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Si racconta che verso la fine della sua vita il Buddha, mentre si trovava sul monte

Gridhrakuta, portò i suoi discepoli presso uno stagno tranquillo per dargli
istruzioni. I seguaci del Buddha si sedettero in un piccolo cerchio intorno a lui,
e attesero l'insegnamento.
Ma questa volta il Buddha non aveva parole per loro. Mise le mani nella fanghiglia
e tirò su un fiore di loto. E mentre lui lo tenne in silenzio di fronte a loro
contemplandolo, le sue radici erano grondanti di acqua e fango. I discepoli erano
molto confusi. Buddha non parlava mentre mostrava tranquillamente il loto a
ciascuno di essi. A turno, i discepoli facevano del loro meglio per capire il
significato del fiore: cosa simboleggiava, e come questo si inseriva nel corpo di
insegnamenti del Buddha.
Quando alla fine il Buddha arrivò a mostrare il fiore al suo seguace Mahakasyapa,
il discepolo improvvisamente capì.
Lui sorrise e cominciò a ridere. Buddha diede il loto al Mahakasyapa e cominciò a
parlare.

Il Buddha disse allora: "le parole non possono raggiungerlo, le parole non possono
insegnarlo e questa è la verità che ho appena insegnato a Mahakashyapa".

In questo racconto, meglio noto come il Sermone del fiore, non soltanto la parola
non è in grado di cogliere la natura più intima dell'insegnamento del Buddha, ma è
solo attraverso il distanziamento dalla comunicazione esplicativa che Mahakashyapa
riesce a raggiungere il cuore di quell'insegnamento.

Un discorso affascinante per noi occidentali, ingabbiati insieme a secoli di


filosofia in strutture di pensiero che legano al linguaggio scritto ogni sapere
tramandato. Questo racconto e tanta filosofia orientale possono invece aprire
un'orizzonte su manifestazioni del sapere che trascendono la parola, scritta e
parlata.
Un invito alla riflessione, all'ascolto e all'osservazione della realtà per trarne
saperi impliciti ed eterni.

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