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KATHARINE KERR

IL GRIFONE ROSSO
(The Red Wyvern, 1997)
A Jo Clayton

PROLOGO
INVERNO, IN UNA TERRA MOLTO LONTANA

Alcuni dicono che tutti i mondi di questo molteplice e splendido universo


sono annidati uno all'interno dell'altro come gli strati di una cipolla, ma io vi
dico che essi sono intrecciati uno con l'altro e uno intorno all'altro e che nes-
suno, uomo o donna, è in grado di tracciare una mappa di tutte le strade che
essi creano nell'intersecarsi.
Dal Libro Segreto di Cadwallon il Druido

Domnall Breich conosceva le colline circostanti Loch Ness abbastanza be-


ne da essere consapevole di essersi perduto. L'incidente di caccia che era co-
stato la vita al suo cavallo e che lo aveva separato dagli altri si era verificato
circa tre chilometri più a sud, o almeno questo era il calcolo approssimativo
che lui era in grado di fare della direzione e della distanza, per cui ormai a-
vrebbe dovuto aver già raggiunto la strada di terra battuta che portava al vil-
laggio e alla salvezza. Arrestandosi, lasciò vagare lo sguardo sulle nebbie
sempre più fitte che avvolgevano la valle ammantata di neve e punteggiata
qua e là di pini isolati; nell'incombente crepuscolo di una delle giornate più
brevi dell'inverno, quella nebbia avviluppava il Ben Nevis, il solo punto di ri-
ferimento che avrebbe potuto permettergli di orientarsi, e il cielo sempre più
bianco prometteva neve imminente.
«Madre Maria, perdona i miei peccati» mormorò. «Questa notte vedrò tuo
Figlio in tutta la sua gloria.»
Tutti sostenevano che quella per congelamento non era una morte sgrade-
vole perché si aveva l'impressione di addormentarsi nella neve e ci si sve-
gliava con un senso di calore, avendo davanti la luce della candela che sareb-
be servita da guida fino alle porte del Paradiso o dell'Inferno, quindi Domnall
non provava paura, soltanto sorpresa per il fatto che un uomo come lui a-
vrebbe finito per morire non in battaglia o in una faida familiare bensì perso
nella neve come una pecora zoppa... ma del resto i preti affermavano sempre
che nessun uomo poteva prevedere la sorte che Dio gli aveva destinato.
Davanti a lui, vivido sullo sfondo grigiastro delle nubi, l'orizzonte occiden-
tale ardeva della tinta rossa intensa del tramonto: voltandosi da quella parte,
Domnall si guardò lentamente intorno e lontano sulla destra, al limitare del
campo visivo, scorse un alto albero su cui concentrò la propria attenzione in
quanto la sua sola speranza di salvezza consisteva ormai nel riuscire a proce-
dere dritto verso nord, nella direzione del lago che si stendeva da sudovest a
nordest. Se ce l'avesse fatta ad arrivare fino al lago avrebbe poi potuto se-
guirne la costa e dirigersi verso la tenuta del vecchio Malcom che, se Gesù lo
avesse favorito, avrebbe forse fatto in tempo a raggiungere prima di congela-
re.
Giunto alla conclusione che valeva la pena di tentare e che se proprio era
condannato almeno così sarebbe morto in piedi, si avvolse meglio nel plaid e
nel mantello, e s'incamminò verso nord.
Nell'avvicinarsi all'albero notò per prima cosa che era diritto e molto alto;
poi, a mano a mano che il bagliore del crepuscolo cedeva il posto all'oscurità,
si rese conto anche del fatto che l'imponente pianta era in fiamme. Quello sì
che era un colpo di fortuna! Se fosse riuscito a mantenere acceso il fuoco no-
nostante la neve imminente esso gli avrebbe permesso di sopravvivere per
tutta la notte. Una volta che fu ancora più vicino, però, scoprì anche una terza
cosa, che gli ghiacciò il sangue nelle vene e quasi gli tolse il respiro per il ti-
more di essere già morto: metà dell'albero era avvolta dalle fiamme, ma l'altra
metà era quanto mai lussureggiante, con il fogliame di un verde intenso.
«Che Gesù e i santi mi salvino. Possa Dio guidare la mia anima.»
«Sprechi il fiato a invocare l'uomo della Galilea» avvertì una voce. «Lui
non ci fa nessun favore, quindi noi non ne facciamo a lui.»
Nel girarsi di scatto Domnall vide fermo poco lontano un giovane che alla
luce dell'albero in fiamme appariva biondo e pallido di carnagione, con le
labbra rosse come ciliegie troppo mature e gli occhi del colore del mare esti-
vo; lo sconosciuto era avvolto in un mantello di spessa lana azzurra, dotato di
cappuccio.
«Appartieni dunque alle Schiere dei Seelie?» gli domandò.
«Gli uomini della tua terra riterrebbero di sì. Questo è un punto in cui sta
venendo intessuta una grande magia, e ciò che mi secca è che non ne sono io
l'autore. Cosa ci fai qui?»
«Mi sono perso. Non ho intenzione di farti del male né di derubare te o la
tua gente.»
«Belle parole, e grazie a esse puoi vivere... cosa che non farai di certo se
resterai esposto a questo clima ancora per un po'. Mi serve un messaggero per
un piano che sto elaborando, che è complesso e ha molti fili. Dimmi, vuoi vi-
vere oppure vuoi morire nella neve?»
«Vivere, naturalmente, a Dio piacendo.»
«Splendido! Allora dimmi il tuo nome e la cosa che più desideri.»
Domnall rifletté per un momento perché era noto che i Seelie erano degli
ingannatori e alcuni preti sostenevano che non fossero migliori dei demoni, e
di certo sconsigliavano dal dire loro il proprio nome.
Poi qualcosa di freddo e di umido gli sfiorò il volto e nel sollevare lo
sguardo vide i primi fiocchi di neve stagliarsi sullo sfondo luminoso dell'al-
bero in fiamme.
«Mi chiamo Domnall Breich e la cosa che più desidero è una morte onore-
vole in battaglia, al servizio del mio signore.»
Lo spirito levò gli occhi al cielo con fare esasperato.
«Oh, suvvia, di certo puoi escogitare un dono migliore di questo! Qualcosa
che ti faccia piacere e ti dia gioia.»
«In tal caso, io amo con tutto il mio cuore Lady Jehan, ma non c'è speranza
che una donna come lei si accorga di me.»
«Questo è un desiderio migliore» approvò lo spirito, con un pigro sorriso.
«Benissimo, Domnall Breich, avrai in moglie Lady Jehan. In cambio, ti chie-
do soltanto di non riferire quello che vedrai qui stanotte a nessuno tranne che
a tuo figlio, quando raggiungerà i tredici anni di età.» Nel proferire quelle pa-
role lo spirito d'un tratto si accigliò e tirò fuori le mani dalle pieghe del man-
tello, contando qualcosa sulle dita, poi riprese: «Sì, tredici anni andranno be-
ne. I numeri e il tempo non hanno significato per quelli come me, comunque
potrai parlarne a tuo figlio quando riterrai che sia adulto, ma bada di non ri-
velarlo a nessun altro.»
«Buon signore, te lo posso promettere in tutta sincerità. Del resto nessuno
se non un figlio potrebbe credere a un uomo che raccontasse cose come que-
ste.»
«Affare fatto, allora!» esclamò il Seelie, poi sollevò le mani, le batté tre
volte e aggiunse: «Girati con le spalle rivolte all'albero, Domnall Breich, e
dimmi che cosa vedi.»
Voltatosi, Domnall prese a scrutare fra i veli di neve ancora piuttosto radi e
vide non molto lontano un groviglio di comuni alberi, che spiccavano scuri
sullo sfondo più cupo della notte, e al di là di essi una distesa d'acqua che ap-
pariva corrusca e minacciosa alla luce del fuoco magico.
«La riva del lago! È sempre stata lì senza che io riuscissi a vederla?»
«No. Quella è la riva di un lago, certamente, ma non si tratta di quello che
tu speri di trovare. Vedi quel mucchio di rocce, una delle quali è più grande
delle altre?»
«Sì.»
«Su quella roccia troverai incatenato un corno d'argento. Prendilo, soffiaci
dentro e avrai riparo per la notte.»
«Ti ringrazio, e dal momento che non posso chiedere a Dio di benedirti ti
auguro invece buona fortuna.»
«Allora ti devo anch'io dei ringraziamenti. Oh, aspetta, girati di nuovo ver-
so di me.»
Quando Domnall obbedì, l'uomo protese una mano adorna di anelli e gliela
posò sulle labbra.
«Fino al tramonto di domani potrai parlare ed essere compreso, ascoltare e
capire ciò che la gente dell'isola dirà, ma dopo di allora il loro linguaggio non
avrà per te nessun significato. Ora è meglio che ti spicci perché la neve si sta
infittendo.»
L'uomo scomparve poi all'improvviso come la fiamma di una candela
spenta, e dopo aver rivolto una preghiera a tutti i santi Domnall si affrettò a
raggiungere la riva del lago, che senza dubbio non era il Loch Ness ma una
sottile lingua d'acqua che arrivava fino ai suoi piedi invece di trovarsi molto
più in basso, alla base di un'erta scarpata. La luce proiettata dal magico albero
ardente lo aiutò a individuare i massi di cui aveva parlato l'uomo, e su di essi
trovò adagiato il corno d'argento, fissato alla roccia con una catena dello stes-
so materiale. Quando lo prese e vi soffiò dentro il suono che ne scaturì gli
parve troppo tenue e flebile per poter richiamare soccorsi che lo salvassero
dalla furia crescente della tempesta, ma entro pochi minuti sentì qualcuno
lanciare un grido di richiamo.
«Hola, hola! Dove sei?»
«Sono qui, sulla riva!» gridò di rimando Domnall. «Seguite la luce del fuo-
co.»
Di lì a poco dalle cortine di neve scaturì un bagliore sussultante che si rive-
lò ben presto come una lanterna tenuta sollevata da qualcuno. La luce dell'al-
bero magico permise a Domnall di distinguere una barca lunga e stretta, con
la prua di legno intagliata a forma di testa di drago, che si stava dirigendo
verso di lui. A bordo un uomo teneva alta la lanterna mentre altri sei remava-
no, cantilenando per mantenere il ritmo; quando poi la barca fu vicina alla ri-
va i remi si sollevarono e quelli sul lato esterno presero a muovere in senso
contrario per tenere l'imbarcazione stabile mentre l'altro fianco si addossava
alla terraferma.
«In una notte così fredda mi dispiace chiederti di raggiungerci a guado»
disse allora l'uomo con la lanterna, «ma abbiamo paura ad accostarci troppo a
causa delle rocce e del buio.»
«Meglio congelare cercando rifugio che ghiacciare fermo qui come un i-
diota» rispose Domnall. «Sto arrivando.»
Sollevato il plaid all'altezza della vita, raccolse anche il mantello intorno a
esso e si addentrò nel lago. Immediatamente il gelo dell'acqua gli tolse il re-
spiro e gli artigliò le gambe, ma il suo livello rimase abbastanza basso da
permettergli di raggiungere la barca dalla testa di drago, dove mani amiche in
carne e ossa si protesero per tirarlo a bordo.
«Virate di bordo, ragazzi! Portiamolo al caldo vicino al fuoco!»
Tremante, Domnall si raggomitolò a poppa avvolto nella parte asciutta del
plaid mentre la barca si allontanava dalla riva; adesso la luce della lanterna
gli permetteva di vedere abbastanza bene l'uomo che la teneva sollevata, un
tipo basso di statura ma di corporatura massiccia, avvolto in un mantello trat-
tenuto da una spilla d'argento a forma di drago e dotato di un cappuccio che
lasciava quasi del tutto in ombra un volto segnato e incorniciato da una folta
barba brizzolata.
«Posso chiedere dove siamo diretti?» domandò infine Domnall.
«All'isola di Haen Marn.»
«Ah» si limitò a commentare Domnall, che in tutta la sua esistenza non a-
veva mai sentito parlare di quel posto pur avendo trascorso tutti i suoi venti
anni di vita in quell'area di Alban. «Grazie.»
Nessuno gli rivolse più la parola fino a quando non ebbero raggiunto l'isola
scura che apparve improvvisamente fra le cortine di neve, indistinta e al tem-
po stesso massiccia sullo sfondo della notte. Da essa si protendeva un molo di
legno ammantato di neve e i rematori vi affiancarono la barca con una mano-
vra accompagnata da un grido e da un alterarsi del ritmo del canto che faceva
da sottofondo alla voga. Alzatosi in piedi, uno degli uomini afferrò poi una
gomena e la mandò ad avvolgersi intorno a uno degli ancoraggi che sporge-
vano dal molo, tirando fino ad accostare la fiancata della barca all'imbarcade-
ro. Con un po' di aiuto Domnall riuscì ad alzarsi e a scendere a terra, ma a
causa del gelo che gli aveva intorpidito gli arti fin quasi a privarli della sensi-
bilità, l'uomo con la lanterna dovette aiutarlo a risalire a passo rapido un sen-
tiero ghiaioso e un pendio in cima al quale era possibile vedere una dimora di
forma squadrata che lasciava trapelare da porte e finestre il bagliore del fuo-
co.
«Ben presto sarai al caldo» garantì l'uomo con la lanterna nel bussare alla
porta, poi chiamò: «Aprite! Abbiamo un ospite, che è qui per opera di Evan-
dar!»
«Evandar? È l'uomo delle Schiere dei Seelie? Lo conosci?»
«Meglio, molto meglio di quanto vorrei, te lo garantisco. Ora entra, ragaz-
zo, e cerca di scaldarti.»
Mentre l'uomo parlava la porta si era aperta davanti a loro, inondandoli del-
la luce del fuoco e di un odore di fumo resinoso. Oltrepassata la serva che era
venuta ad aprire, il gruppo si affrettò a raggiungere una grande sala dove fuo-
chi vivaci ardevano in due grandi focolari di pietra, uno a ciascuna estremità
della stanza di forma quadrata. Le pareti erano di massicce assi di quercia,
accuratamente levigate e poi intagliate a formare un vasto arazzo di linee in-
trecciate ed evidenziate con terra rossa: viticci intrecciati, spirali, animali e
decorazioni astratte si mescolavano in un grande insieme che si estendeva su
ciascuna parete fino a descrivere a ogni angolo un grande arco verso le travi
del tetto e da lì ridiscendere in una massa di nuovi intagli sulla parete succes-
siva.
Avanzando sul pavimento coperto da una stuoia di paglia intrecciata,
Domnall seguì i suoi soccorritori verso il focolare dalla parte opposta della
sala, oltrepassando alcuni tavoli a cui sedevano poche manciate di uomini,
tutti di bassa statura e barbuti, fino ad andare ad arrestarsi davanti a un seggio
intagliato posto accanto al fuoco, occupato da una dama che indossava un
paio di logori abiti e che appariva in stato avanzato di gravidanza. Come gli
uomini che la attorniavano, anche quella donna non era molto alta, di statura
simile a quella dei Sassenach mangiatori di grano che vivevano nel sud, e dal
momento che i suoi capelli di un biondo chiarissimo erano raccolti in una
singola treccia, Domnall suppose che lei fosse effettivamente una Sassenach.
«Mia signora» le disse, inginocchiandosi davanti a lei, «a te vanno i miei
ringraziamenti e le mie benedizioni per avermi salvato la vita.»
«Sono stati i miei uomini a salvarti e non io, comunque sei il benvenuto
nella mia sala» replicò la donna, con voce bassa e musicale, poi si guardò in-
torno e aggiunse: «Otho! Ti dispiacerebbe portargli un boccale di birra e un
po' di pane?»
«Come comanda la mia signora Angmar» replicò uno degli uomini, alto
appena un metro e cinquanta e bianco di barba e di capelli, alzandosi in piedi.
«Siedi sulla paglia vicino al fuoco, ragazzo, e stendi ad asciugare quel pezzo
di stoffa in cui sei avvolto.»
Senza dubbio quelli dovevano essere tutti Sassenach, considerato che in-
dossavano calzoni e spesse camicie invece di plaid e tunica, ma Domnall non
aveva certo intenzione di considerare la cosa come un punto a loro demerito,
dato il modo in cui lo avevano soccorso.
Dal momento che il focolare era lungo almeno tre metri, Domnall poté por-
re una decorosa distanza fra sé e la dama, sedendosi accanto al fuoco vicino a
un paio di grossi cani neri; liberatosi del plaid lo stese quindi sulla paglia ad
asciugare e rimase vestito soltanto della tunica, lottando per districare i lacci
di cuoio fradici degli stivali e riuscendo a levarli giusto in tempo per accetta-
re il boccale di birra e il pane che Otho gli stava porgendo.
«Grazie di cuore» disse. «Dunque questa è Haen Marn, vero? Prima d'ora
non avevo mai visto quest'isola.»
«Hah!» sbuffò sonoramente Otho. «Come mi piacerebbe non averla mai
vista!»
«Zio! Tieni a freno la lingua!» esclamò un giovane, alzandosi di scatto dal
suo posto a uno dei tavoli.
«Niente affatto! Rimpiango il giorno in cui ho viaggiato fino a questo dan-
nato posto. Ero appena riuscito a tornare a casa e cosa succede? Aha! Entra in
gioco quel maledetto dweomer e...»
«Zio! Taci!» insistette il giovane, avvicinandosi con passo affrettato.
«Bada tu a tenere a freno la lingua, giovane Mic, e a mostrare rispetto per
chi è più anziano di te.»
«I due infine tacquero entrambi, fissandosi a vicenda con occhi roventi e
con le mani piantate sui fianchi. Durante tutto il corso della discussione Lady
Angmar non si era mossa né aveva pronunciato parola, limitandosi a fissare il
fuoco. Nel notare alle sue spalle un altro seggio intagliato, addossato alla pa-
rete e degno di un grande nobile ma vuoto, Domnall si sentì indotto a chie-
dersi se la dama fosse rimasta vedova, una triste supposizione che però il suo
modo di fare sembrava avvallare.»
«Bene» disse infine Domnall, per spezzare il silenzio, «voi venite tutti dal-
le terre del meridione?»
«Chi lo sa?» scattò Otho. «Potrebbe trattarsi di qualsiasi dannato punto
cardinale.»
«Devi perdonare mio zio, buon signore» intervenne Mic. «Sta diventando
vecchio e l'età lo ha istupidito.» Il giovane si protese poi ad afferrare Otho
per un braccio e aggiunse: «Avanti, vieni a sederti.»
Borbottando fra sé, Otho si lasciò trascinare via e nel seguirlo con lo
sguardo Domnall ebbe la sgradevole sensazione che quel vecchio non fosse
affatto afflitto da demenza senile ma avesse inteso parlare di magia. La sua
mente rifiutò però di accettare quell'idea perché gli riusciva più facile credere
che quella fosse una dama scacciata dai suoi fratelli dopo che era rimasta ve-
dova, o magari addirittura inviata in esilio per motivi politici, a cui era stato
concesso di portare con sé un piccolo seguito. Dopo tutto i condottieri dei
Sassenach erano sempre in guerra fra loro e lui aveva sentito dire che se il
marito moriva le loro donne potevano fare quello che volevano con la loro
dote. Il calore del fuoco, la paglia comoda, il vapore che si levava dal mantel-
lo e dal plaid che stavano asciugando, il sapore della birra e del pane... tutto
sembrava troppo solido, troppo normale per permettere la presenza della ma-
gia e nel cominciare a sbadigliare Domnall arrivò a chiedersi se aveva sogna-
to l'uomo chiamato Evandar e l'albero in fiamme. Forse si era trattato soltanto
delle assurde visioni che assalgono un uomo prossimo a morire per congela-
mento.
Infine Lady Angmar si girò a fissarlo con occhi tanto tristi che riusciva do-
loroso sostenerne lo sguardo.
«Posso ordinare ai servi di prepararti una camera» suggerì, «oppure prefe-
risci dormire qui vicino al fuoco?»
«La paglia vicino al focolare andrà benissimo, mia signora, così non ti cau-
serò altri problemi» rispose Domnall.
«In effetti ci sono stati fin troppi problemi» commentò la donna, incurvan-
do le labbra in un pallido accenno di sorriso, poi tornò a contemplare il fuoco.
Per il resto della serata Angmar non pronunciò più parola e dopo qualche
tempo si alzò, lasciando la sala insieme alla sua anziana dama di compagnia;
quando fu uscita, il giovane Mic portò a Domnall una coperta mentre Otho
gettava un po' di terra sul fuoco per ridurlo a carboni ardenti, poi i due prese-
ro una lanterna e se ne andarono a loro volta, lasciandolo a dormire raggomi-
tolato sulla paglia con i cani.
Al suo risveglio Domnall vide che la pallida luce dell'alba trapelava già
lungo i contorni delle imposte e che Otho stava facendo uscire i cani uggio-
lanti. Stiracchiandosi, si sollevò a sedere con uno sbadiglio proprio mentre il
vecchio si avvicinava munito di attizzatoio per ravvivare il fuoco.
«Aspetta, buon signore, mi sposto per non esserti d'impiccio» si offrì.
«Sei un ragazzo ben educato.»
«Si addice a un cristiano di stare attento a come parla.»
«Si addice a un che cosa?» domandò Otho, osservandolo con espressione
perplessa.
«A un cristiano, a un seguace del Signore Gesù.»
«Ah. E questo Yaysoo è il signore di queste zone?»
«Eh... ecco... si potrebbe anche dire di sì.»
Accoccolatosi, Otho cominciò ad armeggiare con l'attizzatoio per rimuove-
re le zolle di terra dai carboni ardenti e nel frattempo Domnall si infilò e al-
lacciò gli stivali, alzandosi poi per avvolgersi nel plaid e assestarne le pieghe.
«Lady Angmar... ha perso suo marito?»
«Lo ha proprio perso» confermò Otho. «Nessuno sa dove lui possa essere o
se sia vivo o morto, e lei è qui in attesa di un figlio, a chiedersi dove sia anda-
to a finire.»
«È una cosa tristissima.»
«Infatti, lo è. Se sapesse che lui è morto potrebbe piangerlo e continuare a
vivere, ma in questo modo...»
«Poveretta.»
«È tipico di quell'uomo fare cose insensate di questo tipo. È un individuo
scomodo, sotto tutti i punti di vista. Ah, ma del resto chi può sapere perché le
donne scelgono gli uomini così come fanno? Lei è ancora immersa nel dolore
per il suo Rhodry Maelwaedd, qualsiasi cosa noi si possa dire al riguardo.»
Questo era davvero strano. Come poteva una donna dei Sassenach essere
sposata con qualche nobile di Cymru? Oppure era proprio questo il motivo
per cui l'avevano esiliata? Mentre Domnall formulava quelle riflessioni Otho
concentrò la propria attenzione sui carboni ardenti, soffiando per ravvivarli e
gettando su di essi una manciata di esca.
«Hai una casa qui vicino, ragazzo?» chiese poi.
«Sì. Sono al servizio di Lord Douglas e vivo con lui.»
«Allora lascia che ti dia un buon consiglio. Vattene di qui finché puoi e
torna a casa, altrimenti è possibile che tu non la riveda mai più. La neve ha
smesso di cadere e i rematori ti riporteranno a riva.»
«Prima devo porgere i miei ringraziamenti a Lady Angmar.»
«Lei non scenderà se non dopo mezzogiorno perché è chiusa nel suo dolo-
re. Vattene finché sei in tempo e mentre c'è ancora il sole, che in questo pe-
riodo dell'anno non resterà in cielo a lungo» ammonì il vecchio, sollevando
verso di lui il volto arrossato dal fuoco ormai acceso e fissandolo con occhi
altrettanto roventi. «Haen Marn va dove vuole, più in fretta di quanto impie-
ghi uno sputo a ghiacciare in una giornata come questa.»
Magia. Il ricordo della notte precedente, di Evandar e dell'albero in fiamme
affiorò a colpire Domnall con la violenza di uno schiaffo in pieno volto e lo
indusse ad afferrare il mantello ancora steso sulla paglia.
«In tal caso partirò subito. Ti auguro una buona giornata, Otho.»
Il vecchio si limitò a sbuffare e a riprendere ad alimentare il fuoco.
Una volta all'esterno Domnall scoprì che la giornata era gelida ma limpida
e che un pallido sole si stava già levando nel cielo, segno che aveva dormito
più del previsto. Sulla soglia si soffermò a guardarsi intorno nell'aria tersa e
pungente, sferzato dal vento teso che gemeva intorno alle pareti dell'edificio
e sussurrava fra gli alberi, poi mosse qualche passo lungo il sentiero e tornò
ad arrestarsi, girandosi per guardarsi meglio intorno. Sotto il sole l'isola appa-
riva più grande di quanto gli fosse sembrata la notte precedente e la casa stes-
sa spiccava lunga e bassa sullo sfondo di un'altura costellata di alberi spogli
di un colore grigio pallido, al di là dei quali si ergeva un'alta torre quadrata
appollaiata sulla sommità di una collinetta. Riparandosi gli occhi con una
mano, Domnall si concesse un momento per osservare la torre, che sfoggiava
tre finestre una sopra l'altra e aveva il tetto a punta coperto di lastre grigie.
Alla finestra centrale era affacciato qualcuno che stava guardando verso il
basso e anche se da quella distanza non era in grado di discernere se si tratta-
va di un uomo o di una donna, Domnall si rese conto d'un tratto di essere og-
getto di uno studio altrettanto intenso quanto quello a cui lui aveva sottoposto
la torre. In quello sguardo non c'era malizia, soltanto una vicinanza sconvol-
gente, come se la persona alla finestra si fosse lasciata cadere giù per venire a
fermarsi davanti a lui. Con un brivido Domnall volse le spalle alla torre ma
continuò a sentire quello sguardo su di sé mentre si avviava verso il lago.
Quando infine si azzardò a lanciarsi un'occhiata alle spalle constatò che ades-
so la finestra era vuota.
Nel percorrere il sentiero di ghiaia che portava al molo e alla barca decora-
ta con la testa di drago Domnall non vide nessuno, ma entro il tempo che im-
piegò a raggiungere il molo il capo battelliere e i suoi rematori apparvero sul-
la spiaggia, diretti a passo tranquillo verso di lui; Otho doveva aver mandato
un servitore a chiamarli.
«Pronto a tornare indietro, ragazzo?» chiese il capo battelliere.
«Sì, anche se mi sarebbe piaciuto avere l'occasione di porgere i miei rin-
graziamenti a Lady Angmar.»
«Ah, passerà ancora parecchio tempo prima che lei si decida a scendere»
replicò l'uomo, scuotendo il capo. «È una cosa molto triste.»
Domnall e gli altri salirono quindi a bordo, e mentre i rematori prendevano
posto ai remi il giovane si andò a sedere a poppa in modo da non essere d'in-
tralcio; lì alla luce del giorno il suo sguardo si posò su un grosso gong di
bronzo appeso a un'intelaiatura di metallo, di cui la notte precedente non si
era accorto.
«È per le bestie che ci sono nel lago» spiegò il capo battelliere, accorgen-
dosi del suo interesse. «Con questo clima freddo si lasciano scivolare sul
fondale a dormire, o qualcosa del genere, come fanno gli orsi nelle grotte, ma
d'estate sono una notevole seccatura. Per fortuna detestano il rumore e pic-
chiare su quel gong le tiene lontane.»
«Bestie?» ripeté Domnall.
«Sì, sono nel lago. Sono grosse, con un lungo collo sottile e la bocca piena
di denti, e possono rovesciare una barca come questa con la facilità con cui io
potrei schiacciare una pulce.»
Tutti i rematori annuirono solennemente in segno di conferma della veridi-
cità di quell'affermazione.
«Ah» commentò Domnall. «Allora questo lago deve comunicare con il
Loch Ness. Ciò mi dà qualche speranza.»
«Un momento! Conosci quelle bestie?»
«Ecco, ne conosco una che vive nel nostro lago, anche se non la si vede
spesso.»
Tutti i rematori si scambiarono lunghe occhiate e annuirono di nuovo, que-
sta volta con soddisfazione.
«Credo che la nostra isola sia forse tornata a casa» commentò il capo. «In-
teressante, vero, ragazzi?»
Gli altri annuirono per la terza volta, senza però pronunciare parola, poi il
loro capo sollevò una mano, contò fino a tre e i rematori iniziarono a vogare.
Favoriti dalla luce diurna, riuscirono a far avvicinare la barca alla riva sab-
biosa quanto bastava per permettere a Domnall di spiccare un balzo fino alla
terraferma, ma per precauzione lui preferì comunque togliersi gli stivali per-
ché era meglio atterrare scalzo sulla sabbia umida e nella neve che non tenta-
re poi di camminare calzando stivali bagnati. Arrivato a terra sano e salvo ri-
volse un ultimo ringraziamento ai rematori e li salutò con un cenno della ma-
no mentre tornavano a puntare verso il largo, poi si sedette su uno dei massi
per rimettersi gli stivali mentre la barca con la testa di drago si allontanava
rapida sull'acqua, tanto scura da sembrare nera sotto il cielo invernale, e pun-
tava verso la sagoma dell'isola. D'un tratto però Haen Mara si fece molto dif-
ficile da distinguere e Domnall dovette ammettere con se stesso che poteva
trattarsi soltanto di magia. Alle sue spalle l'albero che la notte precedente era
stato avvolto dalle fiamme era adesso scomparso, ma del resto questa era una
cosa che si era aspettato e comunque davanti a sé aveva già abbastanza pro-
blemi senza doversi preoccupare anche della magia.
Aveva trascorso la notte al sicuro invece di morire assiderato ma doveva
comunque riuscire ad arrivare a casa se voleva sopravvivere alla notte che
ancora doveva giungere. Il sole sarebbe rimasto in cielo soltanto per poche
ore ancora, sempre che non fossero sopraggiunte le nuvole a portare un cre-
puscolo ancor più prematuro. Contemplando il paesaggio circostante che sot-
to la neve fresca gli si allargava intorno simile a un luogo di sogno, minac-
cioso e alieno, Domnall si disse che probabilmente il giorno precedente non
si era spinto abbastanza a nord prima di deviare per cercare di intercettare la
strada, e dopo aver affidato la propria anima a tutti i santi si incamminò nella
direzione che sperava lo avrebbe condotto prima o poi alla strada... se quando
l'avesse raggiunta ci fosse stata ancora luce sufficiente per individuarla.
Alla fine fu lo stesso Lord Douglas, uscito a cercarlo alla testa dei suoi
uomini, che lo trovò molto prima del tramonto. Domnall aveva appena scala-
to una bassa altura quando sentì un suono di cavalli e uno squillare di corni
proveniente dal versante opposto e subito si mise a gridare e a chiamare il
nome del suo signore, ottenendo una raffica di risposte da parte dei cavalieri
che uno dopo l'altro superarono il crinale e si arrestarono per attendere che lui
li raggiungesse annaspando fra la neve.
«Mio signore!» esclamò. «In tutta la mia vita non sono mai stato tanto con-
tento di vedere qualcuno come lo sono ora di vedere te!»
Lord Douglas scoppiò a ridere scuotendo il capo, e a un suo cenno uno dei
cavalieri venne avanti con un cavallo fresco di cui consegnò a Domnall le re-
dini. Con qualche parola di ringraziamento questi si affrettò a montare e dalla
sella rivolse al suo signore un accenno d'inchino; quando poi la banda di
guerra si avviò lungo la strada, Douglas segnalò al giovane di affiancarglisi.
«Come hai fatto a sopravvivere alla notte?» gli chiese.
Per quanto gli seccasse mentire al suo signore, Domnall si costrinse a farlo
perché gli avrebbe dato ancor più fastidio violare la promessa fatta.
«Non ne ho idea. Ho pregato tutti i santi che mi sono venuti in mente e ho
trovato una capanna. Puzzava di pecora e di letame ma era così piccola che
sono stato al caldo... ecco, almeno quanto bastava.»
«Bene. Elargiamo ai santi e ai loro preti tante di quelle decime che mi ral-
legra vedere che essi mantengono la loro parte del patto.»
«Ti ringrazio per essere venuto a cercarmi, mio signore, anche se credevo
che mi avresti dato per morto.»
«Infatti ti credevo morto, ma sei uno dei miei uomini e che io sia dannato
se avrei mai potuto abbandonarti là fuori senza neppure provare a cercarti»
replicò Lord Douglas, poi fece una pausa per riflettere su qualcosa e una stra-
na espressione gli affiorò sul volto mentre proseguiva: «Inoltre Jehan mi a-
vrebbe mandato di persona all'inferno se non fossi venuto a cercarti. Avresti
dovuto sentirla piangere e imprecare e tormentarmi perché facessi qualcosa.»
«Tua figlia, mio signore?» mormorò Domnall, sentendosi arrossire e co-
minciando a balbettare. «Ma io non avrei mai pensato... voglio dire... uh...
er... mio signore, io...»
«Taci e ascoltami, Domnall Breich. La madre di Jehan è una donna cocciu-
ta e lo è anche lei, e oltre a questo ho già speso tutto quello che potevo per la
dote di sua sorella. Per lei quindi non rimane molto, ma del resto tu non hai
grandi pretese, vero?»
«Mio signore, se lei mi vorrà accettare non chiedo assolutamente nulla
tranne la sua mano, per considerarmi il più ricco fra gli uomini.»
«Bene. In tal caso puoi averla, ma sei in grado di mantenerla?»
«Mio padre mi ha promesso una tenuta, quando mi fossi sposato. Non sono
le terre di un grande signore ma sapremo adattarci.»
«E io vi posso fornire un paio di mucche da latte e altre cose del genere» ri-
fletté Lord Douglas, poi si accigliò in volto e domandò: «Da quanto tempo
voi due state nascondendo questo segreto?»
«Mio signore, ti giuro che non avrei mai immaginato di interessare a tua fi-
glia perché la consideravo troppo superiore a me per nascita.»
«Ti credo. Lei mi ha detto di non essersi mai resa conto di amarti fino a
quando non ha pensato che fossi morto. Pensa che sia stato il dolore a farle
capire quali fossero i suoi sentimenti.»
Nel ricordarsi improvvisamente di Evandar, Domnall non seppe cosa repli-
care e si chiese se l'amore di Jehan fosse effettivamente esistito prima della
notte precedente. D'altro canto chi era lui per mettere in discussione quello
splendido miracolo, quel dono che andava al di là di ogni sua speranza?
«In tal caso, mio signore» rispose infine, «considererò la notte appena tra-
scorsa come la più fortunata della mia vita, anche se ho creduto che per me
fosse giunta la fine.»
Quando arrivarono al castello trovarono Lady Jehan ad aspettarli sui gradi-
ni della rocca. Non appena Domnall fu sceso da cavallo lei gli corse incontro
e gli si gettò fra le braccia, e nel tenerla stretta, con il volto nascosto fra i suoi
capelli ramati, Domnall pensò di essere l'uomo più felice del mondo. Tuttavia
anche nella sua gioia si ricordò della dama di Haen Marn che piangeva il suo
signore perduto, e quella notte scese nella cappella per pregare per lei e chie-
dere che un giorno il Signore Gesù le permettesse di rivedere il suo Rhodry
Maelwaedd.

PARTE PRIMA
LE TERRE DEL SETTENTRIONE
Autunno 1116

Ah, l'inizio delle cose! In un'altra sede ho dissertato delle complessità che
permeano l'origine di qualsiasi evento, grande o piccolo che sia. Riflettete
bene su questo, perché un mago che voglia avviare un grande rituale deve ri-
flettere su ogni parola che intende pronunciare e soppesare ogni gesto che fa-
rà, fino al più piccolo cenno di una singola mano. In quanto alla nascita delle
cose il loro esito ultimo è esposto a rischio, proprio come un neonato giace
nella sua culla impotente e vulnerabile alla malvagità del mondo.
La Pergamena Pseudo-Iamblica

Disgusto. Dallandra non riusciva a trovare nessun altro termine per descri-
vere quello che stava provando mentre, avvolta in un pesante mantello di la-
na, sostava sulle mura che cingevano la fortezza del Gwerbret Cadmar e con-
templava la città di Cengarn che si allargava su tre colli sotto di lei, avvilup-
pandoli con le sue strade ricurve, soffocandoli con rotonde case di pietra dal
tetto di sporca paglia nera, dietro la maggior parte delle quali c'erano recinti
per mucche e polli, naturalmente con i relativi cumuli di letame. Da dove si
trovava, Dallandra poteva cogliere accenni di movimento sulle strade fango-
se, abitanti della città che frettolosamente andavano di qua e di là nell'occu-
parsi dei loro affari o forse soltanto un branco di cani che vagavano affamati;
i pochi alberi spiccavano isolati, nudi e privi di foglie sotto il grigio cielo au-
tunnale.
Alle sue spalle il panorama non era certo migliore. Là massicce torri di pie-
tra congiunte le une alle altre formavano il cupo e incombente complesso del-
la rocca, che si levava al centro della fortezza, e abbracciavano un cortile
fangoso che sciamava di servitori sporchi e di guerrieri altrettanto sporchi che
imprecavano nel guidare a fatica i cavalli fra un dedalo di porcili e di recinti
per le pecore. Da qualche parte un fabbro stava lavorando rumorosamente
nella sua fucina e qua e là i paggi cantavano con voce stonata oppure faceva-
no la corte alle serve, che accoglievano quelle indesiderate attenzioni impre-
cando sonoramente. Nella pungente aria autunnale da tutto quell'insieme si
levava un fetore di rifiuti umani e animali, di fumo e di cibo marcio così in-
tenso da sopraffare anche il profumo della pomata di chiodi di garofano del
Bardek che lei si teneva accostata al naso. Nel dire a se stessa che ormai a-
vrebbe dovuto essersi assuefatta a tutto quell'insieme disgustoso, Dallandra si
rese conto che non si sarebbe mai abituata per quanto a lungo avesse vissuto
con gli esseri umani.
«Dalla!» chiamò una voce maschile. «Ti va un po' di compagnia?»
Senza attendere che lei rispondesse Rhodry Maelwaedd, che preferiva esse-
re conosciuto soltanto come Rhodry di Aberwyn, cominciò a salire la scala di
legno che portava ai bastioni. Alto di statura ma con un fisico insolitamente
snello dalle spalle ai fianchi, Rhodry era dotato di una sua avvenenza grazie
agli occhi di un azzurro intenso e al sorriso pronto e spontaneo; nonostante
qualche filo argenteo che gli solcava qua e là i capelli di un nero corvino e la
pelle scurita e segnata dagli elementi, aveva un aspetto giovane e si muoveva
con la rapidità e l'agilità di un ragazzo, ma Dallandra sapeva bene che lui era
nato oltre ottant'anni prima, da una donna umana e da un uomo del Popolo
dell'Ovest, razza a cui lei stessa apparteneva. Per quanto riguardava certe co-
se, però, Rhodry aveva senza dubbio un modo di vedere del tutto umano, co-
me dimostrò nell'appoggiarsi al parapetto per contemplare Cengarn con un
sorriso sulle labbra.
«Un bello spettacolo, non trovi?» commentò infine.
«Forse per te. Io detesto essere rinchiusa in questo modo.»
«Non ne dubito. Però quello che intendevo era che è un bello spettacolo
vedere Cengarn ancora intatta e non ridotta a un mucchio di rovine.»
«Ah, su questo sono costretta a essere d'accordo con te.»
Appena alcuni mesi prima, infatti, Cengarn aveva corso il rischio di essere
trasformata in un cumulo di macerie quando era stata assediata da un esercito
invasore. Adesso invece le sole minacce che la città si trovava a fronteggiare
erano quelle tipiche che ogni centro abitato di Deverry affrontava al soprag-
giungere dell'inverno: malattie, freddo e fame. D'impulso Dallandra si ap-
poggiò al parapetto accanto a lui ma subito si ritrasse di scatto nel constatare
che Rhodry puzzava quanto tutto il resto che la circondava.
«Cosa c'è?» chiese lui.
«La pietra è fredda, ed è anche umida.»
«È vero» convenne Rhodry, senza accennare a muoversi. «Presto avremo
la neve.»
Dallandra annuì in segno di assenso e lanciò un'occhiata al cielo sempre
più grigio, pensando che una bella e spessa coltre di neve avrebbe nascosto la
terra e congelato rifiuti ed escrementi quanto bastava per soffocarne il fetore.
«C'è una cosa che ti volevo chiedere» continuò Rhodry, dopo un momento.
«Ultimamente faccio sogni dannatamente strani. Credi possano significare
che c'è del dweomer all'opera?»
«Non ne ho idea. Parlami di questi sogni.»
«Si tratta della Donna Corvo. Mi appare in sogno e si fa beffe di me.»
«Questo è grave. Vieni, andiamo da qualche parte al caldo, dove ci si possa
sedere per parlare con calma.»
Insieme scesero la scala e si avviarono attraverso il cortile fangoso; al loro
passaggio i numerosi servi e guerrieri sparsi per il cortile tacquero e si gira-
rono a fissarli, alcuni incrociando addirittura le dita nel segno di protezione
contro la stregoneria. Accelerando il passo Dallandra raggiunse una porta la-
terale della rocca e la oltrepassò, sottraendosi allo sguardo di quanti erano nel
cortile.
«Salva» sussurrò, entrando.
«Cosa?» esclamò Rhodry. «Senti che stiamo per incorrere in qualche peri-
colo?»
«Chiedo scusa, si tratta del modo in cui tutti mi guardano. Non sono abi-
tuata a essere odiata e temuta.»
«Suvvia, non si tratterà certo di odio!»
«Ne sei sicuro?»
«Ma perché dovrebbero odiarti?»
«Si tratta di tutto il dweomer che hanno visto di recente. Battaglie eteriche,
mutaformi, il modo in cui Alshandra appariva nel cielo come una dea... trop-
pe cose strane che non avrebbero mai dovuto vedere. I Guardiani vivono se-
condo le loro leggi, che non sono quelle del dweomer.»
«È vero» ammise Rhodry, dopo un momento di riflessione. «Tutti noi ab-
biamo visto più cose di quante ne possiamo spiegare.»
La camera di Dallandra si trovava alla sommità di una torre laterale e a es-
sa si accedeva tramite un pianerottolo ingombro di fasci di frecce e di mucchi
di pietre, munizioni accantonate nell'eventualità di un altro assedio come
quello terminato così di recente; la camera in se stessa era una fetta dello spa-
zio rotondo della torre, separata dai vicini magazzini tramite partizioni di vi-
mini, con il pavimento di legno coperto da stuoie anch'esse di vimini e con
una singola finestra dalle imposte di legno e dall'ampio davanzale, su cui
Rhodry si appollaiò per lasciare l'unica sedia presente nella stanza a disposi-
zione di Dallandra. Prima di sedersi, lei procedette ad accumulare pezzi di
carbone in un braciere d'ottone, poi schioccò le dita per convocare il Popolo
Fatato del Fuoco e quando il carbone si arroventò protese le mani verso il ca-
lore che emanava da esso.
«Non hai freddo, seduto lì vicino allo spiffero della finestra?» chiese.
«Non tanto da esserne infastidito.»
Dallandra rimaneva sempre stupita da quanto poco il freddo e altri disagi,
perfino il dolore fisico, avessero presa su Rhodry: la vita pericolosa che ave-
va sempre condotto aveva trasformato tutto il suo corpo in un'arma, renden-
dolo resistente come l'acciaio. Le questioni magiche, però, rimanevano al di
fuori della sua portata e delle sue forze.
«Dannazione a quei sogni!» scattò intanto Rhodry. «Non mi vergogno di
ammettere di aver quasi paura di addormentarmi, la notte. Non hai per caso
un talismano che li possa tenere a bada?»
«Non esiste una soluzione tanto semplice. Parlami di questi sogni.»
«Ho riflettuto a lungo su di essi e mi sono reso conto che sono tutti più o
meno uguali. Mi trovo a camminare in un posto che conosco bene, per esem-
pio questa fortezza, o la città o addirittura Aberwyn, poi all'improvviso l'aria
intorno a me si fa densa e si tinge di un colore bluastro come quello dell'ac-
qua profonda e quella cagna mi appare davanti, del tutto nuda, cominciando a
provocarmi. Continua a dire che un bel giorno avrà la mia testa su una picca e
altre piacevolezze del genere.»
Nel sentir confermati i suoi peggiori timori Dallandra si lasciò sfuggire una
sonora imprecazione.
«Pensi che si tratti di dweomer, vero?» chiese Rhodry, sfoggiando uno dei
suoi sorrisi in tralice.
«Infatti. Qualsiasi cosa tu faccia, evita di inseguirla perché sta cercando di
attirare la tua anima fuori del corpo.»
«E poi cosa intende fare?»
«Non lo so. Se fosse un maestro del dweomer oscuro sarebbe in grado di
ucciderti, ma non è nulla del genere. Più probabilmente è soltanto una povera
piccola principiante che conosce qualche trucco e niente di più.»
«Qualche trucco? Per gli dèi, è in grado di trasformarsi in un dannato uc-
cello e di volare via, riesce a farmi visita entrando nei miei sogni e tu parli di
trucchi?»
«Sì, perché l'ho vista all'opera quanto basta per sapere che non capisce co-
me riesce a fare quelle cose. Il suo potere è tutto opera di Alshandra, o per
meglio dire lo era. Adesso è quel dannato fratello di Evandar che sta causan-
do tutti questi guai.»
Rhodry scoppiò in una risata prolungata che le strappò un sussulto.
«Trucchi» ripeté. «Bene, se si tratta davvero soltanto di questo, non cono-
sci per caso qualche trucchetto che potresti insegnarmi?»
«No, ma ne ho alcuni a mia disposizione. Ogni notte, prima che tu vada a
dormire, traccerò intorno a te dei sigilli protettivi.»
«Non è così facile, considerato che dormo negli alloggiamenti dei guerrie-
ri.»
«Cosa? È lì che ti ha sistemato il ciambellano? Dopo tutto quello che hai
fatto quest'estate al servizio del gwerbret?»
«Per una daga d'argento l'ospitalità non dura a lungo.»
«Questo è ridicolo! Parlerò di te con il ciambellano» cominciò Dallandra,
poi esitò e si guardò intorno, prima di aggiungere: «Ecco, se non ti secca
qualche pettegolezzo in questa camera c'è spazio a sufficienza per entrambi.»
«Perché una daga d'argento si dovrebbe preoccupare dei pettegolezzi?» re-
plicò Rhodry, sfoggiando un altro sorriso ora più aperto e rilassato. «Quello
che è in gioco è il tuo onore, ma se quassù non c'è nessuno che possa sape-
re...»
«Nessuno vuole vivere vicino a una maga, cosa che a volte torna utile. Ora
che ci penso, non c'è neppure nessuno che se la senta di discutere con me,
quindi perché non vai a prendere le tue cose?»
«Troverò il giovane Jahdo e gli chiederò di provvedere lui. Si sta guada-
gnando da vivere come mio paggio.»
«Sei stato buono a prenderlo presso di te.»
«Qualcuno doveva farlo» replicò Rhodry con una scrollata di spalle, alzan-
dosi in piedi. «Non mi crea problemi e gli sto insegnando a leggere.»
«Continuo a dimenticare che sai leggere.»
«In effetti è una cosa che sorprende la maggior parte della gente. Prima di
essere uccisa Jill gli aveva promesso che gli avrebbe insegnato a leggere,
quindi io mi sono accollato quella promessa insieme all'altra che lei gli aveva
fatto, di riportarlo a casa a primavera.»
Nel tardo pomeriggio, dopo che Dallandra ebbe parlato con il ciambellano
e che Rhodry fu riuscito a rintracciare Jahdo, l'equipaggiamento di Rhodry
venne trasferito nella camera adiacente a quella di Dallandra, poco dopo Ja-
hdo, un ragazzo magro dai capelli bruni, tornò da Dallandra per portarle un
messaggio.
«Mia signora, la Principessa Carra mi ha chiesto di venire a chiamarti, se
sei libera di seguirmi.»
«C'è qualcosa che non va?»
«Si tratta della bambina, mia signora, della piccola Elessi.»
«Oh, dèi! Sta male?»
«Non lo so, ma la principessa è molto preoccupata.»
Dallandra trovò Carra... la Principessa Carramaena delle Terre dell'Ovest,
per usare il suo titolo completo... nella sala delle donne, seduta accanto al
fuoco con la sua bambina fra le braccia. Nel centro della sala Lady Ocradda,
moglie del gwerbret e signora di Dun Cengarn, sedeva insieme alle sue donne
intorno a una struttura di legno, impegnata a ricamare un vasto arazzo di stile
elfico fatto di un insieme di fiori e di viticci intrecciati. Quando Dallandra en-
trò, le altre donne le scoccarono un'occhiata e subito tornarono a concentrarsi
sul loro lavoro come se avessero temuto di incorrere nel malocchio mentre
Carra, una graziosa ragazza diciassettenne bionda con il volto a forma di cuo-
re dominato da grandi occhi azzurri, l'accolse con un ampio sorriso.
«Dalla, sono così contenta che tu sia venuta, anche se adesso pare che il
problema si sia risolto.»
«Davvero?» replicò Dallandra, prendendo uno sgabello e sedendosi accan-
to al fuoco. «Dimmi lo stesso di cosa si è trattato.»
«Ecco, sono le coperte. Elessi detesta essere fasciata, e anche se adesso fa
tanto freddo si mette a urlare e ad agitarsi quando cerco di avvolgerla almeno
in una coperta, visto che di metterle le fasce non c'è neppure da parlarne.»
Nel sentir parlare delle fasce Lady Ocradda sollevò lo sguardo dal ricamo e
scoccò un'acida occhiata in direzione della principessa, memore di come lei e
le altre donne della fortezza avessero perso quella battaglia subito dopo la na-
scita della piccola. In quel momento Elessario giaceva fra le braccia di Carra
avvolta in una coperta e stava dormendo profondamente, vestita soltanto del
pannolino e di una camiciola di lino vecchio, morbida e lisa.
«Alla maggior parte dei neonati piace stare al caldo» osservò Dallandra.
«Vicino al fuoco, in questo modo, sta tranquilla, ma se la metto nel mio let-
to senza le coperte fa molto freddo, e tuttavia lei comincia a urlare se provo
ad avvolgergliele intorno.»
«È davvero strano, ma sono certa che con il tempo si abituerà.»
«Lo spero» replicò Carra, abbassando lo sguardo su sua figlia con espres-
sione dubbiosa. «È terribilmente cocciuta anche se è nata soltanto un mese fa.
Sai, se ci ripenso mi sembra strano che sia passato appena un mese: sembra
che lei ci sia sempre stata.»
«E tu mi sembri molto più felice ora che c'è.»
Carra scoppiò a ridere e sollevò lo sguardo con un sorriso.
«È vero, lo sono. Sai, era una cosa stranissima e a ripensarci adesso mi sen-
to terribilmente stupida, ma per tutto il tempo della gravidanza sono sempre
stata convinta che sarei morta di parto. Quando ci ripenso mi rendo conto di
essere stata un'idiota lamentosa, sempre a piangere, sempre depressa, sempre
pronta a lamentarmi di questo e di quello.»
«Mia cara bambina» interloquì Ocradda, «ci sono alcune donne a cui la
gravidanza fa questo effetto. Non è nulla di cui tu ti debba rimproverare.»
«È dipeso tutto dal fatto che avevo tanta paura» continuò però Carra, scuo-
tendo il capo. «Me ne sono resa conto l'altro giorno. Ero sicurissima che sarei
morta e questo tingeva di nero ogni cosa: la mattina mi alzavo e nel guardare
il sole mi chiedevo quanti altri giorni di vita avrei avuto.»
«Senza dubbio ti hanno spaventata da bambina» sentenziò Ocradda.
«Troppe vecchie e levatrici raccontano storie terribili relative al parto senza
pensare che delle ragazzine le possono sentire. Ho conosciuto più di una ra-
gazza terrorizzata da storie del genere.»
«Suppongo che sia così» convenne Carra, dopo un momento di riflessione.
«Comunque sentirsi in quel modo è stato orribile.»
«Non ne dubito» convenne Dallandra, «e sono lieta che sia passato tutto.»
Carra rabbrividì, poi procedette a parlarle dell'allattamento di Elessi con
abbondanza di particolari; mentre l'ascoltava, Dallandra si trovò però a pen-
sare soprattutto al timore espresso da Carra. Possibile che nella sua vita pre-
cedente lei fosse morta di parto? Una cosa del genere poteva benissimo esser-
si trasmessa alla vita successiva sotto forma di un timore irrazionale... anche
se naturalmente la paura di Carra era stata tutt'altro che infondata, considera-
to che alle donne umane capitava anche troppo spesso di morire di parto. In
genere un'anima reincarnata conservava pochissimi ricordi da una vita alla
successiva, ma cose come il terrore e l'amore ossessivo avevano un loro mo-
do di rimanere impresse... come pure, naturalmente, il talento per il dweomer.
Sulla scia di quelle riflessioni Dallandra si trovò a pensare alla Donna Corvo:
era infatti possibile che quella misteriosa mutaforme stesse ricordando in
modo vago e imperfetto un addestramento magico che aveva ricevuto nella
vita precedente.
Più tardi, quella stessa notte, Dallandra apprese qualcosa di più sul conto
della sua nemica. Si stava preparando per andare a letto quando sentì bussare
alla porta della sua camera e prima ancora che potesse chiedere di chi si trat-
tava Evandar entrò nella stanza... o per meglio dire attraversò la porta chiusa
e sbarrata filtrando dall'altra parte come uno spettro e strappandole uno strillo
di sorpresa.
«Vorrei che non facessi cose del genere!» scattò Dallandra. «Mi spaventi a
morte!»
«Chiedo scusa, amore mio. Ho bussato. Sto cercando di imparare le usanze
di queste terre» si scusò Evandar, poi la prese fra le braccia e la baciò.
La sua pelle, il contatto delle sue labbra e delle sue mani risultarono stra-
namente freddi, come se lui fosse fatto più di seta che di carne.
«È passato così tanto tempo dall'ultima volta che ti ho visto» mormorò
Dallandra. «Vorrei che potessi fermarti per un po'.»
«Questa fortezza è piena di ferro, armi e chiodi, altrimenti trascorrerei la
notte con te. Quando tutto questo sarà finito, amore mio, tu e io torneremo in-
sieme nelle mie terre» replicò Evandar, poi fece una pausa per baciarla e ag-
giunse: «E condivideremo di nuovo il nostro amore.»
«Sarà splendido» sospirò Dallandra, staccandosi da lui. «D'ora in poi non
ci potremmo incontrare nelle Terre delle Porte? Se posso, preferirei evitarti di
soffrire.»
«Ti ringrazio. I prati del sonno andranno benissimo per i normali scambi di
notizie, ma ciò che mi porta qui stanotte è qualcosa di un po' più urgente» re-
plicò Evandar, e dopo aver esitato un momento per ottenere un maggior effet-
to proseguì: «Ho trovato la Donna Corvo. Si è rifugiata a Cerr Cawnen.»
«Cerr Cawnen? La città di Jahdo?»
«Proprio quella. L'ho trovata mentre stavo dando la caccia a mio fratello.»
«Shaetano?»
«Esattamente, e sta ancora seminando guai. Mi è sfuggito, ma credo di sa-
pere chi lo ha aiutato a evadere dalla prigione che gli avevo creato.»
«La Donna Corvo» mormorò Dallandra, con voce pervasa di un'improvvisa
stanchezza.
«Ancora una volta hai colpito nel segno, amor mio. A proposito, il suo no-
me è Raena, una chicca che ho scoperto per te. Tu mi hai detto di ritenere che
quella donna non sia molto abile nell'uso del dweomer e io sono d'accordo
con te: la sua magia è come una di quelle grondaie che gli uomini fabbricano
per incanalare l'acqua e lei è solo il barile posto sotto.»
«Mentre Shaetano è l'acqua piovana, giusto?»
«Infatti. Senza dubbio si sente adulato nel vedersi adorato come se fosse un
dio e comunque è pronto a prestarle il potere per fare danni, dato che fare
danni è la sua vera vocazione. Per questo ho pensato di dirti dove ero diretto.
Dopo tutto anche tu hai validi motivi per odiarlo.»
«Odiarlo? A dire il vero io non lo odio.»
«Cosa? Perché no? Dopo il modo in cui ti ha trattata... catturandoti, legan-
doti, tenendoti esposta alle beffe dei suoi uomini in quella dannata gabbia di
legno... come fai a non odiarlo?»
Dal momento che Evandar le aveva posto quella domanda in tutta serietà
Dallandra ritenne giusto rispondergli adeguatamente.
«Ecco, lui mi fa paura e quando penso alle cose che ha fatto provo ancora
rabbia nei suoi confronti, ma non è odio. Shaetano comprende davvero il ma-
le che fa e sa perché le sue sono azioni malvagie?»
«Non ne ho idea e non mi interessa saperlo. Mi ha ostacolato e ha recato
danno a te, e questo mi basta.»
«Quindi gli darai la caccia? Se riuscirai a trovarlo e a fermarlo, il dweomer
di Raena si dovrebbe prosciugare in breve tempo.»
«Bene. Speriamo che sia così. Prima o poi lo troverò, non temere, ma in-
tanto ho anche altri compiti da assolvere... vedi, sto elaborando un piano» re-
plicò Evandar, con uno strano sorriso astuto.
«Oh, dèi, che altro stai escogitando, adesso? Evandar, sai che ti amo, ma
questi tuoi piani sfuggono sempre al controllo, danneggiano sempre delle
persone e io vorrei...»
«Taci!» ingiunse Evandar, sollevando una mano in un gesto secco e impe-
rioso per ordinarle di fare silenzio. «Ho riflettuto. Non ho forse imparato da
te, amore mio, cosa siano la riflessione e il trascorrere del tempo? Ebbene,
quando sarà passato del tempo e la mia gente si sarà incarnata nel mondo del-
la carne e della morte, proprio come la nostra Elessi, non ci vorrà forse un
posto dove essa possa andare?»
«Un cosa?»
«Un posto che le appartenga, e al riguardo non intendo aggiungere altro»
dichiarò Evandar con un nuovo sorriso, voltandosi a fissarla. «È una sorpresa
unita a un enigma, ed ecco un indizio per trovare la soluzione: quando la luna
sorgerà di nuovo capirai.»
Dallandra esitò, prossima quasi a inveirgli contro perché sapeva che quan-
do definiva qualcosa un enigma Evandar non avrebbe mai fornito la risposta,
per quanto lei avesse potuto insistere, imprecare o supplicare.
«Benissimo» si arrese quindi con un sospiro. «E quando sorgerà questa tua
luna?»
«Non ne ho idea. Questo è un piano che sto intessendo da molto tempo, fin
da quando ho chiesto a un uomo di nome Maddyn il suo anello decorato con
incisioni di rose... ormai sono passate centinaia di anni, vero?»
«Infatti. Un momento... si tratta dell'anello che possedeva Rhodry, quello
su cui era inciso il nome del drago.»
«Infatti, ma per adesso non intendo dire altro» ribatté Evandar con un pigro
sorriso, del tutto consapevole di quanto i suoi enigmi la irritassero. «Tornan-
do al problema attuale, mia cara, Shaetano è astuto, quindi anche lui richiede-
rà parecchia di questa strana cosa chiamata tempo. Si nasconderà da me, ma
presto o tardi dovrà apparire ai suoi adoratori, in Cerr Cawnen, e quando lo
farà io sarò nelle vicinanze. Ferro!» esclamò poi, scuotendo il capo in uno
spasmo di dolore. «Quel dannato metallo creato dai demoni.»
Mosse quindi un passo in direzione della finestra e scomparve. Dallandra
non scorse nulla che preannunciasse la sparizione, non uno sfocarsi della sua
figura o un tremito dei contorni: il momento prima lui era lì nella stanza e il
momento dopo non c'era più, cosa che le strappò un brivido... uno soltanto
perché si era abituata a Evandar e al suo modo di fare nel corso del tempo in
cui erano stati amanti, tempo che secondo il calcolo degli uomini ammontava
a centinaia di anni.

La piccola stanza odorava di fumo antico e di polvere recente, un'atmosfera


fetida che avviluppava le due persone ferme al suo interno avvolte in alcuni
mantelli, con la schiena rivolta all'ampia fessura fra le pietre che serviva da
porta.
«Meglio non accendere una candela o altre luci qui dentro» sussurrò Ver-
rarc. «Non c'è abbastanza aria.»
«Non abbiamo bisogno di luce, amor mio» replicò Raena. «Ora guarda co-
sa ho imparato negli ultimi due anni.»
Verrarc la sentì trarre un profondo respiro, poi lei prese a cantilenare ripe-
tutamente sempre le stesse parole, che lui ritenne essere nella lingua dei Gel
da Thae, e nello stesso tempo in un angolo del soffitto rivestito di ragnatele
apparve una luce argentea che si andò diffondendo e intensificando mentre
numerosi ragni fuggivano a nascondersi di fronte a quella manifestazione del
dweomer.
«Oh, dèi!» sussurrò Verrarc.
«Sì, amore mio, gli dèi. Questo è un dono degli dèi che io servo, i veri dèi»
dichiarò Raena, poi si guardò intorno nella stanza e chiese: «Che posto è que-
sto? Deve essere davvero molto antico.»
«Nessuno lo sa. Quando ero ragazzo ho scoperto tutti i luoghi segreti della
Cittadella. Riguardo ad alcuni ho chiesto informazioni agli anziani ma di tutti
gli altri, fra cui questo, ho preferito tacere.»
Raena annuì, guardandosi intorno. Vicino al soffitto e tutt'intorno alla stan-
za correva una linea di triangoli e di cerchi rozzamente intagliati nella pietra,
incisioni che Verrarc non aveva mai visto con tanta chiarezza perché quando
da bambino si era nascosto in quella camera semisepolta la sola luce a sua di-
sposizione era stata il tenue chiarore che filtrava dall'ingresso.
«Qui percepisco disperazione, e antiche paure» affermò d'un tratto Raena.
«Davvero? È meglio che ci affrettiamo a fare ciò che dobbiamo perché non
voglio che qualcuno si domandi dove siamo finiti e ci venga a cercare. Cos'e-
ra che mi volevi mostrare? Si tratta forse della luce?»
«No, non è soltanto la luce. Guarda.»
Raena s'inginocchiò quindi nella polvere, imitata da Verrarc, spalancò le
braccia e prese a cantilenare parole diverse dalle precedenti che le vibravano
in gola e le scaturivano dalle labbra come una sfida. Per tutta risposta la luce
argentea si contrasse e si raccolse in una sfera lucente delle dimensioni di una
bracciata di fieno che rimase sospesa davanti e sopra di loro. Immersa nella
concentrazione, Raena scrollò il capo con un gesto secco, che le fece ricadere
all'indietro il cappuccio dal volto madido di sudore e incorniciato dai lunghi
capelli neri, che sembravano brillare e fluttuare in quella luce innaturale. Poi
Verrarc si sentì agghiacciare quando la sfera di luce cominciò a estendersi fi-
no a trasformarsi in un lungo cilindro all'interno del quale qualcosa... no,
qualcuno... prese gradualmente forma.
In un primo tempo parve che si trattasse soltanto di un inganno ottico, di
una forma simile a una voluta di fumo intercettata da un raggio di luce solare,
ma a poco a poco essa acquistò solidità e divenne quasi umana, e quando in-
fine la figura uscì dal pilastro di luce Verrarc vide che il suo aspetto era mol-
to simile a quello di una volpe.
Ciuffi di pelo rosso coronavano gli orecchi e creavano una sorta di cespu-
gliosa criniera che copriva gran parte della fronte e tutto il cranio, fino al col-
lo; sotto le sopracciglia, anch'esse di pelo rosso, scintillavano occhi di un ne-
ro intenso e le dita terminavano tutte con affilati artigli neri.
«Io sono il Signore del Caos, sovrano dei poteri della lotta e del tumulto»
dichiarò la creatura, con voce così tonante da indurre Verrarc a temere che
nella città sovrastante qualcuno la potesse sentire. «Perché mi hai convocato,
o mia sacerdotessa?»
«Per implorare un favore, mio signore» sussurrò Raena. «Ho portato qui un
altro che ti vorrebbe adorare.»
«Allora hai fatto bene a convocarmi, piccola. Io...»
All'improvviso il Signore del Caos esitò, fissando qualcosa alle spalle dei
suoi due adoratori. Nel girarsi di scatto a guardare di cosa si trattasse Verrarc
non vide nulla, ma il Signore del Caos lanciò un grido e si proiettò all'indietro
nel pilastro di luce, svanendo di colpo e lasciandosi alle spalle un puzzo di
volpe; immediatamente il pilastro cominciò a perdere la sua intensità lumino-
sa e per quanto Raena continuasse a cantilenare per ricomporlo, procedette a
dissiparsi e a spandersi sulle pareti, la sua luce sbiadita e chiazzata come una
vecchia tenda scolorita. Alla fine Raena si arrese e tacque, con il respiro af-
fannoso.
«Rae, perdonami, ma ho il dubbio che quello non sia affatto un dio ma
piuttosto uno spirito a forma di volpe, del genere che vive nelle foreste» af-
fermò Verrarc.
«Gli spiriti animali sono deboli creature!» ribatté lei, rivoltandoglisi contro
con un ringhio. «Come potrebbe lui alimentare il mio dweomer se fosse sol-
tanto un demonietto silvestre? Ti dico che gli ho visto fare grandi cose, Ver-
ro, davvero grandi, e lui riversa il suo favore su di me.»
Senza rispondere, Verrarc si alzò in piedi e cercò di ripulire dalla polvere la
spessa stoffa dei calzoni.
«Hai visto la luce, vero?» insistette in tono secco Raena.
«L'ho vista» ammise Verrarc, raddrizzandosi e porgendole la mano per aiu-
tarla a sollevarsi in piedi. «Un momento! Sei pallida quanto lo era lui!»
In quel momento Raena gli si accasciò fra le braccia e dopo aver armeggia-
to per qualche momento per districarsi dalle pieghe dei rispettivi mantelli
Verrarc riuscì a cingerla con un braccio per sorreggerla nel buio reso sempre
più fitto dal progressivo svanire della luce argentea.
«Devo riportarti a casa» disse, sgusciando per primo fuori dalla stanza e
nella galleria al di là di essa per poi girarsi ad aiutare la donna.
Insieme percorsero il tortuoso passaggio, sentendo l'aria che si faceva sem-
pre più fredda e pulita, e dopo un centinaio di metri arrivarono al suo ingres-
so, un'apertura in una parete di pietra al di là della quale era possibile vedere
la neve e blocchi di pietra infranta coperti di cespugli privi di foglie. Rag-
giunta l'apertura, Verrarc aiutò Raena a uscire e si affrettò a seguirla nella lu-
ce ormai tenue del crepuscolo.
Adesso si trovavano sul picco della Cittadella, l'erta collina insulare che si
levava al centro del Loc Vaed e della città di Cerr Cawnen. Spingendo lo
sguardo fra gli alberi che crescevano intorno e in mezzo alle rovine del vec-
chio edificio abbattuto secoli prima da un terremoto, era possibile vedere tut-
to il ripido pendio dell'isola, dove gli edifici pubblici e le case delle poche
famiglie facoltose della città sorgevano aggrappati alle rocce e alle strade tor-
tuose; al di là di essi si allargava la distesa verdazzurra del lago, alimentato
da sorgenti vulcaniche e avvolto da una coltre di vapore generato dall'aria ge-
lida. Oltre il lago la città vera e propria sorgeva nei tratti di acqua più bassa,
case e botteghe erette su palafitte che creavano un ammasso confuso di tetti
inframmezzati da piccole imbarcazioni, e ancora più lontano il confine di
Cerr Cawnen era segnato da una cerchia di mura di pietra erette intorno a
supporti di legno in modo che oscillassero senza infrangersi sotto l'impatto
dei terremoti che di tanto in tanto colpivano la città.
Dal punto in cui si trovavano i due stavano guardando più o meno verso
ovest, nella direzione in cui il sole stava pigramente tramontando in un alone
di un intenso colore dorato. Grazie al calore generato dal Loc Vaed la città di
Cerr Cawnen era libera dalla neve ma al di là dei suoi confini la prima nevi-
cata della stagione si stava tingendo di rosa e d'oro sotto i raggi del sole al
tramonto che illuminava in lontananza qualche boschetto e qualche capanna
di contadini a stento visibile fra i cumuli di neve grazie al pennacchio di fu-
mo che saliva dal camino.
«Il panorama che si gode da quassù è splendido» commentò Verrarc.
«Presto, amore mio, ti mostrerò un panorama tale che tutto questo ti sem-
brerà un cumulo di letame» dichiarò Raena, accennando con disprezzo a
quanto li circondava.
«Davvero?»
«Sì. Amore mio, le cose che ho visto sono state tali da sconvolgermi la
mente e il cuore. Il mondo è un luogo molto vasto e grandioso, una volta che
riesci a uscire dal Rhiddaer.»
«Non ne dubito» annuì Verrarc, poi esitò e aggiunse: «E dove sei stata e-
sattamente, per apprendere tutti questi segreti?»
«Lo saprai a tempo debito» ribatté Raena, tremando e avvolgendosi meglio
nel mantello. «Prima è necessario che mi consulti con il Signore del Caos per
sapere esattamente cosa posso dirti.»
«Verrarc le scoccò un'occhiata tagliente ma nel notare l'espressione cocciu-
ta del suo volto si trattenne dal replicare.»
«Torniamo a casa» disse soltanto. «Voglio vederti al caldo e ho alcune co-
se da sbrigare prima di notte.»

Afflitta da una forma reumatica, Dera sedeva accanto al fuoco avvolta nel
mantello e stava sorseggiando una tisana di erbe.
«Se vuoi te ne posso preparare ancora» si offrì Niffa. «Gwira mi ha lasciato
un pacchetto di erbe.»
Sua madre annuì. Minuta e di bassa statura, appariva fragile come una
bambina mentre sedeva raggomitolata su se stessa con il boccale in mano, i
capelli un tempo biondi e ora quasi del tutto grigi che le ricadevano arruffati
intorno al volto segnato.
«Ti tormenti a causa di Jahdo, mamma. lo capisco dal modo in cui stai fis-
sando il fuoco.»
Quando Dera tornò ad annuire, Niffa le si inginocchiò accanto e le posò
una mano sul braccio.
«Nel profondo del mio cuore io so che lui tornerà a casa da noi sano e sal-
vo, mamma, davvero. È una cosa che ho visto molte volte nel corso dei miei
sogni veri.»
«Zitta. Non devi parlare così apertamente di cose del genere.»
«Qui ci siamo soltanto noi due.»
«Ma questi discorsi mi spaventano lo stesso. Cosa farebbero i nostri concit-
tadini se cominciassero a pensare che puoi fare sogni veri e magari vedere la
morte scritta sul loro volto?»
«Hai ragione. Terrò a freno la lingua.»
Dera sospirò, poi fu assalita da un violento accesso di tosse. Afferrata una
manciata della paglia che copriva il pavimento, Niffa gliela porse perché vi
sputasse sopra e poi la gettò nel fuoco.
«Grazie» sussurrò Dera. «E io sarò ancora qui quando il nostro Jahdo tor-
nerà a casa?»
Niffa impiegò un momento per capire cosa sua madre le chiedeva.
«Ci sarai. Ho visto anche te, che ridevi insieme a noi tutti.»
«Bene. Io... un momento, cos'è tutto questo chiasso?»
Dall'esterno stava infatti giungendo un suono di voci imprecanti accompa-
gnato da uno strano susseguirsi di tonfi sordi che indusse infine Niffa ad al-
zarsi per andare ad aprire la porta e sbirciare fuori. Da dove si trovava poteva
spingere lo sguardo su per l'erto vicolo che dalla loro porta conduceva alla
strada pubblica sul pendio sovrastante, sul quale due uomini stavano lottando
per spingere giù per il vicolo un barile di birra alto mezzo metro facendolo
rotolare senza che esso sfuggisse al loro controllo e finisse per schiacciare
quello dei due che si trovava più in basso.
«Cosa state facendo?» chiese Niffa, riconoscendo in uno dei due uomini
Harl. il servitore del Consigliere Verrarc.
«Ti portiamo un dono» ansimò Harl. «Da parte del mio signore, per il tuo
matrimonio.»
«Parla meno e non lasciare che quel dannato barile ti sfugga!» scattò l'altro
uomo.
Con un grugnito Harl accentuò la propria presa sul barile. Quando infine i
due uomini lo ebbero spinto al livello della porta farlo passare oltre la soglia
richiese qualche altra ardua manovra e una nuova serie di imprecazioni, ma
alla fine esso si andò ad arrestare sul pavimento coperto di paglia. Ripren-
dendo fiato, Harl e il suo aiutante, uno dei figli del fabbro, si asciugarono il
sudore dal volto con la voluminosa manica della camicia invernale e si con-
cessero un momento di riposo.
«Per gli dèi!» esclamò Harl. «Qui dentro la puzza di furetto è tale da far
svenire.»
Mentre il figlio del fabbro annuiva, Dera si avvolse meglio nel mantello e
si avvicinò per esaminare il barile, alto quasi quanto lei.
«Il consigliere è stato gentile a ricordarsi di noi, e in maniera così genero-
sa» disse.
«Ed è la birra migliore, per di più» replicò Harl. «Il mio padrone ha insisti-
to perché si trattasse della migliore birra scura e l'ha mandata con tanto anti-
cipo perché avesse il tempo di riposare. Raccomanda di lasciarla com'è fino
al giorno delle nozze.»
«In tal caso faremo così» annuì Dera, poi scoccò un'occhiata a Niffa e ag-
giunse: «È opportuno che tu vada a ringraziarlo.»
Niffa e la sua famiglia erano i cacciatori di topi della città e vivevano con i
loro furetti in due grandi stanze annesse ai granai pubblici, un alloggio forni-
to loro in cambio del lavoro che svolgevano per sterminare quelle bestie dan-
nose. Quel grosso edificio quadrato sorgeva nella parte più bassa della Citta-
della mentre la bella casa del Consigliere Verrarc era situata quasi in cima al-
la collina, vicino alle misteriose rovine che coronavano la cresta dell'isola.
Per raggiungerla, Niffa dovette risalire ansimando l'erto vicolo e percorrere la
strada coperta di acciottolato che si snodava a spirale su per la collina, pas-
sando davanti alle facciate imbiancate a calce di diverse dimore e a qualche
panca di pietra disposta lungo il percorso per permettere a chi era stanco di
riposarsi. Infilandosi fra l'armeria della milizia e un grosso masso, la ragazza
raggiunse la strada successiva, dove qua e là piccoli pini contorti crescevano
su tratti di terriccio o si protendevano verso il sole fra le rocce.
Il cancello che si apriva nell'alto muro bianco che cingeva la casa del con-
sigliere era aperto, quindi Niffa si addentrò nel cortile quadrato e pavimentato
con piatte pietre rosse, dove grossi otri di terracotta erano raggruppati gli uni
vicino agli altri per raccogliere l'acqua piovana; poco lontano un paio di gros-
si cani neri stesi al sole sollevarono la testa, la fiutarono e agitarono pigra-
mente la coda mentre lei li oltrepassava per raggiungere la casa vera e pro-
pria, una bassa struttura dal tetto di paglia. Dopo aver bussato rimase in atte-
sa, spostando nervosamente il peso del corpo da un piede all'altro, fino a
quando la porta si aprì di una fessura e Magpie, una ragazza che aveva più o
meno la sua stessa età, fece capolino all'esterno con la sua faccia rotonda e
carnosa dagli occhi scuri e dalla bocca sottile quasi sempre semiaperta.
«Lasciami entrare, Maggi» disse Niffa. «Devo vedere il consigliere.»
Maggi rifletté su quelle parole, inclinando leggermente il capo da un lato.
«Avanti, mi conosci da quando eravamo bambine. Lasciami entrare e va' a
chiamare il consigliere.»
Nel vedere Magpie socchiudere gli occhi con aria perplessa Niffa si rese
conto che aveva commesso un errore nel chiederle due cose contemporanea-
mente perché adesso lei avrebbe di certo impiegato qualche tempo a capire
cosa ci si aspettava che facesse. Per fortuna in quel momento dall'interno
giunse un'altra voce e la vecchia Korla, una donna curva e avvizzita, venne a
raggiungere la nipote sulla soglia.
«Ah» disse, nel vedere Niffa. «Sei venuta per la birra?»
«Sì. Desidero ringraziare il tuo padrone per il suo bel dono.»
Ridacchiando fra sé Magpie si allontanò di corsa lasciando a Korla il com-
pito di accompagnare Niffa nella sala del consigliere, una stanza quadrata dal
basso soffitto in travi scoperte e con il pavimento fatto di canne intrecciate.
Sotto ciascuna finestra dalle imposte chiuse era posta una cassapanca inta-
gliata, nel centro della stanza spiccava un tavolo circondato da panche e vici-
no all'ampio focolare c'erano due sedie di legno, anch'esse intagliate, dotate
di cuscini, mentre altre tre sedie, un vero tesoro in una casa di Cerr Cawnen,
erano addossate alla parete; qua e là sul tavolo e sulla mensola del camino
qualche soprammobile d'argento scintillava al chiarore del fuoco.
Vestita con un bell'abito azzurro e con i capelli raccolti come quelli di una
gran dama, Raena sedeva su una delle sedie, con i piedi adagiati su uno sga-
bello; al loro ingresso fece un cenno del capo alla serva ma non accennò a ri-
volgere la parola a Niffa.
«Vado a chiamare il padrone» disse Korla, e uscì.
Avvicinatasi al fuoco, Niffa protese le mani verso il calore della fiamma,
consapevole che l'altra donna la stava osservando. Quando però si girò verso
di lei con un sorriso d'occasione stampato sul volto, Raena distolse lo sguardo
con un sogghigno e per quanto sorpresa Niffa cercò di interpretare quel com-
portamento nel modo più positivo, dicendosi che forse quella donna soffriva
della vergogna di cui si era coperta, considerato che era stata scacciata da suo
marito per averlo tradito con Verrarc e che la cosa era stata oggetto di pette-
golezzi da parte di tutta la città.
Poi un ceppo si smosse nel fuoco proiettando una lunga lingua di fiamma e
una pioggia di scintille, e nella luce d'un tratto più intensa Niffa vide con
maggiore chiarezza il volto di Raena, notando il suo pallore, il sudore che le
imperlava la fronte e i cerchi bluastri, simili a lividi, che le segnavano gli oc-
chi.
«Stai bene?» le chiese. «Devo chiamare la tua serva?»
«No, grazie. Sono stanca, non malata» replicò Raena, scandendo lentamen-
te le parole.
«Molto bene, però io...» cominciò Niffa, ma poi si interruppe a metà della
frase nel notare il modo in cui Raena la stava fissando, con gli occhi neri che
scintillavano freddi alla luce del fuoco nel vagliarla da capo a piedi come se
stessero cercando qualche pidocchio sul suo mantello.
D'un tratto Niffa si sentì assalire dall'impulso di inveire contro quella don-
na, di schiaffeggiarla e di urlarle di allontanare per sempre da Cerr Cawnen la
sua lurida persona; riuscendo a controllarsi, si volse per nascondere il proprio
volto nell'ombra generata dal fuoco ma continuò a sentire su di sé lo sguardo
gelido di Raena.
«Buon giorno a te, Niffa!» esclamò in quel momento Verrarc, oltrepassan-
do la porta laterale.
Alto e biondo, il consigliere era considerato un uomo di bell'aspetto dalla
maggior parte della gente di Cerr Cawnen, ma i suoi occhi azzurri erano per-
vasi di un gelo invernale e Niffa aveva l'impressione che i suoi sorrisi fossero
fasulli quanto quello dipinto sulla faccia di una bambola di legno.
«Tua madre sta bene, spero» continuò Verrarc.
«Ha la tosse, consigliere, anche se oggi sta già un po' meglio. Sono venuta
in sua vece per ringraziarti del tuo splendido dono.»
«Non c'è di che» replicò Verrarc, mentre per un momento il suo sorriso si
tingeva di un calore effettivo. «Se tua madre dovesse aver bisogno di qualco-
sa, che si tratti di cibo o di medicine, per favore rivolgiti a me. Lo dico dal
profondo del cuore.»
Accorgendosi che la sua sincerità era effettiva, Niffa si chiese come mai
quella generosità la irritasse tanto; tesa e a disagio, scambiò con il consigliere
qualche altra frase di circostanza e si accomiatò più in fretta che poteva.
Nel percorrere la strada ghiacciata che l'avrebbe riportata ai granai e a casa
sua, si domandò quindi il perché dell'odio intenso che aveva provato a prima
vista nei confronti di Raena pur non avendola mai incontrata prima di quel
giorno, sentimento che riteneva fosse ricambiato appieno dalla donna.
D'altro canto nessuna delle due poteva sapere che quel loro odio aveva le
sue radici centinaia di anni più indietro e in un'altra vita, quando le loro ani-
me erano state strettamente unite e loro erano state madre e figlia in una vita
così diversa da quella che stavano condividendo attualmente che sarebbe par-
sa appartenere a un altro mondo, se pure ne fossero state a conoscenza. E an-
cor meno potevano immaginare che l'uomo che Raena conosceva e odiava
come Rhodry Maelwaedd era stato legato allora a entrambe da un nodo del
Wyrd, anche se in quegli anni remoti lui aveva vissuto un'altra vita, in un al-
tro corpo.

PARTE SECONDA
DEVERRY, ANNO 849

Nell'anno 849 la primavera portò terribili presagi nel cielo sovrastante la


Città Santa. Una nube che aveva forma di drago sorvolò la città accompagna-
ta da fulmini, il cielo si tinse del colore del rame e un'enorme nube che sem-
brava un gomitolo di lana nera trasse acqua dal Lago Gwerconydd soltanto
per riversarla poi sulla terra. I profughi che si rifugiarono in Lughcarn furono
così tanti che la città non poté accoglierli tutti: il Sommo Sacerdote Retyc
diede loro tutto il cibo che riuscì a raccogliere e li mandò più a est, dove c'e-
rano terre agricole che avevano bisogno di essere coltivate.
Le Sacre Cronache di Lughcarn

In mezzo a tanto clamore Lillorigga, figlia del clan del Cinghiale, sedeva
su una panca nella curva della parete, desiderando di poter essere invisibile
agli occhi degli uomini armati che si accalcavano nella grande sala del re, in
piedi o seduti, parlando, mangiando, chiamandosi a vicenda e chiedendo birra
a gran voce. La primavera era ormai giunta, portando con sé l'annuale raduno
dei nobili fedeli al re e delle loro bande di guerra, ma nei due enormi focolari
posti alle estremità della sala il fuoco ardeva vivace levando spesse volute di
fumo nella stanza caliginosa. Le pareti di pietra della grande sala rotonda la-
sciavano infatti trapelare ancora il freddo, in quanto il sole primaverile faceva
solo brevemente la sua comparsa all'interno dell'intricato complesso di rocche
e di altri edifici che componeva il palazzo reale di Dun Deverry.
In quei giorni la sala non aveva peraltro un aspetto particolarmente regale a
causa dei lunghi anni di guerra civile che avevano lasciato il re a corto di tut-
to tranne che di uomini: gli arazzi pendevano logori e sbiaditi lungo le pareti
di pietra grezza, il pavimento era coperto in parte da paglia e in parte da lace-
ri tappeti del Bardek, i tavoli e le panche erano tutti segnati, scalfiti e instabi-
li, nobili e servi mangiavano da vassoi di legno e bevevano da boccali di ter-
racotta. Soltanto la tavola personale del re conservava una parvenza di splen-
dore regale. Da dove si trovava, Lillorigga poteva vedere un paggio impegna-
to a stendere su di essa una tovaglia di lino macchiata e molto rammendata
mentre altri servitori disponevano piatti d'argento e boccali di peltro; dietro i
servitori c'era la balia reale, munita di cuscini da disporre sul seggio reale per
permettere a Re Olaen di arrivare all'altezza del tavolo, dato che il sovrano
era nato appena cinque inverni prima.
Lilli era cugina del re, imparentata con lui tramite una bisnonna dal lato
materno della linea di discendenza, e suo zio Burcan del Cinghiale era l'attua-
le reggente del sovrano. Il suo rango le fruttava inchini e riverenze ogni volta
che qualcuno passava accanto alla sua panca o guardava nella sua direzione.
Lei rispondeva sempre con un cenno del capo o con un sorriso, anche se den-
tro di sé detestava il modo in cui i nobili erano soliti guardarla, come se stes-
sero valutando una giumenta di pregio pronta per essere venduta al mercato.
Presto infatti sua madre avrebbe provveduto a organizzare il suo fidanzamen-
to con il figlio di uno degli uomini fedeli al re. Quanto a lei, Lillorigga poteva
soltanto sperare che quando fosse venuto il momento suo marito l'avrebbe
almeno trattata bene.
Dalla parte opposta della sala un araldo ingiunse agli uomini di fare largo a
una processione di donne che stava scendendo la grande scala di pietra pre-
ceduta dalla Regina Abrwnna che, più matura di suo marito, era ormai quasi
una donna e non più una ragazza. Dietro di lei veniva il suo seguito di serve e
di dame di compagnia di nobile nascita, fra cui anche Merodda, la madre di
Lillorigga, vedova e sorella di Tibryn, Gwerbret di Cantrae. e del Reggente
Burcan. Alla luce incerta del fuoco Merodda non sembrava più matura della
giovane regina, con i capelli biondi, lisci e stranamente lucidi, raccolti da un
fermaglio d'argento alla base del collo e con la carnagione rosea e liscia
quanto quella di una bambina che era l'invidia di tutte le donne della corte,
considerato che lei aveva una figlia già in età da marito. Merodda aveva an-
che l'andatura di una ragazza, era sempre pronta a ridere con vivacità e tutti
affermavano che il perdurare della sua bellezza era davvero una cosa incredi-
bile.
Se soltanto sapessero, pensò con amarezza Lilli nel guardare sua madre. Se
soltanto sapessero... lei e le sue pozioni!
Arrivata all'ultimo gradino Merodda indugiò a osservare la sala, poi si girò
a parlare con un paggio prima di andare a raggiungere il seguito della regina,
accanto alla tavola alta. Quando si rese conto che il paggio si stava dirigendo
verso di lei, Lilli si alzò in piedi e per un momento prese in considerazione
l'eventualità di darsi alla fuga, ma poi decise che era meglio di no perché se
avesse destato ora le ire di sua madre ne avrebbe pagato il prezzo più tardi.
«Onorevole Lillorigga» disse il paggio, arrestandosi davanti a lei con un
inchino, «tua madre dice che quando avrai finito di mangiare ti dovrai recare
da lei nelle sue camere.»
Lilli si sentì attanagliare dalla fredda morsa della paura.
«Benissimo» riuscì comunque a rispondere, sfoggiando una parvenza di
sorriso. «Riferiscile che mi atterrò ai suoi desideri.»
Senza quasi degnarla più di un'occhiata, il paggio le volse le spalle e tornò
di corsa verso la tavola della regina, dove Lilli lo vide parlare con Merodda
prima di andare a prendere posto per procedere a servire il pranzo. Quanto a
Lilli, avrebbe dovuto mangiare a uno dei tavoli riservati alle donne nubili di
nobile nascita ma preferì prelevare un pezzo di pane da un cesto portato da un
paggio e lasciare la calca e il rumore della sala.
Fuori il sole stava tramontando e le ombre fredde si stavano allungando sul
cortile, uno dei molti che intervallavano la miriade di rocche e di edifici della
fortezza. Affrettando il passo, Lilli oltrepassò le cucine, s'insinuò fra i ma-
gazzini delle vettovaglie e sgusciò oltre un piccolo cancello che dava accesso
a un cortile più grande e più esterno, circondato da alte mura di pietra che
proteggevano porcili, stalle per cavalli e mucche, una fucina, un paio di pro-
fondi pozzi per l'acqua... tutto ciò di cui la fortezza aveva bisogno per far
fronte a un assedio.
Vicino alle porte di questo cortile qualcuno stava gridando, e quando vide i
servi accorrere in quella direzione muniti di torce, Lilli li seguì lentamente,
badando però a tenersi nell'ombra: vicino alle mura il chiarore delle torce si
rifletté su cotte di maglia e su un gruppo di uomini che stavano discutendo,
un contrasto a cui pose ben presto fine il capitano della guardia, ordinando lo-
ro di azionare l'argano che apriva le enormi porte rinforzate in ferro. Queste
lentamente si schiusero di appena due metri, quanto bastava per permettere a
un cavaliere sfinito in sella a un cavallo infangato di entrare nel cortile.
«Messaggi per il re» annunciò l'uomo, con voce rauca, «dal Gwerbret di
Belgwergyr.»
Mentre i servi si affrettavano a prendersi cura del cavallo spossato, Lilli
seguì il messaggero e il capitano della guardia che si stavano dirigendo in tut-
ta fretta verso la rocca principale.
«Spero siano buone notizie» commentò il capitano.
«Sono cattive» replicò il messaggero. «Sua Grazia il gwerbret ha perso altri
vassalli che sono passati al servizio del falso re.»
Assalita dallo sgomento, Lilli continuò a seguire il messaggero e la sua
scorta che si stavano dirigendo in tutta fretta verso la grande sala, dove ormai
tutti i nobili più importanti si erano radunati intorno al re. Appollaiato a capo-
tavola sui suoi cuscini Olaen, un bel bambino dai folti capelli biondi, era in-
tento a mangiare pane e miele e ai suoi lati i due zii di Lilli... Tibryn, Gwer-
bret di Cantrae e il suo fratello minore, il Reggente Burcan... sedevano fra lui
e il resto dei potenti nobili che potevano consumare i pasti alla tavola alta.
Entrambi erano uomini avvenenti, alti e dal portamento eretto proprio dei
guerrieri, con gli stessi occhi azzurri ben distanziati della sorella Merodda,
ma contrariamente a lei dimostravano palesemente la loro età a causa dei ca-
pelli grigi e del volto segnato.
Al sopraggiungere della guardia e del messaggero tutti smisero di mangiare
per girarsi a guardare mentre quest'ultimo s'inginocchiava davanti al re e pre-
levava dalla camicia un tubo d'argento per i messaggi, porgendolo con un ge-
sto elegante al piccolo Olaen. Protendendosi in avanti, Burcan afferrò il tubo
e con un cenno ordinò all'uomo di parlare, consapevole che gli altri grandi
nobili si erano raccolti intorno a loro, cupi e tesi.
Alla tavola della regina anche le donne smisero di parlare e si girarono per
sentire le notizie; quanto a Lilli, da dove si trovava non era in grado di capire
quello che il messaggero stava dicendo, ma ben presto un coro di brusii si le-
vò prima dalla tavola reale e poi da tutta la grande sala, ripetendo ciò che il
messaggero aveva appena detto: altri nobili erano passati dalla parte di Cer-
rmor. Infine Burcan congedò il messaggero con un secco cenno del capo, i-
gnorando Re Olaen che lo stava fissando con gli occhi pieni di lacrime.
Nel vedere sua madre lasciare la tavola della regina e salire in fretta la sca-
la per poi scomparire nell'ombra del pianerottolo, Lilli s'impose di seguirla
con un notevole sforzo di volontà; poi però si accorse che dalla parte opposta
della sala un paggio stava facendo sedere il messaggero mentre una serva
provvedeva a portargli della birra e dopo un momento di esitazione si diresse
verso l'uomo, che trangugiò in fretta un sorso di birra e accennò ad alzarsi ri-
spettosamente in piedi.
«Oh, resta seduto» lo invitò Lilli. «Devi essere sfinito. Volevo soltanto
chiederti se il Tieryn Peddyc di Hendyr è passato ai ribelli.»
«Non lui, mia signora. Lui è saldo come la roccia.»
«Ne sono lieta. È il mio padre adottivo.»
«Ah» commentò il messaggero, con un fugace sorriso. «Non mi meraviglia
che volessi avere notizie. Lui e Lady Bevyan stanno bene e sono fedeli come
sempre.»
«Ti ringrazio» mormorò Lilli, e si allontanò rapida, salendo in fretta la sca-
la e sperando... anzi pregando al riguardo la Signora della Luna con tutto il
fervore di cui era capace... che Bevyan decidesse di venire a corte con suo
marito quando lui avesse risposto alla convocazione del re. Merodda l'aveva
mandata presso Bevyan insieme alla sua balia quando aveva appena poche
settimane di vita e fino ai dodici anni di età Bevyan era stata la sola madre
che avesse mai conosciuto. Se soltanto avesse potuto rimanere con lei... sulla
scia di quei pensieri gli occhi minacciarono di colmarlesi di lacrime, ma Lilli
serrò le palpebre per scacciare il pianto e in cima alla scala si arrestò un mo-
mento per riprendere fiato. Il terrore le stava serrando nuovamente il cuore
ma non aveva dove fuggire o nascondersi, quindi con un ultimo sussulto si
diresse a passo deciso verso le camere di sua madre.
Merodda le aprì la porta di persona, reggendo in mano una lunga candela
alla cui luce il suo volto e le sue mani luccicavano come cera.
«Bene. Stanotte sei stata solerte» commentò.
In una chiazza di luce di candela vicino alle finestre della camera era fermo
Brour, l'uomo che Merodda definiva il suo scriba... un ometto magro con la
testa sproporzionata rispetto al corpo e con lanuginosi e radi capelli biondi,
tratti che a volte lo facevano apparire come un bambino, soprattutto a causa
delle labbra piene dall'espressione perennemente imbronciata. Posando una
mano sulla spalla di Lilli, Merodda la sospinse attraverso la stanza e verso il
tavolo davanti a cui si trovava Brour, sul quale fra le candele spiccavano un
mortaio con pestello, un pezzo di una sostanza nera che sembrava carbone e
una boccetta d'acqua, segno evidente che lo scriba era impegnato a preparare
dell'inchiostro, e per di più in quantità notevoli. Mentre le due donne si avvi-
cinavano, Brour mise una manciata di polvere ricavata dal carbone in una pe-
sante ciotola d'argento, vi aggiunse gradatamente dell'acqua dal flacone e
cominciò a pestare e a rigirare il tutto con un pestello.
«Eccola qui» disse Merodda.
Posati i suoi strumenti sul tavolo, Brour si girò a fissare Lilli con tanta
freddezza da spingerla a indietreggiare involontariamente di un passo, cosa
che indusse sua madre ad accentuare la presa sulla sua spalla. Protendendo
una mano annerita dall'inchiostro, Brour tolse quindi la candela a Merodda e
la sollevò per scrutare Lilli in volto.
«Nessuno ti farà del male, ragazza» disse infine. «C'è soltanto un nuovo
trucco che ci piacerebbe farti sperimentare.»
«Hai strani talenti, dolcezza mia» aggiunse Merodda, «e adesso noi ne ab-
biamo ancora bisogno.»
Per un momento il terrore di Lilli divenne tanto intenso da minacciare di
soffocarla e lei desiderò opporre un rifiuto, liberarsi con uno strattone e fug-
gire via, ma lo sguardo freddo di sua madre parve immobilizzarla come un
lungo ago di metallo che le trafiggesse l'anima.
«Suvvia!» scattò poi Merodda. «Noi donne dobbiamo fare quello che pos-
siamo per servire il re.»
«Certamente, Madre. È ovvio che voglio essere d'aiuto.»
«Certamente? Non provare a mentire, con me.»
Lilli arrossì e distolse lo sguardo.
«Comunque quello che vuoi o non vuoi non mi interessa» proseguì Merod-
da. «Avanti, vogliamo cominciare?»
Con un grugnito Brour depose la candela in mezzo alle altre presenti sul
tavolo, la cui luce danzante strappava continui riflessi dalla polla di inchio-
stro nero nella ciotola d'argento. Suo malgrado Lilli si trovò a fissare quei
bagliori, affascinata, mentre la mano di sua madre le scivolava via dalla spal-
la per posarlesi sulla base del collo. Di lì a poco Lilli sentì la testa che le si
chinava in avanti sotto la pressione di quella mano fattasi d'un tratto pesante,
poi la polla d'inchiostro parve cominciare ad agitarsi come le onde di un mare
nero che si dilatò fino a riempire tutto il suo campo visivo, tutta la stanza e
poi tutto il suo mondo. Mentre sprofondava nell'oscurità, la ragazza sentì Me-
rodda cantilenare qualcosa in tono basso e sommesso, ma non riuscì a distin-
guere una sola parola perché le sillabe da lei pronunciate echeggiavano ai
suoi orecchi come rintocchi di una campana d'ottone e parevano riverberarle
negli orecchi, suoni alieni che si univano a formare parole altrettanto aliene.
Poi nell'oscurità apparve un danzante punto di luce e Lilli si diresse verso
di esso, sentendo al tempo stesso il proprio corpo che si trasformava in un pe-
so morto, come se fosse stato un carico che lei si trascinava dietro nel muo-
versi. Gradualmente il punto di luce si andò allargando e si dilatò a formare
un cerchio attraverso cui lei poteva guardare, come se avesse aperto un'impo-
sta nera e si stesse ora affacciando da una finestra che dava su un mondo so-
leggiato. In quel momento la voce di Merodda giunse fino a lei, come da una
grande distanza.
«Cosa vedi, Lilli? Dicci che cosa vedi.»
Lei sentì la bocca che le si muoveva e le parole che le scivolavano dalle
labbra come ciottoli per cadere nell'oscurità circostante. Nella finestra appar-
vero intanto grandi creature con ampie ali e lunghe code intorno alle quali si
andò formando una luce bluastra che si fece sempre più intensa, scintillando
sulle scaglie ramate e rosso sangue di un paio di quelle bestie che stavano
dormendo, raggomitolate una accanto all'altra. Poi una di esse si svegliò e si
stiracchiò, allargando le ampie ali a rivelare due spesse zampe dotate di arti-
gli, una grande testa ramata si levò verso l'alto e spalancò in uno sbadiglio
fauci orlate di lunghe zanne.
«Grifoni. Vedo grifoni rossi, e ora stanno volando.»
«Bene, bene» mormorò la voce di sua madre, le parole simili a gocce di o-
lio che scivolassero dalle sue labbra. «Dove li vedi?»
«Su una pianura erbosa.»
I grifoni scesero dalle montagne sferzando l'aria con le ali massicce e Lilli
ebbe l'impressione di volare con loro mentre la sua voce continuava a echeg-
giare indipendentemente dalla sua volontà. I grifoni descrissero poi un cer-
chio sopra un prato dove stavano pascolando alcuni maiali e all'improvviso
scesero in picchiata come due falchi per colpire fra strida acute. Subito dopo
il grifone rosso riprese quota sbattendo con forza le ali e serrando fra gli arti-
gli la carcassa inerte e sanguinante di un grosso cinghiale grigio.
Immersa nella sua visione, Lilli volò troppo vicina e d'un tratto la testa e-
norme del grifone si girò verso di lei: gli occhi neri scintillarono e si socchiu-
sero, dando l'impressione di trapassare l'oscurità per fissarla e Lilli lanciò un
urlo, infrangendo l'incantesimo. Barcollando, incespicò in avanti e urtò il ta-
volo, sul quale una candela oscillò e cadde nell'inchiostro nero con un sibilo e
una voluta di fumo fetido.
«Piccola stupida pasticciona!»
Afferrandola per i capelli Merodda la fece girare e la schiaffeggiò con l'al-
tra mano; urlando ancora, Lilli si accasciò in ginocchio con la guancia dolo-
rante.
«Smettila!» ringhiò Brour. «Non è colpa sua, non è in grado di controllare
la trance.»
Merodda indietreggiò, ma Lilli sentì echeggiare il suo respiro reso ancora
affannoso dall'ira.
«Deve essere addestrata» continuò Brour, con voce ora di nuovo calma.
«Non capisco perché non mi vuoi permettere...»
«Non dobbiamo discuterne di fronte a lei» lo interruppe Merodda, proten-
dendosi in avanti. «Forza, tu, alzati!»
Lilli si affrettò a issarsi in piedi.
«Ora puoi tornare in camera tua» ordinò Merodda. «Lasciaci soli, e bada
che se dovessi mai dire a qualcuno quello che è successo qui...»
«Mai, lo prometto, mai» garantì Lilli. con voce che tremava per il timore.
«Non ne ho mai parlato, giusto?»
«È vero, non lo hai fatto» ammise Merodda, poi rifletté per un lungo mo-
mento e aggiunse: «A quanto pare hai un po' di cervello. Ora va'!»
Sollevando le lunghe gonne Lilli fuggì dalla stanza e corse fino alla sua
minuscola camera all'estremità opposta del corridoio, chiudendo e sbarrando
la porta alle proprie spalle; una volta al sicuro, per un lungo momento rimase
ferma a piangere nella luce grigia del crepuscolo, con le spalle addossate alla
parete di pietra, poi si gettò sul suo stretto giaciglio e scivolò nel sonno con
l'immediatezza con cui una pietra lasciata cadere da una torre colpisce il ter-
reno sottostante.
Quella stessa sera di primavera, nella quiete precedente il tramonto, Lady
Bevyan di Hendyr sostò accanto alla stretta finestra della sua camera da letto
e indugiò a esaminare il cortile della fortezza di suo marito. Ovunque il suo
campo visivo era incorniciato di pietra... la pietra in cui era ricavata la fine-
stra a cui si stava affacciando, la parete di pietra della tozza torre su cui essa
si apriva, la pietra delle mura che circondavano la fortezza e che tagliavano
l'orizzonte occidentale dove il giorno si stava concludendo in un tripudio d'o-
ro. A causa della guerra civile, nel corso di tutta la sua vita la pietra aveva si-
gnificato sicurezza così come l'inverno era stato una garanzia di pace, nono-
stante la neve, le tempeste e la costante minaccia della fame, e soltanto di re-
cente lei aveva cominciato a vedere la pietra come un simbolo di prigionia, e
aveva cominciato a chiedersi come potesse essere un mondo in cui anche l'e-
state era sinonimo di pace.
Non che un mondo del genere coincidesse con quello in cui viveva... non
ancora, almeno. Sotto di lei, nell'ombra sempre più fitta, il cortile era un fer-
vore di preparativi bellici: cavalli di scorta, impastoiati all'esterno Per man-
canza di spazio nelle stalle, carretti per le provviste, già carichi in vista della
partenza dell'indomani. Suo marito, il Tieryn Peddyc, aveva convocato i suoi
alleati e vassalli per i combattimenti previsti per quell'estate al fine di difen-
dere il vero re insediato a Dun Deverry dagli aspiranti usurpatori che si sta-
vano radunando lungo i confini meridionali del regno. Per meglio dire, suo
marito e i suoi alleati avevano sempre definito come usurpatore, pretendente
e ribelle Maryn, Gwerbret di Cerrmor, principe del distante Pyrdon, ma a vol-
te, quando non prestava attenzione al fluire dei suoi pensieri, Bevyan si sor-
prendeva a chiedersi quanto fossero veri quegli appellativi.
Alle sue spalle la porta si aprì e nella stanza risuonò una voce sommessa.
«Mia signora?» chiamò Sarra, una delle sue serve, oltrepassando la soglia.
«Non stai bene?»
«Sto bene, mia cara» la rassicurò Bevyan, volgendo le spalle alla finestra.
«Mi stavo solo concedendo un momento di solitudine per cercare di decidere
se andare o meno a corte. Dimmi, tu desideri andare a Dun Deverry?»
Sarra esitò, riflettendo. Lei era giunta presso Bevyan quando era ancora
bambina dopo essere rimasta orfana, e la quantità di tempo trascorsa da allora
era indicata dal grigio che le solcava i capelli alle tempie.
«Ecco» rispose infine. «Il nostro posto è accanto alla Regina Abrwnna, mia
signora, ma anche se non dovrei ammettere una cosa tanto vergognosa con-
fesso di avere una paura terribile di trovarmi intrappolata in un assedio.»
«Ne ho anch'io. Gli uomini di Cerrmor sono arrivati quasi alle nostre terre,
vero? A volte mi chiedo cosa porterà quest'estate.»
Sarra si accostò una mano alla gola con aria sgomenta.
«Però non dobbiamo ancora perdere la speranza» continuò Bevyan, assu-
mendo un tono deciso. «Gli dèi ci daranno il Wyrd che vorranno e non c'è
nulla che noi si possa fare al riguardo.»
«Questo è vero.»
«Quanto alle cose per cui possiamo fare qualcosa» proseguì Bevyan, con
un sospiro, «sono preoccupata per la piccola Lillorigga, e in tutta franchezza
se deciderò di partire lo farò soltanto per lei. Continuo a chiedere sue notizie
ma nessuno me ne manda mai.»
«Bah, di certo sua madre non si prenderà un simile disturbo» dichiarò Sar-
ra, con una nota gelida nella voce. «Credi che potremmo persuadere Lady
Merodda a permetterci di portare sua figlia con noi a Hendyr? Dopo tutto qui
l'aria è più pulita e quando era presso di te quella povera bambina si era fatta
un fiore.»
«Può darsi che Merodda sia lieta di liberarsi di lei, quindi vale la pena di
tentare. Ora ti dico cosa faremo: partiremo domani con il mio signore ma non
c'è motivo che noi si debba trascorrere tutta l'estate a Dun Deverry e comun-
que se la situazione dovesse farsi pericolosa i nobili manderanno senza dub-
bio le donne al sicuro.»
«È vero. Allora devo avvertire i paggi?»
«Certamente. Avvisa che tengano pronti i nostri cavalli e prepariamo una
cassa di abiti da caricare su uno dei carri. Ecco, ora che ho deciso mi sento
già meglio.»
Nel pronunciare quelle parole Bevyan si soffermò però a guardare fuori
della finestra, dove il sole stava tramontando fra veli di caligine che proietta-
vano lunghi striscioni dorati nel cielo, simili alle bandiere di un esercito in
avvicinamento, e di fronte a quello spettacolo il solito pensiero traditore tornò
ad affiorarle nella mente: cosa sarebbe successo se quell'estate l'esercito di
Maryn avesse posto fine alla guerra? In caso di vittoria lui aveva promesso
l'amnistia e un perdono completo ai nobili che avevano combattuto con tanta
determinazione contro di lui. Possibile sperare che la prossima estate non
portasse nuove battaglie?
«Mia signora?» chiamò Sarra. «Hai un'aria così distante.»
«Davvero, mia cara? Forse è perché mi duole un poco la testa. Scendiamo
nella grande sala a mangiare qualcosa.»
I nobili e i loro cavalieri si erano radunati nella grande sala, per lo più in
piedi e intenti a bere birra mentre parlavano fra loro in tono urgente, pieni di
tensione per motivi che andavano ben al di là della mancanza di posti a sede-
re e con voci che echeggiavano stranamente sommesse nella sala semivuota.
Al suo ingresso Bevyan effettuò un rapido conto dei nobili presenti: erano
soltanto quattro e ciascuno di essi aveva l'obbligo di portare appena quaranta
uomini per infoltire gli ottanta forniti da suo marito e i centosessanta di cui
disponeva il gwerbret.
Daeryc, Gwerbret di Belgwergyr e signore di suo marito, sedeva a capo
della tavola alta mentre il Tieryn Peddyc aveva preso posto alla sua destra e il
loro ultimo figlio ancora in vita, Anasyn, sostava alle spalle di Sua Grazia,
pronto a servirlo come un paggio.
Chiunque avesse visto insieme Peddyc e Anasyn non avrebbe avuto il mi-
nimo dubbio sul fatto che fossero padre e figlio in quanto entrambi avevano il
volto lungo, il naso sottile e infossati occhi castani; l'unica differenza erano i
capelli, in quanto quelli di Peddyc erano ormai tutti grigi mentre Anasyn con-
servava una folta capigliatura castana. Nel veder sopraggiungere sua moglie,
Peddyc si alzò in piedi e le andò incontro con un sorriso sulle labbra.
«Eccoti qui» la salutò. «Mi stavo chiedendo se per caso non ti sentissi ma-
le.»
«Non sto male, mio caro, stavo solo riflettendo. Ho deciso che è meglio
che venga con te quando partirai per Dun Deverry.»
«Bene, là sarai al sicuro» approvò Peddyc, mentre il suo sorriso svaniva.
«Intendo privare la fortezza della sua guarnigione.»
Bevyan si portò una mano alla gola per lo sgomento e nel sentire il volto
gelato per il defluire del sangue si chiese se fosse impallidita.
«Ecco, non siamo ancora sconfitti» continuò Peddyc, abbassando la voce.
Se per te e le tue donne dovesse venire il momento di lasciare Dun Deverry ti
rimanderò qui con una scorta adeguata, quanto a questo non hai da temere.
Dovrai soltanto tenere chiuse le porte per il tempo necessario a giungere a un
accordo con il Pretendente.
«Capisco» mormorò Bevyan, deglutendo a fatica, poi si schiarì la gola e
aggiunse: «Naturalmente il mio signore sa cosa sia meglio fare.»
«Preghiamo di non dover pensare a questo genere di cose, Bevva» sorrise
Peddyc, accarezzandole il volto. «Ora vieni a intrattenere il nostro gwerbret.
Se non altro tu e io andremo a corte insieme, e ciò che accadrà dopo lo sanno
soltanto gli dèi.»
Peddyc sollevò quindi lo sguardo e nel seguirne la direzione Bevyan si rese
conto che lui stava fissando la fila di bandiere in stoffa oro e verde, sbiadite e
chiazzate dal tempo... gli stendardi dell'Ariete che risalivano a tempi imme-
mori... e si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che una mano nemica
li strappasse da quelle pareti.

«I presagi?» esclamò Merodda. «I presagi sono orribili.»


«Sembri spaventata» commentò Burcan.
«È ovvio che sono spaventata. Suppongo che questo faccia di me una po-
vera donna debole e degna di disprezzo.»
«Non direi proprio» replicò Burcan, secondo figlio del clan del Cinghiale e
Reggente del re, concedendosi un asciutto sorriso. «Direi invece che ti rende
una donna di buon senso.»
Merodda si concesse un breve sospiro.
Nel cuore della notte, i due erano seduti nella camera privata di Merodda,
lei su una sedia intagliata accostata al fuoco e lui su un'altra sedia vicina al
tavolo; le candele che ardevano nella stanza erano state accese da poco e
Brour se n'era andato da tempo dopo aver fatto sparire ogni traccia della sua
ciotola di inchiostro nero.
«Vorrei avere per te notizie migliori» continuò Merodda, «ma qui a corte
abbiamo un nemico.»
«Per sapere questo non servono i presagi. Tutti invidiano il nostro clan.»
«Questo è diverso. Nei presagi un grifone rosso è sceso in picchiata dal cie-
lo e ha ucciso un cinghiale.»
«Cosa? Vorrei che non parlassi per enigmi.»
«Mi pareva di essere stata abbastanza chiara. Lo stendardo del re è un gri-
fone verde, quindi è evidente che qualcuno vicino alla famiglia reale sta
complottando per soppiantarci.»
Burcan accennò a ribattere, poi però tacque e si limitò ad accarezzarsi i fol-
ti baffi grigi, immerso nelle riflessioni.
«Hai ragione» disse infine. «Ora che me lo hai spiegato è tutto chiarissimo.
Non so perché ma faccio fatica a capire cose come i presagi.»
«Non hai bisogno di capirle. Hai me.»
Per un momento i due si scambiarono un sorriso, poi dal fuoco si levò una
pioggia di scintille quando un ceppo si consumò del tutto e Burcan si alzò per
andare a prendere da un cesto un nuovo ceppo di legno che getto fra le fiam-
me, indugiando poi per qualche istante a guardarlo bruciare.
«Hai idea di chi possa essere questo nemico?» chiese infine.
«Non ancora. Hai ragione a parlare di invidia perché molti clan hanno mo-
tivo di odiarci. È solo che non mi ero resa conto di quanto potesse essere pro-
fondo il loro odio.»
«Ci penserò su. Hai detto che si trattava di un grifone? Quindi forse è qual-
cuno che ha nelle vene un po' di sangue reale.»
«Ecco! Vedi che cominci a risolvere l'enigma?»
«Davvero? Può darsi, ma non so se la cosa mi piace. Quel tuo cosiddetto
scriba... sei certa di poterti fidare di lui?»
«Non lo so. È venuto da me in cerca di denaro, e se qualcuno gliene offris-
se di più non posso garantire che non sarebbe disposto a cambiare bandiera.»
«Lo pensavo. Quell'uomo non mi piace.»
«Perché?»
«Viene dalla costa meridionale, giusto?»
«Non proprio. Viene dalle terre del settentrione, anche se ha vissuto a Cer-
rmor per qualche anno.»
«Comunque come puoi sapere che non è una spia di Cerrmor?»
«Come ben sai ho dei modi per stabilire se qualcuno mi sta mentendo. C'è
qualcosa d'altro, vero?»
«Non mi piace il modo in cui ti tratta» ammise Burcan, fissando il pavi-
mento con espressione accigliata.
«Cosa? È sempre cortese.»
Burcan sollevò il capo e la scrutò in silenzio, sondandola con lo sguardo
come a cercare qualche segreto, un atteggiamento che indusse Merodda ad
alzarsi in piedi con una risatina.
«Non mi dire che sei geloso del povero Brour!» esclamò.
«Non mi piace il fatto che è sempre in tua compagnia» ribatté Burcan, al-
zandosi a sua volta.
Sorridendo, lei gli posò una mano sul petto e sollevò lo sguardo a incontra-
re il suo, inducendolo a coprirle la mano con la propria.
«Mio caro fratello» gli disse poi, «lui è piccolo e brutto, quindi non hai mo-
tivo di tormentarti a causa sua.»
«Bene. Nel momento in cui dovessi avere il sospetto che possa tradirci av-
vertimi e me occuperò io.»

Viaggiare con il seguito dei Gwerbret Daeryc, con i lord al suo servizio e le
loro bande di guerra congiunte, più i servitori e il seguito di ciascun nobile,
non era certo una cosa veloce, soprattutto con l'ingombro dei carri e di intere
mandrie di cavalli, quindi per evitare di essere sballottata su un carro insieme
alle serve Bevyan preferì indossare sotto gli abiti un paio di vecchi calzoni di
suo figlio e montare a cavallo, come fece anche Sarra. Nello schieramento
della lunga colonna in marcia esse si trovavano subito dietro i nobili, anche
se di tanto in tanto Peddyc rimaneva indietro rispetto agli altri e procedeva
accanto alla moglie per qualche chilometro. Cavalcare in quelle giornate di
primavera in mezzo al grano invernale che cominciava a maturare e agli albe-
ri di melo carichi di boccioli profumati era così piacevole che Bevyan si sor-
prese a ricordare i primi tempi del suo matrimonio, quanto lei e Peddyc erano
soliti vagare insieme a cavallo per quelle terre, soli tranne per un paggio che
li seguiva con discrezione, tenendosi a distanza. Quei giorni erano stati per lei
particolari e sconvolgenti, perché si era resa conto di aver sposato un uomo
che avrebbe imparato ad amare.
Adesso naturalmente il suo compagno aveva i capelli brizzolati e cavalcava
cupo e silenzioso, mentre dietro di loro si snodava l'esercito che lui e il suo
signore erano riusciti a raccogliere.
L'intenzione del gwerbret e dei suoi nobili era stata quella di chiedere asilo
per la notte presso le diverse fortezze di numerosi signori che dovevano un
tributo in armigeri ai tieryn o al gwerbret stesso, ma quella prima notte di
viaggio, quando arrivarono alla fortezza di un certo Lord Daryl, la trovarono
del tutto vuota, senza neppure un pollo che razzolasse nel cortile o un servito-
re che si aggirasse nella rocca. Mentre Daeryc e gli uomini; aspettavano nel
cortile, Bevyan accompagnò Peddyc in una rapida perquisizione delle stanze
svuotate di ogni cosa.
«Hanno portato via anche il mobilio» osservò, «perfino i letti. Il loro sarà
un viaggio lungo e faticoso, se hanno intenzione di trasportare tutte queste
suppellettili fino a Cerrmor.»
Peddyc annuì in silenzio, lasciando vagare lo sguardo su quella che era sta-
ta la camera da letto del signore della fortezza e della sua dama, poi d'un trat-
to sorrise e si chinò per sfilare qualcosa che si era infilato nella fessura fra
due assi.
«Una moneta d'argento» commentò con un sorriso sempre più accentuato.
«La terrò come tributo: questa è una moneta che non verrà utilizzata per
comprare cavalli per l'esercito dell'Usurpatore.»
La seconda notte di viaggio portò con sé una sorpresa ancora più sgradevo-
le quando scoprirono che la fortezza di Lord Ganedd aveva le porte sprangate
dall'interno per impedire loro l'accesso. Avanzando in sella ai loro cavalli,
Daeryc e Peddyc chiamarono a gran voce Ganedd senza ottenere risposta e
senza che nessuno apparisse sulle mura, neppure per scagliare loro contro de-
gli insulti. Nonostante quell'assenza di risposte era però evidente che la for-
tezza era abitata e piena di vita, perché nelle lunghe pause di silenzio Bevyan
sentì di tanto in tanto un cane abbaiare o un cavallo nitrire, e una volta le par-
ve addirittura di vedere un volto affacciarsi a una finestra, in alto nella rocca.
Quando infine tornarono a raggiungere il seguito in attesa, Daeryc e
Peddyc erano rossi in volto per l'ira e stavano imprecando sonoramente.
«Significa che sono neutrali?» domandò Anasyn. «Oppure sono passati al-
l'Usurpatore?»
«Come posso saperlo, giovane idiota?» ringhiò Peddyc. «Oh, scusami San-
no, mi dispiace, non ha senso prendersela con te per questo.»
Quando la colonna si accampò sui pascoli erbosi da cui erano stati allonta-
nati gli armenti, Bevyan chiese ai servi di accendere un fuoco separato per le
donne, che per tutta la sera sedettero raccolte intorno alle fiamme scambian-
dosi timori e pettegolezzi senza cessare di guardare in direzione del fuoco
degli uomini, distante una decina di metri, dove Peddyc e Daeryc continua-
vano a camminare avanti e indietro parlando animatamente fra loro.
La terza sera fu quindi con animo incerto che la colonna si avvicinò alla
fortezza di Lord Camlyn, ma al loro arrivo trovarono le porte spalancate e
Lord Camlyn in persona, un giovane alto dai folti capelli rossi, uscì ad acco-
glierli seguito da quattro grossi cani per la caccia al cinghiale che latravano
eccitati. Dopo aver fatto tacere i cani, Camlyn si avvicinò al gwerbret e gli af-
ferrò la staffa in una dimostrazione di fedeltà.
«Che accoglienza ha ricevuto Vostra Grazia da parte di Ganedd?» chiese
quindi.
«Dannatamente ostile» ribatté Daeryc. «Sono lieto di vedere che tu sei an-
cora fedele al vero re. Quest'autunno, quando muoveremo contro Ganedd, le
sue terre diventeranno tue.»
Quella sera a cena la conversazione si accentrò prevalentemente su chi a-
veva infranto il giuramento di fedeltà passando all'Usurpatore, chi stava mi-
nacciando di tenersi neutrale e chi invece stava cercando ogni modo per sot-
trarsi all'obbligo di fornire armigeri e le provviste per nutrirli. Dal momento
che la sala di Camlyn era troppo povera per contenere più di una tavola alta,
Bevyan sentì ogni cosa mentre in fondo al tavolo divideva il contenuto di un
vassoio di legno con Varylla, la moglie di Camlyn; per un tacito accordo, nel
corso della cena le due donne rimasero per lo più in silenzio, limitandosi ad
ascoltare i discorsi degli uomini che si andavano accalorando sempre più.
Quando infine i paggi procedettero a servire il sidro di fine pasto, il Gwerbret
Daeryc aveva ormai accantonato ogni diplomazia nell'esprimersi.
«La causa di tutti questi guai è quel dannato clan del Cinghiale» ringhio.
«Gli uomini sarebbero pronti a raccogliersi a difesa del re, ma chi è disposto
ad accorrere in difesa del Cinghiale?»
«Proprio così» convenne Camlyn. «Queste guerre li hanno arricchiti men-
tre il resto di noi... ecco, un bel giorno ci ritroveremo tutti a mendicare in
mezzo a una strada.»
I due poi si girarono a fissare Peddyc, in attesa di un suo commento.
«Non ho nessuna simpatia per Burcan o per Tibryn» affermò questi, «ma
se fosse stato il re a sceglierli sarei pronto a servire la loro causa.»
«Mi piace quel se» affermò Daeryc, poi s'interruppe per masticare con cau-
tela in quanto aveva perso la maggior parte dei denti e poteva usare soltanto
un lato della bocca e infine aggiunse: «Anch'io farei lo stesso, se...»
Peddyc lanciò un'occhiata verso il fondo della tavola e intercettò lo sguardo
di Bevyan, che rispose alla sua tacita domanda con una lieve scrollata di spal-
le, in quanto pareva che fra quella gente non ci fossero rischi a esprimere i
dubbi che entrambi nutrivano da tempo.
«Ecco» riprese quindi Peddyc, «dicono che Re Daen abbia nominato Bur-
can reggente in punto di morte, però io non ero là a sentire le sue parole.»
«E neppure io» scattò Camlyn.
«Neanch'io c'ero, e considerato che la vedova di Daen è così strettamente
imparentata con il Cinghiale...»
Daeryc lasciò la frase in sospeso e trangugiò un lungo sorso di sidro.
«I porci scavano le radici» commentò Camlyn, in tono assorto. «Se permet-
ti loro di pascolare su un prato strappano le radici con le zanne e le calpesta-
no fino a far morire tutta l'erba.»
«In quel caso c'è una sola cosa da fare, ed è allontanarli dal pascolo» repli-
cò Peddyc.
«In effetti è la sola cosa da fare» convenne Daeryc, poi ebbe un lungo mo-
mento di esitazione e infine concluse: «Però per farla conviene avere un por-
caro che disponga di cani ben addestrati.»
I tre uomini si scambiarono una lunga occhiata piena di significato che eb-
be l'effetto di raggelare progressivamente Bevyan, come se un vento inverna-
le avesse preso a soffiare nella sala. Sgomenta, si volse verso Varylla.
«Mi piacerebbe vedere i ricami che stai facendo» le disse. «I tuoi lavori so-
no così belli.»
«Ti ringrazio, mia signora» rispose Varylla, con un timido sorriso. «Vuoi
salire con me nelle mie camere?»
Mentre si avviavano insieme verso le scale, Bevyan intercettò lo sguardo di
Peddyc che le strizzò l'occhio in segno di ringraziamento anche se il sorriso
che gli aleggiava sul volto appariva forzato... e del resto come avrebbe potuto
non essere tale, visto che lui e gli altri nobili stavano parlando di tradimento?
Sul finire del giorno successivo, con l'esercito ingrossato da Lord Camlyn e
dai suoi uomini, il seguito del Gwerbret Daeryc raggiunse la città, che si le-
vava su quattro colli dietro una massiccia doppia cerchia di mura dotate di
bastioni e di torri. Una strada rivestita di acciottolato si snodava dalle porte
principali, rinforzate in ferro e decorate con lo stemma reale del grifone ram-
pante intagliato nel legno, e al lati delle porte era schierata una guardia d'ono-
re che sfoggiava camicie riccamente ricamate e che s'inchinò al passaggio del
gwerbret e del suo seguito. Non appena oltrepassate le porte, però, all'interno
della città ogni parvenza di splendore scomparve del tutto.
Lo spazio al di là delle mura era cosparso di rovine e di mucchi di pietra in
mezzo ai quali marcivano travi carbonizzate che indicavano lo scempio cau-
sato dall'ultimo assedio, intervellati, a tratti in cui la polvere copriva pietre
rase al suolo in anni remoti. La maggior parte delle case ancora in piedi era
stata abbandonata, con i cortili ora soffocati dalle erbacce, le finestre vuote,
la paglia del tetto marcita da tempo e sparsa sulle strade dal vento. Nel centro
della città, intorno e in mezzo alle due colline principali, Bevyan scorse però
alcune case ancora abitate e circondate da giardini coltivati a orto; qua e là
alcuni bambini giocavano nei vicoli fangosi e assai più numerosi erano i vec-
chi, chini ad accudire il loro orto o seduti su una panca davanti a casa per ve-
der passare l'esercito del gwerbret senza però che nessuno applaudisse o gri-
dasse d'entusiasmo. Dopo un po' Bevyan si girò sulla sella per guardare verso
suo marito.
«Quest'estate la situazione è ancora peggiore di quella passata» commentò.
«Mi riferisco alla città... è così desolata.»
«Infatti» annuì Peddyc. «Tutti quelli che potevano andarsene lo hanno fat-
to.»
«Ma dove sono andati?»
«Presso dei parenti, suppongo. Gli dèi sanno che di questi tempi le terre
coltivate che giacciono a maggese sono anche troppe. Dovunque nuova mano
d'opera sarà la benvenuta.»
«È così strano vedere tutte quelle case vuote. Non credo che sia rimasto
nessuno della milizia per aiutare a difendere le mura cittadine.»
«Infatti è così» ammise Peddyc, distogliendo lo sguardo. «Se quest'estate ci
sarà un assedio dovremo abbandonare la città all'Usurpatore e difendere solo
la fortezza.»
O tentare di difenderla... Bevyan ebbe l'impressione di sentire quel pensie-
ro aleggiare nell'aria come un nobile ribelle e all'improvviso si rese conto che
quell'estate avrebbe potuto facilmente portare con sé la morte di suo marito.
D'altro canto affrontava ormai da così tanti anni la prospettiva della vedovan-
za che l'idea non aveva più l'effetto di spaventarla ma soltanto quello di de-
stare la sua ira.
Contrariamente alla città, la fortezza sembrava essere in buone condizioni.
La colonna attraversò cinta dopo cinta di mura protettive, percorrendo una
strada a spirale che portava in cima alla collina, e infine superò un piccolo
villaggio che sorgeva addossato all'ultima cerchia di mura e che ospitava i
servitori più importanti del re, i fabbri e altra gente del genere. Una volta al-
l'interno del cortile del palazzo, Bevyan vide abbondanza di uomini armati
che levarono infine grida di entusiasmo nel vedere il Gwerbret Daeryc e il
suo contingente, mentre davanti alle porte della grande sala si accalcavano
paggi e servitori in attesa di prendere in consegna i cavalli e di scaricare i car-
ri. Quando si fermarono, Bevyan attese che Peddyc scendesse di sella e che
l'aiutasse a smontare a sua volta.
«La mia presenza è richiesta al fianco del gwerbret» le disse Peddyc.
«È naturale, mio caro» annuì Bevyan, battendogli un colpetto sul braccio.
«Del resto sono già stata qui tante volte che sono in grado di provvedere da
sola a me stessa e alle mie donne.»
Con un cenno di assenso Peddyc si allontanò a grandi passi impartendo or-
dini ai suoi uomini e Anasyn lo seguì senza neppure guardarsi indietro. Nel
vedere come suo figlio si trovasse a proprio agio anche nella fortezza del re,
Bevyan pensò con un sorriso che ormai era proprio diventato un uomo.
«Bevva!»
«Correndo come un cane che si precipitasse ad accogliere il suo padrone,
Lillorigga attraversò il cortile e si gettò fra le braccia della madre adottiva,
che la tenne stretta a sé ridendo e piangendo al tempo stesso.»
«Lascia che ti guardi, cara» disse infine Bevyan, allontanandola da sé.
«Oh. quanto ti sei fatta alta! E quanto mi fa piacere vederti!»
Lillorigga era raggiante, ma per quanto si fosse limitata a commentare sulla
sua statura, Bevyan non aveva mancato di notare come lei apparisse magra e
pallida, con i lunghi capelli biondi che le ricadevano flosci e opachi intorno al
volto. Per un momento pensò che potesse trattarsi di un problema di vermi,
una cosa che si presentava sempre d'inverno in tutte le fortezze, anche in
quella del re, ma poi pensò a Lady Merodda e si chiese se quella sua supposi-
zione fosse esatta. D'altro canto là, in mezzo al trambusto del cortile, con
uomini armati che andavano e venivano e con i servitori che passavano loro
accanto di continuo, non era possibile parlare apertamente di nulla, neppure
di questioni di salute.
«Vieni con me, mia cara» suggerì quindi. «Dopo che avrò portato le nostre
cose nelle camere a noi riservate potremo parlare un poco.»
Un servitore le informò che per ordine della regina a Lady Bevyan e alla
sua serva era stato assegnato un grosso appartamento nella rocca stessa del
re, e mentre i servitori trasportavano fin là casse e sacchetti sotto l'attento
controllo di Sarra, Bevyan e Lilli sostarono insieme vicino a una finestra la-
sciando vagare lo sguardo sul cortile interno e godendo della luce del sole
che si riversava nella camera.
«L'inverno è stato duro, vero?» commentò Bevyan, vedendo Lilli protende-
re con una risata le mani verso il gradito calore del sole.
«Infatti. Sono così contenta che sia arrivata la primavera, anche se...» inter-
rompendosi, Lilli lasciò a mezzo la frase.
«Anche se questo farà ricominciare la guerra?»
«Proprio così. Oh, Bevva, sono talmente stanca di avere paura!»
«Lo siamo tutte, mia cara, ma gli dèi porranno fine alla guerra quando vor-
ranno e non un momento prima, quindi non c'è nulla che noi donne possiamo
fare.»
Mentre parlava Lilli si girò verso di lei con aria tanto furtiva che Bevyan
dimenticò quello che era stata sul punto di dire.
«Lilli, c'è qualcosa che non va?»
«Nulla, proprio nulla» garantì lei, ma al tempo stesso si smentì con il gesto
con cui si portò alla gola una mano smagrita.
«Sei stata malata, vero, cara?» insistette Bevyan.
«Un poco, ma adesso sto bene, davvero» replicò Lilli. poi si volse a guar-
dare verso la stanza ed esclamò: «Sarra, eccoti qui, finalmente! Hai fatto un
buon viaggio?»
Bevyan intanto si chiese fra sé cosa stesse nascondendo la ragazza ma non
fece domande perché sapeva che presto o tardi Lilli si sarebbe confidata con
lei e preferiva aspettare che la ragazza fosse pronta a parlargliene.
Ben presto Bevyan si rese conto che i problemi presenti nella fortezza era-
no più di uno. Quella sera nel corso della cena Peddyc ricevette l'onore di se-
dere alla tavola del re mentre Anasyn venne sistemato con un gruppo di gio-
vani nobili scapoli e Bevyan e Lilli si accomodarono insieme a una delle ta-
vole riservate alle nobildonne, condividendo un vassoio anche se passarono
più tempo a parlare che a mangiare. Il giovane re scese a cena per tempo,
scortato dal Reggente Burcan, la regina si fece vedere invece solo molto più
tardi, facendo il suo ingresso nella sala insieme a un gruppo di giovani donne.
La Regina Abrwnna era una bella ragazza più o meno della stessa età di Lilli.
con grandi occhi verdi e capelli ramati che alla luce incerta del fuoco scintil-
lavano come fili d'oro, ma quella sera pareva che avesse pianto, in quanto i
suoi occhi erano arrossati e la bocca era contratta in un'espressione imbron-
ciata tutt'altro che gradevole. Mentre il gruppo le passava accanto nel diriger-
si verso il tavolo a loro riservato, Bevyan si accorse che una delle dame di
compagnia della regina, anch'essa giovane e bella, era a sua volta accigliata e
sfoggiava un livido purpureo su una guancia.
«Oooh, guai in vista» sussurrò Lilli. «Scommetto che Abrwnna ha scoperto
la faccenda di Galla e di Lord Aedar.»
«Una tresca amorosa?»
«Proprio così, e scommetto che Abrwnna è gelosa. Vedi, c'è un gruppo di
giovani nobili che si sono votati a lei... alla regina, intendo, non a Galla. Essi
portano tutti in battaglia un suo pegno, credo un pezzetto di qualche suo vec-
chio abito, e comunque Abrwnna non tollera che una delle sue dame abbia
una storia con uno di loro... uno dei nobili a lei votati, intendo.»
Bevyan posò il coltello e indugiò a osservare il seguito della regina che
stava prendendo posto al tavolo a esso riservato.
«Davvero interessante» replicò poi in tono pacato. «E quanti sono questi
nobili?»
«Solo sei. È un grande onore essere accolti a far parte di quel gruppo.»
«Non ne dubito. Spero solo che la loro sia una devozione innocente» ribat-
té Bevyan, e quando Lilli si girò a fissarla con espressione interdetta prose-
guì: «La moglie del re deve essere assolutamente al di sopra di ogni sospetto,
altrimenti come si potrà credere che porti in seno il vero erede, quando reste-
rà incinta?»
«Oh, questo!» sorrise Lilli, perdendo l'espressione confusa. «D'altro canto
il re ha solo cinque anni e passerà ancora parecchio tempo prima che possa
farle generare un figlio.»
«È quello che intendevo dire.»
«Oh... capisco» mormorò Lilli, assumendo un'espressione solenne.
Durante il resto del pasto la ragazza indicò a Bevyan i diversi nobili che
formavano la Compagnia della Regina, tutti di aspetto abbastanza attraente e
tutti facoltosi, e per quanto continuasse a ripetersi che si stava trasformando
in una vecchia dalla mente meschina Bevyan non poté evitare di chiedersi
quanto fosse rischiosa quella situazione quando vide i diversi nobili in que-
stione inchinarsi davanti alla regina e baciarle la mano. L'onore della discen-
denza reale si basava sulla virtù della regina, che non poteva concedersi le
piccole libertà che si prendevano le altre nobildonne. D'altro canto, essendo
soltanto la moglie di un semplice tieryn, Bevyan non era nella posizione di
poter rivolgere un ammonimento alla sovrana, quindi fece del suo meglio per
allontanare la cosa dalla propria mente.
Verso la fine del pasto Bevyan e Lilli stavano dividendo un vassoio di mele
secche quando un paggio si diresse verso di loro e dopo essersi inchinato a
Bevyan si rivolse a Lilli.
«Tua madre desidera vederti» annunciò. «Nelle sue camere.»
Lilli si tinse di un pallore mortale.
«Cosa c'è che non va, mia cara?» le chiese Bevyan.
«Oh, vorrà parlare del mio matrimonio» spiegò Lilli, girandosi a fissarla
con espressione angosciata. «È una cosa che detesto.»
Per quanto quella fosse una spiegazione plausibile, Bevyan aveva allevato
troppi figli adottivi per non essere in grado di riconoscere una menzogna
quando la sentiva, e mentre osservava Lilli allontanarsi levò in cuor suo una
preghiera di ringraziamento alla Dea per averla indotta a decidere di venire a
Dun Deverry.
Quella sera però Lilli aveva involontariamente detto la verità. Quando arri-
vò nella camera di sua madre, la trovò ad attenderla in compagnia di entrambi
i suoi zii e vide che per l'occasione era stato steso sul tavolo un panno bianco
su cui ardevano alcune candele che illuminavano un'ammaccata caraffa d'ar-
gento e alcuni boccali di terracotta. Burcan sedeva di fronte a Merodda su
una sedia coperta da un cuscino mentre il Gwerbret Tibryn era in piedi accan-
to al camino nel quale un piccolo fuoco era stato acceso per dissipare il fred-
do della sera.
«Entra, bambina, e siediti» disse Merodda, indicando uno sgabello posto
accanto alla sua sedia.
Lilli obbedì dopo aver rivolto una riverenza ai suoi zii, che la fissarono en-
trambi con freddezza per un lungo momento.
«È tempo che ti sposi» annunciò quindi Merodda. «Ormai hai finito il pe-
riodo di tutela da... da due anni, vero?»
«Sì, madre.»
«Benissimo. Noi abbiamo discusso della cosa, perché dobbiamo decidere
in che modo il tuo matrimonio possa tornare maggiormente a beneficio del
clan.»
Tutti parvero aspettare che lei dicesse qualcosa, ma Lilli si limitò a sfog-
giare un sorriso incerto e a serrare le mani per nasconderne il tremito.
«Tuo zio Tibryn vuole darti in moglie a uno degli alleati che ha in Cantrae,
su nel nord» riprese infine Merodda. «Si tratta del Tieryn Nantyn.»
«Ma è così vecchio!» esclamò suo malgrado Lilli, poi si pentì immediata-
mente di quella reazione e si ritrasse, aspettandosi che sua madre la schiaf-
feggiasse.
Invece Merodda le posò una mano sulla spalla con fare ammonitore e strin-
se un poco, ma non tanto da farle male, mentre Tibryn si limitò a fissarla con
occhi roventi e con la bocca contratta in una linea sottile sotto i folti baffi.
«È peggio che vecchio» ringhiò intanto Burcan. «È un uomo brutale che ha
già seppellito una moglie.»
«È vero» convenne Tibryn in tono asciutto, «ma chi può dire che lui abbia
avuto qualcosa a che fare con la sua morte? O forse avete ascoltato i pettego-
lezzi delle donne?» aggiunse, scoccando una fugace occhiata alla sorella pri-
ma di distogliere lo sguardo.
«E perché Merodda non avrebbe dovuto ascoltarli?» ribatté Burcan. «Dopo
tutto, Lilli è la sua unica figlia.»
«Vostra Grazia?» intervenne Merodda. «Veder mandare così lontano la sua
unica figlia addolorerebbe qualsiasi donna.»
«Oh, dèi!» esclamò Tibryn. «Avresti dovuto fare il bardo, Rhodi! Una po-
vera vecchia addolorata e la sua unica figlia!»
«Non essere così crudele! Voglio che Lilli resti vicino alla corte. Tu sei il
mio fratello maggiore e il capo del nostro clan, ma di certo non vorrai proibi-
re a una madre di parlare.»
«Potrebbero essere gli dèi stessi a proibirti di parlare e questo non servi-
rebbe a farti tacere» commentò Tibryn con una secca risata, «quindi perché
dovresti dare ascolto a un semplice mortale? Nantyn è importante per me. Fi-
nora tutti i signori del settentrione ci sono rimasti fedeli ma adesso questi di-
scorsi relativi al perdono promesso dall'Usurpatore stanno turbando molti
cuori.»
«Ci sono altri modi per legare un uomo al suo gwerbret» intervenne Bur-
can. «Fra Nantyn e me esiste una disputa relativa a un appezzamento di terre-
no. Se lo riterrai necessario lo cederò a lui.»
Tibryn si girò verso il fratello minore e parve sul punto di replicare, ma poi
esitò quando Burcan sostenne con fermezza il suo sguardo.
«Se la cosa ti importa fino a questo punto, per me va bene» disse.
«Vostra Grazia ha la mia gratitudine.»
«E anche la mia» aggiunse Merodda. lasciando andare la spalla di Lilli e
appoggiandosi allo schienale della sedia. «Hai i miei umili, umilissimi rin-
graziamenti.»
«Chi intendete proporre, allora?» chiese il gwerbret. «Se non dobbiamo
mandarla presso un nobile del settentrione, qual è il modo migliore per spen-
dere questa moneta di cui disponiamo?»
«Ci ho pensato sopra» rispose Burcan, «e tutto considerato credo che forse
sarebbe meglio tenerla nel clan. O forse vuoi che un giorno tua nipote e suo
figlio vengano tenuti in ostaggio da qualcuno passato dalla parte dell'Usurpa-
tore? Consegnargli Lilli potrebbe essere per un suo nuovo vassallo un modo
eccellente di dimostrare la propria fedeltà.»
«Questo è vero» convenne Tibryn, e infine aggiunse, scuotendo il capo:
«C'è sempre tuo figlio, Braemys.»
«Uh... ecco, io stavo pensando piuttosto a uno dei nobili nostri lontani pa-
renti...» cominciò Burcan.
«Perché? Se dobbiamo tenerla vicino al cuore del clan allora facciamo le
cose come si deve. Alcuni dei nostri cugini sarebbero pronti a tagliarmi la go-
la se pensassero di poter così salvare il loro collo dal boia dell'Usurpatore e
senza dubbio farebbero lo stesso con te.»
«Non posso certo negare che sia così, ma...»
«Ma cosa?» lo interruppe Tibryn, accantonando quell'obiezione con un ge-
sto della mano. «Un matrimonio fra cugini è un modo eccellente per mante-
nere intatte le terre di un grande clan. Naturalmente Lilli porterà in dote le
terre del suo defunto padre, visto che anche i suoi fratelli sono morti, e mi
piacerebbe che le avesse Braemys perché sono tenute che vale la pena di
mantenere in possesso del Cinghiale. Inoltre» continuò, rivolto ora a Merod-
da, «in qualità di figlio del Reggente lui e sua moglie vivranno a corte per la
maggior parte del tempo.»
«Proprio così, Vostra Grazia» convenne Merodda, scoccandogli un brillan-
te sorriso. «Fratello, perché hai l'aria turbata?»
Nel guardare suo zio Burcan, Lilli pensò che più che turbato questi sem-
brava abbastanza furioso da poterla strozzare, ma poi l'ira svanì dal suo volto
e venne sostituita da un asciutto sorriso.
«Un uomo si sente vecchio quando vede che anche il suo figlio più giovane
si sposa» affermò con disinvoltura.
«È successo anche a me» annuì Tibryn. «Bene, io considero risolta la que-
stione. Rhodi, che ne dici di servire un po' di sidro?»
«Certamente!» esclamò Merodda, alzandosi dalla sedia e avviandosi verso
il tavolo, poi però si guardò alle spalle e domandò: «Lilli, tu non hai obiezio-
ni, vero?»
«Nessuna, madre. Ho sempre saputo che mi sarei sposata con qualcuno
scelto dal clan.»
«Bene» approvò Tibryn. «Sei una brava ragazza. Comunque Braemys è un
ragazzo avvenente e un abile cavaliere.»
«E cosa mi dici di te?» insistette Merodda, rivolta ora a Burcan. «Questa
scelta ti va bene, fratello?»
«Abbastanza» replicò Burcan con espressione neutra. «Ora sarà meglio
cominciare a discutere della dote e del prezzo nuziale.»
«Suvvia!» esclamò Tibryn. «Le terre che la ragazza porta in dote dovrebbe-
ro essere sufficienti per qualsiasi uomo, Burco!»
«Verissimo» annuì Merodda, poi si girò verso Lilli e ordinò: «Adesso ci
puoi lasciare soli.»
Alzatasi in piedi, Lilli eseguì una riverenza e fuggì con sollievo dalla stan-
za, scendendo a precipizio la scala fino al primo pianerottolo per poi soffer-
marsi a osservare la grande sala, illuminata dalla luce del fuoco e traboccante
di armati. Sapeva che Braemys aveva lasciato Dun Deverry alcuni giorni
prima, diretto alle terre di suo padre per radunare i loro alleati, ma del resto il
compito di informarlo del fidanzamento spettava comunque a Burcan, che
forse gli avrebbe inviato un messaggero o più probabilmente avrebbe aspetta-
to che suo figlio tornasse a corte. Nel pensare a Braemys, Lilli si chiese se lui
sarebbe stato contento o se invece si sarebbe semplicemente sentito sollevato
che la scelta non fosse caduta su un partito peggiore.
Nel far vagare lo sguardo sulla sala Lilli scorse peraltro Lady Bevyan, in
piedi vicino al tavolo reale insieme a due donne del seguito della Regina A-
brwnna.
Sorridendo, scese in fretta gli ultimi gradini e si diresse verso la madre a-
dottiva, che l'accolse protendendo un braccio verso di lei; quando Lilli scivo-
lò in quell'abbraccio familiare con un sospiro di sollievo, le due serve si con-
gedarono da Bevyan con qualche parola di commiato.
«Hai l'aria soddisfatta» osservò allora Bevyan. «Devo dedurre che il collo-
quio con tua madre non è poi stato così sgradevole?»
«Infatti. Hanno deciso del mio fidanzamento, e per fortuna non si tratta di
uno degli orribili vassalli di zio Tibryn.»
«Bene! Temevo che stessero prendendo in considerazione Nantyn.»
«Lo hanno fatto, ma zio Burcan mi ha difesa. È stata una cosa davvero
strana, Bevva! Si è perfino offerto di cedere a Nantyn alcune terre se zio
Tibryn gli avesse trovato una moglie che non fossi io.»
«Possa la Dea benedirlo per questo!» esclamò Bevyan, con un tono di voce
peraltro stranamente guardingo. «Non avrei mai pensato che Burcan potesse
fare una cosa del genere.»
«Però lo ha fatto, e sai una cosa? Adesso mi daranno in moglie a mio cugi-
no Braemys.»
Il braccio di Bevyan si serrò improvvisamente intorno alle sue spalle in
modo brusco e inatteso, poi allentò altrettanto in fretta la sua stretta, e nel ri-
trarsi per guardare la madre adottiva, Lilli si accorse che il suo volto si era
fatto inespressivo quanto lo era stato pochi minuti prima quello di suo zio.
«In lui c'è qualcosa che non va?» chiese.
«Assolutamente no. È un bravo giovane cortese ed educato» replicò Be-
vyan, peraltro con un lieve tremito nella voce. «Scommetto che sei contenta
che la cosa sia finalmente stata sistemata, mia cara.»
«Lo sono davvero, senza contare che in questo modo resterò a corte e di
tanto in tanto potrò ancora vederti.»
«Infatti, e questo sarà bellissimo.»
L'espressione remota dello sguardo di Bevyan... che d'un tratto Lilli com-
prese essere timore... parlava di pensieri tutt'altro che piacevoli e la indusse a
chiedersi cosa ci potesse essere di tanto sgradevole nel suo fidanzamento fino
a quando Bevyan non emerse da quello stato d'animo con una breve risata.
«Qui c'è troppo rumore» disse. «Vogliamo salire nelle mie stanze? Sarra
vorrà essere informata del tuo fidanzamento.»
Da quel momento in poi sia Bevyan sia l'andamento della serata tornarono
alla normalità. Nelle camere di Bevyan numerose dame di corte vennero a
unirsi a loro per scambiare pettegolezzi e Lilli si sentì come un gatto che si
fosse steso accanto al fuoco per fare un sonnellino, finalmente al caldo e al
sicuro: là, in compagnia delle altre donne, poteva dimenticare almeno per un
poco l'inchiostro nero e i suoi segreti.

Il mattino successivo Bevyan sentì riaffiorare i propri sospetti non appena


sveglia, e mentre si vestiva ebbe l'impressione che essi le aleggiassero intor-
no borbottandole all'orecchio, considerato che nessuno poteva mai sapere con
certezza cosa stesse pensando Merodda, che mentiva con la stessa disinvoltu-
ra con cui un bardo cantava una canzone. Alla fine Bevyan non riuscì a resi-
stere oltre e si recò dalla madre di Lilli, per sentire la sua versione e per cer-
care di dimostrare a se stessa che si stava sbagliando. Quando la serva perso-
nale di Merodda la fece entrare, trovò la dama impegnata a lavarsi la faccia,
vestita con una semplice camicia bianca. In piedi davanti a una bacinella di
terracotta posta su un sostegno di legno, Merodda stava immergendo un pez-
zo di tela in un po' d'acqua dall'odore strano.
«Ti raggiungo fra un momento, Bevyan» disse. «Mentre faccio questo la-
voro non posso parlare.»
«Certamente, cara, non ho fretta. È un impacco di erbe?»
La sola risposta di Merodda fu un blando sorriso, poi lei strizzò il panno e
prese a tamponarsi la faccia con esso; di tanto in tanto s'interrompeva per
immergere di nuovo un angolo della pezza nella bacinella, ma Bevyan vide
che non l'inzuppava mai troppo e che teneva le labbra serrate, segno che evi-
dentemente quel liquido aveva un sapore sgradevole quanto il suo odore.
Quando ebbe finito, Merodda depose il panno ad asciugare sul davanzale e si
sciacquò le mani con l'acqua contenuta in una brocca di coccio.
«Allora, di cosa desideri parlarmi?» chiese infine.
«La scorsa notte Lilli mi ha detto del suo fidanzamento.»
«Ah, capisco. Che ne pensi di Braemys?»
«È un bravo ragazzo, anche se la parentela è un po' troppo stretta.»
«Oh. Burcan voleva un matrimonio fra cugini, naturalmente per via delle
terre. Ora che i miei figli sono morti Lilli ha ereditato le terre del mio povero
Garedd. Si tratta di una bella tenuta.»
«Infatti, e per il Cinghiale vale la pena di mantenerne il possesso.»
Mentre lei parlava Merodda cominciò a ravviarsi i capelli con un pettine
d'osso, e nel notare come essi scintillassero dorati sotto il sole Bevyan rifletté
che probabilmente conservavano il loro colore giovanile grazie a qualche al-
tra pozione di erbe.
«Ho allevato la ragazza» disse. «La mia non è semplice curiosità.»
«Certamente! Devo dire che hai svolto un lavoro eccellente: la mia Lilli è
diventata una ragazza adorabile, con modi degni della corte.»
«Ti ringrazio. Sono lieta che tu sia soddisfatta.»
«Lo sono» confermò Merodda, poi esitò e distolse lo sguardo nel prosegui-
re: «Ho fatto quanto di meglio potevo per lei, con questa faccenda del matri-
monio. Spero che tu mi creda al riguardo... il meglio che potevo.»
«Cosa? Certo che ti credo! Senza dubbio sono stati i tuoi fratelli a prendere
la decisione effettiva e sono contenta che Tibryn non l'abbia data in moglie a
Nantyn, che l'avrebbe picchiata fino a ucciderla.»
«Quello era il mio peggior timore» affermò Merodda, tornando a guardarla
con l'espressione più sincera che Bevyan avesse mai visto. «Lo era davvero.»
«In tal caso possiamo ringraziare entrambe la Dea... e Burcan... se esso non
si è concretizzato.»
«Ah. Lilli ti ha raccontato del modo in cui lui è intervenuto.»
«Infatti. È stato un gesto davvero buono da parte sua.»
Per un momento le due donne si fissarono a vicenda, poi Merodda si decise
a infrangere il silenzio.
«Già» annuì. «Comunque Braemys è un bravo ragazzo, con lui a Lilli non
mancherà nulla e io potrò tenerla con me a corte per la maggior Parte del
tempo. Dopo tutto è la sola figlia che queste guerre mi abbiano lasciato... so
che puoi capire quello che provo.»
«Purtroppo sì. Mia cara, sai che non farei mai nulla che potesse danneggia-
re Lilli.»
Merodda annuì, poi esitò ancora, scrutando il volto di Bevyan. Era una sua
abitudine quella di sbirciare qualcuno in modo tanto intenso da dargli l'im-
pressione che stesse leggendo qualche presagio nei suoi occhi; in passato Be-
vyan aveva sempre supposto che Merodda potesse essere semplicemente un
po' miope, ma quella mattina essere sottoposta a un esame del genere la tur-
bò.
«Non vorrei portarti via altro tempo» cominciò, con l'intento di congedarsi.
«Oh, Bevva, non essere sciocca! Mi fa piacere vederti... anzi, ti posso chie-
dere un favore?»
«Naturalmente.»
«Accompagnami a sbrigare una faccenda. Devo consultarmi con gli araldi
in merito a una strana questione, a meno che tu forse non sappia darmi la ri-
sposta che cerco: sai se fra il seguito dell'Usurpatore c'è un clan chiamato il
Grifone Rosso?»
«Non ne ho idea. Mi pare di ricordare vagamente di aver sentito una volta
questo nome, tanti anni fa, ma questo è tutto.»
«Allora dammi il tempo di vestirmi, poi faremo una visita agli araldi» pro-
pose Merodda, con un sorriso.
Nel ricambiare quel sorriso Bevyan sentì i propri sospetti che tornavano ad
affiorare, e tuttavia che poteva fare? Dopo tutto, non poteva certo chiedere
apertamente se Lilli era figlia di Burcan e se Merodda la stava dando in mo-
glie a suo fratello.
Gli araldi vivevano e avevano il loro scriptorium in una delle rocche latera-
li del complesso del palazzo, dove copiavano e preservavano le diverse gene-
alogie dei numerosi clan, le registrazioni dei matrimoni fra clan e anche lo
stemma appartenente a ciascuno. All'arrivo delle due donne un servitore si af-
frettò ad andare a chiamare il capo araldo in persona, lasciandole in attesa in
una stanza soleggiata dove una fila di tavoli dal piano inclinato era disposta
sotto le finestre; alle pareti erano invece appesi piccoli scudi lunghi ciascuno
una trentina di centimetri che costituivano la registrazione ufficiale di ciascu-
no stemma. Subito Merodda cominciò ad aggirarsi per la stanza per studiare i
diversi scudi. Ma ciò che invece attrasse l'attenzione di Bevyan fu una sfera
di vetro piena d'acqua posata sul davanzale della finestra; stava ancora cer-
cando di capire quale fosse la sua funzione quando il capo araldo in persona,
Dennyc, entrò nella stanza, profondendosi in inchini diretti alla sorella del
Reggente e alla sua compagna.
«Ah, eccoti qui, buon araldo» esordì Merodda. «Ti ringrazio per il tempo
che ci stai dedicando.»
«L'onore è mio. Cosa posso fare per Vostra Signoria?»
«Ho una domanda» affermò Merodda, indicando. «A chi appartiene lo
stemma su questo scudo? Mi riferisco al grifone rosso.»
«Purtroppo il clan che portava quello stemma è scomparso da tempo» re-
plicò Dennyc, venendo a raggiungerla. «L'ultimo erede è morto prima che io
nascessi, quindi so soltanto ciò che mi ha riferito il mio predecessore: quel
clan possedeva delle terre nell'occidente ed era imparentato con le famiglie
reali di Deverry e di Pyrdon, non ricordo esattamente come anche se natu-
ralmente posso fare delle ricerche.»
«Oh, risparmiati la fatica, non ha importanza dato che sono estinti da tem-
po» rispose Merodda, con un'improvvisa risata.
Osservando il suo comportamento, Bevyan ebbe l'impressione che lei fosse
profondamente sollevata per qualcosa, anche se non avrebbe saputo dire cosa.
«Anch'io speravo di poter scambiare qualche parola con Vostra Signoria»
affermò intanto Dennyc, con un altro inchino. «A quanto mi è dato di capire,
hai fidanzato tua figlia con Braemys del Cinghiale.»
«Infatti.»
«Ah. ecco, vedi, dal momento che studio queste cose per poter trovare il
modo migliore di servire il mio re e quanti sono al suo servizio, stavo pen-
sando che forse il legame di sangue è troppo stretto.»
Per un fugace momento Merodda s'immobilizzò come un coniglio che a-
vesse sentito arrivare i cani da caccia e parve impallidire leggermente intorno
alla bocca, anche se forse fu soltanto un effetto dei giochi di luce della stanza.
Poi. con quello che dovette essere un notevole sforzo, si costrinse a sorride-
re.
«I matrimoni fra cugini sono comuni in tutti i grandi clan» replicò.
«Proprio così, mia signora» convenne Dennyc, inchinandosi con l'aria di
non sapere che altro fare. «Però all'interno del Cinghiale ci sono già stati
molti matrimoni fra cugini primi, quindi ho ritenuto che fosse mio dovere av-
vertirti, anche se naturalmente la decisione spetterà sempre e soltanto a te e ai
tuoi fratelli. Tuttavia» continuò, facendo una pausa per riprendere fiato, «se
potesse esserci qualche altro candidato che rispondesse altrettanto bene alle
esigenze di Vostra Signoria...»
«Non c'è» tagliò corto Merodda con cortese fermezza. «Ti ringrazio, buon
Dennyc. Lady Bevyan, vogliamo andare?»
«Come desideri, mia signora.»
Bevyan e Merodda si separarono sulla soglia della rocca del re, ma per tut-
ta quella mattina, mentre passeggiava per i giardini insieme al resto del segui-
to della regina, Bevyan si sentì tormentare dalla preoccupazione. Ben presto
constatò che a quanto pareva la notizia dell'imminente matrimonio di Lady
Lillorigga era giunta all'orecchio non solo degli araldi ma anche della nobiltà,
quando Abrwnna la convocò con un cenno perché le camminasse accanto.
«Ho sentito dire che la tua figlia adottiva sposerà Lord Braemys.»
«Infatti, Vostra Altezza.»
«E io che avevo intenzione di accoglierlo nella mia compagnia» commentò
Abrwnna, scrollando la testa ramata con un gesto che strappò riflessi d'oro ai
suoi capelli. «Adesso sono lieta di non averlo fatto.»
«Capisco, Vostra Altezza.»
Il gruppo continuò a passeggiare su un sentiero coperto di ghiaia e fino a
un muro lungo il quale le rose rampicanti stavano appena cominciando a
sbocciare; raccoltane una, la regina ne aprì i minuscoli petali con il pollice.
«Ho fatto sapere a tuo figlio che se avesse voluto unirsi alla mia compagnia
sarebbe stato il benvenuto, ma lui ha rifiutato. Lo sapevi?»
«No, Vostra Altezza. Spero che il suo rifiuto non ti abbia offesa.»
«Naturalmente mi sono offesa, ma non è stata colpa tua» ribatté Abrwnna,
poi la congedò con un cenno prima che lei riuscisse a pensare a una risposta
adeguatamente diplomatica.
Quando stava entrando nella grande sala per la cena insieme alle sue don-
ne, Bevyan si venne a trovare per caso faccia a faccia con il Reggente, che
sopraggiungeva proprio allora con il suo seguito. Mentre si salutavano con un
sorriso e scambiavano qualche parola di circostanza, Bevyan si sorprese a os-
servare l'ampio volto di Burcan, i caratteristici occhi azzurri e la bocca sotti-
le, così simili a quelli di Lilli... ma anche agli occhi e alla bocca di sua madre,
come lei ricordò a se stessa.
«Mi devo congratulare con te, Reggente» disse infine. «Ho sentito che hai
scelto un buon partito per il giovane Braemys.»
L'espressione di Burcan cambiò e anche se lui continuò a sorridere, il suo
volto si tese per lo sforzo di mantenere un'aria serena.
«Lilli sarà una buona moglie per lui» affermò, con voce pervasa a sua volta
di una strana tensione, «senza contare che gli porterà in eredità non poca ter-
ra.»
«Infatti. Porgi le mie congratulazioni al ragazzo.»
Mentre si avviava fra i tavoli per raggiungere il proprio posto, Bevyan si
lanciò un'occhiata alle spalle e nell'accorgersi che Burcan la stava fissando
con un'espressione indecifrabile sul volto si rese conto d'un tratto che permet-
tergli di accorgersi dei suoi sospetti poteva essere pericoloso.
Dopo il pasto, nella grande sala alla presenza dei nobili e dello stesso re.
Tibryn annunciò il fidanzamento fra i suoi nipoti e tutti applaudirono e si
congratularono mentre Lilli sorrideva e arrossiva... tutti tranne la regina, che
assunse un'espressione imbronciata. Dal canto suo, Bevyan si augurò che Lil-
li riuscisse a difendere la propria felicità dalla gelosia e dalla morte, quella
poca felicità che era concessa a una donna in mezzo a quelle guerre intermi-
nabili.

Come sempre l'inchiostro nero parve levarsi dalla bacinella simile a una
vasta onda che l'afferrò e la sommerse, ma questa volta l'effetto le parve così
reale che Lilli si sentì soffocare ed ebbe la certezza che sarebbe annegata; la
pressione della mano di sua madre sul collo si fece però sempre più intensa,
spingendola verso lo stato di trance, e all'improvviso lei si trovò a fluttuare
nell'oscurità, libera dal senso di soffocamento.
«Dicci che cosa vedi» le disse una voce, in tono implorante. «Che cosa ve-
di, Lilli?»
In un primo tempo non ci fu nulla, poi nell'oscurità apparve il familiare
cerchio di luce e nel fluttuare al di là di esso Lilli si venne a trovare nella for-
tezza, nelle camere di sua madre, solo che adesso la luce del sole filtrava pal-
lida dalle finestre aperte.
«Chi c'è, Lilli?» insistette la voce, così strana e densa che lei non riuscì a
capire se a parlare fosse stato Brour o sua madre. «Chi vedi?»
«Nessuno, però ci sono delle cose.»
In un angolo c'era una cassapanca di legno aperta, alcuni vestiti erano spar-
si sul pavimento, una caraffa d'argento vuota giaceva fra le ceneri del focola-
re e in un altro angolo c'era una piccola bambola fatta di pezze di stoffa im-
bottite di paglia che Lilli riconobbe come un giocattolo che le era appartenuto
alcuni anni prima: Sarra aveva creato per lei quella bambola e Bevyan ne a-
veva ricamato il piccolo volto. Ridendo, lei corse a raccoglierla e se la strinse
al petto come era solita fare quando viveva a Hendyr.
«Puoi lasciare la stanza?» insistette la voce, echeggiandole negli orecchi.
«Non si vedono porte.»
«Guarda nella cassapanca.»
Continuando a tenere stretta la bambola Lilli attraversò di corsa la stanza,
si chinò sulla cassapanca e per poco non si lasciò sfuggire un urlo, che riuscì
a trattenere soltanto per timore che sua madre la schiaffeggiasse. Un suono di
qualche tipo dovette però sfuggirle dalle labbra perché la voce si fece sentire
ancora, in tono più urgente.
«Cosa c'è?» chiese.
«La testa di Brour, soltanto la testa, con il collo coperto di sangue nero e
secco.»
«Torna indietro» ingiunse la voce di sua madre, questa volta chiaramente
riconoscibile. «Torna indietro subito. Esci dalla finestra.»
Lilli si trovò a fluttuare verso l'alto e verso l'esterno, leggera come un seme
di soffione, sempre più su nel cielo azzurro e verso la fiamma della candela...
poi si ritrovò in ginocchio vicino al tavolo nella camera di sua madre con Me-
rodda inginocchiata davanti a lei, il volto che appariva pallido e sudato alla
luce incerta delle candele.
«Per questa notte è abbastanza» disse Merodda. «Hai bisogno di riposare.»
«Proprio così» convenne Brour. «Proprio così.»
Lilli si alzò in piedi con l'aiuto di Merodda ed entro qualche momento la
mente le si schiarì abbastanza da permetterle di rimanere in piedi senza biso-
gno di aiuto.
«Vuoi che ti accompagni fino alla tua camera?» domandò Brour. «Pensi di
arrivarci senza problemi?»
«Ce la farò» garantì Lilli, incapace di guardarlo perché l'immagine della
sua testa recisa le aleggiava ancora davanti agli occhi. «Sto bene.»
Poi si affrettò a uscire dalla stanza, ma nell'oltrepassare la soglia indugiò a
guardarsi alle spalle e vide Brour e Merodda fermi uno di fronte all'altra co-
me un paio di duellanti. Senza far rumore chiuse la porta e nell'appoggiarsi
contro di essa per recuperare le forze si rese conto all'improvviso di non ave-
re più fra le braccia la bambola, cosa peraltro ovvia. Quella scoperta le fece
salire il pianto in gola ma lei ricacciò indietro le lacrime, perché stava comin-
ciando a capire che esse erano soltanto la conseguenza di quelle sedute magi-
che.
Per tutta la sera e il resto della notte continuò però a sentire la mancanza
della bambola e nei suoi sogni andò a cercarla in strane stanze piene di uomi-
ni armati che non si accorgevano neppure della sua presenza mentre lei stri-
sciava lungo le pareti e sgusciava oltre porte socchiuse; quando si svegliò, il
mattino successivo, d'istinto protese la mano per prendere la bambola, che
quando era bambina aveva sempre dormito con lei.
«È ovvio che non c'è, razza di stupida» si disse. «L'hai persa quando ti
hanno riportata qui.»
Poi però si chiese se non fosse possibile che sua madre l'avesse trovata e
conservata, e che la bambola fosse davvero nelle sue camere, dove lei l'aveva
vista durante la visione. Verso metà mattina, mentre se ne stava seduta nella
grande sala, vide che sua madre e Bevyan erano entrambe al seguito della re-
gina: senza dubbio tutte e tre sarebbero salite nella sala delle donne riservata
alla sovrana e vi sarebbero rimaste a lungo. Pur sentendosi una stupida per
quello che stava facendo, d'impulso si avviò a passo rapido su per le scale.
Nelle camere di sua madre non trovò però la bambola ma Brour, seduto di
traverso vicino alla finestra in modo che la luce del sole potesse battere sulle
pagine di un enorme libro, alto quanto l'avambraccio di un uomo e largo il
doppio, che aveva appoggiato sul tavolo; con il labbro inferiore proteso in
fuori e la grossa testa china sul volume, lui appariva più che mai simile a un
bambino. Quando la vide entrare, lo scriba si affrettò a chiudere il pesante
volume dalle pagine che odoravano di muffa e dalla rilegatura di cuoio scuro
chiazzata qua e là di grigio.
«Non sono capace di leggere, come tu ben sai» commentò Lilli, «quindi
non hai da temere che possa vedere i tuoi segreti.»
«Questo è vero» ammise Brour, con un accenno di sorriso. «Stai cercando
tua madre, ragazza? Mi ha detto che la regina ha richiesto la sua presenza per
tutto il giorno.»
«Ah, era quello che pensavo. No, volevo soltanto vedere se ho lasciato qui
una cosa.»
«Cerca quanto ti pare» ribatté Brour, abbozzando un vago gesto della ma-
no.
Sentendosi più stupida che mai, Lilli prese ad aggirarsi per la camera,
scoccando occhiate dietro i mobili e aprendo le cassapanche intagliate che
però contenevano soltanto gli abiti di sua madre; nel frattempo Brour conti-
nuò a osservarla con il suo prezioso libro stretto fra le braccia.
«Non è che stai vedendo di nuovo la mia testa là dentro, vero?»
«No, e ne sono grata alla Dea. È stata una cosa veramente orribile.»
«Neppure io ho trovato divertente quel presagio» replicò lui, in tono d'un
tratto piatto.
Richiusa l'ultima cassapanca, Lilli si appoggiò contro la parete ricurva per
osservarlo, consapevole che lui la stava scrutando attentamente con le dita
tozze che serravano la copertina di cuoio del libro.
«Quello che ho visto deve averti spaventato» affermò infine Lilli.
«Parecchio. Cosa credi che significasse?»
«Non ne ho idea. Mia madre non mi spiega mai come interpretare le cose
che vedo.»
«Non ne dubito» ribatté Brour, con un grugnito di disgusto. «Ti tratta come
una bambina, vero? Invece dovresti imparare a utilizzare i tuoi talenti.»
Rabbrividendo, Lilli si portò una mano alla gola.
«L'idea ti spaventa?» domandò Brour. «Se è così, è un vero peccato.»
«Non ho mai chiesto tutto questo. Detesto farlo, lo detesto davvero.»
Brour rifletté per un momento, poi posò il libro sul tavolo.
«Lo detesti perché non lo capisci, ma se lo capissi non ti turberebbe più. Ti
garantisco che è così» aggiunse, con un sorriso.
Lilli esitò e lanciò un'occhiata in direzione della porta, pensando che a-
vrebbe dovuto andarsene e trovare altre donne della corte che le tenessero
compagnia.
«Se vuoi andartene sentiti libera di farlo» la invitò Brour. «Non vuoi dav-
vero sapere almeno cos'è che fai quando evochi visioni per volere di tua ma-
dre?»
«Vedo presagi, questo lo so» scattò Lilli in tono secco.
«Ah, ma dove li vedi?»
Quella domanda colse Lilli alla sprovvista perché si trattava di una cosa
che lei stessa si era chiesta spesso.
«Non lo so» ammise. «Tu lo sai?»
«Certamente» dichiarò Brour, con un altro sorriso, mostrandosi molto più
gentile di quanto lei avesse mai supposto. «Avanti, non ti vuoi sedere? Spie-
gare da dove vengono i portenti è una cosa che richiede parecchio tempo.»
Lilli mosse un passo verso il tavolo ma poi si fermò, titubante.
«Se dovesse venirlo a sapere mia madre mi picchierebbe» obiettò.
«Quindi faremo meglio ad accertarci che lei non ne sappia nulla» replicò
Brour, indicando la sedia di fronte alla sua. «Ti sei mai chiesta perché Me-
rodda non vuole che tu impari a usare il dweomer?»
«A dire il vero sì.»
«Lo fa perché vuole utilizzare i tuoi poteri per se stessa. Quando imparerai
come funzionano i tuoi talenti, li potrai usare tu stessa e lei non ti potrà più
costringere a fare quello che vuole.»
Persa ogni esitazione, Lilli si avvicinò e si sedette.
«C"è qui un'illustrazione che ti voglio mostrare» sorrise Brour, aprendo il
libro. «Raffigura l'aspetto dell'universo.»
L'immagine era fatta di cerchi dentro altri cerchi, disegnati in inchiostro
nero; al centro di tutto c'era quella che Brour definiva la Terra e ogni cerchio
intorno a essa era contrassegnato da un nome.
«Questo è sapere dei Greggyn» spiegò, «che è giunto qui insieme a Re
Bran nel corso della Grande Migrazione. Questi cerchi rappresentano delle
sfere, e la sfera che sovrasta e circonda la Terra appartiene alla Luna. Quella
successiva appartiene al Sole; quanto alle altre sfere, ne parleremo in un se-
condo momento perché sono troppi concetti perché tu li possa assimilare tutti
in una volta.»
«Questo è vero» ammise Lilli, appoggiando i gomiti sul tavolo e proten-
dendosi in avanti per esaminare il disegno. «Vedere queste cose mi dà una
strana sensazione.»
«Senza dubbio è il sapere che ti chiama.»
In realtà la sensazione che lei stava provando era più simile al terrore, ma
preferì evitare di precisarlo e ascoltò invece con attenzione mentre Brour le
spiegava come la materia di ciascuna sfera interpenetrasse quella della sfera
sottostante.
«Tutti gli altri mondi esistono soltanto su quello terreno» concluse. «Qui
essi ottengono la completezza e questo significa che da qui tu puoi raggiun-
gere tutti gli altri. Questo è ciò che fai quanto entri in trance, lasci il tuo corpo
per passare in uno di questi altri mondi.»
Lilli sentì il proprio terrore intensificarsi all'idea che questo era ciò che la
gente faceva quando moriva: lasciava il proprio corpo per andare nell'Aldilà.
«I presagi relativi al futuro esistono sul piano astrale superiore» proseguì
Brour, indicando uno dei cerchi. «È lì che tua madre ti manda.»
«È mia madre che mi manda là? Credevo che fossi tu a farlo.»
«Non sono io, bambina. Tua madre ne sa quanto me in merito a queste co-
se» affermò Brour, poi distolse di colpo lo sguardo quando nel corridoio e-
cheggiò il rumore prodotto da parecchie persone che camminavano e parla-
vano tutte contemporaneamente.
Spaventata, Lilli balzò in piedi e Brour chiuse di scatto il libro mentre il
suono delle voci saliva di volume per poi allontanarsi. Quando infine tornò il
silenzio, Lilli esalò un lungo respiro di sollievo e nel guardare verso Brour si
rese conto che questi era impallidito.
«Non avrai paura di lei, vero?» domandò.
«Non posso negare di averne» ammise lo scriba.
Lilli lo fissò con aria interdetta, perché nel mondo in cui viveva non avreb-
be mai pensato di vedere un uomo che aveva paura di una donna.
«È meglio che vada» disse quindi. «Non oso rischiare che lei mi trovi qui»
«Infatti. Torna quando ti sarà possibile e ti spiegherò altre cose.»
Lilli uscì di corsa dalla stanza, si sbatté la porta alle spalle e si precipitò
lungo il corridoio. Arrivata alle scale si arrestò però per assestarsi i capelli e
aspettare che il respiro le si calmasse, poi scese nella grande sala con fare
controllato e decoroso, ripromettendo a se stessa che non sarebbe più tornata
da Brour e non avrebbe più guardato quel libro.
Quella sera cenò accanto a Bevyan, il cui calore servì ad allontanarle dalla
mente ogni pensiero inerente alla magia mentre discutevano del suo corredo,
che lei aveva cominciato a preparare quando ancora si trovava a Hendyr, an-
che se doveva ammettere che ultimamente era stata piuttosto pigra al riguar-
do.
«Ebbene, Sarra e io siamo qui per aiutarti» dichiarò Bevyan. «La prima co-
sa che dovremo preparare sarà la camicia nuziale per Braemys e poi la coper-
ta per il tuo nuovo letto.»
«Dovremmo avere a disposizione tutta l'estate perché di certo il matrimo-
nio non avrà luogo finché la campagna non si sarà conclusa» interloquì Sarra.
«È vero» annuì Lilli, poi si sentì raggelare al punto che sfregò fra loro le
mani per scaldarle mentre aggiungeva: «Spero che non succeda nulla a Bra-
emys.»
«Ah, adesso sei davvero una donna, mia cara» commentò Bevyan. «Come
tutte noi anche tu ti preoccupi per il tuo uomo.»
Quella notte, mentre giaceva nel suo letto e cercava di dormire, Lilli si tro-
vò a pensare a suo cugino Braemys, che era stato allevato anche lui da
Peddyc e Bevyan. Indipendentemente dal fatto che dovessero o meno sposar-
si non voleva che lui morisse nei combattimenti di quell'estate perché le era
sempre stato simpatico... e poi non voleva neppure pensare a chi le avrebbero
imposto di sposare quell'autunno se Braemys fosse caduto in battaglia.
Di certo si sarebbe trattato di Nantyn o di qualche altro nobile settentriona-
le violento e propenso al bere, perché zio Tibryn non si sarebbe lasciato con-
vincere una seconda volta... era anzi già un miracolo che avesse acconsentito
a farle sposare Braemys.
D'un tratto la sua mente traditrice evocò l'immagine di Brour che le diceva
che avrebbe potuto utilizzare i suoi talenti a proprio vantaggio. Come sarebbe
stato se lei avesse potuto leggere i presagi in merito al Wyrd di Braemys?
Se avesse potuto sapere quello che le sarebbe successo invece di sentirsi
come una foglia trascinata dalla piena di un fiume che la spingeva di qua e di
là senza che avesse il potere di liberarsi? Sollevatasi a sedere sul letto si cinse
le ginocchia con le braccia e continuò a riflettere, osservando attraverso la fi-
nestra una sottile falce di luna levarsi fra due torri e godendo del senso di li-
bertà che le derivava dal contemplare il cielo.
Il mattino successivo, quando Lady Merodda annunciò che erano invitate a
una caccia con il falcone, Lilli finse di avere l'emicrania e rimase alla fortez-
za, gemente fra i cuscini come un'invalida; non appena fu certa che gli altri se
ne fossero andati, si alzò, si vestì e si diresse in tutta fretta verso l'apparta-
mento di Lady Bevyan, perché sentiva di aver bisogno dei suoi consigli e an-
che se sapeva di non poter parlare con lei del dweomer, riteneva d'altro canto
che la semplice vicinanza della madre adottiva sarebbe stata sufficiente per
aiutarla a riflettere e le avrebbe permesso di valutare nel modo più giusto
quelle strane cose. Quando bussò fu però Sarra a venirle ad aprire.
«Oh, Bevva non è qui» le disse, sfoggiando un sorriso pieno di trionfo. «È
stata invitata ad andare a caccia con la regina.»
«Davvero?»
«Sì, e ne sono davvero lieta, perché è un grande onore!»
Su questo non c'erano dubbi, però Lilli si sorprese a desiderare che la regi-
na avesse scelto un altro giorno per elargire a Bevyan quell'onore. Scesa dab-
basso indugiò per qualche tempo nella grande sala, sentendosi sola e infelice,
poi si sorprese a pensare sempre più spesso al libro di Brour e ai segreti che
esso racchiudeva e alla fine cedette alla tentazione, facendo ritorno nelle ca-
mere di sua madre dove trovò Brour seduto vicino alla finestra; invece del li-
bro, però, questa volta lo scriba aveva davanti a sé un vasetto d'inchiostro e
un pezzo di pergamena.
«Ah, sei tornata» commentò con un sorriso.
«Infatti. Parlavi sul serio quando hai detto che potrei utilizzare i miei talen-
ti per me stessa?»
«Sì, sono pronto a giurarlo su qualsiasi divinità tu voglia. Adesso devo
scrivere per conto di tuo zio un messaggio per informare suo figlio del fatto
che tu e lui vi sposerete. Quando avrò finito, lo porterò a Lord Burcan e poi
potremo guardare di nuovo il mio libro.»
Sedutasi con i gomiti sul tavolo, Lilli lo osservò scrivere, tracciando con
cura ogni lettera su una pergamena che era stata già utilizzata tante volte da
essersi fatta sottile e morbida come stoffa per l'usura. Lo scriba che viveva
nella fortezza di Burcan sarebbe stato in grado di guardare quei segni e tra-
sformarli di nuovo in parole... nel formulare quel pensiero Lilli si sentì assali-
re da un brivido, peraltro piacevole, perché quella sembrava già di per sé una
forma di dweomer.
«A proposito, ti faccio le mie congratulazioni» commentò Brour, interrom-
pendosi per prendere un piccolo coltello per appuntire la penna. «Oppure non
sei contenta di questo fidanzamento?»
«Al contrario, ne sono molto soddisfatta.»
«Bene» sorrise lo scriba, dandole l'impressione di essere sincero. «Me ne
rallegro. Un giorno sarai in grado di usare i tuoi talenti per aiutare anche tuo
marito.»
«Mi piacerebbe. Spero solo che mia madre non scopra nulla. Lei sembra
essere sempre capace di capire se sto mentendo... si tratta di dweomer?»
«Senza dubbio» confermò Brour, e quando lei sussultò aggiunse: «Quello
che non capisci è che il dweomer può essere contrastato con il dweomer. Io ti
insegnerò come difenderti dai sondaggi di tua madre.»
«Davvero?»
«Davvero. È una specie di trucco per principianti ma torna sempre utile
conoscerlo.»
«Comincio a pensare che questi studi mi piaceranno» confessò Lilli, con un
sorriso.
«Ne sono certo» replicò Brour, con espressione solenne.

Dopo aver trascorso la mattina a cacciare senza troppo successo, il gruppo


che accompagnava la regina si fermò per pranzare sulla riva erbosa del Lago
Gwerconydd; mentre i paggi si davano da fare per preparare il pasto, sten-
dendo una tovaglia e aprendo i cesti pieni di cibo, le donne consegnarono i
cavalli agli uomini della guardia della regina e i falchi ai falconieri.
Accompagnata da Bevyan e da Merodda, la regina si andò poi a sedere vi-
cino all'acqua, dove piccole onde si protendevano a lambire la sabbia e con
una risata si distese supina a fissare il cielo azzurro mentre le altre due dame
prendevano posto vicino a lei con maggior decoro.
«È bello essere fuori della fortezza» commentò poi Abrwnna. «Non lo pen-
si anche tu, Lady Bevyan?»
«Certamente, Altezza» convenne Bevyan, scoccando un'occhiata preoccu-
pata in direzione degli uomini di scorta, che stavano fissando tutti la regina.
«È una splendida giornata di sole.»
«Forse sarebbe meglio se Vostra Altezza si mettesse a sedere» aggiunse
Merodda, con un sorriso. «Nel tuo seguito ci sono molti uomini e devi badare
a essere sempre dignitosa.»
Abrwnna le fece una boccaccia ma si sollevò comunque a sedere, siste-
mandosi sulle ginocchia l'abito bianco da equitazione.
«Non dubito che le mie guardie sappiano qual è il loro dovere, senza conta-
re che sono molto fedeli al re» affermò. «O per meglio dire sono fedeli a tuo
fratello, Lady Merodda, che le ha scelte tutte personalmente.»
«Mio fratello agisce solo nell'interesse del re» replicò Merodda. «La fedel-
tà nei suoi confronti è fedeltà rivolta al nostro sovrano.»
«Oh, per favore!» esclamò Abrwnna, arricciando il naso. «Non c'è bisogno
che fingi anche con me. Sappiamo tutti chi governa effettivamente il regno.»
Notando che un paggio si stava avvicinando, Bevyan si portò un dito alle
labbra con fare ammonitore.
«Il pranzo è pronto, Vostra Altezza» annunciò il paggio.
«Benissimo» rispose Abrwnna. «Signore, vogliamo andare?»
Durante il pasto, in presenza dei paggi che si tenevano loro intorno pronti a
servirle, la regina mantenne la conversazione sui pettegolezzi di corte, inco-
raggiando le sue dame di compagnia a riferirle ogni minimo scandalo in mo-
do da completare le informazioni di cui già era in possesso, ed esaminò tutte
le diverse storie sentimentali in corso in quel periodo, vagliandone la serietà,
come se stesse recitando un elenco di partecipanti a un torneo.
«Come puoi vedere, Bevva» concluse poi, «quest'inverno in tua assenza
sono successe ogni genere di cose.»
«Infatti» annuì Bevyan, prendendo nota mentalmente del fatto di ricordare
a Peddyc dove e quando fosse opportuno usare il suo soprannome. «I lunghi
inverni hanno questo effetto sulle persone, e considerato quante sono le ve-
dove che hanno cercato rifugio qui sotto la tua protezione, suppongo che la
situazione si sia fatta a tratti piuttosto complicata.»
«Molto, e non ti ho ancora raccontato le storie più interessanti. Il fratello di
Merodda è stato la preda più ambita: sembrava quasi che fosse diventato una
grassa pernice e che tutti i falchi in caccia stessero calando in picchiata su di
lui.»
Merodda accolse quelle parole con un sorriso indulgente, senza smettere di
spalmare di burro un pezzo di pane.
«Dopo tutto, Vostra Altezza, lui ha accesso al re, e questo lo rende ancor
più attraente» osservò Bevyan.
«Proprio così. Poco prima del disgelo è successa però una cosa davvero or-
ribile. Due dame di corte, Varra e Caetha, si stavano contendendo Burcan
come due cani che lottassero per un pezzo di carne.»
«Caetha? Ho sentito dire che è passata nelle Terre dell'Aldilà.»
«Infatti, ed è questo a essere sospetto. Sembrava che stesse cominciando a
conquistarsi il favore del Reggente, tanto che tutti parlavano di quanto lui le
mostrasse interesse, quando improvvisamente è morta. È stata una cosa tanto
inaspettata da indurre tutti a pensare che Varra l'avesse avvelenata, e il fatto
che lei abbia lasciato la corte per andare a casa di suo fratello mi induce a so-
spettare che lo abbia fatto davvero.»
«Oh, mia signora!» esclamò Merodda, scuotendo il capo. «Io ne dubito.
L'inverno è stato molto duro e tutti noi sappiamo cosa succede al cibo, anche
nella fortezza di un re. Quella povera donna è morta dopo aver mangiato car-
ne andata a male» aggiunse, guardando verso Bevyan. «È stato orribile.»
«Ma non è stata l'unica a mangiarne» insistette Abrwnna, protendendosi in
avanti. «Ne hai preso anche tu, Merodda.»
«E sono stata molto male, Vostra Altezza» replicò Merodda, rabbrividendo
al ricordo. «Temo che Caetha non abbia avuto la forza di riprendersi. Sono
cose che succedono.»
«È vero, e sono cose molto tristi» confermò Bevyan. «Non per questo bi-
sogna parlare di avvelenamenti.»
Nonostante quelle sue parole ragionevoli, lei si trovò però a pensare a
quanto Merodda s'intendesse di erbe e del loro utilizzo. Se le bastava lavarsi
il volto con quell'acqua maleodorante per mantenere la pelle liscia come
quella di una ragazza, quali altre cose poteva sapere? Senza dubbio la regina
non aveva idea che la vera rivale della povera Caetha fosse stata la sorella di
Lord Burcan.
Dal momento che Abrwnna aveva voglia di cavalcare, le donne fecero ri-
torno alla fortezza nel tardo pomeriggio. Fianco a fianco, Merodda e Bevyan
entrarono nella grande sala, dove già gli uomini si stavano radunando per il
pranzo serale; molti sguardi si appuntarono sulla regina e sulle sue dame
mentre esse salivano la scala di pietra rincorrendosi e ridendo fra loro come
uccelli canori, e da dove si trovava Bevyan notò che sul pianerottolo era fer-
mo un gruppo di giovani nobili, ciascuno contrassegnato come membro della
Compagnia della Regina da un pezzo di seta verde legato sopra la manica de-
stra. Accolte le dame con un inchino, quei giovani le accompagnarono su per
la scala.
«Bevva?» mormorò d'un tratto Merodda. «Pensi che Abrwnna possa avere
un amante?»
«A dire il vero è uno dei miei timori. Non parla d'altro.»
«Proprio così. Essere sposata con un bambino è una cosa difficile per una
ragazza come lei.»
Le due donne si scambiarono una cupa occhiata, alleate almeno per il mo-
mento.
Più tardi, quella stessa sera, nell'intimità delle sue camere, Bevyan si ricor-
dò di chiedere a Lilli cosa fosse successo a Lady Caetha; Lilli le ripeté la sto-
ria della carne contaminata e aggiunse che Caetha era morta serrandosi lo
stomaco in preda all'agonia.
«Davvero terribile» commentò Bevyan. «Mi hanno detto che anche tua
madre è stata male.»
«Sì, perché aveva mangiato la stessa carne» rispose Lilli, poi però fece una
pausa di riflessione e accigliandosi in volto aggiunse: «Comunque non è stata
male quanto la povera Caetha, anche se ha continuato a vomitare e a ripeterci
di sentirsi malissimo.»
«Ti stai esprimendo in modo strano, mia cara. Pensi che non stesse sof-
frendo davvero?»
«Oh, chiedo scusa, non intendevo dare questa impressione» si schermi Lil-
li, impallidendo e portandosi una mano alla gola. «È ovvio che stava male:
era terribile sentirla gemere e non poter fare nulla per aiutarla.»
«Non ne dubito, povera bambina! Mi dispiace davvero per la sfortunata
Caetha.»
«Oh, è dispiaciuto a tutti.»
Di nuovo Bevyan si chiese se questo fosse vero.

Nei giorni che seguirono Lilli si sorprese a tornare spesso nelle camere di
sua madre e da Brour, tanto da finire per avere l'impressione di condurre la
vita di due ragazze differenti: nel pomeriggio sedeva a cucire in compagnia di
Bevyan e delle altre donne, parlando delle notizie che circolavano per la for-
tezza e portando avanti il ricamo sui pezzi della camicia nuziale di Braemys,
ma di mattina teneva d'occhio sua madre per farsi un'idea dei suoi piani e non
appena essi erano stabiliti... magari una cavalcata nelle campagne o una mez-
za giornata in compagnia della regina nelle sue camere, sgusciava di sopra
per una lezione. Stranamente, Brour sembrava sapere sempre quando lei sta-
va per arrivare e si faceva trovare ad attenderla.
«È dweomer?» gli chiese un giorno Lilli. «È grazie al dweomer che sai
sempre quando sto per arrivare?»
«No. Sono lo scriba di tua madre e quando lei mi avverte di essere impe-
gnata mi aspetto di vederti venire quassù... anche se a essere sincero a volte
mi preoccupo che lei ci possa tendere una trappola.»
«Anch'io. Oggi però è andata con la regina al tempio, giù in città, quindi
dovrebbe rimanere occupata a lungo.»
«Bene» annuì Brour, tamburellando con le dita sul libro chiuso. «Ho una
cosa molto importante da dirti. Prima però ripetimi quello che ti ho insegnato
sul Popolo Fatato.»
«Si tratta di creature che appartengono alla Sfera della Luna come noi ap-
parteniamo a quella della Terra. I maestri del dweomer le possono comandare
ma non se ne devono mai fidare.»
«Eccellente! E cosa mi dici dei Signori degli Elementi?»
«Anch'essi sono spiriti, ma delle Sfere dei Pianeti. Sono astuti e difficili da
comandare.»
«Ottimo. Hai una mente notevole, ragazza.»
Lilli arrossì.
«Quello che sto pensando di fare è l'evocazione di uno dei Signori della
Terra» continuò Brour. «Sepolta nel terreno in questa fortezza c'è una cosa
che devo trovare: ho fatto qualche domanda a servi e cortigiani, ma nessuno
sa dove sia situata.»
«Di cosa si tratta?»
«Non ti pare strano che questa fortezza non abbia una via di fuga, un modo
per uscirne in caso di assedio?»
«Vuoi dire che non ce l'ha?»
«No, almeno per quanto chiunque riesce a ricordare, anche se ho consultato
le cronache dei re che sono state conservate da bardi e preti. Questa guerra
infuria ormai da molto tempo, più di cento anni, e come accade in una guerra
le sorti delle due parti hanno avuto fortune alterne. All'inizio ci sono stati
momenti in cui la situazione è parsa disperata per il vero re asserragliato qui a
Dun Deverry, tempi in cui l'usurpatore di turno ha posto l'assedio alla città, e
tutte le volte il re è scomparso per ricomparire poi come per opera del dweo-
mer nella città del clan del Cinghiale, Cantrae, dove ha potuto raccogliere in-
torno a sé gli uomini che gli erano fedeli e tornare qui con un esercito per
spezzare l'assedio.»
«Allora si è trattato di dweomer?»
«Io ne dubito moltissimo» dichiarò Brour, con un fugace sorriso. «Credo
che ci sia un passaggio segreto nel sottosuolo di questa città, un passaggio
che sbuca in superficie a una notevole distanza dalle mura. Di certo si è trat-
tato di un segreto molto ben custodito ed è possibile che sia stato custodito
anche troppo bene, considerato che pare sia morto con l'ultimo re che se ne è
servito, oltre cinquant'anni fa.»
«Se potessimo ritrovare quel passaggio ti guadagneresti senza dubbio il fa-
vore del re. Scommetto che zio Burcan ne sarebbe davvero contento.»
«Infatti, ed è per questo che intendo chiederti di mantenere il segreto al ri-
guardo. Tuo zio mi odia e io intendo conquistarmi la sua simpatia, per cui
voglio essere il primo a parlargli di questo passaggio.»
«Prometto che manterrò il segreto.»
«Ti ringrazio, ragazza. Adesso lascia che ti spieghi quello che faremo. Il
momento migliore per questo rituale è il cuore della notte, ma prima ci dob-
biamo esercitare.»
«Posso aiutarti?»
«Certamente. Una volta che avrò trovato un posto dove possiamo studiare
senza correre rischi dovrai venire a raggiungermi là. Ora presta attenzione
perché ci sono molte cose strane che devi imparare.»

«Sono lieto che abbiamo finalmente qualche momento da passare insieme


quando siamo entrambi svegli» osservò Peddyc.
«Lo sono anch'io» replicò Bevyan. «Ho piazzato Sarra in anticamera per-
ché faccia da sentinella.»
Ridendo, Peddyc si sedette sulla sedia di fronte alla sua, poi sbadigliò e
protese le gambe davanti a sé.
«Hai l'aria stanca» commentò Bevyan.
«Infatti, ho passato il pomeriggio con Burcan e questo è di per sé sufficien-
te a stancare chiunque. Se non altro, però, ci sono buone notizie: nessuno dei
nobili del settentrione è passato dalla parte dell'Usurpatore. Terranno duro
tutti quanti finché avremo il controllo della frontiera.»
«E per quanto ancora riusciremo ad averlo?»
Peddyc si limitò a scrollare le spalle.
«Per quest'estate, se non altro» rispose infine. «Hendyr è diventato impor-
tante e mi sto trovando a essere corteggiato dai potenti.»
«Ah. Questo è interessante» commentò Bevyan.
«Ecco, la nostra è l'ultima fortezza di grandi dimensioni che si trovi sulla
frontiera a ovest di qui e deve rimanere in possesso delle forze del re perché
se dovesse cadere in mani nemiche il Principe Maryn potrebbe prenderci sul
fianco e avanzare nelle terre del settentrione.»
«Il Principe Maryn? Non ti ho mai sentito chiamarlo così.»
«Uno stupido lapsus, amore mio» replicò Peddyc, sussultando. «Che gli dèi
mi evitino di ripeterlo davanti a Burcan. Del resto» aggiunse poi, dopo un
lungo momento di esitazione, «Maryn è di diritto principe delle sue terre, in-
dipendentemente da quello che chiunque fra noi può pensare della rivendica-
zione che avanza sul trono di Deverry.»
«Già, è il principe di Pyrdon.»
Fra i due scese quindi il silenzio mentre entrambi riflettevano su quanto si
potesse dire ad alta voce senza correre rischi, anche nell'intimità delle proprie
camere.
«Ora è meglio che vada» disse infine Peddyc, alzandosi in piedi e guardan-
do verso la finestra. «Il sole sta tramontando e presto ci sarà un ennesimo
consiglio di guerra.»
«Quando marcerà l'esercito?» domandò Bevyan.
«Non ne ho idea, ma so che dovrà muoversi presto perché altrimenti ci tro-
veremo l'Usurpatore davanti alle porte» rispose Peddyc, massaggiandosi il
volto con entrambe le mani. «Il Gwerbret Daeryc ha sollevato l'argomento
questo pomeriggio e quando Burcan ha risposto di essere in attesa di altri
messaggi dalle Terre del Settentrione uno dei nobili più giovani si è offeso
per qualche motivo e la discussione è degenerata in una lite, con un sacco di
pugni battuti sul tavolo e ciascuno che rammentava agli altri il proprio ran-
go.»
«Sembra una situazione sgradevole.»
«Oh, lo è stata. Io sono combattuto interiormente, amore mio: sai come la
penso riguardo al Reggente come uomo, ma lui è il solo capo che abbiamo e
che possiamo mai sperare di avere, e senza un capo siamo tutti...» Peddyc la-
sciò a mezzo la frase e dopo un momento concluse: «Ora è meglio che vada.
Senza dubbio tornerò tardi, stanotte, ma se sarai sveglia ti dirò cosa abbiamo
deciso.»
«Ti ringrazio. La Regina Abrwnna mi ha chiesto di unirmi questa sera alle
sue donne, dopo cena, quindi può darsi che abbia dei pettegolezzi da riferir-
ti.»
«Bene. Mi rallegra vedere che godi del suo favore.»
«Si tratta davvero di favore oppure ci stanno tenendo d'occhio?» obiettò
Bevyan e quando Peddyc non rispose, assumendo un atteggiamento riflessi-
vo, continuò: «Mi hai appena detto quanto sia diventato importante Hendyr, e
io continuo a pensare a quella cena nella fortezza di Lord Camlyn e a chie-
dermi quanto sia bravo Daeryc a nascondere i propri sentimenti.»
«Non molto» ammise Peddyc, con un ironico sorriso. «Hai detto una cosa
verissima, amore mio, una cosa a cui non avevo pensato. Ci sono momenti in
cui Daeryc guarda il Reggente con espressione tale da dare l'impressione che
abbia appena assaggiato un pezzo di carne marcia.»
«Infatti, l'ho notato anch'io. Dato che Daeryc è il tuo signore, se sospettano
di lui perché non dovrebbero sospettare anche di te?»
Peddyc annuì, con aria sempre più riflessiva.
«Ti ringrazio» disse infine. «Ho proprio bisogno del tuo occhio acuto. In
presenza di Burcan farò del mio meglio per comportarmi da vassallo fedele e
cercherò di rivolgere in privato un ammonimento a Sua Grazia Daeryc.»
Anche se stava senza dubbio conquistandosi sempre più il favore della re-
gina, fino a quel momento Bevyan non era stata ancora invitata a consumare i
pasti alla sua tavola; d'altro canto il posto che occupava di solito era abba-
stanza vicino a essa da permetterle di osservare Abrwnna e le sue dame che
mangiavano chiacchierando e ridacchiando fra loro. Non molto lontano, an-
che se alla distanza richiesta dalle convenienze, la Compagnia della Regina
condivideva un altro tavolo vicino a quello occupato dai figli di numerosi no-
bili di alto rango, fra cui anche Anasyn, e Bevyan trasse un notevole piacere
nel vedere suo figlio che, ormai alto e forte, era stato finalmente accolto nella
compagnia dei suoi pari. Nel corso degli anni Bevyan aveva cercato di mette-
re una certa distanza fra se stessa e quel suo ultimo figlio perché la morte dei
suoi fratelli le aveva causato un dolore tale da non farle desiderare di ripetere
quell'esperienza, e tuttavia non poteva non essere orgogliosa di lui e dei suoi
modi eleganti, degni della corte. Anche se i nobili che lo circondavano stava-
no bevendo molto e ridendo sguaiatamente, Sanno stava invece attento a non
consumare troppa birra e parlava poco e in tono pacato.
Come Bevyan venne a sapere in seguito, i giovani della Compagnia della
Regina non stavano bevendo birra ma sidro, e per di più in grandi quantità.
All'improvviso uno di essi gridò qualcosa, qualcun altro imprecò e di lì a po-
co una terza imprecazione fece tacere la conversazione generale. Bevyan si
alzò per vedere meglio proprio mentre gli uomini della regina balzavano in
piedi con tanta irruenza da rovesciare le panche e si scagliavano contro i no-
bili seduti al tavolo di Anasyn. Bevyan vide Anasyn ritrarsi di scatto e affer-
rare alle spalle un amico appena in tempo per impedirgli di estrarre la spada
dal fodero.
Lo scontro si risolse poi in alcune spinte miste a imprecazioni. Un tavolo
venne rovesciato con un gran rumore di vasellame rotto, qualcuno sferrò un
pugno e qualcun altro indietreggiò barcollando con il naso sanguinante, poi i
nobili più maturi intervennero, accorrendo come mastini sulla selvaggina e
afferrarono i contendenti, separandoli e trascinandoli per buona misura fuori
della sala.
«Cosa mai sarà successo?» commentò Lilli.
«Oh, chi può saperlo?» replicò Bevyan, scrollando le spalle. «Gli uomini
sono sempre pronti a offendersi con estrema facilità.»
Mentre parlava vide però Anasyn che stava attraversando in fretta la sala in
preda alla confusione e le stava segnalando di raggiungerlo. Ordinando con
un cenno a Lilli di restare dov'era, Bevyan si diresse verso la curva della pa-
rete dove c'era una piccola area sgombra da curiosi e ben presto Anasyn ven-
ne a raggiungerla, con la manica destra fradicia di sidro, come se qualcuno
avesse scagliato un boccale pieno.
«Eccoti qui, Madre» iniziò. «Mio padre ha detto di riferirti quello che è
successo.»
«Davvero? Allora non si è trattato soltanto di uno stupido insulto.»
«Infatti. Qualcuno ha proposto di scommettere su quanto tempo sarebbe
passato prima che qualche membro della Compagnia della Regina riuscisse a
dividere il letto della sovrana e su chi sarebbe stato il vincitore. Loro hanno
sentito, e...»
«Oh, dèi! Allora i pettegolezzi sono arrivati a questo livello? Chi ha dato il
via a tutto?»
Anasyn scrollò le spalle, a indicare che non sapeva cosa rispondere. Intanto
nella grande sala tutti si stavano rimettendo a sedere e un paio di paggi stava-
no raddrizzando le panche rovesciate e raccogliendo i vassoi dalla paglia,
mentre un assortimento di cani seguiva i loro movimenti scodinzolando nella
speranza di un'altra rissa e di un altro pranzo imprevisto.
«Tuo padre ha fatto bene a dirti di informarmi» affermò Bevyan. Parlerò di
questo con Merodda perché per quel che ho potuto vedere lei è la sola ad ave-
re una certa influenza sulla regina.
«L'ho sentito dire anch'io.»
«Questo mi ricorda una cosa, caro. La regina mi ha detto che ti è stato of-
ferto di entrare nella sua Compagnia.»
«Ho rifiutato.»
«L'ho saputo, ed ero curiosa...»
«Non mi è mai piaciuto essere il cagnolino di qualcuno e tanto meno fare
parte di un branco. Il comportamento adorante che hanno nei suoi confronti è
disgustoso.»
Capisco, il mio ragazzo si è innamorato, pensò Bevyan.
«Hai ragione» si limitò però a replicare. «Ora è meglio che vada a vedere
come sta quella povera ragazza.»
A Dun Deverry la sala della regina occupava un intero piano della rocca
reale. Sedie intagliate, su cui erano ammucchiati cuscini laceri e sbiaditi, era-
no sparse su logori tappeti del Bardek e le pareti erano rivestite da arazzi an-
ch'essi segnati dal tempo. Al suo ingresso Bevyan si aspettava di trovare la
regina in lacrime per l'insulto mosso al suo onore ma scoprì invece che A-
brwnna stava camminando avanti e indietro davanti al focolare spento mentre
le sue damigelle se ne stavano raccolte con fare timoroso nella curva della
parete; una di esse stava piangendo e il modo in cui i suoi capelli erano arruf-
fati e scompigliati lasciava capire quale fosse l'umore della sua signora. Me-
rodda invece sedeva con calma su un davanzale come se stesse prendendo un
po' d'aria; quanto alle serve della regina, nella stanza non se ne vedeva trac-
cia.
«Finalmente sei qui, Lady Bevyan» esordì Abrwnna. «Ho bisogno dei tuoi
consigli.»
«Davvero, Altezza?» domandò Bevyan, accennando una riverenza nella di-
rezione approssimativa in cui si trovava la regina, che continuava a cammina-
re.
«Infatti. Lady Merodda ritiene che dovrei sciogliere la mia Compagnia.»
«Ah, temo di essere d'accordo con lei.»
«Ma io non voglio farlo!» esclamò Abrwnna, girandosi di scatto e solle-
vando un braccio come se avesse avuto intenzione di colpire la donna più an-
ziana. «Loro sono miei e non voglio perderli!»
«Nessuno può imporre nulla a Vostra Altezza» intervenne Merodda. «Be-
vyan, Sua Altezza ha chiesto la mia opinione e io gliel'ho fornita.»
«Come ho fatto anch'io» replicò Bevyan. «Se Sua Altezza lo desidera, non
affronteremo oltre l'argomento.»
«Puoi essere dannatamente certa che lo desidero!» esclamò Abrwnna, tra-
endo un profondo respiro e abbassando la mano. «Non vogliamo più sentir
parlare di questo in nostra presenza.»
«Come desidera Vostra Altezza» annuì Bevyan.

Negli anni passati, Dun Deverry aveva ospitato il triplo degli uomini che vi
vivevano adesso e nel suo complesso groviglio di cortili e di torri c'erano
molti edifici vuoti, per lo più stalle e baracche, ma anche una rocca deserta
che sorgeva in un piccolo cortile non lontano dalla rocca reale. I suoi piani
inferiori erano stati utilizzati per immagazzinare frecce, pietre e pali per spin-
gere le scale d'assedio lontano dalle mura, invece il piano superiore era del
tutto vuoto tranne per un mucchio di pelli conciate, rese rigide e friabili dal
tempo. A fatica, e con non poche imprecazioni, Lilli e Brour riuscirono ad
appenderle davanti alle finestre fino a impedire che filtrasse anche un singolo
raggio di sole.
«Bene» commentò infine Brour. «Non vogliamo certo che qualcuno veda
la luce della nostra lanterna e venga quassù a indagare.»
«Come hai trovato questo posto?» domandò Lilli.
«Sto cercando quel passaggio da settimane e questo mi ha indotto a curio-
sare in ogni sorta di angoli deserti. Mi sono ricordato di questa torre quando
ho deciso che era venuto il momento di provare il nostro rituale.»
«Pensi che qualcun altro venga quassù?» insistette Lilli.
«Nella polvere non c'erano tracce.»
Lilli lasciò vagare lo sguardo per la stanza. Si trattava di un ambiente del
tutto comune per gli standard di Dun Deverry e tuttavia a giudicare dalle ra-
gnatele e dalla polvere nessuno saliva più lassù da anni.
«Spero che questa sera mia madre non decida di farmi evocare qualche vi-
sione» commentò.
«Non lo farà» garantì Brour. «Mi ha detto che deve passare la sera con la
regina. Sai se Sua Altezza abbia qualcosa che non va?»
«No, ma scommetto che si tratta della lite che c'è stata la scorsa notte nella
grande sala. Tutti dicono che l'onore della regina è stato offeso e lei deve es-
sere senza dubbio sconvolta.»
«Ne sono certo, e questo dovrebbe tenere tua madre occupata quanto ser-
ve.»
«Infatti» annuì Lilli, poi starnuti e aggiunse: «Quassù c'è tantissima polve-
re. La cosa piacerà ai Signori della Terra?»
«Prima di cominciare pulirò un poco. Ora è meglio che tu vada, prima che
qualcuno noti la tua assenza. Io rientrerò dopo per evitare che ci vedano in-
sieme.»
Al suo ritorno nella rocca reale, Lilli trovò i servi intenti a scambiarsi pet-
tegolezzi in merito all'insulto mosso alla Compagnia della Regina e, per suo
tramite, alla regina stessa, e nel corso della sessione di cucito di quel pome-
riggio anche Bevyan si mostrò preoccupata per l'accaduto.
«La causa di tutti i problemi è avere tante giovani teste calde ammassate
nella fortezza in attesa dell'inizio dei combattimenti estivi. Sarà bene che il
Reggente porti via di qui i suoi uomini al più presto» affermò.
«Non capisco perché non lo abbia già fatto» osservò Lilli. «E tu, Bevva?»
«Ecco, non lo so per certo, ma Peddyc mi ha esposto le sue supposizioni»
replicò Bevyan, poi esitò come se stesse riflettendo su qualcosa e proseguì:
«Ritengo che il Reggente non abbia uomini a sufficienza per opporsi all'U-
surpatore e che stia cercando di radunarne altri.»
«Oh, allora questo significa che saremo sconfitti, vero?» esclamò Lilli.
Bevyan e Sarra sollevarono entrambe lo sguardo dal cucito per fissarla.
«Mi dispiace» balbettò Lilli. «Non avrei dovuto... oh, dèi! Dico sempre la
cosa sbagliata... mi dispiace.»
«Non ti devi scusare, cara» la consolò Bevyan. «Comunque questo non
vuol necessariamente dire che saremo sconfitti. Il Reggente ritiene di poter
trovare gli uomini di cui abbiamo bisogno e Peddyc pare essere d'accordo
con lui. Basterà una vittoria indiscussa perché molti dei nobili che sono pas-
sati all'Usurpatore tornino dalla parte del re.»
Se riusciremo a conseguire quella vittoria, pensò Lilli.
«L'attesa è una cosa orribile» affermò ad alta voce.
«Infatti, mia cara, infatti» sospirò Bevyan, poi tornò a concentrarsi sul suo
lavoro.
A Lilli parve però che d'un tratto lei si fosse fatta vecchia, che le strisce
bianche nei suoi capelli biondi si fossero allargate e si fossero tinte di un can-
dore mortale mentre la sua pelle aveva assunto una tonalità grigia e opaca.
L'immagine fu così nitida che per poco Lilli non si lasciò sfuggire un grido di
sgomento, ma poi si controllò bruscamente e disse a se stessa che Bevyan era
soltanto stanca e che lei aveva ricominciato a vedere cose inesistenti.
Subito dopo cena Bevyan e Merodda si ritirarono con la regina nelle sue
camere e Lilli poté sgusciare non vista fuori della grande sala e raggiungere
la torre abbandonata, dove trovò Brour ad aspettarla. Nel salire le scale notò
una scopa appoggiata alla parete del pianerottolo e una volta dentro vide che
le assi di legno erano state spazzate e pulite. Adesso Brour sedeva nel centro
della stanza circolare e intorno a lui, sulle pareti di pietra, danzavano le om-
bre proiettate da quattro lanterne poste a pari distanza una dall'altra.
«Sono posizionate nelle quattro direzioni, nella misura in cui sono riuscito
a determinarle» spiegò Brour, alzandosi per accoglierla. «Est, ovest, nord e
sud. Quando verrà il momento, è dentro la colonna di luce proiettata da cia-
scuna lanterna che dovrai visualizzare i Signori degli Elementi.»
«Benissimo» annuì Lilli. «Dovremo esercitarci molto, vero?»
«Moltissimo, perché tutto dovrà essere fatto in modo perfetto. Questa notte
mi limiterò a spiegarti le diverse parti del rituale e il loro significato, e poi
voglio insegnarti a rinforzare la tua aura.»
«La mia cosa?»
«È come un uovo di luce invisibile che circonda ogni persona vivente per
effetto del piano eterico che interpenetra quello fisico. Quando getti un sasso
in una polla le onde si allargano da esso, e cosa sono le onde se non un dise-
gno nella stessa acqua che riempie la polla? Pensa all'aura come a qualcosa di
simile a questo.»
Lilli cercò di riflettere su quanto aveva sentito.
«Non capisco» ammise infine.
«Non è una cosa facile da capire» riconobbe Brour, che peraltro pareva di-
vertito. «Prova però a pensarci sopra e vedi cosa ti affiora nella mente. Il pun-
to comunque è che quando avrai imparato a controllare la tua aura, tua madre
non ti potrà più sbirciare nella mente.»
«Splendido! Non c'è nulla che possa farmi più piacere» esclamò Lilli, sol-
levando lo sguardo.
«Non ne dubito» sorrise Brour. «Ora cominciamo.»

«Braemys è tornato questo pomeriggio» annunciò Burcan, «e ha portato le


notizie che stavo aspettando.»
«Davvero?» commentò Merodda. «Buone o cattive?»
«Buone. I nobili del settentrione hanno acconsentito a privare le loro for-
tezze anche di una guarnigione minima e quando marceremo avremo un eser-
cito al completo.»
Merodda si concesse un breve sorriso, ricambiato da Burcan. Sul finire del
pomeriggio i due erano seduti nella camera di lei accanto a un fuoco fumoso
mentre fuori la pioggia martellava contro le pareti e di tanto in tanto il vento
del sud inviava qualche folata a sollevare le pelli di cuoio appese a coprire le
finestre.
«Ci sono stati presagi?» domandò poi Burcan.
«Negli ultimi giorni non ho più chiesto a Lilli di trarne perché aspettavo di
ricevere notizie da te. Prima di poter interpretare un presagio, infatti, bisogna
sapere qualcosa dell'andamento della situazione.»
«Benissimo. Ah, dovrò ricordarmi di dire a Brae di scambiare qualche pa-
rola con lei... in merito al fidanzamento, intendo.»
«Sempre che non sia troppo impegnato per un cortese gesto di questo tipo»
ribatté Merodda con sarcasmo, che le fruttò un acido sorriso.
«Esitando, Burcan indugiò a fissarla in volto e Merodda non faticò a com-
prendere cosa lui volesse sapere, cosa tutti volessero sapere, Bevva e quel
dannato araldo e anche le serve... del resto, era da anni che tutti sospettavano
chi potesse essere il suo vero amante, lei poteva leggerlo negli sguardi sfug-
genti, nelle frasi esitanti. In quel momento un ceppo si consumò nel camino e
si afflosciò con una grande fiammata e una pioggia di carboni ardenti sulla
pietra.»
«Rhodi?» cominciò Burcan. «Credi davvero che questo matrimonio sia...
uh... er... ecco, che lo si possa permettere?»
Merodda sorrise nel fissare il focolare, dove i carboni ardenti si stavano
consumando uno dopo l'altro, e alle sue spalle sentì Burcan muoversi a disa-
gio sulla sedia e sospirare.
«È meglio che vada» disse infine Burcan. «Daeryc e gli altri gwerbret mi
stanno aspettando.»
«Così tardi?»
«Ho promesso di dire loro fra quanto saremmo partiti non appena avessi
conferito con il re. Quando sono passato da lui, il re stava dormendo, ma gli
ho parlato lo stesso. Del resto non ho promesso che avrei atteso una sua ri-
sposta.»
«Quando intendi partire?»
«Non appena arriverà il contingente dai settentrione, che è già in marcia.»

Il mattino successivo, allorché scese nella grande sala, Lilli trovò Braemys
che l'attendeva in fondo alla scala. Come tutti gli uomini del clan del Cin-
ghiale, Braemys era alto di statura, biondo di capelli e con gli occhi azzurri,
con i tratti squadrati propri del clan, e dall'ultima volta che si erano visti sul
suo labbro superiore era spuntata una linea di peluria che soltanto la cortesia
poteva indurre a definire baffi. Non appena la vide, le andò incontro con un
inchino a cui lei rispose con una riverenza.
«Mia signora, questo fidanzamento ti soddisfa?» domandò Braemys.
«Senza dubbio. E tu, mio signore, sei soddisfatto?»
«Certamente» replicò Braemys, poi si girò a guardare verso la parte oppo-
sta della sala e nel seguire la direzione del suo sguardo Lilli vide suo zio Bur-
can fermo vicino alla porta. «Ora è meglio che vada perché sta per iniziare il
consiglio di guerra» aggiunse quindi, e si allontanò a grandi passi per andare
a raggiungere suo padre.
Mentre li osservava fendere fianco a fianco la folla e uscire dalla sala, Lilli
ricordò a se stessa che come partito Braemys era molto meglio di Nantyn.
Nei giorni che seguirono lei ebbe comunque poco tempo per preoccuparsi
del suo fidanzato, perché Braemys fu sempre impegnato a causa dei consigli
di guerra e lei fu presa dalle sue esercitazioni con Brour. Una volta inoltre, a
tarda ora di una notte di pioggia, sua madre le chiese di evocare immagini
nell'inchiostro nero. Con Brour che come al solito teneva in mano la candela
lunga, Lilli fissò lo sguardo sulle ombre che danzavano nella ciotola d'argen-
to, nere su uno sfondo ancora più nero, e mentre l'incantesimo s'impadroniva
di lei, le parve che l'ululare del vento intorno alla rocca si mutasse in un coro
di voci che urlavano e gridavano.
«Lacrime e rabbia» fu la sola cosa che riuscì a dire in merito a quel lamen-
to. «Sento lacrime e terrore.»
Mentre parlava avvertì la mano di sua madre che accentuava la stretta in-
torno al suo collo.
«Prova ad ascoltare» sibilò Merodda. «Cosa stanno dicendo?»
«Non ci sono parole, solo pianto e paura.»
Poi nell'oscurità cominciarono a prendere forma immagini di cavalieri sen-
za testa in sella a cavalli neri che torreggiavano immensi su intere città nel
galoppare nella notte tempestosa. Infine i gemiti svanirono e Lilli sentì la
propria voce descrivere i presagi: spade che ardevano di un fuoco azzurro e
che formavano un enorme muro davanti a Dun Deverry, un esercito vestito
tutto di rosso che si scagliava contro quel muro solo per essere ricacciato in-
dietro lacero e morente e per raggrupparsi su una lontana collina.
«Stanno cavalcando ancora» affermò poi. «Li vedo cavalcare... un momen-
to, si sta dissolvendo tutto.»
Nella bacinella le spade fiammeggianti si spensero una dopo l'altra come
scintille sulla pietra del focolare, poi le immagini si fecero pallide e traspa-
renti prima di svanire a loro volta e per un momento ci fu solo oscurità prima
che la luce di una lanterna rivelasse una camera accogliente con le pareti co-
perte di arazzi a vivaci colori, nel cui centro c'era un uomo anziano dai folti e
arruffati capelli bianchi. Proteso in avanti su un tavolo, l'uomo stava guar-
dando in una bacinella piena d'acqua... ma d'un tratto sollevò lo sguardo e fis-
sò Lilli con penetranti occhi azzurro ghiaccio che parvero trapassarle l'anima.
«Ma guarda che sorpresa!» esclamò in tono divertito. «Chi sei, ragazza? Se
non stai attenta, ti farai del male a spiarmi in questo modo.»
Lilli accennò a rispondere ma scoprì di non poter parlare, poi la visione
s'infranse in una miriade di frammenti, come un piatto in frantumi, e infine
svanì, lasciando al suo posto un pallidissimo Brour che la stava scuotendo per
le spalle.
«Sei tornata? Sei tornata?» continuava a chiederle.
«Sono qui, Brour. Cosa c'è che non va?»
«È una cosa che vorrei sapere anch'io» intervenne Merodda. «Perché l'hai
fermata?»
«Perché quel vecchio è pericoloso: è il consigliere personale dell'Usurpato-
re, un mago dotato di immensi poteri.»
«Sono arrivata a vedere in Cerrmor?» domandò Lilli.
«Lo hai fatto» annuì Brour, asciugandosi il volto sudato, «oppure Nevyn ti
ha indotta a rivelarti con un inganno.»
«Chi?» interloquì Merodda. «Nessuno? Non parlare per enigmi.»
«Non lo sto facendo. Quell'uomo si chiama così, Nevyn, Nessuno, per un
miserabile scherzo che gli ha fatto suo padre.»
Accorgendosi che Merodda lo stava fissando con la bocca contratta in un'e-
spressione acida, Brour fece poi uno sforzo per ricomporsi.
«Ho studiato con lui» aggiunse, «e lo conosco piuttosto bene.»
«Non stava cercando di ingannarmi» osservò Lilli. «È rimasto sorpreso
tanto quanto me.»
«Ah» mormorò Brour, poi rifletté a lungo sulla cosa e infine aggiunse:
«Comunque per stanotte è meglio che tu non faccia altro, perché lui ti starà
cercando. È troppo pericoloso.»
«Cosa?» esclamò Merodda. «Ma i presagi...»
«Dovranno aspettare» la interruppe Brour. «È troppo pericoloso, mia si-
gnora, davvero, e sono pronto a spiegarti il perché.»
«Allora fallo» ingiunse Merodda, e rivolta a Lilli ordinò: «Tu lasciaci so-
li.»
Lilli ebbe un attimo di esitazione, ma quando sua madre sollevò una mano
inanellata si affrettò a uscire e a percorrere il corridoio fino alla sua camera.
Una volta dentro, al sicuro, si diresse alla finestra e constatò che anche se il
pavimento era fradicio di pioggia, fuori la tempesta era cessata e una pallida
luna pareva correre nel cielo fra brandelli di nubi sempre più frammentati.
«Aveva un'aria gentile» sussurrò, «davvero gentile. Se questo è il genere di
uomini che Cerrmor ha dalla sua parte...»
Subito però scosse il capo per allontanare quei pensieri improntati al tradi-
mento.
Quella notte tuttavia sognò Cerrmor, o almeno ne sognò un'immagine illu-
soria, dato che non vi era mai stata di persona, e sognò anche Nevyn che pa-
reva cercare di trovarla in mezzo a un vasto labirinto di siepi e di mura di pie-
tra. Quando infine si svegliò, immersa nella luce del sole che si riversava sul
suo letto, il sogno le rimase in mente; dopo essersi vestita era in procinto di
andare a cercare Brour quando lui stesso venne a bussare alla sua porta.
«Sono io» chiamò. «Ci sei, Lilli?»
«Sì» rispose lei, aprendo il battente. «Entra. Ho fatto un sogno stranissi-
mo.»
«Pensavo che potesse succedere» replicò Brour, affrettandosi a entrare e a
richiudersi la porta alle spalle; alla luce del sole il suo tondo volto infantile
appariva pallido e segnato, come se non avesse dormito per tutta la notte.
«Cosa c'è che non va?» domandò Lilli.
«Una quantità di piccole cose che sommate indicano grossi guai. Nevyn
che ti ha individuata e la mancanza di buon senso di tua madre che rifiuta di
smettere di evocare queste pericolose visioni.»
«Pericolose a causa di Nevyn?»
«Infatti. Se dovesse collegarsi a te, ci potrebbe spiare attraverso i tuoi oc-
chi.»
«Ma io non so molto in merito ai piani del re.»
«Ti sorprenderebbe scoprire quante cose sai senza renderti conto di saper-
le» ribatté Brour con un fugace sorriso. «Quello che più mi tormenta è però
un timore molto egoistico e personale perché non voglio che Nevyn mi tro-
vi.»
«Oh, e perché no?»
Brour sbatté rapidamente le palpebre, poi scrollò le spalle.
«Sono stato uno studente assai scadente e me ne sono andato prima di
quando avrei dovuto» rispose infine.
Nel sentire la nota di dolore nella sua voce, Lilli ebbe l'impressione che il
problema non fosse soltanto quello e che si trattasse invece di qualcosa di co-
sì vergognoso che lui preferiva non parlarne.
«È successo molto tempo fa» continuò intanto Brour, camminando fino al-
la finestra e poi tornando indietro. «Tutto questo mi ha fatto prendere una de-
cisione: non appena avremo eseguito il rito e trovato il passaggio, intendo la-
sciare Dun Deverry.»
«Oh, non te ne andare!» esclamò Lilli.
«Mi dispiace ma non posso restare qui. Tua madre e tuo zio hanno preso a
sospettare di me e quando riterranno che sia giunto il momento mi uccideran-
no. Ricordi il presagio della mia testa in una cassapanca? Sono certo che fos-
se verissimo. Speravo di conquistarmi il favore di tuo zio trovando quel pas-
saggio, ma ora penso che sia meglio usarlo per andarmene e lasciare che sia
tu a trarre vantaggio dal rivelare la sua esistenza.»
«Ti ringrazio, ma preferirei che non te ne andassi.»
«Potresti venire con me.»
Lilli sussultò e si portò una mano alla gola.
«Pensaci» insistette Brour. «La mia è un'offerta del tutto onorevole. Ti trat-
terò come una figlia se verrai con me per essere la mia apprendista. Inoltre
così ti salverai la pelle quando questa miserabile fortezza cadrà in mano al
nemico.»
Lilli sentì il sangue che prendeva a pulsarle alle tempie.
«Ora devo tornare dalla tua signora madre» concluse Brour, dando l'im-
pressione di voler sputare nel pronunciare il nome di Merodda. «Però pensa-
ci, Lilli, te ne scongiuro.»
Dopo che se ne fu andato, Lilli si avvicinò alla finestra e indugiò per molto
tempo a fissare il panorama offerto dalle numerose torri della fortezza senza
tuttavia vederlo davvero. Doveva prendere una decisione, e per la prima volta
nella sua vita non si poteva consigliare al riguardo con Bevyan.

Nel corso degli ultimi giorni Merodda si era accorta sempre più della cre-
scente influenza che Lady Bevyan aveva sulla giovane Regina Abrwnna, che
la includeva in ogni passeggiata in città, in ogni caccia con il falco o visita ai
templi e perfino nelle cene particolari nella sala reale. A volte capitava poi
che nel salire negli alloggi delle donne Merodda trovasse Bevyan là da sola,
intenta ad ascoltare le lunghe e divaganti conversazioni della regina.
«In un primo tempo mi ha fatto piacere, perché a volte Abrwnna può essere
davvero stancante» commentò con Brour.
«Davvero, mia signora? Ma ora non ti soddisfa più?»
«Ecco, non voglio perdere il favore della regina.»
«Ah, quella sarebbe davvero una grave perdita» convenne Brour.
Merodda indugiò per un momento a osservarlo mentre lui, la testa china sul
suo lavoro, procedeva a scrivere un proclama relativo al fidanzamento di Lilli
da distribuire agli araldi. Quando fosse giunto il momento le sarebbe dispia-
ciuto di vederlo morire, ma il favore di Burcan era sempre stato il centro del-
la sua vita, la sola cosa di cui aveva un disperato bisogno, ancor più del favo-
re elargito dalla regina, e se lui lo avesse voluto Brour sarebbe stato elimina-
to. Infilata la penna in un foro sul lato del calamaio, Brour prese intanto una
manciata di sabbia da un vassoio alle sue spalle e la sparse sull'inchiostro an-
cora umido.
«Cosa ne pensi di Bevyan?» domandò Merodda.
«Mi piace, mia signora, anche se devo ammettere che sul suo conto so ben
poco.»
«Ecco, questo è vero» annuì Merodda, chiedendosi cosa si fosse aspettata
di sentirgli dire. «Non importa. Stasera passerò la serata con la regina, nei
suoi alloggi. Chiunque altro desideri vedermi dovrà aspettare.»
«Benissimo, mia signora» assentì Brour.
Presa la pergamena, rovesciò quindi la sabbia nel vassoio e ricominciò a
scrivere.
Quella sera Merodda cercò di arrivare per tempo nelle camere della regina,
ma parve che l'intera corte stesse cospirando contro di lei per farle fare tardi
perché, quando si diresse verso le scale della grande sala, venne trattenuta da
una persona dopo l'altra... servi che chiedevano ordini, nobili che speravano
di ottenere qualche favore dal Reggente, dame che avevano voglia di chiac-
chierare e perfino un paggio con un messaggio di Burcan.
Quando finalmente arrivò nella sala delle donne, trovò che Bevyan l'aveva
preceduta ed era seduta su uno sgabello accanto alla regina, adagiata su una
sedia coperta di cuscini; intorno le dame di compagnia stavano preparando un
piccolo fuoco nel focolare mentre due serve stavano cantando una canzone
d'amore, a strofe alterne, e una terza suonava goffamente l'arpa per intrattene-
re la sovrana.
I loro sforzi però erano del tutto inutili, almeno a giudicare dall'espressione
accigliata di Abrwnna; quando Merodda entrò nella stanza lei le rivolse ap-
pena un cenno del capo e agitò poi una mano in direzione delle aspiranti arti-
ste.
«Oh, smettetela!» scattò quindi. «Detesto quella canzone.»
La musica cessò, le due cantanti si scambiarono un'occhiata e sfoggiarono
un sorriso di circostanza mentre l'arpista parve prossima a scoppiare in lacri-
me.
«È tutto incredibilmente tedioso» dichiarò Abrwnna, appoggiando la testa
allo schienale della sedia per fissare il soffitto. «Credo che finirò per morire
di noia.»
«Potremmo fare una partita a carnoic o giocare agli indovinelli, Vostra Al-
tezza» suggerì Bevyan.
«Sono stanca di questi giochi.»
«Altezza?» interloquì la ragazza con l'arpa. «Se il re tuo marito si unisse a
noi potremmo far venire un vero bardo a intrattenerci.»
«Non voglio qui quella bestia di mio marito. Quando ascolta la musica si
succhia il pollice.»
Le donne si scambiarono occhiate imbarazzate, poi le serve si affrettarono
ad andarsene ora che i loro servigi non erano più richiesti e nel frattempo Me-
rodda ne approfittò per occupare una sedia vuota.
«Intendo uscire a fare una passeggiata notturna» annunciò Abrwnna.
«Benissimo, Vostra Altezza» annuì Bevyan. «Potremo fare una bella pas-
seggiata nei giardini.»
«Non voglio nessuno con me.»
«Vostra Altezza!» esclamò Merodda. «Questo non sarebbe saggio.»
«Non m'importa se è saggio o no! Voglio stare sola!»
Le serve cominciarono a parlare tutte contemporaneamente, ma Bevyan si
alzò con calma e si pose di fronte ad Abrwnna, intercettando il suo sguardo
con il proprio.
«Mia povera bambina, so quanto deve essere terribile tutto questo e mi
duole il cuore per te» disse. «Dalla tua voce sento quanto sei stanca, sola e
spaventata.»
«Sì, sono tutte queste cose!» replicò Abrwnna, che pareva prossima al
pianto. «Oggi quando siamo uscite a cavalcare avrei voluto girare il cavallo e
galoppare via, senza meta, e perdermi. Qualsiasi cosa sarebbe meglio di u-
n'altra estate di quest'orribile guerra.»
Nel sentire quelle parole Merodda fu assalita da un senso di gelo: dunque
Bevyan era uscita a cavalcare con la regina mentre lei era stata lasciata alla
rocca.
«Noi tutte possiamo capirti» affermò Bevyan, rimettendosi a sedere ma gi-
rando lo sgabello in modo che la regina potesse vederla in faccia, «ma senza
dubbio tu sei più provata di noi da questa situazione.»
«Sono soltanto molto stanca» sussurrò Abrwnna. «Tutto questo non è giu-
sto.»
«Infatti non lo è» convenne Bevyan. «Oggi abbiamo cavalcato a lungo.
Vuoi che ti pettini i capelli in modo che dopo tu possa dormire? Domattina
porterà il sole e cose migliori.»
«Mi piacerebbe» decise Abrwnna, e rivolta a una delle donne ordinò: «Va'
a prendere i miei pettini.»
Mentre pettinava la regina, Bevyan continuò a parlare con la sua voce
sommessa, rilassandola come le carezze rilassano un gatto spaventato, poi
Abrwnna le permise di accompagnarla nella sua camera e di aiutarla ad anda-
re a letto. Quella notte, quando lasciò la sala delle donne, Merodda si chiese
se gli altri fossero in grado di avvertire il sentore della sua paura, che sem-
brava diffondersi come fumo alle sue spalle. Essere soppiantata in quel mo-
do! Come poteva mai permetterlo?

Nella rocca deserta, Lilli e Brour erano finalmente pronti a eseguire il ri-
tuale di evocazione. In ciascuna delle quattro direzioni era stata posizionata
una lanterna contenente una candela che Brour aveva acceso da una quinta
lanterna; a ridosso del muro c'erano un paio di sacchi di stoffa che lui aveva
dichiarato essere pieni di provviste e sul pavimento era stato tracciato con la
farina un grande cerchio.
«È un po' irregolare, vero?» commentò Brour, contemplando il proprio o-
perato con aria accigliata. «In ogni caso il cerchio che conta davvero è quello
che io visualizzerò.»
Lilli si era intanto seduta a gambe incrociate nel cerchio, rivolta approssi-
mativamente verso est e con davanti una grossa ciotola di terracotta che
Brour le aveva fornito perché potesse effettuare l'evocazione... in sostituzione
di quella d'argento che non aveva osato prendere per timore che Merodda ne
notasse la scomparsa... e che aveva riempito di inchiostro prelevato da una
bottiglia di cuoio.
«Benissimo» disse Brour, quando tutto fu a posto. «Sei pronta?»
«Sì» rispose Lilli, traendo un profondo respiro per calmarsi. «Comincia-
mo.»
Presa posizione direttamente davanti a lei e rivolto anche lui verso est,
Brour sollevò le braccia sopra la testa e intonò un canto con una strana voce
ringhiosa e vibrante. Pur non essendo in grado di comprendere le parole, che
suppose essere greggyn o qualche altra lingua antica, Lilli dedusse comunque
da come lui stava parlando che Brour stava evocando la Luce che dimorava
al di là degli dèi e la stava assorbendo dentro di sé per ottenere il potere per il
lavoro che dovevano svolgere.
Abbassate le braccia fino all'altezza delle spalle, Brour cantilenò ancora per
qualche momento, poi attese e infine le lasciò ricadere lungo i fianchi. Di
colpo Lilli ebbe l'impressione che la stanza si fosse fatta più grande e che
d'un tratto fosse stranamente affollata, perché anche se non riusciva a sentire
nulla tranne il respiro affannoso di Brour, le pareva comunque che l'aria vi-
brasse del ronzio di molte voci, come accadeva nella grande sala nel corso di
qualche evento ufficiale. Levata una mano come se stesse brandendo una
spada, Brour ricominciò quindi a cantilenare e nel pronunciare le parole sacre
ruotò lentamente su se stesso girando da est a sud, poi a ovest, a nord e anco-
ra a est in modo da tracciare sul piano astrale un cerchio di luce azzurra... o
almeno questo era quello che aveva spiegato a Lilli, che non riuscì a vedere
nulla di tutto ciò anche se d'un tratto si accorse che le pareti di pietra riluce-
vano di una tenue luce argentea, come se il suo sguardo stesse cogliendo un
qualche riflesso della magia.
«Io ti invoco!» esclamò poi Brour, ora in deverriano. «Io ti chiamo! O
Grande Re dell'Elemento della Terra, io ti invoco alla mia presenza! Mostrati
e fatti conoscere, nel nome dei grandi sigilli degli elementi e dei Signori della
Luce!»
Nel parlare si girò verso nord e Lilli si contorse in modo da poter vedere
cosa stava accadendo: la candela nella lanterna posta in quella direzione stava
proiettando sulla parete una grande colonna di luce, che per il momento non
pareva diversa dalle altre.
«Io ti invoco! Signore della Terra e del Settentrione, dimora della più gran-
de oscurità, vieni a me e mostrati!»
Le chiazze di luce dorata proiettate sulla parete presero d'un tratto ad allar-
garsi e a congiungersi in modo da formare una colonna fiammeggiante, poi il
chiarore s'intensificò e assunse una tonalità argentea. Lilli sussultò nel con-
statare che all'interno della colonna luminosa stava prendendo consistenza
una forma umana insolitamente snella che rimase indistinta, mutando con l'o-
scillare della luce, pur dando l'impressione di avere molta più consistenza di
un'ombra. Un tenue chiarore fra il grigio e il verde scorreva sul corpo dell'es-
sere, sempre che lo si potesse definire corpo, mentre una luce rossastra gli a-
leggiava dietro la testa e i suoi piedi poggiavano su una lucida sfera nera. Poi
Lilli sentì delle parole prendere forma nella sua mente e comprese che era
stato l'Altro a inviarle.
«Cosa vuoi da me, Figlio della Terra?»
«Che tu risponda a una domanda, una soltanto, o Grande Signore» replicò
ad alta voce Brour. «So bene quale grande onore sia per me che tu abbia ri-
sposto al mio richiamo.»
All'interno della colonna di luce la figura annuì appena, e in qualche modo
Lilli ebbe la certezza che essa fosse divertita dalla presunzione di Brour.
«Cosa vuoi sapere, Figlio della Terra?»
«Nelle profondità del tuo reame di terra e di pietra che si estende sotto que-
sta fortezza e gli edifici circostanti, c'è una galleria che porta dalla fortezza a
un punto al di là delle sue mura e delle mura della città che la circonda. Noi
desideriamo sapere dove si trova quella galleria.»
«Guarda!» ingiunse la figura, accennando con il capo verso Lilli. «Figlia
dell'Aethyr, guarda nella ciotola!»
Lilli obbedì e vide che sulla nera superficie dell'inchiostro cominciavano a
prendere forma alcune immagini: una porta in un muro, uno stretto sentiero
fra pareti di pietra, una torre diroccata che si ergeva in un cortile rivestito di
acciottolato. Dietro la torre erano visibili porte di legno inserite nel terreno.
«Una cantina?» esclamò, incapace di trattenersi. «È in una cantina? Ne sei
certo?»
Brour emise uno strillo di terrore ma Lilli sentì la risata del Re della Terra
riversarsi su di lei e nel sollevare lo sguardo sulla figura verdastra racchiusa
nella colonna di luce argentea constatò che in effetti pareva che l'essere stesse
ridendo.
«Ne siamo certi, piccola. Troverai ciò che cerchi sotto quelle porte. E ora
addio, Mago. Liberami!»
«Lo farò, o Grande Re della Terra. Ti sono grato per averci aiutati in questa
faccenda» rispose Brour, poi levò in alto le braccia e cominciò a cantilenare.
Ad ogni parola aliena che gli uscì di bocca, il chiarore argenteo si attenuò
fino a quando rimase soltanto la normale luce gialla della fiamma della can-
dela che danzava all'interno della lanterna. Con una mano levata a brandire la
spada astrale, Brour si girò verso est per cancellare il cerchio di fuoco azzur-
ro, poi si volse a ovest e cancellò con un piede parte del cerchio tracciato con
la farina.
«Che gli spiriti vincolati da questa cerimonia vadano liberi!» gridò. «È fini-
ta.»
E batté per tre volte un piede per terra. D'un tratto Lilli si accorse che la
stanza aveva ripreso le dimensioni normali e si era fatta di nuovo vuota, e al
tempo stesso vide Brour accasciarsi a sedere per terra con un lungo sospiro.
«Stai bene?» gli chiese.
«Sono stanco e assetato. Per favore, portami quella borraccia e bevi un po'
anche tu. In quel sacco ci sono pane e formaggio.»
Dopo le meraviglie di cui era appena stata testimone, Lilli trovò ridicola
l'idea di mangiare... fino a quando la vista del cibo non la indusse a rendersi
conto di quanto fosse in effetti affamata. Seduti nel centro del cerchio rituale
ora infranto, lei e Brour trangugiarono il cibo accompagnandolo con sorsate
d'acqua che parvero loro deliziose quanto il sidro migliore, e nel frattempo la
strana luce scintillante svanì del tutto dalle pareti, riportando alla consueta re-
altà un ambiente che per un momento si era fatto magico.
«È svanito tutto» commentò con malinconia Lilli. «Tutta la magia argente-
a.»
«Mangiare serve proprio a questo» sorrise Brour. «Non si può affrontare la
vita quotidiana in stato di trance. Inoltre abbiamo un'ultima meraviglia da
contemplare... il nostro passaggio segreto. Infatti è meglio andare a dare u-
n'occhiata prima di dimenticare i dettagli della visione.»
Finito di mangiare spensero tutte le lanterne meno una e dopo aver atteso
che si raffreddassero le riposero nei sacchi insieme alle candele di scorta for-
nite da Brour e lasciarono la torre.
Non appena fuori, Lilli riconobbe il percorso che le era stato mostrato dal
Re della Terra. La piccola porta inserita nel muro sembrava scintillare, come
se una traccia della luce magica fosse rimasta su di essa, e dopo averla oltre-
passata i due si vennero a trovare in uno stretto corridoio in discesa racchiuso
fra due alti muri che li condusse a un'altra porta. Come la prima, anche questa
non era chiusa a chiave e al di là di essa i due trovarono un grande cortile cin-
to da alte mura e cosparso di rovine... una torre infranta, mucchi di pietre e
cumuli di terra erbosa che probabilmente coprivano i resti di capanne e ba-
racche. «Pare che qui si sia combattuto duramente» osservò Brour.
«Infatti, ma deve essere successo molto tempo fa, dato che non ho sentito
nessuno parlarne. Può darsi che ci sia stato anche un incendio.»
«Già, e il re non ha fatto ricostruire nulla perché voleva tenere nascosta l'e-
sistenza del passaggio, dato che nessuno avrebbe avuto interesse a venire a
frugare fra delle rovine.»
Alla fine le speranze di Brour risultarono giustificate: alle spalle della torre
diroccata Lilli vide le porte di legno della sua visione, in parte marcite ma
ancora chiuse; mentre lei teneva alta la candela Brour le forzò e rivelò sei
gradini di terra battuta che portavano in una cantina dall'aspetto del tutto
normale... tranne per le cortine di muffa e di ragnatele.
«Oh, che odore orribile!» esclamò Lilli.
«Adesso stiamo almeno facendo entrare un po' di aria fresca» replicò
Brour. «Però non possiamo rischiare di indugiare qui fuori. Cosa succedereb-
be se qualche guardia dovesse vedere la luce della lanterna?»
Dopo essersi riempita i polmoni di aria fresca, Lilli scese i gradini. In basso
il pavimento era per lo più fangoso a causa dell'acqua che filtrava dal sotto-
suolo, ma qualcuno aveva disposto nel centro della stanza lastroni di pietra
che risultarono ancora agibili, anche se tanto viscidi da indurre Brour a sus-
sultare di disgusto a ogni passo.
«Come ha mai potuto chiunque far scendere quaggiù dei cavalli?» osservò
Lilli. «Il re deve averne avuto bisogno per fuggire.»
«Una buona domanda, anche se non so proprio come risponderti» ribatté
Brour, guardandosi intorno. «Forse non è la cantina giusta... oh! Guarda là!»
Nella parete di fondo della cantina spiccava una pesante porta di assi di
quercia rinforzate in ferro.
«Ah!» esclamò Brour con un sorriso soddisfatto. «Non si costruisce una
porta del genere soltanto per proteggere un raccolto di rape. Tieni alta la lan-
terna, ragazza, e vediamo se mi riesce di aprirla.»
Detto questo assestò una spinta al battente, poi provò a spingere ripetuta-
mente, grugnendo per lo sforzo, e finalmente la porta si smosse di un paio di
centimetri. Rincuorato da quel successo, Brour si appoggiò allora con le spal-
le al battente e prese a camminare all'indietro, esercitando con le gambe la
massima pressione possibile. Con il volto madido di sudore e il respiro affan-
noso, assestò poi un'ultima spinta e infine la porta si spalancò con un acuto
stridio, permettendo alla lanterna tenuta alta da Lilli di rischiarare una galle-
ria rivestita di blocchi di pietra intagliata alti circa due metri e mezzo e larghi
tre che si perdeva nell'oscurità al di là del raggio di luce proiettato dalla can-
dela.
«Bene» commentò Brour, con una risata affannosa, asciugandosi su una
manica il volto sudato, «sembra promettente. Quel passaggio è abbastanza
grande da permettere di condurvi dei cavalli, una volta che si sia riusciti a
farli scendere quaggiù.»
«Lo esploriamo stanotte?» chiese Lilli.
«Non sei troppo stanca?»
«Assolutamente no! Mi divora la curiosità.»
Se la cantina era già stata piena di sporcizia, la galleria era in condizioni
ancora peggiori e puzzava di marcio, con il pavimento irregolare cosparso di
pozzanghere di acqua opaca. Per non sporcarsi Brour si arrotolò i calzoni ma
Lilli dovette rassegnarsi a lasciare che il vestito si rovinasse perché non pote-
va reggere la lanterna e tenere sollevata la gonna al tempo stesso; per fortuna
quella sera aveva scelto di indossare un vecchio abito che avrebbe potuto re-
galare a una serva per evitare che sua madre le chiedesse dove e come si era
sporcata.
«Pensi che quaggiù ci possano essere dei topi?» domandò.
«È probabile che ce ne siano, ma la luce li farà scappare.»
Infatti mentre camminavano cominciarono a sentire rumori che parevano
prodotti da piccole creature che si dessero alla fuga nell'oscurità; dopo qual-
che tempo, poi, la galleria cominciò a inclinarsi verso il basso e su un lato
apparve un canale di scolo che correva da una parte della pavimentazione ir-
regolare.
«Bene» commentò Brour, indicando il canale. «Se non altro alla fine del
passaggio non troveremo ad attenderci un lago. Questa è una cosa di cui sta-
vo cominciando a preoccuparmi, ma è evidente che devono aver disposto del-
le aperture per lo sfogo dell'acqua, da qualche parte.»
«Allora probabilmente è così che i topi vanno e vengono» replicò Lilli.
«Per favore, vuoi smetterla di parlare di topi? Io sto cercando di non pen-
sarci.»
Dopo una distanza che a Lilli parve di poco più di mezzo chilometro, la
galleria tornò a essere in piano e a correre diritta nel sottosuolo, anche se ogni
poche centinaia di metri effettuava qualche deviazione per aggirare enormi
colonne di pietra intagliata.
«Sai di cosa si tratta?» le chiese Brour, poi spiegò: «Queste sono le fonda-
menta delle mura esterne della città. Stiamo proprio uscendo da Dun De-
verry.»
«In che direzione stiamo andando?»
«Non ne ho la minima idea.»
Quale che fosse la direzione in cui erano avviati, la galleria era comunque
piuttosto diritta. Dopo circa un chilometro e mezzo, Brour dovette fermarsi
per inserire una nuova candela nella lanterna e, quando infine la galleria s'in-
clinò verso l'alto la distanza percorsa era ormai tale che anche quella candela
stava cominciando a consumarsi. Dopo averla sostituita, i due affrontarono
un'erta salita in cima alla quale il pavimento del tunnel tornò a farsi orizzon-
tale.
«Un'altra porta!» gongolò Brour.
In effetti davanti a loro il passaggio era bloccato da un'altra porta con gli
stessi rinforzi in ferro e gli stessi cardini di quella che si erano lasciati alle
spalle a Dun Deverry; per fortuna questo secondo battente si apriva verso l'e-
sterno e con maggior facilità del primo, anche se Brour riuscì a spostarlo sol-
tanto di una sessantina di centimetri. Oltrepassata la porta i due si vennero a
trovare in un'altra cantina, questa però priva delle porte in cima ai gradini che
portavano all'esterno. Dall'apertura giungevano folate di aria fresca pervase
dell'umidità della notte, e nel respirare a fondo Lilli ebbe l'impressione che
nessun profumo, per quanto costoso, avesse mai avuto un aroma migliore.
«Il passaggio comunica direttamente con l'esterno» sussurrò.
«Nelle cantine è una cosa abbastanza frequente» replicò Brour, poi Protese
la testa all'esterno e aggiunse: «Ah, capisco. Un tempo questa cantina si tro-
vava sotto un edificio di pietra di qualche tipo che però è stato raso al suolo
ormai da molti anni... e per noi è una fortuna che sia così, dato che avevo
paura che finissimo per sbucare nella grande sala di qualche nobile e per es-
sere costretti a fornire un mucchio di spiegazioni.»
Quando uscì all'esterno, Lilli vide intorno a sé soltanto scure forme di pie-
tra che incombevano sullo sfondo del cielo stellato ma quanto riuscì a distin-
guere le fu sufficiente per dedurre che stava vedendo i resti delle mura ester-
ne che un tempo avevano cinto una piccola fortezza. Adesso tutto era in rovi-
na e intorno a loro erbacce e rampicanti crescevano a profusione.
«È meglio tornare indietro» suggerì poi Brour, dopo aver osservato le stel-
le. «Non vorrei che domattina di buon'ora tua madre mandasse un paggio a
cercarmi e scoprisse che non ci sono.»
Sulla via del ritorno, adesso che l'eccitazione che l'aveva sostenuta all'an-
data si era dissolta, Lilli si rese d'un tratto conto di essere sfinita e si sentì as-
salire da brividi di freddo e dall'incontrollabile bisogno di sbadigliare, con il
respiro sempre più affannoso per la fatica di percorrere il tunnel in salita.
Quando infine emersero dalla galleria, la candela nella lanterna era ormai
consumata e nello spalancare le porte esterne della cantina Brour constatò
che il cielo si stava già tingendo del grigiore dell'alba.
«Devi rientrare subito» disse a Lilli. «Se ti spicci riuscirai a tornare nella
tua camera senza che nessuno ti veda e a liberare gli abiti dal fango prima che
qualcuno lo noti.»
«Vado subito» garantì Lilli, poi esitò, ripensando al Grande Re della Terra
che scintillava nella sua colonna di luce, e aggiunse: «Tutto questo è stato
splendido, Brour.»
Lui accennò a sorridere ma poi finì per sbadigliare.
«Ne parleremo più tardi. Ora sbrigati a rientrare.»
Lilli riuscì a raggiungere la propria camera prima che il resto della fortezza
si svegliasse e una volta là si liberò dei vestiti fradici, che appese a una sedia
per far asciugare l'acqua fangosa di cui erano inzuppati con l'intenzione di
spazzolare via più tardi il grosso del fango, poi si lasciò cadere sul letto e il
sonno la reclamò all'istante.

«Hai visto Lilli?» domandò Merodda.


«No» rispose Bevyan. «Ho chiesto di lei a un paggio poco fa e mi ha rispo-
sto che stava ancora dormendo.»
«Piccola creatura pigra! Mi occuperò di lei più tardi. Questo pomeriggio
sei richiesta alla presenza della regina?»
«No perché mi hanno pregata di assistere la moglie di Lord Arwan. La po-
veretta sta sempre molto male e se vuoi il mio parere quest'anno non sarebbe
neppure dovuta venire a corte.»
«Non è mai stata di costituzione robusta» convenne Merodda, poi contem-
plò la sua rivale per un momento e aggiunse: «Se vedi Lilli, per favore, dille
di venire da me.»
Quel pomeriggio Merodda andò dalla regina decisa a sfruttare l'occasione
che le si era offerta ma era ormai tarda ora quando le si presentò infine la
possibilità di parlare da sola con lei, approfittando del fatto che le sue serve
erano scese al fiume per fare il bucato e che le dame di compagnia erano state
richiamate altrove dai rispettivi impegni personali. Rimaste sole, la regina e
Merodda sedettero vicino a una finestra che permetteva di vedere il sottostan-
te cortile con il suo affaccendato via vai, che lo faceva assomigliare a un tap-
peto del Bardek su cui fossero stati sparsi i giocattoli di un bambino.
«Guarda!» esclamò Abrwnna, indicando. «Ecco Lord Belryc. A volte pen-
so che sia quello che mi piace di più... all'interno della mia Compagnia, in-
tendo dire.»
«Soltanto a volte, mia signora?» sorrise Merodda, osservando quel giovane
nobile, biondo e abbronzato, che guidava il cavallo verso le porte.
«Ecco, mi piacciono tutti. Oh, è così orribile continuare a chiedermi cosa
dirà la gente! Rhodi, pensi che io sia una poco di buono?»
«Naturalmente no, mia signora! Ho la massima fiducia che tu capisca
quanto è importante il tuo onore e so che ti comporterai nel modo più giu-
sto.»
«Ma è tutto così ingiusto!» esclamò Abrwnna, smettendo di osservare il
cortile per girarsi a guardare in faccia Merodda. «Le altre dame hanno degli
amanti!»
«Le altre dame hanno dato ai loro signori degli eredi legittimi, mia signora,
e per questo ora possono...»
«Ma questo è anche peggio! Passeranno anni prima che Olaen possa... ec-
co, sai cosa intendo. E sempre ammesso che si viva fino ad allora! Oh, dèi.
Rhodi. la gente crede forse che io sia un'idiota o qualcosa del genere? Pensi
non sappia che con ogni probabilità trascorrerò il resto della mia vita chiusa
in qualche lugubre tempio, sempre che Cerrmor non preferisca farmi strango-
lare?»
«Mia signora, ti tormenti inutilmente. Il Reggente ha radunato un buon e-
sercito e non siamo ancora stati sconfitti, tutt'altro.»
«Forse no» ribatté Abrwnna, scuotendo il capo, «ma io non voglio morire
vergine dopo essere rimasta rinchiusa per anni però non voglio neppure che
la gente spettegoli sul mio conto. Bevva dice che l'onore è come l'acqua e che
una volta che lo si è versato, anche ammesso che si riesca a rimetterlo nel
bicchiere, è comunque sporco.»
«Lady Bevyan ha una visione molto ristretta per quanto concerne questo
genere di cose» affermò Merodda, pronta a cogliere al volo quell'occasione.
«Però lei ti piace, non è vero?» domandò Abrwnna.
«Certo, mia signora, e sotto certi punti di vista ci comprendiamo molto be-
ne, dato che in queste guerre abbiamo perduto entrambe figli e terre.»
«Deve essere stato orribile.»
«Infatti» annuì Merodda, distogliendo lo sguardo e concedendosi un lieve
sospiro. «Le donne imboccano però strade diverse: alcune di noi imparano ad
afferrare ogni briciola di gioia che la vita offre, mentre altre... ecco, diventa-
no stranamente aspre e dure.»
«Aspre?»
«Quando si tratta di giudicare altre donne. Alcune diventano così, sai...
come la nostra Bevyan.»
«Davvero?» esclamò Abrwnna, protendendosi in avanti con le mani serra-
te. «Cosa intendi quando parli di giudicare gli altri?»
«Oh, a dire il vero mi sto comportando in modo molto sleale. È solo che
Bevyan ha condotto una vita davvero esemplare e forse per questo fatica a
comprendere che altre persone possono non essere forti quanto lei.»
«Parla continuamente del bisogno di essere forti.»
«Infatti, e ha ragione, naturalmente. Nella tua posizione, mia signora, non
sarai mai abbastanza cauta, perché quello che la corte pensa di te è in effetti
importante e potrebbe diventare pericoloso se nobili di rango elevato come il
Tieryn Peddyc cominciassero a dubitare del tuo onore. È per questo che...»
Merodda esitò, osservando il volto della giovane regina.
«È per questo che?» la incitò Abrwnna, in tono secco.
«Nulla, mia signora, nulla che ti debba preoccupare.»
«Smettila di schermirti. Stavi per dirmi qualcosa e voglio sapere di cosa si
tratta.»
«Bene, A volte mi chiedo cosa possa dire Bevyan al suo signore.»
Abrwnna sussultò, un suono destato però da un sincero allarme e non da
una delle sue consuete finzioni.
«È questo che intendo quando dico che Vostra Altezza deve essere molto,
molto cauta» riprese intanto Merodda. «Conosci il vecchio detto: puoi toglie-
re dal miele le mosche morte ma dopo il suo sapore non ti sembrerà altrettan-
to dolce. Il tuo onore è tutto ciò che hai nella vita e puoi crederti se ti dico
che ci sono una quantità di donne che giudicheranno quanto tu sia degna del-
la posizione che occupi. Le più vecchie sono le peggiori, sempre in attesa che
chi è migliore di loro commetta un errore!»
«Cosa vanno dicendo sul mio conto!» esclamò Abrwnna, alzandosi in piedi
di scatto.
«Vostra Altezza!» replicò Merodda, alzandosi a sua volta. «Cosa ti induce
a pensare che qualcuno abbia...»
«Oh, non mi trattare da stupida perché non lo sono e ho capito benissimo
cosa hai voluto sottintendere. Che cosa dicono?»
Merodda esitò, assumendo un'espressione incerta e travagliata, poi si arrese
con un sospiro.
«Soltanto quello che Vostra Altezza può pensare» affermò. «Naturalmente
si tratta della Compagnia. Tutti quei giovani nobili ai tuoi piedi! Puoi imma-
ginare quanto sono gelose le altre donne? Soprattutto quelle non più giova-
ni?»
«Non intendo sciogliere la mia Compagnia, no, no, no!»
«Benissimo. In tal caso Vostra Altezza dovrà stare molto attenta a scegliere
le persone a cui fare confidenze.»
«Non posso credere che Bevyan mi tradirebbe.»
«Non lo ha fatto... non che io sappia» replicò Merodda, esitando ancora,
«ma d'altro canto nessuno oserebbe ripetere quegli offensivi pettegolezzi in
mia presenza. Quando però le altre donne si mettono a parlare a volte è molto
facile lasciarsi trascinare dalla corrente, se capisci cosa intendo, soprattutto se
non approvi certe cose o per meglio dire soprattutto se sei preoccupato... e tu
sai quanto Bevva si preoccupi per te, proprio come faccio io. Per te noi vo-
gliamo soltanto il meglio.»
Scuotendo il capo Abrwnna si diresse a grandi passi verso la finestra e
quando Merodda accennò a seguirla si girò di scatto con il volto solcato di la-
crime.
«Vattene!» ingiunse. «Ho bisogno di riflettere su tutto questo. Lasciami so-
la!»
«Altezza!» esclamò Merodda, sentendosi raggelare per il timore di aver e-
sagerato. «Non intendevo sconvolgerti in questo modo. Imploro il tuo perdo-
no.»
«Oh, Rhodi, non si tratta di te! È che mi sento... mi sento tradita e devo ri-
flettere su Lady Bevyan.»
«Oh, per favore, non essere irata con lei. È animata dalle migliori intenzio-
ni.»
«Lo sono tutti, tutti hanno buone intenzioni. La povera, piccola regina, così
mi chiamano. Credi che sia stupida, che non lo sappia? Si suppone che io sia
sempre onorevole indipendentemente da quanto mi sento infelice, e tutti si
preoccupano che io possa macchiare il mio onore e io li odio tutti! Vattene»
esclamò poi, scoppiando in singhiozzi. «Via di qui!»
Merodda si congedò con un'affrettata riverenza e lasciò la stanza, ma men-
tre scendeva le scale un lento sorriso le affiorò sul volto.
Quando tornò nel suo appartamento chiamò a sé Brour e nel non avere ri-
sposta andò a dare un'occhiata nella sua camera da letto, scoprendo che era
vuota. Per un momento prese in considerazione l'eventualità di mandare un
paggio a cercarlo, ma poi decise che era troppo stanca per evocare visioni e
scese invece nella grande sala per osservare da lontano i grandi nobili intenti
a pasteggiare e a bere sidro; come le altre donne, anche lei poteva soltanto
avanzare ipotesi sulle cose di cui essi stavano discutendo in tono tanto urgen-
te.
Quella sera però, nell'osservare la luce del fuoco che si rifletteva su quei
volti sudati lei si sentì sfiorare dal dweomer e le parve di udire lo stridere dei
corvi che banchettavano su un campo di battaglia. Quella sensazione destò
nel suo animo un profondo senso di raggelante terrore, accompagnato dalla
spaventosa certezza che quella sensazione di paura non l'avrebbe abbandona-
ta mai più.

Circa due ore prima dell'alba, Lilli incontrò un'ultima volta il suo maestro
nella cantina deserta; vestito da viaggio e avvolto in un pesante mantello di
lana, Brour portava con sé come unico bagaglio il suo prezioso libro.
«Senza scorte di viveri non arriverai lontano» osservò Lilli.
«Oh, mi aspettano nella galleria. Ho nascosto un po' di viveri alla spiccio-
lata nel corso della giornata, approfittando del fatto che tua madre è rimasta
quasi tutto il giorno con la regina.»
In effetti quando aprirono la porta interna Lilli vide uno zaino appoggiato
alla parete; accesa la lanterna con uno schiocco delle dita, Brour riaccostò il
battente senza però richiuderlo del tutto.
«Correremo il rischio che qualcuno lo veda, perché da sola non riuscirai
mai a riaprirlo» commentò.
Frugatosi nelle tasche, consegnò a Lilli due candele da utilizzare per il tra-
gitto di ritorno, poi si tolse il mantello e lo arrotolò per legarlo allo zaino e in-
fine ripose il libro in una sacca di cuoio che infilò nello zaino prima di issar-
selo a fatica sulla schiena.
«Sono giunto a Dun Deverry come un venditore ambulante e me ne vado
nello stesso modo. Senza dubbio il Re di Eldidd apprezzerà i miei servigi,
quindi credo proprio che andrò a ovest» affermò, ma il modo in cui pose l'ac-
cento sulla parola "ovest" indusse Lilli a dubitare che le stesse mentendo.
«A ovest?» ripeté quindi.
«Infatti» confermò lui, senza però riuscire a guardarla negli occhi. «Ah,
forza, Lilli, prendi quella lanterna e mettiamoci in marcia.»
Dal momento che il peso dello zaino era tale da lasciare Brour a corto di
fiato, i due parlarono ben poco nel corso del lungo e faticoso tragitto nel pas-
saggio umido e scivoloso fino alla porta esterna. Arrivato dalla parte opposta
Brour posò lo zaino per spingere il battente e quando la luce del sole si river-
sò nella cantina si issò di nuovo in spalla il bagaglio per poi salire la scala se-
guito da Lilli, che si concesse una profonda boccata di aria fresca. Alla luce
del sole poteva vedere con chiarezza le rovine circostanti il passaggio... pareti
di pietra diroccata e travature carbonizzate, i normali resti di quella che do-
veva essere stata la fortezza di un nobile di rango minore. In alto numerosi
corvi neri volavano stridendo in cerchio intorno al moncone della rocca.
«Lilli, vieni con me» insistette Brour. «Temo davvero per la tua vita.»
«Non posso.»
«Ne sei certa, ragazza? Per gli dèi, tutta la città puzza di disastro! Ti giuro
che con me sarai al sicuro: non alzerò mai un dito su di te e ti tratterò come
una figlia.»
«Lo so, ma non dipende da me» rispose Lilli, poi esitò, chiedendosi come
mai si fidasse così tanto di quell'uomo, e alla fine proseguì: «Il mio posto è
qui. Sono una donna del clan del Cinghiale e non posso fuggire. Cosa pense-
rebbe Bevva di me?»
Brour sospirò, sfregandosi con aria riflessiva la bocca con il dorso della
mano.
«D'accordo» si arrese infine. «Forse tu sai cosa sia meglio per te e comun-
que sulla strada non saresti in ogni caso al sicuro. Il poco dweomer di cui di-
spongo mi può proteggere abbastanza bene, ma se gli uomini della banda di
guerra di qualche nobile dovessero invaghirsi del tuo bel volto, non potrei fa-
re nulla per fermarli. Ricorda di darmi un buon vantaggio prima di rivelare a
tuo zio l'esistenza del passaggio in modo da ottenere il suo favore.»
«Lo farò. E grazie ancora di tutto.»
Brour sorrise, si issò lo zaino in spalla e con un cenno di saluto si allontanò
fra le pietre diroccate. Lilli intanto si arrampicò su un tratto di muro per
guardarsi intorno e studiare l'area circostante, in quanto sapeva che zio Bur-
can avrebbe voluto sapere dove si trovava quel prezioso passaggio. A una
certa distanza verso il sole nascente scorse il Belaver, una striscia di argento
scintillante, mentre nella direzione opposta vide alcuni pascoli e una fattoria
abbandonata, con la casa in rovina e il terrapieno protettivo ormai coperto
dall'erba; da lassù riuscì anche a distinguere Brour che stava percorrendo un
sentiero polveroso dando le spalle al sole nascente, e dentro di sé gli augurò
buona fortuna, dovunque fosse diretto.
Scesa dal muro, rientrò nella galleria e sia pure a fatica riuscì a richiuderne
la porta, poi accese una nuova candela e si avviò in tutta fretta verso Dun De-
verry, tormentata da un timore che non l'abbandonò per tutto il tragitto: cosa
avrebbe fatto se avesse scoperto che qualcuno era entrato nella cantina e nel
vedere la porta aperta l'aveva chiusa, senza riflettere? Spronata da quella pau-
ra avrebbe voluto correre, ma non osava farlo perché la candela si sarebbe
spenta, lasciandola nell'oscurità più totale; quando infine raggiunse la salvez-
za offerta dall'altra cantina, la sua ansia era tale che era prossima al pianto.
Adesso tutto quello che le rimaneva da fare era informare zio Burcan del-
l'esistenza di quella via di fuga, ma considerato che Brour sarebbe stato ral-
lentato dal peso dello zaino decise che avrebbe aspettato almeno due giorni
prima di parlare. Spenta la candela richiuse la porta del passaggio, salì i gra-
dini che portavano nel cortile e si avviò per tornare alla rocca Principale,
guardandosi intorno con circospezione per evitare di essere vista da paggi che
avrebbero potuto parlare di lei a Merodda. Sapeva di dover evitare ogni con-
tatto con sua madre fino a quando non si fosse liberata degli abiti infangati.
Quando infine sgusciò non vista nella grande sala, si bloccò per la sorpresa
nel constatare che sebbene fosse soltanto metà mattina la tavola alta del re era
circondata di nobili furenti che discutevano in tono iroso con Burcan mentre
il giovane re si teneva nascosto alle sue spalle con aria spaventata; il suo
sguardo si posò poi sul Tieryn Peddyc, che era rimasta in disparte con le
braccia conserte e le labbra pallide per l'ira, ma prima che potesse chiedersi il
significato di quanto stava accadendo, una serva si accorse di lei e si affrettò
a raggiungerla.
«È terribile» sussurrò la ragazza. «La regina ha scacciato Lady Bevyan dal-
la corte.»
«Cosa? Perché? Come ha potuto fare una cosa del genere?»
«Non lo so, mia signora, ma scommetto che non c'è un motivo degno di
questo nome. Oh, che vergogna!»
Attraversata di corsa la grande sala, Lilli salì a precipizio le scale e si lan-
ciò lungo il corridoio fino alle camere di Bevyan, facendovi irruzione senza
neppure bussare; all'interno, Bevyan stava ripiegando con calma le lenzuola
per riporle in una cassapanca di legno in previsione del viaggio imminente,
mentre Sarra sedeva in lacrime su una sedia, vicino a lei.
«Hai saputo, vero, mia cara?» commentò Bevyan. «Non ti preoccupare,
non è una cosa grave.»
«Invece lo è! Come ha potuto? Ti ha fatto una cosa orribile!»
«È vero, mia cara, ma non è nulla che io non possa sopportare. Suvvia, Sar-
ra, smettila! Devi raccogliere le tue cose, quindi basta con quelle lacrime!»
Sarra si asciugò gli occhi con una manica.
«Così va meglio» approvò Bevyan. «Ora, perché non vai a prendere i pezzi
della camicia nuziale di Braemys per darli a Lilli? Non vorrei che finissimo
per portarli via per errore.»
Deglutendo a fatica, Sarra annuì e si alzò per obbedire. Non appena lei fu
uscita dalla stanza, Lilli si girò verso la madre adottiva.
«Ma perché?» domandò. «Perché ti ha mandata via?»
«Ha detto che ho destato la sua ira» spiegò Bevyan, sorridendo, «e non du-
bito di averlo fatto sul serio, sottolineando alcune verità. È una bambina
sciocca e si trova in una posizione terribile, per la quale non è abbastanza for-
te. Ora però aiutami a riporre queste lenzuola, mia cara, perché dobbiamo
partire oggi stesso.»
«Oggi? Oh, non è giusto!»
«Capita spesso che la vita sia ingiusta. Il mio signore ha inviato un mes-
saggero a Lord Camlyn e stanotte ci fermeremo nella sua fortezza.»
«Non sarai al sicuro, là fuori!»
«Peddyc ci ha fornito una scorta di trenta uomini, che una volta a casa fun-
geranno anche da guardia per la fortezza.»
«Ho visto il tieryn nella grande sala» osservò Lilli, prendendo una coperta
e cominciando a piegarla. «Sembrava furente.»
«Non ne dubito. Ha chiesto a Burcan di intercedere per me presso tua ma-
dre.»
«Mia madre?»
«In genere la regina fa quello che le suggerisce tua madre.»
All'improvviso Lilli ebbe l'impressione che le gambe rifiutassero di sorreg-
gerla e si sedette pesantemente sul bordo del letto disfatto, sfregandosi il vol-
to con entrambe le mani per impedirsi di piangere e di turbare ulteriormente
Bevyan. A dire il vero, più che di piangere aveva voglia di urlare di rabbia al
pensiero che in quello stesso giorno avrebbe perso le due uniche persone che
nella sua vita si fossero mai preoccupate di lei e del suo benessere.

«Mi vorresti spiegare perché hai fatto scacciare Lady Bevyan dalla corte?»
ringhiò Burcan.
«Non ho fatto nulla di simile» ribatté Merodda. «È stata la Regina A-
brwnna a...»
«Oh, tieni a freno la lingua! La regina fa quello che le dici tu.»
D'un tratto Merodda si rese conto con sorpresa che suo fratello era effetti-
vamente infuriato e si costrinse a sfoggiare il suo sorriso più conciliante.
«È una questione di donne, mio signore, nulla per cui tu debba sprecare il
tuo tempo.»
«Se il Tieryn Peddyc si sentirà insultato...»
«Ora capisco. Ebbene, Bevyan stava cominciando a chiedersi chi potesse
essere il vero padre di Lilli e mi ha fatto capire di saperne abbastanza da so-
spettare di... di noi. Dovevo fare qualcosa.»
Burcan si soffermò a riflettere e l'ira gli evaporò a poco a poco.
«Hai paura che la fedeltà di Peddyc venga meno, vero?» continuò Merod-
da. «Ebbene, ho il sospetto che Bevyan abbia avuto una certa voce in capitolo
anche in questo. Per lei va benissimo parlare della pace e di quanto sarebbe
bello porre fine alle guerre, considerato che lei e il suo signore otterrebbero
un condono nel caso di una vittoria dell'Usurpatore, cosa che a noi non ver-
rebbe di certo concessa.»
«Infatti. Però adesso che l'hai mandata via non potremo tenerla d'occhio. E
se fosse lei la persona che hai visto nei presagi, quella che sta complottando
contro di noi?»
«In tal caso forse la si dovrebbe eliminare definitivamente.»
«Sciocchezze! Non voglio sentirne parlare.»
«Perché no? Non mi fido di lei» insistette Merodda, fissando suo fratello
negli occhi, «e poi sei tu quello che si sta chiedendo se Peddyc è ancora fede-
le al nostro re. E se lui passasse dalla parte di Cerrmor? Quanti uomini porte-
rebbe con sé?»
«Troppi... ma, per gli dèi, non posso mantenere fedele un uomo assassi-
nandogli la moglie! Sei impazzita?»
«Per nulla. Ora siediti e ascoltami, perché ho un piano.»
Burcan la fissò per un lungo momento, poi scrollò le spalle in segno di re-
sa.
«Benissimo» concesse. «Non so perché spreco il mio tempo a dubitare di
te.»
Merodda sorrise a sua volta e gli permise di baciarla.

A causa del tempo perso a caricare il carro e a scegliere la scorta, era ormai
quasi mezzogiorno quando infine Bevyan lasciò Dun Deverry. Ancora furen-
te, Peddyc l'accompagnò a cavallo fino alle porte cittadine e poi per un altro
paio di chilometri al di là di esse. Quando arrivarono alla strada che portava a
ovest e verso Hendyr, il nobile fece arrestare il gruppo e si protese sulla sella
per baciare la moglie.
«Pensa a salvaguardare te stesso, amore mio» gli raccomandò Bevyan.
«Nella mia vita sono sopravvissuta a cose peggiori di questo insulto.»
«Davvero? Ebbene, è meglio che una cosa del genere non si ripeta, altri-
menti...» cominciò Peddyc, poi si controllò a fatica, guardando in direzione
dei suoi uomini, e infine proseguì, rivolto a loro: «Custodite bene la mia si-
gnora lungo il tragitto, ragazzi. Il messaggero dovrebbe avervi preceduti di
parecchio, quindi senza dubbio la moglie di Lord Camlyn vi starà aspettan-
do.»
«Sta' tranquillo, mio signore» rispose il giovane Doryc. capitano tempora-
neo della scorta, inchinandosi sulla sella. «E una volta a casa difenderemo la
fortezza fino al tuo ritorno. Non aver timori al riguardo.»
Peddyc si concesse uno stanco sorriso, poi sollevò una mano per segnalare
loro di rimettersi in marcia. Girandosi sulla sella, Bevyan si concesse di lan-
ciarsi un'ultima occhiata alle spalle in direzione del marito ancora fermo al
crocevia; quando poi lei agitò una mano in segno di saluto, Peddyc fece gira-
re il cavallo e si allontanò al galoppo verso Dun Deverry.
I cavalli si avviarono al passo nella gradevole ombra creata dagli alberi che
fiancheggiavano la strada e per qualche tempo Bevyan sonnecchiò sulla sella
mentre intorno a lei gli uomini della scorta chiacchieravano in tono sommes-
so e il carro procedeva fra uno scricchiolare di assali e un tintinnare di fini-
menti. Poi Sarra cominciò a intonare una delle lunghe canzoni che le donne si
cantavano a vicenda per passare il tempo mentre erano impegnate nei loro la-
vori e Bevyan accennò a unirsi a lei, ma si trattenne nel rendersi conto che
Sarra stava cantando la ballata di "Brangwen e Gerraent".
«Oh, non questa canzone!» esclamò in tono secco, poi subito aggiunse:
«Scusami, suppongo di avere i nervi un po' tesi.»
«Ma questa è una delle tue ballate preferite» obiettò Sarra, scoccandole u-
n'occhiata sorpresa.
«Preferisco cantare qualcosa di diverso, per esempio la ballata di Lord Be-
noic. Avanti, comincio io.»
Verso la metà del pomeriggio entrambe avevano cantato tante ballate da
avere ormai la gola indolenzita, e Bevyan era sul punto di ordinare una sosta
per riposare e abbeverare i cavalli quando più avanti sulla strada echeggiò
una voce maschile che gridò qualcosa di incomprensibile in tono minaccioso.
«Fermi!» esclamò il giovane Doryc, sollevando una mano. «Cosa succe-
de?»
Gli uomini si arrestarono ma le loro cavalcature presero ad agitarsi, d'un
tratto allarmate; un momento più tardi Bevyan sentì poi alcuni cavalli so-
praggiungere al galoppo alle sue spalle e nel girarsi sulla sella vide una squa-
dra di uomini armati che stava emergendo dagli alberi, dietro di loro. Poi Sar-
ra lanciò un acuto urlo di terrore quando un altro gruppo di cavalieri irruppe
sulla strada più avanti in modo da prendere fra due fuochi gli uomini dell'A-
riete,che si affrettarono a estrarre la spada imprecando nel vedere quegli sco-
nosciuti lanciarsi contro di loro al galoppo, segno che non intendevano perde-
re tempo a parlamentare.
«Cerrmor!» gridò d'un tratto Doryc, nel vedere che i nemici erano muniti di
scudi ovali su cui era dipinto lo stemma delle tre navi.
Poi la prima ondata di cavalieri si riversò su di lui e lo gettò di sella. Gri-
dando e vibrando colpi di spada, gli uomini della scorta cercarono allora di
fare un cerchio intorno alle due donne, ma i nemici furono loro addosso, nu-
mericamente superiori nell'ordine di due o tre contro uno. Bevyan era impe-
gnata a cercare di controllare il cavallo spaventato, che continuava a impen-
narsi e a scalciare, quando sentì Sarra lanciare un urlo che s'interruppe di col-
po e nel girarsi sulla sella vide la sua serva accasciarsi sanguinante sul collo
del cavallo. Assestato uno strattone alla propria cavalcatura, Bevyan la fece
girare e diede di sprone: reagendo al suo comando, il cavallo si lanciò allora
verso un lato della strada, ma due cavalieri furono pronti a intercettarlo e uno
di essi levò in alto la spada insanguinata, bloccandosi però poi a metà del ge-
sto per la vergogna quando lei lo fissò in volto.
«Che gloria c'è nell'uccidere delle donne?» chiese Bevyan, in tono rin-
ghiarne. «Che la Dea vi maledica tutti!»
L'uomo esitò, guardandola con espressione angosciata, ma il suo compagno
imprecò e si sporse dalla sella con la spada protesa.
«Burcan!» esclamò Bevyan, riconoscendo i grandi occhi azzurri visibili
sotto il bordo dell'elmo, poi fu assalita da un'ondata di dolore bruciante che la
fece crollare nella polvere della strada. Per un momento ancora il mondo le
vorticò intorno, quindi l'oscurità s'impadronì di lei, annullando anche l'inten-
so odore del sangue.
Invece di assistere alla partenza della madre adottiva, Lilli preferì nascon-
dersi nella sua camera e poiché era molto stanca per la lunga camminata nella
galleria sotterranea, finì per crollare addormentata sul letto... soltanto per
svegliarsi di soprassalto e sollevarsi a sedere di scatto con l'orecchio teso,
certa di aver sentito una donna urlare. Intorno a lei la camera era però immer-
sa nel silenzio e dalla finestra entrava la luce del tardo pomeriggio, punteg-
giata di granelli di polvere.
«Quella era la voce di Sarra» si disse, ad alta voce. «Suppongo sia stato
soltanto un brutto sogno.»
Un freddo e irrazionale senso di terrore sorse però ad avvilupparla in ma-
niera così totale che per un momento il respiro le si bloccò nel petto, e anche
dopo che si fu alzata quella sensazione continuò a tormentarla, facendola
tremare. Per sfuggire al silenzio che la circondava, si affrettò allora a scende-
re nella grande sala che cominciava a riempirsi di gente per l'approssimarsi
del pasto serale, ma una volta là si accorse di non riuscire a sopportare nep-
pure tutto quel rumore e preferì uscire all'esterno per girovagare fra cortili e
torri nella luce del crepuscolo, sempre accompagnata dal quel senso di terrore
che pareva artigliarle le spalle con dita gelide fino a farle dolere.
Le stelle cominciavano ad affiorare nel cielo ormai cupo quando infine si
venne a trovare nelle vicinanze delle porte principali, dove era in corso il
cambio della guardia e una fila di uomini stanchi stava scendendo dai bastio-
ni, lanciandosi richiami e parlando soprattutto della cena imminente. Proprio
mentre le porte cominciavano a chiudersi per la notte, Lilli sentì echeggiare
un corno d'argento sulla strada esterna, poi alcuni uomini gridarono e lei udì
un tamburellare di zoccoli misto a un tintinnare di finimenti. Subito le guar-
die proiettarono tutto il loro peso sulla leva dell'argano e bloccarono le porte,
che rimasero aperte dello spazio appena sufficiente a far passare un solo ca-
valiere per volta.
Il primo ad addentrarsi nel chiarore delle torce accese nel cortile fu zio
Burcan e nel vederlo Lilli si ritrasse nell'ombra del muro dove nessuno pote-
va accorgersi di lei mentre osservava il passaggio degli uomini del Cinghiale;
accorgendosi che alcuni di essi erano feriti, pensò che si fossero imbattuti in
qualche nobile che aveva tradito o in guerrieri di Cerrmor, poi notò che seb-
bene al pomo di ogni sella fosse appeso uno scudo dipinto con lo stemma del
Cinghiale, tutti i cavalieri portavano dietro la sella un oggetto a forma di scu-
do avvolto in vecchia tela da sacco. Trovando strana la cosa, si protese per
vedere meglio e il suo sguardo si posò su uno di quegli scudi, il cui sacco era
scivolato verso il basso quanto bastava per esporre lo stemma di Cerrmor...
una cosa ancora più strana che ebbe l'effetto di intensificare ulteriormente il
terrore che la attanagliava e di darle la certezza che fosse successo qualcosa
di terribile.
Dopo che la banda di guerra ebbe lasciato il cortile Lilli attese ancora a
lungo prima di risalire la collina e di tornare nella grande sala, dove i cavalie-
ri del Cinghiale avevano ormai preso posto ai tavoli insieme agli altri. Con-
statando che Burcan e Merodda non si vedevano però da nessuna parte. Lilli
si affrettò a salire le scale prima che chiunque si accorgesse di lei. perché se
nessuno le avesse riferito qualche messaggio di sua madre avrebbe potuto e-
vitare di presentarsi al suo cospetto. Purtroppo Merodda l'aveva vista sguscia-
re via e si affrettò a seguirla, raggiungendola sul pianerottolo.
«Lilli, aspetta! Ti devo parlare.»
Lilli si arrestò e compose il volto in un sorriso. Nel vedere Merodda che
avanzava verso di lei con espressione furente si rese poi conto che era arriva-
to il momento di mettere alla prova i suoi nuovi talenti e visualizzò la propria
aura in modo da mutarla in un duro muro liscio che le si parasse davanti, pro-
prio come le aveva insegnato Brour.
«Dov'è Brour?» chiese in tono secco Merodda. «Lo sai?»
«No, madre. Non è nelle tue camere?» replicò Lilli.
Merodda piegò il capo da un lato, scrutandola attentamente in volto, ma
Lilli continuò a sorridere e a immaginare la propria aura come un muro, che
trasformò in una fortezza di pietra che la circondasse.
«Non è nelle mie stanze e neppure nella grande sala» ammise infine Me-
rodda, «e neanche i bardi sanno dove sia. È davvero strano.»
«Se non sbaglio c'è una serva che gli piace. Ho sentito dei pettegolezzi al
riguardo» suggerì Lilli.
«Non ci avevo pensato» esclamò Merodda, con una risatina stupita. «Può
darsi che tu abbia ragione.»
Poi si volse e si allontanò per tornare nella grande sala mentre Lilli prose-
guì con passo tranquillo verso la sua camera anche se dentro di sé aveva vo-
glia di danzare per la gioia: aveva funzionato! Il trucco di Brour aveva fun-
zionato! Adesso non avrebbe più dovuto temere che sua madre riuscisse a ca-
pire quando le mentiva. Una volta sola nella sua camera, con lo sguardo fisso
sulle ombre che la candela proiettava sulle pareti di pietra, si ricordò però di
Bevyan e di come lei fosse stata allontanata dalla corte e tutta la soddisfazio-
ne derivante dal dweomer svanì. Quella sera rimase nascosta nella sua came-
ra e per fortuna Merodda non mandò un paggio a convocarla, ma poi per tutta
la notte fu tormentata da sogni orribili in cui una donna bionda, nuda sotto la
luce della luna e con la bocca irta di zanne insanguinate, si aggirava fra un
branco di pecore come un cane rabbioso, seminando strage.
Fu soltanto a mezzogiorno che Lilli apprese cosa avessero significato quei
presagi. Era seduta alla tavola di sua madre e stava cercando di mangiare del
pane che sembrava incollarlesi alla gola contratta quando la sua attenzione fu
attratta da un'improvvisa agitazione vicino alla porta. Apparve un messagge-
ro impolverato, che accennò un inchino al re e al Reggente ma non si fermò
davanti a loro e andò invece a inginocchiarsi accanto al Tieryn Peddyc. In
quel momento Lilli comprese cosa l'uomo fosse venuto a riferire e sentì un
rivolo di sudore freddo scorrerle lungo la schiena mentre il pensiero prendeva
forma dentro di lei: Bevva era morta. Senza neppure accorgersene si alzò in
piedi e si appoggiò con le mani al tavolo, protendendosi in avanti per osser-
vare il messaggero parlare in tono urgente con il tieryn mentre Anasyn si
sporgeva verso suo padre per ascoltare. D'un tratto Peddyc si tinse di un pal-
lore mortale, poi di un acceso rossore, quindi impallidì ancora e con un gesto
secco del capo si alzò dal proprio posto per dirigersi verso il tavolo reale.
Anche da dove si trovava, Lilli non ebbe difficoltà a vedere che Anasyn stava
piangendo.
«Siediti, Lilli!» ingiunse Merodda. «Cosa ti prende?»
Girandosi a guardarla, Lilli constatò che il volto di sua madre era la con-
sueta maschera liscia e inespressiva.
«Qualcosa ha turbato il giovane Anasyn» disse.
«Ah... è vero» replicò Merodda, guardando verso la parte opposta della sa-
la. «È strano.»
Dal modo in cui lei stava serrando le labbra e sgranando forzatamente gli
occhi, Lilli si rese conto che stava cercando di trattenersi dal sorridere; vol-
tandosi di scatto, vide Burcan alzarsi dal suo seggio per parlare con Peddyc
mentre intorno a loro il silenzio dilagava nella sala come un'onda che si stes-
se allargando da un sasso gettato in una polla, a mano a mano che i presenti
smettevano di conversare per sentire quello che i due stavano dicendo.
«Oh, dèi!» stridette d'un tratto la voce di una ragazza, echeggiante nel si-
lenzio. «Hanno assassinato Lady Bevyan e la colpa è mia perché l'ho manda-
ta via!»
Urlando, la regina balzò in piedi e lasciò a precipizio la sala, correndo ver-
so le scale. Alzatasi a sua volta, Merodda si affrettò a seguirla imprecando fra
sé, imitata dalle altre dame di compagnia, mentre nella sala tutti prendevano a
discutere e a gridare in tono concitato, parlando di quei guerrieri di Cerrmor
che si erano spinti così a nord e si erano mostrati talmente privi di onore da
uccidere delle donne sulla strada!
Immobile accanto al tavolo, Lilli si costrinse a cercare di riflettere e in un
primo tempo ebbe difficoltà a dare un nome alla sensazione che la stava per-
vadendo in un succedersi di ondate di gelo e di calore rovente. Alla fine però
riuscì a definirla: era odio. Sua madre in qualche modo aveva fatto assassina-
re Bevva, e anche Sarra, ne era certa perché le urla che l'avevano svegliata il
giorno precedente erano sufficienti a confermarle che Sarra era morta senza
bisogno che nessuno glielo dicesse.
«Razziatori di Cerrmor, vero?» sussurrò. «E zio Burcan e i suoi cavalieri
sono rientrati portando con loro scudi di Cerrmor.»
Nella confusione generale nessuno la sentì; ferma al suo posto. Lilli guardò
Peddyc e Anasyn lasciare la grande sala insieme al re e alla sua scorta, che
includeva il Reggente, numerosi gwerbret e lo stesso Tibryn.
Per tutto il pomeriggio Lilli si aggirò per la grande sala a caccia di infor-
mazioni. Il cavaliere che aveva portato la notizia era agli ordini di Lord
Camlyn. Quando Lady Bevyan e la sua scorta non erano arrivati come previ-
sto, la moglie di Camlyn aveva mandato una squadra di ricerca che aveva
trovato i corpi: erano stati uccisi tutti, perfino il piccolo paggio di Bevyan,
come se gli assalitori avessero voluto evitare di lasciare testimoni del loro
tradimento pur essendo stati tanto negligenti da abbandonare sul posto un
paio di scudi spezzati. Quando apprese quei dettagli Lilli sentì crescere le
proprie certezze, perché sapeva che Burcan non avrebbe osato permettere
neppure al paggio di sfuggirgli per timore che qualcuno potesse averlo rico-
nosciuto.
Verso sera Lilli s'imbatté poi in una serva che aveva sentito mentre il
Tieryn Peddyc conferiva con il re e apprese che Peddyc aveva avuto dal so-
vrano il permesso di lasciare l'indomani mattina Dun Deverry con i suoi uo-
mini per assistere al funerale della moglie; dopo sarebbe tornato per unirsi al-
l'esercito.
«Oh, è davvero infuriato» dichiarò la ragazza sgranando gli occhi. «Conti-
nua a giurare che nessun uomo di Cerrmor potrà mai più sperare di avere pie-
tà da lui! Scommetto che quest'estate ne ucciderà moltissimi.»
«Non ne dubito» annuì Lilli. «Dimmi una cosa. Ieri mattina il Reggente si
è recato nelle camere di mia madre?»
«A dire il vero sì. Perché?»
«Oh, l'avevo pregata di chiedergli un favore per me, ma data la situazione è
una cosa che può aspettare.»
Con un cenno di saluto la serva si allontanò per tornare al suo lavoro e d'un
tratto Lilli si rese conto di aver voglia di urlare di rabbia, di inveire contro
tutti e tutto... e contro nulla di specifico. Evitando le altre persone la cui vista
le riusciva intollerabile, si rifugiò nella propria stanza e sbarrò la porta, ap-
poggiandosi contro il battente e appuntando lo sguardo sui pezzi della cami-
cia nuziale di Braemys, ancora posati sulla cassapanca di legno dove li aveva
lasciati il giorno precedente. Quella era l'ultima cosa che Bevva le aveva da-
to.
«Perché non riesco a piangere?» esclamò.
L'odio sembrava aver prosciugato tutte le sue lacrime. Con gli occhi asciut-
ti, sedette sul letto a osservare il buio della sera infittirsi fuori della sua fine-
stra. La cosa peggiore era che nessuno avrebbe mai sospettato di questo cri-
mine né Burcan, l'autore materiale, né Merodda che, ne era certo, era stata l'i-
stigatrice di tutto. Brour le aveva sempre detto che un giorno sarebbe riuscita
a decifrare da sola i presagi a suo vantaggio e adesso in effetti comprendeva
cosa avessero voluto significare i suoi sogni.
«So la verità e otterrò vendetta... oh, quanto sono sciocca! Che cosa Posso
fare?» esclamò.
Di fronte a quella constatazione di impotenza scoppiò a piangere con il vol-
to affondato nel cuscino fino a scivolare nel sonno. Quella notte sognò anco-
ra, questa volta uomini armati e vendetta, e quando si svegliò di soprassalto,
scoprendo che la camera era immersa nel buio più totale tranne per un pallido
raggio di luna che filtrava dalla finestra, comprese che ancora una volta i pre-
sagi si erano manifestati e spettava soltanto a lei decifrarli. Sorridendo, si al-
zò dal letto e lasciò la sua camera.
Il Tieryn Peddyc e Anasyn occupavano ancora il vecchio appartamento di
Bevyan. Nel tempo che impiegò a raggiungerlo, Lilli sentì svanire il coraggio
che le era stato infuso dal sogno: e se Peddyc avesse rifiutato di darle ascol-
to? Se sua madre avesse scoperto che era andata da lui? Cercando di fare il
massimo silenzio possibile, continuò ad avanzare con passo furtivo, certa che
il suo respiro affannoso avrebbe finito per attirare sul posto ogni guardia pre-
sente in Dun Deverry. Quattro porte, cinque... poi sotto la sesta vide filtrare
una tenue luce, segno che Peddyc era ancora sveglio.
Attraversato di corsa il corridoio, si addossò alla parete accanto alla porta,
al di là della quale poteva sentire in modo vago voci maschili senza però ca-
pire cosa stessero dicendo. Sapeva che avrebbe dovuto bussare, ma cosa a-
vrebbe fatto se qualcun altro l'avesse sentita?
Nel corridoio buio nulla si muoveva, nulla faceva rumore, quindi alla fine
si costrinse a sollevare il pugno ma poi esitò ancora, con il sudore che le scor-
reva lungo la schiena: sarebbe dovuta scappare via per tornare nella sua ca-
mera prima che sua madre scoprisse la sua assenza, ma poteva lasciare Bevva
invendicata? Deglutendo a fatica, calò con forza il pugno sul battente di le-
gno.
All'interno le voci cessarono, poi una di esse salì di tono, accompagnata
dallo stridere della sbarra che qualcuno stava sollevando e subito dopo la por-
ta si socchiuse a rivelare il volto pallido di Peddyc.
«Lillorigga!» esclamò. «Cosa c'è, ragazza? Non riesci a dormire?»
«Sì» sussurrò lei. «Per favore, lasciami entrare.»
Perplesso lui si trasse indietro e Lilli sgusciò nella stanza, poi si arrestò ad
ascoltare con il cuore che le martellava nel petto mentre Peddyc rimetteva a
posto la sbarra; fermo accanto al focolare, Anasyn appariva composto, con il
volto atteggiato a una maschera indecifrabile, ma i suoi occhi erano rossi e
gonfi.
«Non sono stati gli uomini di Cerrmor» sbottò Lilli, consapevole che se
avesse aspettato ancora un momento avrebbe perso il coraggio. «È stato un
trucco degli uomini del Cinghiale. Li ha mandati mia madre, muniti di scudi
tolti al nemico.»
Peddyc la fissò a bocca aperta e vicino al focolare Anasyn si lasciò sfuggi-
re un gemito, come se fosse stato ferito. Lilli dal canto suo prese a tremare,
fradicia di sudore, ma si costrinse a proseguire.
«Li ho visti io» continuò. «Mio zio e i suoi uomini. Quella notte, dopo
che... dopo che Bevva è stata uccisa sono tornati alla fortezza su cavalli stan-
chi e avevano con loro scudi di Cerrmor. Nella fortezza ce ne sono molti, cat-
turati nel corso delle battaglie.»
Anasyn sollevò la testa di scatto, come un cervo che avesse fiutato i caccia-
tori.
«Io ho visto gli uomini del Cinghiale lasciare la fortezza» osservò poi. «Ri-
cordi, Padre? Ti ho fatto notare che alcuni guerrieri del Cinghiale erano usciti
con un carretto al seguito.»
Peddyc annuì, mentre una vena prendeva a pulsargli alla tempia.
«Questa mattina, quando è giunta la notizia, ho osservato mia madre e l'ho
vista sorridere» aggiunse Lilli, ritrovando d'un tratto il coraggio. «Ha cercato
di trattenersi ma ha sorriso, e so che dietro tutto c'è lei.»
Anasyn si tinse di un pallore spettrale alla luce della lanterna.
«Per gli dèi» sussurrò Peddyc. «Quell'essere immondo. È stato il Reggente
in persona, vero? Che ogni benedizione si riversi su di te, ragazza, per avermi
portato queste notizie.»
«Padre, voglio vendetta» dichiarò Anasyn, venendo avanti.
«Anch'io, e se Merodda non fosse la madre di Lilli andremmo nelle sue
camere a tagliarle la gola prima di partire e faremmo lo stesso con Burcan.
Però lei è la madre di Lilli e comunque gli dèi mi sono testimoni che non vo-
glio finire impiccato per aver vendicato mia moglie! Fammi riflettere, fammi
riflettere per un momento.»
Incapace di reggersi in piedi senza però capirne bene il perché, Lilli si ac-
casciò sulle ginocchia e subito Peddyc si chinò a prenderle le mani nelle pro-
prie.
«Avanti, siediti» le disse. «Sanno, versale un po' di sidro. Ora rilassati, ra-
gazza, so che ti senti in pezzi, e del resto chi ti può biasimare?»
Mormorando parole di conforto, Anasyn e un paggio la fecero sedere su
una sedia intagliata, le versarono del sidro e le sistemarono un cuscino dietro
la schiena, mentre il Tieryn Peddyc si avvicinava al focolare e indugiava a
meditare con lo sguardo fisso sulle fiamme. Quando si portò il bicchiere alle
labbra per bere un sorso di sidro, Lilli si rese conto che le mani le tremavano
al punto che il liquido ambrato vorticava all'interno della coppa.
«Devo tornare indietro» disse poi, posando il boccale sul tavolo. «Se si ac-
corge che mi sono assentata, lei ucciderà anche me.»
«Non ne dubito» replicò Peddyc, volgendo le spalle al camino. «D'altro
canto, quando io e i miei uomini non torneremo entro il tempo convenuto è
probabile che ti uccida comunque, se lei e il suo amato Reggente dovessero
intuire chi è stato a dirmi la verità. È meglio che domani tu venga via con
noi.»
«Mi porteresti via?» sussurrò Lilli.
«Naturalmente, se tu vuoi venire! Sei la mia figlia adottiva, giusto? E an-
che se non lo fossi, che razza di uomo sarei a lasciarti qui a portata di quel
bastardo assassino?»
Anasyn le si inginocchiò accanto con un movimento fluido e le prese le
mani nelle proprie.
«Vieni via con noi, Lilli» la incitò. «Ti vestiremo con alcuni miei abiti e ti
taglieremo i capelli, e nessuno si accorgerà di un servitore in più nel nostro
seguito. Poi sarai al sicuro a Hendyr oppure potrai venire con noi a Cerrmor,
se lo vorrai.»
«Cerrmor?» sussurrò Lilli, pronunciando quella parola come se si fosse
trattato di un incantesimo del dweomer. «Potrei venire a Cerrmor?»
«Sì, dannazione, e sarai la benvenuta» dichiarò Peddyc. «La nipote stessa
del capo del Cinghiale, passata dalla...» D'un tratto esitò, poi con occhi colmi
di lacrime concluse: «Passata dalla parte del vero re.»
Per il resto della notte nessuno dormì. Mentre Anasyn stava di guardia vi-
cino alla porta, il vecchio servo personale di Peddyc tagliò i capelli di Lilli,
che lei raccolse tutti in una sciarpa per portarseli dietro al fine di evitare che
sua madre li trovasse e li usasse per qualche lavoro del dweomer a suo danno;
quando ebbe finito si sporcò poi la testa e la guancia di cenere, come se fosse
stata un paggio che aveva dormito vicino al focolare, e nell'intimità della ca-
mera da letto indossò gli abiti maschili più logori che gli uomini fossero riu-
sciti a procurarle. Alla fine Anasyn, Peddyc e il servo vagliarono il risultato e
dichiararono che la sua identità era ben nascosta, ma lei non riuscì a smettere
di tremare.
Quando poi l'alba tinse il cielo di grigio il suo terrore d'un tratto si dissolse
per lasciare il posto a un gradito senso di torpore. Nel lasciare la stanza si ca-
ricò di una bracciata di sacche da sella e cercò di camminare come un ragaz-
zo, ma ben presto constatò che nessuno pareva accorgersi di lei, neppure il
capitano della banda di guerra di Peddyc quando ven