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KEITH ABLOW

L'ARCHITETTO
(The Architect, 2005)

Per le tre persone


che hanno trattato ogni pagina
come fosse loro:
Marilyn Firth, ricercatrice
Charles Spicer, editor
Beth Vesel, agente.

«Mezzi impuri comportano una fine impura.»


MAHATMA GANDHI

PROLOGO

3 agosto 2005, ore 3.33

Era a piedi nudi e indossava solo una tunica di lino bianco, come pre-
scritto dalle Sacre Scritture. Mani prive di guanti. Raggi di luce colorata
scendevano sul corpo che giaceva sul tavolo anatomico di fronte a lui. Fer-
ri chirurgici d'acciaio inossidabile sterilizzati erano perfettamente allineati
su un vassoio d'argento al suo fianco.
Prese il bisturi e lo fece scorrere leggermente sulla pelle sopra la spina
dorsale, aprendo la carne a rivelare splendidi fasci di muscoli dai nomi al-
trettanto splendidi: trapezio, splenio, cervicale.
Sistemò i divaricatori per tenere separati i tessuti, poi incise più in pro-
fondità, attraverso fasce e legamenti, fino all'osso.
La sua sala operatoria, interamente di pietra, era stata costruita in base
alla sezione aurea, un rettangolo in cui il lato lungo era maggiore del ses-
santadue per cento rispetto a quello corto, le stesse proporzioni utilizzate
nella progettazione delle piramidi, del Partenone, della basilica veneziana
di San Marco e perfino dei libri dell'Eneide di Virgilio. Il tetto a quattro
spioventi rispondeva allo stesso ideale. Ogni muro aveva una finestra goti-
ca di vetro piombato delle stesse, esatte proporzioni, raffigurante una bat-
taglia campale tra le forze del bene e del male: Dio e il Leviatano, Zeus e i
Titani, i Pandava e un esercito di demoni, Krishna e i Kaurava.
Gli altoparlanti, nascosti nelle pareti, diffondevano le note del Messia di
Händel. Un profumo di mirto riempiva l'aria.
Mise a nudo alcune vertebre all'altezza della spalla, si fermò un attimo e
fece un respiro sognante. Era la sua ricompensa. L'accesso al sancta sanc-
torum. Una finestra sul grande disegno di Dio. Amava la perfetta unione di
struttura e funzione della spina dorsale, sufficientemente rigida per proteg-
gere il midollo che vi scorreva dentro e sufficientemente elastica perché un
uomo potesse guardare le stelle, sbaciucchiare un'amante, accucciarsi, sal-
tare.
Se fosse stato un servo più umile, sarebbe diventato un chirurgo, dedito
alla riparazione dei corpi deformati dalla malattia, dagli incidenti o dall'età.
Ma lui aveva bisogno di creare la bellezza, non solo di ripristinarla.
Fece scorrere la lama più in basso, bramoso di posare gli occhi sulla
cauda equina, il fascio delle radici dei nervi che fuoriescono dalla base
della spina dorsale per dare mobilità alle gambe.
Non provò per il sangue sulle sue mani più rimorso di quanto ne provi
uno scultore per le schegge di pietra sparse sul pavimento. La distruzione
era semplicemente una parte della creazione, uno spazzar via per rivelare
qualcosa di più perfetto.
Adoperò una sega chirurgica per rimuovere le parti posteriori di tre ver-
tebre vicine al coccige, dissezionò fino alla guaina intorno al midollo, l'a-
prì con il forcipe. Poi, tremando per l'eccitazione, passò la punta di un dito
sull'umido e bianco fascio interno. Riusciva quasi a percepire le ondate di
ioni carichi che un tempo si agitavano lì dentro. E sentì con assoluta cer-
tezza che lui era stato scelto e che la sua più grande sfida sarebbe stata ben
presto a portata di mano.
Lanciò un'occhiata a una serie di fotografie in cornici d'argento appese
alla parete: una veduta aerea della Casa Bianca; uno scatto del presidente
Warren Buckley a passeggio nel Roseto; un ritratto di famiglia del presi-
dente con la moglie, i due figli e la figlia: un primo piano della ragazza...
lo scherzo della natura, l'incidente. I suoi occhi si fermarono su di lei, men-
tre le sue pupille si dilatavano, i suoi polmoni si espandevano e il suo cuo-
re batteva forte. Quando tornò a guardare il ritratto di famiglia, lei era
scomparsa.

10 agosto 2003, ore 15.20


Una mappa degli Stati Uniti risaltava sullo schermo piatto in fondo alla
stanza.
«Ricorderete senz'altro che i primi due corpi sono stati trovati a Darien e
a Greenwich» disse Bob White, un analista dell'FBI sulla quarantina, un
tempo agente della polizia stradale.
Due stelle brillavano sul Connecticut.
«Agosto e ottobre 2003. Entrambi in mezzo ai boschi. Le strane condi-
zioni dei cadaveri si sono guadagnate le prime pagine dei giornali, ma nel
giro di un paio di mesi l'interesse è scemato.» Si schiarì la voce, ma il suo
tono stridulo non cambiò. «Fino all'anno scorso» aggiunse. «Il terzo corpo:
un ragazzo di ventidue anni a Big Timber, Montana.»
Un'altra stella.
«Ha varcato i confini dello stato e noi siamo stati coinvolti. Adesso, altri
due negli ultimi sei mesi: Southampton, New York...»
Una quarta stella.
«...Ironwood, Michigan.»
Una quinta stella.
«La stampa ci è tutta addosso.»
Lo psichiatra legale Frank Clevenger, quarantanove anni, guardò Ken
Hiramatsu, l'anatomopatologo dell'agenzia. «Mi parli dei corpi.»
Hiramatsu manovrò il proiettore per la successiva serie di immagini.
Sullo schermo apparve quella che sembrava un'inquadratura tratta da
Gray's Anatomy.
«La sua è una dissezione a regola d'arte» spiegò Hiramatsu, con una sor-
ta di ammirazione. «Un organo, un vaso o una giuntura diversi in ogni vit-
tima risultano magistralmente esposti. A Darien, si trattava del cuore di
una donna di ventisette anni.»
Clevenger poté constatare che sterno e cassa toracica della vittima erano
stati tagliati via con precisione e che i muscoli e le fasce sottostanti erano
trattenuti da aghi d'argento, consentendo una visione completa del cuore,
liberato perfino dal pericardio, la membrana fibro-sierosa che di norma lo
avvolge come un guanto.
«Lui va in profondità» proseguì Hiramatsu, manovrando di nuovo il pro-
iettore. «Vuole vedere ogni cosa.»
L'immagine sullo schermo cambiò, lasciando il posto al primo piano di
un divaricatore che teneva aperta una finestra praticata nel ventricolo sini-
stro, a rivelare le valvole aortica e mitralica. L'immagine successiva mo-
strò una seconda finestra sulla valvola tricuspide, all'interno del ventricolo
destro.
«Afferri l'idea» esortò Hiramatsu, agitando un dito a mezz'aria. Le dia-
positive cominciarono a scorrere.
Clevenger esaminò, una dopo l'altra, le immagini di quella meticolosa
carneficina. La sezione di una parete addominale tagliata per esibire il rene
di un adolescente, con l'arteria renale e l'uretere portati in bella vista dai fili
che vi erano stati legati intorno, tesi e fissati ad aghi d'argento. L'anca de-
stra di una donna di mezza età aperta a mostrare il collo e la testa del fe-
more, con il gluteo medio, il quadrato femorale e i muscoli ileopsoas
strappati di netto. Le vene giugulari e le carotidi di una bella donna sulla
trentina. La spina dorsale di un uomo a faccia in giù su un letto di foglie.
«La spina dorsale è dell'uomo del Michigan» spiegò Hiramatsu. «Il suo
lavoro più perfetto.»
Clevenger lo guardò.
«Per l'attenzione ai dettagli» precisò Hiramatsu. «Ogni nervo spinale
isolato. Le arterie vertebrali magistralmente dissecate. Nessuna di esse la-
cerata. Neppure una scalfittura.»
«Segni di stupro?» chiese Clevenger.
«Nessuno» rispose Hiramatsu.
«Causa della morte?» chiese ancora Clevenger.
«Avvelenamento» rispose Hiramatsu. «Abbiamo trovato tracce di cloro-
formio e succinilcolina in ognuno dei corpi.»
Il cloroformio è una sostanza sedativo-ipnotica. La succinilcolina è un
potente bloccante neuromuscolare: ne bastano tre milligrammi per immo-
bilizzare ogni muscolo del corpo, cuore compreso.
«Abbiamo pensato a un chirurgo» intervenne Dorothy Campbell, un'an-
ziana ed elegante signora che gestiva il sistema computerizzato per traccia-
re gli identikit. «La lama è compatibile con quella di un bisturi.»
«Verrebbe da pensare che abbia fatto una certa pratica in sala operato-
ria» osservò Clevenger.
«Forse un medico in gamba radiato per droga o negligenza» ipotizzò
White. «Uno deciso a mostrare a tutti quanto è competente.»
«Può darsi» commentò Clevenger.
«Quello che sappiamo per certo,» proseguì White «è che sa scegliere.
Tutte e cinque le vittime sono persone abbienti, perfino il ragazzo.»
«Non trova queste persone per caso» disse Dorothy Campbell. «Loro lo
conoscono. Si fidano di lui.»
«Si conoscono tra loro?» domandò Clevenger.
«Il marito di una vittima e il padre di un'altra facevano entrambi parte
del consiglio di amministrazione della National Petroleum» rispose White.
«Non potremmo mai ricavarci niente.»
«Altri indizi?» chiese Clevenger guardando le persone intorno al tavolo.
Ci furono alcuni secondi di silenzio prima che White si schiarisse la vo-
ce un'altra volta. Strizzò l'occhio. «Se facessimo molti passi avanti, lei non
sarebbe qui.»

La dottoressa Whitney McCormick, direttrice dell'Unità di scienze com-


portamentali dell'FBI, aveva lasciato detto alla segretaria di far accomoda-
re Clevenger nel suo ufficio.
Lui si sedette sulla poltrona di fronte alla grande scrivania di mogano e
guardò una foto di se stesso sullo scaffale accanto ad altre di lei con il pa-
dre ex senatore, della madre e della sorella, del suo labrador nero, del suo
cottage a Nantucket.
Si concentrò su Whitney. In quella foto era appena un'adolescente, con il
sorriso infantile e i capelli lunghi fino alla vita, eppure lui riuscì a cogliere
nel suo sguardo quella rara combinazione di saggezza e vulnerabilità che
lo attraeva in modo così irresistibile.
Non era un segreto che lui e Whitney McCormick fossero amanti che si
lasciavano e si riprendevano, anche se nessuno all'FBI era in grado di in-
dovinare se, un certo giorno, stavano insieme oppure no. Nemmeno lui ne
era sempre sicuro.
Sapeva che non potevano stare un mese senza vedersi, almeno per un pa-
io d'ore a letto. Sapeva che non potevano giocare a coppia fissa per un'inte-
ra stagione, facendo la spola tra il suo loft a Chelsea, alla periferia di Bo-
ston, e l'appartamento di lei, a Washington. E, in parte, sapeva perché.
Erano straordinariamente in sintonia sul piano intellettuale, parimenti af-
fascinati dalla psiche umana e dalle sue patologie e dotati di menti ugual-
mente tenaci che esaminavano senza sosta i problemi fino a risolverli. Ed
erano straordinariamente affiatati sul piano sessuale. Chiave e toppa. Cle-
venger amava dominare la situazione in camera da letto e Whitney amava
lasciarlo fare.
Potevano parlare e fare l'amore per ore e sapevano quanto ciò fosse raro
a questo mondo. Ma, in qualche modo, sapevano anche che non bastava a
superare quel qualcosa che li teneva separati... stavolta per un po' più di tre
settimane.
«Hai ottenuto quello che cercavi?» chiese Whitney entrando nell'ufficio.
Clevenger si girò e l'accompagnò con lo sguardo mentre si sedeva dietro
la scrivania. Whitney aveva trentasette anni e i capelli lunghi fino alle spal-
le, indossava pantaloni di seta nera e una semplice camicetta nera sotto una
giacca dello stesso colore. Clevenger notò che non portava la collana con
la mezzaluna di diamanti che lui le aveva regalato due anni prima per il
suo compleanno. «Sono aggiornato» rispose. «Ti entusiasma prendermi a
bordo?»
«Prenderei a bordo Bin Laden se ciò significasse acchiappare quel tipo.»
Davvero una bella compagnia...
«Senti, mi dispiace» disse Clevenger, protendendosi verso di lei. «Do-
vremmo parlare...»
«...del caso. Parliamo del caso.»
Lui si appoggiò allo schienale della poltrona.
«È ovvio che abbiamo a che fare con un tipo organizzato. Sa esattamente
chi vuole uccidere e come.»
«Più che organizzato» osservò Clevenger. «Ossessionato. Forse, affetto
da disturbo ossessivo-compulsivo.» Si stava perdendo nei profondi occhi
marroni di Whitney. «È dura» aggiunse.
«Tu puoi farcela» osservò lei. Una pausa. «Disturbo ossessivo-
compulsivo...»
Clevenger si costrinse a concentrarsi. «Non so i tuoi, ma i miei cadaveri
alla facoltà di medicina non assomigliavano a nessuna delle fotografie che
ho appena visto. Mi affannavo sempre a seguire le istruzioni del manuale
di anatomia. Era un gran casino. Per questo tipo, invece, non è così. Se la
prende comoda. È un perfezionista.»
«Il che si accorda con il modo in cui sistema i cadaveri: in fosse poco
profonde, con le braccia conserte, avvolti nella plastica.»
«Mummie. Pulite, protette dagli elementi» osservò Clevenger. «Non ce
l'ha con quelle persone. Non infierisce sui loro corpi. Prima le addormenta
con il cloroformio. Le vuole morte, ma non vuole che soffrano.»
«Molto gentile» disse Whitney, sorridendo per la prima volta da quando
era entrata nell'ufficio. «E disseziona solo una parte del corpo. Davvero
preciso.»
«Ama l'anatomia umana come altri amano il vino. Ne assapora ogni
goccia, senza mai ubriacarsi.»
«Un intenditore.» Whitney piegò la testa di lato e lo guardò di sottecchi.
«Che cosa?»
«Tu non stai bevendo, vero?»
«Non ultimamente» rispose lui.
Lei continuò a guardarlo, con occhio clinico.
«Se vuoi giocare al dottore, mi spoglio per te.»
«"Non ultimamente" significa nelle ultime ore o negli ultimi anni?»
«Pensavo che dovessimo occuparci del caso.»
Whitney lo fissò.
Clevenger distolse lo sguardo, poi lo riportò su di lei. «Mi manchi.»
Gli occhi di Whitney divennero freddi come il ghiaccio. «Lascia che te
lo dica: se stai bevendo e vuoi lasciar intendere che la colpa è mia, puoi
andartene subito. Potresti esserci davvero di aiuto, ma...»
«Non illuderti» ribatté lui. «Sono sobrio da due anni. Non mi manchi
tanto da rovinare tutto.»
Whitney non sembrava convinta. «Per me non è più facile che per te. Ma
questa volta, ribadisco ciò che ho detto: ho bisogno di cose che tu non puoi
darmi. Se mi ami, devi accettarlo.»
«Lo accetto» disse Clevenger, sospirando. «E lo accetterò.»
«Ti ringrazio.» Lei rimase un attimo in silenzio. «Che cosa ti serve per
cominciare?»
«Qualunque cosa. Tutte le prove raccolte sulla scena del crimine a parti-
re dal 2003: fibre, gocce di fluidi, foto. Tutti i rapporti della polizia e degli
agenti sul campo, comprese le comunicazioni interne. Accesso diretto ai
cadaveri, se non sono stati sepolti. E forse anche se lo sono stati.»
«Nessun problema. Tanto per cominciare, puoi consultare il fascicolo
prima di andartene. Chiedi pure le fotocopie di tutto quello che vuoi.»
«Mi affiancherà North Anderson.»
North Anderson, un ex poliziotto di Baltimora e il primo capo nero della
polizia di Nantucket, era socio di Clevenger alla Boston Forensics e uno
dei suoi pochi amici.
«D'accordo» disse Whitney. Sembrava che avesse qualcos'altro da dire.
«Che c'è?»
«La cosa deve rimanere tra noi. Due sole persone dell'agenzia ne sono al
corrente: il direttore e io.»
«Non ho segreti per North.»
«Tentiamo di mantenere...»
«Sempre» aggiunse Clevenger. «E lo sai.»
Lei esitò. «North e nessun altro» concesse lei, alla fine. «Ho la tua paro-
la?»
Lui annuì.
Alcuni istanti di silenzio.
«Ha mandato un messaggio al presidente» comunicò lei.
«Al presidente?» Clevenger si protese di nuovo. «Degli Stati Uniti?»
«È stato aperto da un funzionario della Casa Bianca cinque giorni dopo
il primo cadavere.»
«Come fanno a sapere che veniva da lui?» domandò Clevenger.
«La patente di guida della vittima era allegata.»
Non astuto. «Che cosa diceva?»
«Penso che il presidente abbia il suo appoggio.» Whitney aprì un casset-
to della scrivania e ne estrasse un foglio di carta. Lo porse a Clevenger.
Era una fotocopia del messaggio, parole battute a macchina al centro del
foglio, una semplice croce tracciata sopra:
Abbi fede. Un paese alla volta o una famiglia alla volta, la nostra opera
è al servizio di un unico Dio.

West Crosse suonò il campanello all'11204 di Beach Drive a Miami e


poi si girò a guardare l'orizzonte, schermandosi gli occhi con la mano men-
tre osservava la spessa linea azzurra dell'oceano Atlantico, interrotta sol-
tanto da creste di schiuma sulle lontane secche sabbiose. Fu colto da un'on-
data di disgusto. Era tutto sbagliato, lo sentiva nel profondo del suo essere.
La tettoia sulla soglia era una mensola di cemento bianco, troppo corta per
fare ombra, ma abbastanza pesante per riempirlo della vaga preoccupazio-
ne di restarne schiacciato. Il marmo sotto i suoi piedi era troppo bianco e
troppo lucido, a significare che la sua stessa presenza - il fatto che era un
essere vivente, che le sue scarpe erano usate, che le suole di cuoio erano
consumate - avrebbe macchiato le stanze. Il vialetto d'accesso era dritto e
stretto, bordato da ambo i lati da una siepe bassa, squadrata, che era un di-
vieto a passeggiare o guardare o chiacchierare o pensare. Vieni e vattene,
se proprio devi. Non trattenerti.
«Posso esserle di aiuto?» chiese una donna dall'accento ispanico attra-
verso il citofono.
Lui si girò e si trovò di fronte a una porta a vetri di quasi tre metri, abba-
stanza alta per consentire l'ingresso di un uomo a cavallo, troppo alta per
dare il benvenuto a chiunque altro. «West Crosse. Vorrei vedere i signori
Rawlings.» Mostrò un foglio arrotolato di carta da lucido.
«Un momento.»
Mezzo minuto dopo la porta si aprì e una donna sui ventidue anni, con
lunghi capelli biondo platino, una corta gonna bianca e una T-shirt dello
stesso colore, gli sorrise. «Sono nella biblioteca.»
«Nella biblioteca» ripeté Crosse. Sembrava promettente. Forse un tocco
di noce o pino gli poteva nutrire l'anima.
«Sono Maritza, l'assistente del signor Rawlings.» Gli tese la mano.
Crosse gliela strinse, notando le lunghe unghie rosa della ragazza e il
suo braccialetto di diamanti con il simbolo della pace contornato da bril-
lanti a mo' di ciondolo. La guardò negli occhi, assai meno scintillanti dei
gioielli. Poi abbassò lo sguardo e notò che il suo collo cominciava ad ar-
rossarsi.
Sapeva di far colpo sulle donne. Aveva trentotto anni, era alto un metro
e ottantadue, robusto, con la pelle olivastra, i capelli neri come l'ebano, gli
occhi grigio-azzurri e le labbra piene. I suoi lineamenti sarebbero stati ad-
dirittura troppo perfetti - tanto da renderlo inarrivabile - se non fosse stato
per una cicatrice irregolare che gli partiva dallo zigomo sinistro e arrivava
all'angolo della bocca. L'effetto era un'irresistibile combinazione di ricer-
catezza e indifferenza, forza e fragilità. Alle donne faceva venir voglia di
prendersi cura di lui e al tempo stesso di essere prese da lui.
L'attrazione che West Crosse provava per le donne non era inferiore a
quella che loro provavano per lui, tanto che aveva progettato la sua cicatri-
ce proprio pensando a loro. A vent'anni, in piedi davanti a uno specchio
dorato a figura intera nella sua camera da letto, rendendosi conto che Dio
gli aveva concesso troppi vantaggi, si era tagliato con un rasoio a mano,
voltando rapidamente la testa per dare alla ferita una forma irregolare.
La sua determinazione di ricreare se stesso era così forte e la sua idea di
come farlo così sicura, che non aveva provato dolore.
«Sarò lieta di farla accomodare» annunciò Maritza, sorpresa delle pro-
prie sensazioni. Lentamente lasciò andare la sua mano.
«Dopo di lei, allora» disse Crosse.
La seguì in un'anticamera dal soffitto basso dominata da una parete di
vetro e, da lì, in un lungo, angusto corridoio bianco che li condusse in una
stanza invasa dal sole, un'anonima scatola di cemento. Crosse lanciò
un'occhiata verso tre grossi lucernari cilindrici che si proiettavano in aria
per due metri come comignoli.
«Il signor Crosse chiede di voi» annunciò Maritza. Si voltò e ritornò
verso l'anticamera.
Ken Rawlings e sua moglie Heather, entrambi ultra-quarantenni, in jeans
di marca e maglie bianche di Prada intonate, si alzarono dalle loro sedie in-
torno a un tavolo da riunioni di vetro al centro della stanza. Lui era alto
circa un metro e settanta e aveva una corporatura massiccia, i capelli ar-
gentei e una notevole abbronzatura. Lei, una donna corpulenta con i capelli
biondi ossigenati, era più alta di lui di alcuni centimetri.
Dei due, era Heather quella con i soldi, che provenivano dall'Abicus, una
società di estrazione di diamanti che aveva ereditato da suo padre. Ken
Rawlings, banchiere d'affari del gruppo Morgan Stanley, l'aveva trasfor-
mata in una public company. Avevano appena comprato un enorme terreno
nel Montana e stavano consultando degli architetti per la costruzione di
una casa padronale e di tre dépendance per gli ospiti, per un totale di quasi
duemila metri quadri. Le spese di progettazione da sole avrebbero sfiorato
il milione di dollari.
«Prego, si accomodi» disse Ken Rawlings.
Crosse si guardò intorno. Niente noce. Niente pino. Qualche migliaio di
libri, tutti più o meno della stessa altezza, con le coste perfettamente alli-
neate, riempivano profondi ripiani rivestiti di legno laminato verniciato. Di
fronte, otto sedie di cuoio nero e acciaio tubolare disegnate dal famoso ar-
chitetto Ludwig Mies Van der Rohe.
Passarono dieci, quindici secondi.
«Signor Crosse?» lo richiamò Ken Rawlings.
«Chiedo scusa» disse Crosse, cercando di concentrarsi sul suo interlocu-
tore. «Volevo studiare lo spazio.»
«Ci farebbe piacere conoscere il suo parere» intervenne Heather Ra-
wlings.
Lui la guardò. «So essere fin troppo sincero.»
«Ce l'hanno detto» disse Ken Rawlings. «Forza.»
«D'accordo» replicò Crosse. «È spazio morto. Ogni centimetro.»
Il volto di Heather Rawlings si fece inespressivo.
Ken Rawlings si sforzò di non manifestare la propria irritazione. «È
piuttosto particolare, naturalmente» disse. «Ma penso che si potrebbe dire
la stessa cosa di tutto lo stile internazionale. Il nostro architetto è stato al-
lievo di Gropius. È rimasto fedele alla forma.»
Crosse fece un sorriso sarcastico. Considerava lo "stile internazionale"
un ossimoro. Architetti tedeschi e francesi, compresi Walter Gropius, Mies
Van der Rohe e Le Corbusier, erano stati alla testa del movimento durante
la prima metà del XX secolo, proclamando che "il meno è più" e che "la
forma segue la funzione". Animati da una visione socialista e antiborghese
del mondo, non capivano la ragione delle comodità materiali e non erano
disposti a fare concessioni come tetti a volta, modanature, colonne, cornici,
bovindi, intelaiature, piante o tende. Non sentivano la necessità neppure
dei colori. Per dirla con Le Corbusier, «la casa è una macchina da abitare».
«Lei ci trova qualcosa di divertente?» disse freddamente Ken Rawlings.
«Tragicamente divertente» ribatté Crosse. Il sorriso sparì dal suo volto.
Sapeva che Rawlings era stato un marine e, dunque, sapeva anche che la
domanda che stava per fare avrebbe potuto costargli l'incarico che era ve-
nuto ad accettare e una parcella milionaria. Ma questo non gli importava.
Gli interessava solo la verità. «Cos'è che le fa tanta paura?»
«Come, scusi?»
«Posso sedermi?»
Ken Rawlings non rispose, ma sua moglie gli indicò la poltrona di nichel
opacizzato che avevano di fronte. «Prego» disse, sedendosi a propria volta
e lanciando un'occhiata al marito, che con riluttanza fece altrettanto.
Crosse si accomodò. La poltrona era dura e fredda. Posò il suo disegno
arrotolato sul tavolo e mise una mano sul ripiano di vetro. Poi guardò drit-
to negli occhi Ken Rawlings. «Lei sta vivendo - o tentando di vivere - nel-
la casa di un altro. Perché sembra sicura. Ma non lo è.»
«Non la seguo» disse Rawlings.
«Questa è la casa di Walter Gropius» spiegò Crosse. Guardò Heather
Rawlings. «Non ha niente a che fare né con lei né con sua moglie.» Senti-
va che la sua passione cominciava ad animarsi, la passione di liberare per-
sone dalla tomba di paura che impediva loro di esprimere le parti più vere
del loro essere, le tratteneva dal sentirsi completamente, squisitamente vi-
ve. «Gropius amava consigliare ai suoi studenti in Germania di partire da
zero. Pretendeva che si liberassero da ogni convenzione, da ogni sfumatura
che rimandasse al passato. Nulla aveva valore, a meno che non fosse asso-
lutamente nuovo, intatto. Una nuda lastra. E perché? La Germania era stata
distrutta, il popolo tedesco umiliato. Gropius voleva che il passato morisse.
Questa era la sua verità.»
«Conosco la storia» disse asciutto Rawlings.
«Ma non è la storia ciò che importa» ribatté Crosse, parlando con calma.
«Il posto e il modo in cui vive, dovrebbero riguardare la sua storia e quella
di sua moglie.»
Heather Rawlings abbozzò un sorriso, la prima emozione che tradiva.
«Temo che ciò significherebbe vivere in un notevole caos.»
Questo intervento animò Crosse più che mai, inducendolo a guardare
Heather Rawlings. «Non deve aver paura. Il caos è il luogo migliore da cui
partire.» Si afferrò al tavolo con entrambe le mani. «Si domandi: "Cos'è
che desideriamo fare in casa nostra? Desideriamo starci dentro?". È come
passeggiare insieme nei giardini, conoscersi reciprocamente meglio? Op-
pure è come leggere da soli su una terrazza costruita per una sola poltrona?
Si sentirebbe più a suo agio in una casa con duecento metri quadrati di ter-
razza, o in un rifugio dai muri di pietra? O dovrebbero essere entrambe le
cose: una grande sala da ricevimento con un ampio vialetto d'accesso se-
micircolare, completamente separata dalla casa padronale in mezzo ai bo-
schi? Forse uno di voi nutre il recondito desiderio di diventare un pittore,
senza però avere uno studio dove cominciare a lavorare... a svegliarsi. A
vivere.» Riusciva a stento a trattenersi. «Può darsi che lei abbia fantastica-
to di fare l'amore in un giardino segreto. O su un tetto a terrazza sotto...?»
«Vediamo di tornare in carreggiata» lo interruppe Ken Rawlings e in-
crociò le braccia sul petto. «Sono certo che ha ricevuto le fotografie del
nostro terreno nel Montana. Ha portato i disegni?»
Crosse notò che il collo di Ken Rawlings si era fatto rosso. «Uno solo»
rispose.
Rawlings fece un cenno in direzione del foglio.
Crosse prese il disegno, sfilando lentamente l'elastico che lo fermava.
«Faccio sempre i compiti a casa.»
«Le sue referenze sono impeccabili» ammise Ken Rawlings a malincuo-
re.
«Davvero straordinarie» confermò Heather Rawlings. «I Bingham e i
Fisher non avrebbero potuto elogiarla di più.»
Crosse sapeva che quella era l'unica ragione per cui Ken Rawlings non
l'aveva sbattuto fuori. I suoi clienti non solo apprezzavano ciò che lui fa-
ceva per loro, ma lo amavano per questo. Lui cambiava la loro vita per
sempre.
Si alzò e stese il disegno sul tavolo, senza staccare gli occhi dal volto di
Ken Rawlings. Vi lesse incredulità, poi rabbia mista a tristezza.
«Che diavolo è?» sussurrò Rawlings.
Il disegno rappresentava delle scuderie, più imponenti, ma chiaramente
ispirate a quelle da cui Ken Rawlings era stato solito uscire a cavallo da
ragazzo in Pennsylvania, nella fattoria dei nonni. Una costruzione a ritti e
travi, mensole angolari curvilinee, giunti a mortasa e tenone, tetto mansar-
dato, rivestimento esterno anteriore e posteriore a lamelle e listelli, grandi
finestre ad arco ai due estremi. E proprio sotto la linea del tetto, al centro
della facciata, Crosse aveva disegnato un inserto circolare di triangoli di
vetro, un caleidoscopio per catturare il sole o la luna. «18 ottobre 1971. Lei
stava fumando di nascosto una sigaretta nella scuderia. Il fieno ha preso
fuoco. Tre cavalli morti. Così sulla "West Chester Gazette". La biblioteca
locale conserva gli articoli di cronaca in microfiche fin dal 1932.»
«Lei è stato a West Chester?» chiese Ken Rawlings, continuando a fissa-
re il disegno.
«Ho detto che faccio i compiti a casa.»
«Non sapevo che cavalcassi» intervenne Heather Rawlings, guardando il
marito.
Lui non alzò lo sguardo e non disse una parola.
«Faceva qualcosa di più che cavalcare. Era campione di salto della con-
tea, voleva partecipare ai campionati nazionali» spiegò Crosse. Fece una
pausa. «Ho trovato una dozzina di articoli su gare da lei vinte prima
dell'incendio, nessuna dopo. Ha lasciato perdere.»
Ken Rawlings toccò il bordo del disegno. La sua tristezza aveva già e-
clissato la rabbia. «Forse in segno di pentimento.»
«È stato un incidente. Lei amava quei cavalli. Amava lo sport.»
«Sono cresciuto. A volte, ci lasciamo alle spalle perfino cose che amia-
mo, perfino cose che sono parte di noi» disse Rawlings. Si decise, infine, a
guardare Crosse.
«Per errore» commentò Crosse. «Non di proposito. Perlomeno, non per
quanto mi riguarda.»

Clevenger prese l'aereo navetta in partenza da Washington e atterrò a


Boston alle 20.40. Aveva pensato di fare una scappata in ufficio per prepa-
rare l'occorrente per il giorno dopo, ma sapeva che sarebbe servito solo a
evitare qualunque guaio in cui si fosse cacciato suo figlio Billy quel gior-
no. E così si diresse al suo loft a Chelsea.
Non vide l'auto di Billy da nessuna parte sulla strada e si sentì sollevato
nel trovare l'appartamento vuoto. E tuttavia gli diede fastidio provare quel-
la sensazione nei confronti del ragazzo. Andò in cucina e allungò la mano
verso un armadietto dove c'era una bottiglia sigillata di vodka, che si tro-
vava lì da oltre due anni: un simbolo della sua decisione di rimanere so-
brio. Ma, visto che lui aveva bevuto alcuni bicchieri di merlot negli ultimi
giorni, tutto ciò che quella bottiglia simboleggiava adesso era la sua ipocri-
sia.
Billy si era trovato quasi perennemente nei guai da quando, a diciannove
anni, era diventato a propria volta padre. Aveva cominciato a bigiare alcu-
ne lezioni a scuola e poi aveva smesso del tutto di frequentarla. Il soprin-
tendente scolastico di Chelsea, Brian Coughlin, che guarda caso era amico
di Clevenger, lo aveva sospeso più volte. Dopotutto, Billy non era mai sta-
to molto bravo a badare a se stesso. Tutt'a un tratto ci si aspettava che si
prendesse cura di un neonato. Come si poteva pensare che si concentrasse
su cose concrete, preso com'era da altre faccende?
Clevenger aveva adottato Billy Bishop quando il ragazzo aveva sedici
anni, dopo averne dimostrato l'innocenza nell'omicidio della sorellina a
Nantucket. Il caso si era chiuso con la condanna a vent'anni per il violento
padre di Billy e con la dichiarazione di inidoneità a svolgere il ruolo geni-
toriale per l'altrettanto deleteria madre.
Tutti avevano predetto solo sciagure quando a Clevenger era venuta l'i-
dea dell'adozione. Billy aveva un passato di tossicodipendenza e violenza,
il che spiegava perché in un primo momento era stato il principale sospet-
tato dell'assassinio della sorella. Clevenger aveva appena smesso di bere,
ma non era riuscito a prendere le distanze dal ragazzo, probabilmente per-
ché aveva sentito che sarebbe stato un po' come allontanarsi da qualcosa
che gli si era spezzato dentro.
Avevano avuto alcuni successi. Billy aveva smesso di drogarsi e di fare
a botte. Aveva cominciato a raccontare a Clevenger la propria dolorosa in-
fanzia, invece di cercare di cancellarla con l'alcol e il fumo o di consegnar-
la a qualcuno abbastanza stupido da ignorare il lampo di aggressività nei
suoi occhi e alzare il braccio per assestargli un colpo. Aveva cominciato ad
avere compassione di se stesso, l'unico modo per avere compassione degli
altri.
Ma tutti questi risultati erano svaniti l'11 settembre 2004, quando Jake
Bishop aveva solo venti giorni. Era stato il giorno in cui tre membri di una
gang, quella dei Royals, avevano deciso che erano abbastanza numerosi
per ignorare il lampo negli occhi di Billy, le sue ampie spalle e i suoi ri-
flessi fulminei. Ignorare perfino che era un campione del Somerville Box-
ing Club. Avevano ritenuto che nulla importasse più del fatto che Billy li
aveva profondamente offesi portando via Casey Simms a Mario Probasco,
il loro leader in galera.
Il problema era che solo uno dei tre Royals che quel giorno avevano
sbarrato la strada a Billy gli aveva tirato un cazzotto prima che tutti e tre
finissero lunghi distesi a terra. Tutti e tre sanguinanti.
Neppure quella reazione eccessiva avrebbe potuto sopraffare l'amicizia
di Brian Coughlin nei confronti di Clevenger, ma Billy non si era fermato.
Aveva dovuto essere fermato. C'erano voluti otto studenti e due insegnanti
per tenerlo a bada.
«Ho convinto la polizia a non incriminarlo» aveva detto Coughlin a Cle-
venger. «Sanno bene chi sono i Royals. Ma la verità è che Billy avrebbe
potuto benissimo ammazzare qualcuno. Lo strizzacervelli sei tu, ma io
penso che lui stesse cercando di dirci qualcosa bigiando le lezioni. Non
riesce a mantenere la calma.»
Clevenger guardò l'etichetta che sigillava il tappo lacerarsi mentre apriva
la bottiglia di vodka. Versò un po' di liquore in un bicchiere e rimase a fis-
sarlo. Sentiva di meritarsene un sorso, il che gli fece scuotere la testa. L'al-
col per poco non l'aveva ammazzato. Sentire di meritarselo era come senti-
re di meritarsi la cicuta. Ma forse era questo il punto. Forse lui stava cer-
cando di uccidere la parte di sé che provava solo dolore: la parte che sape-
va che Whitney McCormick aveva ragione di chiedere un figlio tutto suo,
o la parte che sapeva che Billy Bishop non aveva neanche lontanamente la
stoffa per fare il padre, oppure la parte che si domandava se lui gli fosse un
po' più vicino.
Clevenger buttò la testa all'indietro, tracannò il veleno e rimise la botti-
glia nell'armadietto.
Si avvicinò al vecchio tavolo da biblioteca che usava come scrivania e
guardò dalle ampie vetrate del loft lo scheletro d'acciaio del Tobin Bridge
che si inarcava verso Boston. Sotto, una nave cisterna di gas naturale li-
quefatto, scortata dalla guardia costiera, avanzava lentamente verso i depo-
siti di carburante che punteggiavano la costa di Chelsea.
Aveva scelto di vivere da questa parte del ponte anche se avrebbe potuto
permettersi Back Bay o Beacon Hill. Amava Chelsea, un confuso agglo-
merato di villette a schiera di mattoni, fabbriche riconvertite, negozi, ca-
seggiati che avevano ospitato ondate successive di immigrati: irlandesi che
parlavano gaelico, ebrei russi sfuggiti all'antisemitismo, italiani, polacchi,
portoricani, vietnamiti, cambogiani, salvadoregni, guatemaltechi, serbi. La
cruda energia della loro lotta per la sopravvivenza era ovunque. Le strade
l'avevano assorbita e, due volte, nel 1908 e nel 1973, la città era andata
quasi completamente a fuoco. A Clevenger sembrava un luogo destinato a
ricordargli per sempre che la gente trascorre nel dolore gran parte della vi-
ta. Eppure a volte, come quella sera, lui continuava a non sopportare il
proprio.
La sensazione di calore gli salì dallo stomaco alla testa. Si sedette e pre-
se l'articolo del 5 agosto di «USA Today» che aveva stampato la sera pri-
ma e che si intitolava: Stravagante killer fa un'altra vittima. Lo rilesse:

Pacific Heights, California


Speciale per «USA Today»

Aprendo un altro fronte nel terrore che ha colpito quattro impor-


tanti famiglie americane da un capo all'altro del paese, ieri la po-
lizia ha scoperto il cadavere del pittoresco agente immobiliare
Jeffrey Groupmann, 46 anni, a Ironwood, Michigan, non lontano
da un hotel e da un complesso di uffici che stava valorizzando in
loco. Il signor Groupmann, costruttore del Cloud Marina e del
Big Sky Mall di San Francisco alla fine degli anni Novanta, era
anche un filantropo che aveva patrocinato teatri, cinema e sale
da concerti sulla Costa Occidentale e nel suo stato natale, l'Illi-
nois. Lascia la moglie Shauna, il figlio Loren e la figlia Lexi.
Il capo della polizia di Ironwood, Richard Owens, non ha fatto
ipotesi sulla causa del decesso, ma ha diffuso una dichiarazione
per confermare che il signor Groupmann è stato assassinato e
che le lesioni includono "ferite multiple compatibili con una dis-
sezione del corpo post mortem". Owens ha anche confermato che
la polizia di stato del Michigan e l'FBI stanno collaborando con i
detective locali e che considera il signor Groupmann la quinta
vittima di uno stravagante killer che ha ucciso nel Connecticut,
nel Montana e nello stato di New York.

Clevenger posò la stampata e telefonò all'American Airlines per prenota-


re un volo per San Francisco per l'indomani mattina.
Mentre aspettava in linea, accese il computer e cercò altri articoli su
Groupmann. Su Google ottenne 11.234 risultati. Li passò in rassegna. Gran
parte erano pezzi tratti dal «San Francisco Chronicle», dal «Los Angeles
Times», dal «Chicago Tribune» e da quotidiani di località vicine, con titoli
che sbandieravano i successi edilizi di Groupmann e le sue opere di bene-
ficenza. Ma dopo un po' comparve un articolo di «GQ» del luglio 2004, Il
californiano Jeffrey Groupmann: fallimento di proposito. Clevenger ci
cliccò sopra:

L'imprenditore di San Francisco Jeffrey Groupmann ha sempre


creduto che buoni affari e buoni progetti vadano di pari passo.
Dopotutto, è lo straordinario mecenate in jeans e maglietta che
ha dato a San Francisco il Cloud Marina, una stupefacente fanta-
sia edilizia di cinquanta enormi case galleggianti e moli. I clienti
fanno la coda per entrare nei venti ascensori vetrati che li proiet-
tano per ottanta metri fino al suo Big Sky Mall. Ma la sfrenata
passione di Groupmann per la bellezza negli affari, il marchio di
fabbrica che gli ha assicurato lo status di star, può essere anche
il suo tallone di Achille.
La storia comincia con un incontro da Starbucks tra Groupmann
e l'architetto David Johnson. Ordinazione: due tazze di latte mac-
chiato, due paste ai mirtilli. Argomento: il grattacielo definitivo.
Una sfida lanciata a Frank Gehry e a Daniel Libeskind, sovrani
regnanti del decostruttivismo. Costo preventivato: 2,5 miliardi di
dollari. Chi può dire a quanto sarebbe arrivata la cifra se avesse-
ro bevuto caffè espresso?

Una foto mostrava il modellino in titanio del grattacielo, un rettangolo


che si avvitava a spirale e si bipartiva al centro, con ciascuna metà separata
dall'altra a creare un'apertura in alto che rendeva la struttura simile alla
bacchetta di un rabdomante. Le finestre erano asimmetriche per forma e
dimensioni, il che dava l'impressione che tutto l'edificio fosse caduto al
suolo, in parte fondendosi nel rientro e fratturandosi nell'impatto.
Alla fine, l'operatore dell'American Airlines rispose. «Posso chiederle
quando e dove vuole andare?» domandò.
«Domani mattina, da Boston a San Francisco, con ritorno aperto.» Cle-
venger sentì la porta d'ingresso aprirsi e si girò.
Billy era entrato in casa. Indossava uno sformato paio di jeans strappati
sulle ginocchia e un'aderente canotta bianca a coste. I suoi lunghi e sudici
capelli biondi, acconciati nello stile dei musicisti reggae, sembravano il pe-
lo ispido di un cane di razza esotica bisognoso di uno shampoo. Il tatuag-
gio di una croce latina avvolta dalle fiamme gli copriva il bicipite. Ma
niente di tutto ciò poteva offuscare i suoi brillanti occhi azzurri, i linea-
menti cesellati e il corpo perfettamente scolpito, per non dire del suo con-
tagioso sorriso. E questa era una parte consistente del problema di Billy:
sembrava troppo figo per essere così tormentato. Gli amici, in particolare
le ragazze, lo seguivano, invece di scappare nella direzione opposta o di
guidarlo verso qualcosa di meglio.
Clevenger coprì il ricevitore con una mano. «Ciao, figliolo.»
Billy rispose con un vago cenno e scomparve nella sua stanza.
Niente di buono. Clevenger si girò di nuovo e finì di prenotare il volo,
dopodiché riagganciò.
Voleva concedere a Billy un po' di tempo per se stesso. Si concentrò
sull'articolo di «Esquire», che si dilungava sul fallito tentativo di Jeffrey
Groupmann di costruire il grattacielo - una combinazione di negozi al det-
taglio, un centinaio di appartamenti di lusso e un centro di arti sceniche -
originariamente progettato per il centro di San Francisco.
I costi erano diventati esorbitanti. David Johnson, l'architetto, aveva ri-
vendicato la facoltà di rielaborare il suo progetto, in continuazione. Era
riuscito a spostare la collocazione dell'edificio sul lungomare per garantire
una vista libera e aperta sull'oceano. Poi aveva cambiato idea sull'esatto o-
rientamento della torre rispetto alla spiaggia e aveva ordinato che i cassoni
venissero demoliti e rifatti. Ma neppure dopo la costruzione dello scheletro
era stato ancora soddisfatto. Avrebbe voluto rifare i cassoni. Quando
Groupmann aveva detto di no, si era lamentato con il sindaco e la stampa
del fatto di essere stato costretto a venire a patti con la sua visione artistica,
in violazione del contratto. Groupmann gli aveva fatto causa. L'architetto
aveva risposto facendogli causa a propria volta. Gli investitori avevano fat-
to causa a entrambi.
Alla fine, la struttura abortita era stata demolita e il terreno venduto, con
enormi perdite. Groupmann aveva restituito agli investitori il denaro non
ancora speso, che non era molto.
Clevenger si alzò e fece per avviarsi verso la stanza di Billy, quando la
porta si aprì e il ragazzo ne uscì, dirigendosi in cucina. Lo seguì, estrasse
uno sgabello da bar da sotto il bancone centrale e si sedette.
Billy aprì il frigorifero.
«Com'è andata oggi?» si informò Clevenger.
«Di merda» rispose Billy, senza voltarsi. Tirò fuori del pane in cassetta e
una confezione di tacchino, li gettò sul bancone davanti a Clevenger e ri-
prese a rovistare nel frigorifero.
«"Di merda" in che senso?»
Un'alzata di spalle fu la risposta.
«Jake sta bene?»
Un'altra alzata di spalle.
«L'hai visto?»
Billy tirò fuori un barattolo di maionese e un cespo di lattuga. Finalmen-
te si voltò, ma ancora senza alzare lo sguardo su Clevenger. «Al telefono,
Casey non fa altro che lamentarsi, e così...»
Clevenger sentì le proprie pulsazioni aumentare. «Lei e il bambino vi-
vono a Newburyport, Billy. A quaranta minuti da qui. Sono quattro giorni
che non li vedi.»
Billy cominciò a prepararsi il sandwich. «Jake ha undici mesi. Non gli
importa se lo vedo o no.»
«Non è vero.»
Billy alzò lo sguardo, forse perché cercava un pretesto per sfogarsi e fi-
nalmente l'aveva trovato. «Secondo quale manuale?»
Clevenger afferrò il messaggio, forte e chiaro: lui non aveva messo al
mondo figli. Ma ad arrivargli non fu soltanto quel messaggio. Sentì odore
di alcol nel fiato di Billy e notò che il ragazzo aveva gli occhi iniettati di
sangue. E in quel momento desiderò di non aver bevuto il merlot - per non
parlare della vodka - perché non era in grado di dire quello che avrebbe
voluto dire: che Jake Bishop aveva sicuramente un disperato bisogno del
suo papà, che all'età di undici mesi non poteva confrontarsi con Billy, ma
aveva abbastanza forza per farlo fuggire spaventato e che l'alcol non a-
vrebbe cambiato niente. «Hai bevuto prima o dopo esserti cercato un lavo-
ro?» gli chiese.
Billy diede un morso al sandwich. «È la prima cosa che farò domani» ri-
spose con la bocca piena.
Clevenger annuì. «Domani.»
Billy era senza lavoro da sei mesi, da quando Peter Fitzgerald, il proprie-
tario del cantiere navale in fondo alla strada, aveva smesso di ignorare che
Billy passava più tempo a chiacchierare dei Red Sox con i tizi che mano-
vravano i rimorchiatori che a collaborare alla costruzione del nuovo molo.
E alcuni di quei tizi avevano cominciato a farsi vedere nei paraggi anche
nei giorni di riposo, segno che apprezzavano la compagnia di Billy o, più
probabilmente, l'erba che lui aveva sempre con sé.
«Non intendo finanziare per sempre il mantenimento di tuo figlio» gli
disse Clevenger, detestando di sembrare il tipico genitore ansioso.
«Non dovresti farlo» ribatté Billy, tornando al frigorifero. «Non è san-
gue del tuo sangue.»
«Se hai qualcosa da dire sul fatto di essere stato adottato, dilla pure.»
Billy si mise di nuovo a rovistare nel frigorifero e ne estrasse una lattina
di birra.
Per quanto ne sapeva Clevenger, il solo alcol presente in casa era la bot-
tiglia di vodka che aveva aperto poco prima. Lui e Billy si erano recipro-
camente impegnati a non procurarsene. «Hai portato la birra in casa?»
Billy rise. «Paparino, è qui da due giorni. Devi averla vista.»
«E invece non l'ho vista» replicò Clevenger. Sentiva le tempie pulsargli.
«Buttala via.»
«Sta' calmo» disse Billy. «È una birra sola. Non devo guidare. Mi aiuta a
dormire.» Aprì la lattina.
Clevenger scattò in piedi prima che Billy potesse portarsela alle labbra.
Lo spinse contro il bancone. «Ti ho detto di buttarla.»
Il lampo di aggressività si accese negli occhi di Billy. Poi scomparve, o
rimase nascosto. «Tu puzzi di vodka» disse. «E fai la morale a me?» Striz-
zò l'occhio, si portò la lattina alle labbra e bevve un sorso.
Il Clevenger psichiatra avrebbe potuto far notare a un altro padre che suo
figlio beveva proprio sotto i suoi occhi, quando gli sarebbe stato facile far-
lo di nascosto, che cercava la rissa con lui quando gli sarebbe stato facile
evitarla e che stava evidentemente invocando aiuto. Ma questa volta lui era
il Clevenger padre. Stava vivendo la storia, non la stava ascoltando. E tutto
ciò che la sua esperienza poté offrirgli fu una sorta di personalità dissocia-
ta, per cui riuscì a rendersi conto dell'errore che stava commettendo quan-
do strappò di mano a Billy la lattina, prese il ragazzo per la maglietta, lo
trascinò verso la porta d'ingresso e ve lo sbatté contro. E riuscì a fermarsi
prima di aprirla e buttarlo fuori. Si guardò le mani serrate. Gli ricordarono
i pugni di suo padre quando lo prendeva a botte, botte che sembravano non
avere mai fine, e forse non l'avevano mai avuta. Lasciò perdere. «Senti,
dobbiamo...»
«Noi non dobbiamo fare cazzate» disse Billy. Si voltò, aprì la porta e u-
scì.

10 agosto 2005, ore 23.10

Alle 21 West Crosse era stato ricontattato da due delle tre persone che
aveva incontrato all'11204 di Beach Drive.
Ken Rawlings aveva telefonato per dirgli che lui e sua moglie desidera-
vano che progettasse la loro casa nel Montana e si auguravano che potesse
cominciare subito.
L'assistente di Rawlings, Maritza, aveva telefonato per sapere se non era
troppo stanco per un drink al Delano Hotel a South Beach, dove i Ra-
wlings lo avevano alloggiato.
Crosse non era mai troppo stanco per servire un cliente. Incontrò Mari-
tza al Blue Door, il ristorante dell'albergo, un incubo art déco bianco, con
colonne di gesso che si innalzavano per cinque metri verso il soffitto piat-
to, tendaggi di tessuto trasparente sulle vetrate, tovaglie bianche, sedie
bianche, candelabri bianchi che reggevano candele bianche. Il tutto faceva
sentire Crosse come la figurina di plastica su un'enorme torta nuziale e nul-
la gli sarebbe piaciuto tanto quanto usare una delle candele per dar fuoco ai
paralumi bianchi delle lampade a stelo bianche, se non altro per dare a quel
posto un po' di colore, di calore e di vita.
Invece, si concentrò su Maritza, sulle sue labbra carnose, sulla sua pelle
abbronzata, sui suoi capelli biondo platino, sulle sue unghie lunghe. Nel
giro di pochi secondi se la immaginò con capelli di un biondo più naturale,
più lisci, più intonati ai suoi occhi color nocciola e al viso leggermente
tondo. Le accorciò le unghie e ne cancellò lo smalto rosa in favore di una
manicure più discreta. Le sfilò la T-shirt aderente e scollata e le infilò una
camicetta rosa più ampia e meno scollata. La aiutò a togliersi i jeans attil-
lati con la vita bassa e le fece indossare pantaloni neri a sigaretta. Cambiò
perfino il tono concitato con cui tentava di spiegargli perché gli aveva tele-
fonato, facendola parlare a voce più bassa e lenta.
«Tutto questo per dire,» riassunse Maritza «che non so bene perché le ho
telefonato.»
«Certo che lo sa» ribatté Crosse, protendendosi verso di lei. «Sarebbe
più facile se lo dicessi io?»
«Forse.»
«Lei mi ha telefonato perché sa che riesce a essere più se stessa con me
che senza di me.» La vide irrigidirsi, mentre scambiava la sua sincerità per
arroganza. «È la stessa sensazione che provo io nei suoi confronti. Lei può
aggiungere qualcosa alla mia vita, ne sono certo. Altrimenti, non avrei mai
accettato il suo invito.»
Questo li metteva sullo stesso piano. Maritza si rilassò.
«Quello che non possiamo sapere è che cosa, alla fine, abbiamo da dare
l'uno all'altra. Per esempio, lei potrebbe insegnarmi cosa significa crescere
a Cuba, cosa ne ha amato e cosa ne ha odiato. Il modo in cui la luce cam-
bia durante il giorno. Le piante e i fiori ideali per un giardino. Le spiagge,
le strade, i passaggi ad arco più belli che si ricorda. Il terreno sul quale da
piccola sognava di avere una casa. Che aspetto doveva avere quella casa,
che odore, che atmosfera.» Fece una pausa. «Oppure potrebbe avere altre
cose da insegnarmi, per esempio quello che la fa sentire più viva, la sua
passione.»
Il collo di Maritza cominciò ad arrossarsi, com'era accaduto a casa dei
Rawlings. «E lei cos'ha da insegnarmi?» chiese lei.
«Tanto per cominciare, che lei è più attraente di quanto crede. Teme che
qualcuno non noti la sua bellezza. Ecco perché si lascia crescere un po'
troppo le unghie.» Le prese la mano e fece scorrere il pollice sulle dita sot-
tili. «Si tinge i capelli in modo vistoso. Indossa indumenti aderenti.» La
guardò negli occhi. «Ma la sua bellezza è inequivocabile.» Vide il suo
sguardo accendersi. «Quando vedrà la cosa come la vedo io, ogni uomo
che incontrerà farà altrettanto.»
Lei abbassò gli occhi, giocherellando con i monili d'argento. «Come fac-
cio a sapere che non lo dice a ogni donna che conosce?» Alzò di nuovo gli
occhi su di lui.
«Perché la verità è tutto ciò che ho. Non la scambierei con nient'altro.
Certo non con il sesso.» La guardò ancora più profondamente negli occhi.
«Neppure con l'amore.»
Lei gli credette. E perché no? Sembrava che lui volesse dire ogni cosa
che diceva con tutto il suo essere. E Maritza gli credette ancora di più
quando giacque nuda sul suo letto bianco nella sua stanza bianca a guarda-
re le onde crestate di bianco di Miami Beach. Perché nessuno avrebbe po-
tuto fingere la tenerezza con cui lui le passava le dita tra i capelli e le ba-
ciava la bocca. Nessuno avrebbe potuto inventare il modo vorace, e tutta-
via non frettoloso, con cui le accarezzava il collo, il seno e il ventre. Nes-
sun impostore avrebbe notato quello che lui colse quando lei sollevò appe-
na le anche invitandolo tra le sue ginocchia. Nessun bugiardo avrebbe po-
tuto guidare la loro danza esattamente dove lei sperava di arrivare, percepi-
re il momento in cui la natura stava per assumere il controllo e fermarsi
all'improvviso, lasciandola tremante su quel vellutato margine dove il suo
corpo e la sua anima si stavano dissolvendo l'uno nell'altra. Nessuno se
non un amante della verità - la sua verità - avrebbe potuto restituirle tutto
quel controllo - cosa che lei tanto temeva e bramava - semplicemente roto-
landosi sulla schiena e incrociando i polsi sopra la testa.
Un minuto dopo giacevano l'uno accanto all'altra, esausti, la testa di lei
sul petto di lui. «Come ti sei fatto quella cicatrice?» chiese Maritza.
«Mi sono tagliato radendomi» rispose Crosse.
«Inventane un'altra.»
«Diciamo solo che c'entra un rasoio e chiudiamola qui.»
Maritza gli baciò il petto e poi vi posò di nuovo sopra la testa. «Non vo-
glio mentirti» disse.
Crosse ascoltò il suo respiro.
«Ken non deve sapere di noi» disse lei.
Ken, non il signor Rawlings. «E perché mai?» chiese lui.
«È un tipo geloso.»
Crosse lasciò passare qualche secondo.
Maritza fece un profondo sospiro. «Il nostro non è sempre stato un rap-
porto... professionale.»
«Mi fa piacere che tu me lo dica» commentò Crosse. Poi, dopo una pau-
sa: «Lo ami?».
«Non so esattamente che cosa sia l'amore.»
Lo amava.
«È una brava persona?»
Lei si strinse nelle spalle.
«Se ti preoccupi dei miei sentimenti, non ce n'è bisogno» disse Crosse.
«Sì» ammise lei, riluttante. «È una brava persona.»
«Ed è generoso?»
«Mmm.»
«Forte?»
Maritza annuì.
«E allora perché sei qui?»
«Non lo so» rispose lei tranquillamente.
Era una risposta sincera. «È per il fatto che lui è con sua moglie?»
«Forse.»
Una risposta molto sincera. «Ti sei incontrata con lui in questo albergo.»
«Non...»
Lui le toccò il braccialetto con il simbolo della pace. «Te l'ha regalato
lui» disse.
«Me lo tolgo, se ti dà fastidio.»
«Non mi dà fastidio.»
Lei alzò la testa e lo guardò, preoccupata.
«È un regalo fantastico.»
«Sst.» Maritza gli appoggiò di nuovo la testa sul petto.
Crosse le prese la mano. «È la verità. Sua, e tua. Avete bisogno l'uno
dell'altra. Non ha niente a che fare con te e con me. Il braccialetto dice
qualcosa di meraviglioso.»
«Che fa acquisti da Barneys?»
Risero. «Non solo questo» riprese Crosse. «Dice che le ricchezze di sua
moglie - i diamanti - non possono fare ciò che tu fai per lui. Tu gli dai la
pace interiore.»
Gli premette l'indice sulle labbra. «Non voglio più parlare di lui» disse.
«Adesso sono con te.»
Crosse sapeva che era una bugia e che Maritza avrebbe fatto qualcosa
per nasconderlo.
Con perfetto tempismo, lei scivolò sotto il lenzuolo e gli baciò il petto,
l'addome, scendendo più in basso.

11 agosto 2005, ore 14.05, fuso orario del Pacifico

Clevenger aveva fatto in modo che l'ufficio di Whitney gli organizzasse


un incontro con la vedova di Groupmann, Shauna, nella proprietà di fami-
glia nel quartiere di Pacific Heights. Atterrò al San Francisco International
Airport e saltò su un taxi.
Lungo la strada, provò a telefonare a Billy. Nessuna risposta. Nessuna
sorpresa. Billy non era rincasato, la sera prima, il che significava che se
n'era andato da un amico, aveva agganciato una ragazza oppure aveva
dormito su uno dei rimorchiatori attraccati al cantiere navale di Fitzgerald.
Poteva anche darsi che si fosse portato una ragazza al cantiere. Gli riusciva
molto più facile combinare un appuntamento del genere piuttosto che sali-
re su un treno diretto a Newburyport per vedere suo figlio.
Durante la notte Clevenger si era svegliato tre volte ed era andato in ca-
mera di Billy, trovandola vuota. Aveva pensato di recarsi al cantiere, ma
non credeva che ne avrebbe ricavato niente di buono. Billy di solito aveva
bisogno di qualche giorno per calmarsi, quando la situazione tra loro si
surriscaldava. E questa volta, Clevenger doveva ammettere di avere a pro-
pria volta bisogno di un giorno o due, per smaltire l'alcol e rinunciare a
ogni speranza di una rapida soluzione dei suoi guai con Whitney. Sì, per-
ché le sue speranze non erano in linea con la realtà e il suo umore conti-
nuava ad andare a picco.
Sapeva che avrebbe dovuto prendere un volo successivo e rispettare
l'appuntamento con il suo psichiatra Ted Pearson. Quando gli aveva lascia-
to un messaggio alle 4.10, annullando il loro incontro delle sette, sapeva
che lo stava evitando, il che equivaleva a evitare se stesso. Ma pensare a
tutto ciò lo aveva semplicemente fatto sentire peggio e così aveva tracan-
nato un altro paio di bicchieri di vodka per cancellare quella sensazione.
Era così che funzionava, finché non smetteva di farlo.
Provò di nuovo a chiamare Billy sul cellulare. Di nuovo la segreteria te-
lefonica. Chiuse la telefonata e fece il numero del suo socio, North Ander-
son.
«Volo regolare?» chiese Anderson.
«In perfetto orario.» Gli fece bene sentire la sua voce. Erano soci da set-
te anni, un tempo sufficientemente lungo per visitare insieme centinaia di
scene del delitto e obitori, parlare con decine e decine di assassini, stupra-
tori, genitori, sorelle, fratelli, figli e poi controllare il reciproco tentativo di
condurre una vita quasi normale, nonostante tutto.
Anderson era sempre sembrato riuscirci meglio. Aveva tenuto il suo ma-
trimonio in piedi per ventun anni e i suoi due figli fuori dai guai. Traguardi
non trascurabili per un uomo che ancora zoppicava per la pallottola che si
era beccato durante una rapina in banca a Baltimora e che passava ancora
metà della notte in bianco, ricordando quell'unica volta in cui aveva rispo-
sto al fuoco colpendo al cuore il rapinatore mascherato, che poi era risulta-
to essere un ragazzo di quindici anni.
Mentre andava all'aeroporto, Clevenger era passato dall'ufficio per la-
sciare ad Anderson i suoi appunti sull'incontro avuto con l'FBI e una serie
di stampate su Groupmann e altre quattro vittime del killer. «Non hai tro-
vato la cartelletta che ti ho lasciato sulla scrivania?» gli chiese Clevenger.
«Già letto tutto» rispose Anderson.
«C'è qualcos'altro. Te lo dirò quando ci vediamo. Che cosa ne pensi per
il momento?»
«Penso che tra le vittime ci sia un nesso che i federali non sono ancora
riusciti a scovare. Quel tizio continua a prendere di mira persone altolocate
e potenti. Perché? I loro organi interni sono uguali a quelli di chiunque al-
tro. Deve avere un motivo.»
«Mi stai leggendo nel pensiero.»
«C'è un'idea spaventosa.»
«Spettacolo dell'orrore» disse Clevenger. Era un'osservazione buttata lì,
ma si portava dietro una parte del dolore di Clevenger.
Una pausa significativa. «Non mi sei sembrato molto in forma nel mes-
saggio in cui mi hai comunicato il tuo viaggio a San Francisco» disse An-
derson.
«Sto bene» replicò Clevenger. Sapeva che Anderson avrebbe capito che
non era affatto così. Guardò fuori dal finestrino del taxi. «Billy e io abbia-
mo litigato.»
«A che proposito?»
«Jake.»
«Ah.»
«E c'è dell'altro.»
«Qualcosa di brutto?»
«Ha dormito fuori, la notte scorsa.» Si rivide mentre sbatteva Billy con-
tro la porta e si ricordò della rabbia che aveva sentito montargli dentro.
«Brutta storia.»
«Vuoi che me ne occupi?»
«Se puoi.»
«D'accordo. Quando torni?»
«A meno che non salti fuori qualcosa, torno stasera e potrei essere in uf-
ficio domani mattina presto.»
«Ti chiamo più tardi.»
«Grazie per...»
«Di niente. Faccio quel che è necessario per mantenere il mio socio so-
brio, giusto?»
North sapeva, pensò Clevenger. Sapeva sempre. «Una cosa alla volta»
disse.
«Una cosa alla volta.»
Chiusero la comunicazione.
Il tassista aveva imboccato la Broadway, la Fifth Avenue di Pacific
Heights, uno dei quartieri più esclusivi del mondo. Sbirciando tra le son-
tuose dimore, Clevenger colse fugaci immagini della stupefacente campata
unica del Golden Gate sopra la baia di San Francisco, le cui acque erano
punteggiate di barche a vela che passavano silenziosamente davanti all'iso-
la di Alcatraz, all'isola di Angel e alle colline di Marin.
Il taxi rallentò, si infilò tra pilastrini di pietra contrassegnati dal numero
2910, poi imboccò un viale d'accesso fiancheggiato da querce e ombreg-
giato da una cupola di rami frondosi. Percorse almeno un centinaio di me-
tri e si fermò davanti a una delle più belle case che Clevenger avesse mai
visto.
Pagò la corsa, scese dalla vettura e si soffermò a guardare il posto. L'edi-
ficio era una dimora vittoriana rivestita di listelli di legno, con gli angoli
smussati e l'intelaiatura delle finestre decorata di un verde scuro che sem-
brava fondersi con le colline circostanti. Il tetto era costituito da una serie
di spioventi e abbaini, con un comignolo di mattoni a ciascuna estremità.
Era una casa molto grande - almeno un migliaio di metri quadrati - e tutta-
via dava un'impressione di invitante calore, circondata da verande profon-
de circa tre metri e provvista di un ingresso coperto, con poltrona a dondo-
lo su entrambi i lati.
Clevenger salì gli ampi gradini che conducevano alla porta principale e
guardò attraverso i pannelli di vetro molato: una grande stanza centrale si
affacciava sul lato opposto della casa, dove enormi bovindi consentirono al
suo sguardo di spaziare per un mezzo ettaro di prato verde che sembrava
sconfinare nel cielo, fondale grigio-azzurro del rutilante Golden Gate.
Suonò il campanello.
«Un momento» disse una voce femminile.
Pochi istanti dopo venne ad aprire la porta una donna molto carina, slan-
ciata, sui trentacinque anni, con i capelli lisci biondo scuro raccolti in una
coda, un paio di Levi's e una T-shirt bianca da ragazzina scollata a "V".
«Lei deve essere il dottor Clevenger.»
Parlava con un tono formale che indusse Clevenger a ritenerla l'assisten-
te personale di Groupmann. «Sono un po' in anticipo» si scusò lui.
«Non si preoccupi.» Gli tese la mano. Nessun gioiello. Unghie perfette,
senza smalto. «Sono Shauna Groupmann.»
Lui le strinse la mano. «Le faccio le mie condoglianze.»
«La ringrazio. Non riusciamo a credere che sia potuto accadere.»
Forse no, ma nella sua voce Clevenger colse calma, non incredulità. E
non vide tristezza nei suoi occhi di smeraldo.
«Si accomodi, la prego» lo invitò lei.
Clevenger la seguì attraverso la grande stanza con boiserie di abete, par-
quet d'acero con inserti di noce, travi e travetti a vista e quelle magiche fi-
nestre affacciate sul ponte. Era uno spazio puro, senza tempo, che avrebbe
potuto essere stato costruito sei mesi o cent'anni prima.
Clevenger udì voci e risate e, guardando attraverso un passaggio ad arco,
scorse la sala da pranzo. Un uomo che dava le spalle all'entrata, una ragaz-
za adolescente e un ragazzino sui dieci, undici anni stavano pranzando. Il
ragazzino guardò l'uomo e scoppiò in un'altra risata. La ragazza abbozzò
un sorriso, scuotendo la testa.
«Mio figlio e mia figlia» spiegò la signora Groupmann, guardando Cle-
venger. «Potrà parlare con loro più tardi.»
«Grazie» disse Clevenger. «Mi farà molto piacere.» Aveva già tratto al-
cune conclusioni. In primo luogo, i figli di Groupmann sembravano addo-
lorati più o meno quanto la madre per la perdita del padre. Inoltre, pareva-
no andare molto d'accordo con l'uomo nella stanza, che la signora Grou-
pmann non aveva menzionato.
Clevenger, però, aveva visto reazioni di ogni genere al dolore: una ma-
dre che sosteneva che il figlio era stato rapito dagli alieni, invece di arren-
dersi all'evidenza che lo avevano strangolato per rubargli il giubbotto di
marca. Uno sposo novello che aveva perduto ogni ricordo della giovane
sposa, invece di rievocare l'ultima ora trascorsa insieme, lui legato e lei al-
la mercé di tre uomini senza pietà. Quando arrendersi alla realtà è come
prendere in mano carboni ardenti, la mente umana a volte si attacca a pa-
gliuzze.
La vedova Groupmann condusse Clevenger in una biblioteca grande
quanto il suo loft, con tre pareti occupate da librerie di legno alte fino al
soffitto, munite di scale scorrevoli su rotaie, per cui si poteva salire a pren-
dere un volume dal ripiano più alto, sedersi e leggerne qualche pagina.
Sulla quarta parete troneggiava un camino inserito tra due altissime fine-
stre goticheggianti affacciate su un patio di arenaria grigio-azzurra circon-
dato da aiuole.
La donna indicò a Clevenger una delle due grandi poltrone di cuoio ac-
canto al caminetto e andò a sedersi di fronte, su un divano di pelle scamo-
sciata verde.
Lui si sedette a propria volta. Guardandola si rese conto che era più che
carina. I lineamenti erano quasi perfetti: occhi grandi, naso piccolo, zigomi
alti, labbra piene, mascella decisa. Denti di un bianco abbagliante. Sem-
brava una modella in un giorno di riposo, tanto più bella in quanto non cer-
cava di esserlo. «Mi rendo conto che la cosa può risultarle difficile,» esordì
Clevenger «ma io ho bisogno di sapere il più possibile sul conto di suo ma-
rito.»
«Penso di aver detto tutto all'FBI. Quella notte non è successo niente di
insolito. Mio marito ha detto che sarebbe rimasto nell'ufficio di Ironwood
fino a tardi, il che succedeva spesso. Ho tentato di telefonargli verso mez-
zanotte, ma non ho avuto risposta, per cui sono andata a letto. Quando la
mattina dopo mi sono svegliata, verso le otto, ho riprovato a rintracciarlo,
ma senza risultato. Ho telefonato al direttore del cantiere edile e lui mi ha
detto che Jeffrey non si era presentato all'appuntamento che aveva con lui
alle sette del mattino. È stato allora che ho chiamato la polizia.»
Clevenger si protese verso di lei. «Questi particolari mi interessano me-
no di quelli su suo marito come persona.» Fece una pausa. «Che tipo era?»
«Come persona?» Un accenno di sorriso. «Era sorprendente.»
«In che senso?»
«Era... affascinante. Più che affascinante. Riusciva a vendere qualunque
cosa a chiunque.»
«Un venditore nato» commentò Clevenger.
«Precisamente.»
«Più ancora, diciamo, un grande artista.» O un grande marito. O un
grande padre.
«Un artista...» La vedova ci pensò. «In senso commerciale, suppongo. È,
forse, il modo migliore di considerare la cosa. Era un vero genio nel con-
vincere le persone ad accettare la sua visione creativa, a unirsi a lui in es-
sa... un po' come una di quelle sirene della mitologia greca.»
Le sirene erano belle creature - metà donne, metà uccelli - che vivevano
su un'isola e attiravano i naviganti alla rovina con il loro irresistibile canto.
«Lei sta dicendo che le persone venivano indotte dal suo fascino a legarsi a
lui quando non avrebbero dovuto.»
«Sono sicura che lei ha fatto i suoi compiti a casa» commentò la vedova.
«Jeffrey ci ha portato più di una volta sull'orlo dell'abisso finanziario. Ne
siamo sempre usciti bene, perfino con il progetto di David Johnson.»
«Il grattacielo.»
Lei annuì. «Qualcuno non è stato altrettanto fortunato.» Si fece più seria.
«Era questo il problema con mio marito: facile seguirlo, più difficile sape-
re dove si andava a parare.»
Per la prima volta, il tono della signora Groupmann suonò amaro, come
se lei fosse stata uno degli investitori rovinati dal marito. Forse era... emo-
zionata. «Era altrettanto persuasivo con lei?» chiese Clevenger.
Lei fece un ampio sorriso che durò a lungo. «Nessun agente della polizia
o dell'FBI mi ha fatto domande simili.»
«Non sono psichiatri.»
«Sarei dovuta ricorrere a lei molto tempo fa.» Ridacchiò tra sé, poi tornò
seria. «Diciamo semplicemente che ho comprato una serie di progetti da
Jeffrey.»
«Progetti...»
«Lei non molla.»
Mai. «Dovrei?»
La donna inspirò profondamente ed espirò. «Progetti per una vita insie-
me, una famiglia. Jeffrey aveva un modo incredibilmente poetico ed effi-
cace di descrivere come sarebbe stato viaggiare, allevare figli.»
«Lei non ha potuto resistergli.»
«A lui, ai suoi progetti... a tutto.» Si strinse le mani in grembo e abbassò
lo sguardo.
«Voi due non siete riusciti a costruire ciò che lui aveva in mente.»
Lei alzò lo sguardo. «Non ci siamo andati neppure vicini.»
«Perché?»
Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Cristo, che cosa c'entra questo
con l'assassinio?»
«Forse non c'entra» rispose Clevenger. «Visto, però, che ne stiamo par-
lando, forse c'entra.»
Lei si asciugò una lacrima che le era scivolata sulla guancia. «O forse a
lei piace far soffrire la gente.»
Clevenger si rendeva conto di causarle dolore. Perché servisse a qualco-
sa, uno psichiatra doveva essere pronto a metterti nell'angolo, a impedirti
vie d'uscita, anche se faceva male. O, perlomeno, avrebbe dovuto essere
così.
Si fissarono a vicenda per parecchi secondi.
«Non mi importa che lei venga a saperlo» disse alla fine la signora
Groupmann. «E non mi importa neppure che tutto il dannato mondo venga
a saperlo.» Le labbra cominciarono a tremarle. «Mio marito era gay.» Ab-
bassò lo sguardo, stringendosi le braccia intorno al corpo per calmarsi.
«Questo non faceva parte del progetto.»
Clevenger aspettò che lei riprendesse il controllo. «Quando l'ha scoper-
to?» le chiese.
«Più o meno quando ci siamo trasferiti qui da Carmel.» Lo guardò. «Po-
co più di quattro anni fa.»
«Come l'ha saputo?»
«Lui mi ha preso da parte una sera e me l'ha detto. Ha tirato fuori tutti i
vecchi cliché: che aveva vissuto nella menzogna, che non voleva più finge-
re e che questo non aveva niente a che fare con me.»
«E aveva un... partner?»
Lei rabbrividì. «Io non gliel'ho chiesto e lui non me l'ha detto. Ma riten-
go che non mi avrebbe confessato di essere gay se fosse stata solo una sua
fantasticheria. Penso che non ci siamo trasferiti a San Francisco per caso.»
«È stata un'idea di suo marito?»
«Ha detto che si era "innamorato" di questa proprietà. Non ho mai volu-
to sapere di che cosa si fosse davvero innamorato qui.»
«Ha mai pensato di lasciarlo?» chiese Clevenger.
«Certo» rispose la signora Groupmann.
«Ma...»
«I bambini erano piccoli, frequentavano scuole nuove, amici nuovi. Non
volevamo che dovessero vedersela con un divorzio, titoli sui giornali e
quant'altro. E io...» Scosse il capo.
«Sì...?»
«Sarei davvero dovuta ricorrere a lei allora.»
Clevenger rimase in silenzio.
Lei si strinse nelle spalle. «Avevo già la mia vita. Jeff e io non stavamo
più bene insieme - in quel senso - da un paio d'anni prima che lui mi dices-
se ciò che stava succedendo. Sono semplicemente andata avanti.»
«Verso un'altra relazione.»
«Sì» disse lei con tono più caldo, come se stesse pensando al suo aman-
te.
Clevenger fece due più due. «L'uomo in sala da pranzo con i suoi figli?»
«Sì. David.»
Clevenger colse una tenerezza sincera nella sua voce. «Dunque, lei e suo
marito avete scelto di continuare a vivere insieme, ma separati» ricapitolò.
«Lei aveva David. Lui aveva... non si sa chi.»
«Questo significa dare una spiegazione molto positiva della vicenda»
commentò lei. «Noi vivevamo una menzogna.»
L'amarezza ricomparve nella sua voce. «La cosa vi pesava» disse Cle-
venger.
«Fondamentalmente, ci logorava.»
«In che senso?»
«Avevamo scelto nuovi partner. Jeff aveva uno stile di vita del tutto
nuovo. Abbiamo cercato di comportarci da amici, ma è difficile essere a-
mici quando ci si sente abbandonati o presi in giro o quel che è.»
«Per chi dei due era peggio?»
«Ritengo che fossimo in una situazione di parità in questo. Nessuno dei
due tollerava bene la cosa.»
Non tornava. Jeffrey Groupmann aveva radicalmente cambiato la strut-
tura familiare rivelando le proprie preferenze sessuali. Perché avrebbe do-
vuto prendersela se sua moglie manifestava le proprie? «Che problema a-
veva suo marito nei confronti della sua nuova relazione?» chiese Cleven-
ger.
«Pensava che avrei potuto scegliere qualcun altro.»
«David non gli piaceva.»
«Le cose stavano molto peggio di così» disse lei.
Clevenger la guardò di sottecchi, invitandola a dire di più.
«Lo amava.» Tacque. «David era il fratello prediletto di Jeffrey. Erano
gemelli.»

Guardare David Groupmann richiedeva una certa preparazione. Cleven-


ger aveva visto alcune fotografie del suo gemello identico - dissezionato -
prima di lasciare Quantico. Qui c'era la copia vivente.
Erano seduti sulle poltrone di cuoio nella biblioteca. Shauna Groupmann
era uscita con i figli. Clevenger li vedeva passeggiare mano nella mano nel
giardino oltre il patio.
«La cosa era incredibilmente complicata o incredibilmente semplice, a
seconda di come la si vedeva» disse David Groupmann a Clevenger con
voce pacata, profonda. Era un uomo slanciato, più elegante che virile, con
la pelle molto abbronzata e folti capelli scuri, pettinati all'indietro. Gli oc-
chi erano ancora più scuri, quasi neri. Indossava una Lacoste azzurro cielo,
calzoni corti, scarpe da vela.
«Lei come la vedeva?» volle sapere Clevenger.
«Prima che Jeff uscisse allo scoperto, ero piuttosto disgustato di me stes-
so» rispose David. «Se qualcuno mi avesse mai detto che avrei avuto una
relazione con la moglie di mio fratello, gli avrei dato del pazzo. La cosa mi
distruggeva. Non riuscivo a dormire. Ho perso dieci chili. Jeff e io erava-
mo molto uniti. Proprio gemelli in tutto... Ci interrompevamo a vicenda,
finendo le frasi l'uno per l'altro.» Scosse la testa. «Amavo Jeff. Non ave-
vamo nessun altro, né fratelli né sorelle. Mi sentivo l'uomo peggiore del
mondo.»
«E allora perché?»
Groupmann abbassò lo sguardo. «Jeff e Shauna avevano già problemi
tra loro, Lui non era affezionato ai bambini quanto lei si aspettava - per lui
il lavoro era tutto - ma questa era solo una parte della questione. Non c'era
passione. Zero. Non che sia molto indicativo, lo so.» Alzò di nuovo lo
sguardo su Clevenger. «Non ho una risposta precisa. Se dovessi tirare a in-
dovinare, direi che dentro di me ho saputo per gran parte della mia vita
quello che alla fine Jeff ha confessato a se stesso... e a Shauna. Certe cose
le notavo anche da bambino. Se io mi voltavo a guardare una ragazza, lui
non lo faceva. Aveva successo, giocava a football ad Andover e a Yale -
tutto quello che il copione prevede - ma non aveva molti appuntamenti ga-
lanti. Le poche ragazze che portava fuori mi dicevano che a loro Jeff pia-
ceva perché non era insistente. Forse qualche bacetto. Tutto lì.» Abbozzò
un sorriso. «A un certo punto, mi sono davvero convinto che lui non aveva
niente da ridire su me e Shauna, che in qualche modo lui voleva che ciò
accadesse, per tirarlo fuori dai guai.»
«E questo, quando?»
«Quando la cosa è cominciata, circa sei anni fa, abitavo a Carmel, a po-
chi chilometri da loro. A volte capitava che Jeff fosse fuori dal paese a rac-
cogliere finanziamenti o altro e mi mandasse a vedere un terreno o un edi-
ficio a Chicago, Filadelfia, Boston perché gli dessi un parere. A volte vo-
leva anche l'opinione di Shauna. Allora noleggiava un jet e ci faceva vola-
re insieme, alloggiandoci nello stesso albergo. L'accordo tra noi era... fe-
nomenale. Non vedo come potesse non accorgersene.»
«All'epoca lei lavorava per lui?»
«Gli davo una mano. Io sono un artista, quel poco che so di beni immo-
bili l'ho imparato da mio fratello.»
"Dare una mano" era un modo di vedere la cosa. «Che genere di artista
è?»
«Artista della balla, l'avrebbe mai detto?» Alzò gli occhi al cielo. «Fac-
cio il pittore.»
La battuta convinse Clevenger che David Groupmann non era molto più
addolorato di Shauna, perlomeno non nel modo consueto. «E ha avuto
successo?» gli chiese.
«Penso che certi miei dipinti ne abbiano avuto» rispose lui. «Ed è l'unico
tipo di successo che mi interessi.»
Significava che non ne aveva ricavato molti quattrini. Benissimo. Ma si-
gnificava anche che in famiglia era suo fratello quello che guadagnava. E
quello famoso. Fino a ora. Adesso era David Groupmann ad avere tutto: la
moglie del gemello, una calda accoglienza nella sua casa da molti milioni
di dollari, forse perfino un accesso alla sua fortuna. «Che cosa ne è stato
del rapporto con suo fratello, una volta che lui ha saputo di lei e Shauna?»
chiese Clevenger.
«Da inseparabili che eravamo siamo diventati cordiali.» Tacque, strinse
le labbra e si sfregò gli occhi. «Questa è davvero una balla. Jeff quasi non
mi rivolgeva la parola. A stento mi guardava.»
Alla fine, David Groupmann stava mostrando qualche emozione. Cle-
venger avrebbe voluto pungolarlo per vedere quanta rabbia si era accumu-
lata sotto la superficie del suo rapporto teso con il gemello. «Lei stava ba-
rattando il suo rapporto con Jeff con l'amore di una donna che, guarda ca-
so, era sua moglie. Dal suo punto di vista, potrebbe sembrare eroico.»
«Non ci sono scuse per quello che ho fatto» ammise senz'altro Grou-
pmann. «Nessuna. Forse eravamo troppo simili. Forse è questa la spiega-
zione. Come ho già detto, non lo so.»
«Mi dica di più.»
«L'amavamo entrambi» disse Groupmann. «Lui l'amava abbastanza per
tradire la propria natura, fare figli con lei, restare insieme a lei per quasi
quindici anni. E io l'amavo abbastanza per tradire lui. Conclusione: io sono
etero; lui era gay. E forse, in un certo modo terribile, quello che è successo
ha un senso.»
«E adesso che lui è morto...» insistette Clevenger.
«Io non ho mai desiderato una cosa simile» ribatté Groupmann. «Mai.»
Distolse lo sguardo, scuotendo la testa. «Ma devo credere che lui avrebbe
voluto che ci si occupasse della sua famiglia.»
«Lei e Shauna avete intenzione di andare a vivere insieme?» gli chiese
Clevenger.
«Non subito.»
«Capisco.»
David Groupmann guardò Clevenger negli occhi. «Non c'è più ragione
di fingere. Shauna e io eravamo fatti l'una per l'altro. Lei e mio fratello non
lo erano. A chi dare la colpa? A Dio?»

Loren e Lexi Groupmann abbracciarono lo zio David quando uscì dalla


biblioteca, poi si sedettero sul divano di fronte a Clevenger. Loren aveva
accettato di essere interrogato solo in presenza della sorella maggiore, il
che sembrava assolutamente normale per un ragazzino di dieci anni, so-
prattutto se aveva appena perso il padre.
«Mamma dice che lei è uno psichiatra, vero?» chiese Lexi a Clevenger.
La ragazza aveva la stessa compostezza della madre, ma i suoi tratti era-
no quelli dei Groupmann: folti capelli scuri, occhi quasi neri, impenetrabi-
li. «Sì» rispose.
«Ma lei lavora per l'FBI» continuò lei.
«Li aiuto a capire le persone violente. E a volte li aiuto a trovarle.»
«Come quello che... ha fatto del male a papà» disse lei. «E gli altri.»
«Sì» confermò Clevenger.
Loren cominciò a battere un piede sul pavimento. Era un ragazzino ma-
gro, pallido, con i capelli biondo scuro della madre, occhi verdi, lineamenti
delicati. «Uno che fa gli identikit» sussurrò.
«Ti senti bene?» gli chiese Lexi posandogli una mano sulla coscia.
Loren scoccò un'occhiata a Clevenger e si strinse nelle spalle.
«Hai qualcosa da dire, Loren?» gli chiese gentilmente Clevenger.
Il ragazzino lo guardò sospettoso. «Qualcuno di noi è nei guai?»
Lexi abbozzò un sorriso nervoso. «Nessuno è nei guai, Loren. Mamma
ha detto che lui deve saperne di più sul conto di papà per...»
Clevenger la interruppe con un cenno della mano. «Perché dovresti pen-
sare questo, Loren?» chiese. «Ti preoccupa l'idea che qualcuno qui possa
essere nei guai?»
«Ho visto certe cose in televisione» rispose lui.
«Loren guarda troppi polizieschi» spiegò Lexi a Clevenger.
«Quelli pensano sempre che sia stato qualcuno della famiglia» disse Lo-
ren. «Poi, nella metà dei casi, scoprono di essersi sbagliati. Ma troppo tar-
di, perché quella persona si è già suicidata o è stata giustiziata o uccisa dal
vero killer o...»
«Questa non è la televisione» spiegò Lexi. Sorrise a Clevenger. «A volte
lui è un po' strambo.» Passò la mano sulla testa di Loren, arruffandogli i
capelli. «Sei proprio strambo.»
Lexi mostrava lo stesso insolito distacco dalla tragedia che Clevenger
aveva notato nella madre e nello zio. In famiglia non mancavano certo le
reazioni inconsuete al dolore. «Hai paura di qualcuno, qui dentro?» chiese
Clevenger a Loren.
Il ragazzino riprese a battere il piede a terra. «In un certo senso» rispose.
«Di chi?» volle sapere Clevenger.
Il ragazzino alzò le spalle. «Di lei, immagino.»
«Lui lavora con la polizia» disse Lexi. «È come quel tale che hanno fatto
venire per...»
«Hai paura di me?» gli chiese Clevenger.
Il ragazzino lo guardò, ma non disse nulla.
Clevenger rimase zitto, in attesa.
Gli occhi del bambino cominciarono a riempirsi di lacrime.
Lentamente, Clevenger si protese verso di lui. «Va tutto bene, figliolo.
Di qualsiasi cosa si tratti, va benissimo. A me puoi dire qualunque cosa.»
«Non voglio che lei rovini tutto» disse Loren. «Voglio semplicemente
essere felice. Voglio che adesso tutto vada bene.»
A proposito di reazioni insolite al dolore...

West Crosse, in piedi, guardava fuori dalla finestra dell'ufficio di Ken


Rawlings al trentesimo piano dell'Abicus, la società di estrazione di dia-
manti che sua moglie aveva ereditato dal padre. Poteva vedere quasi tutta
Miami, un'affermazione di cemento, malta e vetro contraria all'immagina-
zione, alla bellezza, alla vita stessa. Non c'era da meravigliarsi se qualcuno
ci veniva a morire.
«Duecentocinquantamila dollari» disse Ken Rawlings firmando un asse-
gno per Crosse. Si alzò, andò verso di lui e glielo porse. «So che stiamo
facendo un grosso investimento. E mi fa piacere intestarlo a un altro bone-
sman.»
Crosse si infilò l'assegno nel taschino della camicia. Non aveva mai fatto
menzione di essere stato, durante il suo terzo anno a Yale, uno dei quindici
della sua classe scelti per la Skull and Bones ("teschio e ossa"), una società
segreta studentesca i cui membri si legavano per tutta la vita e giuravano
obbedienza a regole di onore e segretezza. Non aveva mai dovuto farlo.
Tutti i suoi clienti negli ultimi sette anni avevano fatto parte di quella so-
cietà segreta, la suprema fonte di referenze, duemilacinquecento delle più
potenti famiglie del mondo, compresa quella del presidente. «In realtà è un
investimento su noi stessi» disse. «Ciascuno di noi ha l'innata capacità di
creare un pezzo dell'universo. So che lei ha le risorse necessarie. Adesso la
domanda è se ha il coraggio.»
«Coraggio?»
«Di creare qualcosa di autentico, qualcosa di liberatorio che dica la veri-
tà sulle sue potenzialità.»
«Come costruire le scuderie» soggiunse Rawlings.
«Per esempio» confermò Crosse.
Rawlings annuì. «Be', adesso ci siamo reciprocamente impegnati.» Tese
la mano.
Crosse gliela strinse e, lasciandola, accennò con il capo all'anello nuzia-
le. «A proposito, da quanto tempo è sposato?» Andò verso un mobile su
cui erano schierate varie fotografie dei Rawlings insieme: in barca a vela,
in bicicletta, sugli sci, a una cena ufficiale, a un ballo.
Rawlings guardò l'anello e si costrinse a sorridere. «Diciott'anni a mag-
gio.»
Crosse prese la foto del ballo. «Niente figli» disse.
«Proprio così.»
«Perché?» chiese, continuando a guardare la foto.
«Che importanza ha?» ribatté Rawlings, con un tono improvvisamente
freddo.
Crosse rimise a posto la fotografia, poi estrasse l'assegno dal taschino e
andò a posarlo sulla scrivania. Quindi fece per andarsene.
«Cosa fa, in nome di Dio?» chiese Rawlings.
"In nome di Dio." Questo indusse Crosse a voltarsi. «Io ho molto dena-
ro. Non voglio derubarla.»
«Non capisco.»
«Lei mi ha versato un quarto di milione di dollari per aiutarla a creare
qualcosa di straordinario. Quando avremo gettato le fondamenta, lei mi a-
vrà pagato almeno quattro volte tanto. La ragione per cui pensa che io mi
meriti tutto ciò è che ha visto edifici da me progettati per altri clienti. È
questo che l'ha convinta. Ma il problema è qui: lei continua a pensare che
io l'abbia fatto da solo. Crede che io sia un artista, come Gropius, Mies
Van der Rohe o Gehry.»
Rawlings non replicò.
«Le assicuro che si sbaglia» proseguì Crosse, con un tono di voce in cui
si mescolavano eccitazione, fede, paura. Soprattutto paura. Paura dell'in-
spiegabile, incommensurabile potere creativo che gli si agitava nella men-
te. «Non capisce? L'artista è lei. Io sono semplicemente il mezzo. Per ren-
dermi degno di qualunque cosa - figuriamoci di un milione di dollari - lei
deve smettere di vedermi come del tutto separato da lei, qualcuno al quale
nascondersi. Questo perché, in fin dei conti, lei si sta semplicemente na-
scondendo a se stesso. E così quello che lei creerà non avrà anima, non a-
vrà vita. Costruirà un altro labirinto e vi si perderà.» Fece una pausa. «Io
non voglio aver parte in tutto ciò.» Si voltò, raggiunse la porta e allungò la
mano verso la maniglia.
«Aspetti» disse Rawlings.
Crosse si fermò e si voltò a guardarlo.
Rawlings lo osservò e fece un cenno di assenso. «Jimmy Bingham mi ha
detto che lei è... un tipo non ortodosso, per usare un eufemismo. Ha fatto a
lui e ad Andrea domande che nessun giornalista ha mai rivolto loro. Fran-
camente, l'hanno trovato piuttosto sgradevole.»
«Ma certo» confermò Crosse. «Fin dall'infanzia le persone sono abituate
a fingere di essere diverse da ciò che sono in realtà. E quando qualcuno
chiede loro di gettare la maschera, la cosa sembra rischiosa come lo sareb-
be per qualunque creatura attirata fuori dal suo guscio. Lo capisco. Sem-
plicemente, ho scelto di non lavorare con persone che non vogliono affron-
tare il rischio.»
Passarono parecchi secondi.
«D'accordo» disse alla fine Rawlings, sedendosi sul bordo della scriva-
nia. «Mi chieda quello che vuole.»
«L'ho già fatto» ribatté Crosse.
Rawlings accennò al divano in fondo all'ufficio.
Crosse lo raggiunse e ci si sedette.
Rawlings si accomodò su una poltrona posta in diagonale rispetto al di-
vano. Teneva ancora le distanze. «Mi sarebbero piaciuti dei figli, ma
Heather non poteva averne.»
«Capisco.»
«Abbiamo aspettato troppo. Heather aveva trentanove anni quando ci
siamo decisi a fare dei tentativi. Abbiamo affrontato la solita trafila. Test.
Farmaci per la fertilità. Fecondazione artificiale. Niente ha funzionato.»
«Lei è risultato fertile, dunque?» chiese Crosse.
Rawlings lo fissò. «Ha proprio bisogno di sapere se non sono impotente
per diventare il mio architetto?»
«Io ho bisogno di conoscerla.»
Rawlings sorrise, scuotendo il capo. «Forse non siamo compatibili.»
Crosse sapeva che le sue domande non erano più intime di quelle che e-
rano state rivolte a Rawlings durante la cerimonia di iniziazione alla Skull
and Bones. Entrambi avevano ricevuto lo stesso messaggio segreto, legato
con un nastro nero e sigillato con cera nera. Erano stati portati alla "tomba"
sul campus di Yale, un edificio di arenaria, coperto di rampicanti, privo di
finestre, sulla High Street, la strada principale, con un tetto predisposto per
l'atterraggio dell'elicottero privato della società. Entrambi erano rimasti
nudi durante gran parte del rituale, coperti di fango e sdraiati in una bara.
Entrambi erano entrati nella stanza 322, il sancta sanctorum della "tomba"
e avevano rivelato tutti i segreti delle loro giovani esistenze.
Non era raro per i bonesmen aprirsi completamente ai confratelli di
un'intera vita, rivelando i propri più intimi pensieri e sentimenti, soprattut-
to le loro esperienze e fantasie sessuali.
«Penso che solo la fratellanza arrivi a tanto» osservò Crosse.
I loro sguardi si incrociarono. Passarono parecchi secondi.
«È stato un vero piacere conoscerla» disse Crosse e allungò la mano.
Rawlings non gliela strinse. Passarono altri secondi. «Sono risultato fer-
tile» disse. «Non che importi molto stabilire chi dei due aveva il proble-
ma.»
"Certo che importa" pensò Crosse. Rawlings lo aveva palesato quando
aveva detto che sua moglie "non poteva" avere i figli che lui invece avreb-
be desiderato. E di fatto poteva desiderarli ancora. «Perché avete aspettato
tanto prima di fare dei tentativi per avere figli?» chiese.
«Perché le coppie aspettano? Ci piaceva stare insieme. Ci piaceva viag-
giare. Gli anni sono volati.»
Non suonava vero. Almeno per una coppia come i Rawlings. Le fami-
glie della classe media, medio-alta e perfino quelle milionarie potevano
pensare che i figli avrebbero invaso il loro tempo e limitato le loro azioni,
ma le famiglie enormemente ricche - con patrimoni di decine o centinaia di
milioni di dollari - di solito non la pensavano così. Erano in grado di as-
sumere personale e di delegare ad altri l'onere della gestione dei figli. Ba-
lie. Governanti. Assistenti personali. Riuscivano a essere genitori da lonta-
no, rispettando gli impegni sociali, uscendo tre o quattro sere alla settima-
na e continuando a viaggiare per il mondo, perfino con neonati e bambini
molto piccoli. «Sua moglie voleva figli quanto lei?» chiese Crosse.
«Non direi che per lei i figli fossero una priorità.»
«Ha idea del perché?»
Rawlings dava l'impressione di essere ancora indeciso su quanta parte di
verità rivelare.
«Terrò per me qualsiasi cosa mi dirà» assicurò Crosse. «Le do la mia pa-
rola.»
«Lei è come un prete. È questo che vuol dire?»
«Molto di più. Io sono suo fratello.»
Rawlings fece un profondo sospiro. «Heather ha avuto un'infanzia tri-
stissima» raccontò. «Credo che non volesse riviverla. E non sono sicuro
che ritenesse di poter essere una buona madre, dal momento che lei stessa
non ne ha avuta una adeguata.»
«L'adozione era fuori discussione, dunque.»
«Non avrebbe reso le cose più facili per lei. I problemi sarebbero rima-
sti.»
Crosse era soddisfatto della trama, adesso. Poteva crederci, perché era
coerente e spiegava i fatti anziché oscurarli. Aveva conosciuto altri uomini
e donne che non avevano avuto figli per motivi analoghi. E raramente c'era
un accordo totale tra marito e moglie in proposito. Quasi sempre, uno di
loro desiderava segretamente un figlio o una figlia, bramava di generare la
vita. E quel segreto finiva per uccidere qualunque amore tra loro.
Per Crosse, capire una famiglia non era diverso dal capire l'edificio che
quella famiglia avrebbe chiamato "casa". O raccontava una verità o rac-
contava una menzogna. O liberava l'energia di coloro che vi abitavano o la
soffocava. O era buona o era cattiva.
Lo schema valeva per ciascun edificio e ciascuna famiglia, senza ecce-
zioni. Crosse ne era certo e questo gli dava il coraggio, la determinazione e
la pazienza di fare qualunque cosa dovesse essere fatta: un restauro, una ri-
strutturazione dalle fondamenta o una nuova costruzione. Il progetto finale
poteva richiedere un mese, un anno o cinque anni.
«Apprezzo la sua franchezza» disse Crosse.
«Per il momento abbiamo finito?» chiese Rawlings.
Crosse sorrise. «Per il momento.»
«D'accordo.»
Si alzarono insieme.
Rawlings andò alla scrivania, prese l'assegno e lo diede a Crosse. «Dun-
que, abbiamo un patto?»
Crosse prese l'assegno. «Abbiamo un patto.»

10

Clevenger lasciò la proprietà dei Groupmann alle 16.50, fuso orario del
Pacifico. Shauna Groupmann aveva chiamato un taxi che lo portasse al
Cloud Marina, dove il presidente della società costruttrice di suo marito
aspettava di essere interrogato. Clevenger salì sulla vettura, che si mise in
moto.
Controllò il cellulare. Aveva ricevuto quattordici chiamate, sette delle
quali da North Anderson e tre dalla sua assistente, Amy Moffitt, alla Bo-
ston Forensics. Controllò anche gli SMS. Il primo era di Anderson. Non ne
aveva mai ricevuti da lui, finora. Lo visualizzò:
F, chiamami, oggetto Billy. N

La mente di Clevenger cominciò a galoppare. Billy aveva fatto del male


a qualcuno? Si era fatto del male? Si era iniettato un'overdose? Chiamò
Anderson.
«Ciao, Frank» rispose Anderson.
«Cosa succede?»
«Riguarda Billy.»
"Riguarda Billy." Perfino quel girare intorno alla questione era insolito
per Anderson. «Forza, parla!»
«Si è ubriacato ed è andato in auto a Newburyport.»
«Qualcuno si è fatto male? Il bambino...»
«Jake sta benissimo. Billy ha litigato con Casey. Penso che lei gli abbia
rinfacciato di non esserci mai...»
Adesso a Clevenger girava la testa. «Dimmi che Billy non ha...»
«Non l'ha picchiata, ma ha fatto un discreto buco nella parete della sua
camera da letto. La ragazza sostiene che Billy continuava a urlare che lei
lo ha incastrato, che lo tiene in trappola e quant'altro. Lei ha tentato di u-
scire, ma lui non gliel'ha permesso. Si direbbe che abbia fatto un cocktail:
alcol e marijuana, forse anche altro.»
Clevenger si voltò a guardare il Golden Gate, luccicante sotto il sole del
tardo pomeriggio. La sua bellezza immutabile faceva sembrare ancora più
brutta la storia che stava sentendo. «Casey sta bene?»
«È scossa. Ha chiamato il 911 quando lui finalmente è corso fuori. Ha
risposto mezzo dipartimento di polizia di Newburyport. Rob Vacher, Keith
Carter, tutta la squadra.»
«Ha sporto denuncia?» chiese Clevenger.
«Meglio farsene una ragione.»
«Aggressione domestica.»
«E sequestro. L'ha trattenuta per non più di dieci minuti, ma quanto ba-
sta per far scattare la legge. Poi è partito in auto ed è stato fermato per es-
sere passato con il rosso.»
«Guida in stato di ebbrezza» disse Clevenger.
«E resistenza all'arresto.»
«È scappato?»
«No.» Anderson fece una pausa. «Ha aggredito quattro poliziotti.»
Clevenger sentì una stretta allo stomaco. Come sarebbe andata a finire
quella storia? Billy era morto? «North, se stai cercando di indorarmi la pil-
lola...»
«Indorarti la pillola...?»
«Senti, dimmelo e basta!» La voce gli si ruppe. «È vivo?»
«Vivo? Certo che è vivo. Che dia... È nel carcere di Middleton. Hanno
fissato una cauzione di ventimila dollari.»
Clevenger chiuse gli occhi e chinò la testa. Era sempre pronto a sentire il
peggio sul conto di Billy. Era così da anni: la continua sensazione di
un'imminente catastrofe, la costante battaglia per portare la luce in una vita
che sembrava tendere, quasi inesorabilmente, all'oscurità. Questo è ciò che
si deve affrontare quando si tenta di ribaltare una storia i cui capitoli inizia-
li sono pieni di sofferenza. I ragazzi hanno meno capacità di recupero di
quanto si creda. «L'hai visto?» chiese.
«Non riceve visite» rispose Anderson. «Non avrei neppure saputo cos'e-
ra accaduto se Carter non mi avesse telefonato.»
«Torno con il primo volo.»
«Se hai bisogno di qualcosa...»
«Grazie.»
Chiusero la comunicazione.
«Senta...» disse Clevenger al tassista.
L'uomo si girò appena. Sembrava prossimo alla settantina, con un ripor-
to di capelli grigi a mascherare l'incipiente calvizie, il volto scavato e stan-
co e profonde zampe di gallina intorno agli occhi di un colore azzurro
chiaro.
«Cambio di programma. Devo andare subito all'aeroporto.»
«Nessun problema.» L'autista rallentò e si infilò nella corsia di svolta.
«Guai a casa, eh? Non ho potuto fare a meno di ascoltare.»
«Mio figlio.»
Il tassista lanciò un'occhiata a Clevenger nello specchietto retrovisore.
«Io ho tre maschi e una femmina. Tutti grandi. Si fa tutto quel che si può e
poi si prega.»
«Come si fa a sapere se lo si sta facendo?» chiese Clevenger.
«Cosa?»
«Tutto quel che si può.»
L'uomo lanciò un'altra occhiata a Clevenger. «Te lo dicono loro» disse.
«Ci vogliono magari trenta, quarant'anni, ma poi te lo dicono.»
Clevenger guardò di nuovo il ponte. E per la prima volta da quando
Billy era venuto a vivere con lui gli si affacciò alla mente un dubbio, e cioè
se aveva fatto la cosa giusta adottandolo, se sapeva cosa fare adesso. E per
qualche ragione quel dubbio gli fece desiderare di parlare con Whitney,
forse perché sapeva con certezza che loro due si amavano, anche se ciò
non significava che avrebbero mai avuto una vita insieme. Fece il numero
del suo ufficio e gliela passarono.
«Come vanno le cose a Frisco?» chiese Whitney.
«Bene, finché North non mi ha detto che Billy è stato arrestato.»
«Per cosa?»
Le raccontò tutto. «È nel carcere di Middleton.»
«Tu stai bene?»
Quella domanda, calma e pacata, fece sì che qualcosa dentro di lui si rin-
saldasse. «Sto bene» rispose lui. «Mi piacerebbe poter dire lo stesso di
Billy.»
«Se hai bisogno di prenderti una pausa...»
«No, io...»
«Lo capirei. Davvero.»
Più di una volta Clevenger aveva messo da parte il proprio lavoro per
Billy. In un certo senso, aveva messo da parte tutta la sua vita. Forse era
l'unica cosa da fare, o forse si trattava solo di reciproca dipendenza, che
impediva a ciascuno di loro di dare effettivo inizio alla propria esistenza.
«Non intendo pagare la cauzione, per cui Billy rimarrà dentro. E non c'è
ragione perché io interrompa il mio lavoro.»
«Non devi far altro che chiederlo.»
«Te ne sono grato.»
«Fammi sapere quando possiamo parlare di quello che hai scoperto sui
Groupmann.»
«Ti chiamo domani al più tardi.»
«Non c'è fretta.»
«Grazie ancora, Whitney.» Clevenger stava per chiudere la comunica-
zione.
«Frank?»
«Sì?»
«Spero che questa sia l'ultima volta. Voglio dire che forse adesso Billy
ha toccato il fondo. Forse si deciderà a cambiare vita.»
Clevenger avvertì un nodo alla gola, in parte perché condivideva la stes-
sa speranza, in parte perché sapeva che Whitney tentava di aiutarlo a so-
pravvivere al ruolo di genitore di Billy, quando ciò che lei voleva più di
ogni altra cosa era diventare genitore a propria volta. «Può darsi» disse.
«Stammi bene.»
«Anche tu.»

«Cosa posso servirle?» chiese una hostess a Clevenger.


In una serata buona, la domanda avrebbe assegnato una vittoria di misu-
ra alla sobrietà. In una serata come quella, con Clevenger disperatamente
bisognoso di sonno e chiuso nella realtà sospesa di un aereo in volo, la so-
brietà crollò al tappeto. «Vodka con ghiaccio, per piacere» rispose.
La hostess gli riempì il bicchiere e glielo posò sull'apposito sostegno.
«Alla salute.»
«Non sa quanta me ne occorre.»
La hostess sorrise e si allontanò.
Clevenger sorseggiò la vodka, dicendosi che ne avrebbe avanzata gran
parte e che avrebbe chiamato la hostess perché gliela portasse via. Invece,
ne tracannò una lunga sorsata. Doveva rimanere solo con i suoi pensieri
per le successive sei ore. La vodka sarebbe stata una compagnia sopporta-
bile.

11

La telefonata che stava aspettando, quella su cui aveva fatto progetti e


sogni, arrivò sul cellulare proprio nel momento in cui West Crosse stava
per uscire dalla sua suite al Delano Hotel per raggiungere Maritza nel suo
appartamento.
«Signor Crosse, sono Virginia Blakely della Casa Bianca. Può aspettare
in linea? Le passo il presidente.»
Mille dita gelate si strinsero intorno alla sua spina dorsale. «Senz'altro»
rispose Crosse.
Trascorsero dieci secondi.
«È troppo tardi per telefonare?» chiese il presidente Warren Buckley,
con il tono di chi è perfettamente sicuro di sé.
«No, signor presidente.»
«Possiamo lasciar perdere i titoli, lei e io.»
«Mi fa piacere sentirglielo dire» approvò Crosse.
«Anche se non penso che sia una sorpresa, considerati i suoi disegni e il
tempo che ha dedicato a Elizabeth e a me, mi piacerebbe ingaggiarla, se ne
ha ancora voglia.»
A queste parole, una corona di brividi circondò la testa di Crosse. Gli
veniva chiesto di seguire orme che risalivano al 1792, quando Thomas Jef-
ferson aveva fatto pubblicare sui più importanti giornali del paese l'annun-
cio di un concorso per il progetto della casa del presidente. Di seguire Ja-
mes Hoban, l'architetto che aveva vinto quel concorso e aveva collaborato
con George Washington al progetto originale dell'edificio, e poi aveva do-
vuto ricostruirlo dopo che gli inglesi lo avevano incendiato nel 1814. Di
seguire gente come Andrew Jackson Downing, Louis Comfort Tiffany,
Charles F. McKim e Beatrix Farrand: artisti e architetti che avevano lascia-
to indelebili impronte su uno dei massimi simboli di libertà del mondo.
Dieci mesi prima, Crosse, al pari di centinaia di architetti statunitensi,
aveva presentato i suoi disegni in un nuovo concorso per il progetto del
primo ampliamento della Casa Bianca dai tempi dell'amministrazione
Truman.
Era un'idea della first lady: una grandiosa estensione dei suoi uffici
dell'ala est in un Museo della Libertà che raccogliesse dipinti e sculture di
insigni artisti provenienti da nuove democrazie di ogni parte del mondo, da
paesi liberati dall'oppressione per intervento degli Stati Uniti e dei loro al-
leati. Il progetto aveva dei precedenti. Nel 1961, Jacqueline Bouvier Ken-
nedy si era fatta promotrice di una legge che metteva la Casa Bianca sotto
la tutela del National Parks Service e ne faceva un museo pubblico con
un'esposizione d'arte permanente.
Crosse era stato uno dei dieci, dodici architetti - di cui solo due uomini -
selezionati per una serie di colloqui con la first lady e il presidente, collo-
qui durante i quali aveva completato la sua vasta conoscenza della loro
dimora con una profonda comprensione dei meccanismi che regolavano la
loro famiglia. Aveva fatto domande sul corteggiamento di cui il presidente
Buckley aveva fatto oggetto Elizabeth Cunningham, sulla nascita dei loro
due figli maschi ormai quasi trentenni, sull'inaspettata nascita della loro fi-
glia minore, adesso diciassettenne. Aveva studiato le abitudini di lavoro e
lo stile manageriale della first lady, ciò che l'aiutava a concentrarsi e ciò
che la distraeva, il modo in cui comunicava con il suo staff, i figli e il ma-
rito nel corso della giornata, le sue preferenze in fatto di colori, luci, modi
di vedere l'attività di progettazione, le stanze della Casa Bianca che amava
di più e quelle che amava di meno, gli edifici che ammirava, l'arte, i libri, i
film, i periodi storici, gli animali, gli hobby e le cause che aveva maggior-
mente a cuore.
Ma aveva appreso molto di più. Il presidente era un bonesman, Yale 73,
e, al pari degli altri membri della società segreta, si era confidato con
Crosse, parlandogli a lungo della sua inquieta giovinezza, del raggiungi-
mento della maggiore età, del suo senso del destino, degli ostacoli perso-
nali e politici ancora presenti sul suo cammino, dell'amore per sua moglie,
delle gioie dategli dai due figli maschi e del dolore di apprendere che sua
figlia era nata ritardata.
Perché fare tante rivelazioni? La comune appartenenza alla Skull and
Bones non era già una spiegazione sufficiente? Il fatto di essere raccoman-
dato dalle più potenti famiglie americane bastava ad ammettere Crosse a
un'immediata intimità con il leader del mondo libero? Oppure si trattava di
una sorta di combinazione tra la sconfinata curiosità di Crosse e il suo a-
spetto fisico (il magnifico grigio-azzurro dei suoi occhi accanto alla cica-
trice irregolare sulla guancia)? O c'era in ballo qualcosa di più sottile e di
assai più potente?
Crosse credeva che le cose stessero proprio così. Credeva che le famiglie
che cercavano il suo aiuto fossero indirizzate a lui da Dio. Credeva che in-
consciamente sapessero che l'architettura delle loro vite era carente, per cui
avevano bisogno di un agente della Verità che le aiutasse a ricostruirla.
Il presidente Buckley non faceva eccezione. Intuiva, al di là delle parole
e dei pensieri, che Crosse aveva il potere e la volontà di aiutarlo a perfe-
zionare la sua esistenza. Perché altrimenti avrebbe dovuto confessargli che
il suo matrimonio e il suo futuro politico erano entrambi minacciati dalla
figlia ritardata?
Un mese prima, Crosse e Buckley si erano seduti insieme nella Stanza
Rossa, l'anticamera dello Studio Ovale e della biblioteca del presidente.
Buckley era sembrato sinceramente colpito dalle prime, embrionali idee di
Crosse per il Museo della Libertà e tuttavia ancora distante e oberato di
pensieri. Più di una volta si era scusato per la sua difficoltà nel concentrar-
si.
«Forse un'altra volta andrebbe meglio» aveva detto Crosse.
Buckley aveva annuito. «Può darsi.»
Crosse aveva cominciato ad arrotolare i suoi disegni.
«Blaire è incinta» aveva mormorato Buckley, quasi in un sussurro, come
una preghiera. Aveva stretto le labbra.
Crosse si era sentito osservato da decine di occhi: quelli dei leoni e delle
sfingi di legno scolpiti tutt'intorno nella stanza. Lentamente aveva fermato
il suo rotolo con un elastico e poi aveva guardato Buckley negli occhi.
«Diciassette anni, bisognosa di cure speciali e incinta» aveva detto
Buckley. «Non è un bel quadro.»
«Di quanti mesi è?» aveva chiesto Crosse.
«Due, più o meno.» Buckley aveva fatto un lungo sospiro. «Il ragazzo
che l'ha ingravidata è un disabile come lei, forse anche più grave.» Aveva
scosso il capo. «La notte scorsa Elizabeth ha sognato che Blaire portava a
termine la gravidanza.»
«È una cosa che lei vorrebbe...?»
«Tutto il paese sa come la penso sull'argomento.»
Non era la risposta alla domanda più personale e Crosse e Buckley lo
sapevano.
«Quelli del "Times" ne approfitteranno per sbattere la notizia in prima
pagina appena possibile» aveva detto Buckley.
«Lo sanno?»
Il presidente aveva scosso il capo in segno di diniego. «Lo sappiamo so-
lo sua madre, io, il medico curante... e lei.»
La madre, il padre, il medico curante e... Crosse. Potevano esserci dubbi
sul fatto che lui venisse ancora una volta chiamato in causa per aggiustare
la situazione? «Non tradirò mai la sua fiducia.»
Il presidente aveva guardato Crosse negli occhi per un breve istante,
permettendogli di vedere, al di là della levigata maschera di saggezza poli-
tica, la crudeltà, il dolore e l'amore sfrenati che si agitavano in lui. «Lo so»
aveva detto. Poi il suo sguardo si era spostato.
Crosse aveva mantenuto fede alla parola data. Aveva considerato ciò che
aveva appreso quel giorno alla stregua di un impegno sacro, aveva rimugi-
nato e meditato, in paziente attesa della telefonata che gli avrebbe dato il
permesso di agire.
Questa telefonata.
«Ne sono onorato» disse Crosse al presidente.
«Non perda tempo. Si metta al lavoro. Renda fiera la nazione.»
«Ha la mia parola.»
Fremeva ancora, sotto il dominio della grandezza di Dio, quando giunse
all'appartamento di Maritza.
Lei venne ad aprirgli la porta.
Per un istante Crosse non avrebbe saputo dire se quella che aveva davan-
ti era la vera Maritza o l'immagine di lei che lui aveva idealizzato. Maritza
aveva rinunciato al biondo platino a favore di un castano chiaro appena
striato da mèche bionde. Il trucco era quasi invisibile: niente guance rosa o
labbra rosse. Le unghie erano lunghe, sì, ma non come prima, e dipinte di
smalto trasparente anziché rosa. Maglietta e jeans attillati erano stati sosti-
tuiti da una tunica di cotone e velluto color melanzana e da pantaloni neri
di seta a zampa di elefante con il risvolto. Solo quando la vide arrossire,
Crosse fu certo che non era un'illusione.
«Ti sembro diversa?» chiese lei.
«Mi sembri stupenda» rispose lui. Le guardò il polso in cerca del regalo
di Ken Rawlings, il braccialetto con il simbolo della pace. Scomparso.
«Perché te lo sei tolto?»
«Non mi pareva...»
«Dovresti portarlo. È bello.» Crosse entrò, chiudendosi la porta alle
spalle, e sospinse con gentilezza Maritza contro la parete. «Non mi arrab-
bio se un altro uomo ti ama. Quale uomo non lo farebbe?»
Le baciò la fronte, le guance, il collo, la pelle nella scollatura a "V" della
tunica. Non appena il respiro di lei si fece più rapido, le fece scorrere una
mano sul ventre, dentro i pantaloni, e premette il dito sulla stoffa morbida
e umida tra le gambe.
Si baciarono a lungo.
Lei gli sbottonò i calzoni e allungò la mano per raggiungerlo.
Crosse fece un passo indietro. Mentre Maritza lo guardava, si spogliò
completamente, lasciando che gli occhi di lei assaporassero lentamente la
perfezione del suo corpo, i suoi muscoli scolpiti nella pietra, un'opera d'ar-
te prodotta dalla purezza della dieta, da una corsa giornaliera di quasi dieci
chilometri prima dell'alba e da un'ora di tai ji quan ogni sera.
Fecero l'amore, per Crosse un atto di Dio. Era sopraffatto dal mirabile
progetto della bellezza femminile e dall'assoluta legittimità del suo esserne
attratto, dal miracoloso fatto che il suo corpo poteva letteralmente indurirsi
ed entrare in quello di una donna e che quella perfetta unione di struttura e
funzione aveva la capacità di creare un essere umano, la suprema espres-
sione dell'imperitura speranza del Signore nell'uomo.
Per un istante, pensò alla figlia del presidente, una perversione di quella
speranza, un'infranta promessa della natura, che adesso minacciava la salu-
te non solo della famiglia più importante, ma della nazione.
«Tu vuoi figli?» chiese a Maritza.
«Naturalmente.»
«Quanti?»
«Quattro. Due maschi e due femmine.»
Crosse sorrise. «Immagino che tu ci stia pensando.»
«Da quando me ne ricordo.»
La tenne stretta a sé, immaginando che meravigliosa madre sarebbe stata
per i bambini Rawlings. «Meriti di averli» disse.
12

12 agosto 2005, ore 6.55, fuso della Costa Orientale

Clevenger atterrò al Logan Airport poco dopo le sei e si recò subito al


carcere di Middleton. Aveva scolato la sua terza e ultima vodka a mezza-
notte. Si sentiva piuttosto malconcio e riteneva che anche il suo aspetto lo
fosse.
Era andato spesso a far visita ai detenuti di Middleton. I tre agenti di cu-
stodia dietro il vetro del gabbiotto blindato nell'atrio - cassieri del genere
umano - lo conoscevano bene. Clevenger infilò la patente di guida e il suo
tesserino di medico nella fessura sotto il vetro.
Chuck Valentine, un massiccio uomo sulla trentina, si chinò sull'interfo-
no. «Sei qui per vedere Billy?»
«Sì» rispose Clevenger.
Valentine depose i documenti di Clevenger in uno schedario metallico
sulla parete alle sue spalle, staccò la chiave di un armadietto da un gancio e
compilò un pass.
Era assai meno del permesso di libera entrata e uscita che Clevenger di
solito otteneva da Valentine. Lanciò un'occhiata agli altri due agenti, Pete
Simms e Dave Leone, e li sorprese a fissarlo. Simms abbassò lo sguardo,
fingendosi occupato con le scartoffie. Leone si alzò e andò verso il fondo
del gabbiotto. «Che cosa sta succedendo qui dentro, Chuck?» chiese Cle-
venger a Valentine.
Questi fece scivolare il pass e la chiave sotto il vetro e si girò per scrive-
re il suo nome sul registro dei visitatori. «Eh?»
«Vedo che nessuno mi guarda negli occhi.»
Valentine si strinse nelle spalle. «Strana situazione, direi.»
«Strana in che senso?»
Valentine si strinse di nuovo nelle spalle.
«Strana in che senso, Chuck?»
«Frank» lo chiamò Dave Leone, da dietro le spalle del collega.
Clevenger si girò.
Leone era uscito dal gabbiotto blindato e stava facendo cenno a Cleven-
ger di raggiungerlo alla porta d'acciaio che immetteva nel carcere.
Clevenger lasciò i suoi effetti personali in un armadietto e andò verso
Leone.
«Hai l'aria ben riposata» disse l'agente.
«Sono appena atterrato da Los Angeles.»
Leone annuì. «Forse non sai tutto quello che è successo qui.»
«Credo di no» ammise Clevenger.
«Non tutti sapevano che Billy è tuo figlio.»
Il cuore di Clevenger cominciò a battere forte. «Che cos'è successo?»
«Se la caverà. Si è scontrato con una delle guardie durante la perquisi-
zione, perché non voleva spogliarsi. Quel tipo è proprio una fottuta testa
calda.»
Clevenger lo fissò, in attesa.
«Billy ne è uscito con un paio di fratture facciali e una commozione ce-
rebrale.»
«Avete dovuto... È per questo che non riceveva visite quando North ha
telefonato?»
«Era al Massachusetts General Hospital per i controlli. E tutti abbiamo
fatto ciò che andava fatto per lui, quando ci siamo resi conto che...»
«Voglio vederlo.»
«Nessun problema. Sai, volevo solo metterti al corrente. Sembra peggio
di quanto...»
«Voglio vederlo.»
Leone annuì, guardò attraverso un riquadro di vetro blindato della porta
d'acciaio e fece un cenno a un agente di custodia che stava dall'altra parte.
La porta scorrevole si aprì.
Clevenger entrò.
«Seguimi» disse Leone, precedendolo.
«Sono dieci anni che non mi serve qualcuno che mi faccia strada, Dave»
gli fece notare Clevenger.
Leone proseguì, senza fermarsi. Guidò Clevenger lungo un ampio corri-
doio grigio che portava al raggio Uno Est. Un altro guardiano al di là di un
vetro premette un pulsante e la porta si aprì.
Il raggio Uno Est aveva l'aspetto di una mensa scolastica circondata da
gabbie. Detenuti in tuta arancione si affollavano intorno a tavoli e panche
avvitati al pavimento della zona comune ed erano intenti a giocare a carte,
leggere riviste, sparare cazzate o semplicemente a fissare il vuoto.
Clevenger non vide Billy tra loro.
«Non ha ancora il permesso di stare fuori dalla cella» spiegò Leone. In-
dicò l'angolo più lontano, l'ultima cella a destra.
Clevenger si avviò in quella direzione.
Lo vide prima che Billy vedesse lui, seduto sulla branda, con le ginoc-
chia contro il petto e la schiena appoggiata alla parete color cenere. L'oc-
chio sinistro era coperto da un grosso bendaggio. Il labbro superiore, tume-
fatto e spaccato, sembrava tenuto insieme da punti di sutura. Un ematoma
si estendeva dalla fronte alla radice del naso e allo zigomo destro.
Billy si girò, vide Clevenger e abbassò la testa.
Clevenger non poté far altro che impedirsi di piangere per lui: per quella
parte di lui che era ancora il bambino picchiato, il nucleo di innocenza che
si celava sotto i tatuaggi e la spacconeria, forse adesso minuscolo, forse
quasi irraggiungibile, metà memoria, metà fantasma, e tuttavia ancora ab-
bastanza vivo da aggrapparsi al cuore di Clevenger e non mollare la presa.
Dave Leone lo aveva raggiunto. «Non si sa se Billy rischia di perdere
parte della capacità visiva in quell'occhio» disse. «Forse rischia di perderla
completamente.»
Clevenger si schiarì la voce e avanzò.
«Il tipo... la guardia, intendo... è stato sospeso» aggiunse Leone. «Come
ho detto, all'inizio nessuno sapeva che Billy era tuo figlio.» Si fermò e la-
sciò che Clevenger percorresse da solo gli ultimi passi.
Clevenger si fermò davanti alle sbarre. «Ciao» salutò.
«Ciao» salutò di rimando Billy, senza alzare gli occhi.
«Siamo nella merda, eh?»
Billy chiuse gli occhi.
«Ti dispiace se entro?»
Billy si strinse nelle spalle.
Clevenger guardò Leone, il quale aprì la porta e, dopo averlo fatto entra-
re, la richiuse alle sue spalle.
Clevenger non sapeva cosa fare adesso, se sedersi accanto a Billy oppure
no, se toccarlo oppure no, se sgridarlo oppure no. Il padre che era in lui pa-
ralizzava lo psichiatra, e viceversa. E così si appoggiò alla parete e attese,
cercando di immaginare che aspetto avesse l'occhio di suo figlio sotto quel
bendaggio, rimpiangendo di non essere stato presente quando il medico
aveva detto a Billy che probabilmente rischiava di perderlo.
Passò quasi mezzo minuto prima che Billy rompesse il silenzio. «Ho bi-
sogno di un avvocato» disse, guardandolo.
«Te ne assegneranno uno d'ufficio» ribatté Clevenger. Sapeva che non
era quello che Billy desiderava. Quello che Billy voleva sentirsi dire era
che Clevenger avrebbe assunto Tony Traini o Joe Balliro o John Haggerty
o uno degli altri penalisti in gamba che annoverava tra i suoi amici.
«E la cauzione?»
Un avvocato e una cauzione. Parlava come un delinquente. Clevenger
stava per arrabbiarsi, ma non volle perdere il controllo. Billy era a suo agio
nel conflitto più che in qualunque altra situazione. Il suo gioco consisteva
nel trasformare la tristezza in rabbia e Clevenger non se la sentiva di parte-
ciparvi. Si sforzò di immaginare Billy a sei anni, rannicchiato nel letto,
contuso e sanguinante, in attesa di un altro colpo della cinghia di suo pa-
dre. «Avanti Billy,» disse «perché non mi racconti cosa è successo?»
«Lei mi ha provocato, ecco che cosa è successo.»
Il bambino di sei anni svanì. Clevenger ricominciò a sentire la rabbia che
gli montava dentro.
«Lei ha continuato a rompermi le scatole perché non facevo questo e
quello, urlando e facendo piangere Jake» raccontò Billy, scuotendo la te-
sta. «Volevo solo farle chiudere il becco. "Piantala" le ho detto. "Per favo-
re, piantala." Ma lei, niente. Ha continuato a menarla.»
«Sarebbe stato più facile stare a sentirla senza alcol in corpo, per non di-
re delle altre sostanze di cui fai uso.»
«Io non volevo stare a sentirla. Non voglio farlo adesso. Le ho dato Jake
e ora lei vuole... Non so che cazzo vuole.»
Sembrava un'eco della verità. Forse Billy non sapeva come riuscire a es-
sere quello che Casey gli chiedeva: un vero padre per suo figlio. Forse
pensava che la cosa migliore che potesse fare era aiutare un bambino a en-
trare nel mondo. Forse tutto il resto era troppo spaventoso per lui, troppo
vicino alla terra desolata della sua infanzia. «Casey vuole che Jake abbia di
te un ricordo migliore di quello che tu hai di tuo padre» disse Clevenger.
Poi, dopo una pausa, aggiunse: «E adesso sarà più difficile. Avremo un bel
daffare».
Billy si girò verso la parete. «E allora, tirami fuori, o procurami almeno
un avvocato.»
«Ho bisogno di tempo per organizzare il test antidroga attraverso l'assi-
stenza sociale, la psicoterapia alla clinica giudiziaria, la disintossicazione
dall'alcol e tutta la trafila. Potresti anche riuscire ad avere qualche incontro
con l'avvocato mentre sei qui.»
Billy si morse il labbro. «Per quanto tempo?»
«Non lo so. Un paio di settimane, almeno.»
Billy scosse il capo. «Cazzo.»
«Non hai molte alternative, vecchio mio.»
Nessuna replica.
«Che cosa ti hanno detto all'ospedale a proposito dell'occhio?» chiese
Clevenger.
Billy si strinse nelle spalle.
Clevenger gli si avvicinò, sedendosi sull'orlo della branda. Avrebbe vo-
luto abbracciarlo, ma nel linguaggio corporeo o nell'espressione di Billy
nulla lasciava intendere che lo avrebbe gradito. Gli posò una mano sul
braccio. «Sistemeremo la faccenda, okay?»
Il labbro di Billy cominciò a tremare. Scostò il braccio. «Per quanto mi
riguarda, non riesco a immaginare come» disse.
«Non so se ci riesci» ribatté Clevenger. «Ma so che non hai bisogno di
farlo.»
«Puoi lasciarmi da solo, per favore?»
«Billy...»
Il ragazzo strinse i denti. «Per favore.»
Clevenger sentì un nodo salirgli in gola. Si alzò e fece cenno a Dave Le-
one di aprirgli la porta.
Leone arrivò e l'aprì.
«Ti va se vengo domani?» chiese Clevenger a Billy. Non ottenendo ri-
sposta, si girò e si allontanò.

13

«Non ho mai visto niente di simile» disse Clevenger a Whitney. L'aveva


chiamata dal suo ufficio alla Boston Forensics per aggiornarla velocemen-
te su Billy e per discutere del caso su cui stavano lavorando. Voleva che
lei sapesse che non avrebbe smesso di occuparsene. E voleva ricordarlo a
se stesso. «David Groupmann ha assunto il posto di comando di quella fa-
miglia, come se il fratello glielo avesse tenuto in caldo. Shauna e i ragazzi
non hanno fatto una piega. Lei è innamorata di David. I ragazzi sono forse
più affezionati a lui di quanto lo fossero al padre. Come se Jeff non fosse
mai esistito.»
«Rifiuto?»
«O accettazione. Stando a ciò che dice David, Jeff e Shauna non sono
mai stati fatti l'uno per l'altra. Un gay maniaco del lavoro sposato con una
bella donna solo per avere figli. Scomparso Jeff, i pezzi del puzzle si inca-
streranno meglio. La situazione sembra a tutti più naturale.»
«A parte il fatto che qualcuno è morto per cause assai poco naturali»
commentò Whitney. «Si direbbe che il fratello avesse un movente.»
Clevenger estrasse dalla tasca una bottiglietta di vodka che aveva preso
sull'aereo. «Per questo delitto, forse.» Svitò il tappo e versò il liquore nella
tazza di caffè che aveva sulla scrivania. «Ma ne restano altri quattro.»
«A meno che tu non lo consideri un serial killer.»
«Che cosa sappiamo di lui?»
«Superintelligente. Laurea a Yale, 1983, summa cum laude, stessa classe
del fratello. Avrebbe dovuto proseguire gli studi in legge ad Harvard, ma
non ci è andato. Ha studiato musica alla Juilliard, poi storia dell'arte a O-
xford. Fa il pittore, ma non ha fatto molta strada. Non ha precedenti penali.
È un conservatore, ma non fa attività politica. Cattolico praticante. Mai
sposato, niente figli.»
«Da quando in qua la direttrice dell'Unità di scienze comportamentali
dell'FBI controlla le inclinazioni politiche e religiose della gente?»
«Dal tempo di J. Edgar Hoover o dall'11 settembre, dipende dai punti di
vista.»
Clevenger bevve un sorso di vodka. «Ho bisogno di sapere sul suo pas-
sato tutto ciò che può averlo schiacciato narcisisticamente, distruggendo la
sua coscienza di sé al punto da fargli desiderare di uccidere il fratello per
viverne la vita. Ho bisogno di sapere anche se è mai stato intorno a un ta-
volo anatomico e se all'accademia ha preso lezioni di anatomia. Insomma
ogni cosa. E, ovviamente, qualunque collegamento con una delle altre vit-
time sarebbe d'importanza cruciale.»
«Ce ne occuperemo. Che altro posso fare per te?»
«È una domanda trabocchetto?»
Lei rise.
Un'inaspettata rottura del ghiaccio. «Perché non vieni a trovarmi?»
«E poi che cosa?»
Clevenger non aveva una buona risposta.
Whitney fu abbastanza clemente da lasciarlo in silenzio solo tre o quat-
tro secondi. «Ammettiamolo» disse. «Il nostro rapporto potrebbe essere
ancora più difficile da risolvere di questo caso.» Una pausa. «Dimmi che
altro ti occorre dall'FBI.»
Forse Clevenger si sarebbe sentito meglio se lei fosse sembrata arrabbia-
ta, ma Whitney pareva rassegnata al suo mutismo, perfino comprensiva, e
ciò lo faceva sentire vuoto come quando era uscito dalla cella di Billy. An-
cora più vuoto. «Voglio interrogare le famiglie delle altre vittime,» riuscì a
dire «cominciando da quella del tizio di Southampton.»
«Ron Hadley.»
«Poi, procedendo a ritroso, le famiglie del dodicenne del Montana e del-
le due vittime del Connecticut.» Sentì la porta d'ingresso dell'ufficio aprirsi
e vide North Anderson entrare.
Anderson fece capolino nella stanza e Clevenger gli fece segno di acco-
modarsi.
North si sedette di fronte a lui alla scrivania. Era molto alto, più o meno
quanto Clevenger, e aveva la testa rasata quasi a zero come la sua. I due
condividevano anche un'intensità dello sguardo - al tempo stesso penetran-
te e implacabile - che a volte bastava a estorcere una confessione al più in-
callito dei criminali. Se Anderson non fosse stato nero, i due sarebbero po-
tuti passare per fratelli, invece di sentirsi semplicemente tali.
«Se hai un po' di tempo, vorrei fissarti tutti gli appuntamenti nei prossi-
mi quattro o cinque giorni» disse Whitney. «Magari, potrei addirittura riu-
scire a organizzare una visita a Southampton questo pomeriggio. Ma so
che devi occuparti di Billy.»
«Procedi pure» tagliò corto Clevenger.
«Ti telefono.»
«Grazie.» Riagganciò.
«Hai un pessimo aspetto» disse Anderson.
«Grazie.»
«Hai visto Billy?»
Clevenger fece un cenno di assenso, prese la tazza e bevve un lungo sor-
so. «All'arrivo lo hanno conciato per le feste. Non gli piaceva l'idea di es-
sere perquisito.»
«E chi cazzo...? Ecco perché non mi hanno permesso di vederlo.»
«Era all'ospedale, dove lo stavano rimettendo in sesto. È stata una guar-
dia... una recluta con un cattivo carattere.» Vide la mente di Anderson met-
tersi al lavoro e la sua mascella irrigidirsi: un segnale di preoccupazione.
«Il tipo è stato sospeso» aggiunse Clevenger. «Non c'è niente da fare in
proposito. Billy ha almeno metà della colpa.»
«E sta bene?»
«Può darsi che abbia perso in tutto o in parte la capacità visiva di un oc-
chio. Non si sa ancora. Devo portarlo all'ospedale per una visita di control-
lo.»
«Merda. Mi dispiace.»
«L'occhio è solo l'inizio. Potrebbe finire per beccarsi da due a dieci an-
ni.»
«Da chi lo fai difendere? Haggerty?»
Clevenger scosse il capo. «Questa volta può accontentarsi dell'avvocato
d'ufficio.»
«Giusto» disse Anderson. Non sembrava convinto.
«Tutto quello che voleva da me era la cauzione e un avvocato. Ha biso-
gno di tempo per riflettere.»
Anderson sorrise.
«Che cosa c'è?»
«Sei tu lo strizzacervelli, ma ti sono stato vicino abbastanza per sapere
che Billy non ti avrebbe detto per nessuna ragione di cosa aveva davvero
bisogno.»
«E di cosa si tratterebbe?»
«Di suo papà.»
«Non ne sono più sicuro, sai. Non sono certo che pensi a me in questi
termini. Forse non lo ha mai fatto, né lo farà mai.»
«Sì, invece. E anche tu. Altrimenti, non soffriresti per via di questa di-
scussione e non avresti questo aspetto di merda.» Con un cenno indicò il
cestino dei rifiuti accanto alla scrivania. «E non verseresti vodka nel caf-
fè.»
Clevenger lanciò un'occhiata al cestino e vide la bottiglietta vuota. Non
l'aveva nascosta. «Passiamo al caso, lasciando Billy e me per dopo» disse.
«Devo metterti al corrente di qualcosa.»
«Come vuoi, socio.» A quanto pareva, da vero amico, sapeva che sareb-
be venuto il momento di affrontare il problema, ma che non era quello.
«Dimmi tutto. Poi ho io qualcosa per te.»
Clevenger gli raccontò del messaggio che il killer aveva inviato al presi-
dente Buckley.
«Un serial killer ispirato dal presidente» disse Anderson. «Il governo
non può certo lasciare che la stampa ne parli.»
«Whitney non vuole che la cosa esca dal suo ufficio. Le ho promesso
che non sarebbe uscito dal nostro.»
«D'accordo.»
«Cos'hai di bello per me?» chiese Clevenger.
«Sto cominciando a unire i puntini» disse Anderson. «Risulta che, dopo
che il progetto del grattacielo di Jeffrey Groupmann è andato in fumo,
quello che ci ha perso di più è un hedge fund chiamato Next Millennium
Capital Partners, con sede a Manhattan. Uno dei membri del consiglio di
amministrazione è Sidney Stimson.»
«Chi è?»
«È una lei. Suo nipote era Gary Hastings, la vittima dodicenne del Mon-
tana.»
«Come l'hai scoperto?»
«Continuo a parlare la lingua di Nantucket.»
Il periodo che Anderson aveva trascorso sull'isola di Nantucket come
capo della polizia continuava a dare frutti. Era ancora in contatto con le più
ricche e note famiglie che vi andavano in vacanza d'estate. «Puoi risalire
agli altri investitori?»
«È quello che sto facendo.»
«Perché sapevo che mi avresti risposto così?»

14

West Crosse stava cercando di buttar giù uno schizzo della casa padro-
nale nella proprietà dei Rawlings nel Montana da quando aveva lasciato
Maritza, poco dopo mezzanotte. Era circondato da un mare di carta. Non
aveva né mangiato né dormito.
Il tempo stringeva. Il suo più grande, e quasi certamente ultimo, lavoro
era a portata di mano: ricostruire la famiglia presidenziale. Non gli impor-
tava affatto se sarebbe sopravvissuto dopo aver attuato per loro il piano di
Dio. Voleva soltanto portare a termine ciascuno dei progetti ai quali aveva
dato inizio.
La sfida nel Montana consisteva nel progettare qualcosa di coerente non
solo con le radici di Ken Rawlings in Pennsylvania e con l'austera sempli-
cità della sua origine quacchera, ma anche con l'infanzia di Maritza a Cu-
ba, dove influenze nere e ispano-coloniali avevano prodotto edifici baroc-
chi di sbalorditiva stravaganza. Per farlo, Crosse doveva coniugare le linee
pulite che avrebbero entusiasmato Rawlings con le ampie finestre, i balco-
ni, gli archi, gli elaborati soffitti di legno, le inferriate e i vetri colorati che
avrebbero parlato al suo vero amore.
Sapeva quali sensazioni si provavano quando il progetto era quello giu-
sto: la sempre maggiore eccitazione, il continuo crescere della sicurezza in
sé. Tutto era al suo posto. La via era chiara.
Desiderava ardentemente questa chiarezza. Allora si inginocchiò e pregò
per averla.
I Rawlings erano una menzogna. Ken Rawlings aveva sposato sua mo-
glie Heather per insicurezza, perché temeva che non sarebbe mai riuscito
ad avere abbastanza successo da solo. Adesso aveva l'Abicus, la società di
estrazione di diamanti del padre di lei, ma non aveva pace, né figli. E per-
ché avrebbe dovuto averli? Forse che Dio guardava con favore a una men-
zogna più di quanto la gravità guardasse con favore a fondamenta cedevo-
li?
Quando l'ispirazione finalmente arrivò, fu un'onda di marea che sollevò
Crosse. Si mise a disegnare un rettangolo dentro un altro, creando un corti-
le centrale, tipico di una dimora coloniale cubana. Per lasciare il cortile a-
perto al mondo esterno tracciò quattro imponenti archi da un capo all'altro
della casa, ognuno al centro di una parete. Alla facciata aggiunse le stesse
finestre ad arco che avevano ornato le scuderie del nonno di Ken Ra-
wlings. Coprì il tetto a spioventi con lastre di cedro da verniciare di rosso
per avere lo stesso tono delle tegole della vecchia Avana.
Il risultato fu stupefacente: una fortezza ispano-americana in mezzo alle
montagne, costruita intorno a un centro zen e pregna di potenzialità.
Lavorò febbrilmente, tracciando la pianta dei piani. Disegnò la camera
da letto padronale, una suite principesca dotata di tutti i lussi per la nuova
padrona di casa, colei che una volta era l'assistente stipendiata. Collocò
due sedili nel vano della finestra, ciascuno di profondità sufficiente per
farvi l'amore guardando le montagne innevate. Disegnò un maestoso soffit-
to a capriate con travi ricavate da un'enorme quercia della Pennsylvania
che un mese prima era caduta sulla fattoria del nonno di Ken Rawlings du-
rante un forte temporale.
La casa padronale avrebbe avuto sei camere da letto: una per Ken e
Maritza, le altre per i loro quattro figli (due maschi e due femmine) e per la
tata.
Passò quindi alla nursery, tre stanze interconnesse in fondo al corridoio
che partiva dalla camera da letto padronale, pensate per numerose nascite e
per una balia. Aggiunse alte finestre, ispirate alla rotonda del Museo della
Rivoluzione di Cuba, e le dotò di persiane di legno per schermare la luce.
Poi schizzò in ogni stanza una serie di lucernari di vetro colorato che simu-
lassero le stelle cadenti.
Lavorò fino al minuto prima di uscire dalla sua stanza e di lasciare il De-
lano Hotel, appena in tempo per prendere il volo di mezzogiorno per Chi-
cago, dove aveva un altro progetto da completare.
Salì a bordo dell'aereo e si sedette al suo posto, abbandonandosi contro
lo schienale. Si sentiva magnificamente esausto, sfinito. E sprofondando
nel sonno, udì voci di ragazzi e ragazze che si chiamavano a vicenda, li vi-
de giocare a rincorrersi nel cortile da lui progettato e ridere mentre passa-
vano da un'arcata all'altra, intessendo perfette memorie infantili.

15

«Di che cos'hai paura?» chiese Ted Pearson, lo psichiatra di Clevenger.


«Forse di aver trovato qualcuno che non può essere aiutato» rispose
Clevenger. «Forse di aver commesso un errore.»
Erano nello studio di Pearson, seduti uno di fronte all'altro in ampie pol-
trone di cuoio logoro. Clevenger pensò che negli ultimi sette anni avevano
trascorso in quel modo almeno duecento ore, cercando di limare quello che
lo faceva tornare alla bottiglia e che probabilmente era anche ciò che gli
impediva di abbandonarsi completamente all'amore, di impegnarsi total-
mente con una donna, di crearsi una vera famiglia.
Pearson girò appena la testa a destra e guardò Clevenger con gli occhi
socchiusi, come se stesse cercando di ascoltare una musica sommessa. «Un
errore...» Passò più volte il pollice sull'anello d'oro e turchese.
«Adottarlo, prima di tutto.»
«Ah.» Pearson annuì. «Capisco.» Aveva ottantadue anni ed era alto non
più di un metro e sessanta. I suoi capelli erano incanutiti, la sua pelle si era
fatta grinzosa e l'azzurro dei suoi occhi era sbiadito. Ma la sua mente era
diventata più acuta. Aveva dato ascolto a migliaia di pazienti, a decine di
migliaia di storie. Conosceva quasi tutti i modi con cui le persone si anno-
dano e non si stancava mai di aiutarle a districarsi. «Sei il solito presuntuo-
so. Pensi sempre di essere capace di fare le cose.»
Clevenger scosse il capo. «Ho detto che non pensavo che sarei riuscito
ad aiutarlo.»
«Ti ho sentito. Sei entrato a passo di danza nella vita di quel giovane, ci
hai investito tre anni, hai immaginato che, se non fosse cambiato, sarebbe
sicuramente stata una causa persa.»
«Non sta migliorando. Sta peggiorando. È destinato al carcere.»
«È a quel punto che cesserai di amarlo?»
Silenzio.
«O l'hai già fatto?» Distolse lo sguardo prima che Clevenger avesse il
tempo di rispondere e guardò fuori dalla finestra la bignonia fiorita che a-
veva piantato quarantaquattro anni prima, il giorno in cui aveva aperto il
suo studio. «Che bel padre sei!»
L'osservazione artigliò l'anima di Clevenger. «Perché stai...?»
Pearson girò di nuovo lo sguardo su di lui. «A chi hai rinunciato in real-
tà, Frank? A Billy o a te stesso?»
Clevenger non rispose.
«Entrambi da bambini avete avuto solo dolore. Forse tu non sopporti più
di condividere quello di Billy. Non riesci a tenere gli occhi aperti in
quell'oscurità così fitta.» Pausa. «Te lo concedo e non ti giudico. Ma non
fingerò che qualcun altro non possa trovare la luce in quel giovanotto.»
Clevenger non disse nulla per parecchi istanti. Quando cercò di parlare
aveva un nodo troppo grosso in gola, per cui preferì rimanere in silenzio.
«Non so più dove guardare» disse alla fine. «Penso che ci siamo persi en-
trambi.»
Pearson si protese verso di lui. «Perché non ci soffermiamo su questo
aspetto? A che punto ti sei perso?»
Clevenger alzò le spalle. «Nel momento in cui ho cercato di essere un
padre per lui, di trattarlo meglio di come mio padre ha trattato me.»
«Spaventato?»
«Sì.»
«Disperato?»
«A quanto pare.»
«Hai mai pensato che Billy sta provando gli stessi sentimenti che provi
tu: paura e disperazione?» domandò Pearson. «Ti sei mai chiesto se farti
provare questi sentimenti non sia il suo modo per dirti come lui si sente?»
«Transfert.»
«Come ti hanno insegnato durante l'internato.»
Clevenger si fece più attento.
«Billy si è perso nello stesso punto in cui ti sei perso tu: nel tentativo di
essere un padre» spiegò Pearson. «Preferisce andare in prigione. Pensa che
fallirà miseramente nell'impresa.»
Sembrava proprio la verità. Spiegava ciò che stava succedendo. E Cle-
venger si vergognò di non averlo capito. «In questo sono d'accordo con
lui» disse.
«In più di un modo.»
«Che cosa intendi dire?»
«Preferisci bere piuttosto di stabilire esattamente se puoi o meno essere
per Billy un padre migliore di quanto tuo padre sia stato per te. Billy prefe-
risce rimanere sotto chiave che scoprire se può fare la stessa cosa nei con-
fronti di Jake. Ognuno sceglie il proprio veleno, non è così che si dice?»
«Mi pare di sì.»
«Tu vuoi che Billy abbia coraggio? Vuoi che tenti di essere per il suo
bambino quello che nessuno è stato per lui? Dài tu stesso prova di corag-
gio. Rinuncia all'alcol, una volta per tutte.»
Gli occhi di Clevenger si riempirono di lacrime.
«Dimmi a che cosa stai pensando» lo esortò Pearson.
Clevenger guardò la bignonia fuori dalla finestra.
«Avanti, Frank. Sono vecchio, non farmi lavorare così duramente.»
Clevenger sorrise. Passarono parecchi secondi. «Stavo pensando a quan-
to diverse sarebbero state le cose per me e quanto diverso sarei potuto di-
ventare, se avessi avuto...»
Si interruppe, scuotendo il capo.
«Se avessi avuto...» lo esortò Pearson.
Clevenger si strinse nelle spalle. «...un padre decente» concluse. «Maga-
ri uno come...» Lanciò un'occhiata a Pearson. «Non ha nessun senso.»
«Uno come me?»
«A proposito di transfert...» commentò Clevenger con una risatina.
«Non so che diavolo sto dicendo in questo momento.»
«Certo che lo sai» ribatté Pearson. «E non c'è niente di divertente.»
I loro sguardi si incrociarono.
«Magari tu avessi avuto un padre come la persona che immagini che io
sia» disse Pearson. Il suo tono si fece particolarmente caldo. «Magari io
fossi stato davvero un buon padre per i miei figli.»

16

Clevenger atterrò all'Islip Airport, noleggiò un'auto e si diresse a Sou-


thampton, sulla punta di Long Island. Whitney gli aveva fissato per le 17
un incontro con la famiglia di Ron Hadley, il cui cadavere era stato trovato
alcuni mesi prima, deposto in una fossa poco profonda sulla spiaggia nei
pressi della proprietà affacciata sull'oceano e avvolto in un telo di plastica,
con il cuore esposto e dissezionato con precisione.
Southampton è il luogo di villeggiatura estiva per le persone ricche e
famose di Manhattan. Steven Spielberg, Billy Joel, Lauren Bacali, gli stili-
sti Calvin Klein e Tory Burch e l'ex presidente della Time Warner, Steve
Burns, hanno tutti una seconda o terza casa lì. Molte proprietà valgono de-
cine di milioni.
Clevenger aveva fatto ricerche sulla famiglia Hadley tramite Internet
prima di partire da Boston.
Quando era morto all'età di sessantun anni, Hadley era amministratore
delegato della National News Corporation, proprietaria di quotidiani, emit-
tenti radiofoniche e televisive da un capo all'altro del paese. Fra i quaranta
e i cinquant'anni, era stato due volte membro del Congresso, in rappresen-
tanza del Quattordicesimo Distretto di New York, comprendente gran par-
te dell'Upper East Side. Lasciava la moglie, Patrice, un'ex modella, e due
figlie adulte, Nicole e Amy.
Clevenger si era preparato alla grandiosità, quando Whitney gli aveva
detto che la proprietà degli Hadley era in Meadow Lane, la strada principa-
le di Southampton, in riva all'oceano. Ma restò senza fiato quando ci arri-
vò.
Per gli standard del luogo, la casa non era enorme: circa otto o novecen-
to metri quadrati, contro i quasi duemila concessi dal piano regolatore cit-
tadino. A renderla particolarmente degna di nota era il fatto che dominava
quasi tre ettari di ondulata prateria, con una spiaggia di centinaia di metri e
una superba vista dell'Atlantico e della Great Peconic Bay.
Notevole era anche la struttura dell'edificio. La facciata consisteva in tre
rettangoli rivestiti di lastre grigie, separati da due torri a pianta circolare di
pietra di un grigio più scuro. Quattro comignoli dello stesso materiale e-
mergevano dal tetto di ardesia grigio carbone. Le finestre avevano cornici
di rame piombato, una quarta sfumatura di grigio.
La casa sembrava un disegno a carboncino di se stessa, un'opera d'arte in
mostra sotto le nuvole.
Clevenger suonò il campanello dell'ingresso principale.
Di lì a un minuto venne ad aprirgli una donna di circa trentacinque anni,
con i capelli castani ramati, un costume da bagno intero nero che lasciava
indovinare una gravidanza, un pareo dello stesso colore e gli occhiali da
sole Gucci in tinta. «Il dottor Clevenger?»
«In persona.»
«Sono Nicole» si presentò lei con un sorriso, porgendogli la mano.
Clevenger gliela strinse.
«Siamo tutte in piscina.»
Clevenger la seguì attraverso la casa, non meno elegante all'interno che
all'esterno, con pavimenti e soffitti di legno e caminetti di granito grigio.
Una serie di finestre di quindici centimetri per quindici correva lungo il
bordo superiore di ogni parete, formando una sorta di cornice trasparente
che permetteva alla luce del sole di inondare tutto l'ambiente. «Da questa
parte» fece strada Nicole. Aprì una porta a vetri e uscì.
Un vasto prato bordato da pruni, alberi nani di ginepro e ampie aiuole
all'inglese digradava verso l'oceano. Si sentivano le onde frangersi sulla
battigia.
Clevenger seguì Nicole lungo un serpeggiante vialetto di arenaria grigio-
azzurra, che a poco a poco si allargava fino ad abbracciare un'enorme pi-
scina e un capanno che, ombreggiato da jack pines, i pini caratteristici del-
la zona, piegati dal vento, era rifinito con le stesse lastre grigie, la stessa
pietra grigia e lo stesso rame piombato della casa padronale. Due donne
erano sedute intorno a uno dei tre vecchi tavoli di tek sul bordo della pisci-
na, sotto un ombrellone azzurro. Sullo sfondo, campi di ammofila mossa
dal vento.
«Mamma, Amy, questo è il dottor Clevenger» annunciò Nicole.
Patrice Hadley era prossima ai sessanta e con i suoi lunghi capelli grigi
raccolti in una coda di cavallo, il sorriso magnetico e una pelle che moltis-
sime donne con la metà dei suoi anni le avrebbero invidiato, costituiva
un'icona dell'eleganza. Indossava calzoncini da tennis e una T-shirt rosa.
Delle tre, Amy Hadley era quella con il viso più grazioso; i capelli ca-
stani ramati e il carattere solare erano gli stessi della sorella. Sembrava più
vecchia di Nicole, ma solo di pochi anni. Si stava rigirando intorno al dito
un anello di fidanzamento con un solitario di almeno cinque carati. Non
portava la fede nuziale.
Clevenger strinse la mano alle due donne. «È un piacere conoscervi.»
Notò che stavano bevendo vino rosso. Il suo sguardo si posò sulla botti-
glia.
«Si accomodi, la prego» lo invitò Patrice Hadley.
Clevenger si sedette e altrettanto fece Nicole.
«Possiamo offrirle un bicchiere di vino?» chiese Amy.
Clevenger pensò che accettare quell'invito sarebbe servito a rompere il
ghiaccio e che il suo proposito di tornare astemio poteva aspettare il matti-
no successivo. Giorno nuovo, inizio sobrio. «Perché no?» rispose. «Molto
gentile da parte sua.»
Amy gli riempì il bicchiere.
Clevenger bevve un sorso, rivide Ted Pearson nel suo studio e sentì l'eco
delle parole: "Dài tu stesso prova di coraggio".
Bevve un altro sorso.
«In cosa possiamo esserle d'aiuto, dottore?» chiese Patrice.
«So che può essere molto difficile parlarne,» esordì Clevenger rivolgen-
dosi soprattutto a lei «ma vorrei sapere della vita di Ron tutto quello che a
vostro giudizio potrebbe rappresentare un indizio del suo assassinio.»
Patrice sorrise alla figlia Amy, che contraccambiò.
Nicole rise.
Clevenger aveva creduto di non poter assistere a reazioni al dolore più
strane di quelle dei Groupmann, ma, ad appena un giorno di distanza, si
trovava in compagnia di una vedova e delle sue due figlie che condivide-
vano un intimo motteggio sul loro marito e padre assassinato. «Devo es-
sermi di sicuro perso qualcosa» osservò, bevendo un altro sorso di vino.
Amy e Nicole rivolsero uno sguardo alla madre.
Patrice vuotò il suo bicchiere e lo riempì di nuovo. «Amavo moltissimo
Ron,» disse «ma lui rendeva assai difficile la vita a tutte le persone con cui
aveva a che fare. Sono sicura che un sacco di gente adesso respira più libe-
ramente.»
«Difficile, in che senso?» volle sapere Clevenger.
«Aveva una personalità molto forte» rispose lei.
«Schiacciante» suggerì Clevenger.
«So che per i nostri soci della National News Corporation era davvero
difficile contrastare la direzione in cui veniva instradata l'azienda» disse
lei. «Mio marito era vendicativo con chiunque fosse in disaccordo con lui.
Si sentiva aggredito. Penso che sia questa la dinamica che ha messo fine
alla sua carriera politica. Ron rendeva impossibile anche alle persone a lui
più vicine dirgli quando sbagliava.»
Clevenger rimase colpito dall'apparente mancanza di emozioni di Patrice
Hadley: né tristezza, né rabbia. La si sarebbe detta la biografa del marito,
non la sua vedova. Proprio come Shauna Groupmann. «Era difficile vivere
con lui?» chiese guardando le tre donne.
«A dir poco» rispose Patrice, incrociando le mani davanti a sé, sul tavo-
lo.
Nicole posò la propria mano su quelle della madre.
Clevenger lanciò un'occhiata ad Amy e vide che continuava a rigirarsi
l'anello intorno al dito.
«Noi ci eravamo abituate» disse Nicole. «Ma non era una situazione
normale.» Guardò la madre per accertarsi che il suo commento non l'aves-
se ferita.
L'aveva ferita.
Le tre donne rimasero in silenzio. Tutto il contesto - la casa grigia, il
vento, il frangersi delle onde - parve trasformarsi da pacifico in gravido di
presagi.
«In che senso non era normale?» chiese a Nicole.
Lei si strinse nelle spalle.
Clevenger guardò Amy, che prese in mano il bicchiere e bevve un sorso
di vino.
Ci fu un altro silenzio.
Alla fine fu Patrice a romperlo. «Dominava le nostre vite» spiegò. «Era
colpa mia, solo mia. Non certo sua. Ron era una forza della natura. Sareb-
be spettato a me allontanare le ragazze dal suo percorso, ma non l'ho fat-
to.»
Dal suo percorso. Dov'era diretto? «Quanto è costato loro, esattamen-
te?» volle sapere Clevenger.
«Le loro vite» rispose Patrice.
«Mamma» la redarguì Amy, scuotendo la testa.
«Non proprio...» cominciò a dire Nicole.
«Sì, invece» la interruppe Patrice, lanciandole un'occhiata affettuosa. Poi
si rivolse di nuovo a Clevenger. «Avrebbero potuto cominciare a vivere
assai prima di quanto hanno fatto.»
«Non è la fine del mondo. Mi sono messa in pari» disse Nicole, passan-
dosi la mano sul ventre.
«Di quante settimane è?» le chiese Clevenger.
«Diciassette» rispose Nicole. «Sono rimasta incinta due settimane dopo
la morte di papà.»
«C'è un nesso?» le chiese Clevenger.
«Lui odiava mio marito» spiegò Nicole. Scrollò la testa. «So che è stu-
pido, ma è per questo che ho aspettato. Sono sposata da tre anni. È stato
evidente fin dal primo giorno che papà non sopportava Saul e la cosa mi
dava fastidio. Mi importava quello che lui pensava. Non rispettavo le sue
idee, ma non potevo passarci sopra e farmi una famiglia. Saul ha quasi
chiesto il divorzio da me per questo.»
«Ma adesso che lui non c'è più,» disse Clevenger, accennando al suo
ventre «lei è libera.»
«Mi sento in colpa per questo, ma non so cosa farci.»
«Non c'è niente per cui tu debba sentirti in colpa» intervenne Patrice.
«Neppure tu» disse Amy alla madre.
«Non è vero» ribatté Patrice. «Sapevo che il modo in cui ci controllava
tutte da così tanti anni non era sano. Avrei dovuto lasciarlo.»
Clevenger guardò Amy, soffermando l'occhio sull'anello di fidanzamen-
to. «Si è fidanzata da poco?» le chiese.
Lei annuì.
«Quanto tempo dopo l'assassinio?» chiese Clevenger.
«Sette settimane.»
«Suo padre disapprovava il suo fidanzato?» chiese Clevenger.
«Mio padre disapprovava tutti i miei fidanzati» rispose categorica. «Jack
non è il primo che mi ha chiesta in moglie.»
«Nessuno era all'altezza?» fece Clevenger.
«Nessuno era mai all'altezza. Erano i "più stupidi", i "più pigri", i "più
brutti". Si rifiutava letteralmente di parlare con metà dei ragazzi che fre-
quentavo.»
Clevenger era insieme a tre donne traumatizzate, in apparenza liberate
solo dalla morte di Ron Hadley. Ognuna di loro aveva un movente psico-
logico per l'assassinio.
«Ron non avrebbe mai chiesto aiuto,» disse Patrice «ma io avrei dovuto
farlo. Ero debole. Completamente priva di autostima. Ma vuole sapere la
cosa davvero...» Lasciò la frase a metà, ammutolendo all'improvviso.
Fu Amy adesso a mettere la mano su quella della madre.
Gli occhi di Nicole si riempirono di lacrime.
Patrice si schiarì la voce. «La cosa davvero strana,» riprese «è che a vol-
te sento la sua mancanza... moltissimo, il che è... insensato.» Si morse il
labbro. «Perché stiamo davvero molto meglio senza di lui.»

17

Qualcuno bussò.
West Crosse andò alla porta della sua suite nel Palmer House Hotel a
Chicago, una meraviglia del XIX secolo con un atrio a tre piani di Louis
Pierre Rigai, paragonato spesso alla cappella Sistina. Lo faceva sentire in
perfetta pace perfino in una città ormai caratterizzata dal Millennium Park,
sede di una scultura lunga venti metri e alta dieci di un fagiolo e del mo-
struoso Jay Pritzker Pavilion di Frank Gehry, tutto acciaio inossidabile.
«Sono io.» Una voce di donna.
Crosse aprì la porta.
Chase Van Myer, ventidue anni, splendida nella sua blusa bianca e mi-
nigonna di pelle nera, era sulla soglia. «Posso entrare?»
Crosse annuì.
Lei entrò. La stanza era illuminata da decine di candele. «Tutte per me?»
chiese, guardandolo negli occhi.
«Sì.»
«È passato tanto tempo.»
Lui chiuse la porta e l'attirò a sé, accarezzandole i lunghi capelli neri.
«Non potevo più aspettare.»
Si baciarono a lungo.
Lui colse l'amaro residuo della cocaina sui suoi denti e sulle sue gengi-
ve. L'afferrò per i polsi e la spinse contro la parete, imprigionandole le
mani sopra la testa. Baciò le cicatrici che percorrevano la parte inferiore
degli avambracci, soffermandosi su quelle recenti. Le aprì la blusa e le ba-
ciò i seni nudi con il piercing. Poi la fece girare su se stessa bruscamente e
le scostò i capelli dalla nuca, per mordere la delicata rosa che vi era tatua-
ta.
Lei gemette. «Ho tanto bisogno di essere scopata.»
Lui le fece aprire le gambe e vi passò in mezzo le mani. Niente mutandi-
ne. Bagnata.
«Per piacere» disse lei.
Crosse sapeva che voleva indurlo a farla implorare, a umiliarla, ad am-
mettere che era una nullità, anziché un'ereditiera, che era orribile, anziché
bellissima. Le sollevò la gonna e le sculacciò il sedere finché non diventò
tutto rosso.
Lei arcuò la schiena per averne di più.
«Sai quello che voglio vedere» le sussurrò Crosse all'orecchio. La scostò
dalla parete e la sospinse verso la camera da letto.
Aveva disposto altre candele e sparso petali di rose bianche e pervinche
tutto intorno al letto a colonne. Le note del Messia di Händel uscivano
sommesse dallo stereo sul comodino. Quattro lacci di seta dorata giaceva-
no sul copriletto.
Lei si fermò accanto al letto, di fronte a lui, e si sfilò la blusa. Slacciò la
gonna, la lasciò cadere a terra e la scavalcò.
Crosse rimase a fissarla, senza battere ciglio.
Senza distogliere gli occhi da lui, lei salì sul letto, vi si distese e spalan-
cò le gambe.
Crosse percorse il suo corpo con lo sguardo, passando dal seno all'ad-
dome liscio all'ombelico con il piercing, al pube e soffermandosi sulla par-
te interna della coscia destra, dov'era tatuata la parola FOTTUTA. Era una
novità dei sei mesi in cui non si erano visti. Se, nei suoi momenti più tran-
quilli, si era chiesto se l'anima di lei potesse essere salvata, quelle sette let-
tere stampate sulla sua pelle lo convinsero una volta per tutte che ciò era
impossibile.
Crosse aveva conosciuto Chase Van Myer poco più di due anni prima,
mentre riprogettava gli interni della casa dei suoi genitori, una dimora del
1922 del valore di venti milioni di dollari in Astor Street, sulla costosa
Gold Coast di Chicago. Il padre di Chase, Scout, venture capitalist, consi-
gliere comunale e bonesman, gli aveva confidato che la figlia soffriva di
disturbo borderline di personalità. «Si taglia» gli aveva detto con aria di-
sgustata. «Dice che non prova nemmeno dolore. Entra ed esce da periodi
di disintossicazione da alcol e cocaina. Non è capace di controllarsi con gli
uomini. Fa parte della sua sindrome.»
«Gli uomini approfittano di lei?» aveva chiesto West Crosse.
«Chase è in uno stato di costante confusione con un uomo o con l'altro.
È disposta a suicidarsi per lui, lo odia, non vuole vederlo, poi non può vi-
vere senza di lui, è pronta a scappare con lui, ad avere un figlio da lui. È un
disastro.»
«È rimasta incinta?» si era informato Crosse.
Van Myer aveva abbassato lo sguardo. Aveva appena superato i cin-
quanta, ma sembrava molto più vecchio: in parte per via dei capelli grigi
sulle tempie e delle rughe intorno ai penetranti occhi azzurri, ma in parte
per via dello stress emotivo. «Ha avuto tre aborti» aveva ammesso.
Crosse aveva annuito gravemente.
«Si sa che è difficile da curare... questo disturbo borderline. Secondo il
suo medico, potrebbe anche non uscirne mai. Potrebbe peggiorare.»
Era peggiorata. Negli undici mesi in cui Crosse aveva lavorato al proget-
to Van Myer, Chase aveva sommato alla dipendenza dalla cocaina quella
dall'eroina, era stata messa incinta dal suo giovanissimo pusher e aveva
avuto il suo quarto aborto.
«Sa cosa penso? Noi siamo parte del problema» aveva detto una sera
Scout Van Myer a Crosse.
«E come?» aveva chiesto lui.
«Sostenendola, tanto per cominciare. Rendendole facile essere malata
finché abita qui. È giunta l'ora di un amore solido. Abbiamo qui due gio-
vanotti su cui fare un pensierino. La vicenda li ha coinvolti. Sono così co-
stantemente preoccupati per Chase che non riescono a concentrarsi né sul-
lo studio né sul lavoro. La odiano e la amano al tempo stesso. Chase riesce
a fare a pezzi chiunque.»
Crosse era deciso a cancellarla. Un tumore maligno va rimosso al più
presto, altrimenti, divora tutto. Ciò valeva per una cellula cancerogena nel
corpo, una persona cancerogena in una famiglia, una nazione cancerogena
nel mondo.
Lui andava già a letto con Chase e sapeva già quanto fosse malmessa.
Sospettava che il padre potesse esserne la causa, che avesse fatto sesso con
sua figlia quando era bambina. Ma la sua storia non importava più. Perché
lui non aveva più speranze per lei. Il resto della famiglia prosperava. Il
problema era lei adesso. «Penso che abbia senso farla vivere per conto su-
o» aveva suggerito Crosse a Van Myer. «Se deve mantenere un apparta-
mento e se stessa, può darsi che ne venga fuori.»
E così, nelle ultime settimane della fase di progettazione della dimora
Van Myer, era stato deciso che la camera da letto di Chase con le pareti ro-
sa, gli animaletti di peluche e i trofei del campo estivo, sarebbe diventata
una biblioteca e una sala da biliardo. Di lei non sarebbe rimasta traccia. Si
sarebbe trasferita in un monolocale a parecchi isolati di distanza, con l'af-
fitto pagato per sei mesi e gli auguri dei genitori.
Questo era il piano. Ma poco dopo che la stanza di Chase era stata svuo-
tata, lei aveva perso il controllo, si era fatta un'overdose, era stata arrestata
per prostituzione, si era fatta un'altra overdose, si era tagliata le braccia ed
era finita in terapia intensiva.
«Dobbiamo riprendercela» aveva detto il padre a Crosse.
«State già facendo un tentativo» aveva ribattuto Crosse.
«E se muore? Come potrei vivere, se succedesse una cosa simile?»
«Con la convinzione di aver cercato di salvarla.»
«Ci sono cose che le sono accadute... da bambina» aveva detto Scout
Van Myer.
«Non è più una bambina» aveva tagliato corto Crosse.
Ma la volontà dei Van Myer si era spezzata. I demoni che terrorizzavano
Chase, di qualunque natura fossero, adesso terrorizzavano anche loro. Le
avevano permesso di tornare in casa, avevano svuotato la biblioteca dei li-
bri e l'avevano riempita con i suoi ricordi infantili, il suo letto e opere d'ar-
te sempre più tetre: una testa di donna in gesso con chiodi al posto dei den-
ti, un bambino fatto a pezzi, il dipinto di una ragazza inchiodata a una cro-
ce.
Avevano lasciato che il diavolo entrasse nello spazio sacro creato da
Crosse, violando il disegno di Dio. E il tumore maligno si era diffuso. La
vita non era migliorata per Chase ed era peggiorata per il resto della fami-
glia.
I Van Myer avevano cominciato a litigare in continuazione. Gli altri loro
figli facevano a gara con Chase per attirare l'attenzione. Gabriela, sua so-
rella, era finita due volte al pronto soccorso per overdose di cocaina; il fra-
tello minore, un ragazzo di sedici anni, aveva abbandonato la scuola.
Nel corso dell'ultimo mese, Scout Van Myer aveva chiamato Crosse, un
bonesman come lui: era in preda al panico nel vedere la propria vita andare
in pezzi e incapace di scorgere una via d'uscita dal labirinto che aveva con-
tribuito a costruire.
Adesso c'era un'unica via d'uscita.
Crosse si avvicinò al letto, prese uno dei lacci di seta dorata.
Chase sorrise.
Lui le legò saldamente il polso destro a una colonna del letto.
Lei allungò la mano sinistra verso l'altra colonna.
Crosse le legò il polso sinistro, poi la caviglia sinistra, quindi la destra.
«Prova a liberarti» le disse senza emozione. Adesso era un chirurgo. Un
soldato del Signore. Non provava alcuna eccitazione, né dolore, né paura,
né pietà.
Chase tirò con forza, ma braccia e gambe restarono quasi immobili.
«Bene» disse Crosse. «Sta' ferma.»
Lei obbedì.
Crosse si slacciò la camicia e se la sfilò, sciolse la cintura, si tolse i pan-
taloni, poi le mutande.
Lei lo fissava con gli occhi spalancati.
Lui si avvicinò al comodino, aprì un cassetto e ne estrasse una sciarpa di
seta bianca che trasformò in una benda per gli occhi.
Lei sollevò la testa dal cuscino.
Lui le annodò la benda intorno alla testa. «Ci vedi?» le chiese.
«No.»
Crosse frugò di nuovo nel cassetto, prese un flacone di cloroformio e
un'altra sciarpa bianca.
Versò il liquido sulla stoffa e gliela premette sul naso e sulla bocca.
Lei oppose una debole resistenza prima di sprofondare nel sonno.
Crosse era certo di conoscere il motivo per cui lei non aveva opposto
maggiore resistenza: Chase Van Myer sapeva meglio di chiunque altro che
la sua vita era fonte più di dolore che di gioia per lei e per la sua famiglia e
sapeva che non c'era via d'uscita. Perché, se no, avrebbe tentato più volte il
suicidio?
Crosse frugò per la terza volta nel cassetto, estraendone un laccio emo-
statico e una siringa piena di succinilcolina. Legò il laccio al braccio di
Chase, nel quale poi iniettò un milligrammo del potente farmaco. Entro
quindici secondi vide le braccia e le gambe, poi il volto e il collo di Chase
cominciare a contrarsi in spasmi scomposti, a mano a mano che la succi-
nilcolina agiva implacabilmente sui suoi muscoli. Sapeva che anche il cuo-
re e il diaframma si stavano contraendo sempre di più. Il corpo di Chase
era imprigionato in una morsa fatale, che nulla avrebbe allentato.
Crosse non era commosso. Era sicuro che ciò che stava facendo era al
servizio della libertà e questo lo autorizzava a fare quant'era necessario con
la mano ferma e la coscienza limpida.
Nel giro di un minuto, i muscoli di Chase erano talmente esausti e il suo
organismo era talmente intossicato dagli scarti metabolici dello sforzo fisi-
co che lei giaceva completamente immobile, paralizzata. Di tanto in tanto,
il suo cuore aveva un fremito, senza però riuscire a pompare sangue. I suoi
polmoni non avrebbero scambiato aria. Il suo sistema respiratorio e quello
circolatorio erano collassati. Chase stava soffocando in silenzio.
Crosse le slegò braccia e gambe e le tolse la benda dagli occhi. Sfilò il
copriletto da sotto il corpo lasciandola nuda su un telo di plastica che ave-
va sistemato lì prima che lei arrivasse. Quindi, distese i lembi del telo in
modo che coprisse tutto il letto e buona parte del tappeto da entrambi i lati.
Poi spinse il suo vecchio baule da viaggio Louis Vuitton accanto al letto
e ne aprì un cassetto, contenente un bisturi, una sega chirurgica, divaricato-
ri e pinze. Da un altro cassetto prese una tunica di lino bianco perfettamen-
te stirata e la indossò. Si inginocchiò accanto al letto. Chiuse gli occhi e
pregò:

Signore Iddio, Re dell'universo,


possa tu rendere saldi la mia mente
e il mio cuore e la mia mano.
ha tua volontà è la mia,
mentre libero questa famiglia dal male.
Un tempo ero perduto, ma ora sono ritrovato.
Ero cieco, ma ora ci vedo.

Si alzò in piedi. Rimase a osservare e ad ascoltare per essere sicuro che


Chase non respirasse. Le tastò il polso per assicurarsi che non ci fosse bat-
tito. Non voleva causare sofferenza. Voleva mettere fine alla sofferenza.
Chase era morta.
Tutto ciò che gli rimaneva da fare era lasciare un simbolo del suo amore
per la bellezza e la verità. Sapeva che sarebbe stata una delle sue ultime
occasioni per farlo.
Sistemò le gambe e le braccia di Chase in modo da replicare la celebre
immagine leonardesca delle divine proporzioni del corpo umano.
Alzò il volume dello stereo, lasciandosi invadere dalla grazia del Messia.
Prese il bisturi.
Dietro le palpebre, dentro le orbite e il setto orbitale, si stendeva un
mondo di strutture e funzioni perfette. Fasci di muscoli retti, elevatori e o-
bliqui, comandati da tre nervi cranici separati, avvolgevano il bulbo ocula-
re, permettendo il miracoloso controllo cerebrale dei movimenti oculari.
L'arteria oftalmica si suddivideva in una decina di ramificazioni, un albero
della vita che nutriva non soltanto i muscoli dell'occhio, ma anche la reti-
na, la ghiandola lacrimale, l'iride e la cornea.
Con la prima incisione Crosse divise in due la palpebra superiore destra
di Chase, poi prese dal baule due aghi d'argento purissimo fatti a mano e
fermò ogni lembo, rivelando i delicati assoni del nervo sopraorbitale. Bri-
vidi di eccitazione cominciarono a percorrerlo. Pensò a quanto poco le al-
tre persone fossero desiderose di vedere, a quanto le spaventasse volgere lo
sguardo alla luce, immaginare dove la libertà potesse portarle e poi trovare
il coraggio e la fede per arrivarci.
Lavorò più di tre ore, infilando il suo ultimo ago d'argento nel nervo ot-
tico destro di Chase alle 3.05.
Si ritrasse in riverente timore, non per l'opera che aveva compiuto, ma
per la perfezione che aveva portato alla luce. In quella, e in ogni altra cosa,
lui era solo un messaggero di Dio.
Praticò profonde incisioni sotto le anche di Chase, recidendo i muscoli e
le fasce che connettevano gambe e pelvi. Poi l'avvolse nel telo di plastica e
la mise nel baule - dopo averne tolto i cassetti - con le ginocchia piegate
sotto il mento.
Chiamò l'addetto al parcheggio e gli disse di preparare la sua Range Ro-
ver nera con lo sportello del bagagliaio aperto. Scese con l'ascensore nella
hall, lanciò un'occhiata fuori dall'albergo, poi si avviò all'uscita, tirandosi
dietro il baule. Mentre procedeva, si compiacque delle pareti di travertino e
della costosa moquette di lana irlandese su cui stava camminando, ma ri-
mase particolarmente colpito, come sempre, dal soffitto decorato con ven-
tun dipinti di Rigai, ognuno dei quali era un tributo alla mitologia greca. Si
sentì perfettamente in pace, nella rassicurante convinzione che la grande
arte perdurava e che la sua più grande opera era ormai prossima.
18

13 agosto 2005, ore 11.50

Clevenger aveva ricevuto una telefonata da Whitney poco prima delle


sette ed era riuscito a prendere il volo delle 8.35 da Boston per Chicago.
Ora si trovava con lei davanti al corpo nudo di Chase Van Myer in posi-
zione seduta, con i polsi legati ai braccioli di una poltrona centrale nella
prima fila del Jay Pritzker Pavilion nel Millennium Park di Chicago. Le
cavità orbitali di Chase erano state dissezionate, mettendo in luce i musco-
li, i nervi, i vasi sanguigni che un tempo controllavano e nutrivano i suoi
occhi. Il risultato era un grottesco pubblico costituito da un'unica spettatri-
ce intenta a fissare un edificio alto quasi quaranta metri, come se la sua so-
la vista fosse bastata a ridurla in quello stato.
Nonostante un provvisorio riparo di tela cerata fosse stato sistemato in-
torno al corpo, era filtrata la notizia che lì dietro giaceva la figlia di Scout
Van Myer. Decine di spettatori, compresi telereporter e cronisti, erano te-
nuti a bada da un muro di poliziotti, autopattuglie e ambulanze.
Una squadra della Scientifica stava passando al setaccio la zona, scat-
tando foto, cercando impronte e rilevando orme.
Clevenger indicò la parola FOTTUTA tatuata sulla coscia della ragazza.
«Ha l'aria di essere recente.»
«Sì, ma non è recente la maggior parte delle cicatrici sulle braccia e dei
buchi lasciati dall'ago della siringa.»
«Ragazza difficile.»
«Pecora nera della famiglia. È stata arrestata per prostituzione, taccheg-
gio, possesso di droga, ubriachezza e disturbo della quiete pubblica.»
«I genitori sono stati avvertiti?» chiese Clevenger a Whitney.
«Stanno arrivando.»
Sia Clevenger sia Whitney sapevano che non avrebbero mai potuto
comprendere l'orrore di un padre e di una madre di fronte al corpo mutilato
di una figlia. Era qualcosa che andava al di là di ogni commiserazione e
che bastava a far desiderare loro di stare vicini l'uno all'altra, per fare fron-
te comune contro la morte e la distruzione. Perché si sentivano più vivi in-
sieme che separati. Il che era di per sé una specie di miracolo.
«Come l'hanno identificata?» chiese Clevenger.
Whitney indicò un tavolo pieghevole vicino al palco, su cui erano state
raccolte le prove. «Le ha lasciato portafoglio, patente, carte di credito: co-
me negli altri casi.»
Clevenger alzò lo sguardo sull'intreccio di tubi d'acciaio che sovrastava
il prato intorno al padiglione, rilucente sotto l'infuocato sole d'agosto. Poi
tornò a guardare il palco. «Questo è diverso dagli altri.»
Whitney lo fissò.
«Le altre vittime erano altrettanto in vista» spiegò lui. «L'assassino non
ha tentato di nasconderne l'identità, ma ne ha coperto i corpi, li ha seppelli-
ti vicino a casa: un tranquillo parco di quartiere, la spiaggia.» Diede un'oc-
chiata alla folla intorno al padiglione. «Stavolta, è uscito allo scoperto alla
grande.»
«E sta aumentando il ritmo» disse Whitney. «Tre in sette mesi.»
«Vuole attenzione e la vuole adesso.»
«Be', l'ha ottenuta. Notiziari nazionali stasera, su tutte le reti. Se hai
qualcosa che possa dare in pasto a quelli dell'ufficio, fammelo sapere. Farò
una telefonata.»
«North dice che sta controllando i collegamenti finanziari tra alcune del-
le famiglie delle vittime. Ma gli occorre altro tempo.»
«Abbiamo cercato anche noi di seguire alcune di quelle piste. Il guaio è
che, quando si ha a che fare con famiglie a questo livello, si scoprono un
sacco di intrecci. Si sposano tra loro. Fanno affari insieme. È difficile sa-
pere se i collegamenti significano qualcosa per quanto riguarda i delitti.»
«Qualcos'altro collega almeno due delle vittime.»
«E cioè?»
«Ieri dagli Hadley ho notato la stessa cosa che ti ho detto di aver notato
dai Groupmann: l'assenza di dolore. Hanno continuato a vivere la loro vita.
In un certo senso, entrambe le famiglie sembrano stare meglio di prima.»
«Penso che sia una sorta di estremo rifiuto, lo noti meglio dopo morti
improvvise, soprattutto assassinii. Troppo shock e orrore da sopportare.
Forse entrambe le famiglie erano tanto disperate da buttarsi tutto alle spal-
le.»
«La cosa non quadra...»
«Questa è gente fuori dal comune. Hanno denaro sufficiente per seppel-
lire buona parte del loro dolore. Hanno storie familiari che sopravvivono a
ciascuno dei singoli membri... eredità di cui preoccuparsi. Può darsi perfi-
no che Groupmann e Hadley fossero tanto occupati a far crescere la ric-
chezza delle loro famiglie da non poter mai essere vicini alle loro mogli e
ai loro figli. Le insolite reazioni al dolore potrebbero esserne un effetto
collaterale.»
«Non sono così sicuro. Penso che la gente sia uguale quando c'è di mez-
zo la morte.»
Whitney diede un'occhiata al corpo di Chase. «D'accordo. Ma deve es-
serci una spiegazione. Che ne pensi?»
«Non lo so. Né l'uno né l'altro era davvero amato. Groupmann era un
gay sposato con un'eterosessuale e non valeva granché come padre. Hadley
era un dominatore e ha fatto davvero un bel lavoro con la moglie e le fi-
glie, per quanto riguarda la loro autostima.»
«Così in entrambe le famiglie c'era qualcuno che poteva avere un mo-
vente. Ma ci sono sei corpi dissezionati. Pensare a due serial killer mi pare
una forzatura.»
Un pensiero si cristallizzò nella mente di Clevenger. «Forse questo è il
punto.»
«Eh?»
«È una forzatura. Che cosa succede, però, se ho azzeccato i moventi, ma
il killer è esterno a entrambe le famiglie? I loro moventi diventano i suoi.»
Fece una pausa per riordinare i pensieri. «Questi tizi erano ostacoli. Pro-
blemi. Le famiglie erano soffocate da loro.»
«Quindi il nostro assassino ha fatto loro un favore, ripulendo la casa?
Perché? Che cosa ne ricava?»
«È proprio quello di cui parla il killer nel suo messaggio al presidente...
una visione morbosa dei "valori familiari".»
«Non ti seguo.»
«Lui scrive: "Un paese alla volta o una famiglia alla volta, la nostra ope-
ra è al servizio di un unico Dio". Forse pensa che li sta liberando.»
«Uccidendo.»
«È di moda, adesso» osservò Clevenger. «Soprattutto alla Casa Bianca.»
«Parli come un vero bostoniano.»
«Lo considero un complimento.»
Ci fu fermento tra i cronisti e gli spettatori accalcati presso il cordone te-
so intorno alla scena del crimine dalla polizia. La folla si aprì e Scout Van
Myer e sua moglie Carolyn avanzarono, scortati da quattro agenti in uni-
forme e da John Jameson, il capo della polizia di Chicago.
Jameson, un pezzo d'uomo alto più di un metro e novanta, fermò i co-
niugi Van Myer prima che si avvicinassero al corpo della figlia, per prepa-
rarli - così pareva - a ciò che stavano per vedere.
Clevenger vide Carolyn Van Myer, una donna prossima alla cinquanti-
na, dalla magrezza anoressica e dai corti capelli castani, nascondere il vol-
to sul petto del marito. Clevenger sfiorò Whitney con la mano.
Lei gliela strinse, poi si avviò verso i Van Myer.
Clevenger la seguì.
Jameson fece le presentazioni. «I signori sanno in quali... condizioni ab-
biamo trovato Chase. Vogliono vederla comunque.»
«Non c'è alcun bisogno di procedere all'identificazione» disse Whitney.
«Potete vedere vostra figlia...»
«...all'obitorio?» intervenne Carolyn Van Myer.
Scout Van Myer, bello e regale, in abito cachi con camicia bianca ina-
midata, rimase in silenzio.
«Voglio vederla subito» decretò Carolyn Van Myer.
«Certo» disse Whitney, abbassando gli occhi.
Whitney, Clevenger e Jameson rimasero indietro di qualche passo men-
tre i Van Myer si avviavano verso il riparo provvisorio che circondava il
corpo di Chase e quindi si dirigevano al punto in cui uno dei lembi della
tela cerata era stato scostato.
Carolyn Van Myer ansimò. Più che sedersi, crollò sulla sedia accanto a
Chase. Poi prese la mano senza vita della figlia, si chinò su di lei e la baciò
sulla testa. «Va tutto bene, bambolina» disse con voce chiara, forte, senza
ombra di dolore. «Adesso puoi riposare.» La sua voce si fece pacata. «Tut-
ti noi possiamo riposare.»
Clevenger e Whitney si scambiarono un'occhiata.
Scout Van Myer si fece il segno della croce, poi si inginocchiò davanti
alla moglie e alla figlia. «Ha trovato finalmente la pace, Carrie» disse. «È
nelle mani di Dio.»

19

«Voglio interrogare uno di loro, o entrambi, mentre sono qui» disse Cle-
venger a Whitney, seguendo con lo sguardo i Van Myer che si allontana-
vano con Jameson. «Si comportano troppo bene.»
«Sembrava che stessero dando l'addio a una prozia che ha lottato per
cinque anni contro il cancro» commentò Whitney. «Farò una telefonata e ti
combinerò l'incontro. Dovrebbero essere alla centrale tra un paio d'ore, ma
forse è meglio tu passi più tardi a casa loro. Saranno più disponibili.»
«Abbiamo tempo, allora» disse Clevenger. «Vuoi che ci prendiamo un
caffè e parliamo un po' della faccenda?»
«Certo. Dove?»
«L'espresso che ti servono in camera al Palmer House è il migliore della
città.»
Whitney sorrise. «Non ti arrendi mai.»
«Mai, se l'idea è grande.»
«Non sono sicura che noi siamo una così grande idea.»
"Non sono sicura" era un progresso. «Perché non fai quella telefonata
mentre andiamo al Four Seasons?»
Lei scosse il capo. «Niente da fare.»
Sembrava irritata. Clevenger tentò di riprendere in mano la situazione.
«So che non dovrei fare pressioni...»
«Facciamo il Ritz e l'affare è concluso» lo interruppe Whitney.
Raggiunsero l'hotel in taxi. Clevenger scelse una suite al ventiduesimo
piano, ma non riuscirono ad aspettare di raggiungerla. Non appena le porte
dell'ascensore si chiusero, erano l'uno nelle braccia dell'altra, intenti a ba-
ciarsi e a mordersi a vicenda labbra, collo, orecchie e ad allungare le mani
verso parti dei rispettivi corpi che non toccavano da mesi.
«Ti amo» le sussurrò Clevenger all'orecchio.
«Ti amo» replicò lei.
«Posso mettere noi due al primo posto.»
Lei lo scostò piano. «Non promettere cose che...»
Clevenger la baciò a lungo, poi si portò l'indice alle labbra.
Lei gli afferrò il polso e si infilò quel dito in bocca.
Le porte si aprirono. Clevenger e Whitney uscirono dall'ascensore e si
avviarono verso la suite, dandosi piccole spinte e muovendosi a passi di
danza.
Fecero l'amore e tutto sembrò nuovo e al tempo stesso familiare. Un'ine-
briante combinazione. Whitney seppe resistere. Clevenger seppe evitare di
sopraffarla troppo velocemente. Furono in armonia per molto tempo. E se
un sottofondo di tristezza si insinuò nella loro passione fu solo perché con-
dividevano l'inespressa convinzione che tra loro non c'era mai stato sin-
cronismo.
Poi rimasero distesi l'uno accanto all'altra in morbide vestaglie di finis-
simo cotone, parecchi piani sopra la realtà che li identificava come il mi-
glior baluardo contro un killer che stava imperversando con la sua carnefi-
cina. Clevenger rappresentava ancora per Billy Bishop la migliore oppor-
tunità di uscire dal carcere e rimanere vivo e Whitney aveva ancora biso-
gno di ricevere da lui cose che forse non era in grado di darle.
«Sarebbe bello poter fermare il tempo fuori da questa stanza e rimanere
qui anche solo un paio di giorni» osservò lei.
Clevenger le sfiorò una guancia. «Un paio di anni.»
Lei si scostò, guardò di sottecchi la sua mano, poi la toccò. «Stai tre-
mando.»
Clevenger non beveva da una decina di ore. «Oggi non ho mangiato»
disse.
Lei lo squadrò. «Sei in crisi di astinenza?»
«Sto bene.»
«Cristo!» Whitney si alzò e cominciò a vestirsi.
«Senti, non ho permesso che la cosa mi sfuggisse di mano. Un paio di
drink al giorno, per un mese, di tanto in tanto. L'ho superato e adesso sto
bene.»
«Concedimi una pausa» disse lei, abbottonandosi la camicetta.
Clevenger si tirò su a sedere. «Che ne dici di concederla tu a me? Ho
smesso quando me l'hai chiesto. Ce l'ho fatta, senza problemi. Non mi so-
no lasciato sopraffare.»
Lei si infilò le scarpe. «E hai avuto il coraggio di dirmi che potresti met-
tere noi due al primo posto?»
Clevenger si alzò e le si avvicinò. «Dicevo sul serio.»
Whitney distolse lo sguardo.
«Quando avrò finito qui, torniamo a Washington insieme. Possiamo par-
larne a cena. Bistecche e Diet Coke.»
Nessuna risposta.
«Neanche un sorso da questo momento. Punto.»
Lei lo guardò.
«E dài» la esortò Clevenger. «Prenotiamo il volo.»
Passarono alcuni preziosi secondi. «E va bene, se è ciò che vuoi. Ma an-
cora un drink e io non rispondo più alle tue chiamate, non ceno più con te,
non ti do più lavoro. Si chiama "ultima occasione", nel caso in cui tu non
ne abbia mai sentito parlare. Sei sicuro di volerti assumere l'impegno da
adesso?»
«Mi va bene da adesso.»
«Sono seria, Frank. Se hai bisogno di sei mesi per rimetterti in sesto,
prenditeli.»
Lui la guardò fisso. «Mi va bene da adesso» ripeté.
«Prenoto il volo» tagliò corto Whitney. «Ce n'è uno alle 17.45, il che ci
lascia il tempo di fare tutto quello che dobbiamo fare qui.»
Lui si infilò i jeans, mentre lei radunava le sue cose.
Whitney si avviò alla porta, si fermò e si voltò. «Ancora una cosa, di
tutt'altro genere: hai presente ciò che dicevi prima riguardo al killer che ha
una visione morbosa dei "valori familiari"?»
«Sì.»
«E dell'assassinio che è "di moda" a Washington?»
Clevenger annuì.
«Teniamo per noi queste considerazioni. È dinamite politica. Qualcuno
potrebbe servirsene contro l'Amministrazione. Noi dobbiamo fermare un
killer, non danneggiare il presidente.»
«Parli da vera politica.»
«Lo considero un complimento.»

20

Clevenger rimase un minuto davanti alla dimora dei Van Myer in Astor
Street, sbalordito dalla sua bellezza. L'edificio era maestoso: una facciata
aggettante in mattoni coperta di edera, dietro un'alta recinzione di ferro
battuto con pilastri di granito ogni sei metri. Ma la vera magia cominciava
all'entrata, incorniciata dall'imponente scultura di due alberi bronzei quasi
spogli i cui rami formavano un arco sopra un cancello di bronzo munito di
videocamere di sorveglianza, al di là del quale un vialetto di calcare pun-
teggiato di foglie anch'esse di bronzo conduceva a gradini di granito di ac-
cesso alla porta principale di bronzo e vetro sagomato con foglie incise.
L'impressione era quella di un classico edificio del primo Novecento tra-
sformato in un'opera d'arte mistica.
Clevenger stava per premere il pulsante del citofono sul cancello quando
il suo cellulare si mise a suonare. Era North Anderson. «Che c'è?»
«Ho qualcosa.»
«Dimmi.»
«Il grattacielo di Jeff Groupmann sembra uno di quei negozi dove si tro-
va di tutto. Oltre a Sidney Stimson, la zia della vittima dodicenne del Mon-
tana, un altro degli investitori è stato Ron Hadley. Ha perso i cinque milio-
ni di dollari che aveva investito tramite una società in accomandita sempli-
ce con Bruce Grimes.»
«Quel Bruce Grimes?» chiese Clevenger.
«Il ministro dell'Energia durante il primo mandato del presidente Buck-
ley.»
«Hadley era un membro del Congresso. Dev'essere questo il legame con
Grimes.»
«Si sono anche laureati insieme» aggiunse Anderson. «Yale, classe
1963. E c'è dell'altro. Sidney Stimson ha mantenuto il suo cognome da nu-
bile. Suo padre era presidente del consiglio di amministrazione della banca
di investimenti Brown Brothers Harriman. Anche lui laureato a Yale. E per
sette anni è stato rettore dell'università.»
«E Groupmann?»
«Classe 1971.»
Clevenger diede un'occhiata ad Astor Street fiancheggiata da dimore di
arenaria e mattoni. «Tre vittime legate alla stessa università.»
«Almeno tre» disse Anderson. «Sto andando a New Haven per una pic-
cola ricerca nell'archivio dei laureati.»
«Io sto per interrogare i Van Myer. Scoprirò se anche qui c'è un nesso
con Yale.»
«Com'era la scena del crimine al Millennium Park? Molto brutta?»
«Il nostro uomo ha lasciato la figlia ventiduenne dei Van Myer legata a
una poltrona di prima fila al Jay Pritzker Pavilion. Un'altra lezione di ana-
tomia. Gli occhi.»
«Gesù.»
«Fammi sapere quello che trovi a Yale.»
«D'accordo.»
Chiusero la comunicazione. Clevenger spense il cellulare e premette il
tasto del citofono.
«Sì? Chi è?» chiese una voce maschile.
«Frank Clevenger. Ho un appuntamento con il signore e la signora Van
Myer.»
Il cancello si aprì con un ronzio.
Clevenger si diresse alla porta principale.
Un minuto dopo venne ad aprirgli un aitante uomo sui cinquantacinque
anni, in abito blu scuro e cravatta giallo oro. Aveva gli occhi di color ca-
stano chiaro dallo sguardo affabile, i capelli sottili e brizzolati e la pelle
perfettamente abbronzata. «Si accomodi, prego» disse.
Clevenger entrò in un'anticamera che era in realtà un grande atrio incor-
niciato da un'imponente scalinata a quattro rampe. Alzando gli occhi, vide
il soffitto della casa, una cupola di vetro con foglie cadenti incise.
L'uomo gli tese la mano. «Harold Burns» si presentò con un ampio sor-
riso, che svelò denti candidi. «Sono l'avvocato dei signori Van Myer. Pia-
cere di conoscerla.»
«Frank Clevenger» rispose lui, stringendo la mano di Burns. Notò un
adolescente e una giovane di circa vent'anni che passavano sul pianerottolo
del secondo piano con due grossi scatoloni.
«Da questa parte, dottore» fece strada Burns. «La stavamo aspettando
nello studio di Scout.»
Clevenger seguì l'avvocato lungo un ampio corridoio con volta a botte,
pareti rosso cupo e boiserie d'acero. Fotografie in bianco e nero incornicia-
te mostravano i Van Myer con una schiera di celebrità e uomini politici,
compreso l'ex sindaco di Chicago Harold Washington, l'allenatore dei Chi-
cago Cubs Dusty Baker, il cantante country Garth Brooks, l'ex astronauta e
senatore dell'Ohio John Glenn e l'ex senatore dell'Illinois Paul Simon. Se-
parate dalle altre, tre fotografie dei Van Myer in abito da sera con il presi-
dente Buckley e la first lady.
«Non sapevo che il signor Van Myer e il presidente fossero amici» os-
servò Clevenger.
«Più che amici» disse Burns sorridendo. «Scout ha partecipato all'ultima
campagna elettorale nell'Illinois per il presidente Buckley. Forse ricorderà
che ha perso per nove punti.»
Scout e Carolyn Van Myer erano seduti su un divano lungo una parete
dello studio quando Burns e Clevenger entrarono. Si alzarono.
«Penso che vi conosciate già» disse Burns.
«Ci conosciamo» confermò Clevenger. Strinse la mano ai Van Myer.
Burns prese posto su una delle due poltrone rivestite di stoffa ricamata di
fronte al divano e fece cenno a Clevenger di accomodarsi sull'altra.
Clevenger si sedette. Si guardò intorno, la stanza doveva essere tra i ses-
santa e i settanta metri quadrati. Sulla parete alle sue spalle, dietro la scri-
vania di Scout Van Myer, una finestra strombata si affacciava su un prato e
delle aiuole ben curati e un grande telescopio, sistemato in permanenza di
fronte a essa, era puntato al cielo. In ciascuna delle altre tre pareti c'era una
nicchia con ripiani dal pavimento al soffitto pieni di libri. In una delle nic-
chie, poi, c'era un dipinto su tela non finito sopra un cavalletto; in un'altra,
due grandi poltrone che guardavano un'elaborata scacchiera d'argento; nel-
la terza, un teatrino con sipario di velluto e marionette sospese su un pal-
coscenico di lucido legno nero.
«Un ambiente interessante» commentò Clevenger.
«I miei interessi» spiegò Scout Van Myer. «È stato progettato per te-
nermi in contatto con alcuni degli svaghi che amo.»
«La pittura, evidentemente. Lei manovra anche le marionette?»
«È molto più facile che manovrare le persone» rispose Van Myer con un
rapido sorriso. «Quanto agli scacchi, li amavo da ragazzo, poi li ho abban-
donati del tutto quando mia madre è morta. Li ho ripresi un anno fa. Così
come l'astronomia.»
La battuta di Van Myer sul manovrare le persone e la sua capacità di
parlare dei passatempi mentre sua figlia era stata appena uccisa erano in li-
nea con le peculiari reazioni al dolore dei Groupmann e degli Hadley.
«Spero che non le dispiaccia se il signor Burns rimane con noi» disse
Scout Van Myer.
Clevenger sapeva che le grandi famiglie erano rappresentate da un avvo-
cato in qualunque discussione che avesse implicazioni legali. «Non mi di-
spiace affatto» disse. Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Desidero esprimervi
il mio rincrescimento per la perdita che avete subito».
«Grazie» disse Scout Van Myer.
Carolyn Van Myer annuì con aria grave.
«In che cosa possiamo esserle utili?» chiese Van Myer. «Se non mi sba-
glio, lei sta preparando un profilo psicologico del killer di Chase.»
Clevenger rimase colpito dalla disinvoltura con cui le parole "killer di
Chase" uscirono dalla bocca di Scout Van Myer. La maggior parte dei ge-
nitori che avevano avuto un figlio assassinato riuscivano a malapena a
pensarci, figurarsi a parlarne. «Sì, è così» rispose. «E per farlo ho bisogno
di sapere il più possibile su sua figlia.»
«Abbiamo già fornito alla polizia un elenco degli uomini con cui aveva
rapporti... perlomeno quelli di cui eravamo a conoscenza» intervenne
Carolyn Van Myer.
«Spacciatori di droga, alcuni di loro» aggiunse Scout Van Myer. «E
chissà quali altri topi di fogna...»
«Criminali. Tutti quanti» precisò Burns.
Clevenger aveva invitato i Van Myer a parlare della figlia ed entrambi
avevano cominciato con la sua storia sessuale, anziché con le sue qualità, i
suoi sogni o l'amore per lei. «Qual era il problema di Chase?» chiese con
tutta la delicatezza possibile. «Era incapace di controllarsi?»
«Per dirla in parole povere» rispose Carolyn Van Myer. «E adesso...»
Distolse lo sguardo, scuotendo la testa.
Scout Van Myer posò una mano sulla gamba della moglie.
«Per quale ragione, secondo lei?» volle sapere Clevenger.
«Per quale ragione, cosa?» ribatté Van Myer.
«Per quale ragione si comportava così?» domandò Clevenger.
«La droga» rispose Carolyn Van Myer, tornando a guardare Clevenger.
«Ma c'era ben altro» aggiunse il marito. «Chase soffriva di disturbo bor-
derline di personalità. Mi è stato detto che droga e... sconsideratezza sono
tipiche in soggetti del genere.»
Clevenger annuì. «Disturbo borderline di personalità è una diagnosi,
un'etichetta» spiegò. «Molte persone con una simile diagnosi ricorrono a
sostanze fuori legge. Si smarriscono in rapporti ad alto tasso di droga. Ma
lo fanno per sottrarsi ad accessi di depressione e ansia.» Si protese in avan-
ti. «Vorrei sapere se uno di voi sa perché vostra figlia aveva problemi a
controllare le proprie emozioni.»
«Gli altri nostri figli non avevano problemi» disse Carolyn Van Myer.
«Finché non hanno visto come si comportava Chase.»
Se era fuori dal comune che il padre di Chase parlasse del killer di sua
figlia, era stupefacente che la madre attribuisse alla defunta la colpa di tut-
to quello che andava storto in famiglia. I genitori delle vittime di assassi-
nio di solito idealizzavano i figli morti, descrivendoli come "angeli",
"troppo buoni per questo mondo".
Intervenne Burns. «Penso che stiamo uscendo dal seminato» disse a
Clevenger. «Le sarebbe utile se i signori Van Myer fornissero anche a lei
un elenco degli uomini che Chase frequentava? Può darsi che lei scopra
che qualcuno di loro corrisponde al profilo di un serial killer.»
Burns stava tentando di deviare l'attenzione di Clevenger dai Van Myer.
Il che significava non che loro erano colpevoli di alcunché, ma che Burns
si sentiva in dovere di proteggerli.
Clevenger non gettò la spugna. «L'elenco è importante,» disse «ma sto
tentando di arrivare a qualcos'altro.» Guardò i coniugi Van Myer. «Uno di
voi due ha idea del perché Chase fosse attratta da quel tipo di uomini, o
perché avesse una così bassa opinione di se stessa da farsi tatuare una pa-
rolaccia sulla coscia?»
«Non ne abbiamo idea, glielo assicuro» rispose Scout Van Myer. Un
lampo di aggressività gli balenò negli occhi. «Ne deduco che lei è un freu-
diano.»
Clevenger non si incasellava in nessuna delle scuole di pensiero in cam-
po psichiatrico. Ma non era quello il punto. Scout Van Myer aveva citato
Freud per screditarlo, per suggerire che, tutto preso da teorie psicologiche
relative al passato, era incapace di cogliere la verità del momento. «Penso
che le radici di una sofferenza come quella di vostra figlia possono essere
molto profonde» disse. «E ritengo che per farle cambiare rotta uno avrebbe
dovuto scavare fino a raggiungerle. Suppongo che Freud avrebbe detto lo
stesso.» Guardò Scout Van Myer negli occhi, cogliendovi un barlume di
colpa e preoccupazione. Non volle lasciarselo sfuggire. «Ma capisco il suo
punto di vista. Adesso non ha senso rivangare vecchie storie. Per piacere,
mi dica di più sugli uomini che Chase frequentava.»
I Van Myer citarono una serie di personaggi sgradevoli.
Clevenger prese appunti, fece domande. Di tanto in tanto, volgeva lo
sguardo alla parete accanto a lui, tappezzata di fotografie, lettere, diplomi,
premi incorniciati. Gli ci vollero circa quindici minuti per trovare quello
che cercava. Persa in mezzo alle altre, c'era una piccola foto in bianco e
nero della Harkness Tower, il più noto edificio dell'università di Yale. La
torre gotica appariva sulla testata dello «Yale Herald». Conteneva un fa-
moso carillon a cinquantaquattro campane, quotidianamente suonato dai
membri di un club universitario fondato a tale scopo.
Quando i Van Myer ebbero esaurito l'elenco degli amanti di Chase,
Burns si accinse a metter fine alla riunione. «C'è qualcosa che le risulta già
chiaro, dottore, o vuole tornare su qualche punto?»
«Ho bisogno di un po' di tempo» disse Clevenger. «Penso di avere pa-
recchio materiale da cui partire.»
Scout Van Myer annuì.
Burns si alzò.
Clevenger si alzò a propria volta e strinse la mano a Burns e ai Van
Myer. Accennò alla fotografia della torre. «A proposito, quella è la Har-
kness?» chiese.
«Be', sì» rispose Scout Van Myer.
«Lei è stato a Yale?» chiese Clevenger.
«Mio padre.»
«Un'estate vi ho tenuto alcune lezioni sulla sanità pubblica» raccontò
Clevenger. «Gran bel posto.»
«Noi lo difendiamo a spada tratta» disse Scout Van Myer. «Ha avuto un
ruolo di primo piano nella vita di mio padre. Capitano della squadra di foo-
tball, bonesman. Gli amici che ha conservato erano quelli che si era fatto
lì.»
«Era particolarmente affezionato alla torre?» volle sapere Clevenger.
«Diede una mano a raccogliere i fondi necessari per il restauro.»
«Degna causa» commentò Clevenger. «Ho sentito le campane.»
«Papà ha promosso il restauro di vari edifici importanti» disse Scout
Van Myer. «Chiese, per lo più. Aveva la passione dell'architettura. Una
cosa che ci accomunava.»
«L'ho capito dalla sua casa» osservò Clevenger.
«La ringrazio di averlo detto.»
«La prego di telefonarci se le serve qualcosa» intervenne Carolyn Van
Myer.
"A meno che non mi servano informazioni sull'infanzia di Chase," pensò
Clevenger "o particolari della sua vita emotiva." «Lo farò» disse.
Burns accompagnò Clevenger verso l'atrio. Tre scatoloni pieni di anima-
li di peluche, trofei e quelli che sembravano progetti artistici erano allineati
accanto alla porta d'entrata.
Clevenger udì dei passi al piano di sopra e alzò la testa. L'adolescente
che aveva visto prima portò un altro scatolone fuori da una stanza al se-
condo piano e lo lasciò nel corridoio.
«Qualcuno sta traslocando?» chiese Clevenger.
«Tristan e Gabriela stanno cercando di aiutare i genitori a superare il
momento» spiegò Burns.
«Il fratello e la sorella di Chase?» chiese Clevenger.
«Sì.»
«Come li aiutano?»
«Impacchettando le cose di Chase» rispose Burns, incapace di pronun-
ciare quelle parole con il tono neutro che probabilmente aveva sperato.
«Impacchettando...» ripeté Clevenger, stupito. «Non ha senso lasciare in
giro brutti ricordi, immagino.» Frugò in uno scatolone, tirò fuori il dipinto
di Chase raffigurante una ragazza inchiodata a una croce e rimase a guar-
darlo per parecchi secondi. Gli disse più cose sul conto della defunta di
quante gliene avessero dette i suoi genitori. Rimise il dipinto nello scatolo-
ne. «La stanza di Chase è al piano di sopra?» chiese a Burns.
«Sì.»
«Posso darle un'occhiata?»
Burns esitò.
«Ci metterò un minuto» insistette Clevenger.
«Suppongo...»
«Mi faccia sapere se sto approfittando troppo dell'ospitalità» disse Cle-
venger, oltrepassandolo e avviandosi su per le scale.
Burns lo seguì.
Il fratello di Chase, Tristan, stava riempiendo l'ennesimo scatolone
quando Clevenger entrò nella stanza, un ambiente maschile con le pareti
rivestite di pannelli di abete e il soffitto di travi dello stesso legno.
Clevenger si presentò al ragazzo, un quindicenne magro con i capelli a
spazzola e due anelli d'argento a ciascun orecchio. Gli ricordò Billy. «Una
stanza insolita per una ragazza» commentò.
«Era di Chase, poi non lo è stata più, poi è tornata a esserlo» disse Tris-
tan. «Però non l'hanno mai rimessa com'era.»
«Chase si era trasferita in un appartamento per conto suo, mentre la casa
veniva ristrutturata» spiegò Burns. «La sua stanza in quel periodo era di-
ventata la sala da biliardo. Ma lei non riusciva a cavarsela da sola ed è vo-
luta tornare qui.»
"Scena del crimine" pensò Clevenger. «Le persone si affezionano ai luo-
ghi» disse.
«Che fine faranno tutte queste cose?» chiese Clevenger a Tristan.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Lo deciderà papà.»
Un fratello che non sapeva o sembrava non curarsi di dove sarebbero
andate a finire le opere d'arte della sorella assassinata. «Sono certo che le
terrà da conto» disse Clevenger.
Tristan si strinse di nuovo nelle spalle, prese la testa di donna in gesso
con i chiodi al posto dei denti fatta da Chase e la mise nello scatolone.
«Tua sorella Gabriela non ha più voglia di aiutarti?» chiese Clevenger.
«Ha già fatto molto» rispose Tristan. «Adesso è con i suoi amici.»
«I giovani cercano sostegno dove possono» si affrettò a dire Burns.
«L'ho constatato con i miei figli.»
«Se hanno la fortuna di trovarlo» ribatté Clevenger.
«Allora, abbiamo finito?» chiese Burns.
Clevenger annuì. «Grazie, Tristan.»
«Di niente» ribatté il ragazzo.
«Mi dispiace molto per tua sorella.»
«Grazie.» Prese dal letto della sorella il piumino rosa e lo buttò nello
scatolone aperto.
Clevenger e Burns scesero al pianoterra.
«Grazie per l'aiuto» disse Clevenger, allungandogli la mano.
Burns gliela strinse.
Clevenger notò l'anello con sigillo tipico dell'università di Yale con l'i-
scrizione ebraica Urim v'Tumim e la sua traduzione latina, Lux et Veritas.
La più diffusa traduzione inglese era «luce e verità», ma molti studiosi so-
stenevano che fosse più esatto «luce e perfezione». Nella Bibbia le parole
figurano sull'efod del sommo sacerdote del Tempio. «Dunque, anche lei è
stato a Yale» disse Clevenger accennando all'anello.
«Laurea e specializzazione in legge» disse Burns. «Non sono riusciti a
liberarsi di me.»
«Ci torna spesso?»
«Ogni volta che posso» rispose Burns. «Da molti punti di vista, non l'ho
mai lasciata. Sono diventato gran parte di quello che sono stando là den-
tro.»

21

Clevenger si fermò in una farmacia in Michigan Avenue e si autopre-


scrisse delle compresse di Ativan per rallentare il battito cardiaco e ferma-
re gli spasmi allo stomaco, entrambi sintomi dell'astinenza dall'alcol.
Quando fu sul taxi per raggiungere Whitney all'aeroporto e prendere in-
sieme a lei il volo delle 17.45 per Washington, decise di controllare i mes-
saggi ricevuti. Accese il cellulare e ascoltò la segreteria telefonica.
Il primo messaggio era di Tony Traini, uno dei migliori avvocati penali-
sti con cui Clevenger avesse mai collaborato. Traini aveva saputo che Billy
era nei guai e offriva il suo aiuto. Clevenger si chiese se dovesse accettarlo
al volo. Affidare il caso di Billy a un avvocato d'ufficio sarebbe stata una
prova di fermezza, ma se avesse dovuto comportare per Billy anni di gale-
ra a contatto con criminali incalliti, avrebbe potuto anche significare la fine
dei sogni di Clevenger su di lui.
Il secondo messaggio era un invito a cena di Jan Urkevic, uno dei mi-
gliori psichiatri di Boston. Urkevic aveva l'aria di una rockstar e come tale
aveva vissuto finché non si era sposato e aveva avuto il primo figlio, una
splendida bambina di nome Ava. A Clevenger piaceva frequentare Jan, sua
moglie Lisa e i loro quattro figli nella loro proprietà appena a sud della cit-
tà. Quando le speranze di Clevenger di una vita normale si affievolivano,
talvolta riusciva a riaccenderle semplicemente guardando Urkevic che ri-
versava amore sulla sua famiglia e ne veniva contraccambiato.
Il terzo messaggio era di North Anderson e fece scomparire i primi due.
«Ho qualche notizia su Billy che devi sapere» diceva. «Chiamami appena
puoi.»
Clevenger fece il numero di Anderson.
«Ciao, socio» lo salutò North.
«Be', che c'è di nuovo su Billy?»
«Ha pagato la cauzione.»
«Che cosa? Ma erano ventimila dollari!»
«Il suo avvocato d'ufficio ha presentato un'istanza alla corte e ha ottenu-
to la riduzione a cinquemila.»
«Ma Billy non ha così tanti soldi.»
«Non ce li ha messi lui. Dave Leone ha chiamato il nostro ufficio dal
carcere di Middleton per avvertirci. Un gruppo di tizi di quella banda - i
Royals - con cui Billy se la faceva, si è presentato con i contanti. Impossi-
bile per il carcere rimandarli indietro.»
Clevenger si sentì mancare. «Hai idea di dove si trovi il ragazzo ades-
so?»
«Non ancora. Io sono a New Haven. Tra qualche minuto incontrerò la
persona che si occupa dell'archivio dei laureati. Comunque, ho chiesto ai
nostri amici della polizia di Chelsea di mettersi sulle tracce di Billy.»
«Grazie.» Clevenger fece per dire che sarebbe rientrato a casa subito, ma
poi pensò che Whitney probabilmente lo stava già aspettando all'aeroporto.
A un certo punto, lui doveva mettere in salvo la propria vita, non solo
quella di Billy. «Il mio telefono è acceso» disse. «Tienimi al corrente.»
«Sai che lo farò. C'è altro?»
Clevenger riuscì a stento a concentrarsi su ciò che doveva riferire ad
Anderson riguardo al caso. «Un'altra cosa prima di chiudere. Il padre di
Scout Van Myer era un laureato di Yale e un grande finanziatore dell'uni-
versità. Più tardi ti darò altre informazioni. Ma abbiamo senza dubbio
quattro vittime collegate a Yale.»
«Valeva la pena fare il viaggio fin lì» commentò Anderson. «Non vedo
l'ora di sentire il resto.»
«Lo sentirai.»
«Stammi bene, amico.»
«Anche tu.»
Chiusero la comunicazione.
Clevenger scese dal taxi al terminal dell'American Airlines. Trovò
Whitney al cancello d'imbarco.
«Pensavo che mi avresti piantata in asso» disse lei. «Stanno per imbar-
carci sull'aereo.»
Clevenger le diede un bacio sulla guancia. «Non ti avrei mai piantata in
asso.» Si accorse di quanto fossero forzate le sue parole mentre le pronun-
ciava. Spostò lo sguardo sulla fila di passeggeri in attesa dell'imbarco.
Lei lo conosceva abbastanza a fondo per rendersi conto che c'era qualco-
sa che non andava. «Che cosa c'è?»
«Niente» rispose Clevenger, guardandola appena. «Forza, andiamo.»
Lei non si mosse. «Dimmi che cosa c'è.»
«Non c'è niente.»
«Frank.»
Lui si strinse nelle spalle. «Billy, ancora lui. Brutta sorpresa, capisci?
Sta bene, per quanto ne so. Ma... ha pagato la cauzione. È uscito dal carce-
re.»
La fila dei passeggeri cominciò a muoversi.
«Ma la cauzione non era di ventimila dollari?»
«Il suo avvocato d'ufficio è riuscito a farla ridurre a cinquemila. Poi al-
cuni tizi di quella gang di Chelsea, i Royals, gliel'hanno pagata.»
«L'hanno fatto uscire? Dov'è andato?»
«North lo sta facendo cercare dalla polizia di Chelsea. Se avrà qualche
notizia...»
Whitney lo scrutò. «Non puoi lasciar fare a North. Devi andare a casa.»
«Per questa notte Billy se la caverà.» Clevenger lanciò un'occhiata a
Whitney e notò che lei non ci credeva più di quanto ci credesse lui.
Lei si allungò per dargli un bacio sulla guancia. «Vai a casa. Telefonami
se lo trovi.»
Clevenger sentì un nodo in gola. Sapeva che Whitney aveva ragione.
Sapeva che la sua mente sarebbe stata a Chelsea con Billy, anche se fosse
volato a Washington con lei. Ma non voleva che andasse a finire in quel
modo. Voleva cominciare a concederle il tempo che si meritava.
Lei vide che lui stava lottando contro se stesso. «Non me la prendo...»
gli assicurò.
Sembrava che non se la prendesse e per qualche ragione la cosa lo fece
sentire ancora peggio. «Io sì» disse.
«Telefonami domani.» Si allungò di nuovo per dargli un altro bacio.
«Devo andare.» Si allontanò verso l'imbarco.
Clevenger aspettò per vedere se lei si sarebbe girata dopo aver mostrato
il biglietto. Whitney non si girò.

22

West Crosse era nella sua casa di Thunder Bay, Ontario, in attesa che
Nightly News cominciasse. Aveva telefonato a Heather Rawlings e le ave-
va detto che voleva incontrarla lì il giorno dopo per mostrarle un modello
provvisorio in scala della loro casa nel Montana. Le aveva chiesto di tenere
segreto il suo viaggio nell'Ontario in modo che lui potesse sorprendere suo
marito grazie all'acquisizione di altre informazioni sulla sua vita da inte-
grare nel progetto conclusivo.
Crosse riteneva che la donna avrebbe mantenuto il segreto, ma proba-
bilmente non importava se l'avesse violato.
Ken Rawlings non l'avrebbe mai detto alla polizia.
Crosse era sempre stato attento a evitare sospetti. Era paziente, procede-
va passo dopo passo, a volte aspettando anni dopo che un edificio era stato
costruito, per completare il suo progetto riguardante la famiglia che lo a-
vrebbe abitato. Ammantava di segretezza la propria attività, servendo solo
i suoi confratelli bonesmen e le loro famiglie.
Ciononostante, ogni uomo o donna che lui aveva liberato avrebbe potuto
focalizzarsi su di lui come sospettato in occasione della morte del proprio
"caro". Nessuno lo aveva fatto. Inconsciamente, erano tutti suoi sodali.
Crosse esprimeva i loro desideri segreti. Pensare a lui come a un killer sa-
rebbe stato come pensare la medesima cosa di se stessi.
Non era quello, in fin dei conti, il modo in cui moltissime persone vive-
vano? Appaltando ad altri gli aspetti peggiori dell'esistenza? Persone che
mangiavano carne, ma che non avrebbero mai cacciato. Persone che a-
vrebbero voluto essere recuperate dalle squadre speciali se fossero state
rapite, ma che non avrebbero mai posseduto armi con cui difendersi. Per-
sone che amavano riempire i loro SUV di benzina super, ma che si sareb-
bero tirate indietro all'idea di fare una guerra per averla. Persone alle quali
piaceva che la loro patria fosse sicura, ma che non avevano il coraggio di
torturare i terroristi che progettavano di distruggerla.
Non era forse questa la lezione di Cristo? Non era morto solo sulla croce
per compiere solo l'opera di Dio?
Ken Rawlings avrebbe anche potuto sapere che sua moglie aveva incon-
trato West Crosse la notte in cui era morta, ma l'avrebbe tenuto nascosto
alla polizia, anche se ciò avesse significato dimenticare ciò che sapeva.
Avrebbe protetto il suo amico, anzi gli sarebbe stato più vicino in una
stanza segreta del suo cuore.
E se Rawlings fosse stato un Giuda e avesse tradito Crosse, sarebbe stato
comunque troppo tardi per impedire che lui attuasse il suo grandioso pia-
no.
Crosse si era già premurato di chiamare la Casa Bianca e di combinare
una visita di lì a due giorni per cominciare a farsi un'idea delle dimensioni
dell'ala est e incontrare di nuovo il presidente e la first lady.
Udì la sigla che annunciava l'inizio di Nightly News. Comparve il logo
dell'NBC.
«Oggi a Chicago,» esordì l'annunciatore, mentre sullo schermo appariva
un'immagine dello skyline di Chicago «la sesta, atroce uccisione di un
membro di un'importante famiglia americana... Questa volta, una donna di
ventidue anni...» Fotografia di Chase Van Myer. «Il suo corpo è stato la-
sciato in un famoso edificio americano progettato dal noto architetto Frank
Gehry.» Fotografia del Jay Pritzker Pavilion.
Crosse provò un moto di disgusto alla vista di quella struttura, un cancro
maligno di acciaio inossidabile che invadeva la terra, con sfrenate pareti
nastriformi che si piegavano le une sulle altre; una disordinata follia tenuta
insieme da un nudo scheletro di tubi d'acciaio. Come tanti edifici deco-
struttivisti, anche quello di Gehry si fondava su assi storti, forme scompo-
ste, facciate ricurve, volumi spaziali che si mescolavano apparentemente
senza limiti. Un cancro.
Non c'era da meravigliarsi se l'opera di Gehry era giunta a simboleggiare
la frammentazione della vita contemporanea, un ordine sociale privo di re-
strizioni. L'anarchia. Tutta l'architettura di Gehry parlava di lui. Dell'amore
di sé. Della sterile gioia di un radicale di stravolgere la tradizione.
Crosse amava creare la struttura, non farla a pezzi. La sua opera era al
servizio dei bisogni dei suoi clienti, non dei suoi personali. Sapeva che
rendere le persone libere di vivere vite più complete non aveva niente a
che fare con l'incurvare le pareti delle loro case. Significava trovare la
struttura che rifletteva le loro intime verità e poi realizzarla a qualunque
costo. Significava battersi per un'architettura che replicasse la stupefacente
combinazione di forma e funzione presente nell'anatomia umana.
Libertà significava tracciare giusti confini, non vivere senza di essi.
Scout Van Myer apparve sullo schermo, in una conferenza stampa da-
vanti al cancello di casa sua, circondato dalla moglie Carolyn, dai figli e da
parecchi agenti in uniforme. «Chiunque abbia fatto questo a mia figlia sarà
consegnato alla giustizia» disse con ottimismo. «Nell'attesa, voglio ringra-
ziarvi di essere qui oggi e di ricordarci nelle vostre preghiere domani.»
Crosse sorrise. Van Myer sembrava forte e fiducioso, in pace. E Crosse
riteneva che non fosse casuale il fatto che avesse radunato intorno a sé la
moglie e i figli a beneficio delle telecamere: intendeva presentare la fami-
glia Van Myer, ricostituita, liberata dalla tirannide della malattia di sua fi-
glia.
Crosse si sentiva a propria volta in pace. Quando uno fa la cosa giusta -
anche se è difficile da fare, anche se il suo prezzo è una vita umana - può
dormire bene la notte, come un felice e stanco soldato del Signore.
Cambiò emittente, passando dall'ABC alla CBS, alla CNN: tutte erano
concentrate su Chase Van Myer, sulla mano di Dio.
Spense il televisore.
Non voleva morire, ma sentiva che la sua vita stava per avvicinarsi alla
conclusione e che chiedere più tempo di quanto gli occorresse per portare a
termine il suo capolavoro sarebbe stato chiedere troppo. Pensò al discorso
in cui Martin Luther King presagiva la propria fine. «Sono stato sulla cima
della montagna» aveva detto. «Come chiunque, mi piacerebbe vivere a
lungo: la longevità ha i suoi pregi. Ma adesso non mi curo di questo. Vo-
glio fare soltanto la volontà di Dio.»
Anche Crosse era stato sulla cima della montagna. Aveva visto la verità
di Dio e la portava nel cuore. Ed era pronto a morire per servirla.
Andò in bagno, prese un rasoio a mano e lo aprì. Si guardò nello spec-
chio, spostando lentamente gli occhi sulle sue ampie spalle, sui suoi petto-
rali d'acciaio, sul suo addome piatto. Allargò le braccia e aprì leggermente
le gambe, trasformandosi nella divina forma umana di Leonardo da Vinci.
Poi lentamente si tagliò da una spalla all'altra, dal collo all'inguine, a for-
mare una croce, quanto bastava a far uscire il sangue.

23

Alle 23.10 Clevenger accese il cellulare, subito dopo l'atterraggio del


suo aereo al Logan Airport di Boston. Il telefono cominciò a squillare.
North Anderson. Clevenger rispose. «Che cosa succede?»
«Dove sei? Ho cercato di chiamarti.»
«Sono appena atterrato al Logan.»
«Non sapevo che stessi tornando.»
«Non mi piaceva l'idea di Billy fuori su cauzione e di me fuori città. Hai
avuto notizie?»
«Possiamo incontrarci alla vecchia Perkins Box and Paper diciamo tra
venti minuti?»
«Certo. Che cosa succede?» chiese Clevenger.
«Mi ha telefonato un amico della polizia di Chelsea, tale John Rosario.
Corre voce che i Royals stanotte vogliano inscenare un "combattimento
all'ultimo sangue" su un ring che hanno costruito all'interno della fabbrica.
Sal Ramirez e una dozzina di altri poliziotti faranno un'incursione a mez-
zanotte. Rosario ha sentito dire che Billy è coinvolto.»
Clevenger scosse il capo. «Grandioso.»
«Ha pensato che dovremmo tirarlo fuori da là dentro prima che venga
arrestato un'altra volta.»
«Penso che...» cominciò a dire Clevenger, troppo irritato, deluso e pre-
occupato per aggiungere altro.
«Mi sembra che l'idea non ti vada a genio.»
Clevenger scese dall'aereo. «Forse è meglio se lo arrestano di nuovo.
Questa volta lo terranno dentro senza cauzione. Chiederemo il test anti-
droga come condizione della libertà vigilata quando sarà condannato.»
«Decidi tu» commentò Anderson. «Ma Billy deve già vedersela con se-
questro, aggressione, guida in stato di ebbrezza e resistenza all'arresto.
Certo, perfino un avvocato d'ufficio alle prime armi è in grado di sgonfiare
le accuse. Ma se Billy commette un altro reato mentre è fuori su cauzione,
si aggrapperanno a questi incontri illegali, forse al possesso di droga... e la
partita è chiusa. Potrebbe prendere da otto a dieci anni a Walpole. Non di-
mentichiamo, poi, che è un campione dei Golden Gloves. Questi ragazzi
combattono senza guantoni e senza esclusione di colpi. Potrebbe anche uc-
cidere qualcuno.»
Clevenger emise un lungo sospiro. «Devo decidere io, vero?»
«Non intendevo farti pressioni.»
«Certo. Ti raggiungo là tra quindici minuti.»
«A più tardi.»
Chiusero la comunicazione.
Fifth Street era quella parte di Chelsea che non era stata toccata dalla
trasformazione in zona residenziale. Capannoni di acciaio arrugginito e
contorto, montagne di rottami metallici e case popolari rattoppate con assi
di compensato aggrappate ai marciapiedi pieni di buche come cozze a uno
scoglio. Le cabine telefoniche erano più numerose dei lampioni stradali.
L'unico negozio era una rivendita di alcolici con grate di ferro alle porte e
alle finestre.
Clevenger arrivò alla Perkins Box and Paper e vide che la zona era piena
di macchine, molte delle quali truccate, modificate esteticamente e con le
sospensioni abbassate. Altre macchine erano parcheggiate nelle strade vi-
cine, di solito deserte.
Lasciò il suo pick-up Ford F-150 nero a due isolati dalla fabbrica e si di-
resse sul posto. Era quasi arrivato quando la Porsche Carrera di North An-
derson si infilò in uno spazio libero davanti a lui.
Anderson mise fuori le gambe. «Riesco sempre a trovare un posto
splendido» disse con l'ampio sorriso che lo rendeva simpatico a tutti, anche
a quelli che torchiava. «In questo ho sempre fortuna.» Poi si voltò e allun-
gando la mano nella macchina prese una Glock 9 millimetri, che lanciò a
Clevenger.
Clevenger l'afferrò al volo.
Anderson se ne infilò un'altra nella cintura dei jeans, coprendola con la
T-shirt nera.
Si avviarono insieme verso la fabbrica.
«Grazie per quello che stai facendo» disse Clevenger.
«Ringraziami quando avremo tirato fuori Billy» ribatté Anderson. «Poi
dobbiamo parlare di quello che ho scoperto a Yale.»
All'ingresso del cadente edificio di calcestruzzo giallo sbiadito c'erano
due ragazzi palestrati. Martellante musica techno filtrava dalle pareti nella
notte.
Clevenger e Anderson si diressero verso i ragazzi.
«Che cazzo volete?» chiese il più piccolo dei due, un ispanico sui quin-
dici anni, con occhi vitrei che sbucavano dal cappuccio della felpa strac-
ciata.
«Quanto?» chiese Anderson.
All'interno, il vociare della folla sovrastava la musica.
«Qualcuno si sta beccando un calcio in culo» intervenne l'altro ragazzo,
un nero più vecchio di un paio d'anni e dall'aria più dura. Lanciò ad Ander-
son un'occhiata che si soffermò sul suo Rolex Yachtmaster. «Cinquanta»
disse poi. Guardò Clevenger. «A testa.»
«Un centone per guardare un paio di marmocchi che se le danno senza
guantoni?» commentò Anderson con un ghigno. «Fottuta inflazione.» Al-
lungò una banconota da cento dollari al ragazzo nero. «Sarà meglio che si
veda scorrere il sangue, fratello.»
«Puoi contarci» disse il nero.
Clevenger e Anderson entrarono. Almeno cinquecento persone si accal-
cavano sulle impalcature intorno a un ring di fortuna al centro dell'edificio
sventrato. La musica era quasi assordante. L'aria era densa di un fumo che
sapeva di tabacco e marijuana.
Salirono al secondo livello delle impalcature e riuscirono a intravedere
quella che sembrava la fine di un incontro non molto equilibrato tra un
ventenne alto circa un metro e ottanta, con cicatrici e tatuaggi su tutto il
corpo, e un ragazzone ancora più alto e assai più pesante, con la testa rasa-
ta, che era stato sbattuto contro le corde e aveva il sangue che gli colava
dal naso e dal sopracciglio sinistro. Il tatuato continuava a menare colpi,
ma il ragazzone rimaneva in piedi.
Clevenger si guardò intorno, alla ricerca di Billy. Vide adulti, liceali,
perfino qualche ragazzino che probabilmente frequentava ancora le medie.
Erano per lo più ispanici, neri e asiatici. Scolavano lattine di birra e botti-
gliette di scotch e vodka, buttando la testa all'indietro. Non vide Billy da
nessuna parte.
Il ragazzone si beccò un colpo nella pancia che lo fece piegare in due,
poi una sventola alla testa che lo sbatté indietro e fece schizzare sangue
tutt'intorno. La folla applaudì fragorosamente quando crollò al tappeto.
Tentò due volte di alzarsi, ma riuscì solo a strisciare bocconi. Al terzo ten-
tativo, si alzò su un ginocchio, ma fu sopraffatto dal tatuato che gli strinse
il collo con le braccia possenti e, tirando con forza, gli mozzò il fiato. Il
ragazzone crollò di nuovo al tappeto e batté debolmente la mano a terra in
segno di resa.
La folla esplose in un boato quando il tatuato scavalcò le corde e agitò in
aria i pugni insanguinati.
Gli amici del ragazzone lo aiutarono a uscire dal ring.
Ancora nessun segno di Billy.
All'improvviso, si fece buio. Luci stroboscopiche cominciarono a lam-
peggiare a intervalli regolari. Due ragazzine in tanga salirono sul ring e si
misero a ballare a ritmo di rap.
Nell'oscurità tra un lampo di luce e l'altro si vedevano le sigarette accese
balenare e gli spinelli fluttuare come lucciole mentre venivano passati di
mano in mano.
Anderson diede di gomito a Clevenger e indicò il punto della stanza do-
ve i due pugili appena scesi dal ring stavano sparendo dietro una porta con
la scritta UOMINI. Su un cartello provvisorio sistemato davanti alla porta
si leggeva SPOGLIATOIO RISERVATO AI PUGILI.
Anderson e Clevenger si fecero largo tra la folla, puntando in quella di-
rezione. Erano ormai quasi arrivati, quando la musica tacque e qualcuno
annunciò nell'altoparlante: «Un attimo di attenzione per i nostri due pros-
simi pugili!».
Grida e urla della folla.
«Dal Brazilian Boxing Club di Medford ecco a voi Manuel "il Serpente"
Santiago» ruggì l'annunciatore.
La musica rimbombò quando un bel giovanotto abbronzato di circa ven-
ticinque anni, con un fisico che sembrava modellato nell'acciaio, uscì sal-
tellando dallo spogliatoio con addosso calzoncini da ciclista e una grossa
catena d'oro da cui pendeva un crocifisso lungo un palmo. Si avviò al ring
con i suoi accompagnatori, otto uomini che non sarebbero potuti sembrare
più concentrati se fossero stati sul punto di affrontare un incontro per il ti-
tolo di peso massimo a Las Vegas.
La musica tacque di nuovo.
«E dal carcere di Middleton,» urlò l'annunciatore ridendo «il ragazzo dei
Golden Gloves. L'orgoglio di Chelsea, Billyyy Bishooop!»
La folla impazzì quando la musica riprese. Billy era diventato una leg-
genda a Chelsea da quando aveva vinto i Golden Gloves e la gente si ar-
rampicò più in alto sulle impalcature, allungando il collo per vederlo.
Clevenger si trovava a circa tre metri dallo spogliatoio quando Billy ne
uscì, sudato, con addosso jeans neri sformati e una felpa nera con il cap-
puccio. Era circondato da una dozzina di Royals con gli zucchetti in testa e
le loro caratteristiche magliette con il teschio incoronato.
«Billy!» gridò Clevenger.
La gente che gli stava intorno, pensando che lui stesse dando il via a
un'ovazione, gli fece eco. «Billy! Billy!»
Billy proseguì verso il ring, continuando a guardare davanti a sé.
Anche se non ci fosse stata la musica, probabilmente non avrebbe sentito
Clevenger. Era sempre in un'altra dimensione prima di un incontro, quasi
irraggiungibile, concentrato sulla parte di sé che amava combattere, come
se stesse armando una pistola.
Anderson tentò di avanzare per bloccare Billy ma, poiché tutti arretrava-
no per lasciare il passo al ragazzo, non riuscì a farsi largo tra la folla.
Clevenger diede un'occhiata all'orologio: 23.47. I poliziotti sarebbero ar-
rivati fra tredici minuti.
Billy si arrampicò sul ring e cominciò a saltellare. La folla si fece ancora
più rumorosa. Lui si tolse la felpa, scoprendo i capelli biondi, la croce
fiammeggiante sui bicipiti e il torace scolpito.
Il suo avversario gli lanciò un paio di occhiate, poi cercò di distogliere lo
sguardo.
Le 23.53. L'arbitro, un nero sui sessant'anni, con l'aria di uno che sul
ring era sempre stato leale, alzò le braccia dei due contendenti e snocciolò
il regolamento. Gli ci vollero dieci secondi. Poi arretrò, fece un cenno a
qualcuno fuori dal ring e una campana suonò.
Santiago uscì rapido dal suo angolo, si rannicchiò e si lanciò su Billy
tentando di afferrarlo alla vita e farlo arretrare, forse per avere la meglio su
di lui e sbatterlo al tappeto. Ma Billy lo schivò saltellando e vide l'avversa-
rio respinto dalle corde. Nel tempo che gli ci volle per voltarsi, Billy era di
fronte a lui, la musica techno rimbombava più forte del tuono, ed era trop-
po tardi.
Billy aveva sempre avuto una rara combinazione di velocità e potenza,
ma quello che scaricò addosso a Santiago fu qualcosa che andava al di là
di tutto ciò. Era una rabbia mirata con chirurgica precisione, un uragano di
destri e sinistri che aprì squarci su entrambe le arcate sopracciliari di San-
tiago e sul suo zigomo destro, inondandogli la faccia di sangue.
A quasi tutti gli spettatori ciò che accadde subito dopo dovette sembrare
l'inizio dell'irruzione della polizia che cominciò di lì a trenta secondi.
Clevenger e Anderson, che erano riusciti a raggiungere il ring, vi saliro-
no e si buttarono su Billy, afferrandolo da dietro e staccandolo da Santia-
go, che in qualche modo trovò la forza di approfittare di quel momento per
lanciarsi su Billy a testa bassa, colpendolo allo stomaco e lasciandolo sen-
za fiato. Poi arretrò per menare una sventola, ma Anderson lo sbatté contro
le corde, estrasse la sua 44 Magnum e gliela piantò tra le costole.
Santiago abbassò lo sguardo sulla canna della pistola.
«Se vuoi perdere altro sangue...» gli urlò nell'orecchio Anderson.
Proprio mentre i Royals cominciavano ad arrampicarsi sul ring, si udì in
lontananza il suono delle sirene. Allora la folla si aprì in due come il Mar
Rosso e una squadra di poliziotti in assetto da sommossa entrò nella fab-
brica.
La musica continuava a rimbombare.
Billy era ancora senza fiato e Clevenger lo teneva bloccato.
«Tutti a terra, mani dietro la testa» urlò un poliziotto con un megafono.
Riecheggiò uno sparo, seguito da altri due, e uno dei Royals che erano
saliti sul ring piombò sulle corde, con una pallottola nella spalla destra e
una nel collo. Lasciò cadere una pistola a terra.
«Giù! Subito! Mani sulla testa!» gridò il poliziotto con il megafono.
«Vieni con me o rimarrai in galera finché non andrò in pensione» urlò
Clevenger nell'orecchio di Billy. Lo afferrò per il polso e lo tirò giù dal
ring, dirigendosi verso l'uscita.
Prima che riuscissero ad arrivarci, uno dei poliziotti che guidava l'irru-
zione indicò Clevenger e Billy e due dei suoi colleghi corsero verso di lo-
ro.
«Merda!» esclamò Clevenger.
«Non importa» disse Billy. «Non me ne frega un cazzo.»
Clevenger lo guardò. Le sue pupille erano due capocchie di spillo. Il ra-
gazzo era fatto di qualcosa, forse di eroina. Ma se quella doveva essere
l'ultima volta che vedeva suo figlio fuori da una cella per parecchi anni,
voleva essere sicuro di dirgli quello che sentiva, perché forse la parte del
cervello di Billy che non era in preda alla rabbia o strafatta, in qualche
modo lo avrebbe ascoltato e avrebbe ricordato. Forse. «Be', a me importa»
disse. «Comunque vada.»
Billy distolse lo sguardo.
La musica cessò.
I poliziotti afferrarono Billy, gli misero le braccia dietro la schiena e lo
ammanettarono.
Il padre che era in Clevenger partì in quarta. «Dov'è Rosario?» chiese a
uno di loro. «Voglio parlare con John Rosario.»
«Ce l'ha davanti» disse il più giovane dei due poliziotti. «Non c'è biso-
gno che parliamo, dottore. Sono grato a North per avermi salvato il culo un
paio di anni fa.» Strizzò l'occhio. «Mi raggiunga dietro il Demoulas's
Market tra cinque minuti. Il qui presente Mike Tyson è un problema suo,
non mio.»
Clevenger lanciò un'occhiata al ragazzo al quale avevano sparato. Un
paramedico gli stava tirando una coperta sul volto. «Mi faccia un favore
ancora più grande» disse a Rosario. «Troviamoci al pronto soccorso del
Massachusetts General Hospital. Se Billy si rifiuta di firmare per la disin-
tossicazione nel reparto d'isolamento, la chiamerò per chiederle di tornare
ad arrestarlo. A North deve così tanto?»
«Come minimo» rispose Rosario.

24

Billy era già stato registrato al pronto soccorso dell'ospedale quando


Clevenger arrivò. Si rifiutava di permettere che lui andasse a trovarlo e di
firmare una liberatoria per consentire al medico di parlargli.
«Il ragazzo ha diciannove anni. Non sarei neppure tenuta a dirle se lui è
qui» disse la dottoressa Jane Monroe a Clevenger al banco dell'accettazio-
ne.
Clevenger non conosceva la dottoressa Monroe e, cosa più importante,
lei non conosceva Billy. «Non le chiederei di violare il suo segreto» le as-
sicurò Clevenger. «Ma se lui tornasse per la strada si caccerebbe in un
brutto guaio. È fuori su cauzione per aggressione, pestaggio e sequestro. E
penso che si faccia di qualcosa più dell'alcol, probabilmente di oppiacei.
Mi impegno io per lui, se Billy non vuole firmare per il ricovero volonta-
riamente.»
Jane Monroe aveva una trentina d'anni e non sapeva ancora bene come
conciliare la pratica medica con la teoria appresa all'università. «Se qual-
cuno dovesse chiederle qualcosa, io non le ho detto niente.»
«Lei mi ha buttato fuori dal pronto soccorso.»
La dottoressa sorrise. «Billy ha firmato. Andrà in disintossicazione dopo
la visita medica.»
«Nel reparto d'isolamento?»
Jane Monroe annuì.
«Ottima notizia» commentò Clevenger.
«Può ancora firmare per essere dimesso» disse lei. «Non deve far altro
che parlare con uno psichiatra e pronunciare il "patto d'incolumità" prima
di andarsene.»
«Meglio che niente.»
«Dice di non essersi mai disintossicato prima.»
«Non è vero» smentì Clevenger. «È stato al North Shore Medical
Center. Paul Summergrad conosce la sua anamnesi.»
«Speriamo che la seconda disintossicazione faccia il miracolo, eh?»
"La seconda o la ventiduesima" pensò Clevenger. Era quello che soste-
neva il suo psichiatra Ted Pearson. Curare una persona come Billy non era
un lavoro di tre mesi o di tre anni. Potevano volerci tre decenni. Clevenger
aveva visto uomini e donne cambiare vita dopo trenta disintossicazioni, o
dopo cinque matrimoni falliti, o dopo l'abbandono dei figli, o dopo una
dozzina di fermi per guida in stato di ebbrezza, o dopo quindici tentativi di
suicidio, o dopo il vagabondaggio e la prostituzione, o dopo decenni di
carcere, o dopo tanti altri segnali di un'esistenza disperata e inutile. Per
quanto talvolta fosse difficile da credere, l'animo umano era in grado di ri-
prendersi dopo tante sconfitte. Nelle giornate positive, era facile per Cle-
venger ricordarsene. Nelle negative, era molto più difficile. In quelle peg-
giori, non rimaneva che pregare che fosse vero. Ma sotto sotto lui sapeva
che era vero e si trattava della più grande lezione che avesse mai imparato.
Perché quando uno crede che non è mai il momento di lasciar perdere un
altro essere umano, allora ha la possibilità di credere la stessa cosa anche
per se stesso. «Speriamo» rispose alla dottoressa Monroe.
«Buona fortuna» disse lei. «Penso che sotto tutti quei muscoli ci sia un
ragazzo sensibile.»
«E io penso che lei abbia ragione. Grazie per le sue parole.» Fece per
andarsene, ma poi si fermò. «Il suo occhio» disse. Sentì una fitta allo sto-
maco al pensiero che Billy era salito sul ring nonostante l'occhio ferito.
«L'altro ieri il ragazzo ha preso un colpo all'occhio» spiegò. «Se lei potesse
far venire un oculista a visitarlo, gliene sarei grato.»
«Non c'è problema» dichiarò la dottoressa Monroe.
«Grazie di nuovo.» Si girò e si avviò verso l'atrio principale.
Anderson lo stava aspettando. Clevenger lo aggiornò. «È un inizio»
commentò l'amico e socio. «Perlomeno Billy ha accettato di farsi aiutare.»
«È un inizio» ripeté Clevenger.
«Allora passiamo a parlare di Yale, per un momento.»
«Che cos'hai scoperto?» chiese Clevenger.
«Abbiamo colpito nel segno» rispose Anderson. «Sono tutti collegati
con l'università. Delle sei vittime, due erano laureati di Yale, due erano
mogli di laureati e due erano parenti stretti.»
«Sei su sei. Forse la persona che stiamo cercando è un laureato di Yale o
un membro del corpo docente.»
«C'è dell'altro. Ho fatto qualche ricerca su Internet a partire dal cognome
delle vittime. Per ognuno di loro ho ottenuto centinaia di risultati relativi
ad attività edilizie, bancarie, finanziarie o altro, ma pochi articoli su Yale.
Ma se uno mette tutti i nomi nella stessa finestra di ricerca, i primi cin-
quanta risultati, o giù di lì, che si ottengono sono relativi alla Skull and
Bones.»
Clevenger ricordava che Scout Van Myer aveva accennato al fatto che
suo padre era stato un bonesman. «Tutti bonesmen?»
«Una generazione o un'altra.»
«Pensavo che fosse una società segreta.»
«È così, infatti» confermò Anderson. «Ma nel 1985 un certo Anthony
Sutton ha messo le mani su un elenco di tutti i membri, vivi e morti. Due
volumi. Molto probabilmente è stato un bonesman insoddisfatto a passar-
glielo. Sutton ha dato vita alla teoria del complotto per cui questi tizi go-
vernano il mondo per divertimento e profitto: petrolio, droga e chi più ne
ha più ne metta. Sostiene che si servono delle forze armate come di un e-
sercito privato per far andare il mondo nella direzione in cui secondo loro
dovrebbe andare. Non me ne intendo molto, ma devo ammettere che l'e-
lenco sembra l'annuario dei potenti americani: Rockefeller, Payne, Pil-
lsbury, Luce, Harriman, Bundy. Stiamo parlando del presidente Taft, di
giudici della Corte Suprema, di senatori, di membri del Congresso, dei
fondatori della CIA.»
«E del presidente Buckley» aggiunse Clevenger.
«E di Buckley, esatto. E il nostro killer gli ha mandato una letterina da
ammiratore.»
«Quindi, c'è la possibilità che anche il killer sia un bonesman.»
«O parente di un bonesman. O qualcuno che vuole passare per tale.
Un'interessante nota a margine: David Groupmann emerge in modo spe-
ciale quando nella ricerca associ il suo nome alla Skull and Bones. Allor-
ché il suo gemello Jeffrey è stato scelto per entrare nella società, se l'è pre-
sa moltissimo per non essere stato scelto a propria volta. Una notte si è u-
briacato e ha tentato di entrare di frodo nella "tomba" in High Street, dove
la società tiene le riunioni. Ma il giorno dopo è stato picchiato da alcuni
membri. Il "New Haven Register" ha sbattuto la notizia in prima pagina.
Lui non ha mai sporto denuncia.»
«Ecco una persona con cui dovrei parlare di nuovo.»
«Quando hai a che fare con tipi come lui, non la spunti e finisci in un
enorme stagno. I teorici del complotto sono dappertutto.»
«È vero. Ma ribadisco che il killer ha la stessa visione del presidente,
non una diversa» disse Clevenger. «Usa la violenza - uccidendo - per ri-
plasmare le famiglie. Pensa che il presidente se ne serva per riplasmare il
mondo in nome di Dio. "Un paese alla volta o una famiglia alla volta."
Questo è ciò che ha scritto. Se David Groupmann non è il nostro uomo,
sono pronto a scommettere che la persona che stiamo cercando è un bone-
sman, non uno esterno alla cerchia.»
«Se poi segui l'elenco pubblicato da Sutton e immagini che il nostro uo-
mo è, diciamo, sopra la quarantina, lo stagno risulta assai più piccolo. Te-
niamo presente che vengono accolti quindici nuovi membri all'anno. Risa-
lendo di una ventina d'anni, sono appena trecento persone.»
«Dovremmo esaminare i precedenti penali di ciascuno di loro.»
«Metterò all'opera alcuni addetti alle ricerche e investigatori privati.»
«Bene. Ma riflettiamoci un istante. Può darsi che ci sia modo di scoprire
il punto debole qui. Perché prende di mira quelle particolari famiglie? De-
vono avere in comune qualcos'altro oltre alla Skull and Bones.»
«Forse. O forse è un puro caso. Forse sono semplicemente le famiglie
con cui è venuto in contatto per motivi di affari o altro.»
«È possibile.»
«Ci sono nessi palesi tra i Groupmann, gli Hadley e i Van Myer?» chiese
Anderson.
«Solo le loro insolite reazioni al dolore, per quel che posso dire. Ma de-
vo rifletterci meglio.»
«Qual è il prossimo passo?»
Clevenger diede un'occhiata all'orologio. Segnava l'1.20. «Dormire» ri-
spose. «Il prossimo passo è dormire.»
«Ne parliamo domani.»
«D'accordo.»
S'incamminarono insieme verso l'uscita.
«Che cos'hai fatto per John Rosario?» volle sapere Clevenger.
Anderson sorrise. «John è un giocatore d'azzardo incallito. Scommette
soprattutto sui cavalli, ma anche sul football, sul baseball, su qualunque
cosa. È riuscito ad accumulare un debito di quarantaduemila dollari con
Grossett a Revere.»
Sam Grossett era un allibratore con un carattere peggiore di quello di
molti suoi colleghi.
«E allora?» chiese Clevenger.
«Mi sono occupato della cosa» rispose Anderson.
«Hai fatto fare marcia indietro a Grossett? Gli hai pagato la sua quota
della vincita a rate?»
«No. Ho prestato mille dollari a Rosario e lui ha scommesso che i Red
Sox avrebbero vinto il campionato. Gli Yankees erano tre a zero. L'hanno
pagato settanta a uno.»
«Che storia» commentò Clevenger. «Non so, però, se questo serva a ri-
solvere il suo problema di fondo.»
«Diciamo che si tratta di medicina preventiva» ribatté Anderson.
«In che senso?»
«Ha impedito che Grossett spezzasse le ossa a Rosario.»
Clevenger rise. «Bel colpo, dottor Anderson.»
Uscirono con le rispettive auto dal parcheggio coperto dell'ospedale e
imboccarono Storrow Drive, diretti al Tobin Bridge e a Chelsea.
Clevenger era scosso da tremori e sudava. Aveva esaurito le pastiglie di
Ativan. Si ricordò che nel suo loft aveva ancora della vodka, il che lo fece
rilassare per qualche istante e poi tremare più di prima. Ripensò a quello
che gli aveva detto Ted Pearson: «Dài tu stesso prova di coraggio».
Oltrepassò l'uscita per Chelsea e continuò a guidare per una quindicina
di minuti lungo la Route 1 fino alla farmacia Brooks, aperta tutta la notte.
Scese dall'auto ed entrò nella farmacia.
Il farmacista, un uomo sulla quarantina con l'orecchino e la barba di due
giorni, era dietro il banco, intento a registrare una ricetta. «Posso aiutarla?»
chiese senza alzare lo sguardo.
«Sono un medico» disse Clevenger. «Se ha un ricettario, le scrivo una
prescrizione.»
«Il suo paziente verrà stanotte?»
«Il paziente sono io.»
Il farmacista gli lanciò un'occhiata. «Devo chiederle di mostrarmi il tes-
serino.»
Clevenger estrasse il portafoglio. «Nessun problema.»
Il farmacista gli lanciò un'altra occhiata. «Non posso darle nessuna so-
stanza a vendita controllata, se la prescriverà a se stesso. Mi dispiace, è la
legge dello stato.»
«Prescriverò l'esatto opposto» disse Clevenger.
Il farmacista si fece attento. «Eh?»
«Antabuse» spiegò Clevenger. «Ce l'ha?»
L'Antabuse blocca il metabolismo dell'alcol, causando una concentra-
zione di acetaldeide, un metabolita altamente tossico che di solito viene
rapidamente scisso in sostanze chimiche innocue nel flusso sanguigno. Ma
in presenza dell'Antabuse, i livelli di acetaldeide salgono all'improvviso,
provocando un notevole aumento della pressione sanguigna, tachicardia,
nausea, vomito e, a volte, morte per aritmia cardiaca o infarto.
«Ce l'ho» rispose il farmacista. «Sa come funziona, vero? Deve avvertire
tutti di escludere qualunque sostanza alcolica dal cibo a lei destinato, dolci
compresi. Perfino il dopobarba sulla pelle può farla star male. Ovviamente,
se beve può morire.»
«Meglio non bere, allora» concluse Clevenger. «È questo il punto: posso
essere astemio o morto. Ciò semplifica le cose: scelgo astemio.»
Il farmacista sorrise e gli porse il ricettario.
Clevenger compilò una ricetta per trenta compresse da 250 milligrammi.
Mentre aspettava che il farmacista gli procurasse il farmaco, andò a pren-
dere una Diet Coke dal distributore di bibite accanto alla farmacia. Poi tor-
nò dentro, prese la confezione di Antabuse e pagò.
«Una compressa al giorno» raccomandò il farmacista. «Buona fortuna.»
«Ne ho bisogno» disse Clevenger. «Grazie.»
Tornò al suo pick-up e si sedette al volante. Aprì la Diet Coke e la con-
fezione di Antabuse, si fece cadere una compressa del farmaco sul palmo
della mano e rimase fermo immobile. Compilare la ricetta era stato facile.
Una volta inghiottito il medicinale, non avrebbe potuto sottrarsi alle sensa-
zioni che lo avrebbero assalito. Depressione. Ansia. Rabbia. Non avrebbe
trovato vie di fuga dal caos dell'esistenza. E la verità era che la prospettiva
lo terrorizzava. Ma forse ciò era un bene. Forse, queste emozioni, erano le
uniche reazioni sensate a un mondo in cui il figlio che amava poteva rima-
nerci secco o far fuori qualcuno il giorno dopo, un mondo in cui costruire
una vita con la donna amata sembrava semplicemente al di fuori del corso
dell'esistenza che aveva intrapreso. Un mondo in cui onde anomale pote-
vano spazzar via migliaia di persone e un serial killer poteva trovare ispi-
razione in un presidente americano. Forse imparare a essere umani voleva
dire imparare a vivere nel dolore e non tentare di immaginare come vivere
senza.
Era per questo che gli occorreva coraggio.
Rimase seduto immobile ancora a lungo. Poi si infilò la compressa in
bocca, bevve un sorso di Diet Coke e la inghiottì.

25

14 agosto 2005, ore 7.35

Clevenger chiamò Whitney sul cellulare. Voleva metterla al corrente di


quello che aveva saputo su Yale e la Skull and Bones, ma voleva anche ac-
certarsi che lei non avesse messo una croce su di lui perché la sera prima le
aveva preferito Billy.
«Come sta Billy?» domandò Whitney.
Il tono sembrava più quello di un medico che si informa della salute di
un paziente che quello di una donna che vuole notizie del figlio adottivo
dell'amante. «È in disintossicazione» rispose lui, senza aggiungere altro.
«Magnifico. Hai fatto la cosa giusta.»
«Senti, io volevo...»
«Non ce n'è bisogno» lo interruppe lei. «Non puoi uscire dalla sua vita
quando lui è nei guai.»
Clevenger avrebbe voluto dire che i guai di Billy erano per il momento
superati e che non l'avrebbe più abbandonata in un aeroporto. Ma non po-
teva sapere se le cose sarebbero andate effettivamente così. «Che ne dici se
stasera vengo a cena a Washington?»
«Spiacente. Riunioni.»
«Potremmo cenare tardi.»
«Sai che ti dico? Pensiamoci» suggerì lei. «Ma un'altra volta.»
«Okay» disse Clevenger.
«C'è altro?»
«C'è qualcosa sul caso, se è questo che intendi.» Clevenger sperava che
Whitney si soffermasse ancora un po' sull'aspetto privato dei loro rapporti.
«Sono tutta orecchi.»
Vana speranza. La mise al corrente su Yale, la Skull and Bones e David
Groupmann. «North sta controllando i precedenti penali di tutti i membri
della società al di sopra dei quarant'anni presenti nell'elenco.»
«Ci faremo dare anche noi quella lista e frugheremo nel nostro database»
disse lei. «Penso che dovresti incontrare di nuovo Groupmann, forse do-
mani stesso. Controlla se ha un alibi per uno o più delitti.»
«È proprio quello che intendevo fare. Lasciami dare un'occhiata ai voli.
Potrei forse essere là per l'ora di cena e tornare indietro con un volo not-
turno.»
«Telefonerò a Groupmann per vedere se è disponibile.»
«Se ci fosse modo di avere un elenco dei membri della Skull and Bones
tra i venti e i trent'anni sarebbe splendido» disse Clevenger. «Quello di
Sutton è datato.»
«Se si può fare, noi possiamo farlo. Vorrei evitare di coinvolgere il pre-
sidente, ma se sarà necessario, lo coinvolgerò.»
«Tienimi al corrente.»
«Naturalmente.»
«Ottimo» disse Clevenger. «Stammi bene.» Avvicinò il pollice al tasto
per chiudere la comunicazione.
«Frank?»
«Sì?»
«Non intendevo ferirti a proposito della cena e di tutto il resto. Penso
semplicemente che dobbiamo ammettere con noi stessi che i nostri tempi
non sono sempre sincronizzati.»
«Whitney...»
«Non voglio aggiungere altro, okay? Altrimenti, non posso andare avan-
ti con la mia vita, cosa di cui invece ho molto bisogno.»
Il tono con cui pronunciò le ultime parole indusse Clevenger a riflettere.
«Ti vedi con qualcuno?»
«Be'... in un certo senso, ma non è neppure...»
«Non lo sapevo. Io,..»
«Non ha importanza. Questo non ha niente a che fare con lui.»
Sentire Whitney pronunciare la parola "lui" gli fece male quasi come se
lei avesse detto il nome dell'uomo.
«È... Ti prego. Dammi una mano a uscirne, okay? Ho troppe cose in bal-
lo. Non posso permettermi di cadere in depressione.»
Clevenger avrebbe voluto dirle che preferiva parlare della faccenda a
quattr'occhi, ma sapeva che qualsiasi serata fosse riuscito a farle scegliere
avrebbe potuto essere quella in cui Billy aveva deciso di fare a botte con
tre dei pazienti in disintossicazione, o di firmare per essere dimesso o chis-
sà che altro. Avrebbe potuto non tenerne conto, ma probabilmente a spese
di Whitney. «Okay» si limitò a dire.
«Grazie» ribatté lei tranquilla. «Ti telefono dopo aver parlato con Grou-
pmann.»
«D'accordo. Ci sentiamo.» Chiuse la comunicazione.

26

L'aereo privato di Heather Rawlings atterrò all'aeroporto di Thunder Bay


alle 13.55, con nebbia fitta e pioggerella. West Crosse aveva mandato una
vettura con autista a prenderla per portarla alla sua proprietà, venti ettari su
un promontorio a picco sul Lago Superiore.
Thunder Bay, situata nel centro geografico dell'America settentrionale,
era ricca da ogni punto di vista. La sua storia risaliva al 5000 a.C, epoca in
cui i paleoindiani estraevano rame dalle colline e valli circostanti. Per mi-
gliaia di anni, la zona aveva continuato ad alimentare un florido commer-
cio di pietre preziose, argento, pellicce e legname.
La vista del Lago Superiore era magnifica, le sue acque pericolose. Sotto
di esse giaceva oltre un centinaio di battelli, l'unico santuario d'acqua dolce
del mondo dedicato ai naufragi.
Ma ciò che aveva indotto Crosse a stabilirsi a Thunder Bay era soprattut-
to la sua tradizione di clima salubre. Nel XVII secolo gli indiani Chip-
pewa, alle prese con malattie letali portate dai mercanti europei, avevano
fondato la Grande Società di Medicina, un ordine religioso segreto di scia-
mani dediti a complessi rituali terapeutici, che comprendevano l'uso di po-
zioni, salassi e sacrifici. A un grande guaritore che avesse superato i quat-
tro livelli di appartenenza alla società, veniva concesso il potere sulla vita e
sulla morte. Nel complesso, ai loro tentativi, inspiegabili ai più e da molti
visti con sospetto, in seguito era stato attribuito il merito non solo di aver
aiutato i Chippewa a sopravvivere, ma anche di averne fatto una delle più
potenti tribù del continente.
Coraggiosi sciamani avevano fatto, in nome dei loro dèi, quant'era ne-
cessario per assicurare il massimo bene al più grande numero di persone.
Era una lezione ben radicata nella cultura di Thunder Bay oltre che
nell'animo di Crosse. La prima volta che aveva messo piede in quel luogo
si era subito sentito a casa.
Heather Rawlings non era preparata a ciò che vide quando l'auto giunse
al termine della tortuosa strada privata fiancheggiata da alberi che portava
alla proprietà di Crosse. L'edificio principale poteva essere definito solo
come un castello, anche se diverso da tutti quelli che lei aveva visto duran-
te i suoi viaggi in Inghilterra, Francia o Irlanda.
Tre archi, ognuno alto due piani, dominavano la facciata della costruzio-
ne di pietra a quattro piani con timpani, costruita sul fianco di un dirupo,
per cui parte di essa scompariva letteralmente nella terra. I cancelli di
bronzo che chiudevano ogni passaggio ad arco permettevano di vedere le
scuderie che ospitavano almeno una dozzina di purosangue. In un piccolo
lago di lunghezza pari all'intero edificio si riflettevano i tre archi, in modo
da creare l'illusione di due otto uniti per le estremità.
Solo Crosse e alcuni fisici, genetisti e chimici che di tanto in tanto lui
invitava a cena riconoscevano in quello schema - metà di pietra e metà di
acqua - ciò che era in realtà: una doppia elica, la struttura del DNA, il fon-
damento della vita umana. E probabilmente Crosse era l'unico a vedere ri-
specchiata in quel simbolo l'opera della sua vita. Sì, perché il DNA si auto-
ricostruiva costantemente, evolvendo per difendersi da agenti patogeni mi-
ranti a stravolgerne la struttura e a deviarla verso la malattia. La molecola
aveva la capacità di spezzare il proprio scheletro di amminoacidi per libe-
rarsi dalla contaminazione e sapeva ciò che tutta l'umanità aveva bisogno
di imparare, e cioè che, permettendo a un insieme di essere distrutto da
un'unica componente nociva, non si guadagna nulla.
Alle estremità dell'edificio principale sorgevano due costruzioni più pic-
cole: una, in pietra, sembrava una cappella con luminose vetrate istoriate
rappresentanti scene di antiche battaglie; l'altra era una copia in scala ridot-
ta del Partenone, il tentativo compiuto dagli ateniesi di rappresentare la
perfezione. Crosse si era attenuto al modello originale fin nei minimi parti-
colari. Aveva voluto che venisse costruito con lo stesso marmo ricavato
dal monte Pentelico poco lontano da Atene e aveva replicato l'ingegnoso
disegno della facciata di Ictino e Callicrate, dilatando il fusto delle colonne
dalla metà in su per farle apparire dritte se osservate a distanza e abbassan-
done il plinto al centro per farle sembrare tutte uguali se osservate da ango-
lazioni estreme. E aveva commissionato ad alcuni scultori la copia delle
metope che ornavano le quattro facciate, raffigurando su ognuna uno scon-
tro tra ordine e caos: mistiche battaglie tra Greci e Troiani, Lapiti e Cen-
tauri, dèi e giganti, Greci e Amazzoni.
L'autista lasciò Heather Rawlings davanti a una passerella - una lastra di
cristallo lunga otto metri e larga cinque - che scavalcava il piccolo lago e
conduceva, attraverso un passaggio pedonale di arenaria grigio-azzurra
delle stesse dimensioni, alla porta d'ingresso di mogano a due battenti, o-
gnuno dei quali decorato con una doppia elica.
Un minuto dopo, suonò il campanello e venne ad aprirle Crosse in per-
sona. «Benvenuta» la salutò. «Sono davvero felice che sia riuscita a veni-
re.»
«Tutto questo va al di là di ciò che avevo immaginato» commentò lei.
Crosse rimase impassibile. Quella era una donna che non riusciva nep-
pure a immaginare di diventare madre, usando la propria struttura anato-
mica per lo scopo datole da Dio. «Grazie» si limitò a dire. «Non vedo l'ora
di farle vedere a che punto sono arrivato.»
Heather Rawlings lo seguì attraverso un dedalo di stanze che la indusse-
ro spesso a fermarsi per contemplare di volta in volta un parquet di casta-
gno in cui erano inserite figure bronzee a grandezza naturale di bambini in-
tenti a saltellare; un camino modellato a partire da un unico, enorme bloc-
co di pietra scavato e lavorato sul posto; una libreria di mogano dietro por-
tefinestre di vetro molato ornato di migliaia di scintillanti ametiste; una
modanatura spessa mezzo metro composta da centinaia di corone intaglia-
te, una diversa dall'altra.
«Ha creato lei tutto questo?» chiese la donna.
«Sì» rispose Crosse.
«E quanto ci ha impiegato?»
«Se include la creazione della pietra, milioni di anni» disse l'architetto.
Lei rise.
Lui sorrise appena. «Se intende la collocazione degli elementi in osse-
quio al mio gusto, circa sette anni.»
Heather lo seguì in stanze sepolte nel fianco del dirupo e poi lungo un
corridoio sotterraneo che portava a un ascensore.
Crasse digitò una serie di numeri sulla pulsantiera.
«In nome di Dio, dove stiamo andando?» chiese lei.
In nome di Dio. «Nel mio luogo di lavoro» rispose Crasse. «Nella catte-
drale. Forse l'ha vista dalla strada. Non c'è un ingresso a livello del suolo.
Questo è l'unico modo di accedervi.»
Nessun ingresso. Nessuna uscita.
Le porte dell'ascensore si aprirono rivelando pareti rivestite di pannelli
di legno di castagno, un soffitto di vetro istoriato, un pavimento di calcare.
«Dopo di lei» disse Crosse.
Heather Rawlings entrò.
Le porte si chiusero.
L'ascensore salì due piani e le porte si aprirono nella sala operatoria di
Crosse.
Le note del Messia di Händel fluivano dagli altoparlanti a parete. Il pro-
fumo di mirto riempiva l'aria.
Crosse attese che Heather uscisse dall'ascensore e la seguì nella stanza.
«Le vetrate sono davvero splendide» disse lei. «E la musica... Il Messia.
Che bella croce...» Si diresse verso una croce di legno alta quasi due metri
e mezzo su un piedistallo di bronzo massiccio. Sulla traversa era incisa una
citazione di Ralph Waldo Emerson dallo Yale Book of American Verse,
che proseguiva sulla verticale:

È la perdizione dell'uomo per essere salvo


quando per la verità dovrebbe morire.

«L'ho fatta io stesso,» spiegò Crosse «con il legno di un monastero tibe-


tano.»
«Magnifica» ribadì Heather. «Non credo di aver mai visto niente di così
bello.»
«È sua.»
Lei si volse a guardarlo. «Prego?»
«Il mio regalo.»
«Non potrei...»
«Un simbolo della nostra collaborazione. La prego.»
Lei esitò, poi annuì. «Grazie infinite. La custodirò gelosamente.» Notò
le fotografie nelle cornici d'argento sulla parete opposta e andò a guardarle.
«La famiglia del presidente» osservò. «Lei ha partecipato al concorso per
il progetto di ampliamento della Casa Bianca?»
Crosse le passò accanto dirigendosi al tavolo anatomico coperto di teli
bianchi. «L'ho vinto.»
Lei si voltò verso di lui. «Non ho sentito fare il suo nome, neppure come
concorrente.»
«Certo che no» ribatté Crosse. «Lavoro sotto pseudonimo.»
«Perché insiste sulla privacy totale?»
«Per lavorare in pace» rispose Crosse. «Così posso creare progetti come
quello per lei.» Indicò con un cenno del capo i disegni della casa dei Ra-
wlings nel Montana disposti sui teli bianchi. Accanto c'era il modellino di
legno in scala della proprietà. «Penso che lei capirà subito la mia visione.»
La donna si avvicinò al tavolo anatomico, guardò il primo foglio del
progetto, il prospetto degli esterni della casa nella quale Ken Rawlings a-
vrebbe portato la sua nuova moglie, Maritza. Ne rimase confusa. Guardò
Crosse e poi di nuovo i disegni e il modellino. «Un tetto rosso...»
«La sua reazione istintiva. Senza rifletterci sopra.»
«Non so... È inaspettato. Mi sembra quasi... moresco. E il cortile centra-
le... Posso vedere gli interni?»
«Certo» rispose Crosse, passando al foglio successivo.
Heather si concentrò innanzitutto sulla camera da letto padronale. «Mi
piacciono i sedili nei vani delle finestre» commentò. «Finestre con grate...
Non ne sono sicura. Io...» Scrutò il disegno, soffermandosi sulle tre stanze
comunicanti, etichettate NURSERY. Si girò, guardò Crosse, sorrise.
«Nursery? Dev'esserci un errore, a meno che lei non sappia qualcosa che
io ignoro.»
«Proprio così» confermò Crosse. «So che suo marito vuole dei figli e so
che sarebbe un ottimo padre.»
Lei lo scrutò di sottecchi. «Come, prego?»
«Se mi sbaglio, la prego di dirmelo. Ho presunto che suo marito volesse
dei figli e ho inserito il suo desiderio nel progetto.»
Heather scosse il capo. «Il fatto che Ken potrebbe essere o meno un
buon padre è una vecchia storia. Per noi... è acqua passata.»
Crosse abbassò lo sguardo sul progetto e annuì. «Lo so.» Poi alzò gli oc-
chi su Heather. «Tuttavia, sarebbe un buon padre?»
«Suppongo di sì. Be', ma che differenza farebbe...? Non costruiremo
nessuna nursery. Glielo assicuro.»
Crosse allungò la mano verso un recipiente di vetro accanto ai disegni,
dentro il quale un pezzo di stoffa bianca galleggiava nel cloroformio. Co-
minciò a svitarne il coperchio. «Non si preoccupi» disse. «Elimino sempre
le cose che non hanno senso.» Pausa. «Mi dica di Maritza.»
Heather sembrò sbalordita. «Maritza? Non capisco che cosa mi sta chie-
dendo.»
«Lei pensa che sarebbe una buona madre?»
«Perché dovrebbe importarmi di sapere che tipo di madre...»
Crosse alzò una mano. «Maritza o qualsiasi altra donna lo sarebbe. Lei
no. So anche questo. Lei ha avuto un rapporto troppo difficile con sua ma-
dre.»
«In nome di Dio, chi gliel'ha detto? Ken?» Sul volto di Heather si dipin-
se qualcosa che andava oltre l'irritazione, un misto di vergogna e panico.
«Penso che questo incontro...»
In nome di Dio. «Ha ragione. Così non si arriva da nessuna parte» disse
Crosse. «Mi dispiace. Non ha importanza. È acqua passata, come ha detto
lei.» Finì di svitare il coperchio del recipiente e allungò la mano per pren-
dere il pezzo di stoffa bianca.
«Be', quand'è così...» tagliò corto lei. «Abbiamo detto più che abbastan-
za. Possiamo...»
«Sì, possiamo chiuderla qui. Lei non merita altro tempo.» Passò alle
spalle di Heather, come se fosse diretto all'ascensore.
Sconvolta, lei si girò per guardarlo, ma Crosse l'afferrò da dietro tappan-
dole naso e bocca con la stoffa impregnata di cloroformio.
Come con Chase Van Myer, la lotta fu breve e Crosse non se ne stupì.
Dopotutto, perché una donna avrebbe dovuto aggrapparsi alla vita, se non
sopportava l'idea che una nuova vita crescesse dentro di lei? Perché avreb-
be dovuto combattere contro la tomba con ogni fibra del suo essere quando
sua madre non era stata una madre, il suo matrimonio non era stato un ma-
trimonio e lei stessa era un ramo secco che ostacolava la crescita dell'albe-
ro della vita in perenne fioritura?
Crosse scoprì il tavolo anatomico, vi stese sopra Heather, le iniettò la
succinilcolina, poi si inginocchiò e pregò, mentre i muscoli di lei ballavano
la loro ultima, caotica danza. Poi le aprì gambe e braccia, rendendo onore a
Leonardo da Vinci.
Portò il carrello dei ferri chirurgici accanto al tavolo.
Una dissezione a regola d'arte del collo è qualcosa che va oltre le capaci-
tà di moltissimi chirurghi. Ma quella volta - forse la sua ultima - Crosse
voleva soffermarsi su una regione che esigeva ancora di più da lui e dimo-
strare la suprema genialità del progetto di Dio per l'uomo.
Incise la pelle e penetrò nelle fibre del platisma, il muscolo che connette
la parte inferiore della mandibola alle clavicole, servendosi di divaricatori
per fermare i lembi.
La muscolatura profonda del collo era architettonicamente perfetta, fa-
cilmente suddivisibile in tre triangoli limitati dai muscoli sternomastoideo,
digastrico e omoioideo. Crosse li localizzò, suturò la zona intorno a essi, li
puntellò con aghi d'argento, il tutto senza ledere la vena giugulare esterna
azzurra e nera, l'arteria cervicale rosso cupo, il delicato nervo accessorio di
un giallo pallido, che scendeva come un rivolo dalla base del cervello per
innervare il muscolo trapezio. Un arcobaleno anatomico.
E questo era solo l'inizio. Più in profondità, si trovavano strati di geniali-
tà che facevano sembrare il Partenone un gioco da bambini: nervi, arterie e
vene che corrono insieme e poi si dividono in archi perfetti, portando nu-
trimento e sensazioni a un fascio di muscoli dopo l'altro; gli splendidi anel-
li fibrosi della trachea, che non solo porta aria ai polmoni, ma sostiene la
molle tiroide che vi aderisce e protegge l'assai più fragile esofago che vi si
nasconde dietro. E ancora: le ghiandole parotide, sublinguale e submandi-
bolare, l'osso ioideo, le arterie succlavie. Un miracolo dopo l'altro.
Crosse continuò la dissezione fino a giungere alla parte anteriore della
spina cervicale. Non sapeva quanto tempo fosse passato e non gliene im-
portava. Notò solo che non entrava più luce dalle vetrate istoriate, che le
sue mani nude erano indolenzite dal viaggio alla ricerca dell'infinita sa-
pienza di Dio e che il suo cuore era pieno del suo amore.

27

Clevenger incontrò David Groupmann alle 19 in quella che era stata la


dimora di Shauna e Jeffrey al 2910 di Broadway a Pacific Heights. Di sera,
il posto risultava ancora più bello, nella luce radente che inondava il pae-
saggio, colorando di riflessi arancioni i vetri delle finestre e trasformando
l'impeccabile prato in un magico tappeto che si stendeva verso il Golden
Gate, un fiume di fari di automobili nel cielo serale.
Groupmann e Clevenger si accomodarono in un angolo appartato della
grande stanza centrale, uno spazio ristretto ma con un soffitto molto alto di
travi di abete che si intersecavano in modo apparentemente casuale a co-
minciare da circa tre metri di altezza, per poi salire almeno di altri tre, co-
me l'intrico di una ragnatela. Al di sopra, una lastra di vetro illuminata
dall'alto recava incise altre intersezioni, come a voler continuare il motivo
all'infinito.
«Una sua seconda visita non può portare buone notizie» osservò Grou-
pmann, sfiorando con dita leggere il bracciolo della poltrona di cuoio.
«Può impedirmi di tornare una terza volta» ribatté Clevenger, accaval-
lando la gamba sinistra sulla destra in modo da avere a portata di mano la
pistola nella fondina alla caviglia nascosta dai jeans. Whitney aveva inca-
ricato un agente di consegnargliela a una stazione di servizio fuori dall'ae-
roporto di San Francisco.
Groupmann annuì. «Come posso aiutarla?»
«Mi parli della Skull and Bones.»
Groupmann sollevò un sopracciglio. «E questo come potrebbe aiutarla?»
«Tutte le vittime sono collegate a quella società. Ne facevano parte loro
stesse, oppure un loro stretto parente. Da quanto mi risulta, lei ne sa qual-
cosa.»
«Meno di quanto avessi sperato.»
«Lei non è stato scelto per farne parte» disse Clevenger.
«E lei sa certamente che l'ho presa piuttosto male» replicò Groupmann
asciutto.
«Ho letto l'articolo pubblicato dal "New Haven Register". Lei ha tentato
di entrare nella "tomba" in High Street.»
«Ci vorrebbe davvero uno psichiatra legale per capirci qualcosa.»
Clevenger non ribatté, limitandosi ad aspettare il seguito.
«Quando hai un fratello gemello, provi la sensazione che ogni cosa che
accade a lui - nel bene e nel male - accade anche a te, o almeno così do-
vrebbe essere. Nel momento in cui Jeffrey è stato scelto e io no, ho suppo-
sto che lui avrebbe rifiutato.»
«Ma lui non l'ha fatto.»
«No, e io non volevo essere lasciato fuori. Non volevo che mio fratello
avesse segreti per me. Volevo essere ammesso anch'io. In senso figurato e
letterale.»
«E le hanno fatto pagare il fatto di averci provato.»
«Una notte mi sono saltati addosso e mi hanno picchiato. Un braccio e
varie costole rotti, una commozione cerebrale.» Abbassò lo sguardo. «Ne
sono guarito.»
«Suo fratello non è intervenuto in sua difesa?»
Groupmann continuò a tenere lo sguardo abbassato per qualche secondo.
Quando lo rialzò, aveva un sorriso tirato sul volto. «No, non l'ha fatto. E a
dire il vero è stato meglio così. Ho imparato a essere autonomo.»
Non dava l'impressione di aver gradito la lezione. Sembrava ferito e a-
mareggiato. All'improvviso Clevenger ebbe la netta sensazione che quella
notte la Skull and Bones si fosse inserita in modo drammatico tra David e
Jeffrey Groupmann. Dopotutto, i bonesmen non erano più legati tra di loro
di quanto lo fossero con i propri consanguinei? «Lei non ha voluto sporge-
re denuncia» disse. «Chi è stato ad aggredirla? Ha riconosciuto qualcuno
di quelli che l'hanno picchiata?»
Gli occhi quasi neri di Groupmann intercettarono un raggio di luce e
luccicarono come ossidiana. «Qual è la sua vera domanda?»
«Suo fratello era uno di loro?»
«Sì» rispose Groupmann freddamente.
«È stato lui...?»
«Mi ha spezzato il braccio destro.»
Clevenger sentì il peso di quella rivelazione scendere in profondità nel
suo animo. Dovette schiarirsi la voce prima di parlare. «Mi dispiace» dis-
se.
«Non perdiamo il filo» tagliò corto Groupmann. «Lei si starà chiedendo
quanto male l'abbia presa io.»
Clevenger non ribatté.
«Lei si starà chiedendo se l'ho presa abbastanza male per cominciare a
uccidere altri bonesmen, compreso mio fratello. Forse sono solo come lo-
ro. Entrare a far parte del club è il massimo.»
«È così?»
Groupmann sorrise. «Non coglie il punto» disse.
«Mi aiuti a farlo.»
«Non si uccide la propria parte migliore.»
«Jeffrey.»
«Non ho mai smesso di pensare a lui come a una parte di me, e vicever-
sa. I suoi affari, sua moglie, i suoi figli, tutti i suoi successi facevano senti-
re me un fallito, soprattutto durante gli anni in cui non riuscivo a vendere
neppure un quadro per guadagnarmi da vivere.» Fece una pausa. «Mi cre-
da. Ho pensato più di una volta al suicidio, ma non ho mai pensato di ucci-
dere lui. Neppure per un istante. Neanche la notte in cui mi ha rotto il
braccio. Mi sentivo più vivo se lui era vivo. Alla lunga, non so se riuscirò a
sentirmi altrettanto vivo da solo.»
«Perché no? Lei ha quello che era di suo fratello.»
«Sì e no» ribatté Groupmann.
«Shauna, i ragazzi, questa casa» elencò Clevenger.
«Shauna si è innamorata di lui, i suoi figli sono nati da lui, la casa è stata
costruita da lui. Il quadro può anche appartenermi, ma l'ha dipinto lui. Fa
molta differenza. Jeffrey sarà sempre il fratello migliore.»
Clevenger alzò gli occhi a guardare il reticolo di travi che li sovrastava.
Poi tornò a guardare Groupmann. «Dov'era la notte in cui Jeffrey è stato
ucciso?»
«Nel mio studio, a poca distanza da qui.»
Non un granché come alibi. «Ha viaggiato molto negli ultimi anni?»
«In tutto il paese. Dipingo paesaggi.»
Clevenger diede un'occhiata alla mano di Groupmann, constatò che por-
tava l'anello di Yale, esattamente come l'avvocato dei Van Myer.
«Lasci che l'aiuti» disse Groupmann, strizzandogli l'occhio. «Prenda il
curriculum dei miei studi di medicina a Yale.»
«Medicina?»
«Mi sono ritirato a metà del secondo semestre.»
«Perché?»
«Sono stato bocciato in anatomia, due volte. Non ce la facevo. È lo stes-
so problema che ho con la scultura: non ci riesco. Non ho il senso della
profondità. Sono nato così. Jeffrey e io avevamo anche questo in comune.»

28

15 agosto 2005

Clevenger era appena salito a bordo del volo notturno per Boston quan-
do Whitney lo chiamò sul cellulare e gli disse di scendere dall'aereo. Rac-
colse le sue cose e si avviò verso l'uscita. «Che cosa succede?» le chiese.
«David Groupmann ha l'alibi perfetto» disse lei.
«Eh? Che cosa succede?» chiese di nuovo Clevenger, scendendo la sca-
letta.
«C'è un altro cadavere, nel Michigan. Una donna. Stando al medico le-
gale, è stata uccisa ore, non giorni, fa.»
«In quale parte del Michigan?»
«Lago Superiore.»
«Il cadavere è affiorato dall'acqua?»
«Non è lo stile del nostro uomo. La vittima galleggiava vicino alla riva,
legata a una croce di legno, nuda. Aveva chiodi d'argento piantati nelle
mani, nei piedi e tutto il resto. E lui ci ha lasciato un altro messaggio.»
«Quale?»
«Sulla croce è incisa una vecchia citazione di Emerson: "È la perdizione
dell'uomo per essere salvo / quando per la verità dovrebbe morire". Indo-
vina dove è stata pubblicata la prima volta?»
«"National Enquirer"?»
«Yale Book of American Verse.»
E dove, se no? «Chi ha trovato la donna?» chiese Clevenger.
«Una coppia che passeggiava sulla riva del lago.»
«Nessun documento d'identificazione, ovviamente.»
«Sbagliato. Lui continua a volerci facilitare, da questo punto di vista.
Sulla croce era inchiodata anche la patente di guida della vittima: Heather
Rawlings, di Miami. Suo marito dirige una società di estrazione di diaman-
ti. Probabilmente non sapeva neanche che lei si trovava fuori dallo stato.»
«Un'altra lezione di anatomia?»
«Il collo, dalla parte anteriore alla colonna vertebrale.»
Clevenger chinò il capo. «Sei nel Michigan, adesso? Vuoi che ti rag-
giunga?»
«Ho già sistemato tutto, qui. Speravo che te la sentissi di andare a Miami
a trovare il marito.»
«Ma certo.»
«Ottimo. Sei fortunato. C'è un aereo che dovrebbe decollare tra quaranta
minuti. Ti ho già prenotato il posto.»
«Nel caso in cui me la fossi sentita...»
Lei rise. «Già.»
Clevenger si imbarcò all'1.37. Quando l'aereo decollò, aveva un ritardo
di quattro ore e sette minuti e la compagnia aerea aveva deciso di farsi
perdonare dai passeggeri offrendo loro birra, vino o bibite gratis. Cleven-
ger lanciò un'occhiata al carrello, mentre avanzava lentamente lungo il cor-
ridoio. Un passo, una fermata. Aveva preso ventiquattr'ore prima una
compressa di Antabuse, i cui effetti sarebbero dovuti durare tre giorni, ma
constatò con disappunto che si stava chiedendo se fosse proprio così e sta-
va già valutando le probabilità di sopravvivere a uno o due gin tonic. Si
frugò in tasca, tirò fuori un'altra compressa di Antabuse e la ingerì.

29

Alle otto del mattino Clevenger era seduto al tavolo da riunioni nella bi-
blioteca all'11204 di Beach Drive a Miami con Ken Rawlings e i suoi due
avvocati, Skip Wolfe e James Lowell, entrambi sui cinquantacinque anni. I
giornalisti erano già accalcati all'esterno.
«Non riesco a capirci niente» gli disse Rawlings. «Non ho idea del per-
ché Heather si trovasse nel Michigan. Non abbiamo amici stretti da quelle
parti, di sicuro non così a nord. Il fatto che sia stata uccisa, poi... e in circo-
stanze tanto grottesche... Era una donna a posto. Non aveva nemici.»
Una donna a posto. Non aveva nemici. Una lode misurata. Clevenger
non se ne sorprese, dato quel che aveva sentito da Shauna Groupmann, da
Patrice Hadley e da Scout Van Myer, ma era intenzionato a scoprire se ci
fosse qualcos'altro dietro. «Sarà lei a identificare il corpo?» chiese.
«Certo.»
«Non tutti ci riescono» spiegò Clevenger. «Soprattutto in presenza di fe-
rite come quelle che sua moglie ha ricevuto.»
«Non penso che ci sia bisogno di andare...» cominciò a dire l'avvocato
Lowell con un tono da annunciatore radiofonico. Sembrava appena uscito
da uno spot pubblicitario: capelli neri ondulati tagliati corti, gessato blu.
Rawlings alzò una mano per interromperlo. «Sono stato in guerra» disse,
rivolto a Clevenger. «Marines. Vietnam. Ho visto cose che lei neppure
immagina.»
Ma quelle cose non erano successe alla donna che amava, pensò Cle-
venger. Si chiese come mai Rawlings non riuscisse a cogliere la differenza.
Forse perché la guerra gli aveva lasciato un'impenetrabile corazza psicolo-
gica o perché non amava particolarmente sua moglie? «Spero che lei non
si offenda» ribatté Clevenger. «Rivolgo la stessa domanda a ogni coniuge
nei casi di omicidio.» Fece una pausa. «Voi due eravate felici?»
«Felici?» Rawlings si strinse nelle spalle. «Come avremmo potuto non
esserlo? Avevamo tutto. Questi avrebbero dovuto essere i nostri anni mi-
gliori.»
Ancora una volta detto senza esitazione, senza lacrime, pensò Cleven-
ger. E Rawlings aveva l'aria dell'uomo che si autoconvinceva di sentire ciò
che pensava di dover essere. Felici? Come potevamo non esserlo? Erano
domande, non risposte.
Maritza entrò nella stanza. Indossava pantaloni bianchi, un blazer di sar-
toria dello stesso colore e una camicetta malva. Aveva denti perfettamente
bianchi, capelli perfettamente lisci, unghie perfettamente curate. Era ele-
gante, come se fosse stata lei la padrona di casa.
«La mia assistente» spiegò Rawlings a Clevenger. «Maritza Cabrai, ti
presento il dottor Frank Clevenger. Lavora con l'FBI.»
Clevenger si alzò. «Piacere di conoscerla.» Le tese la mano.
Lei gliela strinse. «Piacere mio.»
Clevenger si sedette di nuovo.
«Starò fuori circa un'ora, ma puoi raggiungermi sul cellulare se hai biso-
gno di me» disse Maritza a Rawlings. Lo guardò attentamente. «Stai be-
ne?»
Rawlings annuì.
Clevenger ebbe l'impressione di cogliere negli occhi di Maritza qualcosa
di più della devozione della dipendente verso il datore di lavoro, ma non
ne fu certo. Forse il dubbio gli venne semplicemente perché lei era bella e
parlava con un tono tanto affettuoso, o forse perché Rawlings la accompa-
gnò con lo sguardo mentre usciva.
«Posso chiederle dove ha studiato?» chiese Clevenger.
«Dove ho studiato?» ripeté Rawlings, riscuotendosi. «Phillips Andover,
poi Yale. Perché?»
Yale. Nessuna sorpresa, ormai, e nessuna coincidenza. «È stato scelto
per la Skull and Bones?»
Rawlings lanciò un'occhiata a Lowell. «Se lo fossi stato, non risponderei
alla domanda. Non è questo che il codice prescrive?»
Clevenger guardò le mani di Lowell e constatò che aveva un anello con
il sigillo di Yale.
«Comunque, dove vuole arrivare?» chiese Rawlings.
«Ciascuna delle vittime in questo caso era o un bonesman, o un parente
stretto, o un coniuge» rispose Clevenger. «Sa di qualcuno che può aver nu-
trito del rancore nei suoi confronti per aver fatto parte della società?»
«Non ha detto di averne fatto parte» intervenne l'avvocato Wolfe con un
tono di voce sorprendentemente mite per un uomo che aveva l'aspetto di
un difensore di football in un abito italiano da tremila dollari. Fissò Cle-
venger senza batter ciglio.
«Ho l'elenco di Sutton nel mio ufficio» disse Clevenger. «Pensavo che
lei potesse risparmiarmi la telefonata.»
«Se lei ritiene che quell'elenco sia preciso...» disse Wolfe.
Clevenger si protese e guardò Rawlings dritto negli occhi. «Sua moglie è
stata appena uccisa da qualcuno che forse aveva legami con quella società.
Perché non vuole darmi tutte le informazioni che potrebbero aiutarmi a
trovare il killer?»
Rawlings lanciò un'altra occhiata a Lowell, prima di riportare lo sguardo
su Clevenger. «Ciò che una persona "vuole" non impone il comportamento
che quella persona deve tenere. È questa la natura dell'appartenere a qual-
cosa di più grande di se stessi. Io so che ci sono necessità e obiettivi più
importanti dei miei - o dei suoi - indipendentemente da come la cosa può
sembrare a ciascuno di noi in questo momento. Ne sono sempre stato con-
vinto.»
«Anche sua moglie?» chiese Clevenger.
«Almeno quanto me» rispose Rawlings. «Ed è questa una delle ragioni
per cui sento tanto la sua mancanza.»
«Mantenere il segreto potrebbe costare altre vite» fece presente Cleven-
ger, guardando negli occhi ciascuno degli uomini intorno al tavolo.
«Se qualcuno ce l'ha con i bonesmen,» disse Rawlings «sono certo che
ognuno di loro si augura che lei agisca con la massima rapidità, ma non al
prezzo di mettere in pericolo i confratelli.»
Le parole di Rawlings riecheggiavano quelle di David Groupmann, se-
condo cui il legame tra i bonesmen veniva prima di ogni altra responsabili-
tà: verso la famiglia, la legge, perfino se stessi.
Ci furono alcuni istanti di silenzio.
«Allora, abbiamo finito?» chiese Rawlings guardandosi intorno.
Lowell esibì un finto sorriso. «Spetta al dottore decidere.»
Forse perché c'erano due avvocati al tavolo, o forse perché si era parlato
in modo esplicito della Skull and Bones, o forse perché Ken Rawlings si
sentiva davvero in colpa per qualcosa, fatto sta che Clevenger aveva la
sensazione di raccogliere la deposizione di un sospettato, e non di interro-
gare il membro di una famiglia che aveva appena subito una perdita. «Non
ho altre domande» disse.
Stava uscendo, preceduto da Lowell, quando su un tavolo vicino alla
porta della biblioteca notò un progetto architettonico: il prospetto delle
scuderie fatto da Crosse per la proprietà dei Rawlings nel Montana. Si
fermò a osservarlo. La struttura era infinitamente più umana, più viva della
casa di Rawlings. Il suo sguardo passò dalle mensole angolari curvilinee al
tetto mansardato, alle finestre ad arco, per poi soffermarsi sul caleidosco-
pio di vetro posto al centro della facciata, sotto la linea del tetto. Questo u-
tilizzo così scenografico e creativo del vetro gli fece venire in mente la cu-
pola di vetro con le foglie cadenti incise nella casa di Van Myer a Chicago
e l'intrico di travi concluso dalla lastra di vetro inciso nella proprietà dei
Groupmann a Pacific Heights. E all'improvviso, i fatti e le intuizioni im-
magazzinati nella sua mente conscia e in quella inconscia cominciarono a
incastrarsi come le tessere di un mosaico. Un brivido gli corse lungo la
schiena.
«Posso esserle d'aiuto?» chiese Lowell, voltandosi a guardarlo.
«State costruendo delle scuderie?» chiese Clevenger ad alta voce, conti-
nuando a guardare il disegno.
«Come, prego?» disse Rawlings ancora seduto al tavolo.
«Scuderie» ripeté Clevenger, lanciandogli un'occhiata e poi tornando a
concentrarsi sul disegno.
«Sì, le stavamo costruendo» rispose Rawlings. «Mia moglie e io aveva-
mo intenzione di edificare su un terreno di nostra proprietà nel Montana.
Le scuderie facevano parte del progetto.»
Clevenger guardò attentamente il disegno. Non trovò da nessuna parte il
nome dell'architetto. «Chi è l'autore del progetto?» chiese.
Alcuni secondi di silenzio.
«Come ha detto?» disse Rawlings.
Clevenger lo guardò. «Chi ha progettato le scuderie?»
«Uno studio di Manhattan, penso» rispose Rawlings. «Graves & Dickin-
son, forse. Se ne occupava Heather. Mi ha lasciato una copia dei loro primi
abbozzi.»
«Capisco» commentò Clevenger.
«Lei cavalca?» chiese Wolfe dal suo posto accanto a Rawlings.
«Le Harley, quando me ne capita l'occasione. Niente più.»
«Mangiano meno» scherzò Rawlings.
Un'altra battuta dopo un altro assassinio. Clevenger annuì. «E danno an-
che meno problemi in autostrada.»
«Mi chiami pure in qualsiasi momento» lo invitò Rawlings. «Se ha una
domanda, cercherò senz'altro di darle una risposta.»
«Lo terrò presente» disse Clevenger e proseguì verso l'uscita.

30

Non appena ebbe lasciato Ken Rawlings e i suoi avvocati, Clevenger


chiamò dall'auto North Anderson sul cellulare e gli confidò la sua sensa-
zione che un unico architetto avesse progettato proprietà per almeno tre
famiglie delle vittime: i Groupmann, i Van Myer e i Rawlings. Ma collega-
re le tre proprietà lo aveva portato immediatamente a riflettere sull'altra ca-
sa che aveva visto, quella degli Hadley in Meadow Lane a Southampton.
Ricordava in particolare le sfumature di grigio del granito, dell'ardesia e
del rame piombato che facevano sembrare la casa un disegno a carboncino.
Ma ricordava anche di averla attraversata, notando la serie di finestre di
quindici centimetri per quindici che correva lungo il bordo superiore di
ogni parete, formando una cornice trasparente che permetteva alla luce del
sole di inondare tutto l'ambiente. L'interazione di vetro e luce, la natura e-
terna e infinita di ogni elemento del progetto era inconfondibile. Un soffit-
to di vetro inciso che non era un soffitto, una lastra di vetro inciso sopra un
intrico di travi alto due piani che sembrava non avere mai fine, un caleido-
scopio di vetro che sembrava invitare il sole e la luna a penetrare nelle ma-
estose scuderie, pareti che permettevano alla luce di compenetrarle, en-
trando e uscendo da ogni stanza, all'infinito. «Potrebbe essere chiunque di
loro» disse Clevenger. «Se non un architetto o un arredatore, forse un co-
struttore.»
«Non ci sono molte società costruttrici che edificano case su tutto il ter-
ritorio nazionale. Un architetto mi sembra più probabile.»
«Rawlings ha detto che è stata sua moglie ad assumere chi ha progettato
le scuderie. Lui non ci ha messo becco. Pensa che possa essere stato uno
studio chiamato Graves & Dickinson, a Manhattan.»
«Farò un controllo» disse Anderson.
«Non so se mi sta raccontando la verità. Non ha voluto dirmi se era un
bonesman e mi è sembrato che non volesse dirmi nemmeno chi ha fatto il
progetto.»
«Lo strizzacervelli sei tu, ma forse ciò significa che le due cose sono
collegate.»
«Eh?»
«Forse le due domande si possono ridurre a una. Forse l'architetto è un
bonesman ed è in questo modo che crea la sua rete. Con il passaparola, da
confratello a confratello.»
«Buona idea. Telefonerò ai Groupmann e agli altri e cercherò di sapere
chi ha progettato le loro case.»
«Sarò in ufficio tra cinque minuti. Esaminerò l'elenco di Sutton per ve-
dere se c'è anche Rawlings. E cercherò di scoprire quello che posso su
quello studio.»
«Ottimo.»
«Quando torni?»
«Atterro verso le 14.30.»
«Notizie di Billy?» chiese Anderson.
«Nessuna. Presumo che si stia disintossicando davvero. Più tardi passerò
in ospedale.»
«Bene. Ci vediamo in ufficio.»
«Okay.»
Chiusero la comunicazione.
Clevenger telefonò a Whitney. La sua segretaria gliela passò e lui la in-
formò di quello che aveva saputo.
«Controllerò se abbiamo qualche persona di fiducia allo studio Graves &
Dickinson» disse lei. «Che altro devo fare?»
«Suppongo che potresti mettere al corrente il presidente di quello che
sappiamo. Sono certo che avrà modo di passare parola a tutti i bonesmen.»
«Interessante» disse lei. Poi si fece particolarmente seria. «Voglio sotto-
lineare ancora una volta che noi non dovremmo farne parola pubblicamen-
te.»
«Ti riferisci al fatto che i bonesmen sono presi di mira?»
«Ammesso che lo siano davvero. Non dimenticarlo: sei persone di tale
ricchezza e influenza possono avere più cose in comune della sola apparte-
nenza alla società. Possono far parte dello stesso hedge fund. Possono es-
sere comproprietari della stessa compagnia aerea. Abbiamo ancora molta
strada da fare.»
Si sarebbe detto che Whitney stesse tenendo lei stessa una conferenza
stampa. «Qual è la realtà politica lì?» le chiese Clevenger. «Per il presiden-
te sarebbe sgradevole essere collegato alla Skull and Bones?»
«Lui non ha mai ammesso ufficialmente di farne parte. Ha risposto con
un "no comment", quando gli è stata fatta una domanda in proposito duran-
te un'intervista alla televisione. Penso che la versione esatta sarebbe più o
meno: "Dovrebbe essere un segreto, per cui non ho dichiarazioni da fare".
Si può interpretare la cosa come si vuole, ma io a tutt'oggi non so se lui fa-
ceva parte della società o no.»
«E faresti meglio a evitare che qualcuno ci si concentri sopra.»
«Non vedo che vantaggi dia. Alimenta i teorici del complotto che vanno
in giro a dichiarare che questi tizi governano il mondo, un'idea paranoica.
Ma idee ancora più assurde hanno danneggiato molti uomini politici.»
Forse anche Clevenger soffriva di paranoia, ma non era del tutto certo
che quella teoria fosse priva di fondamento. «Io non ne parlerò con nessun
giornalista» assicurò.
«Allora, come sta Billy?» domandò lei.
Glielo aveva chiesto Anderson e adesso glielo chiedeva Whitney. Pro-
babilmente era venuto il momento di occuparsene. «Oggi non ho parlato
con lui» rispose Clevenger. «Lo farò.»
«Spero che stia bene.»
«Ti ringrazio.»
«Sentiamoci più tardi.»
«D'accordo.»
Lei riattaccò.
Clevenger infilò il cellulare in tasca, poi lo tirò fuori di nuovo. Chiamò
Anderson.
«È un po' che non ci sentiamo» rispose il socio.
«Un altro nome da cercare nell'elenco di Sutton» disse Clevenger.
«Chi?»
«Un ex senatore e addetto alla raccolta di fondi per i repubblicani, un
certo Dennis McCormick.»
«Il padre di Whitney?»
«Proprio lui.»
«Era a Yale?»
«Non gliel'ho mai chiesto» rispose Clevenger.
«Ma a Whitney non piace parlare della Skull and Bones con te.»
«Neppure un po'.»
«Non sarebbe la prima volta che finiamo per occuparci di un caso da so-
li» commentò Anderson.
«No, non sarebbe la prima volta.»
«Ti terrò al corrente.»

31

West Crosse era seduto nello studio della first lady Elizabeth Buckley
nell'ala est. All'ingresso dei visitatori aveva ricevuto lo stesso pass dei capi
dei principali dipartimenti governativi, che lo autorizzava a entrare e uscire
a piacimento, senza preavviso e senza perquisizione.
Liz Buckley, non ancora cinquantenne, studi a Princeton, elegante e si-
cura di sé, era seduta su un divanetto a vivaci colori di fronte a Crosse, che
si era accomodato in una poltrona. Le pareti dello studio erano coperte di
fotografie di lei e del presidente con capi di stato, leader religiosi e gruppi
di bambini di ogni parte del mondo. «Quello che mi è piaciuto della sua
bozza di progetto per il Museo della Libertà,» disse «è che si schiera espli-
citamente in favore della possibilità di espressioni creative, di immagina-
zione illimitata, una volta che le persone siano state liberate dalla tiranni-
de.» Abbozzò un sorriso in cui si mescolavano al tempo stesso cordialità e
sicurezza di sé. «So che lei capisce tutto quello per cui lavora mio marito.»
«È proprio così» confermò Crosse, lanciando un'occhiata al suo progetto
sul tavolino in mezzo a loro. Esigeva pareti di vetro, al di là delle quali e-
rano previste distese d'acqua riflettenti. Le opere d'arte sarebbero state ap-
pese a pannelli di bronzo o collocate su ripiani di bronzo inseriti nelle pa-
reti. Il tetto sarebbe stato una cupola di cristallo e bronzo con incise le co-
stellazioni. Tutti i visitatori si sarebbero subito resi conto che il museo era
esso stesso un'opera d'arte, quasi sospeso nell'aria, senza nulla che impe-
disse all'occhio e alla mente di vagare a piacimento. Un orizzonte infinito.
Di notte, alcuni pannelli della cupola si sarebbero aperti, dando vita a un
osservatorio astronomico. E sarebbe bastato premere un pulsante per far sì
che un potente telescopio si alzasse nell'esatto centro del museo, puntando
sul cielo. «Lei vuole che le persone vivano nella pienezza delle loro poten-
zialità» disse. «Lei vuole che siano davvero libere, a qualunque costo.»
«E nessuno sa meglio di questi artisti quanto possa costare.» Liz Buck-
ley si protese leggermente in avanti, esaltata dalla visione. «Un quarto di
loro aveva perso i propri familiari quando i loro paesi sono stati liberati da
noi.»
A Crosse venne la pelle d'oca. «Spero solo che il mio progetto definitivo
renda giustizia alla sua idea.»
«So che lo farà» disse la first lady. «Se Dio lo vuole.» Si appoggiò allo
schienale, giocherellando con la collana di perle.
Tutt'a un tratto, a Crosse parve stanca e vulnerabile, forse perché cono-
sceva il suo fardello: una figlia diciassettenne ritardata, nubile e in attesa di
un figlio da un ritardato: un'offesa alla natura e una perenne minaccia per
la posizione del presidente agli occhi del paese e del mondo. «Come sta
Blaire?» chiese con il tono cortese, ma fermo di un guaritore, di uno scia-
mano.
La domanda bastò a scatenare una lotta tra i più intimi sentimenti di Liz
Buckley e la sua persona pubblica, una lotta che si rifletté sul suo volto: un
sorriso coraggioso che lei non fu in grado di sostenere, un lampo negli oc-
chi mentre tratteneva le lacrime, quindi il ben noto e risoluto serrarsi della
mascella. «Warren mi ha detto che lei gli è stato di grande aiuto quando le
ha confidato ciò che stiamo affrontando» rispose la first lady. «Voglio rin-
graziarla per questo.»
«Non ce n'è bisogno» disse Crosse. Un istante di silenzio. «Come sta
Blaire?» chiese di nuovo, pacatamente.
Gli occhi della first lady si riempirono di lacrime. Deglutì. «Blaire è fe-
lice» disse. «È questo l'aspetto più triste.» Si asciugò una lacrima. «Non si
rende conto di che cosa questa vicenda significhi in realtà per lei, o per il
padre del suo bambino. E certamente non capisce che impatto avrà su tutto
quello per cui Warren ha duramente lavorato negli ultimi tre anni e mez-
zo.»
«Non prevede una reazione solidale» osservò Crosse.
«In questa città? Lo metteranno in croce.» Fece un profondo sospiro e si
ricompose. «Non dimentichi che mio marito ha assunto posizioni corag-
giose contro la distribuzione di preservativi, contro un'inappropriata edu-
cazione sessuale, contro l'aborto. A minare il suo potere di fare del bene
nel mondo sarà non tanto ciò che la gente dice pubblicamente, quanto
quello che dirà in privato, le risatine negli uffici del Campidoglio pieni di
"funzionari statali" i quali non hanno niente da ridire sul matrimonio tra
uomini, ma pensano che "religione" sia una parolaccia.»
«Come stanno prendendo la cosa gli altri suoi figli?» chiese Crosse.
«Non ne sanno nulla. James ha appena ricevuto un incarico alla Brown
Brothers Harriman e William è appena diventato socio della Simpson Tha-
cher Bartlett. Non vedo perché coinvolgerli, finché non sarà assolutamente
necessario.»
«E quando sarà?»
«Quando lo stato di gravidanza comincerà a essere visibile, suppongo.»
Liz Buckley scosse il capo. «A dire la verità, continua a non sembrarmi
vero. Non mi sembra qualcosa che Dio vorrebbe...» Chiuse gli occhi.
«Questo non dovrei dirlo. Noi non possiamo conoscere le vie del Signore.»
Crosse non era d'accordo. Riteneva che Dio rendesse chiare all'uomo le
Sue vie, ma che l'uomo fosse spesso troppo impaurito o troppo egoista per
agire in armonia con la Sua volontà. Il presidente Kennedy, prima di cede-
re alla debolezza e di dubitare della capacità dell'America di riplasmare il
mondo, lo aveva detto bene: «Con una serena coscienza come solo sicuro
compenso e la storia come ultimo giudice delle nostre azioni, accingiamoci
dunque a guidare il paese che amiamo, invocando la Sua benedizione e il
Suo aiuto, ma sapendo che qui sulla terra siamo noi a dover compiere la
volontà di Dio».
Gesù non aveva portato nel suo cuore la verità del Padre? Abramo non
era stato disposto a sacrificare Isacco quando la voce di Dio glielo aveva
ordinato? Il presidente Buckley non aveva fatto l'opera di Dio sulla terra,
liberando interi popoli dall'oppressione? Crasse stesso non sapeva esatta-
mente ciò che Dio si aspettava da lui? «Forse Dio ci ascolta più di quanto
lei sappia» disse alla first lady.
Lei lo guardò. «Io non prego perché questa gravidanza abbia fine» di-
chiarò. Ma il modo con cui girò la testa, abbassando lo sguardo, diceva il
contrario.
«Certo che no» disse Crasse.
Liz Buckley si schiarì la voce, sospirò di nuovo e si alzò in piedi.
Crasse si alzò a propria volta.
«So che lei ha bisogno di prendere misure molto precise dello spazio at-
tuale» disse. «Non si faccia riguardo di rivolgersi a me o alla mia assisten-
te Joyce se ha bisogno di qualcosa.»
«La ringrazio» disse Crosse, allungandole la mano. La loro effettiva
conversazione si era svolta tra le righe. L'accordo era fatto. Elizabeth
Buckley quella notte avrebbe dormito meglio, senza sapere perché, senza
volerlo sapere. «Forse dovrò tornare alcune volte,» aggiunse «per accer-
tarmi che il mio progetto risponda esattamente alle mie intenzioni.»
La first lady gli strinse la mano. «Nessun problema. Il suo pass non ha
limitazioni. Nessuno la fermerà.»
«E se tendo a girellare qua e là è solo perché la mia mente fa così. La
prego di avvertire il suo staff di lasciarmi campo libero. Imparo rapida-
mente.» Sorrise.
«Gironzoli pure quanto vuole» disse lei.
Crosse la guardò negli occhi. «Voglio che lei sappia che mi rendo conto
di quanto lei e suo marito vi siete sacrificati per il bene pubblico» dichiarò.
«Sono davvero onorato di collaborare con voi. Se potessi progettare anche
solo un altro edificio nel corso della mia vita, sarebbe questo.»

32

Alle 15.55 Clevenger era con North Anderson negli uffici della Boston
Forensics a Chelsea.
Clevenger aveva già telefonato a Scout Van Myer e a Patrice Hadley per
sapere chi aveva progettato le loro case.
Van Myer non si era mostrato disposto a dirlo, citando un accordo di se-
gretezza del contratto dell'architetto che prevedeva una penale di venticin-
que milioni di dollari in caso di violazione. «Se pensassi che ci fosse una
possibilità anche remota che stessimo parlando di qualcuno capace di uc-
cidere,» gli aveva detto «metterei ovviamente in discussione l'accordo. Ma
sono certo che non è così.»
Patrice Hadley aveva fornito una garanzia altrettanto inoppugnabile sul
suo architetto, citando a propria volta l'accordo di segretezza previsto dal
contratto. «Anche se volessi dirglielo, non potrei farlo.»
«Non si smuoveranno dalle loro posizioni» disse Clevenger ad Ander-
son. «Ho accennato al fatto che potrebbero ricevere un mandato di compa-
rizione e loro mi hanno educatamente rimandato ai loro avvocati. Sto an-
cora cercando di mettermi in contatto con Shauna Groupmann, ma sono
pronto a scommettere che anche lei mi risponderà picche... posto che sap-
pia a chi suo marito aveva affidato l'incarico di progettare la loro casa.»
«In base alla mia esperienza a Nantucket, posso dirti che la gente di soli-
to butta nel cestino accordi del genere nel momento in cui ne salta fuori
uno migliore» fece notare Anderson. «Questo ha l'aria di essere più che al-
tro un codice del silenzio.»
«Skull and Bones» commentò Clevenger.
«Ho esaminato l'elenco di Sutton» disse Anderson. «Ken Rawlings è
presente. Ho telefonato a quello studio di architettura... Graves & Dickin-
son: nessuno ha progettato scuderie per lui. O, perlomeno, non ammettono
di averlo fatto. Così, mi sembra probabile che Rawlings non sia stato sin-
cero con te.»
«Centro! Si direbbe che l'architetto possa essere il nostro uomo.»
«C'è qualcos'altro. Dennis McCormick è anche lui nell'elenco di Sut-
ton.»
Clevenger fece una smorfia. Avrebbe preferito sentire che McCormick
non compariva nell'elenco. Non voleva cominciare a chiedersi se poteva
fidarsi di Whitney. «Volevo prendere informazioni su di lui, ma non credo
proprio che sia nel carattere di Whitney fare giochetti politici in un'indagi-
ne per omicidio.»
«Giusto.» Sorrisino di Anderson. «L'FBI non fa mai giochetti. Chiedilo
a Joe Salvati.»
Quelli dell'FBI avevano incastrato Salvati e lo avevano tenuto in carcere
per tre decenni per proteggere uno dei loro informatori.
«Conosco Whitney» disse Clevenger.
«No, tu la ami, il che è completamente diverso. Può voler dire che tu
non la conosci... non ancora. La tua vista è ancora appannata e potrebbero
volertici cinque o dieci anni per schiarirla.» Un attimo di silenzio. «Pianta-
la di prenderti in giro: Whitney è un'ottima psichiatra, un'ottima investiga-
trice e un'ottima politica. E viene da una potentissima famiglia americana.»
«Dovresti cominciare a occuparti di pazienti.»
«L'ho appena fatto.»
Clevenger rise. «Ben mi sta.» Annuì tra sé e sé e riprese il filo del di-
scorso. «Sarebbe meglio controllare l'elenco di Sutton per scoprire quanti
membri della Skull and Bones sono diventati architetti. Spero che siano
così pochi da poterli passare in rassegna uno a uno.»
«Controllerò» disse Anderson.
«E io mi metterò in contatto con le famiglie delle prime due vittime nel
Connecticut e con i genitori del dodicenne del Montana. Vediamo perlo-
meno se si sono fatti costruire case, negli ultimi anni.»
«Dovrei consultare anche l'ufficio progetti delle città piccole e grandi di
cui stiamo parlando» disse Anderson. «I progetti architettonici devono es-
sere depositati con il timbro dell'architetto.»
«Grande idea» approvò Clevenger.
Anderson si alzò. «Qualche volta ci azzecco.» Sorrise. «Ti sei già infor-
mato su Billy?»
Clevenger scosse il capo. «Non ancora, ma lo farò.»
«Fammi sapere come se la cava il nostro campione. Terrò il cellulare ac-
ceso.»
«Ti chiamerò.»
Anderson si voltò e uscì.
Clevenger sollevò il ricevitore del telefono e fece il numero del Massa-
chusetts General Hospital. Si fece passare il reparto d'isolamento per la di-
sintossicazione, ma la responsabile si rifiutò di dargli notizie di Billy, ap-
pellandosi al regolamento dell'ospedale. «Posso parlare con lui?» chiese
Clevenger sapendo quale sarebbe stata la risposta di rito.
«Non posso né confermare né negare che sia qui» rispose, infatti, la
donna.
«A quanto pare, tutti hanno accordi di segretezza tranne me» commentò
Clevenger. «Verrò di persona. Forse lui accetterà di vedermi.»
«Grazie per aver chiamato.»
«Grazie a lei.» Clevenger riagganciò.
Salì in macchina e si diresse all'ospedale. Suonò il citofono del reparto.
«Desidera?» rispose una voce femminile.
«Sono venuto a far visita a Billy Bishop. Sono suo padre.»
«Qualcuno verrà da lei.»
Clevenger attese.
Dopo circa un minuto, la porta di acciaio si aprì con uno scatto e ne uscì
una donna di mezza età obesa, con i capelli biondi ossigenati. Teneva in
mano un portablocco a molla e un mazzo di chiavi. Richiuse la porta e si
girò verso di lui. «Dottor Clevenger?»
«Piacere di conoscerla» rispose lui, allungandole la mano.
La donna gliela strinse. «Paula Nealy» si presentò. «Temo che lei non
figuri nell'elenco dei visitatori del signor Bishop,» disse «posto che lui sia
qui o lo sia mai stato.»
«Posto che...»
«I regolamenti federali proteggono l'identità di chiunque sia in terapia di
disintossicazione. Sono sicura che lei conosce la legge.»
«Certo.» Ma Clevenger sapeva anche che il personale tendeva a essere
permissivo quando non doveva dare cattive notizie. Doveva trovare subito
il modo di sapere se Billy se n'era andato da lì. Si frugò in tasca e ne e-
strasse quattro banconote da venti dollari. «I familiari possono lasciare co-
se per i pazienti, vero?» chiese. Era una piccola pecca nella legislazione
sulla privacy.
La donna guardò il denaro.
«Soldi per la mensa. Mi creda, lui li gradirà.» Le allungò le banconote.
«Io...»
Clevenger la osservò e lesse la verità sul suo volto: Billy aveva firmato
per uscire. «La ringrazio» disse. Si voltò e si avviò lungo il corridoio. Pri-
ma di arrivare agli ascensori, scorse un telefono interno. Voleva essere cer-
to che Billy se n'era andato. Alzò il ricevitore e fece lo zero.
Rispose il centralino.
«Sono il dottor Clevenger» disse. «Vorrei parlare con la dottoressa Jane
Monroe.»
«Un momento.»
Passarono alcuni minuti.
«Pronto, sono la dottoressa Monroe.»
«Sono Frank Clevenger. Lei ha incontrato mio figlio Billy Bishop al
pronto soccorso.»
«Sì.»
«Penso che lui abbia lasciato l'ospedale, ma ho bisogno di saperlo con
certezza.»
«Stando alla legge federale, io...»
«Le chiedo un altro favore, da medico a medico. Mi aiuti. Mio figlio è
nei guai.»
Una pausa. «Rimanga in linea, okay?» Tornò quindici secondi dopo.
«Nel computer non risulta tra i ricoverati» disse. «E lo sarebbe, se fosse
qui. Tenga presente che io non...»
«Lei non ha risposto alla mia richiesta.»
«Le auguro buona fortuna con lui» disse la dottoressa Monroe. «Mi era
sembrato davvero un bravo ragazzo.»
«Billy è molte cose diverse.»
«Come la maggior parte di noi. Mi faccia sapere come se la cava.»
«Lo farò» disse Clevenger. «Grazie.»
Riagganciarono.
Clevenger andò al parcheggio dell'ospedale, salì sul suo pick-up e si di-
resse a Chelsea. Una parte di lui avrebbe voluto lasciare che l'uscita di
Billy dall'ospedale equivalesse a un'uscita anche dalla sua esistenza... una
volta per tutte. Clevenger sarebbe potuto tornare al loft e avrebbe potuto
prendere le cose di Billy, abbandonarle sulle scale e continuare la sua vita.
Avrebbe potuto costruirsi una famiglia vera. Forse questo era il meglio che
poteva fare per lui, comunque. Forse non c'era davvero nessun modo di
amarlo abbastanza da suscitare in lui l'amore per se stesso. Forse al mondo
c'erano persone fatalmente caratterizzate da carenze psicologiche e con tut-
to il loro potenziale di bene già devastato, violentato o umiliato, per le qua-
li soccorrere il loro spirito non era più produttivo che vegliare un paziente
terminale, pregando per un miracolo che mai si sarebbe verificato.
Il guaio era che la situazione non appariva in questi termini... perlomeno
a Clevenger, non ancora. E se quella sorta di imperitura speranza verso gli
altri era anch'essa una droga, un'altra distrazione dal fatto che in fin dei
conti siamo tutti soli e che qualcuno di noi in questa vita non può essere
redento, Clevenger semplicemente non era pronto a rinunciare a quella
droga.
Da quando una preghiera comportava una garanzia?
Prese il cellulare e chiamò North Anderson.
«Che c'è?» chiese Anderson.
«Billy ha firmato per uscire. Devo trovarlo.»
«Hai controllato a casa?»
«Ci sto andando.»
«Okay» disse Anderson. «Me ne occupo.»
«A meno che tu non pensi che dovremmo lasciarlo stare per un po'.»
«Il ragazzo non deve rimanere per la strada, punto e basta.»
«Ti telefono da casa.»
«D'accordo.»
Chiusero la comunicazione.
Clevenger raggiunse il loft, salì le quattro rampe di scale e stava per a-
prire la porta quando il cellulare squillò. Anderson. «Che c'è?»
«L'ho trovato.»
«Hai fatto presto.»
«Non si può dire che tenga un basso profilo» disse Anderson.
«Che significa?»
«Lo ha avvistato un'autopattuglia. Seduto sui gradini, fuori dalla casa dei
Royals, al 22 di Suffolk Street.»
«Dalla "casa"?»
«Hanno una casa a schiera diroccata da quelle parti. È di proprietà di
Leo Berman.»
Berman era un allibratore, trafficante di droga e ruffiano che si spaccia-
va per proprietario di un negozio di gastronomia, il Me and Me, sulla
Broadway, a pochi passi dal municipio di Chelsea. Finché la città non ave-
va cominciato a essere rimessa in ordine da yuppie e gay e da una serie di
incriminazioni statali e federali, moltissimi poliziotti erano riusciti a rad-
doppiare i loro stipendi semplicemente girando lo sguardo dall'altra parte.
«I Royals lo riforniscono di droga?» chiese Clevenger.
«Di droga, di ragazze, di tutto. Non mi sorprenderei se Berman fosse
dietro anche a quei combattimenti all'ultimo sangue. Niente di buono, in-
somma.»
Clevenger cominciò a scendere le scale. «Vado là.»
«Posso venire con te.»
«Grazie» disse Clevenger.
«A proposito,» gli ricordò Anderson «ti sei dimenticato di restituirmi la
Glock.»
«È nel mio pick-up. Me la porto dietro.»
«Era quello che volevo dirti.»

33

Clevenger e Anderson parcheggiarono sulla Broadway e percorsero Suf-


folk Street, passando accanto a case dalle facciate di arenaria o di mattoni
che avevano urgente bisogno di una bella ristrutturazione, fantasmi del
passato di Chelsea, un agglomerato urbano letteralmente risorto dalle cene-
ri non una volta, ma due, e sempre sull'orlo del disastro.
Videro dieci o dodici figure indistinte davanti a una casa a due isolati di
distanza, intente a tirare calci a un pallone in mezzo alla strada, a spinto-
narsi a vicenda sui gradini d'ingresso, a giocare a "scappa e fuggi" con le
rare auto di passaggio.
«Qual è il nostro piano?» chiese Anderson, quando ebbero superato il
primo isolato.
Tre o quattro Royals, con i loro soliti zucchetti in testa, i jeans sformati e
le magliette da football, li avvistarono e cominciarono ad avanzare lungo il
marciapiede.
«In realtà, non ci ho pensato molto» rispose Clevenger.
«Ottimo. Neppure io.»
«Devo solo convincere Billy ad andarsene da qui.»
I Royals si schierarono su due file sul marciapiede. Una sfida urbana.
«Non mi piace» commentò Anderson, oltrepassando Clevenger e met-
tendosi davanti a lui, in modo da procedere in fila. Continuò a camminare,
sempre precedendo Clevenger e passando tra i Royals. «Buonasera, signo-
ri» salutò con un cenno del capo.
«Che cazzo vuoi, negro?» gridò il più grosso del gruppo, un nero sui di-
ciannove o vent'anni, rivolgendosi ad Anderson, dopo che lui e Clevenger
gli erano appena passati davanti. Portava una grossa catena d'argento con
un serpente dagli occhi di rubino.
Clevenger si voltò e gli si piantò di fronte, dando le spalle ad altri due
Royals. «Cerco Billy Bishop» disse.
Anderson si fermò a propria volta. Schiena contro schiena, lui e Cleven-
ger si trovavano chiusi fra quattro Royals.
«E tu chi cazzo sei?» chiese il grosso a Clevenger.
«Suo padre.»
«Il suo vecchio è in galera» ribatté il grosso avanzando verso Clevenger.
«Per omicidio. Perciò, fuori dalle palle.»
«Nessun problema» disse Anderson. «Lo troveremo.» E, mentre faceva
un passo in avanti, strascicò le scarpe per far capire a Clevenger che si sta-
va dirigendo verso la casa.
Clevenger si voltò per seguirlo, ma qualcosa lo colpì duramente sulla
nuca. Sentì il cuoio capelluto e il collo farsi caldi e umidi di sangue. Riuscì
a rimanere in piedi, girò su se stesso e sferrò un colpo al mento del Royal
che impugnava un pezzo di tubo. Il ragazzo finì lungo disteso a terra.
«Ha un coltello» avvertì Anderson indicando un altro Royal che si stava
avventando su Clevenger.
Clevenger si scansò. Una lama gli balenò davanti agli occhi.
Anderson colpì il ragazzo in faccia con la pistola.
Lui - quattordici anni, o forse meno - lasciò cadere il coltello e arretrò
barcollando, con il sangue che gli colava dal naso.
Anderson sentì che qualcuno gli si avvicinava da dietro e diede una go-
mitata che andò a segno. Si girò e vide il grosso Royal con la catena al col-
lo piegarsi in due. Gli puntò la pistola alla testa.
Almeno dieci Royals si erano staccati dalla porta d'ingresso della casa.
«Adesso vedrete, bastardi!» urlò qualcuno.
«Facciamogli il culo!» gli fece eco un'altra voce indistinta.
Clevenger estrasse la Glock, afferrò il ragazzo sanguinante e gliela puntò
alla testa.
Ciò non impedì che altri Royals uscissero dalla casa e avanzassero lungo
il marciapiede, ma fece sì che non si avvicinassero troppo. I ragazzi si ra-
dunarono intorno a Clevenger e Anderson, mormorando a voce bassa, fer-
ma e feroce. Il sibilo di un serpente a sonagli.
«Forza, uomo, lascialo andare.»
«Suffolk Street: luogo sbagliato, tempo sbagliato, paparino. Andiamo, lo
sai che è meglio non trovarsi da queste parti.»
«Facciamo fuori questi due cazzoni prima che se la facciano sotto.»
«Stendiamoli.»
Ma nessuno si mosse. Perfino in una gang di Chelsea dove la morte non
era un'estranea, la vita continuava a essere preziosa.
«Dov'è Billy Bishop?» chiese Clevenger, senza rivolgersi a nessuno in
particolare.
Anderson afferrò il grosso Royal per la pesante catena e gli premette la
44 Magnum sulla guancia. «Rispondi alla fottuta domanda o faccio fuori te
e alcuni dei tuoi amici per autodifesa.»
Il grosso Royal alzò lo sguardo su di lui e gli sputò addosso.
Anderson gli cacciò la pistola in bocca.
Clevenger guardò Anderson e vide la sua mascella contrarsi. «North,»
disse con calma «non farlo, non ne vale la pena.»
Anderson non rispose, non batté ciglio e non spostò il dito dal grilletto.
«Dov'è Billy?» chiese a denti stretti. Estrasse la pistola dalla bocca del
Royal.
«Vaffanculo.»
Anderson tirò indietro il braccio, pronto a colpirlo con la pistola in fac-
cia.
«Sono qui» rispose Billy, alle spalle di Clevenger.
Anderson si bloccò.
Clevenger si voltò e vide Billy tirare indietro il cappuccio della felpa e
togliersi una bandana dal viso.
«Che cosa vuoi?» chiese Billy.
«Il mio pick-up è sulla Broadway» rispose Clevenger. Perfino nella se-
mioscurità, notò che le pupille di Billy erano due puntini. Era fatto, proba-
bilmente di eroina. «Incamminati, torniamo a casa.»
«Io vivo qua» ribatté Billy.
Cenni di assenso e mormorii dei Royals. Un paio di loro, che erano vici-
ni a Billy, allungarono le mani.
Billy batté il "cinque" con loro.
«Che merdate combini» disse Clevenger.
Anderson aveva puntato di nuovo la pistola sul grosso Royal, spostando
gli occhi da lui agli altri, come nel tentativo di stabilire quanto sarebbe du-
rata quella situazione di stallo.
Clevenger fece un cenno della testa in direzione della Broadway. «For-
za» disse a Billy. «Andiamocene da qui.»
«Che ne dici di essere tu quello che se ne va?» replicò il ragazzo. «Que-
sta è la mia famiglia. Tu non sei niente per me.»
Urla e schiocchi di "cinque" battuti tra i Royals.
Clevenger guardò Billy e si accorse che il ragazzo lo stava fissando in un
modo diverso, come se avesse davanti a sé un estraneo. Non c'erano rab-
bia, né paura, né disprezzo nei suoi occhi. Uno sguardo sterile, neutro. La
cosa colpì Clevenger molto più duramente del tubo che gli aveva lacerato
il cuoio capelluto. Abbassò la pistola, lasciandola quasi cadere.
Anderson si rese conto di ciò che stava succedendo. Spinse via il grosso
Royal, afferrò Clevenger e lo tirò fuori dall'assembramento, puntando la
pistola contro l'uno o l'altro dei ragazzi per impedire che lo aggredissero.
«Chi vive combatte un altro giorno» sussurrò a Clevenger afferrandolo per
la cintura e tirandoselo dietro.
Clevenger cominciò a camminare verso la Broadway senza bisogno d'a-
iuto.
Dopo circa un isolato, i Royals smisero di seguirli.
«Il sangue dei Royals ha più nerbo del tuo, paparino» gridò uno di loro e
la sua voce riecheggiò per la strada.
Risatine stridule.
Un coro di insulti. «Grande e fottuta pistola, uomo... zero fottuti coglio-
ni.»
«Ti voglio bene, paparino.»
Clevenger s'infilò la pistola nella cintura dei pantaloni.
«E adesso?» chiese Anderson.
«Non lo so. Forse questa è la fine della storia. Forse devo darci un ta-
glio.»
«Lasciatelo dire: ci hai provato più a lungo e con più tenacia di chiunque
altro.»
«E che cosa ricevo in cambio? Una medaglia?» chiese Clevenger.
Anderson scrollò il capo. «Tirar su una famiglia è una guerra completa-
mente diversa. Nessuno ti dice neanche grazie per il servizio reso.»
Queste parole fecero scattare qualcosa nella mente di Clevenger. Sì, per-
ché gli fecero venire in mente che la sua battaglia per l'anima di Billy non
era una battaglia sola o due o dieci. Era una guerra. E la buona e, al tempo
stesso, cattiva notizia era che non si poteva uscirne sconfitti. Si poteva an-
dare avanti all'infinito. Era la bellezza e il terrore di essere un genitore, o
un prete, o un pacificatore innanzitutto. L'unico modo per perdere era ri-
nunciare... alla propria volontà, alla propria umanità o a entrambe. «Vorrei
che tu chiedessi un altro favore a John Rosario» disse ad Anderson.
«Vuoi che lui tenga d'occhio Billy?»
«No, voglio che lo arresti. Si fa di eroina. Dieci a uno che riesce a inca-
strarlo per possesso di droga.»
Anderson annuì lentamente. «Se lo mettono dentro per quello, non ha
via d'uscita. Niente cauzione questa volta. Potrebbero passare sei mesi,
forse un anno, prima che il suo caso venga ascoltato in tribunale.»
«C'è gente che supera cose peggiori» ribatté Clevenger. «L'importante è
superarle. Non so se Billy durerà a lungo per la strada.» Pausa. «E non so
che cosa potrà diventare se ci resta.»
Anderson tirò fuori il cellulare e fece il numero del quartier generale del-
la polizia di Chelsea. Il telefono dall'altra parte cominciò a squillare. «Ul-
tima chance» disse a Clevenger. «Sei sicuro?»
Rispose un addetto al centralino.
«No, naturalmente» disse lui. «Tu cosa ne pensi?»
Anderson fissò Clevenger negli occhi alcuni secondi.
«Pronto?» disse l'addetto.
Anderson accostò il cellulare alle labbra. «Cerco John Rosario» dichiarò,
dopodiché rimase in ascolto per qualche istante. «Sì. Gli dica che è un'e-
mergenza.»

34

16 agosto 2005

West Crosse aveva passato tre ore nell'ala est a prendere misure che sa-
peva non gli sarebbero mai servite. Alle 11.10 si avviò alla residenza pri-
vata della famiglia presidenziale al primo piano dell'edificio principale, se-
guendo un percorso meno battuto che aveva memorizzato dalle piante se-
grete della Casa Bianca dategli dal presidente. Dieci minuti dopo era da-
vanti alla porta della stanza da letto di Blaire Buckley. Bussò leggermente.
Nessuna risposta.
Provò ad aprire la porta. Non era chiusa a chiave. Entrò e si richiuse l'u-
scio alle spalle.
Blaire aveva diciassette anni, ma la sua stanza sembrava quella di una
bambina. Un copriletto rosa con i merletti. Un orsetto di peluche, una gi-
raffa di peluche e parecchie bambole appoggiate ai cuscini. Una lampada a
forma di Barbie. Due corde per saltare e una pedana molleggiata. In un an-
golo, due skate-board. Uno scaffale pieno di libri per bambini.
Crosse si avvicinò e prese in mano un volume: Judy Moody predice il
futuro. Un altro: Judy Moody era di cattivo umore. Un terzo, questa volta
illustrato: Un leone all'ora della nanna.
Si diresse verso un alto cassettone e notò alcune cose di Blaire: nastri
per capelli, anelli con finti diamanti, braccialetti di plastica, mollette lucci-
canti, una dozzina di rossetti, tutti ben ordinati in vaschette. Accanto c'era
una pila di numeri di «Highlights» per bambini delle elementari. Dietro,
una foto di Blaire, sovrappeso e con lo sguardo vacuo, sull'altalena spinta
dal padre, il presidente degli Stati Uniti.
Crosse fu invaso da un'ondata di disgusto. Com'era possibile che un cor-
po con il cervello di un primate evoluto provocasse tanto caos e dolore nel-
la vita del leader del mondo libero? Come si spiegava che a un essere con
la capacità di leggere solo libri per bambini fosse concessa la libertà di a-
vere un amante e concepire un figlio? Come si poteva ignorare il fatto che
il suo DNA era gravemente lesionato e che fingere che lei fosse pienamen-
te umana significava farsi beffe del miracoloso potenziale dell'uomo?
La vita di Blaire non era diversa da un qualsiasi disastro architettonico.
Fondamenta mal progettate potevano far crollare un edificio. Un edificio
mal progettato poteva rovinare tutto il profilo di una città. Ma in questo ca-
so i guasti potenziali erano infinitamente maggiori. Il presidente sarebbe
potuto cadere. Il prestigio dell'America avrebbe potuto essere compromes-
so. La causa della libertà del mondo avrebbe potuto subire una battuta d'ar-
resto.
La storia aveva una propria struttura, altrettanto vulnerabile da un errore
di progettazione.
Nel suo potenziale distruttivo, Blaire Buckley non era diversa da un ter-
rorista.
Crosse rievocò una delle prime grandi voci americane con cui si era for-
temente identificato. Aveva letto e riletto gli scritti del giudice della Corte
Suprema Oliver Wendell Holmes Jr., devoto cristiano ed eugenista, che
patrocinava la sterilizzazione delle donne subnormali. In un famoso caso,
prescrivendo l'isterectomia per Carrie Buck, una diciassettenne ritardata la
cui madre e il cui figlio erano parimenti ritardati, aveva scritto: «Sarebbe
meglio per tutto il mondo se, invece di aspettare che la prole dei degenerati
sia giustiziata per i suoi crimini, o che muoia di fame per la sua imbecillità,
la società evitasse a coloro che sono manifestamente malati di perpetuare
la specie... Tre generazioni di imbecilli bastano».
Accanto a Holmes, mentre scriveva la sua analisi, c'era il fidato assisten-
te e confidente Harvey Hollister Bundy, un brillante bonesman che era sta-
to anche assistente speciale del ministro della guerra, Henry Lewis Stim-
son. Quest'ultimo, anche lui bonesman, era stato determinante nella deci-
sione di lanciare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki durante la
seconda guerra mondiale, demolendo un impero del male che avrebbe po-
tuto distruggere la libertà del mondo.
Sarebbe sempre toccato a uomini d'azione e a uomini di Dio attuare i
progetti necessari a perfezionare l'esperienza umana e a liberare gli uomini
affinché trascorressero esistenze più complete. Perché, per dirla con Ken-
nedy: «Qui sulla terra siamo noi a dover compiere la volontà di Dio».
In questo mondo i bonesmen avrebbero fatto sempre infinitamente più di
quello che spettava loro fare. Era nei loro geni e nelle loro anime, nel loro
destino biologico e spirituale.
Crosse udì il rumore di passi che si avvicinavano alla porta. Non tentò di
nascondersi. Aveva carta bianca per girare nella casa. Come dimenticava-
no sempre di fare il suo nome alla polizia, così i suoi clienti giustificavano
anche i suoi comportamenti più sospetti. Sarebbero stati suoi inconsapevoli
complici sino alla fine.
E la fine era vicina.
La maniglia girò, la porta si aprì e Blaire Buckley entrò nella stanza.
Era cresciuta rispetto a come appariva nelle foto di Crosse e aveva mes-
so su parecchio peso. Indossava dei jeans e una T-shirt smisurata con
l'immagine di Britney Spears che mascherava ben poco i suoi seni enormi.
Fece tre passi, vide Crosse e si fermò come un cervo investito dalla luce
dei fari.
«Salve, Blaire» la salutò lui. «Mi dispiace di averti fatto paura. Mi
chiamo West. Sono un amico dei tuoi genitori. Sto aiutando la tua mamma
a progettare il suo museo.»
«Mamma ha detto che va bene che tu venga qui?»
«Certo. Vuoi chiamarla per controllare?»
«No, va bene. Che cosa vuoi?»
Crosse sorrise per tanta schiettezza, dovuta a una rete neuronale di mino-
re complessità e resistenza. Se Blaire aveva una domanda da porre, la po-
neva. Aveva fame... mangiava. Voleva sesso, lo faceva. «Ho sentito dai
tuoi genitori la buona notizia del bebè in arrivo» disse Crosse.
Lei tentò di trattenere un sorriso, ma non ci riuscì, mettendo in mostra
denti leggermente storti e ingialliti. Si portò la mano al ventre prominente.
«Eden.»
«Eden?»
«La mia piccola. Ti piace il nome?»
"Forse per il figlio normale di una madre normale" pensò Crosse. «Sai
che sarà una bambina?» chiese.
Lei annuì.
Era troppo presto perché il suo medico lo sapesse. «Immagino che tu
possa proprio dirlo» commentò.
«Ah-ah.»
«E vuoi la piccola?»
«Volerla?» chiese lei, incredula. «Non vedo l'ora. Desidero tanto essere
mamma, più di qualsiasi altra cosa.»
«Non ti preoccupa l'idea che il bebè, la piccola Eden, possa essere... len-
ta, mentalmente, come te?»
Blaire scosse la testa. «No, se è felice come lo sono io.»
Non sembrava per niente offesa da quello che Crosse le aveva detto.
Sembrava che non avesse né la capacità di offendersi, di avere paura, né
tanto meno il raziocinio. Crosse non poté resistere alla tentazione di farle
un esame più approfondito. «Che cosa ti fa felice, Blaire?»
Lei sorrise di nuovo e arrossì. «Harry, per dirne una.»
«È il padre della bambina?»
«Ah-ah. È il mio fidanzato.»
«Lavora? Sarà in grado di mantenere Eden?»
«Caspita!»
«Che cosa fa?»
«Mette cose insieme per una società. Parti che diventano cose.»
«In una struttura protetta? Lavora con altre persone come lui... e te?»
«Penne» disse lei. «Mette insieme le penne e i portachiavi.»
Domanda e risposta, pensò Crosse. «E che cos'altro ti fa felice?»
Lei si guardò la T-shirt. «Britney.»
Ancora sesso, con un po' di musica in sottofondo. Di alto livello. Crosse
scoppiò a ridere.
Anche Blaire rise. «Non è il massimo?»
Crosse smise lentamente di ridere e anche di sorridere. «Credi in Dio,
Blaire?»
«Altroché.»
«Pensi che sia stato Dio a volere che tu stessi con Harry e rimanessi in-
cinta?»
«Doveva volerlo, visto che è successo.»
Una logica da cani, pensò Crosse. Se senti prurito, grattati. Mangia la tua
pappa finché la ciotola non è vuota. Era il meglio che Blaire potesse fare.
Ma esseri umani con un cervello normale potevano fare di più. Potevano
avere impulsi - stimoli sessuali, smanie, paure - e tenerli a bada in vista di
un bene maggiore. Lui si atteneva a ciò. «Pensi che avere un bambino pos-
sa rendere le cose difficili per il tuo papà?»
Lei scosse la testa. «Lui sarà un buon nonno. Gli piacerà moltissimo.»
Crosse sorrise. Lasciò passare qualche secondo. «Ti piacerebbe incontra-
re Britney?» chiese.
«Incontrarla? Come?»
«Sto disegnando la sua nuova casa.»
«Tu conosci Britney Spears?» Blaire si protese per l'eccitazione, come
se le sue emozioni fossero direttamente collegate alla sua muscolatura,
senza l'intervento di un processo mentale fra stimolo e risposta.
«Sì, la conosco. E verrà a trovarmi qui a Washington tra due giorni. Per-
ché non vieni a conoscerla?»
«Non so se i miei genitori...»
Crosse alzò un dito e scosse il capo. «Dovrà essere il nostro segreto.
Britney non vuole che nessuno sappia che è in città. Devi solo trovare il
modo di venire da me, tra due sere. Alle nove. Al Mayflower Hotel. Sare-
mo nella suite presidenziale.»
«Ci verrò, in un modo o nell'altro» disse lei.
«Se vieni, ricordati di portarle qualcosa su cui farti l'autografo.»
Blaire ridacchiò eccitata. «Sono scappata per incontrarmi con Harry
prima, quando nessuno si aspettava che lo facessi.»
«È evidente» disse Crosse.
«So che non avrei dovuto» disse Blaire. «Tutti erano preoccupati. Tutti
mi cercavano. Ma ne è valsa la pena, sai? perché Eden è speciale. Divente-
rà davvero qualcuno. Lo sento.»

35

Clevenger aveva ricevuto una telefonata all'1.40 in cui North Anderson


lo informava che John Rosario aveva arrestato Billy per possesso di droga.
Lo aveva tenuto sotto chiave per un paio d'ore al commissariato di Chel-
sea, poi lo aveva trasferito nel carcere di Nashua Street a Boston, dov'era
trattenuto senza possibilità di cauzione. Il suo avvocato d'ufficio gli aveva
evitato il carcere di Middleton per via delle percosse che vi aveva ricevuto.
E aveva reso noto a tutti che il suo cliente non voleva visite.
Clevenger conosceva gli agenti di custodia di Nashua Street. Gli avreb-
bero permesso di vedere Billy "per sbaglio". Ma a dire il vero, lui non era
pronto a rivederlo... non dietro le sbarre. Né era pronto ad affrontare le sue
domande, che poi si riducevano alla richiesta di trovargli un avvocato con
le palle o di convincere il giudice a ripristinare la cauzione. E non era asso-
lutamente pronto allo sguardo indifferente che Billy gli aveva puntato ad-
dosso in Suffolk Street.
E così era andato in ufficio alle 4.30 del mattino e si era tuffato nel lavo-
ro, cercando di seppellire ciò che era morto, o stava morendo, in lui nella
caccia a un killer, come aveva già fatto tante volte in precedenza. Consultò
attentamente i fascicoli dell'FBI e della polizia locale su ciascuno dei delit-
ti, lesse tutto ciò che riuscì a trovare sulla Skull and Bones in Internet e ri-
passò l'elenco di Sutton.
Questa lista continuava a stupirlo: Henry R. Luce, fondatore di «Time» e
«Life»; Dean Witter, banchiere d'affari; Russell Davenport, direttore della
rivista «Fortune»; Potter Stewart, giudice della Corte Suprema; Harold
Stanley, fondatore della banca d'affari Morgan Stanley; Dino Pionzio della
CIA; Richard Gow, presidente della Zapata Oil; il deputato Jonathan
Bingham; il senatore John Chaffee; John Lilley e Winston Lord, entrambi
ambasciatori in Cina.
La lealtà alla società era il credo dei suoi membri. Gli esempi di devo-
zione abbondavano. Il figlio di un bonesman ricordava la prima volta in
cui aveva visto suo padre fare il bagno e aveva constatato che portava infi-
lata nella pelle del petto la spilla della Skull and Bones.
Quando il pensiero di Billy interruppe la sua concentrazione, Clevenger
considerò la possibilità di concedersi un drink e così finì per ingerire una
compressa di Antabuse. Sapeva che la maggior parte degli alcolisti del
programma di recupero in dodici tappe rideva di quel farmaco e lo definiva
una stampella, ma a lui, che era inciampato e malamente caduto più volte
di quante ricordasse, una stampella sembrava la cosa di cui in quel mo-
mento aveva bisogno.
Alle 13 era in riunione con Anderson nel suo studio e faceva il possibile
per mantenersi sveglio e concentrato.
«Ho telefonato alle famiglie delle vittime del Connecticut» disse Cle-
venger. «Ciascuna di loro si è fatta costruire una nuova proprietà: una nove
anni fa e l'altra sette anni fa. E la famiglia di Hastings nel Montana si è co-
struita una casa di vacanza a Parrot Cay nelle Turks e Caicos. Nessuno ha
voluto dirmi chi ha realizzato il progetto. Sono tutti vincolati da accordi di
segretezza.»
«E, cosa più importante, sono tutti bonesmen» aggiunse Anderson. Pau-
sa. «Ho frugato negli uffici progetti di Southampton, San Francisco, Chi-
cago e Miami. Ogni gruppo di progetti portava il timbro di un architetto
diverso. Due uomini, due donne.»
«E...» disse Clevenger.
«Nessuno di loro risulta iscritto all'ordine degli architetti americani o al-
tro. Nessuna traccia nell'elenco telefonico. Niente. Non esistono.»
«Ma non devono esibire un documento di identità quando depositano i
progetti?»
«Di solito vengono depositati dal general contractor, a volte dagli stessi
proprietari... da chiunque richieda il permesso di costruzione. E niente dice
che un impresario edile debba incontrarsi con l'architetto.»
«Che mi dici dell'elenco di Sutton? Hai cercato quanti architetti ci so-
no?»
«Potrebbe essere il nostro asso. Ho ingaggiato due addetti alle ricerche.
Finora hanno trovato solo otto architetti. Mi metterò sulle loro tracce nel
pomeriggio.»
«Dividiamoceli» suggerì Clevenger.
«D'accordo» disse Anderson, estraendo un foglio da un raccoglitore.
«Roger Grains, Manhattan; Johnson Alexander, Filadelfia; West Crosse,
anche lui Manhattan; John Bradford, Londra; Farleigh Smith, qui a Bo-
ston; Dennis Jay, Dallas; Paul Midland, Los Angeles. E ultimo, ma non
meno importante, Christopher Heinz, Washington. Tu prendi i primi quat-
tro, io gli altri?»
«D'accordo.»
Anderson divise il foglio in due e ne diede una metà a Clevenger. «L'u-
nico di cui non siamo riusciti a trovare la residenza attuale è Crosse e
quando ho detto che vive a Manhattan è perché ha lavorato per parecchi
anni in uno studio lì: il Jones & Alison Design. Ma nessuna delle persone
con cui ho parlato sembrava sapere dove fosse finito dopo che se n'era an-
dato. E non sono riuscito a trovarlo in nessun database o elenco telefonico
aggiornato.»
«Molto interessante.»
«Ho pensato anch'io la stessa cosa.»
«Comincerò da lui» disse Clevenger. «Se gli addetti alle ricerche ci for-
niscono altri nomi, possiamo spartirci anche quelli. Se finiamo per averne
troppi, assumiamo un investigatore privato.»
«Telefonerò ad Aaron Kaplan per dirgli che è dei nostri. A volte può es-
sere una spina nel fianco, ma è instancabile.»
«Lo sarò anch'io, ogni giorno.»
«Io comincerò con Smith, visto che è qui a Boston» disse Anderson.
«Poi però voglio controllare quel Dennis Jay di Dallas.»
«Perché proprio lui?» chiese Clevenger.
«Perché in Texas amano la pena capitale. Hanno giustiziato Karla Faye
Tucker, quella donna che in prigione era rinata, ti ricordi? Il papa aveva
chiesto che venisse graziata.»
«Credo di non capire» disse Clevenger.
«Semplice: se io fossi un killer, vorrei essere dove si ammazza» spiegò
Anderson. «Forse non lo saprei qui.» E si toccò la testa. «Ma lo saprei
qui.» E si mise una mano sul cuore.

36

Clevenger stava salendo sul volo della US Air delle 16 diretto all'aero-
porto LaGuardia quando il suo cellulare squillò. Era Whitney. «Ciao» ri-
spose.
«Dove sei?» chiese lei. Sembrava preoccupata.
Tutt'a un tratto, Clevenger si rese conto di quanto la sua fiducia in Whit-
ney era stata scossa dalla consapevolezza che suo padre era un bonesman.
Forse era un po' paranoico a buttarsi a capofitto nella folle teoria del com-
plotto, ma non riuscì a dirle che aveva telefonato a Laine Jones, socio an-
ziano dello studio Jones & Alison Design, e che stava andando a Manhat-
tan.
Jones aveva risposto con franchezza alla sua richiesta di informazioni su
West Crosse: voleva accertarsi di persona che Clevenger fosse davvero chi
diceva di essere, prima di fare commenti su un suo ex dipendente, ed era
disposto a incontrarlo per un drink al Pierre Hotel sulla Fifth Avenue, alle
18.30.
Per fortuna, in Clevenger la prospettiva di un drink dopo aver ingerito
una compressa di Antabuse si traduceva nell'immagine di se stesso che ca-
deva a terra morto o stava così male da desiderare di esserlo. In psichiatria
circolava il detto che nessuno poteva avere due reazioni all'Antabuse. O si
moriva o si imparava la lezione.
«Frank, mi senti?» chiese Whitney.
«Sono a Boston» si limitò a rispondere lui.
«Per vedere Billy?»
«No» rispose Clevenger. «Sono successe molte cose. Non è in disintos-
sicazione.»
«Lo so. È per questo che ti telefono.»
«Lo sai?»
«So più di quanto ne sappia tu in questo momento.»
Aveva il tono di un medico pronto a dare una cattiva notizia. «Whitney,»
disse Clevenger «che diavolo sta succedendo?»
«Oggi sul Massachusetts è piovuta una caterva di incriminazioni. I Roy-
als, la banda con cui ha a che fare Billy, è stata rastrellata. E lo stesso è ca-
pitato a un'altra banda chiamata Night Game, di Lynn e Somerville. Spac-
cio di eroina. Il nome di Billy è sulla lista.»
Clevenger si lasciò cadere lentamente su una poltrona dell'aereo. «Che
cosa?!» esclamò.
«Sanno che Billy è già sottochiave nel carcere di Nashua Street, ma a-
desso sarà incriminato anche per reati federali.» Fece un lungo sospiro.
«Perché non mi hai detto che era stato arrestato?»
«È successo così in fretta, che io...»
«La verità.»
Clevenger si strofinò gli occhi. «Non lo so. Credo di aver voluto in qual-
che modo tenere noi due separati da tutto questo.»
«Ti ripeto che va bene così. Tu devi fare tutto quello che è necessario
per lui. Noi siamo un'altra storia.»
Invece le due storie sembravano collegate, da sempre. «Quanti capi
d'imputazione?»
Lei esitò.
«Dimmelo.»
«Nove.»
«Cazzo.» Clevenger provò un senso di vertigine. Nove capi d'imputa-
zione per spaccio di droga potevano significare vent'anni in un carcere fe-
derale.
«Se collabora e aiuta a incriminare pesci più grossi, il computo cambia.
So che in questo momento non è facile per lui stare dalla parte della legge -
o dalla tua - ma sarebbe utile.»
Il computo. Sebbene la Corte Suprema avesse finito per abolire le sadi-
che e rigide direttive federali in materia di irrogazione della pena, direttive
che distribuivano decenni di carcere come caramelle, molti giudici conti-
nuavano ad attenervisi nei processi per reati di droga. Secondo tale siste-
ma, agli imputati veniva attribuito un certo numero di punti per ogni infra-
zione alla legge. I giudici si limitavano a sommarli, sottraendone alcuni nel
caso di imputati che denunciavano i loro fornitori, e poi spostavano il dito
un paio di colonne più in là e proclamavano quanti anni gli accusati - in-
clusi gli incensurati non violenti - avrebbero trascorso in carcere. Non c'era
nulla di salomonico in tutto ciò. Era come un distributore automatico di
giustizia.
«Non so se Billy vorrà collaborare» disse Clevenger. «Ho l'impressione
di non conoscerlo più.»
«La Drug Enforcement Administration ha diramato un comunicato
stampa al "Globe" e all'"Herald"» disse Whitney. «Con la divulgazione del
profilo di Billy - l'adozione e quant'altro, e tutti gli articoli usciti sull'argo-
mento - capisci bene che terranno gli occhi puntati su di lui.»
«Non c'è modo di evitarlo.»
«Adesso il ragazzo ha davvero bisogno di un avvocato. E ha davvero bi-
sogno di te.»
«Vedremo che cosa vuole lui.»
«Mi piacerebbe poter fare qualcosa. Mi sento malissimo.» Il suo tono lo
confermava.
«Sono contento di essere stato informato di quanto sta succedendo» dis-
se Clevenger. «E sono contento che sia stata tu a farlo.»
«Vuoi che ti raggiunga stasera?»
«Credevo che frequentassi qualcun altro.»
«Non dovresti pensare solo a questo.»
Il che non risolveva il problema. E, per qualche ragione, a Clevenger
non piaceva l'idea che Whitney si offrisse di venire a trovarlo proprio
quando sembrava probabile che Billy avrebbe visitato un carcere federale.
«Mi serve un po' di tempo per fare mente locale» disse.
«Nessun problema» replicò lei con tono deciso.
«È solo che...»
«Capisco perfettamente. Sul serio. Non è compito mio. Non è come se
fossi sua madre.»
Clevenger ebbe la sensazione che gli mancassero le parole.
«Chiamami per qualsiasi cosa, in qualsiasi momento, okay? Che si tratti
del caso, di Billy o di altro.»
«Lo farò.» Clevenger ripensò al fatto che non le aveva detto niente di
West Crosse e degli altri architetti, né del suo appuntamento con Laine Jo-
nes.
«Stammi bene» lo salutò lei.
«Anche tu.»

37

Laine Jones era un uomo alto e snello sulla cinquantina, con i capelli
ricci color grafite, gli occhi nocciola screziati d'oro e una fronte ampia che
faceva pensare a una notevole intelligenza. Dopo aver parlato, aveva l'abi-
tudine di fissare il suo interlocutore più a lungo del previsto, come per co-
gliere l'effettiva reazione a quanto aveva detto. Ciononostante, il suo
sguardo non metteva in imbarazzo. Al contrario, dava l'impressione che lui
apprezzasse la sincerità e che fosse una persona di cui ci si poteva fidare.
Indossava un abito cachi, una camicia bianca e scarpe da barca senza
calzini. Non aveva bisogno di vestirsi nel modo giusto per avere successo.
Era già l'architetto preferito di un elenco di clienti che sembrava l'annuario
delle celebrità.
«Sono contento di constatare che lei è chi ha detto di essere» commentò
dopo aver dato un'occhiata al tesserino di medico e a quello di psichiatra
legale di Clevenger. Il tono era diretto, ma gentile. Fece cenno a un came-
riere di avvicinarsi. «Mi dica perché le interessa tanto West Crosse.»
«A Yale è stato scelto per la Skull and Bones» spiegò Clevenger. «Pen-
siamo che gli omicidi abbiano un nesso con quella società.»
Gli occhi di Jones rimasero fissi su di lui. «È un sospettato?»
«No» si affrettò a rispondere Clevenger. «È uno dei tanti che stiamo cer-
cando di escludere dai sospettati.»
«Semantica» commentò Jones con un sorriso.
Il cameriere si avvicinò. «Che cosa posso servirvi?» chiese.
«Un bicchiere di merlot, per piacere» disse Jones. «Un Three Nuns del
novantasette.»
«Per me un caffè» disse Clevenger. «Nero, del duemilasette.»
Jones rise.
«Grazie, signori» disse il cameriere e se ne andò.
«E allora, che cosa può dirmi di Crosse?» chiese Clevenger a Jones.
«Un genio» fu la risposta. «È venuto a lavorare da noi dopo la laurea in
architettura e ci è rimasto fino a cinque anni fa. Era il migliore che abbia
mai visto o che mi aspettassi di vedere.»
«Esclusi i presenti, naturalmente.»
«No. Lui era migliore di me.»
«Che cosa lo rendeva tanto straordinario?» chiese Clevenger.
«Sapeva come usare lo spazio per creare vita. Pochissime persone sono
in grado di farlo.»
«In che senso?»
Jones appoggiò le mani sul tavolo. «Che cos'è questo?»
«Un tavolo.»
«Continui.»
«Di legno» aggiunse Clevenger. «Rettangolare. Circa sessanta per no-
vanta, per nove centimetri circa di spessore.»
«È di legno e ha queste dimensioni» ribatté Jones. «Ma, naturalmente, è
molto di più.»
«Okay...» disse Clevenger.
«Ci aiuta a essere umani.»
«Umani... Che cosa intende dire?»
«Tanto per cominciare, separa noi due quanto basta per sentirci a nostro
agio, ma non ci tiene troppo lontani. Dico bene?»
«Credo di essere d'accordo, fin qui.»
«Be', tutto ciò non è semplicemente successo. Qualcuno ha dovuto deci-
derlo. Un tavolo più corto andrebbe bene per gli incontri romantici, non
per quelli d'affari. Più lungo e più largo sarebbe utile se avessimo docu-
menti da esaminare, ma questo non è il luogo adatto per un'operazione del
genere. Così com'è, il tavolo favorisce la conversazione.» Passò la punta
delle dita sulla superficie di legno. «Il colore scuro suggerisce una certa
austerità. Dice che questo è un luogo per colloqui seri, come si conviene a
un albergo d'alto livello.»
«Un tavolo, insomma» commentò Clevenger.
Jones alzò un dito. «Ma c'è dell'altro. La sua collocazione in questa sala:
abbastanza lontano dagli altri per consentirci di parlare, ma non tanto da
farci sentire isolati.» Indicò con un cenno l'ampio corridoio che attraversa-
va il locale. «C'è spazio sufficiente perché qualcuno si avvicini a noi, se
mai volesse farlo, ma tale da permettere a estranei di passare senza sentirsi
costretti ad accorgersi di noi. Qualcuno che conosciamo potrebbe perfino
fingere di non vederci e tirare dritto. Anche queste sono state decisioni
prese da qualcuno.» Alzò gli occhi. «Il soffitto è magnificamente alto, ma
anche fittamente decorato. Calamita lo sguardo all'insù. Possiamo avere
pensieri elevati, ma i colori scuri e la cupola ci trattengono, ci tengono a
terra. Ci sentiamo innalzati, ma saldi.» Tacque e fissò Clevenger. «Noterà
che non ho sentito la necessità di gridare né di sussurrare. Non ho paura
che lei perda le mie parole, né che altri le ascoltino. L'acustica funziona. E
lo intendo nel senso più preciso del termine. Funziona davvero. Incoraggia
il dialogo, anziché il silenzio. E qualcuno...»
«...ha deciso anche questo. D'accordo.»
Jones annuì. «Molto bene. Allora capisce un po' quello che l'architettura
può fare e quello che West Crosse è già stato in grado di realizzare su scala
molto maggiore, facendo diventare vivo lo spazio e alimentando la vita in
esso.»
«Lei dev'essere rimasto molto deluso quando Crosse ha lasciato lo stu-
dio» disse Clevenger.
«No» ribatté Jones. «Non sono rimasto affatto deluso. Sono stato io a li-
cenziarlo.»
«Perché?»
Il cameriere servì il vino a Jones e il caffè a Clevenger.
Entrambi lo ringraziarono.
«Lei non beve?» chiese Jones.
«Oggi no» rispose Clevenger.
«Ah, è astemio.»
«Non da molto, ma... sì.»
«Congratulazioni.» Sfiorò l'orlo del bicchiere. «Mi dispiace di avere or-
dinato il vino.»
«Va benissimo. Una cosa va detta su noi alcolisti: siamo persone molto
egocentriche. Ci preoccupiamo non di ciò che gli altri bevono, ma solo di
ciò che possiamo bere noi. E io non posso... in nessun modo. Punto e ba-
sta.»
Jones bevve un sorso di vino. Storse la bocca e scosse la testa.
«Non è buono?» chiese Clevenger.
«È squisito.» Fece cenno al cameriere di avvicinarsi. «Ma io non lo vo-
glio.»
«Le ho detto...»
«Non condivido queste sciocchezze. Se il vino per lei è veleno, non tro-
verà posto al nostro tavolo.»
Il cameriere si avvicinò.
«Ho cambiato idea» disse Jones. «Se può portare via il bicchiere, passo
anch'io al caffè. Con latte a parte, per favore.»
«Benissimo» disse il cameriere. E portò via il vino.
Adesso era Clevenger che stava studiando in silenzio Jones, cercandovi
una traccia di ipocrisia senza trovarla.
«Dove eravamo rimasti?» chiese Jones.
«A Crosse. Lei lo ha licenziato.»
«Ah, sì. Lei mi ha chiesto perché l'ho fatto. Glielo dico subito: l'ho li-
cenziato perché era un artista.»
«Adesso non la seguo» dichiarò Clevenger.
Il cameriere portò il caffè per Jones.
Lui ne bevve un sorso. «Un artista o un poeta possono essere incapaci di
compromessi. Sono loro i padroni della tela o della pagina. Ma un architet-
to è sempre un coautore. Le esigenze dei clienti vanno rispettate, comprese
le loro paure, le loro stravaganze, la loro prudenza e via dicendo.»
«Crosse faceva troppe pressioni su di loro?»
«Li metteva al tappeto. Non voleva saperne di creare qualcosa che non
fosse uno spazio intatto dotato della potenzialità di rivoluzionare il loro
modo di vivere e di lavorare. Era talmente sicuro che i suoi progetti potes-
sero trasformare la loro vita da ritenere che dovessero spendere tutto il ne-
cessario per realizzarli. L'universo li avrebbe più che ricompensati. Ha por-
tato alcuni clienti al fallimento, altri al divorzio. Un nostro eccentrico cli-
ente che voleva un rifugio è arrivato all'appropriazione indebita di denaro
per portare a termine la fortezza di pietra con tanto di fossato che West gli
aveva progettato a Rye. È finito in carcere. Due coniugi hanno dato in ado-
zione i loro due gemelli quando West ha ideato per loro una casa in cui a-
vrebbero potuto dare di nuovo libero sfogo all'attrazione che sentivano l'u-
no per l'altra. Era un loft con un'unica stanza da letto.» Jones bevve un al-
tro sorso di caffè. «Nel nostro mestiere uno può recitare il ruolo dell'artista
tormentato - del purista - fino a un certo punto. Quando comincia a tor-
mentare i clienti, ha varcato il limite.»
Clevenger ripensò alle magnifiche dimore che aveva ammirato, con i lo-
ro accoglienti, magici atri, le biblioteche che invitavano alla riflessione, i
soffitti di vetro che facevano viaggiare la mente come leggere, sublimi vi-
sioni. E ricordò anche la mancanza di dolore mostrata da coloro le cui vite
erano state risistemate - riprogettate - da un omicidio. «Ma aveva ragio-
ne?» chiese a Jones.
«Ragione? In che senso?»
«I suoi progetti» rispose Clevenger. «Era arrivato a conoscere così bene
i suoi clienti che ciò che disegnava per loro aveva davvero il potere di libe-
rarli, anche se talvolta loro non se ne rendevano conto?»
«In alcuni casi, sì.» Jones annuì, pensieroso. «Potrei dire in tutti... se non
fosse stato per una cosa.»
«Quale?»
«Erano esseri umani.»
Clevenger non replicò, in attesa del seguito.
«Si può ristrutturare da cima a fondo un edificio o portare alla perfezio-
ne un progetto architettonico» continuò Jones. «O perlomeno ci si può an-
dare vicino. Ma le persone sono molto più difficili da riprogettare. Bisogna
capire da dove vengono - le loro storie, le loro speranze, le loro paure - non
soltanto dove dovrebbero arrivare. A volte possono farcela, altre volte si-
gnifica chiedere loro troppo, o forse non è il momento giusto per chiederlo.
Sono certo che lei, da psichiatra, capisce perfettamente tutto ciò.»
Clevenger pensò a Billy. «Lo capisco come psichiatra e lo capisco co-
me...» Stava per dire "padre", ma non era certo di potersi ancora fregiare di
quel titolo, non dopo il modo in cui Billy lo aveva guardato in Suffolk
Street, non dopo che il ragazzo rischiava di passare decenni in un carcere
federale. «...come essere umano».
«West non poteva accettarlo» disse Jones. «Non poteva accettarlo a ca-
sa.»
«A casa?»
«Non è un bel quadro.» Fece una pausa. «Ha lasciato la moglie, Lauren,
dopo che si è ammalata. Circa sette anni fa.»
«Ammalata?»
«Cancro al seno.»
«Ed è sopravvissuta?»
«Oh, sì. Ha affrontato l'inferno, ma ce l'ha fatta. È una donna molto co-
raggiosa.»
«E a che punto lui l'ha lasciata?»
«Questo è l'aspetto più interessante. Le è rimasto accanto durante la ma-
stectomia, la chemioterapia e tutto il resto. Quello che non riusciva a sop-
portare era l'imperfezione fisica che la malattia comportava. Me l'ha detto
in tutta sincerità. Lauren si è sottoposta a interventi chirurgici di ricostru-
zione - tre volte - ma lui non era soddisfatto del risultato. Ne era ossessio-
nato.»
«Avevano figli?»
«No. Lei era molto giovane quando lui se n'è andato: ventotto anni. Fa
ancora la modella, con una laurea in filosofia a Yale, per giunta.»
«Si è risposata?»
Jones annuì. «Poco dopo che lui ha lasciato lo studio.»
«E lui?»
«No, che io sappia. Non l'ho più visto né sentito. Dubito che rischiereb-
be un'altra volta.»
«Ha preso male il fatto che lei si sia risposata?»
«No.» Jones sorrise. «Non intendevo questo. Non credo che rischierebbe
di essere ingannato di nuovo dalla natura o dalla biologia o da quel che è.
Aveva sposato una modella con seni perfetti, poi ha scoperto che lei dove-
va farsene togliere uno e che nessun chirurgo al mondo poteva ricostruire
completamente ciò che Dio aveva progettato. West aveva bisogno di eser-
citare un controllo maggiore sugli eventi. Molto maggiore.»
«Sa dirmi dove posso trovare Lauren?»
«Certo.» Gli strizzò l'occhio.
Clevenger lo fissò. «Ebbene?»
«Venga stasera nel mio appartamento. Al 562 di Park Avenue. Potremo
cenare in pace. I bambini saranno già a letto.»
«Non capisco.»
«Sono io l'uomo che ha sposato Lauren, Frank. Quattro anni e mezzo fa,
due figli, nessun rimpianto.» Tacque e guardò Clevenger negli occhi. «Lei
mi ha chiesto se West conosceva i suoi clienti al punto che i suoi progetti
potevano davvero cambiarli in meglio, anche se loro talvolta non se ne
rendevano conto.»
«Sì.»
«In un suo modo strano, penso che lui sapesse che Lauren e io ci sa-
remmo messi insieme. Mi chiedo se molto di quello che mi raccontava di
lei - il suo coraggio durante la malattia, la sua intelligenza - non rispondes-
se al progetto di incuriosirmi. Considerato il modo con cui descriveva il
sesso con lei, quanto lei fosse intuitiva, quanto il suo corpo rasentasse la
perfezione perfino dopo gli interventi chirurgici... mi sono chiesto se il suo
licenziamento sia stato davvero un'idea mia, oppure sua, se lui fosse pronto
ad andarsene e volesse sistemare tutte le faccende rimaste in sospeso.»
«Ritiene che fosse un architetto tanto abile?» chiese ironico Clevenger.
«Lui era l'architetto. Se questo gli fosse bastato, se non avesse voluto
essere Dio, avrebbe potuto essere uno dei più grandi di tutti i tempi.»

38

Considerate tutte le cose brutte e sgradevoli da cui era circondato, Cle-


venger non poté trattenersi dal fissare Lauren Jones. Era un'oasi di bellez-
za: alta più di un metro e settanta, corpo flessuoso da ballerina, capelli
biondi e lisci, occhi azzurri luminosi, pelle perfetta, zigomi alti, labbra
piene. Era a piedi nudi e indossava jeans strappati al ginocchio e un body
nero con un'ampia scollatura. Ma questo era solo l'inizio. Il suo sguardo
soave, il suo collo aggraziato, il suo modo di piegare la testa di lato mentre
ascoltava rivelavano un livello di curiosità, intelligenza e garbo che era di-
sarmante. Anche la sua voce era particolare: sicura di sé, ma leggermente
malinconica e con un tocco di civetteria, come se potesse di tanto in tanto
aver bisogno di una spalla su cui piangere e ci fosse almeno una possibilità
che stesse cercando proprio la tua.
Lauren e suo marito erano seduti insieme a Clevenger nello studio del
loro appartamento di quattrocentocinquanta metri quadrati su Park Ave-
nue, un sontuoso ambiente con pareti rosso cupo, moquette rossa e oro,
opere di Matisse, Picasso e di nuove celebrità come Julian Schnabel e
Brian Farrell. Il pavimento era un parquet scuro di quercia, a listoni larghi
venti centimetri con un bordo di stelle di bronzo.
Lauren aveva appena finito di descrivere gli sforzi compiuti dal suo ex
marito West Crosse per ripristinare la struttura del suo corpo dopo la ma-
stectomia, portandola dai migliori chirurghi plastici di Manhattan, di Parigi
e di Milano. «Mi sentivo già abbastanza fortunata a essere viva» aveva det-
to. «Non avrei potuto esserlo di più se fossi tornata esattamente quella di
prima. Ma conoscevo West. Non sarebbe mai riuscito ad accettare nulla
che gli ricordasse ciò che avevamo passato insieme, meno che mai un ri-
cordo fisico. E io volevo aiutarlo a superare questo fatto, nel modo in cui
lui aveva aiutato me quand'ero malata.»
Ciò che avevamo passato insieme... Il modo in cui aveva aiutato me...
Lauren gli dava ancora tanto credito. «Perché lui non riusciva a farsene
una ragione?» chiese Clevenger.
«Penso che ne avesse abbastanza di cose brutte» rispose lei.
«In che senso?» chiese Clevenger.
«Suo padre.»
Padri e figli. I peccati di una generazione che passavano a un'altra. Cle-
venger lo sapeva perfettamente, ma sentirlo adesso servì a ricordarglielo.
«Non c'è un male originario nel mondo. Ogni essere umano non fa che ri-
ciclare il dolore. Che cosa c'entrava il padre di Crosse?»
«Aveva contratto la poliomielite quando West aveva sette anni e ne era
rimasto storpiato.»
«Non si è più alzato dalla sedia a rotelle» aggiunse Laine Jones. «E ciò
ha prostrato la famiglia economicamente. Povera in canna.»
«C'era di mezzo qualcosa più del denaro, comunque» precisò Lauren.
Clevenger aspettò di sentire il seguito.
«Suo padre era cambiato» continuò lei. «Si sentiva impotente e voleva
dimostrare di essere ancora nel pieno delle sue facoltà esercitando il con-
trollo su ogni persona e ogni cosa intorno a lui. West era il suo unico fi-
glio. È cresciuto nel timore di accendere una luce, girare la manopola del
riscaldamento o aprire il frigorifero senza il permesso. Ogni mattina prima
che West andasse a scuola, suo padre pretendeva di vedere com'era vesti-
to... questo fino ai sedici anni. Inoltre beveva e, quando lo faceva, picchia-
va la madre di West.»
«West non riusciva a difenderla» osservò Clevenger.
«Né lei né se stesso» confermò Lauren. «È arrivata quella malattia, ha
rovinato il padre e la famiglia e non c'era nulla, proprio nulla, che West po-
tesse fare. Ha tentato di convincere la madre ad andarsene portandolo con
sé, ma lei non ha voluto. Così hanno continuato a soffrire. West è sempre
stato convinto che avrebbe potuto fare molto di più nella vita se solo la
madre avesse avuto il coraggio di andarsene.»
«Come si è espresso al riguardo?» chiese Laine Jones alla moglie. «Non
me lo ricordo con esattezza.» Lanciò un'occhiata a Clevenger. «Qualcosa
di decisamente morboso, patologico.»
Se Clevenger si era chiesto perché Laine Jones fosse stato così affabile
con lui, perché lo avesse portato subito a casa sua a conoscere sua moglie,
ora lo sapeva. Gli piaceva l'idea che Crosse potesse essere un mostro. Vo-
leva che Lauren sentisse dire che il suo ex marito era sospettato di essere
un serial killer, probabilmente perché non era del tutto certo che lei avesse
cessato di amare West.
Forse era proprio così. Forse il progetto di Crosse per Laine e Lauren
Jones aveva un difetto di fondo: Laine Jones semplicemente non era West
Crosse.
«Ne ha parlato una volta sola» rispose lei sulla difensiva. «Io non ho re-
agito bene.»
«A me può dirlo» la esortò Clevenger. «Ne ho sentite di tutti i colori.»
«Diglielo» la incalzò Laine. «È importante. Stiamo parlando di sette o-
micidi.»
«Ha detto...» Si fermò, si strinse nelle spalle, poi piegò la testa di lato in
quel suo modo straordinariamente aggraziato. «Ha detto che lui e sua ma-
dre vivevano con un cadavere che lei non aveva avuto il coraggio di sep-
pellire.»
Interessante, dal momento che il killer non seppelliva mai le sue vittime.
«E lei come ha reagito?» volle sapere Clevenger.
«Gli ho detto che aveva bisogno di uno psichiatra» rispose Lauren con
un sorriso.
«Direi che è arrivato il momento» osservò Clevenger. «Come faccio a
trovarlo?»
«Non ne ho idea» disse Lauren.
Clevenger tenne lo sguardo fisso su di lei.
«È scomparso» spiegò Laine. «Aveva alcuni clienti molto legati a lui
che hanno cercato di rintracciarlo, ma nessuno ci è riuscito, che io sappia.»
Per un istante lo sguardo di Clevenger si posò sul seno di Lauren. Lui si
costrinse a riportarlo sui suoi occhi. «Solo per curiosità, la sua terza opera-
zione è stata l'ultima?» le chiese.
«Come, prego?» ribatté lei.
«Mi chiedevo se lei avesse subito un altro intervento chirurgico dopo
che il suo rapporto con il suo primo marito è finito. Oppure ha continuato a
sentirsi fortunata a essere viva?»
«Che cos'ha a che fare questo con...?» cominciò a dire Laine Jones.
In realtà lui non voleva la risposta a quella domanda, stava pensando
Clevenger quando Jones si interruppe.
Un che di gelido e rabbioso balenò negli occhi di Lauren Jones per un
brevissimo istante, un fuggevole segno che era un essere umano, non una
dea, che era soggetta a ondate di emozioni come tutti. «Ho subito altre due
operazioni» rispose. «Penso che lo shock di affrontare la mia mortalità fos-
se passato. Avevo sufficienti risorse emotive per riprendere a pensare al
mio corpo.»
«Non c'è nulla di anomalo in questo» commentò il marito.
«Assolutamente nulla» convenne Clevenger. «Si è fatta operare qui negli
Stati Uniti?» chiese poi, a Lauren.
«In Argentina» rispose lei. «A Buenos Aires.»
«Voi due ci siete andati insieme?» chiese Clevenger. «È un posto molto
bello. Ci sono stato un paio di volte, sempre soggiornando nell'hotel dentro
al vecchio El Porteño, quell'albergo era una vera e propria fabbrica.»
«È straordinario, vero?» disse Lauren. «L'architetto è Phillippe Starck.
Mi sarebbe piaciuto che Laine lo vedesse.» Lo guardò con amore. «Ci so-
no andata da sola. Non è il genere di cose che si ha voglia di fare in cop-
pia.»
A meno che, si disse Clevenger, lei non fosse ancora con West Crosse.
Con lui era andata da chirurghi di Parigi e di Milano.
«Sarà per la prossima volta» disse Laine.
«A proposito, chi era il chirurgo a Buenos Aires?» chiese Clevenger a
Lauren. «Ho un amico cui farebbe molto piacere avere un referente là.»
Lei esitò.
«Non si trattava di Vega?» intervenne Laine.
«Ma certo» confermò lei, scuotendo la testa. «Forse sono io ad aver bi-
sogno di uno psichiatra. La mia memoria non è più quella di una volta. En-
rique Vega.»
«Penso che sia considerato il miglior chirurgo plastico del mondo» spie-
gò Laine. «Ho parlato di lui con alcuni medici qui da noi e uno ha detto
chiaro e tondo: "Dopo che ti sei rivolto a Enrique non puoi rivolgerti a nes-
sun altro, a parte Dio".»
«E lui è stato all'altezza di questo giudizio?» chiese Clevenger. «Non in-
tendo fare il ficcanaso.»
Lauren sorrise e lanciò un'occhiata a Laine.
«In modo perfetto» rispose lui. «Quell'uomo è un genio.» Strizzò l'oc-
chio. «Gli sarò debitore in eterno.»

39

Clevenger telefonò a North Anderson non appena uscì dall'incontro con


Lauren e Laine Jones. Erano le 22.55.
«Com'è andata oggi?» gli chiese Anderson.
«Tutto quello che ho per ora sono impressioni. Ma a quel Crosse indub-
biamente piaceva riorganizzare la vita delle persone. Domani mattina vado
allo studio Jones & Alison Design per dare un'occhiata ai progetti che ha
fatto quando ci lavorava e vedere se hanno qualche affinità con la casa dei
Groupmann o degli altri.»
«L'architetto di Boston, Smith, non ha voluto dirmi niente. Mi trovavo
nel suo ufficio da trenta secondi, quando il suo avvocato ha telefonato per
dirmi che mi avrebbe inviato copia dei documenti di viaggio del suo clien-
te. Si tratta di prenotazioni di voli, ricevute dell'American Express, perfino
deposizioni giurate di due piloti e del direttore di un albergo di Istanbul.
Smith ha lavorato a un progetto lì per gran parte dell'ultimo anno, compre-
si lunghi periodi prima e dopo il ritrovamento dei cadaveri.»
«Adesso ti occupi di Dallas? Dennis Jay?»
«Ho fatto una telefonata. È a Londra. Questi architetti viaggiano tanto.
Proverò con quello di Filadelfia.»
«Avrei bisogno del tuo aiuto per una cosa che riguarda Crosse.»
«Spara.»
«Ho conosciuto la sua ex moglie, Lauren. Ha sposato il suo ex datore di
lavoro, Laine Jones.»
«Tutto in famiglia, eh?»
Per qualche ragione questo portò Clevenger a pensare al messaggio che
il presidente aveva ricevuto dal killer:

Un paese alla volta o una famiglia alla volta,


la nostra opera è al servizio di un unico Dio.

«È comodo, non c'è dubbio» osservò Clevenger. «Adesso lei si chiama


Lauren Jones. Mi ha detto che è stata paziente di un chirurgo plastico di
Buenos Aires che si chiama Enrique Vega. A quanto sembra, le ha rico-
struito il seno dopo una mastectomia. Vorrei sapere se è vero.»
«Controllo» disse Anderson.
«Potresti incappare in problemi di privacy.»
«Farò telefonare da mia moglie, che si spaccerà per Lauren Jones e chie-
derà una visita di controllo. Se non hanno mai sentito parlare di lei, avre-
mo la risposta.»
«Vediamo che cosa salta fuori.»
«Potremmo incaricare l'FBI di contattare l'Interpol. Sono certo che in un
modo o nell'altro possono tirar fuori la sua cartella clinica.»
«Se Crosse è il nostro uomo, vorrei arrivare al punto di passare la palla a
Whitney perché la mandi in rete. Ma temo che tu abbia ragione: la politica
potrebbe interferire.»
«Appunto. Siamo tu e io, fratello.»
«Sembra che vada sempre a finire così» disse Clevenger. Gli venne un
altro pensiero. «Se riesci a mandarmi sul cellulare un gruppo di foto delle
scene del crimine - soprattutto quella di Chase Van Myer - forse potrei uti-
lizzarle.»
«Vuoi convertire qualcuno?»
«Mettiamola così: quando si è belli come Lauren Jones, può essere diffi-
cile immaginare quanto brutto possa essere un omicidio. Vedere per crede-
re.»

40

17 agosto 2005, ore 7.05

Clevenger finì la seconda tazza di caffè e guardò fuori dalla vetrina della
pasticceria. Da dov'era seduto riusciva a vedere il portone della casa dei
Jones al 562 di Park Avenue. Ordinò una terza tazza di caffè.
Laine Jones gli aveva proposto un incontro alle 8 allo studio Jones & Al-
ison Design, ad alcuni isolati da lì, al 222 di Madison Avenue. Aveva
promesso di fargli esaminare alcuni progetti architettonici di West Crosse.
Dieci minuti dopo, Clevenger vide Jones uscire dal portone e prendere
posto sul sedile posteriore di una berlina nera. La vettura si mise in moto.
Clevenger si alzò, pagò il conto e si diresse al 562 di Park Avenue.
«Posso esserle di aiuto?» chiese il custode.
«Devo vedere Lauren Jones» rispose Clevenger.
«Chi devo dire?»
«Il dottor Clevenger.»
Il custode sollevò il ricevitore di un telefono fissato alla parete e digitò
un numero.
Qualcuno gli rispose.
«C'è il dottor Clevenger per lei, signora Jones.» Rimase in ascolto, poi,
scostando il ricevitore dall'orecchio e premendoselo contro il petto, disse
rivolto a Clevenger: «Il signor Jones è appena uscito. Pensava che doveste
incontrarvi nel suo ufficio».
«Ci sto andando» confermò Clevenger. «Ma prima volevo vedere Lau-
ren... solo per pochi istanti, se la signora ha tempo.»
Il custode riferì il messaggio nel ricevitore, aspettò la risposta e riaggan-
ciò. «Appartamento 17E» disse. «L'ascensore è là.»
Il cellulare di Clevenger squillò. Lui diede un'occhiata al display: North
Anderson. «La ringrazio» disse al custode. Poi, mentre si avviava all'a-
scensore, rispose alla chiamata. «Che cosa c'è?»
«Persone gentilissime, in Argentina. Mia moglie ha parlato personal-
mente con Enrique Vega. Un luminare della medicina. Cercalo su Google
e scoprirai che è il chirurgo plastico per eccellenza. Ma è anche un essere
umano. Si è scusato con mia moglie, ma le ha detto di non ricordare di a-
ver mai avuto in cura una Lauren Jones. Mia moglie gli ha detto che a vol-
te usa il suo nome da nubile, Lauren Crosse. Ancora niente. L'ha fatta per-
fino rimanere in linea per chiedere alla segretaria se non avesse dimentica-
to una paziente. Non era così.»
«Come immaginavo.»
«Che cosa intendi dire?»
Il custode dava segni di inquietudine vedendo Clevenger fermo davanti
all'ascensore.
«Ti richiamo più tardi» disse ad Anderson.
«D'accordo.»
Chiusero la comunicazione.
Clevenger salì in ascensore al diciassettesimo piano e percorse il lungo
corridoio verso l'appartamento 17E. Suonò il campanello.
Di lì a qualche minuto venne ad aprirgli Lauren Jones. Indossava una
vestaglia bianca di seta e spugna, ma non aveva l'aria di chi si è appena al-
zata dal letto. Aveva i capelli perfettamente pettinati, il mascara sugli oc-
chi, una collana di perle e orecchini con diamanti. «Che sorpresa!» escla-
mò. «Entri, la prego.» Si avviò verso la cucina. «Se vuole, può aspettarmi
in soggiorno.»
«Ma certo.» Clevenger entrò nel soggiorno, che in realtà era piuttosto
una biblioteca con caminetti, pareti di un giallo-arancione brillante, pelli di
animali come tappeti, un dipinto di due metri per quattro raffigurante due
alci che combattevano incrociando le corna. Fotografie in cornici d'argento
e libri riempivano i ripiani lungo una parete.
«Posso offrirle qualcosa?» gli chiese Lauren dalla cucina.
«No, grazie. Sono a posto.» Clevenger diede un'occhiata alle foto:
splendidi scatti in bianco e nero di Lauren che camminava sulla spiaggia,
di Lauren che giocava con la figlioletta di tre anni e il figlio di quattro a
Central Park, di Lauren e Laine che ballavano a due serate di gala, di tutta
la famiglia perfetta in barca a vela. Sembravano gli originali delle fotogra-
fie che sono abbinate alle cornici quando le si acquista: c'era un che di ir-
reale, di artefatto in loro.
Lauren entrò nel soggiorno con una tazza di tè, si sedette a un'estremità
di un divano di velluto rosso con grandi cuscini con le iniziali di famiglia
ricamate in oro. «Si accomodi» disse accennando all'altra estremità del di-
vano.
Clevenger si sedette.
«E così voleva vedermi prima di incontrare mio marito.» Il tono della
voce era non meno forte, o gentile, o esitante della sera prima.
Clevenger dovette distogliere un attimo lo sguardo per ricomporsi. La
bellezza di Lauren era seducente. «Sì» confermò.
«Perché?»
Clevenger riportò lo sguardo su di lei e notò che la vestaglia si era aperta
a scoprirle maggiormente il seno. Riusciva a vedere la parte superiore di
uno dei suoi perfetti capezzoli color ambra. Lauren era una statua greca in
carne e ossa. «Perché io penso che la verità ha sempre un prezzo» spiegò.
«E non vedo perché lei debba pagare più del necessario. Suo marito non
deve sapere ciò che ci diciamo adesso.»
Lei lo guardò socchiudendo gli occhi. «Come, prego?»
«In realtà io faccio solo una cosa al mondo. Ascolto storie. Ascolto per
capire se hanno senso. E, quando ho ascoltato lei, non ho mai sentito per-
ché ha rotto con West Crosse. Capisco perché lui ha lasciato lo studio di
architettura. Capisco perché se n'è andato chissà dove e perfino perché vi-
ve isolato. Ma non capisco perché mai dovesse lasciarla.»
«Gliel'ho detto. Non ero più perfetta.»
«Ma lei non ha mai smesso di cercare di esserlo, vero? Quasi come se
volesse piacergli ancora. Basta darle un'occhiata adesso.»
«Dovrebbe guardare più da vicino. Dopo due figli, è solo apparenza.»
Falsa modestia. Clevenger abbassò lo sguardo e annuì tra sé. Era giunto
il momento. La guardò negli occhi. «È vero che Enrique Vega è uno dei
migliori chirurghi plastici del mondo» disse. «Ma lei non è mai stata ope-
rata da lui, vero?»
Lauren non rispose.
«Penso che lei probabilmente sia andata a Buenos Aires e penso anche
che probabilmente abbia soggiornato a El Porteño. Perché queste sono co-
se che potrebbero essere controllate. Laine potrebbe farlo.»
«Sa una cosa? Lei sta superando i limiti.» Si alzò in piedi. «È meglio che
se ne vada.»
«Mi conceda trenta secondi.»
«E perché dovrei?»
Ancora una volta, un che di rabbioso balenò nel suo sguardo. Da dea
Lauren si trasformò in donna. Il che la rese ancora più attraente. «Perché
lei è una persona buona ed è intelligente. In cuor suo, non vuole avere
niente a che fare con degli omicidi. E lei sa che l'uomo che ama potrebbe
aver varcato il confine tra genialità e follia.»
Lauren evitò di guardare Clevenger, ma si sedette di nuovo.
«Lei è andata a Buenos Aires ed è stata operata. Ma a farlo non è stato
Enrique Vega.» Un breve silenzio. «È stato West Crosse.»
«Il folle è lei» disse Lauren, stringendosi nella vestaglia.
«Crosse può aver lasciato perdere colleghi e clienti che non riuscivano a
tenere il passo con il suo intelletto e la sua passione, ma non ha mai ab-
bandonato lei. Lei voleva tornare perfetta e anche lui lo voleva. Perché al-
lora avrebbe potuto amarla di nuovo. Solo allora. E dal momento che nes-
sun chirurgo era in grado di farlo, si è impadronito lui stesso di quell'arte.»
Lauren lo guardò, senza dire nulla.
Clevenger estrasse il cellulare dalla tasca. «Ho alcune immagini da mo-
strarle. Enrique Vega può essere grande. West Crosse va oltre. È il mae-
stro. Dia un'occhiata qui.» Accese il cellulare e selezionò una fotografia di
Chase Van Myer, con le orbite dissezionate. La fece vedere a Lauren.
Sul suo volto comparvero incredulità, orrore e dolore.
Clevenger premette un tasto e passò all'immagine di Chase nuda, legata
a una poltrona nel Pritzer Pavilion di Frank Gehry.
Lauren chiuse gli occhi.
«Ce ne sono altre. Molte altre.»
Lei deglutì e guardò di nuovo il display del cellulare.
Clevenger passò alle foto della spina dorsale di Jeffrey Groupmann, del
cuore di Ron Hadley, del rene di Gary Hastings.
Sul volto di Lauren si dipinse la confusione.
«Il rene» disse Clevenger. «Perfettamente dissezionato.» Tacque un i-
stante, premette un altro tasto e richiamò una foto di Hastings con la divisa
da baseball, sei mesi prima della morte. «È il rene di un ragazzo di dodici
anni.» Continuò a digitare tasti. Una foto di Heather Rawlings nuda, in-
chiodata a una croce, poi un primo piano del suo collo dissezionato. «È più
bravo di qualunque anatomo-patologo o chirurgo che io abbia mai visto.»
Da un occhio di Lauren spuntò una lacrima, che corse lungo la guancia.
Lei l'asciugò.
Clevenger tornò all'immagine di Hastings. La lasciò in bella mostra sul
display davanti a loro, come se il ragazzo fosse un testimone di quel mo-
mento. «Lei sa dov'è Crosse, Lauren. Me lo dica. Perché se lei non lo fa e
se lui è l'autore di tutto ciò, altre persone moriranno, proprio come è morto
questo ragazzo. E se questo non la farà sentire assai meno che perfetta,
nessuno al mondo potrà aiutarla. Allora non le resterebbe davvero che ri-
volgersi a Dio.»

41

Clevenger chiamò North Anderson dalla strada, fuori dal 562 di Park
Avenue.
«Ciao, Frank» rispose Anderson.
Clevenger fermò un taxi. «Dove sei?»
«Al Logan. Tra venti minuti ho l'aereo per Filadelfia.»
«Cambio di programma. Resta in linea.» Salì sul taxi. «All'angolo tra la
Madison e la Trentottesima» disse al tassista. Poi riprese a parlare nel cel-
lulare: «Andiamo tutti e due a Washington».
«Perché? Che cosa sta succedendo?»
«Esco ora da una chiacchierata con Lauren Jones. West Crosse è allog-
giato al Mayflower Hotel come William Russell.»
«William Russell? Non era quel tale che dirigeva la Skull and Bones nei
primi tempi?»
«Ha fondato la società nel 1832, ti ricordi? Pare che abbia fatto fortuna
contrabbandando oppio dalla Turchia alla Cina.»
«Che cosa ci fa Crasse a Washington sotto pseudonimo... e proprio quel-
lo pseudonimo?» chiese Anderson.
«Bella domanda. Lauren Jones avrebbe dovuto incontrarlo lì stasera. Lui
le ha detto che voleva vederla perché non avrebbe più potuto farlo per mol-
to tempo.»
«Come avrebbe detto un mio amico psichiatra legale: "Non può essere
una buona cosa".»
«Sembra di no. Sto andando allo studio Jones & Alison Design per dare
un'occhiata ai progetti di Crosse. Penso che se tu potessi andare a Washin-
gton e almeno individuarlo - se ci riesci, anche seguirlo - sarebbe un bel
passo avanti.»
«Sto andando alla biglietteria.»
«Se tu riuscissi a trovare un computer, potresti scaricare una sua foto da
Internet.»
«Posso collegarmi alla rete con questo cellulare.»
«Ottimo.»
«L'istinto ti dice che è lui il nostro uomo?» chiese Anderson.
«Mi tenevo in serbo il più bello: è stato lui a ricostruire il seno dell'ex
moglie dopo la mastectomia.»
«Lui... cosa?»
«L'ha rifatta. Lauren dice che i due chirurghi plastici che hanno lavorato
su di lei non si sono nemmeno avvicinati al risultato da lui raggiunto.
Crosse ha una biblioteca di trattati di anatomia e chirurgia grande quanto
quella di moltissime facoltà di medicina.»
«Sei pronto a prendere a bordo Whitney?»
Clevenger sapeva che gli sviluppi del caso lo richiedevano. E, allora,
perché esitava? Perché doveva fare da solo quando poteva avvalersi delle
risorse dell'FBI? Credeva davvero che la devozione alla Skull and Bones
superasse quella di Whitney al suo lavoro, al principio della legalità? «Sì,
lo farò» rispose. «Le telefonerò prima di partire per Washington e vedrò se
può incontrarmi in città.»
«Ci vediamo là» lo salutò Anderson.
«Chiamami quando arrivi al Mayflower.»
«Senz'altro.»
Chiusero la comunicazione.
Due minuti dopo il taxi di Clevenger si fermò davanti al 222 di Madison
Avenue.
Pagò la corsa e salì allo studio Jones & Alison Design, al ventitreesimo
piano. La segretaria lo accompagnò nella sala riunioni.
Laine Jones lo stava aspettando.
«Buongiorno, Frank» disse e gli tese la mano.
Clevenger gliela strinse.
«È tutto pronto» lo informò Laine e indicò con un cenno del capo il ta-
volo coperto da sei progetti architettonici. «Ho scelto quelli del periodo in
cui West è stato qui» disse. «Il suo stile è leggermente cambiato - uso dei
materiali e quant'altro - ma penso che i temi centrali del suo lavoro siano
rimasti costanti.»
Clevenger fece lentamente il giro del tavolo osservando i progetti, sfo-
gliando i disegni. La sua convinzione di avere davanti a sé l'opera dell'uo-
mo che aveva ucciso Jeffrey Groupmann, Chase Van Myer e gli altri andò
rafforzandosi. Ogni centimetro quadrato dei disegni era coperto di esau-
rienti annotazioni sul colore, il legno, la pietra e il metallo necessari e di
specifiche direttive sulla costruzione. E in ogni progetto c'era quel magico
uso dello spazio e della luce che Clevenger aveva notato a Pacific Heights,
a Southampton e a Chicago. Soffitti di vetro con incisioni, fitte intersezioni
di travi che si elevavano al cielo, interminabili sequenze di lunette a venta-
glio.
Soprattutto, ciò che i progetti rivelavano era la sensibilità di Crosse per
le vicende esistenziali dei suoi clienti. Un collezionista di automobili a-
vrebbe avuto un garage nel quale le sue vetture sarebbero state sistemate
su rampe lungo il lato interno delle pareti, lasciando libero il centro. Due
coniugi in seconde nozze che volevano mantenere la reciproca indipenden-
za pur convivendo avrebbero abitato in una casa di ottocento metri quadra-
ti che in realtà ne conteneva tre: cinque stanze per lei da un lato, cinque per
lui dall'altro e dieci comuni in mezzo. Un commediografo avrebbe avuto
un anfiteatro con il tetto apribile e un palcoscenico di ebano con il motto di
Mark Twain: "Ogni arte è una menzogna che dice la verità" in caratteri di
bronzo.
Ma, a quanto pareva, Crosse era andato oltre l'uso dello spazio per ono-
rare storie di vita. Aveva progettato le storie stesse.
Clevenger notò una piccola croce tracciata a penna sull'angolo superiore
destro di ciascun disegno. «Crosse usava le croci come simbolo religioso
qui? Oppure hanno un significato architettonico che ignoro?» chiese a Jo-
nes.
«Non hanno nessun significato speciale in ambito architettonico. West le
ha messe su ogni disegno dei vari progetti da lui preparati mentre era qui»
disse Jones. «Per molto tempo le abbiamo considerate una sorta di sigla, al
posto delle iniziali o del cognome. Ma poi lui ha cominciato a parlare e-
splicitamente della sua devozione a Dio. A lungo andare è diventato un ve-
ro problema.»
«In che senso?»
«Non volevo certo contrastare la sua devozione. Ma c'era in essa una
componente missionaria che metteva le persone molto a disagio.»
«Dava l'impressione di volerle convertire? Salvare?»
«Certo, ma ancora di più: dava l'impressione di voler salvare se stesso,
di servirsi di Dio nel modo in cui altri si servono dell'alcol o delle droghe:
come forma di evasione.»
«Da che cosa?» chiese Clevenger.
«Be', questo in realtà è il suo campo, Frank. Io direi da tutto il suo passa-
to. Dalla poliomielite di suo padre. Dalla sedia a rotelle. Dall'essere cre-
sciuto in povertà. Dalla rabbia e dal sentimento di impotenza. Quasi nes-
suno qui sapeva della sua infanzia, ma penso che la gente percepisse un
autentico caos sotto la superficie. E penso che temesse che la religiosità al-
la fine non sarebbe bastata a tenere a freno Crosse e che lui avrebbe potuto
sbarazzarsene e diventare violento.»
Clevenger si rese conto che gli veniva offerta una teoria del perché
Crosse poteva essere il killer e che Jones aveva tutto l'interesse a fargliela
accettare. Il che, peraltro, non la rendeva falsa. «Perché lo ha tenuto con sé
così a lungo?» chiese.
«La verità?» Jones sorrise, ma solo per un istante. «Lo studio era giova-
ne.» Indicò con un cenno del capo i disegni sul tavolo. «Mi servivano
quelli» disse. Poi guardò Clevenger. «E volevo Lauren.»

42

West Crosse aveva noleggiato un Cessna Citation X per rientrare a


Thunder Bay. Atterrò alle 9.05. L'aereo lo avrebbe aspettato per il volo di
ritorno alle 17.
Una limousine lo portò a casa. Voleva stare il più possibile nello studio
per mettere a punto schizzi più dettagliati del Museo della Libertà da pre-
sentare a Elizabeth Buckley il mattino dopo.
Ma aveva altro da fare prima di tornare a Washington. I suoi progetti per
i Buckley andavano ben oltre un ampliamento dell'ala est. Crosse avrebbe
liberato la famiglia presidenziale dal terrore della loro figlia malriuscita e
incrementato il potere del presidente di liberare la gente nel mondo.
Crosse nei cinque anni dopo che aveva lasciato lo studio Jones & Alison
Design non aveva votato, aveva lasciato New York, aveva abbandonato
tutti gli inutili compromessi e le mezze verità e si era totalmente e irrevo-
cabilmente dedicato alla visione di Dio. Adesso era seduto alla sua scriva-
nia intento a compilare il modulo dell'ufficio elettorale dello stato di New
York, mettendovi l'indirizzo di un monolocale al Greenwich Village che
aveva affittato cinque mesi prima e sostituendo la sua appartenenza al Par-
tito repubblicano con quella al Partito democratico. Chiuse la busta, l'af-
francò e la mise da parte.
Accese il computer e si collegò al sito web di Bradley Jay, il più liberal
degli ospiti di un talk show radiofonico, dove premette il tasto per l'invio
di commenti e mandò un messaggio:

Come possono un presidente e una first lady capire a fondo la


sofferenza di coloro che hanno perso figli e figlie in guerra quan-
do non hanno mai sofferto la perdita di un figlio? Il partito di A-
braham Lincoln, il quale aveva conosciuto il dolore di perdere
non uno ma due figli, un tempo è stato il mio. Adesso non più.
West Crosse

Poi si collegò ai siti di Jack Forbes - avversario del presidente Buckley


nelle ultime elezioni - del Democratic National Committee, del «New
York Times», di una decina di altri giornali liberal, del MoveOn.org, del
Common Cause, dell'American Civil Liberties Union, e spedì a ciascuno lo
stesso messaggio.
Spense il computer. Dal cassetto della scrivania estrasse un foglio inte-
stato e vi scrisse a mano lo stesso messaggio. Tracciò a penna una minu-
scola croce nell'angolo del foglio, lo piegò e lo mise in una busta che indi-
rizzò al presidente Warren Buckley alla Casa Bianca.
Si alzò dalla scrivania e percorse un tortuoso corridoio di pietra verso
una biblioteca su due piani, sul cui soffitto di vetro a cupola era incisa una
mano protesa. La mano di Dio.
Un'intera parete di ripiani, dal pavimento al soffitto, era zeppa di testi di
chirurgia e anatomia.
Crosse prese alcuni volumi: Grant's Atlas of Anatomy; Basic Human
Anatomy di Ronan O'Rahilly; Gross Anatomy di Ben Pansky; Obstetric
and Gynecologic Surgery di Naomi Nicholi e Principles and Practice of
Vascular Surgery di Randolph Maloney. Li depose su un tavolo di mogano
lungo tre metri in cui erano intarsiati lo stemma dell'università di Yale e
l'emblema della Skull and Bones, il teschio e le tibie incrociate sopra il
numero 322, che stava a significare il 1832, anno in cui era stata fondata la
loggia di Yale, e il fatto che era la seconda loggia del genere in una rete in-
ternazionale.
Si mise seduto e cominciò a studiare.
Cominciò con il Grant's Atlas, aprendolo al capitolo 3, dedicato a peri-
neo e pelvi. Si soffermò sul diagramma 3-11, pelvi femminile, sezione
mediana.
La grandezza di Dio era visibile ovunque: nelle tube destinate a con-
giungere uovo e sperma, nell'utero destinato a custodire la nuova vita e a
consegnarla al mondo. E la perversione di quella grandezza da parte di
Blaire Buckley, nubile e geneticamente inabile, lo nauseò.
Ciò che lui avrebbe creato la notte seguente sarebbe sembrato orripilante
agli altri. Mostruoso. Lo sapeva. Ma per lui sarebbe stato di una bellezza
inesprimibile a parole. Perché l'avrebbe creato nel nome del Signore e per
la causa della libertà, senza prendersi alcun merito personale per la sua
perfezione: a Dio tutta la gloria.

43

Clevenger atterrò al Reagan International di Washington alle 14.30.


Controllò il cellulare mentre usciva dal terminal e constatò che aveva perso
quattro chiamate: una di North Anderson e tre di un anonimo.
Ascoltò i messaggi sulla segreteria telefonica. Erano tre. Il primo di An-
derson che gli diceva di essere a Washington e di essere andato al May-
flower Hotel. Era riuscito a scaricare una foto di Crosse da Internet, ma
non lo aveva ancora visto di persona.
Il secondo messaggio era di Whitney, che gli proponeva di incontrarsi
alle 16 al 1789, un esclusivo e discreto ristorante di Georgetown, sulla
Trentaseiesima.
Il terzo messaggio lo fece fermare bruscamente in mezzo al corridoio.
Sentì qualcuno urtarlo da dietro, si voltò e mormorò delle scuse. Poi rima-
se lì in piedi diversi secondi ad ascoltare la voce di Billy, incapace di con-
centrarsi sulle sue parole.
Si appoggiò a una parete dell'ampio corridoio e digitò il tasto di riprodu-
zione del messaggio.
«Sono Billy. Sono uscito. L'avvocato che mi hanno assegnato è piuttosto
bravo. Le droghe, o chissà cosa, erano in quella casa e addosso a un paio di
altri tipi, non a me. Non possono revocarmi la libertà vigilata finché non
provano qualcosa chiamato "possesso effettivo", quando ci sarà il proces-
so. Non voglio tornare con quei tipi, ma non riesco a trovare le chiavi del
loft. Se sei da queste parti, chiamami, okay?»
Aveva perso le chiavi. Clevenger scosse la testa, rimpiangendo che lui e
Billy non fossero come altri padri e figli capaci di fare un problema di una
chiave perduta. Che regalo sarebbe stato riuscire a rinfacciarsi a vicenda
banalità del genere. Avevano problemi assai maggiori, loro due. Billy era
ancora alle prese con cavilli legali e bulli da strada. Il suo avvocato gli an-
dava a genio solo perché l'aveva tirato fuori di galera. Adesso aveva biso-
gno di un posto dove dormire. Chissà perché? Forse perché la Drug En-
forcement Administration, l'ente federale per la lotta alla droga, non aveva
lasciato in strada neppure uno dei Royals. O forse perché erano tutti in
preda al panico, preoccupati di chi di loro avrebbe tradito e patteggiato con
la pubblica accusa per inchiodare gli altri.
Richiamò Billy.
Lui rispose al quinto squillo. «Ciao.»
«Ho ricevuto il tuo messaggio» disse Clevenger.
«Sei da queste parti? Io sto bighellonando per il centro.»
Non c'era ansia nella sua voce. Nessun rimorso. Qualcosa era venuto
meno. «No, sono via.»
«Oh» fece Billy. «North ha ancora una chiave?»
«Non c'è nemmeno lui» rispose Clevenger. Chiuse gli occhi e si costrin-
se a dire: «Anche se fossi lì, non ti lascerei entrare».
Silenzio.
«Non ti lascio tornare a casa finché non vai a disintossicarti e non segui
seriamente l'intero programma di recupero.»
«Non ho bisogno di disintossicarmi. Sono pulito.»
Clevenger riaprì gli occhi. «Lascia perdere, ok? Ti aspetti che ti prenda
in parola?» Inspirò a fondo e buttò fuori quello che aveva dentro. «Te lo
dico in poche parole: torna in ospedale e fatti riammettere. Se fai le cose
per bene lì, puoi tornare a casa.»
«E se non lo faccio, non posso tornare?» chiese Billy. «Vuoi dire per
sempre?»
Clevenger sentì un nodo in gola.
«Ero completamente sballato in Suffolk Street, lo so, ma non parlavo sul
serio» disse Billy.
Clevenger ripensò allo sguardo freddo del ragazzo e ricordò le sue paro-
le: «Questa è la mia famiglia. Tu non sei niente per me».
«Forse parlavi sul serio, forse no. Ma in questo momento importa poco.
In questo momento devi...»
«Importa se pensi che sono un bugiardo» lo interruppe Billy, con un to-
no di legittima indignazione.
Era il momento di una dose di realtà. «Certo che lo sei.»
«Non più di chiunque altro. Tutti mentono.»
Tutti mentono. Suonava come se Billy potesse essere sul punto di rivan-
gare l'ipocrisia di Clevenger che beveva e al tempo stesso lo tormentava
perché rimanesse sobrio. O forse quella era la vera visione del mondo di
Billy in quanto figlio biologico di un uomo in galera per assassinio e di
una madre non certo migliore. Le domande che uno psichiatra avrebbe po-
sto erano chiare a Clevenger: «Chi sono "tutti"? Chi ha mentito a te? Tor-
niamo indietro, passo per passo, fin dove arriva la tua memoria».
Ma Billy non era un paziente di Clevenger e il momento sembrava ri-
chiedere limiti, non appigli. «Lascia perdere "tutti"» disse Clevenger.
«Pensa a te stesso. Tu hai un figlio al quale non fai da padre. Hai una se-
conda occasione nella vita e non hai il coraggio di approfittarne. Scappi
come un ragazzino di dieci anni da una gang di perdenti e ti imbottisci di
droga perché hai paura di capire qualcosa... di te stesso o di chiunque al-
tro.» Stava tremando. «Io ti voglio bene, Billy, lo giuro su Dio. Ma tu stai
diventando un bugiardo e un vigliacco e il gioco si è trascinato troppo a
lungo per fare dietrofront. Forse è tardi ormai, non lo so. So solo una cosa:
la via d'uscita è dentro, verso il tuo male: disintossicazione, recupero, tera-
pia. Il primo passo è andare ai Massachusetts General Hospital. Questa è la
condizione, prendere o lasciare.»
Il cellulare restò muto.
«Billy?»
Silenzio.
«Ci sei?»
Niente.
Clevenger rifece il numero, ma non ricevette risposta. Attese il segnale
acustico e lasciò un messaggio: «Chiamami e informerò il pronto soccorso
dell'ospedale che ci stai andando. Non importa a che ora. Può essere subito
o alle due del mattino.» Pausa. «Chiamami e basta.» Chiuse la comunica-
zione.

44

«Non è una decisione solo mia, ovviamente» disse Whitney a Clevenger


a un tavolo appartato al 1789. «Ma io penso che non sia abbastanza per en-
trare in azione. Continuare le indagini e mobilitare risorse va benissimo.
Ma un arresto? Escluso.»
«Abbiamo trovato un architetto che progetta le case delle vittime e che,
guarda caso, è un chirurgo part-time» disse Clevenger. «Perché non sareb-
be abbastanza?»
Whitney sorseggiò il suo caffè. «Non siamo certi che abbia progettato
lui quelle case, Frank. A te sembrano opera di West Crosse, ma tu non sei
un architetto. E il fatto che la sua ex moglie e il nuovo marito di lei dicano
che ha una raccolta di testi di chirurgia e che è stato lui a operarla ha
dell'incredibile, ma non sappiamo se è vero. Sei stato tu a dire che Laine
Jones dava l'impressione di fare di tutto per convincerti a considerare
Crosse un sospettato.»
«Crosse è a Washington sotto pseudonimo. North l'ha confermato. È re-
gistrato al Mayflower.»
«Questo è ancora un paese libero. Non si può sbattere in galera qualcuno
perché vuole pagare in contanti e usare un nome falso.» Whitney sorrise.
«Se non sbaglio, tu e io l'abbiamo fatto una dozzina di volte al Ritz di Bo-
ston.»
Clevenger si appoggiò allo schienale. Fissò Whitney. «E che mi dici del
nesso con la Skull and Bones?»
«In che senso?»
«Sta utilizzando il nome del fondatore della società segreta.»
«Possiamo esaminare la cosa in modo spassionato, per un attimo?»
«D'accordo.»
«Abbiamo un tale che può aver progettato le case delle vittime, oppure
no. Abbiamo un autore - Sutton - che elenca Crosse come bonesman, in-
sieme a membri delle famiglie delle vittime. Ora, quell'elenco può essere
preciso oppure no. Ma anche se lo è, come ti ho già detto, stiamo parlando
delle più importanti famiglie americane, che investono denaro insieme,
educano i loro figli insieme, acquistano case di vacanza insieme. Anche se
Crosse è un bonesman e anche se ha progettato le loro case, questo non
equivale alla causa più probabile per un mandato d'arresto.»
«Potresti fermarlo per interrogarlo.»
«Può darsi che non sia fattibile. Dovrei chiedere.»
«Potresti...»
«Chiederò. Ma il punto per me è questo: ci sarà più utile tenerlo d'oc-
chio. Scopriamo a chi fa visita qui, chi conosce, magari qual è la sua pros-
sima mossa. Poi forse ne avremo abbastanza per un mandato di perquisi-
zione della sua stanza d'albergo.»
Clevenger annuì tra sé. «Questo mi va bene.» Continuò a guardarla.
«Non si direbbe.»
Non era certo di volerle rivelare quello a cui stava pensando.
«Forza» disse lei.
Clevenger si strinse nelle spalle. «Cosa?»
Passò qualche secondo.
«Dillo» lo esortò lei, alzando gli occhi al cielo.
«Tuo padre è un bonesman. Anche lui è nell'elenco di Sutton. Quindi,
può darsi che tu non sia abbastanza obiettiva.»
«Stai scherzando?! Io lascerei un killer a piede libero perché in giro si
dice che mio padre appartiene a una confraternita universitaria? È assur-
do.»
Detto così, pareva davvero assurdo. Clevenger non replicò.
Lei si piegò leggermente in avanti. «Mio padre si è laureato a Yale ed è
un ex senatore che ha finanziato generosamente candidati repubblicani di
tutto il paese, compreso il presidente Buckley. È ovvio che sia nell'elenco.
Dicono che sia stato anche a Roswell e che vi abbia visto gli alieni in for-
maldeide. E chi lo sa? Immagino che sia possibile che mi abbia tenuta na-
scosta la sua appartenenza a quella società segreta per tutta la vita. Ma se è
un bonesman, vorrei che avesse mosso qualche pedina per me. Sono stata
in lista d'attesa a Yale e poi sono stata respinta.» Strizzò l'occhio. «Forse
stavano solo cercando di tenermi lontana dalla pista.»
«Tu vuoi che per il momento Crosse venga tenuto d'occhio, e mi va be-
ne. Mi sembra un po' poco, ma l'indagine è tua.»
Lei lo guardò sospettosa. «Che cosa succede? Billy sta bene?»
«Questo non ha niente a che fare con lui» disse Clevenger. «Perché lo ti-
ri in ballo?»
«Posso essere sincera?»
«Spero di sì.» Al solo pronunciarle, Clevenger sentì che le sue parole fa-
cevano salire la tensione tra loro.
«Penso che tu sia spompato e che cominci a perdere colpi.»
«Cosa?»
«Hai trovato un cavallo favorito in questa corsa e vuoi puntare tutto su
di lui. Non vuoi dare un'occhiata al campo di gara. E se ti sbagli? Se
Crosse non è il nostro uomo? Se il killer è uno dei suoi clienti, o un dise-
gnatore che ha lavorato con lui anni fa, o il suo ex socio, quel Laine Jones?
Dopotutto, anche lui è un architetto. Quanto è arrabbiato per il fatto che
Crosse gli ha portato via clienti? E che mi dici della sua ex moglie, Lau-
ren? Quanto è arrabbiata per il fatto che Crosse l'ha data a un altro uomo?»
Clevenger si strofinò gli occhi e li alzò al cielo. Poi li riportò su Whit-
ney. Annuì. «Hai ragione. Il mio è un punto di vista troppo limitato.»
Lei si appoggiò allo schienale.
«Hanno di nuovo fatto uscire Billy» disse Clevenger.
«Cosa?»
«Il giudice, una donna, non ha creduto che il possesso effettivo fosse
l'asso nella manica del governo. E così non gli ha revocato la libertà vigila-
ta.»
«Dov'è adesso?»
Clevenger si strinse nelle spalle.
«Non lo sai?»
«Voleva dormire nel loft. Io gli ho detto che prima doveva farsi disintos-
sicare e seguire il programma di recupero. Lui mi ha sbattuto giù il telefo-
no. Da quel momento non l'ho più sentito.»
«L'hai richiamato?»
Clevenger annuì.
«Be', adesso è arrivato il momento.»
«Quale momento?»
«Che tu ponga un limite. O lui si libera di quella robaccia o non lo fa. La
decisione è sua.»
«Già» disse Clevenger. «È questo che mi preoccupa.»

45

Clevenger era a un paio di isolati dal Mayflower Hotel quando Anderson


lo chiamò. «Che cosa succede?» rispose.
«Dove sei?» chiese Anderson.
«Su un taxi diretto all'albergo. E tu?»
«Nella hall, a pochi metri da Crosse.»
«Lui cosa fa?»
«È seduto al bar, solo.»
«Arrivo tra un minuto.»
«Ottimo.»
Clevenger entrò nell'albergo. Anderson era seduto su una poltrona di
cuoio accanto al caminetto, intento a leggere «USA Today». Lo raggiunse.
«È ancora qui?» chiese, senza guardare in direzione del bar.
«Sta leggendo il giornale ed è al secondo scotch. Laphroaig. Ottima
scelta.»
«Non per me» commentò Clevenger. «Non più.» Si frugò in tasca e ne
estrasse una compressa di Antabuse. Curioso fino a che punto la sua mente
e il suo malessere avevano cospirato per fargli dimenticare che c'era... fino
a quel momento. Si mise la pillola in bocca e la inghiottì. Poi lanciò un'oc-
chiata a Crosse: indossava jeans, camicia bianca larga e stivali neri da co-
wboy. «Niente di speciale, eh? Si direbbe il tipico attore cinematografico.»
Anderson sorrise. «Che cosa voleva Whitney?»
«Vuole farlo pedinare. Le ho telefonato dopo aver parlato con te e le ho
detto che lui era qui.»
«Non vengono a prenderlo?»
Clevenger scosse il capo.
«Perché no?» chiese Anderson.
«Whitney pensa che non ci siano abbastanza indizi per ottenere un man-
dato.»
«Figurarsi! Dille di dare un'altra occhiata al Patriot Act.»
«Ha addotto valide ragioni per aspettare.»
Anderson le liquidò con un'alzata di spalle.
«Teniamolo d'occhio noi» disse Clevenger. «Nell'eventualità che lei non
faccia ciò che dice.»
«Rischiamo di star seduti qui a lungo. Gli piace bere.»
«Stamattina ero con Lauren Jones quando lei gli ha mandato un messag-
gio per dirgli che questa sera non andrà da lui. La cosa non può avergli fat-
to piacere.»
«No di certo, visto come pianifica tutto» commentò Anderson.
Passarono parecchi secondi.
«Capisco che l'FBI voglia tenersi a distanza» disse Anderson. «Ma noi
perché?»
«Perché cosa...?»
«Perché esitiamo.» Scosse il capo. «Voglio dire, c'è qualcosa che non
funziona. O Whitney ti ha convinto a trattare questo caso a modo loro, o
Billy ti ha mandato fuori strada, o c'è qualcosa che ignoro. Ma starsene se-
duti qui in questo modo non è nel tuo stile. Non è nel nostro stile.»
Clevenger lo fissò.
«Il Frank Clevenger che conosco sarebbe al bar con quel pazzo, con o
senza un drink, a frugare nella sua testa.»
«Forse.»
«Forse? Non mi pare che tu sia rimasto dietro i federali nel caso del
Killer dell'Autostrada o in quello di John Snow. Ricordi? Siamo stati noi a
condurre il gioco.»
Clevenger sapeva che Anderson aveva ragione. Ma non sapeva che dif-
ferenza ci fosse questa volta. Era Whitney a dare il passo? Il suo problema
con Billy era talmente fuori controllo da impedirgli di controllare alcun-
ché? Oppure il fatto di aver bevuto fino a pochi giorni prima gli aveva tol-
to lucidità?
Lanciò di nuovo un'occhiata a Crosse. Forse nell'universo c'era davvero
sincronismo. Forse prendere posizione in questo caso e fare un passo avan-
ti nella sobrietà significavano sedersi al bar con Crosse, interamente con-
centrato sul lavoro che aveva scelto di fare a questo mondo. «Ricordo en-
trambi i casi esattamente come li ricordi tu» disse ad Anderson.
Andò al bar e si sedette a due sgabelli di distanza da Crosse. Lanciò
un'occhiata al giornale che Crosse stava leggendo e notò la doppia pagina
dedicata all'invasione dell'Iran, con la grande fotografia di un iraniano che
urlava reggendo tra le braccia il cadavere della figlia. Ripensò al messag-
gio che il killer aveva inviato al presidente: "Abbi fede. Un paese alla volta
o una famiglia alla volta, la nostra opera è al servizio di un unico Dio".
Il barista gli si avvicinò. «Che cosa posso servirle?»
«Acqua minerale con limone» rispose Clevenger.
Il barista gliene preparò un bicchiere e lo posò su un tovagliolo di fronte
a Clevenger.
Crosse ordinò il terzo scotch.
Clevenger bevve un sorso della sua acqua e accennò al giornale. «Brutte
notizie?» chiese a Crosse.
Crosse si girò a guardarlo.
Clevenger accennò di nuovo alla pagina. «La guerra.»
Gli occhi di Crosse si accesero. «Non penserebbe che si tratta di brutte
notizie se vivesse sotto il regime dell'Iran: gli ayatollah e una banda di
mullah non eletti e assetati di sangue. Desidererebbe anche lei un Black
Hawk che la portasse fuori dal buio del Medioevo.»
Clevenger sorrise. «Forse è così. Di sicuro vorrei sapere perché sono sta-
te spente le luci. Casomai ci fosse il modo di riaccenderle.» Fece un cenno
del capo verso la fotografia. «Altro che tutte quelle uccisioni.»
Arrivò il terzo scotch. Crosse ne bevve un sorso. «Lei crede che po-
tremmo negoziare con questa gente. Be', se lo lasci dire: è impossibile
convincere qualcuno ad abbandonare una teocrazia presa di peso dal Cora-
no. Non stiamo parlando di esseri pensanti. Stiamo parlando di robot che
seguono una formula per il dominio del mondo vecchia di migliaia di an-
ni.»
«Non sono esseri umani?»
«No, da tutti i punti di vista.» Fece un respiro profondo e ridacchiò tra
sé. «Ci intendiamo a fondo e in fretta, amico mio.» Allungò la mano.
«Will Russell.»
«Frank Newman.»
Crosse bevve una lunga sorsata di scotch. «Di che cosa si occupa,
Frank?»
Clevenger sorseggiò la sua acqua. «Sono uno psichiatra.»
«Uno psichiatra. Ah, bene. Avrebbe dovuto dirlo subito. Questo spiega
le cose.»
«Spiega le cose...?»
«Lei crede che gli uomini possano essere cambiati, curati... parlando lo-
ro.»
«Penso che dipenda da chi parla e dal fatto che sia altrettanto disposto ad
ascoltare.»
«Psicoterapia per i terroristi? È questa la sua ricetta?»
«Non sono disposto a credere che i bambini crescano con il desiderio di
diventare killer... nessuno di loro» rispose Clevenger. «Per volere tanto il
potere - il potere di vita e di morte - uno dev'essersi sentito del tutto impo-
tente. Bisogna che qualcosa distrugga un individuo prima che lui decida di
distruggerne altri.» Lasciò che il suo commento facesse effetto per qualche
secondo. «Io non sarei soddisfatto finché non avessi capito esattamente
che cos'era quel qualcosa. Altrimenti, potrei finire per dichiarare vittoria,
solo per scoprire, venti o trent'anni dopo, che ho perso di brutto, perché ho
lasciato che la vera patologia infettasse un'altra generazione.»
«Penetrare nel loro passato e uscirne con una teoria psicodinamica per
spiegare perché hanno l'abitudine di mandare all'aria edifici e di farsi e-
splodere in luoghi pubblici. Forse non sono stati allattati al seno o non so-
no stati adeguatamente educati a usare il water.»
Clevenger sorrise. «Lei di che cosa si occupa, Will?»
«Sollecito voti.»
«Per che cosa?»
«Per la libertà. E non aggiungo altro.»
«Come vuole. Dove abita?»
«A Manhattan. E lei?»
«A Boston.»
«Uno psichiatra di Boston» disse Crosse. «Non dev'essere affatto male.
Mio padre è stato in cura da uno psichiatra per un po'.»
«Ed è servito?» chiese Clevenger.
«Per niente.» Crosse bevve un altro sorso di scotch.
«Mi dispiace.»
«Sa che cosa dice la Bhagavad Gita, il più sacro testo indù?»
«Credo di no.»
«"Il dolore è pura illusione."»
«In altre parole?»
«Il dolore paralizza le persone. Quelle deboli» rispose Crosse. «Impedi-
sce la necessaria azione. Sempre la Bhagavad Gita dice: "Non hai motivo
di provare dolore per qualsivoglia essere. Sappi qual è il tuo dovere e
compilo senza esitazione".»
Clevenger guardò Crosse negli occhi, ma solo per un istante. Perché ciò
che vi vide aveva qualche affinità con ciò che aveva visto in Billy - più
freddo e più vuoto, ma simile - e lo fece letteralmente rabbrividire. Prese in
mano il suo bicchiere e vi guardò dentro. «E quanto al provare dolore per
se stessi?» chiese. «Ritiene che anche questo sia inutile?»
«Io? Non ho conosciuto neppure un istante di dolore.» Crosse tracannò
ciò che restava del terzo scotch, fissò il vuoto e continuò a citare dal testo
sacro: «"Beati e fortunati sono i guerrieri chiamati a combattere in una giu-
sta battaglia che viene senza averla provocata e che apre loro la porta del
cielo"».

46

18 agosto 2005, ore 11.20

Clevenger aveva preso una camera al Mayflower Hotel, sullo stesso pia-
no di Crosse. Aveva appena finito un'altra serie di telefonate alle famiglie
delle vittime per esortarle a rivelargli chi aveva progettato le loro case. In-
vano. Il suo cellulare squillò: era Anderson. Rispose.
«Crosse è appena andato alla Casa Bianca» disse Anderson.
«La Casa Bianca... Pensavo che lo avessi visto entrare nella chiesa di
San Giovanni.»
«Ci è rimasto per quasi due ore. Poi si è diretto al 1600 di Pennsylvania
Avenue. Trattamento di favore all'ingresso dei visitatori. Ha preso la sua
auto.»
«Mi metto in contatto con Whitney... subito.» La chiamò sul cellulare,
dopo aver chiuso la comunicazione con Anderson.
«Ciao, Frank» rispose lei.
«Crosse è alla Casa Bianca.»
«Lo so» disse lei. «È andato prima in chiesa. Ti avevo detto che lo a-
vremmo tenuto d'occhio.»
«E...?»
«E l'abbiamo fatto, come vedi. È quanto mai improbabile che sia lui il
killer. Non ha precedenti penali. È ben conosciuto dal presidente e dalla
first lady. Senza dubbio non è in casa loro sotto falso nome. Sta progettan-
do un ampliamento dell'ala est.»
«Ti riferisci al concorso per il Museo della Libertà? Mi pareva che il
nome del vincitore fosse Ethni... o qualcosa del genere, di Filadelfia. È una
donna nera. C'è stato un articolo su di lei in prima pagina su "USA To-
day".»
«Sai che gli piace usare pseudonimi. Immagino che abbia almeno una
controfigura. Rifugge la pubblicità.»
«Il killer ha scritto alla Casa Bianca» disse Clevenger. «E adesso West
Crosse è là dentro.»
«La cosa non mi preoccupa. Per quale ragione mandare un messaggio al
presidente quando puoi chiacchierare con lui prendendo un caffè? Stiamo
parlando di rapporti del genere. Ha un pass analogo a quello dei capi dei
dipartimenti governativi. Se vuoi proprio saperlo, ciò che mi preoccupa è il
fatto che qualcuno altrove sta per lasciare in giro un'altra lezione di anato-
mia. Che ne dici di occuparcene?»
«Perché non fermarlo per interrogarlo? Che cosa ci sarebbe di male?»
«Che cosa ci sarebbe di male nel fermare uno dei due o tre migliori ar-
chitetti della nazione, che, guarda caso, è amico personale del presidente,
per farlo interrogare dall'Unità di scienze comportamentali dell'FBI? Oh,
non lo so. Tu che ne dici?»
«Mi sono seduto accanto a Crosse. L'ho guardato negli occhi. È morto
dentro. Ha dentro di sé la pulsione a uccidere.»
«Come molta gente» ribatté Whitney. «Questo non significa che abbia
mai ucciso.» Pausa. «Senti, la conclusione è questa: la cosa è fuori dalla
tua e dalla mia portata. So per certo che i servizi segreti stanno controllan-
do e ricontrollando se lui possa rappresentare una minaccia. Mi è stato det-
to che l'ordine è venuto direttamente dal capo dello staff del presidente.»
«Ti è stato detto.»
«Appunto. So che tu pensi che io faccia parte di una grande cospirazione
per governare il mondo, Frank, ma io sto solo svolgendo un lavoro qui.
Non sono io a decidere. Riferisco al mio superiore. E lui non mi mette al
corrente di ogni iniziativa.» Fece un lungo sospiro. «Devi battere altre pi-
ste. Crosse non sembra il nostro uomo.»
Clevenger si sedette sul bordo del letto. Forse Whitney aveva ragione,
pensò. Forse lui era stato davvero miope. Ma allora perché sembrava che
tutto convergesse su Crosse? Come poteva il suo istinto ingannarlo a tal
punto? Com'era possibile che lui avesse scambiato i misteri riguardanti una
società segreta per il vero mistero che tentava di risolvere? Aveva interpre-
tato il loro codice del silenzio come prova di una cospirazione quando non
era altro che tradizione? «Se dici che se ne occupano i servizi segreti, io mi
faccio da parte. Non sto cercando di dirti come fare il tuo lavoro.»
«Certo che lo stai facendo» disse lei. «Non riesci a impedirtelo.»
«Lo ammetto.»
«E non ti sto chiedendo di fare un passo indietro. È proprio l'opposto.
Però non voglio essere portata fuori strada.»
Forse era il momento, pensò Clevenger, di fare un'altra visita a David
Groupmann o a Laine e Lauren Jones. Ma nessuna di queste due piste
sembrava quella che portava al killer. E se lui smetteva di concentrarsi su
quello che per istinto sentiva essere giusto, sapeva che sarebbe stato perdu-
to. Decise di chiamare North Anderson per proporgli di tornare all'ufficio
di Chelsea e di usare tutte le risorse disponibili per esaminare più attenta-
mente il progetto del grattacielo a San Francisco di Jeffrey Groupmann.
Quell'edificio era stato il collegamento tra almeno due famiglie di vittime
di omicidio.
«Ceniamo insieme stasera» propose Whitney, con tono improvvisamente
più affettuoso. «Decideremo in quale direzione muoverci.»
«Con l'indagine?»
Lei esitò. «Con tutto.» Un'altra pausa. «Vieni a casa mia. Diciamo alle
otto?»
Clevenger non sapeva in quale direzione stesse andando l'indagine e non
sapeva cosa stesse combinando Billy. Due circostanze che non gli avreb-
bero causato quella sensazione di vuoto allo stomaco se avesse avuto
dell'alcol a portata di mano. L'alcol gli aveva dato la carica quando
nient'altro era servito. «Mi sembra perfetto» disse.

47

Ore 16.40

Una volta rientrato in albergo, West Crosse telefonò alla reception e


chiese se il suo baule da viaggio fosse stato recapitato. L'aveva spedito
tramite la Federal Express da Thunder Bay, poco prima di prendere l'aereo
per Washington, e adesso lo stava aspettando.
Il fattorino glielo portò nella suite dieci minuti dopo.
Crosse lo trascinò accanto al letto, lo aprì e si inginocchiò. Dispose con
cura bisturi, divaricatori e aghi d'argento sul vassoio di acciaio estraibile
che aveva collocato nel comparto superiore. Riempì di succinilcolina una
siringa ipodermica. Controllò che il contenitore di cloroformio fosse inte-
gro e che la stoffa bianca che avrebbe coperto il naso e la bocca di Blaire
Buckley vi galleggiasse dentro.
Si alzò e tolse coperte e lenzuola dal letto. Stese un telo di plastica sul
materasso. Poi rifece il letto.
Da un cassetto del baule trasse l'Obstetric and Gynecologic Surgery di
Nicholi, andò nello studio e lo aprì sul bel tavolo di mogano che vi si tro-
vava.
I suoi piani erano più ambiziosi che mai. Avrebbe messo a nudo la ma-
gnifica architettura di un corpo, rimuovendo al tempo stesso ogni traccia di
un altro corpo. Avrebbe lasciato i resti di Blaire Buckely in modo che ispi-
rassero pubblica compassione per suo padre, riducendo al minimo la pos-
sibilità che un'autopsia rivelasse che al momento della morte era incinta.
C'erano strati da assottigliare, minuscole strutture da estirpare. Nessuna
traccia sarebbe rimasta della creatura mal concepita che Blaire aveva avuto
la sfacciataggine di chiamare Eden.
Una volta portata a termine la sua opera, Blaire sarebbe stata, in realtà,
più normale che mai: liberata dalla sua funzione cerebrale patologica, libe-
rata dalla responsabilità morale di trasmettere i suoi geni guasti, liberata
dall'involontario ruolo nel crollo del suo grande padre.
Il teatro della sua impresa lo entusiasmava. Il Mayflower Hotel era un
trionfo architettonico, progettato nei primi anni Venti da Warren e We-
stmore, architetti newyorkesi che avevano lavorato anche alla Grand Cen-
tral Station. Magnifici arieti dorati - fieri, belli, impavidi - montavano la
guardia sul fregio nella hall dell'albergo.
Il Mayflower, spesso definito il "secondo miglior indirizzo di Washin-
gton" aveva ospitato il presidente Calvin Coolidge al ballo d'inaugurazione
e alla festa in onore di Charles Lindbergh dopo la traversata dell'Atlantico.
E Coolidge aveva lavorato fianco a fianco con il bonesman Henry Lewis
Stimson, la personificazione della Skull and Bones.
Crosse si sedette al tavolo e cominciò a studiare. Gli restavano meno di
cinque ore prima del momento della verità, il massimo contributo alla li-
bertà che avrebbe dato in vita sua, quello che sperava venisse ricordato per
sempre.

48

Clevenger cercò di telefonare a Billy prima di recarsi a casa di Whitney


al Watergate. Non ebbe risposta. Ritentò. Ancora nessuna risposta. Decise
di lasciare un messaggio. "Ciao, Billy. Non so dove sei in questo momen-
to, ma volevo farti sapere che ti penso." Pausa. "Spero proprio che tu abbia
deciso di tornare in ospedale. Prova per un giorno. Vedi come ti senti. Non
nel reparto d'isolamento, in quello aperto. E... chiamami, d'accordo? Be'...
ti voglio bene." Chiuse la comunicazione. Guardò il cellulare e si rese con-
to di aver parlato solo a se stesso, nel tentativo di tranquillizzarsi. Billy
non l'aveva chiamato e avrebbe potuto non chiamare mai.
Si fece portare in taxi al Watergate ed entrò.
Il custode chiamò Whitney per annunciare l'arrivo di Clevenger, al quale
poi indicò l'ascensore.
Clevenger trovò l'appartamento 1812 e suonò il campanello.
«Un momento» gridò Whitney.
Dieci secondi dopo venne ad aprire. Era a piedi nudi, in jeans e T-shirt
nera aderente della Juicy Couture, con la scritta LIBERATOR. Appariva
radiosa come il giorno in cui Clevenger l'aveva conosciuta. «Grazie per
avermi sopportato» disse.
«L'ho fatto?» replicò lei, civettuola. «Non me ne ricordo.»
Clevenger rise.
«Entra.»
Clevenger obbedì, constatò che aveva preparato la tavola e acceso le
candele. «Notevole» commentò.
Lei scomparve in cucina. «Sai che non so cucinare. Conto sulla tavola
per distrarti.»
Clevenger guardò fuori dalla finestra il maestoso Potomac sempre in
movimento, sempre uguale. «Sono contento di essere qui» disse. Si volse e
la vide sorridere mentre rimescolava qualcosa sui fornelli.
Forse la vita poteva essere semplice e bella come quel sorriso, si disse.
Forse lo era, per alcuni. Si girò di nuovo verso il fiume.

49

Ore 21
Qualcuno bussò. West Crosse socchiuse la porta della sua stanza. Blaire
Buckley era nel corridoio e sfoggiava un berretto da baseball e una T-shirt
Britney Spears Onyx Hotel Tour, con la pancia che sporgeva dagli aderenti
jeans a vita bassa, coprendo la fibbia della cintura di metallo e pietre finte.
«È qui?» chiese, tentando di gettare l'occhio nella stanza.
«Qualcuno ti ha seguito?» chiese Crosse.
«Impossibile. Sono uscita con quelli del catering, sul loro camioncino.
Mi aiutano sempre a battermela.»
«Ti hanno lasciato davanti all'albergo?»
Lei alzò gli occhi al cielo. «Nooo! Mica sono stupida.»
Crosse sorrise. «Britney dovrebbe essere qui tra una decina di minuti.»
Aprì la porta e si spostò di lato.
Blaire entrò.
Crosse chiuse a doppia mandata.
La suite era splendida. Bianchi petali di rosa e mirto coprivano il pavi-
mento. Un centinaio di candide candele votive erano accese. Il Messia di
Händel era poco più di un sussurro.
«Proprio figo» disse Blaire. «Tutto questo per Britney?»
«No» rispose Crosse mettendosi alle sue spalle. «È per te.»

50

Ore 1.35

Il cellulare di Clevenger squillò. Lui allungò la mano al di sopra di


Whitney, lo prese dal comodino e vide che a chiamare era il 555-726-
2000. Il Massachusetts General Hospital. «Grazie a Dio» sussurrò. Rispo-
se. «Billy?»
«Dottor Clevenger?» chiese una voce femminile.
«Sì.»
«Sono Jane Monroe.»
Era la dottoressa del pronto soccorso che Clevenger aveva conosciuto in
occasione dell'ultima volta che Billy era stato al Massachusetts General
Hospital. Si schiarì la voce. «Mi fa piacere sentirla» disse. «Billy è lì?»
«Sì» rispose lei.
Clevenger sentì alleggerirsi il peso che gli gravava sulle spalle. «Spera-
vo che ci venisse. Gli avevo promesso che questa volta avrebbe potuto di-
sintossicarsi nel reparto aperto.»
Silenzio. Poi: «Non è qui per disintossicarsi».
La voce di Jane Monroe era sommessa e gentile e colpì Clevenger al
cuore. «Mi dispiace. Che cosa vuol dire?»
«Lui...»
Tacque per non più di due secondi, ma bastarono perché gli occhi di
Clevenger si riempissero di lacrime.
«È in overdose» rispose lei.
«Oh, Dio, no.» Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro.
Whitney si sollevò su un gomito e lo osservò. «Che cosa succede?»
«Billy in questo momento non reagisce, ma è stabile» spiegò la dottores-
sa a Clevenger.
«Si tratta di Billy?» chiese Whitney. «Sta bene?»
«Eroina? Cocaina? Voglio dire, ha avuto un ictus o...?» chiese Cleven-
ger.
«OxyContin» rispose la dottoressa. «Non sembra che abbia avuto un ic-
tus.» Poi completò la notizia. «Ma è attaccato al respiratore.»
Clevenger sentì qualcosa di duro contro le ginocchia e si rese conto di
essere caduto in ginocchio. «Morirà?»
«Non lo so» disse la dottoressa.
«Morirà?»
«È nel reparto di terapia intensiva» rispose lei. «Il cuore regge. I gas e-
matici sono stabili. Qui hanno già visto casi del genere. Molte volte. Sanno
esattamente cosa fare. Billy sta ricevendo le cure migliori nel miglior o-
spedale del mondo.»
Una panacea. Un rimedio che lui stesso aveva somministrato decine di
volte a genitori, mariti e mogli. In quel momento, Jane Monroe era una
venditrice di fumo. «Non sono a Boston» fu tutto quello che Clevenger
riuscì a pensare e a dire. Gli mancò la voce.
Whitney lo strinse tra le braccia.
Lui si appoggiò a lei.
«Quanto le ci vuole per arrivare qui?»
La domanda lo piegò in due. Perché ovviamente un'ora o due o tre o
mezza giornata facevano la differenza. «Il primo volo è...»
«Faccio venire immediatamente l'elicottero» lo rassicurò Whitney. «C'è
la piattaforma sul tetto.» Si alzò e andò al telefono.
«Posso arrivarci in due, tre ore» rispose Clevenger a Jane Monroe.
«Benissimo. Mi trova qui.»
«La ringrazio. E, la prego, mi chiami se...»
«Se si svegliasse e volesse parlarle, la chiamerò» assicurò lei.
Non era quello che Clevenger aveva voluto dire ed era sicuro che lei lo
sapeva. «La ringrazio» disse.

51

Ore 3.10

West Crosse entrò con la sua Range Rover nel vialetto d'accesso dell'in-
gresso dei visitatori della Casa Bianca. Quando si fermò in prossimità della
porta sapeva che la sua targa era già stata passata nel database del compu-
ter interno per il riscontro. Telecamere per le riprese notturne avevano cat-
turato la sua immagine e l'avevano immediatamente trasmessa al servizio
di sicurezza. In ogni momento, tiratori scelti avrebbero potuto far scoppia-
re le gomme della sua auto o piantargli una pallottola in testa.
Una guardia armata di mitra si affacciò al finestrino.
Crosse lo abbassò.
«Posso esserle d'aiuto, signor Crosse?»
«Sì. Dietro ho un baule pieno di campioni di granito e legno per il mu-
seo. Devo portarlo nello studio della first lady, il più vicino possibile ai
nuovi locali. Certi pezzi sono molto pesanti.»
«Lei comincia a lavorare maledettamente presto» osservò la guardia.
«Non è presto per me. È il momento in cui sono più produttivo. Nessuno
mi disturba.»
La guardia sorrise. «Su questo sono pienamente d'accordo.»
Crosse parcheggiò e uscì dall'auto, mentre la guardia controllava il baule
da viaggio Louis Vuitton con un apposito apparecchio alla ricerca di e-
splosivi.
«È il protocollo» disse la guardia. «Lei capisce.»
«Ma certo» ribatté Crosse.
La guardia terminò il controllo. «Fatto» disse e aiutò Crosse a tirar fuori
il baule dall'auto.
«Adesso posso fare da solo» disse Crosse.
«Benissimo.»
Crosse portò il baule all'interno, lungo i regali corridoi del potere, verso
lo studio della first lady. Lo trascinò alla parete in cui si aprivano le fine-
stre che si affacciavano sul sito del futuro Museo della Libertà, proprio nel
punto in cui si era fermato la prima volta che aveva concepito il suo pro-
getto.
Si aspettava che il museo sarebbe stato comunque costruito nel pieno ri-
spetto del suo piano. Quello che aveva fatto, in fin dei conti, era non un in-
sulto alla libertà, ma il suo più grande atto in difesa della libertà.
Non portava armi con sé. Aveva un pass di livello così alto che proba-
bilmente sarebbe potuto entrare con una pistola, ma sapeva che non ne a-
vrebbe avuto bisogno per sacrificarsi alla sua causa. Non poteva certo en-
trare nella Casa Bianca del presidente Buckley, fare quello che stava per
fare e uscirne. Conosceva bene il suo cliente.
Si tolse giacca e stivali. Restò a piedi nudi, in una tunica pulita di lino
bianco. Si inginocchiò davanti al baule e lo aprì.
Sorrise.
Blaire Buckley vi giaceva avvolta in un telo di plastica, con i magnifici
organi che avevano quasi generato resistenza alla grande leadership di suo
padre, esattamente dissezionati, eliminata ogni traccia di Eden, come se
non fosse mai esistita.
Si chinò, la prese fra le braccia, chiuse il baule e ve la depose sopra. Poi
le si inginocchiò davanti e pregò Dio che aveva dato alla sua vita e alla sua
morte un così glorioso significato:

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome,
venga il Tuo regno, sia fatta la Tua volontà,
come in cielo così in terra.

Si alzò e guardò fuori dalla finestra.


Sapeva che non avrebbe dovuto aspettare a lungo. Entro dieci minuti le
telecamere della sicurezza si sarebbero concentrate su di lui e su Blaire e
gli agenti dei servizi segreti sarebbero accorsi in quella stanza.
Ci vollero poco più di quattro minuti perché arrivassero.
Crosse udì un rumore di passi e, voltandosi, vide due uomini in comple-
to blu uscire da due diverse porte, con le pistole in pugno. Altri tre li se-
guivano, armati di mitra. Osservò i loro occhi perfettamente addestrati rac-
cogliere dati e notò il loro irreprensibile distacco, perfino in quella circo-
stanza, con la figlia del presidente che giaceva dissezionata di fronte a lo-
ro.
Per un istante, ebbe l'impressione che il presidente in persona lo stesse
guardando da lontano. Ma forse desiderava soltanto che così fosse.
Allargò le gambe e alzò le braccia a replicare la posizione della divina
forma umana di Leonardo da Vinci. La sezione aurea. E quando la prima
pallottola lo colpì al petto, il suo cuore si riempì di orgoglio perché aveva
progettato i suoi ultimi istanti sulla terra in modo impeccabile, perché l'ar-
chitettura della sua esistenza rispecchiava la volontà di Dio Onnipotente e
perché sua sarebbe stata la vita eterna.

52

Ore 10.20

Le nostre grandi avventure, i trionfi e le conquiste in fin dei conti non


fanno nulla per legarci l'uno all'altro. È nella sconfitta e nella tragedia che
le nostre anime si fanno trasparenti e noi veniamo conosciuti.
Una persona può raccontarti di uno splendido successo negli affari, di
una promozione o di un'assunzione per un lavoro da sogno, e tuttavia non
ti sta dicendo assolutamente nulla della sua intima essenza. Ma se senti
quella persona parlare della spaventosa sensazione che deriva dall'essere
stato licenziato, dell'ansia di raggranellare il denaro necessario per la borsa
di studio e di non farcela, della paura di perdere un affare o la casa, sei sul-
la strada giusta per trovare un vero legame, un vero amico.
Una donna può raccontare entusiasta di aver portato a termine una mara-
tona, di essersi costruita una casa da sogno, di avere un figlio ammesso al
college, e tuttavia non ti sta dicendo nulla. Ma se la fai parlare della paura
di diventare vecchia, del lento decadimento del suo corpo, del perdurante
dolore di un aborto avuto anni prima, o ancora della declinante passione
per l'uomo che ama ancora, puoi renderti conto che siamo realmente più
simili che diversi nei nostri bisogni e nelle nostre paure e assai più soli di
quanto vorremmo.
Ma forse in nessun luogo possiamo vederci l'un l'altro più chiaramente
che in un reparto di terapia intensiva, sotto le fredde lampade al neon, sfi-
niti dalle veglie, circondati da tubature che entrano ed escono dal nostro
corpo o da quelli dei nostri cari, prestando orecchio al continuo ronzio del-
le apparecchiature di monitoraggio. Perché in un reparto di terapia intensi-
va il tuo lavoro non conta, l'ampliamento della tua casa non ha più impor-
tanza, la tua religione, il tuo partito politico e perfino le tue tendenze ses-
suali sono irrilevanti. Le cose che definiscono te e coloro che ti amano so-
no solo il tuo voler vivere o meno e il tuo soffrire o meno.
Non ci sono estranei né nemici nei reparti di terapia intensiva.
Clevenger entrò nel reparto 8D e si sedette al capezzale di Billy. Era lì
da più di sei ore, passate a camminare avanti e indietro, a sedersi e alzarsi,
a guardare.
North Anderson era andato e venuto tre volte e sarebbe tornato ancora. E
ancora.
Basta ascoltare, e il reparto di terapia intensiva ti dirà se un uomo è tuo
amico.
Billy era ancora in coma, con un tubo in gola che gli forniva ossigeno e
gli aghi delle flebo in ciascun braccio. Un nuovo tatuaggio, una corona,
campeggiava sul suo petto.
Perfino Billy aveva qualcosa da dire, e Clevenger lo udì.
Una lacrima scese lungo la guancia di Clevenger, che prese la mano di
Billy e gli si avvicinò. «Non preoccuparti, figliolo» gli sussurrò all'orec-
chio. «Non ho intenzione di lasciarti. Non rinuncerò mai a te. Ce la faremo
insieme, fuori di qui e qualunque sia la strada che tu voglia prendere nella
vita. Okay? Lo decideremo insieme.»
Si raddrizzò e guardò il figlio, e all'improvviso sentì l'incredibile forza
contro la quale la parte migliore di Billy aveva dovuto combattere, quei
precoci episodi di abbandono, paura e perdita. Un padre violento. Una ma-
dre che non era davvero tale. Un Billy Bishop diciannovenne poteva tro-
varsi in terapia intensiva, ma era il già provato Billy Bishop di nove anni
che si era fatto un'overdose e che era finito lì.
Clevenger pensò a un passo a lui caro del suo autore preferito, Robert
Pirsig:

Non so quale genere di futuro stia arrivando da dietro.


Ma il passato, spalancato di fronte a noi,
domina tutto ciò che vediamo.

«Dottor Clevenger» lo chiamò Jane Monroe alle sue spalle.


Lui si voltò. «Mi chiami pure Frank.»
«Frank» disse la dottoressa con un sorriso. «C'è una persona per lei. È in
sala d'aspetto.»
Clevenger ci andò.
Whitney era sulla soglia, pallida e stanca.
Clevenger la raggiunse. «Non c'era bisogno che...»
Whitney scosse il capo. «Avevi ragione» disse. «Avevi ragione su
Crosse.»
«Che cosa? Perché dici questo?»
«Ha portato il cadavere della figlia del presidente, quella ritardata - Blai-
re - alla Casa Bianca poco più di sei ore fa. Il suo ventre...» Si bloccò a
metà della frase.
«La figlia?» Più che mai, capì. «Mio Dio. E l'hanno arrestato? Non dirmi
che è riuscito a svignarsela.»
Lei lo guardò senza dire niente.
Ciò che Clevenger udì in quel silenzio lo fece arretrare lentamente di un
passo. Fissò Whitney negli occhi, attraverso una minuscola finestra affac-
ciata sulla sua anima, e vide... nulla. Vide lo stesso vuoto che aveva visto
negli occhi di Billy in Suffolk Street e in quelli di West Crosse al bar del
Mayflower Hotel. «Credo di non capire» disse.
Lei parlò con calma. «Uno non uccide la figlia del presidente e viene ar-
restato... non con questo presidente.» Alzò le spalle. «I resoconti ufficiali
dicono che lui aveva una pistola e ha sparato per primo.» Guardò oltre
Clevenger. «La cosa deve restare tra me e te. Punto e basta. Neppure North
Anderson deve saperlo stavolta.»
Clevenger la fissò con gli occhi socchiusi. «Stai dicendo che l'hanno uc-
ciso?»
«Non c'erano dubbi sulla colpevolezza» rispose lei. «In albergo aveva
allestito una microsala operatoria. L'ultima cosa che qualcuno potrebbe de-
siderare sarebbe un lungo, stiracchiato processo, con Mark Geragos e
Barry Scheck che propugnano la tesi dell'infermità mentale o discutono se
i guanti chirurgici sono o non sono suoi.» Pausa. «Avrei dovuto darti retta.
Sei stato tu a trovarci la soluzione.»
«Non l'hanno arrestato perché era più facile... eliminarlo? Non è proprio
questo che lui faceva con le sue vittime?»
«Forse questa è la giusta ricompensa.» Strizzò l'occhio. «Caso chiuso.»
Clevenger sentì un brivido corrergli lungo la spina dorsale.
Whitney guardò oltre la sua spalla, verso il reparto di terapia intensiva.
«Come sta Billy?» chiese.
Clevenger si voltò e tornò da lui.

53

23 agosto 2005
Gary Field, il capo dello staff del presidente, tre giorni dopo telefonò a
Clevenger invitandolo alla Casa Bianca. Il presidente e la first lady, disse,
desideravano ringraziarlo per i suoi servigi e chiedere il suo aiuto.
Adesso Clevenger era seduto davanti al presidente Warren Buckley e a
Elizabeth Buckley nello Studio Ovale. «Condoglianze» disse.
«Grazie» ribatté il presidente. «So con quanta tenacia ha dato la caccia al
killer di nostra figlia. E so che, se lei avesse potuto fare a modo suo, lo a-
vremmo fermato prima che uccidesse Blaire.»
La first lady sorrise e annuì.
Il presidente sembrava un bambino intento a giocare a indiani e cowboy.
Tu hai fatto fuori il mio amico, ma l'altro mio amico farà fuori te, a meno
che... Sua moglie pareva una bambola caricata a molla. In apparenza nes-
sun dolore.
«Vorrei che avessimo scoperto perché ha fatto quello che ha fatto» disse
Clevenger.
«Odiava me, odiava il partito» disse il presidente. «Probabilmente ha vi-
sto l'immondizia di cui ha inondato i giornali poco prima di uccidere la no-
stra bambina.»
L'immondizia, unita alla tragica morte della figlia, aveva fatto balzare al
settantuno per cento l'indice di gradimento di Buckley, il punto più alto
della sua presidenza. E questo prima dei funerali che l'indomani sarebbero
stati trasmessi in diretta nazionale. «Sì, l'ho vista» rispose Clevenger. «Ma
non sono sicuro che questo basti a spiegare. In fin dei conti, gli individui
normali non uccidono per confermare un punto di vista.»
Il presidente sorrise forzatamente.
«Grazie a Dio» disse la first lady.
«A dire il vero, poco conta cosa c'era nella sua testa quando faceva a
pezzi le vittime» disse il presidente. «Perché non potrà più rifarlo. Mai
più.»
La first lady sorrise e annuì.
«È solo un modo di vedere la cosa» disse Clevenger.
«Naturalmente, un processo sarebbe stato il risultato migliore per Eliza-
beth, i miei figli e me.»
«Pensavo che non le interessasse scoprire di più su quell'uomo.»
«Infatti» disse il presidente. «Ma non ero qui quando ha sparato con
quella pistola costringendo i servizi segreti a toglierlo di mezzo. Mi sareb-
be piaciuto assistere alla sua esecuzione e dargli personalmente l'addio.»
«E io sarei stata al suo fianco» aggiunse la first lady.
«Capisco» disse Clevenger.
Il presidente sorrise e strizzò l'occhio. Poi sembrò ricomporsi e calarsi
sul volto una maschera impenetrabile. «Desidero che lei prenda in conside-
razione l'idea di restare con noi.»
«Restare? In che senso?»
«Possiamo parlarne la settimana prossima, diciamo. Magari qualcosa di
alto livello all'FBI. Magari alla CIA. In questo momento hanno più che
mai bisogno di psichiatri. Per tirar fuori la verità dalla gente. Lei potrebbe
dare un contributo concreto al nostro paese.»
«Non credo che sia il momento» disse Clevenger.
«Perché no?» chiese il presidente.
«Mio figlio è appena uscito dal reparto di terapia intensiva. Si era fatto
un'overdose di OxyContin. E ha guai con la legge, per droga. Ha bisogno
di me» spiegò Clevenger.
«Be', forse nel futuro di suo figlio ci sarà una grazia» ipotizzò il presi-
dente. «Non posso prometterlo, ma posso esaminare il caso in questione.»
«La ringrazio» disse Clevenger.
«Pregheremo per voi due» assicurò la first lady. Guardò il marito.
«Si ricordi,» disse il presidente «che la causa della libertà ha più che mai
bisogno di uomini buoni.»

Ringraziamenti

Sono grato ai miei editori, Matthew Shear e Sally Richardson, che hanno
creduto nel mio lavoro e hanno continuato a sostenerlo. Per amore di equi-
tà, il mio grazie anche a Michael Homier, assistente del mio editor artistico
Charles Spicer.
Le mie ricerche si sono avvalse del punto di vista di molte persone, tra
cui Brad Garrett dell'FBI, l'ex segretario di stato ai Trasporti Drew Lewis,
il sergente John "Buck" Goodwin della polizia di Revere, Joshua Resnek
dell'Independent News Group, Todd Morley del Guggenheim Group, J.
Christopher Burch e l'avvocato Anthony Traini.
Ringrazio Tom Wolfe e Christopher Alexander per le loro idee, uniche e
preziose, in fatto di architettura.
Un grazie a Jeanne Geiger, Jeanette Ablow, Allan Ablow, Karen Ablow,
James F.X. Doherty e Alison Jones per aver letto il manoscritto.
Ho un debito di riconoscenza nei confronti di Catherine Crier, James
Patterson, Anne Perry, Ann Rule, Jonathan Kellerman, Janet Evanovich,
Robert Parker, Tess Gerritsen, Michael Palmer, James Hall e Dennis Le-
hane per il loro sostegno e l'esempio della loro creatività.
Infine, ringrazio i miei familiari, Debbie, Devin e Cole perché sono le
più splendenti luci della mia vita.

FINE

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