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JETER
UOMO D’OMBRA
(The Night Man, 1989)
A John Jordan
della razza migliore
di giocatori di football
PRIMA
PARTE PRIMA
Notte di festa
Repken alzò gli occhi da quello che stava leggendo quando sentì la porta
laterale aprirsi. Non si prese la briga di togliere i piedi dal tavolo dietro il
banco di accettazione; sollevò semplicemente il capo per alzare lo sguardo
dalla copia di People che teneva sulle gambe. Era Taylor che rientrava,
prendendo la chiave dalla serratura e infilandosela in tasca, con la cordicel-
la che gli pendeva dalla cintura. Taylor stava bene; Repken si era appisola-
to fra un articolo sullo scimpanzé di Michael Jackson e le imprese di una
diva della TV appena uscita dalla Betty Ford Clinic. Taylor aveva la sua
solita espressione scocciata: voleva dire che entro breve ci sarebbe stato
sufficiente movimento, in un senso o nell'altro, da aiutarli ad ammazzare
almeno un po' del loro turno da sepolti vivi, per far arrivare le sette del
mattino e potersene tornare a casa.
Posò la rivista a terra mentre Taylor attraversava il salone e raggiungeva
il banco. Non aveva neanche bisogno di chiedergli cos'era successo, che
cosa lo aveva infastidito nella sua passeggiata notturna lungo il recinto.
— Quei ragazzini scemi... — Taylor non si prese neanche la briga di
completare la frase, quella che Repken aveva già sentito più che a suffi-
cienza: "...hanno ricominciato". Sempre la stessa storia, almeno due sere la
settimana, a volte anche tre o quattro, quando la stagione degli incontri era
finita e loro non erano sfiniti dagli allenamenti e dalle partite.
Quella sera non erano neppure particolarmente turbolenti: c'erano state
molte notti in cui i party al vecchio drive-in erano molto più chiassosi, pie-
ni di risate e urla e musica assordante e i motori delle auto alzati di giri, e
tutto quel fragore che attraversava i campi di atletica bui intorno al rifor-
matorio per penetrare nell'edificio. Quando il rumore era troppo forte, i ra-
gazzini si svegliavano, e quell'ilarità lontana li sintonizzava tutti quanti
sulla stessa turbolenta lunghezza d'onda. Cominciavano a picchiare sulle
porte metalliche delle stanze - perché era vietato chiamarle "celle" - e a ur-
lare e a strappare i materassi. In quelle occasioni loro due passavano tutto
il turno, almeno fino alle quattro del mattino, quando il party della squadra
di football iniziava a calare d'intensità, a calmare gli internati. Era quella la
vera rottura di coglioni: era per quello che valeva la pena di incazzarsi. Ma
nelle notti relativamente tranquille, come quella, quando i piccoli criminali
e ladri d'auto dormivano tutti tranquillamente... se Repken fosse stato il re-
sponsabile del turno al posto di Taylor, avrebbe lasciato correre.
Taylor si allungò sul bancone, spostando i piedi a Repken per raggiunge-
re il telefono. Prese la cornetta e la posò sul ripiano di fronte a sé, poi
compose il numero. Appoggiato al bancone, aspettò la risposta.
Repken sentì il segnale interrompersi e qualcuno borbottare indistinta-
mente dall'altro capo della linea.
— Sì, sono il responsabile del turno di notte al riformatorio. — Taylor si
girò, tenendo la cornetta all'orecchio. Manteneva la voce completamente
inespressiva. — Senta, stavo camminando lungo la recinzione sul retro, e
ho visto un gruppo di ragazzini al vecchio drive-in. — Una pausa. Borbot-
tio. — Sì, sono della stessa banda, ne sono sicuro. Guardi, li sentiamo fin
da qui. Direi proprio che disturbano. Fatemi il favore di mandare qualcuno
a far finire questa storia. — Borbottio. — Sì, va bene. Okay, grazie.
Allontanò la cornetta dall'orecchio e la rimise con calma sull'apparec-
chio. La base del telefono era ancora rotta, da quando lui l'aveva sbattuta
sul tavolo.
Repken si grattò una guancia con la copia di People arrotolata. — Non
capisco perché insisti a chiamarli. Gli sbirri non fanno mai niente...
Taylor posò l'apparecchio sul ripiano. Prese il registro, lo aprì e iniziò a
descrivere l'accaduto, alzando gli occhi verso l'orologio appeso alla parete
del salone diurno. Era appena passata l'una.
Richiuse il registro, lasciando dentro la penna. — Già, be'... questo si
vedrà. — Si voltò e rivolse lo sguardo alla serie di finestre piene di notte,
mentre ascoltava i rumori lontani.
Il respiro gli bruciava dentro, e le costole gli facevano male, nel punto in
cui aveva sbattuto contro uno dei paletti per gli altoparlanti. Aveva corso
alla cieca, con le gambe e il cuore che gli pulsavano, e non aveva visto il
paletto, uno di quelli piegati quasi a 45 gradi: lo aveva beccato proprio nel
fianco, ed era finito per terra su un ginocchio e sulle mani, con un'esplo-
sione di rosso dietro le palpebre. Si era rialzato intontito, poi aveva ripreso
a scappare. L'unica cosa che riusciva a vedere nel buio era il recinto di rete
metallica all'estremità del drive-in. Corse in quella direzione, per mettere
la maggior distanza possibile fra sé e il party della squadra di football.
Steven rallentò aspirando l'aria a boccate, quando il recinto fu a un paio
di metri di distanza. Si fermò, si voltò per guardarsi indietro. Quando pre-
mette le palme delle mani contro i jeans sentì che gli bruciavano, e abbassò
la testa, ansimando.
Vedeva le automobili stagliate nella luce che proveniva dalla porta aper-
ta dello snack bar. Le ombre si allungavano sull'asfalto. Poi c'erano alcuni
dei giocatori, gli amici di sua sorella, sparsi sul piazzale a parlare; da quel-
la distanza non sentiva le voci, solo il ritmo ovattato della musica di uno
dei registratori che si erano portati dietro. Nessuno lo rincorreva: era riu-
scito a svanire, a diventare niente di nuovo, invisibile nella tenebra. Ora
sarebbero stati costretti a tornare ai loro giochi.
C'era solo da far passare il resto della nottata, fino al momento di andare
a casa. Steven raggiunse zoppicando uno dei paletti, stringendosi le costo-
le. Ora che non correva più, sentiva il dolore del colpo, un pulsare sordo
che andava in sintonia col battito del cuore. Si toccò con le dita, chieden-
dosi se non si fosse magari rotto qualche osso. Aveva ancora bene impres-
so nella memoria il giorno in cui si era rotto un braccio, a sette anni, un
frammento di tempo che riusciva a prendere e osservare da vicino, ancora
nitido e chiaro come le luci del pronto soccorso. Ricordava anche la dotto-
ressa, una donna nera dall'aria giovane - la mamma la chiamava "nera",
anche se a lui sembrava più sul marrone, come il caffelatte - con gli oc-
chiali dalla montatura rosso vivo, che lo aveva portato in una stanzetta
senza nessun altro, con l'odore dell'ingessatura ancora fresca che gli solle-
ticava il naso e la stecca metallica diritta in fuori come un pezzo di un ta-
volino pieghevole. La dottoressa gli aveva domandato come aveva fatto a
rompersi il braccio, e lui aveva risposto proprio come gli aveva detto la
mamma, perfino dopo che la dottoressa gli aveva chiesto per la terza volta
se ne era veramente sicuro, con voce dolce ma insistente. Quella era l'unica
parte che non riusciva a ricordare, cosa gli aveva detto di rispondere la
mamma. Quando erano usciti dalla stanzetta, la dottoressa aveva guardato
la mamma di storto, ma non le aveva detto niente.
Non gli sembrava di avere niente di rotto. Steven spinse più forte le dita
contro l'ultima costola in fondo. L'idea che fosse rotta, di avere un orlo se-
ghettato e tagliente in mezzo al torace che poteva bucargli lo stomaco o
rimanere staccato come il raggio di una ruota di bicicletta, gli si impresse
tanto nella mente che non riuscì più a scacciarla. "È solo un livido" si dis-
se, e allontanò la mano dal fianco. Prima o poi, i lividi guarivano sempre.
Sedette sull'asfalto, appoggiandosi a un paletto. Il respiro gli era tornato
normale, e il dolore al fianco andava calando lentamente. Era il minimo: se
l'era cavata con poco, rispetto a un paio di settimane prima, quando lo ave-
vano preso e se l'erano passato lanciandolo in aria, e lui era atterrato rime-
diando una contusione alla terapia. Quando si era toccato l'orecchio, aveva
visto la mano riempirsi di sangue, e per un istante si era domandato, nel-
l'intontimento, con la testa che ancora gli ronzava, se l'orecchio non si fos-
se strappato via del tutto. Si era addirittura messo a quattro zampe a cercar-
lo per terra, sentendosi sommergere dalle loro risate che gli arrivavano da
chilometri di distanza. Quando erano tornati a casa, Kris aveva raccontato
alla mamma una balla qualsiasi su come lui avesse fatto a conciarsi così -
il sangue gli si era seccato formando una crosta nera sull'orecchio e lungo
il collo - e lei si era limitata a stringere le spalle, gli occhi semichiusi anco-
ra fissi sulla TV, e aveva detto a Steven di stare più attento a quel che caz-
zo faceva. Lui non ricordava più nemmeno una delle storie che si inventa-
vano, indipendentemente da chi lo faceva, neanche quelle che raccontava
lui; dopo, c'era sempre il vuoto.
Quello che lo feriva veramente era che lo avessero visto. I ragazzi della
squadra di football, il fidanzato di Kris e i suoi compari: non era riuscito a
rendersi invisibile, a rendersi un niente, uno spazio vuoto da cui poteva os-
servare e ascoltare. Non importava quanto ci provasse, quanto rimanesse
calmo, quanto ogni espirazione e inspirazione fossero caute... lo ritro-
vavano sempre. C'era sempre qualcuno che lo ritrovava.
Appoggiò le braccia alle ginocchia, posando il mento sulla manica del
giubbino. Rivolse lo sguardo in direzione del party, verso le ombre che
ondeggiavano ritmicamente. Forse si erano dimenticati di lui, almeno per
un po'. Là fuori, nel buio, poteva osservare e aspettare, e vedere chiunque
venisse a cercarlo prima che lo riprendessero ancora.
Le palme delle mani gli bruciavano, da quando era caduto. Le girò da-
vanti agli occhi, poi le strofinò sul mento per ripulirle dalla terra. Non do-
veva far altro che aspettare.
Intorno a lui, silenzio: gli altri rumori, le risate e la musica, erano lonta-
ni. Steven alzò la testa: da dietro proveniva un altro rumore. Era il motore
di un'auto, come un ronzio di fondo appena distinguibile nell'aria notturna
immobile. Voltò la testa, guardandosi alle spalle.
In un primo momento non vide altro che i fanali della macchina, due
cerchi di luce contro il buio. Lungo la stradina che portava al drive-in, nel
punto in cui si apriva sul viale esterno: le due luci erano ferme, immobili.
Il brusio del motore, qualcosa che Steven percepì nello stomaco più che
udirlo, gli arrivò da oltre lo spiazzo asfaltato. Si girò senza spostarsi da do-
v'era, allungandosi in avanti per vedere meglio. In lontananza c'era una sa-
goma scura, dietro il riverbero dei fari. La macchina, nera contro il nero:
non riusciva a vedere nell'abitacolo, era troppo lontana e sembrava in qual-
che modo colmo di quella tenebra. Ma sicuramente c'era qualcuno all'in-
terno.
Sapeva chi c'era dentro la macchina. Seduto al volante, ad aspettare. A-
veva già visto quell'auto prima.
Steven si girò, premendo la schiena contro il gelido paletto metallico.
Anche se chiudeva gli occhi la sentiva lo stesso, distante, il motore che
mormorava una quieta pazienza. Anche l'uomo al volante poteva aspettare.
Aveva tutta la notte.
La macchina non c'era più. Steven alzò la testa e si guardò alle spalle. Si
era addormentato: non sapeva per quanto, forse solo un paio di minuti, e
l'automobile, quella nera vicino all'entrata del drive-in, era scomparsa.
Sbatté gli occhi e poi se li strofinò, così forte che un lampo di luce gli at-
traversò la testa. Quando tolse le mani, vide di nuovo la strada deserta, nel
punto in cui si era trovata la macchina.
Ora era tranquillo: i rumori, le risate e le urla del party si erano affievoli-
ti. Come se la notte fosse scivolata sopra l'asfalto, una marea scura pronta
a coprire tutte le cose che erano state visibili per breve tempo, i segni di vi-
ta. Buio e tranquillo: così doveva essere, così doveva rimanere ancora per
molto tempo.
Steven si sollevò da terra, sentendosi percorrere la gamba da punture a-
guzze. Si sostenne al paletto dell'altoparlante e agitò il piede per far rifluire
il sangue. Rivolse lo sguardo allo snack bar e vide che c'era ancora qualche
macchina parcheggiata attorno. Al party della squadra di football rimane-
vano solo gli ultimi tiratardi: sapeva dalle volte che c'era stato prima che
molti di loro avrebbero smaltito la sbronza dormendo nello spiazzo.
Non riusciva a vedere se c'era ancora l'auto di Mick. Era difficile distin-
guere la Chevy a quella distanza, nel buio. Forse sua sorella e Mick se n'e-
rano andati lasciandolo lì; forse lo avevano chiamato mentre lui dormiva e
non sentiva le loro grida attraversare l'estensione dello spiazzo. Non si sa-
rebbero certo presi la briga di venire a cercarlo in quel posto dove non si
vedeva niente; ci avrebbero riso sopra, mandandolo all'inferno, dato che
del resto non l'avevano voluto fra le scatole fin dall'inizio.
Filtrava ancora luce dalla porta spalancata sul fianco dello snack bar.
Almeno aveva un punto a cui fare riferimento nell'altra versare il drive-in
deserto, ora che il dolore alla gamba si era ridotto a un formicolio intorno
alla caviglia. Una parte di lui sperava che se ne fossero andati, lasciandolo
lì: se loro non c'erano, voleva dire che era libero, almeno per un po'. Non
sarebbe stato costretto a sopportare le piccole torture che sua sorella e il
suo ragazzo erano capaci di inventarsi. Sperduto, a mille chilometri di di-
stanza: era ancora meglio che rendersi invisibile. Anche se sapeva che l'a-
vrebbe pagata quando fosse tornato a casa.
Alla fine vide la macchina di Mick. Sembrava che dentro non ci fosse
nessuno. Lentamente, cercando di allungare la distanza, vi si diresse.
Steven capì che erano in macchina. Li vedeva dentro. Appena sotto il li-
vello dei finestrini, sicuramente avvinghiati l'uno all'altro: sua sorella Kris
di sotto, le ginocchia sollevate per stare sul sedile posteriore, e Mick di so-
pra, i jeans calati sul davanti, il fondo della schiena visibile e pallido, lo
stesso pallore gelido delle cosce della ragazza allargate e strette a lui.
Rimase immobile a qualche metro dall'auto di Mick, chiedendosi cosa
doveva fare. Erano là dentro, ma non li sentiva sussurrare né ridere né al-
tro. E non li vedeva muoversi, non vedeva Mick alzare la testa e inarcare la
schiena quando drizzava le braccia forti e muscolose. Nella macchina era
tutto tranquillo.
Steven si strinse le braccia intorno al corpo, cercando di far circolare an-
cora il sangue sotto il giubbino leggero. Aveva freddo ed era stanco: met-
tersi a dormire con la schiena premuta contro il paletto non aveva certo
migliorato le cose. Anzi, le aveva peggiorate, con quel sogno della mac-
china nera sulla stradina... ora capiva di avere sognato; non era esistito nul-
la se non gli strati di tenebra, uno sopra l'altro, ad avvolgere il mondo inte-
ro.
E si era fatto tardi: non avrebbe saputo dire quanto, ma sapeva che di so-
lito tornava a casa molto prima di quell'ora. Il party si era ammosciato:
ormai era finito, fatta eccezione per alcuni ragazzi della squadra ancora in
giro. Steven li vedeva come sagome scure appoggiate alla fiancata dello
snack bar, che chiacchieravano a bassa voce, come se la notte pesasse loro
sulle spalle, calmandoli, e tutto il divertimento se ne fosse andato fino alla
volta successiva: due o tre sedevano con la schiena contro la parete, gli a-
vambracci appoggiati alle ginocchia, le mani penzolanti, le teste che cion-
dolavano dal sonno. Steven sapeva che erano solo ubriachi. L'unico scopo
del party, per alcuni di loro - quelli senza ragazza, che non avevano qual-
cuno come sua sorella Kris, come Mick - era semplicemente cacciarsi nel-
lo stomaco quanta più birra potevano e quanto più in fretta potevano. Per
quante ragazze del liceo ci fossero ai party, non ce n'erano mai abbastanza
per tutti. Le cose andavano così.
Forse Mick e Kris si erano addormentati, distesi nella macchina. Una
volta finito quello che stavano facendo. Se fossero arrivati a casa a quell'o-
ra sarebbero stati guai, e la mamma era sveglia. A volte si svegliava in
piena notte, si alzava dal divano su cui si stendeva in compagnia della luce
azzurrina del televisore e del rumore sarcastico e martellante che la inon-
dava come una marea perpetua, che una volta spente tutte le luci riempiva
la stanza fino agli angoli. Lui avrebbe voluto spegnerle, ma sapeva che alla
mamma dava fastidio risvegliarsi al buio e rendersi conto di essersi ad-
dormentata senza avere guardato la TV; così le lasciava accese. Spesso,
diverse ore dopo, la sentiva alzarsi e brancolare per la stanza borbottando
"merda" a denti stretti quando inciampava nella bottiglia accanto al divano.
Quando Steven si svegliava la mattina dopo, lei era nel proprio letto, con
addosso ancora gli stessi abiti del giorno prima, stesa sulla schiena a bocca
spalancata, respirando a ritmo secco e veloce. E la TV era ancora accesa,
con il ciarlare dei faccioni ridenti di uno o un altro show mattutino tipo
Buongiorno America, e lui sentiva parlare - più che altro li sentiva urlare, a
quel volume assurdo - mentre si vestiva e preparava la colazione.
A quei pensieri, all'idea di sua madre che si svegliava e camminava a
tentoni nella casa buia e si accorgeva che lui e Kris non erano tornati, e che
ora era, si preoccupò. Si strofinò le braccia gelate, pensando a cosa fare. Si
sarebbe veramente infuriata. Avrebbe dato direttamente addosso a lui e
Kris, avrebbe urlato. Per Kris non era certo un problema: le avrebbe ri-
sposto urlando più forte di lei e poi sarebbe andata da qualche parte con
Mick, come già altre volte prima. Per cui sarebbe rimasto Steven, che non
aveva altro posto dove andare, solo la casa e nient'altro. E con Kris via, sa-
rebbe stato lui a subire tutta la rabbia della loro madre. Quel pensiero gli
fece provare un senso di vuoto allo stomaco. Si sentì nauseato e triste, co-
me se avesse cercato di vomitare ma non ci fosse niente, solo la con-
sapevolezza di quello che sarebbe successo.
Forse c'era ancora tempo. Poteva sempre sperarlo. Forse sua madre dor-
miva ancora; a volte non si alzava neanche dal divano, ci restava fino al
mattino dopo. Dipendeva dal caso.
Doveva andare a svegliarli. Kris e Mick. Ovviamente lei si sarebbe in-
cazzata, ma in ogni caso era meglio. Meglio di quello che sarebbe successo
se non fossero arrivati a casa in fretta. Kris era ancora una specie di peso
mosca, quando si trattava di infuriarsi: più una che metteva il broncio e di-
ceva cattiverie che un'arpia urlante. A lei poteva tenere testa. Doveva solo
mantenere la calma, diventare invisibile, scomparire del tutto, lasciarsi
passare sopra le parole affilate di Kris e la sua voce simile a un rasoio. Con
la mamma no. Lei riusciva sempre a trovarlo, dovunque si nascondesse,
non importava quanto si trincerasse nel silenzio e nell'attesa.
Si guardò attorno per vedere se qualcuno dei compagni di squadra di
Mick lo aveva localizzato. Ce n'erano solo alcuni, sei o sette; sentiva un
gruppetto chiacchierare vicino allo snack bar, le voci che mormoravano nel
buio, le mani infilate a fondo nelle tasche dei giubbetti per proteggerle dal
freddo notturno. Nessuno guardava dalla sua parte. Era un sollievo: forse
si erano completamente dimenticati di lui. Andò alla macchina di Mick,
sforzandosi di attutire ogni passo.
Quando vi posò le dita, sentì che il finestrino era freddo. Si avvicinò al
vetro, e il suo alito creò due piccoli ovali di condensa mentre guardava al-
l'interno. Era così buio, perfino la luce delle stelle era offuscata, che non
vide niente. Gli ci volle un momento prima di riuscire a distinguere le due
sagome all'interno, sua sorella e Mick distesi insieme sul sedile posteriore.
Non si muovevano, fatta eccezione per il respiro lento e profondo, all'uni-
sono, la linea delle costole di Kris che saliva contro la mano di Mick. Ave-
va la maglietta sollevata fin sotto le braccia, le dita di Mick allargate sul
seno minuscolo; tra due nocche di Mick si intravedeva un cerchietto scuro,
nero nel buio. Tutta la luce pareva provenire dalla pelle della ragazza, tal-
mente pallida da sembrare azzurra, un bagliore bianco sotto le luci tremo-
lanti di un parcheggio.
La pelle di Mick era più scura, segnata dal nero dei capelli; nel punto in
cui i jeans chiusi si piegavano, si vedeva l'angolo delle ossa del bacino. La
pelle grigia contro quella bianca di Kris, umida di sudore e di un altro tipo
di umidità: il muscolo era ancora ritto, perfino mentre dormiva.
Steven indietreggiò dal finestrino. Strinse il pugno e lo sollevò per batte-
re sul vetro. Prima di potersi muovere, capì che dietro di lui c'era qualcuno.
Si girò e tentò di accucciarsi per sfuggirgli, ma era troppo tardi. Una mano
gli afferrò il colletto del giubbino, stringendola nel pugno e allontanandolo
dall'auto di Mick. Si sentì stringere la gola dal colletto della maglietta, vide
i piedi penzolare nel vuoto.
Uno dei ragazzi della squadra, quello che si chiamava Dennie, lo sollevò
ancora di più, tenendolo appeso come una pietra sollevata vicino agli oc-
chi. Dennie accostò il volto al suo con un sogghigno.
— Cos'è che guardi, stronzetto? — urlò Dennie nell'orecchio di Steven.
— Eh? che cazzo guardi di tanto interessante?
Steven cercò di liberarsi scalciando e colpendo Dennie al petto coi gomi-
ti. — Niente! — Dennie lo teneva ben saldo, stringendogli la maglietta ar-
rotolata e il giubbino tanto forte da soffocare le sue grida. — Lasciami!
Il sorriso di Dennie si fece più vicino, proprio in faccia a Steven; il ra-
gazzino sentiva l'alito puzzolente di birra. — Mocciosetto di merda... — II
sorriso si allargò a mostrare i denti umidi. — Stai a spiare perfino tua so-
rella...
— Non stavo... — Ora erano arrivati altri ad assistere: li vedeva, sospeso
a mezz'aria nella stretta di Dennie, le punte delle scarpe che sfioravano in-
vano l'asfalto. Le sue grida avevano attirato l'attenzione dei ragazzi della
squadra rimasti a gironzolare intorno allo snack bar, e sui loro volti si di-
segnarono sorrisi come quello di Dennie. La festa non era ancora finita: ci
si poteva divertire ancora un po'. Non si erano dimenticati di lui. E in mac-
china, Mick e sua sorella Kris erano svegli: forse non si erano neppure ad-
dormentati veramente. Si erano alzati a sedere sul sedile posteriore in mo-
do da vedere cosa succedeva. Steven li sentiva ridere, un suono ovattato
dal vetro. Sua sorella gettò indietro la testa e rise, stringendo le braccia in-
torno a Mick, abbracciandolo forte, e tutti e due scoppiarono ancora a ride-
re serrando gli occhi.
— Non stavo spiando nessuno! — Steven si agitò tra le mani di Dennie.
Cercò di divincolarsi scivolando fuori dalla giacca e dalla maglietta, ma
Dennie le aveva strette troppo nel pugno, costringendo Steven a inarcare le
spalle, e sentiva la maglietta tesa come un laccio emostatico sulle costole.
— Non stavo...
Vide Dennie lanciare un'occhiata oltre di lui per scambiarsi uno sguardo
divertito con Mick, in macchina. Poi i volti ghignanti degli altri ragazzi
della squadra indietreggiarono, facendosi da parte mentre Dennie portava
il ragazzino allo snack bar, verso la luce che filtrava fuori, tenendolo so-
speso in aria.
Dennie lo mise per terra, schiacciandogli la faccia contro uno degli
schermi televisivi della stanzetta. Steven si sentì appiccicare la guancia al
vetro dello schermo, abbagliato dalle righe grigie. Vide Dennie trafficare
con l'altra mano sul videoregistratore, posto su una scatola accanto al tele-
visore; Dennie tirò fuori un nastro dall'apparecchio e lo gettò via a rimbal-
zare con un tonfo sulle scarpe di uno degli altri che si erano radunati ad as-
sistere. Senza neanche guardare di che si trattasse, Dennie prese un'altra
videocassetta e la infilò nello sportellino dell'apparecchio, poi premette il
pulsante di avvio.
Steven fece forza per spostarsi dal televisore, ma Dennie ce lo spinse
contro, con quel pugno enorme contro la nuca. Le righe grigie sullo
schermo scomparvero, sostituite da sagome grigie intrecciate l'una all'altra:
gli ci volle un momento per rendersi conto che erano persone, nude e av-
vinghiate tra loro. Da così vicino gli erano sembrati un unico organismo,
una di quelle creature che a volte si vedevano strisciare nelle pozzanghere
tra le rocce vicino all'oceano, informi e con decine di zampe.
— Ti piace? — gli urlava Dennie da dietro, sovrapponendosi ai rumori
bagnaticci e ai gemiti che provenivano dall'altoparlante del televisore. —
Eh? Ti piace questo?
Le risate riempirono la stanza. Steven strinse gli occhi, ma la luce grigia
filtrava sotto le palpebre, e le ombre si fondevano l'una nell'altra.
— Magari sei stanco di stare a guardare. — Dennie urlò ancora più forte,
coprendo le risa e i rumori del televisore. — Visto che sei uno stronzetto
tanto arrapato, forse vuoi provare com'è davvero. Eh? È questo che vuoi?
Steven non sentiva più il vetro gelato dello schermo contro la faccia.
Stava cadendo, strappato all'indietro da Dennie. Quando atterrò sul cemen-
to gli si mozzò il fiato, e una lama gli trafisse la schiena. Gemette, mentre
il dolore gli riempiva la bocca. Aprì gli occhi e vide Dennie allungarsi per
prenderlo. Non fece in tempo a scappare.
Nella stanza c'era una ragazza, che rideva insieme a tutti gli altri. Non
sua sorella, ma una delle altre della compagnia. Lei rise, e versò la birra
che stava ingoiando, bagnandosi la maglietta, mentre Dennie sollevava
Steven e gli spingeva la faccia tra i seni della ragazza.
— Ti piace? Eh?
La ragazza rise più forte, una specie di raglio più su della testa di Steven,
e sbatté contro la parete, mentre Dennie spingeva Steven contro di lei.
— Bello, eh? — Dennie tirò Steven indietro; lui stava ancora ansimando
nel tentativo di riprendere fiato. Dennie si chinò su di lui, il volto vicino al
suo, il ghigno ampio e allegro. — Ti è venuto duro? Eh? Che ne dici, ve-
diamo se ti è diventato duro? O magari le ragazze non ti piacciono. Magari
sei una checca, eh?
Steven sentì la mano di Dennie trafficargli sulla lampo dei jeans e aprir-
gli la fibbia della cintura. In un impeto di panico improvviso, strinse il pu-
gno e mirò al volto di Dennie. Il colpo fu forte quanto bastava da rovescia-
re la testa a Dennie, che perse l'equilibrio e cadde all'indietro, mollando la
spalla di Steven.
Scappa. Sentiva quell'unica parola nella mente, una voce tranquilla e pa-
cata, a chilometri di distanza ma allo stesso tempo proprio dentro di lui. Se
solo avesse provato a uscire, a uscire da quella stanzetta con quei visi ghi-
gnanti, uscire nel buio, allora poteva scappare e continuare a scappare fin-
ché non fossero più riusciti a trovarlo. Dove nessuno ci sarebbe mai più
riuscito.
Era già troppo tardi. Prima di potersi muovere, si sentì stringere il brac-
cio da una mano. Dennie, la guancia macchiata di rosso, sollevò Steven,
stringendogli il braccio con le dita robuste. Poi Steven si sentì precipitare
all'indietro, e stanza e facce gli volteggiarono intorno.
Finì su una pila di scatole di cartone contro la parete, e le videocassette
si sparpagliarono per terra. Stordito, Steven non riuscì a muoversi, come se
gli avessero separato braccia e gambe dal corpo. Non riuscì a fare altro che
alzare gli occhi e vedere Dennie che incombeva su di lui e si abbassava di
nuovo per prenderlo.
Taylor guardò il poliziotto che tornava dal punto della recinzione in cui
si era messo a parlare con il buffone obeso che gestiva il drive-in. Anche il
poliziotto era robusto, ma in modo diverso. Il tipo del drive-in aveva l'aria
di essere sempre stato grasso, come se fosse fatto esclusivamente di gras-
so: del genere in cui si poteva infilare dentro il dito come in una gelatina e,
se si spingeva forte, probabilmente si passava dall'altra parte. Invece, sotto
la pancia traboccante dello sbirro si vedevano ancora i muscoli: braccia e
spalle possenti, tutto che si afflosciava e migrava verso il culo, che stava
diventando la parte più massiccia di lui.
Un vecchio fan, pensò Taylor. Stessa squadra, stesso liceo, molti anni fa.
Spiegava un mucchio di cose.
Non lo vedevano, il poliziotto ciccione e il suo collega appoggiato al pa-
raurti dell'autopattuglia. Aveva risalito lentamente il pendio della collina,
con la pila spenta nella mano. E si era fermato a qualche metro di distanza
nel buio, dove poteva osservare e ascoltare i rumori della scenetta che
prendeva piede vicino alla recinzione del drive-in. Un sacco di strilli, tutti
da parte del compagno dello sbirro grasso. Nel sentirli, Taylor aveva sorri-
so acido: almeno non era l'unico nei dintorni a essersi rotto i coglioni di
quei teppisti che venivano a menarsela al drive-in.
Oltre la recinzione, il gestore del drive-in tornava barcollando allo snack
bar, una volta terminato il breve colloquio imprevisto con la polizia. Ta-
ylor non era riuscito a capire cosa si erano detti, una volta allontanato il
poliziotto che se l'era presa a quel modo, ma lo poteva immaginare. Amici
come prima.
Voleva parlare ai due poliziotti prima che se ne andassero. Con un gesto
leggero del pollice, l'interruttore della pila scattò. Lui sollevò il raggio di
luce e lo diresse proprio contro i due uomini, e l'ovale obliquo di luce si ri-
flette sulla portiera bianca dell'autopattuglia.
Sorpresi, i poliziotti si girarono, alzando gli occhi alla collina che fian-
cheggiava la stradina d'accesso al drive-in. Taylor abbassò la pila mentre
scendeva dal pendio sulla stradina di ghiaia.
Loro lo riconobbero per tutte le volte in cui lo avevano visto quando a-
vevano portato dei ragazzini al riformatorio per farli registrare. E dalle te-
lefonate di protesta al commissariato di polizia riguardo i party dei ragazzi
della squadra di football al drive-in; sapevano che era lui a farle. Il poli-
ziotto ciccione - Taylor non si era mai preso la briga di ricordarne il nome
- annuì lentamente, salutando Taylor con una smorfietta acida mentre lui si
avvicinava all'autopattuglia.
— Vedo che vi siete occupati del problema. — Taylor parlò con altret-
tanto sarcasmo. — Dico bene?
Il poliziotto aprì la portiera del lato guida e fissò Taylor, cattivo. L'altro
rimase a guardare, passando lo sguardo alternativamente da Taylor al suo
socio.
— Va bene, amico. Adesso stura le orecchie. — Negli occhi del poliziot-
to grasso brillava la rabbia. — Non devi più spaccare il cazzo, chiaro? So-
no stufo di sentirti fare menate per faccende che non ti riguardano.
Con la coda dell'occhio, Taylor vide il collega del poliziotto scuotere il
capo e abbassare gli occhi sul terreno a lato dell'autopattuglia, come imba-
razzato da quella scena. A Taylor dispiacque per lui: quel povero stronzo
non poteva muovere mezzo dito mentre il suo collega con la lingua lunga
scavava la fossa a tutti e due. Il suo incarico di responsabile del riforma-
torio durante il turno notturno rendeva automaticamente Taylor funziona-
rio del servizio di vigilanza della contea; i poliziotti erano dipendenti co-
munali, ma avrebbe dovuto lo stesso esserci almeno la finzione di trovarsi
tutti dalla stessa parte a fare il proprio dovere nelle trincee della guerra
contro il crimine locale. E invece si incazzavano a quel modo, come non
avrebbero mai fatto neppure con un Pinco Pallino qualunque in strada. Ta-
ylor fissò di nuovo lo sbirro obeso negli occhi, aspettando la fine di quel
suo sermone esagitato.
— Quei ragazzi sono più importanti di te. — Allo sbirro tremava la boc-
ca, mentre puntava il dito grassoccio contro Taylor. — Ficcatelo in testa.
Sono della squadra, Cristo santo... e se ogni tanto hanno bisogno di scari-
care un po' la tensione, tu non farai proprio niente per fermarli. Chiaro?
Brutto ciccione di merda. Taylor non riusciva a credere che quel tipo fa-
cesse sul serio. La squadra, quella parola pronunciata addirittura in tono di
venerazione, come se lo sbirro avesse detto: «Ehi, non possiamo mica dare
la multa a quello là, è il papa». E uno fosse obbligato a genuflettersi. Ta-
ylor sentì l'altro poliziotto sospirare, appoggiato all'autopattuglia con en-
trambe le mani, la testa bassa, e capì che gli stava dicendo in silenzio: "E-
hi, non guardare me. Devo passarci il turno con questo qua, non credi che
sia abbastanza?"
Il poliziotto grasso, soddisfatto del discorso, si sistemò al volante. Ta-
ylor fece un passo avanti e afferrò lo spigolo della portiera prima che l'al-
tro potesse richiuderla.
— Allora è tutto qui? — Taylor si sentiva stringere la gola dalla rabbia.
— Non intendete fare un cazzo per questa...
Il poliziotto allontanò la mano di Taylor dalla portiera e la richiuse. Gli
occhietti rossi, ridotti a fessure, lo fissarono con odio dal finestrino.
Taylor alzò il pugno. Prima che potesse colpire il vetro, a pochi metri di
distanza risuonò un tonfo di metallo contro metallo. L'altro poliziotto voltò
lo sguardo sul paraurti posteriore della macchina. Una lattina ammaccata
rotolò per terra accanto alla ruota, e la birra si rovesciò schiumando.
Dovevano averla lanciata sopra la recinzione del drive-in. Taylor spostò
lo sguardo dall'autopattuglia e vide in lontananza, oltre la stradina d'acces-
so, la persona dall'altra parte della rete metallica. Uno dei ragazzi, col
giubbotto spinto sui fianchi dalle mani affondate nelle tasche. Il giocatore
di football si bilanciò avanti e indietro sui talloni, sogghignando agli adulti
dall'altra parte della recinzione. Il ragazzo conosceva Taylor. Il sogghigno
si allargò mentre estraeva una mano dalla tasca della giacca, la alzava e ri-
volgeva a Taylor il medio sollevato. Poi si voltò e se ne andò, lentamente e
con noncuranza, allontanandosi dalla recinzione per fare ritorno allo snack
bar.
Taylor sentì il finestrino dell'autopattuglia che veniva abbassato. Si
guardò intorno e vide il poliziotto appoggiare il gomito sul montante d'ac-
ciaio. Non era più tanto rosso in faccia: era riuscito a darsi una calmata,
una volta finita la sua messinscena.
— Senti, perché non te ne stai a casa? — Lo sbirro fece uno sforzo per
sembrare ragionevole. — Cristo, telefoni praticamente ogni sera per la-
mentarti di questi ragazzi. E ci siamo scocciati. Non fa mica bene, sai, con-
tinuare a stressare gli altri. Ti sembra che noi veniamo al riformatorio a di-
re a voi come dovete fare il vostro lavoro? — Aspettò una risposta che non
arrivò. Taylor continuava a fissarlo in silenzio. — Sai benissimo che non
lo facciamo. Allora perché non ci lasci un po' in pace con queste stronzate
da niente? Questi ragazzi non fanno male a nessuno.
L'altro poliziotto rivolse a Taylor un'occhiata che era un misto di scusa e
di esasperazione, prima di aprire la portiera dall'altro lato ed entrare.
— Fatti gli affari tuoi e stop. Va bene? — Lo sbirro obeso accese il mo-
tore e mise in marcia. Le ruote posteriori sputarono ghiaia quando l'auto si
allontanò.
Per un istante, Taylor rimase a guardare i fanalini dell'autopattuglia in
fondo alla stradina d'accesso. Ai suoi piedi, la lattina di birra continuò a
gorgogliare, una macchia scura sul terreno. Lui si strofinò l'impugnatura
della pila contro il palmo della mano, sentendo il metallo freddo premergli
sulla pelle. Restò immobile al buio, a osservare e aspettare.
"Ma guarda che stronzi" pensò Larry. Credevano davvero di essere dei
grand'uomini. Si erano fatti prendere a calci in culo per tutto il campionato
sul campo da football, e adesso eccoli tutti impegnati a terrorizzare un
mocciosetto scemo di dieci anni. Come se fosse colpa sua se si erano fatti
sbattere a faccia in giù nel fango da tutte le altre scuole del distretto.
Dal punto in cui si trovava, sulla soglia dell'ufficio di Felton, Larry ve-
deva il ragazzino, il fratello minore di quella troietta boriosa di Kris, diste-
so sulle scatole di cartone e le videocassette nell'angolo. Era stato Dennie a
gettare là il ragazzino, proprio come se fosse un gatto che lo aveva graffia-
to. Il moccioso sembrava aver perso il fiato e annaspava in cerca di aria,
senza muoversi, ma fissando con occhi da lepre spaventata Dennie, che si
abbassava su di lui a prenderlo con la sua manona. Quel brutto sacco di
merda.
Larry si fece strada a spallate fra gli altri ragazzi immobili in cerchio ad
assistere e ridere. Anche loro erano dei sacchi di merda. Mentre passava, il
frastuono di quelle battute sceme e quelle risa sgangherate gli strinse un
groppo nello stomaco.
Afferrò la spalla di Dennie. E tirò. Dennie non si aspettava sorprese alle
spalle, e girò su se stesso per trovarsi davanti a Larry.
— Lascialo stare, Dennie. — Lasciò ricadere le mani ai fianchi, tenen-
dosi pronto, mentre Dennie si raddrizzava e lo fissava.
Dennie sorrise, incredulo. — Cosa?
Lui non sapeva perché l'avesse fatto, perché si fosse fatto avanti a forza,
guastando il divertimento a tutti, e avesse allontanato Dennie dal ragazzi-
no. Dennie aveva addosso almeno venti chili di muscoli, ma Cristo santo,
sembravano quasi cinquanta quando Dennie esibiva quel ghigno cattivo,
quando si vedeva che aveva sotto gli occhi qualcosa di minuscolo, qual-
cosa che lo aveva infastidito. Larry aveva già visto quell'espressione attra-
verso la griglia protettiva del casco di Dennie, agli allenamenti, quando
Dennie riusciva a sbattere col culo per terra in modo particolarmente ele-
gante i suoi compagni di squadra. E quando ci rideva sopra, dopo.
E poi, chi era mai quel ragazzino imbecille? Era solo uno stronzetto co-
me tanti che avrebbe dovuto starsene a letto... ma del resto, avrebbero do-
vuto starsene tutti quanti a letto, invece che là dov'erano a bere la birra of-
ferta da un vecchio fanatico del football e fare casino.
Larry guardò Dennie diritto negli occhi, stretti da quel ghigno cattivo. A
un certo punto non gli era sembrato più divertente. Era quello il motivo per
cui l'aveva fatto.
— Dai. — Avevano smesso tutti di ridere: Larry si sentì addosso i loro
sguardi, come pesi contro le scapole. — Lascialo stare, cazzo...
Dennie finse di non aver capito bene, spalancò la bocca. — Tu stai di-
cendo a me... — Come fosse la cosa più sorprendente mai sentita in vita
sua. Indicò Larry col pollice, come a dire: "Roba da non crederci" rivol-
gendo lo sguardo più oltre, verso la porta.
Anche Larry si guardò alle spalle. Sulla soglia c'era Mick, la camicia an-
cora sbottonata sotto la giacca. Era appoggiato allo stipite, e stava osser-
vando con quel sorrisetto in viso, più furbo di quello di Dennie ma altret-
tanto cattivo. Aspettava di vedere cosa sarebbe successo.
Silenzio, misurato in battiti di cuore: Larry se li sentì in gola, il calore
che gli saliva al viso. Si girò a fissare il sorrisetto di Dennie.
Poi finì di colpo contro di lui, ed entrambi furono spinti indietro di mez-
zo metro da qualcosa che si infilò loro tra le gambe.
Il ragazzino. Nessuno lo aveva tenuto d'occhio. Gli era bastato a ripren-
dere fiato e a rialzarsi in piedi, nell'angolo delle scatole di cartone dove si
trovava. Era la sua occasione. Larry si staccò dalla giacca di Dennie, e vide
il moccioso schizzare sotto le gambe degli altri della squadra, più veloce di
tutti loro. Perfino Mick, in piedi sulla soglia, fu colto di sorpresa. Il ra-
gazzino lo oltrepassò spintonandolo e scomparve di corsa nel buio.
— Ecco, sei contento, adesso? — II sorriso era sparito dal volto di Den-
nie. Si era sostenuto appoggiando una mano al muro, e riprese l'equilibrio,
fissando rabbioso Larry con gli occhi arrossati dalla birra. Sfiorò con le
spalle muscolose il torace di Larry nel dirigersi alla porta.
Larry non disse niente. Restò a guardare gli altri ragazzi che se ne anda-
vano. Ora la festa era davvero finita.
Scappò. Non gli importava dove: correva nel buio, oltre lo spiazzo asfal-
tato deserto, oltre le file di sostegni per gli altoparlanti che si ergevano
come alberi morti nella notte. Corse finché non sentì più niente alle spalle,
indietro, dove la luce filtrava dalla porta della stanzetta; corse finché non
sentì più nient'altro che il proprio respiro e il pulsare del cuore.
Steven rallentò, poi si fermò. Si girò, chinandosi, strofinando la botta sul
fianco: gli sembrava di avere un coltello sotto le costole. La notte si era
fatta così fredda che vedeva il soffio del proprio fiato, una nuvola argentea
alla debole luce delle stelle. In lontananza vedeva piccole sagome che pas-
savano di fronte alla luce proveniente dallo snack bar. Il rumore di un mo-
tore che si accendeva, come un colpo di tosse, poi un altro; fari delle auto
che se ne andavano curvando lungo la stradina. Steven si abbassò per un
istante nella paura che i fasci luminosi percorressero lo spiazzo asfaltato e
lo illuminassero. Ma le luci girarono e poi svanirono, facendosi sempre più
piccole quando le auto si dirigevano alla stradina che portava fuori sul via-
le. Il ritmo del respiro rallentò, lasciandogli un gusto spesso e salato sotto
la lingua. Anche la paura diminuì: là era al sicuro. Sempre, fin da quando
ricordava, avere paura era significato scappare, o voler scappare, da qual-
che parte in cui fosse in grado di guardarsi tutto intorno, un grande spiazzo
deserto in ogni direzione. Non importava anche se era buio. Anzi, era me-
glio che fosse buio, perché voleva dire potersi nascondere, diventare vera-
mente invisibile, non solo fingere di esserlo. Il peggio era trovarsi da qual-
che parte, una stanza con pareti, un angolo nel quale cercare di rannic-
chiarsi per diventare piccolo, sempre più piccolo, ma mai abbastanza. Ca-
mere con porte irraggiungibili, da cui non poteva mai uscire per scappare
via, porte che avrebbero benissimo potuto essere lontane un milione di chi-
lometri, perché c'era sempre qualcuno, qualcuno più grande di lui, come la
mamma o sua sorella o un amico di sua sorella. Se si poteva scappare, c'era
almeno una possibilità.
Quando la paura fu andata del tutto, dentro non gli rimase più nulla. Ste-
ven camminava lentamente, senza meta. Era felice di averla scampata, di
trovarsi fuori nel buio e nella quiete invece che in quella stanzetta con le
risate che gli picchiavano addosso. Tuttavia non provava rancore verso di
loro. Non più, almeno. Molto tempo prima, prima di avere capito tutto, si
era sentito bruciare le guance da grandi lacrimoni bollenti di vergogna e
rabbia. Ma aveva imparato: piangere dove gli altri lo potevano vedere,
quando lo intrappolavano in un angolino, non faceva che peggiorare le co-
se. Serviva solo a farli ridere di più, o a farli infuriare sempre di più, e le
urla assumevano un tono che non era più quello di sua madre, ma un cla-
more stridulo che gli colpiva le orecchie con una forza ancora maggiore di
quella delle mani di lei.
E piangere dove nessuno poteva vederlo, anche quello era terminato, una
volta capito che era meglio non sentire niente, essere vuoti dentro. Finché
uno piangeva, continuava a esistere; non era lontano un milione di chilo-
metri, non era invisibile. Meglio ingoiare tutto, spingerlo giù in gola, non
importava quanto enorme e duro e soffocante, giù nel vuoto nero dentro,
sotto lo stomaco. Dove non poteva vederlo nessuno.
Raggiunse la recinzione. Quando allungò le mani a toccare la rete metal-
lica, la sentì gelata contro le dita contratte, e quando la strinse il filo rigido
fece un debole scricchiolio metallico. Nel giro di qualche istante si sarebbe
concesso di pensare al da farsi, alla lunga camminata verso casa, in mezzo
alle strade e ai viali deserti. Il traffico sfrecciava lungo la sopraelevata del-
l'autostrada in lontananza, un fiume costante di fari che a quell'ora di notte
si faceva sempre più rado e tranquillo, ma non si inaridiva mai. Tutta quel-
la gente andava da qualche parte, dove c'erano luci e rumore. Ma in quella
zona non c'era nessuno. Camminando fino a casa Steven avrebbe visto for-
se tre o quattro macchine in tutto, che avanzavano tortuosamente oltre i fi-
lari di case e condomini dalle finestre buie.
Tra un po' ci avrebbe pensato, e avrebbe cominciato a camminare. Sape-
va che non sarebbe andato a casa con sua sorella Kris, nella macchina di
Mick, non dopo quanto era successo. Era stata una brutta notte. Di solito
riusciva a stare fuori dai guai - invisibile - quando era costretto ad aggre-
garsi a sua sorella e ai party dei suoi amici. Di solito non capitava niente, e
lui non doveva fare altro che sedersi al buio e aspettare finché non finiva
tutto e non arrivava l'ora di tornare a casa. Sedersi e dormire un po', con i
rumori e le risate che scivolavano dentro e poi fuori dai sogni.
Quella notte aveva sognato qualcosa... lo ricordò. Una macchina nera, un
frammento di notte... che aspettava e assisteva, in un punto dal quale riu-
sciva appena a intravederla, nera contro il nero...
— Ehi... — Un urlo eruppe dalla notte.
Steven alzò gli occhi, sorpreso, sentendo tendersi la pelle sulle scapole.
Una voce d'uomo. Rivolse lo sguardo oltre la rete di recinzione e vide dal-
l'altra parte una sagoma nera, lungo la stradina stretta, contro il pendio di
una collina. Una sagoma d'uomo che lo guardava: ne sentiva lo sguardo,
anche se non vedeva i suoi occhi né altro, solo il buio.
Si allontanò dalla recinzione e cominciò a correre. Dietro di lui, l'uomo
gridò ancora.
— Ehi... torna qui...
Le parole gli sfiorarono appena le orecchie, attutite dalla corrente d'aria
della fuga e dal pulsare del sangue. Continuò a correre senza guardarsi in-
dietro, diretto al cancello lontano del drive-in.
Taylor guardò il ragazzino scappare via, una figuretta che svaniva nel
buio dall'altro lato della recinzione. Non un adolescente: gli parve più sui
dieci o undici anni. Piccoletto, un viso pallido e magro, anche per avere so-
lo nove anni. Eppure quel viso sottile gli era parso più vecchio, come capi-
ta a volte con certi bambini simili ad anziani ridotti a dimensioni di bambi-
no, con le rughe stirate e la pelle grigia tornata rosea e bianca. Ma gli occhi
restavano vecchi, e cauti, e fissavano sempre gli altri da un punto in fondo
alla caverna che avevano dentro, dove nessuno poteva arrivare a toccarli.
Taylor aveva già visto ragazzini così, nel braccio dei minori vicino al car-
cere: i due palazzi dividevano gli stessi servizi medici e di cucina, così c'e-
ra sempre un certo traffico che andava e veniva nelle due direzioni. I bam-
bini malmenati, quelli a cui non era stato fatto tanto male da finire in ospe-
dale, o peggio, all'obitorio cittadino, venivano fatti entrare per il controllo
dell'infermiera, mentre i poliziotti portavano via i genitori, o il convivente
della madre, o chiunque avesse l'aria abbastanza colpevole da meritarsi
una passeggiatina al commissariato. Se i bambini venivano portati durante
il turno di notte, e Taylor non era in giro a controllare le unità abitative o il
perimetro, allora passava dall'unità medica e leggeva sulla scrivania del-
l'infermiera i rapporti degli agenti che avevano effettuato l'arresto. Aveva
visto un tal numero di freddi rapporti di polizia, "lesioni visibili", da non
sentire più quel coltello piantato nelle budella, ma solo una sensazione di
vuoto. Era molto peggio. Insensibilità: ci si abituava, ci si abituava a vede-
re bambini di dieci anni con occhi da cadavere, e poi bambini di nove e
cinque e quattro anni. Non avevano mai imparato altro che ad aspettare e
osservare, da quel punto dentro di loro nel quale nessuno poteva ferirli,
almeno non tanto da ucciderli.
E se si lavorava al carcere quanto bastava - Taylor vi aveva trascorso
venti anni di stillicidio - si rivedevano gli stessi ragazzini più tardi, quando
erano più avanti con gli anni e i poliziotti li portavano dentro per qualcuno
dei vari casini in cui avevano imparato a cacciarsi da soli. Non avevano
più bisogno di quei loro stupidi genitori o del convivente di mamma: sape-
vano cavarsela benissimo da soli, con l'ago. E almeno era qualcosa che
maneggiavano loro. Però gli occhi rimanevano uguali, magari con caverne
ancora più profonde oltre lo sguardo da cadavere, di bambini ancora più
lontani nel buio.
Non era bello stare a pensarci, in piedi su una strada deserta e ghiaiosa
nelle ore che strisciavano verso il mattino. Il ragazzino che Taylor aveva
visto e che gli aveva disposto i pensieri su quella rotta tetra e logora, era
scomparso del tutto, scappato nel buio. Pensò che doveva averlo spaventa-
to, preso di sorpresa con quel vocione da adulto che saltava fuori dal nulla
a quel modo. E il ragazzino era schizzato via d'istinto, Dio sapeva dove.
Cosa ci faceva fuori a quell'ora di notte? Forse c'entrava qualcosa con gli
altri ragazzi, quei teppisti maniaci del football che facevano casino nel
drive-in.
Difficile a dirsi. E del resto non poteva farci niente. Diventando adulti lo
si imparava. Si poteva stare tutta la notte a leggere i verbali degli agenti
mentre le infermiere dello studio medico misuravano e contavano i lividi e
pulivano le croste nere di sangue dalle orecchie dei bambini con un batuf-
folo di cotone bagnato nell'alcool; lo si poteva fare, ma non cancellare quei
verbali in triplice copia con il foglio giallo in fondo riservato agli schedari
permanenti. Era tutto permanente: alla fine era questo che si imparava.
Si voltò, tornando alla collina dall'altra parte della strada. Lentamente,
con la pila spenta che dondolava dalla mano, si fece strada tra le erbacce
secche in direzione del riformatorio.
— Ehi, mi è venuta un'idea. — Kris si spinse addosso a Mick, infilando-
gli la mano nella giacca e passandogli i polpastrelli lungo le costole. Lui
non la guardò neanche, bevve una sorsata dalla lattina di birra, l'ultima che
si era portata dietro. Lei gli avvicinò la bocca all'orecchio, abbassando la
voce. — Perché non torniamo a casa mia? Così possiamo stare comodi. E
da soli.
Era quello il vantaggio del fatto che quel suo stupido fratellino fosse
scappato via. La privacy. Non che qualcosa che Steven diceva o faceva le
impedisse mai di fare quello che voleva. Era soltanto un gran rompicoglio-
ni; anche quando stava da qualche altra parte della casa, con la porta della
camera di Kris chiusa e la radio accesa per coprire i rumori e le risatine sue
e di Mick, anche così si capiva che c'era lui in casa, in camera sua o seduto
a guardare la televisione accanto alla mamma che russava. Con quella sua
faccetta scema. Guardava e basta, senza dire niente. A Mick scocciava an-
che solo che quello sgorbio gli stesse nei paraggi. Steven gli dava ai nervi,
lo metteva di cattivo umore. Anche se sobbarcarsi il fratellino rendeva loro
possibile un mucchio di cose simpatiche e bloccava sul nascere tutte le e-
ventuali scenate che altrimenti la madre di Kris avrebbe piantato... Kris
aveva spiegato tutto a Mick già dieci volte, ma lui se ne fregava lo stesso,
voleva solo veder sparire quel moccioso. E lei doveva essere ancora più
carina, fargli le cose che voleva lui, pur di oltrepassare la barriera di astio
che la presenza di suo fratello gli faceva montare dentro. A volte le ci vo-
levano delle ore.
Ma quella sera era diverso: lei capiva che Mick pensava la stessa cosa.
Steven era sparito da solo, o almeno potevano dire così alla mamma. Non
era colpa sua se quel piccolo figlio di puttana non era capace di sopportare
gli scherzi senza perdere la testa e schizzare via al buio dove non sarebbero
riusciti a trovarlo neanche se ci avessero provato. Per cui non era vera-
mente una bugia se diceva alla mamma che lei e Mick erano veramente
andati a cercare Steven, che lo avevano chiamato e tutto quanto... ma che
doveva essersi nascosto. Tutto piagnucoloso e lagnoso, quel frignone. Solo
perché i ragazzi della squadra si erano divertiti un po' con lui, ma non che
gli avessero fatto male o altro. Anche se non le sarebbe dispiaciuto: se il
fratellino fosse finito in ospedale per un paio di settimane, proprio come si
meritava solo per essere il moccioso stronzo che era, lei avrebbe avuto
molta più privacy.
Ma anche per quella sera poteva andare, come inizio. Kris si strusciò
contro Mick, alzando gli occhi su di lui e aspettando che dicesse qualcosa.
Mick mandò giù un'altra sorsata di birra. — E tua madre?
Sul volto di Kris passò un sorrisetto. — Ma scherzi? Anche nel caso che
si dovesse svegliare, se la prenderà tanto con Steven per averci piantato in
asso che non gliene sbatterà un cazzo di quello che facciamo.
Non ci fu bisogno di stare a convincerlo. La lattina vuota di birra rim-
balzò sull'asfalto. Poi Mick le sorrise e spalancò la portiera.
Sentiva la voce provenire dal buio. Tutto intorno: ci era caduto dentro, e
non c'era fondo, solo un precipitare lento e il mondo che svaniva al di fuori
della mente. Dove prima c'erano automobili e una cosa bianca che era stata
sua sorella, che una volta aveva un viso, disarticolata sulla strada.
Senza volto. Il buio portava via le facce, le rendeva cose scure di cui si
sentiva lo sguardo fisso...
Si girò lentamente all'interno del buio, andando alla deriva; un letto, un
oceano nero e caldo, che gli risaliva contro il viso.
... lo sguardo fisso, che allungava una mano giù nel buio in cui stava ca-
dendo, il volto senza occhi, solo il buio, la voce morbida e gentile, che sus-
surrava il suo nome...
— Ehi... ehi, ragazzo...
Ma la voce era cambiata, era diversa. Steven si accigliò in quel sonno
naufragante, come se una zanzara gli avesse fatto risuonare nell'orecchio il
suo ronzio, una nota acuta e dissonante. Perché mai avrebbe dovuto cam-
biare? Non aveva senso. L'uomo della macchina nera aveva la sua voce,
l'unica possibile, quel sussurro che scivolava dolcemente nella calma aria
notturna.
— Ehi, su... ci sei?
Non morbida e bassa, come il mormorio del motore della macchina nera
che aspettava con i fari accesi a tagliare due falci affilate di luce nel buio.
Quella voce era petulante, preoccupata. Dunque non poteva essere l'uomo
della macchina nera.
Nello stesso momento, Steven sentì qualcosa tenerlo per una spalla e
scuoterlo, facendogli dondolare la testa avanti e indietro. Allontanava il
buio, trascinandolo via.
Aprì gli occhi. Venne sommerso dalla luce bianca accecante; gli occhi
gli bruciarono per il bagliore improvviso. La luce scomparve quando gli
occhi si adattarono, e vide porcellana bianca splendente e tubi cromati, ru-
binetti e manopole. Lavelli: quattro in fila, con uno specchio sopra ciascu-
no. Anche il pavimento era bianco, e le pareti, coperte dalle stesse piastrel-
le quadrate e lucide, interrotte solo da un tombino rotondo di metallo, fes-
sure nere nella cromatura, proprio al centro del pavimento della stanza.
Steven abbassò lo sguardo e si vide le mani, con le palme rivolte in bas-
so su una panchina di legno. La tenebra in cui si era ritrovato a galleggiare
si era trasformata in una serie di assi pesanti e lucida te dal logorio. Ave-
vano un odore di umido sovrastato da quello aspro del doro, tipo la polvere
Comet che la mamma teneva sotto il lavello di casa.
— Stai bene? — La mano non lo scosse di nuovo: gli rimase immobile
sulla spalla.
Lui non disse niente. Si guardò soltanto attorno, fissando le pareti di pia-
strelle brillanti sommerse dalla luce dei pannelli fluorescenti al soffitto, gli
odori dell'acqua calda e del disinfettante che bruciavano a ogni respiro len-
to che faceva.
Davanti ai suoi occhi discese un volto. L'uomo che lo aveva scosso per
risvegliarlo, che si chinava per guardarlo più da vicino. Snello, capelli radi
e baffi color sabbia: una faccia come tante, con occhi e tutto quanto il re-
sto. — Adesso sbrigo una cosa, poi torno qui e ti registriamo. Va bene co-
sì? — L'uomo sorrise, come se gli avesse raccontato una barzelletta. — Tu
stai qui buono. — Si girò e uscì dalla stanza con le luci bianche.
Steven alzò la testa, guardandosi alle spalle. Alle pareti, sopra la panca
di legno, vetrate rinforzate da rete metallica. Oltre le vetrate vedeva un'al-
tra stanza, più ampia, con un corridoio scuro che si staccava da un lato.
L'uomo si avvicinò a un alto bancone, e allungò una mano per prendere il
telefono.
Steven capì di essere in un altro luogo. Diverso. Sentiva la notte, il buio
ancora fuori da quella piccola sacca di luce. Non poteva fare altro che a-
spettare per scoprire tutto.
Non si era mai trovato in un posto come quello, prima. Così strana, quel-
la sacca di luce all'interno della notte, i neon sul soffitto che ronzavano
dolcemente, tutto avvolgeva Steven come se perfino l'aria dentro quell'am-
pio spazio fosse per qualche motivo diversa da quella esterna.
E la gente che ci lavorava, quello che gli aveva fatto tutte le domande,
che sembrava sempre infuriato per qualche motivo, e l'altro... Dovevano
far parte di quel piccolo mondo. Quando tutti gli altri dormivano, o face-
vano qualcosa nella notte, loro rimanevano là in quella luce brillante, a fa-
re quello che facevano, le cose di cui gli adulti si occupavano per guada-
gnare soldi. Come i marinai in alto mare; ci si poteva stendere sul letto con
le luci spente e pensare e sapere che in quel preciso momento erano là fuo-
ri, in un altro luogo.
Ma c'erano anche altre persone lì, solo che non erano sveglie. Steven sa-
peva che c'erano, anche senza bisogno di vederle o sentirle. Dormivano,
oltre le porte che fiancheggiavano i corridoi bui da entrambi i lati di quello
spazio illuminato. Le sentiva come si sente che c'è qualcun altro in giro,
semplicemente annusando l'aria. Pensò che dovevano essere ragazzi. Per
quella faccenda del riformatorio, come lo chiamavano. Più vecchi di lui,
forse quanto sua sorella e i suoi amici... ragazzi che si erano messi nei
guai...
Sua sorella... Steven chiuse forte gli occhi, scacciando la luce accecante,
allontanando lo stanzone e le voci dei due uomini, quello sempre arrabbia-
to che urlava sempre e l'altro che gracchiava come se si sentisse colpevole
di qualcosa. Finché non si furono allontanati, e lui rimase di nuovo solo,
dentro il buio della propria mente. Se fosse riuscito a restare tranquillo,
senza lasciarli entrare...
Avrebbero voluto sapere di Kris. Sapeva che alla fine gli avrebbero
chiesto di lei, cosa le era successo. E anche a Mick. Lo sapevano già, for-
se? Era riuscito a stare in silenzio con i poliziotti, quelli che lo avevano
raccattato in strada, dove era disteso mentre sentiva la terra girare folle-
mente, la sua testa pulsare, una pugnalata di dolore lancinante all'angolo
della fronte e qualcosa di umido e nero e attaccaticcio sulle dita quando se
l'era toccata. Non lo sapevano, non l'avevano ancora trovata. Dove aveva
lasciato lei e Mick l'uomo della macchina nera?
Ricordava di essere stato visto e raccolto da terra dai poliziotti, con cau-
tela, perché non sapevano quanto gravemente fosse ferito, e di quando l'a-
vevano messo sul sedile dell'autopattuglia, con quello schermo che separa-
va il sedile anteriore da quello posteriore, e la radio che gracchiava e par-
lava ai due e i due che rispondevano. In quel momento era ancora così
stordito, la testa che gli doleva nel punto in cui l'aveva battuta cadendo,
che non era nemmeno sicuro che fosse tutto vero, che si fosse veramente
trovato sul sedile posteriore di un'auto della polizia.
Poi ricordò di essersi nuovamente svegliato, poco alla volta, come se i
sogni non volessero lasciarlo sfuggire e non fosse ancora sicuro di essere
seduto sulla panchina di una sala illuminata, con una fila di lavabi e pia-
strelle che salivano fino al soffitto, e puzza di vapore e sapone bagnato. E
qualcuno che lo scuoteva cercando di farlo risvegliare, di farlo ritrovare
nella luce di quello stanzone. Invece che nel buio dietro le palpebre, dove
l'uomo della macchina nera, una sagoma scura senza volto, si stava ancora
chinando verso di lui, pronunciando il suo nome con voce bassa e tranquil-
la...
Quello era successo. Tutto il resto pareva solo una finzione: aveva dovu-
to fare uno sforzo anche solo per stare un minimo a quel gioco, come
quando l'uomo l'aveva portato nella sala più grande e gli aveva fatto tutte
quelle domande, e lo aveva guardato negli occhi come nel tentativo di ve-
dere la macchina nera e l'uomo che la guidava e i corpi di sua sorella e di
Mick scomposti sulla strada a gocciolarsi addosso pozzanghere nere e u-
mide, immobili, immobili per sempre... C'era tutto, dentro di lui; era per
quello che doveva starsene zitto. Lo avrebbero scoperto presto.
Stare zitto. Non doveva fare altro. Per chiuderli tutti fuori. "Non ho bi-
sogno di loro..." Aveva avuto paura quando era successo tutto, quando la
macchina nera era uscita dal buio e l'uomo che la guidava aveva preso
Mick e sua sorella, e aveva fatto loro quello che aveva fatto. Qualcosa che
non potevano impedire, e che li aveva lasciati inerti, disarticolati. Era suc-
cesso così in fretta: era stato quello a spaventarlo. Ma ora era finita, tutto
nascosto dentro di lui, e non doveva fare altro che starsene zitto.
Steven rimase fermo accanto al bancone nella stanza, in attesa. Aspetta-
va qualunque cosa sarebbe successa poi. L'uomo che gli aveva fatto le do-
mande stava componendo un numero al telefono. Si appoggiò al banco in
attesa della risposta. Steven sentì in lontananza gli squilli.
Gli squilli cessarono. Una vocina, dentro la cornetta che l'uomo teneva
all'orecchio, disse qualcosa che Steven non riuscì a capire.
— Sì, parlo con casa Welsky? — La voce dell'uomo assunse un tono
completamente diverso, professionale. Qualcuno borbottò una risposta al-
l'altro capo. — Sì, lo so. Mi scusi se la chiamo a quest'ora. Ma sono del ri-
formatorio della contea. Abbiamo qui un giovanotto che si chiama Steven.
Parlo con la madre di Steven? — L'uomo attese un istante, in ascolto della
voce che si sentiva dentro la cornetta. — Capisco... sua sorella. Le spiace
attendere un minuto? — Coprì il microfono del ricevitore e si girò verso
Steven. — Ce l'hai davvero una sorella?
Steven si accigliò, chiedendosi dove andasse a parare l'uomo. Chiedergli
una cosa del genere... Era forse uno scherzo, o cosa? Forse lo sapevano già
tutti, sapevano quello che era successo in strada, quello che aveva fatto
l'uomo della macchina nera, e ora volevano prenderlo in giro. Volevano
pungolarlo, facendo finta che non fosse successo niente. Si sentiva schiac-
ciare dalla luce delle lampade al soffitto, il bagliore lo accecò improvvisa-
mente e gli fece girare la stanza intorno.
La luce si allontanò un poco, e Steven si rese conto che l'uomo gli stava
porgendo il telefono. Lentamente, lui prese la cornetta e se la portò all'o-
recchio.
Sentì la voce di sua sorella. Infastidita: — Ehi, si può sapere cos'è questa
stronzata?
Sua sorella. Non riusciva a crederci. Steven strinse la cornetta con en-
trambe le mani, premendosela contro il volto. — Kris... Kris, sei tu?
— Oh, Cristo. — II tono schifato diventò più schifato. Aveva la voce di
una persona che ha bevuto troppo. — Chi cazzo credevi che fosse?
Impossibile. L'altro luogo, quel luogo oscuro, quello era vero: la strada e
le sagome immobili distese sull'asfalto, i laghi di sangue nero che gli si al-
largavano intorno, i capelli di lei impigliati in quell'umidità attaccaticcia.
Era tutto reale: aveva ancora tutto dentro la mente, dove poteva ricordare,
rigirare e guardare bene. Ma ora...
Gli riuscì solo di sussurrare. — Stai... stai bene? — Quelle parole gli
parvero stupide, come se stesse parlando con un fantasma, un fantasma che
non vedeva nemmeno.
La voce esasperata della ragazza gli trapanò l'orecchio. — Perché mai
non dovrei stare bene?
— Pensavo... che fosse successo qualcosa...
Steven sentì la propria voce affievolirsi e ricadere dentro di sé. Non ave-
va senso. "L'ho visto. Ho visto tutto." C'era ancora, nel buio. Sapeva che se
avesse chiuso gli occhi lo avrebbe rivisto, e avrebbe rivisto l'uomo della
macchina nera, il volto nascosto dall'ombra che calava su di lui sussurran-
do il suo nome. Che gli diceva di non avere paura.
Ora non ne aveva. Qualcosa di vuoto gli si aprì dentro, un vuoto grande
abbastanza da ingoiare il buio e lasciarlo in quella stanza illuminata, lui,
fermo lì e in nessun altro luogo che lì.
L'uomo gli prese la cornetta di mano. Steven lo ascoltò mentre parlava.
— Va bene, Kris... è così che ti chiami, giusto? Senti, Kris, c'è tua ma-
dre?
Steven si sfiorò il livido sul lato del volto, poi la crosta di sangue all'at-
taccatura dei capelli. Non faceva male. Era insensibile.
Il ragazzino lo aveva piantato di nuovo in asso. Rimaneva fermo dov'era,
come se sentire la voce di sua sorella l'avesse stordito. Taylor aveva ripre-
so il telefono per fare il lavoro che andava fatto. A volte capitava che do-
vesse parlare sempre e solo lui.
— Pronto, sei ancora in linea? — Non aveva avuto risposta; solo qual-
che risatina ovattata e un chiacchiericcio all'altro capo. — Ho chiesto se c'è
tua madre. Vorrei parlarle, se possibile.
Di nuovo la voce della ragazza, con un tono scocciato e sarcastico. —
Non può venire a risponderle. Cioè, adesso no. — Vicino a lei, qualcuno
rise.
Taylor si passò la punta della lingua sugli incisivi, annuendo fra sé. Non
era la prima volta che gli capitava di imbattersi in letamai del genere. La
bella scenetta del figlio maggiore che guadagna punti dai casini che com-
bina l'altro. Anche la sua famiglia, suo fratello e sua sorella, non erano stati
molto diversi, quando lui era piccolo. E anche per quelli che conosceva la
storia sembrava più o meno la stessa. C'era da chiedersi dove andassero a
tirarle fuori, le famigliole felici della TV.
Indurì la voce e mise da parte tutte le stronzate dell'agente educato e ri-
spettoso. — Okay, adesso apri le orecchie, chiudi la bocca e ascolta bene.
Se non c'è tua madre, voglio che le dici o le lasci un messaggio per farle
sapere che Steven è qui al riformatorio. Chiaro? Richiamo fra qualche o-
ra...
— Vaffanculo, porco. — Uno scatto secco, quando la cornetta all'altro
capo della linea venne riagganciata.
Taylor fissò il telefono muto che stringeva in mano, poi riappese. Si girò
verso il ragazzino. — A quanto pare, starai qui per il resto della nottata.
Il ragazzino alzò le spalle. Sembrava che non gli importasse molto, in un
caso o nell'altro.
Si era infilata la maglietta di Mick quando era uscita dalla camera da let-
to per rispondere al telefono. Ora lui le stava alle spalle, con addosso solo i
jeans; le diede una manata sul culo, appena sotto l'orlo della maglietta.
Kris si voltò sentendosi abbracciare, portandogli la mano alla vita, e lo
guardò tracannare dalla bottiglia mezza piena di vodka che avevano trova-
to a fianco del divano.
Mick era davvero figo, a mescolare quell'intruglio con tutta la birra che
aveva bevuto. Per poco non perse l'equilibrio, trascinando anche lei contro
il bancone che separava la cucina dal soggiorno. Kris afferrò il telefono
prima che precipitasse a terra. Nulla, neanche uno dei rumori che avevano
fatto a parlare e ridacchiare, aveva svegliato sua madre, ma non voleva
correre rischi.
Avevano avuto già abbastanza fortuna, del tipo che a lei faceva comodo.
Prima il suo fratellino scemo che scappava a quel modo al drive-in, così
non c'era stato bisogno di portarselo fino a casa. Anche se avesse visto
Steven per strada, che camminava con quel suo stupido broncio - Cristo,
quanto le dava ai nervi vederlo con quel faccino da cane bastonato! - a-
vrebbe sicuramente detto a Mick di lasciarlo dov'era e dargli la polvere,
piuttosto che fermarsi a raccattarlo. Almeno sarebbe servito a dare loro un
minimo di relativa privacy in casa, prima che Steven arrivasse davanti alla
porta.
Ma era andata addirittura meglio: quel moccioso cretino era riuscito a
farsi prendere dalla polizia. Almeno per una volta gli sbirri avevano fatto
qualcosa di giusto e lo avevano scaricato al riformatorio. Lei non c'era mai
stata, ma degli amici le avevano detto come funzionava. Con tutta probabi-
lità Steven non sarebbe arrivato a casa prima delle nove o delle dieci del
mattino.
Peccato che non lo mettessero dentro definitivamente, almeno finché
non avesse compiuto diciotto anni o giù di lì. E glielo avessero tolto dai
piedi. Era stufa marcia di quella stronzata dello "chaperon". Era un rompi-
coglioni, nient'altro.
Naturalmente non sarebbe successo, ma... adesso a lei e a Mick restava
un bel po' di tempo, ore e ore. Potevano guardare il sole sorgere dalla fine-
stra della camera da letto, oltre la tenda. Sarebbe stato bello, come se fos-
sero già sposati o conviventi, in casa loro, lontano dalla mamma e da quel-
le stronzate. Si spinse contro Mick, schiacciandogli una tetta coperta dal
cotone sottile della maglietta contro il torace caldo, che sapeva di sudore.
Un'occhiata di lato, verso il centro della stanza, e vide sua madre ancora
distesa sul divano, la bocca aperta, che russava piano e gorgogliando, di
gola. Aveva una mano ancora abbandonata a terra, il palmo sollevato pro-
prio nel punto in cui si era trovata la bottiglia di vodka. Era immersa nella
luce azzurrina del televisore, con le ombre che fluttuavano sullo schermo
come placide correnti oceaniche.
— Vieni. — Kris prese la mano di Mick e lo condusse sorridendo verso
il corridoio, e poi verso la camera da letto in fondo. — Adesso non dob-
biamo più preoccuparci che qualcuno venga a rompere.
Il ragazzino restò in silenzio per tutto il tragitto. Quando Taylor gli lan-
ciò un'occhiata, stava fissando diritto davanti a sé, sprofondato nei propri
pensieri. Aveva l'aria del tipico ragazzino che rimuginava spesso e a lungo.
Anche Taylor era così, a quell'età. Il silenzio del ragazzino lo metteva un
po' a disagio, e lo costringeva a riportare gli occhi sulla strada. Lo metteva
a disagio perché gli ricordava i giorni di tanto tempo prima, ora chiusi sot-
to gli alti e i bassi della vita da adulto. Bisognava mantenersi la mente oc-
cupata, in modo da non essere costretti a ricordare.
Cercò di intavolare un po' di conversazione. Poi vide il ragazzino girarsi
sul sedile e guardare indietro la strada che scorreva via oltre il lunotto.
Stringeva forte il bordo del sedile, fissando attentamente il buio.
— Che c'è, hai già nostalgia del riformatorio? — Era una battuta, e Ta-
ylor cercò di mettere un po' di allegria nella voce. — Vuoi tornarci?
Il ragazzino si girò a guardarlo, preso di sorpresa, gli occhi sgranati. Era
completamente assorto in quello che aveva visto fuori, dietro di loro, qua-
lunque cosa fosse. O forse lo stava cercando con lo sguardo. Scosse il ca-
po, voltandosi lentamente, lasciandosi scivolare sul sedile. — No... no,
credevo... — Un borbottio che si affievolì subito. — Credevo di avere vi-
sto qualcosa...
— Sì? Cosa?
Silenzio. Il ragazzino si lasciò andare sul sedile e tornò a rifugiarsi in se
stesso.
Taylor alzò gli occhi verso il retrovisore. Non vide niente, solo la strada
deserta distesa loro alle spalle. Poi, a diversi isolati di distanza, una coppia
di fari girò oltre un angolo, due puntini di luce, fori scavati nel buio.
Niente d'importante. Altra gente che usciva in strada: quella era l'ora del
mattino in cui si passava dal "tardissimo" al "prestissimo", quando i pen-
dolari delle lunghe distanze dovevano uscire per imboccare le autostrade.
Taylor alzò una mano e girò lo specchietto per vedere meglio l'altra au-
tomobile. Gli rimaneva dietro, seguendolo alla stessa velocità. La strada
venne illuminata dall'alone di luce brillante che proveniva da una stazione
di servizio: quando vi passò, anche l'altra macchina, Taylor la vide meglio.
Americana, ultimo modello - la intravide così velocemente che non riuscì a
riconoscere quale marca - o forse una straniera, più appariscente, progetta-
ta in modo da riprodurre la linea ribassata a motore potente delle carriole
di Detroit. Chiunque fosse alla guida, si vedeva che curava la sua macchi-
na: brillava come ossidiana lucidata, e le luci della stazione di servizio
scintillavano sulle fiancate nere e aerodinamiche.
Dovette riportare per un momento l'attenzione al proprio veicolo. Più
avanti, un semaforo stava passando al giallo. Nel rallentare, Taylor guardò
nello specchietto. La macchina nera era sparita, aveva svoltato in una delle
altre strade. Non gli riuscì di vedere dove esattamente. Perfino il bagliore
rosso dei fari di coda era svanito.
Di nuovo solo sulla strada deserta, Taylor aspettò il semaforo.
Quando Kris ritornò, Mick si era alzato a sedere sul letto. La ragazza
sbatté la porta. Aveva l'aria di una persona infuriata a morte.
Lui infilò la mano sotto la coperta per grattarsi. — Chi diavolo era? —
Aveva sentito gli strilli e il casino dal corridoio, ma non era riuscito a capi-
re le parole che si dicevano.
Kris scivolò sotto le lenzuola, stringendosi a lui. Gli posò un dito sulle
labbra. La rabbia che aveva dentro stava già lasciando il posto alla civette-
ria. — Sss, abbassa la voce. La mamma è ritornata in vita. — Annuì col
capo verso la finestra. Riuscirono a distinguere il rumore dei passi di qual-
cuno sul vialetto della casa. — Uno stronzo del riformatorio. Che ha ripor-
tato a casa il mio fratellino scemo.
Mick si alzò, si girò e aprì l'angolo della tendina accanto al letto. Fuori
c'era un tipo tutto serioso che si stava dirigendo verso una macchina ferma
sul marciapiede. Mick guardò bene l'uomo che apriva la portiera e si met-
teva al volante.
— Ehi, ma lo conosco, quel faccia di merda. — Mick continuò a fissar-
lo, dall'angolino della finestra. — Ci ho fatto un paio di litigate, con lui. È
il rotto in culo che chiama sempre gli sbirri a darci addosso.
Kris gli strofinò il collo, percorrendogli con il dito la curva dell'orecchio.
Vide che sul volto gli si stava accendendo un sorriso.
Mick annuì lentamente. Abbassò la voce quasi fino a un sussurro. — So
perfino dove abita...
PARTE SECONDA
La mattina dopo
Quando Taylor fu sulla soglia del suo condominio, sentì alle spalle il
tonfo del giornale ripiegato che sbatteva sul selciato. Il quotidiano scivolò
avanti, battendogli sul tallone; lui si voltò, e vide una Volkswagen macula-
ta di ruggine che si allontanava lungo la strada, un braccio che sporgeva
dal finestrino pronto a lanciare un altro giornale. Raccolse il quotidiano e
lo aggiunse alla poca posta che aveva preso dalla propria cassetta in porti-
neria.
Si sentiva stanco, pronto a tirare tutte le tende del suo appartamento, sin-
tonizzarsi su qualche stazione radio universitaria che sussurrava musica
classica in modo da cancellare il frastuono del traffico diurno, e crollare. Il
personale di notte del riformatorio si divideva più o meno equamente fra
quelli che andavano a dormire subito dopo aver smontato e quelli che si
tenevano in serbo il sonno fino al tardo pomeriggio o alla sera. E poi c'era
sempre qualche coglione che cercava di non dormire affatto, come se le
lunghe ore buie da mezzanotte in poi si potessero semplicemente accodare
alla vita normale senza essere costretti a regolarsi su altri ritmi per pagarne
il prezzo. Tipi del genere di solito finivano bruciati nel giro di pochi mesi:
Taylor ne aveva visto più di uno nei suoi giri di perlustrazione delle unità.
Giri che non faceva neanche con riservatezza; cercava sempre di fare il
maggior rumore possibile, camminando pesantemente per i corridoi, addi-
rittura fischiettando, Cristo santo, nel caso che qualcuno avesse bisogno di
essere avvertito di ritornare al mondo, in modo che potesse rialzare la testa
dalla scrivania e dai libri su cui si era addormentato, di schiarirsi la testa e
asciugarsi la saliva dal mento. Taylor lo considerava semplicemente dove-
roso, dal momento che addormentarsi in servizio era praticamente l'unico
modo per vedersi licenziati dal turno di notte. Bastava rimanere svegli, at-
traversare le notti lunghe e tediose finché non si faceva vedere il personale
diurno, e si poteva mantenere quel posto in eterno. Bastava volerlo...
Alcuni ragazzi del turno erano andati a fare colazione da Denny's, vicino
all'autostrada, dato che conoscevano il gestore del ristorante quanto basta-
va per fargli aprire il bar a quell'ora, ma Taylor aveva declinato. Non era
per la faccenda della squadra di football e dei due sbirri fuori dal drive-in
che si sentiva stanco, o meglio esausto, fin nelle ossa, quanto per aver por-
tato il piccolo Welsky in quella sua casa ributtante. Casa ributtante, madre
ributtante e piena di alcool. Un'occhiata tetra dentro il mondo da cui veni-
vano i ragazzini del riformatorio, prima che si trasformassero nell'immon-
dizia che gente come Taylor spazzava via e nascondeva in belle cellette
ordinate, a spese dei contribuenti. Gli ci volle un po' per indossare di nuo-
vo la sua corazza isolante di cinismo, quella che gli aveva dato la forza di
lavorare ai turni del riformatorio per dodici anni e resistere a cose simili.
Era qualcosa a cui non si pensava proprio, che si richiudeva nella mente
per dimenticarsene, anche se si sapeva sempre che c'era. Era per quello che
non aveva mai lasciato il turno dei sepolti vivi per passare a quello diurno:
con i ragazzi se la cavava abbastanza bene, soprattutto perché dormivano
quasi sempre. Era il resto, quello che stava intorno a loro, a stressarlo.
L'erba del cortiletto centrale del condominio era umida di rugiada. Du-
rante la notte erano uscite le lumache, lasciando scie argentate sui gradini
dell'appartamento di Taylor. Aveva già tirato fuori la chiave prima di ren-
dersi conto che la porta era già aperta e leggermente socchiusa. La spalan-
cò spingendola con l'estremità del giornale ripiegato.
Dall'apertura comparve un braccio di donna, che stringeva in mano un
cartoncino da due litri di latte.
— È arrivato il lattaio — disse una voce allegra da dentro.
Anne fece un passo indietro per lasciar entrare Taylor nell'appartamento.
Lui si richiuse la porta alle spalle e la strinse a sé con un braccio solo.
Quando la lasciò andare, lei portò il latte nell'angolo cucina.
— Mi sono ricordata che avevi finito il latte l'altra sera. — Posò il con-
tenitore sul bancone e cominciò a tirare fuori roba da un sacchetto di carta
marrone. — E anche il caffè, te ne ho portato un po'. Guarda che dovresti
veramente provare a far un salto al supermercato, una volta ogni tanto. Se
non fosse per me, moriresti di fame.
Taylor lanciò il giornale sul tavolo da pranzo ed entrò nel soggiorno,
massaggiandosi per togliere quel dolore rigido in fondo alla schiena. Non
fece caso ad Anne: brontolava per scherzo, non sul serio. Le frecciate cat-
tive le riservava a suo marito: il loro matrimonio ormai in pezzi stava di-
ventando una guerra di attriti, di piccole ferite dolorose e altri spargimenti
di sangue. Nessuno dei quali interferiva con la loro gestione comune di
una piccola impresa informatica e la cura che dedicavano al figlio di otto
anni. Anne aveva tutto un repertorio di aneddoti sulle amichette del marito,
che riferiva a Taylor con una specie di tetra soddisfazione. Il punto crucia-
le della litania era il resoconto di come una delle suddette si era sbronzata
tanto da mettersi a vomitare sul sedile anteriore della Mercedes per la qua-
le suo marito stravedeva, e di come la puzza non era più venuta via dai ri-
vestimenti in cuoio.
Taylor non sapeva se la voleva vicino in quel momento. Non si era mai
pentito di averle dato la chiave dell'appartamento: si vedevano regolarmen-
te di prima mattina, fra il momento in cui lui tornava a casa dal riformato-
rio e lei doveva uscire a lavorare sui tabulati degli archivi di una certa ban-
ca. Di prima mattina e le sere in cui suo marito portava il bambino agli al-
lenamenti di calcio. Taylor non era in vena, né per lei né per altro. Era
stanco morto, o forse era semplicemente privo di sensazioni.
La posta era costituita di bollette e stronzate simili. Lui si fermò in mez-
zo al soggiorno, tra le librerie traboccanti e la scrivania su cui era posato il
vecchio manuale Royal, strappando le buste con il pollice. Ed McMahon
che smaniava di fargli vincere un milione di dollari. Taylor accartocciò il
faccione sorridente e gettò la pallottola nel cesto della spazzatura vicino al-
la scrivania.
Riconobbe la calligrafia dell'ultima busta. Quando la aprì, vi trovò una
foto di una ragazzina sorridente. Una foto scattata a scuola. La girò. Con la
stessa calligrafia: A PAPÀ. TI VOGLIO TANTO BENE. KAREN. Lui
guardò la foto per un momento, poi la posò sulla scrivania, contro un ri-
tratto incorniciato della stessa bambina. Sua figlia. Erano stati sua madre e
il patrigno - il nuovo padre, pensò Taylor - a spedirgli quella foto con cor-
nice un paio di anni prima come regalo di Natale. A loro piaceva fare
stronzate simili, da gente civile. Karen aveva sempre lo stesso sorriso di
prima, ma aveva un altro taglio di capelli: la moda adolescenziale della
treccia tutta da un lato aveva raggiunto gli angoli più sperduti del Minne-
sota. Gli ci volle un istante per calcolare se aveva già cominciato il liceo.
No, sarebbe stato l'anno successivo, anche se sua madre e il patrigno fosse-
ro riusciti a farla avanzare di un anno.
— Ma di niente.
Si voltò, e vide Anne appoggiata al muro che separava la zona cucina,
intenta a fissarlo con le braccia conserte. Gli ci volle un altro momento per
farselo tornare in mente: il latte, scemo. E il caffè. Annuì col capo. — Hai
ragione, grazie per avermi portato quella roba. L'ho molto apprezzato. —
Rivolse lo sguardo fuori dalla finestra con la vista sul parcheggio che stava
lentamente riempiendosi con il passare della mattina. — Credo di essere
solo un po' stanco.
Anne gli si avvicinò da dietro e gli massaggiò le spalle. — È successo
qualcosa al riformatorio? Sei arrivato a casa un po' in ritardo.
Qualche mese prima c'erano state grane fra il dipartimento per la libertà
vigilata e il sindacato dei dipendenti, qualcosa che aveva a che fare con il
personale part-time che il dipartimento continuava ad assumere: era mano-
dopera a basso prezzo, dato che non rientrava nella convenzione di assi-
stenza medica della contea. Taylor aveva dovuto partecipare a diverse riu-
nioni la mattina presto, prima che la faccenda si risolvesse.
Scosse il capo. — No, solo le solite puttanate.
Anne gli posò la testa sulla spalla. — Quando te ne andrai da là? Ti farà
diventare pazzo.
Lui scosse le spalle. — Va tutto bene. — Poi un sorriso. — Mi lascia un
sacco di tempo per lavorare al mio libro. — Batté con la punta della scarpa
su una valigetta a lato della scrivania.
Lei si allontanò. — Quello non è un libro. È una scusa. — Sapevano be-
nissimo tutti e due che erano settimane che non portava al riformatorio
quella valigetta, che conteneva il manoscritto e i suoi appunti.
Lui la osservò mentre andava verso una sedia vicino al tavolo della cu-
cina per prendere soprabito e borsetta. — Allora, qual è l'ultima su te e Ri-
chard? — Capì immediatamente che non avrebbe dovuto dirlo. Ma la frec-
ciata sul libro lo aveva punto nel vivo.
Lei gli rivolse un sorriso cupo. Touché. — Già, be', ognuno ha i suoi
problemi, no? — Diede un'occhiata alla fede al dito di lui. — Quando si ha
un figlio da crescere, si sopportano un mucchio di cose.
Lui annuì. — Sì, credo di averne sopportate un bel po' quando ero sposa-
to.
Borsetta e soprabito sottobraccio, Anne andò da Taylor e lo baciò su una
guancia. — Devo andare.
Lui la prese alla vita. — Perché non vai più tardi, stamattina? — Era an-
cora stanco, ma non tanto da non potersi godere la sua compagnia.
Lei si lasciò abbracciare, ma indietreggiò. — Sono arrivata tardi anche
ieri mattina. E la mattina prima.
— E allora perché deluderli? Dagli qualcosa di cui parlare. — Oltre al
marito di Anne, nell'impresa c'erano due operatrici di computer, due donne
che consideravano ogni giornata della vita in ufficio come una puntata di
una grande telenovela. L'unica volta che Taylor era passato a prendere An-
ne per portarla a pranzo, la mattina dopo lei gli aveva riferito che il tasso di
pettegolezzi e risatine era salito di dieci punti.
Anne si staccò il braccio di lui dalla vita. — Vai a letto. — Cominciò a
infilarsi il soprabito. — Da solo.
Una volta fuori dall'appartamento, si voltò a guardarlo, lo vide appoggia-
to allo stipite. — Ci vediamo quando smonti?
Lei scosse il capo. — Non so. Se non rimandano gli allenamenti di
Danny. — Alzò le spalle. — Forse stasera tardi.
Taylor la guardò andare all'uscita del palazzo e dirigersi alla macchina
parcheggiata sul marciapiede. Non si guardò indietro una sola volta, con i
tacchi che picchiettavano sul selciato.
Lui si lasciò cadere sul divano, le gambe stese di fronte a sé. Per qualche
momento piegò la testa per guardare fuori dalla finestra, gli occhi fissi sul-
le commesse del centro commerciale che andavano al lavoro e sulle ombre
che lentamente si ritiravano sotto i lampioni del parcheggio.
Al volante c'era Mick. Con i suoi amici, i compagni di squadra, accanto
e dietro, impegnati a spartirsi una confezione da sei di birra. Quando ave-
vano parcheggiato la macchina, a poche traverse di distanza dal condomi-
nio, erano tutti su di giri, come per una partita importante, pronti per l'a-
zione. Ma Mick aveva avuto una specie di presentimento. Era per quello
che era lui il capitano: perché capiva. E così aveva ordinato di aspettare.
Di darsi una calmata mentre lui esaminava la situazione.
Proprio come immaginava, una puttanella tutta compita era venuta fuori
dall'edificio sbattendo i tacchi, diretta alla propria auto. Dopo l'ora in cui di
solito la gente andava al lavoro, e tutto si era calmato. Se la banda avesse
fatto la sua mossa in quel momento, sarebbe incappata proprio in lei, il che
sarebbe stato decisamente fastidioso.
Ora era arrivato il momento. Mick si sentiva la sicurezza nello stomaco,
calda e tranquilla, proprio come quando se ne mandava una in meta rima-
nendo sempre tranquilli in posizione, al sicuro e coperti dai compagni, e si
vedeva la palla salire a spirale come se fosse incollata al binario di un tre-
nino elettrico che correva nel cielo. Di recente gli era capitato più durante
gli allenamenti che nelle partite vere, ma restava comunque una bella sen-
sazione. La sensazione giusta. Il momento giusto.
— Okay... — annuì, poi mandò giù quello che restava della sua birra e
tirò la lattina fuori dal finestrino. Si voltò, allungandosi dietro. — Passami
il coltello.
Dennie era seduto dietro. Rivolse a Mick un sorriso, poi si frugò nella
giacca e ne trasse il suo coltello. Era bello grosso, grande perfino per la
mano di Dennie. Lo sbatté in mano a Mick. Mick gli rivolse un sorriso
come ringraziamento mentre faceva scattare la lama. La luce del sole mat-
tutino scintillò sul metallo lucido.
Uno degli altri seduti dietro aveva un sacco di tela fra i piedi. Dentro c'e-
ra qualcosa, qualcosa di vivo, che si muoveva. E quel qualcosa nel sacco
aveva paura, voleva uscire. Emise un debole miagolio patetico di terrore. Il
giocatore che stringeva nel pugno l'estremità del sacco spinse la mano con-
tro la creatura all'interno, e in risposta si udirono sibili e uno scalciare fu-
rioso, e un artiglio bucò la tela colpendo il dito dell'adolescente. Il ragazzo
si fissò la goccia di sangue che si ingrossava sulla punta del dito, poi per-
cosse il sacco con un forte pugno, e si sentì un guaito.
Mick controllò la lama, passandosene il filo sul pollice. Poi si allungò
dietro il sedile e prese di mano il sacco al suo amico.
Taylor si risvegliò nel sentir battere contro la porta: colpi come martella-
te che risuonavano nell'appartamento, forti quanto bastava a far vibrare il
vetro della finestra. Spalancò gli occhi alla luce del sole che penetrava nel-
la stanza. Si era addormentato sul divano del soggiorno, una spalla incune-
ata nell'angolo del bracciolo foderato. Non aveva sognato niente: privo di
sensi e basta. Per un istante, confuso, credette che quel battere facesse par-
te del sogno, qualcosa spinto fuori dall'adrenalina degli incubi. Poi il ru-
more cessò, e Taylor sentì un rumore di passi che correvano via al di fuori,
e una risata che svaniva in lontananza.
A quel punto sentì l'altro rumore e si svegliò del tutto, gli ultimi brandel-
li di sonno che si spegnevano. Uno stridio lamentoso, acuto come una la-
ma. Paura e dolore che salivano a ondate proprio davanti alla porta di casa.
Il suono, un verso di animale, riempì di angoscia l'aria dell'appartamento e
gli penetrò al centro del cranio.
— Cristo di Dio... — Taylor si alzò dal divano e corse alla porta. Quan-
do allungò la mano verso la maniglia, il verso si stava già spegnendo in
qualcosa di più morbido, come un gemito gorgogliante. Quando spalancò
la porta, il torace gli si impiastricciò di rosso.
Gli ci volle un secondo per capire cosa fosse quella creatura. Si muoveva
e sanguinava, e il pelo scuro era aggrovigliato e riluceva di sangue. Il gros-
so chiodo che bloccava l'animale alla porta sporgeva dal collo, e la bocca
era spalancata, con denti aguzzi, e a ogni respiro strozzato si riempiva di
rosso. Un gatto che agitava una zampa anteriore, raschiando invano il le-
gno della porta. Taylor si sentì stringere lo stomaco di fronte a quell'agonia
sospesa di fronte ai suoi occhi.
Il torace dell'animale era aperto dal costato alle zampe posteriori. Dalla
ferita fuoriusciva il groviglio imbrattato di rosa delle interiora, spinto in
basso dal peso degli altri organi. Stava morendo, ma non abbastanza in
fretta, e gli occhi, in mezzo a quel piccolo volto contorto, erano sbarrati,
fuori dalle orbite. Il respiro era un ansimare rapidissimo, i polmoni soffo-
cati dal sangue che saliva schiumando alla bocca del gatto.
— Merda... — Taylor sentì un groppo di nausea in gola. Uscì dall'appar-
tamento e richiuse la porta, mentre il sangue del gatto colava in rivoletti fi-
no al marciapiede. Si girò e si diresse verso la stanzetta in fondo al palazzo
in cui il giardiniere riponeva i suoi attrezzi.
La signora Ortiz, l'amministratrice del condominio, lo vide tornare indie-
tro con la vanga in mano. Era uscita nel sentire il fracasso, con addosso
l'abito sbiadito che usava in casa. Lo chiamò dal cortile, agitando la mano
che teneva la sigaretta. — Cosa succede? Qualcosa non va?
Lui tornò in fretta al suo appartamento. — Niente, signora Ortiz. — Lo
gridò voltando la testa. — Non si preoccupi. Ci penserò io.
Lei intravide il gatto inchiodato alla porta, e impallidì. Tornò di corsa
nel suo appartamento e richiuse la porta facendola sbattere.
L'animale era ancora vivo e si contorceva lentamente, facendo colare il
groviglio di intestini come un sacco grigio-bluastro liscio e tremolante.
Taylor sollevò la vanga e posò il filo della lama contro il collo del gatto,
appena sotto il chiodo. Strinse i denti e premette rapidamente; il gatto si
contrasse, le zampe anteriori disegnarono cerchi sbavati nelle macchie di
sangue. Un'altra spinta, più forte. Il corpo del gatto ricadde sul selciato.
Sussultò convulsamente per un istante, poi rimase immobile.
Riuscì a servirsi della lama per estirpare il chiodo. La testa del gatto, oc-
chi spalancati ma ciechi, precipitò con un rumore ovattato e umidiccio sul-
la carcassa.
Taylor infilò la vanga nell'erba a fianco del selciato e spinse contro il
manico. Espirò lentamente, ricacciando giù il gusto nauseante che aveva in
bocca. Si era mosso in fretta, come se avesse innestato un pilota automati-
co, quando i versi del gatto lo avevano spinto a muoversi. Senza pensare;
ma in quel momento i pensieri tornarono, insieme alla rabbia che cresceva
sempre più a ogni battito di cuore. "Schifosi ragazzini bastardi." Era incaz-
zato. Sapeva che erano stati dei ragazzini, e aveva anche idea di quali.
Alzò la testa. La porta d'ingresso dell'appartamento sembrava un tavolo
da macello alzato in verticale e fissato ai cardini. Il carnaio ai piedi della
porta era anche peggio. Doveva ripulire.
Una volta spinto il gatto morto in un sacchetto di plastica per l'immondi-
zia e ripuliti porta e selciato con la canna dell'acqua, riportò la vanga nel
casotto del giardiniere. Mentre la rimetteva a posto, si sentì osservato.
Oltre il muro posteriore del palazzo, si apriva sulla strada il vicolo che
portava ai parcheggi coperti. Taylor girò il capo e vide un'auto ferma. Fac-
ce all'interno, facce che lo fissavano. E sorridevano.
Uno di loro si sporse dal finestrino del lato guida. Taylor l'aveva già vi-
sto, al drive-in. Uno dei ragazzi della squadra di football. Il ghigno dell'a-
dolescente si allargò, e Taylor riuscì a sentire le risa degli altri.
Il ragazzino al volante teneva una specie di fagotto in mano. Lo lanciò
verso Taylor, e l'oggetto si dispiegò e ricadde in mezzo alla strada. Poi il
motore salì di giri, e l'auto sgommò nello staccarsi dal marciapiede.
Taylor richiuse la porta del casotto. Uscì in mezzo alla strada e prese
quello che l'adolescente aveva tirato. Un sacco di tela. Il tessuto ruvido era
pesante, zuppo di sangue.
Taylor aveva riconosciuto il bambino appena prima che gli altri gli si
raccogliessero intorno, togliendo la vittima alla vista di chiunque si trovas-
se a passare di lì, entrando o uscendo dal centro commerciale. Aveva rico-
nosciuto il volto smagrito, con quella maschera di gelido stoicismo e di in-
differenza a qualsiasi cosa accadesse. Si sentì addosso la stessa stanchezza
di poco prima: si girò verso l'auto, spalancò la portiera per entrare. Si fer-
mò, a testa bassa, stringendo il bordo superiore della portiera con la mano.
Non gli importava. Non era affare o lavoro o turno suo. Se capitavano
stronzate come qualche bullo da scuola - perché sapeva che stava succe-
dendo proprio quello, una banda di ragazzini malvagi guidata da un picco-
lo tagliagole più alto di un metro della preda - se succedevano cose del ge-
nere nel mondo reale fuori del riformatorio, non erano affari suoi. Porcate
del genere capitavano di continuo. Così andava il mondo, soprattutto per
un piccoletto intristito come quel Welsky. Una vittima della vita. I bulli di
quartiere erano come i lupi, o qualsiasi altro predatore, con la caratteristica
comune di possedere un istinto sviluppatissimo per capire quando poteva-
no attaccare e farla franca. Non si vedevano mai quei teppisti da aula sco-
lastica attaccare briga con qualcuno che avesse l'aria di potergli dare una
bella mazzata al culo. E nemmeno con quelli più in alto, quelli con addos-
so l'aureola da ragazzo prodigio da cui si capiva che nel giro di qualche
anno sarebbero finiti a capo del corpo studenti o qualcosa di simile. Taylor
sapeva nel profondo del cuore, proprio come tutti, che nelle scuole si tolle-
rava la presenza di quei bulli per la semplicissima ragione che c'era sempre
qualche ragazzino mogio di cui agli insegnanti non fregava niente, perché
erano un peso, facevano sentire in colpa perché non si poteva far niente per
loro o facevano tornare in mente la propria infanzia rovinata; e così gli in-
segnanti erano altrettanto lieti di vederli maltrattare e umiliare e sbattere a
terra nel fango da cui provenivano, di vederli strisciare fuori portata d'oc-
chio, in modo da non essere costretti a guardarli. Invisibili. Se i bulli della
scuola, come agenti esecutivi dei desideri segreti dei docenti, avessero po-
tuto andare fino in fondo e uccidere le loro vittime per poi divorarle, ma-
sticandone le ossa briciola per briciola, allora per gli insegnanti sarebbe
stato perfetto. Dentro di loro, in quegli angoli oscuri, un pezzettino della
rabbia e del disprezzo sarebbe svanito. Finalmente avrebbero potuto lasciar
perdere e dimenticarsene.
Quei pensieri sfrecciarono nella mente di Taylor come una cassetta in
riavvolgimento veloce. Una cassetta ascoltata tante volte che non c'era ne-
anche bisogno di far altro che non fosse guardare l'etichetta per sapere cosa
conteneva. Cose che sapeva, che sapevano tutti, ma che se si provava a di-
re ad alta voce si veniva additati come gente che covava rancore dalla terza
elementare. In teoria la gente avrebbe dovuto crescere e mettere pensieri
simili in cantina senza tante storie, non certo rimuginarseli ancora a un
passo dalla quarantina.
Il gruppetto di ragazzini, il branco con la sua vittima, si era spostato in
uno spazio di lato al supermercato, facendo indietreggiare il ragazzino con
la sua forza collettiva; il branco voleva la vittima tutta per sé senza distur-
bi. Se gli avessero dato addosso proprio davanti al centro commerciale,
qualche adulto in vena di altruismi avrebbe potuto interferire e guastare lo-
ro la festa.
"Non sta a me." Non c'era niente al mondo che stesse a Taylor. Aveva ti-
rato fuori le chiavi di tasca, facendosi scivolare il metallo freddo tra le dita.
Non doveva fare altro che tornare alla macchina, salire e andarsene.
— Cristo di un Dio. — Borbottò le parole mentre si infilava le chiavi in
tasca e si dirigeva al vicolo a lato del centro commerciale.
La banda di piccoli teppisti non si accorse del suo arrivo: erano tutti im-
pegnati con la preda attorno a cui si erano riuniti, la preda con le spalle al
muro. Taylor avanzò a grandi passi e prese il ragazzino più grosso di tutti
per la spalla, bloccandolo proprio mentre tirava indietro il braccio per col-
pire di nuovo. Il ragazzino perse l'equilibrio quando Taylor lo tirò indietro
con forza per poi spingerlo di lato. Gli altri smisero di ridere e lo fissarono
a occhi sgranati.
— Lasciatelo in pace. — Loro indietreggiarono nel sentirlo gridare, e il
cerchio si allargò. Lui fece un gesto al piccolo Welsky, ancora fermo con-
tro il muro, che lo fissava completamente inespressivo. — Vieni, muoviti.
Si girò, e, senza nemmeno aver fatto un passo, per poco non finì contro
qualcuno di più grande. Più grosso dei ragazzini nel vicolo, anche più di
lui stesso. Taylor fece un passo indietro e alzò gli occhi. Vide un volto sor-
ridente, lo stesso del ragazzino che stava perseguitando il piccoletto, ma
più vecchio.
E portava una giacchetta con il simbolo della squadra. Anche senza ve-
derlo, Taylor lo avrebbe riconosciuto comunque. Lo aveva già visto, non
semplicemente al drive-in, ma da vicino. Era già finito al riformatorio due
o tre volte.
L'adolescente aveva l'aria di un gorilla, se poi i gorilla erano cattivi e
brutali come pensavano gli ignoranti, e anche orgogliosi di essere grossi e
cattivi. Taylor non ricordava il nome del ragazzo, ma ricordava chiaramen-
te la battaglia con quello stronzo il giorno che lo avevano portato al rifor-
matorio. Il ragazzo aveva deciso che non era obbligato a sottomettersi a
tutte le formalità dell'accettazione, e nemmeno a fare quello che i coglioni
del riformatorio gli imponevano. E aveva cominciato a pestare, e Taylor
aveva dovuto chiamare rinforzi da tutte le unità dell'edificio, e tutti si era-
no ammucchiati sopra il ragazzo come su un toro scatenato in un rodeo,
per chiarirgli le idee. Taylor non si era nemmeno preso la briga di cercare
di mettergli addosso le corde dolci: gli aveva infilato due paia di manette,
una ai polsi dietro la schiena e una alle caviglie. Lo stronzo aveva già pre-
so a calci uno del personale, colpendolo alla coscia tanto forte da spedirlo
in volo. Poi avevano trascinato il ragazzo della squadra di football nella
stanza con le pareti di gomma imbottita dell'Accettazione, dove lo avevano
lasciato a bestemmiare e strillare fino a perdere la voce, mentre tutti ri-
prendevano fiato e controllavano eventuali ferite.
Già quella era stata brutta, e Taylor aveva sei persone dalla sua parte.
Era quello il senso dei rinforzi: pura questione numerica, per porre fine al
confronto il più in fretta possibile e ridurre al minimo i danni. E adesso si
trovava ad affrontare quel gorilla da solo. Nel manuale operativo del ri-
formatorio si raccomandava vivamente di evitare situazioni del genere, di
considerarsi talmente grandi e forti da poter tenere a bada da soli uno
scimmione adolescente al massimo della forza fisica, e finire poi con la te-
sta rotta.
"Me lo merito." Taylor per poco non rise, stava già ridendo senza la mi-
nima allegria dentro di sé. Visto che voleva fare l'altruista. Era passato dal
non risolvere niente, zero completo per ogni suo sforzo, all'imminente pro-
spettiva di vedersi rompere il culo.
Il ragazzo allargò le gambe, piantandosi fermamente a terra e bloccando
qualsiasi via per poterlo oltrepassare e andarsene dal vicolo. Rimase fermo
con le mani sui fianchi, gli occhi fissi in quelli di Taylor. — Era il mio fra-
tellino che stavi maltrattando. — II ghigno si strinse. — Grand'uomo.
Taylor non faceva fatica a crederci. Sembravano proprio fratelli, e quello
più piccolo aveva addirittura la stessa posa, imitava il più vecchio. Lo stes-
so sorrisetto malvagio, in attesa del movimento vero. Gli altri ragazzini del
branco si erano fatti un poco indietro, lasciando al fratello del giocatore di
football una specie di trono ideale.
— Ci godi a maltrattare i più piccoli? — II ragazzo si avvicinò a Taylor,
annullando lo spazio tra di loro. — Eh, grand'uomo? — Di nuovo quel sor-
riso, un angolo del labbro che si sollevava. — Per me non ti piacciono i
bambini. Tranne quel tuo amichetto lì.
A quella battuta un paio dei ragazzini ridacchiarono. Taylor sapeva che
il piccolo Welsky era ancora alle sue spalle, contro la parete del supermer-
cato. Avrebbe anche potuto scappare via: nessuno gli prestava attenzione.
Non quando c'era uno spettacolo molto più interessante.
Il ragazzo si avvicinò di più a Taylor. Occhio contro occhio, la stessa al-
tezza: Taylor calcolò che l'adolescente avesse addosso dai venti ai trenta
chili solo di muscoli. E in più quell'atteggiamento da animale senza cervel-
lo: non gli importava di farsi male, purché potesse farne di più all'avversa-
rio. Quel pensiero riportò un nesso alla mente di Taylor: il ragazzo aveva
detto o, meglio, urlato ad alta voce, quello che era sembrato un incitamen-
to del tipo che gli allenatori gridavano alla squadra durante l'intervallo fra i
tempi della partita. «Fagli male! Fagli male di più! » Lo aveva urlato dopo
che gli avevano sbattuto le manette addosso e lo avevano trascinato nella
stanza con le pareti di gomma: rivederlo e risentirlo nella mente gli riportò
tutto alla memoria. Il nome del ragazzo, scritto sul modulo di accettazione.
Dennie, Dennie Pincopallino.
Taylor ricordava anche qualcos'altro. L'imputazione segnata sul modulo.
La stessa di tutti gli altri moduli, quelli compilati durante le precedenti vi-
site dell'adolescente al riformatorio. C'erano tutti, in bell'ordine dentro l'in-
cartamento del ragazzo. E la maggior parte, quelli in cima al mucchio, i
più recenti, erano verbali identici: il ragazzo sembrava volersi specializza-
re in una carriera particolare. E non si trattava di furto d'auto o semplice
possesso di marijuana, o gli altri consueti guai da quattro soldi in cui si
cacciavano i ragazzi. Era una cosa completamente diversa, sicuramente
non da duri come quegli altri generi di esibizionismi giovanili. Taylor ri-
cordava che quel Dennie aveva tenuto la bocca chiusa quando gli altri ra-
gazzi del riformatorio gli chiedevano per cosa lo avevano messo dentro, o
borbottato qualche storia che gli facesse fare miglior figura della realtà.
Ma quello era successo tempo prima, al riformatorio. In quel momento
si trovava in un vicolo dietro un supermercato, fuori portata di vista dal
parcheggio e da chiunque fosse tanto altruista anche solo da chiamare i po-
liziotti o la vigilanza del centro commerciale.
Dennie gli si avvicinò ancora di più. Tanto che Taylor ne sentì l'alito,
che sapeva di birra acida.
— Ti piace molto quello stronzetto, vero? — Dennie indicò con il capo
Steven, ancora fermo contro la parete. Il ghigno di Dennie si fece sbilenco,
poi di nuovo gelido. — Si vede che siete amici per la pelle. — II ghigno si
allargò. — Del resto ai tipi come te piacciono i bambini piccoli, no? Ti
piacciono tanto.
Uno dei bambini del branco fece una risatina.
Taylor restituì a Dennie uno sguardo freddo. — Levati dai piedi. —
Mantenne la voce tranquilla, alta appena quanto bastava per far sentire le
parole al pubblico di ragazzini. Il trucco stava nel cercare un'intonazione
dolce, tipo Clint Eastwood, per dare a intendere di avere un asso nella ma-
nica tanto grande che non c'era nemmeno bisogno di scaldarsi tanto all'idea
di servirsene. In più, Taylor era seccato dalla battuta imbecille del ragazzo,
l'insinuazione grezza sulla sua presunta omosessualità. Giocava con il suo
pubblico raccontando barzellette sui froci, per suggerire che la festa gli era
stata guastata da una checca.
Il ghigno di Dennie si fece cattivo come la morte. — E perché dovrei,
brutto frocio di merda? Eh?
Eccola, la parola, allo scoperto, sospesa nell'aria davanti agli occhi di
tutti. Parole di guerra su quel campo da gioco, un piccolo universo rac-
chiuso fatto di nasi sanguinanti e baruffe infantili in cui il ragazzo stava
cercando di risucchiarlo, dal quale il ragazzino robusto non era mai riusci-
to a venir fuori e che Dennie non aveva mai voluto lasciare perché là den-
tro era un re e poteva mettere i più piccoli a faccia in giù nella polvere, per
l'eternità, poteva torcere loro le braccia dietro la schiena e bloccarli a terra
con le ginocchia, impantanandoli nel fango delle loro lacrime brucianti e
piene di vergogna. Il genere di insulto che si pronunciava non perché fosse
vero, o perché avesse anche solo una possibilità di esserlo, ma perché l'al-
tro non poteva tirarsi indietro, non poteva lasciarlo in sospeso senza vendi-
carsi. Allo stesso modo che dire qualche porcata riguardo la professione
della madre: in teoria uno avrebbe dovuto farsi avanti senza contare di
quanto era più grande il teppista che lo aveva insultato. E si sarebbe fatto
pestare per bene, sarebbe finito con la bocca piena di sangue e il piede del
teppista in faccia, sapendo benissimo che sarebbe andata così, ma senza
poterci fare niente, almeno non sotto il peso di tutti quegli occhi che lo
guardavano dal mondo dei bulli e degli attaccabrighe.
Proprio un cumulo di stronzate, del tipo che Taylor credeva di essersi la-
sciato alle spalle molto tempo prima nelle prigioni buie dei giochi della sua
infanzia. Ed ecco che ci era finito di nuovo in mezzo. Il ghigno sul volto di
Dennie lo aveva già visto molte volte, anni prima.
E che quel pezzo di merda facesse la battuta del frocio era veramente ri-
dicolo. Almeno considerando cosa stava scritto sui foglietti di carta raccol-
ti nell'incartamento di Dennie al riformatorio.
Ancora quel sorrisetto, Dennie aspettava, bloccando ogni via d'uscita dal
vicolo con il suo fisico da giocatore di football. Anche i ragazzini del
branco aspettavano: aspettavano di vedere movimento.
"Tranquillo." Taylor indicò col pollice il cerchio di ragazzini intorno.
Guardò Dennie negli occhi, socchiudendo appena i suoi. Calmo, comple-
tamente freddo. — Forse ai tuoi ammiratori piacerebbe sapere come mai i
poliziotti ti hanno portato al riformatorio un paio di settimane fa. — Lo
disse apertamente, a voce alta appena quanto bastava perché lo sentissero
tutti. — E tutte le volte prima.
Dennie perse quel suo sorrisetto cattivo, spalancò la bocca, come se a-
vesse preso un bel cazzotto al fegato invece che poche semplici parole.
Sgranò gli occhi sorpreso. Sorpreso non che Taylor sapesse perché lo ave-
vano portato al riformatorio, dato che era proprio quella una delle ragioni
per cui Dennie aveva colto al volo l'occasione di farla pagare a qualcuno
del personale, ma piuttosto che qualcuno potesse essere tanto crudele e
privo di scrupoli da usare le parole, le parole che lo avrebbero rivelato a
tutti, a tutti i bambini che stavano lì intorno a guardare e ascoltare, e solo
per fargli male. Per vincere il combattimento invece di farsi avanti incon-
tro ai suoi muscoli, dove il vantaggio era suo. Per fare in modo che non ci
fosse nemmeno più un combattimento, ma qualcosa che era già finito pri-
ma ancora che gli fosse data l'occasione di sferrare un solo colpo. Già fini-
to perché lui aveva già perso.
A quel punto fu Taylor a sorridere. Guardò Dennie, mantenendo la voce
tranquilla. Non aveva bisogno di fare altro.
— Che ne dici? Credi che alla banda andrebbe di saperlo? — Taylor ri-
volse lo sguardo verso i bambini che assistevano alla scena. Stavano tutti
fissando Dennie, il modo in cui si era sgonfiato il giocatore di football
prima così pieno di sé. Il fratellino di Dennie, quello che aveva perseguita-
to Steven, era visibilmente mortificato nel veder sminuire così il suo eroe.
— Glielo dico o no? Forza, decidi tu. Glielo dico perché gli sbirri della cit-
tà continuano a portarti dentro, e quante volte ti hanno già portato dentro?
Secondo me vorrebbero saperlo anche loro. Vuoi che glielo dica?
Il volto di Dennie si riempì di rabbia, una rabbia troppo grande per
schizzarla dai denti serrati. Anche lui era tornato nel mondo dei più forti,
solo che adesso non era più lui il bullo del quartiere. Era il ragazzino indi-
feso a cui qualcuno aveva calato i pantaloni fino alle caviglie e poi tirato
un calcione facendolo finire in mezzo al prato giochi in modo che lo indi-
cassero tutti a dito piegandosi dalle risate, a inciampare con addosso solo
gli slip bianchi da grande magazzino e le palle che gli si rattrappivano al
gelo tagliente dello scherno degli altri bambini.
"Stupido coglione." Taylor provò quasi pietà per quel ragazzetto. Il fra-
tello maggiore grande e grosso di quella banda di ragazzini, il duro del
quartiere. Non avrebbe mai creduto di poter essere sputtanato per qualco-
s'altro, qualcosa che manteneva segreto alla sua corte di piccoli ammirato-
ri. Ma se qualcun altro lo sapeva, voleva dire che non era un segreto. Il po-
vero allocco contava sul fatto che Taylor stesse alle regole, le regole che
imponevano che a vincere fosse quello più grosso e con più muscoli. Non
si era immaginato che a Taylor di cose simili non fregava un cazzo.
Dennie aveva stretto i pugni, le nocche sbiancate, ma li teneva immobili
ai fianchi. Il branco di bambini lo guardò sbigottito. Taylor si voltò e al-
lungò una mano dietro di sé, prendendo Steven per il braccio. Tirandosi
dietro il bambino, oltrepassò Dennie, spingendolo da parte con una spalla-
ta. Sentiva addosso gli sguardi di Dennie e degli altri, sguardi che gli bru-
ciavano la schiena, mentre si dirigeva con Steven verso il parcheggio.
10
— Dite... — Larry si voltò verso gli altri della squadra — ... Dite che
uno di noi dovrebbe andare da lui? A parlargli, o cosa? Guardarono tutti
Mick, che era rimasto a braccia conserte durante tutta la scenata fra Dennie
e l'allenatore. A guardare senza dire una parola. Mick raccolse la palla ova-
le dall'erba e cominciò a pulirla dalla terra appiccicata alla superficie rugo-
sa, fissandosi il pollice mentre la grattava via.
Alla fine scosse il capo, con la cinghietta del casco che gli penzolava
sotto il mento. — No, lasciate stare. — Alzò la palla e tirò indietro il brac-
cio, come se fosse sul punto di lanciarla in passaggio al ricevitore in zona
meta. — Quella checchetta tornerà quando ne avrà voglia. — Si lasciò ca-
dere la palla dalle dita.
L'allenatore era riuscito a riprendersi quanto bastava per proseguire l'al-
lenamento. L'aiutante della difesa soffiò nel fischietto e cominciò a urlare
qualcosa. Larry rimase a guardare il punto in cui Dennie era uscito rabbio-
so dal campo, mentre tutti gli altri se ne andavano. Lo sapeva Cristo che a
lui non importava un tubo di Dennie: era uno stronzo convinto che la sua
merda non puzzasse come quella degli altri solo perché faceva parte della
squadra. Ma dopo certe cose capitate l'ultima volta che si era incazzato e se
n'era andato, non gli sembrava giusto lasciarlo andare via così. Non fosse
altro che perché Dennie era il primo attaccante, e da solo costituiva buona
parte della loro forza in campo.
Solo che sapeva come cacciarsi nei guai. Guai grossi e che rimanevano...
era quello il problema...
— Cristo santo! Non comincerai anche tu con queste cagate, adesso?
Larry voltò la testa e vide che l'allenatore lo fissava cattivo, il taccuino
contro il fianco lardoso, un'espressione da martire esasperato sulla faccia
quadrata.
Per il momento Dennie avrebbe dovuto pensare da solo a se stesso.
Larry andò di corsa verso il punto in cui gli altri stavano aspettando.
Era tutta colpa di quel figlio di puttana del riformatorio. Dennie era fer-
mo sul ciglio della rampa d'accesso dell'autostrada, con le mani ficcate nel-
le tasche del giubbotto, il volto cupo e teso. Si rimuginava tutte le stronza-
te che gli erano successe e a quanto gli bruciava che fossero così ingiuste.
Allungò una mano e sollevò il pollice nel vedere una macchina svoltare
dalla strada e immettersi sulla rampa, ma quella lo oltrepassò, accelerando
per immettersi nel flusso rapido del traffico più su. "Stronzi" pensò Den-
nie: anche la gente di quella macchina rientrava nelle stronzate, a lasciarlo
lì quando si stava già facendo sera e lui aveva delle cose da sbrigare in cit-
tà prima che finisse la notte. Cose che lo avrebbero fatto sentire meglio.
Poteva anche lasciar perdere quei bastardi della macchina, e quelli di tut-
te le altre che gli erano passate davanti senza fermarsi a dargli un passag-
gio, o almeno lasciarle sprofondare nel buio, dove teneva quello che non
dimenticava del tutto. Ricordava ogni cosa, strato su strato di lerciume, fin
da quando era bambino. Anche solo pensarci un minimo gli strinse lo sto-
maco, come un pugno al fegato. Gli parve quasi di sentirne il sapore, come
di sangue sulla lingua. Anche se ci fosse voluta un'eternità, gliel'avrebbe
fatta pagare. A tutti, anche a quei figli di puttana nelle macchine.
Un'altra svoltò sulla rampa. Era così buio che aveva acceso i fari, nono-
stante filtrasse ancora oltre i pilastri dell'autostrada la luce rossa del sole al
crepuscolo, per mostrare a Dennie il guidatore oltre il parabrezza. Nella
macchina c'era solo un tipo, sulla trentina, o magari un vecchio stronzo,
quaranta o più. A volte era difficile capirlo finché non ci si trovava proprio
di fronte a loro. Gli occhi dell'uomo incontrarono quelli di Dennie, e per
un istante Dennie pensò che non avrebbe avuto bisogno di andare in città,
che aveva già trovato quello che cercava, praticamente davanti al naso.
Quella piccola scintilla, l'istante di comunanza fra due persone che non si
erano mai incontrate prima. Due persone che vedevano qualcosa l'una nel-
l'altra.
Poi la macchina lo oltrepassò, e il tipo al volante non si voltò nemmeno
a guardarlo. Dennie guardò i fari di coda girare in cima alla curva della
rampa e svanire. Rimise la mano nella tasca del giubbotto, stringendo i pu-
gni tanto forte da contrarre tutti i muscoli delle braccia. Forse il tipo nel-
l'auto andava in città per la stessa cosa. Forse lo avrebbe rivisto in strada.
Forse era uno di quelli cauti, che non volevano correre il rischio di venir
visti in simili compagnie da conoscenti. Forse più tardi gli avrebbe co-
munque riempito la serata.
Il pensiero lo fece stare meglio. Il volto oltre quel parabrezza era liscio e
rotondo, da bambino, come una specie di giovane dirigente o qualcosa di
simile che stava facendo carriera nell'azienda con i contatti giusti, moglie e
figlio di due anni sistemati in uno di quei nuovi quartieri residenziali, quel-
lo con quei cazzo di laghetti finti in mezzo e la palizzata intorno. La mac-
china era una Mercedes o una BMW, una di quelle porcate costosissime.
Per cui il tipo aveva soldi, soldi con cui prendere tutto quello che voleva. Il
volto da bambino... Dennie strinse il pugno ancora più forte, affondando le
unghie nel palmo finché gli parve quasi di sentire il sangue che schizzava
fuori.
— Merda... — Insaccò le spalle nella giacchetta. Stava perdendo tempo
a restare lì, se nessuno gli dava un passaggio. Quel bastardo con la Merce-
des sarebbe arrivato in città e avrebbe agganciato qualcun altro per avere
quello che voleva, se lo sarebbe arpionato uno degli altri ragazzi in strada.
Fu tentato di tornare a casa a piedi e prendere la macchina, la vecchia Fair-
lane che sua madre gli aveva lasciato, e andare in città per i cazzi suoi. Sa-
rebbe stato senz'altro più veloce che non restarsene là per tutta la notte. Ma
non voleva: sarebbe stato come rovinare l'incanto. La prima volta che era
andato in città per quella storia - aveva solo quattordici anni - aveva dovu-
to fare l'autostop per arrivarci. Faceva parte del brivido, salire in una mac-
china mai vista prima, senza sapere cosa sarebbe successo ma pronto a tut-
to. Anche se all'inizio della serata non voleva altro che farsi un giro, solo
andare in città, dove c'era davvero movimento, le auto che rallentavano per
dare un'occhiata da vicino mentre lui stava sotto il lampione ad aspettare,
aspettare qualsiasi cosa succedesse... Per qualche motivo, nella sua mente,
restava tutto una cosa sola, dall'inizio della notte alla fine: farsi scarrozzare
in macchina era come un piccolo assaggio di quello che sarebbe venuto, la
parte importante, quella che consisteva nello scivolare dentro l'auto di uno
sconosciuto con la luce azzurra del lampione che saliva a mostrare una
faccia da bambino e occhi luccicanti, ansiosi...
Pensarci lo fece stare bene, sempre meglio. "Forza..." sussurrò tra sé nel
vedere un altro paio di fari all'imbocco della strada. Gliel'avrebbe fatta ve-
dere, gliel'avrebbe fatta vedere a tutti. Il pugno che gli stringeva le viscere
si contorse, strizzandole. Quel rotto in culo del riformatorio, quel figlio di
puttana saccente. Non voleva uno con la faccia da bambino in Mercedes,
voleva quello del riformatorio - Vuoi che glielo dica? Eh? - ma nel frat-
tempo si sarebbe accontentato anche di un faccia da bambino, lo avrebbe
fatto sentire meglio comunque.
Aveva riconosciuto il tipo del riformatorio quando l'aveva visto nel vico-
lo di fianco al supermercato. Lo ricordava: era il responsabile o qualcosa di
simile, quando gli sbirri lo avevano portato dentro. Quello stronzo credeva
di essere tanto furbo, faceva il grand'uomo quando aveva venti persone a
spalleggiarlo. Non aveva le palle per affrontarlo da solo, per cercare di in-
filargli le manette da solo. Se ci avesse provato, Dennie lo avrebbe ridotto
a pezzettini.
Per cui l'occasione di beccarlo fuori dal suo territorio, e per conto suo,
senza nessuno ad aiutarlo, era stata come una specie di regalino, incartato e
spedito personalmente da Dio. Se ne stava camminando per lo spiazzo del
parcheggio, senza un pensiero al mondo che non fosse quella sete che gli
stava già cartavetrando la gola, quando aveva visto il branco di ragazzini
nel vicolo, e in mezzo a loro il suo fratellino minore. E poi quello stronzo
del riformatorio, che faceva il duro come fosse un eroe e si intrometteva
per salvare lo stronzetto triste. Dennie sorrise tra sé, gustandosi di nuovo la
sensazione che aveva provato nel mettere il tipo del riformatorio con le
spalle al muro, nel dare addosso a quel tappetto bastardo, di premerlo, di
tormentarlo un poco, proprio come lui tormentava il suo fratellino minore
e gli altri bambini. Come si era sentito a insultarlo in tutti i modi, e lui non
poteva reagire, perché aveva paura, perché sapeva cosa stava per capitar-
gli; e poi a tirargli un cazzotto diritto nei denti e a sentire il sangue che
schizzava fuori, a piegarlo in due con un altro pugno allo stomaco e a spe-
dirlo indietro con una ginocchiata nelle palle...
Dennie sorrise solo a pensarci, pensando al tipo del riformatorio disteso
ai suoi piedi nel vicolo, tutto contorto, il sangue che gocciolava dalla fac-
cia di quel figlio di troia, Dennie con i muscoli che gli formicolavano, pro-
prio la stessa sensazione di quando perforava la linea della difesa e spac-
cava il culo a quel cagasotto del capitano avversario, tutti che urlavano e
davano fuori di matto, i ragazzini del vicolo che sgranavano gli occhi e ur-
lavano "Uau!", godendosi la scena, dieci iarde perse per la squadra avver-
saria, lui che li ricacciava tutti quanti indietro fino ai pali di porta...
Solo che non era andata così. Non aveva spaccato il culo a quello del ri-
formatorio. Il sorriso di Dennie si spense, e strinse i denti. Quello stronzo
cagasotto... perché quel bastardo non poteva giocare lealmente? Invece di
tirarla fuori così, proprio davanti al suo fratellino e agli altri bambini, tutti
lì intorno ad assistere e ascoltare chiedendosi cosa stava succedendo. Le
lacrime bruciarono agli angoli degli occhi di Dennie. Non era leale, punto
e basta: quel tipo non avrebbe dovuto dire cose del genere, minacciare di
raccontare tutto. Tutti i segreti di Dennie. Era già brutto che quel figlio di
puttana lo sapesse. Ma che se ne servisse contro di lui a quel modo...
Era rimasta sullo stomaco a Dennie per tutta la giornata. Tutto che gli
diventava bollente dentro, ogni volta che risentiva la voce del tipo che
mormorava Vuoi che glielo dica? Eh? Vuoi che glielo dica? di nuovo e poi
di nuovo, stronzo saccente, stronzo, si credeva tanto furbo... E così si era
sputtanato l'allenamento, e l'allenatore gli aveva dato addosso e lui gli ave-
va risposto di andare a prenderlo in culo, e poi chi cazzo se ne fregava? A
Dennie non sbatteva un cazzo. Sapeva cosa gli serviva, cosa lo avrebbe
fatto sentire meglio. Strinse i pugni nella tasca della giacca, li strinse più
forte, due rocce.
La macchina che stava fissando risalì sulla rampa, dirigendosi verso di
lui. Non era una Mercedes, e nemmeno simile, solo una berlina giapponese
tutta ammaccata. Un tipo che tornava a casa dal lavoro. Dennie lo fissò di-
rettamente negli occhi attraverso il parabrezza, e capì che era un tipo rego-
lare, non quello che serviva a lui. Per trovarlo avrebbe dovuto andare in
città.
Alzò il pollice, e l'auto rallentò, fermandosi qualche metro più avanti di
lui. Dennie si girò e partì di corsa per raggiungerla mentre il tipo alla guida
apriva la portiera accanto.
Già molti degli altri ragazzi erano in strada, quando arrivò Dennie. La-
voravano da prima che tramontasse il sole: in città, in una strada come
quella, il movimento, i traffici, andavano avanti ventiquattr'ore al giorno.
Solo che di notte il ritmo cresceva.
Dennie percorse gli isolati, da un alone di luce all'altro, salutando i ra-
gazzi che conosceva e quelli che non aveva mai visto prima: l'occhiata, il
messaggio che andava dai loro occhi ai suoi, diceva tutto, un tacito ricono-
scimento della ragione per cui erano tutti fuori quella notte. La luce azzur-
ra, il riverbero dei neon sopra gli ingressi dei bar, prosciugavano i visi da
ogni colore umano, rendendoli maschere di cera plasmate in volti da ado-
lescenti.
Scroccò una sigaretta a uno, un tipo che batteva di professione e che tutti
chiamavano Scooter, anche se ne aveva un pacchetto quasi pieno nella ta-
sca della giacchetta. Solo per chiedere a Scooter, mentre alzava il fiammi-
fero nelle mani unite a coppa, scaldando il viso di entrambi quando si av-
vicinarono l'uno all'altro, come andavano le cose quella sera. Scooter alzò
le spalle, lo sguardo fisso ai semafori e al traffico strisciante. La faccia di
Scooter sembrava scavata da dentro, le guance che mostravano tutti i denti
rimasti, gli occhi cerchiati di rosa ormai smangiati dalle occhiaie scure.
Ormai lo caricavano in macchina sempre più di rado: la maggior parte de-
gli uomini che passavano in rassegna le strade venendo dai sobborghi o dai
condomini che fiancheggiavano le colline lo conoscevano già, o lo ricor-
davano da quando era più carino. A quei tempi sembrava un angioletto,
con i jeans sbiaditi e la maglietta dei Metallica, quando aveva quattordici
anni e aveva appena iniziato a battere le strade, alla stessa età e nello stesso
momento di Dennie. Ma Dennie sapeva che Scooter non si voleva bene,
non quanto se ne voleva bene lui: Scooter mangiava tutto quello che gli
capitava sottomano e usava le siringhe ogni volta che aveva qualcosa per
cui usare una siringa, e lasciava che gli uomini delle macchine gli facesse-
ro tutto senza farsi dare niente. Era quello il peggio: lasciarsi comprare da
loro, e poi prendere i soldi e dargli veramente quello che volevano, fare
tutto quello che volevano e non farsi pagare con qualcos'altro che non fos-
sero i soldi. Dennie si assicurava sempre che pagassero. E ora lui era anco-
ra robusto e in salute, e anche bello, e gli uomini nelle macchine rallenta-
vano per ammirarlo e lustrarsi gli occhi con quel bel ragazzo giovane che
giocava a football, con tanto di giubbotto con il monogramma della squa-
dra ricamato sopra e muscoli potenti sotto. Scooter invece aveva l'aria di
uno che sta per crepare, il che gli rovinava gli affari ancora di più, perché
sembrava veramente molto malato, e chi mai voleva una creatura del gene-
re? Per poi magari farsi attaccare qualcosa? I capelli biondi e sporchi di
Scooter si stavano già diradando, all'attaccatura, e sembrava che il cranio
gli volesse scoppiare fuori dalla pelle.
Dennie disse a Scooter di prendersela con calma, poi si allontanò lungo
la strada, anche se sapeva che Scooter voleva che rimanesse con lui, che
gli tenesse compagnia alla sua postazione sotto il lampione, come se il
corpo robusto del giocatore di football fosse un fuoco a cui stare vicino e
scaldarsi durante la notte. Ma chi se ne fregava: gli altri ragazzi, quelli u-
sciti presto, si erano già dati da fare con le macchine, avevano già raccolto
la prima ondata di arrapati che arrivavano dalla periferia appena calato il
sole. Non voleva sputtanarsi le occasioni facendosi vedere in compagnia di
un untorello come Scooter.
C'era già una piccola transazione in atto, un paio di isolati più in là. Una
bella station wagon Volvo nera, proprio la macchina che ci si aspetta di
vedere al sabato attorniata da frotte di ragazzini a una partita della Pop
Warner. In quel momento l'uomo al volante stava parlando con un tipetto
magro con l'aria da surfista, diciotto anni al massimo: il ragazzo era appog-
giato al finestrino della Volvo, e i lunghi capelli gli ricadevano sulla faccia
dagli occhi scintillanti. Poi il ragazzo salì, e la Volvo si staccò dal marcia-
piede: guidavano sempre veloci, una volta concluse le trattative. Non co-
steggiavano più il marciapiede con calma per guardare la mercé, volevano
raggiungere in fretta qualche posto buio.
Dennie prese la postazione del giovane surfista, un ottimo punto sotto il
lampione. A buona distanza dagli altri, tutti come sentinelle dinoccolate a
guardia degli isolati. Una parete solida di cemento a cui appoggiarsi per
guardare il traffico che passava. C'era un negozio di liquori, una traversa
più su: ogni tanto un vecchio cinese rincoglionito usciva con un manico di
scopa a cacciare chi ci stava davanti, urlando stronzate a voce tanto alta da
richiamare gli sbirri. Comunque la posizione era ottima. Gli piaceva stare
quasi al termine del viale, dove i bar si diradavano, in modo che quelli nel-
le macchine avessero già visto la concorrenza e assodato che in strada non
c'era nessuno di carino e robusto come lui. Proprio quello che cercavano.
La schiena al muro, fissando i fari che risalivano lentamente la strada, le
ombre degli altri ragazzi che ondeggiavano e si muovevano, Dennie prese
una sigaretta dal pacchetto e se la accese con la cicca di quella che aveva
scroccato a Scooter. Gettò via il mozzicone della prima, una cascata di
scintille nel vicolo, poi si mise comodo. E aspettò.
11
Steven pensò di sognare. Era proprio quello che gli sembrava: di sogna-
re, quando si sa di essere addormentati e non importa. Quando ci si può
abbandonare alla corrente e lasciarsi cullare nel buio da onde lente.
Non sapeva neppure come aveva fatto ad arrivarci, nel sedile posteriore
di una macchina che percorreva le strade urbane nella notte. Aveva aperto
gli occhi: lentamente, per niente sorpreso o impaurito, e si era ritrovato là,
la guancia calda appoggiata alle mani. Quando aveva alzato gli occhi, ave-
va visto il bagliore blu dei lampioni che scivolavano oltre i finestrini, uno
dopo l'altro.
Il movimento dell'auto, il mormorio profondo del motore, lo cullò fino a
farlo sprofondare in un mezzo dormiveglia. Non si alzò a sedere: continuò
a restare disteso, a guardare e aspettare.
Vedeva la parte posteriore della testa dell'uomo al volante sul sedile an-
teriore. Solo una sagoma nera, stagliata nella luce, poi in ombra, contro i
fari delle altre macchine.
Per qualche ragione sapeva già chi fosse l'uomo al volante, anche se per
lui non c'era nome o volto. Steven lo sapeva, e basta.
Niente di cui preoccuparsi. Non lì e in quel momento. Sollevò le gambe,
rannicchiandosi intorno al gomitolo caldo del battito del cuore e del respi-
ro.
La macchina avanzò tra le strade buie.
Erano passate due ore. O forse già tre? Dennie non avrebbe saputo dirlo,
se non fosse stato per il dolore alla schiena causato dal muro. Il selciato in-
torno ai suoi piedi era coperto di mozziconi di sigaretta. Il pacchetto era
vuoto; Dennie lo accartocciò e lo gettò in mezzo alla strada.
Brutti luridi figli di puttana. Dennie fissò con odio le macchine che pas-
savano, con una rabbia che gli bruciava acida in fondo alla gola, tanto bol-
lente che gli veniva voglia di sputarla contro il parabrezza di qualcuno di
quei bastardi. Stupide teste di cazzo, cosa si credevano di fare? Passavano
dandogli la tipica lumata veloce, fissando lo sguardo nel suo per un istante,
quella frazione di secondo in cui si capiva tutto di ciascuno dei due, tutto
tranne la tariffa esatta. Lo guardavano e passavano oltre, quei figli di troia,
diritti verso la macchia di buio in fondo alla strada, o facevano inversione
di marcia un paio di isolati più avanti e tornavano indietro per dare un'altra
occhiata alla mercanzia passata in rassegna prima.
Non che ne restasse molta in strada. Non a quell'ora, quando si avvicina-
va la chiusura dei bar e la musica che filtrava dalle porte fin sui marciapie-
di ricadeva finalmente nel silenzio; i tipi da bar, che sapevano di essere
quello che erano senza cercare di nasconderlo dietro un matrimonio e dei
figli e un'aura di rispettabilità piccoloborghese, uscivano con giubbotti di
cuoio e jeans strizzapalle, stivali da cowboy e strisce di cuoio ai polsi, quei
costumi di scena che indossavano tanto per farsi quattro risatine nostalgi-
che quanto per darsi seriamente da fare e rimorchiare intorno ai tavoli da
biliardo. Capelli ingrigiti e panzoni traballanti sotto le giacchette nere e lu-
cide piene di anelli cromati sadomaso... ormai erano caricature, da quando
i bar equivoci erano diventati solo istantanee negli album di famiglia. Ogni
tanto, mentre salivano sulle loro Harley costosissime e le loro jeep da ma-
schioni, lanciavano un'occhiata alle pollastre - chiamavano così i giovanot-
ti in strada - e li fissavano per un momento, e gli sguardi si univano oltre il
traffico, e loro ricordavano i tempi in cui avevano fatto stronzate del gene-
re. E poi se ne andavano, le insegne al neon venivano spente, e l'oscurità,
quella vera, copriva le strade.
Dennie sapeva che dopo sarebbero calate le opportunità per quelli che
venivano in città a raccogliere la mercé da strada e si fermavano nei bar a
racimolare un po' di coraggio alcolico e riempirsi la testa con gli odori su-
dati degli uomini inscatolati tutti insieme in uno spazio ristretto. Solo così
riuscivano a eccitare i propri desideri fino al punto da accostare un ragazzo
sotto un lampione. Senza quel ritmo subliminale che filtrava dentro le auto
e la sensazione dei corpi muscolosi che scivolavano l'uno contro l'altro da
qualche parte, quei bastardi sarebbero diventati verdi dalla paura e sareb-
bero tornati in fretta in autostrada per tornare a casa, a un'altra lunga notte
a fianco delle mogli addormentate, a una veglia gelida.
Alcuni degli altri ragazzi ci avevano rinunciato, quelli come Scooter,
troppo bruciati dalla strada per riuscire a trovare clienti, quella sera o qual-
siasi altra. Se Dennie guardava verso il fondo dell'isolato ne vedeva uno,
un ragazzo della sua età che si era appena steso sul marciapiede rannic-
chiandosi su se stesso come un vecchio straccione, la testa contro la parete
per dormire.
In culo, in culo a tutti quanti. Dennie si morse un labbro, ribollendo den-
tro. La rabbia con cui era sceso in strada era continuata a crescere con ogni
macchina che passava senza fermarsi, con ogni volto che si girava a guar-
darlo e poi allontanava gli occhi, mentre lui si accendeva una sigaretta do-
po l'altra. Ora non gli restavano che i pugni stretti nelle tasche della giacca.
Serrò gli occhi, immaginando dentro di sé quanto sarebbe stato divertente
pestare un bel diretto in piena faccia a qualcuno di quei froci, per fargliela
pagare, per fargliela pagare a tutti...
Il sangue gli rumoreggiava tanto forte nella testa che quasi non sentì la
macchina ferma al marciapiede. Proprio di fronte a lui, dopo essersi stacca-
ta dal flusso del traffico e aver accostato. Finché il basso mormorio del
motore gli salì nella testa dagli echi che gli percorrevano il petto. Aprì gli
occhi e vide la macchina, una sagoma nera su cui scintillavano i riflessi dei
lampioni.
Era bella, del tipo che a Dennie sarebbe piaciuto avere per sé, che sapeva
che un giorno avrebbe avuto, una volta richiesto da un grande college e ot-
tenuto un sostanzioso anticipo come giocatore di football insieme a tutti gli
altri premi per la borsa di studio. Linea ribassata e aerodinamica, come
quella di una Porsche 924 o una Z, qualcosa del genere, quei profili che fa-
cevano sembrare la macchina un coltello pronto a tagliare l'aria. E dentro
era comoda, con un mucchio di spazio per mettersi tranquilli e crogiolarsi
e rivolgere sorrisi oltre i finestrini affumicati mentre ci si lasciava massag-
giare dallo stereo a quattro uscite. Ma non era una Porsche né una Z; era
troppo buio, non era riuscito a vederla meglio quando aveva accostato per
capire di che marca fosse. Forse era uno di quei modelli personalizzati.
Qualunque cosa fosse, puzzava di soldi. Il rombare del motore risalì l'a-
sfalto e poi le gambe di Dennie, fino a toccare un punto di risonanza nel-
l'inguine.
Il finestrino del lato passeggero scese dolcemente. L'uomo al volante si
allungò sul sedile, ma rimase nell'ombra all'interno; Dennie non riuscì a
vedere il volto dell'uomo.
Una voce calma, tranquilla, come una breccia nel frastuono del traffico,
da cui sgorgavano parole che raggiunsero l'orecchio di Dennie: — È tardi
per starsene fuori.
A Dennie parve di sentire il sorriso nella voce dell'uomo. Anche senza
bisogno di contattare i suoi occhi, capiva esattamente cosa stava dicendo.
Finalmente. Ne aveva davvero pieni i coglioni di star fermo ad aspettare.
Sapeva che prima o poi avrebbe trovato un cliente. Lo trovava sempre.
Sorrise, con una gioia calda e ansiosa che gli si srotolava nel petto mentre
si staccava dal muro e attraversava il marciapiede.
L'uomo alla guida si accomodò al volante mentre Dennie raggiungeva
l'auto e si abbassava a guardare dentro dal finestrino.
— Forse. — Dennie alzò noncurante le spalle. — E con ciò?
Vide l'uomo annuire, il volto immerso nell'ombra che si girava verso il
parabrezza. Uno grosso, non una mammoletta di quelle che sembravano
burro spalmato su un grissino. Non del tipo massiccio, ma alto, e si muo-
veva con la grazia di chi ha muscoli esercitati. Era ancora più divertente,
mostrare a quelli lì che le ore che passavano a fare sollevamenti agli at-
trezzi Nautilus nelle palestre maschili insieme ai loro amiconi non voleva-
no dire un cazzo. Sentì i muscoli contrarsi sotto la giacca, e un primo as-
saggio di adrenalina gli percorse il corpo.
La sagoma dell'uomo alla guida guardò avanti, senza fissare Dennie, e
allungò una mano a socchiudere la portiera. — Sali. Ti do un passaggio a
casa.
Dennie annuì, sentendosi aprire la faccia in un sorrisetto. Preliminari già
sentiti. Spalancò la portiera ed entrò, scivolando nel sedile.
L'uomo staccò la macchina dal marciapiede e la riportò in strada. Dalla
parte di Dennie i lampioni sfrecciavano via, e la luce arrivava di sbieco a
illuminargli il viso senza raggiungere quello dell'uomo al volante.
Di nuovo quella voce calma e tranquilla. — Aspettavi qualcuno, là? — e
spostò le mani sul cerchio del volante, sempre con lo sguardo fisso avanti.
Andava bene così. Dennie sorrise fra sé. Non gli davano fastidio quei
giochini, gli inevitabili discorsetti prima di arrivare al dunque. — Forse. —
Guardò la strada illuminata passargli a fianco.
Ancora più calmo: — Magari aspettavi di fare un po' di soldi. — L'uomo
non si voltò verso Dennie; continuò a guidare, facendosi strada fra il traffi-
co che a quell'ora di notte andava calando.
Dennie sbirciò la sagoma dell'uomo, poi alzò le spalle. Al punto in cui
era, non doveva fare altro.
— Forse qualcuno ti farà un'offerta... — Quasi un sussurro.
— Qualcosa che ti andrebbe bene. Qualcosa... qualcosa che farebbe al
caso tuo.
Dennie appoggiò la testa allo schienale imbottito. Quel tipo se la pren-
deva calma, ma stava arrivando al succo. Lo capiva.
— Un bel ragazzone come te... — L'uomo assentì lentamente, come se
stesse rimuginando qualche pensiero profondo.
— Ho sentito dire che certa gente... gente che scende in strada per incon-
trare ragazzi come te... ho sentito dire che a volte gli piacciono le cose un
po' dure. Gli piace farsi maltrattare un po'. Cose del genere.
Era troppo bello per essere vero: era un sogno, il paradiso. Dennie chiu-
se gli occhi, e gli parve che il cuore fosse un gran fiore caldo che gli sboc-
ciava nel petto. L'uomo, quello che lo aveva caricato, stava proprio arri-
vando al dunque, a quello che voleva davvero. E quando uno di quei tipi si
metteva a parlare in quel modo - "cose un po' dure" - era facile capire su
che lunghezza d'onda andasse. "Farsi maltrattare un po'". Quello che vole-
va da Dennie. "Cose del genere". Non ci sarebbe stato bisogno dei preli-
minari, di tutte le stronzate da marchettaro implicite nel gioco. Con quel
tipo non ci sarebbe stato bisogno di portare la macchina in un vicolo e fru-
gare nel buio a tentoni per aprirgli la patta e stringere il pugno sul sangue
bollente che pulsava e abbassargli la testa sulle gambe per prenderlo in
bocca con la parte inferiore del volante che gli strisciava sull'angolo della
fronte. E nemmeno l'altro tipo di routine, quella più stiracchiata che consi-
steva nel farsi portare nell'appartamento lussuoso del cliente, con i suoi
giocattolini costosi, lo stereo gigante e altre fregnacce del genere, e una
birra e magari un paio di piste che bruciavano il naso, così sottili da sem-
brare disegnate sullo specchietto con una matita bianca. E poi, letto o mo-
quette, era sempre la stessa cosa.
Ma con quel tipo, l'uomo al volante... Dennie se lo sentiva fin nelle ossa,
nel sangue che gli saliva alle braccia: non ci sarebbe stato bisogno di pas-
sare per quelle stronzate per arrivare alla parte che Dennie voleva. Quella
davvero divertente.
Sentì l'uomo parlare di nuovo. — Magari qualcosina anche di più duro...
— Calmo e lento. — Pensi di potercela fare?
Dennie strinse le dita sulle cosce, strinse le mani a pugno. Il sangue flui-
va cantando. Sorrise, annuendo lentamente. — Certo…
Il volto dell'uomo, sempre una sagoma nera, si voltò verso Dennie. Qua-
si un sussurro. — Bene...
"Bene..."
Steven sentì la voce dell'uomo, quell'unica parola tranquilla. Alzò la te-
sta, sollevandosi dal sedile posteriore per ascoltare.
Aveva sentito tutto quello che si erano detti, le voci che andavano e ve-
nivano, parole che significavano più del poco che si sentiva a orecchio, pa-
role circondate da luoghi bui e profondi nella cui oscurità si muovevano
creature misteriose. Era rimasto sempre rannicchiato sul sedile, in silenzio,
a guardare e ascoltare sotto le luci della città che sfrecciavano più indietro,
frammenti e paesaggi intravisti dall'angolo sotto i finestrini. E la nuca del-
l'uomo al volante, la sagoma scura stagliata nelle luci dei fari che venivano
dalla direzione opposta, che ogni tanto si voltava a mostrare un profilo ne-
ro e senza lineamenti, gli occhi dell'uomo che scrutavano la strada a osser-
vare e cacciare.
Il buio e le luci lancinanti si allontanarono, la macchina scivolò avanti in
un brandello di tempo vuoto e interminabile. Finché Steven non la sentì
rallentare e accostare al marciapiede per fermarsi. A quel punto erano ini-
ziate le voci, quella dell'uomo al volante, che lui aveva riconosciuto da
prima, dal suo sogno... E poi l'altra, quella che si era avvicinata al finestri-
no a rispondere alle parole calme e gentili dell'uomo. E sapeva anche chi
era l'altro, non appena l'aveva sentito parlare...
"Forse." Duro, sfottente. "E con ciò?"
Era quel Dennie, quell'amico di sua sorella. Uno dei ragazzi che gioca-
vano a football. Quello che si era divertito a tormentarlo ai party del drive-
in, e poi anche quel giorno stesso al supermercato, per dare addosso al tipo
del riformatorio. Disteso sul sedile posteriore, dove l'altro non poteva ve-
derlo, Steven immaginò il sorriso sul volto di Dennie, quel gran sorriso
cattivo, come se si stesse già gustando il divertimento che avrebbe provato.
L'espressione che aveva Dennie quando si dava da fare al drive-in, cose
come tirare su Steven da terra con quella manona che gli tirava la camicia
e scagliarlo via con un gesto rapido delle dita grandi e forti.
"Ma non lo sa." Parole sussurrate nella mente di Steven quando aveva
alzato gli occhi per ascoltare. "Non lo sa ancora. "
Dennie era salito in macchina e si era messo accanto all'uomo. L'auto era
partita infilandosi nell'oscurità, verso un luogo dove non c'era luce.
Steven trattenne il respiro: Dennie non si era ancora accorto di lui, non si
era reso conto che c'era, raggomitolato sul sedile dietro a guardare e ascol-
tare. L'uomo al volante e Dennie parlavano, parole che scivolavano avanti
e indietro nello spazio buio e ristretto dell'abitacolo. Il mondo intero si era
riversato dentro la macchina, e fuori non restava altro che il buio.
"Pensi di potercela fare?" Lo aveva detto l'uomo, un profilo nero che si
voltava verso Dennie.
La voce di Dennie che sorrideva. "Certo..."
Non lo sa. Steven alzò gli occhi verso la nuca di Dennie, dietro il pog-
giatesta. Dennie non lo sapeva ancora...
"Bene..." Il sussurro dell'uomo al volante era l'unico suono rimasto al
mondo.
La macchina si era fermata da qualche parte, lontano dal traffico. Fuori
era buio e silenzioso, tanto che Steven sentì il proprio respiro e quello di
Dennie.
Dennie non se ne accorse, ma la sagoma dell'uomo al volante si girò an-
cora di più, dietro di lui appoggiato al sedile, fino a rivolgersi verso Ste-
ven. Lui non riuscì a vedere gli occhi dell'uomo, non ci riusciva mai, eppu-
re sapeva che quello sguardo gelido era fisso nel suo. Un messaggio tacito,
non c'era bisogno di dire altro. Steven si ritrasse un poco da quel volto in
ombra, premendo la schiena contro il sedile.
L'uomo tornò a guardare Dennie. — Pronto? — Un sussurro, ancora più
dolce di tutte le parole precedenti.
Steven sapeva che Dennie aveva stretto i pugni, dal modo in cui teneva
le spalle, i muscoli gonfi sotto il giubbotto da ragazzo. E che sorrideva.
— Certo. — Dennie girò la testa. — Forza...
Dennie si interruppe quando il braccio dell'uomo esplose descrivendo un
arco che partiva dal volante. La mano dell'uomo volò alla gola di Dennie,
afferrandogliela con forza. L'angolo del pollice e dell'indice sbatté contro
la mandibola di Dennie, gettandogli indietro la testa. Quando le dita gli af-
fondarono nel collo, Dennie tirò fuori la lingua. Sgranò gli occhi, e dalla
bocca gli provenne un gorgoglio raschiante e strozzato.
Steven si alzò dal sedile. A guardare. Il mondo all'interno dell'abitacolo
si restrinse ancora di più fino a spingerlo contro gli altri volti.
L'uomo al volante infilò l'altra mano nella tasca della giacca di Dennie,
non a tentoni, ma direttamente per prendere quello che sicuramente sapeva
esserci. Quando ritirò la mano, stringeva un coltello. Era il grosso coltello
a serramanico di Dennie: Steven gliel'aveva già visto in mano prima, lo
aveva visto tirare fuori la lama scintillante dall'impugnatura con le estre-
mità cromate. Dennie aveva sempre usato entrambe le mani per aprire quel
coltello, ma l'uomo, in un unico movimento rapido, lo fece con una mano
sola, e la lama scivolò fuori dall'impugnatura per bloccarsi con uno scatto.
Il metallo affilato sembrava irradiare una luce sottile contro la faccia di
Dennie. Quando vide la lama, Dennie sgranò gli occhi ancora di più, come
se stessero per saltargli dalle orbite: graffiò inutilmente la mano che gli
stringeva la gola.
L'uomo girò il volto di tenebra verso Steven. Ora il sussurro dell'uomo
era rivolto a lui, perché non c'era più nessun altro ad ascoltare.
— Steven... — L'uomo sollevò il coltello, e una scintilla ne percorse la
lama.
Steven spostò lo sguardo dall'uomo col volto invisibile alla punta del
coltello che stringeva in mano.
Il sussurro gli raggiunse l'orecchio. — Steven... dammi la mano...
Non riuscì a impedirsi di farsi avanti verso il coltello. La luce che brilla-
va sulla lama gli ricadde dentro, fino in fondo al cuore: lo tratteneva im-
mobile, trascinandolo verso la sua purezza rigida e tagliente.
Ora rimanevano solo loro due, l'uomo al volante e lui. Con loro nella
macchina c'era un'altra creatura, una creatura con occhi spalancati e fissi
che passavano dal volto nell'ombra a quello del bambino. La creatura ter-
rorizzata annaspò in cerca d'aria, singhiozzando. Sul volto arrossato scen-
devano le lacrime. La creatura terrorizzata aveva paura del coltello.
Non lo sapeva. Non ancora.
— Forza... — L'uomo al volante girò la lama. — Prendilo...
II coltello gli calamitava la mano. Steven fece scivolare le dita sull'im-
pugnatura.
L'uomo al volante prese con la mano quella di Steven, costringendolo a
stringere la presa sull'impugnatura.
— Così...
Lui si era spinto tanto avanti sul sedile che dovette mantenersi in equili-
brio con l'altra mano su quello di Dennie. Il colletto della sua giacca gli
sfiorò le nocche.
— Forza...
Steven guardò la lama mentre l'uomo al volante ritirava la mano. Man-
tenne la presa, stringendo l'impugnatura. Vedeva il proprio riflesso sul me-
tallo lucido, un occhio che sembrava stirato in un filo dove incontrava il
bordo della lama.
Poi il metallo si illuminò, brillando di luce che partiva da un azzurro ge-
lido e cresceva fino a un bianco argenteo, invadendo l'abitacolo, cancel-
lando il riflesso del suo viso sulla lama e la sagoma dell'uomo più oltre e il
balbettio spaventato e implorante di Dennie. Steven girò la testa verso il
finestrino e alzò lo sguardo.
Il cielo si era riempito di luce: ci volle un istante a Steven per ritrovare la
vista dopo il bagliore. Strinse gli occhi e vide i pali metallici che torreg-
giavano su ogni lato della macchina, sollevando banchi di luce contro il
cielo notturno. Sapeva di cosa si trattava, li aveva già visti prima: erano i
lampioni che si usavano al liceo per illuminare i campi da football durante
le partite notturne. Un giorno artificiale e abbagliante si rovesciò sul cam-
po e le tribune silenziose, vuote; in lontananza, le porte di meta perforava-
no la notte con ombre crescenti.
L'abitacolo della macchina si accese, rendendo la mano di Steven un og-
getto bianco che stringeva una scheggia di fuoco, e il volto di Dennie una
maschera da pagliaccio, lacrime scintillanti che gocciolavano fino alla
bocca spalancata e alla mano che gli mordeva la gola. C'era luce, eppure
non riusciva lo stesso a vedere il volto dell'uomo alla guida; il buio si era
condensato appena dietro il volante, ma non spariva.
Da quella tenebra provenne di nuovo la voce dell'uomo, e il sussurro ca-
lò di tono, ancora più intenso. — Forza... forza, Steven...
Steven si allontanò dal volto buio e abbassò gli occhi su Dennie. Gli oc-
chi del giocatore di football incontrarono i suoi; al limitare del buio al loro
centro, Steven vide il riflesso del coltello, un frammento aguzzo che bril-
lava di una luminosità sua.
Dennie si lasciò ricadere nell'angolo fra sedile e portiera, nel tentativo di
allontanarsi dalla lama, combattendo inutilmente con le mani la forza che
gli stringeva il collo. Al bagliore dei riflettori, il volto gli si annerì di san-
gue, la lingua protesa in cerca d'aria. Qualcosa - una parola, un nome - sci-
volò fuori dal gorgoglio di terrore: a Steven parve quasi di sentirlo, quello
che Dennie cercava di dire, cosa voleva implorare...
Poi il pugnale calò. Il punto di luce precipitò verso il basso e la parola
che ribolliva in gola a Dennie si tramutò in un urlo, un urlo soffocato nel
silenzio, solo un sibilo di choc e dolore. Il volto di Dennie si contorse, gli
occhi serrati, le labbra tirate sui denti. La mano dell'uomo strinse più forte
la gola di Dennie, e le urla morirono tra le dita che affondavano nella carne
molle.
Qualcosa di caldo bagnò la mano di Steven. Lui abbassò lo sguardo e
vide l'impugnatura del coltello: la lama era sparita dentro il torace di Den-
nie, il metallo aveva tagliato la giacca e la, camicia. Steven teneva ancora
il coltello, la mano stretta sull'impugnatura. Qualcosa di nero e umido gli
risalì la mano, caldo, fra le dita e il pollice. Qualcosa che inzuppò la cami-
cia di Dennie e poi la giacca.
Di nuovo il flusso scintillante che sgorgava dal foro fatto dal coltello, u-
n'esplosione fino al polso di Steven. L'uomo al volante aveva lasciato an-
dare la gola di Dennie, ma Dennie non si mosse e non cercò di allontanar-
si. La testa gli dondolava contro la portiera, e le strisce rosse lasciate sul
collo dalle dita dell'uomo svanirono lentamente.
E lui non poteva lasciarlo andare. La cosa che era stata Dennie cadde
scivolando lungo il sedile anteriore, ma Steven non riusciva a lasciarlo. La
mano gli rimase stretta sul coltello che scivolava fuori dal petto di Dennie,
e il liquido luminoso schizzò in alto, verso di lui...
12
L'ora zero profumava di erba umida. Al ragazzo con il taccuino piaceva
quell'odore, e anche quell'altro, che non era affatto un odore, ma la sensa-
zione pungente e fredda che dava l'aria la mattina presto, quando il respiro
usciva sotto forma di nuvolette di vapore. Il tempo era cambiato di punto
in bianco: i venti del deserto si erano fermati e l'inverno vero prendeva il
sopravvento. Il ragazzo portava il taccuino nell'incavo del gomito, le mani
affondate nelle tasche della giacca per scaldarle, e ascoltava il capobanda
che soffiava nel suo fischietto, un suono lacerante.
Al liceo la chiamavano ora zero perché le lezioni regolari non comincia-
vano fino alla prima, educazione fisica compresa; per cui, se quelli della
banda scolastica volevano fare esercitazione sul campo di football, dove-
vano uscire tutti molto presto. Al ragazzo col taccuino la cosa non dava fa-
stidio, come del resto a quasi nessun altro nella banda, anche se significava
doversi alzare un'ora prima di tutti gli altri, vestirsi e fare colazione mentre
fuori era ancora buio, Cristo santo - il ragazzo col taccuino stava mostran-
do i primi sintomi di dipendenza da caffè forte - e organizzare ogni genere
di accordi per passarsi a prendere in macchina, perché gli autobus non pas-
savano così presto. Ma a nessuno importava più: erano arrivati tutti al pun-
to in cui lo avrebbero fatto solo per divertimento, anche se la cosa non fa-
ceva guadagnare punti scolastici. L'unico problema era che quello era il
momento cruciale della giornata, e bisognava sopportare tutte quante le le-
zioni solo per arrivare al doposcuola e potersene stare a far niente e scher-
zare nella sala della banda.
Quasi tutte le ragazze della banda portavano sacchetti di plastica sopra le
scarpe per non macchiarsele con l'erba bagnata. La ragazza della sezione
flauti con cui il ragazzo col taccuino usciva la sera si piegò ad allacciarsi
l'elastico alla caviglia, e lui si fermò ad ammirarle il posteriore. Poi entrò
nel campo mentre il capobanda - l'unico segno di riconoscimento del suo
grado era il bastone con la pallina cromata all'estremità - cominciò a sof-
fiare nel fischietto e a spingere tutti nei ranghi. Per poco due basso tuba
non si scontrarono, con quelle grandi campane che si sfioravano a distanze
di pochi centimetri. I ragazzi avvolti nei grossi tubi d'ottone si fecero una
bella risata: quelli delle sezioni bassi nelle bande marcianti erano sempre
dei gran buffoni, e il ragazzo con il taccuino non era mai riuscito a capire
perché.
— Avanti, avanti... — II capobanda aveva rinunciato al fischietto per i-
niziare a urlare. — State perdendo un casino di tempo, ragazzi...
Il ragazzo col taccuino sentì i tamburini rullare finalmente la cadenza i-
niziale mentre percorreva la stradina di servizio che portava al campo. Si
prese di tasca il mazzo di chiavi del conduttore - gli affidavano le chiavi
anche quando il conduttore non era nella sala prove a trascrivere le parti - e
aprì il lucchetto del cancello che portava al campo. Tirò fuori la catena tin-
tinnante e spalancò la cancellata, fino a farle toccare la recinzione di rete
metallica.
Era di quello che si occupava il ragazzo, oltre a scrivere i testi che reci-
tava dal leggio per gli annunciatori in cima alle tribune, i venerdì e i sabato
sera durante gli intervalli delle partite del campionato di football. Non
marciava più con la banda, già dal secondo anno di scuola, quando aveva
iniziato a scrivere i testi: sostanzialmente perché era incapace di suonare
qualcosa che non fosse il fagotto, il che andava benissimo per l'orchestra
scolastica, ma avrebbe fatto pisciare sotto dalle risate in una banda: chi mai
sarebbe riuscito a sentire un fagotto in mezzo a tre file di trombettisti che
suonavano a pieni polmoni? Sarebbe stato come vedere un mimo che si e-
sibiva con un tronco d'albero appeso al collo. Ma poteva comunque portare
l'uniforme della banda, che era niente male, compreso il grande colbacco
impellicciato come quello che si vedeva nelle foto delle guardie di Bu-
ckingham Palace, e inoltre godersi tutte le stronzate della banda. Almeno
in quella scuola, far parte della banda comportava un minimo di prestigio.
Il ragazzo col taccuino pensò che in un certo senso era un peccato dover
avere la scusa delle partite di football per poter mettere in scena quegli
spettacoli da intermezzo. Ai tempi in cui era matricola, la banda era una
specie di patetica appendice della squadra di football, con il compito di
gracchiare la canzone di guerra dell'istituto ogni volta che la squadra se-
gnava e l'Alma mater alla fine della partita. Gli spettacoli di intrat-
tenimento erano così miseri che tutti gli occupanti delle tribune, perfino i
genitori dei ragazzi della banda, si alzavano per andare al chiosco a pren-
dere hot dog e Coca-Cola. Il ragazzo col taccuino ricordava di essersi sen-
tito a metà fra l'imbarazzato e il sollevato nel vedere che nessuno ascolta-
va. E per di più a quei tempi la squadra aveva un certo successo, veniva in-
vitata agli incontri di distretto e nazionali, reggendosi quasi del tutto sulle
spalle del capitano, un divo, un vero talento naturale che aveva già firmato
un pezzo di carta in cui si dichiarava che sarebbe andato a giocare per uno
dei grandi college come quelli che si vedevano in televisione. Poi erano
successe due cose: il capitano si era diplomato ed era partito alla volta di
quel grande istituto, senza farsi mai più sentire, e al liceo era arrivato un
nuovo direttore della banda. Che aveva cominciato a tirare calci in culo.
Nello stesso tempo in cui la squadra di football finiva diritta nel cesso e ci
rimaneva, la banda stava diventando un numero sempre più forte. Tanto
per cambiare, avevano smesso di marciare in riga, ma quando suonavano
sputavano l'anima, con arrangiamenti che il direttore aveva preso dai brani
classici più d'effetto. Cristo, quell'anno il brano introduttivo, quello che
suonavano all'entrata in campo prima dell'inizio della partita, era niente di
meno che il "Coro dei soldati" dal Faust. Con un gran rullare di tamburi e
una melodia suonata dagli ottoni che si scioglieva nell'aria autunnale come
l'esplosione di un razzo, un Quattro di Luglio in anticipo. Troppo bestiale
per crederci, ma dalla sua postazione nella cabina degli annunciatori, il ra-
gazzo col taccuino si era accorto del cambiamento: ora la gente andava al
chiosco durante la partita - perché mai starsene là solo per vedere la squa-
dra di casa che si faceva prendere a calci in culo? - e riempiva le gradinate
quando arrivava il momento dell'intervallo. Bestiale, bestiale davvero.
Il ragazzo sfogliò le carte raccolte sul taccuino, per controllare le forma-
zioni e i brani su cui esercitarsi. La banda stava già risalendo la stradina di
servizio, destra-sinistra-destra, muovendosi al ritmo della cadenza battuta
sui rullanti, diretta alla cancellata.
In un certo senso, gli dispiaceva per quei poveri coglioni della squadra
di football. Il liceo, per loro, non si stava affatto rivelando conforme alle
aspettative. Avevano sbattuto le teste vuote contro una delle crude verità
del comportamento umano: a nessuno fregava il benché minimo cazzo dei
perdenti. Probabilmente nella scuola c'erano atleti migliori di certi bovini
che giocavano nella squadra dell'istituto, ma chi mai avrebbe voluto in-
gaggiare una formazione che era diventata fonte d'imbarazzo per tutti? Cri-
sto, il ragazzo col taccuino era amico di un paio di altri che se n'erano an-
dati dalla squadra per entrare nella banda. Il che aveva fatto incazzare a
morte gli allenatori: il ragazzo li aveva visti rivolgere sguardi di morte al
conduttore della banda dai lati del campo.
Andassero a prenderlo in culo. Non gliene fregava proprio una sega se a
un branco di Neanderthal gonfi di birra si spezzava il cuore. Neanche se
fossero stati Neanderthal bravi e buoni. Proprio in quel momento la banda
stava marciando oltre la cancellata, la sezione tamburini picchiava a tutta
forza e la piccola flautista gli aveva rivolto un sorriso nel passargli davanti
con gli altri: meno male che non l'aveva visto fissarle il culo così aperta-
mente, perché era un po' suscettibile. L'aria fredda del mattino gli risuona-
va dentro, e se avesse potuto far durare per sempre quel piccolo frammento
del suo ultimo anno scolastico, un'eterna ora zero, per lui sarebbe stato il
paradiso. Quando anche i basso tuba, nell'ultima fila della banda, ebbero
varcato la cancellata, il ragazzo li seguì sul campo.
— Ehi, cos'è quella stronzata laggiù? — II capobanda prese il suo basto-
ne con una mano sola e lo usò per indicare il centro del campo di gioco.
— Cosa? — II ragazzo col taccuino dovette mettersi una mano a coppa
attorno all'orecchio per riuscire a sentire l'urlo contro il frastuono dei tam-
burini.
— Da quella parte... — gli indicò di nuovo il capobanda. Aveva portato
la banda in formazione nella zona d'estremità, e la stava facendo marciare
lungo un lato del campo, facendole attraversare tutte le linee delle dieci
iarde una per una. Stava indietreggiando per portarsi di fronte alla prima fi-
la di suonatori, e chiamò il ragazzo col taccuino. — Quella roba laggiù.
Il ragazzo si voltò e guardò dall'altra parte del campo da gioco. Una
transenna, del mucchio di quelle che di solito venivano chiuse nel magaz-
zino per il materiale tecnico dietro le gradinate. Qualcuno l'aveva trascina-
ta fuori e lasciata sulla linea delle cinquanta iarde. E c'era qualcos'altro, di-
steso contro la sbarra trasversale della transenna, qualcosa che assomiglia-
va a uno dei sacchi neri pieni di palle ovali che la squadra portava fuori a-
gli allenamenti. La tela era zuppa di rugiada.
— Non capisco proprio — gridò lui in risposta al capobanda.
— Be', Cristo beato, portala via da là. — II capobanda aveva alzato il
suo bastone con entrambe le mani, pronto per dare la prima battuta della
rullata. — Ce l'abbiamo proprio fra le palle.
In realtà non era vero, ma lo sarebbe stato nel momento in cui la banda
avesse fatto il giro dall'altra estremità e fosse tornata indietro lungo il cam-
po. Lui posò il taccuino sulla prima fila delle gradinate. — Ehi, Ed, dammi
una mano, ti spiace? — II suo amico nella sezione corni francesi uscì dalle
righe e depose lo strumento sopra il taccuino. Si diressero insieme verso la
transenna; alle loro spalle risuonarono le battute iniziali di El Capitan.
— Si può sapere che cazzo è questa roba? — Nell'avvicinarsi, il ragazzo
aveva notato che il sacco di tela era vuoto, ma deposto come una coperta
sopra qualcos'altro. Ne sentiva l'odore, veramente lercio, e si domandò se
quelli della squadra non avessero deciso di piazzare in campo qualcosa di
fetido con l'idea di fare uno dei soliti scherzi da microcefali. Non gliel'a-
vrebbe fatta passare liscia.
Ed si allungò e tirò un angolo del sacco di tela. — Ma che Cristo...
Il ragazzo riconobbe il faccione che penzolava, il corpo piegato in due
sopra la sbarra della transenna. Era uno dei ragazzi della squadra di foo-
tball, uno di quelli più grossi e stupidi di cui a nessuno a scuola importava
niente, un vero stronzo che si chiamava... Rifletté lentamente, come se il
tempo si fosse arrestato con la rivelazione di quella faccia rivolta a terra
con la bocca spalancata. Dennie, ecco come si chiamava.
Probabilmente quel gorilla stava smaltendo la sbronza. Era per quello
che stava lì, talmente fuso marcio da non essersi nemmeno accorto che i
suoi amici lo avevano lasciato su una transenna come un sacco di cemento.
L'intera squadra al completo sembrava passare le nottate a rovinarsi, nean-
che con del fumo o altro per cui fossero costretti a tirare fuori soldi, no, so-
lo con litri e litri di birra che qualche ammiratore continuava a regalargli.
Lo sapeva tutta la scuola. Ubriachi marci di continuo, e la smaltivano do-
vunque capitasse...
Poi il sacco di tela scivolò completamente e cadde per terra.
— Cristo d'una madonna! — I due fissarono lo spettacolo.
La transenna si ribaltò, come al rallentatore. Il corpo del giocatore di fo-
otball precipitò a terra, una guancia che scivolava contro l'erba, un grumo
rosso che colava dalla bocca aperta. E allora videro tutto. I jeans di Dennie
abbassati fino alle caviglie, il fiore di sangue che macchiava le natiche
bianche, il varco rosso che saliva da quel punto fino al ventre e più su an-
cora, il sangue che inzuppava la camicia e la giacca lacerate.
Dennie rimase disteso sull'erba a fissarli con quell'unico occhio beota,
senza vederli.
La musica cessò. Il ragazzo la sentì morire in sibili di fiati e bacchettate
fuori tempo. A qualche metro di distanza gli altri avevano visto tutto, quel-
la creatura distesa sull'erba del campo. Il ragazzo si girò, con le parole
congelate in gola come una pietra. Poi non ci fu tempo per dire niente, per-
ché qualcuno, una delle ragazze, aveva cominciato a strillare, e il suono
riempì completamente l'aria.
13
Non era granché, come party. Felton aveva portato un bel po' di cassette
di birra, e tutti si servivano a volontà, ma nessuno rideva e scherzava come
al solito. Parlavano semplicemente a bassa voce, seduti sui paraurti delle
macchine intorno al vecchio snack bar, e continuavano a ingozzarsi di bir-
ra, affondando in un lento torpore.
Felton aveva infilato un paio di nastri nuovi nei videoregistratori dentro
l'ufficio, roba che gli era arrivata da un tipo del New Jersey, un poco di
buono che si era fatto anni di galera per certe cose che spediva via posta,
ma che in seguito aveva ridotto il proprio campo d'affari a mercé accettata
dal servizio postale. Eppure Felton aveva fatto la scenetta di strizzare l'oc-
chio e dare di gomito nelle costole a tutti quelli della squadra, rivolgendo
loro quel suo ghigno viscido e sudaticcio, per cui non si sapeva che razza
di roba sconvolgente ci fosse in quelle videocassette. A sentire Felton,
sembrava che guardare delle vecchie troie con le smagliature e gli occhi
spenti che si sditalinavano a vicenda fosse la cosa più eccitante del mondo.
Ma nessuno aveva voglia di vedere le cassette sconce di quel vecchio testa
di cazzo, non in quel momento, non con un morto che pesava come un ma-
cigno dentro le budella di tutti quanti. Felton era scocciato, perché per lui
la festa era starsene seduto a guardare film porno circondato da adolescen-
ti; così si ritirò nell'ufficio, a far fuori tetro una delle cassette di birra e a
guardare i film per conto suo.
Anche le ragazze se ne stavano in gruppo per conto loro. Come se aves-
sero il permesso di stare alla festa, ma non di parteciparvi. Era una cosa ri-
servata ai maschi, qualcosa che spartivano tra di loro, che ingoiavano e si
lasciavano scorrere nelle vene come una specie di sangue comune, come le
birre che stringevano nel pugno e nella gola. Niente dolore, ma rabbia cupa
e piena di borbottii.
Però uno di loro piangeva. Lo faceva da tanto che la faccia gli si era
gonfiata tutta, come quella di un bambinetto con il moccio che gli si me-
scolava alle lacrime. Fino al punto da creare imbarazzo a tutti, come una
nota acida e stonata in sottofondo a quella che esprimeva la loro rabbia.
Larry avrebbe voluto che quel tipo se ne stesse zitto. Si appoggiò alla gri-
glia cromata del radiatore di una macchina a guardare quel cretino piagno-
ne. La lattina di birra che teneva in mano si era riscaldata, ancora mezza
piena. All'inizio non voleva bere proprio niente, ma sapeva che avrebbe
dovuto farlo se voleva essere insieme a tutti gli altri. Alla squadra.
Il tizio che piangeva - lo stesso che aveva fatto la scenata quella mattina
a scuola quando la polizia si era messa a fare le sue cose e poi avevano
portato via il cadavere di Dennie - si asciugò il naso con la manica della
giacca, sulla quale rimase una strisciata umida come quella di un lumaco-
ne. Ci erano voluti tre dei suoi compagni di squadra per tirarlo via dalla re-
cinzione intorno al campo di gioco, solo per come si era messo a strillare e
piagnucolare.
— Gliel'avevo detto... — II tipo aveva la voce tutta sputtanata dalla bir-
ra. — Gliel'avevo detto, io, di non fare più quelle stronzate... gliel'avevo
detto...
Larry sorseggiò la birra calda. Erano tutti stufi marci di quel cazzone.
Perfino le ragazze, che se ne stavano un paio di metri più indietro nel loro
branco sussurrante, lo guardavano piangere scuotendo la testa.
Un altro ragazzo, un placcatore di seconda posizione, si passò una lattina
di birra vuota sul palmo della mano. Il suo borbottio spezzò il silenzio: —
Adesso lo sapranno tutti, in quello schifo di scuola...
Mick, il capitano della squadra, gli rivolse un'occhiata di disgusto. —
Chiudi la bocca. — Aveva l'aria di volersi allontanare dal paraurti della
sua macchina e avvicinarsi al tizio per tirargliene uno nei denti. Quello che
aveva parlato ammutolì debitamente, lo sguardo fisso nell'apertura a strap-
po della sua lattina di birra.
Che cosa stupida da dire. Larry si domandò se ci fosse qualcuno a scuola
che non l'aveva saputo. Di Dennie, e di quello che gli piaceva fare. Il gene-
re di casini che andava a cercarsi. E che aveva finalmente trovato.
Forse era proprio quello che voleva trovare. Il pensiero risalì alla mente
di Larry da qualche angolo buio. Non reggeva la birra, solo il sapore gli
raggricciava la lingua, e così mezza lattina era sufficiente a liberare certi
pensieri, a tirarli fuori, cose che altrimenti non si sarebbero mai dette
nemmeno a se stessi. Ma in fondo, lo sapevano tutti che Dennie era così.
Non perché era una checca, lo sapeva Cristo che di quelle cose non impor-
tava più un cazzo a nessuno, ma perché era marcio in un modo diverso.
Era malato e gli piacevano le cose malate.
Malate... Larry si strofinò la lattina di birra sulla fronte, ma non serviva
più a raffreddare il sangue sotto la pelle. Era proprio quello che pensavano
tutti...
Mick schiacciò una lattina vuota nel pugno, con un crepitio secco di me-
tallo. La gettò nel buio. — Brutti froci di merda...
Lo stordimento della birra scomparve dalla mente di Larry. Per un istan-
te, gli parve di non trovarsi davvero là insieme a tutti gli altri. Come se un
intero nuovo mondo gli si fosse avvolto intorno, e tutti gli altri, la squadra,
fossero rimasti in un altro. Un altro mondo che lui vedeva e osservava, ma
i pensieri che brulicavano dietro i volti erano qualcosa di diverso, non co-
me i suoi. Mick aveva l'aria di voler ammazzare qualcuno. "Froci di mer-
da." Gli altri avevano annuito, accigliandosi e mormorando in segno d'as-
senso quando le parole rabbiose di Mick si erano rovesciate nell'aria della
notte.
Ma era Dennie... Larry voleva urlarglielo, entrare di forza in quel picco-
lo mondo del quale non faceva più parte. Era quello che Dennie si era an-
dato a cercare, e che aveva trovato.
Serrò la bocca, richiudendo dentro le parole. Non sarebbe servito a nien-
te cercare di dire loro quello che sapevano già.
Proprio a niente. Piegò le braccia sul petto, per scacciare il freddo. An-
che se era solo, era sempre circondato dagli altri. A loro non sarebbe pia-
ciuto sentirgli dire qualcosa di diverso, diverso da quello che avevano già
deciso e dato per scontato in fondo al cuore.
Chiuse gli occhi. Sentiva più nausea che paura. Meglio starsene zitti, la-
sciare che tutto passasse.
Taylor aveva aspettato tutta la notte. Finché non fu ora di uscire di nuo-
vo nel buio.
Aspettò fino a dopo mezzanotte, una volta sistemate tutte le procedure
con cui iniziava il turno dei sepolti vivi: l'assegnazione delle nuove came-
re, la conta dei casi medici all'infermeria. Poi aveva preso la pila elettrica
dal cassetto della scrivania lasciando la responsabilità a Repken, che stava
sfogliando una rivista come al solito.
Mentre attraversava il campo di atletica del riformatorio, pensò che forse
la squadra di football aveva deciso di fare a meno del consueto party. Visto
quello che era successo al liceo, con uno dei loro trovato cadavere a quel
modo, tagliato in due con le gambe piene di sangue raggrumato. Quel ra-
gazzino imbecille batteva: stava scritto così nel suo incartamento penale,
tutta una carriera di schede di accettazione al riformatorio, di notti a incon-
trare uomini a cui piaceva quel genere di cose e disposti a pagare per aver-
le. Chiaro che neanche tutto l'oro del mondo sarebbe bastato a pagare chi
non amava le stesse cose.
Comunque quella piccola scoperta sul campo del liceo forse sarebbe ba-
stata a convincere i compagni di squadra del morto a lasciar perdere la se-
rata di birra. Nel silenzio degli spazi vuoti e bui che circondavano il rifor-
matorio, non gli parve di sentire risa e urla portate dall'aria notturna, come
al solito.
Ma aveva altre ragioni per uscire, a parte controllare quello che la squa-
dra di football poteva o poteva non combinare quella notte. C'erano altre
cose, nella notte.
Taylor raggiunse il cancello e si fermò. Accese la pila e fece passare il
fascio di luce oltre la cancellata. La luce spazzò la stradina di servizio, al-
lungandosi in un ovale obliquo quando la puntò verso l'entrata. Riuscì a di-
stinguere la catena che penzolava dai bassi paletti metallici dei due lati, a
bloccare l'accesso alla stradina. Riportò il fascio di luce sulla strada di
ghiaia. Se c'erano impronte nuove, di macchina o altro, lui non le vedeva.
Spense la pila. Prese le chiavi attaccate alla cordicella dalla tasca, aprì il
cancello e avanzò sulla stradina di servizio. I ciottoli scricchiolarono sotto
le scarpe quando si voltò a richiudere il lucchetto sugli anelli della catena.
La sua ombra proiettata dai lampioni perimetrali in alto sopra la recinzione
gli si allungò davanti, mentre attraversava la strada e risaliva il primo bas-
so pendio delle colline. Nel giro di un paio di metri, la sua ombra si era fu-
sa nella tenebra circostante.
Facendosi strada tra le erbacce secche, raggiunse la cima della collina.
Gli occhi si erano adattati al buio. Tenne spenta la pila, e rivolse lo sguar-
do in lontananza.
I ragazzi della squadra c'erano lo stesso: li vide come figurine minusco-
le, illuminate dalla luce di una porta spalancata. Il consueto party non era
stato rimandato, ma sembrava procedere a ritmo più sommesso. A Taylor
parve una veglia. Come dei primitivi che piangevano i loro morti, quei ra-
gazzi avevano i loro piccoli rituali. Se fossero riusciti a ottenere il cadavere
dall'obitorio della polizia, sicuramente se lo sarebbero condivisi, lo avreb-
bero mangiato per conservare la memoria di quel povero bastardo.
Non c'era niente per cui valesse la pena di chiamare la polizia per lamen-
tarsi. Finché rimanevano così, quasi intristiti, ora che la prova della loro
mortalità era stata incisa nella pelle del loro amico, di loro non gli fregava
un cazzo. E in un certo modo, era alquanto soddisfacente pensarli laggiù,
con la mente sconvolta. Dal dolore, dalla paura e altre cose che erano trop-
po stupidi per capire. Una buona vendetta per il gatto che gli avevano in-
chiodato alla porta.
Stava per voltarsi e discendere il pendio quando vide le altre sagome.
Così vicine, alla base della collina di fronte a lui, che quasi non se n'era
accorto. Una zona della recinzione circostante il drive-in era illuminata da
una coppia di fari. Una macchina parcheggiata a breve distanza da due per-
sone, un ragazzino e un uomo, accucciati dalle parti opposte della re-
cinzione. Non lo avevano visto, lassù nel buio. Riconobbe il bambino: era
quel Welsky... Steven, ecco come si chiamava. L'uomo, dalla parte della
recinzione più vicina a lui, gli volgeva la schiena. Anche in mezzo al fa-
scio di luce dei proiettori, l'uomo sembrava completamente immerso nel
buio e privo di lineamenti, come se il ragazzino stesse parlando a un'ombra
dalle sembianze umane china di fronte a lui. Le due sagome, bambino e
uomo, avevano i volti così vicini che quasi si toccavano attraverso la rete.
Stavano parlando. Taylor lo sapeva; vedeva il bambino muovere la boc-
ca e scuotere la testa per negare. Ma erano troppo lontani perché riuscisse
a sentire cosa si dicevano.
Non si mosse. Inspirò lentamente, senza fare rumore, perché non voleva
che alzassero gli occhi e lo vedessero. Continuò ad assistere nel buio alla
scena che si svolgeva sotto di lui.
— Steven... adesso sei felice, vero? Steven ascoltò il sussurro dell'uomo.
Anche se chiudeva gli occhi, sentiva lo stesso il suo sguardo premergli ad-
dosso. Uno sguardo che lo frugava in attesa di una risposta. Le parole del-
l'uomo continuarono, come un bacio sull'orecchio. — Adesso non devi
preoccuparti più di niente, Steven. Non devi preoccuparti più. — La voce
si tese di fervore. — Penserò io a tutto. — Quella promessa bruciava come
un filo metallico scaldato. — È per questo che sono venuto. Penserò io a
tutti loro. — Poi, più dolcemente: — Sai bene che lo farò. Steven... lo sai...
vero? Lui dovette appendersi alla rete per non cadere. Il metallo gli pre-
mette contro la guancia. Tenne gli occhi chiusi: non voleva vedere il volto
immerso nell'ombra davanti a sé.
— Steven…
Si costrinse ad aprire gli occhi, e si guardò alle spalle, verso le luci lon-
tane. C’erano tutti, in quell’altro mondo. Girò la testa, indietreggiando dal-
la rete per restituire lo sguardo dell'uomo.
— Ma... — Le parole furono lente: doveva tirarle fuori una per una dal
profondo di sé. — Ma tu... lo hai ucciso...
Silenzio. La sagoma dell'uomo, china dall'altra parte della recinzione, in-
saccò le spalle. La mano che stringeva la rete si richiuse, le dita raccolte
verso il palmo. L'uomo della macchina nera avvicinò il volto.
— Non era quello che volevi?
La voce gli risuonò di un candore quasi infantile. E perplessa, come se ci
fosse qualcosa di incomprensibile, un mistero perfino per l'uomo della
macchina nera.
Qualcosa, dentro di lui, voleva urlare, gridare un'unica parola, quella che
avrebbe fatto a pezzi il piccolo mondo raccolto intorno a loro e strappato
via l'oscurità come una lama di coltello...
— Non è così?
"Sì." Steven strinse le mani sulla rete, e il filo metallico gli penetrò negli
incavi delle dita. La parola gli riempiva la bocca, era così enorme che lo
soffocava. "Sì!" Talmente grande che doveva sputarla, o l'avrebbe ucciso...
Si morse il labbro fino a sentire il gusto del sangue, gli occhi stretti a
trattenere il buio dentro di lui. Da un angolo dell'occhio gli sgorgò una la-
crima che discese bruciante la guancia.
Scosse la testa, aprì di nuovo gli occhi a guardare l'altro diritto in faccia.
— No... devi fermarti...
L'uomo lo fissò, con quegli occhi sempre invisibili nell'ombra. — Non
posso fermarmi, Steven... non adesso...
L'altra parola, quella che gli aveva riempito la bocca, era ancora in gola,
qualcosa che non riusciva a ricacciare giù. Non doveva fare altro che pro-
nunciarla, che lasciarla uscire... Sarebbe stato facile.
Guardò la propria mano tirare la rete metallica. Nel sogno, quel sogno
reale, aveva stretto il pugno sul coltello, mentre la lama si trasformava in
fuoco e poi nel suo riflesso, luce che esplodeva e riempiva la macchina.
L'altro viso, quello di Dennie, scintillante delle lacrime nate dal suo terro-
re. C'era anche quello. Nel sogno, nel mondo dentro di lui che non riusciva
a tirare fuori.
L'uomo della macchina nera lo stava aspettando. Lì...
Steven deglutì, saliva inacidita dal sangue che gli era colato dal labbro.
— Vai via...
L'uomo scosse il capo. — Steven... tu non vuoi che mi fermi. Vero?
A quel punto non riuscì più a dire una parola. Non ce n’erano.
L'uomo sussurrò con voce ancora più dolce: — Ci penserò io, a loro... ci
penserò io, a tutti quanti. Aspetta e vedrai...
Steven lasciò andare la rete. Si rialzò in piedi, poi si girò, allontanandosi
dal volto dell'altro, da quel profilo e dai sussurri, e scappò. Vide la propria
ombra stendersi di fronte a sé, spinta nell'oscurità dai fari della macchina
nera. Poi un'altra, l'uomo che si alzava in piedi a sua volta dietro la recin-
zione. Continuò a correre finché il buio non gli fu tutto intorno.
Alle sue spalle, sentì il motore accendersi. L'asfalto del drive-in si illu-
minò per un momento quando i fari curvarono seguendo l'inversione di
marcia. Poi sparirono, e il suono del motore si affievolì, e Steven non sentì
più altro che il pulsare del proprio sangue mentre correva e continuava a
correre.
14
I suoi amici lo scaricarono perché non sopportavano più tutti quei pianti
e quel frignare. Quel testa di cazzo era già messo male prima di cominciare
a bere, fin da quella mattina, quando la notizia del ritrovamento del cada-
vere era arrivata a tutti. Come se lui e Dennie fossero stati amici per la pel-
le, o qualcosa del genere: era imbarazzante. E poi quando quel bifolco
grande e grosso aveva cominciato a bere - ed era sempre stato uno di quelli
che ci davano dentro di più, ai party - non aveva fatto altro che peggiorare.
— Vaffanculo, dai, esci di qua. Mi fai schifo. — L'altro della squadra
seduto dietro lo spinse per le spalle. Quando diceva che gli faceva schifo,
era vero: l'ubriacone aveva vomitato anche l'anima, sporgendo dal finestri-
no la faccia rossa e sudata e lasciando una scia di vomito birroso sulla
fiancata della macchina, facendone colare un rivolo dalla parte interna del-
la portiera. — Forza... — L'altro giocatore di football si allungò oltre l'u-
briaco e spalancò la portiera. Cristo di Dio, la maniglia era tutta imbrattata.
Sollevò il piede per aiutarsi a spingere l'altro nel fondo della schiena. —
Levati dal cazzo, amico.
Avevano accostato in una stradina del centro. Non sapevano dove, sta-
vano semplicemente girando senza meta. Le vetrine dei negozi erano serra-
te, le insegne luminose spente. Da un paio di isolati di distanza proveniva
il rumore di un'autopulitrice, con i grandi spazzoloni rotanti che raschiava-
no la sporcizia dai vicoli.
Il loro compagno di squadra, il grosso ubriacone imbecille, uscì a fatica
dalla macchina, riuscendo per puro caso a reggersi in piedi, con le gambe
molli. Afferrò la colonnina di un parchimetro per sostenersi, barcollando e
stringendo le mani sulla finestrella con il quadrante del segnatempo. Fissò
i suoi compagni dentro la macchina a occhi sgranati, la bocca spalancata.
Aveva la camicia incollata al petto dal vomito.
L'ubriaco riuscì ad alzare una mano dal parchimetro. — Ehi... — Si sen-
tiva la lingua come un peso morto. — Co...
— Brutto stronzo, vai a fartelo piantare in culo — urlò dal finestrino
quello che lo aveva buttato fuori a calci. Lui e gli altri due sui sedili ante-
riori erano ancora incazzati per la puzza, e lo fissavano schifati. La mac-
china si allontanò dal marciapiede, e uno dei due rivolse al suo compagno
ubriaco il medio sollevato.
Stretto alla colonnina, il giovane ubriaco si guardò attorno. Nella mente
gli si era incagliato tutto quanto, pensieri di cemento, inamovibili. Forse
stava per vomitare ancora. Sapeva di averlo fatto prima, anche se non lo ri-
cordava, ma sentiva il sapore in bocca. Le dita cominciarono a scivolargli
sul metallo del parchimetro, e lui strinse più forte, disperatamente. Se fosse
caduto, non era certo di riuscire a rialzarsi.
E non riusciva a capire. Prima era in macchina con i suoi compagni, al
sicuro, con la testa che gli ciondolava avanti e indietro mentre le strade gli
giravano intorno, contorcendosi l'una sopra l'altra. Ora invece si trovava al
freddo, e i suoi amici se n'erano andati. Tutti quanti... A quel pensiero ini-
ziò a piangere di nuovo. In gola gli risalì un singhiozzo, e dovette anna-
spare per ritrovare il fiato. Dennie se n'erano andato, se n'erano andati tutti,
e lui era rimasto solo.
Si allontanò dalla colonnina, con le lacrime bollenti che gli colavano sul-
le guance. Tutto solo... Si mise la mano nella tasca della giacca e vi trovò
una lattina di birra ancora piena per metà. Il resto si era versato, infradi-
ciandogli la giacca e il fianco dei jeans. Vide una lastra di vetro tremolare
e barcollargli davanti agli occhi; dall'altra parte c'erano oggetti che sembra-
vano scarpe. Appoggiò le spalle alla vetrina e riuscì faticosamente a por-
tarsi la lattina alla bocca. Era calda e acida, e gli riportò il sapore del vomi-
to in fondo alla lingua. Non riuscì a deglutire: quasi tutta la birra gli colò
dal mento finendo sul petto.
Gettò via la lattina vuota, che rimbalzò sul selciato con un tonfo metalli-
co. Cercò di muoversi, ma le gambe gli cedettero. Scivolò lungo la vetrina,
e giacca e camicia gli salirono sulla schiena. Poi non sentì più le ginocchia,
e precipitò a terra.
All'angolo della bocca gli gocciolò qualcosa di salato quando alzò la
faccia dal marciapiede. Ma non sentiva dolore, solo il pulsare attutito del
sangue. — Gliel'avevo detto... — II gelo gli penetrò nel fianco e nella spal-
la su cui stava disteso. Sollevò le ginocchia, stringendosi le braccia al cor-
po. — Gliel'avevo detto, gliel'avevo detto...
Non si accorse del raggio della torcia neanche quando gli illuminò il vol-
to. Teneva gli occhi serrati, le lacrime che scendevano sotto le ciglia.
Uno dei due poliziotti si chinò e prese il ragazzo per i capelli. In mezzo
alla strada, l'autopattuglia era ferma col motore in folle, e nel buio risuona-
va la voce gracchiante dell'autoradio. IL poliziotto gli sollevò la testa e gli
mise la pila davanti al volto. Il ragazzo biascicò qualcosa, stringendo gli
occhi e passandosi la mano sul viso.
— Cristo santo... — II collega del poliziotto scosse il capo, disgustato.
Gli era arrivata alle narici la puzza di vomito.
Il primo era riuscito ad alzare il ragazzo, che era grande e grosso e pesa-
va come un carico di mattoni, in posizione seduta, con la testa che gli
ciondolava in avanti, un filo di saliva densa che colava sulla camicia. Il po-
liziotto rivolse la pila sulla giacca del ragazzo. Vide una grande lettera M
al cui interno era ricamata una piccola palla da football.
— Ehi... — II poliziotto si girò, chino accanto al ragazzo, e alzò gli oc-
chi verso il collega. — Questo buffone è della squadra di Midford.
Era la città vicina. La forza di polizia, in quella dove si trovavano, era
praticamente costituita di campioni della ciambella con caffè e del sonnel-
lino in macchina. Se il ragazzo fosse stato di una delle altre città della con-
tea, avrebbero potuto fare una chiamata via radio e far venire qualcuno a
prendere l'adolescente sperduto per riportarlo dalla mamma. Ma a chia-
mare il dipartimento di polizia di Midford non c'era modo di sapere quanto
sarebbero dovuti rimanere ad aspettare che arrivasse una delle loro auto-
pattuglie a raccattarlo. Meglio lasciar perdere.
— Mi sembra di riconoscerlo. — II poliziotto con la pila puntò il fascio
di luce di nuovo contro il volto del ragazzo. — Fa parte della linea d'attac-
co. — Anche suo figlio giocava, per cui aveva visto diverse partite.
L'altro guardò il collega, poi di nuovo il ragazzo sbronzo.
— Sì? Be', guarda, adesso farà parte della linea dei carcerati.
Il primo spense la pila e prese il ragazzo sotto il braccio per tirarlo in
piedi. — Forza, Rambo. Andiamo a farci un giretto.
— Lasciami stare... — II ragazzo rimase disteso contro il muro che stava
sotto alla vetrina. Mollò un gancio al poliziotto, ma non arrivò neanche vi-
cino a colpirlo.
— Merda. — II poliziotto sospirò, poi prese di nuovo il ragazzo per i
capelli. Con un unico gesto secco, gli sbatté la testa contro il muro. Il ra-
gazzo sgranò gli occhi fissi nel vuoto. — Fai conto che hai fatto meta,
stronzo.
Il ragazzo non disse più niente. Lasciò che i due poliziotti lo alzassero in
piedi per poi trascinarlo all'autopattuglia.
15
Arrivò a casa e trovò la porta aperta. Per un momento pensò che potesse
essere arrivata Anne, che fosse entrata con la sua chiave e lo stesse aspet-
tando dentro. Il che andava benissimo: non gli sarebbe dispiaciuta un po' di
compagnia. Era uscito dal turno al riformatorio più esausto del solito, co-
me se la notte fosse durata anni, procedendo faticosamente nel buio per ar-
rivare alla luce del mattino.
La porta era socchiusa: Taylor pensò che Anne si sarebbe fatta vedere,
che sarebbe uscita dal suo nascondiglio per mostrargli un sorriso. Poi vide
il legno scheggiato intorno ai chiavistelli di metallo lucente. Quello della
serratura era ancora in posizione chiusa, ma sporgeva in fuori, puntato ver-
so di lui; la serratura strappata via, che penzolava attaccata all'unica vite di
ottone rimasta. Intorno alla maniglia c'erano due impronte di scarpa infan-
gata, e il legno era scheggiato intorno ai segni dei talloni.
Nell'appartamento non c'era nessuno, lo sapeva già. Dalla stretta apertu-
ra sembrava sgorgare il silenzio. Chiunque fosse stato a sfondare la porta,
era già lontano. Pensò che non avrebbe dovuto entrare, ma andare dal-
l'amministratrice e chiamare la polizia. Dopo un istante, spinse la porta:
uno dei due cardini fece resistenza. Entrò.
Non fu sorpreso da quello che vide. Rimase immobile in mezzo al sog-
giorno, accanto alle mensole ribaltate, e si guardò intorno. Dovevano esse-
re arrivati in parecchi, e avevano lavorato in fretta. In modo da potersene
andare prima che qualcuno avesse il tempo di chiamare i poliziotti. Così si
viveva nei condomini: gli altri si preoccupavano solo se il rumore durava
tanto da disturbare il loro sonno. Se era solo qualche minuto, non valeva la
pena di sconvolgersi tanto.
Taylor oltrepassò i libri sparsi per terra. Alcuni dischi erano fuori dalle
copertine, altri avevano le buste strappate ed erano sparpagliati intorno o
spaccati. Lui si chinò a raccogliere due pezzi di vinile nero che sembrava-
no ali rigide: concerti per piano di Mozart. Poi li gettò di nuovo in mezzo
al ciarpame.
Compilò mentalmente un inventario per verificare una per una tutte le
sue proprietà, passando lo sguardo lungo la camera. Il divano era stato ta-
gliuzzato, e l'imbottitura traboccava dalle lunghe ferite sui cuscini e gli
schienali. Il ripiano della scrivania era vuoto, e la macchina da scrivere era
per terra come una tartaruga rivoltata sul guscio. Tutte le carte erano sparse
in giro come foglie dopo un tornado; spinse un foglio con la punta del pie-
de, lo guardò e vide che era una pagina della prima bozza del suo libro. Si
rese conto che erano anni che non la vedeva, era sempre rimasta in letargo
dentro una cartelletta sepolta fra la confusione che regnava sulla scrivania.
Le frasi sulla pagina erano file di parole sconosciute, come una lettera
scritta da qualcuno di cui si era dimenticato il nome. Per un momento
chiuse gli occhi, per lasciar sparire tutte le parole segnate sulla pagina.
Il sole del mattino filtrava dalla finestra in raggi obliqui, colpendogli il
volto. Si girò, scrutando nuovamente la stanza. Lo stereo era andato: anche
se non si fosse rotto quando avevano ribaltato le mensole, uno degli intrusi
era saltato sul telaio metallico, appiattendolo e facendo schizzare fuori
transistor e integrati. E anche gli altoparlanti: le griglie di protezione strap-
pate a calci, fracassate a mostrare i coni lacerati e le interiora di cavi multi-
colori. Qualcosa attirò il suo sguardo, e Taylor alzò gli occhi.
Lesse le parole scritte sul muro. Neanche quelle lo sorpresero. Rimase a
guardarle ancora per un po', quindi si chinò accanto alla scrivania e frugò
finché non ebbe trovato il telefono, tirandolo per il cavo fuori dal cumulo
di libri e mobili distrutti. Nell'orecchio gli risuonò il segnale di linea, e lui
iniziò a comporre il numero. Lo sapeva a memoria.
Doveva esserci altra roba da bere in giro. Ce n'era sempre, in quella ca-
sa. La madre di Kris era un'ubriacona marcia: era per quello che spendeva
quasi tutti i soldi degli assegni di suo
padre. Mick raggiunse il termine del corridoio e si appoggiò alla parete
per mantenere l'equilibrio. Si sentiva gli occhi come se glieli avessero bol-
liti: il soggiorno era tutto confuso e sfuocato.
Avanzò verso il divano. Per poco non ci cadde sopra, mentre lo frugava.
Niente... — Merda. — Gli bruciavano gli occhi, come se stessero per la-
crimare. — Porca putt... — Prese lo schienale del divano e lo allontanò
dalla parete.
Fu ricompensato da uno scintillio di vetro trasparente. Si mise in ginoc-
chio e afferrò la bottiglia, portandosela alla bocca. Non ne scese niente; si
accorse solo in quel momento che era vuota, solo una macchia marrone in
fondo, Scotch o qualcosa di simile. Sentì lo strato di polvere che copriva il
vetro, e capì che la bottiglia doveva essere là dietro da settimane. La lasciò
cadere, schifato, e si alzò di nuovo in piedi.
Avrebbe dovuto uscire a prendere da bere. Da qualche parte. Fuori era
già buio; se non ci fosse stata la luce accesa in soggiorno, non sarebbe
nemmeno riuscito ad arrivarci. Forse Felton era già al drive-in. Poteva far-
si dare qualcosa da quel vecchio bastardo. Perché doveva trovarlo. Aveva
troppa roba che gli frullava nel cervello, immagini di Dennie come lo ave-
vano trovato sul campo da football, immagini tutte rosse su pelle bianca e
gelata. Anche quando si era sbattuto Kris aveva continuato a vederle, per
quanto serrasse gli occhi. Quando lui e gli altri della squadra avevano but-
tato all'aria l'appartamento di quel tipo del riformatorio, si era sentito bene,
come se fosse riuscito a mettere le mani sulle immagini che aveva in testa,
come se fossero state grandi quanto le pareti e le mensole e le altre stron-
zate e lui riuscisse a spaccarle e distruggerle. Ma poi erano tornate.
L'alcool cancellava le immagini. Cancellava tutto. Era a quello che ser-
viva. Almeno questo lo aveva già imparato.
Si strofinò la coscia, controllando attraverso il tessuto dei jeans di avere
le chiavi in tasca. A quel punto era tutto a posto: non doveva fare altro che
riuscire a passare la porta e raggiungere la macchina. Poi sarebbe andato
tutto alla perfezione.
Qualcuno lo stava fissando. Lo sentiva. Si guardò intorno, e la stanza
ondeggiò e barcollò al ritmo con cui gli girava la testa. Vide il fratellino di
Kris in piedi al termine del corridoio, che lo fissava.
— Scemo... moccioso di merda... — biascicò le parole, sentendosi av-
vampare di rabbia. Lo faceva incazzare il modo in cui il ragazzino lo guar-
dava, fermo là senza dire una parola con gli occhi puntati su di lui. Mick si
chinò e raggiunse la bottiglia vuota, poi si alzò e la scagliò contro il bam-
bino. Steven non mosse neanche un muscolo quando la bottiglia si frantu-
mò contro la parete a mezzo metro da lui.
Chi cazzo se ne fregava... Mick si girò, allontanandosi dal divano e diri-
gendosi barcollando verso la porta. Qualcosa gli bloccò il braccio, facen-
dolo fermare.
_ Ma chi... — Si guardò attorno, stringendo gli occhi e scuotendo il ca-
po. Steven era entrato nella stanza, in fretta, e gli si era appiccicato, strin-
gendogli forte l'avambraccio appena sotto il gomito.
— Non uscire.
Mick non credeva alle sue orecchie. Il ragazzino aveva esclamato quelle
parole come un ordine, con voce decisa, da adulto. E anche la sua espres-
sione sembrava da adulto, con quegli occhi che trapassavano Mick.
— Eh? — Malfermo sulle gambe, Mick guardò Steven esterrefatto. —
Ma che cazz...
Steven parlò come un adulto a un bambino. — Torna in camera di mia
sorella, e stenditi. — Lentamente, deciso. — Ma non uscire da qui.
— Quel pezzettino di merda stava dicendo a lui cosa doveva fare. Mick
tirò un manrovescio a Steven con la mano libera, e per poco non perse l'e-
quilibrio seguendo il braccio. Il colpo rimbalzò sulla spalla di Steven come
se lui non lo sentisse nemmeno.
— È meglio per te se non esci. — Steven tenne gli occhi inespressivi
fissi in quelli di Mick. — È meglio se rimani qui.
Mick cercò di allontanargli il braccio, ma la presa del ragazzino era più
forte. — Levati dai coglioni... — La voce di Mick si fece stridula. — Brut-
to pelo di culo... frocetto di merda... che cazzo vuoi?
Steven si incupì dalla rabbia. Spinse via d'improvviso il braccio di Mick.
— Okay. — Steven tratteneva la rabbia dentro di sé, ma un frammento
colò tra le parole. — Fai pure.
Mick fissò ancora per un momento a occhi sgranati il ragazzino, poi si
girò. Riuscì ad aprire a tentoni la porta e uscire barcollando. Alle sue spal-
le, Steven lo stava a guardare mentre apriva la portiera della sua macchina.
— Gliela faccio vedere... gliela faccio vedere a tutti... — borbottò con la
testa annebbiata nel mettersi al volante. Dentro c'era qualcosa, qualcosa
che gli serviva e di cui si era appena ricordato. Si allungò sul sedile e pre-
mette il pulsante del cassettino. Lo sportello si aprì, e lui frugò dentro.
Quando ritirò la mano, vi stringeva un involto di stagnola. Lo strappò, e
due capsuline rosse gli caddero fra le gambe. Lui le raccolse e se le cacciò
in bocca. Gli parve quasi di sentirsele schiudere dentro, un calore lento e
viscido che gli pervadeva la spina dorsale.
Con gli occhi pesanti, Mick si lasciò ricadere sul sedile e guardò fuori
dal finestrino. — Bastardi di merda... — Tutti quanti, uno per uno. Crede-
vano di essere tanto svegli, ma lui gliel'avrebbe fatta vedere. Tirò fuori le
chiavi dalla tasca dei jeans e le infilò faticosamente. Il motore si accese
con un ruggito.
Steven era fermo sulla soglia, nell'aria fredda della notte. Rimase a
guardare la macchina di Mick che si allontanava sgommando dal marcia-
piede davanti alla casa. I fari avanzarono, un paio di isolati più giù; per
qualche istante riuscì a seguire le luci posteriori che si allontanavano, e poi
Mick girò un angolo troppo velocemente, evitando per un soffio un'auto
parcheggiata, e scomparve alla vista.
Lui continuò a guardare nel buio. Aveva cercato di dirlo a Mick, di av-
vertirlo. Ma non era servito a niente. Tuttavia ci aveva provato lo stesso, e
qualunque cosa stesse per succedere non era colpa sua. Non veramente.
Qualcosa si muoveva nel buio, lontano, dove non riusciva a vederla. Ma
sapeva che c'era.
Appoggiò la testa allo stipite, per osservare. E ascoltare.
PARTE TERZA
La festa è finita
16
Era ancora alla finestra con lo sguardo fisso nel buio. Anne sedeva in
mezzo al pavimento, e ogni tanto lo guardava per poi tornare a frugare tra i
dischi sparpagliati e rimetterli nelle rispettive buste.
I danni all'appartamento erano in maggior parte sistemati. Nell'aria sta-
gnava l'odore pungente del detersivo con cui Taylor aveva finito di ripulire
il messaggio dalla parete in cucina. Lo straccio e lo spazzolone duro che
aveva usato erano già nel cassonetto per l'immondizia del condominio.
Avevano rimesso a posto le mensole, ma non i libri; quando lei era arrivata
quella sera, erano ancora accatastati disordinatamente come se lui avesse
iniziato a rimetterli in ordine alfabetico e poi avesse perso interesse alla
cosa.
Lei sapeva cosa aspettarsi, perché lo aveva chiamato dall'ufficio per dir-
gli che sarebbe arrivata, e lui le aveva raccontato quello che era successo.
Guardò il disco di vinile nero che teneva in mano, e il nome sull'etichetta.
Dire che era successo dava alla faccenda l'aria di un incidente, come una
tempesta che avesse scagliato il ramo di un albero contro una finestra spac-
candola. Quello che avevano fatto, ecco il modo giusto di dirlo. Infilò il di-
sco nella copertina di cartone e lo posò sul mucchio che aveva a fianco.
Lui sorseggiava il caffè che si era portato vicino alla finestra, anche se
lei sapeva che ormai doveva essere freddo gelato. Era convinta che fosse
ancora in collera con quei delinquenti che gli avevano rovinato la casa, ma
nel momento in cui era arrivata lui era già oltre la collera. Quel silenzio
lungo e riflessivo era molto peggio. Era venuta per dirgli qualcosa, la ra-
gione per cui gli aveva telefonato. E adesso, con quella faccenda... sarebbe
stato ancora un po' più difficile. Ma doveva comunque dirglielo.
Ma non ancora. Il silenzio di lui pesava ancora troppo su entrambi, su
tutta la stanza. Anne prese un altro disco da terra.
— Quel ragazzo... — Gli guardò la schiena. — Quello che hanno trovato
sul campo della scuola... era uno di quelli che ti hanno dato dei guai, vero?
Anne sapeva già la risposta. La sua voce era ricaduta nel silenzio come
un sasso dentro un pozzo.
Per un istante, Taylor non parlò. Poi annuì lentamente, sempre con lo
sguardo fisso oltre la finestra. La voce calma: — Ha avuto quello che me-
ritava...
Lei rimase sorpresa. Quelle parole così gelide. Lo fissò.
— Cosa?
Si girò verso di lei. Scosse il capo, come se si fosse appena reso conto di
quello che aveva detto.
— No... no, non intendo per questo. — Indicò con una mano il caos che
regnava ancora nell'appartamento. — Solo perché sono stati i suoi amici a
combinare tutto questo... non è di questo che mi importa. Volevo solo di-
re... no, lascia perdere.
Tornò a girarsi verso la finestra. Anne lo guardò ancora qualche secon-
do, poi si rimise al lavoro, frugando in giro in cerca del disco appartenente
alla copertina che teneva sulle gambe.
— Sai... — La raggiunse la voce di lui, bassa, pensosa. — Capisco per-
ché l'hanno fatto... lo so perché. L'hanno fatto perché hanno paura... e nes-
suno ha mai insegnato loro come comportarsi con la paura. Non sono mai
stati educati a farlo... ad averne. — Annuì col capo, lo sguardo fisso nella
notte. — Ma adesso sono spaventati per quello che è successo a uno di lo-
ro, e quando sono spaventati vanno avanti alla cieca, colpiscono la prima
cosa che vedono. Fanno cose come questa per dimostrare che non hanno
paura di niente, di niente al mondo. — Abbassò la voce quasi fino a un
sussurro. — Ma hanno paura comunque. Da quando è morto il primo.
Sanno che qualcosa sta... — Si interruppe, e per un istante il silenzio prese
di nuovo possesso della stanza. — E sanno di meritarlo. In fondo, sono an-
cora bambini. Quelli che gli stanno intorno gli hanno impedito di crescere.
Ma sanno che hanno fatto i cattivi. È per questo che hanno paura.
Lei si sentì accapponare la pelle delle braccia. Quel tono di voce, le cose
che diceva la spaventavano. Si morse un labbro, guardandosi le mani vuote
che teneva sulle braccia. Quando lui parlò di nuovo, capì che sorrideva con
quel suo sorriso teso e senza allegria che aveva ogni tanto.
— Da bambino... quando mi capitavano cose... che non mi andavano...
lo sai cosa sognavo?
Anne alzò gli occhi e vide che lui la stava fissando.
Taylor si girò ancora verso la finestra, come per parlare al proprio rifles-
so. — Sognavo un uomo a cavallo. — Annuì lentamente. — Davvero.
Lei sorrise, più gentilmente che le fu possibile. Forse era possibile sot-
trarlo al silenzio e a tutti i pensieri oscuri che aveva. — Scherzi.
Lui alzò le spalle. — Be', sai... quando si è bambini... — Sorseggiò di
nuovo il caffè freddo. — Me ne stavo nel letto, al buio, e mi faceva ancora
male la spalla dove mi avevano preso a cazzotti, o avevo un orecchio tutto
rosso e gonfio e la faccia bagnata perché piangevo... sai, con la faccia con-
tro il cuscino per non farmi sentire da nessuno, perché se mi avessero sen-
tito piangere sarebbe stato peggio... e sognavo un uomo a cavallo. — Scos-
se il capo. — Devo avere visto troppi western, da piccolo.
Lei lo fissava in silenzio, aspettando che finisse quello che doveva dire.
— Solo che quest'uomo era tutto vestito di nero, e aveva la faccia sem-
pre in ombra, non lo vedevo mai in viso. E il cavallo che montava era tutto
nero... proprio come se lo avessero ritagliato via dalla notte, o da un pezzo
di carta nera. — Sorrise e annuì col capo, come se sapesse dentro di sé
quanto fosse stupido parlare di cose da bambini ad alta voce. — E sognavo
quest'uomo vestito di nero, con quel cavallo nero... sognavo che sarebbero
venuti... — II sorriso scomparve, e la voce si abbassò ancora di più. —
Sognavo... che sarebbero venuti ad aiutarmi...
Lei non riuscì più a guardarlo. Chiuse gli occhi. Sapeva che erano cose
che non avrebbe dovuto sentire. Cose che bisognava dimenticare, oppure,
se non dimenticare, tacere.
Di nuovo la voce di lui, più sforzata, un tono aspro. — Però immagino
che adesso i bambini non guardino più i western. Non sognano certo caval-
li, no? — Rimase in silenzio per qualche secondo. — Oggi un bambino
sognerebbe qualcos'altro... qualcos'altro di nero, come ritagliato via dal
buio...
Lei non poteva aiutarlo. E non aveva mai potuto. Solo in quel momento
lo capiva. Quando riaprì gli occhi, lo vide ancora immobile di fronte alla
finestra, a guardare fuori.
Per terra restavano solo pochi dischi ancora. I cerchi di vinile brillavano,
e quando li guardò li vide sfuocati. Allontanò il volto da lui, anche se sa-
peva che non l'avrebbe vista, che non avrebbe visto niente. Si strofinò gli
occhi con la punta del dito.
Si alzò in piedi. Avrebbe potuto allungare una mano e posargliela sulla
spalla. — Adesso devo andare.
Lui annuì, ma non si voltò a guardarla.
— Mi... mi dispiace che sia successo. — Guardò il caos, lo stereo di-
strutto contro la parete. — Dovresti cercare di dimenticartene. Ripulire tut-
to e... non pensarci tanto.
Lui alzò le spalle, assorto nei suoi pensieri scuri e silenziosi.
Non ci sarebbe mai stato un momento adatto. Per dirglielo.
— Non vengo più qui.
Lui voltò la testa a guardarla, impassibile.
Lei spinse fuori le parole una dopo l'altra. — Io e Richard... abbiamo de-
ciso di provarci di nuovo. Capisci... di vedere se riusciamo a sistemare le
cose. Per Danny. Così Richard mi ha detto che non sarebbe più andato... da
lei. E... — Si interruppe, come se non avesse più niente da tirare fuori.
Lui la guardò ancora per un istante, poi annuì lentamente e si voltò di
nuovo verso la finestra.
— È per questo che sono venuta... per dirtelo. Capisci, vero?
Le luci dei lampioni all'esterno gli dipingevano il volto di un azzurro ge-
lido. — Certo. — II volto nel riflesso non mostrava emozione; qualunque
cosa provasse, la teneva chiusa dentro.
— Certo che capisco. — La guardò di nuovo, poi rivolse gli occhi alla
scrivania. Il vetro che copriva la foto di sua figlia era andato a pezzi quan-
do l'avevano gettata a terra con il resto. Tra i frammenti si vedeva ancora il
volto della bambina. — Devi fare quello che è meglio per Danny. — Si
voltò verso la finestra. Aveva un tono di voce come se si stesse rendendo
conto per la prima volta di qualcosa, di una verità. — Prima di tutto il
bambino... sempre... devi pensare al bene del bambino...
Non c'era altro da dire. Per entrambi. Anne lo fissò. Lo sguardo di lui era
lontano, rivolto a un punto del buio al di fuori. Non là dentro. Anne si vol-
tò e prese soprabito e borsetta dal divano. Taylor continuò a guardare fuori
dalla finestra mentre lei attraversava la stanza. Anne si richiuse la porta al-
le spalle e corse in fretta alla macchina, per tornare a casa.
Mick sentì un gusto salato in bocca. Gli parve di essere disteso sulla
schiena, come se si fosse risvegliato nel proprio letto o in quello di Kris,
ma sentiva la sagoma curva del volante sotto le dita.
— Merda... — Gli faceva male la testa, e il dolore ondeggiava al ritmo
del pulsare del sangue; se chiudeva gli occhi, gli sembrava una luce rossa
che si avvicinava e poi svaniva. Fissarla gli dava la nausea, e sentiva le
budella risalirgli in gola. Si costrinse ad aprire gli occhi per allontanarla.
Si accorse di essere in macchina. Ricordava perfino di avere guidato...
ricordava di esserci salito, di averla accesa... dopo che quello scemo del
fratellino di Kris gli si era appiccicato per dirgli di non uscire. O magari
faceva solo parte del sogno, qualcosa che gli aveva attraversato il cervello
mentre era disteso là sbronzo marcio e completamente fuso? Gli parve di
sentire odore di benzina, giusto una punta, nell'aria fredda della notte. Il
ragazzino aveva una voce talmente strana, quando gli aveva ordinato di re-
stare. O forse voleva avvertirlo... Mick scosse il capo, nonostante quel ge-
sto gli scagliasse il dolore in cima al cranio. Doveva avere sognato.
Strinse più forte il volante e si alzò a sedere. La molla dello schienale era
scattata, ribaltandolo quasi fino in posizione orizzontale. Il sedile a lato,
invece, era a posto. Vi si appoggiò con la mano per mantenere l'equilibrio.
Ora poteva guardarsi intorno e vedere dov'era, dove si era cacciato con
l'auto.
I fanali erano spenti. Doveva avere sbattuto contro qualcosa e fracassato
i proiettori. — Cazzo... — Non gli importava quanto fosse danneggiata la
macchina. Mettersi seduto gli diede una nausea ancora peggiore: l'abitaco-
lo dell'auto sembrava girargli intorno, ingrandirsi e poi rimpicciolirsi, co-
me se fosse dipinto sulla superficie interna di una palla di gomma. La lin-
gua gli si aggricciò per il sapore acido che cercava di risalirgli in bocca.
Dal parabrezza vedeva solo metallo contorto. Il cofano della macchina?
Era del colore sbagliato, grigio invece di rosso. E poi, più oltre, una parete
di mattoni. Raggiunse la maniglia della portiera, la spinse e cadde dalla
macchina.
Si tirò in piedi. Lì fuori l'odore di benzina era più forte. Tenne le mani
contro la carrozzeria per non cadere, e cercò di verificare i danni.
Il metallo contorto era quello del lato di un cassonetto per l'immondizia.
La macchina si era incuneata ad angolo nell'imboccatura di un vicolo sco-
nosciuto. Dal cassonetto con il coperchio spalancato fuoriusciva l'odore
forte della spazzatura che andava a unirsi a quelli che gocciolavano dal-
l'automobile. Mick vide che la griglia del radiatore e il paraurti erano com-
pletamente distrutti, accartocciati, strappati dal telaio. Nella parete del vi-
colo c'era una grande scalfittura, nel punto in cui l'impatto della macchina
vi aveva scagliato contro il cassonetto.
La ruota sotto il paraurti sputtanato era contorta in un angolo assurdo.
Tutto intorno si era formata una pozza di liquido scintillante che colava da
qualche punto imprecisato del motore.
— Merda... — Mick si strofinò la faccia intorpidita. — Macchina del
cazzo... — La rabbia risalì trapassando la nausea. Sbatté il palmo della
mano contro la griglia, e per poco non cadde.
Si girò, appoggiandosi alla macchina con le gambe distese di fronte a sé.
Non era ancora talmente marcio da non poter reggerne ancora; anzi, pro-
babilmente lo avrebbero fatto sentire meglio. Se fosse riuscito a trovarne...
Si frugò nella tasca della giacca e vi trovò un pezzo di stagnola. Vuoto. Le
rosse ormai erano perdute per sempre, sparite nel suo stomaco e poi nel
sangue. Gettò via la stagnola e si alzò, spingendosi contro la fiancata.
La macchina bloccava l'imboccatura del vicolo; avrebbe dovuto scaval-
carla per andarsene da lì. Non c'era nessun altro modo, gli girava ancora la
testa. L'altra estremità del vicolo era libera, e le luci azzurre dei lampioni
lo raggiungevano da qualche punto apparentemente a chilometri di distan-
za. Gli venne voglia di gettarsi a quattro zampe e andare fin là strisciando.
Era l'unico modo per farcela ad arrivare tanto lontano.
Si diresse incespicando verso l'imboccatura del vicolo, verso la luce in
lontananza. Riuscì a fare solo un paio di metri prima di inciampare su as-
solutamente nulla e cadere pesantemente di lato.
Stava peggiorando. Grattò con le dita fra l'immondizia che copriva il
selciato del vicolo, cercando di far presa per non precipitare nel cielo che
gli vorticava sopra. Nel cadere a terra aveva sentito in bocca il gusto salato
del proprio sangue, e ora se lo sentiva colare sul mento. Il sapore caldo fe-
ce crescere la nausea. Si girò con la faccia in basso, e sbatté l'angolo della
fronte contro la parete di mattoni del vicolo. Non voleva vomitare disteso
sulla schiena. C'era pericolo di morire.
— Gliel'ho fatta vedere... — Invece del vomito, alla bocca gli risalirono
le parole. Le biascicò contro l'asfalto lurido. — Gliel'ho fatta vedere, a
quel rotto in culo...
Un'ombra gli cadde addosso, a bloccare la luce sottile dei lampioni.
Mick si sentì scuotere per una spalla.
— Ehi.... ehi, Mick... — La voce della sagoma che si chinava su di lui
era piena di preoccupazione. — Cristo, amico, sei proprio sfatto...
Mick prese per il braccio l'ombra e vi si abbarbicò disperatamente. Gra-
zie a Dio uno dei suoi compagni lo aveva trovato. Gli venne quasi da pian-
gere per la gratitudine. — Oh, amico... — II profilo buio del suo compa-
gno, stagliato contro l'azzurro dei lampioni, gli ondeggiava davanti agli
occhi insieme a tutto il vicolo. Le lacrime gli salirono agli occhi, anneb-
biando la scena ancora di più. — Devo andare alla partita... stasera c'è la
partita...
— Forza. — II suo compagno lo tirò in piedi, sostenendolo sotto il brac-
cio. — Non preoccuparti, amico.... ti ci porto io.
Lui si lasciò trascinare verso l'estremità del vicolo. C'era una macchina
in attesa, un motore che ronzava dolcemente nell'aria immobile della notte.
— Cristo... — Mick lasciò ricadere la testa contro il sedile. Si sentì
prendere e sollevare la gamba, la sentì spingere dentro in modo che il suo
compagno potesse richiudere la portiera. Quella del lato guida si spalancò,
e l'altro sedette al volante. Mick si strofinò il volto; il suo amico mise in
marcia e uscì dal vicolo. — Oh, Dio... me ne sono fatte troppe... merda...
grazie a Dio mi avete trovato voi...
Pensava che i suoi amici nel sedile posteriore dicessero qualcosa. Face-
vano sempre tutto in gruppo, perché era quello che voleva dire far parte di
una squadra. Proprio come con il gatto e quando avevano fatto casino nel-
l'appartamento di quello stronzo: le cose si facevano in gruppo perché così
si era forti e nessuno poteva fermarti. E ci si aiutava vicendevolmente. Non
era per quello che erano venuti a cercarlo?
Ma nessuno diceva niente. La macchina era silenziosa, solo il rumore del
motore e le strade deserte che scivolavano via fuori dai finestrini. Mick
scosse la testa, cercando di costringere i propri pensieri a muoversi, affon-
dando le dita nella pelle rigida della faccia come per risvegliarsi. Lasciò ri-
cadere la mano, sfiorandosi la bocca aperta con il palmo, e si guardò a
fianco...
... guardò l'uomo al volante, l'unica persona in macchina insieme a lui,
l'unica...
... che gli rivolse un viso nero e privo di lineamenti, buio nel buio, invi-
sibili perfino gli occhi, anche se Mick ne sentiva il peso che lo ricacciava
indietro sul sedile...
— Ehi... — La sua voce risuonò debole all'interno dell'abitacolo, ingoia-
ta dall'oscurità. Un terrore improvviso attraversò la nebbia che gli riempiva
la mente. Si agitò sul sedile, allontanandosi dal volto nero che lo fissava, e
cercò a tentoni la maniglia. Vide i lampioni sfrecciare all'esterno, sagome
offuscate che erano i palazzi immersi nel buio; la macchina stava prenden-
do velocità. Ma a lui non importava, doveva uscire, doveva scappare...
Sentì una mano afferrargli il colletto della giacca, la stessa che lo aveva
aiutato ad alzarsi nel vicolo. Quella mano lo tirò via dalla portiera, facen-
dolo alzare dal sedile; per un momento, ebbe la faccia davanti a quella del-
l'uomo al volante, e il bagliore di quegli occhi in ombra gli trapanò il cra-
nio. Poi l'uomo, sempre con la sinistra sul volante, sbatté Mick contro il se-
dile con l'altra mano. Mick picchiò la nuca contro lo schienale. La vista gli
si schiarì, e vide la mano dell'uomo, stretta a pugno, avvicinarglisi descri-
vendo un arco in orizzontale. Prima che potesse alzare il braccio a proteg-
gersi, il pugno lo prese in pieno volto. Il colpo lo mandò a sbattere contro
la portiera e poi sul sedile.
Sentì il gusto del sangue salirgli in bocca. Gli schizzi di rosso sul fine-
strino gli si sbavarono sotto le dita quando lui cercò di aggrapparsi al ve-
tro. All'esterno vide la strada buia che rallentava, si fermava.
— No... per favore... — Le parole erano bolle umidicce nel fluire del
sangue. Mick si rattrappì contro la portiera nel veder arrivare un altro man-
rovescio. Il colpo lo prese alla guancia con uno scricchiolio di ossa rotte. Il
sangue gli schizzò negli occhi, e Mick sentì con la lingua i monconi spez-
zati che aveva in bocca.
Pianse, di un terrore più grande del dolore. Ripiegò le gambe, curvando
la schiena, come per raggomitolarsi su se stesso in un niente, in qualcosa
di invisibile che quel volto buio non riuscisse più a trovare, che non potes-
se più ferire...
L'uomo al volante strinse la mano sulla giacca di Mick, alzandolo di
nuovo. Lui aprì gli occhi, e si vide davanti alla faccia l'altra mano dell'uo-
mo. Con un gesto veloce, impercettibile, saltò fuori qualcosa di scintillan-
te, che rifletteva la luce azzurrina da oltre i finestrini dell'auto.
Il coltello... Mick lo aveva già visto prima, lo aveva addirittura tenuto in
mano. Il coltello di Dennie: sapeva che era quello. Sul metallo lucido vide
il riflesso distorto del proprio volto bagnato di sangue e lacrime.
Oltre la lama c'era il viso dell'uomo. Il viso che ancora non vedeva, na-
scosto dall'oscurità all'interno dell'auto. Ma lo vide allontanarsi da lui e
mettersi di profilo, per guardare indietro, sul sedile posteriore.
L'uomo al volante parlò in un sussurro che scivolò nello spazio buio: —
Steven...
C'era qualcun altro nella macchina: Mick se ne accorse in quel momen-
to. C'era sempre stato, nascosto sul sedile posteriore. A osservare e aspetta-
re. Il pugno dell'uomo al volante lo inchiodava per il collo al sedile, e non
riusciva a muoversi, ma riusciva a girare gli occhi per vedere chi fosse la
persona a cui l'uomo aveva parlato.
Steven... il ragazzino era dietro, il fratellino di Kris. In ginocchio sul se-
dile, allungato in avanti a vedere tutto, una mano contro il sedile anteriore
per tenersi in equilibrio. Steven non guardava Mick: teneva gli occhi sul
coltello, sui riflessi della luce sulla lama, tanto forti da bruciare come un
fuoco negli occhi.
L'uomo al volante sollevò il coltello.
— Steven.... — Di nuovo quel sussurro, affilato come la lama. — Pren-
dilo...
"No..." Mick cercò di urlare, ma solo un piagnucolio gorgogliante riuscì
a vincere la morsa che lo stringeva alla gola.
Steven non prese il coltello. Si ritrasse, gli occhi sempre fissi alla lama.
— Su, Steven... — La voce dell'uomo si fece pressante. — Come pri-
ma... questo... e poi tutti gli altri... possiamo sistemarli tutti quanti... — II
coltello tremò, e il viso di Mick ondeggiò nel riflesso.
Steven scosse lentamente il capo. — No...
Mick guardò l'uomo allungarsi sul sedile verso il buio alle loro spalle.
— Steven...
La morsa che gli stringeva la gola si allentò, quanto bastava perché Mick
potesse girare la testa e vedere.
Il sedile era vuoto. Steven non c'era.
A Mick si mozzò il fiato in gola quando l'uomo strinse il pugno. Gli
strinse il polso, ma non riuscì a contrastare la forza che lo spingeva contro
la portiera. Il volto di tenebra gli si portò sopra e bloccò la luce azzurra che
filtrava dal parabrezza.
Il coltello brillò alla luce, una scintilla blu che percorse il filo della lama.
Poi scomparve. Svanì. La mano dell'uomo era troppo veloce per riuscire
a seguirla. Per un istante confuso, con le lacrime che gli riempivano la
bocca spalancata, Mick si chiese dove fosse finito il coltello.
Lo capì nel sentire il dolore che gli sbocciava dentro, il fuoco che gli
trapassava il cuore. L'uomo d'ombra gli lasciò andare la gola, e lui urlò.
17
Alcuni del pubblico applaudivano. Erano i tifosi più accaniti. Non c'era
neanche molta gente sulle gradinate, non dopo il modo in cui erano andate
le cose ultimamente, ma alcuni arrivavano sempre nonostante tutto. Spor-
tivi in età pensionabile, ancora con i capelli a spazzola e i giubbotti scolo-
riti con il monogramma della squadra di quando si erano diplomati ven-
t'anni prima, che ricucivano e rappezzavano anche se ormai non riuscivano
più nemmeno a chiudere la lampo, da tanto erano panzoni. Il modo in cui
urlavano e incitavano la squadra, come se fossero ancora al liceo, aveva
sempre fatto sentire Larry molto strano, ma quella sera gli diede la nausea.
Dovevano per forza sapere di tutte le cose che erano capitate, ma non glie-
ne importava. Erano venuti per la partita.
Non aveva molto tempo per pensarci. Le urla dalle gradinate erano attu-
tite dal casco, e il centrocampo gli aveva appena tirato la palla ovale. Corse
indietro, girandosela fra le mani per passare le dita sulla cucitura, nel tenta-
tivo di vedere dove Cristo fosse finito il ricevitore. Gli sembrava di essere
diventato cieco, o peggio: vedeva ancora, ma non aveva senso, solo sa-
gome contrassegnate da numeri che si scontravano e lottavano fra loro, fra
i tonfi dei paracolpi che si scontravano e i grugniti. Poi lo placcarono: con
una calma tale che sembrava aspettassero solo l'invito. Lui schizzò in aria,
ma riuscì a tenere la palla, stringendosela al petto, e colpì la terra fangosa
con il lato del casco.
L'allenatore fece segno a qualcun altro di calciare la palla, e Larry uscì
barcollando dal campo, togliendosi il casco e dirigendosi verso la panchi-
na. Sedette pesantemente, abbassando la testa e ansimando in cerca d'aria.
Il casco gli penzolava tra i piedi. Da entrambi i lati erano seduti gli altri ri-
servisti della squadra, tutti con l'aria ugualmente esausta e sconfortata.
Nessuno di loro gli aveva rivolto la parola nel vederlo uscire.
Quello accanto a lui sputò per terra. — Ci stiamo facendo spaccare le
corna... — Aveva la voce piena di disgusto.
Larry fissò il terreno, ancora stordito per il colpo che aveva preso. Scos-
se il capo.
— Non dovremmo neanche essere qui a giocare questa cazzo di partita.
— Non riusciva ancora a crederci. Alzò gli occhi e vide che l'altra squadra
restituiva il calcio di ripresa e guadagnava venti iarde senza neanche far
finta di sforzarsi. Avevano fatto entrare in campo quasi tutti i riservisti,
giusto per rendere la cosa meno farsesca. Ma cosa ci stavano facendo lì
tutti quanti? Di nuovo, pensò a voce alta. — Cristo santo, uno dei nostri è
morto... e noi siamo qui a giocare una stupida partita di football?
Il giocatore accanto a Larry grugnì in segno d'assenso. Con la coda del-
l'occhio, lui vide alcuni degli altri annuire col capo. Sembravano tutti ver-
gognarsi, come se li avessero sorpresi a darsi a qualche vizio di poco conto
ma schifoso.
Tutte stronzate. Avrebbero dovuto rimandare l'incontro a fine campiona-
to, o dare forfait e in culo a tutto, o qualsiasi altra cosa... se non fosse stato
che quel sifilitico di allenatore era così kamikaze, neanche ne andasse del
suo impiego o che, come se non l'avessero già preso nel culo da otto partite
a quella parte, con la certezza matematica di finire all'ultimo posto nella
classifica del distretto.
Larry era convinto che quel testa di cazzo di Mick fosse un grandissimo
stronzo, ma doveva dargliene atto: quel figlio di una vacca aveva avuto l'i-
dea migliore. Non farsi vedere affatto; anche se era il capitano. Ed era
quello il motivo per cui l'onore di uscire a farsi rompere il culo dalla difesa
degli avversari era toccato a Larry. Quando si facevano un paio di punti
agli allenamenti, voleva dire che per le partite vere non sarebbero andati
più in là. Mentre Mick era in giro da qualche parte, probabilmente a sbron-
zarsi. Il che, pensò Larry, si poteva considerare un modo come un altro di
onorare i morti. Migliore comunque che giocare un incontro di football.
Qualsiasi alternativa era migliore...
— Stronzate. — Tanto valeva andare a cercare Mick e fargli compagnia.
Aveva sicuramente più senso. Larry si alzò dalla panchina. E fece per an-
darsene.
L'allenatore lo prese per il braccio. — Dove diavolo credi di andare?
— Tieni. — Larry spinse il casco nel fegato all'allenatore, così forte che
quel culo rotto indietreggiò di qualche passo. — Gettala tu la spugna,
stronzo.
Si diresse alle docce, senza curarsi dell'allenatore che strillava sputac-
chiando.
La valigetta, quella che portava sempre con sé, era sul divano, chiusa.
Taylor non l'aveva nemmeno sfiorata da quando era arrivato al riformato-
rio e aveva iniziato il turno. Non aveva fatto altro che aspettare. Sedeva a
uno dei tavoli della sala principale dell'accettazione, ad ascoltare. Ascolta-
va il silenzio all'esterno, la notte che avanzava lentamente passo per passo.
Rivolse lo sguardo oltre le vetrate del salone, verso il buio. In lontanan-
za, oltre i campi di atletica, vedeva la recinzione e i lampioni che la pun-
teggiavano a intervalli fissi. Alzò gli occhi verso l'orologio alla parete: era
già passata mezzanotte. Andava bene. Poteva aspettare.
Quando sentì il rumore di un'auto, un motore potente a basso regime che
tagliava l'oscurità, come se si trovasse tra le rocce sottostanti l'edificio, al-
lora chiuse gli occhi e ascoltò. Era là fuori. Non aveva bisogno di vederla
per sapere che c'era.
Girò la testa e guardò la scrivania. Repken non aveva sentito niente: era
disteso sulla sedia, i piedi sul ripiano, a sciropparsi uno spesso tascabile.
Era una notte lenta.
Taylor si alzò dal tavolo. Aveva già preso la pila; l'aveva tirata fuori dal
cassetto della scrivania, come prima cosa dopo aver firmato il registro e
una volta uscito tutto il personale diurno. Raggiunse la porta blindata,
prendendo di tasca le chiavi con la cordicella.
Sentì sulla schiena il peso dello sguardo di Repken.
Quando spalancò la porta, l'aria gelida della notte penetrò nel salone.
Taylor guardò Repken, e si infilò di nuovo le chiavi in tasca.
— Io esco. — Aprì di più la porta. — Per l'ispezione.
Repken annuì e tornò al suo libro. Taylor uscì e richiuse la porta blinda-
ta, e la luce che veniva dal salone si ritrasse all'interno. Mentre usciva sul
campo, tenne la pila spenta.
Repken alzò gli occhi dalla scrivania quando Taylor fece ritorno all'ac-
cettazione. La porta blindata si richiuse, spingendo fuori la tenebra e il ge-
lo.
— Finita? — Repken non aveva più toccato il suo tascabile, ancora aper-
to sulla scrivania, da quando Taylor era entrato ore prima a chiamare la po-
lizia. Per riferire cosa aveva trovato sulla stradina. — Sistemato tutto, là
fuori?
Taylor non rispose. Si infilò le chiavi di nuovo in tasca, poi andò vicino
al tavolo su cui stava la valigetta. La aprì e guardò il mucchio di pagine
dattiloscritte all'interno.
— Certo che dev'essere stata una bella strizza al culo — continuò a bla-
terare Repken. — Uscire e trovarsi davanti un cadavere...
Taylor tirò fuori i fogli di carta dalla valigetta. Li tenne fra le mani come
a soppesarli, poi li posò di nuovo. Li guardò ancora per qualche istante,
con i muscoli del collo che gli si tendevano.
In un'esplosione di collera improvvisa, scagliò via la valigetta dal tavolo,
e i fogli si sparpagliarono in una tempesta di carta bianca per ricadere a
terra senza vita.
18
Il ragazzino spalancò gli occhi. Larry guardò il viso stravolto dalla paura
e dalla sorpresa, lo sentì annaspare per ritrovare il fiato.
Una volta allontanatasi la polizia, lui era rimasto sulla collina, dove il ti-
po del riformatorio lo aveva fatto cadere. E aveva percepito la presenza
poco lontano di cose che si muovevano nel buio. Era venuto a vedere.
Steven si agitò, spingendo Larry sul torace. Lui abbassò gli occhi e vide
che aveva il giubbotto sporco di macchie scure ancora umide.
Strinse il ragazzino più forte, sollevandogli la faccia all'altezza della sua.
Gli urlò: — Chi c'è nella macchina? Chi è?
Steven picchiò i pugni contro il petto di Larry. — Non sono stato io...
non sono stato io!
Il ragazzino smise di agitarsi nel vedere il sangue che macchiava la giac-
ca di Larry. Sgranò gli occhi per il terrore, fissandosi le mani umide. Quel-
la scena gli diede la forza della disperazione: con una torsione veloce del
corpo, si districò da Larry e ricadde a terra. Rivolse a Larry uno sguardo
terrorizzato, e si trovò di nuovo in piedi a correre. Si guardò alle spalle.
Larry lo inseguì.
Il bambino stava tornando di corsa verso la macchina; Larry ne vide la
sagoma nera in lontananza sulla stradina. Non riusciva a capire se dentro ci
fosse ancora qualcuno.
Steven raggiunse la portiera del lato passeggero. Larry lo vide guardare
all'interno prima di aprirla e salire dentro di corsa. Il finestrino iniziò a sa-
lire.
Era arrivato solo a metà quando Larry raggiunse la macchina. Mentre lui
tirava la maniglia, Steven si allontanò da lui, verso il volante.
— Porca puttana... — La portiera non si apriva. Il ragazzino doveva a-
verla chiusa. Lui infilò un braccio dentro e frugò in cerca del pulsante, vi-
cino alla maniglia interna. Steven si allontanò ancora di più, schiacciandosi
contro la portiera opposta.
Larry non riusciva a trovare il pulsante, e cercava inutilmente con la ma-
no lungo la fodera sottile della portiera.
Non c'era tempo: il proprietario della macchina doveva essere senz'altro
vicino. Larry riuscì a infilare la testa e l'altro braccio nell'apertura del fine-
strino. Allungò entrambe le mani verso Steven.
— Steven... — L'apertura era stretta, lo faceva annaspare. — Vieni...
devi uscire da lì...
Steven si appiccicò alla portiera, stringendo con una mano il volante.
Larry si sforzò di andare più avanti, alzandosi in punta di piedi, per
prendere il ragazzino. — Forza... sarà qui a momenti... lo so che non hai
fatto niente...
Si sentì improvvisamente trascinare indietro, la portiera si spalancò, tira-
ta da qualcun altro fuori, alle spalle di Larry.
Non ebbe il tempo di gridare. Vide solo la sagoma, quella del proprieta-
rio della macchina nera, con la coda dell'occhio, e si sentì prendere per i
capelli. L'uomo strinse più forte, tirandogli indietro la testa, facendogli
colpire con le spalle la parte superiore della portiera. Rimase intrappolato,
con il bordo del finestrino che gli premeva contro il ventre. L'uomo tirò la
portiera ancora più indietro e poi la sbatté. Il bordo del tettuccio prese
Larry al torace. Il fiato gli si mozzò in un urlo, e il dolore gli martellò il
cranio, spingendogli indietro la testa nelle mani dell'uomo.
Larry si sporse in avanti, ancora intrappolato nella fessura del finestrino,
mentre l'altro apriva la portiera; trascinò sull'asfalto i piedi inanimati. Sen-
tiva qualcosa di caldo gocciolargli dall'angolo della bocca fino al mento.
Vedeva il buio girargli intorno, offuscato da una nebbia rossa.
Alle sue spalle, l'uomo si preparò a sbattere di nuovo la portiera, questa
volta per dare il colpo mortale. Poi una piccola creatura schizzò fuori dal-
l'auto, oltrepassando Larry e sbattendo contro il torace dell'uomo.
Da una distanza infinita, lui sentì Steven urlare istericamente: — No!
Fermati... fermati... — e il rumore dei colpi. I pugni minuscoli di Steven, e
la rabbia improvvisa con cui aveva attaccato costrinse l'uomo d'ombra a
indietreggiare di qualche passo dalla portiera.
Stava andando tutto a pezzi, e accadeva in qualche luogo oltre quel sipa-
rio che calava passando dal nero al rosso vivo. A Larry parve che la testa
gli si stesse alzando in volo, come un pallone gonfiato che qualcuno aveva
lasciato andare. Guardava in basso e vedeva il proprio corpo scivolare fuo-
ri dall'apertura del finestrino e crollare sulla strada.
Poi si riprese, e si sforzò di respirare nonostante il macigno che gli ave-
vano piantato nel petto. Alzò gli occhi e vide l'uomo della macchina nera
che allontanava Steven dal collo, e il ragazzino che mollava pugni che non
arrivavano a segno. L'uomo scagliò via Steven.
Il colpo che Steven prese nel ricadere sul bordo della strada gli tolse tut-
ta la furia. Larry riuscì a girare la testa, e vide la paura dipingersi sul volto
del bambino mentre si alzava in piedi con mani e ginocchia. Poi il ragazzi-
no sparì di corsa nel buio.
A quel punto non vide più niente: le gambe dell'uomo gli oscuravano la
vista. Alzò gli occhi e vide la sagoma nera incombere su di lui, un corpo
nero stagliato nel biancore azzurrino e abbagliante dei fanali. La luce sva-
nì, e la tenebra si fuse con la notte più indietro, in un nuovo buio nel quale
si sentì precipitare. Precipitare e svanire a sua volta.
Scappò.
Non poteva fare niente per aiutare quel tipo, quello che l'uomo al volante
avrebbe ucciso entro breve. Steven sapeva che non avrebbe dovuto spaven-
tarsi tanto da correre via, sapeva che quel ragazzo non gli avrebbe fatto
niente. Ma lo aveva preso di sorpresa, uscendo dal buio e afferrandolo a
quel modo, e poi, quando aveva visto il giubbotto della squadra, proprio
come quella di tutti i giocatori, e poi il sangue, il sangue di uno dei suoi
compagni di squadra, con cui gli aveva macchiato la giacca, aveva avuto
paura. Più di quello che lui avrebbe potuto o meno fargli, più dell'uomo
della macchina nera.
E non stava semplicemente scappando via. Sapeva che stava tornando.
Dall'uomo. Che lo avrebbe protetto. Che gli voleva bene.
Poi era cominciato di nuovo, troppo in fretta perché lui riuscisse a pen-
sare. Aveva cercato di aiutare il tipo della squadra - ne ricordava perfino la
faccia, era lui che aveva impedito a Dennie di dargli addosso qualche sera
prima - ma non poteva fare niente. L'uomo della macchina nera era troppo
forte. Non poteva fare altro che scappare.
Finì contro la recinzione, a dita strette sulle maglie della rete, cercando
un appiglio con le punte dei piedi. Raggiunse la cima e si gettò per metà
dall'altra parte, sentendosi pungere lo stomaco dagli spuntoni di filo di fer-
ro. Durante l'arrampicata aveva quasi aspettato di sentirsi afferrare le cavi-
glie e tirare giù. Là in alto, sentì accendersi il motore, un ruggito che perfo-
rò il silenzio della notte. I fasci di luce dei fanali lo colpirono, e lui sentì le
ruote sputare ghiaia sulla superficie della stradina. Steven portò le gambe
dall'altra parte della recinzione e si lasciò ricadere sull'asfalto del drive-in
deserto. Si tirò in piedi e corse verso il centro dello spiazzo.
Di fronte a lui si dipinse il profilo dello snack bar, una sagoma nera con-
tro il buio della notte. La luna brillava oltre le nuvole grigie contro la fac-
ciata dell'edificio. Lui corse al muro laterale e vi si rannicchiò contro, an-
simando per riprendere fiato e ascoltando attentamente.
In lontananza, sulla strada circostante, il rumore dell'auto svanì lenta-
mente. Andava verso l'ingresso del drive-in, l'entrata che portava allo
spiazzo asfaltato.
Steven percorse la lunghezza della parete chino sui talloni, finché non
trovò la porta dell'ufficio nel retro. Chiusa. La maniglia gelata rumoreggiò,
senza aprirsi.
Vide che un angolo della griglia di rete metallica attaccata alla finestra
era sollevato. Strinse l'intreccio di filo di ferro e lo spinse, ripiegandolo in-
dietro. Un altro chiodo arrugginito si staccò, facendogli guadagnare spazio.
Steven infilò dentro la mano, contro il vetro liscio della finestra. Quando lo
spinse, il vetro si mosse verso l'interno. Infilò la testa sotto gli spuntoni
aguzzi, appiattendosi contro il davanzale.
Gli spuntoni di ferro gli graffiarono le spalle, strappandogli giubbotto e
camicia fino alla pelle. Ma riuscì comunque a contorcersi tanto da entrare,
spingendo le mani contro la parete sotto la finestra. La rete gli si impigliò
nei jeans, e dovette allungarsi indietro per liberarli. Poi riuscì a ricadere nel
silenzio che regnava dentro l'ufficio.
Steven si accucciò sotto la finestra e sbirciò fuori. Ancora niente. Prese
la rete metallica e la ripiegò per farla tornare a posto, meglio che gli riuscì.
Restava comunque un angolo in vista. Lo lasciò stare, e andò al centro del-
l'ufficio.
Gli occhi si erano adattati al buio quanto bastava per fargli distinguere i
contorni. Una sedia pieghevole tutta squinternata, cumuli di scatole di car-
tone, videocassette sparpagliate ovunque. Contro una parete c'erano i vide-
oregistratori e i televisori.
In quel buio, erano tutte cose morte. Poteva trattenere il fiato e confon-
dersi con esse, nascondersi, in modo che nessuno lo trovasse. Se fosse riu-
scito a rendersi abbastanza piccolo, invisibile...
Sedette nell'angolo opposto alla finestra, in uno spazio angusto fra due
cumuli di scatoloni. Stringendo le ginocchia al petto, rimase a osservare e
ascoltare.
Niente, fatta eccezione per il battito del suo cuore. Gli pareva di sentirse-
lo in gola. Schiacciò il mento contro gli avambracci, e ascoltò.
Sentì i passi fuori dall'edificio. Lenti, che facevano il giro. L'uomo della
macchina nera doveva averla lasciata poco lontano per raggiungere lo
snack bar a piedi. Cercava Steven... Lui si ritrasse ancora di più nello spa-
zio fra gli scatoloni, ad ascoltare il rumore.
Si avvicinava. Un'ombra riempì la finestra, nera contro il nero della not-
te. La sagoma di un uomo, immobile. Una mano si allungò a tirare l'angolo
della rete protettiva. La rete si piegò fino al chiodo arrugginito, poi fece re-
sistenza. Non si apriva più di così.
La sagoma buia all'esterno lasciò andare la rete e si allontanò dalla fine-
stra. Steven la sentì fare il giro dell'edificio, fermarsi e cercare di aprire la
porta chiusa, per poi proseguire. Trattenne il fiato e si fece piccolo, invisi-
bile, un nulla.
Silenzio. Come se l'ombra scura che aveva visto alla finestra se ne fosse
andata, tornata nel buio da cui era venuta. Steven alzò la testa dall'incavo
delle braccia e delle gambe.
La porta tremò, sussultando per il colpo. Il fragore penetrò gli orecchi di
Steven.
Un altro colpo, e la serratura si ruppe, con un urlo secco di legno che si
schiantava; la porta girò sui cardini e sbatté contro il muro interno.
La sagoma nera rimase ferma sulla soglia, con le mani aperte per regger-
si in equilibrio. Riabbassò a terra il piede, dopo aver sfondato la porta con
il calcio.
Ancora più piccolo. Steven serrò gli occhi. Era invisibile, non esisteva...
I passi raggiunsero il centro dell'ufficio.
"Non può vedermi." Steven si morse il labbro. "È troppo buio, non può
vedermi, non può..."
Steven aprì gli occhi, quanto bastava per scorgere l'ombra nera a qualche
metro di distanza da lui, che riempiva l'ufficio, alta fino al soffitto.
La vide girare la testa di profilo, frugare la stanza con lo sguardo, passar-
lo oltre il punto in cui lui era nascosto.
L'ombra si voltò, allontanandosi da Steven. Fece un paio di passi verso
la porta. Allungò la mano a ispezionare la parete. Steven sentì lo scatto
dell'interruttore premuto due volte. Il lampadario al soffitto non si accese:
mancava la corrente da anni.
"Vattene... non ti voglio qui..." Steven trattenne il respiro, guardando
l'ombra che si muoveva nel buio dell'ufficio.
La sagoma andò alla porta, poi si bloccò. Si chinò vicino alla parete.
Steven sentì che armeggiava con qualcosa, ma non riusciva a vedere cosa.
Un rumore aspro e meccanico attraversò l'ufficio: sembrava una falcia-
trice che veniva accesa. Un motorino tossì un paio di volte, poi di nuovo
silenzio.
II generatore, quello piccolo, portatile, che il ciccione proprietario del
drive-in aveva portato lì per avere la corrente necessaria per i suoi spetta-
colini. Era stato quello a fare rumore. Steven vide l'ombra prepararsi a tira-
re di nuovo il cordino d'avviamento. Tese il braccio, con la cordicella stret-
ta in mano. Il generatore sputacchiò di nuovo, salì di giri con un breve rin-
ghio, poi iniziò a mormorare piano. Prima di alzarsi, l'ombra gettò l'estre-
mità del tubo di scarico fuori dalla porta spalancata.
L'ombra percorse di nuovo l'ufficio. Fino alla parete opposta, quella dei
videoregistratori. Si abbassò a premere il pulsante di accensione.
La stanza venne invasa da una luce grigia, tremolante, che si fece più in-
tensa, riempiendo lo schermo televisivo sopra l'apparecchio. Steven si
spinse ancora di più nella macchia d'ombra creata dagli scatoloni che ave-
va sui due lati.
Nell'apparecchio era rimasta una cassetta: un debole rumore di ingra-
naggi, quando il nastro iniziò a scorrere sulle testine. Sullo schermo televi-
sivo, la luce grigia venne sostituita da creature che si muovevano, corpi at-
torcigliati l'uno sull'altro. Membra e bocche aperte, saliva umida e lucci-
cante sulla pelle. La luce che ricadeva nella stanza cambiava colore, sfu-
mando in un rosa che tremolava come un fuoco lento.
L'ombra dell'uomo cancellò la luce: si era allungato ad accendere gli al-
tri videoregistratori. Gli schermi si illuminarono. Altre creature, esseri nudi
che frugavano e spingevano inguini umidi di sudore contro bocche sdenta-
te. Una serie di rosari sovrapposti di gemiti e ansiti colpì le pareti dell'uffi-
cio.
Ora la stanza era illuminata a giorno dal bagliore degli schermi televisi-
vi. Steven vide l'ombra nera allontanarsi dai registratori.
Ancora più piccolo, invisibile, inesistente... Chiuse forte gli occhi, strin-
gendo le ginocchia al petto. Rumore di passi, come un tamburellare alle
orecchie.
Con gli occhi chiusi, si sentì cadere addosso l'ombra.
Poi la voce, calma, perfino gentile. — Vieni...
Lui aprì gli occhi e alzò la testa. Una voce diversa. E luce a sufficienza
per vedere in faccia la sagoma nera.
L'agente del riformatorio lo fissava dall'alto.
— Va tutto bene, Steven. — L'uomo allungò la mano verso di lui. —
Andiamocene via da qui.
19
DOPO
FINE