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L'ARCHITETTO
(The Architect, 2005)
PROLOGO
Era a piedi nudi e indossava solo una tunica di lino bianco, come pre-
scritto dalle Sacre Scritture. Mani prive di guanti. Raggi di luce colorata
scendevano sul corpo che giaceva sul tavolo anatomico di fronte a lui. Fer-
ri chirurgici d'acciaio inossidabile sterilizzati erano perfettamente allineati
su un vassoio d'argento al suo fianco.
Prese il bisturi e lo fece scorrere leggermente sulla pelle sopra la spina
dorsale, aprendo la carne a rivelare splendidi fasci di muscoli dai nomi al-
trettanto splendidi: trapezio, splenio, cervicale.
Sistemò i divaricatori per tenere separati i tessuti, poi incise più in pro-
fondità, attraverso fasce e legamenti, fino all'osso.
La sua sala operatoria, interamente di pietra, era stata costruita in base
alla sezione aurea, un rettangolo in cui il lato lungo era maggiore del ses-
santadue per cento rispetto a quello corto, le stesse proporzioni utilizzate
nella progettazione delle piramidi, del Partenone, della basilica veneziana
di San Marco e perfino dei libri dell'Eneide di Virgilio. Il tetto a quattro
spioventi rispondeva allo stesso ideale. Ogni muro aveva una finestra goti-
ca di vetro piombato delle stesse, esatte proporzioni, raffigurante una bat-
taglia campale tra le forze del bene e del male: Dio e il Leviatano, Zeus e i
Titani, i Pandava e un esercito di demoni, Krishna e i Kaurava.
Gli altoparlanti, nascosti nelle pareti, diffondevano le note del Messia di
Händel. Un profumo di mirto riempiva l'aria.
Mise a nudo alcune vertebre all'altezza della spalla, si fermò un attimo e
fece un respiro sognante. Era la sua ricompensa. L'accesso al sancta sanc-
torum. Una finestra sul grande disegno di Dio. Amava la perfetta unione di
struttura e funzione della spina dorsale, sufficientemente rigida per proteg-
gere il midollo che vi scorreva dentro e sufficientemente elastica perché un
uomo potesse guardare le stelle, sbaciucchiare un'amante, accucciarsi, sal-
tare.
Se fosse stato un servo più umile, sarebbe diventato un chirurgo, dedito
alla riparazione dei corpi deformati dalla malattia, dagli incidenti o dall'età.
Ma lui aveva bisogno di creare la bellezza, non solo di ripristinarla.
Fece scorrere la lama più in basso, bramoso di posare gli occhi sulla
cauda equina, il fascio delle radici dei nervi che fuoriescono dalla base
della spina dorsale per dare mobilità alle gambe.
Non provò per il sangue sulle sue mani più rimorso di quanto ne provi
uno scultore per le schegge di pietra sparse sul pavimento. La distruzione
era semplicemente una parte della creazione, uno spazzar via per rivelare
qualcosa di più perfetto.
Adoperò una sega chirurgica per rimuovere le parti posteriori di tre ver-
tebre vicine al coccige, dissezionò fino alla guaina intorno al midollo, l'a-
prì con il forcipe. Poi, tremando per l'eccitazione, passò la punta di un dito
sull'umido e bianco fascio interno. Riusciva quasi a percepire le ondate di
ioni carichi che un tempo si agitavano lì dentro. E sentì con assoluta cer-
tezza che lui era stato scelto e che la sua più grande sfida sarebbe stata ben
presto a portata di mano.
Lanciò un'occhiata a una serie di fotografie in cornici d'argento appese
alla parete: una veduta aerea della Casa Bianca; uno scatto del presidente
Warren Buckley a passeggio nel Roseto; un ritratto di famiglia del presi-
dente con la moglie, i due figli e la figlia: un primo piano della ragazza...
lo scherzo della natura, l'incidente. I suoi occhi si fermarono su di lei, men-
tre le sue pupille si dilatavano, i suoi polmoni si espandevano e il suo cuo-
re batteva forte. Quando tornò a guardare il ritratto di famiglia, lei era
scomparsa.
Alle 21 West Crosse era stato ricontattato da due delle tre persone che
aveva incontrato all'11204 di Beach Drive.
Ken Rawlings aveva telefonato per dirgli che lui e sua moglie desidera-
vano che progettasse la loro casa nel Montana e si auguravano che potesse
cominciare subito.
L'assistente di Rawlings, Maritza, aveva telefonato per sapere se non era
troppo stanco per un drink al Delano Hotel a South Beach, dove i Ra-
wlings lo avevano alloggiato.
Crosse non era mai troppo stanco per servire un cliente. Incontrò Mari-
tza al Blue Door, il ristorante dell'albergo, un incubo art déco bianco, con
colonne di gesso che si innalzavano per cinque metri verso il soffitto piat-
to, tendaggi di tessuto trasparente sulle vetrate, tovaglie bianche, sedie
bianche, candelabri bianchi che reggevano candele bianche. Il tutto faceva
sentire Crosse come la figurina di plastica su un'enorme torta nuziale e nul-
la gli sarebbe piaciuto tanto quanto usare una delle candele per dar fuoco ai
paralumi bianchi delle lampade a stelo bianche, se non altro per dare a quel
posto un po' di colore, di calore e di vita.
Invece, si concentrò su Maritza, sulle sue labbra carnose, sulla sua pelle
abbronzata, sui suoi capelli biondo platino, sulle sue unghie lunghe. Nel
giro di pochi secondi se la immaginò con capelli di un biondo più naturale,
più lisci, più intonati ai suoi occhi color nocciola e al viso leggermente
tondo. Le accorciò le unghie e ne cancellò lo smalto rosa in favore di una
manicure più discreta. Le sfilò la T-shirt aderente e scollata e le infilò una
camicetta rosa più ampia e meno scollata. La aiutò a togliersi i jeans attil-
lati con la vita bassa e le fece indossare pantaloni neri a sigaretta. Cambiò
perfino il tono concitato con cui tentava di spiegargli perché gli aveva tele-
fonato, facendola parlare a voce più bassa e lenta.
«Tutto questo per dire,» riassunse Maritza «che non so bene perché le ho
telefonato.»
«Certo che lo sa» ribatté Crosse, protendendosi verso di lei. «Sarebbe
più facile se lo dicessi io?»
«Forse.»
«Lei mi ha telefonato perché sa che riesce a essere più se stessa con me
che senza di me.» La vide irrigidirsi, mentre scambiava la sua sincerità per
arroganza. «È la stessa sensazione che provo io nei suoi confronti. Lei può
aggiungere qualcosa alla mia vita, ne sono certo. Altrimenti, non avrei mai
accettato il suo invito.»
Questo li metteva sullo stesso piano. Maritza si rilassò.
«Quello che non possiamo sapere è che cosa, alla fine, abbiamo da dare
l'uno all'altra. Per esempio, lei potrebbe insegnarmi cosa significa crescere
a Cuba, cosa ne ha amato e cosa ne ha odiato. Il modo in cui la luce cam-
bia durante il giorno. Le piante e i fiori ideali per un giardino. Le spiagge,
le strade, i passaggi ad arco più belli che si ricorda. Il terreno sul quale da
piccola sognava di avere una casa. Che aspetto doveva avere quella casa,
che odore, che atmosfera.» Fece una pausa. «Oppure potrebbe avere altre
cose da insegnarmi, per esempio quello che la fa sentire più viva, la sua
passione.»
Il collo di Maritza cominciò ad arrossarsi, com'era accaduto a casa dei
Rawlings. «E lei cos'ha da insegnarmi?» chiese lei.
«Tanto per cominciare, che lei è più attraente di quanto crede. Teme che
qualcuno non noti la sua bellezza. Ecco perché si lascia crescere un po'
troppo le unghie.» Le prese la mano e fece scorrere il pollice sulle dita sot-
tili. «Si tinge i capelli in modo vistoso. Indossa indumenti aderenti.» La
guardò negli occhi. «Ma la sua bellezza è inequivocabile.» Vide il suo
sguardo accendersi. «Quando vedrà la cosa come la vedo io, ogni uomo
che incontrerà farà altrettanto.»
Lei abbassò gli occhi, giocherellando con i monili d'argento. «Come fac-
cio a sapere che non lo dice a ogni donna che conosce?» Alzò di nuovo gli
occhi su di lui.
«Perché la verità è tutto ciò che ho. Non la scambierei con nient'altro.
Certo non con il sesso.» La guardò ancora più profondamente negli occhi.
«Neppure con l'amore.»
Lei gli credette. E perché no? Sembrava che lui volesse dire ogni cosa
che diceva con tutto il suo essere. E Maritza gli credette ancora di più
quando giacque nuda sul suo letto bianco nella sua stanza bianca a guarda-
re le onde crestate di bianco di Miami Beach. Perché nessuno avrebbe po-
tuto fingere la tenerezza con cui lui le passava le dita tra i capelli e le ba-
ciava la bocca. Nessuno avrebbe potuto inventare il modo vorace, e tutta-
via non frettoloso, con cui le accarezzava il collo, il seno e il ventre. Nes-
sun impostore avrebbe notato quello che lui colse quando lei sollevò appe-
na le anche invitandolo tra le sue ginocchia. Nessun bugiardo avrebbe po-
tuto guidare la loro danza esattamente dove lei sperava di arrivare, percepi-
re il momento in cui la natura stava per assumere il controllo e fermarsi
all'improvviso, lasciandola tremante su quel vellutato margine dove il suo
corpo e la sua anima si stavano dissolvendo l'uno nell'altra. Nessuno se
non un amante della verità - la sua verità - avrebbe potuto restituirle tutto
quel controllo - cosa che lei tanto temeva e bramava - semplicemente roto-
landosi sulla schiena e incrociando i polsi sopra la testa.
Un minuto dopo giacevano l'uno accanto all'altra, esausti, la testa di lei
sul petto di lui. «Come ti sei fatto quella cicatrice?» chiese Maritza.
«Mi sono tagliato radendomi» rispose Crosse.
«Inventane un'altra.»
«Diciamo solo che c'entra un rasoio e chiudiamola qui.»
Maritza gli baciò il petto e poi vi posò di nuovo sopra la testa. «Non vo-
glio mentirti» disse.
Crosse ascoltò il suo respiro.
«Ken non deve sapere di noi» disse lei.
Ken, non il signor Rawlings. «E perché mai?» chiese lui.
«È un tipo geloso.»
Crosse lasciò passare qualche secondo.
Maritza fece un profondo sospiro. «Il nostro non è sempre stato un rap-
porto... professionale.»
«Mi fa piacere che tu me lo dica» commentò Crosse. Poi, dopo una pau-
sa: «Lo ami?».
«Non so esattamente che cosa sia l'amore.»
Lo amava.
«È una brava persona?»
Lei si strinse nelle spalle.
«Se ti preoccupi dei miei sentimenti, non ce n'è bisogno» disse Crosse.
«Sì» ammise lei, riluttante. «È una brava persona.»
«Ed è generoso?»
«Mmm.»
«Forte?»
Maritza annuì.
«E allora perché sei qui?»
«Non lo so» rispose lei tranquillamente.
Era una risposta sincera. «È per il fatto che lui è con sua moglie?»
«Forse.»
Una risposta molto sincera. «Ti sei incontrata con lui in questo albergo.»
«Non...»
Lui le toccò il braccialetto con il simbolo della pace. «Te l'ha regalato
lui» disse.
«Me lo tolgo, se ti dà fastidio.»
«Non mi dà fastidio.»
Lei alzò la testa e lo guardò, preoccupata.
«È un regalo fantastico.»
«Sst.» Maritza gli appoggiò di nuovo la testa sul petto.
Crosse le prese la mano. «È la verità. Sua, e tua. Avete bisogno l'uno
dell'altra. Non ha niente a che fare con te e con me. Il braccialetto dice
qualcosa di meraviglioso.»
«Che fa acquisti da Barneys?»
Risero. «Non solo questo» riprese Crosse. «Dice che le ricchezze di sua
moglie - i diamanti - non possono fare ciò che tu fai per lui. Tu gli dai la
pace interiore.»
Gli premette l'indice sulle labbra. «Non voglio più parlare di lui» disse.
«Adesso sono con te.»
Crosse sapeva che era una bugia e che Maritza avrebbe fatto qualcosa
per nasconderlo.
Con perfetto tempismo, lei scivolò sotto il lenzuolo e gli baciò il petto,
l'addome, scendendo più in basso.
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Clevenger lasciò la proprietà dei Groupmann alle 16.50, fuso orario del
Pacifico. Shauna Groupmann aveva chiamato un taxi che lo portasse al
Cloud Marina, dove il presidente della società costruttrice di suo marito
aspettava di essere interrogato. Clevenger salì sulla vettura, che si mise in
moto.
Controllò il cellulare. Aveva ricevuto quattordici chiamate, sette delle
quali da North Anderson e tre dalla sua assistente, Amy Moffitt, alla Bo-
ston Forensics. Controllò anche gli SMS. Il primo era di Anderson. Non ne
aveva mai ricevuti da lui, finora. Lo visualizzò:
F, chiamami, oggetto Billy. N
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West Crosse stava cercando di buttar giù uno schizzo della casa padro-
nale nella proprietà dei Rawlings nel Montana da quando aveva lasciato
Maritza, poco dopo mezzanotte. Era circondato da un mare di carta. Non
aveva né mangiato né dormito.
Il tempo stringeva. Il suo più grande, e quasi certamente ultimo, lavoro
era a portata di mano: ricostruire la famiglia presidenziale. Non gli impor-
tava affatto se sarebbe sopravvissuto dopo aver attuato per loro il piano di
Dio. Voleva soltanto portare a termine ciascuno dei progetti ai quali aveva
dato inizio.
La sfida nel Montana consisteva nel progettare qualcosa di coerente non
solo con le radici di Ken Rawlings in Pennsylvania e con l'austera sempli-
cità della sua origine quacchera, ma anche con l'infanzia di Maritza a Cu-
ba, dove influenze nere e ispano-coloniali avevano prodotto edifici baroc-
chi di sbalorditiva stravaganza. Per farlo, Crosse doveva coniugare le linee
pulite che avrebbero entusiasmato Rawlings con le ampie finestre, i balco-
ni, gli archi, gli elaborati soffitti di legno, le inferriate e i vetri colorati che
avrebbero parlato al suo vero amore.
Sapeva quali sensazioni si provavano quando il progetto era quello giu-
sto: la sempre maggiore eccitazione, il continuo crescere della sicurezza in
sé. Tutto era al suo posto. La via era chiara.
Desiderava ardentemente questa chiarezza. Allora si inginocchiò e pregò
per averla.
I Rawlings erano una menzogna. Ken Rawlings aveva sposato sua mo-
glie Heather per insicurezza, perché temeva che non sarebbe mai riuscito
ad avere abbastanza successo da solo. Adesso aveva l'Abicus, la società di
estrazione di diamanti del padre di lei, ma non aveva pace, né figli. E per-
ché avrebbe dovuto averli? Forse che Dio guardava con favore a una men-
zogna più di quanto la gravità guardasse con favore a fondamenta cedevo-
li?
Quando l'ispirazione finalmente arrivò, fu un'onda di marea che sollevò
Crosse. Si mise a disegnare un rettangolo dentro un altro, creando un corti-
le centrale, tipico di una dimora coloniale cubana. Per lasciare il cortile a-
perto al mondo esterno tracciò quattro imponenti archi da un capo all'altro
della casa, ognuno al centro di una parete. Alla facciata aggiunse le stesse
finestre ad arco che avevano ornato le scuderie del nonno di Ken Ra-
wlings. Coprì il tetto a spioventi con lastre di cedro da verniciare di rosso
per avere lo stesso tono delle tegole della vecchia Avana.
Il risultato fu stupefacente: una fortezza ispano-americana in mezzo alle
montagne, costruita intorno a un centro zen e pregna di potenzialità.
Lavorò febbrilmente, tracciando la pianta dei piani. Disegnò la camera
da letto padronale, una suite principesca dotata di tutti i lussi per la nuova
padrona di casa, colei che una volta era l'assistente stipendiata. Collocò
due sedili nel vano della finestra, ciascuno di profondità sufficiente per
farvi l'amore guardando le montagne innevate. Disegnò un maestoso soffit-
to a capriate con travi ricavate da un'enorme quercia della Pennsylvania
che un mese prima era caduta sulla fattoria del nonno di Ken Rawlings du-
rante un forte temporale.
La casa padronale avrebbe avuto sei camere da letto: una per Ken e
Maritza, le altre per i loro quattro figli (due maschi e due femmine) e per la
tata.
Passò quindi alla nursery, tre stanze interconnesse in fondo al corridoio
che partiva dalla camera da letto padronale, pensate per numerose nascite e
per una balia. Aggiunse alte finestre, ispirate alla rotonda del Museo della
Rivoluzione di Cuba, e le dotò di persiane di legno per schermare la luce.
Poi schizzò in ogni stanza una serie di lucernari di vetro colorato che simu-
lassero le stelle cadenti.
Lavorò fino al minuto prima di uscire dalla sua stanza e di lasciare il De-
lano Hotel, appena in tempo per prendere il volo di mezzogiorno per Chi-
cago, dove aveva un altro progetto da completare.
Salì a bordo dell'aereo e si sedette al suo posto, abbandonandosi contro
lo schienale. Si sentiva magnificamente esausto, sfinito. E sprofondando
nel sonno, udì voci di ragazzi e ragazze che si chiamavano a vicenda, li vi-
de giocare a rincorrersi nel cortile da lui progettato e ridere mentre passa-
vano da un'arcata all'altra, intessendo perfette memorie infantili.
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Qualcuno bussò.
West Crosse andò alla porta della sua suite nel Palmer House Hotel a
Chicago, una meraviglia del XIX secolo con un atrio a tre piani di Louis
Pierre Rigai, paragonato spesso alla cappella Sistina. Lo faceva sentire in
perfetta pace perfino in una città ormai caratterizzata dal Millennium Park,
sede di una scultura lunga venti metri e alta dieci di un fagiolo e del mo-
struoso Jay Pritzker Pavilion di Frank Gehry, tutto acciaio inossidabile.
«Sono io.» Una voce di donna.
Crosse aprì la porta.
Chase Van Myer, ventidue anni, splendida nella sua blusa bianca e mi-
nigonna di pelle nera, era sulla soglia. «Posso entrare?»
Crosse annuì.
Lei entrò. La stanza era illuminata da decine di candele. «Tutte per me?»
chiese, guardandolo negli occhi.
«Sì.»
«È passato tanto tempo.»
Lui chiuse la porta e l'attirò a sé, accarezzandole i lunghi capelli neri.
«Non potevo più aspettare.»
Si baciarono a lungo.
Lui colse l'amaro residuo della cocaina sui suoi denti e sulle sue gengi-
ve. L'afferrò per i polsi e la spinse contro la parete, imprigionandole le
mani sopra la testa. Baciò le cicatrici che percorrevano la parte inferiore
degli avambracci, soffermandosi su quelle recenti. Le aprì la blusa e le ba-
ciò i seni nudi con il piercing. Poi la fece girare su se stessa bruscamente e
le scostò i capelli dalla nuca, per mordere la delicata rosa che vi era tatua-
ta.
Lei gemette. «Ho tanto bisogno di essere scopata.»
Lui le fece aprire le gambe e vi passò in mezzo le mani. Niente mutandi-
ne. Bagnata.
«Per piacere» disse lei.
Crosse sapeva che voleva indurlo a farla implorare, a umiliarla, ad am-
mettere che era una nullità, anziché un'ereditiera, che era orribile, anziché
bellissima. Le sollevò la gonna e le sculacciò il sedere finché non diventò
tutto rosso.
Lei arcuò la schiena per averne di più.
«Sai quello che voglio vedere» le sussurrò Crosse all'orecchio. La scostò
dalla parete e la sospinse verso la camera da letto.
Aveva disposto altre candele e sparso petali di rose bianche e pervinche
tutto intorno al letto a colonne. Le note del Messia di Händel uscivano
sommesse dallo stereo sul comodino. Quattro lacci di seta dorata giaceva-
no sul copriletto.
Lei si fermò accanto al letto, di fronte a lui, e si sfilò la blusa. Slacciò la
gonna, la lasciò cadere a terra e la scavalcò.
Crosse rimase a fissarla, senza battere ciglio.
Senza distogliere gli occhi da lui, lei salì sul letto, vi si distese e spalan-
cò le gambe.
Crosse percorse il suo corpo con lo sguardo, passando dal seno all'ad-
dome liscio all'ombelico con il piercing, al pube e soffermandosi sulla par-
te interna della coscia destra, dov'era tatuata la parola FOTTUTA. Era una
novità dei sei mesi in cui non si erano visti. Se, nei suoi momenti più tran-
quilli, si era chiesto se l'anima di lei potesse essere salvata, quelle sette let-
tere stampate sulla sua pelle lo convinsero una volta per tutte che ciò era
impossibile.
Crosse aveva conosciuto Chase Van Myer poco più di due anni prima,
mentre riprogettava gli interni della casa dei suoi genitori, una dimora del
1922 del valore di venti milioni di dollari in Astor Street, sulla costosa
Gold Coast di Chicago. Il padre di Chase, Scout, venture capitalist, consi-
gliere comunale e bonesman, gli aveva confidato che la figlia soffriva di
disturbo borderline di personalità. «Si taglia» gli aveva detto con aria di-
sgustata. «Dice che non prova nemmeno dolore. Entra ed esce da periodi
di disintossicazione da alcol e cocaina. Non è capace di controllarsi con gli
uomini. Fa parte della sua sindrome.»
«Gli uomini approfittano di lei?» aveva chiesto West Crosse.
«Chase è in uno stato di costante confusione con un uomo o con l'altro.
È disposta a suicidarsi per lui, lo odia, non vuole vederlo, poi non può vi-
vere senza di lui, è pronta a scappare con lui, ad avere un figlio da lui. È un
disastro.»
«È rimasta incinta?» si era informato Crosse.
Van Myer aveva abbassato lo sguardo. Aveva appena superato i cin-
quanta, ma sembrava molto più vecchio: in parte per via dei capelli grigi
sulle tempie e delle rughe intorno ai penetranti occhi azzurri, ma in parte
per via dello stress emotivo. «Ha avuto tre aborti» aveva ammesso.
Crosse aveva annuito gravemente.
«Si sa che è difficile da curare... questo disturbo borderline. Secondo il
suo medico, potrebbe anche non uscirne mai. Potrebbe peggiorare.»
Era peggiorata. Negli undici mesi in cui Crosse aveva lavorato al proget-
to Van Myer, Chase aveva sommato alla dipendenza dalla cocaina quella
dall'eroina, era stata messa incinta dal suo giovanissimo pusher e aveva
avuto il suo quarto aborto.
«Sa cosa penso? Noi siamo parte del problema» aveva detto una sera
Scout Van Myer a Crosse.
«E come?» aveva chiesto lui.
«Sostenendola, tanto per cominciare. Rendendole facile essere malata
finché abita qui. È giunta l'ora di un amore solido. Abbiamo qui due gio-
vanotti su cui fare un pensierino. La vicenda li ha coinvolti. Sono così co-
stantemente preoccupati per Chase che non riescono a concentrarsi né sul-
lo studio né sul lavoro. La odiano e la amano al tempo stesso. Chase riesce
a fare a pezzi chiunque.»
Crosse era deciso a cancellarla. Un tumore maligno va rimosso al più
presto, altrimenti, divora tutto. Ciò valeva per una cellula cancerogena nel
corpo, una persona cancerogena in una famiglia, una nazione cancerogena
nel mondo.
Lui andava già a letto con Chase e sapeva già quanto fosse malmessa.
Sospettava che il padre potesse esserne la causa, che avesse fatto sesso con
sua figlia quando era bambina. Ma la sua storia non importava più. Perché
lui non aveva più speranze per lei. Il resto della famiglia prosperava. Il
problema era lei adesso. «Penso che abbia senso farla vivere per conto su-
o» aveva suggerito Crosse a Van Myer. «Se deve mantenere un apparta-
mento e se stessa, può darsi che ne venga fuori.»
E così, nelle ultime settimane della fase di progettazione della dimora
Van Myer, era stato deciso che la camera da letto di Chase con le pareti ro-
sa, gli animaletti di peluche e i trofei del campo estivo, sarebbe diventata
una biblioteca e una sala da biliardo. Di lei non sarebbe rimasta traccia. Si
sarebbe trasferita in un monolocale a parecchi isolati di distanza, con l'af-
fitto pagato per sei mesi e gli auguri dei genitori.
Questo era il piano. Ma poco dopo che la stanza di Chase era stata svuo-
tata, lei aveva perso il controllo, si era fatta un'overdose, era stata arrestata
per prostituzione, si era fatta un'altra overdose, si era tagliata le braccia ed
era finita in terapia intensiva.
«Dobbiamo riprendercela» aveva detto il padre a Crosse.
«State già facendo un tentativo» aveva ribattuto Crosse.
«E se muore? Come potrei vivere, se succedesse una cosa simile?»
«Con la convinzione di aver cercato di salvarla.»
«Ci sono cose che le sono accadute... da bambina» aveva detto Scout
Van Myer.
«Non è più una bambina» aveva tagliato corto Crosse.
Ma la volontà dei Van Myer si era spezzata. I demoni che terrorizzavano
Chase, di qualunque natura fossero, adesso terrorizzavano anche loro. Le
avevano permesso di tornare in casa, avevano svuotato la biblioteca dei li-
bri e l'avevano riempita con i suoi ricordi infantili, il suo letto e opere d'ar-
te sempre più tetre: una testa di donna in gesso con chiodi al posto dei den-
ti, un bambino fatto a pezzi, il dipinto di una ragazza inchiodata a una cro-
ce.
Avevano lasciato che il diavolo entrasse nello spazio sacro creato da
Crosse, violando il disegno di Dio. E il tumore maligno si era diffuso. La
vita non era migliorata per Chase ed era peggiorata per il resto della fami-
glia.
I Van Myer avevano cominciato a litigare in continuazione. Gli altri loro
figli facevano a gara con Chase per attirare l'attenzione. Gabriela, sua so-
rella, era finita due volte al pronto soccorso per overdose di cocaina; il fra-
tello minore, un ragazzo di sedici anni, aveva abbandonato la scuola.
Nel corso dell'ultimo mese, Scout Van Myer aveva chiamato Crosse, un
bonesman come lui: era in preda al panico nel vedere la propria vita andare
in pezzi e incapace di scorgere una via d'uscita dal labirinto che aveva con-
tribuito a costruire.
Adesso c'era un'unica via d'uscita.
Crosse si avvicinò al letto, prese uno dei lacci di seta dorata.
Chase sorrise.
Lui le legò saldamente il polso destro a una colonna del letto.
Lei allungò la mano sinistra verso l'altra colonna.
Crosse le legò il polso sinistro, poi la caviglia sinistra, quindi la destra.
«Prova a liberarti» le disse senza emozione. Adesso era un chirurgo. Un
soldato del Signore. Non provava alcuna eccitazione, né dolore, né paura,
né pietà.
Chase tirò con forza, ma braccia e gambe restarono quasi immobili.
«Bene» disse Crosse. «Sta' ferma.»
Lei obbedì.
Crosse si slacciò la camicia e se la sfilò, sciolse la cintura, si tolse i pan-
taloni, poi le mutande.
Lei lo fissava con gli occhi spalancati.
Lui si avvicinò al comodino, aprì un cassetto e ne estrasse una sciarpa di
seta bianca che trasformò in una benda per gli occhi.
Lei sollevò la testa dal cuscino.
Lui le annodò la benda intorno alla testa. «Ci vedi?» le chiese.
«No.»
Crosse frugò di nuovo nel cassetto, prese un flacone di cloroformio e
un'altra sciarpa bianca.
Versò il liquido sulla stoffa e gliela premette sul naso e sulla bocca.
Lei oppose una debole resistenza prima di sprofondare nel sonno.
Crosse era certo di conoscere il motivo per cui lei non aveva opposto
maggiore resistenza: Chase Van Myer sapeva meglio di chiunque altro che
la sua vita era fonte più di dolore che di gioia per lei e per la sua famiglia e
sapeva che non c'era via d'uscita. Perché, se no, avrebbe tentato più volte il
suicidio?
Crosse frugò per la terza volta nel cassetto, estraendone un laccio emo-
statico e una siringa piena di succinilcolina. Legò il laccio al braccio di
Chase, nel quale poi iniettò un milligrammo del potente farmaco. Entro
quindici secondi vide le braccia e le gambe, poi il volto e il collo di Chase
cominciare a contrarsi in spasmi scomposti, a mano a mano che la succi-
nilcolina agiva implacabilmente sui suoi muscoli. Sapeva che anche il cuo-
re e il diaframma si stavano contraendo sempre di più. Il corpo di Chase
era imprigionato in una morsa fatale, che nulla avrebbe allentato.
Crosse non era commosso. Era sicuro che ciò che stava facendo era al
servizio della libertà e questo lo autorizzava a fare quant'era necessario con
la mano ferma e la coscienza limpida.
Nel giro di un minuto, i muscoli di Chase erano talmente esausti e il suo
organismo era talmente intossicato dagli scarti metabolici dello sforzo fisi-
co che lei giaceva completamente immobile, paralizzata. Di tanto in tanto,
il suo cuore aveva un fremito, senza però riuscire a pompare sangue. I suoi
polmoni non avrebbero scambiato aria. Il suo sistema respiratorio e quello
circolatorio erano collassati. Chase stava soffocando in silenzio.
Crosse le slegò braccia e gambe e le tolse la benda dagli occhi. Sfilò il
copriletto da sotto il corpo lasciandola nuda su un telo di plastica che ave-
va sistemato lì prima che lei arrivasse. Quindi, distese i lembi del telo in
modo che coprisse tutto il letto e buona parte del tappeto da entrambi i lati.
Poi spinse il suo vecchio baule da viaggio Louis Vuitton accanto al letto
e ne aprì un cassetto, contenente un bisturi, una sega chirurgica, divaricato-
ri e pinze. Da un altro cassetto prese una tunica di lino bianco perfettamen-
te stirata e la indossò. Si inginocchiò accanto al letto. Chiuse gli occhi e
pregò:
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«Voglio interrogare uno di loro, o entrambi, mentre sono qui» disse Cle-
venger a Whitney, seguendo con lo sguardo i Van Myer che si allontana-
vano con Jameson. «Si comportano troppo bene.»
«Sembrava che stessero dando l'addio a una prozia che ha lottato per
cinque anni contro il cancro» commentò Whitney. «Farò una telefonata e ti
combinerò l'incontro. Dovrebbero essere alla centrale tra un paio d'ore, ma
forse è meglio tu passi più tardi a casa loro. Saranno più disponibili.»
«Abbiamo tempo, allora» disse Clevenger. «Vuoi che ci prendiamo un
caffè e parliamo un po' della faccenda?»
«Certo. Dove?»
«L'espresso che ti servono in camera al Palmer House è il migliore della
città.»
Whitney sorrise. «Non ti arrendi mai.»
«Mai, se l'idea è grande.»
«Non sono sicura che noi siamo una così grande idea.»
"Non sono sicura" era un progresso. «Perché non fai quella telefonata
mentre andiamo al Four Seasons?»
Lei scosse il capo. «Niente da fare.»
Sembrava irritata. Clevenger tentò di riprendere in mano la situazione.
«So che non dovrei fare pressioni...»
«Facciamo il Ritz e l'affare è concluso» lo interruppe Whitney.
Raggiunsero l'hotel in taxi. Clevenger scelse una suite al ventiduesimo
piano, ma non riuscirono ad aspettare di raggiungerla. Non appena le porte
dell'ascensore si chiusero, erano l'uno nelle braccia dell'altra, intenti a ba-
ciarsi e a mordersi a vicenda labbra, collo, orecchie e ad allungare le mani
verso parti dei rispettivi corpi che non toccavano da mesi.
«Ti amo» le sussurrò Clevenger all'orecchio.
«Ti amo» replicò lei.
«Posso mettere noi due al primo posto.»
Lei lo scostò piano. «Non promettere cose che...»
Clevenger la baciò a lungo, poi si portò l'indice alle labbra.
Lei gli afferrò il polso e si infilò quel dito in bocca.
Le porte si aprirono. Clevenger e Whitney uscirono dall'ascensore e si
avviarono verso la suite, dandosi piccole spinte e muovendosi a passi di
danza.
Fecero l'amore e tutto sembrò nuovo e al tempo stesso familiare. Un'ine-
briante combinazione. Whitney seppe resistere. Clevenger seppe evitare di
sopraffarla troppo velocemente. Furono in armonia per molto tempo. E se
un sottofondo di tristezza si insinuò nella loro passione fu solo perché con-
dividevano l'inespressa convinzione che tra loro non c'era mai stato sin-
cronismo.
Poi rimasero distesi l'uno accanto all'altra in morbide vestaglie di finis-
simo cotone, parecchi piani sopra la realtà che li identificava come il mi-
glior baluardo contro un killer che stava imperversando con la sua carnefi-
cina. Clevenger rappresentava ancora per Billy Bishop la migliore oppor-
tunità di uscire dal carcere e rimanere vivo e Whitney aveva ancora biso-
gno di ricevere da lui cose che forse non era in grado di darle.
«Sarebbe bello poter fermare il tempo fuori da questa stanza e rimanere
qui anche solo un paio di giorni» osservò lei.
Clevenger le sfiorò una guancia. «Un paio di anni.»
Lei si scostò, guardò di sottecchi la sua mano, poi la toccò. «Stai tre-
mando.»
Clevenger non beveva da una decina di ore. «Oggi non ho mangiato»
disse.
Lei lo squadrò. «Sei in crisi di astinenza?»
«Sto bene.»
«Cristo!» Whitney si alzò e cominciò a vestirsi.
«Senti, non ho permesso che la cosa mi sfuggisse di mano. Un paio di
drink al giorno, per un mese, di tanto in tanto. L'ho superato e adesso sto
bene.»
«Concedimi una pausa» disse lei, abbottonandosi la camicetta.
Clevenger si tirò su a sedere. «Che ne dici di concederla tu a me? Ho
smesso quando me l'hai chiesto. Ce l'ho fatta, senza problemi. Non mi so-
no lasciato sopraffare.»
Lei si infilò le scarpe. «E hai avuto il coraggio di dirmi che potresti met-
tere noi due al primo posto?»
Clevenger si alzò e le si avvicinò. «Dicevo sul serio.»
Whitney distolse lo sguardo.
«Quando avrò finito qui, torniamo a Washington insieme. Possiamo par-
larne a cena. Bistecche e Diet Coke.»
Nessuna risposta.
«Neanche un sorso da questo momento. Punto.»
Lei lo guardò.
«E dài» la esortò Clevenger. «Prenotiamo il volo.»
Passarono alcuni preziosi secondi. «E va bene, se è ciò che vuoi. Ma an-
cora un drink e io non rispondo più alle tue chiamate, non ceno più con te,
non ti do più lavoro. Si chiama "ultima occasione", nel caso in cui tu non
ne abbia mai sentito parlare. Sei sicuro di volerti assumere l'impegno da
adesso?»
«Mi va bene da adesso.»
«Sono seria, Frank. Se hai bisogno di sei mesi per rimetterti in sesto,
prenditeli.»
Lui la guardò fisso. «Mi va bene da adesso» ripeté.
«Prenoto il volo» tagliò corto Whitney. «Ce n'è uno alle 17.45, il che ci
lascia il tempo di fare tutto quello che dobbiamo fare qui.»
Lui si infilò i jeans, mentre lei radunava le sue cose.
Whitney si avviò alla porta, si fermò e si voltò. «Ancora una cosa, di
tutt'altro genere: hai presente ciò che dicevi prima riguardo al killer che ha
una visione morbosa dei "valori familiari"?»
«Sì.»
«E dell'assassinio che è "di moda" a Washington?»
Clevenger annuì.
«Teniamo per noi queste considerazioni. È dinamite politica. Qualcuno
potrebbe servirsene contro l'Amministrazione. Noi dobbiamo fermare un
killer, non danneggiare il presidente.»
«Parli da vera politica.»
«Lo considero un complimento.»
20
Clevenger rimase un minuto davanti alla dimora dei Van Myer in Astor
Street, sbalordito dalla sua bellezza. L'edificio era maestoso: una facciata
aggettante in mattoni coperta di edera, dietro un'alta recinzione di ferro
battuto con pilastri di granito ogni sei metri. Ma la vera magia cominciava
all'entrata, incorniciata dall'imponente scultura di due alberi bronzei quasi
spogli i cui rami formavano un arco sopra un cancello di bronzo munito di
videocamere di sorveglianza, al di là del quale un vialetto di calcare pun-
teggiato di foglie anch'esse di bronzo conduceva a gradini di granito di ac-
cesso alla porta principale di bronzo e vetro sagomato con foglie incise.
L'impressione era quella di un classico edificio del primo Novecento tra-
sformato in un'opera d'arte mistica.
Clevenger stava per premere il pulsante del citofono sul cancello quando
il suo cellulare si mise a suonare. Era North Anderson. «Che c'è?»
«Ho qualcosa.»
«Dimmi.»
«Il grattacielo di Jeff Groupmann sembra uno di quei negozi dove si tro-
va di tutto. Oltre a Sidney Stimson, la zia della vittima dodicenne del Mon-
tana, un altro degli investitori è stato Ron Hadley. Ha perso i cinque milio-
ni di dollari che aveva investito tramite una società in accomandita sempli-
ce con Bruce Grimes.»
«Quel Bruce Grimes?» chiese Clevenger.
«Il ministro dell'Energia durante il primo mandato del presidente Buck-
ley.»
«Hadley era un membro del Congresso. Dev'essere questo il legame con
Grimes.»
«Si sono anche laureati insieme» aggiunse Anderson. «Yale, classe
1963. E c'è dell'altro. Sidney Stimson ha mantenuto il suo cognome da nu-
bile. Suo padre era presidente del consiglio di amministrazione della banca
di investimenti Brown Brothers Harriman. Anche lui laureato a Yale. E per
sette anni è stato rettore dell'università.»
«E Groupmann?»
«Classe 1971.»
Clevenger diede un'occhiata ad Astor Street fiancheggiata da dimore di
arenaria e mattoni. «Tre vittime legate alla stessa università.»
«Almeno tre» disse Anderson. «Sto andando a New Haven per una pic-
cola ricerca nell'archivio dei laureati.»
«Io sto per interrogare i Van Myer. Scoprirò se anche qui c'è un nesso
con Yale.»
«Com'era la scena del crimine al Millennium Park? Molto brutta?»
«Il nostro uomo ha lasciato la figlia ventiduenne dei Van Myer legata a
una poltrona di prima fila al Jay Pritzker Pavilion. Un'altra lezione di ana-
tomia. Gli occhi.»
«Gesù.»
«Fammi sapere quello che trovi a Yale.»
«D'accordo.»
Chiusero la comunicazione. Clevenger spense il cellulare e premette il
tasto del citofono.
«Sì? Chi è?» chiese una voce maschile.
«Frank Clevenger. Ho un appuntamento con il signore e la signora Van
Myer.»
Il cancello si aprì con un ronzio.
Clevenger si diresse alla porta principale.
Un minuto dopo venne ad aprirgli un aitante uomo sui cinquantacinque
anni, in abito blu scuro e cravatta giallo oro. Aveva gli occhi di color ca-
stano chiaro dallo sguardo affabile, i capelli sottili e brizzolati e la pelle
perfettamente abbronzata. «Si accomodi, prego» disse.
Clevenger entrò in un'anticamera che era in realtà un grande atrio incor-
niciato da un'imponente scalinata a quattro rampe. Alzando gli occhi, vide
il soffitto della casa, una cupola di vetro con foglie cadenti incise.
L'uomo gli tese la mano. «Harold Burns» si presentò con un ampio sor-
riso, che svelò denti candidi. «Sono l'avvocato dei signori Van Myer. Pia-
cere di conoscerla.»
«Frank Clevenger» rispose lui, stringendo la mano di Burns. Notò un
adolescente e una giovane di circa vent'anni che passavano sul pianerottolo
del secondo piano con due grossi scatoloni.
«Da questa parte, dottore» fece strada Burns. «La stavamo aspettando
nello studio di Scout.»
Clevenger seguì l'avvocato lungo un ampio corridoio con volta a botte,
pareti rosso cupo e boiserie d'acero. Fotografie in bianco e nero incornicia-
te mostravano i Van Myer con una schiera di celebrità e uomini politici,
compreso l'ex sindaco di Chicago Harold Washington, l'allenatore dei Chi-
cago Cubs Dusty Baker, il cantante country Garth Brooks, l'ex astronauta e
senatore dell'Ohio John Glenn e l'ex senatore dell'Illinois Paul Simon. Se-
parate dalle altre, tre fotografie dei Van Myer in abito da sera con il presi-
dente Buckley e la first lady.
«Non sapevo che il signor Van Myer e il presidente fossero amici» os-
servò Clevenger.
«Più che amici» disse Burns sorridendo. «Scout ha partecipato all'ultima
campagna elettorale nell'Illinois per il presidente Buckley. Forse ricorderà
che ha perso per nove punti.»
Scout e Carolyn Van Myer erano seduti su un divano lungo una parete
dello studio quando Burns e Clevenger entrarono. Si alzarono.
«Penso che vi conosciate già» disse Burns.
«Ci conosciamo» confermò Clevenger. Strinse la mano ai Van Myer.
Burns prese posto su una delle due poltrone rivestite di stoffa ricamata di
fronte al divano e fece cenno a Clevenger di accomodarsi sull'altra.
Clevenger si sedette. Si guardò intorno, la stanza doveva essere tra i ses-
santa e i settanta metri quadrati. Sulla parete alle sue spalle, dietro la scri-
vania di Scout Van Myer, una finestra strombata si affacciava su un prato e
delle aiuole ben curati e un grande telescopio, sistemato in permanenza di
fronte a essa, era puntato al cielo. In ciascuna delle altre tre pareti c'era una
nicchia con ripiani dal pavimento al soffitto pieni di libri. In una delle nic-
chie, poi, c'era un dipinto su tela non finito sopra un cavalletto; in un'altra,
due grandi poltrone che guardavano un'elaborata scacchiera d'argento; nel-
la terza, un teatrino con sipario di velluto e marionette sospese su un pal-
coscenico di lucido legno nero.
«Un ambiente interessante» commentò Clevenger.
«I miei interessi» spiegò Scout Van Myer. «È stato progettato per te-
nermi in contatto con alcuni degli svaghi che amo.»
«La pittura, evidentemente. Lei manovra anche le marionette?»
«È molto più facile che manovrare le persone» rispose Van Myer con un
rapido sorriso. «Quanto agli scacchi, li amavo da ragazzo, poi li ho abban-
donati del tutto quando mia madre è morta. Li ho ripresi un anno fa. Così
come l'astronomia.»
La battuta di Van Myer sul manovrare le persone e la sua capacità di
parlare dei passatempi mentre sua figlia era stata appena uccisa erano in li-
nea con le peculiari reazioni al dolore dei Groupmann e degli Hadley.
«Spero che non le dispiaccia se il signor Burns rimane con noi» disse
Scout Van Myer.
Clevenger sapeva che le grandi famiglie erano rappresentate da un avvo-
cato in qualunque discussione che avesse implicazioni legali. «Non mi di-
spiace affatto» disse. Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Desidero esprimervi
il mio rincrescimento per la perdita che avete subito».
«Grazie» disse Scout Van Myer.
Carolyn Van Myer annuì con aria grave.
«In che cosa possiamo esserle utili?» chiese Van Myer. «Se non mi sba-
glio, lei sta preparando un profilo psicologico del killer di Chase.»
Clevenger rimase colpito dalla disinvoltura con cui le parole "killer di
Chase" uscirono dalla bocca di Scout Van Myer. La maggior parte dei ge-
nitori che avevano avuto un figlio assassinato riuscivano a malapena a
pensarci, figurarsi a parlarne. «Sì, è così» rispose. «E per farlo ho bisogno
di sapere il più possibile su sua figlia.»
«Abbiamo già fornito alla polizia un elenco degli uomini con cui aveva
rapporti... perlomeno quelli di cui eravamo a conoscenza» intervenne
Carolyn Van Myer.
«Spacciatori di droga, alcuni di loro» aggiunse Scout Van Myer. «E
chissà quali altri topi di fogna...»
«Criminali. Tutti quanti» precisò Burns.
Clevenger aveva invitato i Van Myer a parlare della figlia ed entrambi
avevano cominciato con la sua storia sessuale, anziché con le sue qualità, i
suoi sogni o l'amore per lei. «Qual era il problema di Chase?» chiese con
tutta la delicatezza possibile. «Era incapace di controllarsi?»
«Per dirla in parole povere» rispose Carolyn Van Myer. «E adesso...»
Distolse lo sguardo, scuotendo la testa.
Scout Van Myer posò una mano sulla gamba della moglie.
«Per quale ragione, secondo lei?» volle sapere Clevenger.
«Per quale ragione, cosa?» ribatté Van Myer.
«Per quale ragione si comportava così?» domandò Clevenger.
«La droga» rispose Carolyn Van Myer, tornando a guardare Clevenger.
«Ma c'era ben altro» aggiunse il marito. «Chase soffriva di disturbo bor-
derline di personalità. Mi è stato detto che droga e... sconsideratezza sono
tipiche in soggetti del genere.»
Clevenger annuì. «Disturbo borderline di personalità è una diagnosi,
un'etichetta» spiegò. «Molte persone con una simile diagnosi ricorrono a
sostanze fuori legge. Si smarriscono in rapporti ad alto tasso di droga. Ma
lo fanno per sottrarsi ad accessi di depressione e ansia.» Si protese in avan-
ti. «Vorrei sapere se uno di voi sa perché vostra figlia aveva problemi a
controllare le proprie emozioni.»
«Gli altri nostri figli non avevano problemi» disse Carolyn Van Myer.
«Finché non hanno visto come si comportava Chase.»
Se era fuori dal comune che il padre di Chase parlasse del killer di sua
figlia, era stupefacente che la madre attribuisse alla defunta la colpa di tut-
to quello che andava storto in famiglia. I genitori delle vittime di assassi-
nio di solito idealizzavano i figli morti, descrivendoli come "angeli",
"troppo buoni per questo mondo".
Intervenne Burns. «Penso che stiamo uscendo dal seminato» disse a
Clevenger. «Le sarebbe utile se i signori Van Myer fornissero anche a lei
un elenco degli uomini che Chase frequentava? Può darsi che lei scopra
che qualcuno di loro corrisponde al profilo di un serial killer.»
Burns stava tentando di deviare l'attenzione di Clevenger dai Van Myer.
Il che significava non che loro erano colpevoli di alcunché, ma che Burns
si sentiva in dovere di proteggerli.
Clevenger non gettò la spugna. «L'elenco è importante,» disse «ma sto
tentando di arrivare a qualcos'altro.» Guardò i coniugi Van Myer. «Uno di
voi due ha idea del perché Chase fosse attratta da quel tipo di uomini, o
perché avesse una così bassa opinione di se stessa da farsi tatuare una pa-
rolaccia sulla coscia?»
«Non ne abbiamo idea, glielo assicuro» rispose Scout Van Myer. Un
lampo di aggressività gli balenò negli occhi. «Ne deduco che lei è un freu-
diano.»
Clevenger non si incasellava in nessuna delle scuole di pensiero in cam-
po psichiatrico. Ma non era quello il punto. Scout Van Myer aveva citato
Freud per screditarlo, per suggerire che, tutto preso da teorie psicologiche
relative al passato, era incapace di cogliere la verità del momento. «Penso
che le radici di una sofferenza come quella di vostra figlia possono essere
molto profonde» disse. «E ritengo che per farle cambiare rotta uno avrebbe
dovuto scavare fino a raggiungerle. Suppongo che Freud avrebbe detto lo
stesso.» Guardò Scout Van Myer negli occhi, cogliendovi un barlume di
colpa e preoccupazione. Non volle lasciarselo sfuggire. «Ma capisco il suo
punto di vista. Adesso non ha senso rivangare vecchie storie. Per piacere,
mi dica di più sugli uomini che Chase frequentava.»
I Van Myer citarono una serie di personaggi sgradevoli.
Clevenger prese appunti, fece domande. Di tanto in tanto, volgeva lo
sguardo alla parete accanto a lui, tappezzata di fotografie, lettere, diplomi,
premi incorniciati. Gli ci vollero circa quindici minuti per trovare quello
che cercava. Persa in mezzo alle altre, c'era una piccola foto in bianco e
nero della Harkness Tower, il più noto edificio dell'università di Yale. La
torre gotica appariva sulla testata dello «Yale Herald». Conteneva un fa-
moso carillon a cinquantaquattro campane, quotidianamente suonato dai
membri di un club universitario fondato a tale scopo.
Quando i Van Myer ebbero esaurito l'elenco degli amanti di Chase,
Burns si accinse a metter fine alla riunione. «C'è qualcosa che le risulta già
chiaro, dottore, o vuole tornare su qualche punto?»
«Ho bisogno di un po' di tempo» disse Clevenger. «Penso di avere pa-
recchio materiale da cui partire.»
Scout Van Myer annuì.
Burns si alzò.
Clevenger si alzò a propria volta e strinse la mano a Burns e ai Van
Myer. Accennò alla fotografia della torre. «A proposito, quella è la Har-
kness?» chiese.
«Be', sì» rispose Scout Van Myer.
«Lei è stato a Yale?» chiese Clevenger.
«Mio padre.»
«Un'estate vi ho tenuto alcune lezioni sulla sanità pubblica» raccontò
Clevenger. «Gran bel posto.»
«Noi lo difendiamo a spada tratta» disse Scout Van Myer. «Ha avuto un
ruolo di primo piano nella vita di mio padre. Capitano della squadra di foo-
tball, bonesman. Gli amici che ha conservato erano quelli che si era fatto
lì.»
«Era particolarmente affezionato alla torre?» volle sapere Clevenger.
«Diede una mano a raccogliere i fondi necessari per il restauro.»
«Degna causa» commentò Clevenger. «Ho sentito le campane.»
«Papà ha promosso il restauro di vari edifici importanti» disse Scout
Van Myer. «Chiese, per lo più. Aveva la passione dell'architettura. Una
cosa che ci accomunava.»
«L'ho capito dalla sua casa» osservò Clevenger.
«La ringrazio di averlo detto.»
«La prego di telefonarci se le serve qualcosa» intervenne Carolyn Van
Myer.
"A meno che non mi servano informazioni sull'infanzia di Chase," pensò
Clevenger "o particolari della sua vita emotiva." «Lo farò» disse.
Burns accompagnò Clevenger verso l'atrio. Tre scatoloni pieni di anima-
li di peluche, trofei e quelli che sembravano progetti artistici erano allineati
accanto alla porta d'entrata.
Clevenger udì dei passi al piano di sopra e alzò la testa. L'adolescente
che aveva visto prima portò un altro scatolone fuori da una stanza al se-
condo piano e lo lasciò nel corridoio.
«Qualcuno sta traslocando?» chiese Clevenger.
«Tristan e Gabriela stanno cercando di aiutare i genitori a superare il
momento» spiegò Burns.
«Il fratello e la sorella di Chase?» chiese Clevenger.
«Sì.»
«Come li aiutano?»
«Impacchettando le cose di Chase» rispose Burns, incapace di pronun-
ciare quelle parole con il tono neutro che probabilmente aveva sperato.
«Impacchettando...» ripeté Clevenger, stupito. «Non ha senso lasciare in
giro brutti ricordi, immagino.» Frugò in uno scatolone, tirò fuori il dipinto
di Chase raffigurante una ragazza inchiodata a una croce e rimase a guar-
darlo per parecchi secondi. Gli disse più cose sul conto della defunta di
quante gliene avessero dette i suoi genitori. Rimise il dipinto nello scatolo-
ne. «La stanza di Chase è al piano di sopra?» chiese a Burns.
«Sì.»
«Posso darle un'occhiata?»
Burns esitò.
«Ci metterò un minuto» insistette Clevenger.
«Suppongo...»
«Mi faccia sapere se sto approfittando troppo dell'ospitalità» disse Cle-
venger, oltrepassandolo e avviandosi su per le scale.
Burns lo seguì.
Il fratello di Chase, Tristan, stava riempiendo l'ennesimo scatolone
quando Clevenger entrò nella stanza, un ambiente maschile con le pareti
rivestite di pannelli di abete e il soffitto di travi dello stesso legno.
Clevenger si presentò al ragazzo, un quindicenne magro con i capelli a
spazzola e due anelli d'argento a ciascun orecchio. Gli ricordò Billy. «Una
stanza insolita per una ragazza» commentò.
«Era di Chase, poi non lo è stata più, poi è tornata a esserlo» disse Tris-
tan. «Però non l'hanno mai rimessa com'era.»
«Chase si era trasferita in un appartamento per conto suo, mentre la casa
veniva ristrutturata» spiegò Burns. «La sua stanza in quel periodo era di-
ventata la sala da biliardo. Ma lei non riusciva a cavarsela da sola ed è vo-
luta tornare qui.»
"Scena del crimine" pensò Clevenger. «Le persone si affezionano ai luo-
ghi» disse.
«Che fine faranno tutte queste cose?» chiese Clevenger a Tristan.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Lo deciderà papà.»
Un fratello che non sapeva o sembrava non curarsi di dove sarebbero
andate a finire le opere d'arte della sorella assassinata. «Sono certo che le
terrà da conto» disse Clevenger.
Tristan si strinse di nuovo nelle spalle, prese la testa di donna in gesso
con i chiodi al posto dei denti fatta da Chase e la mise nello scatolone.
«Tua sorella Gabriela non ha più voglia di aiutarti?» chiese Clevenger.
«Ha già fatto molto» rispose Tristan. «Adesso è con i suoi amici.»
«I giovani cercano sostegno dove possono» si affrettò a dire Burns.
«L'ho constatato con i miei figli.»
«Se hanno la fortuna di trovarlo» ribatté Clevenger.
«Allora, abbiamo finito?» chiese Burns.
Clevenger annuì. «Grazie, Tristan.»
«Di niente» ribatté il ragazzo.
«Mi dispiace molto per tua sorella.»
«Grazie.» Prese dal letto della sorella il piumino rosa e lo buttò nello
scatolone aperto.
Clevenger e Burns scesero al pianoterra.
«Grazie per l'aiuto» disse Clevenger, allungandogli la mano.
Burns gliela strinse.
Clevenger notò l'anello con sigillo tipico dell'università di Yale con l'i-
scrizione ebraica Urim v'Tumim e la sua traduzione latina, Lux et Veritas.
La più diffusa traduzione inglese era «luce e verità», ma molti studiosi so-
stenevano che fosse più esatto «luce e perfezione». Nella Bibbia le parole
figurano sull'efod del sommo sacerdote del Tempio. «Dunque, anche lei è
stato a Yale» disse Clevenger accennando all'anello.
«Laurea e specializzazione in legge» disse Burns. «Non sono riusciti a
liberarsi di me.»
«Ci torna spesso?»
«Ogni volta che posso» rispose Burns. «Da molti punti di vista, non l'ho
mai lasciata. Sono diventato gran parte di quello che sono stando là den-
tro.»
21
22
West Crosse era nella sua casa di Thunder Bay, Ontario, in attesa che
Nightly News cominciasse. Aveva telefonato a Heather Rawlings e le ave-
va detto che voleva incontrarla lì il giorno dopo per mostrarle un modello
provvisorio in scala della loro casa nel Montana. Le aveva chiesto di tenere
segreto il suo viaggio nell'Ontario in modo che lui potesse sorprendere suo
marito grazie all'acquisizione di altre informazioni sulla sua vita da inte-
grare nel progetto conclusivo.
Crosse riteneva che la donna avrebbe mantenuto il segreto, ma proba-
bilmente non importava se l'avesse violato.
Ken Rawlings non l'avrebbe mai detto alla polizia.
Crosse era sempre stato attento a evitare sospetti. Era paziente, procede-
va passo dopo passo, a volte aspettando anni dopo che un edificio era stato
costruito, per completare il suo progetto riguardante la famiglia che lo a-
vrebbe abitato. Ammantava di segretezza la propria attività, servendo solo
i suoi confratelli bonesmen e le loro famiglie.
Ciononostante, ogni uomo o donna che lui aveva liberato avrebbe potuto
focalizzarsi su di lui come sospettato in occasione della morte del proprio
"caro". Nessuno lo aveva fatto. Inconsciamente, erano tutti suoi sodali.
Crosse esprimeva i loro desideri segreti. Pensare a lui come a un killer sa-
rebbe stato come pensare la medesima cosa di se stessi.
Non era quello, in fin dei conti, il modo in cui moltissime persone vive-
vano? Appaltando ad altri gli aspetti peggiori dell'esistenza? Persone che
mangiavano carne, ma che non avrebbero mai cacciato. Persone che a-
vrebbero voluto essere recuperate dalle squadre speciali se fossero state
rapite, ma che non avrebbero mai posseduto armi con cui difendersi. Per-
sone che amavano riempire i loro SUV di benzina super, ma che si sareb-
bero tirate indietro all'idea di fare una guerra per averla. Persone alle quali
piaceva che la loro patria fosse sicura, ma che non avevano il coraggio di
torturare i terroristi che progettavano di distruggerla.
Non era forse questa la lezione di Cristo? Non era morto solo sulla croce
per compiere solo l'opera di Dio?
Ken Rawlings avrebbe anche potuto sapere che sua moglie aveva incon-
trato West Crosse la notte in cui era morta, ma l'avrebbe tenuto nascosto
alla polizia, anche se ciò avesse significato dimenticare ciò che sapeva.
Avrebbe protetto il suo amico, anzi gli sarebbe stato più vicino in una
stanza segreta del suo cuore.
E se Rawlings fosse stato un Giuda e avesse tradito Crosse, sarebbe stato
comunque troppo tardi per impedire che lui attuasse il suo grandioso pia-
no.
Crosse si era già premurato di chiamare la Casa Bianca e di combinare
una visita di lì a due giorni per cominciare a farsi un'idea delle dimensioni
dell'ala est e incontrare di nuovo il presidente e la first lady.
Udì la sigla che annunciava l'inizio di Nightly News. Comparve il logo
dell'NBC.
«Oggi a Chicago,» esordì l'annunciatore, mentre sullo schermo appariva
un'immagine dello skyline di Chicago «la sesta, atroce uccisione di un
membro di un'importante famiglia americana... Questa volta, una donna di
ventidue anni...» Fotografia di Chase Van Myer. «Il suo corpo è stato la-
sciato in un famoso edificio americano progettato dal noto architetto Frank
Gehry.» Fotografia del Jay Pritzker Pavilion.
Crosse provò un moto di disgusto alla vista di quella struttura, un cancro
maligno di acciaio inossidabile che invadeva la terra, con sfrenate pareti
nastriformi che si piegavano le une sulle altre; una disordinata follia tenuta
insieme da un nudo scheletro di tubi d'acciaio. Come tanti edifici deco-
struttivisti, anche quello di Gehry si fondava su assi storti, forme scompo-
ste, facciate ricurve, volumi spaziali che si mescolavano apparentemente
senza limiti. Un cancro.
Non c'era da meravigliarsi se l'opera di Gehry era giunta a simboleggiare
la frammentazione della vita contemporanea, un ordine sociale privo di re-
strizioni. L'anarchia. Tutta l'architettura di Gehry parlava di lui. Dell'amore
di sé. Della sterile gioia di un radicale di stravolgere la tradizione.
Crosse amava creare la struttura, non farla a pezzi. La sua opera era al
servizio dei bisogni dei suoi clienti, non dei suoi personali. Sapeva che
rendere le persone libere di vivere vite più complete non aveva niente a
che fare con l'incurvare le pareti delle loro case. Significava trovare la
struttura che rifletteva le loro intime verità e poi realizzarla a qualunque
costo. Significava battersi per un'architettura che replicasse la stupefacente
combinazione di forma e funzione presente nell'anatomia umana.
Libertà significava tracciare giusti confini, non vivere senza di essi.
Scout Van Myer apparve sullo schermo, in una conferenza stampa da-
vanti al cancello di casa sua, circondato dalla moglie Carolyn, dai figli e da
parecchi agenti in uniforme. «Chiunque abbia fatto questo a mia figlia sarà
consegnato alla giustizia» disse con ottimismo. «Nell'attesa, voglio ringra-
ziarvi di essere qui oggi e di ricordarci nelle vostre preghiere domani.»
Crosse sorrise. Van Myer sembrava forte e fiducioso, in pace. E Crosse
riteneva che non fosse casuale il fatto che avesse radunato intorno a sé la
moglie e i figli a beneficio delle telecamere: intendeva presentare la fami-
glia Van Myer, ricostituita, liberata dalla tirannide della malattia di sua fi-
glia.
Crosse si sentiva a propria volta in pace. Quando uno fa la cosa giusta -
anche se è difficile da fare, anche se il suo prezzo è una vita umana - può
dormire bene la notte, come un felice e stanco soldato del Signore.
Cambiò emittente, passando dall'ABC alla CBS, alla CNN: tutte erano
concentrate su Chase Van Myer, sulla mano di Dio.
Spense il televisore.
Non voleva morire, ma sentiva che la sua vita stava per avvicinarsi alla
conclusione e che chiedere più tempo di quanto gli occorresse per portare a
termine il suo capolavoro sarebbe stato chiedere troppo. Pensò al discorso
in cui Martin Luther King presagiva la propria fine. «Sono stato sulla cima
della montagna» aveva detto. «Come chiunque, mi piacerebbe vivere a
lungo: la longevità ha i suoi pregi. Ma adesso non mi curo di questo. Vo-
glio fare soltanto la volontà di Dio.»
Anche Crosse era stato sulla cima della montagna. Aveva visto la verità
di Dio e la portava nel cuore. Ed era pronto a morire per servirla.
Andò in bagno, prese un rasoio a mano e lo aprì. Si guardò nello spec-
chio, spostando lentamente gli occhi sulle sue ampie spalle, sui suoi petto-
rali d'acciaio, sul suo addome piatto. Allargò le braccia e aprì leggermente
le gambe, trasformandosi nella divina forma umana di Leonardo da Vinci.
Poi lentamente si tagliò da una spalla all'altra, dal collo all'inguine, a for-
mare una croce, quanto bastava a far uscire il sangue.
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15 agosto 2005
Clevenger era appena salito a bordo del volo notturno per Boston quan-
do Whitney lo chiamò sul cellulare e gli disse di scendere dall'aereo. Rac-
colse le sue cose e si avviò verso l'uscita. «Che cosa succede?» le chiese.
«David Groupmann ha l'alibi perfetto» disse lei.
«Eh? Che cosa succede?» chiese di nuovo Clevenger, scendendo la sca-
letta.
«C'è un altro cadavere, nel Michigan. Una donna. Stando al medico le-
gale, è stata uccisa ore, non giorni, fa.»
«In quale parte del Michigan?»
«Lago Superiore.»
«Il cadavere è affiorato dall'acqua?»
«Non è lo stile del nostro uomo. La vittima galleggiava vicino alla riva,
legata a una croce di legno, nuda. Aveva chiodi d'argento piantati nelle
mani, nei piedi e tutto il resto. E lui ci ha lasciato un altro messaggio.»
«Quale?»
«Sulla croce è incisa una vecchia citazione di Emerson: "È la perdizione
dell'uomo per essere salvo / quando per la verità dovrebbe morire". Indo-
vina dove è stata pubblicata la prima volta?»
«"National Enquirer"?»
«Yale Book of American Verse.»
E dove, se no? «Chi ha trovato la donna?» chiese Clevenger.
«Una coppia che passeggiava sulla riva del lago.»
«Nessun documento d'identificazione, ovviamente.»
«Sbagliato. Lui continua a volerci facilitare, da questo punto di vista.
Sulla croce era inchiodata anche la patente di guida della vittima: Heather
Rawlings, di Miami. Suo marito dirige una società di estrazione di diaman-
ti. Probabilmente non sapeva neanche che lei si trovava fuori dallo stato.»
«Un'altra lezione di anatomia?»
«Il collo, dalla parte anteriore alla colonna vertebrale.»
Clevenger chinò il capo. «Sei nel Michigan, adesso? Vuoi che ti rag-
giunga?»
«Ho già sistemato tutto, qui. Speravo che te la sentissi di andare a Miami
a trovare il marito.»
«Ma certo.»
«Ottimo. Sei fortunato. C'è un aereo che dovrebbe decollare tra quaranta
minuti. Ti ho già prenotato il posto.»
«Nel caso in cui me la fossi sentita...»
Lei rise. «Già.»
Clevenger si imbarcò all'1.37. Quando l'aereo decollò, aveva un ritardo
di quattro ore e sette minuti e la compagnia aerea aveva deciso di farsi
perdonare dai passeggeri offrendo loro birra, vino o bibite gratis. Cleven-
ger lanciò un'occhiata al carrello, mentre avanzava lentamente lungo il cor-
ridoio. Un passo, una fermata. Aveva preso ventiquattr'ore prima una
compressa di Antabuse, i cui effetti sarebbero dovuti durare tre giorni, ma
constatò con disappunto che si stava chiedendo se fosse proprio così e sta-
va già valutando le probabilità di sopravvivere a uno o due gin tonic. Si
frugò in tasca, tirò fuori un'altra compressa di Antabuse e la ingerì.
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Alle otto del mattino Clevenger era seduto al tavolo da riunioni nella bi-
blioteca all'11204 di Beach Drive a Miami con Ken Rawlings e i suoi due
avvocati, Skip Wolfe e James Lowell, entrambi sui cinquantacinque anni. I
giornalisti erano già accalcati all'esterno.
«Non riesco a capirci niente» gli disse Rawlings. «Non ho idea del per-
ché Heather si trovasse nel Michigan. Non abbiamo amici stretti da quelle
parti, di sicuro non così a nord. Il fatto che sia stata uccisa, poi... e in circo-
stanze tanto grottesche... Era una donna a posto. Non aveva nemici.»
Una donna a posto. Non aveva nemici. Una lode misurata. Clevenger
non se ne sorprese, dato quel che aveva sentito da Shauna Groupmann, da
Patrice Hadley e da Scout Van Myer, ma era intenzionato a scoprire se ci
fosse qualcos'altro dietro. «Sarà lei a identificare il corpo?» chiese.
«Certo.»
«Non tutti ci riescono» spiegò Clevenger. «Soprattutto in presenza di fe-
rite come quelle che sua moglie ha ricevuto.»
«Non penso che ci sia bisogno di andare...» cominciò a dire l'avvocato
Lowell con un tono da annunciatore radiofonico. Sembrava appena uscito
da uno spot pubblicitario: capelli neri ondulati tagliati corti, gessato blu.
Rawlings alzò una mano per interromperlo. «Sono stato in guerra» disse,
rivolto a Clevenger. «Marines. Vietnam. Ho visto cose che lei neppure
immagina.»
Ma quelle cose non erano successe alla donna che amava, pensò Cle-
venger. Si chiese come mai Rawlings non riuscisse a cogliere la differenza.
Forse perché la guerra gli aveva lasciato un'impenetrabile corazza psicolo-
gica o perché non amava particolarmente sua moglie? «Spero che lei non
si offenda» ribatté Clevenger. «Rivolgo la stessa domanda a ogni coniuge
nei casi di omicidio.» Fece una pausa. «Voi due eravate felici?»
«Felici?» Rawlings si strinse nelle spalle. «Come avremmo potuto non
esserlo? Avevamo tutto. Questi avrebbero dovuto essere i nostri anni mi-
gliori.»
Ancora una volta detto senza esitazione, senza lacrime, pensò Cleven-
ger. E Rawlings aveva l'aria dell'uomo che si autoconvinceva di sentire ciò
che pensava di dover essere. Felici? Come potevamo non esserlo? Erano
domande, non risposte.
Maritza entrò nella stanza. Indossava pantaloni bianchi, un blazer di sar-
toria dello stesso colore e una camicetta malva. Aveva denti perfettamente
bianchi, capelli perfettamente lisci, unghie perfettamente curate. Era ele-
gante, come se fosse stata lei la padrona di casa.
«La mia assistente» spiegò Rawlings a Clevenger. «Maritza Cabrai, ti
presento il dottor Frank Clevenger. Lavora con l'FBI.»
Clevenger si alzò. «Piacere di conoscerla.» Le tese la mano.
Lei gliela strinse. «Piacere mio.»
Clevenger si sedette di nuovo.
«Starò fuori circa un'ora, ma puoi raggiungermi sul cellulare se hai biso-
gno di me» disse Maritza a Rawlings. Lo guardò attentamente. «Stai be-
ne?»
Rawlings annuì.
Clevenger ebbe l'impressione di cogliere negli occhi di Maritza qualcosa
di più della devozione della dipendente verso il datore di lavoro, ma non
ne fu certo. Forse il dubbio gli venne semplicemente perché lei era bella e
parlava con un tono tanto affettuoso, o forse perché Rawlings la accompa-
gnò con lo sguardo mentre usciva.
«Posso chiederle dove ha studiato?» chiese Clevenger.
«Dove ho studiato?» ripeté Rawlings, riscuotendosi. «Phillips Andover,
poi Yale. Perché?»
Yale. Nessuna sorpresa, ormai, e nessuna coincidenza. «È stato scelto
per la Skull and Bones?»
Rawlings lanciò un'occhiata a Lowell. «Se lo fossi stato, non risponderei
alla domanda. Non è questo che il codice prescrive?»
Clevenger guardò le mani di Lowell e constatò che aveva un anello con
il sigillo di Yale.
«Comunque, dove vuole arrivare?» chiese Rawlings.
«Ciascuna delle vittime in questo caso era o un bonesman, o un parente
stretto, o un coniuge» rispose Clevenger. «Sa di qualcuno che può aver nu-
trito del rancore nei suoi confronti per aver fatto parte della società?»
«Non ha detto di averne fatto parte» intervenne l'avvocato Wolfe con un
tono di voce sorprendentemente mite per un uomo che aveva l'aspetto di
un difensore di football in un abito italiano da tremila dollari. Fissò Cle-
venger senza batter ciglio.
«Ho l'elenco di Sutton nel mio ufficio» disse Clevenger. «Pensavo che
lei potesse risparmiarmi la telefonata.»
«Se lei ritiene che quell'elenco sia preciso...» disse Wolfe.
Clevenger si protese e guardò Rawlings dritto negli occhi. «Sua moglie è
stata appena uccisa da qualcuno che forse aveva legami con quella società.
Perché non vuole darmi tutte le informazioni che potrebbero aiutarmi a
trovare il killer?»
Rawlings lanciò un'altra occhiata a Lowell, prima di riportare lo sguardo
su Clevenger. «Ciò che una persona "vuole" non impone il comportamento
che quella persona deve tenere. È questa la natura dell'appartenere a qual-
cosa di più grande di se stessi. Io so che ci sono necessità e obiettivi più
importanti dei miei - o dei suoi - indipendentemente da come la cosa può
sembrare a ciascuno di noi in questo momento. Ne sono sempre stato con-
vinto.»
«Anche sua moglie?» chiese Clevenger.
«Almeno quanto me» rispose Rawlings. «Ed è questa una delle ragioni
per cui sento tanto la sua mancanza.»
«Mantenere il segreto potrebbe costare altre vite» fece presente Cleven-
ger, guardando negli occhi ciascuno degli uomini intorno al tavolo.
«Se qualcuno ce l'ha con i bonesmen,» disse Rawlings «sono certo che
ognuno di loro si augura che lei agisca con la massima rapidità, ma non al
prezzo di mettere in pericolo i confratelli.»
Le parole di Rawlings riecheggiavano quelle di David Groupmann, se-
condo cui il legame tra i bonesmen veniva prima di ogni altra responsabili-
tà: verso la famiglia, la legge, perfino se stessi.
Ci furono alcuni istanti di silenzio.
«Allora, abbiamo finito?» chiese Rawlings guardandosi intorno.
Lowell esibì un finto sorriso. «Spetta al dottore decidere.»
Forse perché c'erano due avvocati al tavolo, o forse perché si era parlato
in modo esplicito della Skull and Bones, o forse perché Ken Rawlings si
sentiva davvero in colpa per qualcosa, fatto sta che Clevenger aveva la
sensazione di raccogliere la deposizione di un sospettato, e non di interro-
gare il membro di una famiglia che aveva appena subito una perdita. «Non
ho altre domande» disse.
Stava uscendo, preceduto da Lowell, quando su un tavolo vicino alla
porta della biblioteca notò un progetto architettonico: il prospetto delle
scuderie fatto da Crosse per la proprietà dei Rawlings nel Montana. Si
fermò a osservarlo. La struttura era infinitamente più umana, più viva della
casa di Rawlings. Il suo sguardo passò dalle mensole angolari curvilinee al
tetto mansardato, alle finestre ad arco, per poi soffermarsi sul caleidosco-
pio di vetro posto al centro della facciata, sotto la linea del tetto. Questo u-
tilizzo così scenografico e creativo del vetro gli fece venire in mente la cu-
pola di vetro con le foglie cadenti incise nella casa di Van Myer a Chicago
e l'intrico di travi concluso dalla lastra di vetro inciso nella proprietà dei
Groupmann a Pacific Heights. E all'improvviso, i fatti e le intuizioni im-
magazzinati nella sua mente conscia e in quella inconscia cominciarono a
incastrarsi come le tessere di un mosaico. Un brivido gli corse lungo la
schiena.
«Posso esserle d'aiuto?» chiese Lowell, voltandosi a guardarlo.
«State costruendo delle scuderie?» chiese Clevenger ad alta voce, conti-
nuando a guardare il disegno.
«Come, prego?» disse Rawlings ancora seduto al tavolo.
«Scuderie» ripeté Clevenger, lanciandogli un'occhiata e poi tornando a
concentrarsi sul disegno.
«Sì, le stavamo costruendo» rispose Rawlings. «Mia moglie e io aveva-
mo intenzione di edificare su un terreno di nostra proprietà nel Montana.
Le scuderie facevano parte del progetto.»
Clevenger guardò attentamente il disegno. Non trovò da nessuna parte il
nome dell'architetto. «Chi è l'autore del progetto?» chiese.
Alcuni secondi di silenzio.
«Come ha detto?» disse Rawlings.
Clevenger lo guardò. «Chi ha progettato le scuderie?»
«Uno studio di Manhattan, penso» rispose Rawlings. «Graves & Dickin-
son, forse. Se ne occupava Heather. Mi ha lasciato una copia dei loro primi
abbozzi.»
«Capisco» commentò Clevenger.
«Lei cavalca?» chiese Wolfe dal suo posto accanto a Rawlings.
«Le Harley, quando me ne capita l'occasione. Niente più.»
«Mangiano meno» scherzò Rawlings.
Un'altra battuta dopo un altro assassinio. Clevenger annuì. «E danno an-
che meno problemi in autostrada.»
«Mi chiami pure in qualsiasi momento» lo invitò Rawlings. «Se ha una
domanda, cercherò senz'altro di darle una risposta.»
«Lo terrò presente» disse Clevenger e proseguì verso l'uscita.
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West Crosse era seduto nello studio della first lady Elizabeth Buckley
nell'ala est. All'ingresso dei visitatori aveva ricevuto lo stesso pass dei capi
dei principali dipartimenti governativi, che lo autorizzava a entrare e uscire
a piacimento, senza preavviso e senza perquisizione.
Liz Buckley, non ancora cinquantenne, studi a Princeton, elegante e si-
cura di sé, era seduta su un divanetto a vivaci colori di fronte a Crosse, che
si era accomodato in una poltrona. Le pareti dello studio erano coperte di
fotografie di lei e del presidente con capi di stato, leader religiosi e gruppi
di bambini di ogni parte del mondo. «Quello che mi è piaciuto della sua
bozza di progetto per il Museo della Libertà,» disse «è che si schiera espli-
citamente in favore della possibilità di espressioni creative, di immagina-
zione illimitata, una volta che le persone siano state liberate dalla tiranni-
de.» Abbozzò un sorriso in cui si mescolavano al tempo stesso cordialità e
sicurezza di sé. «So che lei capisce tutto quello per cui lavora mio marito.»
«È proprio così» confermò Crosse, lanciando un'occhiata al suo progetto
sul tavolino in mezzo a loro. Esigeva pareti di vetro, al di là delle quali e-
rano previste distese d'acqua riflettenti. Le opere d'arte sarebbero state ap-
pese a pannelli di bronzo o collocate su ripiani di bronzo inseriti nelle pa-
reti. Il tetto sarebbe stato una cupola di cristallo e bronzo con incise le co-
stellazioni. Tutti i visitatori si sarebbero subito resi conto che il museo era
esso stesso un'opera d'arte, quasi sospeso nell'aria, senza nulla che impe-
disse all'occhio e alla mente di vagare a piacimento. Un orizzonte infinito.
Di notte, alcuni pannelli della cupola si sarebbero aperti, dando vita a un
osservatorio astronomico. E sarebbe bastato premere un pulsante per far sì
che un potente telescopio si alzasse nell'esatto centro del museo, puntando
sul cielo. «Lei vuole che le persone vivano nella pienezza delle loro poten-
zialità» disse. «Lei vuole che siano davvero libere, a qualunque costo.»
«E nessuno sa meglio di questi artisti quanto possa costare.» Liz Buck-
ley si protese leggermente in avanti, esaltata dalla visione. «Un quarto di
loro aveva perso i propri familiari quando i loro paesi sono stati liberati da
noi.»
A Crosse venne la pelle d'oca. «Spero solo che il mio progetto definitivo
renda giustizia alla sua idea.»
«So che lo farà» disse la first lady. «Se Dio lo vuole.» Si appoggiò allo
schienale, giocherellando con la collana di perle.
Tutt'a un tratto, a Crosse parve stanca e vulnerabile, forse perché cono-
sceva il suo fardello: una figlia diciassettenne ritardata, nubile e in attesa di
un figlio da un ritardato: un'offesa alla natura e una perenne minaccia per
la posizione del presidente agli occhi del paese e del mondo. «Come sta
Blaire?» chiese con il tono cortese, ma fermo di un guaritore, di uno scia-
mano.
La domanda bastò a scatenare una lotta tra i più intimi sentimenti di Liz
Buckley e la sua persona pubblica, una lotta che si rifletté sul suo volto: un
sorriso coraggioso che lei non fu in grado di sostenere, un lampo negli oc-
chi mentre tratteneva le lacrime, quindi il ben noto e risoluto serrarsi della
mascella. «Warren mi ha detto che lei gli è stato di grande aiuto quando le
ha confidato ciò che stiamo affrontando» rispose la first lady. «Voglio rin-
graziarla per questo.»
«Non ce n'è bisogno» disse Crosse. Un istante di silenzio. «Come sta
Blaire?» chiese di nuovo, pacatamente.
Gli occhi della first lady si riempirono di lacrime. Deglutì. «Blaire è fe-
lice» disse. «È questo l'aspetto più triste.» Si asciugò una lacrima. «Non si
rende conto di che cosa questa vicenda significhi in realtà per lei, o per il
padre del suo bambino. E certamente non capisce che impatto avrà su tutto
quello per cui Warren ha duramente lavorato negli ultimi tre anni e mez-
zo.»
«Non prevede una reazione solidale» osservò Crosse.
«In questa città? Lo metteranno in croce.» Fece un profondo sospiro e si
ricompose. «Non dimentichi che mio marito ha assunto posizioni corag-
giose contro la distribuzione di preservativi, contro un'inappropriata edu-
cazione sessuale, contro l'aborto. A minare il suo potere di fare del bene
nel mondo sarà non tanto ciò che la gente dice pubblicamente, quanto
quello che dirà in privato, le risatine negli uffici del Campidoglio pieni di
"funzionari statali" i quali non hanno niente da ridire sul matrimonio tra
uomini, ma pensano che "religione" sia una parolaccia.»
«Come stanno prendendo la cosa gli altri suoi figli?» chiese Crosse.
«Non ne sanno nulla. James ha appena ricevuto un incarico alla Brown
Brothers Harriman e William è appena diventato socio della Simpson Tha-
cher Bartlett. Non vedo perché coinvolgerli, finché non sarà assolutamente
necessario.»
«E quando sarà?»
«Quando lo stato di gravidanza comincerà a essere visibile, suppongo.»
Liz Buckley scosse il capo. «A dire la verità, continua a non sembrarmi
vero. Non mi sembra qualcosa che Dio vorrebbe...» Chiuse gli occhi.
«Questo non dovrei dirlo. Noi non possiamo conoscere le vie del Signore.»
Crosse non era d'accordo. Riteneva che Dio rendesse chiare all'uomo le
Sue vie, ma che l'uomo fosse spesso troppo impaurito o troppo egoista per
agire in armonia con la Sua volontà. Il presidente Kennedy, prima di cede-
re alla debolezza e di dubitare della capacità dell'America di riplasmare il
mondo, lo aveva detto bene: «Con una serena coscienza come solo sicuro
compenso e la storia come ultimo giudice delle nostre azioni, accingiamoci
dunque a guidare il paese che amiamo, invocando la Sua benedizione e il
Suo aiuto, ma sapendo che qui sulla terra siamo noi a dover compiere la
volontà di Dio».
Gesù non aveva portato nel suo cuore la verità del Padre? Abramo non
era stato disposto a sacrificare Isacco quando la voce di Dio glielo aveva
ordinato? Il presidente Buckley non aveva fatto l'opera di Dio sulla terra,
liberando interi popoli dall'oppressione? Crasse stesso non sapeva esatta-
mente ciò che Dio si aspettava da lui? «Forse Dio ci ascolta più di quanto
lei sappia» disse alla first lady.
Lei lo guardò. «Io non prego perché questa gravidanza abbia fine» di-
chiarò. Ma il modo con cui girò la testa, abbassando lo sguardo, diceva il
contrario.
«Certo che no» disse Crasse.
Liz Buckley si schiarì la voce, sospirò di nuovo e si alzò in piedi.
Crasse si alzò a propria volta.
«So che lei ha bisogno di prendere misure molto precise dello spazio at-
tuale» disse. «Non si faccia riguardo di rivolgersi a me o alla mia assisten-
te Joyce se ha bisogno di qualcosa.»
«La ringrazio» disse Crosse, allungandole la mano. La loro effettiva
conversazione si era svolta tra le righe. L'accordo era fatto. Elizabeth
Buckley quella notte avrebbe dormito meglio, senza sapere perché, senza
volerlo sapere. «Forse dovrò tornare alcune volte,» aggiunse «per accer-
tarmi che il mio progetto risponda esattamente alle mie intenzioni.»
La first lady gli strinse la mano. «Nessun problema. Il suo pass non ha
limitazioni. Nessuno la fermerà.»
«E se tendo a girellare qua e là è solo perché la mia mente fa così. La
prego di avvertire il suo staff di lasciarmi campo libero. Imparo rapida-
mente.» Sorrise.
«Gironzoli pure quanto vuole» disse lei.
Crosse la guardò negli occhi. «Voglio che lei sappia che mi rendo conto
di quanto lei e suo marito vi siete sacrificati per il bene pubblico» dichiarò.
«Sono davvero onorato di collaborare con voi. Se potessi progettare anche
solo un altro edificio nel corso della mia vita, sarebbe questo.»
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Alle 15.55 Clevenger era con North Anderson negli uffici della Boston
Forensics a Chelsea.
Clevenger aveva già telefonato a Scout Van Myer e a Patrice Hadley per
sapere chi aveva progettato le loro case.
Van Myer non si era mostrato disposto a dirlo, citando un accordo di se-
gretezza del contratto dell'architetto che prevedeva una penale di venticin-
que milioni di dollari in caso di violazione. «Se pensassi che ci fosse una
possibilità anche remota che stessimo parlando di qualcuno capace di uc-
cidere,» gli aveva detto «metterei ovviamente in discussione l'accordo. Ma
sono certo che non è così.»
Patrice Hadley aveva fornito una garanzia altrettanto inoppugnabile sul
suo architetto, citando a propria volta l'accordo di segretezza previsto dal
contratto. «Anche se volessi dirglielo, non potrei farlo.»
«Non si smuoveranno dalle loro posizioni» disse Clevenger ad Ander-
son. «Ho accennato al fatto che potrebbero ricevere un mandato di compa-
rizione e loro mi hanno educatamente rimandato ai loro avvocati. Sto an-
cora cercando di mettermi in contatto con Shauna Groupmann, ma sono
pronto a scommettere che anche lei mi risponderà picche... posto che sap-
pia a chi suo marito aveva affidato l'incarico di progettare la loro casa.»
«In base alla mia esperienza a Nantucket, posso dirti che la gente di soli-
to butta nel cestino accordi del genere nel momento in cui ne salta fuori
uno migliore» fece notare Anderson. «Questo ha l'aria di essere più che al-
tro un codice del silenzio.»
«Skull and Bones» commentò Clevenger.
«Ho esaminato l'elenco di Sutton» disse Anderson. «Ken Rawlings è
presente. Ho telefonato a quello studio di architettura... Graves & Dickin-
son: nessuno ha progettato scuderie per lui. O, perlomeno, non ammettono
di averlo fatto. Così, mi sembra probabile che Rawlings non sia stato sin-
cero con te.»
«Centro! Si direbbe che l'architetto possa essere il nostro uomo.»
«C'è qualcos'altro. Dennis McCormick è anche lui nell'elenco di Sut-
ton.»
Clevenger fece una smorfia. Avrebbe preferito sentire che McCormick
non compariva nell'elenco. Non voleva cominciare a chiedersi se poteva
fidarsi di Whitney. «Volevo prendere informazioni su di lui, ma non credo
proprio che sia nel carattere di Whitney fare giochetti politici in un'indagi-
ne per omicidio.»
«Giusto.» Sorrisino di Anderson. «L'FBI non fa mai giochetti. Chiedilo
a Joe Salvati.»
Quelli dell'FBI avevano incastrato Salvati e lo avevano tenuto in carcere
per tre decenni per proteggere uno dei loro informatori.
«Conosco Whitney» disse Clevenger.
«No, tu la ami, il che è completamente diverso. Può voler dire che tu
non la conosci... non ancora. La tua vista è ancora appannata e potrebbero
volertici cinque o dieci anni per schiarirla.» Un attimo di silenzio. «Pianta-
la di prenderti in giro: Whitney è un'ottima psichiatra, un'ottima investiga-
trice e un'ottima politica. E viene da una potentissima famiglia americana.»
«Dovresti cominciare a occuparti di pazienti.»
«L'ho appena fatto.»
Clevenger rise. «Ben mi sta.» Annuì tra sé e sé e riprese il filo del di-
scorso. «Sarebbe meglio controllare l'elenco di Sutton per scoprire quanti
membri della Skull and Bones sono diventati architetti. Spero che siano
così pochi da poterli passare in rassegna uno a uno.»
«Controllerò» disse Anderson.
«E io mi metterò in contatto con le famiglie delle prime due vittime nel
Connecticut e con i genitori del dodicenne del Montana. Vediamo perlo-
meno se si sono fatti costruire case, negli ultimi anni.»
«Dovrei consultare anche l'ufficio progetti delle città piccole e grandi di
cui stiamo parlando» disse Anderson. «I progetti architettonici devono es-
sere depositati con il timbro dell'architetto.»
«Grande idea» approvò Clevenger.
Anderson si alzò. «Qualche volta ci azzecco.» Sorrise. «Ti sei già infor-
mato su Billy?»
Clevenger scosse il capo. «Non ancora, ma lo farò.»
«Fammi sapere come se la cava il nostro campione. Terrò il cellulare ac-
ceso.»
«Ti chiamerò.»
Anderson si voltò e uscì.
Clevenger sollevò il ricevitore del telefono e fece il numero del Massa-
chusetts General Hospital. Si fece passare il reparto d'isolamento per la di-
sintossicazione, ma la responsabile si rifiutò di dargli notizie di Billy, ap-
pellandosi al regolamento dell'ospedale. «Posso parlare con lui?» chiese
Clevenger sapendo quale sarebbe stata la risposta di rito.
«Non posso né confermare né negare che sia qui» rispose, infatti, la
donna.
«A quanto pare, tutti hanno accordi di segretezza tranne me» commentò
Clevenger. «Verrò di persona. Forse lui accetterà di vedermi.»
«Grazie per aver chiamato.»
«Grazie a lei.» Clevenger riagganciò.
Salì in macchina e si diresse all'ospedale. Suonò il citofono del reparto.
«Desidera?» rispose una voce femminile.
«Sono venuto a far visita a Billy Bishop. Sono suo padre.»
«Qualcuno verrà da lei.»
Clevenger attese.
Dopo circa un minuto, la porta di acciaio si aprì con uno scatto e ne uscì
una donna di mezza età obesa, con i capelli biondi ossigenati. Teneva in
mano un portablocco a molla e un mazzo di chiavi. Richiuse la porta e si
girò verso di lui. «Dottor Clevenger?»
«Piacere di conoscerla» rispose lui, allungandole la mano.
La donna gliela strinse. «Paula Nealy» si presentò. «Temo che lei non
figuri nell'elenco dei visitatori del signor Bishop,» disse «posto che lui sia
qui o lo sia mai stato.»
«Posto che...»
«I regolamenti federali proteggono l'identità di chiunque sia in terapia di
disintossicazione. Sono sicura che lei conosce la legge.»
«Certo.» Ma Clevenger sapeva anche che il personale tendeva a essere
permissivo quando non doveva dare cattive notizie. Doveva trovare subito
il modo di sapere se Billy se n'era andato da lì. Si frugò in tasca e ne e-
strasse quattro banconote da venti dollari. «I familiari possono lasciare co-
se per i pazienti, vero?» chiese. Era una piccola pecca nella legislazione
sulla privacy.
La donna guardò il denaro.
«Soldi per la mensa. Mi creda, lui li gradirà.» Le allungò le banconote.
«Io...»
Clevenger la osservò e lesse la verità sul suo volto: Billy aveva firmato
per uscire. «La ringrazio» disse. Si voltò e si avviò lungo il corridoio. Pri-
ma di arrivare agli ascensori, scorse un telefono interno. Voleva essere cer-
to che Billy se n'era andato. Alzò il ricevitore e fece lo zero.
Rispose il centralino.
«Sono il dottor Clevenger» disse. «Vorrei parlare con la dottoressa Jane
Monroe.»
«Un momento.»
Passarono alcuni minuti.
«Pronto, sono la dottoressa Monroe.»
«Sono Frank Clevenger. Lei ha incontrato mio figlio Billy Bishop al
pronto soccorso.»
«Sì.»
«Penso che lui abbia lasciato l'ospedale, ma ho bisogno di saperlo con
certezza.»
«Stando alla legge federale, io...»
«Le chiedo un altro favore, da medico a medico. Mi aiuti. Mio figlio è
nei guai.»
Una pausa. «Rimanga in linea, okay?» Tornò quindici secondi dopo.
«Nel computer non risulta tra i ricoverati» disse. «E lo sarebbe, se fosse
qui. Tenga presente che io non...»
«Lei non ha risposto alla mia richiesta.»
«Le auguro buona fortuna con lui» disse la dottoressa Monroe. «Mi era
sembrato davvero un bravo ragazzo.»
«Billy è molte cose diverse.»
«Come la maggior parte di noi. Mi faccia sapere come se la cava.»
«Lo farò» disse Clevenger. «Grazie.»
Riagganciarono.
Clevenger andò al parcheggio dell'ospedale, salì sul suo pick-up e si di-
resse a Chelsea. Una parte di lui avrebbe voluto lasciare che l'uscita di
Billy dall'ospedale equivalesse a un'uscita anche dalla sua esistenza... una
volta per tutte. Clevenger sarebbe potuto tornare al loft e avrebbe potuto
prendere le cose di Billy, abbandonarle sulle scale e continuare la sua vita.
Avrebbe potuto costruirsi una famiglia vera. Forse questo era il meglio che
poteva fare per lui, comunque. Forse non c'era davvero nessun modo di
amarlo abbastanza da suscitare in lui l'amore per se stesso. Forse al mondo
c'erano persone fatalmente caratterizzate da carenze psicologiche e con tut-
to il loro potenziale di bene già devastato, violentato o umiliato, per le qua-
li soccorrere il loro spirito non era più produttivo che vegliare un paziente
terminale, pregando per un miracolo che mai si sarebbe verificato.
Il guaio era che la situazione non appariva in questi termini... perlomeno
a Clevenger, non ancora. E se quella sorta di imperitura speranza verso gli
altri era anch'essa una droga, un'altra distrazione dal fatto che in fin dei
conti siamo tutti soli e che qualcuno di noi in questa vita non può essere
redento, Clevenger semplicemente non era pronto a rinunciare a quella
droga.
Da quando una preghiera comportava una garanzia?
Prese il cellulare e chiamò North Anderson.
«Che c'è?» chiese Anderson.
«Billy ha firmato per uscire. Devo trovarlo.»
«Hai controllato a casa?»
«Ci sto andando.»
«Okay» disse Anderson. «Me ne occupo.»
«A meno che tu non pensi che dovremmo lasciarlo stare per un po'.»
«Il ragazzo non deve rimanere per la strada, punto e basta.»
«Ti telefono da casa.»
«D'accordo.»
Chiusero la comunicazione.
Clevenger raggiunse il loft, salì le quattro rampe di scale e stava per a-
prire la porta quando il cellulare squillò. Anderson. «Che c'è?»
«L'ho trovato.»
«Hai fatto presto.»
«Non si può dire che tenga un basso profilo» disse Anderson.
«Che significa?»
«Lo ha avvistato un'autopattuglia. Seduto sui gradini, fuori dalla casa dei
Royals, al 22 di Suffolk Street.»
«Dalla "casa"?»
«Hanno una casa a schiera diroccata da quelle parti. È di proprietà di
Leo Berman.»
Berman era un allibratore, trafficante di droga e ruffiano che si spaccia-
va per proprietario di un negozio di gastronomia, il Me and Me, sulla
Broadway, a pochi passi dal municipio di Chelsea. Finché la città non ave-
va cominciato a essere rimessa in ordine da yuppie e gay e da una serie di
incriminazioni statali e federali, moltissimi poliziotti erano riusciti a rad-
doppiare i loro stipendi semplicemente girando lo sguardo dall'altra parte.
«I Royals lo riforniscono di droga?» chiese Clevenger.
«Di droga, di ragazze, di tutto. Non mi sorprenderei se Berman fosse
dietro anche a quei combattimenti all'ultimo sangue. Niente di buono, in-
somma.»
Clevenger cominciò a scendere le scale. «Vado là.»
«Posso venire con te.»
«Grazie» disse Clevenger.
«A proposito,» gli ricordò Anderson «ti sei dimenticato di restituirmi la
Glock.»
«È nel mio pick-up. Me la porto dietro.»
«Era quello che volevo dirti.»
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16 agosto 2005
West Crosse aveva passato tre ore nell'ala est a prendere misure che sa-
peva non gli sarebbero mai servite. Alle 11.10 si avviò alla residenza pri-
vata della famiglia presidenziale al primo piano dell'edificio principale, se-
guendo un percorso meno battuto che aveva memorizzato dalle piante se-
grete della Casa Bianca dategli dal presidente. Dieci minuti dopo era da-
vanti alla porta della stanza da letto di Blaire Buckley. Bussò leggermente.
Nessuna risposta.
Provò ad aprire la porta. Non era chiusa a chiave. Entrò e si richiuse l'u-
scio alle spalle.
Blaire aveva diciassette anni, ma la sua stanza sembrava quella di una
bambina. Un copriletto rosa con i merletti. Un orsetto di peluche, una gi-
raffa di peluche e parecchie bambole appoggiate ai cuscini. Una lampada a
forma di Barbie. Due corde per saltare e una pedana molleggiata. In un an-
golo, due skate-board. Uno scaffale pieno di libri per bambini.
Crosse si avvicinò e prese in mano un volume: Judy Moody predice il
futuro. Un altro: Judy Moody era di cattivo umore. Un terzo, questa volta
illustrato: Un leone all'ora della nanna.
Si diresse verso un alto cassettone e notò alcune cose di Blaire: nastri
per capelli, anelli con finti diamanti, braccialetti di plastica, mollette lucci-
canti, una dozzina di rossetti, tutti ben ordinati in vaschette. Accanto c'era
una pila di numeri di «Highlights» per bambini delle elementari. Dietro,
una foto di Blaire, sovrappeso e con lo sguardo vacuo, sull'altalena spinta
dal padre, il presidente degli Stati Uniti.
Crosse fu invaso da un'ondata di disgusto. Com'era possibile che un cor-
po con il cervello di un primate evoluto provocasse tanto caos e dolore nel-
la vita del leader del mondo libero? Come si spiegava che a un essere con
la capacità di leggere solo libri per bambini fosse concessa la libertà di a-
vere un amante e concepire un figlio? Come si poteva ignorare il fatto che
il suo DNA era gravemente lesionato e che fingere che lei fosse pienamen-
te umana significava farsi beffe del miracoloso potenziale dell'uomo?
La vita di Blaire non era diversa da un qualsiasi disastro architettonico.
Fondamenta mal progettate potevano far crollare un edificio. Un edificio
mal progettato poteva rovinare tutto il profilo di una città. Ma in questo ca-
so i guasti potenziali erano infinitamente maggiori. Il presidente sarebbe
potuto cadere. Il prestigio dell'America avrebbe potuto essere compromes-
so. La causa della libertà del mondo avrebbe potuto subire una battuta d'ar-
resto.
La storia aveva una propria struttura, altrettanto vulnerabile da un errore
di progettazione.
Nel suo potenziale distruttivo, Blaire Buckley non era diversa da un ter-
rorista.
Crosse rievocò una delle prime grandi voci americane con cui si era for-
temente identificato. Aveva letto e riletto gli scritti del giudice della Corte
Suprema Oliver Wendell Holmes Jr., devoto cristiano ed eugenista, che
patrocinava la sterilizzazione delle donne subnormali. In un famoso caso,
prescrivendo l'isterectomia per Carrie Buck, una diciassettenne ritardata la
cui madre e il cui figlio erano parimenti ritardati, aveva scritto: «Sarebbe
meglio per tutto il mondo se, invece di aspettare che la prole dei degenerati
sia giustiziata per i suoi crimini, o che muoia di fame per la sua imbecillità,
la società evitasse a coloro che sono manifestamente malati di perpetuare
la specie... Tre generazioni di imbecilli bastano».
Accanto a Holmes, mentre scriveva la sua analisi, c'era il fidato assisten-
te e confidente Harvey Hollister Bundy, un brillante bonesman che era sta-
to anche assistente speciale del ministro della guerra, Henry Lewis Stim-
son. Quest'ultimo, anche lui bonesman, era stato determinante nella deci-
sione di lanciare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki durante la
seconda guerra mondiale, demolendo un impero del male che avrebbe po-
tuto distruggere la libertà del mondo.
Sarebbe sempre toccato a uomini d'azione e a uomini di Dio attuare i
progetti necessari a perfezionare l'esperienza umana e a liberare gli uomini
affinché trascorressero esistenze più complete. Perché, per dirla con Ken-
nedy: «Qui sulla terra siamo noi a dover compiere la volontà di Dio».
In questo mondo i bonesmen avrebbero fatto sempre infinitamente più di
quello che spettava loro fare. Era nei loro geni e nelle loro anime, nel loro
destino biologico e spirituale.
Crosse udì il rumore di passi che si avvicinavano alla porta. Non tentò di
nascondersi. Aveva carta bianca per girare nella casa. Come dimenticava-
no sempre di fare il suo nome alla polizia, così i suoi clienti giustificavano
anche i suoi comportamenti più sospetti. Sarebbero stati suoi inconsapevoli
complici sino alla fine.
E la fine era vicina.
La maniglia girò, la porta si aprì e Blaire Buckley entrò nella stanza.
Era cresciuta rispetto a come appariva nelle foto di Crosse e aveva mes-
so su parecchio peso. Indossava dei jeans e una T-shirt smisurata con
l'immagine di Britney Spears che mascherava ben poco i suoi seni enormi.
Fece tre passi, vide Crosse e si fermò come un cervo investito dalla luce
dei fari.
«Salve, Blaire» la salutò lui. «Mi dispiace di averti fatto paura. Mi
chiamo West. Sono un amico dei tuoi genitori. Sto aiutando la tua mamma
a progettare il suo museo.»
«Mamma ha detto che va bene che tu venga qui?»
«Certo. Vuoi chiamarla per controllare?»
«No, va bene. Che cosa vuoi?»
Crosse sorrise per tanta schiettezza, dovuta a una rete neuronale di mino-
re complessità e resistenza. Se Blaire aveva una domanda da porre, la po-
neva. Aveva fame... mangiava. Voleva sesso, lo faceva. «Ho sentito dai
tuoi genitori la buona notizia del bebè in arrivo» disse Crosse.
Lei tentò di trattenere un sorriso, ma non ci riuscì, mettendo in mostra
denti leggermente storti e ingialliti. Si portò la mano al ventre prominente.
«Eden.»
«Eden?»
«La mia piccola. Ti piace il nome?»
"Forse per il figlio normale di una madre normale" pensò Crosse. «Sai
che sarà una bambina?» chiese.
Lei annuì.
Era troppo presto perché il suo medico lo sapesse. «Immagino che tu
possa proprio dirlo» commentò.
«Ah-ah.»
«E vuoi la piccola?»
«Volerla?» chiese lei, incredula. «Non vedo l'ora. Desidero tanto essere
mamma, più di qualsiasi altra cosa.»
«Non ti preoccupa l'idea che il bebè, la piccola Eden, possa essere... len-
ta, mentalmente, come te?»
Blaire scosse la testa. «No, se è felice come lo sono io.»
Non sembrava per niente offesa da quello che Crosse le aveva detto.
Sembrava che non avesse né la capacità di offendersi, di avere paura, né
tanto meno il raziocinio. Crosse non poté resistere alla tentazione di farle
un esame più approfondito. «Che cosa ti fa felice, Blaire?»
Lei sorrise di nuovo e arrossì. «Harry, per dirne una.»
«È il padre della bambina?»
«Ah-ah. È il mio fidanzato.»
«Lavora? Sarà in grado di mantenere Eden?»
«Caspita!»
«Che cosa fa?»
«Mette cose insieme per una società. Parti che diventano cose.»
«In una struttura protetta? Lavora con altre persone come lui... e te?»
«Penne» disse lei. «Mette insieme le penne e i portachiavi.»
Domanda e risposta, pensò Crosse. «E che cos'altro ti fa felice?»
Lei si guardò la T-shirt. «Britney.»
Ancora sesso, con un po' di musica in sottofondo. Di alto livello. Crosse
scoppiò a ridere.
Anche Blaire rise. «Non è il massimo?»
Crosse smise lentamente di ridere e anche di sorridere. «Credi in Dio,
Blaire?»
«Altroché.»
«Pensi che sia stato Dio a volere che tu stessi con Harry e rimanessi in-
cinta?»
«Doveva volerlo, visto che è successo.»
Una logica da cani, pensò Crosse. Se senti prurito, grattati. Mangia la tua
pappa finché la ciotola non è vuota. Era il meglio che Blaire potesse fare.
Ma esseri umani con un cervello normale potevano fare di più. Potevano
avere impulsi - stimoli sessuali, smanie, paure - e tenerli a bada in vista di
un bene maggiore. Lui si atteneva a ciò. «Pensi che avere un bambino pos-
sa rendere le cose difficili per il tuo papà?»
Lei scosse la testa. «Lui sarà un buon nonno. Gli piacerà moltissimo.»
Crosse sorrise. Lasciò passare qualche secondo. «Ti piacerebbe incontra-
re Britney?» chiese.
«Incontrarla? Come?»
«Sto disegnando la sua nuova casa.»
«Tu conosci Britney Spears?» Blaire si protese per l'eccitazione, come
se le sue emozioni fossero direttamente collegate alla sua muscolatura,
senza l'intervento di un processo mentale fra stimolo e risposta.
«Sì, la conosco. E verrà a trovarmi qui a Washington tra due giorni. Per-
ché non vieni a conoscerla?»
«Non so se i miei genitori...»
Crosse alzò un dito e scosse il capo. «Dovrà essere il nostro segreto.
Britney non vuole che nessuno sappia che è in città. Devi solo trovare il
modo di venire da me, tra due sere. Alle nove. Al Mayflower Hotel. Sare-
mo nella suite presidenziale.»
«Ci verrò, in un modo o nell'altro» disse lei.
«Se vieni, ricordati di portarle qualcosa su cui farti l'autografo.»
Blaire ridacchiò eccitata. «Sono scappata per incontrarmi con Harry
prima, quando nessuno si aspettava che lo facessi.»
«È evidente» disse Crosse.
«So che non avrei dovuto» disse Blaire. «Tutti erano preoccupati. Tutti
mi cercavano. Ma ne è valsa la pena, sai? perché Eden è speciale. Divente-
rà davvero qualcuno. Lo sento.»
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Clevenger stava salendo sul volo della US Air delle 16 diretto all'aero-
porto LaGuardia quando il suo cellulare squillò. Era Whitney. «Ciao» ri-
spose.
«Dove sei?» chiese lei. Sembrava preoccupata.
Tutt'a un tratto, Clevenger si rese conto di quanto la sua fiducia in Whit-
ney era stata scossa dalla consapevolezza che suo padre era un bonesman.
Forse era un po' paranoico a buttarsi a capofitto nella folle teoria del com-
plotto, ma non riuscì a dirle che aveva telefonato a Laine Jones, socio an-
ziano dello studio Jones & Alison Design, e che stava andando a Manhat-
tan.
Jones aveva risposto con franchezza alla sua richiesta di informazioni su
West Crosse: voleva accertarsi di persona che Clevenger fosse davvero chi
diceva di essere, prima di fare commenti su un suo ex dipendente, ed era
disposto a incontrarlo per un drink al Pierre Hotel sulla Fifth Avenue, alle
18.30.
Per fortuna, in Clevenger la prospettiva di un drink dopo aver ingerito
una compressa di Antabuse si traduceva nell'immagine di se stesso che ca-
deva a terra morto o stava così male da desiderare di esserlo. In psichiatria
circolava il detto che nessuno poteva avere due reazioni all'Antabuse. O si
moriva o si imparava la lezione.
«Frank, mi senti?» chiese Whitney.
«Sono a Boston» si limitò a rispondere lui.
«Per vedere Billy?»
«No» rispose Clevenger. «Sono successe molte cose. Non è in disintos-
sicazione.»
«Lo so. È per questo che ti telefono.»
«Lo sai?»
«So più di quanto ne sappia tu in questo momento.»
Aveva il tono di un medico pronto a dare una cattiva notizia. «Whitney,»
disse Clevenger «che diavolo sta succedendo?»
«Oggi sul Massachusetts è piovuta una caterva di incriminazioni. I Roy-
als, la banda con cui ha a che fare Billy, è stata rastrellata. E lo stesso è ca-
pitato a un'altra banda chiamata Night Game, di Lynn e Somerville. Spac-
cio di eroina. Il nome di Billy è sulla lista.»
Clevenger si lasciò cadere lentamente su una poltrona dell'aereo. «Che
cosa?!» esclamò.
«Sanno che Billy è già sottochiave nel carcere di Nashua Street, ma a-
desso sarà incriminato anche per reati federali.» Fece un lungo sospiro.
«Perché non mi hai detto che era stato arrestato?»
«È successo così in fretta, che io...»
«La verità.»
Clevenger si strofinò gli occhi. «Non lo so. Credo di aver voluto in qual-
che modo tenere noi due separati da tutto questo.»
«Ti ripeto che va bene così. Tu devi fare tutto quello che è necessario
per lui. Noi siamo un'altra storia.»
Invece le due storie sembravano collegate, da sempre. «Quanti capi
d'imputazione?»
Lei esitò.
«Dimmelo.»
«Nove.»
«Cazzo.» Clevenger provò un senso di vertigine. Nove capi d'imputa-
zione per spaccio di droga potevano significare vent'anni in un carcere fe-
derale.
«Se collabora e aiuta a incriminare pesci più grossi, il computo cambia.
So che in questo momento non è facile per lui stare dalla parte della legge -
o dalla tua - ma sarebbe utile.»
Il computo. Sebbene la Corte Suprema avesse finito per abolire le sadi-
che e rigide direttive federali in materia di irrogazione della pena, direttive
che distribuivano decenni di carcere come caramelle, molti giudici conti-
nuavano ad attenervisi nei processi per reati di droga. Secondo tale siste-
ma, agli imputati veniva attribuito un certo numero di punti per ogni infra-
zione alla legge. I giudici si limitavano a sommarli, sottraendone alcuni nel
caso di imputati che denunciavano i loro fornitori, e poi spostavano il dito
un paio di colonne più in là e proclamavano quanti anni gli accusati - in-
clusi gli incensurati non violenti - avrebbero trascorso in carcere. Non c'era
nulla di salomonico in tutto ciò. Era come un distributore automatico di
giustizia.
«Non so se Billy vorrà collaborare» disse Clevenger. «Ho l'impressione
di non conoscerlo più.»
«La Drug Enforcement Administration ha diramato un comunicato
stampa al "Globe" e all'"Herald"» disse Whitney. «Con la divulgazione del
profilo di Billy - l'adozione e quant'altro, e tutti gli articoli usciti sull'argo-
mento - capisci bene che terranno gli occhi puntati su di lui.»
«Non c'è modo di evitarlo.»
«Adesso il ragazzo ha davvero bisogno di un avvocato. E ha davvero bi-
sogno di te.»
«Vedremo che cosa vuole lui.»
«Mi piacerebbe poter fare qualcosa. Mi sento malissimo.» Il suo tono lo
confermava.
«Sono contento di essere stato informato di quanto sta succedendo» dis-
se Clevenger. «E sono contento che sia stata tu a farlo.»
«Vuoi che ti raggiunga stasera?»
«Credevo che frequentassi qualcun altro.»
«Non dovresti pensare solo a questo.»
Il che non risolveva il problema. E, per qualche ragione, a Clevenger
non piaceva l'idea che Whitney si offrisse di venire a trovarlo proprio
quando sembrava probabile che Billy avrebbe visitato un carcere federale.
«Mi serve un po' di tempo per fare mente locale» disse.
«Nessun problema» replicò lei con tono deciso.
«È solo che...»
«Capisco perfettamente. Sul serio. Non è compito mio. Non è come se
fossi sua madre.»
Clevenger ebbe la sensazione che gli mancassero le parole.
«Chiamami per qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, okay? Che si tratti
del caso, di Billy o di altro.»
«Lo farò.» Clevenger ripensò al fatto che non le aveva detto niente di
West Crosse e degli altri architetti, né del suo appuntamento con Laine Jo-
nes.
«Stammi bene» lo salutò lei.
«Anche tu.»
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Laine Jones era un uomo alto e snello sulla cinquantina, con i capelli
ricci color grafite, gli occhi nocciola screziati d'oro e una fronte ampia che
faceva pensare a una notevole intelligenza. Dopo aver parlato, aveva l'abi-
tudine di fissare il suo interlocutore più a lungo del previsto, come per co-
gliere l'effettiva reazione a quanto aveva detto. Ciononostante, il suo
sguardo non metteva in imbarazzo. Al contrario, dava l'impressione che lui
apprezzasse la sincerità e che fosse una persona di cui ci si poteva fidare.
Indossava un abito cachi, una camicia bianca e scarpe da barca senza
calzini. Non aveva bisogno di vestirsi nel modo giusto per avere successo.
Era già l'architetto preferito di un elenco di clienti che sembrava l'annuario
delle celebrità.
«Sono contento di constatare che lei è chi ha detto di essere» commentò
dopo aver dato un'occhiata al tesserino di medico e a quello di psichiatra
legale di Clevenger. Il tono era diretto, ma gentile. Fece cenno a un came-
riere di avvicinarsi. «Mi dica perché le interessa tanto West Crosse.»
«A Yale è stato scelto per la Skull and Bones» spiegò Clevenger. «Pen-
siamo che gli omicidi abbiano un nesso con quella società.»
Gli occhi di Jones rimasero fissi su di lui. «È un sospettato?»
«No» si affrettò a rispondere Clevenger. «È uno dei tanti che stiamo cer-
cando di escludere dai sospettati.»
«Semantica» commentò Jones con un sorriso.
Il cameriere si avvicinò. «Che cosa posso servirvi?» chiese.
«Un bicchiere di merlot, per piacere» disse Jones. «Un Three Nuns del
novantasette.»
«Per me un caffè» disse Clevenger. «Nero, del duemilasette.»
Jones rise.
«Grazie, signori» disse il cameriere e se ne andò.
«E allora, che cosa può dirmi di Crosse?» chiese Clevenger a Jones.
«Un genio» fu la risposta. «È venuto a lavorare da noi dopo la laurea in
architettura e ci è rimasto fino a cinque anni fa. Era il migliore che abbia
mai visto o che mi aspettassi di vedere.»
«Esclusi i presenti, naturalmente.»
«No. Lui era migliore di me.»
«Che cosa lo rendeva tanto straordinario?» chiese Clevenger.
«Sapeva come usare lo spazio per creare vita. Pochissime persone sono
in grado di farlo.»
«In che senso?»
Jones appoggiò le mani sul tavolo. «Che cos'è questo?»
«Un tavolo.»
«Continui.»
«Di legno» aggiunse Clevenger. «Rettangolare. Circa sessanta per no-
vanta, per nove centimetri circa di spessore.»
«È di legno e ha queste dimensioni» ribatté Jones. «Ma, naturalmente, è
molto di più.»
«Okay...» disse Clevenger.
«Ci aiuta a essere umani.»
«Umani... Che cosa intende dire?»
«Tanto per cominciare, separa noi due quanto basta per sentirci a nostro
agio, ma non ci tiene troppo lontani. Dico bene?»
«Credo di essere d'accordo, fin qui.»
«Be', tutto ciò non è semplicemente successo. Qualcuno ha dovuto deci-
derlo. Un tavolo più corto andrebbe bene per gli incontri romantici, non
per quelli d'affari. Più lungo e più largo sarebbe utile se avessimo docu-
menti da esaminare, ma questo non è il luogo adatto per un'operazione del
genere. Così com'è, il tavolo favorisce la conversazione.» Passò la punta
delle dita sulla superficie di legno. «Il colore scuro suggerisce una certa
austerità. Dice che questo è un luogo per colloqui seri, come si conviene a
un albergo d'alto livello.»
«Un tavolo, insomma» commentò Clevenger.
Jones alzò un dito. «Ma c'è dell'altro. La sua collocazione in questa sala:
abbastanza lontano dagli altri per consentirci di parlare, ma non tanto da
farci sentire isolati.» Indicò con un cenno l'ampio corridoio che attraversa-
va il locale. «C'è spazio sufficiente perché qualcuno si avvicini a noi, se
mai volesse farlo, ma tale da permettere a estranei di passare senza sentirsi
costretti ad accorgersi di noi. Qualcuno che conosciamo potrebbe perfino
fingere di non vederci e tirare dritto. Anche queste sono state decisioni
prese da qualcuno.» Alzò gli occhi. «Il soffitto è magnificamente alto, ma
anche fittamente decorato. Calamita lo sguardo all'insù. Possiamo avere
pensieri elevati, ma i colori scuri e la cupola ci trattengono, ci tengono a
terra. Ci sentiamo innalzati, ma saldi.» Tacque e fissò Clevenger. «Noterà
che non ho sentito la necessità di gridare né di sussurrare. Non ho paura
che lei perda le mie parole, né che altri le ascoltino. L'acustica funziona. E
lo intendo nel senso più preciso del termine. Funziona davvero. Incoraggia
il dialogo, anziché il silenzio. E qualcuno...»
«...ha deciso anche questo. D'accordo.»
Jones annuì. «Molto bene. Allora capisce un po' quello che l'architettura
può fare e quello che West Crosse è già stato in grado di realizzare su scala
molto maggiore, facendo diventare vivo lo spazio e alimentando la vita in
esso.»
«Lei dev'essere rimasto molto deluso quando Crosse ha lasciato lo stu-
dio» disse Clevenger.
«No» ribatté Jones. «Non sono rimasto affatto deluso. Sono stato io a li-
cenziarlo.»
«Perché?»
Il cameriere servì il vino a Jones e il caffè a Clevenger.
Entrambi lo ringraziarono.
«Lei non beve?» chiese Jones.
«Oggi no» rispose Clevenger.
«Ah, è astemio.»
«Non da molto, ma... sì.»
«Congratulazioni.» Sfiorò l'orlo del bicchiere. «Mi dispiace di avere or-
dinato il vino.»
«Va benissimo. Una cosa va detta su noi alcolisti: siamo persone molto
egocentriche. Ci preoccupiamo non di ciò che gli altri bevono, ma solo di
ciò che possiamo bere noi. E io non posso... in nessun modo. Punto e ba-
sta.»
Jones bevve un sorso di vino. Storse la bocca e scosse la testa.
«Non è buono?» chiese Clevenger.
«È squisito.» Fece cenno al cameriere di avvicinarsi. «Ma io non lo vo-
glio.»
«Le ho detto...»
«Non condivido queste sciocchezze. Se il vino per lei è veleno, non tro-
verà posto al nostro tavolo.»
Il cameriere si avvicinò.
«Ho cambiato idea» disse Jones. «Se può portare via il bicchiere, passo
anch'io al caffè. Con latte a parte, per favore.»
«Benissimo» disse il cameriere. E portò via il vino.
Adesso era Clevenger che stava studiando in silenzio Jones, cercandovi
una traccia di ipocrisia senza trovarla.
«Dove eravamo rimasti?» chiese Jones.
«A Crosse. Lei lo ha licenziato.»
«Ah, sì. Lei mi ha chiesto perché l'ho fatto. Glielo dico subito: l'ho li-
cenziato perché era un artista.»
«Adesso non la seguo» dichiarò Clevenger.
Il cameriere portò il caffè per Jones.
Lui ne bevve un sorso. «Un artista o un poeta possono essere incapaci di
compromessi. Sono loro i padroni della tela o della pagina. Ma un architet-
to è sempre un coautore. Le esigenze dei clienti vanno rispettate, comprese
le loro paure, le loro stravaganze, la loro prudenza e via dicendo.»
«Crosse faceva troppe pressioni su di loro?»
«Li metteva al tappeto. Non voleva saperne di creare qualcosa che non
fosse uno spazio intatto dotato della potenzialità di rivoluzionare il loro
modo di vivere e di lavorare. Era talmente sicuro che i suoi progetti potes-
sero trasformare la loro vita da ritenere che dovessero spendere tutto il ne-
cessario per realizzarli. L'universo li avrebbe più che ricompensati. Ha por-
tato alcuni clienti al fallimento, altri al divorzio. Un nostro eccentrico cli-
ente che voleva un rifugio è arrivato all'appropriazione indebita di denaro
per portare a termine la fortezza di pietra con tanto di fossato che West gli
aveva progettato a Rye. È finito in carcere. Due coniugi hanno dato in ado-
zione i loro due gemelli quando West ha ideato per loro una casa in cui a-
vrebbero potuto dare di nuovo libero sfogo all'attrazione che sentivano l'u-
no per l'altra. Era un loft con un'unica stanza da letto.» Jones bevve un al-
tro sorso di caffè. «Nel nostro mestiere uno può recitare il ruolo dell'artista
tormentato - del purista - fino a un certo punto. Quando comincia a tor-
mentare i clienti, ha varcato il limite.»
Clevenger ripensò alle magnifiche dimore che aveva ammirato, con i lo-
ro accoglienti, magici atri, le biblioteche che invitavano alla riflessione, i
soffitti di vetro che facevano viaggiare la mente come leggere, sublimi vi-
sioni. E ricordò anche la mancanza di dolore mostrata da coloro le cui vite
erano state risistemate - riprogettate - da un omicidio. «Ma aveva ragio-
ne?» chiese a Jones.
«Ragione? In che senso?»
«I suoi progetti» rispose Clevenger. «Era arrivato a conoscere così bene
i suoi clienti che ciò che disegnava per loro aveva davvero il potere di libe-
rarli, anche se talvolta loro non se ne rendevano conto?»
«In alcuni casi, sì.» Jones annuì, pensieroso. «Potrei dire in tutti... se non
fosse stato per una cosa.»
«Quale?»
«Erano esseri umani.»
Clevenger non replicò, in attesa del seguito.
«Si può ristrutturare da cima a fondo un edificio o portare alla perfezio-
ne un progetto architettonico» continuò Jones. «O perlomeno ci si può an-
dare vicino. Ma le persone sono molto più difficili da riprogettare. Bisogna
capire da dove vengono - le loro storie, le loro speranze, le loro paure - non
soltanto dove dovrebbero arrivare. A volte possono farcela, altre volte si-
gnifica chiedere loro troppo, o forse non è il momento giusto per chiederlo.
Sono certo che lei, da psichiatra, capisce perfettamente tutto ciò.»
Clevenger pensò a Billy. «Lo capisco come psichiatra e lo capisco co-
me...» Stava per dire "padre", ma non era certo di potersi ancora fregiare di
quel titolo, non dopo il modo in cui Billy lo aveva guardato in Suffolk
Street, non dopo che il ragazzo rischiava di passare decenni in un carcere
federale. «...come essere umano».
«West non poteva accettarlo» disse Jones. «Non poteva accettarlo a ca-
sa.»
«A casa?»
«Non è un bel quadro.» Fece una pausa. «Ha lasciato la moglie, Lauren,
dopo che si è ammalata. Circa sette anni fa.»
«Ammalata?»
«Cancro al seno.»
«Ed è sopravvissuta?»
«Oh, sì. Ha affrontato l'inferno, ma ce l'ha fatta. È una donna molto co-
raggiosa.»
«E a che punto lui l'ha lasciata?»
«Questo è l'aspetto più interessante. Le è rimasto accanto durante la ma-
stectomia, la chemioterapia e tutto il resto. Quello che non riusciva a sop-
portare era l'imperfezione fisica che la malattia comportava. Me l'ha detto
in tutta sincerità. Lauren si è sottoposta a interventi chirurgici di ricostru-
zione - tre volte - ma lui non era soddisfatto del risultato. Ne era ossessio-
nato.»
«Avevano figli?»
«No. Lei era molto giovane quando lui se n'è andato: ventotto anni. Fa
ancora la modella, con una laurea in filosofia a Yale, per giunta.»
«Si è risposata?»
Jones annuì. «Poco dopo che lui ha lasciato lo studio.»
«E lui?»
«No, che io sappia. Non l'ho più visto né sentito. Dubito che rischiereb-
be un'altra volta.»
«Ha preso male il fatto che lei si sia risposata?»
«No.» Jones sorrise. «Non intendevo questo. Non credo che rischierebbe
di essere ingannato di nuovo dalla natura o dalla biologia o da quel che è.
Aveva sposato una modella con seni perfetti, poi ha scoperto che lei dove-
va farsene togliere uno e che nessun chirurgo al mondo poteva ricostruire
completamente ciò che Dio aveva progettato. West aveva bisogno di eser-
citare un controllo maggiore sugli eventi. Molto maggiore.»
«Sa dirmi dove posso trovare Lauren?»
«Certo.» Gli strizzò l'occhio.
Clevenger lo fissò. «Ebbene?»
«Venga stasera nel mio appartamento. Al 562 di Park Avenue. Potremo
cenare in pace. I bambini saranno già a letto.»
«Non capisco.»
«Sono io l'uomo che ha sposato Lauren, Frank. Quattro anni e mezzo fa,
due figli, nessun rimpianto.» Tacque e guardò Clevenger negli occhi. «Lei
mi ha chiesto se West conosceva i suoi clienti al punto che i suoi progetti
potevano davvero cambiarli in meglio, anche se loro talvolta non se ne
rendevano conto.»
«Sì.»
«In un suo modo strano, penso che lui sapesse che Lauren e io ci sa-
remmo messi insieme. Mi chiedo se molto di quello che mi raccontava di
lei - il suo coraggio durante la malattia, la sua intelligenza - non rispondes-
se al progetto di incuriosirmi. Considerato il modo con cui descriveva il
sesso con lei, quanto lei fosse intuitiva, quanto il suo corpo rasentasse la
perfezione perfino dopo gli interventi chirurgici... mi sono chiesto se il suo
licenziamento sia stato davvero un'idea mia, oppure sua, se lui fosse pronto
ad andarsene e volesse sistemare tutte le faccende rimaste in sospeso.»
«Ritiene che fosse un architetto tanto abile?» chiese ironico Clevenger.
«Lui era l'architetto. Se questo gli fosse bastato, se non avesse voluto
essere Dio, avrebbe potuto essere uno dei più grandi di tutti i tempi.»
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Clevenger finì la seconda tazza di caffè e guardò fuori dalla vetrina della
pasticceria. Da dov'era seduto riusciva a vedere il portone della casa dei
Jones al 562 di Park Avenue. Ordinò una terza tazza di caffè.
Laine Jones gli aveva proposto un incontro alle 8 allo studio Jones & Al-
ison Design, ad alcuni isolati da lì, al 222 di Madison Avenue. Aveva
promesso di fargli esaminare alcuni progetti architettonici di West Crosse.
Dieci minuti dopo, Clevenger vide Jones uscire dal portone e prendere
posto sul sedile posteriore di una berlina nera. La vettura si mise in moto.
Clevenger si alzò, pagò il conto e si diresse al 562 di Park Avenue.
«Posso esserle di aiuto?» chiese il custode.
«Devo vedere Lauren Jones» rispose Clevenger.
«Chi devo dire?»
«Il dottor Clevenger.»
Il custode sollevò il ricevitore di un telefono fissato alla parete e digitò
un numero.
Qualcuno gli rispose.
«C'è il dottor Clevenger per lei, signora Jones.» Rimase in ascolto, poi,
scostando il ricevitore dall'orecchio e premendoselo contro il petto, disse
rivolto a Clevenger: «Il signor Jones è appena uscito. Pensava che doveste
incontrarvi nel suo ufficio».
«Ci sto andando» confermò Clevenger. «Ma prima volevo vedere Lau-
ren... solo per pochi istanti, se la signora ha tempo.»
Il custode riferì il messaggio nel ricevitore, aspettò la risposta e riaggan-
ciò. «Appartamento 17E» disse. «L'ascensore è là.»
Il cellulare di Clevenger squillò. Lui diede un'occhiata al display: North
Anderson. «La ringrazio» disse al custode. Poi, mentre si avviava all'a-
scensore, rispose alla chiamata. «Che cosa c'è?»
«Persone gentilissime, in Argentina. Mia moglie ha parlato personal-
mente con Enrique Vega. Un luminare della medicina. Cercalo su Google
e scoprirai che è il chirurgo plastico per eccellenza. Ma è anche un essere
umano. Si è scusato con mia moglie, ma le ha detto di non ricordare di a-
ver mai avuto in cura una Lauren Jones. Mia moglie gli ha detto che a vol-
te usa il suo nome da nubile, Lauren Crosse. Ancora niente. L'ha fatta per-
fino rimanere in linea per chiedere alla segretaria se non avesse dimentica-
to una paziente. Non era così.»
«Come immaginavo.»
«Che cosa intendi dire?»
Il custode dava segni di inquietudine vedendo Clevenger fermo davanti
all'ascensore.
«Ti richiamo più tardi» disse ad Anderson.
«D'accordo.»
Chiusero la comunicazione.
Clevenger salì in ascensore al diciassettesimo piano e percorse il lungo
corridoio verso l'appartamento 17E. Suonò il campanello.
Di lì a qualche minuto venne ad aprirgli Lauren Jones. Indossava una
vestaglia bianca di seta e spugna, ma non aveva l'aria di chi si è appena al-
zata dal letto. Aveva i capelli perfettamente pettinati, il mascara sugli oc-
chi, una collana di perle e orecchini con diamanti. «Che sorpresa!» escla-
mò. «Entri, la prego.» Si avviò verso la cucina. «Se vuole, può aspettarmi
in soggiorno.»
«Ma certo.» Clevenger entrò nel soggiorno, che in realtà era piuttosto
una biblioteca con caminetti, pareti di un giallo-arancione brillante, pelli di
animali come tappeti, un dipinto di due metri per quattro raffigurante due
alci che combattevano incrociando le corna. Fotografie in cornici d'argento
e libri riempivano i ripiani lungo una parete.
«Posso offrirle qualcosa?» gli chiese Lauren dalla cucina.
«No, grazie. Sono a posto.» Clevenger diede un'occhiata alle foto:
splendidi scatti in bianco e nero di Lauren che camminava sulla spiaggia,
di Lauren che giocava con la figlioletta di tre anni e il figlio di quattro a
Central Park, di Lauren e Laine che ballavano a due serate di gala, di tutta
la famiglia perfetta in barca a vela. Sembravano gli originali delle fotogra-
fie che sono abbinate alle cornici quando le si acquista: c'era un che di ir-
reale, di artefatto in loro.
Lauren entrò nel soggiorno con una tazza di tè, si sedette a un'estremità
di un divano di velluto rosso con grandi cuscini con le iniziali di famiglia
ricamate in oro. «Si accomodi» disse accennando all'altra estremità del di-
vano.
Clevenger si sedette.
«E così voleva vedermi prima di incontrare mio marito.» Il tono della
voce era non meno forte, o gentile, o esitante della sera prima.
Clevenger dovette distogliere un attimo lo sguardo per ricomporsi. La
bellezza di Lauren era seducente. «Sì» confermò.
«Perché?»
Clevenger riportò lo sguardo su di lei e notò che la vestaglia si era aperta
a scoprirle maggiormente il seno. Riusciva a vedere la parte superiore di
uno dei suoi perfetti capezzoli color ambra. Lauren era una statua greca in
carne e ossa. «Perché io penso che la verità ha sempre un prezzo» spiegò.
«E non vedo perché lei debba pagare più del necessario. Suo marito non
deve sapere ciò che ci diciamo adesso.»
Lei lo guardò socchiudendo gli occhi. «Come, prego?»
«In realtà io faccio solo una cosa al mondo. Ascolto storie. Ascolto per
capire se hanno senso. E, quando ho ascoltato lei, non ho mai sentito per-
ché ha rotto con West Crosse. Capisco perché lui ha lasciato lo studio di
architettura. Capisco perché se n'è andato chissà dove e perfino perché vi-
ve isolato. Ma non capisco perché mai dovesse lasciarla.»
«Gliel'ho detto. Non ero più perfetta.»
«Ma lei non ha mai smesso di cercare di esserlo, vero? Quasi come se
volesse piacergli ancora. Basta darle un'occhiata adesso.»
«Dovrebbe guardare più da vicino. Dopo due figli, è solo apparenza.»
Falsa modestia. Clevenger abbassò lo sguardo e annuì tra sé. Era giunto
il momento. La guardò negli occhi. «È vero che Enrique Vega è uno dei
migliori chirurghi plastici del mondo» disse. «Ma lei non è mai stata ope-
rata da lui, vero?»
Lauren non rispose.
«Penso che lei probabilmente sia andata a Buenos Aires e penso anche
che probabilmente abbia soggiornato a El Porteño. Perché queste sono co-
se che potrebbero essere controllate. Laine potrebbe farlo.»
«Sa una cosa? Lei sta superando i limiti.» Si alzò in piedi. «È meglio che
se ne vada.»
«Mi conceda trenta secondi.»
«E perché dovrei?»
Ancora una volta, un che di rabbioso balenò nel suo sguardo. Da dea
Lauren si trasformò in donna. Il che la rese ancora più attraente. «Perché
lei è una persona buona ed è intelligente. In cuor suo, non vuole avere
niente a che fare con degli omicidi. E lei sa che l'uomo che ama potrebbe
aver varcato il confine tra genialità e follia.»
Lauren evitò di guardare Clevenger, ma si sedette di nuovo.
«Lei è andata a Buenos Aires ed è stata operata. Ma a farlo non è stato
Enrique Vega.» Un breve silenzio. «È stato West Crosse.»
«Il folle è lei» disse Lauren, stringendosi nella vestaglia.
«Crosse può aver lasciato perdere colleghi e clienti che non riuscivano a
tenere il passo con il suo intelletto e la sua passione, ma non ha mai ab-
bandonato lei. Lei voleva tornare perfetta e anche lui lo voleva. Perché al-
lora avrebbe potuto amarla di nuovo. Solo allora. E dal momento che nes-
sun chirurgo era in grado di farlo, si è impadronito lui stesso di quell'arte.»
Lauren lo guardò, senza dire nulla.
Clevenger estrasse il cellulare dalla tasca. «Ho alcune immagini da mo-
strarle. Enrique Vega può essere grande. West Crosse va oltre. È il mae-
stro. Dia un'occhiata qui.» Accese il cellulare e selezionò una fotografia di
Chase Van Myer, con le orbite dissezionate. La fece vedere a Lauren.
Sul suo volto comparvero incredulità, orrore e dolore.
Clevenger premette un tasto e passò all'immagine di Chase nuda, legata
a una poltrona nel Pritzer Pavilion di Frank Gehry.
Lauren chiuse gli occhi.
«Ce ne sono altre. Molte altre.»
Lei deglutì e guardò di nuovo il display del cellulare.
Clevenger passò alle foto della spina dorsale di Jeffrey Groupmann, del
cuore di Ron Hadley, del rene di Gary Hastings.
Sul volto di Lauren si dipinse la confusione.
«Il rene» disse Clevenger. «Perfettamente dissezionato.» Tacque un i-
stante, premette un altro tasto e richiamò una foto di Hastings con la divisa
da baseball, sei mesi prima della morte. «È il rene di un ragazzo di dodici
anni.» Continuò a digitare tasti. Una foto di Heather Rawlings nuda, in-
chiodata a una croce, poi un primo piano del suo collo dissezionato. «È più
bravo di qualunque anatomo-patologo o chirurgo che io abbia mai visto.»
Da un occhio di Lauren spuntò una lacrima, che corse lungo la guancia.
Lei l'asciugò.
Clevenger tornò all'immagine di Hastings. La lasciò in bella mostra sul
display davanti a loro, come se il ragazzo fosse un testimone di quel mo-
mento. «Lei sa dov'è Crosse, Lauren. Me lo dica. Perché se lei non lo fa e
se lui è l'autore di tutto ciò, altre persone moriranno, proprio come è morto
questo ragazzo. E se questo non la farà sentire assai meno che perfetta,
nessuno al mondo potrà aiutarla. Allora non le resterebbe davvero che ri-
volgersi a Dio.»
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Clevenger chiamò North Anderson dalla strada, fuori dal 562 di Park
Avenue.
«Ciao, Frank» rispose Anderson.
Clevenger fermò un taxi. «Dove sei?»
«Al Logan. Tra venti minuti ho l'aereo per Filadelfia.»
«Cambio di programma. Resta in linea.» Salì sul taxi. «All'angolo tra la
Madison e la Trentottesima» disse al tassista. Poi riprese a parlare nel cel-
lulare: «Andiamo tutti e due a Washington».
«Perché? Che cosa sta succedendo?»
«Esco ora da una chiacchierata con Lauren Jones. West Crosse è allog-
giato al Mayflower Hotel come William Russell.»
«William Russell? Non era quel tale che dirigeva la Skull and Bones nei
primi tempi?»
«Ha fondato la società nel 1832, ti ricordi? Pare che abbia fatto fortuna
contrabbandando oppio dalla Turchia alla Cina.»
«Che cosa ci fa Crasse a Washington sotto pseudonimo... e proprio quel-
lo pseudonimo?» chiese Anderson.
«Bella domanda. Lauren Jones avrebbe dovuto incontrarlo lì stasera. Lui
le ha detto che voleva vederla perché non avrebbe più potuto farlo per mol-
to tempo.»
«Come avrebbe detto un mio amico psichiatra legale: "Non può essere
una buona cosa".»
«Sembra di no. Sto andando allo studio Jones & Alison Design per dare
un'occhiata ai progetti di Crosse. Penso che se tu potessi andare a Washin-
gton e almeno individuarlo - se ci riesci, anche seguirlo - sarebbe un bel
passo avanti.»
«Sto andando alla biglietteria.»
«Se tu riuscissi a trovare un computer, potresti scaricare una sua foto da
Internet.»
«Posso collegarmi alla rete con questo cellulare.»
«Ottimo.»
«L'istinto ti dice che è lui il nostro uomo?» chiese Anderson.
«Mi tenevo in serbo il più bello: è stato lui a ricostruire il seno dell'ex
moglie dopo la mastectomia.»
«Lui... cosa?»
«L'ha rifatta. Lauren dice che i due chirurghi plastici che hanno lavorato
su di lei non si sono nemmeno avvicinati al risultato da lui raggiunto.
Crosse ha una biblioteca di trattati di anatomia e chirurgia grande quanto
quella di moltissime facoltà di medicina.»
«Sei pronto a prendere a bordo Whitney?»
Clevenger sapeva che gli sviluppi del caso lo richiedevano. E, allora,
perché esitava? Perché doveva fare da solo quando poteva avvalersi delle
risorse dell'FBI? Credeva davvero che la devozione alla Skull and Bones
superasse quella di Whitney al suo lavoro, al principio della legalità? «Sì,
lo farò» rispose. «Le telefonerò prima di partire per Washington e vedrò se
può incontrarmi in città.»
«Ci vediamo là» lo salutò Anderson.
«Chiamami quando arrivi al Mayflower.»
«Senz'altro.»
Chiusero la comunicazione.
Due minuti dopo il taxi di Clevenger si fermò davanti al 222 di Madison
Avenue.
Pagò la corsa e salì allo studio Jones & Alison Design, al ventitreesimo
piano. La segretaria lo accompagnò nella sala riunioni.
Laine Jones lo stava aspettando.
«Buongiorno, Frank» disse e gli tese la mano.
Clevenger gliela strinse.
«È tutto pronto» lo informò Laine e indicò con un cenno del capo il ta-
volo coperto da sei progetti architettonici. «Ho scelto quelli del periodo in
cui West è stato qui» disse. «Il suo stile è leggermente cambiato - uso dei
materiali e quant'altro - ma penso che i temi centrali del suo lavoro siano
rimasti costanti.»
Clevenger fece lentamente il giro del tavolo osservando i progetti, sfo-
gliando i disegni. La sua convinzione di avere davanti a sé l'opera dell'uo-
mo che aveva ucciso Jeffrey Groupmann, Chase Van Myer e gli altri andò
rafforzandosi. Ogni centimetro quadrato dei disegni era coperto di esau-
rienti annotazioni sul colore, il legno, la pietra e il metallo necessari e di
specifiche direttive sulla costruzione. E in ogni progetto c'era quel magico
uso dello spazio e della luce che Clevenger aveva notato a Pacific Heights,
a Southampton e a Chicago. Soffitti di vetro con incisioni, fitte intersezioni
di travi che si elevavano al cielo, interminabili sequenze di lunette a venta-
glio.
Soprattutto, ciò che i progetti rivelavano era la sensibilità di Crosse per
le vicende esistenziali dei suoi clienti. Un collezionista di automobili a-
vrebbe avuto un garage nel quale le sue vetture sarebbero state sistemate
su rampe lungo il lato interno delle pareti, lasciando libero il centro. Due
coniugi in seconde nozze che volevano mantenere la reciproca indipenden-
za pur convivendo avrebbero abitato in una casa di ottocento metri quadra-
ti che in realtà ne conteneva tre: cinque stanze per lei da un lato, cinque per
lui dall'altro e dieci comuni in mezzo. Un commediografo avrebbe avuto
un anfiteatro con il tetto apribile e un palcoscenico di ebano con il motto di
Mark Twain: "Ogni arte è una menzogna che dice la verità" in caratteri di
bronzo.
Ma, a quanto pareva, Crosse era andato oltre l'uso dello spazio per ono-
rare storie di vita. Aveva progettato le storie stesse.
Clevenger notò una piccola croce tracciata a penna sull'angolo superiore
destro di ciascun disegno. «Crosse usava le croci come simbolo religioso
qui? Oppure hanno un significato architettonico che ignoro?» chiese a Jo-
nes.
«Non hanno nessun significato speciale in ambito architettonico. West le
ha messe su ogni disegno dei vari progetti da lui preparati mentre era qui»
disse Jones. «Per molto tempo le abbiamo considerate una sorta di sigla, al
posto delle iniziali o del cognome. Ma poi lui ha cominciato a parlare e-
splicitamente della sua devozione a Dio. A lungo andare è diventato un ve-
ro problema.»
«In che senso?»
«Non volevo certo contrastare la sua devozione. Ma c'era in essa una
componente missionaria che metteva le persone molto a disagio.»
«Dava l'impressione di volerle convertire? Salvare?»
«Certo, ma ancora di più: dava l'impressione di voler salvare se stesso,
di servirsi di Dio nel modo in cui altri si servono dell'alcol o delle droghe:
come forma di evasione.»
«Da che cosa?» chiese Clevenger.
«Be', questo in realtà è il suo campo, Frank. Io direi da tutto il suo passa-
to. Dalla poliomielite di suo padre. Dalla sedia a rotelle. Dall'essere cre-
sciuto in povertà. Dalla rabbia e dal sentimento di impotenza. Quasi nes-
suno qui sapeva della sua infanzia, ma penso che la gente percepisse un
autentico caos sotto la superficie. E penso che temesse che la religiosità al-
la fine non sarebbe bastata a tenere a freno Crosse e che lui avrebbe potuto
sbarazzarsene e diventare violento.»
Clevenger si rese conto che gli veniva offerta una teoria del perché
Crosse poteva essere il killer e che Jones aveva tutto l'interesse a fargliela
accettare. Il che, peraltro, non la rendeva falsa. «Perché lo ha tenuto con sé
così a lungo?» chiese.
«La verità?» Jones sorrise, ma solo per un istante. «Lo studio era giova-
ne.» Indicò con un cenno del capo i disegni sul tavolo. «Mi servivano
quelli» disse. Poi guardò Clevenger. «E volevo Lauren.»
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Clevenger aveva preso una camera al Mayflower Hotel, sullo stesso pia-
no di Crosse. Aveva appena finito un'altra serie di telefonate alle famiglie
delle vittime per esortarle a rivelargli chi aveva progettato le loro case. In-
vano. Il suo cellulare squillò: era Anderson. Rispose.
«Crosse è appena andato alla Casa Bianca» disse Anderson.
«La Casa Bianca... Pensavo che lo avessi visto entrare nella chiesa di
San Giovanni.»
«Ci è rimasto per quasi due ore. Poi si è diretto al 1600 di Pennsylvania
Avenue. Trattamento di favore all'ingresso dei visitatori. Ha preso la sua
auto.»
«Mi metto in contatto con Whitney... subito.» La chiamò sul cellulare,
dopo aver chiuso la comunicazione con Anderson.
«Ciao, Frank» rispose lei.
«Crosse è alla Casa Bianca.»
«Lo so» disse lei. «È andato prima in chiesa. Ti avevo detto che lo a-
vremmo tenuto d'occhio.»
«E...?»
«E l'abbiamo fatto, come vedi. È quanto mai improbabile che sia lui il
killer. Non ha precedenti penali. È ben conosciuto dal presidente e dalla
first lady. Senza dubbio non è in casa loro sotto falso nome. Sta progettan-
do un ampliamento dell'ala est.»
«Ti riferisci al concorso per il Museo della Libertà? Mi pareva che il
nome del vincitore fosse Ethni... o qualcosa del genere, di Filadelfia. È una
donna nera. C'è stato un articolo su di lei in prima pagina su "USA To-
day".»
«Sai che gli piace usare pseudonimi. Immagino che abbia almeno una
controfigura. Rifugge la pubblicità.»
«Il killer ha scritto alla Casa Bianca» disse Clevenger. «E adesso West
Crosse è là dentro.»
«La cosa non mi preoccupa. Per quale ragione mandare un messaggio al
presidente quando puoi chiacchierare con lui prendendo un caffè? Stiamo
parlando di rapporti del genere. Ha un pass analogo a quello dei capi dei
dipartimenti governativi. Se vuoi proprio saperlo, ciò che mi preoccupa è il
fatto che qualcuno altrove sta per lasciare in giro un'altra lezione di anato-
mia. Che ne dici di occuparcene?»
«Perché non fermarlo per interrogarlo? Che cosa ci sarebbe di male?»
«Che cosa ci sarebbe di male nel fermare uno dei due o tre migliori ar-
chitetti della nazione, che, guarda caso, è amico personale del presidente,
per farlo interrogare dall'Unità di scienze comportamentali dell'FBI? Oh,
non lo so. Tu che ne dici?»
«Mi sono seduto accanto a Crosse. L'ho guardato negli occhi. È morto
dentro. Ha dentro di sé la pulsione a uccidere.»
«Come molta gente» ribatté Whitney. «Questo non significa che abbia
mai ucciso.» Pausa. «Senti, la conclusione è questa: la cosa è fuori dalla
tua e dalla mia portata. So per certo che i servizi segreti stanno controllan-
do e ricontrollando se lui possa rappresentare una minaccia. Mi è stato det-
to che l'ordine è venuto direttamente dal capo dello staff del presidente.»
«Ti è stato detto.»
«Appunto. So che tu pensi che io faccia parte di una grande cospirazione
per governare il mondo, Frank, ma io sto solo svolgendo un lavoro qui.
Non sono io a decidere. Riferisco al mio superiore. E lui non mi mette al
corrente di ogni iniziativa.» Fece un lungo sospiro. «Devi battere altre pi-
ste. Crosse non sembra il nostro uomo.»
Clevenger si sedette sul bordo del letto. Forse Whitney aveva ragione,
pensò. Forse lui era stato davvero miope. Ma allora perché sembrava che
tutto convergesse su Crosse? Come poteva il suo istinto ingannarlo a tal
punto? Com'era possibile che lui avesse scambiato i misteri riguardanti una
società segreta per il vero mistero che tentava di risolvere? Aveva interpre-
tato il loro codice del silenzio come prova di una cospirazione quando non
era altro che tradizione? «Se dici che se ne occupano i servizi segreti, io mi
faccio da parte. Non sto cercando di dirti come fare il tuo lavoro.»
«Certo che lo stai facendo» disse lei. «Non riesci a impedirtelo.»
«Lo ammetto.»
«E non ti sto chiedendo di fare un passo indietro. È proprio l'opposto.
Però non voglio essere portata fuori strada.»
Forse era il momento, pensò Clevenger, di fare un'altra visita a David
Groupmann o a Laine e Lauren Jones. Ma nessuna di queste due piste
sembrava quella che portava al killer. E se lui smetteva di concentrarsi su
quello che per istinto sentiva essere giusto, sapeva che sarebbe stato perdu-
to. Decise di chiamare North Anderson per proporgli di tornare all'ufficio
di Chelsea e di usare tutte le risorse disponibili per esaminare più attenta-
mente il progetto del grattacielo a San Francisco di Jeffrey Groupmann.
Quell'edificio era stato il collegamento tra almeno due famiglie di vittime
di omicidio.
«Ceniamo insieme stasera» propose Whitney, con tono improvvisamente
più affettuoso. «Decideremo in quale direzione muoverci.»
«Con l'indagine?»
Lei esitò. «Con tutto.» Un'altra pausa. «Vieni a casa mia. Diciamo alle
otto?»
Clevenger non sapeva in quale direzione stesse andando l'indagine e non
sapeva cosa stesse combinando Billy. Due circostanze che non gli avreb-
bero causato quella sensazione di vuoto allo stomaco se avesse avuto
dell'alcol a portata di mano. L'alcol gli aveva dato la carica quando
nient'altro era servito. «Mi sembra perfetto» disse.
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Ore 16.40
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Ore 21
Qualcuno bussò. West Crosse socchiuse la porta della sua stanza. Blaire
Buckley era nel corridoio e sfoggiava un berretto da baseball e una T-shirt
Britney Spears Onyx Hotel Tour, con la pancia che sporgeva dagli aderenti
jeans a vita bassa, coprendo la fibbia della cintura di metallo e pietre finte.
«È qui?» chiese, tentando di gettare l'occhio nella stanza.
«Qualcuno ti ha seguito?» chiese Crosse.
«Impossibile. Sono uscita con quelli del catering, sul loro camioncino.
Mi aiutano sempre a battermela.»
«Ti hanno lasciato davanti all'albergo?»
Lei alzò gli occhi al cielo. «Nooo! Mica sono stupida.»
Crosse sorrise. «Britney dovrebbe essere qui tra una decina di minuti.»
Aprì la porta e si spostò di lato.
Blaire entrò.
Crosse chiuse a doppia mandata.
La suite era splendida. Bianchi petali di rosa e mirto coprivano il pavi-
mento. Un centinaio di candide candele votive erano accese. Il Messia di
Händel era poco più di un sussurro.
«Proprio figo» disse Blaire. «Tutto questo per Britney?»
«No» rispose Crosse mettendosi alle sue spalle. «È per te.»
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Ore 1.35
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Ore 3.10
West Crosse entrò con la sua Range Rover nel vialetto d'accesso dell'in-
gresso dei visitatori della Casa Bianca. Quando si fermò in prossimità della
porta sapeva che la sua targa era già stata passata nel database del compu-
ter interno per il riscontro. Telecamere per le riprese notturne avevano cat-
turato la sua immagine e l'avevano immediatamente trasmessa al servizio
di sicurezza. In ogni momento, tiratori scelti avrebbero potuto far scoppia-
re le gomme della sua auto o piantargli una pallottola in testa.
Una guardia armata di mitra si affacciò al finestrino.
Crosse lo abbassò.
«Posso esserle d'aiuto, signor Crosse?»
«Sì. Dietro ho un baule pieno di campioni di granito e legno per il mu-
seo. Devo portarlo nello studio della first lady, il più vicino possibile ai
nuovi locali. Certi pezzi sono molto pesanti.»
«Lei comincia a lavorare maledettamente presto» osservò la guardia.
«Non è presto per me. È il momento in cui sono più produttivo. Nessuno
mi disturba.»
La guardia sorrise. «Su questo sono pienamente d'accordo.»
Crosse parcheggiò e uscì dall'auto, mentre la guardia controllava il baule
da viaggio Louis Vuitton con un apposito apparecchio alla ricerca di e-
splosivi.
«È il protocollo» disse la guardia. «Lei capisce.»
«Ma certo» ribatté Crosse.
La guardia terminò il controllo. «Fatto» disse e aiutò Crosse a tirar fuori
il baule dall'auto.
«Adesso posso fare da solo» disse Crosse.
«Benissimo.»
Crosse portò il baule all'interno, lungo i regali corridoi del potere, verso
lo studio della first lady. Lo trascinò alla parete in cui si aprivano le fine-
stre che si affacciavano sul sito del futuro Museo della Libertà, proprio nel
punto in cui si era fermato la prima volta che aveva concepito il suo pro-
getto.
Si aspettava che il museo sarebbe stato comunque costruito nel pieno ri-
spetto del suo piano. Quello che aveva fatto, in fin dei conti, era non un in-
sulto alla libertà, ma il suo più grande atto in difesa della libertà.
Non portava armi con sé. Aveva un pass di livello così alto che proba-
bilmente sarebbe potuto entrare con una pistola, ma sapeva che non ne a-
vrebbe avuto bisogno per sacrificarsi alla sua causa. Non poteva certo en-
trare nella Casa Bianca del presidente Buckley, fare quello che stava per
fare e uscirne. Conosceva bene il suo cliente.
Si tolse giacca e stivali. Restò a piedi nudi, in una tunica pulita di lino
bianco. Si inginocchiò davanti al baule e lo aprì.
Sorrise.
Blaire Buckley vi giaceva avvolta in un telo di plastica, con i magnifici
organi che avevano quasi generato resistenza alla grande leadership di suo
padre, esattamente dissezionati, eliminata ogni traccia di Eden, come se
non fosse mai esistita.
Si chinò, la prese fra le braccia, chiuse il baule e ve la depose sopra. Poi
le si inginocchiò davanti e pregò Dio che aveva dato alla sua vita e alla sua
morte un così glorioso significato:
Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome,
venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà,
come in cielo così in terra.
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Ore 10.20
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23 agosto 2005
Gary Field, il capo dello staff del presidente, tre giorni dopo telefonò a
Clevenger invitandolo alla Casa Bianca. Il presidente e la first lady, disse,
desideravano ringraziarlo per i suoi servigi e chiedere il suo aiuto.
Adesso Clevenger era seduto davanti al presidente Warren Buckley e a
Elizabeth Buckley nello Studio Ovale. «Condoglianze» disse.
«Grazie» ribatté il presidente. «So con quanta tenacia ha dato la caccia al
killer di nostra figlia. E so che, se lei avesse potuto fare a modo suo, lo a-
vremmo fermato prima che uccidesse Blaire.»
La first lady sorrise e annuì.
Il presidente sembrava un bambino intento a giocare a indiani e cowboy.
Tu hai fatto fuori il mio amico, ma l'altro mio amico farà fuori te, a meno
che... Sua moglie pareva una bambola caricata a molla. In apparenza nes-
sun dolore.
«Vorrei che avessimo scoperto perché ha fatto quello che ha fatto» disse
Clevenger.
«Odiava me, odiava il partito» disse il presidente. «Probabilmente ha vi-
sto l'immondizia di cui ha inondato i giornali poco prima di uccidere la no-
stra bambina.»
L'immondizia, unita alla tragica morte della figlia, aveva fatto balzare al
settantuno per cento l'indice di gradimento di Buckley, il punto più alto
della sua presidenza. E questo prima dei funerali che l'indomani sarebbero
stati trasmessi in diretta nazionale. «Sì, l'ho vista» rispose Clevenger. «Ma
non sono sicuro che questo basti a spiegare. In fin dei conti, gli individui
normali non uccidono per confermare un punto di vista.»
Il presidente sorrise forzatamente.
«Grazie a Dio» disse la first lady.
«A dire il vero, poco conta cosa c'era nella sua testa quando faceva a
pezzi le vittime» disse il presidente. «Perché non potrà più rifarlo. Mai
più.»
La first lady sorrise e annuì.
«È solo un modo di vedere la cosa» disse Clevenger.
«Naturalmente, un processo sarebbe stato il risultato migliore per Eliza-
beth, i miei figli e me.»
«Pensavo che non le interessasse scoprire di più su quell'uomo.»
«Infatti» disse il presidente. «Ma non ero qui quando ha sparato con
quella pistola costringendo i servizi segreti a toglierlo di mezzo. Mi sareb-
be piaciuto assistere alla sua esecuzione e dargli personalmente l'addio.»
«E io sarei stata al suo fianco» aggiunse la first lady.
«Capisco» disse Clevenger.
Il presidente sorrise e strizzò l'occhio. Poi sembrò ricomporsi e calarsi
sul volto una maschera impenetrabile. «Desidero che lei prenda in conside-
razione l'idea di restare con noi.»
«Restare? In che senso?»
«Possiamo parlarne la settimana prossima, diciamo. Magari qualcosa di
alto livello all'FBI. Magari alla CIA. In questo momento hanno più che
mai bisogno di psichiatri. Per tirar fuori la verità dalla gente. Lei potrebbe
dare un contributo concreto al nostro paese.»
«Non credo che sia il momento» disse Clevenger.
«Perché no?» chiese il presidente.
«Mio figlio è appena uscito dal reparto di terapia intensiva. Si era fatto
un'overdose di OxyContin. E ha guai con la legge, per droga. Ha bisogno
di me» spiegò Clevenger.
«Be', forse nel futuro di suo figlio ci sarà una grazia» ipotizzò il presi-
dente. «Non posso prometterlo, ma posso esaminare il caso in questione.»
«La ringrazio» disse Clevenger.
«Pregheremo per voi due» assicurò la first lady. Guardò il marito.
«Si ricordi,» disse il presidente «che la causa della libertà ha più che mai
bisogno di uomini buoni.»
Ringraziamenti
Sono grato ai miei editori, Matthew Shear e Sally Richardson, che hanno
creduto nel mio lavoro e hanno continuato a sostenerlo. Per amore di equi-
tà, il mio grazie anche a Michael Homier, assistente del mio editor artistico
Charles Spicer.
Le mie ricerche si sono avvalse del punto di vista di molte persone, tra
cui Brad Garrett dell'FBI, l'ex segretario di stato ai Trasporti Drew Lewis,
il sergente John "Buck" Goodwin della polizia di Revere, Joshua Resnek
dell'Independent News Group, Todd Morley del Guggenheim Group, J.
Christopher Burch e l'avvocato Anthony Traini.
Ringrazio Tom Wolfe e Christopher Alexander per le loro idee, uniche e
preziose, in fatto di architettura.
Un grazie a Jeanne Geiger, Jeanette Ablow, Allan Ablow, Karen Ablow,
James F.X. Doherty e Alison Jones per aver letto il manoscritto.
Ho un debito di riconoscenza nei confronti di Catherine Crier, James
Patterson, Anne Perry, Ann Rule, Jonathan Kellerman, Janet Evanovich,
Robert Parker, Tess Gerritsen, Michael Palmer, James Hall e Dennis Le-
hane per il loro sostegno e l'esempio della loro creatività.
Infine, ringrazio i miei familiari, Debbie, Devin e Cole perché sono le
più splendenti luci della mia vita.
FINE