidità giacché si esauriscono il mobile afflusso e il mobile
impulso che provengono dalla fonte dell’eterno»132. Prova di questo gene-
rale infiacchimento dei costumi è la profonda metamorfosi subita nel corso
dell’Ottocento dalla Sittenlehre stessa la quale «passa a contemplare il
divenire e la lenta morte delle forme del costume» estendendosi «alla vasta
articolazione delle proiezioni orizzontali del costume e della moralità, alla
loro coesistenza e alla loro successione temporale»133. Ma in questo modo
«tutti i valori incondizionati e tutte le validità incondizionate si eclissano» e
la dottrina dei costumi risulta «votata al relativismo e alla scepsi»134 per-
dendo cosı̀ ogni efficacia pedagogica, e cioè ogni possibilità di retroagire
positivamente sulla vita morale del popolo. «La religione è divenuta scienza
della religione, il costume è divenuto storia del costume, la filosofia e l’arte
sono divenute storiografia, e l’istorica è divenuta a sua volta storicismo e
relativismo: nel corso degli ultimi decenni è stata questa, senza alcuna
eccezione, la caratteristica della nostra più alta vita spirituale»135.
Ma ormai la «profondità della crisi» è divenuta «evidente» ad ognuno136,

130
RdW, p. 17; tr. it. cit., p. 78.
131
Ibidem.
132
Ibidem.
133
Ibidem.
134
Ibidem.
135
RdW, p. 18; tr. it. cit., p. 79.
136
RdW, p. 9; tr. it. cit., p. 70.
152 INTORNO A WEBER

137
ed è perfino possibile presagire «una coscienza diffusa e indistinta» che
per uscire dalla crisi e proiettarsi verso un più radioso avvenire è indispen-
sabile una rinascita religiosa e un’autoeducazione che sia fondata su tale
rinascita. «Da ogni tempo e da ogni civiltà viene raccolto in un sol fascio
tutto ciò che fa sperare qualcosa di nuovo nel campo dei fini educativi e dei
metodi educativi, e in primo luogo ciò che promette ogni sorta di miste-
riose possibilità: la nuova gnosi, la teosofia con i suoi esercizi, ogni specie di
variazione della psicotecnica e della tecnica yoga, pratiche estetiche, misti-
che o razionali di ogni genere»138. Per Krieck si tratta senza dubbio di
«sintomi di nuove e più profonde posizioni dell’anima»139, ma tali sintomi,
presi di per sé, si limitano «a sovvertire e a dissolvere» e non sono per nulla
in grado «di fare emergere una nuova forma»140. Infatti questi percorsi
religiosi ed educativi non sono soltanto estranei «alla terra patria naturale e
spirituale» del popolo tedesco141, ma rappresentano anche indubbie «mani-
festazioni di vecchiaia»142 delle civiltà dalle quali sono importati. «Non si
vede infatti a quale punto minimo di configurazione positiva della vita le
tecniche in questione hanno condotto l’India, ossia il paese delle meraviglie
della psicotecnica, degli yogin, dei fachiri, degli stiliti, dello sprofondamento
mistico e della metempsicosi? Esse l’hanno condotta al nulla ricolmo
d’anima, l’hanno condotta ad essere il territorio di preda del rapace
capitalismo inglese e il puntello del dominio mondiale dell’Inghilterra!»143.
Del resto, nell’ottica di Krieck, come potrebbero non essere manifesta-
zioni di vecchiaia «pratiche» e «tecniche» che, «nel loro insieme, (...) non
muovono dall’idea della comunità, bensı̀ da quella dell’uomo singolo» e
«giungono a vedere nell’anima individuale la sostanza metafisica pura e
semplice e dunque la sola cosa che conta?»144. Per tale motivo, lungi
dall’educare «esseri umani completi ossia tipi reali di genere più alto», esse
«allevano dei quarti di uomo fino a trasformarli in decimi di uomo, come si
è fatto fino ad oggi nell’ambito della comune vita borghese, e come si farà
più che mai col taylorismo e con i sistemi ad esso affini»145. I nuovi percorsi

137
RdW, p. 11; tr. it. cit., p. 71.
138
RdW, p. 12; tr. it. cit., p. 72.
139
RdW, p. 11; tr. it. cit., pp. 71-72.
140
RdW, p. 9; tr. it. cit., p. 70.
141
RdW, p. 14; tr. it. cit., p. 75.
142
RdW, p. 13; tr. it. cit., p. 74.
143
Ibidem.
144
RdW, p. 12; tr. it. cit., p. 73.
145
RdW, p. 13; tr. it. cit., p. 73.
ERNST KRIECK 153

religiosi ed educativi condividono dunque il limite fondamentale dell’o-


scuro presente da cui pure vorrebbero prendere le distanze, giacché non
aiutano affatto «l’uomo d’oggi (...) a liberarsi dal pensiero e dal sentimento
del suo isolamento», un isolamento che lo trasforma nel «trastullo delle
potenze esterne», in un «fuggevole atomo di cui il vento e i flutti si
146
prendono gioco» . Solo una vera educazione del popolo, e cioè solo un
itinerario religioso ed educativo «nato dall’idea di comunità e (...) orientato
verso il fine della comunità»147 è davvero in grado di promuovere a tutti i
livelli la realizzazione del Vollmensch, dell’uomo completo. Infatti «solo nella
comunità l’uomo diviene veramente libero, poiché oppone una resistenza
forte e creativa alle potenze esterne e giunge al dominio sull’essere. Ma la
comunità è più di un’unione in vista di determinati scopi e di determinate
attività: nella sua esistenza giunge ad esprimersi e dispiegarsi l’unità profon-
damente radicata di tutta la vita. Perciò anche il singolo può plasmare e
dispiegare liberamente la propria vita soltanto se, attraverso la comunità, si
radica nello spirito originario»148.
Tuttavia la polemica contro la moda delle religioni orientali, contro
«l’ondata di asianesimo» che «ancora una volta si aggira per il globo»149,
non porta Krieck a propugnare un puro e semplice ritorno alle tradizioni
religiose storicamente consolidate dell’Occidente, poiché la sua nozione
volutamente mitica ed oscura di tradizione non sopporta nessuna precisa
determinazione storica. Krieck afferma infatti che «le comunità religiose
esistenti» sono venute meno al loro compito precipuo (quello di integrare
la comunità politica fornendo ad essa un ancoraggio nell’eternità) e che
proprio per questo motivo molte anime bisognose si sono rivolte «alle
forme di surrogato, alle merci d’importazione»150. Ciò vale tanto per la
chiesa cattolica (che Krieck, con un misto di ammirazione e diffidenza,
avverte come una potenza ostile all’unità del popolo tedesco ed estranea
alla sua peculiare essenza), quanto per la chiesa protestante: la chiesa
cattolica «come erede dell’impero romano» si è trasformata essa stessa in
«un sistema politico in grande stile» votandosi cosı̀ «all’irrigidimento e alla
despiritualizzazione»; la chiesa protestante è invece «degenerata rapida-
mente asservendosi alla forma di Stato esistente» e divenendo cosı̀ comple-

146
RdW, p. 11; tr. it. cit., p. 72.
147
Ibidem; tr. it. cit., p. 71.
148
Ibidem; tr. it. cit., p. 72.
149
RdW, p. 55; tr. it. cit., p. 116.
150
RdW, p. 19; tr. it. cit., p. 80.
154 INTORNO A WEBER

tamente dipendente dalle prebende, dalle scelte e dalle sorti di quest’ulti-


151
mo .
Di gran lunga migliore è il giudizio di Krieck sulle sette che egli ritiene
«la potenza (...) maggiormente feconda dei secoli moderni» e l’unica via
attraverso la quale «il protestantesimo in generale» potrebbe ancora risul-
tare capace «di creare una religione comune e di permeare spiritualmente la
vita del popolo»152. In realtà ciò che Krieck apprezza delle sette è la loro
capacità di conferire «alle forme di vita uno stile rigoroso e all’educazione
un contenuto spirituale comune e un’idea direttiva»153, o, in termini più
espliciti, la loro capacità di promuovere (mediante una rigida chiusura nei
confronti dell’esterno) quell’assoluta identificazione del singolo con la co-
munità alla quale egli innalza un vero e proprio peana. «Non esiste alcun
vero e durevole accrescimento della vita del singolo che nel corso della
crescita non risulti continuamente e armonicamente connesso col divenire
della comunità, col suo essere membro di un popolo (...). E se egli si
sacrifica o si consuma al servizio della comunità, parteciperà in eterno alla
sua elevata modalità di vita (...). Ciascuno doni con tutte le sue forze il
proprio Sé alla comunità e da quest’ultima lo riceverà indietro accresciuto.
Se ogni singolo cresce dentro la totalità, egli crescerà con la totalità e la
totalità crescerà con lui. In tal modo ogni singolo potrà adempiere la sua
vocazione originaria: quella di essere una parte dotata di pieno valore e nel
contempo un uomo completo»154.

4. La convinzione secondo cui solo un’educazione fondata sull’idea della


comunità popolare e avente come fine esclusivo l’idea della comunità
popolare può efficacemente mettere riparo all’«odierna disgregazione»155
della Germania e dell’Europa rappresenta dunque il presupposto a partire
dal quale Krieck, nella seconda parte di Die Revolution der Wissenschaft,
affronta specificamente il tema della rivoluzione della scienza, la cui tratta-
zione si configura, per l’appunto, come «un capitolo sull’educazione del
popolo». In quest’ottica l’immagine di un sapere scientifico che mira ad una
verità «pura, irrelata e “avalutativa”»156 e che perciò sarebbe solo marginal-
mente toccato dalla crisi si rivela subito come una mera parvenza. O

151
RdW, p. 20; tr. it. cit., p. 81.
152
RdW, pp. 20-21; tr. it. cit., pp. 81-82.
153
RdW, p. 21; tr. it. cit., p. 82.
154
RdW, p. 14; tr. it. cit., pp. 74-75.
155
RdW, p. 22; tr. it. cit., p. 82.
156
Ibidem; tr. it. cit., p. 83.
ERNST KRIECK 155

meglio, il fatto stesso che la scienza cerchi insistentemente di accreditare


una simile immagine di sé costituisce per Krieck una chiara riprova della
sua crisi. «La scienza, aspirando ad una forma erronea di verità, ad una
verità separata e puramente in sé che fosse valida per tutti gli uomini, per
tutti i popoli e per tutti i tempi, ha minato il terreno che le è proprio e ha
condannato la sua esistenza all’inefficacia e all’infruttuosità»157. Perché que-
sto accade? Perché secondo Krieck il terreno su cui la scienza si radica è
quello della peculiare comunità vitale che la detiene e la produce, o meglio
quello del suo eterno archetipo; ed inoltre perché, sempre secondo Krieck,
il banco di prova dell’efficacia della scienza consiste nella sua capacità di
collaborare ad un processo di formazione e di uniformizzazione che renda
la comunità in questione degna del proprio archetipo158. Solo in questa
connessione con l’essere del popolo e con l’educazione del popolo (che
significa rinuncia ad ogni presunto universalismo ma anche all’idea regola-
tiva dell’universalità), la scienza partecipa effettivamente di quella «verità
eterna» da cui dipende l’intera «vita spirituale» e che non ha nulla a che fare
con la «verità astratta» o «incondizionata», la quale, semplicemente, «non
esiste»159. Proprio in questo senso Krieck scrive: «il concetto riceve il suo
valore positivo solo come anello di una catena, come membro di una
totalità che si diparte dall’eterno e nell’eterno nuovamente decorre e il cui
asse è costituito dalla volontà, dall’immediato guardare, dalla fede»160.

157
Ibidem.
158
Si veda quanto si è detto circa Vom Sinn der Wissenschaft alla fine del secondo paragrafo
di questo capitolo.
159
RdW, p. 24; tr. it. cit., p. 84.
160
Ibidem; tr. it. cit., p. 85. Alcune riflessioni di Salz a proposito della neue Wissenschaft di
Kahler mi paiono adeguatissime a contrassegnare la posizione di Krieck. Cfr. FW, p. 28; tr.
it. cit., p. 89: «Non si tratta di un sapere attorno all’irrazionale o dell’irrazionale, ma di un
sapere tramite forze irrazionali, di un sapere che destituisce la ratio, la ragione pensante e
giudicante, dalla sua sovranità nel regno della scienza (...). Conformemente a ciò il criterio
della verità non consiste per questa scienza in una qualsiasi specie di prova razionale, bensı̀
nel sentimento e nella fede, in ultima istanza nella fede della comunità dei sapienti. Una
conoscenza “scientifica” è giusta quando viene creduta tale e riconosciuta tale dalla mistica
comunità dei sapienti, quando viene “intuita” come giusta. Esattamente allo stesso modo
presso i popoli primitivi la prova razionale è sostituita dalla fede di una comunità, la cui
autorità viene sanzionata dall’omogeneità degli Erlebnisse emotivi, dalla medesima disposi-
zione nei confronti del mondo e della vita, e le cui “conoscenze” vengono guidate e
canalizzate dalla potenza spirituale del capo. Come si vede, questa specie di scienza – in
quanto “scienza di una comunità”, di un particolare ceto d’elezione – si appella a forze
spirituali e interiori del tutto diverse dalle forze alle quali si appella quella che fino ad oggi è
stata chiamata scienza».
156 INTORNO A WEBER

È chiaro che a questo punto i gravi problemi “interni” della scienza


contemporanea e la sua infruttuosità per la vita del popolo divengono due
facce della stessa medaglia. E cosı̀ Krieck depreca i danni dello specialismo
che ha creato una babele di linguaggi diversi e incomunicanti, denuncia il
conseguente bisogno di fingere un «legame interno» che in realtà non esiste
più essendo stato sostituito dalla «garanzia» che «le consociazioni degli
specialisti si prestano a vicenda comportandosi all’incirca come i partiti in
Inghilterra», lamenta la scomparsa della vera filosofia «che prima conferiva
forma scientifica alla visione del mondo» e che ora si è trasformata nella
«dottrina della conoscenza» e nella «storia della filosofia» insegnate dalle
161
cattedre universitarie . Ma nel contempo egli sottolinea come l’utilità della
scienza per la vita, la sua “fedeltà alla terra”, consista ormai unicamente nel
«formare gli impiegati che necessitano allo Stato» (senza i cui compensi la
scienza «ardirebbe d’esistere da sé sola ancor meno della chiesa protestan-
te»), e come il morto contenuto delle discipline scientifiche non rivesta più
alcun interesse per il «nostro profondo bisogno di anima e di comunità»,
che non è un bisogno di «verità al plurale», ma «della verità al singolare,
della verità grande e liberatrice che conferisce forma alla vita»162. E tuttavia
per Krieck non si tratta di patologie differenti, ma di un unico sciame di
sintomi del medesimo male. «Distaccandosi dalla sua terra natale e dal suo
fine spirituale che è l’educazione del popolo, la verità scientifica è divenuta
fine a se stessa: essa rappresenta il frutto della metodica scientifica che
svolge una funzione sovrana. Da quando le scienze si sono svincolate dal
loro essere a servizio della vita comunitaria ed in tal modo hanno contem-
poraneamente abbandonato il fondamento della loro visione del mondo, da
quando esse si sono autonomizzate divenendo fine a se stesse, da allora
hanno anche perso il grande slancio che scaturiva dalle connessioni vita-
li»163.
Peraltro Krieck non si limita a tracciare una fenomenologia della crisi
della scienza contemporanea, ma costruisce anche una storia di questa crisi
che prende significativamente le mosse dal «venir meno della filosofia a
partire dalla metà del diciannovesimo secolo»164. Questa periodizzazione è
presente anche in Die Revolution von innen dove Krieck osserva che Kahler
data «l’inizio dell’epoca alla cui svolta si colloca Weber (...) a partire da

161
RdW, pp. 23-24; tr. it. cit., pp. 83-84.
162
RdW, pp. 24-25; tr. it. cit., p. 85.
163
RdW, p. 25; tr. it. cit., pp. 85-86.
164
Ibidem; tr. it. cit., p. 86.
ERNST KRIECK 157

Kant» e dunque «ancora un po’ troppo presto», giacché «una scienza


distaccata e bastevole a se stessa che deperisce e muore nello sfilacciamento
specialistico era possibile solo dopo il declino dell’ultimo sistema formativo
della filosofia: quello hegeliano», che egli definisce come «l’ultima parvenza
165
[der letze Schein] di un’immagine del mondo complessiva» . Va anche
detto però che l’uso del termine Schein non è affatto casuale, in quanto –
come vedremo di qui a poco – Krieck ritiene che già a partire dall’ideali-
smo tedesco, e in particolare da Hegel, la filosofia recasse «al proprio
interno il germe della morte»166.
In Kant la situazione era ancora profondamente diversa. Certo egli «ha
fatto dell’indagine della ragione il compito principale della filosofia», ha
distrutto la tradizionale dottrina della conoscenza come rispecchiamento
«secondo la quale nell’oggetto dell’indagine (...) sarebbe incarnata una verità
in quanto tale (...) che si mostra ad una ragione puramente ricettiva», ha
reso «l’ideale della verità» dipendente «dal suo presupposto, e cioè dalla
ragione»167. Ma «Kant non ha mai formulato in modo univoco il concetto
di ragione»168, e soprattutto è rimasto consapevole del fatto che «la ragione
non è sovrana, ma è solo una forza plasmatrice» che «non può bastare a se
stessa» e che «ha sempre bisogno di un particolare fondamento d’esisten-
za»169. In altri termini nella lettura di Krieck (che nel complesso mira a
scavare un solco profondo e invalicabile fra Kant e l’illuminismo anglo-
francese) la ragione kantiana può espletare proficuamente e armonicamente
la sua duplice attività teoretica e pratica solo perché, in entrambe queste
attività, essa si sa originariamente ricettiva «nei confronti di quanto si situa
oltre il concepibile»170. Non a caso, al di là della sua funzione conoscitiva e
della sua funzione etica, la ragione kantiana detiene anche una «terza
funzione» di natura «religiosa» in rapporto alla quale si configura come
«l’organo che congiunge l’uomo al fondamento originario ed eterno»171. «La

165
Rvi, p. 670; tr. it. cit., p. 122.
166
RdW, p. 25; tr. it. cit., p. 86.
167
RdW, pp. 25-26; tr. it. cit., p. 86.
168
RdW, p. 25; tr. it. cit., p. 86.
169
RdW, p. 27; tr. it. cit., p. 88.
170
Cfr. RdW, p. 28; tr. it. cit., p. 89: «La delimitazione kantiana della ragione nei confronti
di quanto si situa oltre il concepibile non esclude affatto l’azione irrazionale di questa
dimensione della realtà e non nega la sua esistenza (...). Il suo [di Kant] imperativo
categorico e formale apriva perfino le porte all’afflusso dell’originario spirito irrazionale,
dell’originario impulso irrazionale all’interno della vita: nel passaggio esso doveva solo
essere formato dalla ragione in vista del modello ideale della vita comunitaria».
171
RdW, p. 26; tr. it. cit., p. 87.
158 INTORNO A WEBER

ragione è dovuta invece rapidamente degenerare allorquando si è staccata


dal fondamento originario e ha avuto l’ardire di essere essa stessa una
divinità assidendosi, come una prostituta, sul carro trionfale della rivolu-
172
zione francese» .
In Germania gli effetti letali di questa autonomizzazione della ragione
dal suo fondamento originario ed eterno (da Dio e dalla comunità) si
riverberano in pieno nei grandi sistemi dell’idealismo tedesco che, pur
muovendo da Kant, ne tradiscono sotto un duplice riguardo le intenzioni
inoculando cosı̀ nella filosofia «il germe della morte».
In primo luogo l’esigenza kantiana di una critica della ragione come
necessaria propedeutica di ogni filosofia viene erroneamente interpretata in
modo tale che la ragione «da mero organo di conoscenza» si trasforma
narcisisticamente «nell’oggetto della propria autocontemplazione»: «l’idea
di Fichte, la potenza di Schelling e lo spirito di Hegel» sono «pure forme
della ragione» che «hanno preteso di generare da se stesse ogni contenuto e
l’intera visione del mondo»173. L’esito di questa pretesa paradossale è stato
«un formalismo» contro il quale ben poco hanno potuto gli «apporti di
spirito positivo dovuti a Hamann, a Herder, a Jacobi, a Goethe e al
romanticismo»: «a partire da allora sino ai nostri giorni la connessione fra
la ragione e la realtà che ne determina il contenuto è andata perduta
nell’ambito della filosofia»174. Krieck non nega che la stagione filosofica
dell’idealismo abbia raggiunto «un risultato dotato di valore imperituro»
che rende d’altronde perfettamente evidente come anch’essa sia un parto
del popolo tedesco e del suo legame essenziale e caratterizzante con l’idea
di comunità organica: «la ragione, che fino ad allora era stata considerata
come organo dell’uomo singolo, veniva ora riconosciuta come un principio
originariamente comunitario che condiziona l’esistenza e il divenire di ogni
singolo»175. E «tuttavia la comunità veniva concepita soltanto come vuota
forma, come mera legalità»176. Infatti Hegel pretendeva di dedurla da
quell’autodispiegamento dialettico dell’idea che Krieck definisce nuova-
mente come una «parvenza di totalità» [Schein einer Totalita¨t] la quale si
nutre nascostamente di contenuti derivanti dall’esterno non essendo nien-
t’altro che «l’unità costruita a posteriori dell’enciclopedia delle scienze»177.

172
Ibidem.
173
RdW, pp. 26-27; tr. it. cit., p. 87.
174
Ibidem.
175
RdW, p. 27; tr. it. cit., p. 87.
176
Ibidem.
177
Ibidem; tr. it. cit., p. 88.
ERNST KRIECK 159

Ben «più organica» gli sembra «l’immagine del mondo» di un Leibniz,


«vincolata com’è al fondamento originario, al fondamento metafisico e
positivo»: non è dunque un caso che Leibniz abbia potuto fare molto più di
178
Hegel «per la vera educazione del popolo tedesco» .
Quest’ultima osservazione ci introduce efficacemente al secondo
aspetto della tendenza degenerativa che Krieck ravvisa nell’idealismo tede-
sco e in particolare nella filosofia hegeliana. Egli ritiene infatti che il delirio
di onnipotenza della ragione che si distacca dal suo fondamento metafisico
e positivo e dunque dalla sua funzione religiosa, fa anche sı̀ che essa perda
ogni funzione pratica, e cioè ogni reale capacità di esercitare un influsso
formativo sulla vita del popolo. Non era questa la situazione fra la fine del
Settecento e l’inizio dell’Ottocento, e cioè nell’età della rivoluzione francese
e delle guerre di liberazione combattute contro l’esercito napoleonico. «Il
primato kantiano e fichtiano della ragion pratica, il pragmatismo spirituale
di Goethe, l’umanesimo di Wolf e di Humboldt ponevano la verità e la
scienza al servizio della formazione pratica della vita e dell’educazione del
popolo (...). Non c’è dubbio che fino a quel momento la ragione era
anzitutto considerata come legislatrice nel regno dei costumi e della mora-
lità, prima di divenire conoscitrice della verità»179. Ma le cose cambiano
radicalmente nei decenni successivi, e cambiano in coincidenza con il lento
ma inesorabile esaurimento della «potenza» della «religione originaria» e
della «tradizione vivente» (che, sulle prime, erano state soltanto scalfite dal
«distruttivo radicalismo della ragione proprio della rivoluzione francese»)180.
Infatti «dal momento in cui Hegel ha fatto della sua filosofia enciclopedica
il senso di ogni formazione e ha proclamato il primato della ragion pura, la
conoscenza razionale è stata posta del tutto su se stessa, e, in quanto tale,
(...) è stata separata da ogni dimensione superiore ed è stata tagliata fuori da
ogni conduzione pratica della vita: la ragione ha percorso per se stessa la
propria strada e ha rimesso la configurazione della comunità popolare al
caso o all’autorità»181. L’agguerrito programma pedagogico e scolastico fatto
proprio dallo Stato prussiano durante la Reformzeit è stato dunque del tutto
disatteso, e il sapere scientifico si è completamente dimenticato del com-
pito che allora si era assunto, quello di «permeare e formare mediante la
sua idea unitaria ed unificante l’intero essere del popolo»182. Cosı̀ «la scienza

178
RdW, pp. 27-28; tr. it. cit., p. 88.
179
RdW, p. 28; tr. it. cit., p. 88.
180
Ibidem; tr. it. cit., pp. 88-89.
181
RdW, pp. 28-29; tr. it. cit., p. 89.
182
RdW, p. 29; tr. it. cit., p. 89.
160 INTORNO A WEBER

e la formazione superiore sono divenute monopolio della classe borghese


dominante, e le grandi masse sono state liquidate col minimo dell’impegno
tollerabile. È questa la più grave colpa della scienza tedesca nei confronti
del popolo tedesco (...): infatti essa ha reso possibile la lacerazione del
popolo nella lotta di classe e il trionfo del materialismo marxista presso gli
183
strati sociali inferiori» .
«L’esplosione del 1848» coincide per Krieck con la crisi della filosofia
hegeliana e dell’esangue modello di Bildung unitaria che su tale filosofia si
reggeva: «da allora il popolo tedesco non possiede più una visione del
mondo che lo guidi e lo unifichi, e, già a partire dal 1870, la volontà del
popolo non possiede più un’idea che le conferisca una forma e una
direzione»184. Da un lato le scienze specialistiche e la loro metodica si
emancipano del tutto dalla filosofia, cioè dal tentativo di conferire forma
scientifica ad una visione del mondo radicata nel carattere della comunità
popolare e capace di plasmare la comunità popolare; dall’altro la mancanza
di una simile visione del mondo dà vita ad una «formazione generale di
comodo»185, che si configura come un vuoto eclettismo finalizzato solo a
conferire alle classi dominanti un’impronta di «spiritualità più alta»186. Né in
realtà poteva essere altrimenti. Infatti «la scienza trascrive il mito dell’uma-
nità del momento altrettanto bene della religione, dell’arte, della filosofia e
della poesia. In tutte queste superiori forme di cultura si può cogliere con
precisione il valore della comunità che le sorregge: esse rivelano l’idea. Ma
la nostra odierna scienza rivela, al pari delle sue sorelle, l’assenza dell’idea,
la scissione e lo sradicamento»187. Krieck individua in Marx e in Nietzsche i
pensatori che meglio rappresentano questa situazione di scissione e sradica-
mento instauratasi in Germania a partire dalla metà del secolo, giacché
ritiene che le loro dottrine «simbolizzano con evidenza il crollo dell’unità
spirituale del popolo», un evento devastante che ha inficiato perfino il
processo di unificazione nazionale: proprio per questo motivo «Marx e
Nietzsche sono, accanto al Reich degli Hohenzollern, gli sconfitti della
guerra mondiale»188.
Per Krieck la cifra e nel contempo il limite del pensiero di Nietzsche
consiste nell’«individualismo», ossia in quella «consapevole rinuncia alla

183
Ibidem; tr. it. cit., pp. 89-90.
184
Ibidem; tr. it. cit., p. 90.
185
Ibidem.
186
RdW, p. 24; tr. it. cit., p. 85.
187
RdW, p. 30; tr. it. cit., p. 90.
188
Ibidem; tr. it. cit., p. 91.
ERNST KRIECK 161

comunità» e «alla volontà di unità e di totalità» che fa di lui «il genio della
dissoluzione»189. In questo senso Krieck non legge la celebre sentenza della
Go¨tzen-Da¨mmerung contro i pensatori sistematici («Diffido di tutti i sistema-
tici e per la strada li evito. La volontà di sistema è una mancanza di
onestà»)190 come una «tardiva critica al sistema hegeliano», quanto piuttosto
come un tentativo di nobilitare «quell’indebolimento della volontà di tota-
lità» che è un elemento caratterizzante tanto di Nietzsche quanto del suo
tempo e che corrisponde al «tramonto di ogni idea unitaria tanto nella vita
191
della nazione quanto nella scienza» . Ma su questi presupposti il desiderio
di palingenesi che pure percorre il pensiero di Nietzsche si configura
forzosamente come qualcosa di artificiale e di astratto. «La volontà di vita
di Nietzsche è soltanto la confessione di un singolo nascosto sotto le
eccessive sembianze del superuomo. Questa vita conosce la crescita sol-
tanto in una dimensione. Ma come può il singolo crescere oltre se stesso, se
misconosce le fonti della forza che risiedono nella vita comunitaria, se
rinnega le radici che affondano nella terra natia che è la sua origine naturale
e spirituale? (...). Come uno yogin fra gli yogin del materialismo, della
teosofia e simili, il singolo vaga attraverso i regni di questo mondo e
dell’aldilà e attraverso i cicli periodici dell’eterno ritorno»192. D’altronde un
percorso di questo genere non manca di esercitare a sua volta un effetto
disgregante sulla vita comunitaria. «Sotto i passi del superuomo, la comu-
nità sprofonda riducendosi ai suoi elementi primitivi. La massa disgregata è
il seguito coribantico di questo Dioniso»193.

189
Ibidem.
190
F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, cit., p. 58.
191
RdW, p. 30; tr. it. cit., p. 91. In realtà la diffidenza verso il sistema e i pensatori
sistematici si configura in Nietzsche anzitutto come una diffidenza verso la propria tensione
sistematica. Su questa convinzione si regge il saggio di E. Mazzarella, Nietzsche e la storia.
Storicità e ontologia della vita, Napoli, 1983, che, nelle pagine introduttive, rimanda opportu-
namente a F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, cit.: «Diffido di tutti i sistemi e i
sistematici, e mi allontano da loro: forse dietro questo libro si potrà scoprire il sistema che io
ho schivato (...). La volontà di sistema presso un filosofo, in termini morali, è (...) una malattia
del carattere, e in termini non morali, è una sua volontà di presentarsi come più stupido di
quanto sia. Più stupido significa: più forte, più semplice, più dominatore, più barbaro, più
imperioso, più tirannico» (p. 101); «Diffido di tutti i sistematici e me ne tengo alla larga. La
volontà di sistema, almeno per un pensatore, è qualcosa che compromette, è una forma di
immoralità (...). Uno sguardo sotto e dietro questo libro può forse far indovinare a quale
sistematico sia esso stesso sfuggito faticosamente – a me stesso» (p. 392).
192
RdW, p. 31; tr. it. cit., p. 91.
193
Ibidem. A diciotto anni di distanza, nello scritto Leben als Prinzip der Weltanschauung
und Problem der Wissenschaft, Krieck esprime le medesime riserve di fondo sul pensiero di
Nietzsche. A tale proposito cfr. G. Penzo, Nietzsche e il nazismo, cit., pp. 303-304: «Quando
162 INTORNO A WEBER

«L’immagine rovesciata del superuomo» è invece «la massa riunita in


concentrazioni internazionali e impegnata nella lotta di classe, ossia la
194
massa del marxismo» . L’apparente unità di questa massa non deve trarre
in inganno: essa rimane molto distante da una vera comunità poiché non
cresce attorno ad un proprio nucleo interiore, ma è tenuta insieme soltanto
dagli interessi economici e da «una sorta di religione dell’economia»195.
D’altronde anche la dottrina attorno alla quale la massa in questione si
coagula non nasce dal modo di sentire profondo del popolo e dunque non
è in grado di educarlo: «come distillato riflesso d’una filosofia, il marxismo
è giunto ai lavoratori dall’esterno (...) per privarli del loro Sé e della loro
anima»196. In questo senso Krieck ritiene che la più grave lacuna del
«“comunismo”» marxista sia «l’assenza di una reale idea di comunità», e che
per tale motivo esso sia impossibilitato a «promuovere» la «formazione
interiore» del popolo197. Ciò si riverbera in pieno nel determinismo della
concezione marxiana della storia, nel «chiliasmo economico» di chi non
possiede una «volontà plasmata dall’interno» e per questo motivo non si
aspetta «la salvezza» dalla propria volontà, bensı̀ dalle conseguenze rivolu-
zionarie di un processo oggettivo e inarrestabile in rapporto al quale
perfino «la lotta di classe» non può fare altro che «abbreviare il tempo di
attesa»198.
Del resto Krieck ritiene che tanto le dottrine di Nietzsche quanto le
dottrine di Marx, lungi dall’essere un prodotto autoctono dell’anima tede-
sca, abbiano subito l’influsso determinante del darwinismo, che in Die
Revolution der Wissenschaft viene definito come «l’ondata spirituale dell’es-
sere anglosassone che ha preceduto la battaglia finale combattuta da questo
essere per il dominio del mondo»199. La diffusione del marxismo e del
nietzscheanesimo sono dunque un sintomo di quella subalternità culturale
della Germania del secondo Ottocento e del primo Novecento che ha

apre il discorso su Nietzsche, Krieck si mostra (...) piuttosto guardingo (...). L’unico aspetto
decisamente positivo della problematica nietzscheana sarebbe dato a parere di Krieck dal
senso eroico dell’esistenza. In questo contesto egli pone Nietzsche accanto a Hölderlin, a St.
George e pure accanto a Moeller van den Bruck. D’altra parte (...) Nietzsche chiude la
dimensione dell’eroismo nell’orizzonte angusto del singolo, lasciando da parte quello della
comunità».
194
RdW, p. 31; tr. it. cit., p. 92.
195
Ibidem.
196
Ibidem.
197
RdW, pp. 31-32; tr. it. cit., p. 92.
198
RdW, p. 31; tr. it. cit., p. 92.
199
RdW, p. 32; tr. it. cit., p. 92.
ERNST KRIECK 163

lungamente preparato la sua sconfitta sul piano militare. Inoltre, anche


scendendo nel merito, il darwinismo si rivela molto più idoneo dei suoi
pallidi surrogati tedeschi a instillare nel popolo il senso di una forte identità
collettiva. «L’inglese ha condotto la propria battaglia come una nazione
unita e compatta e muovendo dall’indivisa coscienza della razza. Il tedesco
è risultato invece internamente diviso in classi con differenti ideali di vita.
La selezione storica ha favorito la vittoria del popolo che si è presentato sul
luogo della scelta come una totalità, e non già con una frattura al suo
200
interno» . Affermazioni, queste, le quali naturalmente presuppongono che
nel corso della storia i protagonisti della struggle for life siano i «popoli» (o
le «nazioni» o le «razze») concepiti senza meno come organismi singoli e
unitari.
Detto ciò, è necessario sottolineare che per Krieck il pensiero di
Nietzsche esercita il suo effetto corrosivo anzitutto sulla morale e sull’arte,
mentre l’ambito propriamente scientifico risente in particolare dell’influsso
del marxismo che reca fino alle estreme conseguenze «il fatalismo storico di
Hegel»201. «Se ogni accadere consegue dallo sviluppo conforme alle leggi di
natura dei rapporti di produzione, se tutta la vita spirituale è soltanto un
fenomeno concomitante che dipende dall’accadere economico, allora an-
che la scienza – appena è pervasa da questa fede – non può fare altro che
accompagnare l’accadere riflettendolo e rispecchiandolo. Essa consegue
una modalità di conoscenza apparentemente oggettiva e avalutativa, se
rinuncia fin dal principio ad ogni tentativo di configurare la vita, ad ogni
validità pratica e ad ogni efficacia educativa, ponendosi al di fuori dell’acca-
dere. Lo storicismo acquista il sopravvento»202. La critica delle generazioni
più giovani a questo storicismo contemplativo e avalutativo che «ha evirato
le scienze» tenendole lontane dalla «vita immediata», dal «presente» e
dall’«azione»203 è dunque salutata da Krieck come l’augurio di una nuova
aurora per la scienza tedesca e per il popolo tedesco.
Eppure anche in questa salutare ricusazione dello storicismo è per
Krieck nascosto un «grave pericolo», poiché essa potrebbe inavvertitamente
suscitare il rifiuto di un prezioso parto della «vita spirituale tedesca» e di
una condizione indispensabile della sua eventuale rinascita, vale a dire il
rifiuto dell’«immagine storica del mondo» di cui lo storicismo è solo una

200
Ibidem.
201
Ibidem; tr. it. cit., p. 93.
202
Ibidem.
203
Ibidem.
164 INTORNO A WEBER

204
degenerazione . Qui il discorso di Krieck prende una piega assai delicata e
si fa a tratti confuso. Risulta però evidente che egli compie lo spregiudicato
tentativo di porre la sua ambigua prospettiva teorica in continuità con una
tradizione di pensiero che, muovendo «da Lessing, da Herder e da Kant»205,
giunge fino alla grande cultura tedesca del secolo diciannovesimo. Per
Krieck le due caratteristiche portanti di tale tradizione di pensiero sono: da
un lato la rottura dell’immagine statica della natura e dello spirito propria
del razionalismo in favore di una concezione storico-dinamica di «tutto
l’essere» concepito «come la momentanea posizione di equilibrio di forze
eternamente impellenti»206; dall’altro lo strettissimo legame sussistente fra la
nuova «immagine storica del mondo» e le esigenze «della configurazione
creativa del futuro e dell’educazione del presente»207. Certo, fra i precursori
di tale modo di pensare vanno annoverati quei «vivaci ingegni eraclitei»
dell’antichità che «non rigettavano il divenire considerandolo come mera
parvenza contrapposta all’essenzialità dell’essere, ma riconoscevano proprio
nel divenire la realtà effettuale dell’essere, la dinamica dell’essere»208. E
tuttavia «a partire dalla filosofia tedesca il divenire riceve una determina-
zione del tutto nuova: esso non ritorna sempre su se stesso come in
Eraclito, ma è incessantemente produttivo e genera incessantemente il
nuovo (...). L’idea, in quanto forza motrice che opera all’interno del divenire
conferendogli una meta, diviene generatrice della realtà effettuale (...).
L’idea non giace più all’interno o al di sotto della realtà effettuale, bensı̀ è
posta innanzi alla realtà effettuale come un imperativo che svolge una
funzione creativa, e dunque produce incessantemente la realtà effettuale»209.
Ma i toni kantiano-humboldtiani che Krieck adopera in queste pagine
non debbono trarre in inganno giacché rappresentano soltanto una superfi-
ciale verniciatura di una ben diversa concezione di fondo. Non a caso, in un
altro luogo di Die Revolution der Wissenschaft, egli equipara le «idee stori-
che» (ossia le idee in grado di esercitare una funzione motrice e di creare il
futuro) ai «cosiddetti Urpha¨nomenen», definendo le une e gli altri come «una
ristretta cerchia di possibilità strutturali» che «si riempiono costantemente
di nuovi contenuti» e che danno perfino vita, con «il loro eterno ritorno»,

204
RdW, pp. 32-33; tr. it. cit., p. 93.
205
RdW, p. 34; tr. it. cit., p. 95.
206
RdW, p. 33; tr. it. cit., pp. 93-94.
207
RdW, p. 34; tr. it. cit., p. 95.
208
RdW, p. 33; tr. it. cit., p. 94.
209
RdW, p. 34; tr. it. cit., pp. 94-95.
ERNST KRIECK 165

210
ad una «ritmica nell’accadere e nella vita delle forme» . Nello stesso senso
possono essere lette alcune considerazioni che Krieck sviluppa circa gli
effetti della nuova immagine del mondo sulle principali ramificazioni del
sapere scientifico. Non c’è dubbio – egli dice – che l’immagine storica del
mondo abbia esercitato la propria azione principalmente sulle Geisteswissen-
schaften le quali hanno a che fare con «forze produttive vere e reali»211; «ma
in fin dei conti la scienza è una sola, almeno nella misura in cui poggia in
generale sul terreno di una visione del mondo e non è semplicemente un
metodo e una tecnica»; perciò, seppure in maniera più lenta e a tutt’oggi
ancora incompiuta, «la riflessione storica si è (...) trasmessa anche alle pure
scienze di leggi, ossia alla matematica e alla scienza della natura»212. Ora, in
questo ambito «il punto essenziale consiste nel fatto che la matematica e la
scienza della natura, per effetto della nuova immagine del mondo, sono
state riconosciute come prestazioni creative dello spirito che è in continuo
sviluppo, e non come mere riproduzioni passive di leggi e forme che sono
puramente in sé. Lo spirito è legislatore anche nell’ambito della natura, è il
signore del mondo delle forme»213. Qui il lettore sarebbe immediatamente
portato a pensare a Kant, e tuttavia Krieck non si richiama affatto a Kant (la
cui dottrina delle categorie viene anzi considerata come «la forma defini-
tiva» del modo di pensare razionalistico)214, ma piuttosto a Spengler il quale
avrebbe inferto «un gran colpo in questa direzione»215. È evidente che
Krieck fa riferimento nello specifico al primo e all’ultimo capitolo di Gestalt
und Wirklichkeit che Spengler dedica alla matematica e alla fisica nell’in-
tento di «dimostrare, mediante un’analisi comparativa, come anche scienze
apparentemente universali e oggettive dipendano in realtà nella loro strut-
tura da fondamentali presupposti metafisici radicati nelle anime delle di-
verse civiltà»216. Ma allora, anche percorrendo questa strada, si giunge ad
un’ulteriore conferma che per Krieck le uniche idee storicamente produt-
tive sono quelle che affondano le loro radici negli oscuri archetipi collettivi

210
RdW, p. 54; tr. it. cit., p. 115. In alcuni dei suoi scritti successivi Krieck sviluppa in
maniera più ampia questo concetto di «ritmo». A tale proposito cfr. E. Hojer, Nationalsozia-
lismus und Pa¨dagogik, cit., pp. 104 sgg.
211
RdW, p. 33; tr. it. cit., p. 94.
212
RdW, pp. 34-35; tr. it. cit., p. 95.
213
RdW, p. 35; tr. it. cit., p. 96.
214
RdW, p. 33; tr. it. cit., p. 93.
215
RdW, p. 35; tr. it. cit., p. 95.
216
D. Conte, Introduzione a Spengler, cit., p. 13. Gestalt und Wirklichkeit è il titolo del primo
volume di Der Untergang des Abendlandes.
166 INTORNO A WEBER

217
dei popoli (nella loro «anima sostanziale») e che «lo spirito impulsivo e
218
impellente» attorno al quale «si annodano (...) il passato e il futuro» è
unicamente quello che «scrive il mito di se stesso»219.
In ogni caso è sulle scienze dello spirito, e specie sulla storiografia, che
Krieck si sofferma analiticamente nell’intento di marcare la differenza che
intercorre fra il sapere scientifico dell’oggi, caduto nelle panie dello storici-
smo e del metodologismo, e quello del passato recente che, essendo
pervaso dall’immagine storica del mondo e dal suo afflato etico-pedagogico
nei confronti del popolo, può utilmente servire da modello per la scienza
del futuro. «In passato, e cioè nel periodo della sua forte gioventù, la
conoscenza storica è stata una potenza formativa assolutamente volta al
presente, piuttosto che una faccenda particolare dello storico. La sua
vicenda sta a dimostrare che solo quei popoli che fanno la storia possono
veramente scrivere la storia»220. Infatti, mentre «nel diciottesimo secolo il
popolo tedesco era nella migliore delle ipotesi maturo per una storiografia
della cultura», il primo esempio di «grande istorica politica» sorto dal suo
seno, e cioè la Ro¨mische Geschichte di Niebuhr, è strettamente connesso
«all’immediata ed attiva partecipazione» del suo autore «alla costruzione
dello Stato prussiano»: «essa gli ha procacciato la visione fondamentale
della mutua dipendenza funzionale degli avvenimenti e degli ordinamenti
pubblici»; «essa gli ha mostrato che il corso della storia è condizionato
dalla struttura della comunità popolare e dal carattere del popolo che la
incarna, dallo Stato, dalla struttura della società, dalle condizioni economi-
che e spirituali, e gli ha anche mostrato come per converso la struttura di
questi ordinamenti sia a sua volta il precipitato degli avvenimenti e delle
loro interne forze motrici»221. Un simile circolo tra conoscenza e azione è
riscontrabile anche in Ranke, che pure risente dell’inane svolta contempla-
tiva compiuta dalla cultura tedesca successiva all’«epoca delle guerre di
liberazione»222. Infatti se è vero che Ranke insiste sull’importanza della
«riproduzione dei fatti storici», è anche vero che la concepisce sempre
come un semplice lavoro preliminare: «con l’aiuto della sua dottrina delle
idee, che era in realtà una potente visione del mondo formativa essenzial-
mente rivolta al presente, egli ha inquadrato ogni fatto particolare, ogni

217
RdW, p. 36; tr. it. cit., p. 96.
218
RdW, p. 33; tr. it. cit., p. 94.
219
RdW, p. 35; tr. it. cit., p. 96.
220
RdW, p. 36; tr. it. cit., p. 97.
221
RdW, pp. 36-37; tr. it. cit., p. 97.
222
RdW, p. 37; tr. it. cit., p. 98.
ERNST KRIECK 167

fatto indagato con esattezza, in una totalità vivente, e la sua aspirazione ad


una storia del mondo è stata solo l’espressione del desiderio di un’imma-
223
gine del mondo in grado di svolgere una funzione educativa» .
Dunque per Krieck la lezione principale di questa grande stagione
storiografica – tra i cui precursori egli annovera Justus Möser e Hamann – è
che lo storico non può in nessun caso pretendere «di porsi in un punto
situato al di fuori dell’accadere presente e del condizionamento storico, allo
scopo di conoscere, a partire da lı̀, ciò che è accaduto e ciò che accade
esclusivamente come una realtà di fatto in sé essente»224. Riallacciandosi
all’idea propria del neokantismo del Baden secondo cui la concettualizza-
zione storica (come ogni concettualizzazione scientifica) deve necessaria-
mente operare una selezione nel “continuo eterogeneo” della realtà, ma
rimanendo nel contempo del tutto insensibile alla distinzione rickertiano-
weberiana tra “valutazione” e “relazione teoretica al valore”, Krieck afferma
che «l’istorica, perfino nella sua costruzione concettuale più elementare, di-
pende in maniera determinante dal presente, dai suoi modi di vedere e
dalle sue valutazioni», e che dunque lo storico «non può svincolare la verità
dalla vita, il sapere dal volere, senza estirpare le radici della propria
opera»225. Anzi, in ultima istanza, Krieck è convinto che la vita e il volere da
cui ogni opera storiografica risulta inseparabile siano la vita sovrapersonale
e il volere unitario della comunità popolare alla quale lo storico partecipa.
Solo per questo motivo, trattando dell’irrinunciabile funzione educativa
della vera storiografia che ha sempre un occhio rivolto «verso il futuro»,
egli può affermare con tanta sicurezza che «la condizione di membro di un
sistema organico o di uno strato della comunità è il fine e il compito
dell’educazione» e che «perciò l’anatomia e la fisiologia storica della comu-
nità umana e della comunità popolare sono per la pedagogia un fonda-
mento (...) essenziale»226.
Di fronte al recente passato l’attuale situazione di «decadenza dell’isto-
rica» non ha secondo Krieck alcun bisogno di essere argomentata, giacché
«sta chiaramente davanti agli occhi di chiunque paragoni (...) l’elevatezza
della dottrina delle idee di Ranke con la trivialità della filosofia della storia
di Lamprecht o con il vuoto schematismo della morfologia della storia di
Spengler, la cui brillante ricchezza di visioni funge a stento da contrappeso

223
Ibidem.
224
Ibidem.
225
RdW, pp. 37-38; tr. it. cit., p. 98.
226
RdW, p. 39; tr. it. cit., p. 100 (il corsivo è mio).
168 INTORNO A WEBER

227
allo schema di fondo che è povero e primitivo» . E tuttavia Krieck non si
esime da qualche considerazione, e tali considerazioni rivelano in maniera
esemplare la sua abissale lontananza dal pensiero storiografico cui pure
pretenderebbe di richiamarsi, il quale era sı̀ volto a cogliere le «interne forze
motrici» degli eventi, ma sempre a partire da un profondo rispetto per
l’individualità dei fatti “cosı̀ come sono propriamente stati”, e dunque da
un’attenta documentazione delle fonti e dalla critica comparata delle fonti
medesime. Invece, in Die Revolution der Wissenschaft Krieck si scaglia contro
l’eccessiva attenzione ai «gusci vuoti (...) delle forme di vita che furono»228
che finisce per fare perdere di vista «ciò che è veramente degno di pietas»229
(evidentemente determinabile a monte e non a valle della ricerca storica).
In questa stessa connessione di discorso egli stigmatizza l’iniziativa della
Regia Biblioteca di Berlino di raccogliere sistematicamente documenti e
testimonianze relativi agli anni della guerra, giacché ritiene che «nel mito il
ricordo di questo tempo sarebbe custodito meglio che in documenti, atti,
rifiuti e scorie di ogni sorta, che sono la prima cosa di cui una rivoluzione
efficace avrebbe dovuto liberarci»230. E, poco dopo, giunge perfino ad
affermare quanto segue: «La riconfigurazione creativa della vita passata a
partire dai resti che si sono conservati casualmente, ad esempio a partire
dalle rovine egizie, è più essenziale e stimolante di quanto sarebbe stata se
si fossero conservate le raccolte alessandrine mediante le quali l’alessandri-
nismo aveva eternizzato se stesso come norma per le scienze e per la
cultura. Il sacerdote egizio con i suoi templi e il faraone con le sue piramidi
avevano criteri di misura riguardanti la storia ed i posteri che erano diversi
da quelli dei pedanti ellenistici. Omar è stato un liberatore»231.
La decadenza dell’istorica è per Krieck solo «un importante caso
particolare» di un processo di decadenza che interessa «tutto il fronte delle
scienze dello spirito», le quali hanno smarrito la loro Urbestimmung, che è
«quella di essere una potenza atta a formare il popolo», e dunque «vanno
incontro alla morte metodizzata»232. Cosı̀, polemizzando in maniera presso-
ché esplicita con Max Weber, Krieck illustra la penosa situazione della
«scienza economica, che da pochi decenni è stata dichiarata “scienza

227
RdW, pp. 39-40; tr. it. cit., p. 100.
228
RdW, p. 42; tr. it. cit., p. 103.
229
RdW, p. 41; tr. it. cit., p. 102.
230
Ibidem.
231
Ibidem.
232
RdW, p. 42; tr. it. cit., p. 103.
ERNST KRIECK 169

233
avalutativa”» . Abbandonando la strada percorsa da Adam Smith e da
Friederich List (che nella loro pur diversa «immagine dell’economia»
offrivano entrambi «una visione del mondo» atta a «formare gli animi» e
«guidare i popoli»)234, la scienza economica si è fitta in capo di perseguire
una conoscenza pura e irrelata volta a «descrivere la sfera delle pure
possibilità» e ad «esplorarla a partire dalle sue condizioni»235. Per questo
motivo si è trasformata in una sorta di «grammatica delle proprie categorie»
che, da un lato, «non si è più ritenuta legittimata o anche soltanto capace di
prendere posizione sulle cose in maniera positiva e determinante» (come è
emerso molto chiaramente nel corso della guerra e della rivoluzione
successiva alla guerra)236, e, dall’altro, «non ha nemmeno adempiuto in
maniera soddisfacente alla sua funzione conoscitiva» (non riuscendo a
formulare una definizione univoca dei suoi concetti fondamentali e rima-
nendo generalmente «irretita nelle concezioni proprie di un capitalismo
individualistico ormai superato»)237. Del resto Krieck considera «la battaglia
per l’avalutatività della scienza» come una semplice «prosecuzione della
battaglia per la mancanza di volontà della scienza» che prende le mosse dal
romanticismo, e in particolare da Savigny: infatti la sua «dottrina della
crescita inconsapevole del diritto» si è di fatto tradotta nella totale rinuncia
da parte della scienza del diritto a modellare gli ordinamenti giuridici, e
cioè nel «venir meno della volontà che plasma il diritto, di quella volontà
che il diritto naturale, la legislazione regionale prussiana, il Code Napole´on e
Anselm Feuerbach avevano rappresentato in maniera tanto esemplare»238.

233
RdW, p. 43; tr. it. cit., p. 104.
234
RdW, p. 44; tr. it. cit., p. 104.
235
RdW, p. 42; tr. it. cit., p. 103.
236
Ibidem. «Nel nostro tempo cosı̀ ricco di decisioni – Krieck scrive – la scienza
economica non ha mai contribuito in maniera determinante a dirimere una questione
decisiva. Certo, essa non deve essere una profetessa, e meno che mai una profetessa
mantenuta dai partiti e dagli interessati. Ma deve essere un’educatrice a servizio dell’idea, al
servizio di quanto viene riconosciuto come buono e come necessario per l’avvenire del
popolo, deve essere una pratica formatrice di uomini nel senso della verità creativa, e non
già un’educatrice di specialisti nel senso della loro metodica vuota e relativistica» (RdW, pp.
42-43; tr. it. cit., pp. 103-104).
237
RdW, p. 43; tr. it. cit., p. 104.
238
RdW, p. 46; tr. it. cit., p. 107. Secondo Krieck l’instaurazione della Repubblica di
Weimar ha fatto venir meno anche quell’«influsso mediato» (ibidem) che la scienza giuridica
e la scienza economica esercitavano ancora sulla vita della comunità nazionale formando gli
imprenditori e i funzionari: «i tipi dell’odierna dirigenza» (RdW, p. 44; tr. it. cit., p. 105) sono
infatti gli uomini di partito che, a differenza dei funzionari, non posseggono un comune
«parametro di misura nella preparazione scientifica e professionale» (RdW, p. 47; tr. it. cit.,
p. 107), e, a differenza degli imprenditori, non sono costretti a operare «in conformità al
170 INTORNO A WEBER

La medesima trasformazione della scienza in una sorta di «pangrammatica


239
alessandrina» che non possiede più alcuna funzione formativa è visibile
anche nella filologia e nella teologia: la prima, specie come filologia
moderna, si è progressivamente chiusa in un cieco specialismo privo di
ogni apertura filosofica e del tutto incurante del «logos del mondo e
dell’umanità»240; la seconda, invece di «curare ed educare scientificamente la
vita sorta dalla comunità religiosa», si è trasformata in una «scienza della
religione» che «non ci impedirà di dimenticare in breve tempo (...) che cosa
sia propriamente la religione», in quanto non può in alcun modo «surro-
gare» ciò che la distingue da un «sapere di vera specie» che presuppone
sempre «un avere e un vivere»241.
Ma, al di là di tutte queste specificazioni, il parametro in rapporto al
quale Krieck valuta la grandezza della scienza del passato, giudica la miseria
della scienza del presente e auspica la rinascita della scienza del futuro è
sempre e comunque uno solo: la capacità del sapere scientifico di radicarsi
nella mitica identità collettiva (nel «vero carattere», nell’«idea») della comu-
nità vitale che lo produce e di collaborare cosı̀, assieme ad ogni altro
ambito della cultura, ad una piena e forte manifestazione di questa identità
collettiva nella storia. «Esiste un criterio di misura per tutti i valori culturali
ed un valore che determina tutti gli altri valori: è la formazione di una vera
comunità e di una vera volontà comune, ossia di un vero carattere all’in-
terno del popolo. È questo il fondamento d’esistenza di ogni altra cosa, e
tutti i valori culturali sono tenuti alla sua conservazione e al suo dispiega-
mento (...). La formazione di questa volontà è dunque il compito della
cultura e della scienza, un compito che plasma la storia (...). La scienza è
(...) destinata e chiamata dalla volontà della comunità a precederla come
guida ideale: la scienza non deve dunque limitarsi a mostrare le possibilità
rimettendole al caso o all’arbitrio, bensı̀ deve dirigere la volontà stessa
lungo la strada stabilita dall’idea. Se essa trascura il proprio compito
originario, che è quello della formazione dell’animo e della volontà, rinun-
cia alla propria grandezza e al proprio diritto all’esistenza»242.
Un simile schema di fondo rende anche ragione di quell’atteggiamento
altalenante nei confronti di Spengler nel quale ci siamo già imbattuti a più

fatto che gli interessi privati e gli interessi pubblici sono grandezze che si condizionano a
vicenda, ma non si annullano a vicenda» (RdW, p. 45; tr. it. cit., p. 106).
239
RdW, p. 48; tr. it. cit., p. 109.
240
Ibidem.
241
RdW, pp. 47-48; tr. it. cit., pp. 108-109.
242
RdW, p. 45; tr. it. cit., p. 106.
ERNST KRIECK 171

riprese. Krieck – che scrive e pubblica Die Revolution der Wissenschaft negli
anni in cui in Germania infuria lo Spengler-Streit – riconosce senza meno la
«brillante ricchezza di visioni» dell’autore di Der Untergang des Abendlan-
243
des . Tale riconoscimento, lungi dall’avere un carattere estemporaneo,
acquista subito il suo pieno valore se si considera che ciò che Spengler
propriamente “vede” è «l’animità divenuta forma» in cui consiste ogni
civiltà e di cui la storia rappresenta “soltanto” la «realizzazione»244. Su
questo punto la vicinanza fra i due autori è fortissima. E tuttavia, mentre
Spengler ritiene che «una civiltà muore quando la sua anima ha realizzato
la somma delle sue possibilità sotto specie di popoli, lingue, forme di fede,
arti, Stati, scienze»245, Krieck è invece convinto che «le fonti della vita non si
possono né esaurire né misurare»: «non è vero – egli scrive – che un
popolo o un’epoca dispongono di un quantum di forza stabile e dato una
volta per tutte dopo il cui esaurimento la durata della vita (...) sarebbe
giunta al termine»246. Proprio per questo motivo, alla orgogliosa convin-
zione di Spengler di avere svelato «il segreto della storia mondiale» inter-
pretandola come «un’unità organica dalla struttura periodica»247, Krieck
ribatte con decisione che «la storia non si lascia affatto comprimere in uno
schema tanto primitivo come quello del corso delle età o del corso delle
stagioni o simili, sia che lo schema si applichi alla totalità della storia, sia
che esso si applichi ai cosiddetti periodi morfologici»248. A partire da questo
fallace presupposto non è assolutamente possibile «formulare predizioni sul
futuro», giacché il futuro dipende unicamente dalla «volontà d’azione» di
cui i popoli dispongono attingendo e riattingendo, mediante una cultura e
una scienza davvero degne del loro nome, alle fonti inesauribili della loro
identità collettiva249. Ecco perché anche la morfologia della storia di Spen-
gler appartiene per Krieck a quel «genere di scienza (...) destinata a svolgere

243
Cfr. supra, nota 227.
244
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della Storia mondiale
(1918-1922), a cura di R. Calabrese Conte, M. Cottone e F. Jesi, tr. it. di J. Evola, Parma,
1995, pp. 18 e 229. A tale proposito cfr. D. Conte, Introduzione a Spengler, cit., pp. 25-37.
245
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 173.
246
RdW, p. 49; tr. it. cit., p. 110.
247
O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente, cit., p. 83.
248
RdW, p. 49; tr. it. cit., pp. 109-110. Solo nel «momento (...) orribile» in cui un «gran
popolo» considera «ormai logorata» la sua «forza di creare una civiltà», solo nel momento in
cui la sua religione si ripiega nella «cura dell’anima individuale» e la sua scienza si ripiega
nella «pura contemplazione», solo allora esso muore davvero e diviene «concime» per gli
altri popoli (RdW, pp. 51-52; tr. it. cit., pp. 112-113).
249
RdW, p. 49; tr. it. cit., p. 110.
172 INTORNO A WEBER

nei confronti del proprio oggetto il ruolo dell’imbalsamatore e del bec-


chino» e a dar vita ad «un fatalismo scientifico e da spiriti belli» che, «a
differenza del fatalismo religioso», «educa una generazione molle» capace
soltanto di cantare «il canto del cigno di un periodo della civiltà giunto al
250
tramonto» .
La «scienza rinnovata» di cui Krieck vagheggia l’avvento deve invece
porsi esclusivamente al servizio della «rinascita della comunità popolare»
cogliendosi, in ogni momento, come una delle sue espressioni251. «L’essenza
interiore, e cioè il carattere di un popolo deve (...) trapelare in tutte le sue
manifestazioni vitali e tenerle insieme in una superiore unità. Solo cosı̀ la
conoscenza può retroagire sul carattere educandolo e formandolo. Su
questo andamento circolare, su questa universale funzione reciproca si
fonda la potenza creatrice di civiltà che è propria della conoscenza comuni-
taria metodicamente sviluppata, vale a dire la potenza della scienza»252.
Naturalmente una scienza di questo genere, a differenza della scienza di
matrice illuministica, non coltiverà l’orgogliosa convinzione che «solo nella
scienza la verità si dia all’uomo nella sua forma pura e completa»253, e
soprattutto non entrerà mai in contrasto con la religione comunitaria che è
la regina delle potenze educatrici. Essa è infatti consapevole che «il sapere
nasce sempre e ovunque dalla fede, essendo l’elaborazione metodica di un

250
RdW, pp. 48-49; tr. it. cit., pp. 109-110. In questo modo Krieck anticipa di oltre un
decennio un argomento spesso adoperato dai nazionalsocialisti contro Spengler nella
controversia che fece seguito alla pubblicazione, nell’agosto del 1933, di Jahre der Entschei-
dung. Ad esempio, in una conferenza tenuta nel novembre dello stesso anno e dedicata al
rapporto fra Spengler e il nazionalsocialismo, Alfred Baeumler vede nel primo il sostenitore
di «una fatalistica morale da schiavi». E Hitler stesso, in un discorso pronunciato nel 1935
in occasione della festa del 1 maggio, rievocando il clima degli anni successivi alla guerra
mondiale, afferma: «Uno scrittore riassunse le impressioni di quel periodo in un libro che
intitolò “Tramonto dell’Occidente”. Davvero deve essere questa la fine della nostra storia e
dei nostri popoli? No! Noi non possiamo crederci. Non si deve dire tramonto dell’Occi-
dente, bensı̀ resurrezione dei popoli di questo Occidente». Su tutto ciò cfr. D. Conte, Catene
di civiltà, cit., pp. 91 sgg., dove si mette anche in luce (pp. 92-93, nota 205) come le riserve di
Baeumler nei confronti di Spengler risalissero in realtà al 1920. Più in generale è possibile
affermare che la critica di Krieck a Spengler non è affatto un caso isolato negli ambienti della
rivoluzione conservatrice. Basti pensare che nel 1919 Hans Freyer, recensendo sulla «Tat» il
primo volume di Der Untergang des Abendlandes, depreca il fatalismo e il determinismo del
libro e invoca «l’ardimento dell’azione» come motore fondamentale della storia. Sulla
posizione di Freyer e su quella analoga di altri autori cfr. S. Breuer, Anatomie der konservati-
ven Revolution, tr. it. cit., in part. pp. 23-24.
251
RdW, p. 59; tr. it. cit., p. 120.
252
RdW, p. 53; tr. it. cit., p. 114.
253
Ibidem.
ERNST KRIECK 173

254
senso e di una volontà che sono colti nella fede e nella visione» ; ed è
anche consapevole che l’unico «criterio di misura della verità consiste nella
forza di configurare la vita», ossia «nell’effetto sull’educazione del popo-
lo»255.
La nuova scienza porrà parimenti rimedio a quella situazione di inco-
municabilità fra la scienza e il popolo, ma anche fra le varie discipline
scientifiche, che rappresenta il portato dello specialismo odierno, ai cui
mille linguaggi separati ben si attaglia «la storia della torre di Babele» come
«mito imperituro della fine di ogni civiltà e di ogni scienza»: infatti,
«insieme al linguaggio comune, vengono meno l’accordo, la ragione, la
collaborazione e la comunità, e cioè tutti i presupposti della vita organi-
ca»256. Il compito è quello di trasformare «il caos del sapere (...) in un cosmo
spirituale, in un organismo che sia ricolmo della vita della comunità e da
tale vita generato, e che perciò retroagisca in maniera formativa sulla
volontà della comunità»257. La nuova scienza non perseguirà questo com-
pito compiendo un’opera di divulgazione dei suoi risultati o rivitalizzando
la vetusta idea di una formazione generale: piuttosto, in ognuna delle sue
singole ramificazioni, essa curerà di essere «filosoficamente formata in
maniera perfetta»258. Con ciò Krieck intende dire che le singole discipline
(siano esse scienze della natura o scienze dello spirito) dovranno abbando-
nare ogni astratta pretesa di universalità e di avalutatività e dovranno non
solo riconoscere, ma anche mostrare apertamente come i loro concetti
fondamentali presentino tutti uno «stile unitario»259 giacché dipendono tutti
da una specifica visione del mondo alla quale cercano – in vario modo e da
diverse prospettive – di conferire una forma scientifica. È chiaro che qui
non si tratta, come riteneva Weber, di «una visione del mondo fra una o
due dozzine di visioni del mondo diverse ed in lotta»: infatti, «laddove la
vita spirituale di una comunità è sana, c’è una sola visione del mondo» che
pervade le singole scienze e tutti gli altri campi della cultura, e ciò perché
«c’è una sola vita, un solo senso vitale, un solo scopo vitale e una sola
volontà vitale»260. Si comprende allora perché «la formazione specialistica
diverrà nel contempo educazione nel significato ultimo di questo termine,

254
RdW, p. 54; tr. it. cit., p. 115.
255
RdW, p. 56; tr. it. cit., p. 117.
256
Ibidem.
257
Ibidem.
258
RdW, p. 57; tr. it. cit., p. 118.
259
RdW, p. 56; tr. it. cit., p. 117.
260
RdW, p. 57; tr. it. cit., p. 118.
174 INTORNO A WEBER

educazione di uomini completi che sentono e agiscono all’interno della


comunità, che si affaticano attorno al medesimo compito e che parlano il
261
medesimo linguaggio» . In questo modo la scienza avrà sempre la garanzia
«di ritrovare la via della ricettività spirituale del popolo» e di condurre a
buon fine «il percorso circolare che la determina e al quale è destinata»262.
Insomma, a ben guardare, il fine precipuo e caratterizzante della nuova
scienza di Krieck è unicamente quello di tenere «davanti al popolo (...)
l’immagine limpidamente riflessa del popolo stesso (...) affinché esso sia
liberato da tutte le falsificazioni, da tutti gli errori e da tutte le distorsioni
che derivano dalla stampa, dall’agitazione, dai partiti, dagli interessi partico-
lari, dalla menzogna e dalle suggestioni, e giunga cosı̀ al proprio Sé e alla
propria verità»263. Si tratta dunque di una “scienza come mito”264, o meglio
di una scienza completamente asservita al processo di mitologizzazione
della comunità popolare, che comporta sempre – nel nazionalismo di ieri,
come in quello pericolosamente risorgente dei nostri giorni – «la perdita
del principio di individuazione» e «la fusione dei molti soggetti (...) in una
nuova unità indistinta» allo scopo di «riattingere alle forze creatrici della
vita»265.

261
RdW, p. 59; tr. it. cit., p. 120.
262
RdW, p. 58; tr. it. cit., p. 119.
263
RdW, pp. 56-57; tr. it. cit., pp. 117-118.
264
Wissenschaft als Mythos è il titolo di un altro saggio di Krieck («Die Tat», 13, 1922, pp.
739 sgg.).
265
S. Breuer, Anatomie der konservativen Revolution, tr. it. cit., p. 24.
5

AVALUTATIVITÀ, VALUTAZIONE
E FILOSOFIA DEI VALORI:
JONAS COHN CRITICO DI MAX WEBER

1. Nato a Görlitz nel 1869 e morto a Birmingham, in Inghilterra, nel 1947,


Jonas Cohn proviene, al pari di Bruno Bauch e di Emil Lask, dalla scuola di
Windelband e di Rickert, ed è, come Bauch e come Lask, un tipico
1
esponente di quel «giovane neokantismo» di cui parla Siegfried Marck , che
tende nel suo complesso «a superare le tradizionali divisioni di “scuola”» e
«a mettere in discussione le posizioni dei “maestri” aprendo nuove prospet-
tive che non rimasero senza eco sui “maestri” stessi»2.
Dopo aver frequentato le università di Lipsia, Berlino e Heidelberg e
dopo essersi laureato in fisiologia vegetale nel 1892, Cohn si dedicò in un
primo tempo allo studio della psicologia pubblicando sulle «Philosophische
Studien» (il prestigioso organo ufficiale del laboratorio di Lipsia fondato e
diretto da Wilhelm Wundt) i risultati di alcune ricerche sperimentali da lui
condotte sulla tonalità emotiva delle sensazioni cromatiche e sull’incidenza
emotiva dei concetti3. Filosoficamente Cohn esordı̀ nel 1896 con un’ap-
prezzata storia del problema dell’infinito nel pensiero occidentale4, cui fece

1
S. Marck, Am Ausgang des ju¨ngeren Neukantianismus. Ein Gedenkblatt fu¨r Richard Ho¨nigs-
wald und Jonas Cohn, in «Archiv für Philosophie», 3 (1949), pp. 144-164.
2
M. Ferrari, Introduzione a Il Neocriticismo, Roma – Bari, 1997, p. 197.
3
J. Cohn, Experimentelle Untersuchungen u¨ber die Gefu¨hlsbetonung der Farben, Helligkeiten
und ihrer Kombinationen e Die Gefu¨hlswirkung der Begriffe, in «Philosophische Studien», 10
(1894).
4
J. Cohn, Geschichte des Unendlichkeitsproblem im abendla¨ndischen Denken bis Kant, Leipzig,
1896 (ristampa anastatica: Darmstadt, 1960). Questo scritto di Cohn è stato di recente
tradotto in francese, col titolo di Histoire de l’infini (Paris, 1994) e con una Pre´sentation di J.
Seidengart (pp. 7-42).
176 INTORNO A WEBER

seguito lo scritto Beitra¨ge zur Lehre von den Wertungen5 mediante il quale
conseguı̀ l’abilitazione all’insegnamento universitario di filosofia e pedago-
gia presso l’università di Friburgo. Divenuto außerordentlicher Professor nel
19016, Cohn pubblica nel 1908 una voluminosa ricerca intitolata Voraus-
setzungen und Ziele des Erkennens7 in cui gli strumenti categoriali elaborati
dal neokantismo sud-occidentale vengono impiegati per affrontare un pro-
blema che era tradizionalmente al centro delle indagini filosofiche del
neokantismo marburghese: quello della fondazione delle scienze matemati-
che e geometriche. La posizione gnoseologica di Cohn – che emerge da un
serrato confronto con le posizioni pressoché coeve di Jules-Henri Poincaré
da un lato e di Bertrand Russell e Louis Couturat dall’altro – si condensa
nella nozione di «utraquismo», da lui coniata sulla base del pronome latino
uterque-utraque-utrumque, che significa “l’uno e l’altro considerati distinta-
mente”, “ciascuno dei due per conto suo”, vale a dire “entrambi” ma
“separatamente”8. Ed infatti, riprendendo e sviluppando il tema rickertiano
della «peculiare impronta di “irrazionalità”» che caratterizza imprescindibil-
mente il contenuto reale della conoscenza “prima” della sua elaborazione
concettuale9, Cohn sottolinea con forza che in ogni giudizio vero è assolu-

5
J. Cohn, Beitra¨ge zur Lehre von den Wertungen, in «Zeitschrift für Philosophie», 110
(1897).
6
Nello stesso anno Cohn pubblica a Lipsia una Allgemeine As̈thetik che rappresenta il più
ampio contributo del neokantismo del Baden a questo ambito della riflessione filosofica.
7
J. Cohn, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens. Untersuchungen u¨ber die Grundfragen der
Logik, Leipzig, 1908.
8
Ambo-ambae-ambo significa invece quasi sempre “entrambi” nel senso di “tutti e due
insieme”.
9
H. Rickert, Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft, cit., p. 32; tr. it. cit., p. 82. È noto
che, nello sforzo apparentemente paradossale di «chiarire» concettualmente che la realtà
immediata risulta del tutto «inconcepibile» (cfr. ibidem, nota 2), Rickert la caratterizza come
«un continuo eterogeneo che non può mai essere accolto in concetti cosı̀ come è» (ibidem). In
questo senso egli afferma che, «se avessimo da riprodurre con concetti la realtà, allora, come
conoscenti, staremmo di fronte a un compito che non si può adempiere per principio» (ivi, p.
31; tr. it. cit., p. 80). «Conoscere» non significa mai «riprodurre mediante descrizioni dei
“fenomeni”», ma significa sempre «trasformare» e «semplificare» (ibidem; tr. it. cit., pp. 80-81).
Più specificamente si tratta di operare «una separazione concettuale di continuità ed eterogenei-
tà», in quanto «il continuo si lascia dominare concettualmente non appena è omogeneo»
(come accade nell’ambito della matematica), mentre «l’eterogeneo diventa concepibile
quando possiamo farvi dei tagli, cambiando dunque il suo continuo in un discreto» (come
accade, seppure in modo diverso, tanto nelle scienze della natura quanto nelle scienze della
cultura) (ivi, p. 33; tr. it. cit., p. 82). Sicché «noi trasformiamo il continuo eterogeneo che si
trova in ogni realtà in un continuo omogeneo o in un discreto eterogeneo. In quanto questo è
possibile, anche la realtà può essere detta razionale. Essa resta irrazionale solo per quella
conoscenza che vuole riprodurla senza trasformarla» (ibidem; tr. it. cit., p. 83).
JONAS COHN 177

tamente necessaria la presenza di due componenti di evidenza fra loro


separate, che sono da un lato «la pura forma del pensiero» e dall’altro «gli
elementi particolari che il pensiero connette senza però risolvere (a diffe-
10
renza dei “marburghesi”) la loro “estraneità” nel pensiero stesso» . L’opera
di Cohn – che ripropone anche il tema windelbandiano dei presupposti
teleologico-valutativi insiti in ogni giudizio scientifico11 – non rimase affatto
priva di risonanza: basti pensare che, a due anni dalla pubblicazione, essa fu
dettagliatamente recensita da Ernst Cassirer12, e che, già nel 1908, venne
attentamente studiata da Edmund Husserl il quale, in una lettera a Natorp
del giugno 1917, ne segnala esplicitamente la rilevanza filosofica13.

10
M. Ferrari, Introduzione a Il Neocriticismo, cit., pp. 197-198. D’altronde anche Rickert –
nel ribadire che ogni concetto che pretende di riferirsi alla realtà contiene in sé un «principio
di scelta» in base al quale «distinguere in una data materia (...) l’essenziale dall’inessenziale» (H.
Rickert, Kulturwissenschaft und Naturwissenschaft, cit., p. 35; tr. it. cit., p. 84) – afferma
senz’altro che «l’essenza, scientificamente, non si lascia mai “contemplare” o comprendere
“intuitivamente”, ma è accessibile solo al pensiero “discorsivo” o alla “costruzione” concet-
tuale» (ibidem; tr. it. cit., p. 85), e tuttavia avverte subito dopo il bisogno di specificare che
«con ciò (...) non viene messa minimamente in dubbio l’indispensabilità dell’intuizione nella
conquista del materiale della conoscenza» (ibidem, nota 5).
11
Riecheggiando la celebre distinzione kantiana tra «giudizio determinante» e «giudizio
riflettente», Windelband muove senza dubbio dalla distinzione fra «giudizi teoretici» [Urthei-
le], del tipo «A è bianco», e «giudizi valutativi» [Beurtheilungen], del tipo «A è buono», «A è
bello», ma anche «A è vero». «Un giudizio teoretico – egli scrive nel saggio del 1882 Was ist
Philosophie? – stabilisce che una determinata rappresentazione (il soggetto del giudizio) è
pensata in un rapporto diverso secondo le diverse forme di giudizio con un’altra determinata
rappresentazione (il predicato del giudizio). Invece in un giudizio valutativo noi aggiun-
giamo ad un oggetto che si presuppone noto e compiutamente rappresentato, cioè al
soggetto del giudizio valutativo, un predicato che non estende in nessun modo la cono-
scenza del soggetto stesso, ma esprime il sentimento di approvazione o di disapprovazione
della coscienza giudicante verso l’oggetto rappresentato» (W. Windelband, Preludi. Saggi e
discorsi di introduzione alla filosofia, tr. it. a cura di R. Arrighi, Milano, 1947, pp. 54-55; ho
apportato qualche modifica alla traduzione). Tuttavia secondo Windelband ogni afferma-
zione o negazione di un giudizio teoretico implica sempre un giudizio valutativo dal punto
di vista della verità: dire «A è bianco» significa infatti dire «“A è bianco” è vero». Da questo
punto di vista il giudizio teoretico allo stato puro va ricercato solo «nella domanda o nel
cosiddetto giudizio problematico, in cui si propone un collegamento di rappresentazioni, ma
non ci si pronuncia sul suo valore di verità» (ivi, p. 56). Sicché per Windelband – ma anche
per Cohn – la conoscenza scientifica, lungi dal limitarsi a giudizi teoretici, è totalmente
intessuta di giudizi valutativi, nella misura in cui «comporta sempre una pretesa di verità e
quindi “una decisione” nei confronti del “valore della verità”» (M. Ferrari, Introduzione a Il
Neocriticismo, cit., p. 197).
12
E. Cassirer, recensione a J. Cohn, Voraussetzungen und Ziele des Erkennens, in «Deutsche
Literaturzeitung», 31 (1910), coll. 2437-2445.
13
Cfr. I. Kern, Husserl und Kant. Eine Untersuchung u¨ber Husserls Verha¨ltnis zu Kant und
zum Neukantianismus, Den Haag, 1964, p. 33. Sui rapporti fra Cohn e Husserl (che dal
178 INTORNO A WEBER

Tuttavia il saggio Die Erkenntnis der Werte und das Vorrecht der Bejahung.
Betrachtungen, angeknu¨pft an Max Webers Lehre von der Wertfreiheit der
Wissenschaft, con il quale Cohn interviene nella polemica suscitata dalla
pubblicazione della conferenza weberiana sulla scienza come professione,
appartiene a una stagione successiva, e certamente più travagliata, della
riflessione di questo autore, il quale, negli anni della guerra e del primo
dopoguerra, è costretto a confrontarsi con il tramonto del mondo storico-
culturale che aveva costituito lo sfondo, e nel contempo il supporto, della
posizione egemonica a lungo detenuta dagli indirizzi filosofici neokantiani
14
in Germania . Del resto non va dimenticato che, in quegli stessi anni, agli
interrogativi angosciosi sul crollo dell’«Europa ideale» che percorrono
l’ultimo scritto di Windelband (la Kriegsvorlesung sulla filosofia della storia)15
fanno riscontro gli autonomi sviluppi del pensiero di Rickert, che – come
afferma Ernst Troeltsch – si volge in maniera sempre più decisa a «guada-
gnare le solide posizioni parmenidee della pura teoria dei valori» per
«superare del tutto il flusso eracliteo» della vita storica e delle sue valuta-
zioni al quale anche Windelband si era «abbandonato troppo»16, salvo poi a
retrocedere con orrore di fronte alla sua «terribile realtà»17.
In effetti, a partire dall’importante saggio del 1909 sugli Zwei Wege der
Erkenntnistheorie18, Rickert tende progressivamente ad attribuire un più
generale significato filosofico alla propria critica originariamente epistemo-

semestre estivo del 1916 fu chiamato a insegnare a Friburgo come titolare della cattedra in
precedenza occupata da Rickert) si veda l’ampia ricerca di R. Klochenbusch, Husserl und
Cohn. Widerspruch, Reflexion und Telos in Pha¨nomenologie und Dialektik, Dordrecht, 1989.
14
Cfr., a questo proposito, scritti come Der Sinn der gegenwa¨rtigen Kultur (Leipzig, 1914) o
Widersinn und Bedeutung des Krieges (in «Logos», 5, 1914-1915). Ma si veda anche J. Cohn,
Geist der Erziehung. Pa¨dagogik auf philosophischer Grundlage, Leipzig, 1919.
15
Cfr. W. Windelband, Lezione di guerra. Filosofia della storia (pubblicata postuma dal
figlio Wolfgang e da Bruno Bauch nel 1916), tr. it. a cura di R. Bonito Oliva, Salerno, 1990,
p. 35: «Noi viviamo un autoannientamento della civiltà europea che non avremmo ritenuto
più possibile. Noi credevamo in una coscienza comune dell’umanità, che faceva sperare in
un appianamento e in un superamento non delle diversità, ma piuttosto delle opposizioni e
ostilità tra le nazioni, che faceva sperare in una difesa più sicura della civiltà. E ora per cosı̀
dire da un giorno all’altro questa Europa ideale è crollata. Ci svegliamo da un bel sogno e ci
vediamo in una terribile realtà».
16
E. Troeltsch, Lo storicismo e i suoi problemi, vol. II, cit., p. 332.
17
Cfr. supra, nota 15.
18
H. Rickert, Zwei Wege der Erkenntnistheorie. Transscendentalpsychologie und Transscenden-
tallogik, in «Kant-Studien», 14 (1909), pp. 169-228. Per una dettagliata disamina del conte-
nuto di questo saggio rickertiano cfr. A. Giugliano, Dover-essere e valore: Heinrich Rickert tra
psicologia trascendentale e logica trascendentale, in Id., Nietzsche Rickert Heidegger (ed altre
allegorie filosofiche), cit., pp. 173-208.
JONAS COHN 179

19
logica della nozione windelbandiana di «scienza idiografica» (il cui nucleo
consiste, come è noto, nell’argomento secondo il quale le scienze storico-
individualizzanti non possono limitarsi a riprodurre il «continuo eteroge-
neo» della realtà che è per sua natura irriproducibile, ma, al pari delle
scienze generalizzanti, hanno anch’esse bisogno di un principio di selezione
del materiale empirico, principio che, nel loro caso, è rappresentato dalla
Wertbeziehung, ossia dalla relazione teoretica al valore)20. Dietro l’idea
windelbandiana di una considerazione idiografica del mondo delle indivi-
dualità storiche e dei loro criteri di giudizio, Rickert giunge a scorgere un
modo ancora inadeguato di pensare i valori, i quali finiscono per essere
concepiti unicamente come “norme” che orientano un insieme variabile di
valutazioni storico-effettive acriticamente assunte come qualcosa di già dato
e di immediatamente dato. In altri termini – recependo la polemica
husserliana contro la riduzione dell’essere ideale a dover-essere dell’essere
reale21 e traducendola nell’orizzonte categoriale della filosofia dei valori –

19
La distinzione delle scienze empiriche in «scienze nomotetiche» e «scienze idiografi-
che» è formulata da Windelband nella Strassburger Rektoratsrede del 1894 intitolata Geschichte
und Naturwissenschaft (cfr. W. Windelband, Preludi, cit., pp. 156-174).
20
Per una versione sintetica di tale presa di distanza da Windelband – il cui nucleo
argomentativo è ampiamente sviluppato da Rickert in Die Grenzen der naturwissenschaftli-
chen Begriffsbildung (prima edizione, Tübingen – Leipzig, 1902) – cfr. Id., Kulturwissenschaft
und Naturwissenschaft, cit., in part. pp. 70-71 (tr. it. cit., pp. 116-117). Che su questo punto
Rickert avesse il senso di aver compiuto un decisivo passo avanti nei confronti di Windel-
band ci è testimoniato con efficacia ed immediatezza dal puntiglio con cui, in una lettera
scritta da Heidelberg a György Lukács il 3 settembre 1917, egli rivendica la paternità del
concetto di Wertbeziehung intesa come principio di selezione del materiale empirico proprio
delle scienze storico-culturali. Lukács aveva inviato in lettura a Rickert un proprio saggio su
Emil Lask che era caduto in guerra nel 1915 (cfr. G. Lukács, Emil Lask. Ein Nachruf, in
«Kant-Studien», 22, 1917-1918, pp. 349-370; tr. it. in Id., Sulla povertà di spirito. Scritti
1907-1918, a cura di P. Pullega, Bologna, 1981, pp. 171-195). In un passo della breve lettera
di risposta Rickert scrive: «Posso permettermi una nota inessenziale? Inessenziale perché
non tocca Lask. Lei ha parlato (...) della “scoperta da parte di Windelband della specificità
della costruzione concettuale storica”. Io non direi cosı̀, perché Windelband nel suo discorso
giustamente celebre [la prolusione rettorale di Strasburgo] non ha visto proprio l’essenza
della formazione dei concetti storici. Anzi il problema è lı̀ celato dall’opposizione fra legge e
forma (fra scienze nomotetiche e scienze idiografiche). Max Weber (...) ha assunto per
questa ragione un atteggiamento assai scettico verso tale distinzione, finché nel 1902 la
seconda parte delle mie Grenzen lo convinse che esiste qualcosa di simile a dei “concetti”
storici» (G. Lukács, Epistolario 1902-1917, cit., p. 411).
21
«Gli antipsicologisti sbagliano – Husserl infatti scrive nei Prolegomena zur reinen Logik –
quando fanno della funzione regolativa della conoscenza (...) la quintessenza delle leggi
logiche» (E. Husserl, Ricerche logiche, 2 voll., tr. it. a cura di G. Piana, Milano, 1982, vol. I, p.
168). Certo, le leggi logiche e tutte le altre verità teoretiche «possono fungere da norme del
giudizio» (ibidem). Ma questa loro «vocazione naturale» (ibidem) non coincide affatto con la
180 INTORNO A WEBER

Rickert scopre «nella impostazione criticistico-storicistica di Windelband


(...) una tendenza potenzialmente dissolutiva della necessaria e assoluta
validità e obiettività dei valori, che solo nella loro compiuta autosufficienza
logico-formale e distinzione dal mondo storico-valutativo della vita e della
sua fatticità possono costituire il fondamento e la garanzia del senso del
22
divenire storico e dell’oggettività scientifica della conoscenza storica» .
Il potenziale dissolutivo insito nella «concezione del valore come
norma» (la quale, «sebbene criticamente fondata, viene prodotta e realizzata
pur sempre ancora nella storia») appare però a Rickert pienamente dispie-
gato solo «in quelle coeve correnti di pensiero che, pur riferendosi ai valori
come a criteri di ordinamento e di conoscibilità del reale, tuttavia li
riducevano, e riducevano il reale stesso, al mero atto soggettivo-psicologico
della valutazione prospettica»23. Non a caso, nello scritto del 1920 sulla
Philosophie des Lebens24, Rickert accomuna polemicamente autori fra loro
molto diversi (come Nietzsche, Dilthey, Bergson, Simmel, James, Scheler e
perfino Husserl) muovendo da un punto di vista che, un anno dopo, nella
prima (e unica) parte del suo System der Philosophie, egli porta compiuta-
mente e unitariamente ad espressione allorquando afferma: che «il concetto
della mera vita soltanto, in relazione con cui si vuole porre ogni cosa,
ovvero rispetto a cui ogni cosa deve essere relativa, sia che in questo
concetto si pensi di più allo Erlebnis intuitivo o di più alla vita degli
organismi, nella filosofia non è sufficiente»25; e che, di conseguenza, anche
«in una filosofia dei valori la considerazione dell’uomo valutante non è
sufficiente», nella misura in cui quest’ultimo deve sempre essere posto in
relazione «con i valori che hanno sussistenza indipendentemente da lui e

loro determinazione essenziale, anche se da essa necessariamente deriva. «Il noto teorema
(a + b)(a – b) = a2 – b2 significa, ad esempio, che il prodotto della somma e della differenza
di due numeri qualsiasi è identico alla differenza dei loro quadrati. Qui non si parla del
nostro giudicare e di come esso debba svolgersi: ci troviamo di fronte ad una legge teoretica,
non ad una regola pratica. Se consideriamo invece la proposizione corrispondente: “Per de-
terminare il prodotto della somma e della differenza di due numeri, si deve determinare la
differenza dei loro quadrati”, avremo allora espresso una regola pratica e non una legge
teoretica. (...) solo mediante l’introduzione dell’idea normativa la legge si trasforma in una
regola, la quale, pur essendo una sua conseguenza apodittica ed evidente, differisce da essa
dal punto di vista del suo statuto concettuale» (ivi, pp. 167-168).
22
A. Giugliano, Heinrich Rickert tra Philosophie des Lebens e Lebensphilosophie, in Id.,
Nietzsche Rickert Heidegger (ed altre allegorie filosofiche), cit., pp. 208-233, p. 212.
23
Ivi, p. 213.
24
H. Rickert, Die Philosophie des Lebens, Tübingen, 1920.
25
H. Rickert, System der Philosophie. Erster Teil: Allgemeine Grundlegung der Philosophie,
Tübingen, 1921, p. 47.
JONAS COHN 181

che dunque non sono prodotti della mera valutazione, ma viceversa confe-
26
riscono soltanto essi la direzione e il contenuto alla vita valutante» .
Bisogna d’altra parte considerare – come ha messo opportunamente in
luce Antonello Giugliano – che lo spettro della requisitoria di Rickert
contro la Lebensphilosophie della sua epoca è perfino più ampio di quanto
risulti dal numero, già di per sé cospicuo, degli autori citati: «Tale è il caso,
per esempio, della assiologia psicologistica, da von Meinong e von Ehren-
fels a Hugo Münsterberg (...). Ma, soprattutto, il nome che Rickert non fa
esplicitamente nella sua polemica contro il relativismo e prospettivismo
vitalistico dei valori è quello di Max Weber»27. Infatti, è certamente vero
che, fin dal saggio su Roscher e Knies, Weber aveva mostrato un grande
interesse per la nozione rickertiana di «relazione al valore», e, più in
generale, per l’insieme delle riflessioni epistemologiche di Rickert, propo-
nendosi espressamente di «verificare l’utilizzabilità» delle sue idee nell’am-
bito della propria disciplina specialistica28; e tuttavia è anche vero che,
dapprima con qualche oscillazione29, poi in maniera sempre più decisa30,
Weber aveva avvertito la necessità di prendere le distanze dalla filosofia dei
valori di Rickert e dai suoi esiti sistematici (ma anche da ogni irenica
relativizzazione dei valori sorretta, in ultima istanza, da una «metafisica
“organica”» dello sviluppo storico)31 in base alla convinzione, lapidaria-
mente espressa nel Vortrag sulla scienza come professione e già più volte
ricordata, che «la vita, in quanto si fonda su se stessa e viene compresa a

26
Ivi, p. 48.
27
A. Giugliano, Heinrich Rickert tra Philosophie des Lebens e Lebensphilosophie, cit., pp.
213-214, in nota. Sulla posizione di Weber Rickert interviene tematicamente solo alcuni
anni dopo, col saggio Max Weber und seine Stellung zur Wissenschaft, in «Logos», 15 (1926),
pp. 222-237.
28
M. Weber, Roscher e Knies e i problemi logici della scuola storica dell’economia, cit., p. 9 in
nota.
29
Cfr. ad es. M. Weber, L’“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale,
cit., p. 62: «Giudicare la validità dei valori è (...) una questione di fede, ed è inoltre forse un
compito della considerazione speculativa e dell’interpretazione della vita e del mondo nel
loro senso, ma non è sicuramente oggetto di una scienza empirica nel significato adottato in
queste pagine». Ma cfr. anche ivi, p. 64: «Il destino di un’epoca di cultura che ha mangiato
dall’albero della conoscenza è quello di sapere che noi non possiamo cogliere il senso del
divenire cosmico in base al risultato della sua investigazione (...), ma che dobbiamo essere in
grado di crearlo».
30
Si veda ad es. M. Weber, Il significato della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed
economiche, cit., p. 332 (ho già citato il passo in questione per esteso: cfr. supra, cap. II, nota
54).
31
Cfr. ivi, p. 333.
182 INTORNO A WEBER

partire da se stessa, conosce soltanto (...) l’inconciliabilità e dunque l’irrisol-


vibilità della lotta tra i punti di vista ultimi in generale possibili rispetto alla
32
vita, vale a dire la necessità di decidere tra di essi» . La critica, rispettosa
ma decisa, di questa posizione di Weber costituisce per l’appunto il fulcro
del denso saggio Die Erkenntnis der Werte und das Vorrecht der Bejahung
apparso su «Logos» tra il 1921 e il 1922, saggio in cui Cohn fa uso, contro
Weber, di un apparato categoriale mutuato in buona sostanza da Rickert,
ma nel contempo anticipa molte delle tematiche più originali delle sue
successive indagini filosofiche e pedagogiche33.

2. Fin dalle prime battute del saggio in questione, pubblicato poco tempo
dopo la scomparsa di Max Weber, Cohn mostra di considerare l’insigne
studioso – nella cui persona si fronteggiavano «un’impetuosa volontà di
azione» e «uno spirito di ricerca in grado (...) di tendere inflessibilmente
verso la verità» – come uno dei maggiori rappresentanti e dei più acuti
interpreti di un’epoca che, «a partire da Nietzsche», gli appare caratterizzata
da una lacerazione profonda tra la conoscenza scientifica e i valori che
orientano e conferiscono senso alla vita34. Ad un «atteggiamento scienti-
fico» tanto radicalizzato da suscitare un sentimento di diffidenza «verso la
scienza stessa»35 nella misura in cui essa continua, più o meno surrettizia-

32
WaB, pp. 104-105; tr. it. cit., pp. 121 e 123. In questo senso «Weber non si arresta a
Rickert, del quale può condividere la teoria logico-storica della costituzione dell’oggetto
storico ma certamente deve respingere la filosofia della storia, giacché l’oggettività non è
conseguibile mediante il riferimento a valori assoluti e necessari bensı̀ all’interesse conosci-
tivo orientato in base a valori assunti in virtù di una scelta» (F. Tessitore, Max Weber e lo
storicismo, cit., p. 176).
33
Cfr.: J. Cohn, Theorie der Dialektik. Formenlehre der Philosophie, Leipzig, 1923 (ristampa
anastatica: Darmstadt, 1965); Id., Die Philosophie im Zeitalter des Spezialismus, Leipzig, 1925;
Id., Wertwissenschaft, Stuttgart, 1932; Id., Wirklichkeit als Aufgabe (postumo), Stuttgart, 1955;
ma anche Id., Befreien und Binden. Zeitfragen der Erziehung u¨berzeitlich betrachtet, Leipzig,
1926. Nel 1919 Cohn divenne professore ordinario a Friburgo. In seguito all’avvento del
nazismo, dopo essere stato costretto al pensionamento in quanto ebreo, Cohn riparò in
Inghilterra ove rimase fino alla morte. Per un profilo generale della sua figura e della sua
opera cfr. H. L. Ollig, Der Neukantianismus, Stuttgart, 1979, pp. 82-87 e in part. la recente
monografia di M. Heitmann, Jonas Cohn (1869-1947): das Problem der unendlichen Aufgabe in
Wissenschaft und Religion, Hildesheim, 1999.
34
J. Cohn, Die Erkenntnis der Werte und das Vorrecht der Bejahung. Betrachtungen, angeknu¨pft
an Max Webers Lehre von der Wertfreiheit der Wissenschaft, in «Logos», 10 (1921-1922), pp.
195-226 (d’ora in poi EWVB), p. 195; tr. it. La conoscenza dei valori e la priorità dell’afferma-
zione. Riflessioni connesse alla dottrina dell’avalutatività della scienza di Max Weber, a cura di E.
Massimilla, in «Archivio di storia della cultura», XIII (2000), pp. 255-290, p. 255.
35
Ibidem.
JONAS COHN 183

36
mente, ad “additare l’ombra di Dio” (ossia, fuor di metafora, nella misura
in cui essa pretende di fondare i giudizi di valore), corrisponde infatti,
secondo Cohn, una tendenza sempre più diffusa a «porre valori in maniera
fieramente arbitraria»37. In base a tale premessa il confronto con la dottrina
dell’avalutatività della scienza di Weber diviene per Cohn un modo per
gettare sul tappeto, senza mezze misure e senza infingimenti, la «questione
fondamentale di tutta la filosofia, e cioè fino a che punto è possibile
dimostrare scientificamente che i valori sono validi», questione che, nell’e-
poca presente, è divenuta in realtà «una faccenda pressante anche per la
vita»38.
Ciò nonostante Cohn rimane ben consapevole del «carattere occasio-
nale» proprio della riflessione metodologica di Weber che, considerata nel
suo insieme, «risulta (...) invariabilmente derivata da problemi di ricerca
empirica oppure da interventi in controversie scientifiche e in polemiche
d’attualità»39, non costituendosi mai come l’oggetto di un autonomo inte-
resse teoretico-conoscitivo, ma configurandosi piuttosto come il parto di
uno scienziato specialista preoccupato dello stato di crisi della propria
disciplina, come «un resoconto clinico (...) scritto non dal medico ma dal
paziente stesso»40. Cohn sottolinea infatti come l’esigenza weberiana di
«tenere lontani i giudizi di valore dalla scienza dei fatti»41 abbia in realtà la
sua genesi in una decisa presa di posizione contro «il tentativo di elevare
(...) l’economia politica alla dignità di una “scienza etica” su fondamento
empirico»42, ovvero contro la concezione dell’economia politica propria del
Kathedersozialismus di Gustav Schmoller e della cosiddetta “giovane scuola
storica dell’economia” dai cui ambienti Weber stesso proveniva. «Per que-
sto tramite la particolare modalità di giudizio in campo etico propria di
determinati ceti e di determinati partiti doveva necessariamente interferire
con la chiarezza della discussione scientifica e perturbarla. Giudizi di valore
inesaminati venivano accettati come ovvi e, cosa che feriva in modo

36
Cfr. supra, Introduzione, nota 9.
37
EWVB, p. 195; tr. it. cit., p. 255.
38
Ibidem.
39
A. Cavalli, La funzione dei tipi ideali e il rapporto tra conoscenza storica e sociologia, in
Pietro Rossi (a cura di), Max Weber e l’analisi del mondo moderno, Torino, 1981, pp. 27-52, p.
27.
40
M. Weber, Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura (1906), in Id., Il metodo
delle scienze storico-sociali, cit., pp. 143-237, p. 145.
41
EWVB, p. 196; tr. it. cit., p. 256.
42
M. Weber, L“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, cit., pp.
57-58.
184 INTORNO A WEBER

particolare il sentimento di giustizia di Max Weber, uno solo dei possibili


indirizzi credeva di essere scientificamente fondato traendo da questa fede
conseguenze di ordine pratico. Qui subentrò la critica di Max Weber. Egli
stesso era dichiaratamente un uomo di parte e un sostenitore di ideali ben
determinati, e tuttavia era anche consapevole che i suoi ideali non erano
sorti dall’indagine dei fatti e non potevano influenzarla. Weber pose dun-
que l’esigenza di una rigorosa separazione»43.
Una presa di posizione cosı̀ netta diede necessariamente origine a «una
discussione di teoria della scienza», in quanto «non c’è alcun dubbio che i
concetti con i quali lavorano le scienze della cultura contengono in sé
qualcosa che rimanda ai valori», circostanza, quest’ultima, che Weber era
tanto lontano dal negare da far propria, invece, la teoria di Rickert secondo
cui «la relazione al valore costituisce il principio di selezione di tutte le
scienze storiche della cultura» (e dunque anche dell’economia politica)44.
«Ma Weber – Cohn scrive – distingue, con Rickert, la relazione al valore
dalla valutazione. Se parlo dello Stato, presuppongo determinate relazioni
al valore; ma per ogni indagine di ordine fattuale è inessenziale se, in
definitiva, io affermo o nego questi valori, se venero lo Stato come un dio
in terra o se invece lo aborro come il male assoluto»45. Questa fondamen-
tale distinzione spiega anche perché l’estromissione dei giudizi di valore da
ogni scienza empirico-fattuale non significhi in alcun modo che «il fatto del
dominio di determinati valori presso determinati uomini»46 non possa esso
stesso divenire oggetto di indagine scientifica. Al contrario, «ciò che un
determinato uomo, o determinati gruppi di uomini o gli uomini in generale
vogliono, valutano e aborrono in determinate circostanze» rappresenta in
realtà la questione fondamentale e caratterizzante di tutte le scienze empiri-
che della cultura, le quali, non a caso, adoperano come strumento euristico
quel genere di concetti che Weber denomina «tipi ideali» e che consistono
nella «costruzione di un essere umano che persegue soltanto uno scopo, ma
lo persegue con la massima perseveranza»: infatti, «se si è dedotto ciò che
consegue dal riconoscimento di determinati valori in una determinata
situazione e in rapporto a determinate idee o a determinati pregiudizi, è poi
possibile confrontare il comportamento reale degli uomini con una costru-

43
EWVB, p. 196; tr. it. cit., p. 256.
44
Ibidem; tr. it. cit., pp. 256-257.
45
Ibidem; tr. it. cit., p. 257.
46
EWVB, p. 197; tr. it. cit., p. 257.
JONAS COHN 185

zione di tal fatta portando in questo modo allo scoperto le valutazioni


47
dominanti ma non ancora divenute evidenti» .
Rimane naturalmente fermo – precisa Cohn – che «i tipi ideali» di
Weber (si pensi ad esempio all’“egoista razionale” dell’economia politica
classica) sono «ideali» non già perché «rappresentano un’esigenza rivolta al
comportamento reale», ma solo perché «costituiscono un criterio di misura
della nostra conoscenza»48. Certo, se si guarda alla ricaduta pratica delle
scienze della cultura, si deve riconoscere che questa specie di costrutti
concettuali consente di procedere oltre una semplice «critica tecnica»49 dei
giudizi di valore, la quale si astiene da ogni considerazione sui fini, e si
limita a prendere in esame i mezzi attualmente disponibili per la loro
eventuale realizzazione nonché le conseguenze collaterali (spesso indeside-
rate) che tale realizzazione comporta. Ma questo “procedere oltre” non
significa in ogni caso fornire una risposta alla domanda «devi o non devi
volere il fine?»50, ma significa “soltanto” fare «chiarezza sulle nostre valuta-
zioni e su quelle dei nostri avversari», evidenziare «le conseguenze che
derivano da un modo di valutare» e mettere in luce «i conflitti inerenti al
riconoscimento dei diversi valori da noi affermati»51, cioè, in definitiva,
promuovere non solo una scelta di valori pienamente responsabile, ma
anche un agire pienamente consapevole dei suoi criteri ultimi di riferi-
mento. Ecco perché Weber scrive che «una scienza empirica non può mai
insegnare ad alcuno ciò che egli deve, ma soltanto ciò che egli può e – in
determinate circostanze – ciò che egli vuole»52.
Proprio a questo punto, tuttavia, si apre per Cohn un problema ulte-
riore: l’incapacità della scienza empirica di insegnare al singolo ciò che egli
deve va estesa anche alla filosofia? E se questo è vero, in che senso ed entro
quali limiti è vero? Pur affermando che «Weber ha discusso dettagliata-
mente solo delle scienze particolari nel loro rapporto con i valori» espri-
mendosi invece «raramente e con riserbo» a proposito di «questioni filosofi-
che», Cohn non si nasconde che «dai suoi ultimi scritti, e in particolare
dalla conferenza su Wissenschaft als Beruf» emerge con chiarezza che egli
«non riconosceva neanche alla filosofia, almeno fintanto che rimane

47
EWVB, pp. 197-198; tr. it. cit., pp. 257-258.
48
EWVB, p. 197; tr. it. cit., p. 258.
49
M. Weber, L“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, cit., p. 59.
50
EWVB, p. 197; tr. it. cit., p. 257.
51
EWVB, p. 198; tr. it. cit., p. 258.
52
M. Weber, L“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, cit., p. 61.
Ma si veda anche ivi, pp. 58 sgg. e WaB, pp. 103-104 (tr. it. cit., pp. 119 e 121).
186 INTORNO A WEBER

53
scienza, la capacità di decidere circa i valori» . Il mondo disincantato e
razionalizzato di cui la scienza empirica e la sua progressiva specializza-
zione rappresentano «il frammento più importante»54 non è più latore di un
intrinseco senso metafisico che una filosofia che voglia dirsi “scienza” possa
in qualche modo portare allo scoperto. «Noi dobbiamo piuttosto soppor-
tare l’idea che nessuna decisione sui valori ultimi è possibile mediante la
scienza. Perciò, in quanto uomini di scienza, dobbiamo accontentarci di
essere degli specialisti, mentre, in quanto soggetti agenti, dobbiamo deci-
derci per un partito muovendo da una pura posizione della volontà»55. In
questo senso, facendo riferimento alla distinzione tra «filosofia scientifica» e
«filosofia profetica» avanzata da Jaspers nella Psychologie der Weltan-
schauungen56 e mettendone nel contempo in luce l’inconfondibile matrice
weberiana, Cohn sostiene che per Weber «la filosofia scientifica» può
«soltanto sviluppare le diverse valutazioni possibili e i diversi sistemi di
valori possibili», laddove «il filosofo può decidere tra tali valutazioni e tali
sistemi di valori unicamente se pretende di essere un profeta»57. Dal canto
suo Weber non ha mai preteso di essere un profeta ed ha sempre espresso
una profonda diffidenza nei confronti dei tanti “falsi profeti” del proprio
tempo, fossero essi accademici o letterati. Ciò nonostante egli «ha assunto
le proprie decisioni e ha richiesto a ognuno di assumere le proprie decisio-
ne»58. Proprio per questo motivo Weber afferma che interpretare come «re-
lativismo» la posizione di coloro che pongono l’accento sulla «collisione dei
valori» (e cioè la sua posizione) significa incorrere nel «più grande dei
fraintendimenti»59. Ma nell’ottica rickertiana di Cohn un simile argomento
risulta sostenibile solo «dal punto di vista pratico»: se invece «è in questione
(...) la filosofia scientifica», non c’è dubbio che Weber «deve (...) essere
considerato un relativista», almeno «per ciò che riguarda tutti i valori non
logici»60.

53
EWVB, p. 198; tr. it. cit., p. 258.
54
WaB, p. 86; tr. it. cit., p. 87.
55
EWVB, p. 198; tr. it. cit., pp. 258-259.
56
Su questo importante scritto di Karl Jaspers, edito nel 1919, Cohn interviene anche
tematicamente: cfr. J. Cohn, Zur Psychologie der Weltanschauungen, in «Kant-Studien», 26
(1921). Spunti di aperta polemica nei confronti delle posizioni di Jaspers sono peraltro
presenti anche in EWVB, pp. 208 sg.; tr. it. cit., pp. 270 sg.
57
EWVB, p. 198; tr. it. cit., p. 259.
58
Ibidem.
59
M. Weber, Il significato della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche, cit., p.
333.
60
EWVB, p. 198; tr. it. cit., p. 259 (un analogo giudizio circa la posizione di Weber nei
confronti del relativismo è espresso anche da Rickert in Max Weber und seine Stellung zur
JONAS COHN 187

Cohn ritiene dunque che Weber offra una risposta assolutamente


negativa all’interrogativo circa la possibilità della «filosofia scientifica» di
fondare la validità dei valori non abbandonando del tutto il singolo al puro
e semplice fiat della sua volontà. E tuttavia egli è anche convinto che
questa posizione di Weber, lungi dal derivare necessariamente dalle sue
condivisibili riflessioni circa le possibilità e i limiti del sapere empirico, sia
61
in realtà fondata su «componenti ultime di carattere irrazionale» . La più
importante di queste componenti è, secondo Cohn, un acuto «dolore per la
mancanza di valori dominanti, quali quelli che derivavano in genere da una
religione unitariamente riconosciuta»: dolore che rifiuta di «essere anestetiz-
zato tramite la falsa quiescenza in convenzioni di ceto o di classe che si
fingono assolutamente valide», o «tramite uno dei surrogati di profezia che,
al giorno d’oggi, suscitano ripugnanza in chiunque sia avvezzo all’onesto
pensare e alle qualità umane»; dolore che nascostamente spera in «un’au-
tentica liberazione», la quale, comunque, «non deriverà mai dal sapere» né
«da uno strato intellettuale vincolato a determinate modalità di formazio-
ne»62. Da questo punto di vista il neokantiano Cohn – pur essendo senza
dubbio distante da ogni concezione “fenomenologica” o “materiale” dei
valori – mostra in fondo di condividere il giudizio di Max Scheler, il quale,
come sappiamo, rimprovera a Weber «l’esclusione di quel termine medio
fra fede (...) e scienza positiva che soltanto merita la definizione di filosofia»
e riconduce tale esclusione al fatto che la sua anima di «puro germanico» e
di «puro protestante» era in qualche modo condannata ad oscillare eterna-
mente «fra l’ascetico scienziato specialista e il derviscio danzante»63.
In ogni caso, una simile interpretazione del celebre «Es kommt der
Morgen, aber noch ist es Nacht» che chiude la conferenza weberiana sulla
scienza come professione64 porta Cohn a considerare il dissenso suscitato
dalle tesi di Weber come il dissenso di chi è invece «convinto che nel bel
mezzo del caotico presente esista già il primo inizio di una vita autentica»65.

Wissenschaft, cit., pp. 230-231). Cohn accomuna il relativismo di Weber a quello sostenuto
da Simmel e da egli stesso nella dissertazione per l’abilitazione alla libera docenza (cfr. supra,
nota 5). Al relativismo weberiano sono inoltre riconducibili, secondo Cohn, la psicologia
delle visioni del mondo di Karl Jaspers e la filosofia del diritto di Gustav Radbruch e di
Hermann Kantorowicz.
61
EWVB, p. 199; tr. it. cit., p. 260.
62
EWVB, pp. 199-200; tr. it. cit., p. 260.
63
MWAP, pp. 431-432; tr. it. cit., p. 147 (cfr. supra, cap. I, par. 2 e 3).
64
WaB, p. 111; tr. it. cit., p. 131. Weber cita – come è noto – il breve e, per molti versi,
oscuro oracolo di Seir-Edom raccolto tra gli oracoli di Isaia.
65
EWVB, p. 200; tr. it. cit., p. 260.
188 INTORNO A WEBER

A tale proposito egli fa esplicitamente riferimento al circolo di Stefan


George e allo scritto di Erich von Kahler sulla professione della scienza.
Cohn sottolinea però come Kahler, facendo perno sul tema della
«messa in forma della vita», si volga non solo contro i «concetti astratti»
66
della scienza razionale moderna (che mancano di ogni ancoraggio a una
concreta formazione organica e sono dunque incapaci di fornire una
risposta al bisogno pratico del vivente), ma anche contro quei «Begriffe des
Solls»67 che sono «i valori separati tra loro e separati dall’essere»68. Ed in
effetti per Kahler non è possibile fornire una risposta alla «grande e
fondamentale domanda»69 che da sempre viene rivolta al sapere (cosa
dobbiamo fare? come dobbiamo vivere?) richiamandosi al “buono in sé”, al
“bello in sé”, al “vero in sé”, ossia ai valori e alla loro assoluta validità. La
centralità del «problema del valore»70 è per lui un’ulteriore testimonianza
dell’assenza di radicamento in un’autentica formazione organica la quale
non conosce mai una scissione tra il proprio «dover essere» e il proprio
«essere più profondo»71. In altri termini, Kahler ritiene che mediante le
nozioni di “buono in sé”, “bello in sé” ecc. non si faccia altro che astrarre le
caratteristiche comuni al buono, al bello ecc. cosı̀ come si sono concreta-
mente configurati in rapporto alla vita delle singole forme di umanità via
via succedutesi, per poi consolidare queste pallide astrazioni «in concetti
del dovere (quali sono per l’appunto i “valori”)»72. In fondo, Weber non fa
altro che radicalizzare un simile modo di procedere, quando pone in
evidenza come tali «concetti del dovere», lungi dal comporsi armonica-
mente tra loro, siano irrimediabilmente destinati a confliggere.
Dal punto di vista di Kahler il problema del valore è perciò destinato a
perdere la propria preminenza e a subire nel contempo una radicale
trasfigurazione. All’opposizione tra l’assolutezza dei valori astratti e il poli-
teismo dei valori weberiano (che è in realtà una falsa opposizione in quanto
il politeismo weberiano porta solo alle estreme conseguenze quella dissolu-
zione di ogni «vita univoca»73 che si annuncia già nella presunta assolutezza
dei valori astratti) è destinata a subentrare la prospettiva dell’«uomo che

66
EWVB, p. 201; tr. it. cit., p. 261.
67
BdW, p. 42; tr. it. cit., p. 105.
68
EWVB, p. 201; tr. it. cit., p. 261.
69
BdW, p. 30; tr. it. cit., p. 91.
70
BdW, p. 23; tr. it. cit., p. 84.
71
BdW, p. 44; tr. it cit., p. 108.
72
BdW, p. 42; tr. it. cit., pp. 105-106.
73
BdW, p. 27; tr. it. cit., p. 88.
JONAS COHN 189

74
agisce», dell’«uomo che vive davvero» , il quale non sceglie mai tra sistemi
di valori contrapposti e fra loro equivalenti, giacché egli stesso è – per cosı̀
dire – un ben determinato sistema di valori. Proprio in ciò consiste
l’abissale differenza che intercorre tra il politeismo weberiano e il politei-
smo del mondo antico. «Nell’antichità – Kahler infatti scrive – vi sono lotte
tra dei, vi sono lotte tra concezioni, ma non avrebbe mai potuto esserci una
scelta intesa nel senso che in un certo luogo e in una certa ora sussistano
due possibilità in linea di principio equivalenti da trattare a seconda degli
atteggiamenti fondamentali di un uomo. Non erano i diversi atteggiamenti
fondamentali e di principio a dettar legge, ma la vita univoca di quel luogo
e di quell’ora, e ci si recava dal sapiente per apprendere la sola e unica
possibilità, la legge che è l’unico destino, il dio di quella particolare ora e di
quel particolare luogo»75.
Mi sembra tuttavia molto significativo che, rispetto alle tesi di Kahler
volte ad un tempo contro Weber e contro ogni forma (neokantiana o
fenomenologica) di Wertphilosophie, Cohn sia ben lungi dall’assumere una
posizione univoca. Certo, egli sottolinea come la «nuova scienza», la cui più
alta configurazione positiva sarebbe finora rappresentata dal Goethe di
Friedrich Gundolf76, lasci a ben guardare insoddisfatta proprio quella «ri-
chiesta di criteri per l’agire pratico»77 che pure costituisce il suo originario
nucleo propulsore. «Specie per colui che ha ancora nelle orecchie la voce
possente di Max Weber e il suo grande insegnamento, il discorso di Kahler
– nonostante l’eccitazione che lo contraddistingue – suona, nel suo ieratico
splendore, come un discorso astratto e avulso dalla vita (...). Mentre la
parola “vita” risuona in continuazione, torna in mente il detto di Lessing
secondo cui noi discorriamo soltanto dei pregi che non possediamo»78. E
tuttavia «tale fallimento nel dare norme alla vita», malamente occultato
dalle facili critiche rivolte ai partiti e ai loro astratti scontri ideologici, «non
prova» in alcun modo «che Kahler abbia torto»79. Infatti, «per quanto poco

74
BdW, p. 24; tr. it. cit., p. 84.
75
BdW, p. 27; tr. it. cit., p. 88. Muovendo da questo punto di vista anche Kahler accusa
Weber di relativismo. È però significativo che, a differenza di Cohn, Kahler ritenga che il
relativismo di Weber si configuri essenzialmente come un «relativismo pratico» (BdW, p. 28,
in nota; tr. it. cit., p. 89, in nota). Su tutta la questione si veda comunque supra, cap. II, nota
54.
76
Cfr. supra, cap. II, nota 139.
77
EWVB, p. 201; tr. it. cit., p. 262.
78
Ibidem.
79
Ibidem.
190 INTORNO A WEBER

egli confuti gli argomenti di Weber, continua a persistere il sentimento che


il sussistere l’uno accanto all’altro dei diversi valori e l’estraneità del valore
nei confronti di ciò che è non possano essere in ultima istanza giustificati»80.
Si tratta però di inverare questo sentimento tramite il pensiero discorsivo e
mediante «concetti chiari e rigorosi» che non sono – come ritiene Kahler –
«una cattiva invenzione moderna», giacché Platone stesso «è divenuto il
padre della scienza pura e della grande filosofia» non tanto e non soltanto
per la dottrina secondo cui «nell’iperuranio l’anima ha contemplato le idee
come forme viventi», ma anche e principalmente perché riteneva che
«questo vedere» possedesse «la chiarezza della conoscenza concettuale» e
che perciò «solo il pensiero più rigoroso» fosse realmente in grado di dar
luogo «alla reminiscenza di ciò che è stato visto»81.
È dunque chiaro che per Cohn un efficace confronto critico con la
dottrina dell’avalutatività della scienza di Max Weber risulta possibile solo
se – operando davvero «secondo lo spirito di Platone»82 – si percorre fino in
fondo «l’ardua via della discussione concettuale»83. A tal fine Cohn ritiene
preliminarmente necessarie alcune distinzioni. Si tratta anzitutto di mettere
da parte un problema che pure a Weber stava particolarmente a cuore, e
cioè quello concernente l’opportunità che i docenti universitari formulino
dalla cattedra le loro valutazioni e i loro giudizi di valore. Cohn sottolinea
infatti come Weber stesso, pur essendo fieramente avverso a tale evenienza,
fosse ben consapevole del fatto che una simile avversione non discendeva
solo dalle proprie convinzioni teoriche circa l’avalutatività della scienza e la
sua impossibilità di fondare i giudizi di valore, ma derivava anche da
«determinate vedute circa la vocazione professionale dell’università nell’ora
presente»84. Tuttavia, pur prescindendo da tale questione e da ogni altra

80
Ibidem.
81
EWVB, pp. 201-202; tr. it. cit., p. 262.
82
EWVB, p. 200; tr. it. cit., p. 261.
83
EWVB, p. 202; tr. it. cit., p. 262.
84
Ibidem; tr. it. cit., p. 263. Cfr. a questo proposito M. Weber, Il significato della “avalutati-
vità” delle scienze sociologiche ed economiche, cit., p. 311: «Per “valutazioni” si debbono qui di
seguito intendere (...) le valutazioni “pratiche” di un fenomeno influenzabile mediante il
nostro agire, il quale viene considerato come riprovevole oppure come degno di approva-
zione. Con il problema della “libertà” di una determinata scienza da valutazioni di questa
specie, cioè con un problema concernente la validità e il senso di questo principio logico,
non ha nulla a che fare la questione del tutto diversa (...) se si debba, oppure no, fare
“professione” nell’insegnamento accademico a favore delle proprie valutazioni pratiche, di
carattere etico, oppure fondate in riferimento a ideali di cultura o, in altra maniera, su
un’intuizione del mondo. Questa non può venir discussa scientificamente. Infatti essa
JONAS COHN 191

questione di carattere eminentemente pratico, la posizione di Weber suscita


secondo Cohn tre differenti interrogativi che debbono essere tenuti rigoro-
samente distinti fra loro. «In primo luogo: possono le scienze particolari
produrre decisioni valutative? In secondo luogo: la filosofia è in grado di
dimostrare la validità ultima dei valori? E in terzo luogo: qual è il contri-
85
buto della filosofia alle decisioni valutative d’ordine pratico della vita?» . A
queste tre diverse domande Cohn fornisce tre diverse risposte grazie alle
quali diviene perfettamente evidente la misura del suo accordo e del suo
disaccordo con Weber.

3. Cohn comincia col sottolineare che la scienza in quanto tale «aspira alla
dimostrabilità e alla validità sovraindividuale di ognuna delle sue proposi-
zioni»: non v’è dunque scienza che possa accogliere nel suo seno una
«valutazione» se con questo termine si intende fare riferimento alla «posi-
zione casuale e infondata del singolo uomo che valuta»86. Ciò resta vero
anche per le Wertwissenschaften le quali non possono affatto intorbidare il
rigore del discorso scientifico recependo al loro interno – come si chiede
da più parti – «le asserzioni dell’uomo tutto intero», ma debbono piuttosto
«formulare (...) proposizioni sulla validità del valore che siano indipendenti
dal gradimento di ognuno cosı̀ come dalla sua individualità»87. Natural-
mente il problema sta tutto nello stabilire se proposizioni di questo genere
esistano o meno, nello stabilire, cioè, se le «scienze del valore» (che Cohn
identifica con le scienze filosofiche) posseggano o meno una loro reale
consistenza. Ma, a prescindere da ciò, risulta del tutto evidente che «le
scienze particolari, e in special modo le scienze dell’essere [Seinswissenschaften],
non sono scienze del valore»88. Weber ha dunque pienamente ragione
quando sostiene che tali scienze, siano esse «scienze della natura» o
«scienze della cultura», non possono affermare nulla circa la validità ultima
dei valori.
Cohn nota però che solo «per le scienze della natura», e «soprattutto
per quelle generali e fondamentali come la fisica e la chimica», non esiste su
questo punto «alcun dubbio e alcun disaccordo»89. L’interesse conoscitivo

medesima è una questione del tutto dipendente da valutazioni pratiche, e quindi non può
essere decisa per tale via». Ma si veda anche ivi, p. 320.
85
EWVB, p. 202; tr. it. cit., p. 263.
86
Ibidem.
87
Ibidem.
88
EWVB, pp. 202-203; tr. it. cit., p. 263.
89
EWVB, p. 203; tr. it. cit., p. 263.
192 INTORNO A WEBER

che sta alla base delle costruzioni concettuali della fisica e della chimica
porta infatti tali scienze a fare programmaticamente astrazione da tutto ciò
che presenta un riferimento di senso e di valore, e dunque da tutto ciò che
noi non ci limitiamo a “percepire”, ma possiamo anche “comprendere”.
Rispetto a questa caratteristica fondamentale dei concetti scientifico-
naturali, l’attribuzione di un valore uniforme a tutto quello che è solo
perché è – un atteggiamento che pure si riscontra di frequente presso gli
scienziati della natura e che ricorda da vicino il modo in cui «Spinoza e
90
Leibniz equiparano “perfectio” e “realitas”» – si rivela per Cohn qualcosa
di assolutamente estrinseco ed inessenziale.
Senz’altro più complessa è la situazione delle scienze della cultura,
giacché l’interesse conoscitivo che sta alla base delle loro costruzioni
concettuali si colloca agli antipodi di quello delle scienze della natura:
«tutte le scienze della cultura, tanto quelle sistematiche quanto quelle
storiche, hanno bisogno di una relazione al valore come principio di
selezione»91. Tuttavia Cohn mette in luce come questa tesi rickertiana
pienamente recepita da Weber riguardi solo la costruzione dell’oggetto
specifico delle scienze della cultura, e non già la «relazione affermata o
negata» nei giudizi delle scienze della cultura, che non è essa stessa una
relazione «di carattere valevole» come accade «in tutti gli autentici giudizi
di valore»92. «Nelle scienze della cultura non filosofiche non si tratta mai di
giudizi di valore. Infatti il carattere della delimitazione degli oggetti e il
principio di selezione in vista del significato del giudizio stesso nell’ambito
della connessione scientifica non mutano assolutamente nulla circa la
natura del giudizio. Nella proposizione “il modello di Leonardo ha deter-
minato il modo di dipingere di Raffaello” il concetto del modo di dipingere
e la particolarità del modo di dipingere di Leonardo sono certamente
incomprensibili senza alcuna relazione ai valori estetici, ma la relazione
giudicativa che esprime una dipendenza del modo di dipingere di Raffaello
da quello di Leonardo è una pura relazione d’essere»93. Di fronte a queste
distinzioni di principio, «la circostanza che all’indagine delle connessioni
culturali noi partecipiamo umanamente in maniera del tutto diversa da
come partecipiamo all’analisi dei processi naturali» non può che risolversi
nel monito a guardarsi dalla «tentazione» di attribuire una soverchia effica-

90
Ibidem; tr. it. cit., p. 264.
91
Ibidem.
92
Ibidem.
93
EWVB, pp. 203-204; tr. it. cit., pp. 264-265.
JONAS COHN 193

cia causale a ciò che si ritiene valido o un’alta probabilità di realizzazione a


ciò che si auspica: la qual cosa non significa certo «rettificare il suddetto
modo di pensare, che risulta naturale dal punto di vista psicologico, con un
modo di pensare opposto che, quasi per far dispetto a se stessi, asserisca
l’impotenza di ciò a cui si attribuisce un valore», ma significa piuttosto
recepire fino in fondo l’esigenza weberiana «di tener lontana ogni predile-
zione e ogni avversione da tutti i giudizi che vertono sulla somiglianza,
94
sulla struttura e sulla causalità dei fatti» .

4. Cohn ritiene però che non sia possibile arrestare il discorso a questo
punto sancendo cosı̀ l’assoluta incapacità del conoscere in generale di
asserire qualcosa circa la validità ultima dei valori. Alle «scienze dell’essere»
si affiancano le «scienze del valore»; alle «scienze particolari», che, «nel loro
isolamento, non sono la cosa ultima», si affianca la filosofia95. Naturalmente
non si tratta qui di giustapporre due forme di sapere del tutto irrelate fra
loro: esiste infatti una «naturale transizione dalle scienze particolari alla
filosofia» che è resa kantianamente possibile dall’«esame dei presupposti
delle scienze particolari stesse»96. «In primo luogo, si tratta di divenire
consapevoli di ciò che le scienze particolari si limitano a presupporre e a
porre unitamente con loro stesse. In secondo luogo, si tratta di indagare
quale significato abbiano questi presupposti per la totalità del conoscere»97.
Proprio a tal fine Cohn avverte il bisogno di prendere in esame con
maggiore attenzione ciò che è già implicitamente contenuto nel riconosci-
mento della «relazione al valore» come presupposto indispensabile delle
costruzioni concettuali delle scienze della cultura. Egli è infatti convinto
che «con la mera asserzione negativa secondo cui la natura relata al valore
degli oggetti non determina il carattere del giudizio non viene già risolto il
problema che è contenuto nella relazione al valore nella misura in cui essa
è congiunta con l’indagine di ciò che è»98.
Per mettere in piena luce tale «problema», Cohn prende le mosse da
un’osservazione critica da più parti fatta valere contro la dottrina rickertiana
della Wertbeziehung: tale dottrina sembrerebbe prospettare «un rapporto
puramente esteriore tra i valori che guidano la selezione da un lato e i fatti

94
EWVB, p. 204; tr. it. cit., p. 265.
95
Ibidem.
96
Ibidem.
97
Ibidem.
98
Ibidem.
194 INTORNO A WEBER

99
dall’altro» e sarebbe dunque fortemente lesiva della “consistenza reale”
dell’oggetto storico che si presenta già sempre come un’inscindibile unità di
essere e senso, di essere e valore. Secondo Cohn una simile critica si fonda
in buona sostanza su di un fraintendimento, che però è senz’altro indotto
dalla stessa espressione rickertiana «relazione al valore», nella misura in cui
quest’ultima suggerisce l’idea di un’iniziale «esteriorità» tra «fatti» e «valori»
che, a ben guardare, «vale soltanto per gli oggetti più periferici di una
scienza della cultura»100. «Ad esempio per uno storico della guerra che
prende in esame la natura geografica del teatro di guerra è importante ciò,
e solo ciò, che favorisce o disturba il movimento, il nutrimento e la
copertura delle truppe. Ma al contrario il materiale bellico è di per se stesso
prodotto allo scopo della guerra, e il suo principio di selezione è parimenti
vivente in coloro che costituiscono il supporto dell’azione bellica, nei capi
militari, nelle truppe e anche nella popolazione non combattente»101. Cohn
propone dunque di distinguere «due specie di concetti di realtà relati al
valore» e di adoperare come criterio di distinzione il «modo in cui il valore
si congiunge con l’unità della realtà»102. a) Vi sono casi in cui l’unità di una
realtà, che nell’orizzonte neokantiano di Cohn resta pur sempre il frutto di
un’elaborazione concettuale, sussiste però a prescindere dal riferimento ad
uno specifico valore, ed entra solo poi in una relazione estrinseca con tale
valore a causa dell’influenza che esercita sullo sviluppo storico di un bene
che lo incorpora. Il Tevere o il Mediterraneo entrano a buon diritto nella
trattazione dello sviluppo storico dello Stato romano inteso come bene che
incorpora – fra gli altri – determinati valori di ordine giuridico; e tuttavia
sia il Tevere che il Mediterraneo, in quanto unità geografiche, sussistono
indipendentemente dallo Stato romano e dai valori giuridici che esso
incorpora. Allo stesso modo la letteratura greca o il cristianesimo hanno
senz’altro esercitato un notevole influsso sullo sviluppo storico dello Stato
romano, ma, in quanto unità culturali, sussistono anche a prescindere da
ogni riferimento allo Stato romano e ai peculiari valori di cui esso costitui-
sce il supporto. b) Se invece si prende in esame «il concetto di cittadino
romano», risulta immediatamente evidente che «la relazione al complesso
di valori riposto nello Stato romano» si configura in maniera completa-
mente diversa, dal momento che «un cittadino romano è pensabile in

99
Ibidem.
100
Ibidem.
101
Ibidem; tr. it. cit., pp. 265-266.
102
EWVB, p. 205; tr. it. cit., p. 266 (il corsivo è mio).
JONAS COHN 195

quanto tale solo mediante i diritti e i doveri che lo Stato romano gli
103
conferisce e gli impone» . «In questo caso – afferma Cohn – non si tratta
di un concetto costituito indipendentemente dal valore e posto in relazione
al valore solo in maniera secondaria, bensı̀ di un concetto che, senza il
valore, non poteva affatto essere costituito. L’espressione “relazione al
valore” non caratterizza in maniera sufficiente questi concetti più centrali
delle scienze della cultura. Certo, è possibile asserire che gli elementi
d’essere posti nei concetti in questione sono relati a un valore; ma il
concetto, se viene assunto nella sua interezza, sussiste come un’unità solo
mediante il valore. La relazione al valore entra dunque come momento di
unità nel concetto stesso; per tale motivo dobbiamo parlare di concetti che
contengono un valore [von werthaltigen Begriffen]»104.
Codesta distinzione è per Cohn di fondamentale importanza, poiché
solo nei concetti che contengono un valore – o, che è lo stesso, «nelle
realtà pensate da questi concetti»105 – si manifesta in pieno la rilevanza
filosofica di una riflessione sui presupposti ultimi delle scienze della cultura.
Infatti in tali concetti «divengono visibili»106 alcuni valori formali che da un
lato costituiscono la condizione ultima della loro pensabilità e dall’altro
sono del tutto indipendenti dalle valutazioni arbitrarie dei singoli soggetti.
«Per lo Stato e per il suo interno contenere un valore è del tutto indifferente
il modo in cui io – l’osservatore – mi pongo rispetto a esso. In questo senso
la potenza statale rimane una realtà che contiene un valore anche se noi la
aborriamo come un male in sé. Perfino se lavoro per distruggere uno Stato
nemico o, come anarchico, lo Stato in generale, non sopprimo il contenere
un valore dello Stato al quale qui si fa riferimento»107. Questa situazione
apparentemente paradossale emerge con chiarezza ancora maggiore se si
prendono in esame i concetti della biologia (che Cohn non annovera fra le
scienze della natura, ma definisce piuttosto come «il distretto più ampio
della scienza che si pone in relazione al valore, distretto i cui valori direttivi
– proprio a cagione di tale ampiezza – sono anche e necessariamente i più
poveri»)108. Infatti, pur prescindendo dalla vexata quaestio circa la riconduci-
bilità o l’irriconducibilità dei processi vitali alle leggi fisico-chimiche dell’ac-
cadere, Cohn nota che «già soltanto per afferrare concettualmente i pecu-

103
EWVB, p. 206; tr. it. cit., p. 267.
104
Ibidem.
105
Ibidem; tr. it. cit., p. 268.
106
EWVB, p. 207; tr. it. cit., p. 269.
107
EWVB, p. 206; tr. it. cit., p. 268.
108
Ibidem.
196 INTORNO A WEBER

liari oggetti della biologia c’è bisogno di una totalità di cui importa la
109
conservazione, la crescita, lo sviluppo e la riproduzione» . Ciò nonostante,
se qualcuno commettesse l’errore di intendere «questo “importa” (...) in
modo personale» e per tale motivo si chiedesse «a chi importa di questa
totalità», stenterebbe senz’altro a trovare una risposta convincente alla
propria domanda: è forse determinante l’interesse dell’osservatore? o quello
del singolo essere vivente il più delle volte privo di autocoscienza? o magari
quello della “natura”, che da un lato «fa spreco di esseri viventi», e dall’altro
non è che un’ingenua personificazione metafisica?110 Bisogna piuttosto
interrogarsi «dal punto di vista della teoria della scienza», e in tal modo
rendersi conto che «una conoscenza dell’oggetto “vita”, anzi già una formu-
lazione dei problemi concernenti la vita» implica l’idea di una «totalità che
è tenuta insieme dai valori vitali»; in altri termini, si tratta di comprendere
che «il centro vitale è un centro di valore», e che lo rimane «anche se io,
inteso come questo uomo individuale o magari anche come ogni uomo,
voglio l’annientamento di determinati generi di vita (ad esempio degli
insetti dannosi)»111.
Le medesime considerazioni valgono anche per quanto attiene a un’ul-
teriore distinzione operata da Cohn all’interno dei «concetti che conten-
gono un valore» tra «una classe più ampia, che possiamo designare come
classe di concetti “che contengono una pretesa di valore” [wertanspruchs-
haltig]», e «una classe più ristretta, che possiamo designare come classe di
concetti “che adempiono un valore” [wert-erfu¨llt]»112. «In ogni concetto di
valore – Cohn infatti scrive – dobbiamo tenere distinte le condizioni della
sua applicabilità dalle condizioni del suo adempimento»113. Il concetto di
valore della “salute”, essendo derivato dal concetto di valore della “vita”, è
senz’altro applicabile a tutti gli esseri viventi, ma non è certo perfettamente
realizzato da tutti gli esseri viventi i quali «possono essere tanto sani quanto
non sani»: ciò fonda ancora una volta «la possibilità di giudizi di valore che
rimangono del tutto indipendenti dalle valutazioni personali» e che pos-
sono, ad esempio, essere condivisi anche da chi studia la patologia di una
specie di animali nocivi allo scopo di individuare una malattia infettiva in
grado di annientarla114. Allo stesso modo la qualifica di “cittadino romano”,

109
EWVB, p. 207; tr. it. cit., p. 268.
110
Ibidem; tr. it. cit., pp. 268-269.
111
Ibidem; tr. it. cit., p. 269.
112
EWVB, p. 208; tr. it. cit., p. 270.
113
Ibidem; tr. it. cit., p. 269.
114
Ibidem.
JONAS COHN 197

che contiene un necessario rimando a determinati valori di ordine giuri-


dico, è propria anche del filosofo cinico cui non è stata disconosciuta la
cittadinanza romana; ma il filosofo cinico non è certo un buon cittadino
romano, laddove questo giudizio di valore potrebbe essere condiviso anche
dal filosofo cinico dal momento che prescinde del tutto dalla «posizione di
colui che giudica sul complesso di valori che è racchiuso nel concetto di
115
“cittadino romano”» .
A ben guardare, dunque, se è vero che il biologo e lo scienziato della
cultura possono e debbono astenersi dal formulare valutazioni personali e
soggettive, è anche vero che tutti i concetti della biologia e delle scienze
della cultura presuppongono oggettivamente il riconoscimento di determi-
nati valori ultimi i quali costituiscono «un elemento essenziale della realtà
concettualmente delimitata»116. Questi valori ultimi sono, secondo Cohn,
tacitamente ma necessariamente chiamati in causa nei concetti della biolo-
gia e delle scienze della cultura, proprio allo stesso modo in cui le categorie
sono tacitamente ma necessariamente chiamate in causa nei concetti di
tutte le discipline scientifiche. «I valori che sono posti insieme agli oggetti
che contengono un valore costituiscono originariamente la peculiare unità
di tali oggetti, in maniera analoga al modo in cui le categorie costituiscono
originariamente e in generale l’unità degli oggetti reali. Cosı̀ come non si dà
un corpo senza la categoria di sostanza o un accadere senza la categoria
della causalità, allo stesso modo non si dà un organismo in cui non sia
confitto il valore della vita, e un’opera d’arte senza una pretesa di valore
estetico»117. Ciò rende possibile spiegare (senza nulla concedere a una forma
di realismo dogmatico) perché «né il biologo né lo storico hanno la
sensazione di accostare un valore a una realtà che sussiste senza questo
valore» e sono piuttosto convinti di «scoprire o scorgere tale valore nella
realtà»118. Infatti «per lo spirito individuale del ricercatore – che pensa
sempre oggetti formati secondo categorie e che, se è un biologo o uno
scienziato della cultura, pensa sempre oggetti formati secondo un valore – il
valore diviene visibile negli oggetti reali, proprio allo stesso modo in cui la
sostanzialità o la causalità divengono visibili nell’unità della cosa o dell’ac-
cadere»119.

115
Ibidem; tr. it. cit., p. 270.
116
EWVB, p. 209; tr. it. cit., p. 270.
117
Ibidem; tr. it. cit., p. 271.
118
Ibidem.
119
EWVB, pp. 209-210; tr. it. cit., p. 271.
198 INTORNO A WEBER

Naturalmente queste riflessioni sui presupposti trascendentali della bio-


logia e delle scienze della cultura, le quali si configurano palesemente come
un necessario ma non traumatico ampliamento del criticismo kantiano,
permettono di misurare tutta la distanza che intercorre fra la posizione di
Cohn e quella di Weber il quale, lungi dall’ignorare il problema posto
dall’allievo di Rickert, ne propone piuttosto fin da subito una soluzione
radicalmente diversa, laddove afferma che «la “cultura” è una sezione finita
dell’infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito
senso e significato dal punto di vista dell’uomo» e che dunque il «presuppo-
sto trascendentale di ogni scienza della cultura non è già che noi riteniamo
fornita di valore una determinata, o anche in genere una qualsiasi “cultura”,
ma che noi siamo esseri culturali, dotati della capacità e della volontà di
assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuir-
120
gli un senso» . Una soluzione di questo tipo – e ancora di più il suo
corollario apertamente antirickertiano secondo cui «un sistema delle
scienze della cultura, anche soltanto nella forma di una fissazione definitiva,
oggettivamente valida, sistematizzante delle questioni e dei campi di cui
esso dovrebbe trattare, sarebbe in sé un non-senso» almeno «finché nessun
irrigidimento cinese della vita spirituale farà desistere l’umanità dal porre
nuove questioni alla vita sempre parimenti inesauribile»121 – mostrano infatti
come in Weber il criticismo kantiano, confrontandosi con i problemi posti
dalle scienze della cultura, non viene semplicemente ampliato, ma sottopo-
sto a un vero e proprio processo di mutazione genetica, in cui giocano un
ruolo molto importante alcune istanze di fondo del prospettivismo di
Nietzsche ma anche e principalmente dello storicismo critico di Dilthey
(nell’ambito del quale il progetto di una “critica della ragione storica” e
quello di una “critica storica della ragione” finiscono – come è noto – per
coincidere).
Sarebbe tuttavia riduttivo caratterizzare in maniera eccessivamente ire-
nica le riflessioni di Cohn sui presupposti trascendentali della biologia e
delle scienze della cultura. Nel parallelismo tra le “categorie” e i “valori” si
annida invece un’innegabile elemento di problematicità, dovuto al fatto che
tale parallelismo è destinato – almeno sotto un certo riguardo – a mostrare
i propri limiti. Certo, al pari della «connessione causale scientifico-
naturale», anche «i valori sembrano in prima istanza vincolati a un oggetto
particolare e alla sua peculiarità»: proprio per questo motivo «c’è sempre

120
M. Weber, L“oggettività” conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, cit., p. 96.
121
Ivi, p. 101.
JONAS COHN 199

bisogno di un nuovo riconoscimento per riconoscere nuovamente un


valore anche quando le condizioni della sua realizzazione si sono del tutto
122
modificate» . Più in generale «l’ampliamento dell’ambito dei valori visibili
può ben essere paragonato al crescente dominio della rigorosa causalità
delle leggi di natura, ed entrambi hanno per la visione del mondo conse-
guenze affini che si connettono anche fra loro»123. Ma per Cohn tutto
questo non basta a far dimenticare che, «ovunque un valore diviene visibile,
l’intero essere dell’uomo cade in preda ad oscillazioni molto più forti»124. In
altri termini, il processo di riconoscimento dei valori, delle loro stratifica-
zioni e degli oggetti ai quali i valori ineriscono si configura per Cohn come
un cammino progressivo ma irto di difficoltà perché caratterizzato da una
profonda e spesso traumatica ricaduta sull’interpretazione che l’uomo ela-
bora di se stesso e del mondo che lo circonda.
Tutto ciò risulta con particolare evidenza se si guarda alle intricate
vicende connesse al riconoscimento dei valori immediatamente insiti nella
vita in quanto tale (vita che Cohn definisce in maniera significativa, ma nel
contempo paradossale, come il «fondamento dei valori che contiene esso
stesso un valore»)125. a) Infatti, fin dai tempi più remoti, il riconoscimento
della «diffusione universale» della vita «scuote l’uomo come un brivido»126.
L’animista che «avverte ovunque intorno a sé una vita indeterminata,
potente e demonica» esperisce in essa un’inquietante «mescolanza di affi-
nità ed estraneità»; e, se è vero che l’inquietudine è dovuta anzitutto al
timore che nella «vita estranea» possano essere presenti «potenze ostili al
proprio benessere», è anche vero che tale timore lascia in qualche modo
trasparire «il riconoscimento che ogni vita possiede in se stessa il medesimo
diritto della propria»127. b) Quando questo riconoscimento cessa di agire
solo «in maniera sporadica nel timore universalmente diffuso davanti al
sangue e ai morti e nella necessità della purificazione dell’uccisore», e
diviene invece un’acquisizione più salda, per cui «l’uomo, posto di fronte
alla vita, rimane atterrito non già in questo o in quel caso, ma in linea di
principio e una volta per tutte», viene compiuto un fondamentale passo in
avanti128. Cohn lo attribuisce ai «pensatori delle Upanis.ad», i quali, consta-

122
EWVB, p. 210; tr. it. cit., pp. 271-272.
123
Ibidem; tr. it. cit., p. 272.
124
Ibidem.
125
Ibidem.
126
Ibidem.
127
Ibidem.
128
Ibidem.
200 INTORNO A WEBER

tando che «la vita è ovunque e viene lesa ovunque» – e che dunque «ciò da
cui dipendono tutti i valori sembra essere la cosa maggiormente priva di
valore» perché contrassegnata dalle «due caratteristiche alle quali l’uomo è
solito congiungere la mancanza di valore, e cioè la diffusione universale e la
caducità» – proiettano tale svalutazione della vita sulla totalità dell’essere e
pervengono cosı̀ a quella «grande negazione» che costituisce il tratto
129
peculiare della spiritualità indiana . c) Tuttavia, secondo Cohn, l’ampiezza
e la pervasività di tale negazione si basano in ultima istanza sul fatto che le
«correnti spirituali indiane» non riescono ancora a pensare in maniera
compiuta l’idea «di una stratificazione dei valori, e cioè di una commisura-
zione della vita a valori sovra-vitali»: tale stratificazione viene infatti «de-
dotta dalla prossimità delle cose terrene attraverso l’estinguimento della
loro concretezza», ma non viene mai «fondata sui valori incarnati in ciò che
è caduco», come invece accade «in Europa e nell’Asia anteriore» (finanche
in quelle correnti spirituali che, come il platonismo, il neoplatonismo e la
mistica occidentale, presentano superficiali analogie con le correnti spiri-
tuali indiane)130. d) Senza dubbio anche l’Europa conosce una forma di
große Negation, quella portata a termine dal naturalismo seicentesco che
trova la sua massima espressione nella filosofia di Spinoza. Ma in questo
caso il fondamento della negazione è del tutto diverso. Infatti in India la
negazione investe anzitutto il valore della vita, che viene commisurato a
valori sovra-vitali pensati ancora in maniera astratta e incompleta, e pro-
cede poi dalla vita alla totalità dell’essere. Invece il naturalismo seicentesco,
per amore della «conoscenza puramente quantitativa»131, assume l’essere
come «l’unico valore» e come «criterio di misura del valore», sicché «la
negazione non è qui diretta contro l’essere e la vita, ma al contrario contro
il valore e la differenza di valore»132. Infatti «il naturalismo trasforma la vita
in un mero accadere e il valore sovra-vitale in mera vita», per cui «tutta la
vita viene ridotta all’essere e tutto lo spirito viene ridotto alla vita»133. e) Ciò
nonostante Cohn sottolinea con forza un tratto che, a suo modo di vedere,
accomuna ogni forma di negazione, quella indiana come quella europea.
Da un lato, infatti, ogni negazione è «sospetta» in quanto «negazione di
differenze viste»; dall’altro lato, però, ogni negazione «presagisce qualcosa

129
EWVB, pp. 210-211; tr. it. cit., pp. 272-273.
130
EWVB, p. 211; tr. it. cit., p. 273.
131
EWVB, p. 212; tr. it. cit., p. 274.
132
EWVB, p. 211; tr. it. cit., p. 273.
133
Ibidem.
JONAS COHN 201

di giusto», in quanto «solo chi ha visto, può rimanere atterrito davanti a ciò
che ha visto e, poiché vuole sfuggire allo spavento, distogliere lo sguardo
da ciò che ha visto»134. Non a caso «il grande successore di Spinoza» è
Leibniz, il quale – pur rimanendo all’interno dei limiti invalicabili imposti al
pensiero del diciassettesimo secolo dall’assoluto predominio della cono-
scenza quantitativa che è un genere di conoscenza legato a filo doppio con
la negazione – «ha dichiarato per primo in maniera pienamente consape-
vole che il positivo è il vero, e che dunque ogni filosofo ha ragione in ciò
che afferma e ha torto in ciò che nega»135.
Per Cohn queste osservazioni storiche hanno in realtà una forte valenza
di ordine teorico, giacché gli consentono di introdurre il nucleo più
originale della sua argomentazione antiweberiana circa la praticabilità di
una conoscenza filosofica dei valori. Contro la riduzione prospettica del
valore a ciò che è posto come valido dal soggetto valutante, da cui
consegue l’ineliminabile possibilità della negazione della validità dei valori,
Cohn si domanda infatti «dov’è che in generale la negazione ha il suo
diritto e il suo significato», precisando subito dopo che «la questione verrà
dapprima posta in relazione all’ente e solo poi verrà applicata a ciò che ha
valore»136.
Nell’ambito dell’ente non ha alcun senso negare quel che si offre
originariamente nell’Erlebnis di un soggetto esperiente. Ciò vale in maniera
assolutamente identica tanto per i nostri vissuti quanto per i vissuti altrui, e
rimane allo stesso modo valido per ogni genere di vissuto (tanto per le
misurazioni del fisico quanto per i sogni o le allucinazioni). Infatti «ad
essere negata può essere sempre e soltanto la relazione del singolo oggetto
con altri oggetti o con un determinato ambito»137. Questa è, secondo Cohn,
una verità solo in apparenza «lapalissiana» che è necessario assumere «con
piena serietà» se si vuole davvero «accantonare definitivamente un’antichis-
sima e mai superata consuetudine della filosofia», che consiste nel «soppri-
mere mediante una negazione ciò che non vuole piegarsi alle pretese di un
pensiero orientato in un certo modo, cosı̀ come ha fatto Parmenide nella
maniera più grandiosa e cosı̀ come hanno fatto sempre di nuovo i filosofi
che sono venuti dopo di lui, sebbene con crescente cautela e con crescenti

134
Ibidem; tr. it. cit., pp. 273-274.
135
EWVB, pp. 211-212; tr. it. cit., p. 274.
136
EWVB, p. 212; tr. it. cit., p. 274.
137
Ibidem (il corsivo è mio).
202 INTORNO A WEBER

138
limitazioni» . Del resto anche da un punto di vista prettamente logico –
che non è mai privo di importanza «per le questioni ultime della filosofia» –
questa vera e propria tendenza alla rimozione che caratterizza la tradizione
filosofica si rivela del tutto insostenibile, giacché appare chiaro «che è
possibile negare solo intere materie di giudizio, e che una materia di
giudizio non è mai costituita da un solo oggetto ma sempre da una
relazione fra oggetti»139. Certo, tutto ciò non vuol dire misconoscere «l’e-
norme valore» che la negazione riveste nel processo conoscitivo – essa
«stratifica, ordina, conduce lontano dal falso ed esorta a cercare il vero» –,
ma significa solo riconoscere che tale valore «è sempre e soltanto un valore
secondario», giacché «ogni negazione ha solo il senso di condurre a
posizioni meglio determinate»140. Ecco perché Cohn afferma che nell’am-
bito dell’ente vige in maniera incondizionata «il principio della priorità
dell’affermazione» o «della prevalenza del positivo», nonché il principio che lo
integra, e cioè quello del «significato ordinatore della negazione»141.
Il problema di Cohn consiste ora nello stabilire se tali principi possano
essere in qualche modo trasferiti dall’ambito dell’essere all’ambito del
valore. Qui sembrano a prima vista farsi avanti «difficoltà insite nelle
caratteristiche peculiari del valore»: infatti, mentre «la nozione di “essere” in
senso generalissimo non sopporta alcuna opposizione» per cui «ogni non
essere significa sempre e soltanto non-essere-cosı̀, non-essere-questo, non-
essere-in-questa-connessione», la nozione di valore contiene invece in se
stessa «la contrapposizione», e la contiene in un duplice senso, poiché
contrappone in primo luogo tutto ciò che è «significativo» rispetto al valore
a tutto ciò che è «indifferente» rispetto al valore, e in secondo luogo
(nell’ambito di ciò che è significativo rispetto al valore) tutto ciò che è
«fornito di valore» a tutto ciò che è «contrario al valore»142. Va detto però
che «tutto l’indifferente può essere contrario al valore se entra in maniera

138
Ibidem; tr. it. cit., pp. 274-275. Infatti «perfino Hegel, forse il più positivo di tutti i
pensatori esistiti fino ad ora, ha parlato in maniera sprezzante dell’accidentale, vale a dire di
ciò a cui non poteva trovare alcun senso razionale, definendolo come qualcosa di cui il
pensatore non deve occuparsi poiché esso non è nel senso più alto o non è veramente»
(ibidem; tr. it. cit., p. 275). Cohn fa naturalmente riferimento al celebre paragrafo 6
dell’Enzyklopa¨die der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse.
139
EWVB, p. 212; tr. it. cit., p. 275. In questo senso «quello che noi denominiamo giudizio
esistenziale negativo è solo la negazione dell’appartenenza ad un ambito» (ibidem; tr. it. cit.,
p. 274).
140
EWVB, pp. 212-213; tr. it. cit., p. 275.
141
EWVB, p. 213; tr. it. cit., p. 275.
142
Ibidem; tr. it. cit., pp. 275-276.
JONAS COHN 203

inopportuna nell’ambito del valore»143. Si può dunque concludere che «con


l’ambito del valore è insieme posta la negazione»144, giacché in tale ambito
essa «designa ciò che è contrario al valore» ma che solo consente di
«rendere riconoscibile il valore in quanto valore»145.
Tuttavia Cohn ritiene che si possa anche guardare a questo stato di
cose da un altro punto di vista, come avviene quando si sottolinea che
nell’ambito del valore la negazione «presenta un significato positivo»146.
Infatti ciò che è contrario al valore è – sebbene «in un senso diverso» –
«qualcosa di altrettanto positivo di ciò che è fornito di valore»147. Da questo
punto di vista il principio della prevalenza del positivo non viene affatto
contraddetto nell’ambito del valore. Anzi, se si considera che tale principio
«può essere valido solo se assegna anche alla negatività il suo ruolo
positivo» (in quanto «la pre-valenza di una parte è possibile solo lı̀ dove
148
anche l’altra parte ha una qualche valenza») , allora bisogna riconoscere
che il principio della prevalenza del positivo trova la sua piena realizza-
zione solo nell’ambito del valore. Sembra infatti che nell’ambito dell’essere
«non si tratti affatto di una priorità dell’affermazione, ma dell’esclusivo
diritto di un esserci che è indipendente dal si e dal no»149.
In realtà è soltanto il valore che introduce la negazione, intesa come
qualcosa di positivo, nell’ambito dell’essere. È quanto accade originaria-
mente con la vita, che detiene una «posizione centrale» proprio perché «in
essa il valore e l’essere si congiungono»150. Infatti «la vita possiede tutte le

143
Ibidem; tr. it. cit., p. 275.
144
EWVB, p. 215; tr. it. cit., p. 277.
145
EWVB, p. 213; tr. it. cit., p. 276.
146
EWVB, p. 215; tr. it. cit., p. 277.
147
EWVB, p. 213; tr. it. cit., p. 276.
148
EWVB, pp. 213-214; tr. it. cit., p. 276. Allo scopo di chiarire questo punto Cohn
adopera una metafora per molti versi rivelatrice, quando afferma che «una teodicea, per
essere completa, deve giustificare l’esistenza del diavolo» (EWVB, p. 213; tr. it. cit., p. 276).
149
EWVB, pp. 213-214; tr. it. cit., p. 276.
150
EWVB, p. 214; tr. it. cit., p. 276. Proprio per questo motivo Cohn scrive: «Se si parte
dalla separazione fra l’essere e il valore, la vita è l’ambito in cui entrambi si incontrano; se si
parte dall’unità, la vita è il principio, è la non separatezza che pone a partire da se stessa
ogni separazione» (ibidem; tr. it. cit., p. 277). Anticipando un tema poi ampiamente
sviluppato nella Theorie der Dialektik del 1923, Cohn aggiunge anche che «l’unificazione
dell’essere e del valore nella vita, se viene posta in rapporto con la contrapposizione fra le
due sfere, presenta per la teoria particolari difficoltà, che possono essere risolte soltanto
attraverso una dialettica» (EWVB, pp. 214-215; tr. it. cit., p. 277). Tuttavia egli ritiene che
questa «trattazione dialettica presuppone in ogni caso una rigorosa separazione logica» fra
l’essere e il valore (EWVB, p. 215; tr. it. cit., p. 277). Sull’idea di dialettica in Cohn cfr. I.
Idalovichi, Die Dialektik des Utraquismus, Frankfurt a. M., 1991.
204 INTORNO A WEBER

qualità che abbiamo riconosciuto come le qualità essenziali per un ambito


di valore. Ogni vivente si delinea distinguendosi da un ambiente indiffe-
rente. In lui stesso tutto è riferito alla sua interezza. Questa interezza si
presenta come un valore e da essa si possono far discendere diverse coppie
di valori e disvalori», che si riferiscono tanto al vivente stesso (forza-
debolezza, crescita-decrescita etc.), quanto a ciò che entra a far parte del
151
suo ambiente come qualcosa di utile o di dannoso . «Si potrebbe obiettare
– continua Cohn – che anche nella fisica si danno grandezze negative. Ma
qui si tratta sempre e soltanto di direzioni contrapposte dell’accadere, e
quale delle direzioni venga denominata positiva e quale negativa è del tutto
indifferente, mentre la crescita e la decrescita di un vivente, la sua conserva-
zione e la sua distruzione mettono ovunque in risalto la direzione positiva
in quanto tale»152.
Il fatto che nell’ambito del valore il negativo stesso acquisti una propria
positività rappresenta dunque una forma molto importante e complessa di
attuazione del principio della prevalenza del positivo in tale ambito. Un’al-
tra forma di attuazione del medesimo principio è invece rappresentata dal
fatto che «il valore precede logicamente il disvalore»153. Certo, dal punto di
vista psicologico è molto frequente il caso in cui proprio qualcosa di
avverso a un determinato valore suscita in noi la dovuta attenzione per il
valore in questione; risulta tuttavia innegabile che «dal punto di vista logico
il disvalore e ciò che è indifferente al valore possono essere afferrati solo a
partire dal valore positivo»; è infatti «universalmente valido ciò che Spinoza
dice del vero, e cioè che esso è giudice di se stesso e del falso, cosı̀ come la
luce illumina se stessa e le tenebre»154.
Cohn sottolinea però come nessuna di queste due forme di attuazione
del principio della prevalenza del positivo nell’ambito di ciò che ha il
carattere del valore sia quella che egli ritiene veramente «essenziale» per la
sua «connessione di discorso»155. V’è dunque una terza e decisiva forma di
attuazione di tale principio che viene adeguatamente messa in risalto solo
se si prende in esame non già la struttura interna della nozione di valore,

151
EWVB, p. 214; tr. it. cit., p. 276.
152
Ibidem; tr. it. cit., p. 277. Vi sono certamente casi in cui, «ponendoci di fronte a un
fenomeno naturale non vivente, sentiamo come positiva una delle due direzioni contrappo-
ste»; ma «ciò accade soltanto perché ci immedesimiamo nel fenomeno in questione come se
esso fosse un vivente» (ibidem).
153
EWVB, p. 215; tr. it. cit., p. 277.
154
Ibidem.
155
Ibidem; tr. it. cit., p. 278.
JONAS COHN 205

156
quanto piuttosto «il valore come oggetto della conoscenza» . Sotto questo
riguardo «le cose stanno col valore allo stesso modo in cui stanno con
l’ente. Come qualsiasi cosa che si presenta in un qualsiasi vissuto di un
qualsiasi soggetto di vissuti non può essere rimosso come non essente, allo
stesso modo non si può negare un valore che è stato reso visibile da
qualche parte», la qual cosa può avvenire o «immediatamente» (quando
esso «viene mostrato in determinati beni») o «mediatamente» (quando «il
comportamento di un soggetto risulta comprensibile solo in base al presup-
posto che egli riconosca un determinato valore»)157.
Un simile assunto sembra costituire un facile bersaglio per una vasta
gamma di obiezioni. Cohn ritiene però che sia necessario considerare
analiticamente tali obiezioni per saggiarne l’effettiva consistenza. Una prima
obiezione si condensa nell’argomento secondo cui «l’essere di una valuta-
zione non dimostra la validità del valore»158: comprendere che un uomo o
un gruppo di uomini ritengono un determinato bene fornito del più alto
valore non significa affatto condividere tale valutazione. Del resto, se cosı̀
non fosse, le scienze della cultura non potrebbero in alcun modo configu-
rarsi come scienze empiriche e avalutative. Tuttavia secondo Cohn tale
obiezione è nel giusto solo «per ciò che riguarda i beni concreti (...) giacché
il loro essere carichi di valore può dipendere da circostanze particolari e
mutevoli e può anche fondarsi su connessioni erronee»159. Se invece si
considerano i «valori posti nei beni in questione, che soli li rendono dei
beni», la situazione si rivela del tutto diversa, giacché la validità di tali valori
non viene toccata da «circostanze particolari e mutevoli» e da «connessioni
erronee» proprio allo stesso modo in cui la validità della categoria di causa
non viene toccata da una singola imputazione causale che si dimostra
falsa160. Per chiarire la propria posizione, Cohn adduce l’esempio storico
della magia. «Se penetriamo nell’immagine del mondo dei popoli che
credono nella magia e ci rendiamo conto del totale contrasto con i nostri
modi di riflettere e di agire, potremmo essere inclini ad affermare, a
seconda della nostra disposizione d’animo, che noi o neghiamo o non
vediamo i valori che determinano chi crede nella magia. Ma un’analisi più
ravvicinata mostra che anche in questo caso noi vediamo perfettamente i

156
Ibidem.
157
Ibidem.
158
Ibidem.
159
Ibidem.
160
Ibidem.
206 INTORNO A WEBER

161
valori e non li neghiamo affatto» . Infatti i differenti strati di valore
riconosciuti, più o meno consapevolmente, da chi crede nella magia e si
rivolge al mago (la prosperità economica, la salute, etc.; la pacificazione
interiore nei confronti delle evenienze della vita che è anche funzionale
all’ordine sociale; l’idea di far parte di un mondo connesso in ogni suo
aspetto i cui legami si tratta di penetrare per porlo sotto il nostro dominio)
possono essere riconosciuti anche da chi «ha abbandonato in maniera
assolutamente radicale ogni fede nella magia»162. Anzi «egli deve riconoscerli,
se li ha visti»163. «Ciò che egli nega – continua Cohn – è soltanto, per quanto
riguarda il primo strato, che le pratiche magiche producano i beni deside-
rati, per quanto riguarda il secondo strato, che la pacificazione interiore e
l’ordine sociale siano insiti nel contenuto della magia (essi sono insiti
soltanto nella fede in essa e nella sua disposizione formale), e infine, per
quanto riguarda il terzo strato, che la magia sia la giusta via per l’adempi-
mento del presagio di un mondo unitario e animato, nonché per l’agire
adeguato e nel contempo sovrano volto, in definitiva, alla parificazione con
Dio»164.
C’è però anche chi ritiene possibile «una negazione di determinati
valori non già in quanto fatti, ma in quanto valori»165, una negazione, cioè,
che non si rivolge a beni concreti, ma direttamente ai valori che ad essi
ineriscono. Questo tipo di negazione non nega solo la positività di alcuni
generi di valore, ma anche la positività logicamente subordinata dei disva-
lori corrispondenti: lo stoico, ad esempio, nega che il piacere sia un valore,
ma nega anche che il dispiacere sia un disvalore, e ascrive l’uno e l’altro
all’ambito dell’essere; allo stesso modo l’edonista nega come illusione o
mistificazione non solo ogni valore autonomo dal piacere, ma anche ogni
disvalore autonomo dal dispiacere. Un simile «comportamento» presenta,
secondo Cohn, un’analogia di fondo con la «riduzione di grandi parti
dell’essere a ciò che ha il carattere della parvenza»: «lo stoico o l’edonista –
egli infatti scrive – non si comportano affatto in maniera diversa (...) dai
pensatori delle Upanis.ad, che non riconoscono alcuna realtà a tutto l’essere
particolare»166. Sicché, come nel caso della große Negation indiana, anche nel
caso della «negazione di alcuni generi di valore» si tratta, in buona sostanza,

161
EWVB, p. 216; tr. it. cit., p. 278.
162
Ibidem; tr. it. cit., p 279.
163
Ibidem (il corsivo è mio).
164
Ibidem.
165
Ibidem.
166
EWVB, p. 217; tr. it. cit., pp. 279-280.
JONAS COHN 207

di individuare il «nocciolo» e il «senso reale» di «un comportamento che


167
fraintende se stesso» .
Procedendo in questa direzione, Cohn mette in luce come la negazione
teoretica di determinati generi di valore si radichi spesso, seppure in
maniera larvata, in un bisogno pratico e ben circostanziato «di non usare
alcun riguardo a certi valori nell’agire»168. Chi ad esempio opera in confor-
mità alla legge morale, ha spesso l’esigenza di non tenere in alcun conto ciò
che gli piace e ciò che gli dispiace. Tuttavia proprio un simile bisogno
testimonia con assoluta chiarezza che «i valori esclusi» vengono in realtà
pienamente «riconosciuti come valori»169. V’è però anche una possibilità più
radicale, che consiste nell’«escludere un’intera sfera di valore: l’io, il centro
valutativo, può ritirarsi da tale sfera di valore in modo tale che essa non
entri assolutamente più in questione nelle nostre prese di posizione»170. È il
caso dell’etica stoica che afferma: “solo il saggio (il virtuoso) è felice”. Essa
si differenzia profondamente dall’etica kantiana, giacché quest’ultima, defi-
nendo il sommo bene come unione di virtù e felicità, riconosce il piacere e
la felicità come «una dimensione di valore autonoma»171. Invece «il conte-
gno dello stoico è il suo proposito di negare il valore; ma questo proposito
può andare a buon fine altrettanto poco della trasformazione dell’essere in
parvenza. Il dileggio che alla proposizione “solo il saggio è felice” aggiunge
il poscritto “se non ha il raffreddore” coglie nel segno lo stoico»172. Pari-
menti l’edonista è messo in seria difficoltà da chi gli obietta «che la sua
ricerca della verità, essendo indipendente dal fatto che la verità gli arrechi
in ultima istanza piacere o dolore, presuppone un valore indipendente dal
piacere»173. Secondo Cohn la ragione ultima di tutto ciò è che, «laddove è
presente un concetto che contiene un valore o un comportamento in cui
operano dei valori, questi valori possono essere resi visibili ed esigono in
seguito di essere riconosciuti come valori»174.
Questo assunto fondamentale non è falsificato dal «fatto della cecità ai
valori» proprio allo stesso modo in cui «l’esistenza fenomenica o fisica delle
normali sensazioni cromatiche» e «la supposizione che queste differenze

167
Ibidem; tr. it. cit., p. 280.
168
Ibidem.
169
Ibidem.
170
Ibidem.
171
Ibidem.
172
Ibidem.
173
Ibidem.
174
EWVB, pp. 217-218; tr. it. cit., p. 280.
208 INTORNO A WEBER

sensibili siano fondate (...) nel mondo dei corpi» non sono falsificati dal
175
«fatto della cecità o del daltonismo» . «Anzi – continua Cohn, con
un’analogia che condensa in sé tutto l’avvenuto distacco della filosofia
neokantiana dei valori dal suo originario impianto soggettivistico-fichtiano
– siamo perfino riusciti a provare l’esistenza di raggi luminosi per i quali
tutti gli uomini sono ciechi»176. Del resto Cohn è convinto che si parli
spesso, e impropriamente, di «cecità ai valori» solo per designare «l’incapa-
cità di scorgere determinati valori in determinate classi di beni» (l’incapa-
cità, ad esempio, di scorgere valori estetici nella musica); esistono inoltre,
senza dubbio alcuno, «sensibilità diverse per intere classi di valori»; più
difficile è invece dimostrare l’esistenza di «una radicale cecità ai valori in
relazione a una classe fondamentale di valori»177. Ma perfino una simile
circostanza «non proverebbe nulla contro i valori di questa classe»: certo,
non sarebbe come non scorgere determinati valori in determinate classi di
beni; infatti, anche chi è incapace di scorgere immediatamente il valore
estetico della musica e si rende conto di esso solo attraverso il comporta-
mento degli altri uomini, può comunque «riconoscere la natura di questo
valore muovendo dal suo comportamento verso altre classi di beni di
carattere estetico»; e tuttavia anche «uomini assolutamente ciechi nei con-
fronti dei valori estetici (...) potrebbero essere condotti non già a un’intui-
zione dei valori estetici, ma almeno a un riconoscimento di una dimensione
di valore a loro inaccessibile, in maniera simile al modo in cui il cieco dalla
nascita può rendersi chiara l’esistenza del visibile»178.
Il risultato ultimo delle argomentazioni di Cohn è dunque il seguente:
se Weber ha ragione nel sostenere che le scienze particolari rifuggono, in
quanto Seinswissenschaften, da ogni giudizio valutativo, non è possibile non
osservare che nei concetti della biologia e delle scienze della cultura
«divengono visibili valori» che esigono di essere riconosciuti come validi,
valori «che la filosofia deve espressamente porre in rilievo e prendere in
esame più da vicino»179. D’altronde non è nell’ambito della vita scientifica,
ma in quello della vita pratica e pre-scientifica che l’uomo fa originaria-
mente esperienza dei valori. Ciò è vero per tutti i valori, e non solo «per i
valori e i beni della sfera etico-sociale» (si pensi ad esempio alla «resistenza

175
EWVB, p. 218; tr. it. cit., pp. 280-281.
176
Ibidem; tr. it. cit., p. 281.
177
Ibidem.
178
Ibidem.
179
Ibidem.
JONAS COHN 209

che il soggetto agente incontra», la quale «rende chiara l’indipendenza degli


stati di cose dai nostri desideri e dalle nostre brame e dunque la caratteri-
180
stica peculiare del valore “verità”») . Ecco perché «la filosofia, per rendersi
visibili i valori, si serve tanto dell’atteggiamento naturale della vita quanto
del lavoro delle scienze particolari»181. Certo, «con il mero sussistere l’uno
accanto all’altro dei valori il lavoro della filosofia è solo cominciato, giacché
il suo fine peculiare è l’ordinamento dei valori»182. Nel perseguire tale
ordinamento la filosofia deve guardarsi da due pericoli in qualche modo
contrapposti: quello di rimanere al livello di una mera «sistematica formale»
fondata «sulla comparazione dei generi di valore» e quello di contraddire,
come suo solito, il principio della priorità dell’affermazione riconoscendo
un unico valore come «indipendente» e negando o subordinando ad esso
tutti gli altri183. Secondo Cohn si tratta invece di mostrare – per quanto ciò
comporti non poche difficoltà e si configuri in buona sostanza come un
compito infinito – che «i valori e gli ambiti di valore stanno (...) in un
rapporto di integrazione [in einer Gemeinschaft der Erga¨nzung] che è vero in
sé e per sé. Si deve mostrare che la vita nella sua interezza può essere
veramente formata solo dall’essere insieme di tutti i generi di valore e che,
in vista del compimento del regno dei valori, ogni genere di valore deve
essere ravvisato come esigenza a partire da ogni altro»184.

5. Tuttavia, anche se si riuscisse a rendere pienamente trasparente l’intero


«cosmo dei valori», esso rimarrebbe pur sempre «una formazione in rap-
porto alla quale lo spirito si comporta in maniera (...) contemplativa», ossia
una formazione cui «fa difetto la relazione diretta col nostro agire»185. La
precisa delimitazione del compito della filosofia non fornisce dunque al-
cuna risposta positiva alla terza e ultima delle questioni poste da Cohn,
quella «circa il contributo della filosofia alle decisioni valutative della vita
attiva»186.

180
EWVB, pp. 218-219; tr. it. cit., pp. 281-282.
181
EWVB, p. 219; tr. it. cit., p. 282.
182
Ibidem
183
Ibidem. Per contrastare questo secondo pericolo Cohn giunge, seppure indirettamente,
a definire come «politeismo dei valori» la prospettiva propria del pensiero filosofico (cfr.
EWVB, pp. 220 e 221; tr. it. cit., pp. 283 e 284). È però evidente la grande distanza che
intercorre tra tale politeismo dei valori e quello di Weber.
184
EWVB, p. 219; tr. it. cit., p. 282.
185
Ibidem.
186
Ibidem. Cfr. supra, nota 85.
210 INTORNO A WEBER

Sembrerebbe anzi che tale questione sia destinata a ricevere una rispo-
sta negativa; sembrerebbe cioè che la filosofia, proprio come le Einzelwis-
senschaften, sia del tutto incapace di fornire un contributo alle decisioni
ultime che determinano l’agire. Infatti, «anche nel caso in cui si riesca a
integrare in maniera assolutamente perfetta ogni ambito di valore con
l’altro nell’ordinamento ideale dei valori, chi agisce in un tempo determi-
nato e con forze limitate può fare soltanto una singola cosa. Perciò, quando
egli mira alla realizzazione di determinati valori, dovrà necessariamente
trascurare o ledere altre cose fornite di valore. Il filosofo gli offre un cielo
187
pieno di dei, ma egli esige dal filosofo un unico dio» . Da questo punto di
vista la confutazione teorica delle convinzioni weberiane circa «l’inconcilia-
bilità (...) della lotta tra i punti di vista ultimi in generale possibili rispetto
alla vita» non risolve affatto il problema pratico (egualmente sottolineato da
Weber) «di decidere tra di essi»188, giacché tale problema si radica nel
contrasto apparentemente insanabile tra «il politeismo cui conduce il pen-
siero» e «il monoteismo che l’azione esige»189. Cohn mette anche in luce
come non si possa sperare di «eludere questo contrasto richiedendo che in
ogni singolo caso il soggetto agente promuova il più alto dei valori in
questione»: da un lato infatti «i valori non si lasciano affatto disporre in
un’unica successione di altezza» che consentirebbe, ad esempio, di stabilire
in maniera univoca se il valore di un’azione morale sia più alto o più basso
di quello di un grande attimo contemplativo; dall’altro «anche se l’ordine di
altezza di due valori risulta evidente, con ciò non è ancora dato il dovere di
promuovere il più alto dei due in ogni circostanza», giacché «spesso
l’urgenza di una determinata azione entra in conflitto con l’altezza del
valore»190.
Ciò nonostante Cohn ritiene che sia ancora prematuro concludere che
«il bello schema di una filosofia giunta a compimento pianti in asso il
soggetto agente al pari delle scienze particolari»191. La soluzione della

187
EWVB, pp. 219-220; tr. it. cit., pp. 282-283.
188
WaB, pp. 104-105; tr. it. cit., pp. 121-123.
189
EWVB, p. 220; tr. it. cit., p. 283.
190
Ibidem. Per chiarire quest’ultimo punto – che rivelerà tutta la propria importanza solo
nello sviluppo ulteriore dell’argomentazione – Cohn propone un esempio di genere pedago-
gico. Un educatore può ben ritenere «la formazione dello spirito che alberga nel suo allievo
come un valore di gran lunga superiore a quello della mera vita»; e tuttavia vi sono
circostanze in cui, anche a scapito di tale valore, egli ha il dovere prioritario di salvaguardare
nel suo allievo «la vita sana» che «resta la precondizione di ogni superiore sviluppo» (ibidem).
191
Ibidem.
JONAS COHN 211

questione è infatti più complessa e può essere adeguatamente delineata solo


tematizzando in maniera diretta e ravvicinata «l’intimo rapporto che inter-
192
corre fra la contemplazione e l’azione» .
A questo scopo è preliminarmente necessaria una precisazione concet-
tuale circa il «significato contemplativo» prima attribuito al «sistema dei
valori nella sua interezza» in quanto oggetto e compito della filosofia: tale
kontemplative Bedeutung è, secondo Cohn, perfettamente compatibile con la
giusta distinzione rickertiana tra «valori contemplativi» e «valori attivi»,
giacché il termine “contemplativo” non si riferisce qui alle «caratteristiche
peculiari dei valori», ma piuttosto alla «presa di posizione del soggetto nei
confronti del sistema dei valori»193. In altri termini, si tratta di mettere in
evidenza che ad ogni valore (sia esso contemplativo o attivo) «io posso
rapportarmi in maniera attiva o in maniera contemplativa»: basti pensare
alla ricerca scientifica e alla creazione artistica che sono comportamenti
attivi al servizio di un valore contemplativo, o, per converso, alla possibilità
di «rendere un atto morale oggetto di contemplazione teoretica o esteti-
ca»194.
Ciò che però Cohn sottolinea con forza è che questa «intersezione»
concettuale tra «le caratteristiche peculiari dei valori» e «i modi di compor-
tarsi del soggetto» ha un’importante ricaduta sul piano del «comporta-
mento reale». «Il filosofo – egli scrive – perviene al suo risultato contempla-
tivo solo tramite un comportamento attivo di ricerca. Il soggetto agente
vuole certamente sapere ciò che deve realizzare qui e ora solo in vista della
sua attività fornita di valore, ma vuole per l’appunto sapere: ciò significa che
nel suo comportamento attivo entra anche l’esigenza di un comportamento
contemplativo. Poiché inoltre è morale un agire che segue la visione del
giusto, l’esigenza della moralità racchiude in sé anche l’esigenza della
visione, per quanto poco possa essere equiparata con essa»195. Un’osserva-
zione di questo genere non offre indicazioni positive circa il contributo
della filosofia alla vita attiva, ma ne rivendica senza dubbio la necessità e
l’urgenza: avendo infatti appurato che ogni comportamento attivo incor-
pora in qualche modo un comportamento contemplativo (e viceversa),
«non possiamo più contentarci di dire che il fine della filosofia, ossia il
sistema dei valori giunto a compimento, possiede in se stesso il proprio

192
Ibidem.
193
Ibidem; tr. it. cit., pp. 283-284.
194
EWVB, pp. 220-221; tr. it. cit., p. 284.
195
EWVB, p. 221; tr. it. cit., p. 284 (il primo e il terzo corsivo sono miei).
212 INTORNO A WEBER

valore contemplativo, e che l’agire resta egualmente lasciato a se stesso e


196
alle decisioni valutative in esso immanenti» .
Bisogna dunque procedere oltre, e per procedere oltre la strada appare
a questo punto obbligata: è necessario comprendere in cosa consista
realmente la «visione morale» allo scopo di stabilire quali siano le sue
relazioni effettive con la «visione teoretica dei valori» (con la filosofia)197.
Secondo Cohn i due tipi di visione non coincidono, ma non sono nem-
meno completamente disgiunte, giacché la «visione morale» include in sé la
«visione teoretica dei valori» ma anche qualcosa di diverso, e cioè la
«visione dei doveri»198. Per evidenziare con la massima chiarezza questa
diversità tra le due componenti della visione morale, Cohn presenta un
caso in cui agire conformemente al dovere significa ledere beni dei quali si
riconosce il valore. «Poniamo che in un processo civile un giudice, ope-
rando rigorosamente secondo il diritto, debba decidere in modo tale che,
attraverso la sua decisione, l’esistenza economica di una famiglia moral-
mente elevata e laboriosa e la formazione dei suoi figlioli dotati di talento
vengano entrambe distrutte, mentre a riportarne profitto sia un uomo più
ricco ed ozioso, interamente dedito ai godimenti materiali. Come rappre-
sentante del diritto, egli decide in conformità al diritto. Il principio di un
tale giudice non è “fiat iustitia, pereat mundus”, ma è “io sono obbligato a
far trionfare il diritto”. Malgrado ciò la visione dei valori materiali non è
affatto insignificante per il giudice; infatti in tutti i casi in cui la legge gli
lascia uno spazio di decisione, egli, muovendosi all’interno di questo spazio,
deve giudicare di tutti i valori e di tutti i beni in questione secondo la sua
conoscenza. A causa della sua posizione il valore della conformità formale
al diritto ha soltanto la preminenza su tutti i valori materiali»199.
Naturalmente la visione del proprio «dovere particolare» (che non di
rado impone di ledere beni di cui pure si vede il valore) non si fonda
soltanto su una «vocazione professionale duratura» quale quella del giudice,
ma può anche fondarsi sulla «prossimità personale», che può essere a sua
volta «duratura» (prima di pensare ai bisogni dei bambini estranei, debbo
pensare a quelli di mio figlio) o «momentanea» (qualsiasi siano i miei
impegni, debbo soccorrere il ferito in cui mi imbatto)200. Il tema della

196
Ibidem.
197
Ibidem.
198
EWVB, p. 222; tr. it. cit., p. 285.
199
EWVB, pp. 221-222; tr. it. cit., pp. 284-285.
200
EWVB, p. 222; tr. it. cit., p. 285.
JONAS COHN 213

«prossimità personale» è molto importante, perché ci consente di compren-


dere davvero quale sia per Cohn la radice ultima della diversità tra la
visione teoretica dei valori e la visione dei propri particolari doveri: essa
risiede nel fatto che la seconda si determina a partire dal punto di vista
finito del soggetto agente e dunque si rivolge sempre alle circostanze. «La
circostanza» infatti è quanto di «più aderente al soggetto che vi è situato»,
giacché – come afferma Pietro Piovani – «circum stat in un rapporto
esistenziale diretto, nei comportamenti da assumere di volta in volta verso
un proximum entro cui sta il proximus. Senza proximitas non c’è concretezza
di “prossimo” rispetto a cui un atteggiamento morale debba effettivamente
atteggiarsi»201.
Tuttavia, una volta compresa alla radice la diversità che intercorre tra la
visione teoretica dei valori e la visione dei propri particolari doveri, è anche
necessario sottolineare che la seconda non può essere totalmente separata
dalla prima e che solo entrambe possono dare luogo a quel genere di
«visione» che l’agire morale esige. In un passo che merita davvero di essere
citato per esteso Cohn infatti scrive: «La molteplicità delle persone e dei
beni su cui fa presa il mio agire e il mio tralasciare si ordina sempre a
partire dal centro in cui io sto. Non posso regolare il mio agire secondo un
ordine di grandezza assoluto dei beni, ma piuttosto secondo una visione
percepita dal mio punto di osservazione, secondo una specie di prospettiva
di valore. Ma io posso percepire in maniera tanto più precisa questa
prospettiva, quanto più sono pratico della geografia delle montagne in
lontananza. Il perimetro e la chiarezza della mia visione dei valori, per
quanto poco, di per sé presi, mi mostrino già il mio dovere, determinano
tuttavia anche l’acutezza e il perimetro della mia visione dei doveri.
Laddove non vedo alcun valore, non posso nemmeno riconoscere alcun
202
dovere» . La filosofia, rickertianamente intesa da Cohn come pura teoria
dei valori, acquista in tal modo un significato ben preciso per le decisioni
valutative della vita attiva, senza che ciò comporti la necessità di miscono-
scere del tutto la portata degli argomenti che possono essere fatti valere
contro ogni forma di normativismo etico assoluto.
Non meraviglia, dunque, che Cohn prenda le distanze dalle afferma-
zioni weberiane circa «l’impossibilità di patrocinare “scientificamente” gli
atteggiamenti pratici»203. Riferendosi infatti al passo di Wissenschaft als Beruf

201
P. Piovani, Ragioni e limiti del situazionismo etico, in Id. (a cura di), L’etica della situazione,
Napoli, 1974, pp. 519-551, p. 522.
202
EWVB, p. 222; tr. it. cit., p. 285.
203
WaB, p. 99; tr. it. cit., p. 111.
214 INTORNO A WEBER

in cui Weber afferma di ignorare del tutto «come si possa fare a decidere
“scientificamente” tra il valore della cultura francese e quello della cultura
tedesca»204, Cohn non si limita a mettere in luce che «non si possono mai
riportare formazioni culturali complesse a un unico denominatore di valo-
re», ma dichiara anche che, «se tali formazioni lottano l’una con l’altra,
nella lotta non è affatto in gioco – come ha ritenuto a torto un velenoso
errore – l’altezza della loro cultura, ma è piuttosto in gioco il dominio sullo
spazio, sul tempo, sui corpi e sulle anime»205. La strategia argomentativa di
Cohn si muove dunque su un duplice piano. Da un lato si tratta di
evidenziare che l’asserita impossibilità di decidere scientificamente tra il
valore della cultura francese e quello della cultura tedesca implica in ogni
caso l’assurda pretesa di interrogarsi circa la superiorità (o l’inferiorità) della
«pittura francese» rispetto alla «musica tedesca» o dell’«unità di stile fran-
cese» rispetto «alla molteplicità della vita tedesca»; e si tratta altresı̀ di
sottolineare come tale pretesa abbia la propria genesi nell’esigenza del
«pensiero quantitativo» di «riportare ciò che è qualitativamente diverso a un
denominatore comune», esigenza che, pur non essendo unicamente «un’a-
bitudine del nostro tempo» ma anche «un effettivo bisogno del pensiero
che domina», non può, solo per questo, «trovare soddisfazione ovunque»206.
Dall’altro lato, invece, si tratta di rispondere alle perplessità del «soggetto
agente», le cui decisioni si fondano sempre «su di un giudizio di preferenza
fra due beni o due gruppi di beni», ponendo in rilievo come tali decisioni e
tali giudizi non derivino solo «da una visione dei valori», ma anche da «un
altro fattore» che «racchiude in sé la particolare posizione del soggetto
agente rispetto al mondo dei valori»: non a caso, nell’ora fatale dello
scontro fra grandi formazioni culturali, «il singolo combattente non ha
affatto bisogno di sapere quale cultura sia maggiormente fornita di valore,
ma solo dove egli stesso sia al proprio posto»207.
Questa sorta di “utraquismo morale” propugnato da Cohn risulta
dunque molto distante dall’orizzonte concettuale di Weber nel cui ambito
non c’è semplicemente nessun posto per una “teoria” di valori puri che,
come montagne in lontananza, fungano da punti di riferimento per le
inevitabili scelte prospettiche del singolo, per le «decisioni ultime mediante

204
WaB, p. 100; tr. it. cit., p. 111. Cfr. supra, cap. I, nota 23.
205
EWVB, pp. 222-223; tr. it. cit., p. 286.
206
Ibidem.
207
EWVB, p. 223; tr. it. cit., p. 286.
JONAS COHN 215

208
le quali l’anima (...) sceglie il proprio destino» . Tuttavia Cohn sa bene di
essere molto distante non solo da Weber, ma anche da Kahler e dai critici
georgeani di Weber, che reputano del tutto inaccettabile ogni forma di
separazione tra la visione dei valori e la particolare posizione del soggetto
agente rispetto al mondo dei valori: «ciò che è veramente vivente ed è
veramente compiuto, cosı̀ essi diranno, reca nel proprio nocciolo vitale
tanto la propria posizione quanto il proprio valore»209. Cohn non intende
affatto misconoscere l’ideale di uomo insito in una posizione di tal genere,
pur dubitando che gli antichi greci o altre «formazioni umane del passato
siano state effettivamente in grado di avvicinarsi a questo ideale»210. Ciò che
invece gli importa sottolineare è che «per noi il paradiso della vita indivisa
è in ogni caso un paradiso perduto», giacché «alla nostra vita è richiesta la
resa dei conti consapevole e dunque la scomposizione»211. In altri termini,
Cohn ritiene, al pari di Weber, che l’idea-guida di Kahler e dei discepoli di
George – l’idea della «forma coniata che vivendo si sviluppa»212 – sia del
tutto funzionale al tentativo di rifugiarsi in una presunta dimensione di
immediatezza, il quale denuncia soltanto l’incapacità di «fissare lo sguardo
sul volto severo del destino del proprio tempo»213. Ma la profonda distanza
che separa le posizioni di Weber da quelle Cohn non tarda a riemerge,
giacché quest’ultimo aggiunge subito dopo che sarebbe errato «vedere nei
prodotti della scomposizione qualcosa di ultimo» e non fare «sempre di
nuovo» ritorno «a una connessione di ciò che è scomposto» attraverso il
riconoscimento del «rapporto dialettico che sussiste fra la totalità, che è una
totalità solo in quanto totalità delle parti, e le parti, che esistono solo nella
totalità»214.

208
M. Weber, Il significato della “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche, cit., p.
333.
209
EWVB, p. 223; tr. it. cit., p. 287.
210
Ibidem.
211
Ibidem.
212
Cfr. supra, cap. II, nota 91. In Der Beruf der Wissenschaft Kahler cita il verso goetheano
in un contesto altamente significativo per la nostra connessione di discorso. «Al giorno
d’oggi – egli infatti scrive – le vecchie designazioni di valore sono soltanto parole vuote fino
a quando non ricevono un significato peculiare dall’essere organico stesso, dall’essere
organico particolare e reale. E per questa ragione i valori che valgono per noi possono essere
soltanto gli archetipi dell’essere vivente stesso (...) cosı̀ com’è (...) nel modo più compiuto,
più unitario e più nobile, ossia come qualcosa che si trasforma e che tuttavia nel suo centro
profondo sta internamente in quiete, come una “forma coniata che vivendo si sviluppa”»
(BdW, pp. 43-44; tr. it. cit., p. 107).
213
WaB, p. 101; tr. it. cit., p. 115.
214
EWVB, p. 223; tr. it. cit., p. 287 (cfr. supra, nota 150).
216 INTORNO A WEBER

Cohn ritiene che questo genere di dialettica si riverberi in maniera


chiarissima nella vita politica di un sistema parlamentare e, specificamente,
nei rapporti fra i partiti politici, da lui definiti come associazioni che
215
aspirano «a conseguire potenza nello Stato» . Da un lato, infatti, questa
aspirazione «è in se stessa illimitata come ogni aspirazione alla potenza»,
ma dall’altro essa «risulta (...) nel contempo limitata» dalla circostanza che
ogni partito politico che non sia «una forza rivoluzionaria» è, come tale,
«un partito nello Stato, e cioè riconosce la potenza legale dello Stato come
qualcosa di sovraordinato alla sua aspirazione alla potenza»216. a) Simili
riflessioni – che rivelano subito la loro forte dimensione di attualità se le si
contestualizza nei primi, difficili anni della Repubblica di Weimar – consen-
tono senza dubbio a Cohn di evidenziare i limiti immanenti in ogni forma
di critica impulsiva e aproblematica del sistema dei partiti, quale quella
formulata da Kahler che (come si ricorderà) accusa questi ultimi di con-
durre una «sterile e intollerabile battaglia sul corpo vivente del popolo»217.
Per Cohn, infatti, chi coglie la peculiare «condizionatezza nell’incondizio-
natezza» che caratterizza ogni partito politico in quanto tale (e che com-
porta di certo «tanta debolezza e tanta falsità»), comprende anche la
«necessità» dei partiti politici, i quali, con «la loro pluralità e la loro
competizione», assicurano il «movimento nella vita dello Stato» ed evitano
«che un’unilaterale corrente di interessi si ponga in maniera duratura al
posto della totalità»218. b) Ma proprio per gli stessi motivi la consapevolezza
della «necessità» dei partiti politici non può mai essere disgiunta da quella
dei loro «limiti»219. Cohn guarda dunque con estrema cautela al tentativo
compiuto da Gustav Radbruch – fautore, a suo dire, di «una filosofia del
diritto relativistica» molto vicina alle posizioni di Weber220 – di «ricavare da
(...) programmi di partito reali tipi ideali di dottrine di partito che si
differenziano soltanto a causa della diversità dei sistemi di valore»221. Egli

215
Ibidem.
216
EWVB, pp. 223-224; tr. it. cit., p. 287.
217
BdW, p. 38; tr. it. cit., p. 101.
218
EWVB, p. 224; tr. it. cit., p. 287.
219
Ibidem.
220
EWVB, p. 199; tr. it. cit., p. 259. Autore di un’opera intitolata Grundzu¨ge der Rechtsphi-
losophie (Leipzig, 1914), il giurista Gustav Radbruch (1879-1949) fu effettivamente legato a
Weber da un forte sodalizio umano e intellettuale. Del resto è noto che in un luogo
importante della sua discussione con Eduard Meyer Weber si richiama esplicitamente a un
saggio giovanile di Radbruch sulla dottrina della causazione adeguata (cfr. M. Weber, Studi
critici intorno alla logica delle scienze della cultura, cit., pp. 210 sgg. e 232-234).
221
EWVB, pp. 224-225; tr. it. cit., p. 288.
JONAS COHN 217

sottolinea piuttosto che esiste un’ampia tipologia di partiti politici e che


perfino quelli di genere «più assoluto» – ossia quelli tenuti insieme da «un
programma di partito saldamente fissato» e da «determinati fini che (...)
intendono realizzare nello Stato» – non si differenziano soltanto in base alla
diversità dei fini ultimi e dei valori di riferimento, ma possono anche
differenziarsi a causa di «un diverso giudizio sull’agire» ritenuto «più ur-
gente» o «più appropriato» in vista della realizzazione dei medesimi fini e
222
dei medesimi valori . Certo, «almeno una parte del compito delle dottrine
di partito consiste nel portare a coscienza o nel conservare nella coscienza
parti diverse del cosmo dei valori»223. E tuttavia ciò non significa che le
lotte tra i partiti siano il riflesso del conflitto tra divinità eternamente
contrapposte. Infatti per Cohn una simile «assolutizzazione delle dottrine di
partito» non è solo «praticamente insicura» come mostra in maniera
eloquente «la situazione tedesca», ma è anche teoricamente incapace di
rendere ragione del «comportamento reale» dei partiti in un sistema parla-
mentare che non presenti disfunzioni patologiche, visto che in un tale
sistema «i partiti discutono e non lottano soltanto» riconoscendosi recipro-
camente «come legittimi» e ponendo di fatto in essere una «concorrenza
pacifica»224.
La forte accentuazione dell’orizzonte unitario entro cui si mantiene
anche il più aspro conflitto fra i partiti politici (a patto che essi non cessino
di essere tali per trasformarsi in forze rivoluzionarie) consente dunque a
Cohn di esemplificare in maniera efficace la propria posizione di fondo,
quella secondo la quale le cosiddette «lotte tra i valori» possono in verità
essere riportate o alla «confutazione dell’assolutezza e della falsa posizione
di un particolare valore» o alla diversa posizione prospettica dei soggetti
valutanti rispetto ai medesimi valori225. Cohn sa bene che le considerazioni
svolte a proposito dei partiti non possono essere estese senza modifiche «a
tutti i gruppi in lotta fra loro», giacché «tra i partiti da un lato e le nazioni o
le chiese dall’altro esiste (...) la differenza che il partito si sa come forma-
zione parziale, come “pars”, mentre la chiesa e la nazione sono e vogliono

222
Ibidem. Del resto, solo la «mutata visione di ciò che appare come l’imperativo dell’ora
presente» spiega in maniera esaustiva i frequenti mutamenti di rotta dei partiti, che non sono
dovuti sempre a «considerazioni egoistiche» e quasi mai a «un mutamento della visione del
mondo» (EWVB, p. 225; tr. it. cit., p. 289).
223
Ibidem.
224
Ibidem; tr. it. cit., pp. 288-289.
225
EWVB, p. 226; tr. it. cit., p. 290.
218 INTORNO A WEBER

226
essere una totalità, una forma vivente» . Ma per Cohn anche alla radice
della lotta senza quartiere fra queste «forme viventi» sta il fatto che ognuna
di esse (come il genere umano nella sua interezza) muove necessariamente
«dal suo punto di osservazione» e dunque riconosce «come valori e come
beni (...) soltanto una parte dell’intero mondo dei valori e dei beni»227.
Misconoscere questa circostanza e parlare di un eterno conflitto tra i valori
significa dunque confondere «i confini dell’umanità» con «i confini del
valore» e commettere in tal modo un errore eguale e contrario a quello di
coloro che ritengono di poter giungere a una determinazione filosofica
definitiva del sistema dei valori dimenticando che «ogni sistema che pos-
siamo erigere è solo una visione limitata del sistema che è fondato nelle
cose stesse»228.

226
Ibidem; tr. it. cit., p. 289.
227
Ibidem; tr. it. cit., pp. 289-290.
228
Ibidem; tr. it. cit., p. 290.
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

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220 INTORNO A WEBER

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INDICE DEI NOMI

Achermann, E., 81n. Bolzano, B., 80n.


Allodi, L., 111n. Bonald, L.-G.-A. de, 93.
Amodio, P., 22n. Bonito Oliva, R., 178n.
Antonelli, R., 1n., 2n., 4n., 5n., 7n., 9n. Brentano, F., 78n.
Arrighi, R., 177n. Brentano, L., XIIIn., XXI, 78 e n., 79n., 80n.,
Assmann, M., 22n. 81.
Breuer, S., 50n., 127n., 130n., 172n., 174n.
Bacone, F., 102, 116 e n., 117 e n., 118, 120. Breysig, K., 43 e n.
Baeumler, A., 172n. Broch, H., 21n., 22n., 92n.
Balzac, H. de, 5n. Brunetière, F., 4n.
Baron, H., 22n., 220. Bülow-Wagner, C. von, 77n.
Barrès, M., 5n. Bunsen, R. W., 61n.
Bauch, B., 175, 178n. Burckhardt, J., 2n., 59n., 112, 114n.
Baudelaire, C., 10.
Baxa, J., 81n. Cacciatore, G., XXIII, 107n., 111n., 113n.
Bazzicalupo, L., 50n. Calabrese Conte, R., 171n.
Beck, U., 126 e n. Calderón de la Barca, P., 7 e n.
Beethoven, L. van, 126n. Cantillo, G., XXIn., XXIII, 19n., 23n., 40n.,
Behrend, F., XIIIn. 48n.
Belloc, H., 82n. Carlyle, T., 117n.
Ben, J., 2n. Cassirer, E., 59n., 113n., 177 e n.
Benjamin, W., 2n. Cavalli, A., 183n.
Benn, G., 2n. Claudel, P., 5n., 6 e n.
Benoist-Méchin, J., 7n. Cohn, J., passim.
Bergson, H., 5 e n., 13n., 23n., 39, 40n., Colli, G., XVIIIn.
54n., 71, 180. Conte, D., 22n., 91n., 112n., 127n., 165n.,
Bergsträsser, A., 7n. 171n., 172n.
Berschin, W., 1n., 5n., 9n. Cottone, M., 171n.
Bertram, E., 44, 45n. Couturat, L., 176.
Bevilacqua, G., 81n. Cristo, 32.
Birnbaum, I., XIII e n., XIV e n. Croce, B., XXIn.
Bismarck, O. von, 84n. Curtius, E., 1n.
Bobbio, N., XIIn. Curtius, E. R., passim.
Bock, C. V., 83n. Curtius, G., 1n.
Bodin, J., 118.
Boehlich, W., 2n., 8n. De Carolis, M., 117n.
Boehringer, R., 3n. Delle Donne, R., 2n.
Böhm-Bawerk, E. von, 82n. De Maio, R., 22n.
222 INTORNO A WEBER

Demant, E., 130n. 25, 43, 44 e n., 45 e n., 46 e n., 47, 48 e n.,
De Rosa, R., XIIn. 49 e n., 50n., 51 e n., 53 e n., 54n., 57,
Descartes, R., 118, 119. 61n., 77, 78, 83n., 86, 89 e n., 94n., 162n.,
Di Costanzo, G., 45n. 188, 215.
Dieckmann, H., 8n. Giametta, S., 20n., 49n., 63n.
Dieckmann, J. M., 8n. Giannotta, M. A., IXn.
Diederichs, E., 127, 130n., 138. Gide, A., 5n., 8n.
Dilthey, W., XIX e n., XX e n., 23n., 54n., Gierke, O. von, 59n.
59n., 107 e n., 111 e n., 113 e n., 114n., Giona, 117n.
115n., 121 e n., 122, 123n., 180, 198. Giugliano, A., XIXn., XXIII, 178n., 180n.,
Di Marco, G. A., XXIII, 38n., 55n. 181 e n.
Donadio, F., XIXn. Goerler, R. E., 83n.
Dostoevskij, F. M., 80n. Goethe, J. W. von, 13n., 45n., 47n., 49n., 58,
Dress, W., 121n. 59n., 86, 158, 159, 189.
Du Bos, C., 8n. Grillo, E., XIIIn.
Gröber, G., 4.
Ehrenfels, C. von, 181. Gross, S., 1n.
Einstein, A., 21n., 27n. Guglielmo II di Hohenzollern, 6n.
Eliade, M., 30n. Gumprecht, H. U., 5n., 8n.
Eliot, T. S., 2n., 8 e n., 9n. Gundolf, F., 1n., 2n., 3n., 4n., 6n., 9n., 21n.,
Emmrich, M., 81n. 44, 45 e n., 46 e n., 47 e n., 48n., 49n.,
Engel, C. L. E., 78n. 51n., 53n., 58, 59n., 62, 79, 91n., 189.
Ephraim, H., 79 e n., 124n.
Eraclito, 164. Haeckel, E. H., 60n.
Erasmo da Rotterdam, 121 e n. Hamann, J. G., 81n., 158, 167.
Erdberg, R., 9n. Harada, T., 81n.
Ernst, P., 140n. Hegel, G. W. F., XIn., XX, 81n., 107n., 117
Esch, A., 2n. e n., 142, 157, 158, 159, 163, 202n.
Evans, A. R., 1n. Heidegger, M., XIXn., XXII, 8n., 20 e n., 63
Evola, J., 171n. e n., 64 e n., 65, 66, 67, 68, 69n., 70, 73n.,
178n., 180n.
Fantini, B., 60n. Heinrich, K., 117 e n.
Federico II di Svevia, 2n., 45n. Heitmann, M., 182n.
Federico III di Hohenzollern, 1n. Helbing, L., 83n.
Fekete, É., 79n. Hellingrath, N. von, 45n.
Ferrari, M., 175n., 177n. Helmholtz, H. von, 61n., 86.
Feuerbach, A., 169. Herbart, J. F., 102.
Fichte, J. G., 81n., 158. Herder, J. G., 158, 164.
Fischer, E., 22n. Hertwig, O., 59, 60n.
Fischer, M. S., 2n. Hildebrandt, K., 46n., 47n., 49n.
Flex, W., 24n. Hitler, A., 8n., 21n., 172n.
Forino, B., 45n. Hoeges, D., 1n.
Freschi, M., 24n. Hofmannsthal, H. von, 1n., 7 e n.
Freyer, H., 172n. Hojer, E., 125n., 165n.
Fritzsche, K., 130n. Hölderlin, F., 45n., 49n., 162n.
Hollmann, V. H., 9n.
Gadamer, H. G., 44n., 49n. Hönigswald, R., 175n.
Galasso, G., XXIn. Humboldt, W. von, XVIIn., XIX, 159.
Galli, G., 95n. Hume, D., 32.
George, S., XV, XVI, XVIIn., XX, 2 e n., 3n., Husserl, E., XIV, 16, 23n., 177 e n., 178n.,
4n., 6n., 7 e n., 19 e n., 21 e n., 22n., 23n., 179n., 180.
INDICE DEI NOMI 223

Lange, W. D., 1n., 13n., 18n.


Idalovichi, I., 203n. Larbaud, V., 8n.
Ingenmey, M., 6n. Lask, E., 79, 175, 179n.
Isaia, 10, 187n. Lauer, G., 21n., 22n., 53n., 134n., 138n.,
144n.
Jacobi, F. H., 158. Lausberg, H., 1n., 3 e n., 4n.
Jacquemard-De Gemeaux, C., 2n. Lavoisier, A.-L., 12.
Jaffé, E., 80n. Leibniz, G. W., 81n., 159, 192, 201.
James, W., 180. Leonardo da Vinci, 192.
Jaspers, K., XIn., XIIn., XVII e n., 78n., 79, Lepsius, S., 2n.
186 e n., 187n. Lessing, G. E., 125n., 150, 151, 164, 189.
Jesi, F., 171n. Leviné, E., 81.
Jonas, I. B., 21n. Leyen, F. von der, 45 e n, 51n.
Jonas, K. W., 21n. Lichtblau, K., XXIn.
Joyce, J., 7. Liebig, J. von, 12.
Jünger, E., 28 e n. Lissa, G., 22n.
List, F., 169.
Kahler, E. von, passim. Lotz, W., 78 e n.
Kamp, N., 2n. Lotze, R. H., 102.
Kant, I., XVII, 33, 66, 72, 73, 101, 123, 142, Löwith, K., IX e n., X e n., XI e n., XII e n.,
150, 151, 157 e n., 164, 165, 175n., 177n., XIIIn.
178n., 179n., 186n. Lukács, G., 2n., 79n., 179n.
Kantorowicz, E., 1n., 2n., 21n., 45n., 79. Lutero, M., 86, 148.
Kantorowicz, H., 187n. Lützeler, H., 13n.
Kantorowicz-Salz, S., 79, 81n.
Karádi, É., 79n. Maistre, J. de, 93.
Kern, I., 177n. Mann, H., 5, 143n.
Keuth, H., XIVn., 138n. Mann, T., XVI, XVIIn., 5, 6n., 21n., 22n.,
Kiel, A., 22n., 53n., 60n., 91n., 92n., 93n., 126n., 134n., 144 e n., 149 e n.
95n., 144n. Mannheim, K., 1n.
Klages, L., 73n. Marck, S., 175 e n.
Kleist, H. von, 81n. Maria, 5.
Klema, J., 83n. Marianelli, M., 6n.
Klochenbusch, R., 178n. Marino, L., 81n.
Knies, K., Xn., 105 e n., 181 e n. Marquardt, J., 81n.
Kocka, J., 126n. Marshall, A., 79 e n., 80n., 124n.
Koehler, B., 81n. Marx, K., IX e n., X e n., XI e n., XIIn., 38n.,
Kohls, E.-W., 121n. 84n., 160, 162.
Kondylis, P., 126n. Masini, F., Xn., XVIIIn.
König, R., XIVn. Massimilla, E., 9n., 19n., 22n., 35n., 82n.,
Krieck, E., passim. 127n., 182n., 219, 220.
Kroll, F.-L., 13n. Maus, I., 130n.
Kronberger, M. (Maximin), 3n. Mazzarella, E., 161n.
Künkler-Giavotto, A., IXn. Meinecke, F., XIIIn., XIXn., 44n., 45n., 50 e
Kunz, W., 125n. n., 51.
Meinong, A. von, 181.
Lamennais, R. de, 93. Melantone, F., 89.
Lamprecht, K., 167. Mendelsohn, P. de, 134n.
Landmann, E., 44 e n., 47 e n., 48n., 61n. Menger, C., 82n.
Landmann, M., 53n. Meyer, E., 216n.
Landmann, P., 3n. Meyer-Leviné, R., 81n.
224 INTORNO A WEBER

Michelangelo Buonarroti, 115. Platone, 11, 29n., 38n., 61, 190.


Miglio, C., 127n. Pocar, E., XVIIn.
Mittner, L., 2n. Poincaré, J.-H., 176.
Moeller van den Bruck, A., 127, 162n. Pozzan, A. M., XIIn.
Mohler, A., 127n. Preetorius, E., 134n.
Molo, W. von, 134n. Principe, Q., 28n.
Mommsen, T., 12. Privitera, W., 126n.
Mommsen, W. J., XIIn., 220. Proust, M., 5n.
Montesquieu, C.-L. de Secondat, baron de Pullega, P., 179n.
La Brende e de, 118.
Montinari, M., XVIIIn. Racinaro, R., 12n., 219.
Morgenbrod, B., XIIn., 220. Radbruch, G., 78n., 187n., 216 e n.
Möser, J., 167. Raffaello Sanzio, 192.
Müller, A. H., 81 e n. Raimondi, E., 2n.
Müller, G., 125n., 128n. Ranke, L. von, XIX, 12, 59n., 166, 167.
Münsterberg, H., 181. Raschel, H., 44 e n., 49n.
Musil, R., 22n. Richards, E. J., 2n., 8n., 9n.
Richthofen-Jaffé, E. von, 79n.
Napoleone I Bonaparte, 47n. Rickert, H., XIIn., XIIIn., XVII, XVIII, XIXn.,
Natorp, P., 177. 16, 17 e n., 36n., 48n., 175, 176n., 177n.,
Naumann, H., 8n. 178 e n., 179 e n., 180 e n., 181 e n., 182 e
Neurath, O., 81n. n., 184, 186n., 198.
Niebuhr, B. G., 166. Rilke, R. M., XIXn.
Nietzsche, F., Xn., XVIII e n., XIX e n., Ritter Santini, L., 1n., 2n., 5n., 6n.
XXn., 10, 20n., 23n., 38n., 44n., 45n., 46n., Rolland, R., 5n.
47n., 49 e n., 50n., 54n., 63 e n., 64 e n., Roscher, W., Xn., 105 e n., 181 e n.
65, 66, 67, 68, 69 e n., 71n., 73n., 86, 89 e Rossetti, L., 17n.
n., 102, 160, 161 e n., 162 e n., 163, 178n., Rossi, Paolo, 60n.
180 e n., 182, 198. Rossi, Pietro, XXn., 17n., 94n., 183n.
Noltensmeier, R., 125n. Roth, G., 77 e n.
Nutzinger, H. G., 111n. Rothe, A., 1n., 5n., 9n.
Roux, W., 60n.
Ockham, G. di, 32. Roversi, A., 105n.
Ollig, H. L., 182n. Russell, B., 176.
Omar I (Omar ibn al-Khattab), 168. Rychner, M., 2n., 8n.
Omero, 7.
Ortega y Gasset, J., 2n., 7. Saint-Hubert, A. de, 5n.
Salin, E., 44n., 80n.
Pannwitz, R., 59n. Salz, A., passim.
Papen, F. von, 129n. Sanna, G., 115n.
Parmenide, 117n., 201. Sauter, H., 8n.
Parsons, T., IXn. Savigny, F. C. von, 169.
Pauli, W., 21n. Scheler, Maria, 12n., 13n., 15n., 219, 220.
Péguy, C., 5n. Scheler, Max, IXn., XV, XVII, 12 e n., 13 e
Penzo, G., 130n., 161n. n., 15 e n., 16, 17, 18n., 19, 20 e n., 53,
Piana, G., 179n. 59n., 62n., 80 e n., 133, 180, 187, 219, 220.
Pica Ciamarra, L., XXIII. Schelling, F. W. J., 158.
Picht, W., 9n. Schelting, A. von, IXn.
Pinto, V., XXIII, 23n. Schleiermacher, F., 77.
Piovani, P., 213 e n. Schluchter, W., XIIn., 220.
Pitagora, 49n. Schmitt, C., IXn., XIIn., 6n.
INDICE DEI NOMI 225

Schmoller, G. von, 80n., 183. Uexküll, J. von, 59, 60n.


Schulze-Gävernitz, G. von, XIIIn. Unamuno, M. de, 7.
Schwab, A., XIIIn.
Seidengart, J., 175n. Vacca, V., 30n.
Shahn, B., 21n. Vaihinger, H., 102, 149n.
Shakespeare, W., 45n., 115. Valéry, P., 5n.
Signore, M., 17n. Vallentin, B., 47n.
Simmel, G., 23n., 54n., 77n., 78, 79n., 180, Volonté, P., XIVn., XVn., 220.
187n. Volpi, F., 20n.
Simonis, L., 2n.
Wagner, R., 77n.
Smith, A., 126n., 169.
Wallenstein, A. von, 79n.
Socrate, 15. Weber, A., XIIIn., 21n., 59n., 79n., 80n.,
Sombart, W., 78n., 80n. 90n., 98n., 110, 111 e n.
Spengler, O., XXI, 50 e n., 59n., 91 e n., Weber, F., 50n.
112n., 127 e n., 149, 165 e n., 167, 170, Weber, Marianne, XIIn., 9n., 45 e n., 46n.,
171 e n., 172n. 77 e n., 79 e n., 81n., 91n.
Spinoza, B., 192, 200, 201, 204. Weber, Max, passim.
Spitzer, L., 13n. Wehler, H. U., 126n.
Spranger, E., 138n. Weinrich, H., 9n.
Steiner, H., 22n. Weismann, A., 60n.
Suarès, A., 5n., 6n. Weiss, E., 125n.
Wilson, Th. W., 143 e n.
Taine, H., 117n., 124n. Winckelmann, J., XIVn.
Tedeschi Negri, F., XIXn. Windelband, Wilhelm, 9n., 16, 175, 177n.,
Tessitore, F., Xn., XVIIn., XIXn., XXII, 19n., 178 e n., 179n., 180.
40n., 182n., 220. Windelband, Wolfgang, 178n.
Thode, D., 77n. Wojtun, H., 125n.
Thode, H., 77n. Wolf, F. A., 159.
Thomale, E., 125n. Wolff, E. L., 22n.
Wölfflin, H., XIIIn.
Toller, E., 81n.
Wolfgang, F., 78n.
Tolstoj, L. N., 10. Wolters, F., 3n., 45n., 48n.
Tompert, H., 77n. Wundt, W., 175.
Troeltsch, E., XIXn., XX, XXIn., 15n., 19n.,
22 e n., 23n., 40n., 45n., 48n., 49n., 50n., Yorck von Wartenburg, P., XIXn.
51 e n., 53n., 57 e n., 59n., 61n., 62n.,
77n., 78, 80, 83, 86 e n., 89, 91, 95, 96, Zehrer, H., 130n.
107n., 178 e n., 220. Zimmermann, H. J., 44n., 45n.
La Cultura Storica
Collana di testi e studi diretta da Giuseppe Cacciatore e Fulvio Tessitore

1. G. Giarrizzo, La scienza della storia. Interpreti e problemi (a cura di F. Tessitore)


2. F. Lomonaco, Tolleranza e libertà di coscienza. Filosofia, diritto e storia tra Leida e Napoli
nel secolo XVIII
3. E. Schulin, L’idea di Oriente in Hegel e Ranke (a cura di M. Martirano, con una nota
di F. Tessitore)
4. C. Hinrichs, Ranke e la teologia della storia dell’età di Goethe (a cura di R. Diana, con
una nota di F. Tessitore)
5. A. Salz, Per la scienza contro i suoi colti detrattori (a cura di E. Massimilla)
6. E. Krieck, La rivoluzione della scienza e altri saggi (a cura di E. Massimilla)
7. G. D’Alessandro, L’Illuminismo dimenticato. Johann Gottfried Eichhorn (1752-1827) e il suo
tempo
8. A. Giugliano, Nietzsche Rickert Heidegger (ed altre allegorie filosofiche)
9. G. Acocella, Le tavole della legge. Educazione, società, Stato nell’etica civile di Aristide
Gabelli
10. T. Tagliaferri, La nuova storiografia britannica e lo sviluppo del welfarismo. Ricerche su R.
H. Tawney
11. P. Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna (a cura di F. Tessitore, con due note di N.
Bobbio e G. Calogero)
12. S. Moscati, Civiltà del mare. I fondamenti della storia mediterranea (con una nota di F.
Tessitore)
13. E. Massimilla, Intorno a Weber. Scienza, vita e valori nella polemica su «Wissenschaft als
Beruf»
14. D. Conte, Storicismo e storia universale. Linee di un’interpretazione
15. L. Pica Ciamarra, Goethe e la storia. Studio sulla «Geschichte der Farbenlehre»
16. A. de’ Giorgi Bertòla, Della filosofia della storia (a cura di F. Lomonaco)
17. A. Carrano, Un eccellente dilettante. Saggio su Wilhelm von Humboldt (con una nota di F.
Tessitore)
18. G. Ciriello, La fondazione gnoseologica e critica dell’etica nel primo Dilthey (con una nota
di G. Cacciatore)
19. H. Rickert, I limiti dell’elaborazione concettuale scientifico-naturale. Un’introduzione logica
alle scienze dello spirito (a cura di M. Catarzi)
20. M. Cambi, La machina del discorso. Lullismo e retorica negli scritti latini di Giordano Bruno
(con una nota di M. Ciliberto)
21. G.A. Di Marco, Studi su Max Weber (con una nota di F. Tessitore)
22. C. Tramontana, La religione del confine. Benedetto Croce e Giovanni Gentile lettori di Dante
(con una nota di N. Mineo)
23. M. Moretti, Pasquale Villari storico e politico (con una nota di F. Tessitore)
24. R. Celada Ballanti, Erudizione e teodicea. Saggio sulla concezione della storia di G.W. Leibniz
(con una nota di F. Tessitore)
25. G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati (nuova edizione a cura di M. G. Amadasi Guzzo
e F. Tessitore)
26. S. Caianiello, Scienza e tempo. Alle origini dello storicismo tedesco (con una nota di F.
Tessitore)
27. F. Meinecke, Aforismi e schizzi sulla storia (nuova edizione a cura di G. Di Costanzo,
con una nota di F. Tessitore)
28. F. Schlegel, Filosofia della filologia (a cura di R. Diana)
29. G. Getto, Storia delle storie letterarie (nuova edizione a cura di C. Allasia)
30. P. Piovani, Indagini di storia della filosofia. Incontri e confronti (a cura di G. Giannini, con
una nota di F. Tessitore)
31. M. Kaufmann, Anarchia illuminata. Una introduzione alla filosofia politica (a cura di S.
Achella e C. de Luzenberger, con una nota di G. Cacciatore)
32. G. Morrone, Incontro di civiltà. L’Islamwissenschaft di Carl Heinrich Becker (con una nota
di E. Massimilla)
33. F. Gabrieli, Tra Oriente e Occidente (a cura di F. Tessitore, con una nota di R. Traini)
34. W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. I (a cura di F. D’Alberto, con una nota di F.
Tessitore)
35. E. Nuzzo, Storia ed eredità della coscienza storica moderna. Tra origini dello storicismo e
riflessione sulla conoscenza storica nel secondo Novecento
36. G. Magnano San Lio, Biografia, politica e Kulturgeschichte in Rudolf Haym (con una
nota di F. Tessitore)
37. S. Di Bella, La storia della filosofia nell’Aetas Kantiana. Teorie e discussioni
38. W. Dilthey, La vita di Schleiermacher, vol. II (a cura di F. D’Alberto)
39. E. Massimilla, Tre studi su Weber fra Rickert e von Kries
40. F. Tessitore, I fondamenti della filosofia politica di Humboldt (seconda edizione, con una
lettera di N. Bobbio e una introduzione di C. Cesa)
41. M. Martirano, Filosofia, rivoluzione, storia: saggi su Giuseppe Ferrari
42. R. Gimigliano, Come le idee agiscono nella storia. Il problema dell’“autonomia” delle idee nella
sociologia della religione di Max Weber (con una nota di G.A. Di Marco)
L A C U L T U R A S T O R I C A

N egli anni cruciali del primo dopoguerra la


pubblicazione della conferenza di Max Weber
sulla Scienza come professione suscitò in
Germania un acceso dibattito. Posti di fronte a
un testo che, come sostiene Löwith, esprime
con particolare chiarezza la posizione filosofi-
ca di Weber, i contemporanei reagirono con
forza e non di rado con asprezza. Alle critiche
molto nette provenienti tanto dal campo della
“fenomenologia dei valori” (è il caso di Sche-
ler, ma anche di Ernst Robert Curtius) quanto
da quello della “filosofia della vita” (si pensi al
George-Kreis e a Erich von Kahler, ma anche
al pedagogista Ernst Krieck), fanno riscontro i
prudenti distinguo del rickertiano Jonas Cohn
e quelli, di natura diversa, di Ernst Troeltsch,
mentre l’economista Arthur Salz difende le
argomentazioni di Weber ponendole in
connessione con la tormentata riflessione
storicistica dell’ultimo Dilthey. La presente
ricerca ricostruisce storicamente i termini
della polemica, individuandone il fulcro teorico
nel diverso modo di concepire il rapporto fra la
scienza, la vita e i valori.

E doardo Massimilla è professore associato


di Storia della filosofia presso l’Università
degli Studi di Napoli “Federico II”. Le sue ri-
cerche si sono concentrate sulla cultura filo-
sofica e scientifica italo-tedesca fra Otto e No-
vecento, con saggi e monografie su Husserl,
Münsterberg, Weber, Labriola e De Sarlo. Ha
curato l’edizione e la traduzione italiana di
scritti di Kahler, Salz, Curtius, Krieck, Cohn.
In copertina: Il centauro Chirone istruisce Achille, Museo
Archeologico Nazionale di Napoli.

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