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MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO

Author(s): Roberto Brusotti


Source: Belfagor , Vol. 67, No. 4 (31 luglio 2012), pp. 403-421
Published by: Casa Editrice Leo S. Olschki s.r.l.
Stable URL: https://www.jstor.org/stable/10.2307/26154559

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RITRATTI CRITICI DI CONTEMPORANEI

MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO

Un compositore ‘inattuale’

Da decenni la musica di Mario Castelnuovo-Tedesco è quasi assente


dalle sale da concerto e dagli studi di registrazione, con la marginale seppur
significativa eccezione delle musiche per chitarra. Eppure si tratta di un
compositore le cui opere furono battezzate ed eseguite nelle capitali mon-
diali della musica, da direttori d’orchestra del calibro di John Barbirolli,
Dimitri Mitropoulos, Serge Koussevitzky; per non parlare del piú celebre
di tutti, Arturo Toscanini, che a New York nel 1933 diede in prima ese-
cuzione il Secondo Concerto per violino (I Profeti) assieme a Jascha Heifetz;
debuttando negli anni a venire il Concerto per violoncello con Gregor Pia-
tigorsky e le Ouverture «Sogno di una notte di mezza estate» e «Il racconto
d’inverno». I melodrammi di Castelnuovo furono allestiti alla Scala di Mi-
lano, alla Fenice di Venezia, al Maggio Musicale Fiorentino; tra i solisti che
gli commissionarono opere o che ne furono entusiasti sostenitori si conta-
no alcuni tra i piú influenti interpreti del Novecento, da Alfredo Casella ad
Andrés Segovia a Walter Gieseking; mentre tra i promotori extra-musicali
possono essere annoverati Gabriele D’Annunzio, che adottò la musica del
canto patriottico Fuori i barbari ! per la Canzone di Fiume liberata, e per-
sino Benito Mussolini, che scelse personalmente Castelnuovo-Tedesco per
comporre le musiche di scena di un dramma storico sul Savonarola da rap-
presentare in Piazza della Signoria nel 1935; una designazione per la quale
in verità giocò un ruolo l’astuzia politica. Un compositore ebreo poteva
infatti essere meno influenzabile dalle prevedibili reazioni e pressioni della
Chiesa.
Ma nei decenni che seguirono la seconda guerra mondiale prese gra-
dualmente il sopravvento quella mentalità secondo la quale essere all’avan-
guardia rappresentava nulla di meno che un dovere morale; e chi, come
il compositore fiorentino, si esprimeva con un linguaggio tradizionale era
destinato ad essere oggetto di critiche feroci e in definitiva all’oblio. Non

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poche sue opere, infatti, risultano a tutt’oggi inedite ed ineseguite. A ol-


tre quarant’anni dalla morte (Mario Castelnuovo-Tedesco è mancato a Los
Angeles il 16 marzo 1968), tuttavia, assistiamo a una timida rivalutazione,
a un nuovo interesse nei suoi confronti, soprattutto da parte delle gene-
razioni piú giovani; i tempi in effetti sono maturi per una piú equilibrata
visione della sua collocazione storica e della sua opera compositiva.
In realtà, piú in generale, bisognerebbe attuare lo stesso sforzo critico –
distinguere l’oro dalla paglia – nei confronti di molti altri compositori «inat-
tuali», messi al bando in quanto considerati retrogradi: per la valutazione
e l’inquadramento storico del secolo appena trascorso sarebbe urgente co-
minciare a guardare maggiormente alla qualità della musica, e non solo
all’aderenza o meno a un’idea storicistica e distortamente moralista basata
sul concetto di evoluzione come valore imprescindibile. Il Novecento mu-
sicale ci appare oggi come il primo secolo caratterizzato dall’assenza di un
vero «linguaggio unico» internazionale, quale esisteva nelle epoche passate;
un periodo storico che ospita voci di timbro e idioma quanto mai diffe-
renti, il che costituisce un problema critico ma anche la sua ricchezza. In
questo contesto, la musica di Mario Castelnuovo-Tedesco ci parla con voce
umanissima, nelle serene mattinate toscane come nelle opere piú oscure e
pessimistiche; siamo noi a rimetterci, se abbiamo smarrito la capacità di
percepirla con adeguata apertura mentale. Come era in grado di fare un
collega che pure seguí un itinerario completamente diverso: Luigi Dallapic-
cola, che in occasione della sua scomparsa ricordò Castelnuovo-Tedesco (su
«The Composer and Conductor») con queste parole commosse:
quando la Radio Italiana […] trasmise la notizia della scomparsa di Mario,
lí per lí non compresi. Un minuto piú tardi mi trovavo, in lacrime, col capo
tra le mani […]. Quante volte mi trovai nel suo studio a discutere e quante
volte mi suonò al pianoforte composizioni appena finite. E talvolta mi confidò
speranze e delusioni; sempre con una serenità e con un senso di distacco che
erano il segno della sua superiorità. È scomparso. La sua opera appartiene alla
civiltà. Del Maestro, in quanto compositore, abbiamo parlato tante volte e tutti
ne conosciamo l’alto valore […] l’uomo innamorato della cultura dava l’addio
alla sua Firenze del 1939 e si avviava verso l’esilio. Non una parola di rancore
gli sentii pronunciare. Egli era capace soltanto d’amore.

La vita – Prima fase. In Italia: un compositore di successo

Mario Castelnuovo-Tedesco nasce a Firenze il 3 aprile 1895. Nella sua


famiglia, di origine ebrea sefardita e appartenente all’alta borghesia, il ra-
mo «musicale» è quello materno: il nonno Bruto Senigaglia è un autenti-

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co appassionato e la madre Noemi una buona pianista dilettante, da cui


ancor bambino Castelnuovo-Tedesco riceve le primissime lezioni, offrendo
a soli nove anni acerbe prove compositive (ma il catalogo ufficiale verrà
inaugurato sei anni piú tardi, da Cielo di settembre). Intraprende poi studi
pianistici piú seri con Edgardo Del Valle De Paz, accedendo a tredici anni
all’Istituto Musicale «Luigi Cherubini» di Firenze. I piú importanti tra i
suoi insegnanti furono Gino Modona e soprattutto Ildebrando Pizzetti, con
cui studia per quasi dieci anni, fino al diploma di composizione (1918).
La formazione di Castelnuovo-Tedesco risulta alquanto completa grazie ai
differenti influssi ricevuti: se Del Valle lo indirizza soprattutto verso la let-
teratura classica, Modona lo fa appassionare all’impressionismo francese,
mentre Pizzetti rappresenta il legame con la grande tradizione strumentale
e polifonica italiana.
Tramite Pizzetti, Castelnuovo ha accesso a un cenacolo intellettuale che
contava personalità come Papini, Prezzolini, Barilli, Consolo e soprattutto
il pianista e compositore Alfredo Casella, che si fa subito promotore del
giovane collega e lo vuole nel «comitato d’azione» della neonata Società
Nazionale di Musica (1917). Fino ai primi anni venti il pianoforte appare
al centro della sua opera compositiva; la sua intensa attività di saggista e
critico per riviste come «Il pianoforte» e «La critica musicale» gli consente
di rimanere aggiornato su tutto ciò che si muove in Europa, aiutandolo a
svincolarsi dalle pastoie di quel certo provincialismo che caratterizzava allo-
ra l’orizzonte italiano. Nel 1924 sposa Clara Forti; l’anno successivo nasce
il primogenito Pietro, seguito dopo un lustro da Lorenzo. Nel 1923, dopo
una gestazione di due anni e mezzo, Castelnuovo aveva finito di comporre
il suo primo melodramma, La Mandragola: quasi un atto di emancipazione
dal pianoforte e dalla forma aforismatica che finora aveva prediletto («a
nessun lavoro, in vita mia, ho atteso cosí lungamente; a nessuno, forse,
ho lavorato con tanto ardore», ricorda lo stesso autore). L’opera vince il
primo premio ex aequo al primo Concorso lirico nazionale bandito dalla
Direzione Generale delle Belle Arti (presieduto da Francesco Cilea); rappre-
sentata alla Fenice di Venezia il 4 maggio 1926, pubblicata dalla Universal
di Vienna, viene apprezzata tra gli altri da Franz Werfel, assieme al quale
Castelnuovo elabora una nuova versione in due atti (rappresentata a Wie-
sbaden nel 1928).
Sono in effetti gli anni in cui la fama di Castelnuovo-Tedesco comincia
ad assumere rilievo internazionale: al primo Festival dell’«International So-
ciety for Contemporary Music» (a Salisburgo nel 1923) egli era stato l’uni-
co italiano a vedere ospitate sue composizioni (Il raggio verde e Cipressi),
accanto a Malipiero e Busoni; in una kermesse che ospitò opere come Das
Buch der hängenden Gärten di Schönberg o il Quartetto op. 3 di Berg. Nel

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corso degli anni venti si rafforza la sua reputazione di compositore versati-


le, capace di un dominio formale impeccabile, di una sapienza orchestrale
che si fa via via piú raffinata, e dotato di eccezionale inventiva melodica.
La sua crescente notorietà attira l’attenzione di interpreti quali Toscanini,
Gieseking, Heifetz; quest’ultimo, dopo aver accolto nel suo repertorio il
primo concerto per violino del compositore fiorentino, il Concerto Italiano,
gli commissiona un ambizioso brano con accompagnamento di pianoforte
(The Lark, 1931) e poi quello che diventerà il suo secondo concerto per
violino e orchestra, I Profeti: battezzato, come abbiamo visto, da Toscanini
e Heifetz a New York nel 1933.
Due «promotori» di quel calibro apportano sicuramente moltissimo al
prestigio di Castelnuovo-Tedesco; ma in quegli anni l’incontro maggior-
mente pregno di conseguenze durature per il compositore è in realtà quel-
lo col chitarrista andaluso Andrés Segovia. Quest’ultimo era strenuamen-
te impegnato in un grande progetto: coinvolgere compositori estranei alla
chitarra al fine di forgiare un nuovo repertorio di livello per il suo stru-
mento, fino a quel momento sostanzialmente ai margini della vita musicale
«ufficiale». Segovia si rivolge anche a Castelnuovo-Tedesco, e le Variations
à travers les siècles op. 71 (che si concludono con un’ardita variazione in
tempo di fox-trot) inaugurano nel 1932 una lunga serie di opere per e con
chitarra, importantissime per il futuro dello strumento ma altrettanto per
la «sopravvivenza» artistica di Castelnuovo; se da un lato egli è senz’altro il
compositore italiano che ha contribuito maggiormente al repertorio per la
seicorde, è altrettanto vero che sono stati i chitarristi a mantenerne viva la
memoria negli anni bui in cui il resto del suo opus appariva dimenticato.
Opere come la Sonata «Omaggio a Boccherini» (1934), il Capriccio Diabolico
(1935), il Concerto per chitarra in Re (1939: di fatto il primo concerto per
chitarra del Novecento), il Quintetto op. 143 (1950), tutte scritte per Sego-
via, sono rimaste per lungo tempo praticamente le uniche di Castelnuovo-
Tedesco a risuonare nelle sale da concerto e negli studi di registrazione.
Gli anni trenta, cosí ricchi di soddisfazioni per Castelnuovo, si doveva-
no chiudere però assai amaramente. Gli incarichi prestigiosi del Savonarola
e delle musiche di scena per la prima rappresentazione dei Giganti della
Montagna (fortemente volute dallo stesso Pirandello e composte in stretta
collaborazione con quest’ultimo, purtroppo spirato improvvisamente prima
di concludere il dramma) furono anche gli ultimi, in patria. Per i compo-
sitori ebrei infatti giunge l’ora anche in Italia del silenzio forzato; ma è so-
prattutto l’entrata in vigore della prima legge razziale, che vieta ai bambini
ebrei di iscriversi alle scuole pubbliche, a convincere Castelnuovo-Tedesco
che in Italia ormai non c’è piú spazio per lui e per i suoi cari. Con l’aiuto
di Toscanini e Heifetz e il conforto di Segovia egli decide di riparare in

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America, e il 13 luglio 1939 prende il mare sul piroscafo Saturnia, che da


Trieste lo condurrà a New York: «fu quasi uno strazio fisico, un strappo,
una mutilazione ! (mi parve quasi la prova generale della morte); e da allora
qualche cosa è definitivamente morta in me […] non ho saputo piú attac-
carmi agli uomini e alle cose; ho vissuto come sospeso a mezz’aria, come
in una nuvoletta, in attesa: senza rancori […] ma ormai lontano» (Una vita di
musica, 306-07).

Seconda fase. L’esilio

Introdotto nell’ambiente newyorkese dagli amici musicisti, il composito-


re alterna soddisfazioni artistiche alla crescente consapevolezza delle difficol-
tà a introdursi professionalmente nel nuovo contesto. Quando la situazione
economica comincia a farsi difficile, giunge dalla Metro-Goldwyn-Mayer
l’offerta di un contratto triennale per la composizione di colonne sonore
per il cinema; il 30 ottobre del 1940 dunque il fiorentino approda a Bever-
ly Hills, dove finirà per risiedere fino alla morte. Il suo talento viene presto
riconosciuto anche in quel campo, tuttavia gli alienanti meccanismi pro-
duttivi e le resistenze della lobby dei professionisti americani fanno sí che
(analogamente ad altri importanti compositori europei, come Eric Zeisl)
dei circa settanta film a cui Castelnuovo collabora in tre anni, nemmeno
uno lo accrediti nei titoli di coda. Agli abusi dell’industria cinematografica
il compositore cerca di sottrarsi alla scadenza del contratto, preferendo con-
tinuare a lavorare come libero professionista; ma la sostanza non cambia
molto. Il bilancio è tracciato dallo stesso autore: «nella mia vita artistica,
l’esperienza cinematografica non rappresenta piú di un centesimo», anche
se Castelnuovo salva un paio di «suoi» films di cui andò soddisfatto, tra cui
Gli amori di Carmen con Rita Hayworth. Nell’attività e nella tecnica com-
positiva di Castelnuovo è comunque rinvenibile qualche traccia di questa
esperienza, nel modo in cui l’effetto viene raggiunto in maniera piú diretta
che in passato; ma è difficile ipotizzare, in generale, quale direzione avrebbe
imboccato la musica di Castelnuovo-Tedesco se gli fosse stato consentito di
continuare a svilupparsi nel suo contesto «naturale», quello europeo.
Nonostante per sua stessa ammissione il suo lavoro in questo periodo
riuscisse «incerto e disorientato», l’impegno cinematografico non esaurisce
certo le energie compositive di Castelnuovo: in quegli anni nascono opere
importanti come gli Indian Songs and Dances (esempio dell’attrazione del
compositore per il patrimonio folclorico americano), gli Shakespeare Sonnets,
la cantata Naomi and Ruth; nel 1945 contribuisce a una singolare Suite a
piú mani per narratore, coro e orchestra che coinvolge alcuni fra i molti im-

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portanti compositori riparati allora a Los Angeles (tra cui Schönberg, Stra-
vinsky, Milhaud), la Genesis Suite. Ma due importanti novità, soprattutto,
si inseriscono nella vita di Castelnuovo-Tedesco: quasi per caso egli inizia
un’attività di insegnamento che lo porterà a diventare uno dei piú importan-
ti didatti dell’ambiente (tra i suoi allievi, Henry Mancini e André Previn); e
inoltre, nel dicembre del 1942, egli viene all’idea di scrivere le sue memorie,
un’impresa che porterà avanti a piú riprese fino al maggio del 1966. Il libro,
Una vita di musica, ha una storia alquanto infelice: rifiutato nella prima
stesura da Ricordi, proposto a Sansoni che tuttavia tergiversa, uscirà alla fine
soltanto nel 2005, per i tipi di Cadmo. Le titubanze relative alla pubblica-
zione in vita si spiegano soltanto con l’atmosfera di ostilità che si era nel
frattempo formata in Italia nei confronti di Castelnuovo-Tedesco, perché
queste pagine (di cui tratteremo piú avanti) rivelano uno scrittore incisivo,
un fine ritrattista di ambienti dalla notevole densità culturale, come quello
fiorentino della giovinezza e quello californiano degli anni bellici; per tacere
dell’ovvio interesse riguardo a presupposti e analisi dell’opera compositiva.
Tra gli eventi che si susseguono in quegli anni risaltano l’acquisizione
della cittadinanza americana, nel luglio del 1946, e l’amaro ritorno in Italia
dopo quasi dieci anni dalla partenza, nel 1948. La delusione è duplice: i
luoghi della memoria non sono piú i medesimi, e soprattutto l’ambiente
musicale nei suoi confronti si rivela ambiguo e infido. Per ottenere il suo
rientro definitivo in Italia gli viene infatti offerta la direzione del Conserva-
torio di Napoli, ma la cosa suscita immediatamente conflitti anche violenti,
che lo disgustano profondamente; due critici di opposte vedute si sfidano
addirittura a duello ! Dopo quasi sei mesi di soggiorno italiano Castelnuo-
vo-Tedesco riparte per gli usa: «me ne partii amareggiato, angosciato: tut-
to era stato una delusione e un fallimento, soprattutto per aver realizzato,
ormai, la mia impossibilità di adattamento alla vita italiana […] Da allora
in poi sarei rimasto per gli Americani l’Italiano, per gl’Italiani l’Americano:
ormai per sempre […] sospeso fra due mondi !» (Una vita di musica, 492).
Un secondo viaggio a Firenze, nel 1952, porterà però a una parzia-
le riconciliazione con la Patria. Castelnuovo ritorna sostanzialmente per la
rappresentazione dell’operina Aucassin et Nicolette al Maggio Musicale Fio-
rentino, accolta con grande favore; la messinscena, che inaugura il «Piccolo
Teatro di Musica» annesso al Comunale, è quasi un risarcimento, infatti
questa cantafavola (a cui pensava già nel 1919 !) doveva essere rappresentata
al Maggio del 1939, poi l’ostracismo fascista l’aveva ovviamente fatta scom-
parire dal cartellone.
Da allora gli avvenimenti esteriori nella biografia di Castelnuovo-Tede-
sco si fanno meno significativi: egli stesso definisce la sua vita a quel tempo
«ritirata e solitaria», e scorrendo il suo catalogo è inevitabile avvertire un

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senso di declino, nella crescente percentuale delle pagine inedite, nel mi-
nor prestigio delle commissioni. Ad incrementare il senso di isolamento
del compositore contribuí senz’altro la vicenda de Il Mercante di Venezia,
ennesimo lavoro ad ispirazione shakespeariana. L’opera infatti (presentata
col significativo pseudonimo di Sem) vince un importante concorso inter-
nazionale organizzato dal Circolo della Stampa di Milano, dal Teatro alla
Scala e dalla Campari; ma la prevista prima rappresentazione alla Scala è
dapprima rinviata, infine cancellata. L’artefice dell’annullamento viene indi-
viduato proprio nel suo vecchio e ammirato maestro, Ildebrando Pizzetti,
che aveva presieduto la giuria (tra gli altri membri si contavano Gavazzeni,
Ibert, von Einem e Montale per quanto riguarda i libretti) e che pure aveva
definito quella di Castelnuovo «una grande vittoria per la Musica Italiana».
Il «tradimento» provocò in quest’ultimo una cocente amarezza («è certo
stata, da un punto di vista umano, la piú grande delusione ch’io abbia
avuto in vita mia»). L’opera sarà poi ospitata dal Maggio Fiorentino il 26
maggio 1961: ancora una volta molto ben accolta da pubblico e parte della
critica, ma suscitando anche attacchi velenosi, con un Beniamino Dal Fab-
bro che arrivò a parlare di «insopportabile vaniloquio» (allineando cosí Ca-
stelnuovo alla nutrita galleria di idiosincrasie personali). La vicenda in ogni
caso sembra contribuire a una svolta nell’ultima fase compositiva, come
vedremo piú avanti, insinuando nella voce serena del fiorentino un’ombra
di disillusione e pessimismo.
Ancora in piena attività, Mario Castelnuovo-Tedesco muore il 16 mar-
zo 1968, lasciando purtroppo incompiuti gli ambiziosi Appunti op. 210
per chitarra, che stava scrivendo in un intenso dialogo col grande didatta e
musicologo Ruggero Chiesa.

L’opera

Esemplificare correttamente un catalogo che conta piú di duecento nu-


meri d’opera composti nell’arco di quasi sessant’anni non è affatto agevo-
le: proviamo a scorrerlo nei quattro settori che possiamo considerare i piú
importanti, soffermandoci succintamente su alcune opere particolarmente
rappresentative.

La musica per pianoforte

Come abbiamo visto, nella prima fase dell’attività compositiva di Ca-


stelnuovo-Tedesco il pianoforte ha una centralità assoluta: tutti i primi di-

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ciannove numeri d’opera comprendono questo strumento. Egli era del resto
un eccellente pianista, sebbene privo di ambizioni solistiche; per quanto gli
avvenne piú volte di suonare in sedi assai autorevoli le proprie composizio-
ni, come il Primo concerto a Parigi sotto la bacchetta del «collega» Alfred
Cortot. Molte di queste prime opere – come il precoce Questo fu il carro
della Morte op. 2 o il Cantico op. 19 – traggono ispirazione da una fonte
letteraria o figurativa, come avverrà per tanti altri lavori negli anni a venire.
In altre l’evocazione atmosferica e suggestiva ha un’origine piú immanente:
cosí è per l’amatissimo Cipressi op. 17 e per l’opera-chiave di questi anni
giovanili, Il raggio verde op. 9, composto nel luglio del 1916 (il maestro
aveva dunque solo ventun anni) e ispirato dal fenomeno solare descritto tra
gli altri da Verne, Salgari e piú tardi da Éric Rohmer. Tuttavia questa fina-
lità «impressionistica» non impedisce di coniugare la libertà dell’ispirazione
a un ferreo controllo formale, comprendente anche il recupero di antichi
elementi strutturali come il contrappunto imitativo, che impronta già le
primissime battute del brano.
Si tratta tuttavia di un’opera (12 pagine di musica, circa sei minuti di
durata) molto lontana dalle opere piú neoclassiche ed equilibrate del fio-
rentino: esuberante, scintillante, musicalmente molto densa (per qualche
battuta lo spartito adotta tre pentagrammi), caratterizzata da un’armonia
ardita e sfuggente e da continui cambi di ritmo, anche inusuali (come in
alcune delle Coplas), arrivando all’uso di poliritmi (anche con l’indicazione
di tempi diversi tra mano destra e sinistra). Le risonanze da Debussy e
Ravel convivono con tagli di luce audaci e suggestivi e con echi lontani
di canti popolari; significative anche le prescrizioni per l’interprete, dal ta-
glio talora assai «drammatico»: «molto lontano», «dolce e semplice», «molto
forte e doloroso» etc., istruzioni in realtà legate a una successione di sensa-
zioni che lasciamo descrivere all’autore: «quella sera (dopo quel momento
di tensione quasi tragica che precede il tramonto) vidi aprirsi sull’orizzonte
marino (e poi sparire) come un ventaglio verde; ed espressi un desiderio
[…]. Poi il lungo crepuscolo estivo, le macchie biancastre sul mare in bo-
naccia, e infine (coll’ultimo raggio di luce) un senso di rimpianto» (Una vita
di musica, 112-13).
La novità del pezzo fu colta immediatamente da pubblico e critica:
Alfredo Casella, che ne fu entusiasta promotore, ricorda in I Segreti della
giara come la sua esecuzione «destava dappertutto scandalo»; alcuni critici
parlarono apertamente di «aberrazione» e tra questi il suo ex-maestro Ed-
gardo Del Valle, dalle pagine de «La nuova musica». Scalpore a parte, il
brano ebbe un immediato riconoscimento internazionale, e il suo carattere
innovativo fu compreso appieno. Particolarmente significativo un articolo
critico scritto nel 1921 su «The Musical Times» (Vol. 62, n. 936, pp. 93-

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97) da Guido M. Gatti (che conosceva bene Castelnuovo, da direttore delle


riviste in cui il giovane compositore scriveva), il quale proprio con lui dava
avvio a un panorama su Some italian composers of to-day (rassegna che trova
un rispecchiamento italiano nel suo Musicisti moderni d’Italia e di fuori).
Riconoscendo nel Raggio verde il suo pezzo piú importante, Gatti individua
acutamente alcune qualità significative dell’autore: una «sorprendente mae-
stria di mezzi, e un senso di perfezione formale assai inusuale in un giovane
della sua età […] non vi si trova nulla della stravaganza e della mancanza
di equilibrio che sono caratteristiche dei giovani»; sottolinea poi come «il
lavoro di Castelnuovo mostri pochissime tracce di influssi esterni» (entram-
bi gli elementi erano già stati rilevati da Henry Prunières nel 1917); infine
Gatti è uno dei primi a individuare nel giovane compositore fiorentino uno
dei tratti che gli verranno attribuiti in futuro, talvolta quasi come un limi-
te: «una grande umanità. La prospettiva di Castelnuovo non è indifferente
né fredda, ma umanizzata dalla fede del poeta in suoni [tone-poet]».
Il «modernismo» di questa composizione e di altre come la coeva Lu-
certolina, le Coplas, la precocissima op. 2, il politonale Passo delle Nazarene
(op. 8 n. 3), e piú tardi La sirenetta op. 18, fu presto abbandonato da
Castelnuovo, ciò che venne vissuto da alcuni come un vero «tradimento»
(cosí Gian Francesco Malipiero a proposito del Concerto Italiano). In realtà
il fiorentino difenderà questo processo di semplificazione come l’approdo a
un’«espressione piú pura e concentrata» della propria voce compositiva, e
proprio per tale motivo vedrà nel ben piú tardo (1949) Evangélion op. 141,
una raccolta di 28 piccoli pezzi sulla vita di Gesú destinata agli studenti di
pianoforte, «il mio punto d’arrivo nel campo della musica pianistica […]
quello che i 24 Preludi rappresentano nella musica pianistica di Debussy, o
[…] di Chopin».
Naturalmente l’opinione del compositore va tenuta nella giusta consi-
derazione. Tuttavia uno dei problemi aperti, per il giorno in cui la musico-
logia riterrà opportuno aprire un dibattito serio e circostanziato su Castel-
nuovo-Tedesco, è proprio quello sul rapporto tra gli esordi del compositore
e la sua «maniera» matura, e se abbia senso nel suo caso parlare in termini
di involuzione/evoluzione.

I concerti

Per il compositore fiorentino il Concerto per solista e orchestra rap-


presentava una sorta di forma-principe: come egli stesso ebbe a dichiarare
«trovai che la forma del Concerto corrispondeva meglio alla mia «posizio-
ne spirituale» […] sono (che sia un bene o un male, non lo discuto) un

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incorreggibile individualista; e, come tale, mi si addice meglio o lo stru-


mento solista, o l’associazione di questo coll’orchestra» (Una vita di musica, 185).
E «I Profeti è il lavoro che meglio risponde alla mia concezione drammatica
del Concerto, ed è forse, tra quanti ne ho scritti, il piú importante […]
ed è anche, nell’orchestrazione, piú ricco e complesso degli altri […]. È
ad ogni modo il piú ambizioso dei miei progetti ed uno di quelli a cui ho
lavorato con maggiore impegno» (232).
Si può obiettare senz’altro che è piuttosto il Concerto per chitarra in Re
op. 99 a rappresentare il lavoro piú significativo in questo settore: l’unica
opera di vaste proporzioni ad essersi mantenuta stabilmente in repertorio (è
senz’altro tra i cinque concerti per chitarra piú eseguiti in assoluto), e so-
prattutto un modello di equilibrio compositivo in ogni senso. Ma proprio
in ragione della sua notorietà preferiamo focalizzare l’attenzione sul Secondo
concerto per violino e orchestra op. 66, lavoro oggi ingiustamente dimentica-
to, nonostante sia stato amato e inciso da due tra i maggiori violinisti del
Novecento, Jascha Heifetz e Itzhak Perlman. Anche perché ci offre il dritto
per aprire il discorso su un filone particolare dell’ispirazione castelnuovia-
na: la «musica ebraica». È infatti lo stesso autore ad osservare: «mentre nel
Concerto Italiano, avevo cercato di esprimere l’elemento latino della mia
cultura, del mio ambiente, della civiltà in mezzo alla quale ero nato e cre-
sciuto, nel nuovo Concerto avrei desiderato esprimere l’altro lato (piú ripo-
sto e lontano, ma non meno importante) della mia personalità, l’elemento
ebraico» (230). Recante «un carattere piú etnico che religioso», la sua musica
ebraica rappresentò, almeno nella fase iniziale, soprattutto un’operazione
della memoria, legata in particolare agli antichi canti ascoltati da bambino
dal nonno Bruto Senigaglia («la vena sotterranea da cui era scaturita la mia
musica»). Fu la Rapsodia Schelomo di Ernest Bloch ad offrirgli la «rivelazio-
ne» di un’atmosfera nuova eppure familiare, di «un’anima messa a nudo»;
a cui subito rispose componendo Le Danze del Re David (1925), una delle
sue opere pianistiche piú importanti, in cui «l’afflato biblico» che trovava
nei temi ebraici era associato appunto a David, «giovane e ardito, batta-
gliero e appassionato, che suonava l’arpa al cospetto del Signore, e danzava
dinanzi all’Arca Santa […] non volevo, nella mia musica, echi di mortifi-
cazione e di pianto, ma piuttosto il ricordo dell’epopea lontana, dei “tempi
eroici”; e un glorioso segnacolo di speranza per l’avvenire» (196).
Questo carattere è lo stesso che permea I Profeti, il cui nome è do-
vuto proprio alla volontà di ritrarre lo spirito dei grandi profeti ebraici
Isaia, Geremia ed Elia, in un «trittico biblico» costituito dai movimenti del
concerto; in particolare, «lo strumento solista doveva rappresentare la voce
dei profeti […] e l’orchestra doveva rappresentare questo grandioso mondo
biblico: la Natura (consolante od ostile), la Folla (consenziente o ribelle), e

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MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO 413

infine la Voce di Dio (che si rivela ancora una volta nel “roveto ardente”)»;
in un vasto affresco che intendeva «rievocare quest’atmosfera remota, eppur
viva, di fede, di gloria e d’eroismo» anche grazie all’utilizzo di antichi temi
sefarditi, accanto ad altri costruiti dall’autore «in stile». Castelnuovo sottoli-
nea il carattere modale di queste melodie, e la necessità di farle «respirare»
nel «ritmo libero e fluttuante», estraneo alla piú tarda, rigida regolarizzazio-
ne ritmica in battute, tipica della musica «occidentale».
È anche per evidenziare quanto interesse rivesta la lettura delle Me-
morie per la comprensione della sua opera, che abbiamo lasciato alla voce
stessa di Castelnuovo (232) la descrizione dei presupposti e degli elementi
della composizione. Il concerto possiede da una parte un’impronta rapsodi-
ca, quasi improvvisatoria, e dall’altra un carattere particolarmente energico,
eroico, talora al confine con la magniloquenza e il trionfalismo (una ten-
denza pure non estranea alla musica di Castelnuovo, ad esempio nel Con-
certo per pianoforte n. 1): perfino il lirismo del movimento centrale, seppur
rapinoso, non lascia spazio ad estatiche contemplazioni, ma conserva un
carattere virile anche quando si raddolcisce nell’episodio conclusivo; mentre
il terzo tempo, tra lontani echi stravinskiani, non può non rammentare
(anche se, come detto, è dedicato ad Elia) le movenze selvagge del Re Da-
vid citate da Castelnuovo a proposito delle Danze.

L’opera per chitarra

La chitarra percorre e impronta tutta la parabola compositiva matura di


Castelnuovo, fino agli incompiuti Appunti; pochi compositori hanno sapu-
to porsi altrettanto in sintonia con il delicato lirismo e le preziose capacità
di suggestione timbrica dello strumento, pur limitato per volume sonoro e
possibilità polifoniche. Può colpire perciò il fatto che egli non abbia mai
avvertito l’esigenza di approfondire le specificità della scrittura chitarristi-
ca: Castelnuovo non suonava lo strumento, che notoriamente crea notevoli
problemi tecnici e non è ben conosciuto dalla generalità dei compositori
(nonostante l’esempio di Berlioz, la chitarra solitamente non è compresa
nei manuali di strumentazione), né cercò mai davvero di «calarsi» mental-
mente nello spazio della tastiera chitarristica. Come egli stesso affermava,
per l’adattamento del suo esuberante pensiero compositivo si affidava pie-
namente alla revisione del dedicatario: vale a dire, per molti anni, a Se-
govia. E cosí purtroppo le opere che per vari motivi non hanno ricevuto
questo labor limae vivente l’autore, domandano oggi all’interprete un inter-
vento per rendere suonabili passaggi che superano i limiti dello strumento.
Ma del resto Castelnuovo non si adombrava affatto per queste modifiche,

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414 ROBERTO BRUSOTTI

che anzi caldeggiava e richiedeva (anche se Segovia a volte tendeva a farsi


prendere la mano, come nel Capriccio Diabolico): la sua era dunque una
concezione ancora artigianale del mestiere di musicista, molto piú vicina
alla pratica rinascimentale che al rapporto «sacrale» col testo scritto che si
andava sviluppando proprio negli anni della sua piena maturità composi-
tiva. Ancora una volta occorre dire: una mentalità «inattuale», per quanto
condivisa da illustri colleghi, come quel Richard Strauss col cui percorso
Castelnuovo trova, piú in generale, diverse affinità.
Un altro lato della sua personalità messo in luce dall’opera per chitarra è
la nascosta natura di innovatore. Infatti lo sperimentalismo da cui il Castel-
nuovo maturo rifuggiva nel linguaggio e nella grammatica compositiva, egli
lo riservava ad altri aspetti, e questo è evidente proprio prendendo in esame
l’opera per e con chitarra nel suo complesso: non soltanto non esitò a farsi
apripista nel settore del concerto con orchestra (delicatissimo per lo squili-
brio fonico tra l’esile voce dello strumento a corde e una nutrita orchestra
moderna), ma lo fu anche per quanto riguarda l’interazione col quartetto
d’archi, con il Quintetto per chitarra op. 143 scritto per Segovia nel 1950;
per il quale gli unici precedenti significativi erano all’epoca i Quintetti di
Boccherini. Ma nell’opus troviamo altri accostamenti inusuali e innovativi:
chitarra e coro (Romancero Gitano), chitarra e narratore (Platero y Yo), l’esplo-
razione del felicissimo impasto coi legni (Sonatina per flauto e chitarra op.
205, Ecloghe op. 206, l’Aria trascritta dal concerto per oboe), l’inserimento
in inconsueti organici cameristici. Castelnuovo inoltre mostrò un’inusuale
disinvoltura nell’adozione di forme complesse e grandi cicli, quasi in reazio-
ne ai fogli d’album che allora dominavano il repertorio per lo strumento: tra
i compositori piú abili nell’arduo compito di applicare la forma-sonata alla
chitarra, egli partorí poi nei primi anni sessanta due tra le piú ostiche e mo-
numentali opere dell’intera letteratura chitarristica: i 24 Capricci di Goya op.
195 per chitarra sola, e i ventiquattro preludi e fughe delle Chitarre ben tem-
perate op. 199, per duo di chitarre. Opere peraltro estremamente significati-
ve anche dal punto di vista contenutistico, in quanto inaugurano una nuova
sensibilità che accompagnerà il compositore fino alla morte. Con i Capricci,
scrive Lorenzo Micheli, «sembrerebbe che per la prima volta il caos riesca ad
aprire piccole crepe nell’equilibrata scrittura del compositore […] irrompo-
no nella lingua musicale di Castelnuovo-Tedesco il grottesco e il deforme,
l’allucinazione e la disperazione, lo scherno e il tormento»; mentre nell’op.
199 «il discorso musicale si fa portatore di messaggi diversi e opposti, e la
tavolozza emotiva spazia dalla pura gioia fisica alla contemplazione estatica,
dalla riflessione introspettiva fino alla disperazione piú tetra» (Mario Castelnuovo-
Tedesco: Una vita di musica, parte v, 17-19). Un sentimento che, come vedremo tra breve,
ha in un certo senso l’ultima parola nell’itinerario castelnuoviano.

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MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO 415

La romanza da camera

La musica per voce e strumento ha sempre rappresentato una parte


importante del catalogo di Castelnuovo, sin dalle giovanili Coplas op. 7
(1915), tra le prime composizioni del toscano ad attirare l’attenzione gene-
rale. Del resto in questo genere la maestria con cui Castelnuovo padroneg-
gia il «suo» pianoforte si coniuga alla perfezione al suo talento melodico,
dono che è stato arditamente (ma con qualche ragione) paragonato a quello
di Schubert; qui poi si poteva sfogare liberamente l’amore per la letteratura,
che ispirò e alimentò tanta parte del suo opus. In definitiva, «proprio nella
forma della lirica da camera trovavo la forma di espressione piú adatta al
mio temperamento: i suoi limiti, direi, corrispondevano ai miei limiti (che
ben conoscevo)» (Una vita di musica, 164).
Dopo le Coplas e Stelle cadenti, le successive tappe principali possono
essere identificate nello spinoso confronto con L’infinito leopardiano (op.
22) e soprattutto nei fondamentali Shakespeare Songs op. 24 (1921-25) e
Shakespeare Sonnets op. 125 (1944-47), opere che testimoniano la grande
attrattiva esercitata sull’autore dal Bardo. Nella struggente Ballata dall’Esi-
lio da Cavalcanti (1956) compare come strumento di accompagnamento
la chitarra, accostamento tanto gettonato nella musica leggera quanto tra-
scurato in quella colta, nonostante significativi precedenti ottocenteschi;
lo stesso binomio tornerà tre anni piú tardi nel ciclo Vogelweide op. 186,
ovviamente su testi del Minnesänger, e infine (1966) nell’ultima raccolta
liederistica di Castelnuovo, che per le sue caratteristiche si può considerare
un po’ il suo testamento spirituale: il Divan op. 207 su liriche (versate in
inglese) del poeta spagnolo Moses-Ibn-Ezra (1055-1135).
Come lui costretto all’esilio, nel remoto alter ego Castelnuovo incon-
trò un sentimento di disillusione e di attesa della morte che evidente-
mente in quel momento lo toccavano profondamente. E qui il compo-
sitore trovò una tale essenzialità di linguaggio (Angelo Gilardino parla
giustamente di «smaterializzata perfezione») che davvero non è azzarda-
to parlare di una sua parola «definitiva», spirituale e musicale. Il ciclo è
composto da diciannove brani suddivisi in cinque parti piú un Epilogo;
significativamente è la quinta parte, «The transcience of this world», ad
avere quantitativamente il sopravvento, comprendendo sei liriche invece
di tre. Si tratta in effetti di un lavoro globalmente cupo e pessimista, do-
ve l’ultima parola resta quella del tremendo Epilogo, che accompagna con
un andamento da litania un testo dal sapore quasi nichilista, concluso
in modo quanto mai esplicito: «and their memory will be lost from the
world, even as I am forgotten».

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416 ROBERTO BRUSOTTI

Molti commentatori non hanno resistito ad azzardare un paragone col


Canto del Cigno (Schwanengesang) schubertiano; a parte le ovvie differen-
ze (il cosiddetto terzo ciclo di Schubert fu in realtà allestito post mortem
dall’editore), il raffronto ha un suo senso non solo perché davvero si può
dire che il Divan costituisca a maggior ragione il «Canto del Cigno» di
Castelnuovo-Tedesco, ma perché nell’Epilogo (in cui il protagonista assiste
alla propria consunzione fisica) pare risuonare un’eco dell’heiniano Doppel-
gänger (il Sosia).

Musica obliata

Nonostante alcune significative eccezioni, come si diceva in preambo-


lo, la gran parte dell’opera di Castelnuovo-Tedesco risulta oggi dimentica-
ta. La lacuna che riguarda l’opera drammatica è senz’altro la piú eclatante:
di quella decina di lavori che il compositore fiorentino scrisse in qualche
forma per il palcoscenico, nessuno viene eseguito, nessuno è testimoniato
da un’incisione discografica, neppure parziale. È un destino quasi beffardo,
considerata l’intensità con cui Castelnuovo perseguí il genere operistico, a
cui del resto sembrava predestinato per le capacità di melodista, per il gu-
sto dei contrasti drammatici, e infine per la sua sensibilità letteraria, che lo
condusse a trarre abilmente i suoi libretti direttamente dal testo originale
di autori come Machiavelli, Shakespeare, Wilde etc. Purtroppo tale oblio è
solo l’estrema conseguenza di una serie di incredibili sventure che colpí le
prime esecuzioni delle opere di Castelnuovo, cassate o rinviate per i motivi
piú diversi (alcune delle quali rimaste poi ineseguite e inedite), oppure pro-
poste in allestimenti del tutto inadeguati.
Nei rari casi in cui furono messe in scena in maniera accettabile, peral-
tro, le opere di Castelnuovo-Tedesco andarono incontro a un franco suc-
cesso: è il caso di Aucassin, che poté fondarsi sul talento canoro di Suzanne
Danco, o del Mercante di Venezia. Sarebbe nella logica delle cose che alme-
no il teatro fiorentino si rammentasse prima o poi del duraturo legame che
lo saldò al compositore conterraneo, osando riallestire una volta il Mercan-
te oppure La Mandragola, opera in cui l’autore reputava «si ritroverebbero
[…] alcune fra le mie pagine migliori; e, in genere, una spontaneità di
linguaggio, una freschezza d’idee, una felicità di disegno, che, dopo, ho
raramente raggiunto» (Una vita di musica, 153-54). Fino a quel momento, possiamo
avere un’idea delle capacità dell’operista immaginandole attraverso la parti-
colare «drammaturgia» dei concerti (che a volte intride il materiale stesso;
vedi come nel movimento di apertura del Concerto per oboe si mescolino
echi della Dama di picche e del Don Carlos), dell’opera vocale o di quella

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MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO 417

corale, fortunatamente frequentata almeno sporadicamente in sala da con-


certo e anche in disco.
Se quella operistica è la lacuna piú evidente nella presenza odierna della
musica di Castelnuovo-Tedesco, quasi tutti i settori della sua attività com-
positiva rivelano ampie falle, anche per quanto riguarda la disponibilità
editoriale; e da questo punto di vista è particolarmente grave che alcuni
lavori-chiave di Castelnuovo, come gli Shakespeare Sonnets, il Cantico dei
Cantici, The book of Ruth siano ancora inediti. Sarebbe oltremodo auspi-
cabile che qualche editore si investisse del compito di rendere accessibili
queste pagine silenti.

Una vita di musica

Come già piú volte sottolineato, anche il Castelnuovo-Tedesco memo-


rialista merita di essere menzionato in un quadro riassuntivo della sua atti-
vità; la scrittura in effetti accompagna il suo itinerario esistenziale quasi con
la stessa continuità che la composizione. Egli stesso stabilisce l’unitarietà tra
arte e biografia: «la musica per me non è mai stata un’attività speculativa
ed astratta, ma è stata invece cosí intimamente connessa alla mia vita (e
ai luoghi, e alle persone) che potrebbe costituire, da sola, la mia autobio-
grafia. E in realtà queste pagine, che mi accingo a scrivere, non vogliono
essere che una guida per poter meglio seguire e comprendere la mia produ-
zione musicale» (Una vita di musica, 43). Castelnuovo comunque era convinto del
valore anche letterario delle sue memorie. Scrive infatti a Nick Rossi l’11
maggio 1964: «Il libro in sé è una delle piú grandi “opere d’arte” che abbia
mai prodotto ! E ne sono orgoglioso come della mia musica migliore […]
Nessun compositore, credo, ha mai analizzato se stesso e la propria musica
con tale sincerità». Scritte in una lingua raffinata, speziata da simpatici fio-
rentinismi, le memorie ci presentano non solo importantissimi squarci sulla
fucina dell’artista, ma ritratti assai interessanti di un’epoca e dei suoi prota-
gonisti; in particolare del panorama culturale italiano nell’epoca tra le due
guerre. Imperdibili il capitolo su Toscanini e quello su D’Annunzio, acuti
e sottilmente ironici; proprio quello sul Vate esemplifica una delle quali-
tà migliori del Castelnuovo scrittore, la capacità cioè di presentare ritratti
incisivi ma anche equilibrati. Cosí dipinge l’incontro con l’anziano poeta,
ormai in declino, nel dorato esilio del Vittoriale:
finalmente apparve (quanto diverso dal baldo cavaliere che avevo intravisto,
nella mia infanzia, sulla spiaggia di Marina di Pisa !): piccolo, completamente
calvo, rugoso, aveva l’aspetto di una vecchia tartaruga, decisamente ripugnante
[…] né giovava a migliorar l’impressione la sua voce chioccia, stridula: ma devo

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418 ROBERTO BRUSOTTI

aggiungere subito che la sua conversazione era affascinante, cosí ricca, colorita
d’immagini, piena di spirito e d’imprevisti […] la sera, quando restammo soli,
potei constatare […] di quale deliziosa semplicità e franchezza fosse capace,
quando si trovava a tu per tu con un artista che reputava sincero (Una vita di mu-
sica, 257).

A volte i profili di personaggi sono folgoranti, come nel caso di Jascha


Heifetz (p. 187) oppure, su un registro piú interiorizzato, nel ricordo di
Ernest Bloch:
se ripenso a Bloch, è come ad uno di quegli antichi profeti di Israele che, do-
po aver scagliato invettive e vaticini fra tuoni e fulmini, si ritirano, silenziosi e
corrucciati, dietro a una nuvola (194).

L’acutezza del ritratto si riversa anche nella descrizione di paesaggi e


ambienti, capace di rilevarne insieme certe caratteristiche profonde; rispec-
chiando in fondo quell’abilità di «pittura musicale» che è una delle doti
riconosciute del compositore. Cosí l’immaginifica descrizione del primo
impatto con New York lo induce a un acuto contrasto tra la città dei grat-
tacieli, «quelle enormi costruzioni, simbolo di gloria, di potenza e di ric-
chezza, che mi parevan quasi l’equivalente delle torri medioevali nelle mie
città toscane» (314) e la cittadina di Larchmont, sua prima residenza fissa
americana, di cui fotografa «banche che sembran chiese, chiese che sem-
bran banche» e «belle scuole spaziose ed aereate, simbolo di questo gran
rispetto americano per la gioventú» (315).
Molte osservazioni generali poi dicono altrettanto sull’argomento in sé
che sulla personalità e il pensiero del compositore: cosí le annotazioni sulla
musica contemporanea, ad esempio quelle che contrappongono la «saggez-
za» di De Falla alla rivendicazione schönberghiana di comporre «musica
scritta per essere letta, non per essere sentita» (269). E In effetti anche l’aned-
dotica, con tante grandi personalità al centro del racconto, risulta spesso
intrigante, rivelando talvolta antefatti storici che risulteranno nuovi ai piú;
com’è il caso dei motivi alla base dell’incompiutezza di Turandot :
egli desiderava rappresentata l’opera alla Scala sotto la direzione di Toscani-
ni […] ma c’era stato col Maestro uno spiacevole malinteso: Puccini aveva
espresso, dopo la prima rappresentazione del Nerone, un giudizio assai severo
sull’opera di Boito (in verità debolissima); ma Toscanini gliene aveva serbato
rancore, e, per ripicco, rifiutava d’interessarsi di Turandot […] per i suoi impe-
gni editoriali, Puccini, se l’avesse completata, sarebbe stato costretto a darla in
America, e a rinunziare alla Scala: per questo tergiversava, ed esitava a scrive-
re l’ultima scena (quella che poi completò Alfano), ma l’aveva tutta in mente
(tant’è vero che, sulla scorta del libretto e di pochi schizzi, me la suonò al pia-

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MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO 419

noforte). Sperava sempre che il Maestro si ricredesse (come poi fece; ma troppo
tardi); e fu veramente un tragico destino quello che gli impedí di completare
l’opera ! (180-81).

Un bilancio (provvisorio)

Non sempre, dunque, a uno sguardo appena piú approfondito le co-


se si mantengono come appaiono in superficie. Il compositore passatista
e disimpegnato si dimostra per certi versi un innovatore, e non solo nei
primi anni di attività: la sua apertura mentale infatti lo porta ad accettare
sfide scabrose e a realizzare una sua «contemporaneità» nella direzione del
Post-moderno, grazie a un linguaggio che attinge sí al tardo Ottocento, ma
è nondimeno, come scrive Cosimo Malorgio, «privo di preclusioni apriori-
stiche, libero di accogliere i movimenti di danza contemporanea (fox-trot,
blues, boogie-woogie), di utilizzare l’elemento popolare, di recuperare la
modalità o di organizzare strutture formali neoclassiche» (Censure di un musicista,
12). Anche quel limite fondamentale della sua visione artistica, che lo rende
cosí inattuale rispetto al suo secolo: quello di ritenere che la musica non
abbia per compito di scavare nei recessi negativi dell’animo umano, bensí
di regalare pace e serenità, viene rimeditato, come abbiamo visto, negli ul-
timi anni della sua vita, che ci offrono opere tormentate, di uno spessore
non ancora pienamente focalizzato.
Anche alla luce di tali considerazioni, credo che sarebbe giusto rivedere
l’attuale tassonomia di valori, che colloca il Nostro soltanto a ridosso della
Generazione dell’Ottanta: pur nella loro enorme importanza storica in chia-
ve di uno «svecchiamento» del panorama italiano, i risultati di Casella e
Malipiero potrebbero apparire oggi per certi versi meno coerenti e compiuti
rispetto a quelli di Castelnuovo; e forse anche Pizzetti, con la sua posizione
originale ma anche con tutte le sue idiosincrasie, non andrebbe posto a una
distanza eccessiva dall’allievo. Naturalmente non è cosí vitale stilare delle
«classifiche» fini a sé stesse. Tuttavia stabilire dei valori corretti serve anche
a orientare le scelte di pubblico, interpreti e organizzatori; e può sottrarre
un compositore frainteso dall’angolo polveroso della storia della musica in
cui è stato collocato.

Roberto Brusotti

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420 ROBERTO BRUSOTTI

Nota bibliografica

La manchevole frequentazione dell’opera di Castelnuovo-Tedesco si rispec-


chia in una bibliografia che non si può proprio definire opulenta. La pubblica-
zione di Una vita di musica (a cura di James Westby, Fiesole, Cadmo, 2005; il
secondo volume contiene il catalogo completo delle opere) ha finalmente messo
un punto fermo su molti aspetti della vita del maestro, integrando tanto la
biografia di Corazón Otero, Mario Castelnuovo-Tedesco. Su vida y su obra para
guitarra, Lomas de Bezares, Ediciones Musicales Yolotl, 1987, quanto gli scritti
che si rifacevano alle memorie di Castelnuovo nel lungo periodo in cui esse
sono rimaste inedite, come il saggio di Harvey Sachs pubblicato sulla «Nuova
rivista musicale italiana» (n. 3, luglio/settembre 1989, pp. 381-409). Riveste un
notevole interesse, per il modo in cui l’opera di Castelnuovo-Tedesco è seguita
sulla traccia delle Memorie, l’ampio saggio in sei parti che Lorenzo Micheli
ha vergato sulle pagine del «Fronimo», Mario Castelnuovo-Tedesco: Una vita di
musica. Nuovi approfondimenti biografici e storia di Morning in Iowa op. 158, «Il
Fronimo», nn. 137 (gennaio 2007) - 142 (aprile 2008).
Per una collocazione critica dell’opera di Castelnuovo-Tedesco nella musica
del suo tempo cfr. Guido Maria Gatti, Musicisti moderni d’Italia e di fuori, 2a
ed., Bologna, Bongiovanni, 1925 (pp. 41-52) per una valutazione d’epoca; e
per una piú attuale, assai approfondita per quanto concerne il primo periodo
(anche se un poco diminutiva riguardo alle opere della maturità), vedi Roberto
Zanetti, La musica italiana nel Novecento (3 voll.), Busto Arsizio, Bramante,
1985 (soprattutto pp. 813-23).
Una preziosa ricognizione della musica per il palcoscenico è offerta da Nick
Rossi, A tale of Two Countries. The Operas of Mario Castelnuovo-Tedesco, «The
Opera Quarterly», 7:3, 1990, pp. 89-121.
La maggior parte degli studi su Castelnuovo-Tedesco provengono dall’am-
bito chitarristico. Un taglio particolare offrono gli scritti basati sul carteggio
con l’autore, e in particolare la monografia Censure di un musicista. La vicenda
artistica e umana di Mario Castelnuovo-Tedesco di Cosimo Malorgio, Torino,
Paravia, 2001 (metà del volume è costituita dalle lettere ad Alfredo Sangiorgi);
Marco Riboni, La nascita degli Appunti nel carteggio tra Chiesa e Castelnuovo-
Tedesco, «Il Fronimo», n. 90, gennaio 1995, pp. 12-22, n. 91, aprile 1995, pp.
13-21 e n. 92, luglio 1995, pp. 28-38; e Angelo Gilardino, Un fiorentino a
Beverly Hills, «Seicorde» n. 53, settembre-ottobre 1995, pp. 24-33.
Una carrellata complessiva sull’opera per chitarra, ancorché un poco gene-
rica, è offerta da Graham Wade, The Relevance of Mario Castelnuovo-Tedesco
(1895-1968), «egta Guitar Journal», 6 (june 1995), pp. 39-42. Tra gli studi
dedicati a singole opere, segnaliamo Lily Afshar, I 24 Caprichos de Goya per
chitarra op. 195 di Mario Castelnuovo-Tedesco e il loro rapporto con le incisioni
di Goya, «Il Fronimo» n. 73, ottobre 1990, pp. 11-26 e n. 74, gennaio 1991,
pp. 7-28; Angelo Gilardino, Osservazioni sulla «Sonata-Omaggio a Boccherini»

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MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO 421

di Mario Castelnuovo-Tedesco, «Il Fronimo», n. 71, aprile 1990, pp. 11-30; e del
medesimo autore Il Romancero Gitano di Mario Castelnuovo-Tedesco da Federi-
co García Lorca, «Studi Ispanici», 2006, pp. 239-54.
Richiamiamo infine l’attenzione su un sito internet ricco di informazioni
compilato dal chitarrista Fabio Rizza: «Escarramán – Le opere per chitarra di
Mario Castelnuovo-Tedesco».

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