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«Non era mai successo che gli annunci di guerra fossero seguiti da un consolidamento della pace.

Che dopo le speranze di pace scoppiassero d’improvviso le ostilità era, al contrario, fatto pressoché normale
nella grande penisola», da Tre canti funebri per il Kosovo, di Ismail Kadaré, Longanesi, 1999

Morte di una nazione


Dall’estate del 1991 sino alla fine della guerra del Kosovo (1999) e alla caduta del presidente
serbo Slobodan Milošević, Massimo Nava ha seguito per il Corriere della Sera
il conflitto nei Balcani. Nei suoi appunti, l’intreccio di colpe moderne e odi antichi

di Massimo Nava - L’Europeo n. 5, 2011 - foto Livio Senigalliesi

1991 Krajina, oggi Croazia: fango su un libro dedicato al leader storico dell’ex Jugoslavia Josip Tito.

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«Il dito tremante di una donna / scorre la lista dei caduti / nella sera della prima neve.
La casa è fredda e la lista è lunga. / I nostri nomi, tutti, sono inclusi»,
da Guerra, in Hotel Insonnia, di Charles Simic, Adelphi, 2002

N
on è vero che le battaglie siano state combattute fra cattivi e malvagi. C’è una ge-
rarchia di responsabilità. Di classi dirigenti (burocrati, militari, politicanti ed ex
comunisti convertiti al nazionalismo) e di una comunità internazionale che per
troppo tempo è rimasta a guardare i massacri. È la storia di una terra infelice.
Nel 1902, il diplomatico Albert Malet descriveva la situazione in Kosovo: «La caccia
ai cristiani serbi è quotidiana. È impressionante la lista di attentati, conversioni forzate, stupri e
omicidi commessi dagli albanesi musulmani». Nel 1990, lo scrittore Robert Kaplan ascolta l’alba-
nese Ismail: «Sai perché non bevo grappa di prugna? Perché i serbi ammazzano dopo aver bevuto
grappa di prugna. Sai che cosa vuol dire lanciare un bambino in aria e prenderlo al volo con un col-
tello, di fronte a sua madre? Dopo, loro vanno in chiesa, nelle loro stramaledette chiese...».
Dopo l’ultima guerra (1999) Veton Surroi, uno degli intellettua- zione d’identità politica dei musulmani di Bosnia. Il proclama de-
li kosovari che si era battuto per il suo popolo, ha scritto: «Quello gli accademici di Belgrado (1986) fu la risposta della cultura slava e
che stanno subendo oggi i serbi del Kosovo disonora la memoria ortodossa che si sentiva minacciata, anche sul piano demografico.
dei nostri morti». La storia, nei Balcani, non sembra seguire un Il concetto di pulizia etnica non è che la versione disumana di que-
ordine cronologico, ma un movimento circolare che confonde sta preoccupazione. Il massacro di Srebrenica (luglio 1995) e l’as-
passato e presente, mischiandosi alla politica, che è costruita sulla sedio di Sarajevo rappresentarono la follia dei serbi di Bosnia che
memoria dei torti subiti. proiettavano sui musulmani la loro sindrome d’accerchiamento e
Le strategie di Europa e Stati Uniti dovevano segnare una nuo- difesa di civiltà. L’ondata di volontari islamici venuti a combattere 1991 Petrinja, oggi Croazia Un combattente delle Zebre, organizzazione paramilitare
croata, avanza sotto il tiro dei mortai serbi. Nel 1995 la Croazia rioccupò la città di Petrinja e
va era, quella dei diritti dei popoli, prevalenti sui confini degli a fianco dei bosniaci è documentata. E alcuni di questi combatten-
i territori a maggioranza serba che si erano autoproclamati Repubblica serba di Krajina (1991-1995).
Stati e sul dispotismo dei dittatori. Riconoscendo l’indipendenza ti sono rimasti in Europa, non certo come ambasciatori di pace.
di Croazia e Bosnia, intervenendo militarmente per l’unità della
Bosnia e bombardando la Serbia per salvare la popolazione del la trappola dell’eterno ritorno
Kosovo, si sono affermate nuove regole, una delle quali – il di- Come racconta il grande scrittore jugoslavo Ivo Andrić (1892- conoscimento di singole Repubbliche, come in una causa di divor- mamme compravano cappellini con l’etichetta “Croatian Army”,
ritto/dovere di bombardare e processare un dittatore – è tornata 1975): «Non c’è altra realtà che il dolore, non c’è altra realtà che zio. Il problema irrisolvibile furono le minoranze delle minoranze zainetti con colori mimetici, mitra e bombe a mano di plastica, tu-
d’attualità a Bagdad e oggi nel Maghreb. La nobiltà morale non ha la sofferenza. Dolore e sofferenza sono in ogni goccia d’acqua, in che vivevano da una parte e dall’altra e che finirono all’inferno. tine da combattimento. E i bambini salutavano con le dita in segno
però tenuto conto di prezzi e tempi che si dovevano pagare. La ogni filo d’erba, in ogni grano di cristallo, in ogni suono di voce Zara, Spalato, Sebenico, Fiume, Pola, Dubrovnik. Sotto il sole di vittoria. A Zara erano arrivati gruppi di provocatori con opposti
ex Jugoslavia è rimasta in balia di strategie contraddittorie e in- viva, nel sonno e nella veglia, nella vita, prima della vita e forse d’autunno, Caino e Abele s’incontravano al caffè. Ragazze passeg- intenti. Minacciavano croati ribelli e serbi che non avevano inten-
tercambiabili. I musulmani sono stati lasciati alla mercé dei serbi anche dopo la vita…». Diceva lo scrittore croato Miroslav Krleža giavano fra le barricate, morti dell’una e dell’altra parte si seppel- zione di combattere per Belgrado. «Viviamo qui da sempre, siamo
a Sarajevo e armati contro i serbi in Kosovo. Slobodan Milošević è (1893-1981): «La differenza fra serbi e croati? Nessuna. Siamo la livano ancora negli stessi cimiteri. I soldati federali, chiusi come contrari all’invasione della Croazia, ma abbiamo paura di dire il
stato prima la soluzione per la stabilità (con gli accordi di Dayton) stessa merda di vacca spaccata in due dal carro della storia». ostaggi nelle caserme di stanza sul territorio croato, salutavano nostro cognome», dicevano. Qualcuno aveva deciso di prepararsi
e poi il problema da eliminare. L’unità e l’integrità dello Stato, vali- Il prima e il dopo, nei Balcani, non hanno successione logica. Il dalle finestre i concittadini che li avevano tenuti sotto tiro fino a sparare al collega d’ufficio, al vicino di casa, al commilitone che
de per la Bosnia, non sono state riconosciute alla Serbia, costretta passato riaffiora per giustificare una vendetta o attenuare una col- alla sera prima. Sembrava assurdo che il sangue potesse scorrere fino al giorno prima indossava la stessa divisa.
all’amputazione del Kosovo. Migliaia di soldati dell’Onu, miliardi pa. Tutto sembra previsto e conseguente, si confonde, nel tempo in paradiso, tra fiordi rocciosi e mare azzurro lambito da pinete. L’arcivescovo di Zara tuonava dal pulpito: «Combattere per di-
di dollari e ricette militari hanno sopito senza spegnerlo l’odio et- e nello spazio, come in un girone infernale in cui si torna al pun- Bruciavano case, campagne, chiese. I volontari croati giuravano fendere la Patria è un principio morale, è un diritto di ogni uomo
nico e religioso in cui è cresciuta una generazione. La distruzione, to di partenza. Sono bastate poche scaramucce di frontiera a far di essere pronti a morire. Ray-Ban e jeans, i ragazzi di Zara monta- difendere la propria casa. Il popolo croato chiede soltanto il rispet-
a opera dei cattolici croati, del ponte di Mostar (9 novembre 1993), crollare una nazione, una federazione di repubbliche, un sistema vano la guardia agli angoli delle vie. Al mercato, in una sbornia na- to della propria indipendenza». Dall’altra parte, un nazionalista
ideale collegamento fra cristiani e musulmani nella città divisa, politico, una società civile che si erano imposti all’attenzione del zionalista che tempestava radio e tv, trionfava il gadget croato: de- serbo, Vojslav Šešelj, replicava: «Ci sono milizie paramilitari in
segnò simbolicamente la nuova frattura. La dichiarazione islami- mondo come un modello originale, in bilico fra diritti occidentali calcomanie, distintivi, musicassette, ritratti del presidente Franjo Croazia. Le milizie croate sono state create prima di quelle serbe. I
ca del presidente bosniaco Alija Izetbegović fu la prima rivendica- e dominio del partito-Stato. Il problema meno complicato fu il ri- Tuđman, portadocumenti con la scritta “Repubblica croata”. Le croati, durante la Seconda guerra mondiale, hanno assassinato un

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1991 Vukovar, oggi Croazia Il 18 novembre 1991, dopo tre mesi di assedio, la città 1992 Zagabria, Croazia Un muro costruito nel centro della città dai parenti e dagli amici
bombardata fu occupata dalla Serbia. L’Armata popolare jugoslava e le Tigri di Arkan compirono vari delle vittime di Vukovar. L’8 novembre 2010 il presidente serbo Boris Tadić ha reso omaggio ai
crimini. Tra il 20 e il 21 novembre prelevarono civili dall’ospedale di Vukovar e li uccisero a Ovčara. trucidati a Ovčara (5 km da Vukovar). Di oltre mille scomparsi la Croazia non ha ancora notizie.

milione di serbi. Ora ricominciano. Se vogliono lasciare la Federa- ci sono ancora combattimenti in Bosnia. La Bosnia è stata ammes- gazze passeggiavano tenendosi per mano, con il decoro semplice si». La storia dei massacri era cominciata al terzo piano di un pa-
zione, Croazia e Slovenia facciano pure. Ma senza territori serbi. sa direttamente alle finali». Per raccontare la vita a Sarajevo sotto e orgoglioso di chi riusciva a lavarsi senz’acqua e truccarsi senza lazzo con la facciata scolorita dagli anni, al numero 2 di Sutjeska
Dico ai croati: salite sul campanile di Zagabria e tutto quello che l’assedio occorreva percorrere la bella vallata della Neretva e poi niente. I bambini giocavano nei cortili. Ignari e smunti, sembrava- Ulica. Qui Radovan Karadžić, psichiatra, viveva con la famiglia,
vedete da lassù è la Croazia, niente di più e niente di meno». avventurarsi sulla pista tortuosa del monte Igman. no allegri. Gli orfani erano più di 5mila. Si zappava negli “orti da la moglie Ljiljana, anch’essa psichiatra, i figli Sasha e Sonja, e qui
I caterpillar delle Nazioni Unite avevano sbancato tratti di stra- guerra”, fazzoletti di verde urbani, per un po’ di vitamine, perché riceveva gli amici della Sarajevo multietnica, i colleghi dell’ospe-
sarajevo: vita da assedio da per far posto a tank e cannoni della forza di reazione rapida, la pelle avvizziva, i capelli cominciavano a cadere. dale, la cerchia di intellettuali e scrittori dai quali voleva essere
A Belgrado si eleggeva ancora Miss Jugoslavia, una biondissi- puntati sulle artiglierie serbe. Sui tornanti si scorgevano carcasse Al mercato di Markale, il luogo della più terribile strage, la gen- considerato uno dei maggiori poeti serbi viventi. C’erano serbi,
ma croata: «Non mi occupo di politica, voglio vivere in pace». «I di pullman, auto e furgoni. Un cimitero di lamiere, alla memoria te passava vicino ai segni delle granate e lasciava fiori e dediche. musulmani, croati e montenegrini come lui, arrivato a studiare a
serbi», diceva il presidente sloveno Milan Kučan, «non vogliono di quanti non ce l’avevano fatta. Gli spalloni, che portavano siga- Qualcuno sorrideva: «Siamo braccati, se arriva uno straniero, ci Sarajevo dal villaggio di Petnjica, Montenegro. Molti ex pazienti
vivere in un altro Stato come minoranza. E invece di ottenere per rette e alimentari in città, ci accompagnavano per l’ultimo tratto sentiamo meno soli». Un passaporto, un permesso d’uscita, vale- erano morti o fuggiti, come molti colleghi dell’ospedale. Ismet
la loro minoranza la massima tutela giuridica possibile, cercano di a piedi. «È il sistema più sicuro», dicevano. E per loro più conve- va più dell’acqua. Qualcuno voleva disertare dalla resistenza che Ceric, primario musulmano, lo considerava il successore. Si fre-
conquistare territori in cui vivono le loro minoranze». I croati con- niente: cento marchi a borsa. Alla fine della pista, le prime anime commuoveva il mondo. Giovani, professionisti, borghesi l’avreb- quentavano, con mogli e figli. «Per me non esiste più», disse. Fu
tinuavano ad armarsi. Le armi arrivavano in gran quantità, da Eu- vive erano bambini a piedi scalzi che avevano imparato a chiede- bero fatto e non sarebbero più tornati. Sarajevo era sempre più Ceric ad aiutare Karadžić a diventare lo psichiatra della squadra di
ropa, Australia, America, grazie ai contributi della diaspora. E, con re aiuto in diverse lingue. La gente si chiedeva quando avrebbe ghetto, di malati, poveri, vecchi. Dio e la Provvidenza erano fac- calcio di Sarajevo e a raccomandarlo alla Stella Rossa di Belgrado,
le armi, i volontari: immigrati da tutto il mondo, lavoratori dalla potuto fare una doccia calda, avere la luce e non custodire come cenda di centimetri: dipendeva dalla mira del cecchino e da dove da dove lo cacciarono come un ciarlatano. Karadžić aveva fatto
Germania, duri e puri dall’Erzegovina bosniaca, che Zagabria spe- una reliquia il burro rancido. O quando riconquistare la normalità cadeva la granata. Diceva un ragazza: «Qui tutti si sposano. Si può una brillante carriera che gli fruttò – sotto il regime di Tito – un
rava di annettersi. A Sarajevo, girava una macabra battuta: «Non d’uscire di casa, andare al mercato, sedersi al caffè. Ragazzi e ra- perdere la vita molto presto e allora la gente continua a sposar- appartamento, il permesso di esercitare la libera professione e un

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1992 Manjača, Bosnia Prigionieri bosniaci in un campo di concentramento. L’ex leader 1995 Sremska Rača, confine tra Bosnia e Serbia Serbi in fuga dopo la conquista
serbo Radovan Karadžić, sotto processo al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia della Repubblica serba di Krajina da parte della Croazia. I profughi serbi (200-300mila), cacciati
dell’Aja, ha definito la guerra in Bosnia un atto di legittima difesa contro il pericolo islamico. dalla Croazia con l’operazione militare Tempesta, oggi rivendicano le loro case abbandonate.

anno di specializzazione alla Columbia University di New York. suoceri compresi, si installò nel palazzo di Sutjeska Ulica. Ljiljana, musulmano. Karadžić era riuscito a tradire anche gli amici che lo maiali. C’era un poliziotto che prendeva il maiale per le orecchie,
La validità dell’opera poetica, poesie e favole per bambini, venne la moglie, fu influente nella Repubblica dei serbi di Bosnia. avevano seguito sulle alture di Pale. Uno di questi, Nikola Koljević, lo scaraventava al suolo e lo sgozzava. Questo è quello che face-
apprezzata da Dobrica Ćosić, padre spirituale del nazionalismo Il passato conta. Molti suoi parenti erano stati uccisi dagli usta- professore di letteratura e studioso di William Shakespeare, deci- vamo tutti...». I fatti risalivano all’inizio dell’assedio di Sarajevo
serbo ed ex presidente della Jugoslavia. Karadžić ordinò di bom- scia croati durante la Seconda guerra mondiale. Il colore del san- se di suicidarsi nel giorno dell’anniversario della morte del figlio. (5 aprile 1992), nel villaggio musulmano di Ahatovici, e in quello
bardare la clinica dove aveva lavorato. Marko Vešović, amico d’in- gue è un terribile equivoco. La tragedia che ha diviso famiglie e Si suicidarono entrambi i genitori di Milošević e poco dopo anche che verrà ricordato come il “mattatoio Sonia”, una specie di motel
fanzia, ricordava il suo successo con le donne. «Lo chiamavamo amici fu voluta da individui che avevano preteso di cancellare il uno zio. Si suicidò la figlia del generale Mladić dopo la vergogna accanto a un campo di prigionieri a Vogošća.
“scopatore interetnico”, aveva amiche croate, serbe, musulmane. miscuglio di radici avvenuto nella Jugoslavia di Tito: un folle ritor- di Srebrenica o forse perché il padre osteggiava il fidanzamento
Una sua amante, musulmana, viveva a Sarajevo e la sua casa non no alle origini, spesso segnato dai massacri della Seconda guerra con un musulmano. Lo scrittore Predrag Matvejević sosteneva gli stupri al motel sonia
venne mai colpita. […] Karadžić, un mollaccione scadente come mondiale e della lotta partigiana. Karadžić e Milošević proveniva- che anche il padre di Franjo Tuđman si era suicidato dopo aver Nel “motel Sonia” le donne musulmane venivano rinchiuse
poeta e poco professionale come medico, aveva due obiettivi (far no dal Montenegro. Karadžić sostenne la superiorità della razza ammazzato la moglie, anche se il presidente croato – ex generale e selezionate. Le più giovani dovevano soddisfare i bisogni ses-
soldi e riuscire in un campo qualsiasi) e una sola persona capace montenegrina, per la “lunghezza della tibia”. Arkan, comandante comunista convertito al nazionalismo – disse che suo padre era suali dei soldati serbi. Poi venivano trucidate. Pochissime si sono
di influenzarlo, sua moglie». La donna, piuttosto brutta, “faccia dei paramilitari serbi, veniva da una famiglia montenegrina resi- stato ucciso dai comunisti. A Sarajevo incontrai in carcere il solda- salvate, qualcuna è impazzita, qualcuna aveva partorito il figlio
da funerale”, era descritta da Karadžić come una “straordinaria dente in Kosovo ed era nato in Slovenia. Il generale Ratko Mladić to serbo Borislav Herak, condannato per crimini di guerra: stupri, di questo immenso deposito di orrore. Il direttore del carcere de-
bellezza creola”. L’aveva messa incinta e il padre della ragazza lo era un serbo dell’Erzegovina croata e suo padre venne ucciso da- rapine e l’uccisione di almeno una trentina di giovani donne mu- scriveva il condannato: «Personalità mostruosa, psicopatico che
inseguiva per Sarajevo con la pistola per costringerlo a sposarla. gli ustascia. Il leader della destra serba radicale, Vojislav Šešelj, sulmane da lui violentate. Aveva ammesso tutto con orrendi det- ha confuso i suoi traumi infantili con la propaganda e l’odio etnico
Fu Abdulah Sidran, scrittore musulmano, a intercedere presso la nacque a Sarajevo, ma aveva origini slovene. Biljana Plavšić, l’ex tagli sull’esecuzione delle vittime, torture, stupri e sgozzamenti: sparso dai capi serbi». Ai giudici raccontava che i serbi l’avevano
famiglia con una pubblica lettera. Fu così che la famiglia Karadžić, dama di ferro dei serbi di Bosnia, si era sposata a Sarajevo con un «Un lavoro non facile. Faticoso. I nostri capi ci addestravano con i indottrinato mostrandogli filmati dello zoo di Sarajevo, dove don-

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1994 Sarajevo, Bosnia Coperte stese durante l’assedio di Sarajevo (5 aprile 1992-29 febbraio 1999 Skenderaj, kosovo Combattenti dell’Uçk (Movimento di liberazione del Kosovo)
1996) all’incrocio di Skenderija, per proteggere i passanti dai cecchini. Il 5 febbraio 1994 i serbi entrano nella regione di Drenica dopo la risoluzione Onu 1244 del 10 giugno 1999 che ha posto fine
lanciarono una granata di mortaio sul mercato di Markale nel cuore della città: 68 morti e 197 feriti. alla guerra del Kosovo. L’Uçk (20mila soldati) non intendeva deporre le armi, ma fu smilitarizzato.

ne e bambini serbi venivano dati in pasto ai leoni. «In verità», ri- vergognarmi. Posso guardare negli occhi chiunque. Abbiamo urlavano: «Morte ai serbi». Era il luglio del 1990. Dovevamo prepa- questo legame che abbiamo con il mondo e che rappresenta per
cordava il direttore, con una punta di amara ironia poco adatta alle combattuto a testa alta. Escludo stupri e saccheggi». E Srebreni- rarci al peggio. I serbi avevano paura. Siamo corsi a difenderli». La noi l’unica salvezza contro un regime necrofilo. Mi hanno detto gli
circostanze, «c’era un solo vecchio leone a Sarajevo. Ma è morto di ca? «Nessuno dei miei era a Srebrenica. Forse troveranno due o cantante Svetlana “Ceca” Ražnatović gli aveva dato l’ottavo figlio amici che hanno perso tutto in Bosnia che uno dei motivi per cui
fame durante l’assedio...». tre musulmani che mi accusano. Ho visto soldati serbi con la testa (solo due, Veljko e Anastasia, sono della cantante, ndr). sono stati così male era di non aver potuto conservare nemmeno
A Belgrado, incontrai uno degli ideatori di questi trattamenti, tagliata!». Dunque, soltanto un soldato che esaltava le gesta del Poi anche la gente serba si prese una razione di bombe, nella pri- una fotografia. Dicono che ci si sente come se non si esistesse. Si
il comandante Arkan, citato persino dall’Enciclopedia Britannica nonno, «un eroico combattente della guerra contro i turchi» e del mavera del 1999. A Belgrado, bambini e neonati venivano portati tratta ormai della quarta generazione della mia famiglia che ha
come il più famoso capo paramilitare serbo, il terrore dei musul- padre, ufficiale dell’aeronautica jugoslava. Nel suo ufficio, in un nei sottoscala delle cliniche e nei rifugi antiaerei. Quando la Nato fatto esperienza di guerra. Penso ai libri di Albert Camus, Rainer
mani e dei croati. Željko Ražnatović, detto Arkan, comandava le nuovo palazzotto tutto specchi e marmi, un neoclassico kitsch da decise di far fuori le centrali elettriche, a Belgrado si cominciò a na- Maria Rilke, Gabriel García Márquez, Marguerite Yourcenar, Franz
famigerate Tigri, migliaia di volontari che combatterono a Vuko- Disneyland, Arkan riceveva in panciotto e cravatta. Aveva messo scere al buio. Gli errori dei bombardieri suscitavano rabbia e indi- Kafka, Lev Tolstoj. Sono solo cronisti dei nostri orrori. La sai l’ulti-
var, in Croazia, e in Bosnia, lasciandosi alle spalle una lunga scia la divisa nel cassetto e indossato quella dell’uomo d’affari e del gnazione, i missili potevano piovere ovunque: un giorno un treno, ma? Un serbo prende in giro un americano. Voi non avete la storia.
di orrori. Arrivavano nei villaggi, separavano i gruppi etnici e politico. A giudicare dalla sede, dai gorilla, dalle segretarie e dalle un giorno un convoglio di profughi, un giorno un’ambasciata e un E l’americano risponde: e voi non avrete più la geografia». Mentre
facevano “pulizia”. Le Tigri – appoggiate da Belgrado – avevano jeep giapponesi, gli affari andavano bene: «Import-export. Un po’ albergo, un giorno persino l’ospedale. Ma i conti in Serbia si sareb- i bombardieri della Nato martellavano Belgrado, in Kosovo decine
diritto di saccheggio e un rimborso spese di un milione di mar- di tutto, petrolio, giocattoli, pelli, mobili». Niente male, per uno bero fatti alla fine della guerra. Sulle macerie del Paese. Un’amica di migliaia di uomini, donne e bambini prendevano la via della
chi a villaggio: «Storie», diceva Arkan. «Abbiamo ricevuto l’aiuto che aveva cominciato come barista e che, prima della guerra, era serba, Biljana, mi scriveva: «Il nostro sbaglio è di non esserci tirati Macedonia. Per sfuggire ai bombardamenti e alle milizie serbe.
degli emigrati. Milioni di dollari dall’America e dall’Australia per noto per essere il capo degli ultrà della Stella Rossa, la squadra di fuori in tempo, in qualsiasi modo possibile da questa tana di lupi. Al confine, la vallata di prati e alberi sotto il cielo azzurro aveva
i nostri soldati». Arkan, ucciso a Belgrado nel 2000, si è portato calcio di Belgrado. «Seguendo la squadra ho capito che sarebbe Adesso non ci rimane che infilare la testa nella sabbia. Forse su cambiato colore. Aveva l’aspetto di un’immensa fogna in cui an-
nella tomba segreti e complicità. Asseriva: «Non ho nulla di cui scoppiata la guerra. Ero nello stadio di Zagabria e migliaia di croati questo conta la difesa del Paese. Spero che continui a funzionare negavano esseri umani. L’erba è ricresciuta, concimata di sangue,

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«Coltiva il dubbio riguardo alle ideologie e ai princìpi dominanti.
Tieniti a distanza dai princìpi. Fai attenzione a non inquinare la tua lingua con quella delle ideologie»,
da Consigli a un giovane scrittore, in Homo poeticus, di Danilo Kiš, Adelphi, 2009

escrementi e lacrime. Sopravvissuti e testimoni ne ricorderanno libera, la rivoluzione si compiva in uno sventolio di bandiere, al
la nausea, l’immondo scenario di agonia e le responsabilità di un ritmo assordante di fischietti, tamburi e slogan. In modo incruen-
doppio martirio: quello perpetrato al di là della frontiera, nei cam- to, a conferma della decomposizione fisica del regime, come se la
pi di battaglia del Kosovo, che inghiottivano e vomitavano le vit- terra serba, da secoli già troppo intrisa di sangue, non avesse più
time della polizia serba, e quello che si consumava sulla linea del posto per nuove vittime e lutti.
fronte, dove il popolo kosovaro veniva stritolato dai preparativi Le nuvole di fumo nero che si levavano dalle finestre e dalle
della Nato per l’invasione. Una vallata al confine era tutto quello cupole neoclassiche del Parlamento mandavano in cenere, con
che restava del Kosovo. E della vergogna – scrivevo allora – perché sedie, scrivanie, montagne di carta e leggi, il regno di un uomo,
almeno la vergogna, forse soltanto la vergogna, resterà nel fango sopravvissuto alle guerre etniche, ai bombardamenti, alla rabbia
e nel lamento, nella fame e nelle lacrime che bagnavano anche montante di una generazione: tutta la Serbia gli era contro, il po-
i nostri taccuini di spettatori impotenti al concitato trasporto di polo nelle piazze di Belgrado, decine di migliaia di operai calati
cadaveri, partorienti, vecchi, donne e bambini stremati. Nessuna dall’alba nella capitale, gli studenti e ormai persino i suoi soldati,
catastrofe umanitaria aveva mai escluso almeno una retrovia di che non avevano osato affogare l’alba di democrazia in un bagno
soccorso e di salvezza. Per i kosovari, in fuga dalla guerra, dalle di sangue. Alzavano bandiera bianca, consegnavano scudi ed el-
bande paramilitari serbe, dai bombardamenti, dalla fame, da tutto metti, si mischiavano alla gente, armata soltanto di un’immensa
ciò che assediava città e villaggi spettrali e in fiamme, c’era soltan- speranza di pace e normalità. Ci furono scontri, feriti, lacrimogeni,
to quest’ultimo girone dell’inferno. ma l’opposizione democratica aveva ormai preso il controllo dei
gangli vitali del regime e nel grande scenario di fiamme festeggia-
l’odissea kosovara va l’uomo del futuro: Vojislav Koštunica.
Qualcuno era rimasto a combattere, qualcuno si è preso la re- Nella notte precedente, gli scenari per la presa del potere sem-
sponsabilità di condurre i propri cari all’inferno, qualcuno era bravano disegnati. Alcuni generali, passati da mesi fra i dirigenti
rimasto al villaggio, nell’inutile tentativo di proteggere chi non dell’opposizione, avevano ricevuto assicurazioni che l’Armata non
poteva muoversi. Ai racconti delle angherie subite da parte delle sarebbe intervenuta. Dalle campagne della Serbia profonda, dalle
truppe serbe, si mischiavano il sogno di riorganizzare le file della fabbriche e dalle miniere, decine di migliaia di operai e contadini
guerriglia, la paura delle bombe, le leggi della sopravvivenza, una calavano su Belgrado, travolgendo con i bulldozer le autovedette
sorta di amnistia decisa sul posto dai serbi: «Lasciateci armi, divise, della polizia e i deboli, passivi, cordoni d’agenti. Il Parlamento e la
soldi e andatevene». Si era compiuto un progetto perverso: sgom- televisione pubblica erano gli obiettivi scontati: per le immagini
berare il Kosovo, scaricare il problema all’esterno, sui Paesi europei che sarebbero passate alla storia e per il certificato di morte di ogni
che avrebbero avuto il dovere morale di soccorrere e ospitare. Sfi- dittatura. La canzone Mesečina, “chiaro di luna” (testo del regista
niti, ridotti a larve, i kosovari non avevano la forza per lamentarsi, Emir Kusturica, musica di Goran Bregović, ndr), diventava un sab-
o forse erano i soli ad aver conservato la dignità del silenzio. ba festoso, come nel film Underground. Sventolavano centinaia
Pochi mesi dopo, nel settembre del 2000, ci fu l’epilogo, la ca- di bandiere di Otpor, “resistenza”, il movimento degli studenti,
duta di Milošević, la presa del palazzo, a opera dei serbi stanchi il primo germoglio della rivolta. Migliaia di giovani, collegati via
di guerra e di menzogne. Il potere di Milošević crollò nello stes- Internet, si erano contattati casa per casa, fin dentro le campagne
so scenario in cui era nato e in cui si era retto per un tragico de- più tradizionaliste, ultimo serbatoio di consenso del regime. La
cennio di guerre, paura e illegalità. Adunate di massa, bandiere, folla, davanti al Parlamento e in piazza della Repubblica, la piazza
distruzioni, macerie, movimenti di truppe, fiamme e passione di tante oceaniche manifestazioni finite nel nulla, continuava a
travolgente di un popolo che un tempo lo aveva acclamato e che ballare e a cantare, in una notte d’infinita felicità.
aveva finalmente compiuto la più attesa delle rivoluzioni nell’Est
comunista. Il Parlamento federale, circondato da decine di miglia- Massimo Nava, editorialista del Corriere della Sera, è stato corri-
ia di dimostranti, incendiato. La televisione del regime oscurata, spondente di guerra. È autore di Carovane d’Europa (Rizzoli, 1992),
occupata, data alle fiamme. L’apparato al collasso, reparti di poli- Kosovo c’ero anch’io (Rizzoli, 1999), Milošević, la tragedia di un
zia che fraternizzano con i giovani nelle piazze, l’esercito fermo popolo (Rizzoli, 2000), Imputato Milošević (Fazi, 2001), Vittime.
nelle caserme, paralizzato dalla volontà del popolo. La Serbia era Storie di guerra sul fronte della pace (Fazi, 2005).

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«C’è stata una sorta di epurazione dopo il conflitto
contro i serbi, proprio come in Francia nel 1945, con un
vero odio contro i collaborazionisti, reali o presunti»,
da Les spectres du Kosovo di Piotr Smolar, Le Monde, 13 aprile 2011

2000
tra saigon
e bagheria
Il 9 giugno 1999, dopo 78 giorni di bombe Nato, i serbi
lasciarono il Kosovo. Dopo 12 anni, Belgrado non ne
riconosce l’indipendenza. E i traffici illeciti fioriscono

di Massimo Nava - Corriere della Sera, 9/6/2000


foto livio senigalliesi

I
l “serpente” indossa camicia bianca e cravatta. L’in-
tellettuale non porta più la sciarpa di seta al collo che
lo ha reso riconoscibile al mondo. Il giovane capo
della guerriglia, così astuto e spietato da guadagnarsi
sul campo il titolo di “serpente”, oggi dà ordini die-
tro una scrivania. Il leader storico, nella villa sulla collina
di Pristina, contempla la collezione di minerali kosovari,
testimonianza di presunte ricchezze del sottosuolo. A un
anno esatto dalla fine della guerra, Hashim Thaçi (Primo
ministro del Kosovo dal 9 gennaio 2008, dichiarò l’indi-
pendenza del Paese dalla Serbia il 17 febbraio 2008, ndr)
e Ibrahim Rugova (leader della resistenza non violenta in
Kosovo, Rugova è stato il primo Presidente del Paese sotto

marzo 1999 Danni dei bombardamenti della Nato a Pristina.


In sede Onu è stata la Cina, grande investitore nei Balcani e in
particolare in Serbia, a battersi contro l’indipendenza del Kosovo.

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marzo 1998 Cirez, Kosovo: funerale delle prime vittime di etnia albanese dopo
gli scontri con le forze di polizia (serbe). Vi assistono migliaia di persone. Accanto agli
uomini uccisi (a sinistra) erano state poste armi, per provare l’appartenenza all’Uçk.

l’amministrazione Onu dal 4 marzo 2002 al 21 gennaio 2006, di stabilità per tutti. Il principio della sovranità jugoslava non
ndr), il guerriero e il pacifista, parlano la stessa lingua e riven- regge, per il fatto che la Jugoslavia di cui si parla non esiste
dicano una realtà che, giorno dopo giorno, in modo palese e più. Esiste la Serbia di Slobodan Milošević che ha soppresso
strisciante, dai francobolli alla moneta, dalle targhe ai passa- il nostro Stato e ci ha torturato per dieci anni. Tutti vogliono
porti, si sta consolidando: l’indipendenza del Kosovo. abbandonare Milošević e la Serbia. Ieri gli sloveni e i croati,
domani i montenegrini (dal 3 giugno 2006 il Montenegro è
tutto dipende uno Stato indipendente, proclamato dopo il referendum del
dalla risoluzione 1.244 21 maggio 2006, ndr). Non c’è altra scelta. Non soltanto per
Dice Thaçi: «Non è per oggi, ma resta nel nostro cuore. L’ac- la presenza di Milošević, ma per la mentalità e la cultura dei
cordo di pace (la risoluzione Onu 1244 che autorizzava l’avvio serbi che vengono manipolati o danno al regime un consenso
della missione Unmik e una presenza militare internazionale negativo». L’aspirazione dei kosovari è anche il tema domi-
in Kosovo, ndr) non è la Bibbia. C’è un processo di ricostruzio- nante della campagna elettorale: non si sa quando si apriran-
ne e di democrazia da portare avanti. Le risoluzioni possono no le urne – visto che non esiste ancora l’anagrafe e nessuno
essere riviste e rinnovate, in accordo con la Comunità inter- sa più quanti siano i veri kosovari – ma prima o poi il Kosovo
nazionale. La presenza della Nato è un beneficio per l’intera avrà un Presidente, un Parlamento e un’amministrazione lo-
regione». Dice Rugova: «La 1244 era un compromesso per met- cale. Non c’è più spazio per la moderazione degli obiettivi,
tere fine alla guerra. Ma la realtà è cambiata e Belgrado deve pena la perdita di consenso o l’anarchia. Anche per questo,
rendersi conto che la partita è chiusa. Non è pensabile che si le quotazioni del Rugova indipendentista sarebbero in salita.
rivedano in giro poliziotti serbi. L’indipendenza è un fattore Anche per questo, la lotta politica si è fatta più aspra: dalle

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costole della guerriglia sono nati nuovi partiti e qualche ex
eroe di guerra è stato fatto fuori in misteriose imboscate.
La faida kosovara si somma alla quotidiana mattanza di cui
sono vittime i serbi, i pochi rimasti, nelle enclave protette
dai soldati della Nato. Decine di migliaia scacciati, poche
centinaia rimasti a schivare granate e imboscate. L’Ammi-
nistrazione internazionale ha fatto chiudere un giornale
vicino a Thaçi: un articolo ha accusato e indicato con nome
e cognome un serbo, poi regolarmente ucciso.

alla minoranza serba


non resta che la fuga
Zoran Anđelković, proconsole di Belgrado in Kosovo, ac-
cusa: «Gli accordi di pace sono rimasti lettera morta. La no-
stra sovranità è costantemente violata. A Pristina vengono
aperti consolati stranieri. Dall’anno scorso, più di mille ser-
bi sono stati uccisi e 300mila sono stati costretti a fuggire.
In Kosovo sono arrivati dall’Albania e dall’estero 200mila
albanesi e criminali di ogni risma. L’Amministrazione inter-
nazionale è direttamente responsabile del caos. Che senso
ha parlare di elezioni?». (Il Partito democratico del Kosovo,
guidato da Hashim Thaçi, ha vinto le prime elezioni politi-
che del 12 dicembre 2010 in Kosovo dopo l’indipendenza
del 2008, ndr). Altro sangue scorre nella lotta fra bande
della criminalità comune, alcune importate dall’Albania,
che si sono aggrappate all’enorme flusso di denaro e attivi-
tà scaturite dalla presenza internazionale: 40mila soldati,
almeno 20mila impiegati delle Nazioni Unite e di agenzie
non governative lasciano ogni giorno milioni di dollari nel-
le strade sporche e trafficate di Pristina. Finito l’inferno dei
bombardamenti, il Kosovo è oggi un limbo dorato, la zona
più ricca dei Balcani, che moltiplica traffici e contrabbandi,
pizzerie e indotto, bordelli e Mercedes, alberghi e posti di
lavoro. Un po’ Saigon e un po’ Bagheria.
Gli stipendi sono i più alti della regione, dieci volte più
che a Belgrado. Un benessere assistito di cui beneficiano
anche vicini e nemici. Da Macedonia e Albania arrivano im-
prese, ristoratori e derrate. Da Serbia e Montenegro, camion
che, dopo aver cambiato le targhe al confine, scaricano ogni
genere di merci a Pristina. Sia Thaçi sia Rugova, incontrati
separatamente, giustificano. Dice il “serpente”: «Crimina-
lità comune e violenza contro i serbi danneggiano la nostra
immagine e il processo di ricostruzione. Siamo noi i primi
a condannare questi fatti e a lavorare per mettere in pie-
di un sistema giudiziario. La tensione sale in occasione di
anniversari ed eventi particolari. Segno che dietro violenze
e attentati c’è anche lo zampino di Belgrado che è interes-

la furia La casa di una famiglia serba del Kosovo distrutta


dai guerriglieri dell’Uçk. L’Esercito di liberazione del Kosovo
(Ushtria Çlirimtare e Kosovës) ha iniziato a operare nel 1996.

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Pristina, dicembre 2007 Manifestazione a favore dell’indipendenza del Kosovo, che sarebbe
stata proclamata il 17 febbraio 2008. A destra, Pristina, marzo 1998: proteste di giovani di etnia
albanese dopo le prime uccisioni di civili nella regione di Drenica, che prende il nome dal suo fiume.

sata a far fallire il lavoro delle Nazioni Unite. I serbi piangono la paura. Noi diciamo che i serbi del Kosovo possono rimanere
di giorno e uccidono di notte. Ma non possiamo diventare una e che devono integrarsi. Noi vogliamo la riconciliazione e il re-
realtà stabile se siamo circondati da Paesi instabili. Non posso ciproco perdono, fuori dai giochi sporchi di Belgrado». I pochi
affermare che tutti gli ex guerriglieri siano santi. C’è gente che serbi rimasti non possono aver fiducia se quasi ogni giorno
ha commesso crimini, anche durante la guerra, utilizzando le viene attaccata una casa o una chiesa. Proprio in queste ore,
nostre divise e le nostre bandiere. Così come è vero che si è hanno ritirato la partecipazione al governo provvisorio del Ko-
infiltrata la criminalità dall’Albania. Ma è falso affermare che sovo, collegato all’Amministrazione dell’Onu, e protestato per
l’Uçk sia dietro la criminalità e che controlli i traffici illegali del questa pulizia etnica che finora suscita soltanto indifferenza.
Kosovo». Rugova minimizza e accusa: «Sono passati soltanto Thaçi: «Speriamo che tornino a collaborare. Kosovari e serbi
12 mesi. Non mi aspettavo di svegliarmi in una società ordina- devono poter coesistere. La guerriglia ha ottenuto l’appoggio
ta e moderna. Ma questi fenomeni sono esagerati dalla stampa internazionale perché voleva costruire un Kosovo libero e de-
e dalla propaganda di Belgrado. Da sempre, si parla della rot- mocratico. Mi chiamano il “serpente”, ma io ripeto queste cose
ta balcanica e del Kosovo come crocevia del narcotraffico. Ma ogni giorno». Rugova: «Non sappiamo chi c’è dietro attentati e
le prove? È vero che molti serbi sono fuggiti, ma non c’erano omicidi. Non posso escludere che ci siano estremisti al nostro
200mila serbi in Kosovo prima della guerra. Molti di coloro che interno. Ma l’esperienza dimostra che i servizi segreti serbi so-
se ne sono andati erano funzionari e poliziotti del regime. Altri no maestri in questo genere di provocazioni, anche contro la
si erano macchiati di crimini. Altri ancora sono stati influenza- loro stessa gente. Comunque tutti abbiamo subito distruzioni.
ti dal vittimismo di Belgrado che aveva interesse a diffondere I principali monumenti serbi non sono stati toccati. In futu-

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ro faranno parte della storia di questa terra, non dei giochi
di Milošević». Rugova liquida in poche battute l’incontro
a Belgrado con Milošević, durante la guerra. (Nell’aprile
1999, durante i bombardamenti Nato, Rugova apparve a
Belgrado in tv accanto a Milošević. «È tutto a posto», disse,
«albanesi e jugoslavi sono d’accordo per ripristinare l’au-
tonomia della regione. E la Nato è colpevole dell’ondata di
profughi», ndr). Un episodio che i serbi considerarono un
tentativo di dialogo e i kosovari un atto di debolezza. «Ero
un ostaggio. Grazie a Dio e grazie alla Nato quell’incubo è
finito. La mia gente ha sofferto, ma oggi è serena. Le bom-
be hanno avuto un effetto magico. Presto il mio Paese farà
parte dell’Europa e del mondo democratico. Sì, le bombe
hanno fatto la magia». Thaçi cancella le ombre sulla sua
biografia criminale (il New York Times rivelò i mezzi sbri-
gativi adottati per arrivare al vertice dell’Uçk): «Sono cose
che scrivono i giornali di Belgrado e qualche corrisponden-
te che vive in Serbia». Il “serpente” e il leader storico non
si amano. È raro vederli insieme. Ma si temono. Dice l’ex
guerriero Thaçi: «Mi spiace che Rugova sia silenzioso e po-
co attivo. Che cosa ha davvero fatto per l’indipendenza?».
Rugova risponde con arguzia da intellettuale: «In tempo di
pace molti devono fare esperienza politica. Spero che il fu-
turo Presidente del Kosovo venga scelto dal popolo».

Come è andata a finire


Sul Kosovo continua l’azione del protettorato Onu, eser-
citato dalla missione Unmik e dalla forza Nato Kfor, che
oggi conta 4.500 effettivi, dei quali circa 650 italiani. La
Serbia non riconosce la Repubblica del Kosovo – che ha
proclamato unilateralmente la sua indipendenza il 17 feb-
braio 2008 – e continua a considerarla una propria provin-
cia. Tensioni si registrano nel Nord, a maggioranza serba:
Kosovska Mitrovica è una città divisa in due dal fiume Ibar,
un settore serbo a nord e uno albanese a sud. Il dialogo di-
plomatico in corso tra Kosovo e Serbia punta all’autono-
mia del Nord del Kosovo in cambio del riconoscimento di
Belgrado dell’indipendenza di Pristina. Ma il 27 marzo
2011 il ministro dell’Interno della Serbia, Ivica Dačić, ha
dichiarato che «il suo Paese non permetterà mai che una
soluzione raggiunta nei colloqui fra Belgrado e Pristina
venga sfruttata per il riconoscimento dell’indipendenza
del Kosovo». La Corte costituzionale di Pristina, accoglien-
do il ricorso dei partiti all’opposizione, ha dichiarato che il
Presidente Behgjet Pacolli è stato eletto il 22 febbraio 2011
in modo illegittimo. In aprile è stato sostituito dalla signo-
ra Atifete Jahjaga, ex vicecapo della polizia.

2009, kosovska Mitrovica Nella zona nord della città,


capoluogo dell’omonimo distretto del Kosovo, vivono i serbi. Qui,
il “Treno della speranza” dell’Unmik (Onu) passa nel campo rom.

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NON SPRECATE UNA PALLOTTOLA
XXXguzzini e vittime A sinistra, Orašje, Bosnia, 26/12/1992: i soldati serbi Cvijetin Maksimović e
Slobodan Panić confessano stupri e uccisioni di musulmane di Brčko. Sopra, Zenica, Bosnia, 29/12/1992:
Zijada Caus, 27 anni, di fronte alla Commissione per i crimini di guerra in Bosnia denuncia il

Martelli, asce, bastoni, catene gli strumenti di morte più usati. Dal campo di sterminio di Jasenovac
all’eccidio di Vukovar, nei Balcani la vita umana non valeva nemmeno un colpo d’arma da fuoco
nelle città. Una parte veniva messa a lavorare la terra, un’altra anche quale crogiolo di odi sono stati – e possono essere –
parte rinchiusa nelle baracche, senza cibo e acqua. La morte i Balcani. E spiega anche la ferocia serba a Vukovar, come
di Daniele Protti, L’Europeo n. 5, 2011 - foto livio senigalliesi
sopravveniva per inedia o febbre petecchiale, i cadaveri get- onda lunga di una memoria che nessun silenzio è riuscito a
tati in fosse comuni oppure portati a una vicina fornace. Jase- cancellare. «Il cancro del nazionalismo, negatore del patriot-

J
novac era il terminale di una linea ferroviaria che portava va- tismo, è grembo di violenza sempre fecondo», ha scritto nel
elena Zera ha dieci anni, quel 18 novembre del 1991, 200 persone, ne mancano ancora all’appello 61. Si sospetta goni pieni di serbi ortodossi di ogni età, e naturalmente anche 2005 Claudio Magris.
quando l’esercito serbo, dopo tre mesi di assedio e siano in un’altra buca. Šljivančanin, racconta Jelena, dopo ebrei, rom, omosessuali e prigionieri di guerra. Anche alcuni
bombardamenti, entra in città. Jelena viene portata, una condanna del Tribunale dell’Aja, oggi è libero. E lo dice croati morirono a Jasenovac: comunisti e antifascisti. stessi libri, stesse materie
insieme ad altre decine di feriti, malati e operatori sa- con il tono di chi cova una rabbia profonda. Odio che non si Ma gli ustascia si divertivano a eliminare personalmente ma aule diverse
nitari (i dottori no, servono per curare i feriti serbi), spiega solo con le crudeltà di quell’assedio. i prigionieri; la parola d’ordine era “non sprecare neppure Ed è un filo rosso di sangue quello che collega Jasenovac
in un lungo corridoio sotterraneo dell’ospedale di Vukovar. Guai a sognare che tutto sia chiaro: i buoni-vittime da una una pallottola”, gli strumenti erano martelli (di legno e di a Borovo Selo. Alcuni dei poliziotti croati uccisi il 2 maggio
Agli ordini di ufficiali della Jna (l’ex esercito jugoslavo), Ve- parte, i cattivi-aggressori dall’altra. È solo scavando nella ferro), asce, pugnali. Oggi il Memorial Museum di Jasenovac 1991 erano mutilati e avevano gli occhi fuori dalle orbite,
selin Šljivančanin, Miroslav Radić e Mile Mrkšić, i soldati li storia che si capiscono come nascono e si alimentano ferocie (distrutto dai serbi durante la guerra del 1991-1995 e successi- cavati a forza con un calzascarpe, quando erano già morti,
picchiano spingendo lettini e barelle nel corridoio. future. Jasenovac aiuta a capire qualcosa nell’orrore esplo- vamente ricostruito dal nuovo governo croato) ha un librone come ha raccontato – tra le varie testimonianze – anche Fe-
Duecentosessantuno persone, tutti maschi tranne tre so vent’anni fa. È una Auschwitz nei Balcani. Ante Pavelić, con i nomi di 82mila vittime accertate, ma il numero è certa- derico Bugno su L’Espresso. Borovo Selo è a pochi chilometri
donne. Il più giovane 16 anni, il più vecchio 72. Jelena viene il croato fondatore degli ustascia (estremisti di destra), ave- mente assai superiore, e non mancano iperboliche cifre pro- da Vukovar. Oggi conta circa 4.700 serbi (prima della guerra
nascosta da un’infermiera in uno scatolone, ma vede il suo va stretto un patto con Adolf Hitler quando andò a rendergli babilmente esagerate. Le immagini filmate e le fotografie del erano 10mila), pochissimi croati. Radio Borovo ha la sede
padre trascinato via. Tutti i 261 vengono caricati su camion e omaggio il 7 giugno 1941 (nel 1942 andò a ossequiare anche sito ripetono quello che abbiamo visto nelle documentazio- accanto a quella della municipalità diretta da Rado Bosić,
portati alla fattoria di Ovčara, a pochi chilometri da Vukovar. Benito Mussolini). Pavelić doveva distruggere i serbi, questo ni dei campi di concentramento nazisti: spoliazione di ogni un uomo imponente che sembra la controfigura di un diri-
Qui bastonati – e Šljivančanin era in prima fila – con mazze era il mandato del Führer e del Duce. Così nacque il campo di avere, scheletri coperti dalla pelle. Il campo di Jasenovac fu gente sovietico anni Cinquanta. Veste e parla come quello:
da baseball, catene, martelli di legno. Poi, dopo due giorni Jasenovac (che comprendeva anche una chiesa cattolica, per chiuso nel 1945, gli americani sostennero che le vittime di parole e frasi scandite con l’energia delle verità inoppugna-
di torture, portati a una fossa poco distante, gettati dentro e i croati “ospitanti” devoti), dove venivano rinchiusi a decine e certo dovevano essere almeno 150mila. Sfogliare il libro edi- bili, soprattutto nel denunciare l’ostilità delle autorità croa-
fucilati. La buca fu coperta, e riaperta solo nel 2006: i resti di decine di migliaia i cittadini serbi rastrellati nelle campagne e to dal governo croato nel 2006 fa venire i brividi. Ma fa capire te di Vukovar. Ma alcuni dei problemi che indica sono reali:

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XXXprima abusate e poi usate Tuzla, Bosnia, 3 gennaio 1993. Ragazze di Brčko
(da sinistra, Sabina Zizvanović, 16 anni, la sorella Senada, 17, e Mirela, 23) rapite dai serbi
nel giugno 1992, stuprate e infine usate come merce di scambio per i prigionieri di guerra.

manca il lavoro per i giovani, le grandi fabbriche che prima Janos Kery, direttore di Hrvatski Radio Vukovar, croata,
della guerra occupavano 25mila persone oggi al massimo ne alti ascolti in tutta l’ex Jugoslavia, afferma che, in base alle
impiegano 2mila, la ricostruzione è avanzata ma è tutt’altro statistiche, oggi Vukovar è una delle città più sicure e tran-
che finita; l’emigrazione dei serbi continua, e «quelli che van- quille. Ma rimangono assurdità difficilmente comprensibili.
no in Australia, Usa e Canada non tornano più». L’unica vol- Oggi i ragazzi serbi e croati giocano insieme nelle varie squa-
ta che Bosić sorride è quando ricorda che anche lui è uno di dre di calcio (fino a cinque anni fa era impossibile, ricorda
quelli fregati dalla guerra: «I miei versamenti per la pensione Kery). Ma fino al 2006 tutti gli studenti andavano a scuola in
antecedenti al 1991 sono rimasti a Belgrado…». La visita al ci- edifici diversi. Da allora vanno finalmente nello stesso palaz-
mitero di Borovo (curatissimo, come tutti i cimiteri in questa zo, ma le classi rimangono separate: serbi in un’aula, croati in
zona) racconta che i morti tra il 1991 e il 1995 (le tombe sono un’altra. Anche se studiano le stesse materie, anche se usano
allineate su due file lunghe 50 metri) avevano in grande mag- gli stessi libri. Anche se, di fatto, parlano la stessa lingua (il
gioranza un’età compresa tra 21 e 40 anni, ma c’è anche un serbocroato, con lievi inflessioni dialettali diverse).
Tomislav di dieci, una Camilla di 11. La città offre un continuo I giovani della radio ammettono che, per molti croati over
sguardo distonico: edifici nuovi e diroccati. Quello che nelle fifty, i serbi sono sempre e comunque colpevoli di tutto, e
fotografie di 60 anni fa era lo splendido Grand Hotel, a poche raccontano che solo recentemente la divisione tra i giovani è
decine di metri dal Danubio, oggi è un edificio di cui si intui- diminuita tanto da frequentare gli stessi bar, e da registrare il
sce la bellezza antica ma ancora quasi completamente da re- nascere di “coppie miste”. Con un precedente che viene rac-
staurare, dopo bombardamenti e granate che hanno riempito contato quasi con gioia: quello di un soldato croato che, do-
di squarci i muri. Solo il tetto è stato rifatto, per impedire che po sei anni di guerra, nel 1997 torna e sposa la sua “vecchia”
tutto, prima o poi, crolli. Ma, 14 anni dopo la fine delle ostilità fidanzata. Serba. Ma, ricorda Kery (all’unisono dunque con
(almeno a Vukovar), è ancora il triste simbolo di un passato il commissario serbo Bosić), il problema vero per i giovani è
che difficilmente tornerà. E il fiume conferma: poche chiatte, la mancanza di lavoro. Quale futuro? Hanno una alternativa
gru immobili in quello che era un grande porto fluviale. all’emigrazione?

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