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to Belfagor
MARIO CASTELNUOVO-TEDESCO
Un compositore ‘inattuale’
portanti compositori riparati allora a Los Angeles (tra cui Schönberg, Stra-
vinsky, Milhaud), la Genesis Suite. Ma due importanti novità, soprattutto,
si inseriscono nella vita di Castelnuovo-Tedesco: quasi per caso egli inizia
un’attività di insegnamento che lo porterà a diventare uno dei piú importan-
ti didatti dell’ambiente (tra i suoi allievi, Henry Mancini e André Previn); e
inoltre, nel dicembre del 1942, egli viene all’idea di scrivere le sue memorie,
un’impresa che porterà avanti a piú riprese fino al maggio del 1966. Il libro,
Una vita di musica, ha una storia alquanto infelice: rifiutato nella prima
stesura da Ricordi, proposto a Sansoni che tuttavia tergiversa, uscirà alla fine
soltanto nel 2005, per i tipi di Cadmo. Le titubanze relative alla pubblica-
zione in vita si spiegano soltanto con l’atmosfera di ostilità che si era nel
frattempo formata in Italia nei confronti di Castelnuovo-Tedesco, perché
queste pagine (di cui tratteremo piú avanti) rivelano uno scrittore incisivo,
un fine ritrattista di ambienti dalla notevole densità culturale, come quello
fiorentino della giovinezza e quello californiano degli anni bellici; per tacere
dell’ovvio interesse riguardo a presupposti e analisi dell’opera compositiva.
Tra gli eventi che si susseguono in quegli anni risaltano l’acquisizione
della cittadinanza americana, nel luglio del 1946, e l’amaro ritorno in Italia
dopo quasi dieci anni dalla partenza, nel 1948. La delusione è duplice: i
luoghi della memoria non sono piú i medesimi, e soprattutto l’ambiente
musicale nei suoi confronti si rivela ambiguo e infido. Per ottenere il suo
rientro definitivo in Italia gli viene infatti offerta la direzione del Conserva-
torio di Napoli, ma la cosa suscita immediatamente conflitti anche violenti,
che lo disgustano profondamente; due critici di opposte vedute si sfidano
addirittura a duello ! Dopo quasi sei mesi di soggiorno italiano Castelnuo-
vo-Tedesco riparte per gli usa: «me ne partii amareggiato, angosciato: tut-
to era stato una delusione e un fallimento, soprattutto per aver realizzato,
ormai, la mia impossibilità di adattamento alla vita italiana […] Da allora
in poi sarei rimasto per gli Americani l’Italiano, per gl’Italiani l’Americano:
ormai per sempre […] sospeso fra due mondi !» (Una vita di musica, 492).
Un secondo viaggio a Firenze, nel 1952, porterà però a una parzia-
le riconciliazione con la Patria. Castelnuovo ritorna sostanzialmente per la
rappresentazione dell’operina Aucassin et Nicolette al Maggio Musicale Fio-
rentino, accolta con grande favore; la messinscena, che inaugura il «Piccolo
Teatro di Musica» annesso al Comunale, è quasi un risarcimento, infatti
questa cantafavola (a cui pensava già nel 1919 !) doveva essere rappresentata
al Maggio del 1939, poi l’ostracismo fascista l’aveva ovviamente fatta scom-
parire dal cartellone.
Da allora gli avvenimenti esteriori nella biografia di Castelnuovo-Tede-
sco si fanno meno significativi: egli stesso definisce la sua vita a quel tempo
«ritirata e solitaria», e scorrendo il suo catalogo è inevitabile avvertire un
senso di declino, nella crescente percentuale delle pagine inedite, nel mi-
nor prestigio delle commissioni. Ad incrementare il senso di isolamento
del compositore contribuí senz’altro la vicenda de Il Mercante di Venezia,
ennesimo lavoro ad ispirazione shakespeariana. L’opera infatti (presentata
col significativo pseudonimo di Sem) vince un importante concorso inter-
nazionale organizzato dal Circolo della Stampa di Milano, dal Teatro alla
Scala e dalla Campari; ma la prevista prima rappresentazione alla Scala è
dapprima rinviata, infine cancellata. L’artefice dell’annullamento viene indi-
viduato proprio nel suo vecchio e ammirato maestro, Ildebrando Pizzetti,
che aveva presieduto la giuria (tra gli altri membri si contavano Gavazzeni,
Ibert, von Einem e Montale per quanto riguarda i libretti) e che pure aveva
definito quella di Castelnuovo «una grande vittoria per la Musica Italiana».
Il «tradimento» provocò in quest’ultimo una cocente amarezza («è certo
stata, da un punto di vista umano, la piú grande delusione ch’io abbia
avuto in vita mia»). L’opera sarà poi ospitata dal Maggio Fiorentino il 26
maggio 1961: ancora una volta molto ben accolta da pubblico e parte della
critica, ma suscitando anche attacchi velenosi, con un Beniamino Dal Fab-
bro che arrivò a parlare di «insopportabile vaniloquio» (allineando cosí Ca-
stelnuovo alla nutrita galleria di idiosincrasie personali). La vicenda in ogni
caso sembra contribuire a una svolta nell’ultima fase compositiva, come
vedremo piú avanti, insinuando nella voce serena del fiorentino un’ombra
di disillusione e pessimismo.
Ancora in piena attività, Mario Castelnuovo-Tedesco muore il 16 mar-
zo 1968, lasciando purtroppo incompiuti gli ambiziosi Appunti op. 210
per chitarra, che stava scrivendo in un intenso dialogo col grande didatta e
musicologo Ruggero Chiesa.
L’opera
ciannove numeri d’opera comprendono questo strumento. Egli era del resto
un eccellente pianista, sebbene privo di ambizioni solistiche; per quanto gli
avvenne piú volte di suonare in sedi assai autorevoli le proprie composizio-
ni, come il Primo concerto a Parigi sotto la bacchetta del «collega» Alfred
Cortot. Molte di queste prime opere – come il precoce Questo fu il carro
della Morte op. 2 o il Cantico op. 19 – traggono ispirazione da una fonte
letteraria o figurativa, come avverrà per tanti altri lavori negli anni a venire.
In altre l’evocazione atmosferica e suggestiva ha un’origine piú immanente:
cosí è per l’amatissimo Cipressi op. 17 e per l’opera-chiave di questi anni
giovanili, Il raggio verde op. 9, composto nel luglio del 1916 (il maestro
aveva dunque solo ventun anni) e ispirato dal fenomeno solare descritto tra
gli altri da Verne, Salgari e piú tardi da Éric Rohmer. Tuttavia questa fina-
lità «impressionistica» non impedisce di coniugare la libertà dell’ispirazione
a un ferreo controllo formale, comprendente anche il recupero di antichi
elementi strutturali come il contrappunto imitativo, che impronta già le
primissime battute del brano.
Si tratta tuttavia di un’opera (12 pagine di musica, circa sei minuti di
durata) molto lontana dalle opere piú neoclassiche ed equilibrate del fio-
rentino: esuberante, scintillante, musicalmente molto densa (per qualche
battuta lo spartito adotta tre pentagrammi), caratterizzata da un’armonia
ardita e sfuggente e da continui cambi di ritmo, anche inusuali (come in
alcune delle Coplas), arrivando all’uso di poliritmi (anche con l’indicazione
di tempi diversi tra mano destra e sinistra). Le risonanze da Debussy e
Ravel convivono con tagli di luce audaci e suggestivi e con echi lontani
di canti popolari; significative anche le prescrizioni per l’interprete, dal ta-
glio talora assai «drammatico»: «molto lontano», «dolce e semplice», «molto
forte e doloroso» etc., istruzioni in realtà legate a una successione di sensa-
zioni che lasciamo descrivere all’autore: «quella sera (dopo quel momento
di tensione quasi tragica che precede il tramonto) vidi aprirsi sull’orizzonte
marino (e poi sparire) come un ventaglio verde; ed espressi un desiderio
[…]. Poi il lungo crepuscolo estivo, le macchie biancastre sul mare in bo-
naccia, e infine (coll’ultimo raggio di luce) un senso di rimpianto» (Una vita
di musica, 112-13).
La novità del pezzo fu colta immediatamente da pubblico e critica:
Alfredo Casella, che ne fu entusiasta promotore, ricorda in I Segreti della
giara come la sua esecuzione «destava dappertutto scandalo»; alcuni critici
parlarono apertamente di «aberrazione» e tra questi il suo ex-maestro Ed-
gardo Del Valle, dalle pagine de «La nuova musica». Scalpore a parte, il
brano ebbe un immediato riconoscimento internazionale, e il suo carattere
innovativo fu compreso appieno. Particolarmente significativo un articolo
critico scritto nel 1921 su «The Musical Times» (Vol. 62, n. 936, pp. 93-
I concerti
infine la Voce di Dio (che si rivela ancora una volta nel “roveto ardente”)»;
in un vasto affresco che intendeva «rievocare quest’atmosfera remota, eppur
viva, di fede, di gloria e d’eroismo» anche grazie all’utilizzo di antichi temi
sefarditi, accanto ad altri costruiti dall’autore «in stile». Castelnuovo sottoli-
nea il carattere modale di queste melodie, e la necessità di farle «respirare»
nel «ritmo libero e fluttuante», estraneo alla piú tarda, rigida regolarizzazio-
ne ritmica in battute, tipica della musica «occidentale».
È anche per evidenziare quanto interesse rivesta la lettura delle Me-
morie per la comprensione della sua opera, che abbiamo lasciato alla voce
stessa di Castelnuovo (232) la descrizione dei presupposti e degli elementi
della composizione. Il concerto possiede da una parte un’impronta rapsodi-
ca, quasi improvvisatoria, e dall’altra un carattere particolarmente energico,
eroico, talora al confine con la magniloquenza e il trionfalismo (una ten-
denza pure non estranea alla musica di Castelnuovo, ad esempio nel Con-
certo per pianoforte n. 1): perfino il lirismo del movimento centrale, seppur
rapinoso, non lascia spazio ad estatiche contemplazioni, ma conserva un
carattere virile anche quando si raddolcisce nell’episodio conclusivo; mentre
il terzo tempo, tra lontani echi stravinskiani, non può non rammentare
(anche se, come detto, è dedicato ad Elia) le movenze selvagge del Re Da-
vid citate da Castelnuovo a proposito delle Danze.
La romanza da camera
Musica obliata
aggiungere subito che la sua conversazione era affascinante, cosí ricca, colorita
d’immagini, piena di spirito e d’imprevisti […] la sera, quando restammo soli,
potei constatare […] di quale deliziosa semplicità e franchezza fosse capace,
quando si trovava a tu per tu con un artista che reputava sincero (Una vita di mu-
sica, 257).
noforte). Sperava sempre che il Maestro si ricredesse (come poi fece; ma troppo
tardi); e fu veramente un tragico destino quello che gli impedí di completare
l’opera ! (180-81).
Un bilancio (provvisorio)
Roberto Brusotti
Nota bibliografica
di Mario Castelnuovo-Tedesco, «Il Fronimo», n. 71, aprile 1990, pp. 11-30; e del
medesimo autore Il Romancero Gitano di Mario Castelnuovo-Tedesco da Federi-
co García Lorca, «Studi Ispanici», 2006, pp. 239-54.
Richiamiamo infine l’attenzione su un sito internet ricco di informazioni
compilato dal chitarrista Fabio Rizza: «Escarramán – Le opere per chitarra di
Mario Castelnuovo-Tedesco».