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KATHARINE KERR

IL GRIFONE ROSSO
(The Red Wyvern, 1997)
A Jo Clayton

PROLOGO
INVERNO, IN UNA TERRA MOLTO LONTANA

Alcuni dicono che tutti i mondi di questo molteplice e splendido universo


sono annidati uno all'interno dell'altro come gli strati di una cipolla, ma io vi
dico che essi sono intrecciati uno con l'altro e uno intorno all'altro e che nes-
suno, uomo o donna, è in grado di tracciare una mappa di tutte le strade che
essi creano nell'intersecarsi.
Dal Libro Segreto di Cadwallon il Druido

Domnall Breich conosceva le colline circostanti Loch Ness abbastanza be-


ne da essere consapevole di essersi perduto. L'incidente di caccia che era co-
stato la vita al suo cavallo e che lo aveva separato dagli altri si era verificato
circa tre chilometri più a sud, o almeno questo era il calcolo approssimativo
che lui era in grado di fare della direzione e della distanza, per cui ormai a-
vrebbe dovuto aver già raggiunto la strada di terra battuta che portava al vil-
laggio e alla salvezza. Arrestandosi, lasciò vagare lo sguardo sulle nebbie
sempre più fitte che avvolgevano la valle ammantata di neve e punteggiata
qua e là di pini isolati; nell'incombente crepuscolo di una delle giornate più
brevi dell'inverno, quella nebbia avviluppava il Ben Nevis, il solo punto di ri-
ferimento che avrebbe potuto permettergli di orientarsi, e il cielo sempre più
bianco prometteva neve imminente.
«Madre Maria, perdona i miei peccati» mormorò. «Questa notte vedrò tuo
Figlio in tutta la sua gloria.»
Tutti sostenevano che quella per congelamento non era una morte sgrade-
vole perché si aveva l'impressione di addormentarsi nella neve e ci si sve-
gliava con un senso di calore, avendo davanti la luce della candela che sareb-
be servita da guida fino alle porte del Paradiso o dell'Inferno, quindi Domnall
non provava paura, soltanto sorpresa per il fatto che un uomo come lui a-
vrebbe finito per morire non in battaglia o in una faida familiare bensì perso
nella neve come una pecora zoppa... ma del resto i preti affermavano sempre
che nessun uomo poteva prevedere la sorte che Dio gli aveva destinato.
Davanti a lui, vivido sullo sfondo grigiastro delle nubi, l'orizzonte occiden-
tale ardeva della tinta rossa intensa del tramonto: voltandosi da quella parte,
Domnall si guardò lentamente intorno e lontano sulla destra, al limitare del
campo visivo, scorse un alto albero su cui concentrò la propria attenzione in
quanto la sua sola speranza di salvezza consisteva ormai nel riuscire a proce-
dere dritto verso nord, nella direzione del lago che si stendeva da sudovest a
nordest. Se ce l'avesse fatta ad arrivare fino al lago avrebbe poi potuto se-
guirne la costa e dirigersi verso la tenuta del vecchio Malcom che, se Gesù lo
avesse favorito, avrebbe forse fatto in tempo a raggiungere prima di congela-
re.
Giunto alla conclusione che valeva la pena di tentare e che se proprio era
condannato almeno così sarebbe morto in piedi, si avvolse meglio nel plaid e
nel mantello, e s'incamminò verso nord.
Nell'avvicinarsi all'albero notò per prima cosa che era diritto e molto alto;
poi, a mano a mano che il bagliore del crepuscolo cedeva il posto all'oscurità,
si rese conto anche del fatto che l'imponente pianta era in fiamme. Quello sì
che era un colpo di fortuna! Se fosse riuscito a mantenere acceso il fuoco no-
nostante la neve imminente esso gli avrebbe permesso di sopravvivere per
tutta la notte. Una volta che fu ancora più vicino, però, scoprì anche una terza
cosa, che gli ghiacciò il sangue nelle vene e quasi gli tolse il respiro per il ti-
more di essere già morto: metà dell'albero era avvolta dalle fiamme, ma l'altra
metà era quanto mai lussureggiante, con il fogliame di un verde intenso.
«Che Gesù e i santi mi salvino. Possa Dio guidare la mia anima.»
«Sprechi il fiato a invocare l'uomo della Galilea» avvertì una voce. «Lui
non ci fa nessun favore, quindi noi non ne facciamo a lui.»
Nel girarsi di scatto Domnall vide fermo poco lontano un giovane che alla
luce dell'albero in fiamme appariva biondo e pallido di carnagione, con le
labbra rosse come ciliegie troppo mature e gli occhi del colore del mare esti-
vo; lo sconosciuto era avvolto in un mantello di spessa lana azzurra, dotato di
cappuccio.
«Appartieni dunque alle Schiere dei Seelie?» gli domandò.
«Gli uomini della tua terra riterrebbero di sì. Questo è un punto in cui sta
venendo intessuta una grande magia, e ciò che mi secca è che non ne sono io
l'autore. Cosa ci fai qui?»
«Mi sono perso. Non ho intenzione di farti del male né di derubare te o la
tua gente.»
«Belle parole, e grazie a esse puoi vivere... cosa che non farai di certo se
resterai esposto a questo clima ancora per un po'. Mi serve un messaggero per
un piano che sto elaborando, che è complesso e ha molti fili. Dimmi, vuoi vi-
vere oppure vuoi morire nella neve?»
«Vivere, naturalmente, a Dio piacendo.»
«Splendido! Allora dimmi il tuo nome e la cosa che più desideri.»
Domnall rifletté per un momento perché era noto che i Seelie erano degli
ingannatori e alcuni preti sostenevano che non fossero migliori dei demoni, e
di certo sconsigliavano dal dire loro il proprio nome.
Poi qualcosa di freddo e di umido gli sfiorò il volto e nel sollevare lo
sguardo vide i primi fiocchi di neve stagliarsi sullo sfondo luminoso dell'al-
bero in fiamme.
«Mi chiamo Domnall Breich e la cosa che più desidero è una morte onore-
vole in battaglia, al servizio del mio signore.»
Lo spirito levò gli occhi al cielo con fare esasperato.
«Oh, suvvia, di certo puoi escogitare un dono migliore di questo! Qualcosa
che ti faccia piacere e ti dia gioia.»
«In tal caso, io amo con tutto il mio cuore Lady Jehan, ma non c'è speranza
che una donna come lei si accorga di me.»
«Questo è un desiderio migliore» approvò lo spirito, con un pigro sorriso.
«Benissimo, Domnall Breich, avrai in moglie Lady Jehan. In cambio, ti chie-
do soltanto di non riferire quello che vedrai qui stanotte a nessuno tranne che
a tuo figlio, quando raggiungerà i tredici anni di età.» Nel proferire quelle pa-
role lo spirito d'un tratto si accigliò e tirò fuori le mani dalle pieghe del man-
tello, contando qualcosa sulle dita, poi riprese: «Sì, tredici anni andranno be-
ne. I numeri e il tempo non hanno significato per quelli come me, comunque
potrai parlarne a tuo figlio quando riterrai che sia adulto, ma bada di non ri-
velarlo a nessun altro.»
«Buon signore, te lo posso promettere in tutta sincerità. Del resto nessuno
se non un figlio potrebbe credere a un uomo che raccontasse cose come que-
ste.»
«Affare fatto, allora!» esclamò il Seelie, poi sollevò le mani, le batté tre
volte e aggiunse: «Girati con le spalle rivolte all'albero, Domnall Breich, e
dimmi che cosa vedi.»
Voltatosi, Domnall prese a scrutare fra i veli di neve ancora piuttosto radi e
vide non molto lontano un groviglio di comuni alberi, che spiccavano scuri
sullo sfondo più cupo della notte, e al di là di essi una distesa d'acqua che ap-
pariva corrusca e minacciosa alla luce del fuoco magico.
«La riva del lago! È sempre stata lì senza che io riuscissi a vederla?»
«No. Quella è la riva di un lago, certamente, ma non si tratta di quello che
tu speri di trovare. Vedi quel mucchio di rocce, una delle quali è più grande
delle altre?»
«Sì.»
«Su quella roccia troverai incatenato un corno d'argento. Prendilo, soffiaci
dentro e avrai riparo per la notte.»
«Ti ringrazio, e dal momento che non posso chiedere a Dio di benedirti ti
auguro invece buona fortuna.»
«Allora ti devo anch'io dei ringraziamenti. Oh, aspetta, girati di nuovo ver-
so di me.»
Quando Domnall obbedì, l'uomo protese una mano adorna di anelli e gliela
posò sulle labbra.
«Fino al tramonto di domani potrai parlare ed essere compreso, ascoltare e
capire ciò che la gente dell'isola dirà, ma dopo di allora il loro linguaggio non
avrà per te nessun significato. Ora è meglio che ti spicci perché la neve si sta
infittendo.»
L'uomo scomparve poi all'improvviso come la fiamma di una candela
spenta, e dopo aver rivolto una preghiera a tutti i santi Domnall si affrettò a
raggiungere la riva del lago, che senza dubbio non era il Loch Ness ma una
sottile lingua d'acqua che arrivava fino ai suoi piedi invece di trovarsi molto
più in basso, alla base di un'erta scarpata. La luce proiettata dal magico albero
ardente lo aiutò a individuare i massi di cui aveva parlato l'uomo, e su di essi
trovò adagiato il corno d'argento, fissato alla roccia con una catena dello stes-
so materiale. Quando lo prese e vi soffiò dentro il suono che ne scaturì gli
parve troppo tenue e flebile per poter richiamare soccorsi che lo salvassero
dalla furia crescente della tempesta, ma entro pochi minuti sentì qualcuno
lanciare un grido di richiamo.
«Hola, hola! Dove sei?»
«Sono qui, sulla riva!» gridò di rimando Domnall. «Seguite la luce del fuo-
co.»
Di lì a poco dalle cortine di neve scaturì un bagliore sussultante che si rive-
lò ben presto come una lanterna tenuta sollevata da qualcuno. La luce dell'al-
bero magico permise a Domnall di distinguere una barca lunga e stretta, con
la prua di legno intagliata a forma di testa di drago, che si stava dirigendo
verso di lui. A bordo un uomo teneva alta la lanterna mentre altri sei remava-
no, cantilenando per mantenere il ritmo; quando poi la barca fu vicina alla ri-
va i remi si sollevarono e quelli sul lato esterno presero a muovere in senso
contrario per tenere l'imbarcazione stabile mentre l'altro fianco si addossava
alla terraferma.
«In una notte così fredda mi dispiace chiederti di raggiungerci a guado»
disse allora l'uomo con la lanterna, «ma abbiamo paura ad accostarci troppo a
causa delle rocce e del buio.»
«Meglio congelare cercando rifugio che ghiacciare fermo qui come un i-
diota» rispose Domnall. «Sto arrivando.»
Sollevato il plaid all'altezza della vita, raccolse anche il mantello intorno a
esso e si addentrò nel lago. Immediatamente il gelo dell'acqua gli tolse il re-
spiro e gli artigliò le gambe, ma il suo livello rimase abbastanza basso da
permettergli di raggiungere la barca dalla testa di drago, dove mani amiche in
carne e ossa si protesero per tirarlo a bordo.
«Virate di bordo, ragazzi! Portiamolo al caldo vicino al fuoco!»
Tremante, Domnall si raggomitolò a poppa avvolto nella parte asciutta del
plaid mentre la barca si allontanava dalla riva; adesso la luce della lanterna
gli permetteva di vedere abbastanza bene l'uomo che la teneva sollevata, un
tipo basso di statura ma di corporatura massiccia, avvolto in un mantello trat-
tenuto da una spilla d'argento a forma di drago e dotato di un cappuccio che
lasciava quasi del tutto in ombra un volto segnato e incorniciato da una folta
barba brizzolata.
«Posso chiedere dove siamo diretti?» domandò infine Domnall.
«All'isola di Haen Marn.»
«Ah» si limitò a commentare Domnall, che in tutta la sua esistenza non a-
veva mai sentito parlare di quel posto pur avendo trascorso tutti i suoi venti
anni di vita in quell'area di Alban. «Grazie.»
Nessuno gli rivolse più la parola fino a quando non ebbero raggiunto l'isola
scura che apparve improvvisamente fra le cortine di neve, indistinta e al tem-
po stesso massiccia sullo sfondo della notte. Da essa si protendeva un molo di
legno ammantato di neve e i rematori vi affiancarono la barca con una mano-
vra accompagnata da un grido e da un alterarsi del ritmo del canto che faceva
da sottofondo alla voga. Alzatosi in piedi, uno degli uomini afferrò poi una
gomena e la mandò ad avvolgersi intorno a uno degli ancoraggi che sporge-
vano dal molo, tirando fino ad accostare la fiancata della barca all'imbarcade-
ro. Con un po' di aiuto Domnall riuscì ad alzarsi e a scendere a terra, ma a
causa del gelo che gli aveva intorpidito gli arti fin quasi a privarli della sensi-
bilità, l'uomo con la lanterna dovette aiutarlo a risalire a passo rapido un sen-
tiero ghiaioso e un pendio in cima al quale era possibile vedere una dimora di
forma squadrata che lasciava trapelare da porte e finestre il bagliore del fuo-
co.
«Ben presto sarai al caldo» garantì l'uomo con la lanterna nel bussare alla
porta, poi chiamò: «Aprite! Abbiamo un ospite, che è qui per opera di Evan-
dar!»
«Evandar? È l'uomo delle Schiere dei Seelie? Lo conosci?»
«Meglio, molto meglio di quanto vorrei, te lo garantisco. Ora entra, ragaz-
zo, e cerca di scaldarti.»
Mentre l'uomo parlava la porta si era aperta davanti a loro, inondandoli del-
la luce del fuoco e di un odore di fumo resinoso. Oltrepassata la serva che era
venuta ad aprire, il gruppo si affrettò a raggiungere una grande sala dove fuo-
chi vivaci ardevano in due grandi focolari di pietra, uno a ciascuna estremità
della stanza di forma quadrata. Le pareti erano di massicce assi di quercia,
accuratamente levigate e poi intagliate a formare un vasto arazzo di linee in-
trecciate ed evidenziate con terra rossa: viticci intrecciati, spirali, animali e
decorazioni astratte si mescolavano in un grande insieme che si estendeva su
ciascuna parete fino a descrivere a ogni angolo un grande arco verso le travi
del tetto e da lì ridiscendere in una massa di nuovi intagli sulla parete succes-
siva.
Avanzando sul pavimento coperto da una stuoia di paglia intrecciata,
Domnall seguì i suoi soccorritori verso il focolare dalla parte opposta della
sala, oltrepassando alcuni tavoli a cui sedevano poche manciate di uomini,
tutti di bassa statura e barbuti, fino ad andare ad arrestarsi davanti a un seggio
intagliato posto accanto al fuoco, occupato da una dama che indossava un
paio di logori abiti e che appariva in stato avanzato di gravidanza. Come gli
uomini che la attorniavano, anche quella donna non era molto alta, di statura
simile a quella dei Sassenach mangiatori di grano che vivevano nel sud, e dal
momento che i suoi capelli di un biondo chiarissimo erano raccolti in una
singola treccia, Domnall suppose che lei fosse effettivamente una Sassenach.
«Mia signora» le disse, inginocchiandosi davanti a lei, «a te vanno i miei
ringraziamenti e le mie benedizioni per avermi salvato la vita.»
«Sono stati i miei uomini a salvarti e non io, comunque sei il benvenuto
nella mia sala» replicò la donna, con voce bassa e musicale, poi si guardò in-
torno e aggiunse: «Otho! Ti dispiacerebbe portargli un boccale di birra e un
po' di pane?»
«Come comanda la mia signora Angmar» replicò uno degli uomini, alto
appena un metro e cinquanta e bianco di barba e di capelli, alzandosi in piedi.
«Siedi sulla paglia vicino al fuoco, ragazzo, e stendi ad asciugare quel pezzo
di stoffa in cui sei avvolto.»
Senza dubbio quelli dovevano essere tutti Sassenach, considerato che in-
dossavano calzoni e spesse camicie invece di plaid e tunica, ma Domnall non
aveva certo intenzione di considerare la cosa come un punto a loro demerito,
dato il modo in cui lo avevano soccorso.
Dal momento che il focolare era lungo almeno tre metri, Domnall poté por-
re una decorosa distanza fra sé e la dama, sedendosi accanto al fuoco vicino a
un paio di grossi cani neri; liberatosi del plaid lo stese quindi sulla paglia ad
asciugare e rimase vestito soltanto della tunica, lottando per districare i lacci
di cuoio fradici degli stivali e riuscendo a levarli giusto in tempo per accetta-
re il boccale di birra e il pane che Otho gli stava porgendo.
«Grazie di cuore» disse. «Dunque questa è Haen Marn, vero? Prima d'ora
non avevo mai visto quest'isola.»
«Hah!» sbuffò sonoramente Otho. «Come mi piacerebbe non averla mai
vista!»
«Zio! Tieni a freno la lingua!» esclamò un giovane, alzandosi di scatto dal
suo posto a uno dei tavoli.
«Niente affatto! Rimpiango il giorno in cui ho viaggiato fino a questo dan-
nato posto. Ero appena riuscito a tornare a casa e cosa succede? Aha! Entra in
gioco quel maledetto dweomer e...»
«Zio! Taci!» insistette il giovane, avvicinandosi con passo affrettato.
«Bada tu a tenere a freno la lingua, giovane Mic, e a mostrare rispetto per
chi è più anziano di te.»
«I due infine tacquero entrambi, fissandosi a vicenda con occhi roventi e
con le mani piantate sui fianchi. Durante tutto il corso della discussione Lady
Angmar non si era mossa né aveva pronunciato parola, limitandosi a fissare il
fuoco. Nel notare alle sue spalle un altro seggio intagliato, addossato alla pa-
rete e degno di un grande nobile ma vuoto, Domnall si sentì indotto a chie-
dersi se la dama fosse rimasta vedova, una triste supposizione che però il suo
modo di fare sembrava avvallare.»
«Bene» disse infine Domnall, per spezzare il silenzio, «voi venite tutti dal-
le terre del meridione?»
«Chi lo sa?» scattò Otho. «Potrebbe trattarsi di qualsiasi dannato punto
cardinale.»
«Devi perdonare mio zio, buon signore» intervenne Mic. «Sta diventando
vecchio e l'età lo ha istupidito.» Il giovane si protese poi ad afferrare Otho
per un braccio e aggiunse: «Avanti, vieni a sederti.»
Borbottando fra sé, Otho si lasciò trascinare via e nel seguirlo con lo
sguardo Domnall ebbe la sgradevole sensazione che quel vecchio non fosse
affatto afflitto da demenza senile ma avesse inteso parlare di magia. La sua
mente rifiutò però di accettare quell'idea perché gli riusciva più facile credere
che quella fosse una dama scacciata dai suoi fratelli dopo che era rimasta ve-
dova, o magari addirittura inviata in esilio per motivi politici, a cui era stato
concesso di portare con sé un piccolo seguito. Dopo tutto i condottieri dei
Sassenach erano sempre in guerra fra loro e lui aveva sentito dire che se il
marito moriva le loro donne potevano fare quello che volevano con la loro
dote. Il calore del fuoco, la paglia comoda, il vapore che si levava dal mantel-
lo e dal plaid che stavano asciugando, il sapore della birra e del pane... tutto
sembrava troppo solido, troppo normale per permettere la presenza della ma-
gia e nel cominciare a sbadigliare Domnall arrivò a chiedersi se aveva sogna-
to l'uomo chiamato Evandar e l'albero in fiamme. Forse si era trattato soltanto
delle assurde visioni che assalgono un uomo prossimo a morire per congela-
mento.
Infine Lady Angmar si girò a fissarlo con occhi tanto tristi che riusciva do-
loroso sostenerne lo sguardo.
«Posso ordinare ai servi di prepararti una camera» suggerì, «oppure prefe-
risci dormire qui vicino al fuoco?»
«La paglia vicino al focolare andrà benissimo, mia signora, così non ti cau-
serò altri problemi» rispose Domnall.
«In effetti ci sono stati fin troppi problemi» commentò la donna, incurvan-
do le labbra in un pallido accenno di sorriso, poi tornò a contemplare il fuoco.
Per il resto della serata Angmar non pronunciò più parola e dopo qualche
tempo si alzò, lasciando la sala insieme alla sua anziana dama di compagnia;
quando fu uscita, il giovane Mic portò a Domnall una coperta mentre Otho
gettava un po' di terra sul fuoco per ridurlo a carboni ardenti, poi i due prese-
ro una lanterna e se ne andarono a loro volta, lasciandolo a dormire raggomi-
tolato sulla paglia con i cani.
Al suo risveglio Domnall vide che la pallida luce dell'alba trapelava già
lungo i contorni delle imposte e che Otho stava facendo uscire i cani uggio-
lanti. Stiracchiandosi, si sollevò a sedere con uno sbadiglio proprio mentre il
vecchio si avvicinava munito di attizzatoio per ravvivare il fuoco.
«Aspetta, buon signore, mi sposto per non esserti d'impiccio» si offrì.
«Sei un ragazzo ben educato.»
«Si addice a un cristiano di stare attento a come parla.»
«Si addice a un che cosa?» domandò Otho, osservandolo con espressione
perplessa.
«A un cristiano, a un seguace del Signore Gesù.»
«Ah. E questo Yaysoo è il signore di queste zone?»
«Eh... ecco... si potrebbe anche dire di sì.»
Accoccolatosi, Otho cominciò ad armeggiare con l'attizzatoio per rimuove-
re le zolle di terra dai carboni ardenti e nel frattempo Domnall si infilò e al-
lacciò gli stivali, alzandosi poi per avvolgersi nel plaid e assestarne le pieghe.
«Lady Angmar... ha perso suo marito?»
«Lo ha proprio perso» confermò Otho. «Nessuno sa dove lui possa essere o
se sia vivo o morto, e lei è qui in attesa di un figlio, a chiedersi dove sia anda-
to a finire.»
«È una cosa tristissima.»
«Infatti, lo è. Se sapesse che lui è morto potrebbe piangerlo e continuare a
vivere, ma in questo modo...»
«Poveretta.»
«È tipico di quell'uomo fare cose insensate di questo tipo. È un individuo
scomodo, sotto tutti i punti di vista. Ah, ma del resto chi può sapere perché le
donne scelgono gli uomini così come fanno? Lei è ancora immersa nel dolore
per il suo Rhodry Maelwaedd, qualsiasi cosa noi si possa dire al riguardo.»
Questo era davvero strano. Come poteva una donna dei Sassenach essere
sposata con qualche nobile di Cymru? Oppure era proprio questo il motivo
per cui l'avevano esiliata? Mentre Domnall formulava quelle riflessioni Otho
concentrò la propria attenzione sui carboni ardenti, soffiando per ravvivarli e
gettando su di essi una manciata di esca.
«Hai una casa qui vicino, ragazzo?» chiese poi.
«Sì. Sono al servizio di Lord Douglas e vivo con lui.»
«Allora lascia che ti dia un buon consiglio. Vattene di qui finché puoi e
torna a casa, altrimenti è possibile che tu non la riveda mai più. La neve ha
smesso di cadere e i rematori ti riporteranno a riva.»
«Prima devo porgere i miei ringraziamenti a Lady Angmar.»
«Lei non scenderà se non dopo mezzogiorno perché è chiusa nel suo dolo-
re. Vattene finché sei in tempo e mentre c'è ancora il sole, che in questo pe-
riodo dell'anno non resterà in cielo a lungo» ammonì il vecchio, sollevando
verso di lui il volto arrossato dal fuoco ormai acceso e fissandolo con occhi
altrettanto roventi. «Haen Marn va dove vuole, più in fretta di quanto impie-
ghi uno sputo a ghiacciare in una giornata come questa.»
Magia. Il ricordo della notte precedente, di Evandar e dell'albero in fiamme
affiorò a colpire Domnall con la violenza di uno schiaffo in pieno volto e lo
indusse ad afferrare il mantello ancora steso sulla paglia.
«In tal caso partirò subito. Ti auguro una buona giornata, Otho.»
Il vecchio si limitò a sbuffare e a riprendere ad alimentare il fuoco.
Una volta all'esterno Domnall scoprì che la giornata era gelida ma limpida
e che un pallido sole si stava già levando nel cielo, segno che aveva dormito
più del previsto. Sulla soglia si soffermò a guardarsi intorno nell'aria tersa e
pungente, sferzato dal vento teso che gemeva intorno alle pareti dell'edificio
e sussurrava fra gli alberi, poi mosse qualche passo lungo il sentiero e tornò
ad arrestarsi, girandosi per guardarsi meglio intorno. Sotto il sole l'isola appa-
riva più grande di quanto gli fosse sembrata la notte precedente e la casa stes-
sa spiccava lunga e bassa sullo sfondo di un'altura costellata di alberi spogli
di un colore grigio pallido, al di là dei quali si ergeva un'alta torre quadrata
appollaiata sulla sommità di una collinetta. Riparandosi gli occhi con una
mano, Domnall si concesse un momento per osservare la torre, che sfoggiava
tre finestre una sopra l'altra e aveva il tetto a punta coperto di lastre grigie.
Alla finestra centrale era affacciato qualcuno che stava guardando verso il
basso e anche se da quella distanza non era in grado di discernere se si tratta-
va di un uomo o di una donna, Domnall si rese conto d'un tratto di essere og-
getto di uno studio altrettanto intenso quanto quello a cui lui aveva sottoposto
la torre. In quello sguardo non c'era malizia, soltanto una vicinanza sconvol-
gente, come se la persona alla finestra si fosse lasciata cadere giù per venire a
fermarsi davanti a lui. Con un brivido Domnall volse le spalle alla torre ma
continuò a sentire quello sguardo su di sé mentre si avviava verso il lago.
Quando infine si azzardò a lanciarsi un'occhiata alle spalle constatò che ades-
so la finestra era vuota.
Nel percorrere il sentiero di ghiaia che portava al molo e alla barca decora-
ta con la testa di drago Domnall non vide nessuno, ma entro il tempo che im-
piegò a raggiungere il molo il capo battelliere e i suoi rematori apparvero sul-
la spiaggia, diretti a passo tranquillo verso di lui; Otho doveva aver mandato
un servitore a chiamarli.
«Pronto a tornare indietro, ragazzo?» chiese il capo battelliere.
«Sì, anche se mi sarebbe piaciuto avere l'occasione di porgere i miei rin-
graziamenti a Lady Angmar.»
«Ah, passerà ancora parecchio tempo prima che lei si decida a scendere»
replicò l'uomo, scuotendo il capo. «È una cosa molto triste.»
Domnall e gli altri salirono quindi a bordo, e mentre i rematori prendevano
posto ai remi il giovane si andò a sedere a poppa in modo da non essere d'in-
tralcio; lì alla luce del giorno il suo sguardo si posò su un grosso gong di
bronzo appeso a un'intelaiatura di metallo, di cui la notte precedente non si
era accorto.
«È per le bestie che ci sono nel lago» spiegò il capo battelliere, accorgen-
dosi del suo interesse. «Con questo clima freddo si lasciano scivolare sul
fondale a dormire, o qualcosa del genere, come fanno gli orsi nelle grotte, ma
d'estate sono una notevole seccatura. Per fortuna detestano il rumore e pic-
chiare su quel gong le tiene lontane.»
«Bestie?» ripeté Domnall.
«Sì, sono nel lago. Sono grosse, con un lungo collo sottile e la bocca piena
di denti, e possono rovesciare una barca come questa con la facilità con cui io
potrei schiacciare una pulce.»
Tutti i rematori annuirono solennemente in segno di conferma della veridi-
cità di quell'affermazione.
«Ah» commentò Domnall. «Allora questo lago deve comunicare con il
Loch Ness. Ciò mi dà qualche speranza.»
«Un momento! Conosci quelle bestie?»
«Ecco, ne conosco una che vive nel nostro lago, anche se non la si vede
spesso.»
Tutti i rematori si scambiarono lunghe occhiate e annuirono di nuovo, que-
sta volta con soddisfazione.
«Credo che la nostra isola sia forse tornata a casa» commentò il capo. «In-
teressante, vero, ragazzi?»
Gli altri annuirono per la terza volta, senza però pronunciare parola, poi il
loro capo sollevò una mano, contò fino a tre e i rematori iniziarono a vogare.
Favoriti dalla luce diurna, riuscirono a far avvicinare la barca alla riva sab-
biosa quanto bastava per permettere a Domnall di spiccare un balzo fino alla
terraferma, ma per precauzione lui preferì comunque togliersi gli stivali per-
ché era meglio atterrare scalzo sulla sabbia umida e nella neve che non tenta-
re poi di camminare calzando stivali bagnati. Arrivato a terra sano e salvo ri-
volse un ultimo ringraziamento ai rematori e li salutò con un cenno della ma-
no mentre tornavano a puntare verso il largo, poi si sedette su uno dei massi
per rimettersi gli stivali mentre la barca con la testa di drago si allontanava
rapida sull'acqua, tanto scura da sembrare nera sotto il cielo invernale, e pun-
tava verso la sagoma dell'isola. D'un tratto però Haen Mara si fece molto dif-
ficile da distinguere e Domnall dovette ammettere con se stesso che poteva
trattarsi soltanto di magia. Alle sue spalle l'albero che la notte precedente era
stato avvolto dalle fiamme era adesso scomparso, ma del resto questa era una
cosa che si era aspettato e comunque davanti a sé aveva già abbastanza pro-
blemi senza doversi preoccupare anche della magia.
Aveva trascorso la notte al sicuro invece di morire assiderato ma doveva
comunque riuscire ad arrivare a casa se voleva sopravvivere alla notte che
ancora doveva giungere. Il sole sarebbe rimasto in cielo soltanto per poche
ore ancora, sempre che non fossero sopraggiunte le nuvole a portare un cre-
puscolo ancor più prematuro. Contemplando il paesaggio circostante che sot-
to la neve fresca gli si allargava intorno simile a un luogo di sogno, minac-
cioso e alieno, Domnall si disse che probabilmente il giorno precedente non
si era spinto abbastanza a nord prima di deviare per cercare di intercettare la
strada, e dopo aver affidato la propria anima a tutti i santi si incamminò nella
direzione che sperava lo avrebbe condotto prima o poi alla strada... se quando
l'avesse raggiunta ci fosse stata ancora luce sufficiente per individuarla.
Alla fine fu lo stesso Lord Douglas, uscito a cercarlo alla testa dei suoi
uomini, che lo trovò molto prima del tramonto. Domnall aveva appena scala-
to una bassa altura quando sentì un suono di cavalli e uno squillare di corni
proveniente dal versante opposto e subito si mise a gridare e a chiamare il
nome del suo signore, ottenendo una raffica di risposte da parte dei cavalieri
che uno dopo l'altro superarono il crinale e si arrestarono per attendere che lui
li raggiungesse annaspando fra la neve.
«Mio signore!» esclamò. «In tutta la mia vita non sono mai stato tanto con-
tento di vedere qualcuno come lo sono ora di vedere te!»
Lord Douglas scoppiò a ridere scuotendo il capo, e a un suo cenno uno dei
cavalieri venne avanti con un cavallo fresco di cui consegnò a Domnall le re-
dini. Con qualche parola di ringraziamento questi si affrettò a montare e dalla
sella rivolse al suo signore un accenno d'inchino; quando poi la banda di
guerra si avviò lungo la strada, Douglas segnalò al giovane di affiancarglisi.
«Come hai fatto a sopravvivere alla notte?» gli chiese.
Per quanto gli seccasse mentire al suo signore, Domnall si costrinse a farlo
perché gli avrebbe dato ancor più fastidio violare la promessa fatta.
«Non ne ho idea. Ho pregato tutti i santi che mi sono venuti in mente e ho
trovato una capanna. Puzzava di pecora e di letame ma era così piccola che
sono stato al caldo... ecco, almeno quanto bastava.»
«Bene. Elargiamo ai santi e ai loro preti tante di quelle decime che mi ral-
legra vedere che essi mantengono la loro parte del patto.»
«Ti ringrazio per essere venuto a cercarmi, mio signore, anche se credevo
che mi avresti dato per morto.»
«Infatti ti credevo morto, ma sei uno dei miei uomini e che io sia dannato
se avrei mai potuto abbandonarti là fuori senza neppure provare a cercarti»
replicò Lord Douglas, poi fece una pausa per riflettere su qualcosa e una stra-
na espressione gli affiorò sul volto mentre proseguiva: «Inoltre Jehan mi a-
vrebbe mandato di persona all'inferno se non fossi venuto a cercarti. Avresti
dovuto sentirla piangere e imprecare e tormentarmi perché facessi qualcosa.»
«Tua figlia, mio signore?» mormorò Domnall, sentendosi arrossire e co-
minciando a balbettare. «Ma io non avrei mai pensato... voglio dire... uh...
er... mio signore, io...»
«Taci e ascoltami, Domnall Breich. La madre di Jehan è una donna cocciu-
ta e lo è anche lei, e oltre a questo ho già speso tutto quello che potevo per la
dote di sua sorella. Per lei quindi non rimane molto, ma del resto tu non hai
grandi pretese, vero?»
«Mio signore, se lei mi vorrà accettare non chiedo assolutamente nulla
tranne la sua mano, per considerarmi il più ricco fra gli uomini.»
«Bene. In tal caso puoi averla, ma sei in grado di mantenerla?»
«Mio padre mi ha promesso una tenuta, quando mi fossi sposato. Non sono
le terre di un grande signore ma sapremo adattarci.»
«E io vi posso fornire un paio di mucche da latte e altre cose del genere» ri-
fletté Lord Douglas, poi si accigliò in volto e domandò: «Da quanto tempo
voi due state nascondendo questo segreto?»
«Mio signore, ti giuro che non avrei mai immaginato di interessare a tua fi-
glia perché la consideravo troppo superiore a me per nascita.»
«Ti credo. Lei mi ha detto di non essersi mai resa conto di amarti fino a
quando non ha pensato che fossi morto. Pensa che sia stato il dolore a farle
capire quali fossero i suoi sentimenti.»
Nel ricordarsi improvvisamente di Evandar, Domnall non seppe cosa repli-
care e si chiese se l'amore di Jehan fosse effettivamente esistito prima della
notte precedente. D'altro canto chi era lui per mettere in discussione quello
splendido miracolo, quel dono che andava al di là di ogni sua speranza?
«In tal caso, mio signore» rispose infine, «considererò la notte appena tra-
scorsa come la più fortunata della mia vita, anche se ho creduto che per me
fosse giunta la fine.»
Quando arrivarono al castello trovarono Lady Jehan ad aspettarli sui gradi-
ni della rocca. Non appena Domnall fu sceso da cavallo lei gli corse incontro
e gli si gettò fra le braccia, e nel tenerla stretta, con il volto nascosto fra i suoi
capelli ramati, Domnall pensò di essere l'uomo più felice del mondo. Tuttavia
anche nella sua gioia si ricordò della dama di Haen Marn che piangeva il suo
signore perduto, e quella notte scese nella cappella per pregare per lei e chie-
dere che un giorno il Signore Gesù le permettesse di rivedere il suo Rhodry
Maelwaedd.

PARTE PRIMA
LE TERRE DEL SETTENTRIONE
Autunno 1116

Ah, l'inizio delle cose! In un'altra sede ho dissertato delle complessità che
permeano l'origine di qualsiasi evento, grande o piccolo che sia. Riflettete
bene su questo, perché un mago che voglia avviare un grande rituale deve ri-
flettere su ogni parola che intende pronunciare e soppesare ogni gesto che fa-
rà, fino al più piccolo cenno di una singola mano. In quanto alla nascita delle
cose il loro esito ultimo è esposto a rischio, proprio come un neonato giace
nella sua culla impotente e vulnerabile alla malvagità del mondo.
La Pergamena Pseudo-Iamblica

Disgusto. Dallandra non riusciva a trovare nessun altro termine per descri-
vere quello che stava provando mentre, avvolta in un pesante mantello di la-
na, sostava sulle mura che cingevano la fortezza del Gwerbret Cadmar e con-
templava la città di Cengarn che si allargava su tre colli sotto di lei, avvilup-
pandoli con le sue strade ricurve, soffocandoli con rotonde case di pietra dal
tetto di sporca paglia nera, dietro la maggior parte delle quali c'erano recinti
per mucche e polli, naturalmente con i relativi cumuli di letame. Da dove si
trovava, Dallandra poteva cogliere accenni di movimento sulle strade fango-
se, abitanti della città che frettolosamente andavano di qua e di là nell'occu-
parsi dei loro affari o forse soltanto un branco di cani che vagavano affamati;
i pochi alberi spiccavano isolati, nudi e privi di foglie sotto il grigio cielo au-
tunnale.
Alle sue spalle il panorama non era certo migliore. Là massicce torri di pie-
tra congiunte le une alle altre formavano il cupo e incombente complesso del-
la rocca, che si levava al centro della fortezza, e abbracciavano un cortile
fangoso che sciamava di servitori sporchi e di guerrieri altrettanto sporchi che
imprecavano nel guidare a fatica i cavalli fra un dedalo di porcili e di recinti
per le pecore. Da qualche parte un fabbro stava lavorando rumorosamente
nella sua fucina e qua e là i paggi cantavano con voce stonata oppure faceva-
no la corte alle serve, che accoglievano quelle indesiderate attenzioni impre-
cando sonoramente. Nella pungente aria autunnale da tutto quell'insieme si
levava un fetore di rifiuti umani e animali, di fumo e di cibo marcio così in-
tenso da sopraffare anche il profumo della pomata di chiodi di garofano del
Bardek che lei si teneva accostata al naso. Nel dire a se stessa che ormai a-
vrebbe dovuto essersi assuefatta a tutto quell'insieme disgustoso, Dallandra si
rese conto che non si sarebbe mai abituata per quanto a lungo avesse vissuto
con gli esseri umani.
«Dalla!» chiamò una voce maschile. «Ti va un po' di compagnia?»
Senza attendere che lei rispondesse Rhodry Maelwaedd, che preferiva esse-
re conosciuto soltanto come Rhodry di Aberwyn, cominciò a salire la scala di
legno che portava ai bastioni. Alto di statura ma con un fisico insolitamente
snello dalle spalle ai fianchi, Rhodry era dotato di una sua avvenenza grazie
agli occhi di un azzurro intenso e al sorriso pronto e spontaneo; nonostante
qualche filo argenteo che gli solcava qua e là i capelli di un nero corvino e la
pelle scurita e segnata dagli elementi, aveva un aspetto giovane e si muoveva
con la rapidità e l'agilità di un ragazzo, ma Dallandra sapeva bene che lui era
nato oltre ottant'anni prima, da una donna umana e da un uomo del Popolo
dell'Ovest, razza a cui lei stessa apparteneva. Per quanto riguardava certe co-
se, però, Rhodry aveva senza dubbio un modo di vedere del tutto umano, co-
me dimostrò nell'appoggiarsi al parapetto per contemplare Cengarn con un
sorriso sulle labbra.
«Un bello spettacolo, non trovi?» commentò infine.
«Forse per te. Io detesto essere rinchiusa in questo modo.»
«Non ne dubito. Però quello che intendevo era che è un bello spettacolo
vedere Cengarn ancora intatta e non ridotta a un mucchio di rovine.»
«Ah, su questo sono costretta a essere d'accordo con te.»
Appena alcuni mesi prima, infatti, Cengarn aveva corso il rischio di essere
trasformata in un cumulo di macerie quando era stata assediata da un esercito
invasore. Adesso invece le sole minacce che la città si trovava a fronteggiare
erano quelle tipiche che ogni centro abitato di Deverry affrontava al soprag-
giungere dell'inverno: malattie, freddo e fame. D'impulso Dallandra si ap-
poggiò al parapetto accanto a lui ma subito si ritrasse di scatto nel constatare
che Rhodry puzzava quanto tutto il resto che la circondava.
«Cosa c'è?» chiese lui.
«La pietra è fredda, ed è anche umida.»
«È vero» convenne Rhodry, senza accennare a muoversi. «Presto avremo
la neve.»
Dallandra annuì in segno di assenso e lanciò un'occhiata al cielo sempre
più grigio, pensando che una bella e spessa coltre di neve avrebbe nascosto la
terra e congelato rifiuti ed escrementi quanto bastava per soffocarne il fetore.
«C'è una cosa che ti volevo chiedere» continuò Rhodry, dopo un momento.
«Ultimamente faccio sogni dannatamente strani. Credi possano significare
che c'è del dweomer all'opera?»
«Non ne ho idea. Parlami di questi sogni.»
«Si tratta della Donna Corvo. Mi appare in sogno e si fa beffe di me.»
«Questo è grave. Vieni, andiamo da qualche parte al caldo, dove ci si possa
sedere per parlare con calma.»
Insieme scesero la scala e si avviarono attraverso il cortile fangoso; al loro
passaggio i numerosi servi e guerrieri sparsi per il cortile tacquero e si gira-
rono a fissarli, alcuni incrociando addirittura le dita nel segno di protezione
contro la stregoneria. Accelerando il passo Dallandra raggiunse una porta la-
terale della rocca e la oltrepassò, sottraendosi allo sguardo di quanti erano nel
cortile.
«Salva» sussurrò, entrando.
«Cosa?» esclamò Rhodry. «Senti che stiamo per incorrere in qualche peri-
colo?»
«Chiedo scusa, si tratta del modo in cui tutti mi guardano. Non sono abi-
tuata a essere odiata e temuta.»
«Suvvia, non si tratterà certo di odio!»
«Ne sei sicuro?»
«Ma perché dovrebbero odiarti?»
«Si tratta di tutto il dweomer che hanno visto di recente. Battaglie eteriche,
mutaformi, il modo in cui Alshandra appariva nel cielo come una dea... trop-
pe cose strane che non avrebbero mai dovuto vedere. I Guardiani vivono se-
condo le loro leggi, che non sono quelle del dweomer.»
«È vero» ammise Rhodry, dopo un momento di riflessione. «Tutti noi ab-
biamo visto più cose di quante ne possiamo spiegare.»
La camera di Dallandra si trovava alla sommità di una torre laterale e a es-
sa si accedeva tramite un pianerottolo ingombro di fasci di frecce e di mucchi
di pietre, munizioni accantonate nell'eventualità di un altro assedio come
quello terminato così di recente; la camera in se stessa era una fetta dello spa-
zio rotondo della torre, separata dai vicini magazzini tramite partizioni di vi-
mini, con il pavimento di legno coperto da stuoie anch'esse di vimini e con
una singola finestra dalle imposte di legno e dall'ampio davanzale, su cui
Rhodry si appollaiò per lasciare l'unica sedia presente nella stanza a disposi-
zione di Dallandra. Prima di sedersi, lei procedette ad accumulare pezzi di
carbone in un braciere d'ottone, poi schioccò le dita per convocare il Popolo
Fatato del Fuoco e quando il carbone si arroventò protese le mani verso il ca-
lore che emanava da esso.
«Non hai freddo, seduto lì vicino allo spiffero della finestra?» chiese.
«Non tanto da esserne infastidito.»
Dallandra rimaneva sempre stupita da quanto poco il freddo e altri disagi,
perfino il dolore fisico, avessero presa su Rhodry: la vita pericolosa che ave-
va sempre condotto aveva trasformato tutto il suo corpo in un'arma, renden-
dolo resistente come l'acciaio. Le questioni magiche, però, rimanevano al di
fuori della sua portata e delle sue forze.
«Dannazione a quei sogni!» scattò intanto Rhodry. «Non mi vergogno di
ammettere di aver quasi paura di addormentarmi, la notte. Non hai per caso
un talismano che li possa tenere a bada?»
«Non esiste una soluzione tanto semplice. Parlami di questi sogni.»
«Ho riflettuto a lungo su di essi e mi sono reso conto che sono tutti più o
meno uguali. Mi trovo a camminare in un posto che conosco bene, per esem-
pio questa fortezza, o la città o addirittura Aberwyn, poi all'improvviso l'aria
intorno a me si fa densa e si tinge di un colore bluastro come quello dell'ac-
qua profonda e quella cagna mi appare davanti, del tutto nuda, cominciando a
provocarmi. Continua a dire che un bel giorno avrà la mia testa su una picca e
altre piacevolezze del genere.»
Nel sentir confermati i suoi peggiori timori Dallandra si lasciò sfuggire una
sonora imprecazione.
«Pensi che si tratti di dweomer, vero?» chiese Rhodry, sfoggiando uno dei
suoi sorrisi in tralice.
«Infatti. Qualsiasi cosa tu faccia, evita di inseguirla perché sta cercando di
attirare la tua anima fuori del corpo.»
«E poi cosa intende fare?»
«Non lo so. Se fosse un maestro del dweomer oscuro sarebbe in grado di
ucciderti, ma non è nulla del genere. Più probabilmente è soltanto una povera
piccola principiante che conosce qualche trucco e niente di più.»
«Qualche trucco? Per gli dèi, è in grado di trasformarsi in un dannato uc-
cello e di volare via, riesce a farmi visita entrando nei miei sogni e tu parli di
trucchi?»
«Sì, perché l'ho vista all'opera quanto basta per sapere che non capisce co-
me riesce a fare quelle cose. Il suo potere è tutto opera di Alshandra, o per
meglio dire lo era. Adesso è quel dannato fratello di Evandar che sta causan-
do tutti questi guai.»
Rhodry scoppiò in una risata prolungata che le strappò un sussulto.
«Trucchi» ripeté. «Bene, se si tratta davvero soltanto di questo, non cono-
sci per caso qualche trucchetto che potresti insegnarmi?»
«No, ma ne ho alcuni a mia disposizione. Ogni notte, prima che tu vada a
dormire, traccerò intorno a te dei sigilli protettivi.»
«Non è così facile, considerato che dormo negli alloggiamenti dei guerrie-
ri.»
«Cosa? È lì che ti ha sistemato il ciambellano? Dopo tutto quello che hai
fatto quest'estate al servizio del gwerbret?»
«Per una daga d'argento l'ospitalità non dura a lungo.»
«Questo è ridicolo! Parlerò di te con il ciambellano» cominciò Dallandra,
poi esitò e si guardò intorno, prima di aggiungere: «Ecco, se non ti secca
qualche pettegolezzo in questa camera c'è spazio a sufficienza per entrambi.»
«Perché una daga d'argento si dovrebbe preoccupare dei pettegolezzi?» re-
plicò Rhodry, sfoggiando un altro sorriso ora più aperto e rilassato. «Quello
che è in gioco è il tuo onore, ma se quassù non c'è nessuno che possa sape-
re...»
«Nessuno vuole vivere vicino a una maga, cosa che a volte torna utile. Ora
che ci penso, non c'è neppure nessuno che se la senta di discutere con me,
quindi perché non vai a prendere le tue cose?»
«Troverò il giovane Jahdo e gli chiederò di provvedere lui. Si sta guada-
gnando da vivere come mio paggio.»
«Sei stato buono a prenderlo presso di te.»
«Qualcuno doveva farlo» replicò Rhodry con una scrollata di spalle, alzan-
dosi in piedi. «Non mi crea problemi e gli sto insegnando a leggere.»
«Continuo a dimenticare che sai leggere.»
«In effetti è una cosa che sorprende la maggior parte della gente. Prima di
essere uccisa Jill gli aveva promesso che gli avrebbe insegnato a leggere,
quindi io mi sono accollato quella promessa insieme all'altra che lei gli aveva
fatto, di riportarlo a casa a primavera.»
Nel tardo pomeriggio, dopo che Dallandra ebbe parlato con il ciambellano
e che Rhodry fu riuscito a rintracciare Jahdo, l'equipaggiamento di Rhodry
venne trasferito nella camera adiacente a quella di Dallandra, poco dopo Ja-
hdo, un ragazzo magro dai capelli bruni, tornò da Dallandra per portarle un
messaggio.
«Mia signora, la Principessa Carra mi ha chiesto di venire a chiamarti, se
sei libera di seguirmi.»
«C'è qualcosa che non va?»
«Si tratta della bambina, mia signora, della piccola Elessi.»
«Oh, dèi! Sta male?»
«Non lo so, ma la principessa è molto preoccupata.»
Dallandra trovò Carra... la Principessa Carramaena delle Terre dell'Ovest,
per usare il suo titolo completo... nella sala delle donne, seduta accanto al
fuoco con la sua bambina fra le braccia. Nel centro della sala Lady Ocradda,
moglie del gwerbret e signora di Dun Cengarn, sedeva insieme alle sue donne
intorno a una struttura di legno, impegnata a ricamare un vasto arazzo di stile
elfico fatto di un insieme di fiori e di viticci intrecciati. Quando Dallandra en-
trò, le altre donne le scoccarono un'occhiata e subito tornarono a concentrarsi
sul loro lavoro come se avessero temuto di incorrere nel malocchio mentre
Carra, una graziosa ragazza diciassettenne bionda con il volto a forma di cuo-
re dominato da grandi occhi azzurri, l'accolse con un ampio sorriso.
«Dalla, sono così contenta che tu sia venuta, anche se adesso pare che il
problema si sia risolto.»
«Davvero?» replicò Dallandra, prendendo uno sgabello e sedendosi accan-
to al fuoco. «Dimmi lo stesso di cosa si è trattato.»
«Ecco, sono le coperte. Elessi detesta essere fasciata, e anche se adesso fa
tanto freddo si mette a urlare e ad agitarsi quando cerco di avvolgerla almeno
in una coperta, visto che di metterle le fasce non c'è neppure da parlarne.»
Nel sentir parlare delle fasce Lady Ocradda sollevò lo sguardo dal ricamo e
scoccò un'acida occhiata in direzione della principessa, memore di come lei e
le altre donne della fortezza avessero perso quella battaglia subito dopo la na-
scita della piccola. In quel momento Elessario giaceva fra le braccia di Carra
avvolta in una coperta e stava dormendo profondamente, vestita soltanto del
pannolino e di una camiciola di lino vecchio, morbida e lisa.
«Alla maggior parte dei neonati piace stare al caldo» osservò Dallandra.
«Vicino al fuoco, in questo modo, sta tranquilla, ma se la metto nel mio let-
to senza le coperte fa molto freddo, e tuttavia lei comincia a urlare se provo
ad avvolgergliele intorno.»
«È davvero strano, ma sono certa che con il tempo si abituerà.»
«Lo spero» replicò Carra, abbassando lo sguardo su sua figlia con espres-
sione dubbiosa. «È terribilmente cocciuta anche se è nata soltanto un mese fa.
Sai, se ci ripenso mi sembra strano che sia passato appena un mese: sembra
che lei ci sia sempre stata.»
«E tu mi sembri molto più felice ora che c'è.»
Carra scoppiò a ridere e sollevò lo sguardo con un sorriso.
«È vero, lo sono. Sai, era una cosa stranissima e a ripensarci adesso mi sen-
to terribilmente stupida, ma per tutto il tempo della gravidanza sono sempre
stata convinta che sarei morta di parto. Quando ci ripenso mi rendo conto di
essere stata un'idiota lamentosa, sempre a piangere, sempre depressa, sempre
pronta a lamentarmi di questo e di quello.»
«Mia cara bambina» interloquì Ocradda, «ci sono alcune donne a cui la
gravidanza fa questo effetto. Non è nulla di cui tu ti debba rimproverare.»
«È dipeso tutto dal fatto che avevo tanta paura» continuò però Carra, scuo-
tendo il capo. «Me ne sono resa conto l'altro giorno. Ero sicurissima che sarei
morta e questo tingeva di nero ogni cosa: la mattina mi alzavo e nel guardare
il sole mi chiedevo quanti altri giorni di vita avrei avuto.»
«Senza dubbio ti hanno spaventata da bambina» sentenziò Ocradda.
«Troppe vecchie e levatrici raccontano storie terribili relative al parto senza
pensare che delle ragazzine le possono sentire. Ho conosciuto più di una ra-
gazza terrorizzata da storie del genere.»
«Suppongo che sia così» convenne Carra, dopo un momento di riflessione.
«Comunque sentirsi in quel modo è stato orribile.»
«Non ne dubito» convenne Dallandra, «e sono lieta che sia passato tutto.»
Carra rabbrividì, poi procedette a parlarle dell'allattamento di Elessi con
abbondanza di particolari; mentre l'ascoltava, Dallandra si trovò però a pen-
sare soprattutto al timore espresso da Carra. Possibile che nella sua vita pre-
cedente lei fosse morta di parto? Una cosa del genere poteva benissimo esser-
si trasmessa alla vita successiva sotto forma di un timore irrazionale... anche
se naturalmente la paura di Carra era stata tutt'altro che infondata, considera-
to che alle donne umane capitava anche troppo spesso di morire di parto. In
genere un'anima reincarnata conservava pochissimi ricordi da una vita alla
successiva, ma cose come il terrore e l'amore ossessivo avevano un loro mo-
do di rimanere impresse... come pure, naturalmente, il talento per il dweomer.
Sulla scia di quelle riflessioni Dallandra si trovò a pensare alla Donna Corvo:
era infatti possibile che quella misteriosa mutaforme stesse ricordando in
modo vago e imperfetto un addestramento magico che aveva ricevuto nella
vita precedente.
Più tardi, quella stessa notte, Dallandra apprese qualcosa di più sul conto
della sua nemica. Si stava preparando per andare a letto quando sentì bussare
alla porta della sua camera e prima ancora che potesse chiedere di chi si trat-
tava Evandar entrò nella stanza... o per meglio dire attraversò la porta chiusa
e sbarrata filtrando dall'altra parte come uno spettro e strappandole uno strillo
di sorpresa.
«Vorrei che non facessi cose del genere!» scattò Dallandra. «Mi spaventi a
morte!»
«Chiedo scusa, amore mio. Ho bussato. Sto cercando di imparare le usanze
di queste terre» si scusò Evandar, poi la prese fra le braccia e la baciò.
La sua pelle, il contatto delle sue labbra e delle sue mani risultarono stra-
namente freddi, come se lui fosse fatto più di seta che di carne.
«È passato così tanto tempo dall'ultima volta che ti ho visto» mormorò
Dallandra. «Vorrei che potessi fermarti per un po'.»
«Questa fortezza è piena di ferro, armi e chiodi, altrimenti trascorrerei la
notte con te. Quando tutto questo sarà finito, amore mio, tu e io torneremo in-
sieme nelle mie terre» replicò Evandar, poi fece una pausa per baciarla e ag-
giunse: «E condivideremo di nuovo il nostro amore.»
«Sarà splendido» sospirò Dallandra, staccandosi da lui. «D'ora in poi non
ci potremmo incontrare nelle Terre delle Porte? Se posso, preferirei evitarti di
soffrire.»
«Ti ringrazio. I prati del sonno andranno benissimo per i normali scambi di
notizie, ma ciò che mi porta qui stanotte è qualcosa di un po' più urgente» re-
plicò Evandar, e dopo aver esitato un momento per ottenere un maggior effet-
to proseguì: «Ho trovato la Donna Corvo. Si è rifugiata a Cerr Cawnen.»
«Cerr Cawnen? La città di Jahdo?»
«Proprio quella. L'ho trovata mentre stavo dando la caccia a mio fratello.»
«Shaetano?»
«Esattamente, e sta ancora seminando guai. Mi è sfuggito, ma credo di sa-
pere chi lo ha aiutato a evadere dalla prigione che gli avevo creato.»
«La Donna Corvo» mormorò Dallandra, con voce pervasa di un'improvvisa
stanchezza.
«Ancora una volta hai colpito nel segno, amor mio. A proposito, il suo no-
me è Raena, una chicca che ho scoperto per te. Tu mi hai detto di ritenere che
quella donna non sia molto abile nell'uso del dweomer e io sono d'accordo
con te: la sua magia è come una di quelle grondaie che gli uomini fabbricano
per incanalare l'acqua e lei è solo il barile posto sotto.»
«Mentre Shaetano è l'acqua piovana, giusto?»
«Infatti. Senza dubbio si sente adulato nel vedersi adorato come se fosse un
dio e comunque è pronto a prestarle il potere per fare danni, dato che fare
danni è la sua vera vocazione. Per questo ho pensato di dirti dove ero diretto.
Dopo tutto anche tu hai validi motivi per odiarlo.»
«Odiarlo? A dire il vero io non lo odio.»
«Cosa? Perché no? Dopo il modo in cui ti ha trattata... catturandoti, legan-
doti, tenendoti esposta alle beffe dei suoi uomini in quella dannata gabbia di
legno... come fai a non odiarlo?»
Dal momento che Evandar le aveva posto quella domanda in tutta serietà
Dallandra ritenne giusto rispondergli adeguatamente.
«Ecco, lui mi fa paura e quando penso alle cose che ha fatto provo ancora
rabbia nei suoi confronti, ma non è odio. Shaetano comprende davvero il ma-
le che fa e sa perché le sue sono azioni malvagie?»
«Non ne ho idea e non mi interessa saperlo. Mi ha ostacolato e ha recato
danno a te, e questo mi basta.»
«Quindi gli darai la caccia? Se riuscirai a trovarlo e a fermarlo, il dweomer
di Raena si dovrebbe prosciugare in breve tempo.»
«Bene. Speriamo che sia così. Prima o poi lo troverò, non temere, ma in-
tanto ho anche altri compiti da assolvere... vedi, sto elaborando un piano» re-
plicò Evandar, con uno strano sorriso astuto.
«Oh, dèi, che altro stai escogitando, adesso? Evandar, sai che ti amo, ma
questi tuoi piani sfuggono sempre al controllo, danneggiano sempre delle
persone e io vorrei...»
«Taci!» ingiunse Evandar, sollevando una mano in un gesto secco e impe-
rioso per ordinarle di fare silenzio. «Ho riflettuto. Non ho forse imparato da
te, amore mio, cosa siano la riflessione e il trascorrere del tempo? Ebbene,
quando sarà passato del tempo e la mia gente si sarà incarnata nel mondo del-
la carne e della morte, proprio come la nostra Elessi, non ci vorrà forse un
posto dove essa possa andare?»
«Un cosa?»
«Un posto che le appartenga, e al riguardo non intendo aggiungere altro»
dichiarò Evandar con un nuovo sorriso, voltandosi a fissarla. «È una sorpresa
unita a un enigma, ed ecco un indizio per trovare la soluzione: quando la luna
sorgerà di nuovo capirai.»
Dallandra esitò, prossima quasi a inveirgli contro perché sapeva che quan-
do definiva qualcosa un enigma Evandar non avrebbe mai fornito la risposta,
per quanto lei avesse potuto insistere, imprecare o supplicare.
«Benissimo» si arrese quindi con un sospiro. «E quando sorgerà questa tua
luna?»
«Non ne ho idea. Questo è un piano che sto intessendo da molto tempo, fin
da quando ho chiesto a un uomo di nome Maddyn il suo anello decorato con
incisioni di rose... ormai sono passate centinaia di anni, vero?»
«Infatti. Un momento... si tratta dell'anello che possedeva Rhodry, quello
su cui era inciso il nome del drago.»
«Infatti, ma per adesso non intendo dire altro» ribatté Evandar con un pigro
sorriso, del tutto consapevole di quanto i suoi enigmi la irritassero. «Tornan-
do al problema attuale, mia cara, Shaetano è astuto, quindi anche lui richiede-
rà parecchia di questa strana cosa chiamata tempo. Si nasconderà da me, ma
presto o tardi dovrà apparire ai suoi adoratori, in Cerr Cawnen, e quando lo
farà io sarò nelle vicinanze. Ferro!» esclamò poi, scuotendo il capo in uno
spasmo di dolore. «Quel dannato metallo creato dai demoni.»
Mosse quindi un passo in direzione della finestra e scomparve. Dallandra
non scorse nulla che preannunciasse la sparizione, non uno sfocarsi della sua
figura o un tremito dei contorni: il momento prima lui era lì nella stanza e il
momento dopo non c'era più, cosa che le strappò un brivido... uno soltanto
perché si era abituata a Evandar e al suo modo di fare nel corso del tempo in
cui erano stati amanti, tempo che secondo il calcolo degli uomini ammontava
a centinaia di anni.

La piccola stanza odorava di fumo antico e di polvere recente, un'atmosfera


fetida che avviluppava le due persone ferme al suo interno avvolte in alcuni
mantelli, con la schiena rivolta all'ampia fessura fra le pietre che serviva da
porta.
«Meglio non accendere una candela o altre luci qui dentro» sussurrò Ver-
rarc. «Non c'è abbastanza aria.»
«Non abbiamo bisogno di luce, amor mio» replicò Raena. «Ora guarda co-
sa ho imparato negli ultimi due anni.»
Verrarc la sentì trarre un profondo respiro, poi lei prese a cantilenare ripe-
tutamente sempre le stesse parole, che lui ritenne essere nella lingua dei Gel
da Thae, e nello stesso tempo in un angolo del soffitto rivestito di ragnatele
apparve una luce argentea che si andò diffondendo e intensificando mentre
numerosi ragni fuggivano a nascondersi di fronte a quella manifestazione del
dweomer.
«Oh, dèi!» sussurrò Verrarc.
«Sì, amore mio, gli dèi. Questo è un dono degli dèi che io servo, i veri dèi»
dichiarò Raena, poi si guardò intorno nella stanza e chiese: «Che posto è que-
sto? Deve essere davvero molto antico.»
«Nessuno lo sa. Quando ero ragazzo ho scoperto tutti i luoghi segreti della
Cittadella. Riguardo ad alcuni ho chiesto informazioni agli anziani ma di tutti
gli altri, fra cui questo, ho preferito tacere.»
Raena annuì, guardandosi intorno. Vicino al soffitto e tutt'intorno alla stan-
za correva una linea di triangoli e di cerchi rozzamente intagliati nella pietra,
incisioni che Verrarc non aveva mai visto con tanta chiarezza perché quando
da bambino si era nascosto in quella camera semisepolta la sola luce a sua di-
sposizione era stata il tenue chiarore che filtrava dall'ingresso.
«Qui percepisco disperazione, e antiche paure» affermò d'un tratto Raena.
«Davvero? È meglio che ci affrettiamo a fare ciò che dobbiamo perché non
voglio che qualcuno si domandi dove siamo finiti e ci venga a cercare. Cos'e-
ra che mi volevi mostrare? Si tratta forse della luce?»
«No, non è soltanto la luce. Guarda.»
Raena s'inginocchiò quindi nella polvere, imitata da Verrarc, spalancò le
braccia e prese a cantilenare parole diverse dalle precedenti che le vibravano
in gola e le scaturivano dalle labbra come una sfida. Per tutta risposta la luce
argentea si contrasse e si raccolse in una sfera lucente delle dimensioni di una
bracciata di fieno che rimase sospesa davanti e sopra di loro. Immersa nella
concentrazione, Raena scrollò il capo con un gesto secco, che le fece ricadere
all'indietro il cappuccio dal volto madido di sudore e incorniciato dai lunghi
capelli neri, che sembravano brillare e fluttuare in quella luce innaturale. Poi
Verrarc si sentì agghiacciare quando la sfera di luce cominciò a estendersi fi-
no a trasformarsi in un lungo cilindro all'interno del quale qualcosa... no,
qualcuno... prese gradualmente forma.
In un primo tempo parve che si trattasse soltanto di un inganno ottico, di
una forma simile a una voluta di fumo intercettata da un raggio di luce solare,
ma a poco a poco essa acquistò solidità e divenne quasi umana, e quando in-
fine la figura uscì dal pilastro di luce Verrarc vide che il suo aspetto era mol-
to simile a quello di una volpe.
Ciuffi di pelo rosso coronavano gli orecchi e creavano una sorta di cespu-
gliosa criniera che copriva gran parte della fronte e tutto il cranio, fino al col-
lo; sotto le sopracciglia, anch'esse di pelo rosso, scintillavano occhi di un ne-
ro intenso e le dita terminavano tutte con affilati artigli neri.
«Io sono il Signore del Caos, sovrano dei poteri della lotta e del tumulto»
dichiarò la creatura, con voce così tonante da indurre Verrarc a temere che
nella città sovrastante qualcuno la potesse sentire. «Perché mi hai convocato,
o mia sacerdotessa?»
«Per implorare un favore, mio signore» sussurrò Raena. «Ho portato qui un
altro che ti vorrebbe adorare.»
«Allora hai fatto bene a convocarmi, piccola. Io...»
All'improvviso il Signore del Caos esitò, fissando qualcosa alle spalle dei
suoi due adoratori. Nel girarsi di scatto a guardare di cosa si trattasse Verrarc
non vide nulla, ma il Signore del Caos lanciò un grido e si proiettò all'indietro
nel pilastro di luce, svanendo di colpo e lasciandosi alle spalle un puzzo di
volpe; immediatamente il pilastro cominciò a perdere la sua intensità lumino-
sa e per quanto Raena continuasse a cantilenare per ricomporlo, procedette a
dissiparsi e a spandersi sulle pareti, la sua luce sbiadita e chiazzata come una
vecchia tenda scolorita. Alla fine Raena si arrese e tacque, con il respiro af-
fannoso.
«Rae, perdonami, ma ho il dubbio che quello non sia affatto un dio ma
piuttosto uno spirito a forma di volpe, del genere che vive nelle foreste» af-
fermò Verrarc.
«Gli spiriti animali sono deboli creature!» ribatté lei, rivoltandoglisi contro
con un ringhio. «Come potrebbe lui alimentare il mio dweomer se fosse sol-
tanto un demonietto silvestre? Ti dico che gli ho visto fare grandi cose, Ver-
ro, davvero grandi, e lui riversa il suo favore su di me.»
Senza rispondere, Verrarc si alzò in piedi e cercò di ripulire dalla polvere la
spessa stoffa dei calzoni.
«Hai visto la luce, vero?» insistette in tono secco Raena.
«L'ho vista» ammise Verrarc, raddrizzandosi e porgendole la mano per aiu-
tarla a sollevarsi in piedi. «Un momento! Sei pallida quanto lo era lui!»
In quel momento Raena gli si accasciò fra le braccia e dopo aver armeggia-
to per qualche momento per districarsi dalle pieghe dei rispettivi mantelli
Verrarc riuscì a cingerla con un braccio per sorreggerla nel buio reso sempre
più fitto dal progressivo svanire della luce argentea.
«Devo riportarti a casa» disse, sgusciando per primo fuori dalla stanza e
nella galleria al di là di essa per poi girarsi ad aiutare la donna.
Insieme percorsero il tortuoso passaggio, sentendo l'aria che si faceva sem-
pre più fredda e pulita, e dopo un centinaio di metri arrivarono al suo ingres-
so, un'apertura in una parete di pietra al di là della quale era possibile vedere
la neve e blocchi di pietra infranta coperti di cespugli privi di foglie. Rag-
giunta l'apertura, Verrarc aiutò Raena a uscire e si affrettò a seguirla nella lu-
ce ormai tenue del crepuscolo.
Adesso si trovavano sul picco della Cittadella, l'erta collina insulare che si
levava al centro del Loc Vaed e della città di Cerr Cawnen. Spingendo lo
sguardo fra gli alberi che crescevano intorno e in mezzo alle rovine del vec-
chio edificio abbattuto secoli prima da un terremoto, era possibile vedere tut-
to il ripido pendio dell'isola, dove gli edifici pubblici e le case delle poche
famiglie facoltose della città sorgevano aggrappati alle rocce e alle strade tor-
tuose; al di là di essi si allargava la distesa verdazzurra del lago, alimentato
da sorgenti vulcaniche e avvolto da una coltre di vapore generato dall'aria ge-
lida. Oltre il lago la città vera e propria sorgeva nei tratti di acqua più bassa,
case e botteghe erette su palafitte che creavano un ammasso confuso di tetti
inframmezzati da piccole imbarcazioni, e ancora più lontano il confine di
Cerr Cawnen era segnato da una cerchia di mura di pietra erette intorno a
supporti di legno in modo che oscillassero senza infrangersi sotto l'impatto
dei terremoti che di tanto in tanto colpivano la città.
Dal punto in cui si trovavano i due stavano guardando più o meno verso
ovest, nella direzione in cui il sole stava pigramente tramontando in un alone
di un intenso colore dorato. Grazie al calore generato dal Loc Vaed la città di
Cerr Cawnen era libera dalla neve ma al di là dei suoi confini la prima nevi-
cata della stagione si stava tingendo di rosa e d'oro sotto i raggi del sole al
tramonto che illuminava in lontananza qualche boschetto e qualche capanna
di contadini a stento visibile fra i cumuli di neve grazie al pennacchio di fu-
mo che saliva dal camino.
«Il panorama che si gode da quassù è splendido» commentò Verrarc.
«Presto, amore mio, ti mostrerò un panorama tale che tutto questo ti sem-
brerà un cumulo di letame» dichiarò Raena, accennando con disprezzo a
quanto li circondava.
«Davvero?»
«Sì. Amore mio, le cose che ho visto sono state tali da sconvolgermi la
mente e il cuore. Il mondo è un luogo molto vasto e grandioso, una volta che
riesci a uscire dal Rhiddaer.»
«Non ne dubito» annuì Verrarc, poi esitò e aggiunse: «E dove sei stata e-
sattamente, per apprendere tutti questi segreti?»
«Lo saprai a tempo debito» ribatté Raena, tremando e avvolgendosi meglio
nel mantello. «Prima è necessario che mi consulti con il Signore del Caos per
sapere esattamente cosa posso dirti.»
«Verrarc le scoccò un'occhiata tagliente ma nel notare l'espressione cocciu-
ta del suo volto si trattenne dal replicare.»
«Torniamo a casa» disse soltanto. «Voglio vederti al caldo e ho alcune co-
se da sbrigare prima di notte.»

Afflitta da una forma reumatica, Dera sedeva accanto al fuoco avvolta nel
mantello e stava sorseggiando una tisana di erbe.
«Se vuoi te ne posso preparare ancora» si offrì Niffa. «Gwira mi ha lasciato
un pacchetto di erbe.»
Sua madre annuì. Minuta e di bassa statura, appariva fragile come una
bambina mentre sedeva raggomitolata su se stessa con il boccale in mano, i
capelli un tempo biondi e ora quasi del tutto grigi che le ricadevano arruffati
intorno al volto segnato.
«Ti tormenti a causa di Jahdo, mamma. lo capisco dal modo in cui stai fis-
sando il fuoco.»
Quando Dera tornò ad annuire, Niffa le si inginocchiò accanto e le posò
una mano sul braccio.
«Nel profondo del mio cuore io so che lui tornerà a casa da noi sano e sal-
vo, mamma, davvero. È una cosa che ho visto molte volte nel corso dei miei
sogni veri.»
«Zitta. Non devi parlare così apertamente di cose del genere.»
«Qui ci siamo soltanto noi due.»
«Ma questi discorsi mi spaventano lo stesso. Cosa farebbero i nostri concit-
tadini se cominciassero a pensare che puoi fare sogni veri e magari vedere la
morte scritta sul loro volto?»
«Hai ragione. Terrò a freno la lingua.»
Dera sospirò, poi fu assalita da un violento accesso di tosse. Afferrata una
manciata della paglia che copriva il pavimento, Niffa gliela porse perché vi
sputasse sopra e poi la gettò nel fuoco.
«Grazie» sussurrò Dera. «E io sarò ancora qui quando il nostro Jahdo tor-
nerà a casa?»
Niffa impiegò un momento per capire cosa sua madre le chiedeva.
«Ci sarai. Ho visto anche te, che ridevi insieme a noi tutti.»
«Bene. Io... un momento, cos'è tutto questo chiasso?»
Dall'esterno stava infatti giungendo un suono di voci imprecanti accompa-
gnato da uno strano susseguirsi di tonfi sordi che indusse infine Niffa ad al-
zarsi per andare ad aprire la porta e sbirciare fuori. Da dove si trovava poteva
spingere lo sguardo su per l'erto vicolo che dalla loro porta conduceva alla
strada pubblica sul pendio sovrastante, sul quale due uomini stavano lottando
per spingere giù per il vicolo un barile di birra alto mezzo metro facendolo
rotolare senza che esso sfuggisse al loro controllo e finisse per schiacciare
quello dei due che si trovava più in basso.
«Cosa state facendo?» chiese Niffa, riconoscendo in uno dei due uomini
Harl. il servitore del Consigliere Verrarc.
«Ti portiamo un dono» ansimò Harl. «Da parte del mio signore, per il tuo
matrimonio.»
«Parla meno e non lasciare che quel dannato barile ti sfugga!» scattò l'altro
uomo.
Con un grugnito Harl accentuò la propria presa sul barile. Quando infine i
due uomini lo ebbero spinto al livello della porta farlo passare oltre la soglia
richiese qualche altra ardua manovra e una nuova serie di imprecazioni, ma
alla fine esso si andò ad arrestare sul pavimento coperto di paglia. Ripren-
dendo fiato, Harl e il suo aiutante, uno dei figli del fabbro, si asciugarono il
sudore dal volto con la voluminosa manica della camicia invernale e si con-
cessero un momento di riposo.
«Per gli dèi!» esclamò Harl. «Qui dentro la puzza di furetto è tale da far
svenire.»
Mentre il figlio del fabbro annuiva, Dera si avvolse meglio nel mantello e
si avvicinò per esaminare il barile, alto quasi quanto lei.
«Il consigliere è stato gentile a ricordarsi di noi, e in maniera così genero-
sa» disse.
«Ed è la birra migliore, per di più» replicò Harl. «Il mio padrone ha insisti-
to perché si trattasse della migliore birra scura e l'ha mandata con tanto anti-
cipo perché avesse il tempo di riposare. Raccomanda di lasciarla com'è fino
al giorno delle nozze.»
«In tal caso faremo così» annuì Dera, poi scoccò un'occhiata a Niffa e ag-
giunse: «È opportuno che tu vada a ringraziarlo.»
Niffa e la sua famiglia erano i cacciatori di topi della città e vivevano con i
loro furetti in due grandi stanze annesse ai granai pubblici, un alloggio forni-
to loro in cambio del lavoro che svolgevano per sterminare quelle bestie dan-
nose. Quel grosso edificio quadrato sorgeva nella parte più bassa della Citta-
della mentre la bella casa del Consigliere Verrarc era situata quasi in cima al-
la collina, vicino alle misteriose rovine che coronavano la cresta dell'isola.
Per raggiungerla, Niffa dovette risalire ansimando l'erto vicolo e percorrere la
strada coperta di acciottolato che si snodava a spirale su per la collina, pas-
sando davanti alle facciate imbiancate a calce di diverse dimore e a qualche
panca di pietra disposta lungo il percorso per permettere a chi era stanco di
riposarsi. Infilandosi fra l'armeria della milizia e un grosso masso, la ragazza
raggiunse la strada successiva, dove qua e là piccoli pini contorti crescevano
su tratti di terriccio o si protendevano verso il sole fra le rocce.
Il cancello che si apriva nell'alto muro bianco che cingeva la casa del con-
sigliere era aperto, quindi Niffa si addentrò nel cortile quadrato e pavimentato
con piatte pietre rosse, dove grossi otri di terracotta erano raggruppati gli uni
vicino agli altri per raccogliere l'acqua piovana; poco lontano un paio di gros-
si cani neri stesi al sole sollevarono la testa, la fiutarono e agitarono pigra-
mente la coda mentre lei li oltrepassava per raggiungere la casa vera e pro-
pria, una bassa struttura dal tetto di paglia. Dopo aver bussato rimase in atte-
sa, spostando nervosamente il peso del corpo da un piede all'altro, fino a
quando la porta si aprì di una fessura e Magpie, una ragazza che aveva più o
meno la sua stessa età, fece capolino all'esterno con la sua faccia rotonda e
carnosa dagli occhi scuri e dalla bocca sottile quasi sempre semiaperta.
«Lasciami entrare, Maggi» disse Niffa. «Devo vedere il consigliere.»
Maggi rifletté su quelle parole, inclinando leggermente il capo da un lato.
«Avanti, mi conosci da quando eravamo bambine. Lasciami entrare e va' a
chiamare il consigliere.»
Nel vedere Magpie socchiudere gli occhi con aria perplessa Niffa si rese
conto che aveva commesso un errore nel chiederle due cose contemporanea-
mente perché adesso lei avrebbe di certo impiegato qualche tempo a capire
cosa ci si aspettava che facesse. Per fortuna in quel momento dall'interno
giunse un'altra voce e la vecchia Korla, una donna curva e avvizzita, venne a
raggiungere la nipote sulla soglia.
«Ah» disse, nel vedere Niffa. «Sei venuta per la birra?»
«Sì. Desidero ringraziare il tuo padrone per il suo bel dono.»
Ridacchiando fra sé Magpie si allontanò di corsa lasciando a Korla il com-
pito di accompagnare Niffa nella sala del consigliere, una stanza quadrata dal
basso soffitto in travi scoperte e con il pavimento fatto di canne intrecciate.
Sotto ciascuna finestra dalle imposte chiuse era posta una cassapanca inta-
gliata, nel centro della stanza spiccava un tavolo circondato da panche e vici-
no all'ampio focolare c'erano due sedie di legno, anch'esse intagliate, dotate
di cuscini, mentre altre tre sedie, un vero tesoro in una casa di Cerr Cawnen,
erano addossate alla parete; qua e là sul tavolo e sulla mensola del camino
qualche soprammobile d'argento scintillava al chiarore del fuoco.
Vestita con un bell'abito azzurro e con i capelli raccolti come quelli di una
gran dama, Raena sedeva su una delle sedie, con i piedi adagiati su uno sga-
bello; al loro ingresso fece un cenno del capo alla serva ma non accennò a ri-
volgere la parola a Niffa.
«Vado a chiamare il padrone» disse Korla, e uscì.
Avvicinatasi al fuoco, Niffa protese le mani verso il calore della fiamma,
consapevole che l'altra donna la stava osservando. Quando però si girò verso
di lei con un sorriso d'occasione stampato sul volto, Raena distolse lo sguardo
con un sogghigno e per quanto sorpresa Niffa cercò di interpretare quel com-
portamento nel modo più positivo, dicendosi che forse quella donna soffriva
della vergogna di cui si era coperta, considerato che era stata scacciata da suo
marito per averlo tradito con Verrarc e che la cosa era stata oggetto di pette-
golezzi da parte di tutta la città.
Poi un ceppo si smosse nel fuoco proiettando una lunga lingua di fiamma e
una pioggia di scintille, e nella luce d'un tratto più intensa Niffa vide con
maggiore chiarezza il volto di Raena, notando il suo pallore, il sudore che le
imperlava la fronte e i cerchi bluastri, simili a lividi, che le segnavano gli oc-
chi.
«Stai bene?» le chiese. «Devo chiamare la tua serva?»
«No, grazie. Sono stanca, non malata» replicò Raena, scandendo lentamen-
te le parole.
«Molto bene, però io...» cominciò Niffa, ma poi si interruppe a metà della
frase nel notare il modo in cui Raena la stava fissando, con gli occhi neri che
scintillavano freddi alla luce del fuoco nel vagliarla da capo a piedi come se
stessero cercando qualche pidocchio sul suo mantello.
D'un tratto Niffa si sentì assalire dall'impulso di inveire contro quella don-
na, di schiaffeggiarla e di urlarle di allontanare per sempre da Cerr Cawnen la
sua lurida persona; riuscendo a controllarsi, si volse per nascondere il proprio
volto nell'ombra generata dal fuoco ma continuò a sentire su di sé lo sguardo
gelido di Raena.
«Buon giorno a te, Niffa!» esclamò in quel momento Verrarc, oltrepassan-
do la porta laterale.
Alto e biondo, il consigliere era considerato un uomo di bell'aspetto dalla
maggior parte della gente di Cerr Cawnen, ma i suoi occhi azzurri erano per-
vasi di un gelo invernale e Niffa aveva l'impressione che i suoi sorrisi fossero
fasulli quanto quello dipinto sulla faccia di una bambola di legno.
«Tua madre sta bene, spero» continuò Verrarc.
«Ha la tosse, consigliere, anche se oggi sta già un po' meglio. Sono venuta
in sua vece per ringraziarti del tuo splendido dono.»
«Non c'è di che» replicò Verrarc, mentre per un momento il suo sorriso si
tingeva di un calore effettivo. «Se tua madre dovesse aver bisogno di qualco-
sa, che si tratti di cibo o di medicine, per favore rivolgiti a me. Lo dico dal
profondo del cuore.»
Accorgendosi che la sua sincerità era effettiva, Niffa si chiese come mai
quella generosità la irritasse tanto; tesa e a disagio, scambiò con il consigliere
qualche altra frase di circostanza e si accomiatò più in fretta che poteva.
Nel percorrere la strada ghiacciata che l'avrebbe riportata ai granai e a casa
sua, si domandò quindi il perché dell'odio intenso che aveva provato a prima
vista nei confronti di Raena pur non avendola mai incontrata prima di quel
giorno, sentimento che riteneva fosse ricambiato appieno dalla donna.
D'altro canto nessuna delle due poteva sapere che quel loro odio aveva le
sue radici centinaia di anni più indietro e in un'altra vita, quando le loro ani-
me erano state strettamente unite e loro erano state madre e figlia in una vita
così diversa da quella che stavano condividendo attualmente che sarebbe par-
sa appartenere a un altro mondo, se pure ne fossero state a conoscenza. E an-
cor meno potevano immaginare che l'uomo che Raena conosceva e odiava
come Rhodry Maelwaedd era stato legato allora a entrambe da un nodo del
Wyrd, anche se in quegli anni remoti lui aveva vissuto un'altra vita, in un al-
tro corpo.

PARTE SECONDA
DEVERRY, ANNO 849

Nell'anno 849 la primavera portò terribili presagi nel cielo sovrastante la


Città Santa. Una nube che aveva forma di drago sorvolò la città accompagna-
ta da fulmini, il cielo si tinse del colore del rame e un'enorme nube che sem-
brava un gomitolo di lana nera trasse acqua dal Lago Gwerconydd soltanto
per riversarla poi sulla terra. I profughi che si rifugiarono in Lughcarn furono
così tanti che la città non poté accoglierli tutti: il Sommo Sacerdote Retyc
diede loro tutto il cibo che riuscì a raccogliere e li mandò più a est, dove c'e-
rano terre agricole che avevano bisogno di essere coltivate.
Le Sacre Cronache di Lughcarn

In mezzo a tanto clamore Lillorigga, figlia del clan del Cinghiale, sedeva
su una panca nella curva della parete, desiderando di poter essere invisibile
agli occhi degli uomini armati che si accalcavano nella grande sala del re, in
piedi o seduti, parlando, mangiando, chiamandosi a vicenda e chiedendo birra
a gran voce. La primavera era ormai giunta, portando con sé l'annuale raduno
dei nobili fedeli al re e delle loro bande di guerra, ma nei due enormi focolari
posti alle estremità della sala il fuoco ardeva vivace levando spesse volute di
fumo nella stanza caliginosa. Le pareti di pietra della grande sala rotonda la-
sciavano infatti trapelare ancora il freddo, in quanto il sole primaverile faceva
solo brevemente la sua comparsa all'interno dell'intricato complesso di rocche
e di altri edifici che componeva il palazzo reale di Dun Deverry.
In quei giorni la sala non aveva peraltro un aspetto particolarmente regale a
causa dei lunghi anni di guerra civile che avevano lasciato il re a corto di tut-
to tranne che di uomini: gli arazzi pendevano logori e sbiaditi lungo le pareti
di pietra grezza, il pavimento era coperto in parte da paglia e in parte da lace-
ri tappeti del Bardek, i tavoli e le panche erano tutti segnati, scalfiti e instabi-
li, nobili e servi mangiavano da vassoi di legno e bevevano da boccali di ter-
racotta. Soltanto la tavola personale del re conservava una parvenza di splen-
dore regale. Da dove si trovava, Lillorigga poteva vedere un paggio impegna-
to a stendere su di essa una tovaglia di lino macchiata e molto rammendata
mentre altri servitori disponevano piatti d'argento e boccali di peltro; dietro i
servitori c'era la balia reale, munita di cuscini da disporre sul seggio reale per
permettere a Re Olaen di arrivare all'altezza del tavolo, dato che il sovrano
era nato appena cinque inverni prima.
Lilli era cugina del re, imparentata con lui tramite una bisnonna dal lato
materno della linea di discendenza, e suo zio Burcan del Cinghiale era l'attua-
le reggente del sovrano. Il suo rango le fruttava inchini e riverenze ogni volta
che qualcuno passava accanto alla sua panca o guardava nella sua direzione.
Lei rispondeva sempre con un cenno del capo o con un sorriso, anche se den-
tro di sé detestava il modo in cui i nobili erano soliti guardarla, come se stes-
sero valutando una giumenta di pregio pronta per essere venduta al mercato.
Presto infatti sua madre avrebbe provveduto a organizzare il suo fidanzamen-
to con il figlio di uno degli uomini fedeli al re. Quanto a lei, Lillorigga poteva
soltanto sperare che quando fosse venuto il momento suo marito l'avrebbe
almeno trattata bene.
Dalla parte opposta della sala un araldo ingiunse agli uomini di fare largo a
una processione di donne che stava scendendo la grande scala di pietra pre-
ceduta dalla Regina Abrwnna che, più matura di suo marito, era ormai quasi
una donna e non più una ragazza. Dietro di lei veniva il suo seguito di serve e
di dame di compagnia di nobile nascita, fra cui anche Merodda, la madre di
Lillorigga, vedova e sorella di Tibryn, Gwerbret di Cantrae. e del Reggente
Burcan. Alla luce incerta del fuoco Merodda non sembrava più matura della
giovane regina, con i capelli biondi, lisci e stranamente lucidi, raccolti da un
fermaglio d'argento alla base del collo e con la carnagione rosea e liscia
quanto quella di una bambina che era l'invidia di tutte le donne della corte,
considerato che lei aveva una figlia già in età da marito. Merodda aveva an-
che l'andatura di una ragazza, era sempre pronta a ridere con vivacità e tutti
affermavano che il perdurare della sua bellezza era davvero una cosa incredi-
bile.
Se soltanto sapessero, pensò con amarezza Lilli nel guardare sua madre. Se
soltanto sapessero... lei e le sue pozioni!
Arrivata all'ultimo gradino Merodda indugiò a osservare la sala, poi si girò
a parlare con un paggio prima di andare a raggiungere il seguito della regina,
accanto alla tavola alta. Quando si rese conto che il paggio si stava dirigendo
verso di lei, Lilli si alzò in piedi e per un momento prese in considerazione
l'eventualità di darsi alla fuga, ma poi decise che era meglio di no perché se
avesse destato ora le ire di sua madre ne avrebbe pagato il prezzo più tardi.
«Onorevole Lillorigga» disse il paggio, arrestandosi davanti a lei con un
inchino, «tua madre dice che quando avrai finito di mangiare ti dovrai recare
da lei nelle sue camere.»
Lilli si sentì attanagliare dalla fredda morsa della paura.
«Benissimo» riuscì comunque a rispondere, sfoggiando una parvenza di
sorriso. «Riferiscile che mi atterrò ai suoi desideri.»
Senza quasi degnarla più di un'occhiata, il paggio le volse le spalle e tornò
di corsa verso la tavola della regina, dove Lilli lo vide parlare con Merodda
prima di andare a prendere posto per procedere a servire il pranzo. Quanto a
Lilli, avrebbe dovuto mangiare a uno dei tavoli riservati alle donne nubili di
nobile nascita ma preferì prelevare un pezzo di pane da un cesto portato da un
paggio e lasciare la calca e il rumore della sala.
Fuori il sole stava tramontando e le ombre fredde si stavano allungando sul
cortile, uno dei molti che intervallavano la miriade di rocche e di edifici della
fortezza. Affrettando il passo, Lilli oltrepassò le cucine, s'insinuò fra i ma-
gazzini delle vettovaglie e sgusciò oltre un piccolo cancello che dava accesso
a un cortile più grande e più esterno, circondato da alte mura di pietra che
proteggevano porcili, stalle per cavalli e mucche, una fucina, un paio di pro-
fondi pozzi per l'acqua... tutto ciò di cui la fortezza aveva bisogno per far
fronte a un assedio.
Vicino alle porte di questo cortile qualcuno stava gridando, e quando vide i
servi accorrere in quella direzione muniti di torce, Lilli li seguì lentamente,
badando però a tenersi nell'ombra: vicino alle mura il chiarore delle torce si
rifletté su cotte di maglia e su un gruppo di uomini che stavano discutendo,
un contrasto a cui pose ben presto fine il capitano della guardia, ordinando lo-
ro di azionare l'argano che apriva le enormi porte rinforzate in ferro. Queste
lentamente si schiusero di appena due metri, quanto bastava per permettere a
un cavaliere sfinito in sella a un cavallo infangato di entrare nel cortile.
«Messaggi per il re» annunciò l'uomo, con voce rauca, «dal Gwerbret di
Belgwergyr.»
Mentre i servi si affrettavano a prendersi cura del cavallo spossato, Lilli
seguì il messaggero e il capitano della guardia che si stavano dirigendo in tut-
ta fretta verso la rocca principale.
«Spero siano buone notizie» commentò il capitano.
«Sono cattive» replicò il messaggero. «Sua Grazia il gwerbret ha perso altri
vassalli che sono passati al servizio del falso re.»
Assalita dallo sgomento, Lilli continuò a seguire il messaggero e la sua
scorta che si stavano dirigendo in tutta fretta verso la grande sala, dove ormai
tutti i nobili più importanti si erano radunati intorno al re. Appollaiato a capo-
tavola sui suoi cuscini Olaen, un bel bambino dai folti capelli biondi, era in-
tento a mangiare pane e miele e ai suoi lati i due zii di Lilli... Tibryn, Gwer-
bret di Cantrae e il suo fratello minore, il Reggente Burcan... sedevano fra lui
e il resto dei potenti nobili che potevano consumare i pasti alla tavola alta.
Entrambi erano uomini avvenenti, alti e dal portamento eretto proprio dei
guerrieri, con gli stessi occhi azzurri ben distanziati della sorella Merodda,
ma contrariamente a lei dimostravano palesemente la loro età a causa dei ca-
pelli grigi e del volto segnato.
Al sopraggiungere della guardia e del messaggero tutti smisero di mangiare
per girarsi a guardare mentre quest'ultimo s'inginocchiava davanti al re e pre-
levava dalla camicia un tubo d'argento per i messaggi, porgendolo con un ge-
sto elegante al piccolo Olaen. Protendendosi in avanti, Burcan afferrò il tubo
e con un cenno ordinò all'uomo di parlare, consapevole che gli altri grandi
nobili si erano raccolti intorno a loro, cupi e tesi.
Alla tavola della regina anche le donne smisero di parlare e si girarono per
sentire le notizie; quanto a Lilli, da dove si trovava non era in grado di capire
quello che il messaggero stava dicendo, ma ben presto un coro di brusii si le-
vò prima dalla tavola reale e poi da tutta la grande sala, ripetendo ciò che il
messaggero aveva appena detto: altri nobili erano passati dalla parte di Cer-
rmor. Infine Burcan congedò il messaggero con un secco cenno del capo, i-
gnorando Re Olaen che lo stava fissando con gli occhi pieni di lacrime.
Nel vedere sua madre lasciare la tavola della regina e salire in fretta la sca-
la per poi scomparire nell'ombra del pianerottolo, Lilli s'impose di seguirla
con un notevole sforzo di volontà; poi però si accorse che dalla parte opposta
della sala un paggio stava facendo sedere il messaggero mentre una serva
provvedeva a portargli della birra e dopo un momento di esitazione si diresse
verso l'uomo, che trangugiò in fretta un sorso di birra e accennò ad alzarsi ri-
spettosamente in piedi.
«Oh, resta seduto» lo invitò Lilli. «Devi essere sfinito. Volevo soltanto
chiederti se il Tieryn Peddyc di Hendyr è passato ai ribelli.»
«Non lui, mia signora. Lui è saldo come la roccia.»
«Ne sono lieta. È il mio padre adottivo.»
«Ah» commentò il messaggero, con un fugace sorriso. «Non mi meraviglia
che volessi avere notizie. Lui e Lady Bevyan stanno bene e sono fedeli come
sempre.»
«Ti ringrazio» mormorò Lilli, e si allontanò rapida, salendo in fretta la sca-
la e sperando... anzi pregando al riguardo la Signora della Luna con tutto il
fervore di cui era capace... che Bevyan decidesse di venire a corte con suo
marito quando lui avesse risposto alla convocazione del re. Merodda l'aveva
mandata presso Bevyan insieme alla sua balia quando aveva appena poche
settimane di vita e fino ai dodici anni di età Bevyan era stata la sola madre
che avesse mai conosciuto. Se soltanto avesse potuto rimanere con lei... sulla
scia di quei pensieri gli occhi minacciarono di colmarlesi di lacrime, ma Lilli
serrò le palpebre per scacciare il pianto e in cima alla scala si arrestò un mo-
mento per riprendere fiato. Il terrore le stava serrando nuovamente il cuore
ma non aveva dove fuggire o nascondersi, quindi con un ultimo sussulto si
diresse a passo deciso verso le camere di sua madre.
Merodda le aprì la porta di persona, reggendo in mano una lunga candela
alla cui luce il suo volto e le sue mani luccicavano come cera.
«Bene. Stanotte sei stata solerte» commentò.
In una chiazza di luce di candela vicino alle finestre della camera era fermo
Brour, l'uomo che Merodda definiva il suo scriba... un ometto magro con la
testa sproporzionata rispetto al corpo e con lanuginosi e radi capelli biondi,
tratti che a volte lo facevano apparire come un bambino, soprattutto a causa
delle labbra piene dall'espressione perennemente imbronciata. Posando una
mano sulla spalla di Lilli, Merodda la sospinse attraverso la stanza e verso il
tavolo davanti a cui si trovava Brour, sul quale fra le candele spiccavano un
mortaio con pestello, un pezzo di una sostanza nera che sembrava carbone e
una boccetta d'acqua, segno evidente che lo scriba era impegnato a preparare
dell'inchiostro, e per di più in quantità notevoli. Mentre le due donne si avvi-
cinavano, Brour mise una manciata di polvere ricavata dal carbone in una pe-
sante ciotola d'argento, vi aggiunse gradatamente dell'acqua dal flacone e
cominciò a pestare e a rigirare il tutto con un pestello.
«Eccola qui» disse Merodda.
Posati i suoi strumenti sul tavolo, Brour si girò a fissare Lilli con tanta
freddezza da spingerla a indietreggiare involontariamente di un passo, cosa
che indusse sua madre ad accentuare la presa sulla sua spalla. Protendendo
una mano annerita dall'inchiostro, Brour tolse quindi la candela a Merodda e
la sollevò per scrutare Lilli in volto.
«Nessuno ti farà del male, ragazza» disse infine. «C'è soltanto un nuovo
trucco che ci piacerebbe farti sperimentare.»
«Hai strani talenti, dolcezza mia» aggiunse Merodda, «e adesso noi ne ab-
biamo ancora bisogno.»
Per un momento il terrore di Lilli divenne tanto intenso da minacciare di
soffocarla e lei desiderò opporre un rifiuto, liberarsi con uno strattone e fug-
gire via, ma lo sguardo freddo di sua madre parve immobilizzarla come un
lungo ago di metallo che le trafiggesse l'anima.
«Suvvia!» scattò poi Merodda. «Noi donne dobbiamo fare quello che pos-
siamo per servire il re.»
«Certamente, Madre. È ovvio che voglio essere d'aiuto.»
«Certamente? Non provare a mentire, con me.»
Lilli arrossì e distolse lo sguardo.
«Comunque quello che vuoi o non vuoi non mi interessa» proseguì Merod-
da. «Avanti, vogliamo cominciare?»
Con un grugnito Brour depose la candela in mezzo alle altre presenti sul
tavolo, la cui luce danzante strappava continui riflessi dalla polla di inchio-
stro nero nella ciotola d'argento. Suo malgrado Lilli si trovò a fissare quei
bagliori, affascinata, mentre la mano di sua madre le scivolava via dalla spal-
la per posarlesi sulla base del collo. Di lì a poco Lilli sentì la testa che le si
chinava in avanti sotto la pressione di quella mano fattasi d'un tratto pesante,
poi la polla d'inchiostro parve cominciare ad agitarsi come le onde di un mare
nero che si dilatò fino a riempire tutto il suo campo visivo, tutta la stanza e
poi tutto il suo mondo. Mentre sprofondava nell'oscurità, la ragazza sentì Me-
rodda cantilenare qualcosa in tono basso e sommesso, ma non riuscì a distin-
guere una sola parola perché le sillabe da lei pronunciate echeggiavano ai
suoi orecchi come rintocchi di una campana d'ottone e parevano riverberarle
negli orecchi, suoni alieni che si univano a formare parole altrettanto aliene.
Poi nell'oscurità apparve un danzante punto di luce e Lilli si diresse verso
di esso, sentendo al tempo stesso il proprio corpo che si trasformava in un pe-
so morto, come se fosse stato un carico che lei si trascinava dietro nel muo-
versi. Gradualmente il punto di luce si andò allargando e si dilatò a formare
un cerchio attraverso cui lei poteva guardare, come se avesse aperto un'impo-
sta nera e si stesse ora affacciando da una finestra che dava su un mondo so-
leggiato. In quel momento la voce di Merodda giunse fino a lei, come da una
grande distanza.
«Cosa vedi, Lilli? Dicci che cosa vedi.»
Lei sentì la bocca che le si muoveva e le parole che le scivolavano dalle
labbra come ciottoli per cadere nell'oscurità circostante. Nella finestra appar-
vero intanto grandi creature con ampie ali e lunghe code intorno alle quali si
andò formando una luce bluastra che si fece sempre più intensa, scintillando
sulle scaglie ramate e rosso sangue di un paio di quelle bestie che stavano
dormendo, raggomitolate una accanto all'altra. Poi una di esse si svegliò e si
stiracchiò, allargando le ampie ali a rivelare due spesse zampe dotate di arti-
gli, una grande testa ramata si levò verso l'alto e spalancò in uno sbadiglio
fauci orlate di lunghe zanne.
«Grifoni. Vedo grifoni rossi, e ora stanno volando.»
«Bene, bene» mormorò la voce di sua madre, le parole simili a gocce di o-
lio che scivolassero dalle sue labbra. «Dove li vedi?»
«Su una pianura erbosa.»
I grifoni scesero dalle montagne sferzando l'aria con le ali massicce e Lilli
ebbe l'impressione di volare con loro mentre la sua voce continuava a echeg-
giare indipendentemente dalla sua volontà. I grifoni descrissero poi un cer-
chio sopra un prato dove stavano pascolando alcuni maiali e all'improvviso
scesero in picchiata come due falchi per colpire fra strida acute. Subito dopo
il grifone rosso riprese quota sbattendo con forza le ali e serrando fra gli arti-
gli la carcassa inerte e sanguinante di un grosso cinghiale grigio.
Immersa nella sua visione, Lilli volò troppo vicina e d'un tratto la testa e-
norme del grifone si girò verso di lei: gli occhi neri scintillarono e si socchiu-
sero, dando l'impressione di trapassare l'oscurità per fissarla e Lilli lanciò un
urlo, infrangendo l'incantesimo. Barcollando, incespicò in avanti e urtò il ta-
volo, sul quale una candela oscillò e cadde nell'inchiostro nero con un sibilo e
una voluta di fumo fetido.
«Piccola stupida pasticciona!»
Afferrandola per i capelli Merodda la fece girare e la schiaffeggiò con l'al-
tra mano; urlando ancora, Lilli si accasciò in ginocchio con la guancia dolo-
rante.
«Smettila!» ringhiò Brour. «Non è colpa sua, non è in grado di controllare
la trance.»
Merodda indietreggiò, ma Lilli sentì echeggiare il suo respiro reso ancora
affannoso dall'ira.
«Deve essere addestrata» continuò Brour, con voce ora di nuovo calma.
«Non capisco perché non mi vuoi permettere...»
«Non dobbiamo discuterne di fronte a lei» lo interruppe Merodda, proten-
dendosi in avanti. «Forza, tu, alzati!»
Lilli si affrettò a issarsi in piedi.
«Ora puoi tornare in camera tua» ordinò Merodda. «Lasciaci soli, e bada
che se dovessi mai dire a qualcuno quello che è successo qui...»
«Mai, lo prometto, mai» garantì Lilli. con voce che tremava per il timore.
«Non ne ho mai parlato, giusto?»
«È vero, non lo hai fatto» ammise Merodda, poi rifletté per un lungo mo-
mento e aggiunse: «A quanto pare hai un po' di cervello. Ora va'!»
Sollevando le lunghe gonne Lilli fuggì dalla stanza e corse fino alla sua
minuscola camera all'estremità opposta del corridoio, chiudendo e sbarrando
la porta alle proprie spalle; una volta al sicuro, per un lungo momento rimase
ferma a piangere nella luce grigia del crepuscolo, con le spalle addossate alla
parete di pietra, poi si gettò sul suo stretto giaciglio e scivolò nel sonno con
l'immediatezza con cui una pietra lasciata cadere da una torre colpisce il ter-
reno sottostante.
Quella stessa sera di primavera, nella quiete precedente il tramonto, Lady
Bevyan di Hendyr sostò accanto alla stretta finestra della sua camera da letto
e indugiò a esaminare il cortile della fortezza di suo marito. Ovunque il suo
campo visivo era incorniciato di pietra... la pietra in cui era ricavata la fine-
stra a cui si stava affacciando, la parete di pietra della tozza torre su cui essa
si apriva, la pietra delle mura che circondavano la fortezza e che tagliavano
l'orizzonte occidentale dove il giorno si stava concludendo in un tripudio d'o-
ro. A causa della guerra civile, nel corso di tutta la sua vita la pietra aveva si-
gnificato sicurezza così come l'inverno era stato una garanzia di pace, nono-
stante la neve, le tempeste e la costante minaccia della fame, e soltanto di re-
cente lei aveva cominciato a vedere la pietra come un simbolo di prigionia, e
aveva cominciato a chiedersi come potesse essere un mondo in cui anche l'e-
state era sinonimo di pace.
Non che un mondo del genere coincidesse con quello in cui viveva... non
ancora, almeno. Sotto di lei, nell'ombra sempre più fitta, il cortile era un fer-
vore di preparativi bellici: cavalli di scorta, impastoiati all'esterno Per man-
canza di spazio nelle stalle, carretti per le provviste, già carichi in vista della
partenza dell'indomani. Suo marito, il Tieryn Peddyc, aveva convocato i suoi
alleati e vassalli per i combattimenti previsti per quell'estate al fine di difen-
dere il vero re insediato a Dun Deverry dagli aspiranti usurpatori che si sta-
vano radunando lungo i confini meridionali del regno. Per meglio dire, suo
marito e i suoi alleati avevano sempre definito come usurpatore, pretendente
e ribelle Maryn, Gwerbret di Cerrmor, principe del distante Pyrdon, ma a vol-
te, quando non prestava attenzione al fluire dei suoi pensieri, Bevyan si sor-
prendeva a chiedersi quanto fossero veri quegli appellativi.
Alle sue spalle la porta si aprì e nella stanza risuonò una voce sommessa.
«Mia signora?» chiamò Sarra, una delle sue serve, oltrepassando la soglia.
«Non stai bene?»
«Sto bene, mia cara» la rassicurò Bevyan, volgendo le spalle alla finestra.
«Mi stavo solo concedendo un momento di solitudine per cercare di decidere
se andare o meno a corte. Dimmi, tu desideri andare a Dun Deverry?»
Sarra esitò, riflettendo. Lei era giunta presso Bevyan quando era ancora
bambina dopo essere rimasta orfana, e la quantità di tempo trascorsa da allora
era indicata dal grigio che le solcava i capelli alle tempie.
«Ecco» rispose infine. «Il nostro posto è accanto alla Regina Abrwnna, mia
signora, ma anche se non dovrei ammettere una cosa tanto vergognosa con-
fesso di avere una paura terribile di trovarmi intrappolata in un assedio.»
«Ne ho anch'io. Gli uomini di Cerrmor sono arrivati quasi alle nostre terre,
vero? A volte mi chiedo cosa porterà quest'estate.»
Sarra si accostò una mano alla gola con aria sgomenta.
«Però non dobbiamo ancora perdere la speranza» continuò Bevyan, assu-
mendo un tono deciso. «Gli dèi ci daranno il Wyrd che vorranno e non c'è
nulla che noi si possa fare al riguardo.»
«Questo è vero.»
«Quanto alle cose per cui possiamo fare qualcosa» proseguì Bevyan, con
un sospiro, «sono preoccupata per la piccola Lillorigga, e in tutta franchezza
se deciderò di partire lo farò soltanto per lei. Continuo a chiedere sue notizie
ma nessuno me ne manda mai.»
«Bah, di certo sua madre non si prenderà un simile disturbo» dichiarò Sar-
ra, con una nota gelida nella voce. «Credi che potremmo persuadere Lady
Merodda a permetterci di portare sua figlia con noi a Hendyr? Dopo tutto qui
l'aria è più pulita e quando era presso di te quella povera bambina si era fatta
un fiore.»
«Può darsi che Merodda sia lieta di liberarsi di lei, quindi vale la pena di
tentare. Ora ti dico cosa faremo: partiremo domani con il mio signore ma non
c'è motivo che noi si debba trascorrere tutta l'estate a Dun Deverry e comun-
que se la situazione dovesse farsi pericolosa i nobili manderanno senza dub-
bio le donne al sicuro.»
«È vero. Allora devo avvertire i paggi?»
«Certamente. Avvisa che tengano pronti i nostri cavalli e prepariamo una
cassa di abiti da caricare su uno dei carri. Ecco, ora che ho deciso mi sento
già meglio.»
Nel pronunciare quelle parole Bevyan si soffermò però a guardare fuori
della finestra, dove il sole stava tramontando fra veli di caligine che proietta-
vano lunghi striscioni dorati nel cielo, simili alle bandiere di un esercito in
avvicinamento, e di fronte a quello spettacolo il solito pensiero traditore tornò
ad affiorarle nella mente: cosa sarebbe successo se quell'estate l'esercito di
Maryn avesse posto fine alla guerra? In caso di vittoria lui aveva promesso
l'amnistia e un perdono completo ai nobili che avevano combattuto con tanta
determinazione contro di lui. Possibile sperare che la prossima estate non
portasse nuove battaglie?
«Mia signora?» chiamò Sarra. «Hai un'aria così distante.»
«Davvero, mia cara? Forse è perché mi duole un poco la testa. Scendiamo
nella grande sala a mangiare qualcosa.»
I nobili e i loro cavalieri si erano radunati nella grande sala, per lo più in
piedi e intenti a bere birra mentre parlavano fra loro in tono urgente, pieni di
tensione per motivi che andavano ben al di là della mancanza di posti a sede-
re e con voci che echeggiavano stranamente sommesse nella sala semivuota.
Al suo ingresso Bevyan effettuò un rapido conto dei nobili presenti: erano
soltanto quattro e ciascuno di essi aveva l'obbligo di portare appena quaranta
uomini per infoltire gli ottanta forniti da suo marito e i centosessanta di cui
disponeva il gwerbret.
Daeryc, Gwerbret di Belgwergyr e signore di suo marito, sedeva a capo
della tavola alta mentre il Tieryn Peddyc aveva preso posto alla sua destra e il
loro ultimo figlio ancora in vita, Anasyn, sostava alle spalle di Sua Grazia,
pronto a servirlo come un paggio.
Chiunque avesse visto insieme Peddyc e Anasyn non avrebbe avuto il mi-
nimo dubbio sul fatto che fossero padre e figlio in quanto entrambi avevano il
volto lungo, il naso sottile e infossati occhi castani; l'unica differenza erano i
capelli, in quanto quelli di Peddyc erano ormai tutti grigi mentre Anasyn con-
servava una folta capigliatura castana. Nel veder sopraggiungere sua moglie,
Peddyc si alzò in piedi e le andò incontro con un sorriso sulle labbra.
«Eccoti qui» la salutò. «Mi stavo chiedendo se per caso non ti sentissi ma-
le.»
«Non sto male, mio caro, stavo solo riflettendo. Ho deciso che è meglio
che venga con te quando partirai per Dun Deverry.»
«Bene, là sarai al sicuro» approvò Peddyc, mentre il suo sorriso svaniva.
«Intendo privare la fortezza della sua guarnigione.»
Bevyan si portò una mano alla gola per lo sgomento e nel sentire il volto
gelato per il defluire del sangue si chiese se fosse impallidita.
«Ecco, non siamo ancora sconfitti» continuò Peddyc, abbassando la voce.
Se per te e le tue donne dovesse venire il momento di lasciare Dun Deverry ti
rimanderò qui con una scorta adeguata, quanto a questo non hai da temere.
Dovrai soltanto tenere chiuse le porte per il tempo necessario a giungere a un
accordo con il Pretendente.
«Capisco» mormorò Bevyan, deglutendo a fatica, poi si schiarì la gola e
aggiunse: «Naturalmente il mio signore sa cosa sia meglio fare.»
«Preghiamo di non dover pensare a questo genere di cose, Bevva» sorrise
Peddyc, accarezzandole il volto. «Ora vieni a intrattenere il nostro gwerbret.
Se non altro tu e io andremo a corte insieme, e ciò che accadrà dopo lo sanno
soltanto gli dèi.»
Peddyc sollevò quindi lo sguardo e nel seguirne la direzione Bevyan si rese
conto che lui stava fissando la fila di bandiere in stoffa oro e verde, sbiadite e
chiazzate dal tempo... gli stendardi dell'Ariete che risalivano a tempi imme-
mori... e si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che una mano nemica
li strappasse da quelle pareti.

«I presagi?» esclamò Merodda. «I presagi sono orribili.»


«Sembri spaventata» commentò Burcan.
«È ovvio che sono spaventata. Suppongo che questo faccia di me una po-
vera donna debole e degna di disprezzo.»
«Non direi proprio» replicò Burcan, secondo figlio del clan del Cinghiale e
Reggente del re, concedendosi un asciutto sorriso. «Direi invece che ti rende
una donna di buon senso.»
Merodda si concesse un breve sospiro.
Nel cuore della notte, i due erano seduti nella camera privata di Merodda,
lei su una sedia intagliata accostata al fuoco e lui su un'altra sedia vicina al
tavolo; le candele che ardevano nella stanza erano state accese da poco e
Brour se n'era andato da tempo dopo aver fatto sparire ogni traccia della sua
ciotola di inchiostro nero.
«Vorrei avere per te notizie migliori» continuò Merodda, «ma qui a corte
abbiamo un nemico.»
«Per sapere questo non servono i presagi. Tutti invidiano il nostro clan.»
«Questo è diverso. Nei presagi un grifone rosso è sceso in picchiata dal cie-
lo e ha ucciso un cinghiale.»
«Cosa? Vorrei che non parlassi per enigmi.»
«Mi pareva di essere stata abbastanza chiara. Lo stendardo del re è un gri-
fone verde, quindi è evidente che qualcuno vicino alla famiglia reale sta
complottando per soppiantarci.»
Burcan accennò a ribattere, poi però tacque e si limitò ad accarezzarsi i fol-
ti baffi grigi, immerso nelle riflessioni.
«Hai ragione» disse infine. «Ora che me lo hai spiegato è tutto chiarissimo.
Non so perché ma faccio fatica a capire cose come i presagi.»
«Non hai bisogno di capirle. Hai me.»
Per un momento i due si scambiarono un sorriso, poi dal fuoco si levò una
pioggia di scintille quando un ceppo si consumò del tutto e Burcan si alzò per
andare a prendere da un cesto un nuovo ceppo di legno che getto fra le fiam-
me, indugiando poi per qualche istante a guardarlo bruciare.
«Hai idea di chi possa essere questo nemico?» chiese infine.
«Non ancora. Hai ragione a parlare di invidia perché molti clan hanno mo-
tivo di odiarci. È solo che non mi ero resa conto di quanto potesse essere pro-
fondo il loro odio.»
«Ci penserò su. Hai detto che si trattava di un grifone? Quindi forse è qual-
cuno che ha nelle vene un po' di sangue reale.»
«Ecco! Vedi che cominci a risolvere l'enigma?»
«Davvero? Può darsi, ma non so se la cosa mi piace. Quel tuo cosiddetto
scriba... sei certa di poterti fidare di lui?»
«Non lo so. È venuto da me in cerca di denaro, e se qualcuno gliene offris-
se di più non posso garantire che non sarebbe disposto a cambiare bandiera.»
«Lo pensavo. Quell'uomo non mi piace.»
«Perché?»
«Viene dalla costa meridionale, giusto?»
«Non proprio. Viene dalle terre del settentrione, anche se ha vissuto a Cer-
rmor per qualche anno.»
«Comunque come puoi sapere che non è una spia di Cerrmor?»
«Come ben sai ho dei modi per stabilire se qualcuno mi sta mentendo. C'è
qualcosa d'altro, vero?»
«Non mi piace il modo in cui ti tratta» ammise Burcan, fissando il pavi-
mento con espressione accigliata.
«Cosa? È sempre cortese.»
Burcan sollevò il capo e la scrutò in silenzio, sondandola con lo sguardo
come a cercare qualche segreto, un atteggiamento che indusse Merodda ad
alzarsi in piedi con una risatina.
«Non mi dire che sei geloso del povero Brour!» esclamò.
«Non mi piace il fatto che è sempre in tua compagnia» ribatté Burcan, al-
zandosi a sua volta.
Sorridendo, lei gli posò una mano sul petto e sollevò lo sguardo a incontra-
re il suo, inducendolo a coprirle la mano con la propria.
«Mio caro fratello» gli disse poi, «lui è piccolo e brutto, quindi non hai mo-
tivo di tormentarti a causa sua.»
«Bene. Nel momento in cui dovessi avere il sospetto che possa tradirci av-
vertimi e me occuperò io.»

Viaggiare con il seguito dei Gwerbret Daeryc, con i lord al suo servizio e le
loro bande di guerra congiunte, più i servitori e il seguito di ciascun nobile,
non era certo una cosa veloce, soprattutto con l'ingombro dei carri e di intere
mandrie di cavalli, quindi per evitare di essere sballottata su un carro insieme
alle serve Bevyan preferì indossare sotto gli abiti un paio di vecchi calzoni di
suo figlio e montare a cavallo, come fece anche Sarra. Nello schieramento
della lunga colonna in marcia esse si trovavano subito dietro i nobili, anche
se di tanto in tanto Peddyc rimaneva indietro rispetto agli altri e procedeva
accanto alla moglie per qualche chilometro. Cavalcare in quelle giornate di
primavera in mezzo al grano invernale che cominciava a maturare e agli albe-
ri di melo carichi di boccioli profumati era così piacevole che Bevyan si sor-
prese a ricordare i primi tempi del suo matrimonio, quanto lei e Peddyc erano
soliti vagare insieme a cavallo per quelle terre, soli tranne per un paggio che
li seguiva con discrezione, tenendosi a distanza. Quei giorni erano stati per lei
particolari e sconvolgenti, perché si era resa conto di aver sposato un uomo
che avrebbe imparato ad amare.
Adesso naturalmente il suo compagno aveva i capelli brizzolati e cavalcava
cupo e silenzioso, mentre dietro di loro si snodava l'esercito che lui e il suo
signore erano riusciti a raccogliere.
L'intenzione del gwerbret e dei suoi nobili era stata quella di chiedere asilo
per la notte presso le diverse fortezze di numerosi signori che dovevano un
tributo in armigeri ai tieryn o al gwerbret stesso, ma quella prima notte di
viaggio, quando arrivarono alla fortezza di un certo Lord Daryl, la trovarono
del tutto vuota, senza neppure un pollo che razzolasse nel cortile o un servito-
re che si aggirasse nella rocca. Mentre Daeryc e gli uomini; aspettavano nel
cortile, Bevyan accompagnò Peddyc in una rapida perquisizione delle stanze
svuotate di ogni cosa.
«Hanno portato via anche il mobilio» osservò, «perfino i letti. Il loro sarà
un viaggio lungo e faticoso, se hanno intenzione di trasportare tutte queste
suppellettili fino a Cerrmor.»
Peddyc annuì in silenzio, lasciando vagare lo sguardo su quella che era sta-
ta la camera da letto del signore della fortezza e della sua dama, poi d'un trat-
to sorrise e si chinò per sfilare qualcosa che si era infilato nella fessura fra
due assi.
«Una moneta d'argento» commentò con un sorriso sempre più accentuato.
«La terrò come tributo: questa è una moneta che non verrà utilizzata per
comprare cavalli per l'esercito dell'Usurpatore.»
La seconda notte di viaggio portò con sé una sorpresa ancora più sgradevo-
le quando scoprirono che la fortezza di Lord Ganedd aveva le porte sprangate
dall'interno per impedire loro l'accesso. Avanzando in sella ai loro cavalli,
Daeryc e Peddyc chiamarono a gran voce Ganedd senza ottenere risposta e
senza che nessuno apparisse sulle mura, neppure per scagliare loro contro de-
gli insulti. Nonostante quell'assenza di risposte era però evidente che la for-
tezza era abitata e piena di vita, perché nelle lunghe pause di silenzio Bevyan
sentì di tanto in tanto un cane abbaiare o un cavallo nitrire, e una volta le par-
ve addirittura di vedere un volto affacciarsi a una finestra, in alto nella rocca.
Quando infine tornarono a raggiungere il seguito in attesa, Daeryc e
Peddyc erano rossi in volto per l'ira e stavano imprecando sonoramente.
«Significa che sono neutrali?» domandò Anasyn. «Oppure sono passati al-
l'Usurpatore?»
«Come posso saperlo, giovane idiota?» ringhiò Peddyc. «Oh, scusami San-
no, mi dispiace, non ha senso prendersela con te per questo.»
Quando la colonna si accampò sui pascoli erbosi da cui erano stati allonta-
nati gli armenti, Bevyan chiese ai servi di accendere un fuoco separato per le
donne, che per tutta la sera sedettero raccolte intorno alle fiamme scambian-
dosi timori e pettegolezzi senza cessare di guardare in direzione del fuoco
degli uomini, distante una decina di metri, dove Peddyc e Daeryc continua-
vano a camminare avanti e indietro parlando animatamente fra loro.
La terza sera fu quindi con animo incerto che la colonna si avvicinò alla
fortezza di Lord Camlyn, ma al loro arrivo trovarono le porte spalancate e
Lord Camlyn in persona, un giovane alto dai folti capelli rossi, uscì ad acco-
glierli seguito da quattro grossi cani per la caccia al cinghiale che latravano
eccitati. Dopo aver fatto tacere i cani, Camlyn si avvicinò al gwerbret e gli af-
ferrò la staffa in una dimostrazione di fedeltà.
«Che accoglienza ha ricevuto Vostra Grazia da parte di Ganedd?» chiese
quindi.
«Dannatamente ostile» ribatté Daeryc. «Sono lieto di vedere che tu sei an-
cora fedele al vero re. Quest'autunno, quando muoveremo contro Ganedd, le
sue terre diventeranno tue.»
Quella sera a cena la conversazione si accentrò prevalentemente su chi a-
veva infranto il giuramento di fedeltà passando all'Usurpatore, chi stava mi-
nacciando di tenersi neutrale e chi invece stava cercando ogni modo per sot-
trarsi all'obbligo di fornire armigeri e le provviste per nutrirli. Dal momento
che la sala di Camlyn era troppo povera per contenere più di una tavola alta,
Bevyan sentì ogni cosa mentre in fondo al tavolo divideva il contenuto di un
vassoio di legno con Varylla, la moglie di Camlyn; per un tacito accordo, nel
corso della cena le due donne rimasero per lo più in silenzio, limitandosi ad
ascoltare i discorsi degli uomini che si andavano accalorando sempre più.
Quando infine i paggi procedettero a servire il sidro di fine pasto, il Gwerbret
Daeryc aveva ormai accantonato ogni diplomazia nell'esprimersi.
«La causa di tutti questi guai è quel dannato clan del Cinghiale» ringhio.
«Gli uomini sarebbero pronti a raccogliersi a difesa del re, ma chi è disposto
ad accorrere in difesa del Cinghiale?»
«Proprio così» convenne Camlyn. «Queste guerre li hanno arricchiti men-
tre il resto di noi... ecco, un bel giorno ci ritroveremo tutti a mendicare in
mezzo a una strada.»
I due poi si girarono a fissare Peddyc, in attesa di un suo commento.
«Non ho nessuna simpatia per Burcan o per Tibryn» affermò questi, «ma
se fosse stato il re a sceglierli sarei pronto a servire la loro causa.»
«Mi piace quel se» affermò Daeryc, poi s'interruppe per masticare con cau-
tela in quanto aveva perso la maggior parte dei denti e poteva usare soltanto
un lato della bocca e infine aggiunse: «Anch'io farei lo stesso, se...»
Peddyc lanciò un'occhiata verso il fondo della tavola e intercettò lo sguardo
di Bevyan, che rispose alla sua tacita domanda con una lieve scrollata di spal-
le, in quanto pareva che fra quella gente non ci fossero rischi a esprimere i
dubbi che entrambi nutrivano da tempo.
«Ecco» riprese quindi Peddyc, «dicono che Re Daen abbia nominato Bur-
can reggente in punto di morte, però io non ero là a sentire le sue parole.»
«E neppure io» scattò Camlyn.
«Neanch'io c'ero, e considerato che la vedova di Daen è così strettamente
imparentata con il Cinghiale...»
Daeryc lasciò la frase in sospeso e trangugiò un lungo sorso di sidro.
«I porci scavano le radici» commentò Camlyn, in tono assorto. «Se permet-
ti loro di pascolare su un prato strappano le radici con le zanne e le calpesta-
no fino a far morire tutta l'erba.»
«In quel caso c'è una sola cosa da fare, ed è allontanarli dal pascolo» repli-
cò Peddyc.
«In effetti è la sola cosa da fare» convenne Daeryc, poi ebbe un lungo mo-
mento di esitazione e infine concluse: «Però per farla conviene avere un por-
caro che disponga di cani ben addestrati.»
I tre uomini si scambiarono una lunga occhiata piena di significato che eb-
be l'effetto di raggelare progressivamente Bevyan, come se un vento inverna-
le avesse preso a soffiare nella sala. Sgomenta, si volse verso Varylla.
«Mi piacerebbe vedere i ricami che stai facendo» le disse. «I tuoi lavori so-
no così belli.»
«Ti ringrazio, mia signora» rispose Varylla, con un timido sorriso. «Vuoi
salire con me nelle mie camere?»
Mentre si avviavano insieme verso le scale, Bevyan intercettò lo sguardo di
Peddyc che le strizzò l'occhio in segno di ringraziamento anche se il sorriso
che gli aleggiava sul volto appariva forzato... e del resto come avrebbe potuto
non essere tale, visto che lui e gli altri nobili stavano parlando di tradimento?
Sul finire del giorno successivo, con l'esercito ingrossato da Lord Camlyn e
dai suoi uomini, il seguito del Gwerbret Daeryc raggiunse la città, che si le-
vava su quattro colli dietro una massiccia doppia cerchia di mura dotate di
bastioni e di torri. Una strada rivestita di acciottolato si snodava dalle porte
principali, rinforzate in ferro e decorate con lo stemma reale del grifone ram-
pante intagliato nel legno, e al lati delle porte era schierata una guardia d'ono-
re che sfoggiava camicie riccamente ricamate e che s'inchinò al passaggio del
gwerbret e del suo seguito. Non appena oltrepassate le porte, però, all'interno
della città ogni parvenza di splendore scomparve del tutto.
Lo spazio al di là delle mura era cosparso di rovine e di mucchi di pietra in
mezzo ai quali marcivano travi carbonizzate che indicavano lo scempio cau-
sato dall'ultimo assedio, intervellati, a tratti in cui la polvere copriva pietre
rase al suolo in anni remoti. La maggior parte delle case ancora in piedi era
stata abbandonata, con i cortili ora soffocati dalle erbacce, le finestre vuote,
la paglia del tetto marcita da tempo e sparsa sulle strade dal vento. Nel centro
della città, intorno e in mezzo alle due colline principali, Bevyan scorse però
alcune case ancora abitate e circondate da giardini coltivati a orto; qua e là
alcuni bambini giocavano nei vicoli fangosi e assai più numerosi erano i vec-
chi, chini ad accudire il loro orto o seduti su una panca davanti a casa per ve-
der passare l'esercito del gwerbret senza però che nessuno applaudisse o gri-
dasse d'entusiasmo. Dopo un po' Bevyan si girò sulla sella per guardare verso
suo marito.
«Quest'estate la situazione è ancora peggiore di quella passata» commentò.
«Mi riferisco alla città... è così desolata.»
«Infatti» annuì Peddyc. «Tutti quelli che potevano andarsene lo hanno fat-
to.»
«Ma dove sono andati?»
«Presso dei parenti, suppongo. Gli dèi sanno che di questi tempi le terre
coltivate che giacciono a maggese sono anche troppe. Dovunque nuova mano
d'opera sarà la benvenuta.»
«È così strano vedere tutte quelle case vuote. Non credo che sia rimasto
nessuno della milizia per aiutare a difendere le mura cittadine.»
«Infatti è così» ammise Peddyc, distogliendo lo sguardo. «Se quest'estate ci
sarà un assedio dovremo abbandonare la città all'Usurpatore e difendere solo
la fortezza.»
O tentare di difenderla... Bevyan ebbe l'impressione di sentire quel pensie-
ro aleggiare nell'aria come un nobile ribelle e all'improvviso si rese conto che
quell'estate avrebbe potuto facilmente portare con sé la morte di suo marito.
D'altro canto affrontava ormai da così tanti anni la prospettiva della vedovan-
za che l'idea non aveva più l'effetto di spaventarla ma soltanto quello di de-
stare la sua ira.
Contrariamente alla città, la fortezza sembrava essere in buone condizioni.
La colonna attraversò cinta dopo cinta di mura protettive, percorrendo una
strada a spirale che portava in cima alla collina, e infine superò un piccolo
villaggio che sorgeva addossato all'ultima cerchia di mura e che ospitava i
servitori più importanti del re, i fabbri e altra gente del genere. Una volta al-
l'interno del cortile del palazzo, Bevyan vide abbondanza di uomini armati
che levarono infine grida di entusiasmo nel vedere il Gwerbret Daeryc e il
suo contingente, mentre davanti alle porte della grande sala si accalcavano
paggi e servitori in attesa di prendere in consegna i cavalli e di scaricare i car-
ri. Quando si fermarono, Bevyan attese che Peddyc scendesse di sella e che
l'aiutasse a smontare a sua volta.
«La mia presenza è richiesta al fianco del gwerbret» le disse Peddyc.
«È naturale, mio caro» annuì Bevyan, battendogli un colpetto sul braccio.
«Del resto sono già stata qui tante volte che sono in grado di provvedere da
sola a me stessa e alle mie donne.»
Con un cenno di assenso Peddyc si allontanò a grandi passi impartendo or-
dini ai suoi uomini e Anasyn lo seguì senza neppure guardarsi indietro. Nel
vedere come suo figlio si trovasse a proprio agio anche nella fortezza del re,
Bevyan pensò con un sorriso che ormai era proprio diventato un uomo.
«Bevva!»
«Correndo come un cane che si precipitasse ad accogliere il suo padrone,
Lillorigga attraversò il cortile e si gettò fra le braccia della madre adottiva,
che la tenne stretta a sé ridendo e piangendo al tempo stesso.»
«Lascia che ti guardi, cara» disse infine Bevyan, allontanandola da sé.
«Oh. quanto ti sei fatta alta! E quanto mi fa piacere vederti!»
Lillorigga era raggiante, ma per quanto si fosse limitata a commentare sulla
sua statura, Bevyan non aveva mancato di notare come lei apparisse magra e
pallida, con i lunghi capelli biondi che le ricadevano flosci e opachi intorno al
volto. Per un momento pensò che potesse trattarsi di un problema di vermi,
una cosa che si presentava sempre d'inverno in tutte le fortezze, anche in
quella del re, ma poi pensò a Lady Merodda e si chiese se quella sua supposi-
zione fosse esatta. D'altro canto là, in mezzo al trambusto del cortile, con
uomini armati che andavano e venivano e con i servitori che passavano loro
accanto di continuo, non era possibile parlare apertamente di nulla, neppure
di questioni di salute.
«Vieni con me, mia cara» suggerì quindi. «Dopo che avrò portato le nostre
cose nelle camere a noi riservate potremo parlare un poco.»
Un servitore le informò che per ordine della regina a Lady Bevyan e alla
sua serva era stato assegnato un grosso appartamento nella rocca stessa del
re, e mentre i servitori trasportavano fin là casse e sacchetti sotto l'attento
controllo di Sarra, Bevyan e Lilli sostarono insieme vicino a una finestra la-
sciando vagare lo sguardo sul cortile interno e godendo della luce del sole
che si riversava nella camera.
«L'inverno è stato duro, vero?» commentò Bevyan, vedendo Lilli protende-
re con una risata le mani verso il gradito calore del sole.
«Infatti. Sono così contenta che sia arrivata la primavera, anche se...» inter-
rompendosi, Lilli lasciò a mezzo la frase.
«Anche se questo farà ricominciare la guerra?»
«Proprio così. Oh, Bevva, sono talmente stanca di avere paura!»
«Lo siamo tutte, mia cara, ma gli dèi porranno fine alla guerra quando vor-
ranno e non un momento prima, quindi non c'è nulla che noi donne possiamo
fare.»
Mentre parlava Lilli si girò verso di lei con aria tanto furtiva che Bevyan
dimenticò quello che era stata sul punto di dire.
«Lilli, c'è qualcosa che non va?»
«Nulla, proprio nulla» garantì lei, ma al tempo stesso si smentì con il gesto
con cui si portò alla gola una mano smagrita.
«Sei stata malata, vero, cara?» insistette Bevyan.
«Un poco, ma adesso sto bene, davvero» replicò Lilli. poi si volse a guar-
dare verso la stanza ed esclamò: «Sarra, eccoti qui, finalmente! Hai fatto un
buon viaggio?»
Bevyan intanto si chiese fra sé cosa stesse nascondendo la ragazza ma non
fece domande perché sapeva che presto o tardi Lilli si sarebbe confidata con
lei e preferiva aspettare che la ragazza fosse pronta a parlargliene.
Ben presto Bevyan si rese conto che i problemi presenti nella fortezza era-
no più di uno. Quella sera nel corso della cena Peddyc ricevette l'onore di se-
dere alla tavola del re mentre Anasyn venne sistemato con un gruppo di gio-
vani nobili scapoli e Bevyan e Lilli si accomodarono insieme a una delle ta-
vole riservate alle nobildonne, condividendo un vassoio anche se passarono
più tempo a parlare che a mangiare. Il giovane re scese a cena per tempo,
scortato dal Reggente Burcan, la regina si fece vedere invece solo molto più
tardi, facendo il suo ingresso nella sala insieme a un gruppo di giovani donne.
La Regina Abrwnna era una bella ragazza più o meno della stessa età di Lilli.
con grandi occhi verdi e capelli ramati che alla luce incerta del fuoco scintil-
lavano come fili d'oro, ma quella sera pareva che avesse pianto, in quanto i
suoi occhi erano arrossati e la bocca era contratta in un'espressione imbron-
ciata tutt'altro che gradevole. Mentre il gruppo le passava accanto nel diriger-
si verso il tavolo a loro riservato, Bevyan si accorse che una delle dame di
compagnia della regina, anch'essa giovane e bella, era a sua volta accigliata e
sfoggiava un livido purpureo su una guancia.
«Oooh, guai in vista» sussurrò Lilli. «Scommetto che Abrwnna ha scoperto
la faccenda di Galla e di Lord Aedar.»
«Una tresca amorosa?»
«Proprio così, e scommetto che Abrwnna è gelosa. Vedi, c'è un gruppo di
giovani nobili che si sono votati a lei... alla regina, intendo, non a Galla. Essi
portano tutti in battaglia un suo pegno, credo un pezzetto di qualche suo vec-
chio abito, e comunque Abrwnna non tollera che una delle sue dame abbia
una storia con uno di loro... uno dei nobili a lei votati, intendo.»
Bevyan posò il coltello e indugiò a osservare il seguito della regina che
stava prendendo posto al tavolo a esso riservato.
«Davvero interessante» replicò poi in tono pacato. «E quanti sono questi
nobili?»
«Solo sei. È un grande onore essere accolti a far parte di quel gruppo.»
«Non ne dubito. Spero solo che la loro sia una devozione innocente» ribat-
té Bevyan, e quando Lilli si girò a fissarla con espressione interdetta prose-
guì: «La moglie del re deve essere assolutamente al di sopra di ogni sospetto,
altrimenti come si potrà credere che porti in seno il vero erede, quando reste-
rà incinta?»
«Oh, questo!» sorrise Lilli, perdendo l'espressione confusa. «D'altro canto
il re ha solo cinque anni e passerà ancora parecchio tempo prima che possa
farle generare un figlio.»
«È quello che intendevo dire.»
«Oh... capisco» mormorò Lilli, assumendo un'espressione solenne.
Durante il resto del pasto la ragazza indicò a Bevyan i diversi nobili che
formavano la Compagnia della Regina, tutti di aspetto abbastanza attraente e
tutti facoltosi, e per quanto continuasse a ripetersi che si stava trasformando
in una vecchia dalla mente meschina Bevyan non poté evitare di chiedersi
quanto fosse rischiosa quella situazione quando vide i diversi nobili in que-
stione inchinarsi davanti alla regina e baciarle la mano. L'onore della discen-
denza reale si basava sulla virtù della regina, che non poteva concedersi le
piccole libertà che si prendevano le altre nobildonne. D'altro canto, essendo
soltanto la moglie di un semplice tieryn, Bevyan non era nella posizione di
poter rivolgere un ammonimento alla sovrana, quindi fece del suo meglio per
allontanare la cosa dalla propria mente.
Verso la fine del pasto Bevyan e Lilli stavano dividendo un vassoio di mele
secche quando un paggio si diresse verso di loro e dopo essersi inchinato a
Bevyan si rivolse a Lilli.
«Tua madre desidera vederti» annunciò. «Nelle sue camere.»
Lilli si tinse di un pallore mortale.
«Cosa c'è che non va, mia cara?» le chiese Bevyan.
«Oh, vorrà parlare del mio matrimonio» spiegò Lilli, girandosi a fissarla
con espressione angosciata. «È una cosa che detesto.»
Per quanto quella fosse una spiegazione plausibile, Bevyan aveva allevato
troppi figli adottivi per non essere in grado di riconoscere una menzogna
quando la sentiva, e mentre osservava Lilli allontanarsi levò in cuor suo una
preghiera di ringraziamento alla Dea per averla indotta a decidere di venire a
Dun Deverry.
Quella sera però Lilli aveva involontariamente detto la verità. Quando arri-
vò nella camera di sua madre, la trovò ad attenderla in compagnia di entrambi
i suoi zii e vide che per l'occasione era stato steso sul tavolo un panno bianco
su cui ardevano alcune candele che illuminavano un'ammaccata caraffa d'ar-
gento e alcuni boccali di terracotta. Burcan sedeva di fronte a Merodda su
una sedia coperta da un cuscino mentre il Gwerbret Tibryn era in piedi accan-
to al camino nel quale un piccolo fuoco era stato acceso per dissipare il fred-
do della sera.
«Entra, bambina, e siediti» disse Merodda, indicando uno sgabello posto
accanto alla sua sedia.
Lilli obbedì dopo aver rivolto una riverenza ai suoi zii, che la fissarono en-
trambi con freddezza per un lungo momento.
«È tempo che ti sposi» annunciò quindi Merodda. «Ormai hai finito il pe-
riodo di tutela da... da due anni, vero?»
«Sì, madre.»
«Benissimo. Noi abbiamo discusso della cosa, perché dobbiamo decidere
in che modo il tuo matrimonio possa tornare maggiormente a beneficio del
clan.»
Tutti parvero aspettare che lei dicesse qualcosa, ma Lilli si limitò a sfog-
giare un sorriso incerto e a serrare le mani per nasconderne il tremito.
«Tuo zio Tibryn vuole darti in moglie a uno degli alleati che ha in Cantrae,
su nel nord» riprese infine Merodda. «Si tratta del Tieryn Nantyn.»
«Ma è così vecchio!» esclamò suo malgrado Lilli, poi si pentì immediata-
mente di quella reazione e si ritrasse, aspettandosi che sua madre la schiaf-
feggiasse.
Invece Merodda le posò una mano sulla spalla con fare ammonitore e strin-
se un poco, ma non tanto da farle male, mentre Tibryn si limitò a fissarla con
occhi roventi e con la bocca contratta in una linea sottile sotto i folti baffi.
«È peggio che vecchio» ringhiò intanto Burcan. «È un uomo brutale che ha
già seppellito una moglie.»
«È vero» convenne Tibryn in tono asciutto, «ma chi può dire che lui abbia
avuto qualcosa a che fare con la sua morte? O forse avete ascoltato i pettego-
lezzi delle donne?» aggiunse, scoccando una fugace occhiata alla sorella pri-
ma di distogliere lo sguardo.
«E perché Merodda non avrebbe dovuto ascoltarli?» ribatté Burcan. «Dopo
tutto, Lilli è la sua unica figlia.»
«Vostra Grazia?» intervenne Merodda. «Veder mandare così lontano la sua
unica figlia addolorerebbe qualsiasi donna.»
«Oh, dèi!» esclamò Tibryn. «Avresti dovuto fare il bardo, Rhodi! Una po-
vera vecchia addolorata e la sua unica figlia!»
«Non essere così crudele! Voglio che Lilli resti vicino alla corte. Tu sei il
mio fratello maggiore e il capo del nostro clan, ma di certo non vorrai proibi-
re a una madre di parlare.»
«Potrebbero essere gli dèi stessi a proibirti di parlare e questo non servi-
rebbe a farti tacere» commentò Tibryn con una secca risata, «quindi perché
dovresti dare ascolto a un semplice mortale? Nantyn è importante per me. Fi-
nora tutti i signori del settentrione ci sono rimasti fedeli ma adesso questi di-
scorsi relativi al perdono promesso dall'Usurpatore stanno turbando molti
cuori.»
«Ci sono altri modi per legare un uomo al suo gwerbret» intervenne Bur-
can. «Fra Nantyn e me esiste una disputa relativa a un appezzamento di terre-
no. Se lo riterrai necessario lo cederò a lui.»
Tibryn si girò verso il fratello minore e parve sul punto di replicare, ma poi
esitò quando Burcan sostenne con fermezza il suo sguardo.
«Se la cosa ti importa fino a questo punto, per me va bene» disse.
«Vostra Grazia ha la mia gratitudine.»
«E anche la mia» aggiunse Merodda. lasciando andare la spalla di Lilli e
appoggiandosi allo schienale della sedia. «Hai i miei umili, umilissimi rin-
graziamenti.»
«Chi intendete proporre, allora?» chiese il gwerbret. «Se non dobbiamo
mandarla presso un nobile del settentrione, qual è il modo migliore per spen-
dere questa moneta di cui disponiamo?»
«Ci ho pensato sopra» rispose Burcan, «e tutto considerato credo che forse
sarebbe meglio tenerla nel clan. O forse vuoi che un giorno tua nipote e suo
figlio vengano tenuti in ostaggio da qualcuno passato dalla parte dell'Usurpa-
tore? Consegnargli Lilli potrebbe essere per un suo nuovo vassallo un modo
eccellente di dimostrare la propria fedeltà.»
«Questo è vero» convenne Tibryn, e infine aggiunse, scuotendo il capo:
«C'è sempre tuo figlio, Braemys.»
«Uh... ecco, io stavo pensando piuttosto a uno dei nobili nostri lontani pa-
renti...» cominciò Burcan.
«Perché? Se dobbiamo tenerla vicino al cuore del clan allora facciamo le
cose come si deve. Alcuni dei nostri cugini sarebbero pronti a tagliarmi la go-
la se pensassero di poter così salvare il loro collo dal boia dell'Usurpatore e
senza dubbio farebbero lo stesso con te.»
«Non posso certo negare che sia così, ma...»
«Ma cosa?» lo interruppe Tibryn, accantonando quell'obiezione con un ge-
sto della mano. «Un matrimonio fra cugini è un modo eccellente per mante-
nere intatte le terre di un grande clan. Naturalmente Lilli porterà in dote le
terre del suo defunto padre, visto che anche i suoi fratelli sono morti, e mi
piacerebbe che le avesse Braemys perché sono tenute che vale la pena di
mantenere in possesso del Cinghiale. Inoltre» continuò, rivolto ora a Merod-
da, «in qualità di figlio del Reggente lui e sua moglie vivranno a corte per la
maggior parte del tempo.»
«Proprio così, Vostra Grazia» convenne Merodda, scoccandogli un brillan-
te sorriso. «Fratello, perché hai l'aria turbata?»
Nel guardare suo zio Burcan, Lilli pensò che più che turbato questi sem-
brava abbastanza furioso da poterla strozzare, ma poi l'ira svanì dal suo volto
e venne sostituita da un asciutto sorriso.
«Un uomo si sente vecchio quando vede che anche il suo figlio più giovane
si sposa» affermò con disinvoltura.
«È successo anche a me» annuì Tibryn. «Bene, io considero risolta la que-
stione. Rhodi, che ne dici di servire un po' di sidro?»
«Certamente!» esclamò Merodda, alzandosi dalla sedia e avviandosi verso
il tavolo, poi però si guardò alle spalle e domandò: «Lilli, tu non hai obiezio-
ni, vero?»
«Nessuna, madre. Ho sempre saputo che mi sarei sposata con qualcuno
scelto dal clan.»
«Bene» approvò Tibryn. «Sei una brava ragazza. Comunque Braemys è un
ragazzo avvenente e un abile cavaliere.»
«E cosa mi dici di te?» insistette Merodda, rivolta ora a Burcan. «Questa
scelta ti va bene, fratello?»
«Abbastanza» replicò Burcan con espressione neutra. «Ora sarà meglio
cominciare a discutere della dote e del prezzo nuziale.»
«Suvvia!» esclamò Tibryn. «Le terre che la ragazza porta in dote dovrebbe-
ro essere sufficienti per qualsiasi uomo, Burco!»
«Verissimo» annuì Merodda, poi si girò verso Lilli e ordinò: «Adesso ci
puoi lasciare soli.»
Alzatasi in piedi, Lilli eseguì una riverenza e fuggì con sollievo dalla stan-
za, scendendo a precipizio la scala fino al primo pianerottolo per poi soffer-
marsi a osservare la grande sala, illuminata dalla luce del fuoco e traboccante
di armati. Sapeva che Braemys aveva lasciato Dun Deverry alcuni giorni
prima, diretto alle terre di suo padre per radunare i loro alleati, ma del resto il
compito di informarlo del fidanzamento spettava comunque a Burcan, che
forse gli avrebbe inviato un messaggero o più probabilmente avrebbe aspetta-
to che suo figlio tornasse a corte. Nel pensare a Braemys, Lilli si chiese se lui
sarebbe stato contento o se invece si sarebbe semplicemente sentito sollevato
che la scelta non fosse caduta su un partito peggiore.
Nel far vagare lo sguardo sulla sala Lilli scorse peraltro Lady Bevyan, in
piedi vicino al tavolo reale insieme a due donne del seguito della Regina A-
brwnna.
Sorridendo, scese in fretta gli ultimi gradini e si diresse verso la madre a-
dottiva, che l'accolse protendendo un braccio verso di lei; quando Lilli scivo-
lò in quell'abbraccio familiare con un sospiro di sollievo, le due serve si con-
gedarono da Bevyan con qualche parola di commiato.
«Hai l'aria soddisfatta» osservò allora Bevyan. «Devo dedurre che il collo-
quio con tua madre non è poi stato così sgradevole?»
«Infatti. Hanno deciso del mio fidanzamento, e per fortuna non si tratta di
uno degli orribili vassalli di zio Tibryn.»
«Bene! Temevo che stessero prendendo in considerazione Nantyn.»
«Lo hanno fatto, ma zio Burcan mi ha difesa. È stata una cosa davvero
strana, Bevva! Si è perfino offerto di cedere a Nantyn alcune terre se zio
Tibryn gli avesse trovato una moglie che non fossi io.»
«Possa la Dea benedirlo per questo!» esclamò Bevyan, con un tono di voce
peraltro stranamente guardingo. «Non avrei mai pensato che Burcan potesse
fare una cosa del genere.»
«Però lo ha fatto, e sai una cosa? Adesso mi daranno in moglie a mio cugi-
no Braemys.»
Il braccio di Bevyan si serrò improvvisamente intorno alle sue spalle in
modo brusco e inatteso, poi allentò altrettanto in fretta la sua stretta, e nel ri-
trarsi per guardare la madre adottiva, Lilli si accorse che il suo volto si era
fatto inespressivo quanto lo era stato pochi minuti prima quello di suo zio.
«In lui c'è qualcosa che non va?» chiese.
«Assolutamente no. È un bravo giovane cortese ed educato» replicò Be-
vyan, peraltro con un lieve tremito nella voce. «Scommetto che sei contenta
che la cosa sia finalmente stata sistemata, mia cara.»
«Lo sono davvero, senza contare che in questo modo resterò a corte e di
tanto in tanto potrò ancora vederti.»
«Infatti, e questo sarà bellissimo.»
L'espressione remota dello sguardo di Bevyan... che d'un tratto Lilli com-
prese essere timore... parlava di pensieri tutt'altro che piacevoli e la indusse a
chiedersi cosa ci potesse essere di tanto sgradevole nel suo fidanzamento fino
a quando Bevyan non emerse da quello stato d'animo con una breve risata.
«Qui c'è troppo rumore» disse. «Vogliamo salire nelle mie stanze? Sarra
vorrà essere informata del tuo fidanzamento.»
Da quel momento in poi sia Bevyan sia l'andamento della serata tornarono
alla normalità. Nelle camere di Bevyan numerose dame di corte vennero a
unirsi a loro per scambiare pettegolezzi e Lilli si sentì come un gatto che si
fosse steso accanto al fuoco per fare un sonnellino, finalmente al caldo e al
sicuro: là, in compagnia delle altre donne, poteva dimenticare almeno per un
poco l'inchiostro nero e i suoi segreti.

Il mattino successivo Bevyan sentì riaffiorare i propri sospetti non appena


sveglia, e mentre si vestiva ebbe l'impressione che essi le aleggiassero intor-
no borbottandole all'orecchio, considerato che nessuno poteva mai sapere con
certezza cosa stesse pensando Merodda, che mentiva con la stessa disinvoltu-
ra con cui un bardo cantava una canzone. Alla fine Bevyan non riuscì a resi-
stere oltre e si recò dalla madre di Lilli, per sentire la sua versione e per cer-
care di dimostrare a se stessa che si stava sbagliando. Quando la serva perso-
nale di Merodda la fece entrare, trovò la dama impegnata a lavarsi la faccia,
vestita con una semplice camicia bianca. In piedi davanti a una bacinella di
terracotta posta su un sostegno di legno, Merodda stava immergendo un pez-
zo di tela in un po' d'acqua dall'odore strano.
«Ti raggiungo fra un momento, Bevyan» disse. «Mentre faccio questo la-
voro non posso parlare.»
«Certamente, cara, non ho fretta. È un impacco di erbe?»
La sola risposta di Merodda fu un blando sorriso, poi lei strizzò il panno e
prese a tamponarsi la faccia con esso; di tanto in tanto s'interrompeva per
immergere di nuovo un angolo della pezza nella bacinella, ma Bevyan vide
che non l'inzuppava mai troppo e che teneva le labbra serrate, segno che evi-
dentemente quel liquido aveva un sapore sgradevole quanto il suo odore.
Quando ebbe finito, Merodda depose il panno ad asciugare sul davanzale e si
sciacquò le mani con l'acqua contenuta in una brocca di coccio.
«Allora, di cosa desideri parlarmi?» chiese infine.
«La scorsa notte Lilli mi ha detto del suo fidanzamento.»
«Ah, capisco. Che ne pensi di Braemys?»
«È un bravo ragazzo, anche se la parentela è un po' troppo stretta.»
«Oh. Burcan voleva un matrimonio fra cugini, naturalmente per via delle
terre. Ora che i miei figli sono morti Lilli ha ereditato le terre del mio povero
Garedd. Si tratta di una bella tenuta.»
«Infatti, e per il Cinghiale vale la pena di mantenerne il possesso.»
Mentre lei parlava Merodda cominciò a ravviarsi i capelli con un pettine
d'osso, e nel notare come essi scintillassero dorati sotto il sole Bevyan rifletté
che probabilmente conservavano il loro colore giovanile grazie a qualche al-
tra pozione di erbe.
«Ho allevato la ragazza» disse. «La mia non è semplice curiosità.»
«Certamente! Devo dire che hai svolto un lavoro eccellente: la mia Lilli è
diventata una ragazza adorabile, con modi degni della corte.»
«Ti ringrazio. Sono lieta che tu sia soddisfatta.»
«Lo sono» confermò Merodda, poi esitò e distolse lo sguardo nel prosegui-
re: «Ho fatto quanto di meglio potevo per lei, con questa faccenda del matri-
monio. Spero che tu mi creda al riguardo... il meglio che potevo.»
«Cosa? Certo che ti credo! Senza dubbio sono stati i tuoi fratelli a prendere
la decisione effettiva e sono contenta che Tibryn non l'abbia data in moglie a
Nantyn, che l'avrebbe picchiata fino a ucciderla.»
«Quello era il mio peggior timore» affermò Merodda, tornando a guardarla
con l'espressione più sincera che Bevyan avesse mai visto. «Lo era davvero.»
«In tal caso possiamo ringraziare entrambe la Dea... e Burcan... se esso non
si è concretizzato.»
«Ah. Lilli ti ha raccontato del modo in cui lui è intervenuto.»
«Infatti. È stato un gesto davvero buono da parte sua.»
Per un momento le due donne si fissarono a vicenda, poi Merodda si decise
a infrangere il silenzio.
«Già» annuì. «Comunque Braemys è un bravo ragazzo, con lui a Lilli non
mancherà nulla e io potrò tenerla con me a corte per la maggior Parte del
tempo. Dopo tutto è la sola figlia che queste guerre mi abbiano lasciato... so
che puoi capire quello che provo.»
«Purtroppo sì. Mia cara, sai che non farei mai nulla che potesse danneggia-
re Lilli.»
Merodda annuì, poi esitò ancora, scrutando il volto di Bevyan. Era una sua
abitudine quella di sbirciare qualcuno in modo tanto intenso da dargli l'im-
pressione che stesse leggendo qualche presagio nei suoi occhi; in passato Be-
vyan aveva sempre supposto che Merodda potesse essere semplicemente un
po' miope, ma quella mattina essere sottoposta a un esame del genere la tur-
bò.
«Non vorrei portarti via altro tempo» cominciò, con l'intento di congedarsi.
«Oh, Bevva, non essere sciocca! Mi fa piacere vederti... anzi, ti posso chie-
dere un favore?»
«Naturalmente.»
«Accompagnami a sbrigare una faccenda. Devo consultarmi con gli araldi
in merito a una strana questione, a meno che tu forse non sappia darmi la ri-
sposta che cerco: sai se fra il seguito dell'Usurpatore c'è un clan chiamato il
Grifone Rosso?»
«Non ne ho idea. Mi pare di ricordare vagamente di aver sentito una volta
questo nome, tanti anni fa, ma questo è tutto.»
«Allora dammi il tempo di vestirmi, poi faremo una visita agli araldi» pro-
pose Merodda, con un sorriso.
Nel ricambiare quel sorriso Bevyan sentì i propri sospetti che tornavano ad
affiorare, e tuttavia che poteva fare? Dopo tutto, non poteva certo chiedere
apertamente se Lilli era figlia di Burcan e se Merodda la stava dando in mo-
glie a suo fratello.
Gli araldi vivevano e avevano il loro scriptorium in una delle rocche latera-
li del complesso del palazzo, dove copiavano e preservavano le diverse gene-
alogie dei numerosi clan, le registrazioni dei matrimoni fra clan e anche lo
stemma appartenente a ciascuno. All'arrivo delle due donne un servitore si af-
frettò ad andare a chiamare il capo araldo in persona, lasciandole in attesa in
una stanza soleggiata dove una fila di tavoli dal piano inclinato era disposta
sotto le finestre; alle pareti erano invece appesi piccoli scudi lunghi ciascuno
una trentina di centimetri che costituivano la registrazione ufficiale di ciascu-
no stemma. Subito Merodda cominciò ad aggirarsi per la stanza per studiare i
diversi scudi. Ma ciò che invece attrasse l'attenzione di Bevyan fu una sfera
di vetro piena d'acqua posata sul davanzale della finestra; stava ancora cer-
cando di capire quale fosse la sua funzione quando il capo araldo in persona,
Dennyc, entrò nella stanza, profondendosi in inchini diretti alla sorella del
Reggente e alla sua compagna.
«Ah, eccoti qui, buon araldo» esordì Merodda. «Ti ringrazio per il tempo
che ci stai dedicando.»
«L'onore è mio. Cosa posso fare per Vostra Signoria?»
«Ho una domanda» affermò Merodda, indicando. «A chi appartiene lo
stemma su questo scudo? Mi riferisco al grifone rosso.»
«Purtroppo il clan che portava quello stemma è scomparso da tempo» re-
plicò Dennyc, venendo a raggiungerla. «L'ultimo erede è morto prima che io
nascessi, quindi so soltanto ciò che mi ha riferito il mio predecessore: quel
clan possedeva delle terre nell'occidente ed era imparentato con le famiglie
reali di Deverry e di Pyrdon, non ricordo esattamente come anche se natu-
ralmente posso fare delle ricerche.»
«Oh, risparmiati la fatica, non ha importanza dato che sono estinti da tem-
po» rispose Merodda, con un'improvvisa risata.
Osservando il suo comportamento, Bevyan ebbe l'impressione che lei fosse
profondamente sollevata per qualcosa, anche se non avrebbe saputo dire cosa.
«Anch'io speravo di poter scambiare qualche parola con Vostra Signoria»
affermò intanto Dennyc, con un altro inchino. «A quanto mi è dato di capire,
hai fidanzato tua figlia con Braemys del Cinghiale.»
«Infatti.»
«Ah. ecco, vedi, dal momento che studio queste cose per poter trovare il
modo migliore di servire il mio re e quanti sono al suo servizio, stavo pen-
sando che forse il legame di sangue è troppo stretto.»
Per un fugace momento Merodda s'immobilizzò come un coniglio che a-
vesse sentito arrivare i cani da caccia e parve impallidire leggermente intorno
alla bocca, anche se forse fu soltanto un effetto dei giochi di luce della stanza.
Poi. con quello che dovette essere un notevole sforzo, si costrinse a sorride-
re.
«I matrimoni fra cugini sono comuni in tutti i grandi clan» replicò.
«Proprio così, mia signora» convenne Dennyc, inchinandosi con l'aria di
non sapere che altro fare. «Però all'interno del Cinghiale ci sono già stati
molti matrimoni fra cugini primi, quindi ho ritenuto che fosse mio dovere av-
vertirti, anche se naturalmente la decisione spetterà sempre e soltanto a te e ai
tuoi fratelli. Tuttavia» continuò, facendo una pausa per riprendere fiato, «se
potesse esserci qualche altro candidato che rispondesse altrettanto bene alle
esigenze di Vostra Signoria...»
«Non c'è» tagliò corto Merodda con cortese fermezza. «Ti ringrazio, buon
Dennyc. Lady Bevyan, vogliamo andare?»
«Come desideri, mia signora.»
Bevyan e Merodda si separarono sulla soglia della rocca del re, ma per tut-
ta quella mattina, mentre passeggiava per i giardini insieme al resto del segui-
to della regina, Bevyan si sentì tormentare dalla preoccupazione. Ben presto
constatò che a quanto pareva la notizia dell'imminente matrimonio di Lady
Lillorigga era giunta all'orecchio non solo degli araldi ma anche della nobiltà,
quando Abrwnna la convocò con un cenno perché le camminasse accanto.
«Ho sentito dire che la tua figlia adottiva sposerà Lord Braemys.»
«Infatti, Vostra Altezza.»
«E io che avevo intenzione di accoglierlo nella mia compagnia» commentò
Abrwnna, scrollando la testa ramata con un gesto che strappò riflessi d'oro ai
suoi capelli. «Adesso sono lieta di non averlo fatto.»
«Capisco, Vostra Altezza.»
Il gruppo continuò a passeggiare su un sentiero coperto di ghiaia e fino a
un muro lungo il quale le rose rampicanti stavano appena cominciando a
sbocciare; raccoltane una, la regina ne aprì i minuscoli petali con il pollice.
«Ho fatto sapere a tuo figlio che se avesse voluto unirsi alla mia compagnia
sarebbe stato il benvenuto, ma lui ha rifiutato. Lo sapevi?»
«No, Vostra Altezza. Spero che il suo rifiuto non ti abbia offesa.»
«Naturalmente mi sono offesa, ma non è stata colpa tua» ribatté Abrwnna,
poi la congedò con un cenno prima che lei riuscisse a pensare a una risposta
adeguatamente diplomatica.
Quando stava entrando nella grande sala per la cena insieme alle sue don-
ne, Bevyan si venne a trovare per caso faccia a faccia con il Reggente, che
sopraggiungeva proprio allora con il suo seguito. Mentre si salutavano con un
sorriso e scambiavano qualche parola di circostanza, Bevyan si sorprese a os-
servare l'ampio volto di Burcan, i caratteristici occhi azzurri e la bocca sotti-
le, così simili a quelli di Lilli... ma anche agli occhi e alla bocca di sua madre,
come lei ricordò a se stessa.
«Mi devo congratulare con te, Reggente» disse infine. «Ho sentito che hai
scelto un buon partito per il giovane Braemys.»
L'espressione di Burcan cambiò e anche se lui continuò a sorridere, il suo
volto si tese per lo sforzo di mantenere un'aria serena.
«Lilli sarà una buona moglie per lui» affermò, con voce pervasa a sua volta
di una strana tensione, «senza contare che gli porterà in eredità non poca ter-
ra.»
«Infatti. Porgi le mie congratulazioni al ragazzo.»
Mentre si avviava fra i tavoli per raggiungere il proprio posto, Bevyan si
lanciò un'occhiata alle spalle e nell'accorgersi che Burcan la stava fissando
con un'espressione indecifrabile sul volto si rese conto d'un tratto che permet-
tergli di accorgersi dei suoi sospetti poteva essere pericoloso.
Dopo il pasto, nella grande sala alla presenza dei nobili e dello stesso re.
Tibryn annunciò il fidanzamento fra i suoi nipoti e tutti applaudirono e si
congratularono mentre Lilli sorrideva e arrossiva... tutti tranne la regina, che
assunse un'espressione imbronciata. Dal canto suo, Bevyan si augurò che Lil-
li riuscisse a difendere la propria felicità dalla gelosia e dalla morte, quella
poca felicità che era concessa a una donna in mezzo a quelle guerre intermi-
nabili.

Come sempre l'inchiostro nero parve levarsi dalla bacinella simile a una
vasta onda che l'afferrò e la sommerse, ma questa volta l'effetto le parve così
reale che Lilli si sentì soffocare ed ebbe la certezza che sarebbe annegata; la
pressione della mano di sua madre sul collo si fece però sempre più intensa,
spingendola verso lo stato di trance, e all'improvviso lei si trovò a fluttuare
nell'oscurità, libera dal senso di soffocamento.
«Dicci che cosa vedi» le disse una voce, in tono implorante. «Che cosa ve-
di, Lilli?»
In un primo tempo non ci fu nulla, poi nell'oscurità apparve il familiare
cerchio di luce e nel fluttuare al di là di esso Lilli si venne a trovare nella for-
tezza, nelle camere di sua madre, solo che adesso la luce del sole filtrava pal-
lida dalle finestre aperte.
«Chi c'è, Lilli?» insistette la voce, così strana e densa che lei non riuscì a
capire se a parlare fosse stato Brour o sua madre. «Chi vedi?»
«Nessuno, però ci sono delle cose.»
In un angolo c'era una cassapanca di legno aperta, alcuni vestiti erano spar-
si sul pavimento, una caraffa d'argento vuota giaceva fra le ceneri del focola-
re e in un altro angolo c'era una piccola bambola fatta di pezze di stoffa im-
bottite di paglia che Lilli riconobbe come un giocattolo che le era appartenuto
alcuni anni prima: Sarra aveva creato per lei quella bambola e Bevyan ne a-
veva ricamato il piccolo volto. Ridendo, lei corse a raccoglierla e se la strinse
al petto come era solita fare quando viveva a Hendyr.
«Puoi lasciare la stanza?» insistette la voce, echeggiandole negli orecchi.
«Non si vedono porte.»
«Guarda nella cassapanca.»
Continuando a tenere stretta la bambola Lilli attraversò di corsa la stanza,
si chinò sulla cassapanca e per poco non si lasciò sfuggire un urlo, che riuscì
a trattenere soltanto per timore che sua madre la schiaffeggiasse. Un suono di
qualche tipo dovette però sfuggirle dalle labbra perché la voce si fece sentire
ancora, in tono più urgente.
«Cosa c'è?» chiese.
«La testa di Brour, soltanto la testa, con il collo coperto di sangue nero e
secco.»
«Torna indietro» ingiunse la voce di sua madre, questa volta chiaramente
riconoscibile. «Torna indietro subito. Esci dalla finestra.»
Lilli si trovò a fluttuare verso l'alto e verso l'esterno, leggera come un seme
di soffione, sempre più su nel cielo azzurro e verso la fiamma della candela...
poi si ritrovò in ginocchio vicino al tavolo nella camera di sua madre con Me-
rodda inginocchiata davanti a lei, il volto che appariva pallido e sudato alla
luce incerta delle candele.
«Per questa notte è abbastanza» disse Merodda. «Hai bisogno di riposare.»
«Proprio così» convenne Brour. «Proprio così.»
Lilli si alzò in piedi con l'aiuto di Merodda ed entro qualche momento la
mente le si schiarì abbastanza da permetterle di rimanere in piedi senza biso-
gno di aiuto.
«Vuoi che ti accompagni fino alla tua camera?» domandò Brour. «Pensi di
arrivarci senza problemi?»
«Ce la farò» garantì Lilli, incapace di guardarlo perché l'immagine della
sua testa recisa le aleggiava ancora davanti agli occhi. «Sto bene.»
Poi si affrettò a uscire dalla stanza, ma nell'oltrepassare la soglia indugiò a
guardarsi alle spalle e vide Brour e Merodda fermi uno di fronte all'altra co-
me un paio di duellanti. Senza far rumore chiuse la porta e nell'appoggiarsi
contro di essa per recuperare le forze si rese conto all'improvviso di non ave-
re più fra le braccia la bambola, cosa peraltro ovvia. Quella scoperta le fece
salire il pianto in gola ma lei ricacciò indietro le lacrime, perché stava comin-
ciando a capire che esse erano soltanto la conseguenza di quelle sedute magi-
che.
Per tutta la sera e il resto della notte continuò però a sentire la mancanza
della bambola e nei suoi sogni andò a cercarla in strane stanze piene di uomi-
ni armati che non si accorgevano neppure della sua presenza mentre lei stri-
sciava lungo le pareti e sgusciava oltre porte socchiuse; quando si svegliò, il
mattino successivo, d'istinto protese la mano per prendere la bambola, che
quando era bambina aveva sempre dormito con lei.
«È ovvio che non c'è, razza di stupida» si disse. «L'hai persa quando ti
hanno riportata qui.»
Poi però si chiese se non fosse possibile che sua madre l'avesse trovata e
conservata, e che la bambola fosse davvero nelle sue camere, dove lei l'aveva
vista durante la visione. Verso metà mattina, mentre se ne stava seduta nella
grande sala, vide che sua madre e Bevyan erano entrambe al seguito della re-
gina: senza dubbio tutte e tre sarebbero salite nella sala delle donne riservata
alla sovrana e vi sarebbero rimaste a lungo. Pur sentendosi una stupida per
quello che stava facendo, d'impulso si avviò a passo rapido su per le scale.
Nelle camere di sua madre non trovò però la bambola ma Brour, seduto di
traverso vicino alla finestra in modo che la luce del sole potesse battere sulle
pagine di un enorme libro, alto quanto l'avambraccio di un uomo e largo il
doppio, che aveva appoggiato sul tavolo; con il labbro inferiore proteso in
fuori e la grossa testa china sul volume, lui appariva più che mai simile a un
bambino. Quando la vide entrare, lo scriba si affrettò a chiudere il pesante
volume dalle pagine che odoravano di muffa e dalla rilegatura di cuoio scuro
chiazzata qua e là di grigio.
«Non sono capace di leggere, come tu ben sai» commentò Lilli, «quindi
non hai da temere che possa vedere i tuoi segreti.»
«Questo è vero» ammise Brour, con un accenno di sorriso. «Stai cercando
tua madre, ragazza? Mi ha detto che la regina ha richiesto la sua presenza per
tutto il giorno.»
«Ah, era quello che pensavo. No, volevo soltanto vedere se ho lasciato qui
una cosa.»
«Cerca quanto ti pare» ribatté Brour, abbozzando un vago gesto della ma-
no.
Sentendosi più stupida che mai, Lilli prese ad aggirarsi per la camera,
scoccando occhiate dietro i mobili e aprendo le cassapanche intagliate che
però contenevano soltanto gli abiti di sua madre; nel frattempo Brour conti-
nuò a osservarla con il suo prezioso libro stretto fra le braccia.
«Non è che stai vedendo di nuovo la mia testa là dentro, vero?»
«No, e ne sono grata alla Dea. È stata una cosa veramente orribile.»
«Neppure io ho trovato divertente quel presagio» replicò lui, in tono d'un
tratto piatto.
Richiusa l'ultima cassapanca, Lilli si appoggiò contro la parete ricurva per
osservarlo, consapevole che lui la stava scrutando attentamente con le dita
tozze che serravano la copertina di cuoio del libro.
«Quello che ho visto deve averti spaventato» affermò infine Lilli.
«Parecchio. Cosa credi che significasse?»
«Non ne ho idea. Mia madre non mi spiega mai come interpretare le cose
che vedo.»
«Non ne dubito» ribatté Brour, con un grugnito di disgusto. «Ti tratta come
una bambina, vero? Invece dovresti imparare a utilizzare i tuoi talenti.»
Rabbrividendo, Lilli si portò una mano alla gola.
«L'idea ti spaventa?» domandò Brour. «Se è così, è un vero peccato.»
«Non ho mai chiesto tutto questo. Detesto farlo, lo detesto davvero.»
Brour rifletté per un momento, poi posò il libro sul tavolo.
«Lo detesti perché non lo capisci, ma se lo capissi non ti turberebbe più. Ti
garantisco che è così» aggiunse, con un sorriso.
Lilli esitò e lanciò un'occhiata in direzione della porta, pensando che a-
vrebbe dovuto andarsene e trovare altre donne della corte che le tenessero
compagnia.
«Se vuoi andartene sentiti libera di farlo» la invitò Brour. «Non vuoi dav-
vero sapere almeno cos'è che fai quando evochi visioni per volere di tua ma-
dre?»
«Vedo presagi, questo lo so» scattò Lilli in tono secco.
«Ah, ma dove li vedi?»
Quella domanda colse Lilli alla sprovvista perché si trattava di una cosa
che lei stessa si era chiesta spesso.
«Non lo so» ammise. «Tu lo sai?»
«Certamente» dichiarò Brour, con un altro sorriso, mostrandosi molto più
gentile di quanto lei avesse mai supposto. «Avanti, non ti vuoi sedere? Spie-
gare da dove vengono i portenti è una cosa che richiede parecchio tempo.»
Lilli mosse un passo verso il tavolo ma poi si fermò, titubante.
«Se dovesse venirlo a sapere mia madre mi picchierebbe» obiettò.
«Quindi faremo meglio ad accertarci che lei non ne sappia nulla» replicò
Brour, indicando la sedia di fronte alla sua. «Ti sei mai chiesta perché Me-
rodda non vuole che tu impari a usare il dweomer?»
«A dire il vero sì.»
«Lo fa perché vuole utilizzare i tuoi poteri per se stessa. Quando imparerai
come funzionano i tuoi talenti, li potrai usare tu stessa e lei non ti potrà più
costringere a fare quello che vuole.»
Persa ogni esitazione, Lilli si avvicinò e si sedette.
«C"è qui un'illustrazione che ti voglio mostrare» sorrise Brour, aprendo il
libro. «Raffigura l'aspetto dell'universo.»
L'immagine era fatta di cerchi dentro altri cerchi, disegnati in inchiostro
nero; al centro di tutto c'era quella che Brour definiva la Terra e ogni cerchio
intorno a essa era contrassegnato da un nome.
«Questo è sapere dei Greggyn» spiegò, «che è giunto qui insieme a Re
Bran nel corso della Grande Migrazione. Questi cerchi rappresentano delle
sfere, e la sfera che sovrasta e circonda la Terra appartiene alla Luna. Quella
successiva appartiene al Sole; quanto alle altre sfere, ne parleremo in un se-
condo momento perché sono troppi concetti perché tu li possa assimilare tutti
in una volta.»
«Questo è vero» ammise Lilli, appoggiando i gomiti sul tavolo e proten-
dendosi in avanti per esaminare il disegno. «Vedere queste cose mi dà una
strana sensazione.»
«Senza dubbio è il sapere che ti chiama.»
In realtà la sensazione che lei stava provando era più simile al terrore, ma
preferì evitare di precisarlo e ascoltò invece con attenzione mentre Brour le
spiegava come la materia di ciascuna sfera interpenetrasse quella della sfera
sottostante.
«Tutti gli altri mondi esistono soltanto su quello terreno» concluse. «Qui
essi ottengono la completezza e questo significa che da qui tu puoi raggiun-
gere tutti gli altri. Questo è ciò che fai quanto entri in trance, lasci il tuo corpo
per passare in uno di questi altri mondi.»
Lilli sentì il proprio terrore intensificarsi all'idea che questo era ciò che la
gente faceva quando moriva: lasciava il proprio corpo per andare nell'Aldilà.
«I presagi relativi al futuro esistono sul piano astrale superiore» proseguì
Brour, indicando uno dei cerchi. «È lì che tua madre ti manda.»
«È mia madre che mi manda là? Credevo che fossi tu a farlo.»
«Non sono io, bambina. Tua madre ne sa quanto me in merito a queste co-
se» affermò Brour, poi distolse di colpo lo sguardo quando nel corridoio e-
cheggiò il rumore prodotto da parecchie persone che camminavano e parla-
vano tutte contemporaneamente.
Spaventata, Lilli balzò in piedi e Brour chiuse di scatto il libro mentre il
suono delle voci saliva di volume per poi allontanarsi. Quando infine tornò il
silenzio, Lilli esalò un lungo respiro di sollievo e nel guardare verso Brour si
rese conto che questi era impallidito.
«Non avrai paura di lei, vero?» domandò.
«Non posso negare di averne» ammise lo scriba.
Lilli lo fissò con aria interdetta, perché nel mondo in cui viveva non avreb-
be mai pensato di vedere un uomo che aveva paura di una donna.
«È meglio che vada» disse quindi. «Non oso rischiare che lei mi trovi qui»
«Infatti. Torna quando ti sarà possibile e ti spiegherò altre cose.»
Lilli uscì di corsa dalla stanza, si sbatté la porta alle spalle e si precipitò
lungo il corridoio. Arrivata alle scale si arrestò però per assestarsi i capelli e
aspettare che il respiro le si calmasse, poi scese nella grande sala con fare
controllato e decoroso, ripromettendo a se stessa che non sarebbe più tornata
da Brour e non avrebbe più guardato quel libro.
Quella sera cenò accanto a Bevyan, il cui calore servì ad allontanarle dalla
mente ogni pensiero inerente alla magia mentre discutevano del suo corredo,
che lei aveva cominciato a preparare quando ancora si trovava a Hendyr, an-
che se doveva ammettere che ultimamente era stata piuttosto pigra al riguar-
do.
«Ebbene, Sarra e io siamo qui per aiutarti» dichiarò Bevyan. «La prima co-
sa che dovremo preparare sarà la camicia nuziale per Braemys e poi la coper-
ta per il tuo nuovo letto.»
«Dovremmo avere a disposizione tutta l'estate perché di certo il matrimo-
nio non avrà luogo finché la campagna non si sarà conclusa» interloquì Sarra.
«È vero» annuì Lilli, poi si sentì raggelare al punto che sfregò fra loro le
mani per scaldarle mentre aggiungeva: «Spero che non succeda nulla a Bra-
emys.»
«Ah, adesso sei davvero una donna, mia cara» commentò Bevyan. «Come
tutte noi anche tu ti preoccupi per il tuo uomo.»
Quella notte, mentre giaceva nel suo letto e cercava di dormire, Lilli si tro-
vò a pensare a suo cugino Braemys, che era stato allevato anche lui da
Peddyc e Bevyan. Indipendentemente dal fatto che dovessero o meno sposar-
si non voleva che lui morisse nei combattimenti di quell'estate perché le era
sempre stato simpatico... e poi non voleva neppure pensare a chi le avrebbero
imposto di sposare quell'autunno se Braemys fosse caduto in battaglia.
Di certo si sarebbe trattato di Nantyn o di qualche altro nobile settentriona-
le violento e propenso al bere, perché zio Tibryn non si sarebbe lasciato con-
vincere una seconda volta... era anzi già un miracolo che avesse acconsentito
a farle sposare Braemys.
D'un tratto la sua mente traditrice evocò l'immagine di Brour che le diceva
che avrebbe potuto utilizzare i suoi talenti a proprio vantaggio. Come sarebbe
stato se lei avesse potuto leggere i presagi in merito al Wyrd di Braemys?
Se avesse potuto sapere quello che le sarebbe successo invece di sentirsi
come una foglia trascinata dalla piena di un fiume che la spingeva di qua e di
là senza che avesse il potere di liberarsi? Sollevatasi a sedere sul letto si cinse
le ginocchia con le braccia e continuò a riflettere, osservando attraverso la fi-
nestra una sottile falce di luna levarsi fra due torri e godendo del senso di li-
bertà che le derivava dal contemplare il cielo.
Il mattino successivo, quando Lady Merodda annunciò che erano invitate a
una caccia con il falcone, Lilli finse di avere l'emicrania e rimase alla fortez-
za, gemente fra i cuscini come un'invalida; non appena fu certa che gli altri se
ne fossero andati, si alzò, si vestì e si diresse in tutta fretta verso l'apparta-
mento di Lady Bevyan, perché sentiva di aver bisogno dei suoi consigli e an-
che se sapeva di non poter parlare con lei del dweomer, riteneva d'altro canto
che la semplice vicinanza della madre adottiva sarebbe stata sufficiente per
aiutarla a riflettere e le avrebbe permesso di valutare nel modo più giusto
quelle strane cose. Quando bussò fu però Sarra a venirle ad aprire.
«Oh, Bevva non è qui» le disse, sfoggiando un sorriso pieno di trionfo. «È
stata invitata ad andare a caccia con la regina.»
«Davvero?»
«Sì, e ne sono davvero lieta, perché è un grande onore!»
Su questo non c'erano dubbi, però Lilli si sorprese a desiderare che la regi-
na avesse scelto un altro giorno per elargire a Bevyan quell'onore. Scesa dab-
basso indugiò per qualche tempo nella grande sala, sentendosi sola e infelice,
poi si sorprese a pensare sempre più spesso al libro di Brour e ai segreti che
esso racchiudeva e alla fine cedette alla tentazione, facendo ritorno nelle ca-
mere di sua madre dove trovò Brour seduto vicino alla finestra; invece del li-
bro, però, questa volta lo scriba aveva davanti a sé un vasetto d'inchiostro e
un pezzo di pergamena.
«Ah, sei tornata» commentò con un sorriso.
«Infatti. Parlavi sul serio quando hai detto che potrei utilizzare i miei talen-
ti per me stessa?»
«Sì, sono pronto a giurarlo su qualsiasi divinità tu voglia. Adesso devo
scrivere per conto di tuo zio un messaggio per informare suo figlio del fatto
che tu e lui vi sposerete. Quando avrò finito, lo porterò a Lord Burcan e poi
potremo guardare di nuovo il mio libro.»
Sedutasi con i gomiti sul tavolo, Lilli lo osservò scrivere, tracciando con
cura ogni lettera su una pergamena che era stata già utilizzata tante volte da
essersi fatta sottile e morbida come stoffa per l'usura. Lo scriba che viveva
nella fortezza di Burcan sarebbe stato in grado di guardare quei segni e tra-
sformarli di nuovo in parole... nel formulare quel pensiero Lilli si sentì assali-
re da un brivido, peraltro piacevole, perché quella sembrava già di per sé una
forma di dweomer.
«A proposito, ti faccio le mie congratulazioni» commentò Brour, interrom-
pendosi per prendere un piccolo coltello per appuntire la penna. «Oppure non
sei contenta di questo fidanzamento?»
«Al contrario, ne sono molto soddisfatta.»
«Bene» sorrise lo scriba, dandole l'impressione di essere sincero. «Me ne
rallegro. Un giorno sarai in grado di usare i tuoi talenti per aiutare anche tuo
marito.»
«Mi piacerebbe. Spero solo che mia madre non scopra nulla. Lei sembra
essere sempre capace di capire se sto mentendo... si tratta di dweomer?»
«Senza dubbio» confermò Brour, e quando lei sussultò aggiunse: «Quello
che non capisci è che il dweomer può essere contrastato con il dweomer. Io ti
insegnerò come difenderti dai sondaggi di tua madre.»
«Davvero?»
«Davvero. È una specie di trucco per principianti ma torna sempre utile
conoscerlo.»
«Comincio a pensare che questi studi mi piaceranno» confessò Lilli, con un
sorriso.
«Ne sono certo» replicò Brour, con espressione solenne.

Dopo aver trascorso la mattina a cacciare senza troppo successo, il gruppo


che accompagnava la regina si fermò per pranzare sulla riva erbosa del Lago
Gwerconydd; mentre i paggi si davano da fare per preparare il pasto, sten-
dendo una tovaglia e aprendo i cesti pieni di cibo, le donne consegnarono i
cavalli agli uomini della guardia della regina e i falchi ai falconieri.
Accompagnata da Bevyan e da Merodda, la regina si andò poi a sedere vi-
cino all'acqua, dove piccole onde si protendevano a lambire la sabbia e con
una risata si distese supina a fissare il cielo azzurro mentre le altre due dame
prendevano posto vicino a lei con maggior decoro.
«È bello essere fuori della fortezza» commentò poi Abrwnna. «Non lo pen-
si anche tu, Lady Bevyan?»
«Certamente, Altezza» convenne Bevyan, scoccando un'occhiata preoccu-
pata in direzione degli uomini di scorta, che stavano fissando tutti la regina.
«È una splendida giornata di sole.»
«Forse sarebbe meglio se Vostra Altezza si mettesse a sedere» aggiunse
Merodda, con un sorriso. «Nel tuo seguito ci sono molti uomini e devi badare
a essere sempre dignitosa.»
Abrwnna le fece una boccaccia ma si sollevò comunque a sedere, siste-
mandosi sulle ginocchia l'abito bianco da equitazione.
«Non dubito che le mie guardie sappiano qual è il loro dovere, senza conta-
re che sono molto fedeli al re» affermò. «O per meglio dire sono fedeli a tuo
fratello, Lady Merodda, che le ha scelte tutte personalmente.»
«Mio fratello agisce solo nell'interesse del re» replicò Merodda. «La fedel-
tà nei suoi confronti è fedeltà rivolta al nostro sovrano.»
«Oh, per favore!» esclamò Abrwnna, arricciando il naso. «Non c'è bisogno
che fingi anche con me. Sappiamo tutti chi governa effettivamente il regno.»
Notando che un paggio si stava avvicinando, Bevyan si portò un dito alle
labbra con fare ammonitore.
«Il pranzo è pronto, Vostra Altezza» annunciò il paggio.
«Benissimo» rispose Abrwnna. «Signore, vogliamo andare?»
Durante il pasto, in presenza dei paggi che si tenevano loro intorno pronti a
servirle, la regina mantenne la conversazione sui pettegolezzi di corte, inco-
raggiando le sue dame di compagnia a riferirle ogni minimo scandalo in mo-
do da completare le informazioni di cui già era in possesso, ed esaminò tutte
le diverse storie sentimentali in corso in quel periodo, vagliandone la serietà,
come se stesse recitando un elenco di partecipanti a un torneo.
«Come puoi vedere, Bevva» concluse poi, «quest'inverno in tua assenza
sono successe ogni genere di cose.»
«Infatti» annuì Bevyan, prendendo nota mentalmente del fatto di ricordare
a Peddyc dove e quando fosse opportuno usare il suo soprannome. «I lunghi
inverni hanno questo effetto sulle persone, e considerato quante sono le ve-
dove che hanno cercato rifugio qui sotto la tua protezione, suppongo che la
situazione si sia fatta a tratti piuttosto complicata.»
«Molto, e non ti ho ancora raccontato le storie più interessanti. Il fratello di
Merodda è stato la preda più ambita: sembrava quasi che fosse diventato una
grassa pernice e che tutti i falchi in caccia stessero calando in picchiata su di
lui.»
Merodda accolse quelle parole con un sorriso indulgente, senza smettere di
spalmare di burro un pezzo di pane.
«Dopo tutto, Vostra Altezza, lui ha accesso al re, e questo lo rende ancor
più attraente» osservò Bevyan.
«Proprio così. Poco prima del disgelo è successa però una cosa davvero or-
ribile. Due dame di corte, Varra e Caetha, si stavano contendendo Burcan
come due cani che lottassero per un pezzo di carne.»
«Caetha? Ho sentito dire che è passata nelle Terre dell'Aldilà.»
«Infatti, ed è questo a essere sospetto. Sembrava che stesse cominciando a
conquistarsi il favore del Reggente, tanto che tutti parlavano di quanto lui le
mostrasse interesse, quando improvvisamente è morta. È stata una cosa tanto
inaspettata da indurre tutti a pensare che Varra l'avesse avvelenata, e il fatto
che lei abbia lasciato la corte per andare a casa di suo fratello mi induce a so-
spettare che lo abbia fatto davvero.»
«Oh, mia signora!» esclamò Merodda, scuotendo il capo. «Io ne dubito.
L'inverno è stato molto duro e tutti noi sappiamo cosa succede al cibo, anche
nella fortezza di un re. Quella povera donna è morta dopo aver mangiato car-
ne andata a male» aggiunse, guardando verso Bevyan. «È stato orribile.»
«Ma non è stata l'unica a mangiarne» insistette Abrwnna, protendendosi in
avanti. «Ne hai preso anche tu, Merodda.»
«E sono stata molto male, Vostra Altezza» replicò Merodda, rabbrividendo
al ricordo. «Temo che Caetha non abbia avuto la forza di riprendersi. Sono
cose che succedono.»
«È vero, e sono cose molto tristi» confermò Bevyan. «Non per questo bi-
sogna parlare di avvelenamenti.»
Nonostante quelle sue parole ragionevoli, lei si trovò però a pensare a
quanto Merodda s'intendesse di erbe e del loro utilizzo. Se le bastava lavarsi
il volto con quell'acqua maleodorante per mantenere la pelle liscia come
quella di una ragazza, quali altre cose poteva sapere? Senza dubbio la regina
non aveva idea che la vera rivale della povera Caetha fosse stata la sorella di
Lord Burcan.
Dal momento che Abrwnna aveva voglia di cavalcare, le donne fecero ri-
torno alla fortezza nel tardo pomeriggio. Fianco a fianco, Merodda e Bevyan
entrarono nella grande sala, dove già gli uomini si stavano radunando per il
pranzo serale; molti sguardi si appuntarono sulla regina e sulle sue dame
mentre esse salivano la scala di pietra rincorrendosi e ridendo fra loro come
uccelli canori, e da dove si trovava Bevyan notò che sul pianerottolo era fer-
mo un gruppo di giovani nobili, ciascuno contrassegnato come membro della
Compagnia della Regina da un pezzo di seta verde legato sopra la manica de-
stra. Accolte le dame con un inchino, quei giovani le accompagnarono su per
la scala.
«Bevva?» mormorò d'un tratto Merodda. «Pensi che Abrwnna possa avere
un amante?»
«A dire il vero è uno dei miei timori. Non parla d'altro.»
«Proprio così. Essere sposata con un bambino è una cosa difficile per una
ragazza come lei.»
Le due donne si scambiarono una cupa occhiata, alleate almeno per il mo-
mento.
Più tardi, quella stessa sera, nell'intimità delle sue camere, Bevyan si ricor-
dò di chiedere a Lilli cosa fosse successo a Lady Caetha; Lilli le ripeté la sto-
ria della carne contaminata e aggiunse che Caetha era morta serrandosi lo
stomaco in preda all'agonia.
«Davvero terribile» commentò Bevyan. «Mi hanno detto che anche tua
madre è stata male.»
«Sì, perché aveva mangiato la stessa carne» rispose Lilli, poi però fece una
pausa di riflessione e accigliandosi in volto aggiunse: «Comunque non è stata
male quanto la povera Caetha, anche se ha continuato a vomitare e a ripeterci
di sentirsi malissimo.»
«Ti stai esprimendo in modo strano, mia cara. Pensi che non stesse sof-
frendo davvero?»
«Oh, chiedo scusa, non intendevo dare questa impressione» si schermi Lil-
li, impallidendo e portandosi una mano alla gola. «È ovvio che stava male:
era terribile sentirla gemere e non poter fare nulla per aiutarla.»
«Non ne dubito, povera bambina! Mi dispiace davvero per la sfortunata
Caetha.»
«Oh, è dispiaciuto a tutti.»
Di nuovo Bevyan si chiese se questo fosse vero.

Nei giorni che seguirono Lilli si sorprese a tornare spesso nelle camere di
sua madre e da Brour, tanto da finire per avere l'impressione di condurre la
vita di due ragazze differenti: nel pomeriggio sedeva a cucire in compagnia di
Bevyan e delle altre donne, parlando delle notizie che circolavano per la for-
tezza e portando avanti il ricamo sui pezzi della camicia nuziale di Braemys,
ma di mattina teneva d'occhio sua madre per farsi un'idea dei suoi piani e non
appena essi erano stabiliti... magari una cavalcata nelle campagne o una mez-
za giornata in compagnia della regina nelle sue camere, sgusciava di sopra
per una lezione. Stranamente, Brour sembrava sapere sempre quando lei sta-
va per arrivare e si faceva trovare ad attenderla.
«È dweomer?» gli chiese un giorno Lilli. «È grazie al dweomer che sai
sempre quando sto per arrivare?»
«No. Sono lo scriba di tua madre e quando lei mi avverte di essere impe-
gnata mi aspetto di vederti venire quassù... anche se a essere sincero a volte
mi preoccupo che lei ci possa tendere una trappola.»
«Anch'io. Oggi però è andata con la regina al tempio, giù in città, quindi
dovrebbe rimanere occupata a lungo.»
«Bene» annuì Brour, tamburellando con le dita sul libro chiuso. «Ho una
cosa molto importante da dirti. Prima però ripetimi quello che ti ho insegnato
sul Popolo Fatato.»
«Si tratta di creature che appartengono alla Sfera della Luna come noi ap-
parteniamo a quella della Terra. I maestri del dweomer le possono comandare
ma non se ne devono mai fidare.»
«Eccellente! E cosa mi dici dei Signori degli Elementi?»
«Anch'essi sono spiriti, ma delle Sfere dei Pianeti. Sono astuti e difficili da
comandare.»
«Ottimo. Hai una mente notevole, ragazza.»
Lilli arrossì.
«Quello che sto pensando di fare è l'evocazione di uno dei Signori della
Terra» continuò Brour. «Sepolta nel terreno in questa fortezza c'è una cosa
che devo trovare: ho fatto qualche domanda a servi e cortigiani, ma nessuno
sa dove sia situata.»
«Di cosa si tratta?»
«Non ti pare strano che questa fortezza non abbia una via di fuga, un modo
per uscirne in caso di assedio?»
«Vuoi dire che non ce l'ha?»
«No, almeno per quanto chiunque riesce a ricordare, anche se ho consultato
le cronache dei re che sono state conservate da bardi e preti. Questa guerra
infuria ormai da molto tempo, più di cento anni, e come accade in una guerra
le sorti delle due parti hanno avuto fortune alterne. All'inizio ci sono stati
momenti in cui la situazione è parsa disperata per il vero re asserragliato qui a
Dun Deverry, tempi in cui l'usurpatore di turno ha posto l'assedio alla città, e
tutte le volte il re è scomparso per ricomparire poi come per opera del dweo-
mer nella città del clan del Cinghiale, Cantrae, dove ha potuto raccogliere in-
torno a sé gli uomini che gli erano fedeli e tornare qui con un esercito per
spezzare l'assedio.»
«Allora si è trattato di dweomer?»
«Io ne dubito moltissimo» dichiarò Brour, con un fugace sorriso. «Credo
che ci sia un passaggio segreto nel sottosuolo di questa città, un passaggio
che sbuca in superficie a una notevole distanza dalle mura. Di certo si è trat-
tato di un segreto molto ben custodito ed è possibile che sia stato custodito
anche troppo bene, considerato che pare sia morto con l'ultimo re che se ne è
servito, oltre cinquant'anni fa.»
«Se potessimo ritrovare quel passaggio ti guadagneresti senza dubbio il fa-
vore del re. Scommetto che zio Burcan ne sarebbe davvero contento.»
«Infatti, ed è per questo che intendo chiederti di mantenere il segreto al ri-
guardo. Tuo zio mi odia e io intendo conquistarmi la sua simpatia, per cui
voglio essere il primo a parlargli di questo passaggio.»
«Prometto che manterrò il segreto.»
«Ti ringrazio, ragazza. Adesso lascia che ti spieghi quello che faremo. Il
momento migliore per questo rituale è il cuore della notte, ma prima ci dob-
biamo esercitare.»
«Posso aiutarti?»
«Certamente. Una volta che avrò trovato un posto dove possiamo studiare
senza correre rischi dovrai venire a raggiungermi là. Ora presta attenzione
perché ci sono molte cose strane che devi imparare.»

«Sono lieto che abbiamo finalmente qualche momento da passare insieme


quando siamo entrambi svegli» osservò Peddyc.
«Lo sono anch'io» replicò Bevyan. «Ho piazzato Sarra in anticamera per-
ché faccia da sentinella.»
Ridendo, Peddyc si sedette sulla sedia di fronte alla sua, poi sbadigliò e
protese le gambe davanti a sé.
«Hai l'aria stanca» commentò Bevyan.
«Infatti, ho passato il pomeriggio con Burcan e questo è di per sé sufficien-
te a stancare chiunque. Se non altro, però, ci sono buone notizie: nessuno dei
nobili del settentrione è passato dalla parte dell'Usurpatore. Terranno duro
tutti quanti finché avremo il controllo della frontiera.»
«E per quanto ancora riusciremo ad averlo?»
Peddyc si limitò a scrollare le spalle.
«Per quest'estate, se non altro» rispose infine. «Hendyr è diventato impor-
tante e mi sto trovando a essere corteggiato dai potenti.»
«Ah. Questo è interessante» commentò Bevyan.
«Ecco, la nostra è l'ultima fortezza di grandi dimensioni che si trovi sulla
frontiera a ovest di qui e deve rimanere in possesso delle forze del re perché
se dovesse cadere in mani nemiche il Principe Maryn potrebbe prenderci sul
fianco e avanzare nelle terre del settentrione.»
«Il Principe Maryn? Non ti ho mai sentito chiamarlo così.»
«Uno stupido lapsus, amore mio» replicò Peddyc, sussultando. «Che gli dèi
mi evitino di ripeterlo davanti a Burcan. Del resto» aggiunse poi, dopo un
lungo momento di esitazione, «Maryn è di diritto principe delle sue terre, in-
dipendentemente da quello che chiunque fra noi può pensare della rivendica-
zione che avanza sul trono di Deverry.»
«Già, è il principe di Pyrdon.»
Fra i due scese quindi il silenzio mentre entrambi riflettevano su quanto si
potesse dire ad alta voce senza correre rischi, anche nell'intimità delle proprie
camere.
«Ora è meglio che vada» disse infine Peddyc, alzandosi in piedi e guardan-
do verso la finestra. «Il sole sta tramontando e presto ci sarà un ennesimo
consiglio di guerra.»
«Quando marcerà l'esercito?» domandò Bevyan.
«Non ne ho idea, ma so che dovrà muoversi presto perché altrimenti ci tro-
veremo l'Usurpatore davanti alle porte» rispose Peddyc, massaggiandosi il
volto con entrambe le mani. «Il Gwerbret Daeryc ha sollevato l'argomento
questo pomeriggio e quando Burcan ha risposto di essere in attesa di altri
messaggi dalle Terre del Settentrione uno dei nobili più giovani si è offeso
per qualche motivo e la discussione è degenerata in una lite, con un sacco di
pugni battuti sul tavolo e ciascuno che rammentava agli altri il proprio ran-
go.»
«Sembra una situazione sgradevole.»
«Oh, lo è stata. Io sono combattuto interiormente, amore mio: sai come la
penso riguardo al Reggente come uomo, ma lui è il solo capo che abbiamo e
che possiamo mai sperare di avere, e senza un capo siamo tutti...» Peddyc la-
sciò a mezzo la frase e dopo un momento concluse: «Ora è meglio che vada.
Senza dubbio tornerò tardi, stanotte, ma se sarai sveglia ti dirò cosa abbiamo
deciso.»
«Ti ringrazio. La Regina Abrwnna mi ha chiesto di unirmi questa sera alle
sue donne, dopo cena, quindi può darsi che abbia dei pettegolezzi da riferir-
ti.»
«Bene. Mi rallegra vedere che godi del suo favore.»
«Si tratta davvero di favore oppure ci stanno tenendo d'occhio?» obiettò
Bevyan e quando Peddyc non rispose, assumendo un atteggiamento riflessi-
vo, continuò: «Mi hai appena detto quanto sia diventato importante Hendyr, e
io continuo a pensare a quella cena nella fortezza di Lord Camlyn e a chie-
dermi quanto sia bravo Daeryc a nascondere i propri sentimenti.»
«Non molto» ammise Peddyc, con un ironico sorriso. «Hai detto una cosa
verissima, amore mio, una cosa a cui non avevo pensato. Ci sono momenti in
cui Daeryc guarda il Reggente con espressione tale da dare l'impressione che
abbia appena assaggiato un pezzo di carne marcia.»
«Infatti, l'ho notato anch'io. Dato che Daeryc è il tuo signore, se sospettano
di lui perché non dovrebbero sospettare anche di te?»
Peddyc annuì, con aria sempre più riflessiva.
«Ti ringrazio» disse infine. «Ho proprio bisogno del tuo occhio acuto. In
presenza di Burcan farò del mio meglio per comportarmi da vassallo fedele e
cercherò di rivolgere in privato un ammonimento a Sua Grazia Daeryc.»
Anche se stava senza dubbio conquistandosi sempre più il favore della re-
gina, fino a quel momento Bevyan non era stata ancora invitata a consumare i
pasti alla sua tavola; d'altro canto il posto che occupava di solito era abba-
stanza vicino a essa da permetterle di osservare Abrwnna e le sue dame che
mangiavano chiacchierando e ridacchiando fra loro. Non molto lontano, an-
che se alla distanza richiesta dalle convenienze, la Compagnia della Regina
condivideva un altro tavolo vicino a quello occupato dai figli di numerosi no-
bili di alto rango, fra cui anche Anasyn, e Bevyan trasse un notevole piacere
nel vedere suo figlio che, ormai alto e forte, era stato finalmente accolto nella
compagnia dei suoi pari. Nel corso degli anni Bevyan aveva cercato di mette-
re una certa distanza fra se stessa e quel suo ultimo figlio perché la morte dei
suoi fratelli le aveva causato un dolore tale da non farle desiderare di ripetere
quell'esperienza, e tuttavia non poteva non essere orgogliosa di lui e dei suoi
modi eleganti, degni della corte. Anche se i nobili che lo circondavano stava-
no bevendo molto e ridendo sguaiatamente, Sanno stava invece attento a non
consumare troppa birra e parlava poco e in tono pacato.
Come Bevyan venne a sapere in seguito, i giovani della Compagnia della
Regina non stavano bevendo birra ma sidro, e per di più in grandi quantità.
All'improvviso uno di essi gridò qualcosa, qualcun altro imprecò e di lì a po-
co una terza imprecazione fece tacere la conversazione generale. Bevyan si
alzò per vedere meglio proprio mentre gli uomini della regina balzavano in
piedi con tanta irruenza da rovesciare le panche e si scagliavano contro i no-
bili seduti al tavolo di Anasyn. Bevyan vide Anasyn ritrarsi di scatto e affer-
rare alle spalle un amico appena in tempo per impedirgli di estrarre la spada
dal fodero.
Lo scontro si risolse poi in alcune spinte miste a imprecazioni. Un tavolo
venne rovesciato con un gran rumore di vasellame rotto, qualcuno sferrò un
pugno e qualcun altro indietreggiò barcollando con il naso sanguinante, poi i
nobili più maturi intervennero, accorrendo come mastini sulla selvaggina e
afferrarono i contendenti, separandoli e trascinandoli per buona misura fuori
della sala.
«Cosa mai sarà successo?» commentò Lilli.
«Oh, chi può saperlo?» replicò Bevyan, scrollando le spalle. «Gli uomini
sono sempre pronti a offendersi con estrema facilità.»
Mentre parlava vide però Anasyn che stava attraversando in fretta la sala in
preda alla confusione e le stava segnalando di raggiungerlo. Ordinando con
un cenno a Lilli di restare dov'era, Bevyan si diresse verso la curva della pa-
rete dove c'era una piccola area sgombra da curiosi e ben presto Anasyn ven-
ne a raggiungerla, con la manica destra fradicia di sidro, come se qualcuno
avesse scagliato un boccale pieno.
«Eccoti qui, Madre» iniziò. «Mio padre ha detto di riferirti quello che è
successo.»
«Davvero? Allora non si è trattato soltanto di uno stupido insulto.»
«Infatti. Qualcuno ha proposto di scommettere su quanto tempo sarebbe
passato prima che qualche membro della Compagnia della Regina riuscisse a
dividere il letto della sovrana e su chi sarebbe stato il vincitore. Loro hanno
sentito, e...»
«Oh, dèi! Allora i pettegolezzi sono arrivati a questo livello? Chi ha dato il
via a tutto?»
Anasyn scrollò le spalle, a indicare che non sapeva cosa rispondere. Intanto
nella grande sala tutti si stavano rimettendo a sedere e un paio di paggi stava-
no raddrizzando le panche rovesciate e raccogliendo i vassoi dalla paglia,
mentre un assortimento di cani seguiva i loro movimenti scodinzolando nella
speranza di un'altra rissa e di un altro pranzo imprevisto.
«Tuo padre ha fatto bene a dirti di informarmi» affermò Bevyan. Parlerò di
questo con Merodda perché per quel che ho potuto vedere lei è la sola ad ave-
re una certa influenza sulla regina.
«L'ho sentito dire anch'io.»
«Questo mi ricorda una cosa, caro. La regina mi ha detto che ti è stato of-
ferto di entrare nella sua Compagnia.»
«Ho rifiutato.»
«L'ho saputo, ed ero curiosa...»
«Non mi è mai piaciuto essere il cagnolino di qualcuno e tanto meno fare
parte di un branco. Il comportamento adorante che hanno nei suoi confronti è
disgustoso.»
Capisco, il mio ragazzo si è innamorato, pensò Bevyan.
«Hai ragione» si limitò però a replicare. «Ora è meglio che vada a vedere
come sta quella povera ragazza.»
A Dun Deverry la sala della regina occupava un intero piano della rocca
reale. Sedie intagliate, su cui erano ammucchiati cuscini laceri e sbiaditi, era-
no sparse su logori tappeti del Bardek e le pareti erano rivestite da arazzi an-
ch'essi segnati dal tempo. Al suo ingresso Bevyan si aspettava di trovare la
regina in lacrime per l'insulto mosso al suo onore ma scoprì invece che A-
brwnna stava camminando avanti e indietro davanti al focolare spento mentre
le sue damigelle se ne stavano raccolte con fare timoroso nella curva della
parete; una di esse stava piangendo e il modo in cui i suoi capelli erano arruf-
fati e scompigliati lasciava capire quale fosse l'umore della sua signora. Me-
rodda invece sedeva con calma su un davanzale come se stesse prendendo un
po' d'aria; quanto alle serve della regina, nella stanza non se ne vedeva trac-
cia.
«Finalmente sei qui, Lady Bevyan» esordì Abrwnna. «Ho bisogno dei tuoi
consigli.»
«Davvero, Altezza?» domandò Bevyan, accennando una riverenza nella di-
rezione approssimativa in cui si trovava la regina, che continuava a cammina-
re.
«Infatti. Lady Merodda ritiene che dovrei sciogliere la mia Compagnia.»
«Ah, temo di essere d'accordo con lei.»
«Ma io non voglio farlo!» esclamò Abrwnna, girandosi di scatto e solle-
vando un braccio come se avesse avuto intenzione di colpire la donna più an-
ziana. «Loro sono miei e non voglio perderli!»
«Nessuno può imporre nulla a Vostra Altezza» intervenne Merodda. «Be-
vyan, Sua Altezza ha chiesto la mia opinione e io gliel'ho fornita.»
«Come ho fatto anch'io» replicò Bevyan. «Se Sua Altezza lo desidera, non
affronteremo oltre l'argomento.»
«Puoi essere dannatamente certa che lo desidero!» esclamò Abrwnna, tra-
endo un profondo respiro e abbassando la mano. «Non vogliamo più sentir
parlare di questo in nostra presenza.»
«Come desidera Vostra Altezza» annuì Bevyan.

Negli anni passati, Dun Deverry aveva ospitato il triplo degli uomini che vi
vivevano adesso e nel suo complesso groviglio di cortili e di torri c'erano
molti edifici vuoti, per lo più stalle e baracche, ma anche una rocca deserta
che sorgeva in un piccolo cortile non lontano dalla rocca reale. I suoi piani
inferiori erano stati utilizzati per immagazzinare frecce, pietre e pali per spin-
gere le scale d'assedio lontano dalle mura, invece il piano superiore era del
tutto vuoto tranne per un mucchio di pelli conciate, rese rigide e friabili dal
tempo. A fatica, e con non poche imprecazioni, Lilli e Brour riuscirono ad
appenderle davanti alle finestre fino a impedire che filtrasse anche un singolo
raggio di sole.
«Bene» commentò infine Brour. «Non vogliamo certo che qualcuno veda
la luce della nostra lanterna e venga quassù a indagare.»
«Come hai trovato questo posto?» domandò Lilli.
«Sto cercando quel passaggio da settimane e questo mi ha indotto a curio-
sare in ogni sorta di angoli deserti. Mi sono ricordato di questa torre quando
ho deciso che era venuto il momento di provare il nostro rituale.»
«Pensi che qualcun altro venga quassù?» insistette Lilli.
«Nella polvere non c'erano tracce.»
Lilli lasciò vagare lo sguardo per la stanza. Si trattava di un ambiente del
tutto comune per gli standard di Dun Deverry e tuttavia a giudicare dalle ra-
gnatele e dalla polvere nessuno saliva più lassù da anni.
«Spero che questa sera mia madre non decida di farmi evocare qualche vi-
sione» commentò.
«Non lo farà» garantì Brour. «Mi ha detto che deve passare la sera con la
regina. Sai se Sua Altezza abbia qualcosa che non va?»
«No, ma scommetto che si tratta della lite che c'è stata la scorsa notte nella
grande sala. Tutti dicono che l'onore della regina è stato offeso e lei deve es-
sere senza dubbio sconvolta.»
«Ne sono certo, e questo dovrebbe tenere tua madre occupata quanto ser-
ve.»
«Infatti» annuì Lilli, poi starnuti e aggiunse: «Quassù c'è tantissima polve-
re. La cosa piacerà ai Signori della Terra?»
«Prima di cominciare pulirò un poco. Ora è meglio che tu vada, prima che
qualcuno noti la tua assenza. Io rientrerò dopo per evitare che ci vedano in-
sieme.»
Al suo ritorno nella rocca reale, Lilli trovò i servi intenti a scambiarsi pet-
tegolezzi in merito all'insulto mosso alla Compagnia della Regina e, per suo
tramite, alla regina stessa, e nel corso della sessione di cucito di quel pome-
riggio anche Bevyan si mostrò preoccupata per l'accaduto.
«La causa di tutti i problemi è avere tante giovani teste calde ammassate
nella fortezza in attesa dell'inizio dei combattimenti estivi. Sarà bene che il
Reggente porti via di qui i suoi uomini al più presto» affermò.
«Non capisco perché non lo abbia già fatto» osservò Lilli. «E tu, Bevva?»
«Ecco, non lo so per certo, ma Peddyc mi ha esposto le sue supposizioni»
replicò Bevyan, poi esitò come se stesse riflettendo su qualcosa e proseguì:
«Ritengo che il Reggente non abbia uomini a sufficienza per opporsi all'U-
surpatore e che stia cercando di radunarne altri.»
«Oh, allora questo significa che saremo sconfitti, vero?» esclamò Lilli.
Bevyan e Sarra sollevarono entrambe lo sguardo dal cucito per fissarla.
«Mi dispiace» balbettò Lilli. «Non avrei dovuto... oh, dèi! Dico sempre la
cosa sbagliata... mi dispiace.»
«Non ti devi scusare, cara» la consolò Bevyan. «Comunque questo non
vuol necessariamente dire che saremo sconfitti. Il Reggente ritiene di poter
trovare gli uomini di cui abbiamo bisogno e Peddyc pare essere d'accordo
con lui. Basterà una vittoria indiscussa perché molti dei nobili che sono pas-
sati all'Usurpatore tornino dalla parte del re.»
Se riusciremo a conseguire quella vittoria, pensò Lilli.
«L'attesa è una cosa orribile» affermò ad alta voce.
«Infatti, mia cara, infatti» sospirò Bevyan, poi tornò a concentrarsi sul suo
lavoro.
A Lilli parve però che d'un tratto lei si fosse fatta vecchia, che le strisce
bianche nei suoi capelli biondi si fossero allargate e si fossero tinte di un can-
dore mortale mentre la sua pelle aveva assunto una tonalità grigia e opaca.
L'immagine fu così nitida che per poco Lilli non si lasciò sfuggire un grido di
sgomento, ma poi si controllò bruscamente e disse a se stessa che Bevyan era
soltanto stanca e che lei aveva ricominciato a vedere cose inesistenti.
Subito dopo cena Bevyan e Merodda si ritirarono con la regina nelle sue
camere e Lilli poté sgusciare non vista fuori della grande sala e raggiungere
la torre abbandonata, dove trovò Brour ad aspettarla. Nel salire le scale notò
una scopa appoggiata alla parete del pianerottolo e una volta dentro vide che
le assi di legno erano state spazzate e pulite. Adesso Brour sedeva nel centro
della stanza circolare e intorno a lui, sulle pareti di pietra, danzavano le om-
bre proiettate da quattro lanterne poste a pari distanza una dall'altra.
«Sono posizionate nelle quattro direzioni, nella misura in cui sono riuscito
a determinarle» spiegò Brour, alzandosi per accoglierla. «Est, ovest, nord e
sud. Quando verrà il momento, è dentro la colonna di luce proiettata da cia-
scuna lanterna che dovrai visualizzare i Signori degli Elementi.»
«Benissimo» annuì Lilli. «Dovremo esercitarci molto, vero?»
«Moltissimo, perché tutto dovrà essere fatto in modo perfetto. Questa notte
mi limiterò a spiegarti le diverse parti del rituale e il loro significato, e poi
voglio insegnarti a rinforzare la tua aura.»
«La mia cosa?»
«È come un uovo di luce invisibile che circonda ogni persona vivente per
effetto del piano eterico che interpenetra quello fisico. Quando getti un sasso
in una polla le onde si allargano da esso, e cosa sono le onde se non un dise-
gno nella stessa acqua che riempie la polla? Pensa all'aura come a qualcosa di
simile a questo.»
Lilli cercò di riflettere su quanto aveva sentito.
«Non capisco» ammise infine.
«Non è una cosa facile da capire» riconobbe Brour, che peraltro pareva di-
vertito. «Prova però a pensarci sopra e vedi cosa ti affiora nella mente. Il pun-
to comunque è che quando avrai imparato a controllare la tua aura, tua madre
non ti potrà più sbirciare nella mente.»
«Splendido! Non c'è nulla che possa farmi più piacere» esclamò Lilli, sol-
levando lo sguardo.
«Non ne dubito» sorrise Brour. «Ora cominciamo.»

«Braemys è tornato questo pomeriggio» annunciò Burcan, «e ha portato le


notizie che stavo aspettando.»
«Davvero?» commentò Merodda. «Buone o cattive?»
«Buone. I nobili del settentrione hanno acconsentito a privare le loro for-
tezze anche di una guarnigione minima e quando marceremo avremo un eser-
cito al completo.»
Merodda si concesse un breve sorriso, ricambiato da Burcan. Sul finire del
pomeriggio i due erano seduti nella camera di lei accanto a un fuoco fumoso
mentre fuori la pioggia martellava contro le pareti e di tanto in tanto il vento
del sud inviava qualche folata a sollevare le pelli di cuoio appese a coprire le
finestre.
«Ci sono stati presagi?» domandò poi Burcan.
«Negli ultimi giorni non ho più chiesto a Lilli di trarne perché aspettavo di
ricevere notizie da te. Prima di poter interpretare un presagio, infatti, bisogna
sapere qualcosa dell'andamento della situazione.»
«Benissimo. Ah, dovrò ricordarmi di dire a Brae di scambiare qualche pa-
rola con lei... in merito al fidanzamento, intendo.»
«Sempre che non sia troppo impegnato per un cortese gesto di questo tipo»
ribatté Merodda con sarcasmo, che le fruttò un acido sorriso.
«Esitando, Burcan indugiò a fissarla in volto e Merodda non faticò a com-
prendere cosa lui volesse sapere, cosa tutti volessero sapere, Bevva e quel
dannato araldo e anche le serve... del resto, era da anni che tutti sospettavano
chi potesse essere il suo vero amante, lei poteva leggerlo negli sguardi sfug-
genti, nelle frasi esitanti. In quel momento un ceppo si consumò nel camino e
si afflosciò con una grande fiammata e una pioggia di carboni ardenti sulla
pietra.»
«Rhodi?» cominciò Burcan. «Credi davvero che questo matrimonio sia...
uh... er... ecco, che lo si possa permettere?»
Merodda sorrise nel fissare il focolare, dove i carboni ardenti si stavano
consumando uno dopo l'altro, e alle sue spalle sentì Burcan muoversi a disa-
gio sulla sedia e sospirare.
«È meglio che vada» disse infine Burcan. «Daeryc e gli altri gwerbret mi
stanno aspettando.»
«Così tardi?»
«Ho promesso di dire loro fra quanto saremmo partiti non appena avessi
conferito con il re. Quando sono passato da lui, il re stava dormendo, ma gli
ho parlato lo stesso. Del resto non ho promesso che avrei atteso una sua ri-
sposta.»
«Quando intendi partire?»
«Non appena arriverà il contingente dai settentrione, che è già in marcia.»

Il mattino successivo, allorché scese nella grande sala, Lilli trovò Braemys
che l'attendeva in fondo alla scala. Come tutti gli uomini del clan del Cin-
ghiale, Braemys era alto di statura, biondo di capelli e con gli occhi azzurri,
con i tratti squadrati propri del clan, e dall'ultima volta che si erano visti sul
suo labbro superiore era spuntata una linea di peluria che soltanto la cortesia
poteva indurre a definire baffi. Non appena la vide, le andò incontro con un
inchino a cui lei rispose con una riverenza.
«Mia signora, questo fidanzamento ti soddisfa?» domandò Braemys.
«Senza dubbio. E tu, mio signore, sei soddisfatto?»
«Certamente» replicò Braemys, poi si girò a guardare verso la parte oppo-
sta della sala e nel seguire la direzione del suo sguardo Lilli vide suo zio Bur-
can fermo vicino alla porta. «Ora è meglio che vada perché sta per iniziare il
consiglio di guerra» aggiunse quindi, e si allontanò a grandi passi per andare
a raggiungere suo padre.
Mentre li osservava fendere fianco a fianco la folla e uscire dalla sala, Lilli
ricordò a se stessa che come partito Braemys era molto meglio di Nantyn.
Nei giorni che seguirono lei ebbe comunque poco tempo per preoccuparsi
del suo fidanzato, perché Braemys fu sempre impegnato a causa dei consigli
di guerra e lei fu presa dalle sue esercitazioni con Brour. Una volta inoltre, a
tarda ora di una notte di pioggia, sua madre le chiese di evocare immagini
nell'inchiostro nero. Con Brour che come al solito teneva in mano la candela
lunga, Lilli fissò lo sguardo sulle ombre che danzavano nella ciotola d'argen-
to, nere su uno sfondo ancora più nero, e mentre l'incantesimo s'impadroniva
di lei, le parve che l'ululare del vento intorno alla rocca si mutasse in un coro
di voci che urlavano e gridavano.
«Lacrime e rabbia» fu la sola cosa che riuscì a dire in merito a quel lamen-
to. «Sento lacrime e terrore.»
Mentre parlava avvertì la mano di sua madre che accentuava la stretta in-
torno al suo collo.
«Prova ad ascoltare» sibilò Merodda. «Cosa stanno dicendo?»
«Non ci sono parole, solo pianto e paura.»
Poi nell'oscurità cominciarono a prendere forma immagini di cavalieri sen-
za testa in sella a cavalli neri che torreggiavano immensi su intere città nel
galoppare nella notte tempestosa. Infine i gemiti svanirono e Lilli sentì la
propria voce descrivere i presagi: spade che ardevano di un fuoco azzurro e
che formavano un enorme muro davanti a Dun Deverry, un esercito vestito
tutto di rosso che si scagliava contro quel muro solo per essere ricacciato in-
dietro lacero e morente e per raggrupparsi su una lontana collina.
«Stanno cavalcando ancora» affermò poi. «Li vedo cavalcare... un momen-
to, si sta dissolvendo tutto.»
Nella bacinella le spade fiammeggianti si spensero una dopo l'altra come
scintille sulla pietra del focolare, poi le immagini si fecero pallide e traspa-
renti prima di svanire a loro volta e per un momento ci fu solo oscurità prima
che la luce di una lanterna rivelasse una camera accogliente con le pareti co-
perte di arazzi a vivaci colori, nel cui centro c'era un uomo anziano dai folti e
arruffati capelli bianchi. Proteso in avanti su un tavolo, l'uomo stava guar-
dando in una bacinella piena d'acqua... ma d'un tratto sollevò lo sguardo e fis-
sò Lilli con penetranti occhi azzurro ghiaccio che parvero trapassarle l'anima.
«Ma guarda che sorpresa!» esclamò in tono divertito. «Chi sei, ragazza? Se
non stai attenta, ti farai del male a spiarmi in questo modo.»
Lilli accennò a rispondere ma scoprì di non poter parlare, poi la visione
s'infranse in una miriade di frammenti, come un piatto in frantumi, e infine
svanì, lasciando al suo posto un pallidissimo Brour che la stava scuotendo per
le spalle.
«Sei tornata? Sei tornata?» continuava a chiederle.
«Sono qui, Brour. Cosa c'è che non va?»
«È una cosa che vorrei sapere anch'io» intervenne Merodda. «Perché l'hai
fermata?»
«Perché quel vecchio è pericoloso: è il consigliere personale dell'Usurpato-
re, un mago dotato di immensi poteri.»
«Sono arrivata a vedere in Cerrmor?» domandò Lilli.
«Lo hai fatto» annuì Brour, asciugandosi il volto sudato, «oppure Nevyn ti
ha indotta a rivelarti con un inganno.»
«Chi?» interloquì Merodda. «Nessuno? Non parlare per enigmi.»
«Non lo sto facendo. Quell'uomo si chiama così, Nevyn, Nessuno, per un
miserabile scherzo che gli ha fatto suo padre.»
Accorgendosi che Merodda lo stava fissando con la bocca contratta in un'e-
spressione acida, Brour fece poi uno sforzo per ricomporsi.
«Ho studiato con lui» aggiunse, «e lo conosco piuttosto bene.»
«Non stava cercando di ingannarmi» osservò Lilli. «È rimasto sorpreso
tanto quanto me.»
«Ah» mormorò Brour, poi rifletté a lungo sulla cosa e infine aggiunse:
«Comunque per stanotte è meglio che tu non faccia altro, perché lui ti starà
cercando. È troppo pericoloso.»
«Cosa?» esclamò Merodda. «Ma i presagi...»
«Dovranno aspettare» la interruppe Brour. «È troppo pericoloso, mia si-
gnora, davvero, e sono pronto a spiegarti il perché.»
«Allora fallo» ingiunse Merodda, e rivolta a Lilli ordinò: «Tu lasciaci so-
li.»
Lilli ebbe un attimo di esitazione, ma quando sua madre sollevò una mano
inanellata si affrettò a uscire e a percorrere il corridoio fino alla sua camera.
Una volta dentro, al sicuro, si diresse alla finestra e constatò che anche se il
pavimento era fradicio di pioggia, fuori la tempesta era cessata e una pallida
luna pareva correre nel cielo fra brandelli di nubi sempre più frammentati.
«Aveva un'aria gentile» sussurrò, «davvero gentile. Se questo è il genere di
uomini che Cerrmor ha dalla sua parte...»
Subito però scosse il capo per allontanare quei pensieri improntati al tradi-
mento.
Quella notte tuttavia sognò Cerrmor, o almeno ne sognò un'immagine illu-
soria, dato che non vi era mai stata di persona, e sognò anche Nevyn che pa-
reva cercare di trovarla in mezzo a un vasto labirinto di siepi e di mura di pie-
tra. Quando infine si svegliò, immersa nella luce del sole che si riversava sul
suo letto, il sogno le rimase in mente; dopo essersi vestita era in procinto di
andare a cercare Brour quando lui stesso venne a bussare alla sua porta.
«Sono io» chiamò. «Ci sei, Lilli?»
«Sì» rispose lei, aprendo il battente. «Entra. Ho fatto un sogno stranissi-
mo.»
«Pensavo che potesse succedere» replicò Brour, affrettandosi a entrare e a
richiudersi la porta alle spalle; alla luce del sole il suo tondo volto infantile
appariva pallido e segnato, come se non avesse dormito per tutta la notte.
«Cosa c'è che non va?» domandò Lilli.
«Una quantità di piccole cose che sommate indicano grossi guai. Nevyn
che ti ha individuata e la mancanza di buon senso di tua madre che rifiuta di
smettere di evocare queste pericolose visioni.»
«Pericolose a causa di Nevyn?»
«Infatti. Se dovesse collegarsi a te, ci potrebbe spiare attraverso i tuoi oc-
chi.»
«Ma io non so molto in merito ai piani del re.»
«Ti sorprenderebbe scoprire quante cose sai senza renderti conto di saper-
le» ribatté Brour con un fugace sorriso. «Quello che più mi tormenta è però
un timore molto egoistico e personale perché non voglio che Nevyn mi tro-
vi.»
«Oh, e perché no?»
Brour sbatté rapidamente le palpebre, poi scrollò le spalle.
«Sono stato uno studente assai scadente e me ne sono andato prima di
quando avrei dovuto» rispose infine.
Nel sentire la nota di dolore nella sua voce, Lilli ebbe l'impressione che il
problema non fosse soltanto quello e che si trattasse invece di qualcosa di co-
sì vergognoso che lui preferiva non parlarne.
«È successo molto tempo fa» continuò intanto Brour, camminando fino al-
la finestra e poi tornando indietro. «Tutto questo mi ha fatto prendere una de-
cisione: non appena avremo eseguito il rito e trovato il passaggio, intendo la-
sciare Dun Deverry.»
«Oh, non te ne andare!» esclamò Lilli.
«Mi dispiace ma non posso restare qui. Tua madre e tuo zio hanno preso a
sospettare di me e quando riterranno che sia giunto il momento mi uccideran-
no. Ricordi il presagio della mia testa in una cassapanca? Sono certo che fos-
se verissimo. Speravo di conquistarmi il favore di tuo zio trovando quel pas-
saggio, ma ora penso che sia meglio usarlo per andarmene e lasciare che sia
tu a trarre vantaggio dal rivelare la sua esistenza.»
«Ti ringrazio, ma preferirei che non te ne andassi.»
«Potresti venire con me.»
Lilli sussultò e si portò una mano alla gola.
«Pensaci» insistette Brour. «La mia è un'offerta del tutto onorevole. Ti trat-
terò come una figlia se verrai con me per essere la mia apprendista. Inoltre
così ti salverai la pelle quando questa miserabile fortezza cadrà in mano al
nemico.»
Lilli sentì il sangue che prendeva a pulsarle alle tempie.
«Ora devo tornare dalla tua signora madre» concluse Brour, dando l'im-
pressione di voler sputare nel pronunciare il nome di Merodda. «Però pensa-
ci, Lilli, te ne scongiuro.»
Dopo che se ne fu andato, Lilli si avvicinò alla finestra e indugiò per molto
tempo a fissare il panorama offerto dalle numerose torri della fortezza senza
tuttavia vederlo davvero. Doveva prendere una decisione, e per la prima volta
nella sua vita non si poteva consigliare al riguardo con Bevyan.

Nel corso degli ultimi giorni Merodda si era accorta sempre più della cre-
scente influenza che Lady Bevyan aveva sulla giovane Regina Abrwnna, che
la includeva in ogni passeggiata in città, in ogni caccia con il falco o visita ai
templi e perfino nelle cene particolari nella sala reale. A volte capitava poi
che nel salire negli alloggi delle donne Merodda trovasse Bevyan là da sola,
intenta ad ascoltare le lunghe e divaganti conversazioni della regina.
«In un primo tempo mi ha fatto piacere, perché a volte Abrwnna può essere
davvero stancante» commentò con Brour.
«Davvero, mia signora? Ma ora non ti soddisfa più?»
«Ecco, non voglio perdere il favore della regina.»
«Ah, quella sarebbe davvero una grave perdita» convenne Brour.
Merodda indugiò per un momento a osservarlo mentre lui, la testa china sul
suo lavoro, procedeva a scrivere un proclama relativo al fidanzamento di Lilli
da distribuire agli araldi. Quando fosse giunto il momento le sarebbe dispia-
ciuto di vederlo morire, ma il favore di Burcan era sempre stato il centro del-
la sua vita, la sola cosa di cui aveva un disperato bisogno, ancor più del favo-
re elargito dalla regina, e se lui lo avesse voluto Brour sarebbe stato elimina-
to. Infilata la penna in un foro sul lato del calamaio, Brour prese intanto una
manciata di sabbia da un vassoio alle sue spalle e la sparse sull'inchiostro an-
cora umido.
«Cosa ne pensi di Bevyan?» domandò Merodda.
«Mi piace, mia signora, anche se devo ammettere che sul suo conto so ben
poco.»
«Ecco, questo è vero» annuì Merodda, chiedendosi cosa si fosse aspettata
di sentirgli dire. «Non importa. Stasera passerò la serata con la regina, nei
suoi alloggi. Chiunque altro desideri vedermi dovrà aspettare.»
«Benissimo, mia signora» assentì Brour.
Presa la pergamena, rovesciò quindi la sabbia nel vassoio e ricominciò a
scrivere.
Quella sera Merodda cercò di arrivare per tempo nelle camere della regina,
ma parve che l'intera corte stesse cospirando contro di lei per farle fare tardi
perché, quando si diresse verso le scale della grande sala, venne trattenuta da
una persona dopo l'altra... servi che chiedevano ordini, nobili che speravano
di ottenere qualche favore dal Reggente, dame che avevano voglia di chiac-
chierare e perfino un paggio con un messaggio di Burcan.
Quando finalmente arrivò nella sala delle donne, trovò che Bevyan l'aveva
preceduta ed era seduta su uno sgabello accanto alla regina, adagiata su una
sedia coperta di cuscini; intorno le dame di compagnia stavano preparando un
piccolo fuoco nel focolare mentre due serve stavano cantando una canzone
d'amore, a strofe alterne, e una terza suonava goffamente l'arpa per intrattene-
re la sovrana.
I loro sforzi però erano del tutto inutili, almeno a giudicare dall'espressione
accigliata di Abrwnna; quando Merodda entrò nella stanza lei le rivolse ap-
pena un cenno del capo e agitò poi una mano in direzione delle aspiranti arti-
ste.
«Oh, smettetela!» scattò quindi. «Detesto quella canzone.»
La musica cessò, le due cantanti si scambiarono un'occhiata e sfoggiarono
un sorriso di circostanza mentre l'arpista parve prossima a scoppiare in lacri-
me.
«È tutto incredibilmente tedioso» dichiarò Abrwnna, appoggiando la testa
allo schienale della sedia per fissare il soffitto. «Credo che finirò per morire
di noia.»
«Potremmo fare una partita a carnoic o giocare agli indovinelli, Vostra Al-
tezza» suggerì Bevyan.
«Sono stanca di questi giochi.»
«Altezza?» interloquì la ragazza con l'arpa. «Se il re tuo marito si unisse a
noi potremmo far venire un vero bardo a intrattenerci.»
«Non voglio qui quella bestia di mio marito. Quando ascolta la musica si
succhia il pollice.»
Le donne si scambiarono occhiate imbarazzate, poi le serve si affrettarono
ad andarsene ora che i loro servigi non erano più richiesti e nel frattempo Me-
rodda ne approfittò per occupare una sedia vuota.
«Intendo uscire a fare una passeggiata notturna» annunciò Abrwnna.
«Benissimo, Vostra Altezza» annuì Bevyan. «Potremo fare una bella pas-
seggiata nei giardini.»
«Non voglio nessuno con me.»
«Vostra Altezza!» esclamò Merodda. «Questo non sarebbe saggio.»
«Non m'importa se è saggio o no! Voglio stare sola!»
Le serve cominciarono a parlare tutte contemporaneamente, ma Bevyan si
alzò con calma e si pose di fronte ad Abrwnna, intercettando il suo sguardo
con il proprio.
«Mia povera bambina, so quanto deve essere terribile tutto questo e mi
duole il cuore per te» disse. «Dalla tua voce sento quanto sei stanca, sola e
spaventata.»
«Sì, sono tutte queste cose!» replicò Abrwnna, che pareva prossima al
pianto. «Oggi quando siamo uscite a cavalcare avrei voluto girare il cavallo e
galoppare via, senza meta, e perdermi. Qualsiasi cosa sarebbe meglio di u-
n'altra estate di quest'orribile guerra.»
Nel sentire quelle parole Merodda fu assalita da un senso di gelo: dunque
Bevyan era uscita a cavalcare con la regina mentre lei era stata lasciata alla
rocca.
«Noi tutte possiamo capirti» affermò Bevyan, rimettendosi a sedere ma gi-
rando lo sgabello in modo che la regina potesse vederla in faccia, «ma senza
dubbio tu sei più provata di noi da questa situazione.»
«Sono soltanto molto stanca» sussurrò Abrwnna. «Tutto questo non è giu-
sto.»
«Infatti non lo è» convenne Bevyan. «Oggi abbiamo cavalcato a lungo.
Vuoi che ti pettini i capelli in modo che dopo tu possa dormire? Domattina
porterà il sole e cose migliori.»
«Mi piacerebbe» decise Abrwnna, e rivolta a una delle donne ordinò: «Va'
a prendere i miei pettini.»
Mentre pettinava la regina, Bevyan continuò a parlare con la sua voce
sommessa, rilassandola come le carezze rilassano un gatto spaventato, poi
Abrwnna le permise di accompagnarla nella sua camera e di aiutarla ad anda-
re a letto. Quella notte, quando lasciò la sala delle donne, Merodda si chiese
se gli altri fossero in grado di avvertire il sentore della sua paura, che sem-
brava diffondersi come fumo alle sue spalle. Essere soppiantata in quel mo-
do! Come poteva mai permetterlo?

Nella rocca deserta, Lilli e Brour erano finalmente pronti a eseguire il ri-
tuale di evocazione. In ciascuna delle quattro direzioni era stata posizionata
una lanterna contenente una candela che Brour aveva acceso da una quinta
lanterna; a ridosso del muro c'erano un paio di sacchi di stoffa che lui aveva
dichiarato essere pieni di provviste e sul pavimento era stato tracciato con la
farina un grande cerchio.
«È un po' irregolare, vero?» commentò Brour, contemplando il proprio o-
perato con aria accigliata. «In ogni caso il cerchio che conta davvero è quello
che io visualizzerò.»
Lilli si era intanto seduta a gambe incrociate nel cerchio, rivolta approssi-
mativamente verso est e con davanti una grossa ciotola di terracotta che
Brour le aveva fornito perché potesse effettuare l'evocazione... in sostituzione
di quella d'argento che non aveva osato prendere per timore che Merodda ne
notasse la scomparsa... e che aveva riempito di inchiostro prelevato da una
bottiglia di cuoio.
«Benissimo» disse Brour, quando tutto fu a posto. «Sei pronta?»
«Sì» rispose Lilli, traendo un profondo respiro per calmarsi. «Comincia-
mo.»
Presa posizione direttamente davanti a lei e rivolto anche lui verso est,
Brour sollevò le braccia sopra la testa e intonò un canto con una strana voce
ringhiosa e vibrante. Pur non essendo in grado di comprendere le parole, che
suppose essere greggyn o qualche altra lingua antica, Lilli dedusse comunque
da come lui stava parlando che Brour stava evocando la Luce che dimorava
al di là degli dèi e la stava assorbendo dentro di sé per ottenere il potere per il
lavoro che dovevano svolgere.
Abbassate le braccia fino all'altezza delle spalle, Brour cantilenò ancora per
qualche momento, poi attese e infine le lasciò ricadere lungo i fianchi. Di
colpo Lilli ebbe l'impressione che la stanza si fosse fatta più grande e che
d'un tratto fosse stranamente affollata, perché anche se non riusciva a sentire
nulla tranne il respiro affannoso di Brour, le pareva comunque che l'aria vi-
brasse del ronzio di molte voci, come accadeva nella grande sala nel corso di
qualche evento ufficiale. Levata una mano come se stesse brandendo una
spada, Brour ricominciò quindi a cantilenare e nel pronunciare le parole sacre
ruotò lentamente su se stesso girando da est a sud, poi a ovest, a nord e anco-
ra a est in modo da tracciare sul piano astrale un cerchio di luce azzurra... o
almeno questo era quello che aveva spiegato a Lilli, che non riuscì a vedere
nulla di tutto ciò anche se d'un tratto si accorse che le pareti di pietra riluce-
vano di una tenue luce argentea, come se il suo sguardo stesse cogliendo un
qualche riflesso della magia.
«Io ti invoco!» esclamò poi Brour, ora in deverriano. «Io ti chiamo! O
Grande Re dell'Elemento della Terra, io ti invoco alla mia presenza! Mostrati
e fatti conoscere, nel nome dei grandi sigilli degli elementi e dei Signori della
Luce!»
Nel parlare si girò verso nord e Lilli si contorse in modo da poter vedere
cosa stava accadendo: la candela nella lanterna posta in quella direzione stava
proiettando sulla parete una grande colonna di luce, che per il momento non
pareva diversa dalle altre.
«Io ti invoco! Signore della Terra e del Settentrione, dimora della più gran-
de oscurità, vieni a me e mostrati!»
Le chiazze di luce dorata proiettate sulla parete presero d'un tratto ad allar-
garsi e a congiungersi in modo da formare una colonna fiammeggiante, poi il
chiarore s'intensificò e assunse una tonalità argentea. Lilli sussultò nel con-
statare che all'interno della colonna luminosa stava prendendo consistenza
una forma umana insolitamente snella che rimase indistinta, mutando con l'o-
scillare della luce, pur dando l'impressione di avere molta più consistenza di
un'ombra. Un tenue chiarore fra il grigio e il verde scorreva sul corpo dell'es-
sere, sempre che lo si potesse definire corpo, mentre una luce rossastra gli a-
leggiava dietro la testa e i suoi piedi poggiavano su una lucida sfera nera. Poi
Lilli sentì delle parole prendere forma nella sua mente e comprese che era
stato l'Altro a inviarle.
«Cosa vuoi da me, Figlio della Terra?»
«Che tu risponda a una domanda, una soltanto, o Grande Signore» replicò
ad alta voce Brour. «So bene quale grande onore sia per me che tu abbia ri-
sposto al mio richiamo.»
All'interno della colonna di luce la figura annuì appena, e in qualche modo
Lilli ebbe la certezza che essa fosse divertita dalla presunzione di Brour.
«Cosa vuoi sapere, Figlio della Terra?»
«Nelle profondità del tuo reame di terra e di pietra che si estende sotto que-
sta fortezza e gli edifici circostanti, c'è una galleria che porta dalla fortezza a
un punto al di là delle sue mura e delle mura della città che la circonda. Noi
desideriamo sapere dove si trova quella galleria.»
«Guarda!» ingiunse la figura, accennando con il capo verso Lilli. «Figlia
dell'Aethyr, guarda nella ciotola!»
Lilli obbedì e vide che sulla nera superficie dell'inchiostro cominciavano a
prendere forma alcune immagini: una porta in un muro, uno stretto sentiero
fra pareti di pietra, una torre diroccata che si ergeva in un cortile rivestito di
acciottolato. Dietro la torre erano visibili porte di legno inserite nel terreno.
«Una cantina?» esclamò, incapace di trattenersi. «È in una cantina? Ne sei
certo?»
Brour emise uno strillo di terrore ma Lilli sentì la risata del Re della Terra
riversarsi su di lei e nel sollevare lo sguardo sulla figura verdastra racchiusa
nella colonna di luce argentea constatò che in effetti pareva che l'essere stesse
ridendo.
«Ne siamo certi, piccola. Troverai ciò che cerchi sotto quelle porte. E ora
addio, Mago. Liberami!»
«Lo farò, o Grande Re della Terra. Ti sono grato per averci aiutati in questa
faccenda» rispose Brour, poi levò in alto le braccia e cominciò a cantilenare.
Ad ogni parola aliena che gli uscì di bocca, il chiarore argenteo si attenuò
fino a quando rimase soltanto la normale luce gialla della fiamma della can-
dela che danzava all'interno della lanterna. Con una mano levata a brandire la
spada astrale, Brour si girò verso est per cancellare il cerchio di fuoco azzur-
ro, poi si volse a ovest e cancellò con un piede parte del cerchio tracciato con
la farina.
«Che gli spiriti vincolati da questa cerimonia vadano liberi!» gridò. «È fini-
ta.»
E batté per tre volte un piede per terra. D'un tratto Lilli si accorse che la
stanza aveva ripreso le dimensioni normali e si era fatta di nuovo vuota, e al
tempo stesso vide Brour accasciarsi a sedere per terra con un lungo sospiro.
«Stai bene?» gli chiese.
«Sono stanco e assetato. Per favore, portami quella borraccia e bevi un po'
anche tu. In quel sacco ci sono pane e formaggio.»
Dopo le meraviglie di cui era appena stata testimone, Lilli trovò ridicola
l'idea di mangiare... fino a quando la vista del cibo non la indusse a rendersi
conto di quanto fosse in effetti affamata. Seduti nel centro del cerchio rituale
ora infranto, lei e Brour trangugiarono il cibo accompagnandolo con sorsate
d'acqua che parvero loro deliziose quanto il sidro migliore, e nel frattempo la
strana luce scintillante svanì del tutto dalle pareti, riportando alla consueta re-
altà un ambiente che per un momento si era fatto magico.
«È svanito tutto» commentò con malinconia Lilli. «Tutta la magia argente-
a.»
«Mangiare serve proprio a questo» sorrise Brour. «Non si può affrontare la
vita quotidiana in stato di trance. Inoltre abbiamo un'ultima meraviglia da
contemplare... il nostro passaggio segreto. Infatti è meglio andare a dare u-
n'occhiata prima di dimenticare i dettagli della visione.»
Finito di mangiare spensero tutte le lanterne meno una e dopo aver atteso
che si raffreddassero le riposero nei sacchi insieme alle candele di scorta for-
nite da Brour e lasciarono la torre.
Non appena fuori, Lilli riconobbe il percorso che le era stato mostrato dal
Re della Terra. La piccola porta inserita nel muro sembrava scintillare, come
se una traccia della luce magica fosse rimasta su di essa, e dopo averla oltre-
passata i due si vennero a trovare in uno stretto corridoio in discesa racchiuso
fra due alti muri che li condusse a un'altra porta. Come la prima, anche questa
non era chiusa a chiave e al di là di essa i due trovarono un grande cortile cin-
to da alte mura e cosparso di rovine... una torre infranta, mucchi di pietre e
cumuli di terra erbosa che probabilmente coprivano i resti di capanne e ba-
racche. «Pare che qui si sia combattuto duramente» osservò Brour.
«Infatti, ma deve essere successo molto tempo fa, dato che non ho sentito
nessuno parlarne. Può darsi che ci sia stato anche un incendio.»
«Già, e il re non ha fatto ricostruire nulla perché voleva tenere nascosta l'e-
sistenza del passaggio, dato che nessuno avrebbe avuto interesse a venire a
frugare fra delle rovine.»
Alla fine le speranze di Brour risultarono giustificate: alle spalle della torre
diroccata Lilli vide le porte di legno della sua visione, in parte marcite ma
ancora chiuse; mentre lei teneva alta la candela Brour le forzò e rivelò sei
gradini di terra battuta che portavano in una cantina dall'aspetto del tutto
normale... tranne per le cortine di muffa e di ragnatele.
«Oh, che odore orribile!» esclamò Lilli.
«Adesso stiamo almeno facendo entrare un po' di aria fresca» replicò
Brour. «Però non possiamo rischiare di indugiare qui fuori. Cosa succedereb-
be se qualche guardia dovesse vedere la luce della lanterna?»
Dopo essersi riempita i polmoni di aria fresca, Lilli scese i gradini. In basso
il pavimento era per lo più fangoso a causa dell'acqua che filtrava dal sotto-
suolo, ma qualcuno aveva disposto nel centro della stanza lastroni di pietra
che risultarono ancora agibili, anche se tanto viscidi da indurre Brour a sus-
sultare di disgusto a ogni passo.
«Come ha mai potuto chiunque far scendere quaggiù dei cavalli?» osservò
Lilli. «Il re deve averne avuto bisogno per fuggire.»
«Una buona domanda, anche se non so proprio come risponderti» ribatté
Brour, guardandosi intorno. «Forse non è la cantina giusta... oh! Guarda là!»
Nella parete di fondo della cantina spiccava una pesante porta di assi di
quercia rinforzate in ferro.
«Ah!» esclamò Brour con un sorriso soddisfatto. «Non si costruisce una
porta del genere soltanto per proteggere un raccolto di rape. Tieni alta la lan-
terna, ragazza, e vediamo se mi riesce di aprirla.»
Detto questo assestò una spinta al battente, poi provò a spingere ripetuta-
mente, grugnendo per lo sforzo, e finalmente la porta si smosse di un paio di
centimetri. Rincuorato da quel successo, Brour si appoggiò allora con le spal-
le al battente e prese a camminare all'indietro, esercitando con le gambe la
massima pressione possibile. Con il volto madido di sudore e il respiro affan-
noso, assestò poi un'ultima spinta e infine la porta si spalancò con un acuto
stridio, permettendo alla lanterna tenuta alta da Lilli di rischiarare una galle-
ria rivestita di blocchi di pietra intagliata alti circa due metri e mezzo e larghi
tre che si perdeva nell'oscurità al di là del raggio di luce proiettato dalla can-
dela.
«Bene» commentò Brour, con una risata affannosa, asciugandosi su una
manica il volto sudato, «sembra promettente. Quel passaggio è abbastanza
grande da permettere di condurvi dei cavalli, una volta che si sia riusciti a
farli scendere quaggiù.»
«Lo esploriamo stanotte?» chiese Lilli.
«Non sei troppo stanca?»
«Assolutamente no! Mi divora la curiosità.»
Se la cantina era già stata piena di sporcizia, la galleria era in condizioni
ancora peggiori e puzzava di marcio, con il pavimento irregolare cosparso di
pozzanghere di acqua opaca. Per non sporcarsi Brour si arrotolò i calzoni ma
Lilli dovette rassegnarsi a lasciare che il vestito si rovinasse perché non pote-
va reggere la lanterna e tenere sollevata la gonna al tempo stesso; per fortuna
quella sera aveva scelto di indossare un vecchio abito che avrebbe potuto re-
galare a una serva per evitare che sua madre le chiedesse dove e come si era
sporcata.
«Pensi che quaggiù ci possano essere dei topi?» domandò.
«È probabile che ce ne siano, ma la luce li farà scappare.»
Infatti mentre camminavano cominciarono a sentire rumori che parevano
prodotti da piccole creature che si dessero alla fuga nell'oscurità; dopo qual-
che tempo, poi, la galleria cominciò a inclinarsi verso il basso e su un lato
apparve un canale di scolo che correva da una parte della pavimentazione ir-
regolare.
«Bene» commentò Brour, indicando il canale. «Se non altro alla fine del
passaggio non troveremo ad attenderci un lago. Questa è una cosa di cui sta-
vo cominciando a preoccuparmi, ma è evidente che devono aver disposto del-
le aperture per lo sfogo dell'acqua, da qualche parte.»
«Allora probabilmente è così che i topi vanno e vengono» replicò Lilli.
«Per favore, vuoi smetterla di parlare di topi? Io sto cercando di non pen-
sarci.»
Dopo una distanza che a Lilli parve di poco più di mezzo chilometro, la
galleria tornò a essere in piano e a correre diritta nel sottosuolo, anche se ogni
poche centinaia di metri effettuava qualche deviazione per aggirare enormi
colonne di pietra intagliata.
«Sai di cosa si tratta?» le chiese Brour, poi spiegò: «Queste sono le fonda-
menta delle mura esterne della città. Stiamo proprio uscendo da Dun De-
verry.»
«In che direzione stiamo andando?»
«Non ne ho la minima idea.»
Quale che fosse la direzione in cui erano avviati, la galleria era comunque
piuttosto diritta. Dopo circa un chilometro e mezzo, Brour dovette fermarsi
per inserire una nuova candela nella lanterna e, quando infine la galleria s'in-
clinò verso l'alto la distanza percorsa era ormai tale che anche quella candela
stava cominciando a consumarsi. Dopo averla sostituita, i due affrontarono
un'erta salita in cima alla quale il pavimento del tunnel tornò a farsi orizzon-
tale.
«Un'altra porta!» gongolò Brour.
In effetti davanti a loro il passaggio era bloccato da un'altra porta con gli
stessi rinforzi in ferro e gli stessi cardini di quella che si erano lasciati alle
spalle a Dun Deverry; per fortuna questo secondo battente si apriva verso l'e-
sterno e con maggior facilità del primo, anche se Brour riuscì a spostarlo sol-
tanto di una sessantina di centimetri. Oltrepassata la porta i due si vennero a
trovare in un'altra cantina, questa però priva delle porte in cima ai gradini che
portavano all'esterno. Dall'apertura giungevano folate di aria fresca pervase
dell'umidità della notte, e nel respirare a fondo Lilli ebbe l'impressione che
nessun profumo, per quanto costoso, avesse mai avuto un aroma migliore.
«Il passaggio comunica direttamente con l'esterno» sussurrò.
«Nelle cantine è una cosa abbastanza frequente» replicò Brour, poi Protese
la testa all'esterno e aggiunse: «Ah, capisco. Un tempo questa cantina si tro-
vava sotto un edificio di pietra di qualche tipo che però è stato raso al suolo
ormai da molti anni... e per noi è una fortuna che sia così, dato che avevo
paura che finissimo per sbucare nella grande sala di qualche nobile e per es-
sere costretti a fornire un mucchio di spiegazioni.»
Quando uscì all'esterno, Lilli vide intorno a sé soltanto scure forme di pie-
tra che incombevano sullo sfondo del cielo stellato ma quanto riuscì a distin-
guere le fu sufficiente per dedurre che stava vedendo i resti delle mura ester-
ne che un tempo avevano cinto una piccola fortezza. Adesso tutto era in rovi-
na e intorno a loro erbacce e rampicanti crescevano a profusione.
«È meglio tornare indietro» suggerì poi Brour, dopo aver osservato le stel-
le. «Non vorrei che domattina di buon'ora tua madre mandasse un paggio a
cercarmi e scoprisse che non ci sono.»
Sulla via del ritorno, adesso che l'eccitazione che l'aveva sostenuta all'an-
data si era dissolta, Lilli si rese d'un tratto conto di essere sfinita e si sentì as-
salire da brividi di freddo e dall'incontrollabile bisogno di sbadigliare, con il
respiro sempre più affannoso per la fatica di percorrere il tunnel in salita.
Quando infine emersero dalla galleria, la candela nella lanterna era ormai
consumata e nello spalancare le porte esterne della cantina Brour constatò
che il cielo si stava già tingendo del grigiore dell'alba.
«Devi rientrare subito» disse a Lilli. «Se ti spicci riuscirai a tornare nella
tua camera senza che nessuno ti veda e a liberare gli abiti dal fango prima che
qualcuno lo noti.»
«Vado subito» garantì Lilli, poi esitò, ripensando al Grande Re della Terra
che scintillava nella sua colonna di luce, e aggiunse: «Tutto questo è stato
splendido, Brour.»
Lui accennò a sorridere ma poi finì per sbadigliare.
«Ne parleremo più tardi. Ora sbrigati a rientrare.»
Lilli riuscì a raggiungere la propria camera prima che il resto della fortezza
si svegliasse e una volta là si liberò dei vestiti fradici, che appese a una sedia
per far asciugare l'acqua fangosa di cui erano inzuppati con l'intenzione di
spazzolare via più tardi il grosso del fango, poi si lasciò cadere sul letto e il
sonno la reclamò all'istante.

«Hai visto Lilli?» domandò Merodda.


«No» rispose Bevyan. «Ho chiesto di lei a un paggio poco fa e mi ha rispo-
sto che stava ancora dormendo.»
«Piccola creatura pigra! Mi occuperò di lei più tardi. Questo pomeriggio
sei richiesta alla presenza della regina?»
«No perché mi hanno pregata di assistere la moglie di Lord Arwan. La po-
veretta sta sempre molto male e se vuoi il mio parere quest'anno non sarebbe
neppure dovuta venire a corte.»
«Non è mai stata di costituzione robusta» convenne Merodda, poi contem-
plò la sua rivale per un momento e aggiunse: «Se vedi Lilli, per favore, dille
di venire da me.»
Quel pomeriggio Merodda andò dalla regina decisa a sfruttare l'occasione
che le si era offerta ma era ormai tarda ora quando le si presentò infine la
possibilità di parlare da sola con lei, approfittando del fatto che le sue serve
erano scese al fiume per fare il bucato e che le dame di compagnia erano state
richiamate altrove dai rispettivi impegni personali. Rimaste sole, la regina e
Merodda sedettero vicino a una finestra che permetteva di vedere il sottostan-
te cortile con il suo affaccendato via vai, che lo faceva assomigliare a un tap-
peto del Bardek su cui fossero stati sparsi i giocattoli di un bambino.
«Guarda!» esclamò Abrwnna, indicando. «Ecco Lord Belryc. A volte pen-
so che sia quello che mi piace di più... all'interno della mia Compagnia, in-
tendo dire.»
«Soltanto a volte, mia signora?» sorrise Merodda, osservando quel giovane
nobile, biondo e abbronzato, che guidava il cavallo verso le porte.
«Ecco, mi piacciono tutti. Oh, è così orribile continuare a chiedermi cosa
dirà la gente! Rhodi, pensi che io sia una poco di buono?»
«Naturalmente no, mia signora! Ho la massima fiducia che tu capisca
quanto è importante il tuo onore e so che ti comporterai nel modo più giu-
sto.»
«Ma è tutto così ingiusto!» esclamò Abrwnna, smettendo di osservare il
cortile per girarsi a guardare in faccia Merodda. «Le altre dame hanno degli
amanti!»
«Le altre dame hanno dato ai loro signori degli eredi legittimi, mia signora,
e per questo ora possono...»
«Ma questo è anche peggio! Passeranno anni prima che Olaen possa... ec-
co, sai cosa intendo. E sempre ammesso che si viva fino ad allora! Oh, dèi.
Rhodi. la gente crede forse che io sia un'idiota o qualcosa del genere? Pensi
non sappia che con ogni probabilità trascorrerò il resto della mia vita chiusa
in qualche lugubre tempio, sempre che Cerrmor non preferisca farmi strango-
lare?»
«Mia signora, ti tormenti inutilmente. Il Reggente ha radunato un buon e-
sercito e non siamo ancora stati sconfitti, tutt'altro.»
«Forse no» ribatté Abrwnna, scuotendo il capo, «ma io non voglio morire
vergine dopo essere rimasta rinchiusa per anni però non voglio neppure che
la gente spettegoli sul mio conto. Bevva dice che l'onore è come l'acqua e che
una volta che lo si è versato, anche ammesso che si riesca a rimetterlo nel
bicchiere, è comunque sporco.»
«Lady Bevyan ha una visione molto ristretta per quanto concerne questo
genere di cose» affermò Merodda, pronta a cogliere al volo quell'occasione.
«Però lei ti piace, non è vero?» domandò Abrwnna.
«Certo, mia signora, e sotto certi punti di vista ci comprendiamo molto be-
ne, dato che in queste guerre abbiamo perduto entrambe figli e terre.»
«Deve essere stato orribile.»
«Infatti» annuì Merodda, distogliendo lo sguardo e concedendosi un lieve
sospiro. «Le donne imboccano però strade diverse: alcune di noi imparano ad
afferrare ogni briciola di gioia che la vita offre, mentre altre... ecco, diventa-
no stranamente aspre e dure.»
«Aspre?»
«Quando si tratta di giudicare altre donne. Alcune diventano così, sai...
come la nostra Bevyan.»
«Davvero?» esclamò Abrwnna, protendendosi in avanti con le mani serra-
te. «Cosa intendi quando parli di giudicare gli altri?»
«Oh, a dire il vero mi sto comportando in modo molto sleale. È solo che
Bevyan ha condotto una vita davvero esemplare e forse per questo fatica a
comprendere che altre persone possono non essere forti quanto lei.»
«Parla continuamente del bisogno di essere forti.»
«Infatti, e ha ragione, naturalmente. Nella tua posizione, mia signora, non
sarai mai abbastanza cauta, perché quello che la corte pensa di te è in effetti
importante e potrebbe diventare pericoloso se nobili di rango elevato come il
Tieryn Peddyc cominciassero a dubitare del tuo onore. È per questo che...»
Merodda esitò, osservando il volto della giovane regina.
«È per questo che?» la incitò Abrwnna, in tono secco.
«Nulla, mia signora, nulla che ti debba preoccupare.»
«Smettila di schermirti. Stavi per dirmi qualcosa e voglio sapere di cosa si
tratta.»
«Bene, A volte mi chiedo cosa possa dire Bevyan al suo signore.»
Abrwnna sussultò, un suono destato però da un sincero allarme e non da
una delle sue consuete finzioni.
«È questo che intendo quando dico che Vostra Altezza deve essere molto,
molto cauta» riprese intanto Merodda. «Conosci il vecchio detto: puoi toglie-
re dal miele le mosche morte ma dopo il suo sapore non ti sembrerà altrettan-
to dolce. Il tuo onore è tutto ciò che hai nella vita e puoi crederti se ti dico
che ci sono una quantità di donne che giudicheranno quanto tu sia degna del-
la posizione che occupi. Le più vecchie sono le peggiori, sempre in attesa che
chi è migliore di loro commetta un errore!»
«Cosa vanno dicendo sul mio conto!» esclamò Abrwnna, alzandosi in piedi
di scatto.
«Vostra Altezza!» replicò Merodda, alzandosi a sua volta. «Cosa ti induce
a pensare che qualcuno abbia...»
«Oh, non mi trattare da stupida perché non lo sono e ho capito benissimo
cosa hai voluto sottintendere. Che cosa dicono?»
Merodda esitò, assumendo un'espressione incerta e travagliata, poi si arrese
con un sospiro.
«Soltanto quello che Vostra Altezza può pensare» affermò. «Naturalmente
si tratta della Compagnia. Tutti quei giovani nobili ai tuoi piedi! Puoi imma-
ginare quanto sono gelose le altre donne? Soprattutto quelle non più giova-
ni?»
«Non intendo sciogliere la mia Compagnia, no, no, no!»
«Benissimo. In tal caso Vostra Altezza dovrà stare molto attenta a scegliere
le persone a cui fare confidenze.»
«Non posso credere che Bevyan mi tradirebbe.»
«Non lo ha fatto... non che io sappia» replicò Merodda, esitando ancora,
«ma d'altro canto nessuno oserebbe ripetere quegli offensivi pettegolezzi in
mia presenza. Quando però le altre donne si mettono a parlare a volte è molto
facile lasciarsi trascinare dalla corrente, se capisci cosa intendo, soprattutto se
non approvi certe cose o per meglio dire soprattutto se sei preoccupato... e tu
sai quanto Bevva si preoccupi per te, proprio come faccio io. Per te noi vo-
gliamo soltanto il meglio.»
Scuotendo il capo Abrwnna si diresse a grandi passi verso la finestra e
quando Merodda accennò a seguirla si girò di scatto con il volto solcato di la-
crime.
«Vattene!» ingiunse. «Ho bisogno di riflettere su tutto questo. Lasciami so-
la!»
«Altezza!» esclamò Merodda, sentendosi raggelare per il timore di aver e-
sagerato. «Non intendevo sconvolgerti in questo modo. Imploro il tuo perdo-
no.»
«Oh, Rhodi, non si tratta di te! È che mi sento... mi sento tradita e devo ri-
flettere su Lady Bevyan.»
«Oh, per favore, non essere irata con lei. È animata dalle migliori intenzio-
ni.»
«Lo sono tutti, tutti hanno buone intenzioni. La povera, piccola regina, così
mi chiamano. Credi che sia stupida, che non lo sappia? Si suppone che io sia
sempre onorevole indipendentemente da quanto mi sento infelice, e tutti si
preoccupano che io possa macchiare il mio onore e io li odio tutti! Vattene»
esclamò poi, scoppiando in singhiozzi. «Via di qui!»
Merodda si congedò con un'affrettata riverenza e lasciò la stanza, ma men-
tre scendeva le scale un lento sorriso le affiorò sul volto.
Quando tornò nel suo appartamento chiamò a sé Brour e nel non avere ri-
sposta andò a dare un'occhiata nella sua camera da letto, scoprendo che era
vuota. Per un momento prese in considerazione l'eventualità di mandare un
paggio a cercarlo, ma poi decise che era troppo stanca per evocare visioni e
scese invece nella grande sala per osservare da lontano i grandi nobili intenti
a pasteggiare e a bere sidro; come le altre donne, anche lei poteva soltanto
avanzare ipotesi sulle cose di cui essi stavano discutendo in tono tanto urgen-
te.
Quella sera però, nell'osservare la luce del fuoco che si rifletteva su quei
volti sudati lei si sentì sfiorare dal dweomer e le parve di udire lo stridere dei
corvi che banchettavano su un campo di battaglia. Quella sensazione destò
nel suo animo un profondo senso di raggelante terrore, accompagnato dalla
spaventosa certezza che quella sensazione di paura non l'avrebbe abbandona-
ta mai più.

Circa due ore prima dell'alba, Lilli incontrò un'ultima volta il suo maestro
nella cantina deserta; vestito da viaggio e avvolto in un pesante mantello di
lana, Brour portava con sé come unico bagaglio il suo prezioso libro.
«Senza scorte di viveri non arriverai lontano» osservò Lilli.
«Oh, mi aspettano nella galleria. Ho nascosto un po' di viveri alla spiccio-
lata nel corso della giornata, approfittando del fatto che tua madre è rimasta
quasi tutto il giorno con la regina.»
In effetti quando aprirono la porta interna Lilli vide uno zaino appoggiato
alla parete; accesa la lanterna con uno schiocco delle dita, Brour riaccostò il
battente senza però richiuderlo del tutto.
«Correremo il rischio che qualcuno lo veda, perché da sola non riuscirai
mai a riaprirlo» commentò.
Frugatosi nelle tasche, consegnò a Lilli due candele da utilizzare per il tra-
gitto di ritorno, poi si tolse il mantello e lo arrotolò per legarlo allo zaino e in-
fine ripose il libro in una sacca di cuoio che infilò nello zaino prima di issar-
selo a fatica sulla schiena.
«Sono giunto a Dun Deverry come un venditore ambulante e me ne vado
nello stesso modo. Senza dubbio il Re di Eldidd apprezzerà i miei servigi,
quindi credo proprio che andrò a ovest» affermò, ma il modo in cui pose l'ac-
cento sulla parola "ovest" indusse Lilli a dubitare che le stesse mentendo.
«A ovest?» ripeté quindi.
«Infatti» confermò lui, senza però riuscire a guardarla negli occhi. «Ah,
forza, Lilli, prendi quella lanterna e mettiamoci in marcia.»
Dal momento che il peso dello zaino era tale da lasciare Brour a corto di
fiato, i due parlarono ben poco nel corso del lungo e faticoso tragitto nel pas-
saggio umido e scivoloso fino alla porta esterna. Arrivato dalla parte opposta
Brour posò lo zaino per spingere il battente e quando la luce del sole si river-
sò nella cantina si issò di nuovo in spalla il bagaglio per poi salire la scala se-
guito da Lilli, che si concesse una profonda boccata di aria fresca. Alla luce
del sole poteva vedere con chiarezza le rovine circostanti il passaggio... pareti
di pietra diroccata e travature carbonizzate, i normali resti di quella che do-
veva essere stata la fortezza di un nobile di rango minore. In alto numerosi
corvi neri volavano stridendo in cerchio intorno al moncone della rocca.
«Lilli, vieni con me» insistette Brour. «Temo davvero per la tua vita.»
«Non posso.»
«Ne sei certa, ragazza? Per gli dèi, tutta la città puzza di disastro! Ti giuro
che con me sarai al sicuro: non alzerò mai un dito su di te e ti tratterò come
una figlia.»
«Lo so, ma non dipende da me» rispose Lilli, poi esitò, chiedendosi come
mai si fidasse così tanto di quell'uomo, e alla fine proseguì: «Il mio posto è
qui. Sono una donna del clan del Cinghiale e non posso fuggire. Cosa pense-
rebbe Bevva di me?»
Brour sospirò, sfregandosi con aria riflessiva la bocca con il dorso della
mano.
«D'accordo» si arrese infine. «Forse tu sai cosa sia meglio per te e comun-
que sulla strada non saresti in ogni caso al sicuro. Il poco dweomer di cui di-
spongo mi può proteggere abbastanza bene, ma se gli uomini della banda di
guerra di qualche nobile dovessero invaghirsi del tuo bel volto, non potrei fa-
re nulla per fermarli. Ricorda di darmi un buon vantaggio prima di rivelare a
tuo zio l'esistenza del passaggio in modo da ottenere il suo favore.»
«Lo farò. E grazie ancora di tutto.»
Brour sorrise, si issò lo zaino in spalla e con un cenno di saluto si allontanò
fra le pietre diroccate. Lilli intanto si arrampicò su un tratto di muro per
guardarsi intorno e studiare l'area circostante, in quanto sapeva che zio Bur-
can avrebbe voluto sapere dove si trovava quel prezioso passaggio. A una
certa distanza verso il sole nascente scorse il Belaver, una striscia di argento
scintillante, mentre nella direzione opposta vide alcuni pascoli e una fattoria
abbandonata, con la casa in rovina e il terrapieno protettivo ormai coperto
dall'erba; da lassù riuscì anche a distinguere Brour che stava percorrendo un
sentiero polveroso dando le spalle al sole nascente, e dentro di sé gli augurò
buona fortuna, dovunque fosse diretto.
Scesa dal muro, rientrò nella galleria e sia pure a fatica riuscì a richiuderne
la porta, poi accese una nuova candela e si avviò in tutta fretta verso Dun De-
verry, tormentata da un timore che non l'abbandonò per tutto il tragitto: cosa
avrebbe fatto se avesse scoperto che qualcuno era entrato nella cantina e nel
vedere la porta aperta l'aveva chiusa, senza riflettere? Spronata da quella pau-
ra avrebbe voluto correre, ma non osava farlo perché la candela si sarebbe
spenta, lasciandola nell'oscurità più totale; quando infine raggiunse la salvez-
za offerta dall'altra cantina, la sua ansia era tale che era prossima al pianto.
Adesso tutto quello che le rimaneva da fare era informare zio Burcan del-
l'esistenza di quella via di fuga, ma considerato che Brour sarebbe stato ral-
lentato dal peso dello zaino decise che avrebbe aspettato almeno due giorni
prima di parlare. Spenta la candela richiuse la porta del passaggio, salì i gra-
dini che portavano nel cortile e si avviò per tornare alla rocca Principale,
guardandosi intorno con circospezione per evitare di essere vista da paggi che
avrebbero potuto parlare di lei a Merodda. Sapeva di dover evitare ogni con-
tatto con sua madre fino a quando non si fosse liberata degli abiti infangati.
Quando infine sgusciò non vista nella grande sala, si bloccò per la sorpresa
nel constatare che sebbene fosse soltanto metà mattina la tavola alta del re era
circondata di nobili furenti che discutevano in tono iroso con Burcan mentre
il giovane re si teneva nascosto alle sue spalle con aria spaventata; il suo
sguardo si posò poi sul Tieryn Peddyc, che era rimasta in disparte con le
braccia conserte e le labbra pallide per l'ira, ma prima che potesse chiedersi il
significato di quanto stava accadendo, una serva si accorse di lei e si affrettò
a raggiungerla.
«È terribile» sussurrò la ragazza. «La regina ha scacciato Lady Bevyan dal-
la corte.»
«Cosa? Perché? Come ha potuto fare una cosa del genere?»
«Non lo so, mia signora, ma scommetto che non c'è un motivo degno di
questo nome. Oh, che vergogna!»
Attraversata di corsa la grande sala, Lilli salì a precipizio le scale e si lan-
ciò lungo il corridoio fino alle camere di Bevyan, facendovi irruzione senza
neppure bussare; all'interno, Bevyan stava ripiegando con calma le lenzuola
per riporle in una cassapanca di legno in previsione del viaggio imminente,
mentre Sarra sedeva in lacrime su una sedia, vicino a lei.
«Hai saputo, vero, mia cara?» commentò Bevyan. «Non ti preoccupare,
non è una cosa grave.»
«Invece lo è! Come ha potuto? Ti ha fatto una cosa orribile!»
«È vero, mia cara, ma non è nulla che io non possa sopportare. Suvvia, Sar-
ra, smettila! Devi raccogliere le tue cose, quindi basta con quelle lacrime!»
Sarra si asciugò gli occhi con una manica.
«Così va meglio» approvò Bevyan. «Ora, perché non vai a prendere i pezzi
della camicia nuziale di Braemys per darli a Lilli? Non vorrei che finissimo
per portarli via per errore.»
Deglutendo a fatica, Sarra annuì e si alzò per obbedire. Non appena lei fu
uscita dalla stanza, Lilli si girò verso la madre adottiva.
«Ma perché?» domandò. «Perché ti ha mandata via?»
«Ha detto che ho destato la sua ira» spiegò Bevyan, sorridendo, «e non du-
bito di averlo fatto sul serio, sottolineando alcune verità. È una bambina
sciocca e si trova in una posizione terribile, per la quale non è abbastanza for-
te. Ora però aiutami a riporre queste lenzuola, mia cara, perché dobbiamo
partire oggi stesso.»
«Oggi? Oh, non è giusto!»
«Capita spesso che la vita sia ingiusta. Il mio signore ha inviato un mes-
saggero a Lord Camlyn e stanotte ci fermeremo nella sua fortezza.»
«Non sarai al sicuro, là fuori!»
«Peddyc ci ha fornito una scorta di trenta uomini, che una volta a casa fun-
geranno anche da guardia per la fortezza.»
«Ho visto il tieryn nella grande sala» osservò Lilli, prendendo una coperta
e cominciando a piegarla. «Sembrava furente.»
«Non ne dubito. Ha chiesto a Burcan di intercedere per me presso tua ma-
dre.»
«Mia madre?»
«In genere la regina fa quello che le suggerisce tua madre.»
All'improvviso Lilli ebbe l'impressione che le gambe rifiutassero di sorreg-
gerla e si sedette pesantemente sul bordo del letto disfatto, sfregandosi il vol-
to con entrambe le mani per impedirsi di piangere e di turbare ulteriormente
Bevyan. A dire il vero, più che di piangere aveva voglia di urlare di rabbia al
pensiero che in quello stesso giorno avrebbe perso le due uniche persone che
nella sua vita si fossero mai preoccupate di lei e del suo benessere.

«Mi vorresti spiegare perché hai fatto scacciare Lady Bevyan dalla corte?»
ringhiò Burcan.
«Non ho fatto nulla di simile» ribatté Merodda. «È stata la Regina A-
brwnna a...»
«Oh, tieni a freno la lingua! La regina fa quello che le dici tu.»
D'un tratto Merodda si rese conto con sorpresa che suo fratello era effetti-
vamente infuriato e si costrinse a sfoggiare il suo sorriso più conciliante.
«È una questione di donne, mio signore, nulla per cui tu debba sprecare il
tuo tempo.»
«Se il Tieryn Peddyc si sentirà insultato...»
«Ora capisco. Ebbene, Bevyan stava cominciando a chiedersi chi potesse
essere il vero padre di Lilli e mi ha fatto capire di saperne abbastanza da so-
spettare di... di noi. Dovevo fare qualcosa.»
Burcan si soffermò a riflettere e l'ira gli evaporò a poco a poco.
«Hai paura che la fedeltà di Peddyc venga meno, vero?» continuò Merod-
da. «Ebbene, ho il sospetto che Bevyan abbia avuto una certa voce in capitolo
anche in questo. Per lei va benissimo parlare della pace e di quanto sarebbe
bello porre fine alle guerre, considerato che lei e il suo signore otterrebbero
un condono nel caso di una vittoria dell'Usurpatore, cosa che a noi non ver-
rebbe di certo concessa.»
«Infatti. Però adesso che l'hai mandata via non potremo tenerla d'occhio. E
se fosse lei la persona che hai visto nei presagi, quella che sta complottando
contro di noi?»
«In tal caso forse la si dovrebbe eliminare definitivamente.»
«Sciocchezze! Non voglio sentirne parlare.»
«Perché no? Non mi fido di lei» insistette Merodda, fissando suo fratello
negli occhi, «e poi sei tu quello che si sta chiedendo se Peddyc è ancora fede-
le al nostro re. E se lui passasse dalla parte di Cerrmor? Quanti uomini porte-
rebbe con sé?»
«Troppi... ma, per gli dèi, non posso mantenere fedele un uomo assassi-
nandogli la moglie! Sei impazzita?»
«Per nulla. Ora siediti e ascoltami, perché ho un piano.»
Burcan la fissò per un lungo momento, poi scrollò le spalle in segno di re-
sa.
«Benissimo» concesse. «Non so perché spreco il mio tempo a dubitare di
te.»
Merodda sorrise a sua volta e gli permise di baciarla.

A causa del tempo perso a caricare il carro e a scegliere la scorta, era ormai
quasi mezzogiorno quando infine Bevyan lasciò Dun Deverry. Ancora furen-
te, Peddyc l'accompagnò a cavallo fino alle porte cittadine e poi per un altro
paio di chilometri al di là di esse. Quando arrivarono alla strada che portava a
ovest e verso Hendyr, il nobile fece arrestare il gruppo e si protese sulla sella
per baciare la moglie.
«Pensa a salvaguardare te stesso, amore mio» gli raccomandò Bevyan.
«Nella mia vita sono sopravvissuta a cose peggiori di questo insulto.»
«Davvero? Ebbene, è meglio che una cosa del genere non si ripeta, altri-
menti...» cominciò Peddyc, poi si controllò a fatica, guardando in direzione
dei suoi uomini, e infine proseguì, rivolto a loro: «Custodite bene la mia si-
gnora lungo il tragitto, ragazzi. Il messaggero dovrebbe avervi preceduti di
parecchio, quindi senza dubbio la moglie di Lord Camlyn vi starà aspettan-
do.»
«Sta' tranquillo, mio signore» rispose il giovane Doryc. capitano tempora-
neo della scorta, inchinandosi sulla sella. «E una volta a casa difenderemo la
fortezza fino al tuo ritorno. Non aver timori al riguardo.»
Peddyc si concesse uno stanco sorriso, poi sollevò una mano per segnalare
loro di rimettersi in marcia. Girandosi sulla sella, Bevyan si concesse di lan-
ciarsi un'ultima occhiata alle spalle in direzione del marito ancora fermo al
crocevia; quando poi lei agitò una mano in segno di saluto, Peddyc fece gira-
re il cavallo e si allontanò al galoppo verso Dun Deverry.
I cavalli si avviarono al passo nella gradevole ombra creata dagli alberi che
fiancheggiavano la strada e per qualche tempo Bevyan sonnecchiò sulla sella
mentre intorno a lei gli uomini della scorta chiacchieravano in tono sommes-
so e il carro procedeva fra uno scricchiolare di assali e un tintinnare di fini-
menti. Poi Sarra cominciò a intonare una delle lunghe canzoni che le donne si
cantavano a vicenda per passare il tempo mentre erano impegnate nei loro la-
vori e Bevyan accennò a unirsi a lei, ma si trattenne nel rendersi conto che
Sarra stava cantando la ballata di "Brangwen e Gerraent".
«Oh, non questa canzone!» esclamò in tono secco, poi subito aggiunse:
«Scusami, suppongo di avere i nervi un po' tesi.»
«Ma questa è una delle tue ballate preferite» obiettò Sarra, scoccandole u-
n'occhiata sorpresa.
«Preferisco cantare qualcosa di diverso, per esempio la ballata di Lord Be-
noic. Avanti, comincio io.»
Verso la metà del pomeriggio entrambe avevano cantato tante ballate da
avere ormai la gola indolenzita, e Bevyan era sul punto di ordinare una sosta
per riposare e abbeverare i cavalli quando più avanti sulla strada echeggiò
una voce maschile che gridò qualcosa di incomprensibile in tono minaccioso.
«Fermi!» esclamò il giovane Doryc, sollevando una mano. «Cosa succe-
de?»
Gli uomini si arrestarono ma le loro cavalcature presero ad agitarsi, d'un
tratto allarmate; un momento più tardi Bevyan sentì poi alcuni cavalli so-
praggiungere al galoppo alle sue spalle e nel girarsi sulla sella vide una squa-
dra di uomini armati che stava emergendo dagli alberi, dietro di loro. Poi Sar-
ra lanciò un acuto urlo di terrore quando un altro gruppo di cavalieri irruppe
sulla strada più avanti in modo da prendere fra due fuochi gli uomini dell'A-
riete,che si affrettarono a estrarre la spada imprecando nel vedere quegli sco-
nosciuti lanciarsi contro di loro al galoppo, segno che non intendevano perde-
re tempo a parlamentare.
«Cerrmor!» gridò d'un tratto Doryc, nel vedere che i nemici erano muniti di
scudi ovali su cui era dipinto lo stemma delle tre navi.
Poi la prima ondata di cavalieri si riversò su di lui e lo gettò di sella. Gri-
dando e vibrando colpi di spada, gli uomini della scorta cercarono allora di
fare un cerchio intorno alle due donne, ma i nemici furono loro addosso, nu-
mericamente superiori nell'ordine di due o tre contro uno. Bevyan era impe-
gnata a cercare di controllare il cavallo spaventato, che continuava a impen-
narsi e a scalciare, quando sentì Sarra lanciare un urlo che s'interruppe di col-
po e nel girarsi sulla sella vide la sua serva accasciarsi sanguinante sul collo
del cavallo. Assestato uno strattone alla propria cavalcatura, Bevyan la fece
girare e diede di sprone: reagendo al suo comando, il cavallo si lanciò allora
verso un lato della strada, ma due cavalieri furono pronti a intercettarlo e uno
di essi levò in alto la spada insanguinata, bloccandosi però poi a metà del ge-
sto per la vergogna quando lei lo fissò in volto.
«Che gloria c'è nell'uccidere delle donne?» chiese Bevyan, in tono rin-
ghiarne. «Che la Dea vi maledica tutti!»
L'uomo esitò, guardandola con espressione angosciata, ma il suo compagno
imprecò e si sporse dalla sella con la spada protesa.
«Burcan!» esclamò Bevyan, riconoscendo i grandi occhi azzurri visibili
sotto il bordo dell'elmo, poi fu assalita da un'ondata di dolore bruciante che la
fece crollare nella polvere della strada. Per un momento ancora il mondo le
vorticò intorno, quindi l'oscurità s'impadronì di lei, annullando anche l'inten-
so odore del sangue.
Invece di assistere alla partenza della madre adottiva, Lilli preferì nascon-
dersi nella sua camera e poiché era molto stanca per la lunga camminata nella
galleria sotterranea, finì per crollare addormentata sul letto... soltanto per
svegliarsi di soprassalto e sollevarsi a sedere di scatto con l'orecchio teso,
certa di aver sentito una donna urlare. Intorno a lei la camera era però immer-
sa nel silenzio e dalla finestra entrava la luce del tardo pomeriggio, punteg-
giata di granelli di polvere.
«Quella era la voce di Sarra» si disse, ad alta voce. «Suppongo sia stato
soltanto un brutto sogno.»
Un freddo e irrazionale senso di terrore sorse però ad avvilupparla in ma-
niera così totale che per un momento il respiro le si bloccò nel petto, e anche
dopo che si fu alzata quella sensazione continuò a tormentarla, facendola
tremare. Per sfuggire al silenzio che la circondava, si affrettò allora a scende-
re nella grande sala che cominciava a riempirsi di gente per l'approssimarsi
del pasto serale, ma una volta là si accorse di non riuscire a sopportare nep-
pure tutto quel rumore e preferì uscire all'esterno per girovagare fra cortili e
torri nella luce del crepuscolo, sempre accompagnata dal quel senso di terrore
che pareva artigliarle le spalle con dita gelide fino a farle dolere.
Le stelle cominciavano ad affiorare nel cielo ormai cupo quando infine si
venne a trovare nelle vicinanze delle porte principali, dove era in corso il
cambio della guardia e una fila di uomini stanchi stava scendendo dai bastio-
ni, lanciandosi richiami e parlando soprattutto della cena imminente. Proprio
mentre le porte cominciavano a chiudersi per la notte, Lilli sentì echeggiare
un corno d'argento sulla strada esterna, poi alcuni uomini gridarono e lei udì
un tamburellare di zoccoli misto a un tintinnare di finimenti. Subito le guar-
die proiettarono tutto il loro peso sulla leva dell'argano e bloccarono le porte,
che rimasero aperte dello spazio appena sufficiente a far passare un solo ca-
valiere per volta.
Il primo ad addentrarsi nel chiarore delle torce accese nel cortile fu zio
Burcan e nel vederlo Lilli si ritrasse nell'ombra del muro dove nessuno pote-
va accorgersi di lei mentre osservava il passaggio degli uomini del Cinghiale;
accorgendosi che alcuni di essi erano feriti, pensò che si fossero imbattuti in
qualche nobile che aveva tradito o in guerrieri di Cerrmor, poi notò che seb-
bene al pomo di ogni sella fosse appeso uno scudo dipinto con lo stemma del
Cinghiale, tutti i cavalieri portavano dietro la sella un oggetto a forma di scu-
do avvolto in vecchia tela da sacco. Trovando strana la cosa, si protese per
vedere meglio e il suo sguardo si posò su uno di quegli scudi, il cui sacco era
scivolato verso il basso quanto bastava per esporre lo stemma di Cerrmor...
una cosa ancora più strana che ebbe l'effetto di intensificare ulteriormente il
terrore che la attanagliava e di darle la certezza che fosse successo qualcosa
di terribile.
Dopo che la banda di guerra ebbe lasciato il cortile Lilli attese ancora a
lungo prima di risalire la collina e di tornare nella grande sala, dove i cavalie-
ri del Cinghiale avevano ormai preso posto ai tavoli insieme agli altri. Con-
statando che Burcan e Merodda non si vedevano però da nessuna parte. Lilli
si affrettò a salire le scale prima che chiunque si accorgesse di lei. perché se
nessuno le avesse riferito qualche messaggio di sua madre avrebbe potuto e-
vitare di presentarsi al suo cospetto. Purtroppo Merodda l'aveva vista sguscia-
re via e si affrettò a seguirla, raggiungendola sul pianerottolo.
«Lilli, aspetta! Ti devo parlare.»
Lilli si arrestò e compose il volto in un sorriso. Nel vedere Merodda che
avanzava verso di lei con espressione furente si rese poi conto che era arriva-
to il momento di mettere alla prova i suoi nuovi talenti e visualizzò la propria
aura in modo da mutarla in un duro muro liscio che le si parasse davanti, pro-
prio come le aveva insegnato Brour.
«Dov'è Brour?» chiese in tono secco Merodda. «Lo sai?»
«No, madre. Non è nelle tue camere?» replicò Lilli.
Merodda piegò il capo da un lato, scrutandola attentamente in volto, ma
Lilli continuò a sorridere e a immaginare la propria aura come un muro, che
trasformò in una fortezza di pietra che la circondasse.
«Non è nelle mie stanze e neppure nella grande sala» ammise infine Me-
rodda, «e neanche i bardi sanno dove sia. È davvero strano.»
«Se non sbaglio c'è una serva che gli piace. Ho sentito dei pettegolezzi al
riguardo» suggerì Lilli.
«Non ci avevo pensato» esclamò Merodda, con una risatina stupita. «Può
darsi che tu abbia ragione.»
Poi si volse e si allontanò per tornare nella grande sala mentre Lilli prose-
guì con passo tranquillo verso la sua camera anche se dentro di sé aveva vo-
glia di danzare per la gioia: aveva funzionato! Il trucco di Brour aveva fun-
zionato! Adesso non avrebbe più dovuto temere che sua madre riuscisse a ca-
pire quando le mentiva. Una volta sola nella sua camera, con lo sguardo fisso
sulle ombre che la candela proiettava sulle pareti di pietra, si ricordò però di
Bevyan e di come lei fosse stata allontanata dalla corte e tutta la soddisfazio-
ne derivante dal dweomer svanì. Quella sera rimase nascosta nella sua came-
ra e per fortuna Merodda non mandò un paggio a convocarla, ma poi per tutta
la notte fu tormentata da sogni orribili in cui una donna bionda, nuda sotto la
luce della luna e con la bocca irta di zanne insanguinate, si aggirava fra un
branco di pecore come un cane rabbioso, seminando strage.
Fu soltanto a mezzogiorno che Lilli apprese cosa avessero significato quei
presagi. Era seduta alla tavola di sua madre e stava cercando di mangiare del
pane che sembrava incollarlesi alla gola contratta quando la sua attenzione fu
attratta da un'improvvisa agitazione vicino alla porta. Apparve un messagge-
ro impolverato, che accennò un inchino al re e al Reggente ma non si fermò
davanti a loro e andò invece a inginocchiarsi accanto al Tieryn Peddyc. In
quel momento Lilli comprese cosa l'uomo fosse venuto a riferire e sentì un
rivolo di sudore freddo scorrerle lungo la schiena mentre il pensiero prendeva
forma dentro di lei: Bevva era morta. Senza neppure accorgersene si alzò in
piedi e si appoggiò con le mani al tavolo, protendendosi in avanti per osser-
vare il messaggero parlare in tono urgente con il tieryn mentre Anasyn si
sporgeva verso suo padre per ascoltare. D'un tratto Peddyc si tinse di un pal-
lore mortale, poi di un acceso rossore, quindi impallidì ancora e con un gesto
secco del capo si alzò dal proprio posto per dirigersi verso il tavolo reale.
Anche da dove si trovava, Lilli non ebbe difficoltà a vedere che Anasyn stava
piangendo.
«Siediti, Lilli!» ingiunse Merodda. «Cosa ti prende?»
Girandosi a guardarla, Lilli constatò che il volto di sua madre era la con-
sueta maschera liscia e inespressiva.
«Qualcosa ha turbato il giovane Anasyn» disse.
«Ah... è vero» replicò Merodda, guardando verso la parte opposta della sa-
la. «È strano.»
Dal modo in cui lei stava serrando le labbra e sgranando forzatamente gli
occhi, Lilli si rese conto che stava cercando di trattenersi dal sorridere; vol-
tandosi di scatto, vide Burcan alzarsi dal suo seggio per parlare con Peddyc
mentre intorno a loro il silenzio dilagava nella sala come un'onda che si stes-
se allargando da un sasso gettato in una polla, a mano a mano che i presenti
smettevano di conversare per sentire quello che i due stavano dicendo.
«Oh, dèi!» stridette d'un tratto la voce di una ragazza, echeggiante nel si-
lenzio. «Hanno assassinato Lady Bevyan e la colpa è mia perché l'ho manda-
ta via!»
Urlando, la regina balzò in piedi e lasciò a precipizio la sala, correndo ver-
so le scale. Alzatasi a sua volta, Merodda si affrettò a seguirla imprecando fra
sé, imitata dalle altre dame di compagnia, mentre nella sala tutti prendevano a
discutere e a gridare in tono concitato, parlando di quei guerrieri di Cerrmor
che si erano spinti così a nord e si erano mostrati talmente privi di onore da
uccidere delle donne sulla strada!
Immobile accanto al tavolo, Lilli si costrinse a cercare di riflettere e in un
primo tempo ebbe difficoltà a dare un nome alla sensazione che la stava per-
vadendo in un succedersi di ondate di gelo e di calore rovente. Alla fine però
riuscì a definirla: era odio. Sua madre in qualche modo aveva fatto assassina-
re Bevva, e anche Sarra, ne era certa perché le urla che l'avevano svegliata il
giorno precedente erano sufficienti a confermarle che Sarra era morta senza
bisogno che nessuno glielo dicesse.
«Razziatori di Cerrmor, vero?» sussurrò. «E zio Burcan e i suoi cavalieri
sono rientrati portando con loro scudi di Cerrmor.»
Nella confusione generale nessuno la sentì; ferma al suo posto. Lilli guardò
Peddyc e Anasyn lasciare la grande sala insieme al re e alla sua scorta, che
includeva il Reggente, numerosi gwerbret e lo stesso Tibryn.
Per tutto il pomeriggio Lilli si aggirò per la grande sala a caccia di infor-
mazioni. Il cavaliere che aveva portato la notizia era agli ordini di Lord
Camlyn. Quando Lady Bevyan e la sua scorta non erano arrivati come previ-
sto, la moglie di Camlyn aveva mandato una squadra di ricerca che aveva
trovato i corpi: erano stati uccisi tutti, perfino il piccolo paggio di Bevyan,
come se gli assalitori avessero voluto evitare di lasciare testimoni del loro
tradimento pur essendo stati tanto negligenti da abbandonare sul posto un
paio di scudi spezzati. Quando apprese quei dettagli Lilli sentì crescere le
proprie certezze, perché sapeva che Burcan non avrebbe osato permettere
neppure al paggio di sfuggirgli per timore che qualcuno potesse averlo rico-
nosciuto.
Verso sera Lilli s'imbatté poi in una serva che aveva sentito mentre il
Tieryn Peddyc conferiva con il re e apprese che Peddyc aveva avuto dal so-
vrano il permesso di lasciare l'indomani mattina Dun Deverry con i suoi uo-
mini per assistere al funerale della moglie; dopo sarebbe tornato per unirsi al-
l'esercito.
«Oh, è davvero infuriato» dichiarò la ragazza sgranando gli occhi. «Conti-
nua a giurare che nessun uomo di Cerrmor potrà mai più sperare di avere pie-
tà da lui! Scommetto che quest'estate ne ucciderà moltissimi.»
«Non ne dubito» annuì Lilli. «Dimmi una cosa. Ieri mattina il Reggente si
è recato nelle camere di mia madre?»
«A dire il vero sì. Perché?»
«Oh, l'avevo pregata di chiedergli un favore per me, ma data la situazione è
una cosa che può aspettare.»
Con un cenno di saluto la serva si allontanò per tornare al suo lavoro e d'un
tratto Lilli si rese conto di aver voglia di urlare di rabbia, di inveire contro
tutti e tutto... e contro nulla di specifico. Evitando le altre persone la cui vista
le riusciva intollerabile, si rifugiò nella propria stanza e sbarrò la porta, ap-
poggiandosi contro il battente e appuntando lo sguardo sui pezzi della cami-
cia nuziale di Braemys, ancora posati sulla cassapanca di legno dove li aveva
lasciati il giorno precedente. Quella era l'ultima cosa che Bevva le aveva da-
to.
«Perché non riesco a piangere?» esclamò.
L'odio sembrava aver prosciugato tutte le sue lacrime. Con gli occhi asciut-
ti, sedette sul letto a osservare il buio della sera infittirsi fuori della sua fine-
stra. La cosa peggiore era che nessuno avrebbe mai sospettato di questo cri-
mine né Burcan, l'autore materiale, né Merodda che, ne era certo, era stata l'i-
stigatrice di tutto. Brour le aveva sempre detto che un giorno sarebbe riuscita
a decifrare da sola i presagi a suo vantaggio e adesso in effetti comprendeva
cosa avessero voluto significare i suoi sogni.
«So la verità e otterrò vendetta... oh, quanto sono sciocca! Che cosa Posso
fare?» esclamò.
Di fronte a quella constatazione di impotenza scoppiò a piangere con il vol-
to affondato nel cuscino fino a scivolare nel sonno. Quella notte sognò anco-
ra, questa volta uomini armati e vendetta, e quando si svegliò di soprassalto,
scoprendo che la camera era immersa nel buio più totale tranne per un pallido
raggio di luna che filtrava dalla finestra, comprese che ancora una volta i pre-
sagi si erano manifestati e spettava soltanto a lei decifrarli. Sorridendo, si al-
zò dal letto e lasciò la sua camera.
Il Tieryn Peddyc e Anasyn occupavano ancora il vecchio appartamento di
Bevyan. Nel tempo che impiegò a raggiungerlo, Lilli sentì svanire il coraggio
che le era stato infuso dal sogno: e se Peddyc avesse rifiutato di darle ascol-
to? Se sua madre avesse scoperto che era andata da lui? Cercando di fare il
massimo silenzio possibile, continuò ad avanzare con passo furtivo, certa che
il suo respiro affannoso avrebbe finito per attirare sul posto ogni guardia pre-
sente in Dun Deverry. Quattro porte, cinque... poi sotto la sesta vide filtrare
una tenue luce, segno che Peddyc era ancora sveglio.
Attraversato di corsa il corridoio, si addossò alla parete accanto alla porta,
al di là della quale poteva sentire in modo vago voci maschili senza però ca-
pire cosa stessero dicendo. Sapeva che avrebbe dovuto bussare, ma cosa a-
vrebbe fatto se qualcun altro l'avesse sentita?
Nel corridoio buio nulla si muoveva, nulla faceva rumore, quindi alla fine
si costrinse a sollevare il pugno ma poi esitò ancora, con il sudore che le scor-
reva lungo la schiena: sarebbe dovuta scappare via per tornare nella sua ca-
mera prima che sua madre scoprisse la sua assenza, ma poteva lasciare Bevva
invendicata? Deglutendo a fatica, calò con forza il pugno sul battente di le-
gno.
All'interno le voci cessarono, poi una di esse salì di tono, accompagnata
dallo stridere della sbarra che qualcuno stava sollevando e subito dopo la por-
ta si socchiuse a rivelare il volto pallido di Peddyc.
«Lillorigga!» esclamò. «Cosa c'è, ragazza? Non riesci a dormire?»
«Sì» sussurrò lei. «Per favore, lasciami entrare.»
Perplesso lui si trasse indietro e Lilli sgusciò nella stanza, poi si arrestò ad
ascoltare con il cuore che le martellava nel petto mentre Peddyc rimetteva a
posto la sbarra; fermo accanto al focolare, Anasyn appariva composto, con il
volto atteggiato a una maschera indecifrabile, ma i suoi occhi erano rossi e
gonfi.
«Non sono stati gli uomini di Cerrmor» sbottò Lilli, consapevole che se
avesse aspettato ancora un momento avrebbe perso il coraggio. «È stato un
trucco degli uomini del Cinghiale. Li ha mandati mia madre, muniti di scudi
tolti al nemico.»
Peddyc la fissò a bocca aperta e vicino al focolare Anasyn si lasciò sfuggi-
re un gemito, come se fosse stato ferito. Lilli dal canto suo prese a tremare,
fradicia di sudore, ma si costrinse a proseguire.
«Li ho visti io» continuò. «Mio zio e i suoi uomini. Quella notte, dopo
che... dopo che Bevva è stata uccisa sono tornati alla fortezza su cavalli stan-
chi e avevano con loro scudi di Cerrmor. Nella fortezza ce ne sono molti, cat-
turati nel corso delle battaglie.»
Anasyn sollevò la testa di scatto, come un cervo che avesse fiutato i caccia-
tori.
«Io ho visto gli uomini del Cinghiale lasciare la fortezza» osservò poi. «Ri-
cordi, Padre? Ti ho fatto notare che alcuni guerrieri del Cinghiale erano usciti
con un carretto al seguito.»
Peddyc annuì, mentre una vena prendeva a pulsargli alla tempia.
«Questa mattina, quando è giunta la notizia, ho osservato mia madre e l'ho
vista sorridere» aggiunse Lilli, ritrovando d'un tratto il coraggio. «Ha cercato
di trattenersi ma ha sorriso, e so che dietro tutto c'è lei.»
Anasyn si tinse di un pallore spettrale alla luce della lanterna.
«Per gli dèi» sussurrò Peddyc. «Quell'essere immondo. È stato il Reggente
in persona, vero? Che ogni benedizione si riversi su di te, ragazza, per avermi
portato queste notizie.»
«Padre, voglio vendetta» dichiarò Anasyn, venendo avanti.
«Anch'io, e se Merodda non fosse la madre di Lilli andremmo nelle sue
camere a tagliarle la gola prima di partire e faremmo lo stesso con Burcan.
Però lei è la madre di Lilli e comunque gli dèi mi sono testimoni che non vo-
glio finire impiccato per aver vendicato mia moglie! Fammi riflettere, fammi
riflettere per un momento.»
Incapace di reggersi in piedi senza però capirne bene il perché, Lilli si ac-
casciò sulle ginocchia e subito Peddyc si chinò a prenderle le mani nelle pro-
prie.
«Avanti, siediti» le disse. «Sanno, versale un po' di sidro. Ora rilassati, ra-
gazza, so che ti senti in pezzi, e del resto chi ti può biasimare?»
Mormorando parole di conforto, Anasyn e un paggio la fecero sedere su
una sedia intagliata, le versarono del sidro e le sistemarono un cuscino dietro
la schiena, mentre il Tieryn Peddyc si avvicinava al focolare e indugiava a
meditare con lo sguardo fisso sulle fiamme. Quando si portò il bicchiere alle
labbra per bere un sorso di sidro, Lilli si rese conto che le mani le tremavano
al punto che il liquido ambrato vorticava all'interno della coppa.
«Devo tornare indietro» disse poi, posando il boccale sul tavolo. «Se si ac-
corge che mi sono assentata, lei ucciderà anche me.»
«Non ne dubito» replicò Peddyc, volgendo le spalle al camino. «D'altro
canto, quando io e i miei uomini non torneremo entro il tempo convenuto è
probabile che ti uccida comunque, se lei e il suo amato Reggente dovessero
intuire chi è stato a dirmi la verità. È meglio che domani tu venga via con
noi.»
«Mi porteresti via?» sussurrò Lilli.
«Naturalmente, se tu vuoi venire! Sei la mia figlia adottiva, giusto? E an-
che se non lo fossi, che razza di uomo sarei a lasciarti qui a portata di quel
bastardo assassino?»
Anasyn le si inginocchiò accanto con un movimento fluido e le prese le
mani nelle proprie.
«Vieni via con noi, Lilli» la incitò. «Ti vestiremo con alcuni miei abiti e ti
taglieremo i capelli, e nessuno si accorgerà di un servitore in più nel nostro
seguito. Poi sarai al sicuro a Hendyr oppure potrai venire con noi a Cerrmor,
se lo vorrai.»
«Cerrmor?» sussurrò Lilli, pronunciando quella parola come se si fosse
trattato di un incantesimo del dweomer. «Potrei venire a Cerrmor?»
«Sì, dannazione, e sarai la benvenuta» dichiarò Peddyc. «La nipote stessa
del capo del Cinghiale, passata dalla...» D'un tratto esitò, poi con occhi colmi
di lacrime concluse: «Passata dalla parte del vero re.»
Per il resto della notte nessuno dormì. Mentre Anasyn stava di guardia vi-
cino alla porta, il vecchio servo personale di Peddyc tagliò i capelli di Lilli,
che lei raccolse tutti in una sciarpa per portarseli dietro al fine di evitare che
sua madre li trovasse e li usasse per qualche lavoro del dweomer a suo danno;
quando ebbe finito si sporcò poi la testa e la guancia di cenere, come se fosse
stata un paggio che aveva dormito vicino al focolare, e nell'intimità della ca-
mera da letto indossò gli abiti maschili più logori che gli uomini fossero riu-
sciti a procurarle. Alla fine Anasyn, Peddyc e il servo vagliarono il risultato e
dichiararono che la sua identità era ben nascosta, ma lei non riuscì a smettere
di tremare.
Quando poi l'alba tinse il cielo di grigio il suo terrore d'un tratto si dissolse
per lasciare il posto a un gradito senso di torpore. Nel lasciare la stanza si ca-
ricò di una bracciata di sacche da sella e cercò di camminare come un ragaz-
zo, ma ben presto constatò che nessuno pareva accorgersi di lei, neppure il
capitano della banda di guerra di Peddyc quando venne a raggiungere il suo
signore nel cortile, dove i cavalieri si stavano radunando vicino alle grandi
porte. Seguito il vecchio servo nelle stalle, Lilli lo aiutò a sellare i cavalli di
Peddyc e di Anasyn.
«Ah, ecco un mulo per te, ragazzo» commentò il vecchio, indicando verso
uno stallo più lontano. «Mettigli la sella, poi legheremo dietro di te alcuni
sacchi di grano e potrai metterti accanto a me in fondo alla colonna, dove
nessuno ti degnerà di un'occhiata.»
In effetti alla fine nessuno mostrò di accorgersi di lei e Lilli uscì senza pro-
blemi da Dun Deverry in mezzo a una nube di polvere e fra una folla di uo-
mini che sbadigliavano. Davanti alla colonna si stendeva ora l'ampio prato
che rivestiva la collina su cui sorgeva la rocca reale, e al di là di esso la strada
descriveva una serie di curve tortuose in mezzo a un labirinto di contrafforti e
di mura, tutti strettamente sorvegliati. I cavalieri oltrepassarono una porta do-
po l'altra, ma le guardie che le sorvegliavano non degnarono Lilli di una sola
occhiata e neppure le sentinelle assonnate che stavano scendendo dalle mura.
Infine oltrepassarono anche l'ultima porta e non appena furono al sicuro
fuori delle mura esterne della fortezza, il vecchio servitore intercettò lo
sguardo di Lilli e le sorrise; mentre la banda di guerra procedeva a passo len-
to fra le rovine della città, la giovane si concesse infine il lusso di accasciarsi
sulla sella, appoggiata ai sacchi di grano legati dietro la sua schiena, certa
ormai di essere passata inosservata.
Davanti a lei apparvero poi le porte cittadine, oltre le quali erano visibili
campi verdi e il bagliore argenteo del fiume; mentre la colonna proseguiva in
fila per quattro. Lilli si volse sulla sella per guardare verso la fortezza che
spiccava grigia nel chiarore dell'alba con le sue molteplici toni e si chiese co-
sa avrebbe fatto sua madre quando avesse scoperto che se ne era andata. A-
vrebbe usato il suo dweomer oscuro per rintracciarla? Il terrore tornò ad assa-
lirla e il respiro le si bloccò in gola mentre il sudore le imperlava la fronte.
«Calmati, ragazza» sussurrò il servitore. «Adesso siamo fuori, sei libera e il
nostro buon tieryn farà in modo che tu rimanga tale. Per gli dèi, darei io stes-
so la vita per proteggerti, per gratitudine per averci rivelato la verità sulla
morte della nostra signora.»
Mentre parlava gli occhi gli si colmarono di lacrime e lui distolse il volto,
asciugandosi con una manica.
«Prego dal profondo del cuore che tu non debba mai farlo» replicò Lilli.
Mentre il sole saliva sempre più in alto nel cielo e l'alba cedeva il posto al
mattino inoltrato, la banda di guerra continuò la sua marcia verso ovest, diret-
ta verso la fortezza di Camlyn e i resti di Lady Bevyan.

«Brour se n'è andato» dichiarò in tono secco Merodda. «Con tutta quella
confusione dovuta alla morte di Bevyan, ieri non ho avuto il tempo di con-
trollare, ma ora so che se n'è andato portandosi dietro gli abiti e il suo libro,
tutto!»
«Davvero?» replicò Burcan. «Credi che stia tornando a Cerrmor per vende-
re quello che sa?»
«No. È andato via di là lasciandosi alle spalle una situazione per cui non
può tornare. Scommetto che è diretto a nord. Proviene dalle lontane Terre del
Settentrione e ha spesso accennato al fatto di sentire la mancanza della sua
terra e della sua gente.»
Burcan rifletté accigliato, il volto segnato e gli occhi gonfi alla luce del
mattino che filtrava dalle finestre della camera di ricevimento.
«Lilli mi ha detto che lui aveva una ragazza qui nella fortezza» continuò
intanto Merodda, «ma senza dubbio Brour le ha mentito, forse per lasciare
una falsa pista.»
«Lilli potrebbe evocare la sua immagine?»
«Questa è un'idea! Aspettami qui, vado a prenderla.»
Al suo ingresso nella camera della figlia, Merodda però la trovò vuota, an-
che se il letto era in disordine, segno che Lilli aveva dormito lì. Imprecando
fra sé si diresse verso la grande sala, ma arrivata alle scale incrociò un paggio
di ritorno dall'aver sbrigato qualche incarico.
«Cerca mia figlia e dille di venire nelle mie camere» ordinò.
«Subito, mia signora» rispose il paggio, allontanandosi con un inchino.
Al ritorno nel suo appartamento Merodda trovò Burcan che camminava a-
vanti e indietro davanti alla finestra e si sedette sulla sedia vicino al focolare,
osservandolo per qualche momento.
«Sei turbato?» chiese infine. «Per aver ucciso Bevyan, intendo.»
«Cosa te lo fa pensare?» domandò lui, soffermandosi a fissarla con aria
perplessa. «Sono preoccupato a causa del tuo scriba e di quello che può esse-
re in condizione di riferire... che credo sia parecchio.»
«Purtroppo sì» confermò Merodda.
«Come pensavo» annuì Burcan, lasciandosi cadere sulla sedia opposta alla
sua e protendendo le gambe davanti a sé con un sospiro. «Non ho dormito
molto, la scorsa notte.»
«Dubito che chiunque nella fortezza abbia dormito bene.»
Mentre aspettavano, Burcan si assopì con la testa china sul petto e nell'os-
servarlo Merodda si sorprese a ricordare suo padre, com'era stato tanti anni
prima, quando ancora lei non era stata data in moglie per servire gli interessi
del clan. Suo padre e Tibryn, che ne portava il nome, erano due gocce d'ac-
qua e lei li odiava in pari misura! Non aveva mai avuto nulla, tranne qualche
boccone che le gettavano, e neppure un vestito decente dal giorno in cui sua
madre era morta. Poi però aveva trovato un alleato in suo fratello, seducendo
Burcan nel solo modo che conosceva, e le cose per lei erano migliorate per-
ché quando aveva avuto un uomo disposto a prendere le sue parti, gli altri
due avevano infine dato ascolto ai suoi desideri e qualche volta li avevano
anche assecondati.
«Mia signora?» chiamò la voce del paggio, fermo sulla soglia. «Non riesco
a trovare Lillorigga da nessuna parte.»
«Oh, probabilmente si è rintanata a piangere da qualche parte a causa di
Lady Bevyan. Non importa... le parlerò a cena.»
Burcan intanto si riscosse con uno sbadiglio e si stiracchiò, aspettando a
parlare che il paggio se ne fosse andato.
«Non puoi evocare tu stessa la sua immagine?» chiese quindi.
«In effetti sì. Aspettami qui.»
Passata nella camera da letto, Merodda si sbarrò la porta alle spalle e s'in-
ginocchiò accanto al letto, tirando fuori uno dei numerosi cofanetti riposti
sotto di esso. All'interno c'erano due grosse bottiglie di cuoio accuratamente
tappate, un assortimento di vasetti di terracotta e perfino una bottiglietta di
vetro piena di alcuni cristalli grigiastri chiamati Sali dei Nani... un dono di
Brour, che sosteneva di essersi procurato nelle Terre del Settentrione quella
pozione dotata di un dweomer davvero potente, che operava per il bene come
per il male. Mescolati a un liquido e bevuti, quei cristalli erano un veleno
mentre, se usati come lavanda per il viso, mantenevano la pelle giovane e ra-
diosa. Accostando la bottiglietta alla finestra, Merodda constatò che era anco-
ra quasi piena, ma al tempo stesso si sentì assalire dall'angoscia al pensiero
che senza Brour non avrebbe ottenuto altre scorte di quei sali miracolosi.
Per un momento si concesse il lusso di desiderare che lui riuscisse a sfuggi-
re alla morte: dopo tutto Brour possedeva un po' di dweomer e lei avrebbe
potuto mentire a Burcan, dirgli che lo scriba si stava schermando con un in-
cantesimo e che lei non riusciva a evocarne l'immagine. Ma cosa sarebbe
successo se Burcan si fosse adirato con lei? Il ricordo della sua ira era ancora
fin troppo vivido nella sua memoria, come pure l'immagine del modo im-
provviso in cui le si era rivoltato contro, sferrandole un manrovescio che l'a-
veva scagliata contro un muro. D'impulso. Merodda si portò la mano libera al
volto come se stesse ancora sentendo il gonfiore della pelle offesa. Era suc-
cesso per via di Aethan... oh, dèi, Aethan! Era da anni che non pensava più a
lui, al solo uomo che avesse mai amato per se stesso... e che Burcan l'aveva
costretta a tradire.
«Ho davvero temuto che lui mi uccidesse» sussurrò nel serrare la mano su-
data intorno alla bottiglietta con tanta forza che essa minacciò di sfuggire alla
sua presa. Subito dopo si chiese poi a chi si fosse rivolta, se ad Aethan o forse
agli dèi stessi.
Scuotendo il capo, ripose infine i cristalli nello scrigno e prelevò la botti-
glia di cuoio contenente l'inchiostro nero, poi recuperò la bacinella d'argento,
anch'essa riposta sotto il suo letto, e la riempì con l'inchiostro. Sedutasi sul
pavimento a gambe incrociate si poggiò la bacinella in grembo e fissò la pol-
la di oscurità: anche se non possedeva il talento naturale di Lilli per evocare
presagi, aveva comunque appreso dal suo primo insegnante di cose oscure
come evocare l'immagine di persone che conosceva bene, quindi per trovare
Brour le bastò concentrarsi su di lui e mormorare un canto che di per sé non
aveva nulla di magico ma che era la chiave mnemonica necessaria per sbloc-
care quel particolare potere della sua mente. Subito la superficie dell'inchio-
stro parve vorticare e tremare.
Per prima cosa Merodda vide la luce del sole, poi una strada polverosa e
infine Brour che, con lo zaino in spalla come un ambulante, stava procedendo
lungo il fiume. Per gli dèi, possibile che nonostante tutto lui fosse davvero di-
retto a Cerrmor? Poi però il suo sguardo si posò sugli alberi e nel rendersi
conto che il sole del mattino proiettava nitide ombre verso ovest, alla sinistra
di Brour, lei annullò la visione scuotendo il capo. Era giunto il momento tan-
to paventato: doveva mentire a Burcan oppure dirgli dove si trovava Brour?
Memore dell'espressione che il volto di lui assumeva quando era in preda al-
l'ira, con le vene che gli si gonfiavano pulsanti alle tempie, posò con cura la
bacinella sul pavimento e lasciò la propria camera.
Al suo ingresso Burcan la fissò inarcando un sopracciglio con aria interro-
gativa.
«L'ho visto» annunciò Merodda. «Si sta dirigendo a nord e procede calmo
e tranquillo lungo il fiume con lo zaino in spalla, come un ambulante.»
«Bene!» ringhiò Burcan. «Intendo prendere alcuni dei miei uomini e dargli
la caccia, e se ha con sé del bagaglio non può essere andato lontano. Se poi
dovesse sfuggirmi informerò i miei vassalli che c'è una taglia sulla sua testa e
vedrai che loro me la porteranno in breve tempo!»
«Meraviglioso!» esclamò Merodda, costringendosi a sorridere. «Lui ha con
sé un tesoro, un libro.»
«Un libro?»
«Una cosa grossa, rilegata in cuoio, piena di segreti del dweomer.»
«Benissimo. Se lo vuoi, sarà tuo.»
Burcan lasciò la fortezza verso mezzogiorno, senza che ci fossero notizie di
Lilli. Giunse poi l'ora di cena, ma ancora Lilli non si fece vedere; spazientita,
Merodda mandò altri servitori a passare al setaccio la fortezza e quando essi
tornarono a mani vuote, decise di evocare l'immagine della figlia. Mentre si
dirigeva verso la scala per tornare nelle sue camere però un paggio la rag-
giunse di corsa.
«Mia signora, mia signora!» esclamò, prossimo alle lacrime. «La regina ha
appena cercato di uccidersi!»
Oh, dèi, quella piccola stupida! pensò Merodda.
«È viva?» si limitò tuttavia a chiedere ad alta voce.
«Sì, mia signora, ma ha la gola danneggiata perché ha cercato di impiccar-
si.»
Nella grande sala tutti si stavano girando per guardare e ascoltare, e ben
presto la notizia si diffuse ovunque in un succedersi di mormorii allarmati.
«Vado subito da lei» garantì Merodda.
Poi girò sui tacchi e si affrettò su per le scale, ma una volta sul pianerottolo
si volse per guardarsi alle spalle e vide che il paggio era stato attorniate dagli
uomini della Compagnia della Regina e che stava parlando animatamente
mentre loro lo ascoltavano in silenzio, pallidi in volto.
Merodda entrò nella sala delle donne senza bussare e trovò le dame di
compagnia di Abrwnna raccolte in un angolo, in lacrime; in fretta attraversò
la sala ed entrò nella camera della regina, che si apriva sul lato opposto. A-
brwnna era adagiata sul suo letto, con i capelli ramati sparsi sul cuscino che
spiccavano come un tramonto dorato sul candore delle lenzuola. Due dei me-
dici reali si stavano prendendo cura di lei: un uomo più giovane le stava ac-
costando una fiasca di liquido alle labbra bluastre per cercare di fargliene be-
re qualche goccia, mentre il vecchio Grodyn sorvegliava il suo operato con
espressione aggrondata. Quanto ad Abrwnna era così immobile che Merodda
temette che fosse morta fino a quando lei non aprì gli occhi per guardare fu-
gacemente nella sua direzione.
«Rhodi» sussurrò, con voce roca come lo stridere di una paletta di metallo
sulla pietra di un focolare. «Lasciatemi morire.»
«Sciocchezze» esclamò Merodda, avvicinandosi. «Mia amata signora.»
Una striscia di lividi purpurei cingeva la gola della regina e sotto un orec-
chio spiccava un'escoriazione la cui vista destò in Merodda un intenso senso
di gelo che la pervase da testa a piedi e le fece tremare le mani, senza però
che lei riuscisse a distogliere lo sguardo mentre il medico le parlava.
«Un brutto spettacolo, vero?» commentò con calma Grodyn. «Il livido è
stato prodotto dal nodo. L'hanno trovata appena in tempo: non si era data una
spinta sufficiente e il cappio la stava strangolando lentamente.»
«Ah, capisco» sì costrinse a replicare Merodda, ma dentro di sé sapeva che
a turbarla non era stato ciò che stava vedendo, ma un terribile presagio... un
giorno avrebbe forse visto quello stesso segno sul collo di Burcan?
«Stai bene, mia signora?» domandò Grodyn.
«Starò bene fra un momento! È così orribile! La nostra povera regina!»
Abrwnna intanto stava fissando il soffitto, rifiutandosi di guardarli. Inter-
cettato lo sguardo del medico, Merodda sillabò in silenzio la parola "vivrà?"
e per tutta risposta lui si limitò a scrollare le spalle, allargando le mani in un
gesto impotente.
«Ha la gola escoriata» spiegò il medico più giovane. «Sto cercando di darle
qualcosa per attenuare il danno.»
«Suvvia» disse Merodda, posando una mano sul volto di Abrwnna. «Fa la
brava ragazza e apri la bocca, mia signora. Appena poche gocce... per favore.
Vuoi farlo per la tua Rhodi? Nessuno ti biasima per la morte della povera
Bevyan. Sono stati quei mostri di Cerrmor.»
Abrwnna spostò lo sguardo su di lei per un momento ma continuò a tenere
le labbra serrate.
«Solo un piccolo sorso» insistette Merodda. «Per amore degli uomini della
tua Compagnia. Pensa, mia signora, se glielo chiederai, loro giureranno di
vendicare la morte della nostra Bevva.»
Abrwnna rifletté, poi aprì le labbra e sorseggiò il liquido.
«Poco per volta!» ingiunse in tono aspro Grodyn. «Non la soffocare, ra-
gazzo!»
Sedutasi in disparte, Merodda osservò i due uomini prendersi cura della lo-
ro regale paziente e si chiese cosa sarebbe successo se la regina fosse morta
per il danno alla gola. In quel caso il re avrebbe avuto bisogno di una nuova
moglie... era un vero peccato che Tibryn avesse insistito per scegliere già un
fidanzato a Lilli, ma del resto era accaduto altre volte che dei fidanzamenti
venissero infranti. Oppure la cosa sarebbe stata troppo evidente?
Forse sì, e lei avrebbe potuto finire per essere sospettata. Dopo tutto era un
bene che Abrwnna avesse cercato di impiccarsi e non di avvelenarsi, conside-
rati tutti i pettegolezzi che ancora circolavano in merito alla morte della cara
Caetha.
Avrei dovuto immaginare che avrebbero sospettato di me, pensò. Ma cosa
avrei fatto se Caetha mi avesse rimpiazzata negli affetti di Burcan? Che po-
sto mi sarebbe rimasto?
Il nauseante senso di gelo tornò ad assalirla e lei si portò una mano alla go-
la, tremando sebbene la stanza fosse ben riscaldata.

Il sole era ormai prossimo a tramontare quando il Tieryn Peddyc, i suoi


uomini e Lilli arrivarono alla fortezza di Lord Camlyn, dove Lady Varylla
venne ad accoglierli sulle porte con il capo coperto da una sciarpa nera.
«Tieryn Peddyc» cominciò, ma subito scoppiò in lacrime.
Per fortuna il suo vecchio ciambellano Gatto, l'unico vero servitore presen-
te alla fortezza, aveva visto nel corso della sua vita tanta morte e infelicità da
essere in grado di mantenere il controllo e mentre i servitori e i cavalieri si
occupavano dei cavalli, si trattenne nel cortile con Peddyc, Anasyn e Lilli per
spiegare loro come aveva gestito la situazione. I cavalieri morti erano stati
sepolti tutti in una tomba comune lungo la strada insieme alle due serve di
umile nascita, i cavalli ancora vivi erano stati radunati, le selle e le briglie di
quelli abbattuti erano state recuperate ed erano a disposizione del Tieryn.
Quanto a Lady Bevyan, a Sarra e al giovane paggio, che era stato anche lui di
sangue nobile, i loro corpi erano stati trasportati alla fortezza.
«Sono nella dispensa, mio signore» spiegò Gatto. «che è sempre fredda an-
che in estate. Quando il tuo messaggero è arrivato qui oggi, verso mezzogior-
no, la mia signora ha incaricato tutti i servi di setacciare i prati in cerca di fio-
ri che abbiamo disposto intorno alla tua signora. La vuoi vedere?»
«Sì, voglio vederla» rispose Peddyc, con voce calma e addirittura remota.
«Senza dubbio Sanno e Lilli vorranno accompagnarmi.»
La dispensa si trovava sotto la grande sala della fortezza di Camlyn e vi si
accedeva tramite una porta esterna ed erte scale di pietra rese pericolose dal-
l'umidità; in basso, la piccola stanza di pietra era attraversata da un rivolo
d'acqua che scorreva in un canale intagliato nel pavimento e l'aria era abba-
stanza fredda da indurre Lilli a rabbrividire. Nella dispensa i formaggi e le al-
tre scorte di viveri erano stati spostati su un lato e dall'altra parte della stanza
i tre morti giacevano affiancati su tavoli improvvisati mediante assi e caval-
letti. Bevyan era stata messa verso l'esterno, come se anche nella morte stesse
cercando di proteggere coloro che erano venuti a lei in cerca di una casa; in-
torno ai corpi erano stati accumulati ogni tipo di fiori, rose selvatiche e lillà,
lavanda ed erbe aromatiche, ma nonostante questo nell'aria aleggiava comun-
que un vago sentore di corruzione. Tenendo alte due lanterne, Gatto si sof-
fermò vicino alla scala in modo da permettere al tieryn e alla sua famiglia di
rendere omaggio ai morti.
Peddyc e Anasyn sostarono spalla a spalla davanti ai tavoli e nel guardarli
Lilli ebbe l'impressione di non aver mai visto degli uomini viventi farsi così
immoti, come se con la volontà si fossero mutati in pietra; per quanto la ri-
guardava, lei non riusciva invece a smettere di tremare per il freddo e per
l'angoscia. Il volto di Bevyan aveva assunto una fredda tonalità fra il grigio e
il bluastro e i suoi occhi scuri, che in vita erano sempre stati così vivi e alle-
gri, apparivano infossati e opachi; la pelle del volto e delle mani, che emer-
gevano dalla miriade di fiori, era coperta di vesciche bianche e quando
Peddyc si protese con estrema lentezza a sfiorare una guancia della moglie
con un dito una di esse si aprì esalando un'ondata di fetore.
«Sarai vendicata, amore mio» sussurrò il tieryn. «Ho sempre pensato che
saresti stata tu a dovermi seppellire e non avrei mai immaginato di dover giu-
rare vendetta sulla tua tomba, ma questo è ciò che farò.»
Interrompendosi, Peddyc girò appena il capo per guardare verso Anasyn e
Lilli.
«Lasciatemi solo» ordinò.
Lilli si affrettò a obbedire, lieta come mai in vita sua di eseguire un ordine.
Quelle non sono Bevva e Sarra, si sorprese a pensare. Loro se ne sono an-
date da tempo e quel che resta non ha nulla a che fare con ciò che erano.
Sconvolta, continuò a ripetersi quel pensiero nella speranza che l'aiutasse a
calmarla, ma alla fine Anasyn dovette sollevarla da terra all'ultimo gradino
perché le lacrime la accecavano al punto di impedirle di vedere dove andava.
Trascorse molto tempo prima che Peddyc tornasse a raggiungere Lilli, A-
nasyn e Varylla alla tavola d'onore, e al suo arrivo i servi stavano già dispo-
nendo sui tavoli cesti di pane e boccali di birra, che i cavalieri del tieryn be-
vevano uno dopo l'altro con espressione cupa, dall'altra parte della sala.
«Mia signora, hai i miei più umili ringraziamenti, che vengono dal profon-
do del cuore» disse Peddyc a Varylla.
«Vorrei soltanto non essermi dovuta trovare nella condizione di farti questo
favore, mio signore» rispose la donna.
Annuendo Peddyc accettò un boccale e bevve un lungo sorso di birra, Poi
si asciugò la bocca con il dorso della mano assumendo un'espressione rifles-
siva.
«Lady Varylla, prima di lasciare Dun Deverry ho avuto modo di scambiare
qualche parola in tutta fretta con il tuo signore» affermò quindi, «e lui ti ha
mandato un messaggio: tornerà a casa entro pochi giorni e tu dovrai tenerti
pronta a unirti a lui dopo aver caricato su un carro tutto quello che desideri
portare con te. Vi dirigerete da suo cugino, vicino a Yvrodur, che ti darà ospi-
talità e protezione mentre Camlyn continuerà verso il sud.»
Varylla impallidì, sgranando gli occhi, ma subito dopo sorrise e annuì in
segno di assenso.
Lacerata com'era dal dolore per la perdita di Bevyan, Lilli impiegò qualche
momento a capire ciò che Peddyc aveva appena detto alla moglie di Camlyn,
e cioè che Bevyan avrebbe avuto la miglior vendetta possibile: l'ira causata
dalla sua morte sarebbe costata al Cinghiale la perdita dei suoi alleati.
«E cosa mi dici del nostro gwerbret?» sussurrò intanto Varylla.
«Lui non si potrà svincolare se non dopo che l'esercito avrà lasciato Dun
Deverry, ma allora verrà a raggiungerci.»
Varylla annuì di nuovo e mantenne saldo il suo sorriso, sebbene fosse scos-
sa da un lieve tremito.
«Evita il più possibile che la cosa si risappia, perché non voglio che qual-
che servo si precipiti a riferire la notizia al clan del Cinghiale in cambio di
una manciata di monete» ammonì Peddyc.
«Hai ragione. Addurrò come scusa i miei timori, dicendo di aver fatto un
sogno orribile e che voglio tenere pronto il carretto carico perché sono certa
che tutto è perduto e che quell'orribile Usurpatore ci sarà addosso da un mo-
mento all'altro.»
«Eccellente!» approvò Peddyc, con un cenno deciso del capo, poi aggiun-
se: «Sanno, Lilli, voi due andate a dormire un poco. All'alba seppelliremo i
nostri morti e ci metteremo in viaggio.»

Per tutta la serata i visitatori si avvicendarono nella camera da letto della


regina, che giaceva immota nel letto e dava l'impressione di fare fatica a re-
spirare, cosa probabile dato che la gola doveva bruciarle in maniera orribile;
dopo qualche tempo Merodda si accorse però che Abrwnna stava comincian-
do a godere di essere al centro di quell'insolito interesse in quanto i suoi pic-
coli gemiti e la sua espressione sofferente erano troppo perfetti per essere ve-
ri. Quando infine la colse nell'atto di scoccare un'occhiata in tralice in dire-
zione di un cortigiano per verificare l'effetto del suo comportamento, Merod-
da ebbe infine la certezza che la regina sarebbe sopravvissuta.
Re Olaen arrivò dopo cena, portando un cavallino di legno sotto un brac-
cio, si arrampicò sul letto della regina e si sedette in fondo a esso a gambe in-
crociate, fissando Abrwnna con espressione solenne e stringendo il giocattolo
fra le braccia, un atteggiamento da cui Merodda dedusse che il bambino do-
veva essersi affezionato ad Abrwnna come a una sorella. Adesso che il re era
presente, gli uomini della Compagnia della Regina poterono essere ammessi
nella camera senza violare le convenienze e ciascuno di essi s'inginocchiò al
capezzale di Abrwnna per baciare la pallida mano che lei porgeva con estre-
ma fatica... uno sfinimento che doveva probabilmente essere reale, considera-
to che per poco non era morta.
«Mia signora?» mormorò infine Merodda. «Posso assentarmi per un mo-
mento?»
Adesso che i suoi cavalieri erano presenti, Abrwnna neppure si accorse che
la sua dama di compagnia stava lasciando la stanza.
Con la mente ancora concentrata sul problema della perdurante assenza di
sua figlia, Merodda si ritirò nella propria camera da letto, dove si servì del
fuoco che ardeva nel focolare per accendere le candele sul tavolo; recuperata
la bacinella d'argento che giaceva ancora sul pavimento dove l'aveva lasciata,
la sistemò fra le candele, si concentrò su sua figlia e ben presto l'immagine di
Lilli prese consistenza nell'inchiostro.
Con il volto bagnato di pianto, Lilli sostava accanto al corpo di una donna
deposto su un tavolo e coperto di fiori. Ma certo! Evidentemente Lilli era par-
tita di nascosto con il Tieryn Peddyc per andare a dire addio a Bevyan. Pen-
sando che Peddyc avrebbe riportato la ragazza con sé al suo ritorno alla for-
tezza e che quindi non c'era da preoccuparsi, Merodda bandì la visione con
uno schiocco delle dita. Dopo tutto, non poteva biasimare la ragazza, consi-
derato che in Bevyan aveva trovato una madre molto migliore di quanto lei
avrebbe mai potuto essere; con il tempo anche Lilli, come la stessa Merodda.
avrebbe imparato che il dolore e il lutto erano lussi al di fuori della portata
delle donne del clan del Cinghiale.
Con un sospiro Merodda si appoggiò all'indietro sullo schienale della sedia,
constatando di non riuscire quasi a ricordare il volto di sua madre anche se ri-
cordava ancora benissimo come lei era morta, uccisa da suo marito per esser-
gli stata infedele, abbattuta come una bestia nel cortile mentre correva urlan-
do verso le porte. Ricordava come avesse pianto per tutta la notte e come i
suoi fratelli avessero cercato di farla tacere, timorosi che anche lei venisse
uccisa dal loro padre furente. Nessuno aveva mai levato una voce di protesta
per quell'omicidio, che peraltro non era stato davvero un omicidio ma un atto
che rientrava nei diritti di suo padre, in qualità di signore della fortezza.
Merodda si rialzò in piedi con un altro sospiro. Avrebbe voluto andare a
dormire, ma sapeva che il suo posto era accanto alla regina, onde evitare che
qualche astuta dama di corte potesse sfruttare la sua assenza a proprio svan-
taggio; al suo ritorno nelle camere reali constatò che Re Olaen si era addor-
mentato sul letto di sua moglie e che Abrwnna stava sonnecchiando appog-
giata ai cuscini, sotto l'occhio vigile e ansioso dei medici.
L'indomani mattina sul tardi il raduno delle truppe ebbe finalmente inizio
con l'arrivo dei nobili le cui terre erano più vicine a Dun Deverry, ciascuno
scortato da tutti gli uomini votati al suo servizio e da quanti altri era riuscito
ad assoldare o a convincere; dietro ogni banda di guerra procedevano carri
carichi di sacchi di grano, di formaggi e di maiali stridenti. Salita sulle mura
con le altre donne, Merodda contò ogni contingente, ma a differenza delle al-
tre non esultò con il salire del numero dei guerrieri, perché conosceva troppo
bene la situazione e sapeva che Burcan aveva messo insieme quell'esercito
con suppliche, minacce e con la forza della disperazione: se nel corso dell'e-
state esso non fosse riuscito a fermare l'avanzata di Maryn, nulla avrebbe mai
più potuto arrestarla perché i nobili del settentrione... anzi, tutti i nobili del
regno... non avrebbero mai acconsentito a correre un simile rischio per due
estati di fila.
Burcan stesso tornò il giorno successivo verso mezzogiorno; Merodda si
trovava nella sua camera quando un paggio sopraggiunse di corsa per riferirle
che il Reggente era appena rientrato con la sua banda di guerra personale.
«Ha con sé molti nobili e cavalieri, mia signora.»
«Deve essersi unito a loro lungo la strada» rifletté ad alta voce Merodda.
«Ti ringrazio, ma per il momento non intendo scendere nella grande sala per-
ché sono certa che lui ha questioni importanti da sbrigare.»
Burcan però si presentò nella sua camera di lì a poco, con gli abiti e i ca-
pelli ancora impolverati e il passo reso rigido dalla stanchezza, ma con il vol-
to improntato a un sorriso e reggendo due sacchi.
«Ti ho portato un paio di doni» annunciò, porgendole una sacca di cuoio:
«Ho il libro che volevi, e ho anche questa.»
L'odore aspro di sangue rappreso che si diffuse nell'aria avvertì Merodda di
quale fosse il contenuto della sacca. Si costrinse a sorridere mentre l'apriva
per sbirciare all'interno: come si era aspettata, dentro c'era la testa di Brour,
con il moncone del collo annerito dal sangue rappreso, la pelle bluastra e ri-
gida, la bocca aperta a metà come se fosse morto nell'atto di gridare.
«Bene» commentò Merodda. «A quanto pare non dovremo più preoccupar-
ci di lui. Grazie, amore mio, mio unico e vero amore.»
Burcan scoppiò in una risata compiaciuta e serena che indusse Merodda a
ricordarlo com'era stato da ragazzo, prima che entrambi si sposassero, quan-
do era solito trovare per lei le prime viole di primavera e portargliele proprio
con quella risata perché potessero mangiarle insieme... un primo assaggio di
cibo fresco come presagio dell'estate imminente.

I servitori avevano scavato la tomba per Bevyan e per Sarra sotto una quer-
cia, nel prato che si allargava alle spalle della fortezza di Lord Camlyn, ma
una volta approntati i sepolcri, la vera difficoltà risultò essere quella di trasfe-
rire i corpi fuori della dispensa perché nessuno voleva trasportarli a braccia e
le scale erano troppo ripide per poter usare come barelle i tavoli su cui essi
giacevano. I servi continuarono a tergiversare e Gatto a imprecare contro di
loro finché Peddyc non si decise ad avvolgere Bevyan in una coperta e a por-
tarla fuori lui stesso, inducendo con il suo esempio i servi a fare altrettanto
con Sarra e con il paggio, il tutto in una confusione tale che per poco Lilli
non vomitò e che lasciò perfino Anasyn pallido e tremante.
Un volta che i corpi furono composti nella tomba, i servi li coprirono con i
fiori ormai appassiti ma a parte questo non ci furono altri riti o sacrifici fune-
bri perché il tempio più vicino si trovava a chilometri di distanza; per qualche
momento tutti rimasero immobili, chiedendosi cosa fare, poi Peddyc si rivol-
se a Gatto.
«Ordina di riempire le fosse» disse. «È tempo di metterci in viaggio.»
«Certamente, mio signore, e che gli dèi ti benedicano. Lady Bevyan è sem-
pre stata così gentile con me e la mia famiglia.»
«Lei era fatta così» replicò Peddyc; rivolto a Lilli aggiunse poi: «Se doves-
si stancarti, ragazza, ti legheremo sulla sella in modo da permetterti di dormi-
re, perché abbiamo intenzione di viaggiare il più velocemente possibile.»
«Benissimo, padre» annuì Lilli, ma continuò a indugiare vicino alla tomba
perché le sembrava orribile lasciare Bevyan in quel modo, senza neppure la
benedizione di un prete. Alla fine Anasyn la prese per un braccio e la trascinò
via quasi a forza.
«Pensi forse che a me non dolga il cuore?» le disse. «Lei però avrà la no-
stra vendetta, che sarà meglio di qualsiasi sudario di seta.»
Dal momento che i cavalli erano ben riposati, il Tieryn Peddyc e il suo
gruppo arrivarono a Hendyr sul finire del secondo giorno di viaggio dopo la
partenza dalla fortezza di Lord Camlyn e quando vide la torre familiare levar-
si all'orizzonte, Lilli infine comprese il commento di Peddyc in merito allo
sfinimento, perché si sentiva dolere in ogni muscolo. In passato era andata e
venuta da Hendyr tanto spesso che conosceva tutti i diversi punti di riferi-
mento... gli alti pioppi che crescevano accanto alla strada, la fattoria del vec-
chio Mori, la vista della rocca principale che appariva non appena oltrepassa-
ta l'ultima curva della strada. Questa volta però non avrebbe trovato Bevva ad
attenderla alle porte, né le sarebbe bastato salire di corsa la scala che portava
alla sala delle donne per poterla rivedere.
Quando la banda di guerra entrò rumorosamente nel grande cortile, i servi
si affrettarono ad accorrere fra l'abbaiare dei cani.
«Mio signore, mio signore!» esclamò il ciambellano Voryc. «Allora tutto è
perduto?»
«Non tutto» rispose Peddyc, protendendosi sulla sella per stringere la mano
che il ciambellano gli porgeva, «soltanto il mio cuore e la luce della mia vita.
Il regno è ancora integro.»
Voryc lo fissò con espressione interdetta.
«Lady Bevyan è morta» proseguì Peddyc, «assassinata sulla strada dal clan
del Cinghiale.»
Voryc gettò indietro il capo con un grido di dolore e nel guardarsi intorno
Lilli vide che tutti i servi stavano piangendo, con troppa veemenza perché
fosse un finto dolore esibito per compiacere il loro signore; per quanto la ri-
guardava, lei aveva però esaurito tutte le lacrime come aveva fatto pure A-
nasyn, che nell'aiutarla a scendere di sella le sussurrò una sola parola: vendet-
ta.
Quella sera la cena nella grande sala fu un pasto freddo messo insieme alla
meglio. La stanca banda di guerra mangiò qualcosa in silenzio, seduta ai ta-
voli a essa assegnati, e anche alla tavola alta nessuno parlava perché Peddyc
pareva non avere nulla da dire e Lilli e Anasyn preferirono seguire il suo e-
sempio. Quando però la cena si fu conclusa e venne servita la birra, Peddyc
ordinò a Voryc di convocare tutti i servi nella grande sala, sia che si trattasse
di cuochi, paggi o porcai, ed essi sopraggiunsero alla spicciolata, accalcando-
si in piedi fra i tavoli a cui sedevano i guerrieri.
Peddyc infine balzò sulla tavola d'onore e levò in alto le braccia per chiede-
re silenzio. «Ascoltatemi tutti,» esordì. «Alcuni di voi già sanno la verità sul-
la morte di mia moglie, sanno come sia stata Lady Merodda del Cinghiale a
farla assassinare sulla strada.»
Nella sala non echeggiò una sola parola né un'imprecazione: tutti i presenti,
guerrieri e servi, si limitarono a fissare il loro signore in attesa, anche se qua
e là qualcuno annuì come a indicare di aver sospettato che si potesse trattare
di qualcosa del genere.
«Lady Lillorigga!» chiamò poi Peddyc. «Alzati in piedi e riferisci di nuovo
la tua storia.»
Tutti i servi prestarono alla sua narrazione maggiore attenzione di quanta
ne avesse mai ottenuta il miglior bardo del re, mentre i cavalieri della banda
di guerra ascoltarono di nuovo la storia immersi nello stesso cupo silenzio
che avevano osservato la prima volta che l'avevano udita.
«Vi imploro di perdonarmi» concluse Lilli. «Oh, per favore, mi perdonate?
Non mi sono resa conto di quello che lei stava tramando se non quando è sta-
to troppo tardi.»
Nella sala echeggiò qualche mormorio, qualcuno annuì con aria gentile o
con una smorfia dolorosa sul volto, e tutti la guardarono con occhi pieni di
compassione.
«Io partirò per il sud domattina all'alba» affermò a quel punto Peddyc, con
la stessa calma con cui avrebbe potuto fare un commento sulla mitezza del
clima. «Andrò a raggiungere il vero re, a Cerrmor. Chi viene con me?»
Gli uomini della sua banda di guerra levarono il pugno in aria con un rug-
gito e lanciarono grida di applauso al suo indirizzo mentre lui gettava indietro
il capo e scoppiava in una folle risata berserker. Quella cacofonia di suoni si
protrasse per qualche momento, poi le grida si spensero e la risata morì in-
sieme a esse.
«Quanto al resto di voi, uomini liberi e servi vincolati» aggiunse allora
Peddyc, «potete venire con me o fuggire per salvarvi la vita, dato che il Cin-
ghiale occuperà Hendyr non appena saprà cosa è successo. Che i miei antena-
ti mi perdonino» mormorò poi, lasciando vagare lo sguardo sulla fila di sbia-
dite e lacere bandiere che ornava la sala, «ma non posso difendere la fortezza
e al tempo stesso servire il mio re.»

Nel centro dell'insieme di torri e di mura che costituiva Dun Cerrmor c'era
un giardino che, pur essendo di forma strana e largo appena un centinaio di
metri, era aggraziato da un piccolo ruscello con un ponticello di legno, da un
tratto di prato, da alcuni cespugli di rose e da un antico salice nodoso e con-
torto che alcuni sostenevano fosse stato piantato dall'anziano mago che un
tempo era stato al servizio di Re Glyn Primo, all'inizio della guerra civile; al-
tri invece ritenevano che quel mago fosse soltanto frutto della fantasia di un
bardo, ma naturalmente si sbagliavano.
Maddyn sedeva nell'ombra alla base dell'albero, intento ad accordare l'arpa.
Anche se si considerava soltanto un semplice menestrello, ultimamente tutti
lo trattavano come un uomo importante, il bardo della guardia personale del
principe, e di tanto in tanto lui si trovava a scuotere il capo con una risata nel
considerare quanta strada avesse fatto insieme alle altre daghe d'argento. Ap-
pena pochi anni prima erano stati soltanto un lacero gruppo di mercenari sen-
za un brandello di onore mentre adesso vivevano usufruendo di tutto lo
splendore che Dun Cerrmor aveva da offrire, e questo grazie al fatto che il lo-
ro capo, Caradoc, era un uomo che sapeva interpretare i presagi quando gli si
presentavano.
Mentre Maddyn lavorava, i membri del Popolo Fatato gli si raccolsero in-
torno a poco a poco, soprattutto spiritelli e gnomi anche se di tanto in tanto
un'ondina emergeva dal ruscello per scrollare i lunghi capelli argentei intrisi
d'acqua e soffermarsi un momento ad ascoltare; accanto al bardo sedeva il
consueto spiritello azzurro, il suo preferito, una creatura bellissima finché
non sorrideva, rivelando una bocca irta di piccole zanne aguzze.
Ogni volta che qualche gnomo cercava di avvicinarsi troppo a Maddyn, lo
spiritello lo aggrediva mordendo e graffiando fino a costringerlo alla fuga e a
mantenere per sé quella posizione privilegiata; quando poi Maddyn finì di
accordare lo strumento e si mise a suonare, tutte le creature sedettero in silen-
zio sull'erba ad ascoltare estasiate.
«Maddo! Ah, eccoti qui.»
I membri del Popolo Fatato balzarono in piedi e svanirono, e nel sollevare
lo sguardo Maddyn vide sopraggiungere il più intimo amico del Principe...
anzi, forse il suo unico amico... che stava attraversando il prato diretto verso
di lui. Il Consigliere Nevyn era un uomo ormai anziano, con una massa di ar-
ruffati capelli bianchi e la pelle rugosa quanto la corteccia di un albero, ma il
suo passo conservava un vigore degno di un giovane guerriero e tutti ritene-
vano che fosse la sua conoscenza delle erbe a mantenerlo così forte, dato che
dopo tutto lui era stato un medico prima di entrare al servizio del principe;
personalmente, Maddyn riteneva però che il vigore del vecchio fosse da attri-
buire al suo indubbio sapere nel campo del dweomer piuttosto che a un sa-
piente uso di erbe e radici.
«Sì, sono qui» replicò Maddyn. «Hai bisogno di me?»
«Sì, come testimone. Sarai il rappresentante della guardia del principe alla
sessione del consiglio.»
«Quale sessione del consiglio?»
«Quella che sta per cominciare. Vieni con me e vedrai.»
Nella sala reale del consiglio di Dun Cerrmor il principe in persona era in
attesa insieme a un paio di fidati consiglieri. Il primo di essi, Gavlyn, il grigio
e corpulento capo degli araldi della corte reale, era fermo accanto a un lungo
tavolo di quercia e stava srotolando tre grandi pergamene che agitò come fos-
sero state lenzuola prima di distenderle sul tavolo con la massima cura. Intan-
to il suo collega, il massiccio e calvo Consigliere Oggyn, si protendeva in a-
vanti per studiare i documenti nell'accarezzarsi la barba scura striata di gri-
gio.
La luce del sole che si riversava da una stretta finestra andava a cadere sul-
la lucida superficie del tavolo e si rifletteva sui capelli biondo miele del prin-
cipe e sull'enorme spilla d'argento che gli tratteneva il plaid su una spalla.
Nei cinque anni di governo come Gwerbret di Cerrmor e Principe Eredita-
rio di tutta la parte di Deverry che era riuscito a occupare, Maryn sembrava
essere invecchiato di dieci anni e adesso era un uomo e non più il ragazzo in-
nocente dal sorriso spontaneo che tanto tempo prima le daghe d'argento ave-
vano giurato di servire. Ora i suoi occhi grigi sembravano contemplare il
mondo da una distanza inaccessibile ai comuni mortali e quando parlava la
sua voce sommessa era pervasa di autorità.
«Benissimo, ora ci siamo tutti» commentò Maryn. «Passiamo alla questio-
ne in esame.»
«Si tratta di scegliere un nuovo stemma per il futuro regno» spiegò il Con-
sigliere Oggyn, a beneficio di Maddyn.
«È un problema di legittimità» aggiunse Nevyn, «perché lo stemma dello
stallone bianco agli occhi della maggior parte della gente contrassegnerà
sempre uno straniero proveniente da Pyrdon.»
«Suppongo di sì» convenne il Principe Maryn, fissando le pergamene con
espressione accigliata. «Dunque questi sono gli antichi clan?»
«Sono i clan in relazione ai quali Vostra Altezza può vantare qualche a-
scendenza» spiegò il capo degli araldi, venendo avanti. «Come ha sottolinea-
to il tuo erudito consigliere, il nodo del problema è la legittimità.»
Seduto in un angolo della sala del consiglio, Maddyn si limitò a rimanere
in silenzio e a osservare gli altri, fin troppo onorato dal semplice fatto che
fosse stata richiesta la sua presenza per osare di intervenire nel dibattito che
da quel momento prese piede riguardo ai meriti e ai demeriti di questo o quel-
lo stemma. Alla fine Nevyn si protese in avanti e posò un dito su una pagina.
«Il Grifone Rosso offre buone possibilità» affermò. «Lo stemma del falso
re è un grifone verde e mi piace l'idea di appropriarcene in maniera quasi to-
tale.»
Scoppiando a ridere, Maryn lasciò vagare per un momento lo sguardo sui
presenti.
«L'idea piace anche a me» affermò. «Tu che ne pensi, Oggyn? Vogliamo
appropriarci dello stemma, per essere all'altezza del titolo di usurpatore che
ci hanno appioppato?»
«Perché mai Vostra Altezza non dovrebbe farlo? Questo clan ai suoi tempi
era molto importante e rispettato.»
«E tu che ne dici, buon araldo?»
«Mi sembra una buona scelta, mio signore» annuì Gavlyn. «Suggerirei un
grifone rampante, in modo da conservare la stessa posizione dello stallone di
Pyrdon.»
D'un tratto Maddyn percepì alcune grida lontane e si rese conto che quello
era un suono che stava già sentendo a livello inconscio da qualche tempo. Al-
zatosi in piedi si avvicinò alla finestra e scorse una colonna di uomini impol-
verati e di cavalli esausti entrare nel cortile sottostante ed essere circondati da
uno sciame di servi. Per un momento suppose che si trattasse di qualcuno de-
gli alleati che stavano aspettando, ma poi il suo sguardo si posò sullo scudo
di uno degli uomini che stavano smontando di sella.
«L'Ariete!» gridò, così sorpreso da dimenticare dove si trovava e da parlare
ad alta voce. «Per tutti gli dèi, l'Ariete di Hendyr è passato dalla nostra par-
te!»
«Cosa?» esclamò Maryn, girandosi verso di lui con un sorriso. «Allora gli
dèi ci favoriscono davvero. Questa è una cosa che non mi sarei mai aspettato
di vedere.»
«Neppure io, Vostra Altezza» convenne Oggyn. «Posso essere tanto auda-
ce e impertinente da suggerire che la tua reale persona si degni di accogliere
personalmente il Tieryn Peddyc?»
«È quello che farò, buon consigliere, è quello che farò.»

Nel corso del lungo viaggio verso sud, Lilli aveva cavalcato in testa alla
colonna accanto a Peddyc e ad Anasyn, ma aveva conservato l'abbigliamento
maschile; adesso tutti e tre erano fermi accanto ai loro cavalli e stavano con-
templando a bocca aperta la massa delle torri di Dun Cerrmor, costruite in a-
renaria chiara e con i tetti di ardesia scura; bandiere dai colori vivaci con lo
stemma delle tre navi sovrastavano ogni soglia e pennoni bianchi e azzurri
sventolavano sotto la sferza del vento di mare, sempre più teso. Le porte della
rocca principale avevano cardini di lucido ottone, i servi e i soldati dall'aspet-
to ben nutrito che stavano venendo loro incontro erano vestiti per lo più con
abiti nuovi o a stento rammendati.
«È un luogo splendido» sussurrò Lilli ad Anasyn.
«Sì, ma ora vediamo che sorta di uomo è questo principe.»
Intorno a loro la calca si stava facendo sempre più fitta, ma nessuno accen-
nava una sola parola di benvenuto e tutti si limitavano a fissarli con espres-
sione severa, un'accoglienza che indusse Lilli a ricordare il suo primo viaggio
a Dun Deverry dopo gli anni vissuti a Hendyr. Anche allora aveva sostato in
questo modo accanto al suo cavallo, mentre un paggio correva a cercare sua
madre e a riferirle l'arrivo del Tieryn Peddyc e della sua figlia adottiva, e an-
che allora aveva provato quella stessa mescolanza di timore e di impazienza
nel chiedersi che aspetto avrebbe avuto sua madre e con quanta generosità
avrebbe trattato quella figlia ritornata. In quel caso il timore si era rivelato il
presagio più esatto.
Poi all'interno di Dun Cerrmor echeggiarono le note di un corno d'argento,
le porte vennero spalancate e un uomo alto e avvenente le oltrepassò alla te-
sta di un gruppo di guardie armate: il plaid di Cerrmor gettato su una spalla e
fermato con una grande spilla d'argento indicava quell'uomo come Maryn,
principe e aspirante re. Nel fissarlo, Lilli ebbe l'impressione che intorno alla
sua persona la luce del sole brillasse più intensa che in qualsiasi altro punto e
che una brezza soffiasse solo per lui e gli agitasse i capelli biondi; dove
Maryn si trovava, il mondo sembrava stranamente più largo, tanto che Lilli si
trovò a ricordare il Grande Signore della Terra e come la stanza si fosse
riempita di vita quando Brour lo aveva invocato.
In silenzio, tutti gli uomini al servizio del tieryn s'inginocchiarono, Peddyc
prima degli altri e subito imitato da Lilli e da Anasyn quando Maryn prese ad
avanzare verso di loro.
La sua andatura ebbe l'effetto di affascinare Lilli, perché lui sembrava trat-
tenere a ogni passo l'irrefrenabile impulso di correre e di saltare come un ra-
gazzo; dietro il principe procedevano la sua scorta... uomini che indossavano
camicie di lino tutte uguali, ciascuna con una daga grigia ricamata su una
manica... e un vecchio dal passo scattante quanto quello di un guerriero. Nel
vedere Nevyn, Lilli lo riconobbe immediatamente e spostò la propria atten-
zione sul suo volto: in effetti quel vecchio aveva un'aria gentile, ma lei non
poteva dimenticare che Brour lo aveva definito un uomo pericoloso e un ma-
go.
«Allora, cosa ti conduce a me, Tieryn Peddyc?» chiese Maryn.
«Vostra Altezza, sono venuto a implorare perdono per me e per i miei uo-
mini, per aver alzato in passato la spada contro di te.»
«Non ho mai sentito richiesta che mi facesse più piacere accogliere» sorri-
se il principe, protendendo una mano. «Alzati, dunque, e vieni nella mia sala
dove berremo del sidro insieme. Ho offerto il condono senza condizioni e
senza condizioni esso sarà tuo.»
Il principe si espresse cosi bene, come in una vecchia saga, che Lilli sentì
gli occhi che le si colmavano di lacrime. Accanto a lei Peddyc cercò di parla-
re, ma in lui il pianto ebbe il sopravvento su qualsiasi parola quando il prin-
cipe si protese in avanti e lo aiutò personalmente a rialzarsi in piedi: scoccan-
do un'occhiata verso Anasyn, Lilli si accorse che suo fratello sembrava con-
templare un dio e non un principe, a giudicare dall'espressione adorante che
aveva nello sguardo. Intorno a loro intanto gli uomini del tierun si rialzarono
a loro volta applaudendo e il principe si rivolse a loro con una risata.
«Siete pronti a tornare a Dun Deverry?» esclamò. «Con me?»
«Sì!» fu il grido che echeggiò come una campana in tutto il cortile, poi
qualcuno cominciò a inneggiare al re e altri si unirono a lui finché Maryn non
sollevò le braccia per chiedere silenzio.
«Non sono ancora re!» gridò. «Non intendo reclamare quel titolo finché il
sommo prete di Dun Deverry non avrà confermato che gli dèi me lo hanno
concesso di diritto.»
Nel guardarlo mentre parlava. Lilli si sentì pronta a giurare che un raggio
di sole più intenso degli altri lo stava illuminando; intorno a lei. gli uomini
stavano ascoltando affascinati, come in trance.
«Molti anni fa» proseguì Maryn, «al mio arrivo a Cerrmor ho cominciato a
pensare di essere già re, ma i preti sono venuti da me e mi hanno detto che il
Grande Bel esige umiltà da coloro a cui elargisce il suo favore. Essi mi hanno
detto che finché non avessi conquistato la grande spilla della sovranità, non
avrei avuto nessun diritto di definirmi Sommo Re, quindi io ho fatto ciò che
gli dèi si aspettavano da me e ho rinunciato a quel titolo.»
Gli uomini annuirono, fissandolo con espressione assorta e adorante.
«Perciò» concluse Maryn con un sorriso, «sarà meglio che ci spicciamo ad
arrivare a Dun Deverry, giusto? Partiremo presto, ma per il momento venite
dentro e riposate.»
I guerrieri applaudirono ancora, poi il principe convocò con una risata i
servi in attesa perché prelevassero i cavalli e accompagnassero i cavalieri agli
alloggiamenti; accanto a lui Peddyc sì asciugò gli occhi con una manica e ri-
trovò infine la voce.
«Mio signore» disse a Maryn, «ti posso presentare mio figlio Anasyn e la
mia figlia adottiva, Lillorigga?»
«Certamente» replicò il principe, girandosi verso Lilli con espressione sor-
presa, per poi rivolgerle un rapido inchino pieno di grazia mentre aggiunge-
va: «Ti chiedo scusa, mia signora, per averti scambiata per un ragazzo. Devi
essere stanca per il viaggio. Chiederò a una delle donne di accompagnarti
nella sala di mia moglie, dove lei ti accoglierà di certo con Piacere.»
«Ti ringrazio, mio signore» replicò Lilli, faticando a parlare. «Sei molto
generoso con una come me.»
«Mio signore?» intervenne Nevyn, venendo avanti. «Posso avere l'onore di
scortare questa dama? Per quanto possa sembrare strano, ci siamo già incon-
trati.»
Anche se il vecchio stava sfoggiando un gradevole sorriso, Lilli si sentì
tremare di fronte a quegli occhi azzurri che sembravano intrappolare il suo
sguardo e trapassarle l'anima. Quando poi cercò di rinforzare la propria aura,
il vecchio inarcò un cespuglioso sopracciglio con aria sorpresa e distolse lo
sguardo.
«Hai bisogno di riposo, mia signora» le disse. «Dopo faremo una piccola
chiacchierata.»
«Lilli?» intervenne Anasyn. «Sei certa di cavartela da sola? Abbiamo un
grande debito nei confronti di mia sorella, mio signore» proseguì, rivolto a
Nevyn, «e intendo essere certo che sia trattata bene.»
«Lo sarà» dichiarò il Principe Maryn. «Te lo garantisco personalmente,
Lord Anasyn.»
Anasyn rispose soltanto con un profondo inchino.
Scoccato al fratello adottivo un rapido sorriso per rassicurarlo, Lilli si la-
sciò condurre via da Nevyn e lungo il tragitto si trovò a ricordare nuovamente
le sue prime ore a Dun Deverry, quando la fortezza le era parsa enorme e
complessa al punto da farle pensare che non sarebbe mai riuscita ad aggirar-
visi per conto proprio. E le persone, poi! Presto avrebbe incontrato una marea
di persone nuove che avrebbe dovuto imparare a conoscere e a valutare. Se
non altro, però, adesso almeno non era più la bambina che era entrata a Dun
Deverry tutta fiducia e buona volontà, adesso sapeva cosa volesse dire vivere
in una corte.
Mentre attraversavano il cortile, Nevyn non disse nulla e quando entrarono
in una delle rocche laterali commentò soltanto che la sala della principessa si
trovava due piani più su.
«A me è permesso di entrare a causa della mia età così avanzata.»
«Benissimo, mio signore» rispose Lilli, non sapendo che altro dire.
La sala della principessa risultò essere ampia e soleggiata, una camera che
occupava metà di uno dei piani rotondi della torre. Tappeti del Bardek in az-
zurro e verde coprivano il lucido pavimento di legno, arazzi nuovi erano ap-
pesi fra tutte le finestre che erano dotate di imposte di legno, intagliate con
fregi e navi stilizzate. Sparse per la stanza c'erano alcune sedie e grandi cu-
scini posati sul pavimento, mentre su alcuni piccoli tavoli erano deposti og-
getti d'argento... un drago che ripiegava le ali, un mazzolino di lavanda rea-
lizzato così bene da dare l'impressione che se ne potesse avvertire il profumo,
uno scrigno su cui era inciso un disegno di rose; sotto uno di quei tavoli un
vecchio gatto rosso si stava leccando il ventre, puntellato sulle zampe anterio-
ri.
Vicino a una finestra sedeva una giovane donna bionda appesantita da uno
stato di gravidanza avanzata, e ai suoi piedi sedeva un bambino di circa due
anni; altre due donne dagli abiti ricamati occupavano le sedie vicine e una ra-
gazza vestita in maniera più semplice era accoccolata per terra poco lontano.
Nel vedere Nevyn inchinarsi alla donna bionda, Lilli si affrettò a fare una ri-
verenza.
«Posso presentare a Vostra Altezza Lady Lillorigga dell'Ariete, venuta a
noi per chiedere asilo così come gli uomini del suo clan sono venuti a chiede-
re perdono a tuo marito?» disse poi Nevyn.
«Ma certo» replicò la principessa, con voce vivace quanto gradevole. «Sei
la benvenuta nella mia sala, Lillorigga.»
«Ringrazio Vostra Altezza dal profondo del cuore» rispose Lilli, eseguendo
un'altra riverenza come meglio le era possibile avendo indosso dei calzoni.
«Adesso l'Ariete è davvero il mio clan perché mi ha accolto nel suo seno
mentre invece il mio clan mi avrebbe scacciata.»
«Benissimo» annuì la principessa, poi guardò verso Nevyn e commentò:
«Sai, dovresti essere tu a dirle il mio nome. Per una volta sto cercando di se-
guire l'etichetta senza commettere errori.»
Tutti scoppiarono a ridere, tranne Lilli che si limitò a sorridere.
«Chiedo scusa» ribatté Nevyn, con un sorriso divertito. «Principessa Bel-
lyra, ti posso presentare Lady Lillorigga dell'Ariete?»
«Puoi farlo» replicò Bellyra, sorridendo a sua volta, e girandosi verso Lilli
aggiunse: «Che ne dici se però ti chiamiamo semplicemente Lilli?»
«Ne sarò onorata, Vostra Altezza.»
«Queste dame sono Elyssa e Degwa» proseguì la principessa, indicando le
due donne. «Questo è mio figlio Casyl e lei è Arda, la sua balia.»
Quelle presentazioni furono accompagnate da altri sorrisi e nel rendersi
conto che stava cominciando a sentirsi al sicuro Lilli si chiese se quello non
fosse un lusso pericoloso, soprattutto se si considerava che Nevyn era fermo
poco lontano e la stava osservando con quel suo sguardo affilato come una
daga.
«Hai abiti adeguati?» domandò intanto Bellyra. «Se non ne hai puoi pren-
derne qualcuno dei miei, che sono fin troppi.»
«Vostra Altezza è molto generosa» replicò Lilli. «Dato che ho dovuto fug-
gire per salvarmi la vita, temo di avere con me soltanto questi abiti e un paio
di coperte.»
«D'accordo, ora provvederemo» decise la principessa, e rivolta a Degwa
continuò: «La cassapanca intagliata con i draghi contiene abiti che puoi dare
a Lilli. Ora devo andare a parlare con mio marito. Arda, riporta Casso nella
sua stanza. Degwa, vuoi aiutare Lilli a sistemarsi qui?»
«Certamente, Vostra Altezza» assentì con una riverenza Degwa, una donna
bruna e robusta, poi si girò verso Lilli e la studiò per un momento da testa a
piedi con acuti occhi neri prima di commentare: «Chiederò ai Paggi di portar-
ti l'acqua per fare un bagno.»
«Oh, grazie! Non c'è nulla che desideri maggiormente!»
«Bene» interloquì allora Nevyn, in tono asciutto. «Ti lascio a sistemarti qui
con le altre donne, Lady Lillorigga, ma questo pomeriggio vorresti conce-
dermi l'onore di una visita?»
«Ti ringrazio, mio signore» replicò Lilli, pensando che avrebbe preferito
conversare con una vipera ma che doveva stare al gioco perché d'ora in poi
sarebbe dipesa dalla carità di quella gente. «L'onore sarà tutto mio.»

Al suo ritorno nella grande sala Nevyn trovò Maryn e i suoi nuovi alleati
seduti alla tavola alta, sulla piattaforma reale; nel vederlo arrivare, il principe
gli segnalò di raggiungerlo con un espansivo cenno della mano.
«Tieryn Peddyc» disse, «questo è Nevyn, il mio più fidato consigliere.»
«Sono onorato di conoscerti, mio signore» affermò Peddyc, inclinando il
capo in direzione di Nevyn.
«L'onore è mio» replicò Nevyn, sedendosi, poi salutò con un cenno il gio-
vane Anasyn e aggiunse: «La principessa in persona si sta occupando di dare
il benvenuto a tua sorella, mio signore.»
«Ti ringrazio» replicò Anasyn. «Le sarò debitore in eterno.»
Nevyn sentì divampare la propria curiosità, ma Maryn aveva la mente con-
centrata solo su questioni belliche e questo li portò a cambiare subito argo-
mento.
«Peddyc mi stava dicendo di aver portato con sé altri alleati» spiegò il
principe. «Un certo Lord Camlyn e i suoi uomini dovrebbero arrivare fra bre-
ve e il Gwerbret Daeryc di Glasloc cercherà di sganciarsi dalle truppe dell'U-
surpatore quando si metteranno in marcia.»
«Alcuni dei nobili a me sottoposti sono già passati dalla parte del vero
principe» aggiunse Peddyc. «O almeno è quello che ho dedotto nel trovare le
loro fortezze deserte quando sono passato da loro per convocarli.»
«Daryl e Ganedd, mio signore» supplì Nevyn. «Hanno chiesto il tuo per-
dono più di un mese fa. Senza dubbio» proseguì, rivolto a Peddyc, «ora si
staranno chiedendo cosa dirti, mio signore.»
«Già» convenne Peddyc, fissando il piano del tavolo e massaggiandosi il
collo con le mani ancora impolverate per il viaggio. «Adesso vorrei averli i-
mitati a suo tempo, ma nessun uomo può sapere in anticipo gli scherzi che gli
dèi intendono giocargli, giusto?»
In quel momento alcuni paggi oltrepassarono una delle numerose porte che
si aprivano alle spalle della piattaforma e si avvicinarono con vassoi carichi
di boccali e di caraffe di sidro. Consapevole che il principe non avrebbe di-
scusso di questioni importanti finché essi non se ne fossero andati, Nevyn
colse al volo quell'occasione e attirò l'attenzione di Peddyc e di Anasyn.
«Spero che vorrete perdonare la mia curiosità, miei signori, ma ho l'im-
pressione che siate oppressi dal peso di una grave tragedia» disse.
«Il consigliere ha occhi acuti» annuì Peddyc, con un accenno di sorriso.
«Mia moglie era un gioiello fra le altre donne, buon Nevyn, ma Lady Merod-
da del Cinghiale l'ha fatta scacciare dalla corte e poi assassinare. Nei giorni
che abbiamo impiegato per arrivare fin qui ho cercato invano di capire perché
lei possa aver fatto una cosa tanto orribile. La mia figlia adottiva sostiene che
probabilmente Merodda era gelosa dell'influenza che mia moglie aveva sulla
Regina Abrwnna, e in effetti questa è la sola spiegazione che siamo riusciti a
trovare.»
«Ma non ci sono dubbio sull'assassinio?»
«Nessuno, mio signore» intervenne Anasyn. «Anzi, mi farebbe piacere rac-
contarti tutta la...»
«Non ora, Sanno» lo interruppe suo padre. «Il principe non ha tempo da
sprecare per cose del genere.»
«Io però sarò lieto di ascoltarti» dichiarò Nevyn, rivolto ad Anasyn. «Ma-
gari troveremo più tardi il tempo per parlarne.»
In quel momento il Consigliere Oggyn si avvicinò alla piattaforma portan-
do un cuscino sotto un braccio e nel vederlo arrivare Nevyn avvertì il consue-
to senso di noia che la sua vista gli provocava, una reazione che risaliva a un
centinaio di anni prima... anche se naturalmente Oggyn non poteva ricordare
quel loro precedente incontro. Nella sua ultima incarnazione, Oggyn era stato
al servizio di un altro re di Cerrmor, Glyn Primo, all'epoca in cui anche
Nevyn aveva fatto parte della corte. In quel tempo Oggyn si era chiamato
Saddar, anche se Nevyn aveva dovuto consultare gli annali di corte per esser-
ne certo, in quanto durante il regno di Glyn Primo lui aveva già superato il
secondo secolo di vita e cose come i nomi avevano cominciato a scivolargli
via dalla memoria in maniera allarmante.
«Tieryn Peddyc» esordì Oggyn, «i tuoi uomini sono stati alloggiati e il
ciambellano ha preparato una camera per te e per tuo figlio.»
«Ti ringrazio» replicò Peddyc, inchinandosi.
Rivolto un profondo inchino al principe, Oggyn sistemò il cuscino su una
sedia e prese posto di fronte a Nevyn, in modo da trovarsi più vicino di lui al
principe.
«Mi è giunta all'orecchio una cosa quanto mai interessante» proseguì quin-
di. «È vero che nelle vene della tua figlia adottiva scorre il sangue del clan
del Cinghiale?»
Anasyn si tinse di un pallore mortale e Peddyc si affrettò a posargli una
mano sul braccio per poi rivolgersi di persona al consigliere.
«Sì, ma ha ripudiato il suo clan» replicò, scoccando un'occhiata in direzio-
ne di Nevyn. «Mia moglie l'ha allevata ed è stata la sola madre che Lilli abbia
mai avuto.»
«Ah» commentò Oggyn. «Vostra Altezza, gli dèi ci hanno inviato un o-
staggio davvero prezioso. Forse potremmo barattarlo con...»
«Un momento!» esclamò Anasyn. calando con violenza una mano sul tavo-
lo.
«Taci!» gli ingiunse Peddyc.
Tutti si girarono poi a fissare Maryn, che fino a quel momento si era limita-
to ad ascoltare, appoggiato allo schienale della sedia.
«Lillorigga è mia ospite e non un ostaggio, Consigliere Oggyn» affermò in-
fine il principe. «Ho fatto una promessa a Lord Anasyn e intendo mantener-
la.»
«Mio signore, non oserei mai suggerirti di disonorarti infrangendo una
promessa fatta, ma...» cominciò Oggyn.
«Bene» lo interruppe Maryn, con un sorriso, «allora non lo fare. Lord A-
nasyn, qui tua sorella sarà trattata come se fosse mia sorella.»
«Hai i miei più umili ringraziamenti, mio principe» replicò Anasyn, par-
lando a fatica. «Le dobbiamo moltissimo.»
«Tieryn Peddyc» continuò Maryn, «senza dubbio tu e tuo figlio sarete
stanchi. Oggyn, vorresti convocare un paggio perché accompagni gli uomini
dell' Ariete nel loro nuovo alloggio?»
Il palesemente irritato Oggyn si alzò in piedi e quando Nevyn si affrettò a
imitarlo per accertarsi che non insorgessero problemi, Peddyc gli posò una
mano sul braccio prima di avviarsi.
«Mio signore, sai quando il principe completerà il raduno delle truppe?»
chiese.
«Il grosso dell'esercito non verrà mai a Cerrmor. I nobili della costa arrive-
ranno domani con i loro uomini e non appena si saranno riuniti qui ci dirige-
remo a nord, radunando gli altri nobili e le loro bande di guerra lungo la stra-
da, in modo da alleggerire il costo causato da tante bocche da nutrire.»
«È una buona idea. Ma partiremo presto?»
«Senza dubbio. Devi essere ansioso di vendicare la tua signora.»
«Sì, lo sono» annuì Peddyc, ma il suo aspetto era così spaventosamente
stanco da indurre Nevyn a chiedersi se lui non desiderasse più la morte che
non la vendetta.

Con il trascorrere delle ore del pomeriggio, Lilli cominciò ad avere l'im-
pressione di eseguire una danza complessa seguendo una melodia che non
aveva mai sentito prima. Se non altro a Dun Deverry lei aveva avuto una po-
sizione e un rango ben definiti in virtù del fatto di essere una figlia del Cin-
ghiale, mentre a Cerrmor avrebbe avuto soltanto ciò che la Principessa Bel-
lyra avesse voluto elargirle; d'altro canto, però, qui aveva intorno meno per-
sone da vagliare e da soppesare di quante ne avesse avuto in seno alla cerchia
di sua madre. Dal momento che la maggior parte del meridione era fedele a
Maryn e che quindi le terre dei suoi vassalli erano al sicuro al di qua della
frontiera contesa, il numero delle nobildonne prive di una casa che viveva a
corte era sorprendentemente ridotto e di quelle presenti soltanto due parevano
godere della confidenza della principessa: la bionda e allegra Elyssa, vedova
e figlia del Tieryn Elyc, reggente della fortezza al tempo in cui Bellyra era
ancora bambina, e Degwa. due volte vedova, che apparteneva allo spossessa-
to clan del Lupo che era stato un tempo padrone delle terre ora di proprietà
del Cinghiale.
Dopo aver fatto un bagno e aver indossato uno dei vestiti che le erano stati
regalati, Lilli fece ritorno nella sala delle donne dove trovò Degwa da sola e
mentre aspettavano la venuta della principessa chiacchierarono per qualche
tempo dei figli e delle figlie di Degwa, che erano stati mandati in adozione
presso diverse fortezze della costa.
«Spero che un giorno i miei figli possano riavere le nostre terre e ripristina-
re il nome del nostro clan» commentò infine Degwa. «Naturalmente i maschi
si uniranno al clan del padre, ma mia figlia sa quale sia il suo dovere...»
«Eh? non credo di aver capito...»
«Ma certo! Ti prego di scusarmi, un'estranea non può sapere queste cose»
replicò Degwa, con voce d'un tratto fredda. «Le terre del Lupo vengono tra-
smesse secondo la linea di discendenza femminile, una regola decisa da
Glyn, Primo Re di Cerrmor. Il marito di mia figlia sarà il nuovo Lupo.»
«Davvero interessante! E dove sono le tue terre, mia signora?»
«Lungo il fiume Nerr, qualche chilometro a sud di Muir. Il nostro villaggio
si chiama Blaeddbyr.»
«Ah, non ci sono mai stata» commentò Lilli con intenso sollievo, in quanto
aveva temuto che quelle terre potessero essere nelle mani di qualche suo pa-
rente stretto. «Senza dubbio quando verrà il momento il principe reintegrerà
il Lupo nei suoi diritti.»
Quando Degwa reagì a quelle parole con un sorriso stranamente freddo e
rigido Lilli cercò di pensare a qualche frase conciliante, ma proprio in quel
momento la principessa entrò nella sala delle donne accompagnata dalle sue
serve.
«Le prime pesche!» annunciò. «Possiamo farne tutte una scorpacciata!»
Ridendo una serva posò sul tavolo un grosso cestino ed Elyssa accostò una
sedia per la principessa mentre Degwa distoglieva il proprio sguardo gelido
da Lilli e permetteva a un po' di calore di affiorare in esso; poi tutte le donne,
perfino le serve, affondarono la mano nel cesto... tutte tranne Lilli che attese
finché Elyssa non spinse il cestino verso di lei.
«Avanti, prendine una» la invitò.
«Grazie. Non ero certa...»
«Oh, per favore! Credi che sarei così avara con un'esule?»
«Sono cose che succedono, mia signora» interloquì Degwa, «e si verificano
soprattutto fra coloro che attorniano il falso re.»
Lilli si costrinse a esibire un sorriso, poi addentò la pesca che risultò essere
meravigliosamente dolce e succosa, segno evidente che lì l'estate arrivava
prima. In qualche modo le parve che questa fosse una cosa che ben si addice-
va alla corte del vero re, e stava già prendendo mentalmente nota di parlarne
con Bevyan e con Sarra quando d'un tratto ricordò che naturalmente non a-
vrebbe mai più avuto modo di parlare con loro. Subito gli occhi le si colma-
rono di lacrime, e nel sollevare la manica per asciugarseli si accorse che le al-
tre donne la stavano fissando.
«Stai bene?» domandò Elyssa.
«Chiedo scusa. Stavo pensando alla mia madre adottiva, che è morta appe-
na due settimane fa.»
«Oh! Questo mi addolora» interloquì Bellyra. «Senza dubbio impiegherai
del tempo per superare questo dolore.»
«Vostra Altezza è molto gentile.»
«Ho dei momenti in cui sono sopportabile, o almeno così mi dicono» sorri-
se Bellyra, poi si girò verso Degwa e proseguì: «Ho per te un messaggio da
parte del tuo grande amore.»
«Oh, no. Vostra Altezza!» esclamò Degwa, arrossendo violentemente. «È
così noioso!»
«Si tratta di uno dei consiglieri di mio marito» spiegò intanto Bellyra.
«Pensa di poter migliorare la propria posizione sposando una vedova di nobi-
li natali.»
«Non sarà Nevyn, vero?» domandò Lilli.
«Ahimé, Degwa non è così fortunata. No, si chiama Oggyn, anche se credo
che Nevyn sarebbe un marito molto più interessante» commentò la principes-
sa, e rivolta a Degwa aggiunse: «Oggyn ha insistito molto perché tu gli dedi-
cassi qualche momento, sostenendo di avere delle notizie da riferirti.»
Degwa levò gli occhi al cielo e le serve ridacchiarono.
«Avanti, va' da lui» incitò Elyssa. «Adesso sono davvero curiosa, quindi
sacrificati per la nostra causa.»
«Ha detto che ti aspetterà vicino alla porta della grande sala» precisò Bel-
lyra.
«Oh, e va bene» si arrese Degwa, alzandosi con un drammatico sospiro.
«In tal caso farò il mio dovere nei confronti di Vostra Altezza. Senza dubbio
lui insisterà perché passeggi un po' in sua compagnia per guadagnarmi le no-
tizie.»
La passeggiata risultò essere piuttosto lunga, dato che le altre donne conti-
nuarono a chiacchierare per qualche tempo prima che Degwa infine tornasse;
in quel frangente di tempo Bellyra ed Elyssa si addossarono l'incarico di ag-
giornare Lilli su tutti i pettegolezzi che circolavano nella fortezza, spiegando-
le chi poteva esserle amico e da chi era meglio tenersi a salutare distanza. In
un primo tempo lei si limitò ad ascoltare ma poi a poco a poco si arrischiò a
interloquire con qualche parola, scoprendo che i suoi commenti erano benac-
cetti, e stava giusto cominciando a sentirsi a suo agio quando Degwa fece ri-
torno e irruppe a grandi passi nella stanza, scoccando un'occhiata furente nel-
la sua direzione per poi arrestarsi davanti alla sedia della principessa.
«Allora, cos'aveva da dirti Oggyn?» domandò Bellyra. «A giudicare dal
tuo aspetto dev'essere stata una cosa assai poco onorevole.»
«Per nulla, Vostra Altezza. Mi ha detto che la nostra ospite è per nascita
una figlia del clan del Cinghiale.»
Sentendosi raggelare, Lilli si portò alla gola una mano tremante.
«Appartiene al Cinghiale!» ripeté Degwa, con voce quasi ringhiarne. «Co-
me puoi trattarla così bene?»
«Oh, per l'amore della Sacra Luna!» scattò Bellyra, in tono secco, «Ha avu-
to il buon senso di abbandonare il suo clan, giusto?»
«Non m'interessa, Vostra Altezza! Potrebbe essere una spia, una traditrice»
dichiarò Degwa, camminando avanti e indietro. «Per tutta la vita non ho mai
sentito parlare che male del clan del Cinghiale, quindi perché ci dovremmo
fidare di questa piccola sconosciuta?»
«Tieni a freno la lingua, Decci!» scattò Elyssa. «Ti stai comportando in
modo spaventosamente scortese e lo sai benissimo.»
Degwa incrociò le braccia sul petto con un'aria cocciuta che strappò un so-
spiro alla principessa.
«Lillorigga del Cinghiale, sei una traditrice?» chiese quindi Bellyra.
«Assolutamente no, Vostra Altezza! Oh, per favore, dovete credermi... e
del resto, come potrei essere una spia? Quando il principe farà muovere il suo
esercito, il Reggente e i suoi uomini ne potranno calcolare la portata più fa-
cilmente di me, giusto?»
«Proprio così, e non ti vedo neppure nell'atto di assassinare mio marito,
considerato che è molto più grosso di te.»
Quella battuta strappò a Degwa un vero e proprio ringhio.
«Per favore, non fare così» le disse Lilli. «Non appartengo più al Cinghia-
le, non ho parenti o clan a parte Peddyc e Anasyn e l'Ariete di Hendyr.»
«Era quel che pensavo» affermò Bellyra, alzandosi faticosamente dalla se-
dia puntellando le mani sui braccioli per poi raddrizzarsi con uno sforzo. «Per
gli dèi, quanto mi sento pesante! Degwa, Lilli non appartiene più al Cinghia-
le, quindi quello che hai sentito sul conto di quel clan non vale più per lei,
giusto?»
«Crederò qualsiasi cosa la mia principessa mi ordini di credere» ribatté
Degwa.
«Non si tratta di credermi come se fossi una dea o qualcosa del genere.
Forse non lo sai, ma Nevyn ha garantito per Lilli.»
«Oh, chiedo scusa» mormorò Degwa, facendosi scarlatta in volto.
Le tre donne si girarono quindi verso Lilli, che da parte sua non seppe cosa
dire. Ancora quel Nevyn, e a quanto pareva aveva garantito per lei... Perché?
Sapeva che avrebbe potuto chiederglielo, se solo ne avesse trovato il corag-
gio.
«Sei impallidita» osservò Elyssa, sostenendola per un braccio. «Stai per
svenire?»
«No» la rassicurò Lilli. «È solo che tutto è così difficile...»
Degwa ebbe la decenza di abbassare lo sguardo verso il pavimento.
«Mi duole il cuore al pensiero che il Cinghiale abbia causato a te e alla tua
gente gli stessi lutti che ha inflitto a me e alla mia» le disse Lilli.
Il silenzio si protrasse, e in quella quiete assoluta Lilli ebbe l'impressione di
poter sentir echeggiare il proprio respiro sempre più affannoso. Alla fine De-
gwa risollevò lo sguardo.
«Vorrei che ci fosse pace fra noi» mormorò.
«Lo voglio anch'io» replicò Lilli, protendendo la mano.
Degwa la strinse senza troppo entusiasmo ma quanto bastava per indurre
Bellyra ed Elyssa a scambiarsi un cenno di approvazione.
«Quello che vorrei sapere» osservò poi la principessa, «è per quale motivo
Oggyn si sia preso il disturbo di riferirti queste cose.»
Degwa indugiò per un momento a riflettere, accigliandosi in volto.
«Non lo so» ammise infine, «però ha affermato di ritenere che sarebbe me-
glio rinchiuderla da qualche parte in modo che il re potesse barattarla come
ostaggio.»
Per un momento Lilli fu davvero sul punto di svenire, ma si costrinse a far-
si forza e si lasciò scivolare giù dalla sedia per inginocchiarsi davanti alla
principessa.
«Per favore, non mi rimandate indietro» implorò, con voce tremante. «Se
tornerò mi uccideranno.»
«È ovvio che non lo farò e non permetterò neppure a Maryn di fare una co-
sa simile» la rassicurò Bellyra. «Avanti, ora alzati perché detesto quando la
gente s'inginocchia davanti a me. Coraggio, rimettiti a sedere. E tu. Decci,
possibile che non ti sia resa conto che Oggyn sta tramando uno dei suoi di-
sgustosi piani e che si è servito di te per arrivare a me?»
Degwa si tinse di un acceso rossore, cercò di parlare, poi si girò e fuggì
dalla stanza mentre Lilli si lasciava cadere con sollievo su una sedia.
«Sono umilmente grata a Vostra Altezza» mormorò.
Bellyra accantonò quei ringraziamenti con un gesto della mano.
«Quando si tratta del clan del Lupo, Decci non riesce a pensare» borbottò
intanto Elyssa, «e quell'uomo la sa usare come un musicista usa la sua arpa.»
«È quell'individuo calvo con la barba?» domandò Lilli.
«Sì. A guardarlo ho sempre l'impressione che i capelli gli siano scivolati
giù dalla testa per fermarsi sotto il mento.»
La principessa scoppiò a ridere, poi soffocò uno sbadiglio improvviso.
«Ora devo andare a sdraiarmi perché sono davvero molto stanca» annun-
ciò. «Quanto a voi, mie signore, fate quello che preferite.»
«Io devo parlare con il capo cuoco» affermò Elyssa. «Quanto a te, se
Nevyn deve venire a trovarti, tanto vale che lo aspetti qui.»
«Ti ringrazio, è quello che farò» replicò Lilli, con una riverenza.
Nevyn arrivò di lì a poco, apparentemente di buon umore anche se il suo
sorriso sembrava avere un che di pericoloso; per un momento Lilli prese in
considerazione la possibilità di fingere un'emicrania per evitare quella con-
versazione, ma alla fine decise di affrontarla perché sapeva che prima o poi la
cosa sarebbe diventata inevitabile.
«Buon pomeriggio a te, Lilli» la salutò Nevyn.
«Anche a te, mio signore. Sei molto gentile a trovare del tempo per una
persona come me.»
«Davvero?» commentò Nevyn, inarcando un cespuglioso sopracciglio.
«Pensavo che avresti avuto paura di parlarmi.»
Lilli sì costrinse a sorridere.
«Avanti, sediamoci, magari vicino alla finestra. Dopo di te, mia signora.»
Insieme attraversarono l'ampia stanza e nel passare accanto al cofanetto
d'argento posato su uno dei tavolinetti e illuminato dal sole Lilli si sorprese
ad ammirare quell'oggetto così squisito, alto una trentina di centimetri, con i
lati incurvati in modo che il coperchio aderisse perfettamente a essi nel chiu-
dersi sul davanti. Lungo tutta la sua superficie una miriade di rose d'argento
era intagliata con tanta abilità da dare l'impressione che quei boccioli fossero
reali, e senza riflettere Lilli protese una mano ad accarezzarli.
«Oh!» esclamò subito dopo, ritraendo le dita e massaggiandosele con forza
perché erano gelate come se avesse appena toccato un ghiacciolo.
«Cosa c'è, Lilli?» domandò Nevyn. «Qualcosa non va?»
«Nulla» replicò lei, ma suo malgrado non riuscì ad arginare il senso di ge-
lo, che le dilagò lungo la schiena e le strappò un brivido mentre aggiungeva,
a titolo di scusa: «Io... ecco, ci deve essere qualche corrente d'aria.»
«Sciocchezze! Cos'hai avvertito quando hai toccato il cofanetto?» insistette
Nevyn, fissandola con una preoccupazione così evidente e sincera da renderle
impossibile continuare a pensare a lui come a un nemico.
«Qualcosa di malvagio» rispose. «Non so come descriverlo, mio signore,
ma dentro quel cofanetto dimora qualcosa di malvagio e di immondo. La
principessa dovrebbe liberarsene gettandolo in mare. Senza dubbio è una co-
sa che devi avvertire anche tu, quindi come puoi permetterle di tenere qui
quell'oggetto?»
«La principessa sa di quella cosa malvagia e ha scelto di custodirla invece
di correre il rischio che possa cadere nelle mani di qualcuno che potrebbe u-
sarla per fare del male al principe.»
Con un lungo sospiro Lilli si adagiò sul sedile posto sotto la finestra e
Nevyn le sedette di fronte con le mani incrociate in grembo.
«Credo che sia meglio che siamo onesti uno con l'altra» esordì. «Mi riferi-
sco al dweomer.»
Lilli si portò una mano alla gola e si girò a guardare fuori della finestra: di
fronte a lei alcune torri si levavano sotto il sole dal lato opposto del cortile,
ergendosi nel cielo solcato da qualche nube e da numerosi gabbiani che vola-
vano in cerchio lanciando striduli richiami.
«Ritengo che tu sia nata con un grande talento per il dweomer» continuò
Nevyn, «e che poi qualcuno ti abbia insegnato qualche trucco su come utiliz-
zarlo. Ho sempre percepito in Dun Deverry della magia malvagia, ma a dire
il vero non ne avverto in te.»
«Spero proprio di no, mio signore, perché non vorrei mai fare del male a
nessuno.»
«Questo lo vedo. Quando evocavi le visioni... ricordi di certo la notte in cui
le nostre strade si sono incrociate... quando evocavi le visioni c'era qualcuno
a guidarti? Avanti, ragazza, dimmelo. Sai, è importante per il tuo bene perché
ho l'impressione che qualcuno ti abbia sfruttata facendosi portare come se
fossi stata un cavallo: questa è una cosa pericolosa che può averti recato dan-
no.»
«È quello che ha detto anche lui... che mi hanno detto.»
«Lui?» ripeté Nevyn, in tono divertito. «Chi è questo lui? Il tuo maestro?
Quello che ti controllava?»
Lilli prese in considerazione l'eventualità di mentire ma si rese conto di es-
sere in trappola.
«No, era mia madre a controllarmi» rispose.
«Tua madre? Per gli dèi! Lady Merodda?»
«Proprio lei.»
«Da quel poco che so sul suo conto mi sembra il genere di persona pronta a
sfruttare in questo modo il talento altrui e in effetti ho da tempo il sospetto
che sia stata lei a creare la cosa orribile nascosta sotto quelle rose» affermò
Nevyn. indicando il cofanetto.
«Potrebbe darsi benissimo, mio signore. Una volta si è vantata con me del
fatto che l'Usurpatore non avrebbe mai potuto vincere, perché c'erano potenti
dweomer all'opera contro di lui.»
«Capisco. In tal caso anche lei deve conoscere in certa misura la magia.»
«Conosce una quantità di dweomer, che ha appreso da qualcuno che è ve-
nuto a lei molto tempo prima che io nascessi. Di tanto in tanto mi parlava di
lui e da quanto mi hanno raccontato i servitori credo che fosse un uomo mal-
vagio. Loro lo odiavano, mio signore, ma io non l'ho mai conosciuto perché
era al seguito di mia madre nel periodo in cui ero in adozione. Un momento...
mi chiedo se non sia stato lui ad approntare le trappole magiche.»
«Secondo me non ci sono dubbi in merito. Che ne è stato di quest'uomo?»
«Mio zio lo ha ucciso prima che io tornassi da Hendyr. È successo una sera
nella sala del Cinghiale, a quanto mi ha detto mia madre. Lui era ubriaco... il
mago, non zio Burcan... e ha offeso l'onore di mia madre, così Burcan lo ha
ucciso.»
Nevyn si mise a imprecare come uno stalliere.
«Chiedo scusa» disse poi. «Ho perso il controllo.»
«Sembri contrariato, mio signore. Credevo ti avrebbe fatto piacere appren-
dere che quell'uomo è morto.»
«Davvero? Non ho idea di come fare per annullare quell'incantesimo» re-
plicò Nevyn, accennando al cofanetto. «Ho sempre sperato di riuscire a cattu-
rare l'uomo che lo aveva creato e di costringerlo in qualche modo a dirmi
come aveva fatto, ma adesso non mi potrà più dire nulla, giusto?»
«Oh, questo è vero.»
«Quello che mi lascia perplesso è il modo in cui sei riuscita ad avvertire la
malvagità dell'incantesimo. Ho sovrinteso personalmente alla chiusura di
quel cofanetto e una volta che lo abbiamo sigillato neppure io ho più potuto
avvertire il dweomer presente in esso. Invece a te è bastato sfiorarlo appena
con un dito per capire subito che c'era qualcosa che non andava.»
«Non so come ho fatto, altrimenti te lo direi.»
«Oh, ti credo. Bene, se tua madre ha avuto qualcosa a che fare con l'elabo-
razione di quell'incantesimo magari potremo cavare qualcosa da lei... se a-
vremo modo di rivederla» concluse Nevyn, poi rifletté per un momento e ag-
giunse: «Be', per adesso non c'è proprio nulla che possiamo fare al riguardo.
Dunque... in seguito tua madre si è trovata un altro uomo che conosceva le
cose segrete?»
Erano arrivati al nodo cruciale. Lilli non voleva tradire Brour, che a modo
suo era stato tanto gentile con lei, e tuttavia quando pensò a lui sentì un pre-
sagio affiorare a contrarle la gola, come se avesse appena ingoiato qualcosa e
avesse dovuto sputarlo per non morire soffocata.
«È morto» disse ad alta voce. «Parlo di Brour, l'uomo che mi ha istruita e
che un tempo aveva studiato presso di te» aggiunse, cominciando a piangere.
Nevyn emise un suono strano, che pareva quasi un grugnito di dolore.
«Mia madre deve averlo fatto catturare e uccidere» continuò intanto Lilli.
«Lui stava cercando di fuggire da Dun Deverry.»
«Povero piccolo Brour» mormorò Nevyn. «Povero piccolo idiota pieno di
talento! Apprendere della sua morte mi fa dolere il cuore, anche se è fuggito
da me dopo avermi derubato.»
«Allora quel libro era tuo? Voglio dire...»
«Scommetto di sì, se si trattava di un libro che parlava di segreti del dwe-
omer. Un grosso volume rilegato in cuoio e pieno di sapere dei Greggyn.»
«Era quello, e a giudicare da quello che diceva lui avevo immaginato che
qui avesse fatto qualcosa di vergognoso.»
«Non ho mai visto un uomo desiderare una ragazza con la stessa intensità
con cui Brour desiderava quel libro. Alla fine una notte lo ha rubato, per quel
che gli è poi servito» spiegò Nevyn, scuotendo il capo. «Ah, almeno adesso
se non altro so che fine ha fatto.»
Lilli si asciugò gli occhi con una manica, pensando che avrebbe dovuto fi-
nire per abituarsi a perdere la gente che le era cara.
«Quante cose ti ha insegnato Brour?» domandò intanto Nevyn.
«Non molte. Avevamo appena cominciato le lezioni. Io ho questo... questo
talento per vedere i presagi. Non parlo di evocare visioni, soltanto di vedere
presagi, anche se finora non ho mai saputo cosa significassero perché era mia
madre a interpretarli, e mai in mia presenza.»
«Cerca di spiegarti meglio» disse Nevyn, che appariva perplesso. «Come
facevi a vedere i presagi?»
«A volte affioravano sotto forma di parole e io li enunciavo, come ho fatto
poco fa quando ho sentito che Brour era morto. Mi capitava di dire qualcosa
sulla guerra, mia madre se ne accorgeva e mi chiedeva dei dettagli. Poi lei e
Brour hanno preparato una bacinella piena di inchiostro nero e guardando
nell'inchiostro io vedevo delle cose. Mi sembrava di sognare, ma potevo sen-
tire la voce di mia madre che mi faceva delle domande.»
«Quindi ti stavano usando come una lenza per pescare delle trote, eh? È
una cosa pericolosa, molto pericolosa.»
«A volte temevo che sarei impazzita.»
«C'era anche quel rischio, ma io mi stavo chiedendo se per caso non hai
qualche problema di respirazione.»
«Faccio spesso fatica a respirare, mio signore» ammise Lilli, molto sorpre-
sa. «Ma questo cosa c'entra con i presagi?»
«Molto, a dire il vero, ma per spiegartelo ci vorrebbe più tempo di quanto
ne abbiamo a disposizione. Dannazione a questa guerra, che è sempre d'in-
tralcio!» esclamò Nevyn, poi si soffermò a riflettere e proseguì: «Entro pochi
giorni partirò per il nord con il principe. Fino ad allora cercherò di dedicarti
tutti i momenti possibili, ma temo che non saranno molti. Lilli, quando i
combattimenti estivi si saranno conclusi, voglio parlare con te a fondo di
queste cose, perché devi imparare a controllare questo tuo strano talento che
altrimenti ti potrebbe uccidere.»
Lilli cercò di replicare, ma riuscì soltanto a rimanere a bocca aperta.
«Suvvia, per il momento non sei in pericolo» la tranquillizzò Nevyn. «Però
hai l'aria sfinita, quindi ti suggerisco di andare a riposare fino all'ora di cena.»
«Lo farò, mio signore» annuì Lilli, ritrovando infine la voce. «Mi hai dato
molte cose su cui riflettere.»
Per cortesia lo accompagnò quindi fino alla porta e quando Nevyn aprì il
battente Degwa per poco non cadde nella stanza. Colta in flagrante, la donna
cercò di parlare, poi arrossì e si passò una mano fra i capelli con fare nervoso.
«Chiedo scusa» balbettò. «Stavo allungando la mano verso la maniglia
quando la porta si è aperta, cogliendomi alla sprovvista.»
«In tal caso sono io a dovermi scusare» replicò Nevyn.
Attraversata di corsa la sala delle donne. Degwa oltrepassò la porta che da-
va accesso agli alloggi delle dame di compagnia e delle serve, e dopo aver
seguito la sua fuga con lo sguardo, Nevyn s'inchinò a Lilli.
«Parleremo ancora, quando potremo farlo in privato» disse.
Dopo che se ne fu andato, Lilli rimase ferma accanto alla porta con il cuore
che le martellava nel petto, chiedendosi quanto avesse sentito Degwa dei loro
strani discorsi e se adesso sarebbe corsa a riferire tutto a Oggyn.

Nello scendere la scala dopo essere uscito dalla sala delle donne, Nevyn si
trovò a pensare a Brour: lui aveva cercato di addestrarlo nel modo giusto e
invece quel ragazzo lo aveva derubato e poi aveva messo in pericolo una vita
innocente come quella di Lilli. Tutto sommato era meglio per lui che fosse
morto, perché se mai gli fosse riuscito di acciuffarlo...
Fuori le lunghe ombre del tardo pomeriggio cominciavano a invadere il
cortile e i servi andavano avanti e indietro per trasportare legna da ardere e
acqua nelle cucine; vicino alle porte le guardie gridarono un saluto e subito
dopo le daghe d'argento entrarono nel cortile fra un tamburellare di zoccoli,
precedute dal loro capitano, Caradoc, e dal suo comandante in seconda, Owa-
en. Adesso i capelli di Caradoc erano quasi del tutto grigi e nei suoi baffi non
c'era più traccia di nero, ma i suoi occhi scuri erano acuti e astuti come sem-
pre.
«Nevyn!» esclamò, nel vedere il vecchio. «Puoi dedicarmi un momento?»
Poi smontò di sella e stranamente, quasi fosse stato un servo, prese per le
briglie il castrato nero di Owaen per tenerlo calmo mentre il suo cavaliere
smontava con estrema cautela, cosa necessaria dato che stava tenendo la ma-
no sinistra alzata e lontana dal corpo. Il volto di Owaen appariva tanto pallido
da confondersi con i capelli biondo cenere ma quando si girò a guardare ver-
so Nevyn i suoi occhi azzurri parvero del tutto inespressivi.
«Cosa è successo?» domandò Nevyn. «Un incidente?»
«Infatti, mio signore» confermò Caradoc. «Ne ho visti di più stupidi, ma
molto pochi.»
Quelle parole gli fruttarono un'occhiataccia da parte di Owaen, che aveva il
mignolo della sinistra piegato verso l'esterno con un'angolazione impossibile
e il palmo della mano gonfio per un ematoma.
«Sembra un danno serio» commentò Nevyn. «Avanti, ragazzo, protendi la
mano in modo che possa vedere meglio.»
Alle loro spalle gli altri uomini stavano smontando di sella, i più per poi al-
lontanarsi subito con i cavalli: Branoic però, il più alto e massiccio delle da-
ghe d'argento, ora anche appesantito da un intero inverno di ozio, gettò le re-
dini a un amico e si diresse verso di loro.
«È rotto, vero?» domandò.
«Tieni a freno la tua dannata lingua se non vuoi che ti tagli entrambi gli at-
tributi» ingiunse Owaen. «Sempre che tu ne abbia, naturalmente.»
Scoppiando a ridere, Branoic si piantò le mani sui fianchi e rimase a guar-
dare mentre Nevyn esaminava la lesione riportata da Owaen.
«È una frattura, e brutta per di più» sentenziò infine il vecchio. Com'è suc-
cesso?
Owaen non rispose e fissò lo sguardo sull'acciottolato con espressione così
rovente da dare l'impressione che potesse fonderlo.
«Un sasso si è incastrato in uno zoccolo del suo cavallo» spiegò Branoic,
con un sogghigno, «quindi lui ha sollevato lo zoccolo con la mano sinistra,
ma non l'ha tenuto con sufficiente forza e il cavallo gli ha espresso le proprie
rimostranze per le libertà che si stava prendendo con la sua persona.»
«Ho temuto che Owaen tagliasse la gola a quella povera bestia» interloquì
Caradoc, «quindi sono intervenuto per fermarlo perché è un buon cavallo,
nonostante sia suscettibile.»
«Dallo a me, che sono in grado di controllarlo» suggerì Branoic.
Owaen si girò di scatto verso di lui con la repentinità di un serpente pronto
a colpire, ma l'ira gli fece dimenticare la lesione riportata e all'istante il volto
gli s'imperlò di sudore mentre lui imprecava fra sé e Caradoc si affrettava a
sorreggerlo per un gomito.
«Adesso basta, Branoic» ringhiò il capitano. «Vattene subito di qui.»
«Capitano» salutò Branoic, chinando il capo in direzione di Caradoc e gi-
rando sui tacchi.
Nevyn lo guardò allontanarsi a grandi passi per raggiungere gli altri dalla
parte opposta del cortile e come ogni tanto gli capitava, anche se ormai a-
vrebbe dovuto essersi abituato alla cosa, si trovò a stupirsi che l'anima incar-
nata in quel corpo fossa stata per molte vite quella di una donna che lui aveva
amato un tempo. Scuotendo il capo tornò poi a concentrarsi sul problema in
esame.
«Spesso le piccole lesioni sono quelle che fanno più male» disse a Owaen.
«Se non altro, la mano non ha perso sensibilità, però devi andare da un chi-
rurgo perché ti metta a posto il dito.»
Owaen reagì con una lunga sfilza d'imprecazioni, seguita infine da una
domanda sensata.
«Quanto tempo impiegherò a guarire?»
«Settimane, e non sarai in grado di reggere lo scudo, con il dito fratturato
fasciato insieme agli altri. Dovrai rinunciare a combattere.»
«Cosa? Non posso farlo.»
«Intendi combattere senza scudo?»
Owaen accennò a rispondere, poi si limitò a fissare con occhi roventi il dito
incriminato.
«E se chiedessi al chirurgo di amputarlo?» domandò infine. «Un taglio net-
to dovrebbe guarire più in fretta.»
«È vero, ma... per gli dèi, le dita non ricrescono più una volta tagliate!»
«Non m'importa un accidente di questo. Posso reggere benissimo lo scudo
anche senza un mignolo e voglio che questo dannato dito sia guarito prima
che arriviamo alla Città Santa.»
«La scelta è tua» si arrese Nevyn, levando gli occhi al cielo. «Riferisci a
Caudyr che per quanto mi riguarda puoi fare come preferisci.»
Qualche tempo dopo, mentre era seduto insieme al principe sulla piatta-
forma della grande sala, Nevyn vide entrare Owaen e Caradoc e notò che la
mano di Owaen era avvolta in semplici fasce e non steccata.
«Ah» commentò Maryn, seguendo la direzione del suo sguardo. «Questo
mi ricorda che volevo chiederti una cosa riguardo a Caradoc. Sai quanto ap-
prezzo i suoi consigli, considerato che ha combattuto in tre diversi regni.»
«E che combatte da anni» aggiunse Nevyn. «L'esperienza è sempre prezio-
sa.»
«Infatti, ma ora comincio a preoccuparmi per lui. Detesterei vederlo ucci-
dere, ma Caradoc insiste per voler guidare i suoi uomini in battaglia.»
«Già» annuì Nevyn. «Gli hai parlato di questo?»
«Qualche accenno, ma lui lo ha sempre ignorato perché è orgoglioso e su-
scettibile. Per questo volevo sentire prima il tuo consiglio.»
«In tal caso scambierò qualche parola con lui al riguardo.»
Nella grande sala Caradoc stava spingendo indietro una panca e aiutando
Owaen a sedersi a uno dei tavoli riservati alle daghe d'argento; a giudicare
dal volto pallido e sudato del giovane comandante in seconda, la mano dove-
va fargli più male di quanto lui avrebbe mai immaginato.
«Owaen dovrebbe essere a letto» commentò Nevyn. «Se il mio signore
vuole scusarmi vado a occuparmi di lui.»
«Ma certo.»
Quando Nevyn raggiunse i due guerrieri, Owaen stava sorseggiando della
birra con la mano fasciata posata in grembo; in piedi, appoggiato al tavolo,
Caradoc lo stava tenendo d'occhio.
«Vedo che ti sei fatto amputare il dito» osservò Nevyn.
«Infatti, mio signore, ed è stata una cosa rapida» rispose Owaen, con voce
sottile come quella di un bambino.
«Davvero? Dovresti essere a letto... no, non discutere con me, non è un se-
gno di debolezza e non voglio vederti morire dissanguato, perché il Principe
ha bisogno di te e se vuoi guarire devi tenere immobile quella mano ferita.»
Owaen non rispose e trangugiò dell'altra birra.
«Ha ragione lui» intervenne Caradoc, in tono secco. «Ci vuole un ordine
diretto per farti fare come dice Nevyn?»
«Sì.»
«In tal caso ti ordino di tornare negli alloggiamenti e di metterti a letto» ri-
batté Caradoc, poi si guardò intorno e aggiunse: «Là ci sono Maddyn e
Trevyr il rosso. Ti ordino di permettere loro di aiutarti.»
«In tal caso farò come comanda il mio capitano.»
Sbuffando, Caradoc rivolse un cenno a Maddyn e a un'altra daga d'argento.
«Perché lo chiamate sempre Trevyr il rosso?» domandò Nevyn.
«Perché con noi c'era anche un Trevyr il bruno. È morto da quattro anni,
ma il soprannome è rimasto.»
Nevyn impartì a Maddyn alcune istruzioni su come accudire Owaen, poi
congedò tutti e tre e indugiò accanto a Caradoc per guardarli lasciare la sala,
con Owaen che barcollava un poco ma riusciva a camminare da solo anche se
gli altri due gli si tenevano vicini, pronti a sorreggerlo.
«Cocciuto bastardo» commentò Caradoc.
«Alcuni uomini usano verso loro stessi meno misericordia di quanta ne ab-
biano verso il nemico.»
«Owaen è un ragazzo coerente: non usa mai misericordia a nessuno.»
«È vero, è sempre stato così» annuì Nevyn, pensando ad altre incarnazioni
di quell'anima. «Comunque ho il sospetto che otterrà quello che voleva e che
la ferita sarà abbondantemente risanata quando verrà per lui il momento di
combattere.»
«Meglio così, perché non ci sarà modo di tenerlo fuori dalla battaglia. Si
sentirebbe coperto di vergogna se lo escludessimo.»
«In effetti ci sono uomini fatti in questo modo, che rifiutano di rinunciare a
combattere a meno di essere ormai quasi in punto di morte per timore di quel-
lo che gli altri potrebbero pensare di loro.»
«Sì, però tu sai che combattere è la sola cosa che una daga d'argento abbia
nella vita. Prendi Maddyn. per esempio. Gli ho detto di rinunciare a combat-
tere e lui lo ha fatto soltanto perché è un bardo e ha qualcosa per cui vivere a
parte la gloria e l'onore. Il resto di noi non ha niente altro.»
D'un tratto Nevyn si rese conto che Caradoc ricordava fin troppo bene gli
accenni del principe, come dimostrava il modo in cui ora lo stava osservando
a labbra serrate, quasi si stesse sforzando di trattenere un sorriso.
«A me pare che abbiate una quantità di cose per cui vivere» obiettò quindi.
«Il favore del principe, tanto per cominciare.»
«Huh! E come può un uomo come me conquistarsi favore se non combat-
tendo?»
«Dando consigli, per esempio, e poi offrendo magari un punto di vista di-
verso da quello di Oggyn.»
«Ah, questa è una cosa a cui non avevo pensato» ammise Caradoc, assu-
mendo un'aria riflessiva. «Non sopporto quell'uomo, come mi pare non lo
sopporti neppure tu.»
«Infatti. Devo riconoscergli che s'intende di problemi di rifornimenti. Per
alcuni anni è stato a capo del contingente di lancieri che Cerrmor deve fornire
al gwerbret e armare e nutrire quegli uomini era la parte più difficile del suo
incarico, ma quando si tratta di strategia e di cose del genere non ne capisce
nulla. Unendoti al suo seguito, potresti fare al principe un grande favore.»
Per un momento Caradoc si sentì tentato di accettare, Nevyn lo capì dall'a-
ria distante che assunse nel guardare verso la piattaforma, dove il principe
sedeva alla tavola alta fingendo di ignorare la conversazione in corso, ma poi
d'un tratto scosse il capo.
«Non potrei vivere con me stesso» disse. «Non se mandassi i miei uomini
in battaglia rimanendo al sicuro dietro le linee.»
«Ah. Allora ritieni che io sia un uomo coperto di vergogna solo perché non
combatto?»
«Cosa? Naturalmente no!»
«E perché no?»
«Ecco, mio signore, tu sei uno studioso, conosci la medicina e il sapere del
dweomer e altre cose del genere... come potrebbe il principe correre il rischio
di perderti? Io invece non so fare nulla... tranne combattere.»
«E questo sapere è anch'esso a suo modo prezioso. Da quanto tempo vai in
guerra?»
«Da sempre, o quasi. Io sono nato all'inizio del secolo, mio signore, me lo
ha detto mia madre e non l'ho dimenticato. Sono nato nell'anno che i preti
chiamano 800, quindi adesso ho quasi mezzo secolo di vita.»
«Allora converrai che alla tua età non c'è nulla di vergognoso nel ritirarsi
dal campo.»
Dalla reazione seccata del capitano Nevyn, si rese conto all'istante di aver
detto la cosa sbagliata, ma ormai non aveva modo di rimediare.
«Non sono vecchio fino a questo punto!» scattò Caradoc. «Riesco ancora a
reggere la spada.»
«Non ho mai pensato il contrario. Volevo solo dire...»
«Cosa? Stai cercando di dirmi che sono troppo vecchio per andare in guer-
ra?»
«Assolutamente no!» esclamò Nevyn. «Stavo soltanto cercando di farti no-
tare che la lunga esperienza da te acquisita è preziosa.»
Caradoc si piantò le mani sui fianchi e si limitò a fissarlo con espressione
accigliata.
«Ah, bene, vuoi almeno pensarci sopra, capitano?» concluse Nevyn. «Sen-
za dubbio in seguito il principe vorrà parlarti di questo personalmente.»
«Puoi riferirgli tu la mia risposta: non sono ancora decrepito e che io sia
dannato se intendo guidare i miei uomini restando nelle retrovie.»
Nevyn lasciò cadere l'argomento. Molto più tardi, però, quando ebbe modo
di ripensare a quella conversazione, rimase colpito dal significato implicito
nella data di nascita di Caradoc. A quei tempi, molto prima che i preti inizias-
sero a esibire i calendari nei templi dove tutti potevano consultarli, le date
non avevano significato per la maggior parte della gente e Caradoc aveva
rammentato la propria data di nascita soltanto per la sua stranezza, mentre a
Nevyn essa rivelava un interessante segreto: Glyn era morto nell'anno 797
soltanto per rinascere nel corpo di Caradoc appena tre anni dopo, più presto
di quanto fosse consueto, e se aveva avuto tanta fretta di tornare alla sua
guerra non ancora conclusa non c'era da meravigliarsi se adesso rifiutava di
relegarsi al ruolo di spettatore.

Quella sera a cena Lilli sedette accanto ad Anasyn e a Peddyc. Nel suo at-
tuale stato di gravidanza avanzata, la principessa preferiva mangiare nella sua
sala e in genere le sue donne rimanevano a tenerle compagnia, ma Lilli era
scesa nella grande sala perché Anasyn voleva essere informato in modo det-
tagliato su come la stavano trattando; quando lei gli ebbe parlato della came-
retta che le era stata assegnata e dei vestiti quasi nuovi che Bellyra le aveva
regalato, lui si mostrò infine soddisfatto.
«Se però dovessi sentirti offesa in qualche modo vieni da me» interloquì
Peddyc. «Non intendo permettere che la mia figlia adottiva venga trattata
come una serva, perché sarebbe un insulto non solo a te ma a tutto il nostro
clan.»
«Ti ringrazio» replicò Lilli, «ma finora la principessa è stata davvero me-
ravigliosa con me.»
«Non ho mai conosciuto nessuno generoso come il nostro principe» com-
mentò Peddyc. «Mi rallegra apprendere che sua moglie è degna di lui.»
Alla fine del pasto, quando un paggio venne a invitare Anasyn e Peddyc a
bere del sidro con il principe, Lilli decise di tornare nella sala delle donne per
non rimanere esposta alla vista di tanti uomini, alcuni dei quali la stavano fis-
sando con evidente interesse, soprattutto un giovane biondo, alto e massiccio,
che portava la camicia e la daga proprie della guardia personale del principe.
Quel giovane l'aveva osservata per tutto il pasto e non appena lei si alzò per
andarsene fece altrettanto, con un'aria fin troppo indifferente, attraversando la
sala in modo da incontrarla; quando infine furono uno di fronte all'altra gra-
zie a quella manovra, lui le rivolse un inchino accompagnato da un accenno
di sorriso, ma Lilli finse di non accorgersene e lo oltrepassò accelerando l'an-
datura.
Giunta vicino alla porta della grande sala vide poi Elyssa intenta a parlare
con un uomo di bassa statura... insolitamente bassa a dire il vero... con la bar-
ba grigia e una massa di capelli dello stesso colore; quando li raggiunse,
l'uomo le scoccò un'acida occhiata e poi la ignorò.
«La principessa sta bene, Otho» stava dicendo Elyssa. «Le scale la stanca-
no, tutto qui.»
«È comprensibile. Riferiscile da parte mia di avere cura di sé.»
«Lo farò, ma tu non stare in ansia per lei» replicò Elyssa, poi guardò verso
Lilli e aggiunse: «Lilli, questo è Otho, l'argentiere.»
«Piacere di conoscerti» salutò Lilli.
Otho si girò a guardarla, contrasse le labbra in una parvenza di sorriso e si
allontanò a grandi passi.
«Il nostro Otho manca di buone maniere ma è devoto alla Principessa Bel-
lyra» affermò Elyssa. «Ha fabbricato per lei come dono di nozze quel deli-
zioso cofanetto con le rose intagliate e di tanto in tanto crea per lei altri pic-
coli oggetti graziosi.»
Subito Lilli si chiese se Otho era a conoscenza del malvagio segreto rac-
chiuso nel cofanetto, dato che era stato lui a fabbricarlo; naturalmente non
aveva nessuna intenzione di domandarlo all'argentiere, ma quasi che pensare
al dweomer avesse il potere di evocarlo, proprio in quel momento Nevyn
venne a raggiungere le due donne.
«Buona sera» salutò. «Mi stavo domandando se Lady Lillorigga poteva
dedicarmi qualche momento per una breve passeggiata. È una serata davvero
gradevole.»
Oltre al piccolo giardino segreto racchiuso nel suo cuore, la fortezza di
Dun Cerrmor vantava anche un grande giardino aperto alle spalle del com-
plesso della rocca principale; là i servi avevano appeso agli alberi lanterne
contenenti candele e una luna piena per tre quarti stava cominciando a sorge-
re nel cielo a intensificare quell'illuminazione. Dal momento che prima di al-
lora non aveva mai visto un giardino formale, Lilli rimase incantata dalle
lunghe aiuole di rose che cominciavano appena a sbocciare accanto a una mi-
riade di altri fiori, che contribuivano a loro volta a profumare la notte; in
mezzo a tutti quegli aromi si diramavano numerosi sentieri che si addentra-
vano fra gli alberi per perdersi nel mistero dell'oscurità e da un punto impre-
cisato nel cuore del giardino giungeva il suono argentino dell'acqua corrente.
«È un posto adorabile» commentò. «A cosa serve?»
«A nulla, tranne che a godere della sua bellezza.»
«Non avevo mai sentito parlare di cose del genere. È meraviglioso.»
«So che hai conosciuto Otho» osservò Nevyn, mentre si avviavano insieme
su un sentiero coperto di ghiaia, diretti verso il suono di acqua corrente.
«Suppongo che sia stato scortese, ma ti prego di non farci caso perché lui si
comporta così con tutti.»
«Lady Elyssa me lo ha detto. È strano, ma lui mi ricorda moltissimo Brour.
Non che Brour fosse scortese, senza contare che era giovane mentre Otho è
anziano, ma nel loro volto c'è qualcosa che mi ha indotta a chiedermi se ci sia
un legame di parentela.»
«Sì, anche se remoto. Hai occhi acuti.»
«Ne ho sempre avuto bisogno.»
«Non ne dubito. È stato Otho a fabbricare il cofanetto...»
«Lady Elyssa mi ha detto anche questo. Otho sa del suo contenuto?»
«Sì» confermò Nevyn, poi si guardò intorno e aggiunse: «Però non parlia-
mo di queste cose, finché non abbiamo la certezza che nessuno ci possa senti-
re.»
«Certamente, mio signore. Chiedo scusa.»
«Volevo parlarti ancora per spiegarti che non stavo facendo soltanto vane
minacce quando ti ho detto che un uso errato del dweomer poteva causarti
danno. È un problema di equilibrio degli umori, perché l'uso del dweomer at-
tinge dal quinto elemento, l'aethyr, e dai suoi umori. Operare la magia pro-
sciuga l'aethyr dal tuo corpo e se non sei stata adeguatamente addestrata a ri-
pristinarlo puoi ammalarti gravemente.»
«L'aethyr? Allora è questo che significa quella parola! Posso chiederti una
cosa? Qualche tempo fa io e Brour abbiamo effettuato un rituale e abbiamo
evocato uno spirito; esso ha definito Brour un figlio della Terra ma ha detto
che io ero una figlia dell'Aethyr. Cosa significa?»
«Cosa ha fatto Brour? Sei stata addestrata a operare evocazioni?»
«Quella è stata la prima, ma ci siamo esercitati molto.»
Nevyn emise una sorta di ringhio soffocato.
«Sono lieto che quanto meno ti abbia permesso di esercitarti» commentò
poi. «È ovvio che abbiamo moltissime cose di cui discutere. Lilli, per il tuo
bene ho bisogno di sapere tutto quello che ti è stato insegnato e cosa ti hanno
fatto fare Brour e tua madre.»
Lilli esitò, chiedendosi fino a che punto poteva fidarsi di lui, e Nevyn le
concesse di riflettere in silenzio mentre continuavano a camminare. Alla fine
arrivarono in una radura fra gli alberi al cui centro c'era una vasca di opaca
pietra bianca, venata d'oro dal chiarore delle lanterne, da cui l'acqua scaturiva
gorgogliante per poi riversarsi fuori di essa in cortine aggraziate su tutti i lati;
avvicinatosi alla vasca, Nevyn immerse una mano nell'acqua e la tirò fuori
sparpagliando una miriade di gocce.
«Ci sono quattro elementi» spiegò, «fuoco, acqua, aria e terra. L'aethyr è il
quinto, che secondo alcuni è la radice e l'elemento unificante di tutti gli altri.
Gli umani, le persone come me e te. attingono alla natura dell'aethyr, mentre
persone come Brour e Otho attingono alla natura della terra. Lontano, a ovest
di Deverry, ci sono altri che attingono alla natura dell'aria ma non so di esseri
che attingano all'acqua o al fuoco.»
«E queste persone sono in qualche modo diverse?» domandò Lilli.
«In qualche modo. Non pretendo di capire tutte queste cose... non ancora,
almeno» sorrise Nevyn.
Lilli scoppiò a ridere e si girò a guardare verso il centro della fontana. Nel
levarsi verso l'alto, l'acqua sembrava formare una sfera di cristallo che non
cambiava mai forma anche se le gocce individuali l'attraversavano. D'un trat-
to quella sfera scintillante parve ingrandire, intrappolando il suo sguardo, e
lei si sentì calare in picchiata attraverso l'aria per sprofondare in essa.
«Smettila!» esclamò Nevyn, afferrandola per un braccio. «Torna indietro.
Lilli! Resta qui!»
Lilli barcollò, assalita da una debolezza improvvisa, e Nevyn la sostenne
con il braccio, permettendole di appoggiarsi a lui.
«Allora è così che entri in trance. Ti riesce tanto facile?»
«È facile? Non saprei dirlo.»
«Ti do la mia parola solenne che hai un'allarmante facilità a scivolare in
stato di trance.»
«A quanto pare ho davvero molte cose da imparare.»
«Infatti. Scommetto che adesso ti senti stanchissima.»
«Sì. Guardare nell'inchiostro nero mi lasciava spossata.»
«Non ne dubito. Ora torniamo alla rocca perché hai bisogno di riposare.
Adesso però capisci perché dobbiamo assolutamente parlare di queste cose?»
«Comincio a capirlo.»
«Bene. Riprenderemo l'argomento domani.»
Rientrata nella rocca, Lilli salì nella stanza che le era stata assegnata, pic-
cola ma con un letto abbastanza comodo e con una finestra che offriva la vi-
suale di un ampio panorama. Salendo sulla cassapanca di legno ai piedi del
letto poteva vedere al di sopra delle mura della fortezza e contemplare la città
che al di là di esse digradava fino a una vasta distesa d'acqua che scintillava
argentea sotto le stelle. Per un momento si chiese di quale fiume potesse trat-
tarsi, ma poi si rese conto che quello che stava vedendo era l'oceano che si
stendeva fino ai confini del mondo e rimase a fissarlo con meraviglia per
molto tempo, cercando di immaginare le distanze, fino a quando lo sfinimen-
to non le ricordò che era ora di dormire.
Il mattino successivo, non appena sveglia tornò ad appollaiarsi sulla cassa-
panca: sotto la luce del sole l'oceano appariva ancora più vasto e rugoso come
il collo di una vecchia, effetto che Lilli ritenne essere causato dalle onde, una
cosa di cui aveva sentito parlare ma che non aveva mai visto. Era ancora in-
tenta a contemplarlo quando una serva venne a convocarla nella sala delle
donne.
«C'è tantissimo lavoro da fare, mia signora» riferì la ragazza. «Il principe
ha scelto un nuovo stemma e vuole che approntiamo gli stendardi da portare
con l'esercito, che partirà presto.»
«Allora è un peccato che non abbia scelto il nuovo stemma mesi fa» osser-
vò Lilli.
«È quello che gli ha detto la principessa, e davanti a tutti, per di più, ma lui
si è limitato a mettersi a ridere.»
Nella sala delle donne era stato approntato un grande tavolo esposto alla
luce del sole che entrava dalle finestre mentre i tavolinetti decorativi erano
stati addossati a una parete. Sul tavolo era stesa una bella pezza di stoffa di
un rosso intenso di cui Lilli non aveva mai visto l'uguale, tenuta tesa da alcu-
ni pesi posti negli angoli, e sotto la supervisione della principessa una donna
robusta dai capelli grigi stava tracciando su di essa un disegno con un pezzo
di gesso.
«La bocca deve essere più grande, Tidda» suggerì Bellyra, «in modo da da-
re un aspetto feroce.»
«Certamente, Vostra Altezza.»
«E la coda dovrebbe dare l'impressione di sferzare l'aria.»
«Sì, Vostra Altezza.»
Elyssa intanto venne a raggiungere Lilli e la salutò con un sorriso.
«Là ci sono del pane e alcuni frutti» le sussurrò. «Se però preferisci il por-
ridge, sentiti libera di scendere nella grande sala.»
«Ti ringrazio, ma il pane andrà benissimo. Questi sono gli stemmi per le
nuove bandiere del principe?»
«Infatti. Ha scelto un grifone rosso.»
Lilli sentì un brivido gelido scenderle lungo la schiena per poi risalirle tutto
il corpo.
«Cosa c'è che non va?» chiese Elyssa, sempre in tono sommesso.
«Nulla. Credo che per lui sia un presagio eccellente. Questo stemma ne fa-
rà un vincitore» si schermì Lilli.
Elyssa però la stava fissando con aria preoccupata e anche una delle serve
si era girata a fissarla.
«Forse è meglio che mangi qualcosa» dichiarò allora Lilli, in tono forzata-
mente vivace. «Vuoi scusarmi un momento?»
Con suo sollievo Elyssa lasciò cadere l'argomento, ma per tutta la mattina,
mentre con le altre donne era impegnata a cucire la sagoma del grifone rosso
su uno sfondo di lino, Lilli continuò a sentire di tanto in tanto il suo sguardo
che la osservava.

«Ha scelto un grifone rosso?» commentò Branoic. «Questa sì che è una


bella idea!»
«Perché?» replicò Maddyn. «Ne hai parlato con Nevyn?»
«No, non l'ho fatto» risposo Branoic, imprecando contro se stesso per aver
parlato prima di riflettere. «Ecco... è solo che il grifone ha un aspetto feroce,
e poi è un bello smacco per il falso re, avergli sottratto il suo stemma» im-
provvisò.
«Questo è vero» concesse Maddyn.
I due erano seduti nella grande sala intenti a far passare le ore del tardo
pomeriggio osservando alcuni dei loro compagni che all'altra estremità del
tavolo trascorrevano il tempo giocando a dadi; come sempre quando non a-
veva nulla di particolare che lo tenesse occupato, Branoic aveva permesso al-
la sua mente di vagare, e come sempre in situazioni del genere essa gli aveva
giocato uno scherzo imprevisto. A volte gli capitava di vedere strane cose,
per lo più piccole creature che passavano al limitare del suo campo visivo
oppure apparivano all'improvviso nel fuoco, mentre in altre occasioni sentiva
delle voci che lo avvertivano di eventi futuri; nella maggior parte dei casi
questi presagi si rivelavano veri e adesso lui sapeva in cuor suo che sotto lo
stemma del grifone rosso il Principe Maryn avrebbe conquistato il regno, pe-
rò non aveva nessuna intenzione di parlare con Maddo di questo suo involon-
tario talento divinatorio, perché per lui era troppo importante conservare il
favore del bardo.
«Oggi la grande sala è stranamente tranquilla» osservò dopo un po'. «Dove
sono Owaen e il capitano?»
«Non so dove sia Caradoc; quanto a Owaen è ancora negli alloggiamenti
perché il chirurgo gli ha ordinato di rimanere a letto.»
«È sempre piacevole non avere Owaen fra i piedi.»
«Oh, per gli dèi! Voi due non accantonerete mai questa faida? Quanti anni
sono passati da quando...»
«Non importa. Quel piccolo bastardo mi ha coperto di vergogna e mi ha
tolto il mio stemma, e per di più da allora ha continuato a ricordarmi la cosa.
Uno di questi giorni si spingerà troppo oltre e spazzerò l'acciottolato con la
sua brutta faccia.»
Maddyn accolse quelle parole con una sorta di ringhio che indusse Branoic
a tacere e a concentrare l'attenzione sulla partita a dadi e sulla birra che stava
sorseggiando, mentre dentro di sé pensava che presto si sarebbero messi in
marcia e si sarebbero liberati della noia della fortezza.
«A proposito di Nevyn... eccolo là» commentò d'un tratto Maddyn. «Cre-
devo che fosse in consiglio con il principe.»
Sollevando lo sguardo Branoic vide il vecchio scendere le scale insieme a
Lady Lillorigga dell'Ariete, la cui vista gli fece apparire un sorriso sul volto.
Era una ragazza davvero graziosa con quel suo taglio maschile di capelli e
quell'aria fragile, come se avesse avuto bisogno di un uomo forte che la pro-
teggesse, caratteristiche che avevano attirato immediatamente la sua atten-
zione. Quando poi si rese conto che lei e Nevyn sarebbero passati vicino al
tavolo, Branoic si affrettò ad alzarsi.
«Buon giorno, mio signore» salutò, inchinandosi. «E buona giornata anche
a te, mia signora.»
Lilli gli rivolse un sorriso improntato a un accenno di buon umore e abbas-
sò subito lo sguardo sul pavimento.
«Buon giorno a te, ragazzo» rispose intanto Nevyn, in tono un po' sorpreso.
«Maddo, come sta Owaen?»
«Sta riposando» rispose Maddyn. «Il chirurgo però ha detto che la ferita è
pulita e si sta avviando a guarire.»
Branoic intanto scoccò un sorriso a Lilli, che sollevò appena lo sguardo e
parve sul punto di parlare; in quel momento però Nevyn la prese per un brac-
cio e la condusse via, inducendo Branoic a seguirlo con lo sguardo con aria
accigliata.
«Bene, bene, bene» commentò Maddyn. «Guarda chi sta pensando di dare
la caccia a selvaggina di nobile nascita.»
«Oh, tieni a freno quella dannata lingua! Non c'è nulla di male a essere cor-
tesi, giusto?» ribatté Branoic, rimettendosi a sedere. «Ultimamente quella
dama ha sofferto molto e di certo ha bisogno di vedere di tanto in tanto un
volto amico.»
«Davvero?»
«Davvero, anche se ammetto che è una bella ragazza e che non mi dispia-
cerebbe conoscerla meglio.»
«E che se ne potrebbe fare una nobìldonna di uno come te?»
«Ecco, lei è un'esule, giusto? Non ha né terre né una dote, e quando la
guerra sarà finita un uomo della guardia del principe le potrebbe apparire un
partito interessante.»
Maddyn reagì levando gli occhi al cielo con aria di sopportazione e Bra-
noic gli sferrò un pugno scherzoso.
«Fatti pure beffe di me quanto vuoi» dichiarò poi, sorridendo. «Sono pron-
to a scommettere con te che quando i combattimenti saranno finiti e tornere-
mo qui per l'inverno riuscirò a conquistarmi il favore di Lady Lillorigga... di-
ciamo entro la metà dell'inverno.»
«Accetto!» esclamò Maddyn. «Una moneta d'argento contro dieci delle
tue.»
«Ah! Pensi che parta così sfavorito? Benissimo, ho sempre desiderato esse-
re ricco. Uno a dieci, affare fatto!»

Lavorando di ago fino a farsi dolere le dita e reclutando tutte le donne della
fortezza, perché dessero una mano, Bellyra e le sue donne riuscirono a finire
quattro grandi bandiere e sei pennoni in tre giorni. Dal momento che il tessu-
to rosso veniva dal Bardek e costava quanto due cavalli da guerra, ne usarono
ogni frammento, con il risultato che alcuni grifoni che vennero creati con di-
versi ritagli risultarono un po' irregolari lungo i bordi mentre altri vennero
brutalmente cuciti anche nel mezzo per evitare che sporgessero dalla tela di
fondo; d'altro canto, come commentò la principessa stessa, presto quegli sten-
dardi sarebbero stati così sporchi che nessuno avrebbe notato le cuciture di
troppo.
«Avremo poi a disposizione tutta l'estate per creare altre bandiere con
maggior cura» aggiunse Bellyra, «ma non ho certo intenzione di iniziare su-
bito. Per adesso abbiamo cucito tutte anche troppo.»
Le donne applaudirono quella decisione.
Nel corso di quella maratona di cucito, Lilli era riuscita a parlare con
Nevyn soprattutto di sera, quando la luce era troppo scarsa per continuare il
lavoro e loro potevano passeggiare in giardino fra le rose fino a quando il
freddo della notte non li costringeva a rientrare nella fortezza dove, natural-
mente, non potevano parlare apertamente del dweomer. Anche così, Lilli a-
veva ormai imparato quanto bastava sul significato del suo talento per legge-
re i presagi da capire la preoccupazione di Nevyn per il modo in cui esso era
stato utilizzato.
«Non voglio affermare che tutto questo ti avrebbe uccisa, anche se non è
un'eventualità da scartare» commentò Nevyn, nel corso di quella loro ultima
chiacchierata serale, «ma di certo avresti incontrato una crescente difficoltà a
schiarirti la mente dopo ogni lavoro e a tornare alla sfera di consapevolezza
normale. Dimmi, ti è mai capitato di fare un sogno tanto nitido da chiederti al
risveglio se stavi ancora sognando o meno?»
«Sì, mi è successo, ma non molto spesso» rispose Lilli.
«Riesci a immaginare come sarebbe, vivere in quel modo? Non sapere mai
con certezza se sei desta o in stato di trance, o se addirittura stai dormendo e
sognando? La tua mente fluttuerebbe in modo spontaneo dai presagi ai sogni
alla vita normale senza più barriere fra questi tre stati dell'essere.»
«È spaventoso» mormorò Lilli, portandosi alla gola una mano gelida.
«Bene. Tieni presente che si tratta di un avvertimento.»
«Che ha funzionato. Mio signore Nevyn, io non ho mai voluto i talenti del
dweomer e tanto meno li desidero ora che mi hai spiegato quanto siano peri-
colosi! Non c'è un modo in cui tu possa liberarmene? Non voglio più utiliz-
zarli e vorrei proprio che questi dannati presagi mi lasciassero in pace.»
«Anche se mi duole il cuore temo proprio che non ci sia nulla che io possa
fare. Molte persone nascono con strani talenti ma non li usano mai e con il
tempo questi doni si atrofizzano e svaniscono, come una mela marcisce se la-
sciata troppo a lungo sul ramo. Tu però hai già cominciato a usare il tuo ta-
lento e a studiare il dweomer e così facendo hai messo in movimento delle
forze che t'impediscono di tornare indietro.»
«Ma non sono stata io a volerlo! Sono stati Brour e mia madre.»
«Infatti, e la cosa mi fa infuriare al solo pensiero. Il dweomer è una cosa
che deve essere scelta liberamente proprio perché dopo non si può più tornare
indietro, mentre loro ti hanno trascinata su questa strada senza neppure dirti
dove stavi andando, recandoti un grave torto e un grosso danno.»
Lilli si azzardò a lanciare un'occhiata verso la fontana, ma anche se l'acqua
pareva avere un aspetto del tutto normale si affrettò a distogliere subito lo
sguardo prima di poter essere assalita da una visione; d'un tratto gli alberi cir-
costanti presero a frusciare in modo improvviso, strappandole un sussulto, ma
subito si calmò dicendosi che era soltanto l'effetto della brezza tesa che con il
tramonto prendeva a soffiare dal mare.
«Da un certo punto di vista sono stata io a scegliere» ammise poi. «Ho
chiesto a Brour di darmi qualche spiegazione perché volevo capire cosa si-
gnificassero i presagi che vedevo e come funzionava quello che facevo.»
«Ah, però Brour ha catturato il tuo interesse con i suoi accenni misteriosi e
tua madre ha sfruttato per molto tempo i tuoi talenti.»
«Forse è così. Tutto questo mi fa sentire molto impotente.»
«Non ne dubito. Mi dispiace, bambina, ma se non altro adesso ti sei libera-
ta di loro. Durante la mia assenza ti prego di immergerti nella vita quotidiana
della fortezza. A mano a mano che passeranno i giorni senza che ci siano no-
tizie, sono certo che ti sentirai tentata di provare a evocare la nostra immagi-
ne ma non lo fare perché prima devi recuperare le forze.»
«Benissimo, mio signore. Del resto, non sono capace di evocare immagi-
ni.»
«Ah. Bene, quest'inverno te lo insegnerò io» affermò Nevyn, poi esitò e
fissò con espressione accigliata il terreno, accanto ai piedi di Lilli, mentre
domandava: «Dimmi una cosa, Lilli: quando eri bambina, la tua madre adot-
tiva non ti ha mai raccontato storie relative al Popolo Fatato?»
«Oh, certamente, e io adoravo l'idea che ci fossero ovunque quelle piccole
creature, tanto da desiderare che esistessero davvero.»
«Succede a tutti i bambini» sorrise Nevyn, continuando però a mantenere
un'espressione alquanto perplessa. «Bene, ora devo andare a preparare i ba-
gagli e tutto il resto, e so che il tuo padre adottivo ti vuole vedere. Se non a-
vremo occasione di parlare ancora, Lilli, ti auguro buona fortuna.»
«Grazie, mio signore. Buona fortuna anche a te.»
Lilli andò quindi nella grande sala alla ricerca di Peddyc, trovando il vasto
locale intasato di guerrieri: la guardia personale del principe, le bande di
guerra di Cerrmor, i soldati che cavalcavano per gli alleati che Maryn aveva
lungo la costa erano tutti ammassati nella sala e le loro voci che parlavano e
ridevano si fondevano in un incomprensibile ruggito così stentoreo da farle
dolere gli orecchi. Finalmente rintracciò Peddyc vicino alla curva della pare-
te, intento a parlare con un nobile che lei non conosceva; nel vederla arrivare
Peddyc interruppe la conversazione e le andò incontro, accompagnandola nel
cortile dove regnava un gradevole silenzio sotto la luce della luna che stava
sorgendo fra argentei filamenti di nubi al di sopra delle torri di Dun Cerrmor.
«Bene, ho sentito che le nostre bandiere sono pronte» sorrise.
«Infatti. Possano recarvi fortuna.»
«Credo che il Wyrd del principe porterà a tutti noi la fortuna di cui abbia-
mo bisogno. Lilli, il grande rimpianto della mia vita è di non essere passato
dalla sua parte prima, quando ne ho avuto la possibilità.»
«Ma nessuno di noi sapeva come stessero le cose.»
«Infatti, e adesso è troppo tardi per discutere con gli dèi del nostro Wyrd.
Ho qualcosa da dirti, quindi ascoltami attentamente. Ho già parlato anche con
Anasyn. È tempo che lui si sposi, ma voglio che tu sappia che a Hendyr ci sa-
rà sempre un posto per te anche se spera di trovarti una sistemazione miglio-
re. Non appena i combattimenti estivi si saranno conclusi uno di noi due
provvedere a procurarti un buon matrimonio in seno ai nostri nuovi alleati.»
«Oh, padre, grazie!»
«Pare che per quest'estate ci sarà chi avrà buona cura di te. Approfittane
per ascoltare i pettegolezzi, per sentire chi sta cercando una moglie fra gli al-
leati del principe e altre cose del genere.»
«Lo farò. Sei molto buono a pensare a me in questa situazione.»
«Non credi che la nostra Bevva avrebbe voluto vederti sistemata?» replicò
Peddyc, distogliendo lo sguardo che gli si era velato di lacrime. «Il principe
mi ha promesso che quest'estate cercheremo di riconquistare Hendyr, nel qual
caso andremo a svernare là.»
Lilli esitò, pensando a Nevyn e chiedendosi come avrebbe fatto a studiare
il dweomer se fosse andata a Hendyr. In quel momento però la cosa che più
desiderava era tornare nel posto che aveva considerato la sua casa, il solo
luogo dove si fosse sentita davvero al sicuro, anche se indubbiamente adesso
era nelle mani dei loro nemici.
«Pregherò perché tu riesca a riconquistare la fortezza» disse. «Io... oh, cosa
sta succedendo?»
«Tieryn Peddyc?» chiamò un giovane paggio, che stava correndo verso di
loro. «Alle porte c'è uno dei tuoi vassalli. Lord Cam... qualche cosa. Ha detto
che se gli avessimo aperto avresti garantito tu per lui.»
«È quel che farò, ragazzo» rispose Peddyc, poi batté un colpetto sul braccio
di Lilli e aggiunse: «Ora è meglio che vada ad accoglierlo. Quanto a te, mia
figlia adottiva, abbi cura di te stessa durante quest'estate, d'accordo?»
«Lo farò, padre, e grazie.»
Nel guardare Peddyc che attraversava a passo deciso il cortile, Lilli si sentì
assalire dal timore e si chiese se lui sarebbe vissuto abbastanza a lungo da ac-
compagnarla a Hendyr, quell'autunno, e stava già pensando che forse avrebbe
potuto evocare qualche presagio in merito quando l'avvertimento di Nevyn
riaffiorò in lei, violento come uno schiaffo in pieno volto.
«Per gli dèi!» esclamò ad alta voce. «Non sono ancora partiti che già mi
sento indotta in tentazione!»
Si volse e si affrettò a tornare nella rocca, dove il rumore e l'affollamento
rendevano impossibile anche soltanto pensare al dweomer.

«E così domani comincerà la campagna estiva» commentò Branoic. «Puoi


anche darmi dell'idiota, Maddo,» ma ogni anno in questa particolare notte mi
sorprendo a ricordare Aethan.
«Oh, succede anche a me» rispose Maddyn. «Sai, quando ho inizialmente
conosciuto Aethan, al tempo in cui lui cavalcava per il Cinghiale e io ero un
cavaliere della banda di guerra di un loro alleato, non ci vedevamo per tutto
l'inverno e poi ci incontravamo a Cantrae quando il Cinghiale convocava i
suoi nobili alleati per condurli a Dun Deverry. Suppongo sia per questo che
adesso sto pensando a lui.»
«È probabile. Ah, dannazione, moriremo tutti fin troppo presto, ma mi sa-
rebbe piaciuto che lui fosse vissuto abbastanza a lungo da vedere il Principe
Maryn conquistare il trono.»
«Ai nostri morti» sospirò Maddyn, levando in alto il boccale.
Sedute ai loro lunghi tavoli, le altre daghe d'argento si unirono al brindisi.
In quei tempi esse occupavano un posto d'onore, nella parte anteriore della
sala, e il loro capitano era stato ammesso addirittura sulla piattaforma, in fon-
do alla tavola del principe, dove cenava insieme ai grandi nobili che con gli
anni avevano imparato ad accettare la sua presenza come un capriccio del
principe, se non come un diritto che lui si era guadagnato.
Il peggiore di tutti era il Tieryn Gauryc, che non si rivolgeva mai diretta-
mente a Caradoc se poteva ricorrere a un servitore perché gli riferisse un
messaggio, quasi che le sue parole potessero insozzarsi nell'essere sentite dal
capitano; per qualche momento dal suo posto Maddyn indugiò a osservare
quel nobile, un uomo massiccio di età indefinibile e dai capelli scuri tagliati
così corti che sporgevano dal cranio in una massa irregolare.
«Cosa sta escogitando il vecchio Gauryc?» sussurrò Branoic.
«Nulla, per quel che vedo. È solo che ha il potere di irritarmi.»
Tutto sorrisi e sottomessi cenni del capo, il tieryn stava conversando con il
Principe Maryn sotto l'occhio attento del Consigliere Oggyn.
«Se non altro sa usare bene la spada» replicò infine Branoic.
«È vero, e questo è ciò che conta di più.»
Stranamente, più tardi Maddyn finì comunque per parlare con il Tieryn
Gauryc; infatti aveva appena lasciato la grande sala per tornare agli allog-
giamento quando si sentì chiamare da una voce arrogante.
«Un momento, daga d'argento! Ti voglio parlare.»
Maddyn si arrestò nel fascio di luce che scaturiva dalla porta della sala e at-
tese che Gauryc lo raggiungesse.
«Si tratta di questi Arieti» esordì il nobile, facendo tintinnare delle monete
in una mano come per accertarsi che Maddyn sapesse della loro presenza. «A
quanto ho sentito, la ragazza che è con loro è nata nel clan del Cinghiale.»
«Infatti, Vostra Grazia» rispose Maddyn.
«Il nostro principe ha un cuore molto misericordioso, ma alcuni di noi sono
nati con un'indole più fredda» continuò Gauryc. «Tu fai parte della guardia
del principe e scommetto che senti tutto quello che vale la pena di sentire. Se
mai dovessi venire a conoscenza di qualcosa di sospetto sul conto di questo
tieryn e di suo figlio e verrai a informarne me o il Consigliere Oggyn, sarai
ben pagato.»
Nel parlare Gauryc protese la mano in cui teneva le monete, ma Maddyn
reagì infilando in tasca entrambe le mani.
«Posso chiedere il perché a Vostra Grazia?» disse.
Gauryc per poco non lasciò cadere le monete per la sorpresa, poi si control-
lò e indietreggiò di un passo.
«Gli Arieti godevano del pieno favore del Cinghiale, tutto qui.»
«Vostra Grazia può essere certo che se dovessi vedere Peddyc o chiunque
altro fare qualcosa che potrebbe recare anche il minimo danno al principe an-
drò subito ad avvertire Sua Altezza.»
Gauryc s'immobilizzò per un istante, poi si costrinse a sfoggiare un sorriso
forzato.
«Certamente, daga d'argento, è ovvio.»
Maddyn s'inchinò, poi girò sui tacchi e si allontanò a passo deciso; quando
ritenne di essere abbastanza distante si arrischiò a guardarsi alle spalle e sco-
prì che Gauryc era ancora fermo a fissarlo. Imprecando fra sé all'idea di es-
sersi procurato un nemico fra la nobiltà, decise quindi che se Peddyc si fosse
rivelato una persona onesta e leale avrebbe parlato con lui e con suo figlio per
metterli in guardia contro Gauryc e gli altri come lui. Dopo tutto in qualità di
bardo lui poteva parlare liberamente anche quando la cosa non andava a ge-
nio ai grandi nobili.

Per cinque giorni l'esercito del Principe Maryn procedette lento ma al sicu-
ro verso nord attraverso le terre dei vassalli fedeli al principe, quelli che lo
avevano sostenuto fin dall'inizio, anche se quando fossero poi giunti nelle ter-
re di coloro la cui fedeltà dipendeva invece dall'andamento della guerra a-
vrebbero dovuto procedere con maggior cautela. Nell'ordine di marcia il
Principe Maryn procedeva sempre alla testa dell'esercito insieme alle sue da-
ghe d'argento, i soli cavalieri dell'intero esercito che anche in quel territorio
sicuro viaggiassero portando indosso la cotta di maglia e tenendo lo scudo
appeso al pomo della sella. Dietro di esse venivano i nobili e le loro bande di
guerra in ordine di rango, poi seguivano i lancieri pronti a difendere il convo-
glio delle vettovaglie che chiudeva la lunga colonna.
Nevyn dal canto suo si spostava di qua e di là nella formazione a seconda
dell'umore del momento, anche se cercava di rimanere nelle prime file per e-
vitare la polvere; ogni notte procedeva poi a evocare immagini del tratto di
territorio che avrebbero percorso l'indomani, e anche se si sentiva colpevole
per il modo in cui stava utilizzando il dweomer, ogni volta si ripeteva che a-
veva trascorso troppi anni a impiegarlo per porre Maryn sul trono perché
qualche altra trasgressione potesse adesso avere importanza.
A ogni città o fortezza in cui giungevano, le dimensioni dell'esercito au-
mentavano e la velocità di marcia rallentava ulteriormente. Ogni nobile era
impegnato a fornire un certo numero di cavalieri insieme a cavalcature di
scorta, servitori, fabbri, chirurghi, carri di provviste e di altre scorte, i carret-
tieri per condurli e, nel caso di vaste tenute, anche un contingente di lancieri,
quindi quando infine arrivarono a Yvrodur l'esercito ammontava ormai a ol-
tre quattromila cavalieri, mille lancieri e uno sciame di servitori e di artigiani.
«Una quantità di bocche in più da nutrire» commentò Oggyn in tono dolen-
te. «Peraltro sta cominciando ad arrivare il primo raccolto.»
«Suvvia» sorrise Nevyn. «Devo dire che sei nel tuo elemento e che stai
svolgendo un lavoro eccellente.»
«Ti ringrazio» replicò Oggyn, cercando invano di mostrarsi umile.
I due erano in piedi su una bassa altura che dominava l'accampamento che
si allargava lungo la riva del fiume appena a nord della città. Dal momento
che le nubi basse promettevano pioggia, gli uomini erano impegnati a monta-
re le tende che stavano sbocciando come fiori sporchi in mezzo a una ribol-
lente confusione di cavalli e di cavalieri; nel centro del campo spiccava il pa-
diglione bianco del principe, decorato da numerose bandiere... lo stallone di
Pyrdon, le tre navi di Cerrmor e il nuovo grifone rosso di Deverry.
«L'esercito più grande che Deverry abbia mai visto» commentò Oggyn.
«Scommetto che il falso re non riuscirà a schierare truppe altrettanto numero-
se.»
«Non fare nessuna scommessa del genere» ammonì Nevyn. «Il Tieryn
Peddyc ci ha informati che il Reggente Burcan ha persuaso i suoi nobili a
privare le loro fortezze di ogni uomo disponibile.»
«Oh, non lo sapevo» replicò Oggyn, irrigidendosi. «In tal caso questa è la
loro ultima difesa.»
«Possiamo sperarlo, sempre che si riesca a vincere.»
«Uh... ecco, naturalmente» balbettò Oggyn, deglutendo a fatica. «Ora è
meglio che vada. Yvrodur ci deve una scorta di carne secca oltre a un contin-
gente di lancieri e devo accertarmi che venga consegnata.»

«Partiremo domani» annunciò Burcan. «L'esercito dell'Usurpatore si sta di-


rigendo al nord.»
«Gli esploratori sono rientrati?» chiese Merodda.
«Infatti. Sono arrivati fino a Yvrodur e dicono che gli uomini stanno accor-
rendo per unirsi all'esercito dell'Usurpatore.»
«Allora si tratta di cattive notizie.»
«Non sono poi così cattive. Le nostre forze sono numericamente pari alle
sue e avremo la posizione più vantaggiosa in quanto lui dovrà venire a cer-
carci e affrontarci su un terreno di mia scelta.»
Merodda si limitò ad annuire. Avvolti nei mantelli per proteggersi dall'u-
midità della notte lei e suo fratello stavano passeggiando lungo i bastioni del
cortile interno, dove Merodda si era recata nella speranza di trarre qualche
presagio e dove poi Burcan l'aveva raggiunta. Girandosi, Merodda si appog-
giò al muro per guardare oltre la collina cinta di mura di pietra che si staglia-
vano nere sullo sfondo grigio della notte; in alto nubi dense di pioggia si sta-
vano lacerando per poi allontanarsi verso sud, rendendo visibili grandi tratti
della Strada Nevosa. Sospirando, Burcan si appoggiò accanto a lei, sfiorando-
le la spalla con la propria.
«È un peccato che tua figlia abbia scelto di passare al nemico» commentò.
«perché in questo momento il suo particolare talento ci sarebbe tornato utile.»
«Infatti. Quella piccola cagna!» ringhiò Merodda, pervasa da un'ira che
cancellò in lei ogni possibilità di cogliere presagi inviati dal dweomer. «Non
avrei mai pensato... e anche Peddyc, per di più! Ma perché? Perché è passato
dalla parte dell'Usurpatore?»
«Può darsi che abbia capito chi si celava dietro il tuo piccolo inganno.»
«Oh, adesso sarebbe il mio inganno, vero? Tu però sei stato pronto a parte-
ciparvi.»
Sentendo Burcan che s'irrigidiva, Merodda si ritrasse leggermente e si girò
per scoccargli un'occhiata, ma nella tenue luce che proveniva dal cortile sot-
tostante riuscì a stento a distinguere il suo volto, atteggiato a una maschera
indecifrabile.
«È vero» ammise infine Burcan. «Non dovrei biasimare te. Suppongo che
Lilli abbia scoperto la verità e l'abbia detto a Peddyc.»
«È quel che credo anch'io. È la sola cosa a cui riesco a pensare, visto che
hanno disertato entrambi.»
«In ogni caso non ha molta importanza. Quello che conta è che Peddyc se
n'è andato insieme ai suoi vassalli, e solo gli dèi sanno quanto scontento quel
bastardo si sia lasciato alle spalle. Non mi ero reso conto di quanto fosse sti-
mato, perché altrimenti gli avrei dato maggiore importanza. Adesso però è
troppo tardi» concluse Burcan, scuotendo il capo. «Quassù fa un dannato
freddo, per essere una notte di primavera. Io rientro, e tu?»
«Io resterò ancora un poco» replicò Merodda.
«Benissimo» annuì lui, facendole scorrere una mano lungo la schiena e ar-
restandola su un gluteo. «Ti aspetterò nelle tue camere.»
Una volta sola Merodda levò lo sguardo verso le stelle e mise a fuoco la
propria concentrazione. Spesso sullo fondo della loro luce scintillante le riu-
sciva di vedere immagini del presente e del futuro, ma quella notte esse si ri-
fiutarono di materializzarsi e quando lei cercò di pensare a Lilli, evocando
l'immagine del suo volto per trasformarla in una visione di sua figlia, di nuo-
vo le stelle rimasero immutate, senza fondersi per effetto del dweomer.
Nel corso del lungo viaggio che Lilli aveva compiuto verso sud Merodda
non aveva avuto difficoltà a evocare la sua immagine, ma da quando lei era
arrivata a Cerrmor tutti i suoi tentativi di rintracciarla si erano risolti in un
fallimento.
Sulla scia di quelle riflessioni Merodda si trovò a ricordare Brour e l'avver-
timento che questi le aveva dato in merito al suo vecchio maestro che risie-
deva a Cerrmor e che probabilmente adesso stava schermando Lilli alla sua
vista, e nel chiedersi quanto potesse essere potente questo mago di nome
Nevyn si sentì assalire da un brivido involontario, che la indusse ad abbando-
nare le stelle a loro stesse e a rientrare nella fortezza.

Quando il Grifone Rosso lasciò Yvrodur, il grosso dell'esercito cominciò a


essere preceduto da squadre composte da cinque esploratori che potevano
viaggiare a una velocità doppia della grande massa di uomini e lasciare a trat-
ti la strada del fiume per percorrere viottoli che tagliavano attraverso i campi,
sfruttando ogni minima altura per avere una buona visuale della circostante
pianura fluviale.
La prima mattina dopo al partenza da Yvrodur, Caradoc pose Branoic a ca-
po di una delle squadre, composta da cinque daghe d'argento che avrebbero
cavalcato in gruppo ma si sarebbero tenute pronte a sparpagliarsi per tornare
verso l'esercito al minimo segno di pericolo.
«Ricordate, ragazzi, niente eroismi» raccomandò. «La cosa importante è
avvertire il resto di noi, e non potrete farlo se sarete morti.»
«Infatti, capitano» annuì Branoic. «Avanti, ragazzi, in cammino.»
Per alcuni chilometri i cinque spinsero i cavalli al trotto in modo da porre
una certa distanza fra loro stessi e il grosso dell'esercito, poi rallentarono al
passo, tenendo il fiume sulla sinistra e avendo sulla destra un campo di grano
ancora verde che si agitava sotto l'alito di una lieve brezza. Rimanere sul chi
vive sotto il caldo sole estivo non era una cosa facile, e purtroppo gli altri
uomini che erano stati estratti a sorte insieme a lui non erano portati per la
conversazione, quindi entro breve tempo la mente di Branoic prese a vagare
popolando il mondo circostante di minuscole creature.
A tratti lui era certo di scorgere membri del Popolo Fatato che cavalcavano
la corrente del fiume o di vedere piccoli volti che facevano capolino fra l'er-
ba, accanto alla strada, e in un'occasione sentì distintamente una voce chia-
marlo per nome. Infuriarsi non serviva a nulla, perché quanto più s'irritava
per la facilità con cui cadeva preda di queste fantasie infantili, tanto più di-
stinti diventavano suoni e immagini.
Sempre più cupo, si sforzò di concentrare l'attenzione solo sulla strada, ma
anche su di essa si materializzarono alcuni gnomi grigi che al passaggio della
squadra gli rivolsero un cortese cenno di saluto.
Finalmente, quando ormai il sole era prossimo allo zenit, si presento un va-
lido motivo di distrazione. In quel punto il fiume e la strada descrivevano en-
trambi una curva verso est e quando la squadra lo lasciò per seguire la scor-
ciatoia offerta da uno stretto sentiero che correva fra due campi. Branoic av-
vistò una chiazza indistinta all'orizzonte.
«Polvere!» esclamò. «Fermatevi, ragazzi!»
Mentre la squadra si arrestava alle sue spalle lui si sollevò sulle staffe e si
riparò gli occhi con la mano libera per veder meglio: in effetti una rossa nu-
vola di polvere stava avanzando costante lungo la strada, diretta verso di loro.
«Trevyr! Torna dal principe e riferisci che stanno arrivando dei cavalieri,
un contingente numeroso ma non un esercito.»
«Vado subito» rispose Trevyr il rosso, facendo girare il cavallo. «Vuoi che
chieda di mandarti qui altri uomini?»
«No, ma è meglio che tu parta immediatamente.»
Trevyr si allontanò al trotto lungo il viottolo e Branoic riprese a osservare
la nuvola di polvere, che venne avanti con lentezza fino a trasformarsi in una
colonna di uomini a cavallo, seguiti da quelli che sembravano essere un paio
di carri... probabilmente un alleato che stava venendo a unirsi all'esercito.
Dopo aver mandato indietro un altro messaggero con quelle notizie, nella re-
mota eventualità che quei nuovi arrivati costituissero invece un pericolo,
Branoic tornò sulla strada con i due uomini che gli erano rimasti; quando vi
arrivò, la colonna era ormai abbastanza vicina da permettere di distinguere gli
stemmi sugli scudi... un cerchio azzurro intrecciato a una linea di un azzurro
più cupo... e di constatare che esso gli era del tutto sconosciuto.
«È meglio andarcene di qui» disse.
Le altre due daghe d'argento annuirono in segno di assenso e subito giraro-
no il cavallo, allontanandosi al trotto veloce lungo la strada; Branoic invece
indugiò per un momento ancora per valutare le dimensioni del contingente,
che pareva ammontare a circa centoventi uomini, tutti privi della cotta di ma-
glia e con lo scudo appeso al pomo della sella. Quando ormai si stava prepa-
rando ad allontanarsi al galoppo, il nobile che procedeva in testa alla colonna
gli lanciò un richiamo per trattenerlo.
«Sei un uomo di Cerrmor?» chiese.
Branoic esitò ma poi rifletté che aveva tutto il vantaggio necessario per di-
stanziare quei cavalieri e che ormai l'esercito del principe doveva aver ridotto
la distanza a cui si trovava dalla sua posizione.
«Sì» rispose. «Sei amico o nemico?»
«Amico! Credi che altrimenti mi starei dirigendo verso un esercito di mi-
gliaia di uomini?»
Ridendo Branoic trattenne il cavallo e attese in tutta tranquillità che la co-
lonna percorresse la cinquantina di metri che ancora la separava da lui, poi si
andò ad affiancare al nobile che lo aveva chiamato a sé con un cenno. Questi
aveva un volto arrossato che si assottigliava verso il mento e pareva aver per-
so la maggior parte dei denti anche se non era possibile capire se a causa di
un colpo o dell'età avanzata.
«Non ho mai avuto l'onore di incontrarti, mio signore» osservò Branoic.
«Non ne dubito. Sono Daeryc di Glasloc.»
«Oh, per gli dèi! Er... chiedo scusa a Vostra Grazia.»
«Sei un po' sorpreso, vero? Non ti biasimo per questo, ragazzo: se lo scorso
anno qualcuno mi avesse detto che avrei cambiato fazione, lo avrei fatto im-
piccare alle mie mura» sospirò Daeryc. «Dannate guerre! Un uomo non può
più essere sicuro delle sue scelte!»
Branoic si limitò a un cortese sorriso.
«E tu chi sei?» chiese poi Daeryc.
«Soltanto un uomo della guardia del principe. Guarda davanti a te, mio si-
gnore... puoi vedere la polvere che accompagna l'avvicinarsi dell'esercito. Io
devo rimanere all'avanguardia, quindi ti saluto e ti auguro buona fortuna.»

Quando l'esercito si fermò per far riposare i cavalli, Nevyn raggiunse il


principe che, fermo accanto alla sua cavalcatura, stava mangiando senza tante
cerimonie un pezzo di pane come il resto dei suoi uomini; vicino a lui un ser-
vo stava però provvedendo a togliere la sella al suo cavallo per permettergli
di rotolarsi nell'erba e poi portarlo a bere.
«Nevyn!» chiamò Maryn. «Hai visto arrivare Daeryc di Glasloc?»
«L'ho visto, Vostra Altezza. Il Tieryn Peddyc e suo figlio sono stati molto
contenti del suo arrivo.»
«Non ne dubito. Per un nobile che decida di cambiare bandiera non è cosa
da poco convincere il suo signore a fare altrettanto. Vogliamo andare a senti-
re cos'ha da dire Sua Grazia in merito alla sua decisione?»
Trovarono Daeryc poco lontano, intento a parlare con Peddyc mentre A-
nasyn si prendeva cura dei cavalli di tutti e tre. Alla vista del principe Daeryc
si lasciò cadere in ginocchio e Nevyn si fermò in disparte, concentrando lo
sguardo su di lui e attingendo alla vista indotta dal dweomer per studiare l'au-
ra di Daeryc per tutta la durata del colloquio, senza cogliere la minima traccia
di tradimento.
Se Maryn avesse dovuto fare affidamento su consiglieri comuni per giudi-
care il valore dei suoi alleati, di certo non avrebbe potuto essere così genero-
so nell'elargire condoni.
«Vostra Grazia si può rialzare» affermò infine Maryn. «Il qui presente
Tieryn Peddyc ha già garantito per te.»
«In tal caso hai la mia gratitudine» replicò il gwerbret, rialzandosi e sfog-
giando uno strano sorriso a labbra strette, un modo di fare che Nevyn suppose
essere dovuto alla perdita dei denti. «Voglio essere schietto con Vostra Al-
tezza. Non avrei mai pensato di passare dalla tua parte, ma il vero re a Dun
Deverry è il Reggente Burcan e questa è una verità troppo amara perché io
possa inghiottirla.»
«È una cosa che ho sentito dire da più di un nobile» replicò Maryn. «Il
Cinghiale deve essere un uomo duro.»
«Duro? Ah!» esclamò Daeryc. «Direi piuttosto che è marcio fino al midol-
lo.»
«Dimmi una cosa» continuò Maryn. «Tu sei venuto qui a unirti a noi, libe-
ro come un uccello, e tuttavia a Dun Deverry deve essere ancora in corso il
raduno delle truppe.»
«Si è concluso alcuni giorni fa, Vostra Altezza. Una volta che si è reso con-
to che Peddyc non intendeva tornare indietro dopo aver seppellito sua moglie,
Burcan si è però ricordato di Dun Hendyr e dal momento che io sono il si-
gnore di Peddyc mi ha mandato là insieme ad alcuni dei suoi uomini per oc-
cupare la fortezza. Quando ci siamo arrivati, Hendyr era vuota, quindi ho la-
sciato di guardia gli uomini di Burcan e mi sono diretto al sud» spiegò Da-
eryc, e dopo aver fatto una pausa a effetto concluse: «Niente di meglio di una
volpe, per custodire un pollaio, vero?»
E si concesse di sorridere della propria battuta mentre Maryn scoppiava a
ridere di gusto.
«Benissimo» concluse poi il principe. «Senza dubbio adesso il Reggente ci
starà venendo incontro.»
«Verissimo, Vostra Altezza» annuì Daeryc, «e io sono dannatamente con-
tento di averti raggiunto prima di lui.»

Quando arrivò il momento, la battaglia si svolse su un terreno scelto dal


Cinghiale, sfruttando il fatto che un esercito vasto come quello di Maryn a-
veva bisogno di quantità spaventose di acqua ed era quindi costretto a seguire
la strada del fiume. Circa tre chilometri a sud del Ponte di Camrydd, il fiume
descriveva una curva verso est prima di tornare a incurvarsi verso nord e in
quell'ansa da esso creata si allargavano due lunghi prati verdi, sui quali Bur-
can dispose i suoi uomini per bloccare al nemico la strada verso Dun De-
verry, dopo aver installato il proprio campo qualche chilometro più indietro.
Evocata per tempo l'immagine del nemico, Nevyn si affrettò a riferire la
notizia al Principe Maryn poco dopo l'alba e subito i guerrieri procedettero ad
armarsi mentre il convoglio delle vettovaglie si preparava alla difesa. Nel
corso delle battaglie il comando del campo spettava a Oggyn, che conosceva
bene quel lavoro e lo svolgeva al meglio, anche se questo era un merito che
soltanto Nevyn era pronto a riconoscergli. Fra una tempesta di imprecazioni e
di grida i carrettieri disposero in cerchio i loro carri, poi ci fu un crepitare di
fruste e un'altra scarica di imprecazioni quando essi cercarono di costringere i
cavalli a indietreggiare in modo da ottenere una formazione serrata; scam-
biandosi grida e richiami i servitori procedettero poi ad ammucchiare le
provviste al centro del cerchio e gli stallieri fecero altrettanto con i cavalli di
scorta, che caracollavano e sbuffavano per l'eccitazione. Infine i lancieri pre-
sero posizione all'esterno del cerchio, anch'essi in formazione serrata, e atte-
sero appoggiati alle lance sbadigliando con finta indifferenza.
Su un lato del cerchio i chirurghi requisirono intanto alcuni carri, ne stacca-
rono i cavalli e li mandarono all'interno del cerchio, ripulendo alla meglio il
fondo dei veicoli in modo da potervi adagiare i pazienti che sarebbero affluiti
entro breve tempo. Mentre essi provvedevano ad accumulare scorte di acqua
e di legna da ardere per accendere il fuoco con cui scaldarla, Nevyn venne in-
fine a raggiungerli, senza troppo entusiasmo perché dopo aver assistito per
tanti anni al banchettare della Morte non riusciva più a sopportare la vista
della battaglia. Nonostante questo tenne comunque il suo cavallo sellato e
pronto, nel caso che il principe avesse avuto bisogno del suo dweomer o delle
sue arti di risanamento... cosa di cui il Popolo Fatato avrebbe provveduto ad
avvertirlo nel caso che il suo intuito gli fosse venuto meno. Il vecchio stava
legando il cavallo a uno dei carri quando Caudyr, il chirurgo delle daghe d'ar-
gento, gli si avvicinò con la sua andatura zoppicante dovuta a un piede equi-
no che con il passare degli anni gli causava un dolore sempre più intenso.
«Sei pronto?» gli chiese Nevyn.
«Pronto quanto può esserlo chiunque fra noi, il che significa non molto» ri-
spose Caudyr.
Sul campo scese quindi il silenzio mentre tutti osservavano i cavalieri mon-
tare in sella fra nubi di polvere e uno scalpitare di zoccoli, confusione seguita
da uno squillare di corni quando i nobili tentarono di radunare gli uomini con
una certa parvenza di ordine e di assumere una formazione allargata. Se si
fossero incolonnati Burcan avrebbe potuto colpirli sul fianco e conquistarsi
una comoda vittoria. Alla testa di quello sciame di uomini, le bandiere del
Grifone Rosso si agitavano sulle loro aste, oscillando a tratti con l'assestarsi
in sella dei cavalieri che le reggevano. Quanto al principe, Nevyn non riuscì a
scorgerlo in mezzo a quella massa di uomini.
I corni stridettero ancora, i nobili impartirono gli ultimi ordini e i cavalieri
lanciarono grida di assenso, poi l'avanguardia dell'esercito si mosse e a mano
a mano che le prime file si misero in marcia, quanti si trovavano nel centro
cominciarono a spintonarsi per prendere posizione mentre la retroguardia si
limitava ad attendere il suo turno per incamminarsi. L'esercito era tanto vasto
che impiegò molto tempo ad allontanarsi; per qualche minuto ancora Nevyn
riuscì a vedere la polvere da esso sollevata e a sentire il tintinnare dei fini-
menti e le grida degli uomini, poi la polvere tornò lentamente a posarsi e su
tutto scese il silenzio. Con la corazza indosso e una lancia in pugno, Oggyn
venne allora a cercare Nevyn.
«Speriamo per il meglio, eh?» commentò.
«Infatti. Adesso non c'è altro che possiamo fare» rispose il vecchio.
Oggyn annuì con aria decisa e tornò presso i suoi uomini. Lenta, l'attesa si
protrasse mentre il sole saliva inesorabile nel cielo, promettendo una giornata
torrida, poi Nevyn sentì d'un tratto un gracchiare di uccelli e nel sollevare lo
sguardo vide alcuni corvi che stavano sorvolando veloci il campo, diretti ver-
so il luogo della battaglia.
«Ah» mormorò, rivolto a Caudyr. «È cominciata.»

Come parte della guardia del principe, Branoic e le altre daghe d'argento
avevano il compito di proteggere Maryn e non di partecipare alla battaglia
vera e propria. Se avesse potuto fare a modo suo, Maryn avrebbe guidato o-
gni singola carica e sarebbe morto già da tempo, condannando la propria cau-
sa al fallimento e permettendo ai Cinghiali o ai loro candidati di fregiarsi del
titolo di Sommo Re di Deverry, ma nel corso degli anni Nevyn era riuscito a
persuaderlo del fatto che era meglio vivere per vincere e per quanto persistes-
se nel protestare, Maryn si era rassegnato a rimanere con le sue guardie e a
lasciare che Caradoc impartisse gli ordini diretti a proteggerlo. Non che que-
sto gli evitasse di prendere parte al combattimento, dato che prima o poi con-
tingenti nemici riuscivano sempre a individuare il principe sul campo e pun-
tavano su di lui decisi a tentare di ucciderlo.
Su quella pianura uniforme e in mezzo a tanta polvere ben presto i due e-
serciti si mescolarono in una massa cieca in cui i nemici venivano identificati
con gli uomini più vicini di cui non si conosceva lo stemma. Le grida di guer-
ra, i richiami e le urla di dolore degli uomini miste al nitrire dei cavalli si fu-
sero con il clangore delle armi su cotte di maglia e scudi, creando un ruggito
uniforme che soffocava qualsiasi altro suono tranne lo squillare acuto dei
corni. Cavalcando sul fianco destro del principe, Branoic aveva un quadro vi-
sivo ancor più ristretto della maggior parte dei suoi compagni. Continuava a
girarsi per controllare che non ci fossero nemici che cercavano di prenderli
alle spalle, ma non riusciva a spingere lo sguardo a una distanza superiore ai
sei metri nei momenti di massima visibilità e ai tre quando la polvere si face-
va più fitta.
A poco a poco la pura e semplice pressa di corpi di uomini e di cavalli in-
torno a loro divenne una cosa spaventosa, al punto che un nemico avrebbe
potuto avvicinarsi e attaccare il cavallo del principe senza quasi essere notato.
Dal momento che stava impugnando la spada con una mano e reggendo lo
scudo con l'altra, Branoic doveva guidare il suo animale con le ginocchia e
questo gli rendeva impossibile girarsi del tutto sulla sella per avere una visua-
le completa, quindi poteva soltanto imprecare, e pregare mentre si voltava di
continuo a destra e a sinistra come un danzatore, con il sudore, che aveva da
tempo inzuppato la camicia e stava ora infradiciando anche l'imbottitura sot-
tostante la cotta di maglia.
La battaglia continuò senza soste e anche se non ebbe mai un solo momen-
to di tempo per guardare verso il cielo, Branoic si rese conto del trascorrere
delle ore a causa del calore sempre più intenso del sole che gli batteva sulla
schiena, come pure dal fatto che il suo cavallo cominciava ad avere la schiu-
ma alla bocca, cosa a cui peraltro lui non aveva modo di porre rimedio. In
tutto quel tempo il suo gruppo si era spostato al massimo di un centinaio di
metri sul campo di battaglia, trascinato dall'andamento dello scontro a mano
a mano che l'esercito del Reggente indietreggiava e che quello del Grifone
Rosso persisteva nell'incalzarlo. D'un tratto il centro dello schieramento del
Reggente ebbe un cedimento improvviso e Branoic fece appena in tempo a
pensare che si trattava di una trappola che sentì echeggiare alle proprie spalle
accese grida di guerra a conferma della sua supposizione.
«Sono qui!» esclamò.
Mentre lottava per girare il proprio cavallo nella calca, vide la daga d'ar-
gento che gli era accanto accasciarsi sul collo della sua cavalcatura, che s'im-
pennò in preda al panico, fornendogli così il tempo esatto di cui aveva biso-
gno per abbassare lo scudo, afferrare le redini e voltare il cavallo. Proprio in
quel momento il primo cavaliere del Cinghiale oltrepassò le file degli uomini
del principe che si trovavano alla retroguardia. Qualcuno fu pronto ad abbat-
terlo, ma subito altri guerrieri che portavano sullo scudo l'emblema del cin-
ghiale grigio si affrettarono a prendere il suo posto.
Urlando ordini a gola spiegata Caradoc stava facendo girare la squadra per
fronteggiare la muova minaccia; dal canto suo Branoic continuò a parare più
che ad attaccare e in questo modo riuscì a tenere gli aggressori del Cinghiale
intrappolati alle spalle dei loro stessi uomini di punta fino a quando Owaen si
fece largo nella calca e venne a raggiungerlo. Come sempre durante qualsiasi
scontro, Owaen combatteva in assoluto silenzio e con il respiro che non rive-
lava quasi la minima traccia di affanno mentre lui tempestava di fendenti il
nemico. Poi alle loro spalle echeggiarono grida di guerra lanciate da voci fa-
miliari e intorno al principe si venne a creare un vero e proprio muro vivente.
Branoic ebbe il tempo di abbattere un avversario, cogliendolo alla sprovvista
e colpendolo con tanta forza alla faccia da schiacciargli la visiera dell'elmo
per poi farlo crollare di sella con un secondo colpo. A un certo punto gli uo-
mini del Cinghiale si dileguarono rapidi com'erano apparsi, ritirandosi senza
cessare di combattere per aprirsi un varco fra le daghe d'argento. Al tempo
stesso la coltre di polvere che gravava sul campo cominciò ad assottigliarsi e
Branoic si rese conto di poter spingere lo sguardo a una buona distanza.
«Quei bastardi si stanno ritirando!» gridò Caradoc. «Voi però state dove
siete, ragazzi! Rimanete con il principe!»
Guardando verso il cielo, Branoic constatò che il sole era appena giunto al-
lo zenit.
«Come battaglia non è stata granché» grugnì Owaen.
«Forse volevano solo valutare la nostra forza.»
«Oh, adesso sei diventato un cadvridoc, vero? Oppure riesci a leggere nella
mente dei nostri nemici come fa il vecchio Nevyn?»
Senza dubbio Owaen non si rese conto in quel momento che stava ri-
schiando di morire. Branoic infatti sentì la propria spada sollevarsi per colpi-
re come se un demone ne avesse afferrato l'elsa e gli stesse guidando la ma-
no.
«Fermo!» ingiunse Caradoc, interponendosi fra i due. «Owaen, portati al-
l'avanguardia.»
Imprecando, Owaen obbedì all'ordine e Branoic abbassò la spada, accor-
gendosi di avere il respiro affannoso.
«Ti ringrazio, capitano» disse, «e ti porgo le mie scuse.»
«Questa volta è Owaen che dovrebbe scusarsi, ma che io sia dannato se lo
voglio vedere morto. Mi hai capito?»
«Sì, capitano.»
«Bene» approvò Caradoc. poi si sollevò sulle staffe per osservare il campo
di battaglia ed esclamò: «Dannazione, si stanno ritirando in buon ordine. E io
che speravo in una rotta!»
«Non diamoci delle arie» affermò Maryn. «Abbiamo vinto quella battaglia
perché nessuno sapeva come combatterla. I due più grandi eserciti che De-
verry abbia mai visto... per gli dèi! Non è stata una battaglia!»
«È vero, Vostra Altezza» convenne Caradoc. «Mi ha ricordato più una ris-
sa in una taverna affollata. In genere è per questo che se si ha voglia di scate-
nare una rissa si preferisce farlo all'aperto.»
«Infatti. Io non avevo mai schierato in campo tanti uomini.»
«E neppure Burcan.»
Il principe annuì. I nobili e i loro uomini si erano da tempo ritirati per la
notte, ma lui e Caradoc erano ancora seduti accanto al fuoco del consiglio,
ormai ridotto a un letto di braci; sbadigliando, prossimo lui stesso a cedere al
sonno, Nevyn era seduto insieme a loro anche se si sentiva sfinito, perché era
rimasto in piedi da quando erano cominciati ad affluire i primi feriti che era-
no riusciti a rientrare al campo con i loro mezzi fino a pochi momenti prima,
quando aveva dovuto rinunciare a ogni speranza per l'ultimo dei pazienti più
gravi.
«Un problema interessante» continuò Caradoc. «Ricordo la nostra prima
estate a Cerrmor, quando avremmo dato un braccio a testa pur di avere più
uomini. A quel tempo ingaggiavamo soltanto le battaglie che non potevamo
evitare e lo facevamo cercando di essere veloci e astuti. E adesso che abbia-
mo gli uomini...»
«Siamo lenti come ranocchi in pieno inverno» concluse per lui Maryn.
«Nevyn, tu cosa ne pensi?»
«Eh?» borbottò Nevyn, riscuotendosi dal suo stato di torpore. «Chiedo scu-
sa a Vostra Altezza ma non stavo ascoltando.»
«No, no, sono io quello che si dovrebbe scusare con te. Sei sfinito, va' a ri-
posare un poco.»
«Ti ringrazio. Humph, si vede che sto diventando vecchio.»
Evidentemente anche il Reggente Burcan stava rivedendo le proprie tatti-
che perché per due giorni l'esercito del Cinghiale continuò a ritirarsi verso
nord tallonato da quello del Grifone Rosso. Quanto più le truppe si avvicina-
vano alla Città Santa, tanto più il terreno si faceva collinare, fino a quando il
terzo giorno arrivarono alle Colline Meridionali, dove il terreno si alzava in
una serie di rilievi simili alle onde del mare. Quella conformazione del suolo
permetteva agli esploratori di spingere lontano lo sguardo, e quando fecero ri-
torno al campo, la sera del terzo giorno, essi riferirono che l'esercito di Bur-
can si era attestato su una bassa altura distante circa sette chilometri verso
nord, in modo da bloccare di nuovo la strada ma da godere questa volta di
una posizione sopraelevata.
Non erano certo buone notizie. Quella notte il principe convocò un consi-
glio di guerra presso il suo fuoco e dopo aver lasciato che i nobili discutesse-
ro fra loro per qualche tempo in toni accesi si rivolse come al solito a Cara-
doc.
«Sono stati astuti» affermò questi. «Passeremo davvero dei brutti momenti
se cercheremo di andare alla carica su per il fianco di quella collina.»
«Infatti» annuì Maryn. «Se ci proveremo abbatteranno i nostri cavalli non
appena arriveranno in cima.»
«Vorresti proporci di combattere a piedi, mio signore?» ringhiò il Tieryn
Gauryc. «Di certo non vorrai suggerire una cosa del genere!»
La maggior parte dei nobili balzò allora in piedi, cominciando a protestare,
ma Maryn sollevò una mano per imporre il silenzio.
«Ascoltatemi fino in fondo!» gridò.
A poco a poco i nobili tacquero e con la coda dell'occhio Nevyn vide
Peddyc calmare Daeryc posandogli amichevolmente una mano sulla spalla.
«Se cercheremo di combattere a piedi ci potranno travolgere con una carica
di cavalleria, lo so bene quanto voi» proseguì intanto Maryn. «Voi cosa sug-
gerite, miei signori? Con un esercito così vasto non possiamo semplicemente
prenderli sul fianco e aggirare la loro posizione.»
I nobili rifletterono a lungo, senza però che nessuno avanzasse un suggeri-
mento.
«Avendo il fiume da un lato» continuò infine Maryn, «non possiamo nep-
pure dividere le nostre forze per circondarli. Burcan ha davvero scelto il po-
sto ideale per una battaglia.»
«Uh... ecco» cominciò il Tieryn Peddyc, «se soltanto trovassimo il modo di
allontanarli da quella collina...»
«Una buona idea, mio signore» approvò Caradoc.
D'un tratto Nevyn si accorse che il capitano lo stava fissando intensamente
e per tutta risposta incrociò le braccia sul petto, ricambiando lo sguardo con
espressione rovente perché non voleva prendere parte direttamente ai com-
battimenti. Quasi gli avesse letto nella mente, Caradoc gli si avvicinò con un
sorriso.
«Facciamo due chiacchiere tu e io» suggerì, «lontano da queste discussio-
ni.»
Poi passò un braccio sotto il suo e con fermezza lo guidò verso il campo
immerso nell'oscurità, lontano dalla portata d'udito dei nobili.
«Che io sia dannato se intendo partecipare alla battaglia!» ringhiò allora
Nevyn, liberandosi con uno strattone dalla sua stretta. «Posso chiederti cosa
stai pensando di fare?»
«Ecco, quando stavamo portando il principe a Cerrmor, c'è stato il piccolo
problema di una battaglia, quella in cui è morto Aethan» replicò Caradoc.
«Se ben ricordo, all'improvviso i cavalli nemici hanno ceduto al panico, giu-
sto? Come se stessero vedendo qualcosa che gli uomini non potevano vede-
re.»
Nevyn emise un altro ringhio sommesso.
«Vedo che il mio ricordo è esatto» sorrise Caradoc. «Ebbene, mio signore,
non potresti rifare la stessa cosa?»
«Burcan ha troppi uomini. Non posso evocare abbastanza spiriti da suscita-
re lo stesso panico.»
Caradoc si lasciò sfuggire un'imprecazione.
«Tuttavia...» continuò però Nevyn, assalito da un pensiero improvviso.
«Certo, non posso causare il panico, ma scommetto che posso generare fra le
loro file un dannato disagio, in modo che non siano nello stato d'animo mi-
gliore per combattere.»
«Va bene anche questo, mio signore, va benissimo.»
«Credo perfino di poter giustificare la cosa con la mia coscienza. Dopo tut-
to, se il numero di uomini che combattono sarà minore, lo stesso si potrà dire
per il numero dei morti» affermò ancora Nevyn, sfregandosi le mani. «Ora
lasciami solo perché devo riflettere.»

Adesso che era riconosciuto e accettato come bardo, Maddyn non andava
più in battaglia con le altre daghe d'argento. A parte comporre canti di lode
ed elogi funebri, svolgeva anche il ruolo di mediatore per conto del suo con-
tingente nelle liti che inevitabilmente insorgevano con ciambellani, vivandie-
ri e altri servitori del genere che cercavano di fare economia a spese del vitto
e dell'alloggio delle daghe d'argento. Di prima mattina, il giorno della batta-
glia, Maddyn si stava lamentando con Oggyn per la qualità dell'avena distri-
buita alle cavalcature del suo contingente quando Nevyn venne verso di loro
conducendo per la briglia il proprio cavallo.
«Hai voglia di venire con me. Maddo?» disse. «Questo problema può at-
tendere che la battaglia si sia conclusa.»
«Cosa succede, mio signore?» domandò Maddyn. «Non mi dirai che inten-
di partecipare al combattimento!»
«Non proprio. Va' a prendere il tuo cavallo.»
Quando l'esercito si mise in marcia, Maddyn e Nevyn lo accompagnarono
per un breve tratto tenendosi alle sue spalle; dopo aver percorso poco più di
un chilometro Nevyn segnalò poi a Maddyn di seguirlo e si avviò per la cam-
pagna, attraversando un pascolo e percorrendo uno stretto viottolo fra due
campi che risaliva un lungo pendio, sulla cui cresta cresceva una macchia di
betulle che offriva un riparo adeguato da cui far spaziare lo sguardo sulle on-
dulate alture circostanti.
«Ho individuato questo costone mentre stavo evocando immagini della zo-
na» spiegò Nevyn. «È quasi una vera collina e offre una buona visuale.»
In effetti la loro posizione era molto più elevata di quella offerta dalla di-
stante altura su cui era in attesa l'esercito di Burcan, che da quella distanza
sembrava un'unica, solida massa scintillante di metallo simile a un enorme
serpente che si fosse disteso a prendere il sole.
«È vero» sorrise Nevyn, in risposta a quel commento. «È una giornata
splendida, vero? Non una nuvola in cielo.»
«Infatti.»
«A te sembra che stia per piovere?»
«Non direi proprio.»
«In queste zone non c'è nessuna possibilità che si scateni una tempesta im-
provvisa quanto imprevista?»
«No. Oh, ecco, mio signore, cosa...»
«Lo vedrai» promise Nevyn, sfoggiando uno dei suoi più astuti sorrisi. «O-
ra sto per entrare in trance e ho bisogno che tu protegga il mio corpo. È per
questo che ti ho chiesto di accompagnarmi, nell'eventualità che qualche ne-
mico finisca casualmente per trovarmi. Adesso è meglio lasciar riposare i ca-
valli, perché questa non sarà una cosa breve.»

«Per gli dèi!» ringhiò il principe. «Burcan ha schierato lassù i suoi lancie-
ri.»
«Infatti» annuì Caradoc. «E un tipo astuto, vero?»
«Astuto?» sbuffò il Gwerbret Daeryc. «Io lo definirei empio. La battaglia è
per i nobili e non per un branco di figli di calzolai!»
Nel parlare Daeryc agitò il pugno nella direzione in cui si trovava il Reg-
gente, poi uscì dalla fila dei nobili e si allontanò al trotto per andare a rag-
giungere la sua banda di guerra. Nei campi a maggese sottostanti l'altura, l'e-
sercito di Maryn era impegnato nella lunga e lenta manovra di arrestarsi e di
allargarsi alle spalle del principe e delle sue daghe d'argento. Da dove si tro-
vavano, in sella ai loro cavalli. Caradoc e Maryn potevano vedere la cima del
lungo pendio e distinguere con chiarezza la posizione di Burcan. Branoic, che
come al solito si teneva alla destra del principe, si riparò gli occhi con una
mano e cercò di valutare la distanza.
Il pendio, che si stendeva per circa mezzo chilometro, terminava con un'al-
tura posta un centinaio di metri più in alto rispetto alla pianura, e anche se
non era erta, qualsiasi carica fino alla sua sommità avrebbe sfiancato i cavalli.
Al centro dello schieramento del Reggente, c'era un muro di scudi costituito
da una doppia fila di lancieri schierati con ranghi tanto stretti che lo scudo di
ciascun uomo proteggeva non solo il suo fianco sinistro ma anche parte del
corpo del compagno che gli era accanto, e ai due lati dei lancieri erano piaz-
zati contingenti di guerrieri a cavallo, pronti a chiudersi sul nemico come un
paio di fauci se il Grifone Rosso avesse cercato di caricare il muro di scudi e
di infrangerlo.
«Scommetto che dietro quel muro di scudi Burcan ha un nutrito contingen-
te di riserva» commentò il principe.
«Se non lo avesse sarebbe uno stolto, Vostra Altezza, e non l'ho mai visto
agire da stolto» replicò Caradoc.
«D'accordo, allora manteniamo la nostra posizione e aspettiamo. Capitano,
manda un paio di uomini ad avvertire i nobili.»
Aspettare? Branoic si agitò leggermente sulla sella e scambiò un'occhiata
con Owaen, che pareva sorpreso quanto lui. Caradoc invece stava sorridendo,
segno che il principe doveva avere in mente qualche astuto stratagemma.
Quando i messaggeri si allontanarono al trotto, Branoic agganciò lo scudo al
pomo della sella in obbedienza all'ordine di attendere e nel guardare verso
Owaen mentre questi faceva la stessa cosa intravide la sua mano sinistra, no-
tando che la cicatrice rimasta dall'amputazione si era aperta e lasciava scatu-
rire del sangue, cosa di cui però Owaen pareva non essersi neppure accorto.
Lentamente il sole salì sempre più nel cielo e la calura s'intensificò, facen-
do affluire le mosche che cominciarono a infastidire uomini e cavalli lungo
tutto lo schieramento del principe, costringendoli ad agitarsi nervosamente
per tenerle lontane; con il passare del tempo gli uomini iniziarono anche a
borbottare fra loro e a girarsi sulla sella per porsi domande gli uni con gli al-
tri. Ben presto anche i nobili presero a borbottare, a voce più alta dei loro
uomini, ma il principe e il capitano ignorarono quelle proteste e continuarono
ad attendere tranquillamente, Caradoc scoccando qualche occhiata verso il
cielo.
Sull'altura anche l'esercito di Burcan cominciò intanto a farsi irrequieto e
Branoic non ebbe difficoltà a cogliere tracce di movimento fra i cavalieri,
causate dal caracollare dei cavalli impazienti e dagli uomini che si chinavano
ad accarezzare loro il collo per cercare di calmarli. Il muro di scudi invece
rimaneva immobile anche se quell'attesa sotto il sole rovente doveva essere
particolarmente fastidiosa per i lancieri; nel rendersene conto, Branoic si
chiese se per caso il principe non stesse sperando di logorare i nervi agli av-
versari prima di iniziare la carica.
«Cosa succede?» esclamò d'un tratto Owaen con un sussulto. «Per tutti gli
inferni, quello cos'è?»
Sollevando lo sguardo, Branoic vide una nube che stava prendendo forma
sopra l'esercito del reggente e che a prima vista poteva sembrare una comune,
piccola nube di nebbia come quelle che si formavano nel porto di Cerrmor, se
non fosse stato per il fatto che il mare era distante più di centocinquanta chi-
lometri da lì. Quella nuvola bianca fluttuò nel cielo per un momento, poi co-
minciò a ingrandirsi e ad allargarsi protendendosi in lunghi filamenti nel cre-
scere di dimensioni e altre nubi apparvero accanto a essa in maniera così im-
provvisa da dare l'impressione che fossero state scagliate da una mano invisi-
bile. Subito anch'esse presero a ingrandirsi e a fondersi le une con le altre fi-
no a creare una coltre di nubi temporalesche che incombette alta e grigia nel
cielo sopra l'esercito del Reggente, estendendosi verso nord oltre la sua posi-
zione e verso Dun Deverry.
Al confine meridionale di quel bastione di tempesta, il principe e i suoi
uomini continuarono ad attendere sotto un sole intenso mentre l'ombra che
gravava sui loro nemici si andava intensificando, poi ci fu l'improvviso crepi-
tare di un lampo accompagnato da un rombo di tuono, che echeggiò a lungo
nel cielo limpido e fu seguito da una folata di vento, sulla scia della quale la
pioggia prese a riversarsi sulla cresta della collina... una pioggia del tutto
normale se non fosse stato per il fatto che la tempesta non si estendeva al di
là della metà del pendio.
Nevyn! pensò Branoic. C'è lui dietro a tutto questo!
Tutt'intorno a lui gli uomini del principe iniziarono a ridere e ad applaudire
come se avessero formulato quello stesso pensiero, poi il Principe Maryn pre-
se il suo corno d'argento per dare il segnale d'allerta e lungo tutto lo schiera-
mento gli uomini smisero di ridere per impugnare lo scudo e sfilare i giavel-
lotti dal fodero sotto la gamba destra.
Sull'altura intanto l'esercito del Reggente stava cominciando a disintegrarsi,
con i cavalli che s'impennavano e si agitavano, e il muro di scudi che si an-
dava progressivamente disgregando. Quelli erano uomini duri, abituati a
marciare e a combattere sotto la pioggia, ma quella manifestazione di dweo-
mer era una cosa del tutto diversa. Nel corso degli ultimi anni essi avevano
sentito una quantità di voci relative a presagi che parlavano della venuta del-
l'unico, vero re, e per quel che ne sapevano qualcuno degli dèi aveva evocato
quella tempesta innaturale e li stava maledicendo perché volevano opporsi al-
l'avanzata di Maryn. Il lampo crepitò ancora, accompagnato dall'echeggiare
di un tuono, poi Branoic sentì giungere dall'altura un disperato squillare di
corni che cercavano di rincuorare gli uomini prossimi a disertare.
Al centro del suo schieramento, Maryn estrasse la spada e la levò in alto
senza distogliere lo sguardo dalle truppe nemiche, ridendo come un berserker
nel concentrarsi per valutare il momento giusto per attaccare. Sull'altura il
fianco sinistro del Reggente cedette senza preavviso quando gran parte degli
uomini fece girare i cavalli per darsi alla fuga in mezzo a un raddoppiare di
squilli di corno e di grida, poi i lancieri cominciarono a sparpagliarsi, abban-
donando la loro posizione, alcuni gettando via senza vergogna lo scudo e altri
tenendolo sollevato sulla testa come per proteggersi da qualche magia malva-
gia che potesse piovere dal cielo.
«Adesso!» urlò Maryn. «Adesso!»
La pioggia cessò nel momento stesso in cui la prima linea del suo schiera-
mento si proiettava in avanti, lanciandosi al galoppo sotto l'ombra delle nubi.
Arrivati a circa metà pendio, i cavalieri scagliarono i giavellotti, una pioggia
di metallo che si riversò sulla schiena indifesa dei lancieri in fuga, abbatten-
done parecchi fra un crescendo di urla; afferrati dal vento teso, i lunghi scudi
volarono lontano per andare a cadere sotto gli zoccoli dei cavalleggeri in riti-
rata i cui cavalli s'impennarono per il panico, scivolarono sul terreno bagnato
e caddero al suolo, disarcionando i cavalieri e rotolando su quanti non furono
abbastanza veloci a spostarsi.
Branoic scoppiò a ridere, ma si bloccò nel vedere che il Reggente stava
chiamando a raccolta i suoi uomini: le bandiere del Grifone Verde e del Cin-
ghiale sventolavano al vento e gli uomini si stavano radunando intorno a esse
tornando a rinforzare il centro dello schieramento. Nel guardarsi intorno, Bra-
noic si accorse poi che la situazione era ancora più grave del previsto perché
nel fervore della carica il principe e una manciata di daghe d'argento si erano
portati molto più avanti rispetto al resto del loro esercito.
«Fermi!» urlò. «Caradoc, torna indietro!»
Spronato il cavallo, riuscì a raggiungerli proprio nel momento in cui gli
uomini dell'Ariete accorrevano a unirsi alla guardia del principe e sentì il
Tieryn Peddyc gridare degli ordini mentre i guerrieri del Cinghiale venivano
loro incontro al galoppo lungo la sommità dell'altura. Ebbe a stento il tempo
di spostare il cavallo in modo da proteggere il fianco del principe prima che i
due gruppi si scontrassero fra lo scalciare dei cavalli e le imprecazioni degli
uomini, impegnando una serrata battaglia senza che ci fosse spazio di mano-
vra per nessuna delle due parti.
Adesso era impossibile contare i nemici, impossibile pensare... concentran-
dosi sugli avversari che aveva di fronte, e che erano tutti del Cinghiale, Bra-
noic cercò di schivare e di parare più che di contrattaccare, perché per il mo-
mento la cosa importante era rimanere vivo il più a lungo possibile per inter-
porsi fra il principe e i nemici che lo pressavano da ogni lato. Al di sopra del
fragore del combattimento giunse fino a lui la voce di Caradoc, che incitava
ripetutamente ad accorrere in difesa del principe, poi vide l'uomo del Cin-
ghiale che aveva davanti sporgersi troppo e ne approfittò per vibrare con for-
za un fendente di rovescio. Imprecando, l'uomo lasciò cadere la spada e fu
costretto a cercare di svincolare il cavallo dalla mischia. Con una decisa pres-
sione delle ginocchia Branoic fece spostare la propria cavalcatura di lato di
qualche passo in modo da poter sfruttare il cavallo dell'avversario intrappola-
to come ulteriore protezione Quando un altro cuneo di cavalieri cominciò a
premere alle loro spalle Branoic prese a colpire in pari misura con la spada e
con lo scudo mentre imprecava costantemente fra sé e continuava a pensare a
una cosa soltanto: doveva tenerli lontani dal principe. Poi alle sue spalle e-
cheggiò un grido di guerra che gli era sconosciuto e non avendo il tempo di
girarsi per guardare si aspettò di essere abbattuto dove si trovava fino a quan-
do il cavaliere che aveva gridato non riuscì a portarsi al suo fianco e nell'arri-
schiare infine un'occhiata in tralice lui poté vedere uno scudo dell'Ariete bor-
dato in argento.
«Ti proteggo io sulla destra!» gridò Lord Anasyn. «Owaen è alle spalle del
principe.»
«Splendido!» esclamò Branoic, e aggiunse: «Razza di bastardo!»
Quelle ultime parole erano rivolte all'intrappolato uomo del Cinghiale che,
in preda alla disperazione, aveva afferrato l'ultima arma a sua disposizione,
un giavellotto, e lo stava impugnando come una lancia. Con un fendente de-
ciso, Branoic spinse lontano da sé la punta di quella lancia improvvisata e si
protese poi in avanti in un affondo. L'uomo del Cinghiale sollevò lo scudo
appena in tempo ma il colpo di Branoic crepò il legno e un secondo fendente
lo spaccò a metà. Disperato, il suo avversario fece girare il cavallo e il terzo
attacco di Branoic lo raggiunse in pieno alla schiena: con un grugnito l'uomo
si accasciò in avanti, ma il suo cavallo continuò a muoversi e lo portò verso
la salvezza offerta da altri uomini del Cinghiale, che aprirono lo schieramento
per il tempo sufficiente a far passare il compagno.
Disinteressandosi del ferito, Branoic tornò a concentrarsi prevalentemente
in difesa per far fronte a una nuova carica degli avversari: il suo compito era
quello di tenerli lontani: per lui non c'erano alternative né gloria, soltanto un
interminabile susseguirsi di parate e di schivate alternate a qualche colpo che
aveva lo scopo più di respingere che di uccidere. L'importante era che finché
lui avesse avuto vita gli uomini del Cinghiale non riuscissero ad arrivare fino
al principe. Tutt'intorno stavano squillando dei corni, ma lui non sapeva a chi
appartenessero né gli importava in quel frangente. Poi gli uomini del Cin-
ghiale indietreggiarono leggermente per riformare lo schieramento e attaccare
ancora, ma in quel momento una squadra di guerrieri che sfoggiavano lo scu-
do azzurro di Glasloc si abbatté su di loro prendendoli sul fianco: ridendo
come un folle il Gwerbret Daeryc si aprì un varco a colpi di spada, seguito
dai suoi uomini che non cessavano di lanciare grida di guerra e sotto quel-
l'impatto i nemici indietreggiarono, ma solo per breve tempo. Quando si arri-
schiò a guardarsi fugacemente intorno, Branoic vide che gli uomini della
guardia personale del Reggente stavano venendo in aiuto del Cinghiale, rico-
noscibili o causa dello stemma del grifone verde che spiccava sul loro scudo.
«Tenete duro!» urlò Caradoc. «Daghe d'argento, a me!»
Dalla parte opposta del campo le daghe d'argento risposero e Branoic sentì
voci che conosceva lanciare selvagge grida di guerra mentre i suoi compagni
cercavano di aprirsi un varco fino al principe, in un intensificarsi del combat-
timento.
In alto intanto anche le ultime nubi evocate dai dweomer si infransero e
vennero sospinte via da un vento sempre più intenso.

Dalla sua posizione fra le betulle, Maddyn poteva seguire da lontano lo


svolgimento della battaglia. Alle sue spalle Nevyn si era disteso supino sul-
l'erba con un mantello ripiegato sotto la testa come cuscino, ma quella posi-
zione comoda si era subito rivelata illusoria perché non appena era scivolato
nella trance lui aveva cominciato a muoversi. In un primo tempo si era tratta-
to di semplici sussulti e del contrarsi delle labbra come se stesse parlando nel
sonno, ma all'improvviso aveva proteso un braccio nell'aria sopra di sé e agi-
tato la testa di qua e di là, inducendo Maddyn ad accoccolarglisi accanto e a
chiedersi cosa doveva fare. Dal momento che Nevyn stava sorridendo aveva
supposto che non ci fossero rischi, ma poi si era di nuovo preoccupato quan-
do il vecchio aveva contratto le gambe e lasciato ricadere il braccio sull'erba.
Per molto tempo Nevyn era poi rimasto così immobile che Maddyn si era
infine arrischiato ad alzarsi per dare un'occhiata alla situazione: nella valle
sottostante la posizione del Reggente, l'esercito del principe stava assumendo
il suo schieramento, una vista che aveva suscitato in lui un senso di timore
perché si era reso conto che una carica verso il crinale avrebbe comportato un
prezzo elevato in termini di vite umane. Riparandosi gli occhi con una mano
era rimasto a guardare fino a quando infine l'esercito del Grifone Rosso non
si era fermato, assumendo una formazione irregolare su cinque file.
D'un tratto alle sue spalle Nevyn aveva parlato, con voce risonante e deci-
sa.
«Signori dell'Aria, ascoltate la mia supplica!»
Girandosi di scatto Maddyn aveva constatato che adesso Nevyn era disteso
sull'erba con braccia e gambe allargate, ancora immerso nella sua trance, e gli
si era inginocchiato accanto proprio nel momento in cui il vecchio si solleva-
va a sedere per gridare una parola incomprensibile prima di lasciarsi ricadere
all'indietro. Per un lungo momento Nevyn era poi rimasto immobile, immer-
so in un sonno che pareva simile alla morte, e Maddyn aveva pensato con una
punta di amarezza che dopo tutto Nevyn avrebbe anche potuto avvertirlo di
quello che sarebbe successo. Poi però la curiosità si era fatta troppo forte per
permettergli di rimanere accanto al vecchio e lui sì era rialzato per tornare a
osservare il campo di battaglia, giusto in tempo per vedere la tempesta inna-
turale che prendeva forma sopra l'esercito del Reggente Burcan; contempora-
neamente un vento violento si era abbattuto sulle betulle, facendole stormire
nel passare oltre per dirigersi verso la cresta dell'altura.
«Già, proprio i Signori dell'Aria!» aveva commentato fra sé Maddyn, ad al-
ta voce.
Sotto il suo sguardo incredulo le nubi si erano infittite e il tuono era echeg-
giato nel cielo mentre l'aria intorno a lui. per quanto fosse lontano dall'epi-
centro della tempesta, era parsa caricarsi di una strana forza o potere, come se
gli elementi stessi avessero preso a vibrare di eccitazione; nello sfregare una
mano sui calzoni di lana, Maddyn aveva visto piccole scintille azzurrine le-
varsi dalla stoffa e si era chiesto se anche a Burcan e ai suoi uomini stesse
succedendo lo stesso. Poi era cominciata la pioggia, e lui aveva avvertito un
fugace senso di pietà per il nemico, intrappolato fra l'esercito del principe e il
dweomer, una sensazione che però si era subito dissolta quando l'esercito di
Maryn si era lanciato alla carica. Senza riflettere, Maddyn si era messo a ur-
lare per incitare i compagni.
Da dove si trovava, grazie alla distanza e al terreno umido che impediva il
sollevarsi della polvere, aveva avuto poi modo di contemplare per la prima
volta nella loro interezza due grandi eserciti che si affrontavano, simili a enti-
tà dotate di vita propria e di una loro identità, e vedere con tanta chiarezza
una situazione che spesso lo aveva intrappolato e sopraffatto gli era parso una
meraviglia ancora più grande della tempesta scatenata dal dweomer. Affasci-
nato, aveva osservato il Grifone Rosso risalire la collina per piombare sul
Grifone Verde, che si era spezzettato, dando l'impressione di essere prossimo
a infrangersi, soltanto per riprendere coraggio e rispondere alla carica. Sui
fianchi della battaglia aveva però visto anche frammenti del Grifone Verde
darsi alla fuga; alcuni di quegli uomini si erano poi fermati per tornare al
combattimento ma i più erano scomparsi alla vista dietro il riparo offerto dal-
le colline.

«Adesso devono fare da soli» commentò d'un tratto la voce di Nevyn, alle
sue spalle.
Maddyn lanciò un urlo di sorpresa, poi ritrovò il controllo.
«Per gli dèi, mi hai spaventato! Mi ero incantato a guardare.»
«Chiedo scusa. Ho potuto sgombrare la cresta dell'altura per avvantaggiar-
li, ma adesso il principe dovrà vincere da solo la battaglia. È uno spettacolo
notevole, vero?»
«Infatti. Vorrei solo che i miei amici non fossero là in mezzo.»
«Ammetto che questo contribuisce a ridurre il piacere di ciò che stiamo ve-
dendo.»
Per molto tempo rimasero fermi sull'altura uno accanto all'altro per osser-
vare il combattimento infuriare di qua e di là sulla cresta della collina, mentre
nel cielo sovrastante il teatro dello scontro le nubi evocate dal dweomer si
dissipavano rapide come si erano formate. Nel lanciare uno sguardo verso il
cielo, Maddyn si rese poi conto d'un tratto che il mezzogiorno era trascorso
da un pezzo.
Ormai l'intero esercito del Grifone Rosso aveva risalito il pendio e raggiun-
to la cresta, con il risultato che il combattimento si era allargato verso nord a
mano a mano che gli uomini del principe respingevano quelli del Reggente
dalla posizione sopraelevata e li facevano sparpagliare lungo il pendio oppo-
sto, inducendoli a fuggire una rotta priva di qualsiasi organizzazione.
«Maryn uscirà vittorioso da questo scontro» affermò infine Maddyn.
«Pare proprio di sì» annuì Nevyn. «Ora è meglio tornare al campo perché
devo prepararmi a ricevere i feriti.»
Il sole aveva da tempo oltrepassato lo zenit quando anche gli ultimi contin-
genti agli ordini del Reggente si diedero infine alla fuga. Il fulcro della batta-
glia si era intanto allontanato da tempo dal principe perché, nel raggiungere
la cresta con le loro bande di guerra più riposate gli alleati di Maryn avevano
costretto le spossate unità dell'esercito di Burcan a ritirarsi da Maryn e dalle
bandiere del Grifone Rosso. Subito Branoic aveva approfittato di quei mo-
menti di tregua per abbassare lo scudo e concedersi di riprendere fiato, imita-
to da Lord Anasyn che gli era ancora accanto, con la guancia solcata da un fi-
lo di sangue intorno a cui stava cominciando a formarsi un grosso livido.
«Non è nulla di serio» spiegò Anasyn, quando Branoic gli fece notare la fe-
rita. «Appena un colpo di striscio.»
Annuendo, Branoic riprese a guardarsi intorno. Adesso la battaglia genera-
le si era frammentata in una serie di piccoli scontri fra gruppi di guerrieri del
vittorioso Grifone Rosso e uomini che non potevano né fuggire né difendere
la loro posizione. Sollevandosi sulle staffe, Branoic riuscì poi ad avere una
migliore visuale e constatò che la maggior parte dell'esercito del Reggente si
stava ritirando, con gli uomini del Cinghiale che svolgevano un'azione di re-
troguardia. Non lontano da dove si trovavano le daghe d'argento, però, un
guerriero del Cinghiale stava procedendo isolato, oscillando avanti e indietro
sulla sella; quando il suo cavallo incespicò, l'uomo lasciò cadere lo scudo, la
cui bordatura in argento scintillò al sole.
«Oho!» esclamò Branoic, indicando. «Credo che quello sia uno dei nobili
del Cinghiale.»
«Uno dei nobili?» scattò Anasyn, accanto a lui. «Per tutti gli inferni, quello
è il Gwerbret Tibryn in persona!»
Scambiandosi un'occhiata d'intesa i due sorrisero e spronarono i cavalli
stanchi su per il pendio, lanciandosi all'inseguimento del gwerbret; quando lo
raggiunsero, Anasyn si portò davanti a lui in modo da bloccargli la strada e
Branoic si protese ad afferrare le redini del suo cavallo. Tibryn aveva perso
l'elmo e il sangue gli scorreva su un lato della faccia proveniente da una ferita
che gli aveva lacerato buona parte del cuoio capelluto, facendogli pendere
grottescamente su un orecchio una striscia di carne e di capelli. Quando lo
fermarono, li fissò entrambi, come se non avesse idea di chi fossero o di dove
lui stesso si trovasse.
«Portiamolo indietro prima che si accorgano di noi e ci inseguano» suggerì
Anasyn.
Nel sentire la sua voce Tibryn si afferrò al pomo della sella con entrambe
le mani per mantenere l'equilibrio e si protese a sbirciare lo scudo con lo
stemma dell'Ariete.
«Traditore» disse soltanto.

Quando infine Maddyn e Nevyn rientrarono al campo, la battaglia era or-


mai finita da tempo e i guerrieri sfiniti stavano conducendo al pascolo le ca-
valcature altrettanto sfinite mentre altri trasportavano dai chirurghi gli amici
feriti e quanti erano emersi illesi dalla mischia si dirigevano verso i carri in
cerca di cibo e di riposo.
Lungo la riva del fiume, uomini e cavalli in pari misura stavano entrando
nell'acqua per rinfrescarsi, lavarsi e bere a sazietà per spegnere l'arsura del
combattimento. Appena arrivato al campo, Nevyn si sollevò sulle staffe per
guardarsi intorno alla ricerca del principe, ma la prima cosa che vide fu un
servitore che gli stava venendo incontro di corsa.
«Mio signore! Mi manda Caudyr. Hanno un prigioniero importante e stan-
no cercando di tenerlo in vita.»
Smontato di sella, Nevyn consegnò le redini a Maddyn e si affrettò a segui-
re il servitore; arrivato al carro di Caudyr, trovò Branoic fermo a guardare
mentre il chirurgo procedeva di persona a ricucire una ferita alla coscia destra
dell'uomo disteso sul carro, che aveva anche la testa avvolta in una stretta fa-
sciatura da cui però continuava a filtrare del sangue. Fortunatamente per lui,
il ferito, un uomo di mezz'età il cui viso largo aveva qualcosa di familiare,
era privo di sensi.
«Non è Burcan, vero?» chiese subito Nevyn.
«No, mio signore, è suo fratello» rispose Branoic.
Lavatosi le mani in un secchio d'acqua che Caudyr aveva già preparato per
lui, Nevyn prese posto sull'altro lato del carro.
«Mi pare che tu abbia fatto tutto il possibile» osservò.
«Non ne dubito» replicò Caudyr, sollevando lo sguardo e soffermandosi ad
asciugarsi il volto sudato con una manica. «Più che altro volevo il tuo parere.
Credi che vivrà?»
«Quanto sangue ha perso?»
«Una quantità enorme, e questa ferita è profonda. Penso che un giavellotto
lo abbia raggiunto sotto il bordo della cotta di maglia e che lui lo abbia estrat-
to da sé.»
«E la ferita alla testa?»
«Deve aver perso l'elmo ed essere stato disarcionato. A me sembra che un
calcio di striscio di un cavallo gli abbia strappato parte del cuoio capelluto.»
Nevyn sussultò, poi si protese in avanti per ascoltare il respiro di Tibryn,
che era irregolare e poco profondo; quando infine gli posò una mano sul vol-
to, constatò che la sua pelle era fredda e umida.
«Prendi una coperta, Branno!» ordinò in tono secco. «Ha perso gli umori
del fuoco insieme al sangue e questo squilibrio lo ucciderà, se non lo teniamo
al caldo.»
Dopo aver medicato le ferite avvolsero Tibryn nelle coperte e per buona
misura lo adagiarono accanto a un fuoco, dove lui continuò per tutto il pome-
riggio a lottare per vivere. Ogni volta che riprendeva conoscenza, Nevyn gli
faceva bere quanta più acqua possibile e anche qualche sorso di tisana medi-
cinale, ma ben presto si accorse che tutto questo serviva a ben poco in quanto
Tibryn continuava a essere pallidissimo, con le labbra bluastre e la base delle
unghie sfumata di azzurrino. Inoltre il dolore prodotto dalla ferita alla testa
doveva essere molto intenso, tanto da strappargli a tratti dei gemiti, e pareva
prosciugare le poche forze di cui lui ancora disponeva.
Il sole non era tramontato da molto quando Nevyn si rese conto che il
gwerbret stava per morire. Inginocchiatosi accanto a lui gli toccò il volto, che
risultò freddo e umido come la pelle di un'anguilla, e si soffermò ad ascoltare
il suo respiro, affannoso e irregolare. D'un tratto Tibryn riprese conoscenza
per un momento e aprì gli occhi, fissando il vecchio.
«Braemys» sussurrò.
«Chi è, mio signore? Tuo figlio?»
Tibryn chiuse gli occhi e trasse a fatica un lungo respiro.
«Ditelo a Burcan» sussurrò. «Ditegli che Braemys vive. L'ho mandato a
casa con cinquanta.» Ci fu un'altra lunga pausa, poi: «Ditegli...»
Nel pronunciare quella parola Tibryn tossì una volta, ebbe uno spasmo e
morì. Dopo avergli chiuso gli occhi, Nevyn gli coprì il volto con la coperta e
si rialzò, trovando Anasyn fermo in piedi accanto a lui.
«Braemys è il figlio di Burcan» gli spiegò. «Il nipote di Tibryn.»
«Capisco» annuì Nevyn. «Cosa credi che intendesse dire, affermando di
averlo mandato a casa con cinquanta?»
«Probabilmente voleva dire cinquanta uomini. Per qualche motivo lo ha
rimandato a Cantrae» replicò Anasyn, poi si soffermò a riflettere con espres-
sione accigliata e aggiunse: «Ecco, questo sempre che Tibryn fosse cosciente
di quello che stava dicendo.»
«Io credo che lo fosse, anche se pareva essere convinto di trovarsi fra ami-
ci. Dimmi, qualcuno si è preso cura di quel taglio che hai sulla faccia?»
«Non è niente.»
«Se riesco a vederlo alla luce del fuoco non può essere una cosa da poco.
Vieni con me, ragazzo, voglio lavarti quella ferita, poi andremo a riferire al
principe le ultime parole di Tibryn.»
Il mattino successivo, appena dopo l'alba, quando le correnti astrali si erano
ormai stabilizzate, Nevyn provò a evocare l'immagine dei loro nemici dal
piano eterico e scoprì che l'esercito del Grifone Verde era accampato appena
sette chilometri a nord del campo di battaglia. Dal momento che lo stava os-
servando con la vista eterica, Nevyn non vide i corpi dei guerrieri ma la loro
aura, nubi di luce di forma ovoidale per lo più di un cupo colore rosso anche
se alcune erano così scure e piccole da fargli capire che si trattava di uomini
che non sarebbero vissuti fino a sera. Contare quelle luci era impossibile, ma
una vista d'insieme gli permise di constatare che l'esercito del Reggente si era
ridotto di numero molto più di quanto potessero lasciar supporre le perdite
che aveva subito. Una volta rientrato nel proprio corpo, il vecchio si affrettò
ad andare dal principe per riferirgli quelle notizie.
«Diserzioni, mio signore» annunciò. «Sono pronto a scommettere che mol-
ti nobili se ne sono andati con i loro uomini.»
«Bene. Possiamo sperare che Burcan abbia a che fare con un esercito de-
moralizzato.»
«Se non altro posso garantire che è un esercito malconcio.»
«Pensi che intendano restare accampati per leccarsi le ferite?»
«Per adesso sì, Vostra Altezza, ma presto si rimetteranno in marcia. Ho il
sospetto che stiano correndo a rintanarsi nella loro fortezza come topi nella
tana.»
Maryn annuì con aria riflessiva.
«Forse questo spiega la faccenda di Braemys» disse infine, «sempre che
Tibryn fosse consapevole di quello che stava dicendo. È possibile che il
gwerbret si sia accorto delle diserzioni e abbia voluto mettere al sicuro Bra-
emys in modo che potesse in seguito raccogliere di nuovo i nobili intorno a
sé.»
«Mi sembra una valida supposizione, Vostra Altezza. Senza dubbio a tem-
po debito scopriremo se è fondata.»
«Senza dubbio» ripeté Maryn, con un sorriso asciutto. «In ogni caso è un
enigma di cui non ci preoccuperemo fino a quando gli dèi non ci scaricheran-
no in grembo la sua soluzione. Adesso dobbiamo metterci in marcia al più
presto se vogliamo sorprendere Burcan lungo la strada.»
«Infatti. Siamo ad appena una trentina di chilometri da Dun Deverry.»
Muoversi in fretta risultò però impossibile perché anche l'esercito del Gri-
fone Rosso aveva subito delle perdite e aveva dei feriti e nessuna delle bande
di guerra era pronta a mettersi in marcia con la sola eccezione delle daghe
d'argento. Seguito da Caradoc, da Nevyn e da Oggyn, il principe dovette fare
di persona il giro del campo e parlare con un nobile dopo l'altro per persua-
derli a far preparare gli uomini in condizione di combattere per dare la caccia
all'esercito del Reggente.
«La scorsa notte avrei dovuto tenere un consiglio di guerra, indipendente-
mente dal generale stato di sfinimento» commentò Maryn. «Sai, Nevyn, di
tanto in tanto ho il poco onorevole desiderio di poter semplicemente imparti-
re un ordine ed essere obbedito senza che tutti debbano discutere ogni danna-
ta parola che dico.»
«Essere un cadvridoc non è facile» replicò Nevyn. «Se però i nobili doves-
sero offendersi e andarsene...»
«Oh, è vero, ma gli dèi mi sono testimoni che non sono costretto a trovare
la cosa piacevole» ribatté Maryn, con un ringhio nella voce. «Oggyn, lascio il
campo affidato a te. Fa' caricare ogni cosa e tieniti pronto a muoverti, ma ri-
mani qui finché non ti manderò un messaggero.»
Quando finalmente gli uomini che non avevano riportato lesioni degne di
nota... circa tremila... furono pronti a muovere, ormai il sole era vicino allo
zenit e Burcan aveva acquisito un notevole vantaggio. Allorché raggiunsero il
suo vecchio campo, Maryn e i suoi uomini scoprirono che il Reggente aveva
lasciato là i feriti insieme ai chirurghi che li accudissero e a scorte di viveri;
quando il principe si fermò a parlare con il capitano del campo, questi si arre-
se e promise che non gli avrebbe causato problemi.
«Quelli di noi che sono in grado di cavalcare sono al massimo una ventina»
aggiunse, «quindi non hai da temere che possiamo attaccare la tua retroguar-
dia.» L'uomo esitò quindi per un momento, poi domandò: «Vostra Altezza
potrebbe degnarsi di dirci se il Cinghiale è ancora vivo e se è tuo prigionie-
ro?»
«Tibryn?» replicò Maryn. «Mi dispiace, abbiamo tentato di salvarlo ma è
morto comunque.»
Il capitano annuì e sollevò una mano ad asciugarsi le lacrime che gli vela-
vano gli occhi.
Dopo aver mandato un messaggero a Oggyn con l'ordine di spostare il suo
campo in modo da incamerare i feriti abbandonati da Burcan, il principe fece
rimettere in marcia le truppe, che continuarono l'inseguimento per tutto il
lungo pomeriggio estivo; quando il sole era ormai basso sull'orizzonte l'eser-
cito era però ancora a una quindicina di chilometri da Dun Deverry e Burcan
continuava ad avere un buon vantaggio. Maryn indisse allora un consiglio e
Nevyn andò a raggiungere lui e Caradoc per aiutarli a decidere come meglio
sfruttare gli ultimi residui di luce diurna.
«Vostra Altezza, se continuiamo adesso potremmo raggiungerli dopo il ca-
lare del buio, ma non ci sono garanzie su quale potrebbe essere l'esito di uno
scontro del genere» affermò Caradoc.
«Infatti, senza contare che siamo troppo lontani dal nostro convoglio delle
vettovaglie» aggiunse Maryn. «Se torniamo indietro subito dovremmo rag-
giungere il campo entro il crepuscolo.»
«Mi sembra la cosa più saggia, Vostra Altezza» interloquì Nevyn. «Burcan
può viaggiare con il buio perché sa dove sta andando mentre noi non possia-
mo dire altrettanto. Temo proprio che dovremo rassegnarci all'idea di un as-
sedio.»
Il giorno successivo stava ormai volgendo al termine quando finalmente il
Grifone Rosso arrivò in vista della Città Santa. I nemici in fuga avevano la-
sciato aperte le porte cittadine ma nel giungere davanti a esse Maryn ordinò
alle truppe di fermarsi e si sollevò sulle staffe per sbirciare oltre l'apertura per
poi lasciarsi ricadere sulla sella: Branoic, che si trovava subito dietro di lui,
non riuscì a scorgere altro se non una strada polverosa che si addentrava fra
rovine devastate dal fuoco.
«Temo una trappola» affermò il principe. «Tu cosa ne pensi, capitano?»
«Se non altro una retroguardia» replicò Caradoc. «Pochi uomini scelti che
ci rallentino per tutta la strada fino alle porte della fortezza. Fra queste mace-
rie si potrebbe nascondere anche mezzo esercito, mio signore.»
«In tal caso sarà meglio mandare avanti degli esploratori, tanto scommetto
che gli abitanti della città se ne sono andati da tempo.»
Branoic si offrì volontario ma Caradoc lo escluse a causa della sua mole
che lo rendeva troppo visibile e scelse invece dodici uomini tutti di bassa sta-
tura e di corporatura minuta, che entrarono in città a piedi, tre per ciascuna
porta. Nel frattempo l'esercito indietreggiò di circa quattrocento metri e atte-
se, dando così modo al lento convoglio dei viveri di arrivare sul posto. Poco
prima del tramonto gli esploratori rientrarono alla spicciolata, riferendo tutti
la stessa cosa.
«Fra quelle rovine non siamo riusciti a scorgere traccia di anima vivente,
Vostra Altezza. Siamo arrivati fino alla cerchia esterna delle mura della for-
tezza e abbiamo visto che tutte le porte sono chiuse e che ci sono sentinelle in
abbondanza sulle mura. Quella cinta esterna è dannatamente lunga, almeno
cinque chilometri, dato che circonda tutta la collina.»
«Benissimo» dichiarò infine il Principe Maryn. «Il padre della mia signora
è stato l'ultimo uomo a occupare questa città, circa vent'anni fa, solo che l'as-
sedio si è protratto troppo e alla fine lui si è dovuto ritirare. Prego ogni dio
che questa volta le cose vadano in maniera diversa.»
«Pregherò anch'io per questo, Vostra Altezza» rispose Caradoc, «però cre-
do che agli dèi non dispiacerà se anche noi approntiamo qualche piano. Le
mura sono lunghe cinque chilometri, eh? È una cosa interessante, al punto
che credo che farò di persona una passeggiata fin là.»
Al ritorno del capitano Maryn convocò un consiglio di guerra e in tarda se-
rata, al suo rientro al campo delle daghe d'argento, Caradoc riferì a Branoic e
agli altri le decisioni a cui si era giunti: dopo aver occupato la città, Maryn
era intenzionato a prendere la cerchia esterna delle fortificazioni della fortez-
za con una singola, rapida mossa.
«L'Ariete ha spiegato a tutti noi la disposizione interna della fortezza» pro-
seguì Caradoc. «Ci sono cinque cerchie di mura e le prime tre racchiudono
soltanto aree di terreno vuoto. All'interno della quarta, contando a partire dal-
la base della collina, c'è un villaggio dove vivono i servitori del falso re e do-
ve vengono tenuti bestiame e maiali, stando a quanto afferma Peddyc. Al di
là della quinta cerchia di mura c'è la fortezza vera e propria, e conquistarla
non sarà una passeggiata perché sua signoria afferma che è composta da una
quantità di piccole mura, di cortili e di torri.»
«Ah, dannazione» imprecò Owaen. «Ah, bene, come si suol dire pensiamo
prima alle cose più importanti.»
«Proprio così» convenne Caradoc, lasciando scorrere lo sguardo sulle da-
ghe d'argento che gli si accalcavano intorno. «Affrontiamo una cerchia di
mura per volta. Io ho appena fatto il giro delle mura esterne e sono pronto a
scommettere che Burcan non ha abbastanza uomini per difenderle. Una volta
che le avremo oltrepassate, vedremo il da farsi. Abbiamo già preso parte ad
altri assedi, ragazzi, ma questo darà ai bardi materiale per molte ballate.»
Il mattino successivo l'esercito smontò il campo e si preparò a entrare nella
città di Dun Deverry: fra uno squillare di corni d'argento le bandiere del Gri-
fone Rosso precedettero l'esercito oltre le porte aperte e nell'oltrepassarle
Maryn levò in alto la spada. Da dove si trovava, Branoic poteva scorgere il
suo volto, con gli occhi sgranati per la meraviglia come quelli di un bambino
che stesse assistendo per la prima volta a un torneo e che stesse girando la te-
sta di qua e di là nel tentativo di vedere ogni cosa contemporaneamente.
Siamo qui, pensò. Questo è ciò per cui abbiamo combattuto per tanti anni.
Davanti a lui la città si allargava in un susseguirsi di file di case diroccate,
di mura prive di tetto, di mucchi di macerie informi. Quante volte quella città
era stata incendiata volutamente o accidentalmente? Branoic suppose che
fosse successo molte volte, ma del resto questo era ciò che accadeva a ogni
città che dava rifugio a un esercito.
Appena oltre le porte un'ampia strada correva a ridosso delle mura, abba-
stanza larga e sgombra da macerie da permettere alle truppe di percorrerla.
Subito alcuni contingenti si separarono dal grosso dell'esercito per avvicinarsi
alla fortezza da direzioni diverse e mentre il principe e il resto dei suoi uomi-
ni attendevano per dare loro un certo vantaggio, Branoic sollevò lo sguardo
verso la fortezza che incombeva sulla città, osservandone le torri scure che
spiccavano sullo fondo del cielo e constatando che da dove si trovava riusci-
va a stento a vedere l'ultima cerchia di mura che cingeva la cresta della colli-
na su cui sorgeva la rocca.
Lontani richiami di corno giunsero da ovest e da est, inducendo Maryn a
sollevare la spada.
«Avanti!» ordinò. «Per Deverry e per la gloria!»
Applaudendo, l'esercito si mise in marcia lungo le strade deserte, diretto al-
la porta meridionale della fortezza, e nell'avvicinarsi a essa Branoic notò al-
cune case che parevano essere state abitate fino a pochi giorni prima, dato
che alcune di esse avevano ancora sul davanti orti coltivati che costituivano
gradite chiazze di vegetazione in mezzo a tutta quella distruzione: d'altro can-
to le sole creature viventi che videro furono alcuni cani affamati che abbaia-
rono al passaggio delle truppe.
Le mura esterne della fortezza erano alte una dozzina di metri ed erano so-
vrastate da merli. Le porte non erano decorate da bandiere o pennoni ma sui
bastioni c'erano alcune guardie ed era possibile vederle muoversi fra i merli e
sentirle chiamarsi a vicenda. Dal momento che il pendio della collina era
molto erto, da dove si trovava, Branoic poteva scorgere la cerchia successiva
di mura, che spiccava scura sullo sfondo dell'erba, e ancora più su la terza
barriera, questa decorata da bandiere e pennoni anche se la distanza impediva
di vedere che stemma recassero. Intercettato lo sguardo del capitano, Branoic
gli indicò quegli stendardi.
«Hai uno sguardo acuto e attento, ragazzo» approvò Caradoc. «Credo che
il Reggente sappia cosa può difendere.»
Per due giorni l'esercito si accampò fra le rovine in attesa di essere pronto a
tentare un assalto contro le mura esterne. Il principe aveva portato con sé due
arieti, ciascuno costituito dal tronco di un giovane albero munito di maniglie
di ferro e con un'estremità appuntita anch'essa rivestita in ferro. Dodici uomi-
ni avrebbero usato gli arieti contro le porte mentre altri avrebbero scalato le
mura con scale da assedio e cercato di sopraffare le guardie; considerata l'e-
stensione delle mura il numero di scale necessario era però nettamente supe-
riore a quello a disposizione, quindi squadre di soldati presero a setacciare le
rovine per recuperare tutto il legname possibile dalle case abbandonate.
Il mattino del terzo giorno sorse nuvoloso, con nubi temporalesche che
questa volta giungevano rapide da sudovest senza nessun bisogno di aiuto da
parte del dweomer di Nevyn. L'esercito si divise in quattro parti ineguali e le
due più grandi si piazzarono davanti alla porta settentrionale e meridionale,
dove sarebbero stati utilizzati gli arieti, mentre le due più piccole presero po-
sto a est e a ovest per impedire agli uomini di Burcan qualsiasi sortita; mentre
gli arieti attaccavano le porte, metà degli uomini del Grifone Rosso si sarebbe
servita delle scale d'assedio per cercare di oltrepassare le mura. Quello non
era certo il genere di combattimento che andasse a genio a Branoic, quindi lui
si trovò a ringraziare gli dèi della guerra per il fatto di essere invece un mem-
bro della guardia del principe perché, quando le porte avessero ceduto, un
contingente di uomini scelti sarebbe andato alla carica per conquistarle, se-
guito dal principe e dalla sua scorta e poi dai suoi alleati con i loro uomini.
Questo, naturalmente, a patto che le porte cedessero.
Entro metà mattina tutti i contingenti erano ormai in posizione, il principe e
la sua guardia alla porta meridionale. Mentre uomini addestrati a quel genere
di assalti approntavano i "gusci di testuggine", pelli tese su intelaiature di le-
gno che servivano a proteggere coloro che manovravano l'ariete da sassi e ri-
fiuti lanciati dall'alto, Caradoc scelse gli uomini che avrebbero dovuto andare
alla carica a piedi oltre le porte forzate. Intanto sulle mura gli uomini del
Reggente camminavano avanti e indietro in armatura completa, soffermando-
si fra i merli a osservare in basso il nemico che si preparava all'assalto.
L'ariete era ormai pronto ad attaccare quando finalmente giunse un mes-
saggero proveniente dalla porta settentrionale.
«Siamo in posizione, Vostra Altezza» riferì.
«Anche noi» replicò Maryn. «Capitano, da' il segnale.»
Al risuonare del conio di Caradoc dall'esercito del Grifone Rosso si levò un
possente grido e gli uomini muniti di scale spiccarono la corsa verso le mura
mentre l'equipaggio che manovrava l'ariete si lanciò contro le porte; dall'alto
delle mura i soldati nemici levarono grida di guerra e lasciarono cadere una
pioggia di pietre mista a qualche corta freccia da caccia che rimbalzò senza
recare danni sulle cotte di maglia; essendosi aspettato l'utilizzo di giavellotti,
Branoic rimase inizialmente sorpreso dalla povertà di quella reazione, ma poi
rammentò che la fortezza aveva altre quattro cinte di mura da difendere e una
scorta di armi indubbiamente limitata.
Intanto le scale vennero addossate alle mura e i difensori brandirono lunghi
pali per spingerle lontano. In basso, l'ariete prese una nuova rincorsa e tornò
alla carica contemporaneamente a un secondo attacco degli uomini con le
scale, alle spalle dei quali i nobili cavalcavano avanti e indietro gridando or-
dini e incoraggiamenti. Questa volta le scale rimasero appoggiate abbastanza
a lungo da permettere ad alcuni uomini di iniziare ad arrampicarsi, ma poi i
difensori le allontanarono di nuovo con tutto il loro carico umano. Le urla
andarono crescendo d'intensità con il terzo assalto a cui ne seguì un altro e un
altro ancora, come una serie di onde che si abbattessero sulla pietra; qua e là
alcuni uomini del principe riuscirono a raggiungere la sommità delle mura
come gocce di acqua letale che si fossero staccate dalle onde, ma vennero so-
praffatti e uccisi.
Nonostante lo scarso esito il combattimento però si protrasse perché gli as-
salitori non faticavano a vedere che i nemici erano troppo poco numerosi in
rapporto al perimetro da difendere ed erano costretti a correre avanti e indie-
tro lungo le mura senza poter scegliere una posizione fissa, quindi le scale
continuarono a essere alzate e l'ariete persistette nel percuotere le porte. Dopo
qualche tempo sopraggiunsero dei messaggeri per riferire al principe che l'as-
salto alle porte settentrionali stava procedendo bene, e Maryn mandò a dire
agli alleati che anche alla porta meridionale la situazione era la stessa.
Infatti nei lunghi tratti di mura fra una porta e l'altra le scale stavano co-
minciando a dare i loro frutti. Dalla posizione sopraelevata derivante dal tro-
varsi in sella, Branoic vide un gruppo di assalitori riversarsi all'improvviso
sulle mura, verso ovest: ben presto il combattimento dilagò lungo la sommità
delle mura e nello stesso tempo dagli uomini vicino alle porte si levò un grido
di entusiasmo quando a un nuovo assalto dell'ariete lo spesso legno cedette
con lo schianto di un'asse che si spezzava.
La carica successiva fece staccare un'altra asse e con un nuovo assalto ben
diretto gli uomini che manovravano l'ariete riuscirono a infrangere quanto re-
stava della prima. In alto i difensori appostati sulle mura si girarono e scom-
parvero improvvisamente alla vista, senza dubbio per scendere a difendere la
breccia.
Quella mossa permise agli uomini delle scale d'assedio di acquisire il con-
trollo dei bastioni: come un'onda d'alta marea essi si riversarono sulle mura e
squadre di difensori accorsero a contrastare loro il passo, urlando per chiede-
re rinforzi, ma non riuscirono ad arginare gli assalitori. In basso intanto l'arie-
te trapassò il legno delle porte con tanta violenza da rimanere incastrato e
quando gli uomini del principe si affrettarono ad accorrere per liberarlo, i
soldati del Reggente tentarono una carica fuori delle mura per respingerli,
mentre all'interno della fortezza si sentiva echeggiare una frenetica cacofonia
di corni.
«Alle armi!» gridò allora Caradoc. «Daghe d'argento, al seguito del princi-
pe!»
Branoic estrasse la spada e si assestò lo scudo sul braccio mentre gli uomi-
ni scelti per il cuneo d'assalto si lanciavano avanti a piedi per tenere la brec-
cia e altri uomini scalavano le mura per poi scomparire alla vista per andare
ad attaccare le porte dall'interno. D'un tratto i resti infranti dei battenti comin-
ciarono lentamente ad aprirsi scricchiolando.
«Abbiamo preso l'argano!» gongolò Maryn. «State pronti, uomini! State
pronti... ora!»
Urlando un assortimento di grida di guerra, i cavalieri si lanciarono alla ca-
rica oltre le porte, sparpagliando davanti a loro i compagni appiedati nel ca-
tapultarsi nel caos che regnava all'interno. Presso la cerchia interna gli uomi-
ni del Reggente... Grifoni Verdi e Cinghiali... stavano eseguendo un'azione di
retroguardia per difendere le porte, mentre lungo la cinta esterna gli ultimi
uomini di Burcan scendevano dalle mura e spiccavano la corsa verso le porte
e la salvezza e dalla parte opposta della collina sopraggiungevano uomini a
cavallo venuti a congiungersi alle forze del principe... scudi di Glasloc, del-
l'Ariete e con lo stemma dell'edera intrecciata di Yvrodur, segno che anche le
porte settentrionali avevano ceduto.
Urlando come un folle, il principe spronò il cavallo al galoppo, seguito dal-
le daghe d'argento. «Aprite la porta orientale!» stava gridando. «Fate entrare i
nostri uomini! Possiamo prendere anche la seconda cerchia! Presto correte!
Aprite anche a ovest!»
Gli uomini del Reggente avevano intanto abbandonato gli argani e adesso
guerrieri che sfoggiavano lo stemma di Cerrmor se ne erano impadroniti e
avevano cominciato a manovrarli, permettendo ai loro compagni a cavallo di
riversarsi attraverso le quattro porte come acqua attraverso una diga che a-
vesse ceduto. Ovunque squillavano i corni e i capitani urlavano ordini con
quanto fiato avevano mentre gli ultimi uomini del Reggente si stavano accal-
cando alle porte della seconda cerchia di mura, gridando per il panico mentre
cercavano di spintonarsi a vicenda per porsi al sicuro.
«Presto, uomini!» esclamò il principe. «Se li carichiamo possiamo prende-
re anche quelle porte.»
E girò il proprio cavallo con un movimento così repentino che le sue guar-
die non fecero in tempo a imitarlo e lo oltrepassarono. Imprecando, le daghe
d'argento descrissero un arco per girarsi a loro volta e tornare indietro, e in
mezzo alla polvere sollevata dalla ritirata del nemico Branoic vide il principe
che si stava lanciando alla carica verso la seconda cerchia di mura, alla testa
di una manciata di cavalieri.
«Mio signore!» stridette. «Aspetta! Fermati!»
Senza smettere di imprecare, Caradoc si lanciò a sua volta dietro Maryn in-
sieme al resto delle daghe d'argento, e durante quella folle carica Branoic uscì
dallo schieramento per intercettare ogni scudo familiare che scorgeva, gri-
dando sempre la stessa cosa.
«Dentro, andate dentro! Il principe è dentro la seconda cerchia! Andate dal
principe!»
Sia che riuscissero a sentirlo o meno, gli altri cavalieri parvero capire il
senso delle sue parole e una cinquantina di uomini, a cui subito se ne vennero
ad aggiungere altri, puntò al galoppo verso le porte aperte della seconda cer-
chia, seguita da Branoic che continuava a gridare per far accorrere rinforzi.
Nell'oltrepassare la porta orientale, Branoic vide di sfuggita alcune daghe
d'argento travolgere gli uomini del Reggente che maneggiavano l'argano e il
Principe Maryn abbattere di sua mano quello che ne impugnava la manovella,
mentre gli uomini del Cinghiale si davano alla fuga verso la cerchia di mura
successiva con tanta veemenza da non accorgersi neppure della possibile,
preziosissima preda alle loro spalle.
«Abbiamo anche la porta occidentale!» gridò un uomo di Cerrmor. «Da-
eryc sta guidando la carica da quella parte.»
Come un'onda di marea l'esercito del Grifone Rosso sì riversò oltre la se-
conda cinta muraria, incalzando gli uomini del Reggente che stavano corren-
do disperatamente verso le porte successive, che però erano prossime a chiu-
dersi con un movimento lento quanto inesorabile; un'ultima unità riuscì a ol-
trepassare l'apertura sempre più ristretta, ma un paio di soldati che erano ri-
masti indietro si gettarono invano contro i battenti ormai sprangati. Girando-
si, i due si addossarono con le spalle alle porte di legno rinforzato in ferro e
attesero di morire nel vedere una squadra del Grifone Rosso che stava pun-
tando verso di loro con le spade levate.
«Fermi!» stridette Maryn. «Sono indifesi!»
Le spade si arrestarono appena in tempo, mancando di strettissima misura i
due uomini, che si lasciarono cadere in ginocchio mentre i cavalieri prose-
guivano la loro corsa, oltrepassandoli.
In alto intanto i soldati del Grifone Verde gettarono un paio di corde lungo
le mura e il principe richiamò i suoi uomini e badò che si tenessero a distanza
mentre i due ritardatari si mettevano al sicuro. Nella confusione della batta-
glia che ancora imperversava, una piccola polla di silenzio si andò allargando
intorno a Maryn e agli uomini a cui lui aveva permesso di fuggire, quasi che
tutti stessero trattenendo il fiato e aspettandosi che lui ordinasse all'ultimo
momento di abbattere quegli sfortunati. Infine essi arrivarono in cima alle
mura e i loro compagni li trassero al sicuro.
«Grazie!» gridò istintivamente uno di essi, girandosi a guardare verso il
basso.
«Non c'è di che!» gridò di rimando Maryn. «Ricordate i condoni che sono
pronto a offrire a nobili e semplici guerrieri!»
Per un momento tutti rimasero immobili, il principe a cavallo sotto le mura
e gli uomini in cima ai bastioni, poi qualcuno fra le file del Reggente comin-
ciò a gridare una serie di ordini e dopo essersi inchinato sulla sella Maryn
tornò verso i suoi uomini. Osservandolo a bocca aperta e con reverenziale
meraviglia, Branoic si chiese se fosse una cosa sbagliata amare un altro uomo
nella misura in cui lui amava il Principe Maryn.
Era ormai metà pomeriggio quando infine i due eserciti consolidarono le
rispettive posizioni. Adesso gli uomini di Maryn avevano il controllo delle
due cerchie esterne di mura mentre la terza era nelle mani di Burcan, cosa
che faceva del tratto di terreno erboso fra le due fortificazioni una sorta di ter-
ra di nessuno. Subito gli uomini del principe esperti in tecniche d'assedio si
misero all'opera per abbattere le passerelle in legno all'interno della prima
cinta di mura e ricostruirle sul lato esterno della seconda cerchia in modo di
agganciarle alle passerelle interne e controllare meglio che non ci fossero sor-
tite.
Quanto al campo, Maryn ordinò a Oggyn di insediarlo fra la prima e la se-
conda cerchia muraria, una decisione che, com'era prevedibile, suscitò le pro-
teste di molti nobili durante il consiglio di guerra che ebbe luogo quella sera.
«Chiedo scusa a Vostra Altezza, ma spero proprio che queste mura non si
trasformino in una trappola invece di proteggerci» dichiarò Daeryc.
«Verissimo» fu pronto a rincarare il Tieryn Gauryc. «Con tutto il dovuto
rispetto, mio signore, ci stiamo chiedendo quanto possa essere valida questa
decisione.»
Maryn lasciò vagare lo sguardo sui presenti, appuntandolo a turno su cia-
scuno di essi.
«Rammento un libro che mi è stato dato una volta dal mio erudito tutore»
affermò quindi, accennando in direzione di Nevyn. «Nell'Alba dei Tempi un
grande capo del nostro popolo, Gwersinnoryc, commise lo stesso errore che
Burcan sta commettendo ora. Hwl Caisyr dei Rhwman lo assediò nella sua
fortezza e quando Caisyr eresse un muro intorno ai suoi uomini Gwersin-
noryc gli permise di farlo. Alla fine quel muro fu la salvezza dei Rhwman
quando gli alleati di Gwersinnoryc vennero per costringerli a rinunciare al-
l'assedio. Non dimenticate Braemys del Cinghiale e i nobili che hanno diser-
tato» proseguì con un sorriso. «Se dovessero radunarsi e venire in aiuto del
Reggente non potranno calpestare il nostro campo e ucciderci i cavalli, sia
che Burcan tenti o meno una sortita.»

«Non capisci?» ringhiò Burcan. «Non ho ceduto loro la cerchia di mura!


Semplicemente, non abbiamo gli uomini necessari a difenderla perché le bat-
taglie e le diserzioni hanno ridotto in modo drastico il nostro numero. Perché
perdere altri uomini cercando di difendere una posizione impossibile?»
Il Tieryn Nantyn incrociò le braccia sul petto e assunse un'espressione ac-
cigliata mentre nella grande sala scendeva il silenzio e tutti, uomini e donne,
si giravano per ascoltare. Seduto alla testa della tavola reale Re Olaen stava
sbriciolando un pezzo di pane, a testa china, mentre intorno a lui gli uomini
discutevano; seduta accanto a lui, Merodda si girò sulla panca per poter avere
una migliore visuale e constatò che Burcan era paonazzo in volto per l'ira.
«Adesso è troppo tardi per discutere di questo» intervenne infine Lord
Belryc, alzandosi per unirsi agli altri. «Le mura sono in mano loro e non c'è
altro da aggiungere.»
«È vero» convenne Burcan, «però voglio che si sappia che dietro la mia
decisione c'erano motivazioni fondate.»
Nantyn rimase in silenzio, fissandolo con gelidi occhi azzurro ghiaccio
pervasi d'ira; quando Belryc gli si avvicinò e gli posò amichevolmente una
mano sul braccio, il tieryn gli sferrò un violento manrovescio in pieno volto
senza neppure girarsi, facendolo barcollare all'indietro con il naso e le labbra
che sanguinavano.
«Non cercare di placarmi come se fossi una donna isterica, giovane cuccio-
lo!» affermò quindi, con voce stranamente piana. «Ascoltami, Reggente! Non
ho mai dubitato che tu avessi delle motivazioni, quello che sto dicendo è che
sono dannatamente sbagliate.»
Mentre Belryc tornava a sedersi al suo posto e volgeva le spalle alla di-
scussione, Burcan indugiò per un lungo momento a studiare Nantyn prima di
replicare.
«Allora tieniti la tua opinione» rispose infine, «e io mi terrò la mia.»
Quella manovra ebbe l'effetto di cogliere Nantyn completamente alla
sprovvista, tanto che per qualche istante lui rimase a bocca aperta, annaspan-
do come un pesce fuor d'acqua, prima di girarsi con una cupa scrollata di
spalle e di lasciare a grandi passi la sala. Strizzando l'occhio in direzione di
Merodda, Burcan si rimise a sedere, raccolse la daga da tavola e riprese a
mangiare; intorno a lui tutti gli uomini a portata di udito della discussione
parvero esalare all'unisono un lungo respiro, quasi che l'intera sala stesse so-
spirando di sollievo.
Dal momento che non aveva appetito, Merodda chiese alla regina il per-
messo di accomiatarsi molto prima che la cena si fosse conclusa, oppressa da
un timore tanto palpabile da sembrare un piccolo animale che le gravasse sul-
la schiena e che le stesse affondando gli artigli nella carne.
Fin da quando Tibryn era morto, Burcan era stato costretto ad affrontare
una sfida dopo l'altra contro la sua autorità, segno che forse né lei né il Reg-
gente si erano mai resi conto di quanto la solidità della loro posizione dipen-
desse da quella del fratello maggiore. Adesso il Cinghiale era il giovane fi-
glio che Tibryn aveva avuto dal suo secondo matrimonio, che si trovava con
la madre a Cantrae dove forse potevano essere considerati al sicuro... per ora.
Non che questo abbia importanza, pensò poi Merodda. Non che possa a-
verne per chiunque, dopo che sarà finita quest'estate!
Una volta tornata nel gradito silenzio offerto dalle sue camere, accese le
candele al focolare e tirò fuori la bacinella per evocare visioni e la bottiglia
dell'inchiostro, pensando che molto probabilmente il mago del Principe
Maryn aveva accompagnato in guerra il suo signore ed era quindi troppo lon-
tano da Lilli per poterla nascondere.
Infatti questa volta quando pensò a Lilli una serie di immagini prese forma
sulla superficie nera dell'inchiostro e lei poté vedere sua figlia seduta a tavola
con altre tre donne, tutte vestite con abiti di una morbida stoffa dai colori vi-
vaci, gialla nel caso di Lilli. Anche se non poteva sentire nulla, Merodda ebbe
l'impressione che le donne stessero chiacchierando e ridendo mentre mangia-
vano il pane e la carne ammucchiati sui vassoi, oltre ai quali sulla tavola c'era
anche un cestino d'argento pieno di pesche fresche. Dunque Lilli era al sicu-
ro, accudita e coccolata, mentre lei era lì a tremare per paura di un assedio
che avrebbe significato patire la fame! L'ira si riversò su Merodda come u-
n'onda di piena e fece svanire le immagini mentre lei si raddrizzava, quasi in-
capace di respirare.
In quel momento qualcuno si mosse dietro di lei, avvicinandosi. Merodda
si volse lanciando un urlo ma scoprì che la stanza era vuota e che la porta era
ancora sbarrata.
«Ah, Dea!» ansimò. «Che Aranrhodda mi protegga!»
La sensazione di essere osservata però persistette e andò intensificandosi al
punto da indurla a chiedersi se stava impazzendo... o se invece quello non
fosse un segnale che il vecchio maestro di Brour si stava servendo del dweo-
mer per spiarla.
Tratti un paio di profondi respiri per ritrovare il controllo, traccio nell'aria
un pentacolo con ampi gesti della mano destra e non appena l'immagine ac-
quistò consistenza nella sua mente la pervase di fuoco azzurro.
«Vattene!» gridò poi. La sensazione di essere osservata svanì all'istante, e
con un piccolo sorriso soddisfatto Merodda tornò a concentrarsi sulla bacinel-
la e sulle immagini che prendevano forma in essa.

«Sono stato davvero goffo» commentò Nevyn. «Non avrei dovuto mai
permettere che si accorgesse che la stavo spiando. È più abile di quanto pen-
sassimo nell'utilizzo della magia.»
Il suo interlocutore, un grasso gnomo giallo, si accoccolò sul suo baule da
viaggio e cominciò a pulirsi le zanne con un lungo artiglio. Anche se il tenta-
tivo di bandirli da parte di Merodda non aveva avuto nessun effetto né su di
lui né sullo gnomo, Nevyn aveva preferito riportare indietro entrambi sul pia-
no fisico nel momento stesso in cui lei aveva tracciato il sigillo: che pensasse
pure di essere la più forte... finendo così per commettere qualche errore.
Il mattino successivo il principe inviò gli araldi alle porte del terzo muro e
dall'alto delle passerelle erette sul lato interno della seconda cerchia di mura
osservò la loro avanzata su per il pendio erboso in compagnia di Nevyn e di
Oggyn. Ciascuno di essi stringeva in mano un lungo bastone intorno a cui e-
rano avvolti nastri multicolori, un simbolo che il Reggente Burcan e i suoi
uomini mostrarono di rispettare perché nessuno scagliò sassi contro gli araldi
o rivolse loro parole ingiuriose; invece le porte si aprirono dello spazio appe-
na necessario a permettere ai due uomini di entrare e nell'arco di quelli che
parvero pochi istanti si schiusero di nuovo per lasciarli uscire.
Gli araldi tornarono indietro a passo veloce, scuotendo il capo nell'oltre-
passare le porte del secondo muro per addentrarsi nel campo.
«Scendiamo a raggiungerli» disse Maryn.
Nel seguire il principe giù dalla passerella, Nevyn non faticò a immaginare
cosa avrebbero riferito gli araldi senza aver bisogno di attingere al dweomer
per riuscirci.
«Niente trattative, mio signore» annunciò uno di essi, Gavlyn, inginoc-
chiandosi davanti a Maryn. «Il Reggente ci ha ordinato di ritirarci dalla sua
città e dalla sua fortezza e non ha voluto aggiungere altro.»
«La sua città? La sua fortezza?» scattò Maryn. «Il re è morto?»
«No, mio signore, ma dubito che ormai possa avere il minimo peso» rispo-
se Gavlyn, guardando verso il compagno che si affrettò ad annuire in segno
di assenso. «Ho il sospetto che nel formulare la sua risposta il Reggente si sia
involontariamente lasciato sfuggire la verità.»

Adesso che il principe era lontano in guerra, Bellyra governava Dun Cer-
rmor al posto suo. Ogni mattina sedeva alla testa della tavola d'onore con le
sue donne mentre i servitori venivano a prendere ordini in merito alla vita
quotidiana della fortezza e spesso si trovava a dover risolvere qualche lite o
qualche questione legale, anche se qualsiasi problema di particolare impor-
tanza e soprattutto quelli che coinvolgevano un nobile avrebbero dovuto a-
spettare di essere giudicati in autunno, quando Maryn fosse tornato, perché
lui era ancora il gwerbret di quel rhan ed era quindi la sola persona che aves-
se il diritto di indire un vero malover. Nel corso di quelle sessioni Lilli si li-
mitava a osservare e ad ascoltare, anche se le altre due donne non esitavano a
dare di continuo la loro opinione.
«Una volta che sarà diventato davvero re di tutto Deverry» osservò Bellyra
una mattina, «Maryn dovrà elevare uno dei nobili a lui fedeli alla carica di
gwerbret di Cerrmor, e vi garantisco che il pensiero di dover fare una scelta
non lo entusiasma molto.»
«Chiunque sia il fortunato gli altri avranno comunque da protestare» annuì
Elyssa.
«Questo è vero» convenne Degwa. «Sono un mucchio di bambini gelosi.»
«Oh, suvvia!» esclamò Bellyra, cercando invano di assumere un'espressio-
ne severa. «Dopo tutto, non ci sono in gioco soltanto l'orgoglio e i sentimenti
feriti ma anche una notevole ricchezza.»
«Non ne dubito, ma...» cominciò Degwa, poi esitò e chiese: «Chi c'è là, al-
la porta?»
Scortati dai paggi, due uomini armati coperti di polvere stavano avanzando
a grandi passi nella sala e uno di essi teneva in mano un tubo d'argento per i
messaggi.
«Scommetto che li manda il mio signore» mormorò Bellyra, con voce in-
crinata. «Vogliano gli dèi che siano buone notizie.»
Quasi l'avesse sentita, il messaggero sollevò il tubo e lanciò un richiamo
dalla parte opposta della sala.
«Buone notizie, Vostra Altezza, le migliori! Il principe tuo marito ha occu-
pato la Città Santa e sta assediando la fortezza!»
Scoppiando a ridere Bellyra si alzò in piedi e levò le braccia in alto come
se avesse avuto l'intenzione di muovere qualche passo di danza, poi notò l'e-
spressione accigliata di Elyssa e si costrinse a ritrovare il controllo e ad as-
sumere un'espressione solenne mentre il messaggero saliva i gradini della
piattaforma; osservandolo, Lilli si chiese se ciò che provava era gioia o timo-
re e infine si rese conto che si trattava di una mescolanza di entrambe le cose.
Il tubo conteneva numerose lunghe lettere, strettamente arrotolate; intanto
che la principessa aspettava l'arrivo dello scriba reale, la notizia dell'arrivo
dei messaggeri si diffuse e la grande sala cominciò a riempirsi di gente venu-
ta per assistere alla lettura. Allorché lo scriba prese le lettere e le distese con
un gesto secco del polso, tutti si protesero in avanti verso la piattaforma.
«Sali sul tavolo, Maen, in modo che tutti ti possano sentire» suggerì Bel-
lyra.
Obbediente, Maen fece come gli era stato detto e diede lettura dei messaggi
con la sua voce più altisonante, e mentre ascoltava Lilli ebbe l'impressione
che la sua anima si spaccasse in due perché una parte di lei accoglieva con
gioia la notizia di ogni vittoria, mentre un'altra parte provava solo dolore per
il giovane re e per i nobili che lei aveva conosciuto a Dun Deverry. Di tanto
in tanto le lettere menzionavano qualche nobile che era rimasto ucciso o era
stato gravemente ferito ed elencavano parecchi lord di Deverry che erano sta-
ti catturati e sarebbero stati trattenuti in attesa di riscatto, ma per quanto la
morte di Tibryn fosse descritta in modo alquanto dettagliato in quel caso Lilli
scoprì di non avere neppure una lacrima da versare per lui, anche se era suo
zio.
Nei messaggi non venne mai accennato né a Burcan né a Braemys, quindi
lei suppose che fossero vivi e al sicuro perché di certo la cattura o l'uccisione
di una preda importante come il Reggente o suo figlio sarebbe stata menzio-
nata. D'un tratto Lilli si accorse che Degwa la stava osservando senza sorride-
re e con un sopracciglio alzato e si affrettò a distogliere lo sguardo per appun-
tarlo sulla grande sala, dove tutti stavano accogliendo le notizie con sorrisi di
gioia.
«Il principe manda i suoi saluti e i suoi auguri a sua moglie» concluse Ma-
en. «Il Tieryn Peddyc e suo figlio salutano la loro figlia e sorella Lillorigga.»
Dunque Peddyc e Anasyn erano vivi, indipendentemente da chiunque altro
poteva essere morto. D'un tratto le due metà dell'animo di Lilli si ricongiun-
sero e lei scoppiò in una risata di puro sollievo.
Maen scese dal tavolo, e mentre provvedeva a riporre i messaggi alcune
serve della fortezza si avvicinarono ancor di più alla piattaforma per chieder-
gli a bassa voce se questo o quell'uomo era stato menzionato, fra i vivi o fra i
morti; naturalmente lo scriba non seppe cosa rispondere, perché nessuno ave-
va pensato di stilare un elenco dei morti per quanto concerneva i soldati di
umile nascita.
«Maen, perché non scrivi i nomi degli uomini di cui stanno chiedendo e
non unisci l'elenco alle lettere?» suggerì Bellyra. «Senza dubbio qualcuno
riuscirà a informarsi di cosa ne sia stato di loro, considerato che questo dan-
nato assedio si protrarrà per tutta l'estate, e probabilmente anche per tutto
l'inverno, se gli dèi non sceglieranno di intervenire.»
«Ma certo, Vostra Altezza» annuì Maen. «Voi tutte aspettate qui, vado a
prendere la penna e l'inchiostro.»
Le donne raccolte intorno alla piattaforma sollevarono lo sguardo verso la
principessa e mormorarono qualche parola di ringraziamento, alcune di esse
in lacrime per la gratitudine.
«Quello che hai detto è proprio vero... mi riferisco all'assedio» borbottò
Elyssa. «Spero e prego che la fortezza si arrenda presto.»
«Suppongo dipenda da quante scorte di viveri hanno a disposizione» repli-
cò Degwa.
All'improvviso Lilli si accorse che la principessa e le due dame stavano
guardando tutte verso di lei.
«La fortezza è molto ben rifornita» affermò. «È enorme e tengono maiali e
bestiame all'interno delle mura.»
«Allora sarà un assedio molto, molto lungo» dichiarò Degwa, distogliendo
lo sguardo e tormentandosi il labbro inferiore con i denti. «Non possiamo fa-
re altro che pregare.»
Dal canto suo, Lilli si rese però conto d'un tratto di avere fra le mani la
possibilità di porre fine all'assedio, quasi fosse stato un monile che poteva re-
galare o tenere per sé. Naturalmente poteva tradire il suo clan e la sua fami-
glia, il bambino... suo cugino... che aveva un tempo onorato come re, e con-
segnare a Maryn la vittoria. Se solo avesse osato, se fare una cosa del genere
fosse risultata un atto di giustizia e non un innominabile tradimento. Di nuo-
vo le parve che la sua anima si spezzasse in due, come una stoffa lacerata.
«Lilli, a guardarti sembra che non ti senta bene» osservò Bellyra, proten-
dendosi in avanti.
«Non sto bene, Vostra Altezza. Mi sento spaccata in due.»
«Non ne dubito. In ogni caso l'esito è nelle mani degli dèi e noi non pos-
siamo fare proprio nulla, come dice giustamente Degwa.»
Lilli si limitò ad annuire, non fidandosi di parlare.
Per tutta la giornata continuò a lottare con se stessa, dapprima nell'isola-
mento della sua camera, poi passeggiando da sola nei giardini di Dun Cer-
rmor senza che nessuno venisse a disturbarla, segno che probabilmente la
principessa aveva ordinato alle altre donne di lasciarla tranquilla. Sotto molti
aspetti Bellyra l'aveva trattata con molta più generosità di quanta ne potesse
sperare un esule, e Maryn era senza dubbio il vero re, destinato dagli dèi a
regnare. Se avesse taciuto, lei si sarebbe così opposta al volere degli dèi? E
quanto ai suoi vecchi amici, coloro che si trovavano nella fortezza non a-
vrebbero forse patito molto di più se l'assedio si fosse protratto per tutto l'in-
verno? In caso di vittoria Maryn avrebbe di certo elargito il condono quasi a
tutti... anche se non ai nobili del Cinghiale.
Se avesse tradito la fortezza, il suo clan sarebbe stato cancellato, lo zio che
le era rimasto sarebbe stato impiccato come un criminale... e cosa avrebbe
detto a sua madre, quando l'avessero mandata a finire i suoi giorni rinchiusa
in qualche tempio? D'un tratto Lilli si sorprese a piangere nel pensare a Be-
vyan e alle vesciche bianche presenti sul suo volto, un'immagine che per
qualche orribile motivo le era rimasta radicata nella mente in modo indelebi-
le, e si disse che tradire il Cinghiale sarebbe stato un modo per vendicare
Bevva e Sarra. Per un momento desiderò poi di potersi consultare con Nevyn
anche se sapeva bene cosa lui le avrebbe detto, dato che era votato cuore e
anima al principe.
«E io cosa sono, allora? Appartengo alla gente del principe o sono ancora
del Cinghiale? Se tornassi indietro, loro mi accoglierebbero?»
In quel momento Lilli comprese cosa doveva fare e si avviò per lasciare i
giardini, ma nell'oltrepassare una porta laterale della rocca principale si volse
a guardare il tratto di cielo incorniciato dalle mura e le nuove bandiere con il
grifone rosso che pendevano dalle torri, ricordando i presagi che aveva scorto
nell'inchiostro nero. Dunque la sua era una scelta giusta: gli dèi avevano de-
ciso la morte del Cinghiale e non c'era nulla che lei, una donna mortale, po-
tesse fare per opporsi al Wyrd.
Trovò Bellyra nella sala delle donne, sola con il piccolo Casso. La princi-
pessa sedeva a un tavolo, di traverso a causa del ventre reso voluminoso dalla
gravidanza, con il bambino inginocchiato accanto a lei su una sedia coperta
di cuscini e fra loro era posata una grossa ciotola di legno piena di perle di
vetro del Bardek, che Bellyra stava insegnando al figlio a dividere per colore
e per dimensioni mentre lui rideva nel fissare quegli oggetti luccicanti.
Nel contemplare le loro teste bionde accostate una all'altra, che brillavano
come oro sotto il sole del pomeriggio, Lilli si sorprese a pensare che la for-
tezza doveva essere immensamente ricca se lì si potevano permettere di usare
una ciotola piena di tesori come giocattolo per un bambino. Vere perle di ve-
tro ammucchiate con noncuranza come se fossero stati ciottoli raccolti in riva
al mare!
Mentre formulava quelle riflessioni Bellyra sollevò lo sguardo e le rivolse
un sorriso.
«Sono venuta a dire una cosa a Vostra Altezza» esordì Lilli, con una rapida
riverenza. «Conosco un modo per entrare in Dun Deverry.»
Bellyra la fissò con espressione interdetta, le labbra piene socchiuse per la
sorpresa.
«Quello che intendo dire è che c'è un passaggio segreto» continuò Lilli.
«Parte da una fortezza in rovina fuori della città e sbuca nel cortile interno.»
«Oh, dèi!» sussurrò Bellyra. «Un gruppo dei nostri uomini potrebbe aprire
le porte.»
«Infatti, Vostra Altezza.»
«Dirmi questo deve essere stato spaventosamente difficile per te» continuò
la principessa.
«Sì» annuì Lilli, distogliendo lo sguardo, mentre d'un tratto respirare le di-
ventava molto difficile senza che riuscisse a capire il perché. «Non potevo di-
re subito quello che sapevo, prima ho dovuto riflettere a lungo.»
«Non ne dubito, considerato che si tratta della tua famiglia. Io però ti posso
garantire che Maryn parla sul serio quando afferma di essere disposto a per-
donare chiunque glielo chieda. Lo farà davvero.»
«Ci credo, Altezza, ma so che la maggior parte di loro non chiederà nulla
perché si sentirebbe disonorata a implorare per la propria vita.»
Le due donne si fissarono in silenzio per un lungo momento, mentre la luce
del sole si riversava a fiotti sulla ciotola e strappava vividi riflessi alle perle
di vetro con cui Casyl continuava a giocare ridendo. Bellyra fu la prima a di-
stogliere lo sguardo.
«Lilli, ti dispiacerebbe trovare qualche paggio? Dobbiamo parlare con il
capitano della guardia della fortezza per stabilire come farti arrivare sul posto
dell'assedio.»
«Io? Ma...»
«Avranno bisogno di apprendere tutto quello che sai, dove sbuca la galleria
e la disposizione dell'interno della fortezza fra essa e le porte.»
Lilli annuì, con il respiro di nuovo affannoso, e Bellyra si alzò in piedi per
avvicinarlesi, porgendole una mano.
«Avanti, vieni a sederti. Sei pallida come un morto.»
«Davvero?» mormorò Lilli, accasciandosi su una sedia. «Per favore, dimmi
una cosa. Lui è davvero il re per diritto di nascita, vero? Mi riferisco a
Maryn... oh, dèi, se non lo è, che cosa ho fatto?»
«Ma lui lo è, lo so con certezza nel cuore e nell'anima.»
D'un tratto Bellyra le si inginocchiò davanti, come se fosse stata una popo-
lana e Lilli una principessa, e le prese le mani nelle proprie.
«Vuoi aiutarci, Lilli? Per favore! Invierò a Maryn una lettera con il mio si-
gillo, pregandolo di risparmiare i tuoi parenti per amor tuo, ma promettimi
che gli dirai tutto quello che sai.»
«Vostra Altezza si alzi! Oh, non t'inginocchiare in quel modo! È ovvio che
lo farò, il Cinghiale non è più il mio clan. Tutto quello che ho sono Peddyc e
Anasyn dell'Ariete, e loro adesso sono uomini del principe.»
«È vero» annuì Bellyra, rialzandosi e spolverandosi gli abiti con le mani.
«Però mi duole il cuore per te. In ogni caso sono certa che risparmierà tua
madre perché non riesco a immaginare che lui possa fare del male a una don-
na.»
«Neppure io, ma la costringerà a ritirarsi in un tempio?»
«No, se tu lo implorerai di non farlo. Dopo tutto avrà un grosso debito nei
tuoi confronti, giusto?» sorrise Bellyra, poi guardò Casyl ed esclamò: «Oh,
piccola peste! Togliti quella roba di bocca!»
Nel sentire la principessa alzare la voce, Arda si affrettò a entrare nella
stanza dalla camera vicina. Lasciando le due donne a occuparsi del bambino,
Lilli si avvicinò alla finestra: al di là delle torri di Dun Cerrmor poteva vedere
una lontana fascia di oceano che scintillava sotto il sole del tramonto... e alla
sua vista indotta dal dweomer quell'acqua parve mutarsi in fuoco, un incen-
dio in mezzo al quale le sembrò di sentire degli uomini urlare rabbiosamente.

«Guarda, la luna è di nuovo nell'ultimo quarto, come quando abbiamo at-


taccato la fortezza» osservò Maryn. «Finora non pare che abbiano intenzione
di arrendersi e comincio a chiedermi perché ci stiano mettendo tanto.»
Nevyn accolse lo scherzo del principe con un accenno di sorriso. I due si
trovavano fuori del padiglione reale, una grande tenda bianca con il tetto a
punta decorato dallo stendardo del Grifone Rosso, e stavano contemplando
nella pallida luce dell'alba la fetta di luna che indugiava ancora sull'orizzonte,
a occidente, e che per il crescente appetito Nevyn si sorprese a paragonare a
una sorta di spettrale forma di formaggio da cui fosse stata tagliata una fetta.
In tutto il campo intanto l'esercito si stava svegliando e sottili filamenti di
fumo, spettrali quanto la luna, cominciavano a levarsi dai fuochi da campo.
«Mi chiedo come stia la mia signora» sbadigliò Maryn, scuotendo il capo.
«In ogni caso ormai i messaggeri dovrebbero essere di ritorno, non credi?»
«In effetti hanno avuto tutto il tempo per raggiungere Cerrmor e tornare in-
dietro» replicò Nevyn, «ma non credo che Bellyra abbia già partorito. Proba-
bilmente ci vorrà un'altra luna.»
«Non dubito che i messaggeri sapranno dove trovarmi, quando verrà il
momento» commentò il principe.
I messaggeri arrivarono quel pomeriggio, portando con loro un aiuto alla
causa del principe che andava al di là di tutte le speranze che Nevyn poteva
aver nutrito. Il vecchio stava aiutando i chirurghi a cambiare alcune fasciature
quando sentì delle grida provenienti dalle porte principali e di lì a poco vide
un servo venire di corsa a chiamarlo.
«Il principe dice che ci sono notizie urgenti, mio signore. Pare si tratti di
una sorpresa.»
E in effetti per lui fu davvero una sorpresa quando nell'entrare nel padi-
glione del principe vide al suo interno Lilli e due serve, la prima appollaiata
su uno sgabello e la seconda seduta per terra a gambe incrociate, tutte vestite
con calzoni impolverati dal viaggio sotto gli abiti femminili. Il suo stupore fu
tale che per un momento poté soltanto fissarle interdetto, mentre Maryn
scoppiava a ridere a sue spese.
«Anch'io ho provato la stessa cosa, consigliere» affermò Maryn. «Lady
Lillorigga dell'Ariete ci ha portato un tesoro inestimabile.»
«Davvero?» domandò Nevyn, rivolgendo un inchino alla ragazza.
«Davvero. Conosce la posizione di un passaggio segreto per uscire dalla
fortezza. Inutile dire che una via d'uscita serve anche per entrare.»
Lilli annuì e cercò di sorridere anche se sembrava prossima a scoppiare in
lacrime, cosa che ricordò di colpo a Nevyn come lei avesse dei consanguinei
intrappolati nella fortezza.
«Hai l'aria stanca, mia signora» osservò poi. «Sarà meglio decidere dove tu
e le tue donne possiate alloggiare senza rischi... anche se naturalmente il tuo
padre adottivo è qui per proteggerti e non dovresti quindi avere di che preoc-
cuparti.»
«Infatti» annuì Maryn. poi si guardò intorno e individuato un paggio fermo
accanto alla porta ordinò: «Va' a cercare il Tieryn Peddyc e avvertilo che la
sua figlia adottiva è qui. Per sicurezza» continuò poi, rivolto a Nevyn, «inca-
richerò gli araldi di annunciare in tutto il campo che qualsiasi uomo provi a
infastidire le serve che l'accompagnano sarà frustato pubblicamente.»
«Questo dovrebbe risolvere qualsiasi problema alla radice» convenne
Nevyn, con un asciutto sorriso. «Lilli, tu e le tue ragazze volete alloggiare vi-
cino a me? Ho una grande tenda e posso cederla a voi, requisendone per me
una più piccola da sistemare davanti alla vostra porta.»
«Ti sono umilmente grata, Nevyn» rispose Lilli, lanciando un'occhiata alle
ragazze che naturalmente si affrettarono ad assentire. «Ci sono molte cose di
cui ho bisogno di discutere con te.»
«Non ne dubito. Quella che hai fatto non è una cosa da poco, e io ti onoro
per questo.»

Insieme a Lilli e alle due ragazze, Clodda e Nalla, la Principessa Bellyra


aveva inviato anche un carro carico di ogni sorta di cose... materassi, coperte,
una piccola sedia a mezzaluna per Lilli, una cassa di abiti e di oggetti di pri-
ma necessità e perfino un vecchio e sbiadito tappeto del Bardek da stendere
sul terreno; una volta che fu arredata con tutte quelle cose, la tenda elargita
da Nevyn assunse un aspetto decisamente confortevole, come commentò lui
stesso.
«Nonostante tutto, non sono peraltro certo che sia stato saggio mandarti
qui» proseguì poi il vecchio. «Non mi piace pensare a cosa potrebbe succede-
re nel caso che gli uomini di Burcan tentino una sortita.»
«Per ora non dovremmo correre rischi particolari, qui fra le mura esterne»
obiettò Lilli.
«È vero. Comunque preferirei rimandarti a casa a Cerrmor il più presto
possibile.»
Insieme lasciarono la tenda per passeggiare all'esterno, dove sotto il sole di
una giornata tersa Dun Deverry incombeva dall'alto della collina, apparente-
mente al sicuro dietro i suoi bastioni interni. Nel fissare quelle torri Lilli pen-
sò che lassù da qualche parte sua madre stava forse guardando verso il campo
nemico così come lei stava guardando la fortezza.
«Nevyn? Credi che stia facendo la cosa giusta?» chiese d'impulso.
«Assolutamente sì.»
«Anche se sto tradendo la mia famiglia e il mio clan?»
«Anche così. Sai come sono cominciate tutte queste guerre?»
«A dire il vero no. Naturalmente devo averlo sentito raccontare, ma non
riesco a ricordarlo.»
«È passato tanto tempo che sono pochissime le persone che lo ricordano e
ancora meno quelle a cui importa perché la guerra è la sola cosa che abbiano
mai conosciuto. È per questo che il tuo non è un tradimento ma un atto d'ono-
re, perché porrà fine a una lunga guerra e permetterà alla gente di ricordare la
pace.»
«Spero proprio che tu abbia ragione.»
«Lo spero anch'io, perché in questa vicenda è in gioco il mio Wyrd.»
Girandosi verso di lui, Lilli scorse sul suo volto un dolente sorriso.
«Benissimo» disse. «In tal caso servirò il principe in ogni modo possibile.»
Nonostante quella coraggiosa affermazione, nel guardare verso le cupe tor-
ri della fortezza le parve che il cuore le si facesse freddo e duro come la pie-
tra di cui erano composte; era ancora intenta a contemplare la fortezza quan-
do sentì la voce familiare di Peddyc chiamare il suo nome e nel girarsi vide
lui e suo figlio che le correvano incontro.
«Lilli!» esclamò Anasyn, cingendole le spalle con un braccio. «Il paggio ci
ha detto del passaggio segreto. Hai fatto una cosa splendida!»
Stretta in quell'abbraccio fraterno lei riuscì a ridere e si rese conto di sentir-
si al sicuro per la prima volta da settimane.
«Bevva sarebbe orgogliosa di te» sorrise Peddyc, fissandola con occhi che
apparivano stanchi. «Sei una vera figlia dell'Ariete.»

«Ecco, hai visto?» osservò Oggyn. «La nostra piccola dama del Cinghiale
ha trovato il modo di venire sul campo di battaglia.»
«Cosa?» ringhiò Nevyn. «Cosa mai potrebbe...»
«Chi lo sa? Io però ritengo che dovrebbe essere posta sotto stretta sorve-
glianza.»
«Come una criminale? Dopo che ha corso un simile rischio per servire la
causa del principe?»
«Si potrebbe anche vederla come una mossa per proteggere se stessa.»
Nevyn si trattenne a fatica dal ringhiare ancora e Oggyn si concesse un sor-
risetto, quasi pensasse di aver conseguito una vittoria.
«E come credi che la prenderebbero il Tieryn Peddyc e i suoi uomini?» re-
plicò poi Nevyn. «E anche il suo signore, già che ci siamo?»
Smettendo di sorridere Oggyn girò sui tacchi e si allontanò a grandi passi,
lasciandosi alle spalle il furente Nevyn. Caradoc, che aveva osservato la sce-
na da lontano, scelse quel momento per avvicinarsi con fare tranquillo.
«Non capisco perché nutra tanti sospetti nei confronti di quella ragazza»
protestò Nevyn. «Non c'è nessun modo in cui lei potrebbe nuocere alla causa
di Maryn.»
«Non si tratta della ragazza, mio signore, ma di te. Tu hai più influenza di
chiunque altro sul principe e Oggyn è geloso, per cui ha bisogno di trovare il
modo di avere la meglio su di te in qualcosa, anche una cosa da Poco che
normalmente non desterebbe neppure il suo interesse.»
Nevyn aprì la bocca come per ribattere ma poi la richiuse senza aver emes-
so suono.
«Di tanto in tanto» proseguì Caradoc, approfittando del suo silenzio «vedo
Oggyn confabulare con il Tieryn Gauryc.»
«Davvero? Interessante. Hai ragione in merito a Oggyn, adorerebbe godere
in misura più grande del favore del principe, il che significa che io devo go-
derne meno, ma quali possono essere le motivazioni di Gauryc?»
«Non so cosa gli dia tanto fastidio, ma se vuoi posso fare qualche domanda
in giro.»
«Davvero? Te ne sarei quanto mai grato.»
Incaricati i servi di erigere per lui una piccola tenda a pochi metri di distan-
za dalla porta di accesso a quella di Lilli, in modo da poter tenere d'occhio
chiunque entrava o usciva, Nevyn aveva appena finito di portare dentro le sue
cose quando Caradoc tornò per riferirgli le notizie che aveva raccolto. I due si
allontanarono dal campo in direzione delle mura esterne per poter parlare
senza essere sentiti da altri.
«Si tratta di pettegolezzi, mio signore» esordì Caradoc. «E gli uomini che
deridono le donne per il loro amore per i pettegolezzi dovrebbero condannare
prima loro stessi... perché oggi ho sentito ogni sorta ai chiacchiere, pratica-
mente su qualsiasi cosa! La diceria che ci interessa è però la più diffusa e so-
stiene che quando sarà diventato re, Maryn elargirà a te il gwerbretrhyn di
Cerrmor. Gauryc invece vorrebbe assicurare Cerrmor a se stesso o al suo
primogenito.»
«Questo è ridicolo! Sono troppo vecchio, non ho eredi e non è probabile
che ne abbia in futuro!»
«Suvvia, mio signore! Se tu fossi il Gwerbret di Cerrmor credi che la tua
età avrebbe importanza per una ragazza di nobile nascita? Per esempio, c'è la
giovane Lilli, un'esule senza dote che non si può permettere di essere schizzi-
nosa, e tutti l'hanno vista passeggiare con te in giardino.»
«Oh, dèi! Pensano che io la stia corteggiando? Questo in effetti potrebbe
dare a Gauryc qualche seria preoccupazione.»
«Sembra un terrier che abbia fiutato un ratto.»
«Ti ringrazio, capitano. Vedrò di riflettere sulla cosa e di trovare il modo di
placare i timori generali.»
«Perché farlo? Lascia che si rodano per qualche tempo. Questo impedirà
loro di seminare guai di altro genere: un terrier che sta cacciando un ratto non
si metterà a sterminare galline.»
Nevyn scoppiò a ridere e Caradoc si unì alla sua risata, affondando le mani
nelle tasche dei calzoni.
«A proposito di Lady Lillorigga» aggiunse poi. «Il principe le vuole parlare
non appena si sarà riposata e vorrebbe che l'accompagnassi tu da lui.»
«Naturalmente lo farò, il che darà ai nostri terrier un altro ratto fresco fre-
sco a cui dare la caccia.»
Quella notte Maryn tenne un consiglio di guerra davanti al suo padiglione.
Da un lato fece accendere dai servi un piccolo fuoco che fornisse la luce ne-
cessaria senza però emanare troppo calore, poi prese posto su un seggio con
Oggyn e Nevyn in piedi alle sue spalle e i gwerbret e Caradoc seduti per terra
davanti a lui e chiese a Nevyn di riassumere quello che Lilli aveva detto loro
in precedenza.
«Quindi l'esistenza del passaggio è certa» concluse il vecchio. «L'unico
problema è che l'uscita non si trova in un posto per noi conveniente come a-
vrebbe potuto essere la camera da letto del re: il tragitto dal cortile che Lilli
ha descritto fino alle porte principali è lungo e fra noi e le porte principali ci
sono anche altri due cerchi di terreno scoperto.»
«In tal caso sarebbe meglio riuscire a espugnare anche la prossima cerchia
di mura prima di utilizzare il passaggio. Del resto dubito che i nostri avversa-
ri s'impegneranno molto per difenderla, dato che al suo interno c'è soltanto al-
tra terra di nessuno.»
«Mi sembra una buona idea, Vostra Altezza» interloquì Caradoc. «Io ho ri-
flettuto sulla struttura di questa fortezza e sono giunto alla conclusione che è
stata costruita più per sfoggio che per difesa effettiva, dato che ci vorrebbero
diecimila uomini per difenderla in modo adeguato.»
Maryn annuì in segno di assenso, cupo in volto; intorno a lui i nobili rima-
sero in silenzio per qualche tempo, intenti ad assimilare le notizie, poi il
Tieryn Gauryc si alzò per prendere la parola.
«Mio principe, mi stavo chiedendo se non potremmo limitarci a mantenere
l'assedio e a lasciare che la fame combatta al nostro posto.»
«Una buona idea, mio signore» replicò Maryn, «ma affamare gli assediati
significa affamare anche la metà delle terre circostanti. Come faremo ad ap-
provvigionare l'esercito per tutto l'inverno? Non potremmo farlo senza spo-
gliare di tutto ogni fattoria nel raggio di chilometri, e io non ho intenzione di
governare su un regno di spettri.»
«Senza contare che gli spettri non possono fornire vettovaglie per nutrire
una grande corte» aggiunse Oggyn. «Posso avere la parola, mio principe?»
«Certamente.»
«Ringrazio Vostra Altezza. Secondo i miei calcoli abbiamo confiscato tutto
il possibile alle fattorie senza privarle del grano per la semina e senza ridurre
alla fame i contadini che dovranno seminarlo. Se quest'inverno non verrà
piantato un raccolto che possa maturare in primavera, cosa mangeranno le
truppe l'anno prossimo?»
Per la prima volta da quando l'aveva conosciuto, Nevyn si sorprese ad ave-
re una buona opinione di Oggyn; tutt'intorno i nobili presero a parlare fra lo-
ro, più che altro però per esprimere quelli che sembravano pareri di assenso.
«E c'è un'altra cosa, mio signore» proseguì Oggyn. «Stando a quanto mi
hanno detto gli uomini dell'Ariete, la maggior parte delle provviste e dei ri-
fornimenti dell' Usurpatore si trova nella penultima cerchia di mura. Se riu-
scissimo a catturarla, la situazione nella fortezza reale potrebbe farsi vera-
mente critica.»
«Un'idea eccellente, che raccomando all'attenzione di Vostra Altezza» ap-
provò Nevyn.
Oggyn s'inchinò nella sua direzione con un sorriso soddisfatto.
«Un momento!» esclamò però il Gwerbret Daeryc, alzandosi in piedi.
«Siamo diventati tutti cuochi e ciambellani per starcene qui a discutere di
staia di grano e di boccali di latte?»
«Naturalmente no, Vostra Grazia» replicò Peddyc, alzandosi a sua volta e
venendo avanti per calmare il suo signore. «Quello che conta davvero, mio
principe e signore, è agire in maniera onorevole.»
«Certamente, Tieryn Peddyc» convenne Maryn. «E quale sarebbe la linea
d'azione onorevole?»
«Noi siamo guerrieri per nascita, non portinai!» esclamò Daeryc.
«È vero, Vostra Altezza» annuì Peddyc, con un triste sorriso. «E dal mo-
mento che c'è una via per entrare nella fortezza io dico di utilizzarla...»
«... e di stanare quei bastardi!» intervenne nuovamente Daeryc.
Maryn gettò indietro il capo e scoppiò in una sonora risata.
«In tal caso mi sembra che ciambellani e guerrieri siano d'accordo» osservò
poi, lasciando scorrere lo sguardo sui nobili raccolti in semicerchio intorno a
lui. «Che ne dite, uomini?»
«Attacchiamo! Grifone Rosso! Grifone Rosso!» urlarono all'unisono i pre-
senti, e le loro acclamazioni echeggiarono come campane d'ottone sulle ali
del vento serale.

«Stanno escogitando qualcosa!» ringhiò Burcan. «Ascoltali!»


Da una grande distanza il vento notturno portava fino alla fortezza un suo-
no di grida di acclamazione che destò in Merodda una gelida sensazione di
nefasti presagi.
«Hai ragione» disse soltanto.
«Rhodi, stai bene?» chiese Burcan, sostenendola per un braccio. «Sembra
che tu stia per svenire.»
«Chiedo scusa. Torniamo dentro, fuori l'aria si è fatta troppo fredda.»
Con la mano libera Burcan sollevò la lanterna che aveva con sé per poterla
vedere bene in viso.
«A dire il vero fa piuttosto caldo» replicò. «Lascia che ti accompagni nella
tua stanza in modo che tu possa riposare.»
Dopo che Burcan se ne fu andato, Merodda tirò fuori la bacinella per evo-
care visioni. Come sempre quando pensava a Lilli si sentì divisa fra un senso
di gioia per il fatto che sua figlia fosse al sicuro e un'amara invidia e quella
notte cercò di evocarne l'immagine con lo stesso stato d'animo con cui avreb-
be potuto tastare un livido per verificare se le faceva ancora male. Quando
però pensò a lei non ottenne nessuna immagine: la superficie dell'inchiostro
rimase nera, senza che la minima forma accennasse ad apparire su di essa.
Alla fine Merodda dovette rinunciare, talmente scossa che quando cercò di
versare di nuovo l'inchiostro nella bottiglia le mani le tremavano così tanto da
costringerla a desistere: quel fallimento poteva significare soltanto che Lilli
era lì a Dun Deverry, dove Nevyn poteva proteggerla, ma perché era venuta?
Peddyc e gli altri uomini dell'Ariete conoscevano più a fondo la fortezza,
quindi cosa sapeva Lilli, quale informazione era venuta a portare in dono al-
l'Usurpatore? Oppure... d'un tratto Merodda fu assalita da un tale senso di ge-
lo da essere costretta a insinuare le mani sotto le ascelle per scaldarle. Senza
dubbio quel Nevyn era a conoscenza del talento che la ragazza aveva per e-
vocare presagi e desiderava utilizzarlo a suo beneficio, come lei stessa aveva
fatto in passato.
Sua figlia si era trasformata in un coltello, puntato al cuore della fortezza.
L'indomani mattina Lilli accompagnò il principe sul luogo in cui si apriva
la galleria. Peddyc aveva riconosciuto le rovine non appena lei le aveva de-
scritte e provvide a scortare il principe sul posto insieme alla banda di guerra
dell'Ariete e all'intero contingente delle daghe d'argento, a cui per buona mi-
sura decise di unirsi anche Nevyn.
Sotto un cielo appesantito da fitte nubi che promettevano un temporale e-
stivo e creavano un'atmosfera afosa e soffocante, tanto che perfino il grac-
chiare dei corvi pareva provenire da molto lontano, la colonna raggiunse il
muro di cinta diroccato e il moncone della rocca al suo interno.
«Ormai questa rocca è deserta da molti anni» osservò Peddyc. «Si suppone
che sia infestata dagli spiriti.»
«Ma certo, non lo sono tutte?» rise Nevyn.
Peddyc scoppiò a ridere a sua volta, ma con una nota di disagio nella voce,
poi tutti smontarono e gli uomini dell'Ariete presero in consegna i cavalli
mentre il principe, Nevyn, Lilli e alcune daghe d'argento fra cui anche Bra-
noic si addentravano fra l'erba alta che cresceva abbondante nel vecchio cor-
tile. Per un momento, vedendo il posto da una nuova angolazione, Lilli si
sentì disorientata, ma poi riconobbe un particolare gruppo di pietre sparse.
«Là dietro» disse. «Vostra Altezza mi segua.»
«Con piacere, mia signora» rispose Maryn, inchinandosi. «Prima però
manderò in avanscoperta uno dei miei uomini, nel caso che qualche disperato
abbia cercato rifugio fra queste rovine.»
Alla fine tuttavia il gruppo aggirò senza incidenti il lato della rocca e avvi-
stò l'accesso ai gradini di pietra, esattamente dove Lilli si era aspettata di tro-
varlo.
«Laggiù, Vostra Altezza» indicò. «C'è una cantina e poi una pesante por-
ta.»
«Splendido!» esclamò Maryn e accennò ad avanzare, ma Nevyn fu pronto
a trattenerlo per un braccio.
«Per favore, mio signore, lascia che le tue guardie ti precedano» suggerì,
con una nota di stanchezza nella voce.
Mentre il principe e cinque daghe d'argento esaminavano la cantina, Nevyn
e Lilli attesero seduti su alcune pietre. In alto il cielo si era fatto ancora più
cupo e i corvi avevano smesso di gracchiare oppure erano volati via per cer-
care riparo dalla pioggia imminente; nell'afa sempre più intensa Lilli sentì il
sudore colarle lungo la schiena e sollevò la manica del vestito da equitazione
per asciugarsi il volto.
«Una giornata davvero brutta» commentò Nevyn.
«Infatti, mio signore. Continuo a pensare a Brour: l'ultima volta che l'ho vi-
sto si stava incamminando verso ovest con lo zaino in spalla.»
«E adesso è morto. Una cosa davvero triste.»
D'un tratto Lilli rimase colpita dalla consapevolezza che Nevyn non aveva
mai messo in dubbio l'esattezza della sua sensazione indotta dal dweomer in
merito al fatto che Brour fosse morto, mentre sua madre al suo posto avrebbe
insistito a interrogarla.
«Vorrei che lei non lo avesse fatto inseguire e uccidere» commentò poi.
«Mi riferisco a mia madre. Lui voleva soltanto andarsene.»
«Suppongo avesse paura di quello che lui sapeva...»
Nevyn lasciò a mezzo la frase nel sentire un assai poco regale grido di
trionfo emergere dalla cantina; di lì a poco il Principe Maryn sbucò nel corti-
le con la camicia coperta di polvere e di fango e con una ragnatela che brilla-
va fra i capelli dorati.
«Una porta dannatamente pesante» affermò con un sorriso soddisfatto.
«Come hai fatto ad aprirla, Lilli?»
Nel sentirgli usare il suo soprannome Lilli arrossì, anche se non avrebbe
saputo spiegarne il motivo.
«Non l'ho aperta io, Vostra Altezza» rispose. «È stato il mio insegnante.»
«Ah, capisco.»
«Mio signore, dove sono le tue guardie?» domandò Nevyn.
«Stanno percorrendo un tratto della galleria. Caradoc è protettivo quanto te,
Nevyn, e non mi ha permesso di accompagnarlo» spiegò Maryn. sedendosi su
un altro pezzo di muro abbattuto. «Gli ho detto di non spingersi troppo lonta-
no. Dimmi, Lilli, credi che qualcun altro sia a conoscenza di questo segreto?»
«Penso di no, Vostra Altezza.»
«Perché?»
«Mio signore, in questo ritrovamento è stata utilizzata una considerevole
quantità di dweomer» interloquì Nevyn.
Maryn accennò a replicare, poi si limitò a fissare Lilli con le labbra soc-
chiuse in un'espressione meravigliata. Lei si sentì arroventare di nuovo in
volto, e abbassò lo sguardo al suolo imprecando contro se stessa, memore del
fatto che Bevyan le aveva sempre raccomandato di farlo se qualche persona
di rango reale l'avesse guardata direttamente in volto.
«Benissimo, in tal caso non dubito che sia un segreto ben custodito» com-
mentò Maryn. «Quando torneremo al campo ci potrai dire dove sbuca questo
passaggio. Pensi di poter disegnare una mappa sul terreno?»
«Sarò lieta di provarci, Vostra Altezza.»
«Peddyc, Daeryc e gli altri uomini dell'Ariete conoscono molto bene Dun
Deverry» intervenne nuovamente Nevyn. «Potranno dirci loro tutto ciò che ci
serve sapere. Io credo che Lilli dovrebbe tornare a Cerrmor.»
«Ma può farlo senza rischi, anche viaggiando sul fiume?» obiettò Maryn.
«Ci sono razziatori ovunque, Nevyn, tutte quelle bande di guerra che hanno
disertato e che in alcuni casi hanno perduto il loro signore e si sono trasfor-
mate in briganti.»
«Ecco, questo è vero» ammise Nevyn, dopo un lungo momento di rifles-
sione. «Me ne ero dimenticato.»
Mentre i due parlavano, Lilli continuò a spostare lo sguardo dall'uno all'al-
tro, colpita dalla disinvoltura dei loro rapporti quando intorno non c'erano
nobili che potessero sentirli, tanto da sentirsi indotta a chiedersi se Nevyn
non fosse a sua volta di sangue reale, per poter parlare così sfacciatamente al
principe.
«Tu cosa ne dici, Lilli?» domandò infine Nevyn. «Il pericolo è notevole,
sia che tu rimanga o che torni a casa.»
«Se il mio principe ha bisogno di me preferisco rimanere» rispose lei.
Maryn le sorrise e d'un tratto la giornata parve farsi soleggiata. Lilli ebbe
l'impressione di poter scivolare in stato di trance, esposta al suo potere magi-
co e alla sua grazia che si fusero a ottunderle i sensi. Poi però si accorse che
Nevyn la stava osservando con espressione cupa e si affrettò a distogliere lo
sguardo, cercando al tempo stesso qualcosa da dire. Da quella situazione im-
barazzante la salvarono le daghe d'argento, ricomparendo in cima alla scala
di pietra.
«La galleria non si stringe mai, mio signore» riferì Caradoc. «Se vogliamo,
possiamo far scendere là sotto un numero elevato di uomini.»
«Splendido!» esclamò Maryn, balzando in piedi. «Torniamo al campo per
approntare qualche piano.»
Lilli rimase indietro, permettendogli di allontanarsi con i suoi uomini e se-
guendolo insieme a Nevyn, che infilò il braccio sotto il suo.
«Alcune cose belle sono pericolose» osservò lui.
«Ti riferisci al principe, mio signore?»
«No, mi riferisco alla principessa.»
I loro sguardi s'incontrarono, e Nevyn inarcò con aria significativa un ce-
spuglioso sopracciglio.
«Ho capito, davvero» si affrettò ad affermare Lilli.
Nel corso della lunga cavalcata di rientro continuò a sentirsi l'animo op-
presso da un doloroso senso di vuoto sebbene cercasse di fingere con se stes-
sa che non le importava nulla del favore del Principe Maryn.

Sulla via del ritorno al campo, il temporale si decise infine a scoppiare con
un fragore di tuoni, inzuppando tutti i componenti del gruppo che accompa-
gnava il principe prima che avessero anche solo il tempo di lamentarsi del-
l'acquazzone; quando arrivarono alle porte cittadine, Nevyn avvistò poi un al-
tro gruppo di viaggiatori fradici che li stava precedendo e che era composto
da cinque cavalieri seguiti da un carretto di vimini trainato da un solo cavallo,
dietro il quale procedevano altri due uomini a piedi; tutti quanti indossavano
semplici tuniche che lasciavano nude le gambe.
«Preti!» esclamò Maryn. «Cosa ci fanno qui?»
«Non lo so, mio signore, ma posso sperare che sia un buon segno» replicò
Nevyn.
Girandosi, il principe gli scoccò un'occhiata perplessa a cui il vecchio ri-
spose soltanto con una risata, spronando al tempo stesso il cavallo.
«Torniamo al campo, Altezza» disse quindi. «Se i preti desiderano parlarti
è là che ti verranno a cercare.»
In effetti quella stessa notte i preti si presentarono nel padiglione del Prin-
cipe Maryn. Nel corso dei molteplici assedi subiti da Dun, Deverry i preti di
Bel erano sempre rimasti neutrali, al sicuro sulla loro collina sacra dove nes-
sun uomo sano di mente avrebbe mai osato versare del sangue; questa volta
però, con i presagi che si susseguivano numerosi e impetuosi come una piena
primaverile e con un esercito enorme accampato intorno alla fortezza, il capo
dei preti. Gwaevyr, aveva inviato un paio di neofiti a Maryn, l'aspirante re di
tutto Deverry.
Il sole era tramontato quando un servitore fece entrare due giovani dalla te-
sta rasata e con un collare d'oro intorno al collo: i due s'inchinarono profon-
damente al cospetto di Maryn ma non s'inginocchiarono perché il solo signo-
re a cui rendevano omaggio assoluto era il dio Bel.
«Cosa vi conduce da me?» domandò Maryn, ricambiando l'inchino. «An-
che se gli dèi stessi sanno che i loro vassalli sono sempre i benvenuti qui.»
«Ti ringrazio» rispose il prete più maturo, con voce secca e sottile. «Il
Sommo Prete in persona. Sua Santità Gwaevyr di Dun Deverry, ci ha inviati
per convocarti davanti agli altari del dio.»
«Ha detto il perché?» volle sapere Maryn.
«No» replicò il prete, poi lui e il suo compagno s'inchinarono, si voltarono
e uscirono a grandi passi dalla tenda, lasciando Maryn a fissarli con espres-
sione perplessa.
«Oho!» esclamò infine Nevyn. «Penso sia meglio andare, mio signore, per-
ché questo potrebbe benissimo tornare a tuo vantaggio.»
«Non è certo una convocazione che io intenda comunque ignorare» ribatté
Maryn. «Prenderò con me un paio di guardie.»
«Certamente, e credo farai meglio a portare con te anche i nobili del consi-
glio, come testimoni» suggerì Nevyn.
Nel frattempo aveva smesso di piovere e le stelle brillavano nitide negli
squarci fra le nuvole che già si disperdevano nel cielo. Il complesso del tem-
pio era appollaiato sulla seconda collina più alta di Dun Deverry, ma al con-
trario del palazzo reale aveva soltanto due cinte di mura esterne; vicino alla
prima porta il principe e il suo seguito trovarono ad attenderli i due messag-
geri, che li lasciarono entrare dopo che il più maturo dei due li ebbe scrutati
attentamente alla luce della lanterna.
«Sua Santità vi sta aspettando nel tempio» affermò il più giovane, poi si gi-
rò verso Nevyn e aggiunse: «Il Sommo Prete Retyc di Lughcarn è qui.»
Nevyn sentì un freddo brivido di eccitazione corrergli nelle vene: il mo-
mento era davvero giunto.
Scortati dai due preti attraversarono un tratto di prato e oltrepassarono la
seconda porta che dava accesso al complesso vero e proprio del tempio, dove
le abitazioni dei sacerdoti, una stalla per le mucche, orti ed edifici di ogni tipo
formavano un vero e proprio villaggio che si allargava all'interno delle mura;
là altri preti erano in attesa di prendere in consegna i cavalli, ma nessuno dis-
se una sola parola ed essi si limitarono a fissare il principe con espressione
indecifrabile.
Il tempio sorgeva in un boschetto di antiche querce ed era un semplice edi-
ficio rotondo di legno imbiancato a calce e con il tetto di paglia, come qual-
siasi santuario di campagna; all'interno, l'altare di pietra si levava al centro
della stanza circolare, sotto un foro praticato nel tetto per far defluire il fumo;
lungo le pareti, sotto i cornicioni, erano disposte numerose statue di legno,
ciascuna intagliata da un singolo tronco d'albero, tutte enormi e tutte di forma
approssimativamente umana. Alcune avevano un volto intagliato con tanta
abilità da dare l'impressione che potessero parlare, altre avevano occhi roz-
zamente cesellati e una fessura al posto della bocca, ma in tutte le braccia e-
rano appena delineate e ancora attaccate al corpo sul lato interno e ogni mano
dalle ampie dita reggeva un teschio umano.
All'Alba dei Tempi, come Nevyn ben sapeva, quei teschi sarebbero stati le
teste recise consegnate come tributo dai nemici della tribù che supportava il
tempio, mentre adesso erano soltanto un memento dei preti che avevano pre-
stato servizio in quel tempio nell'arco delle ultime centinaia di anni, un e-
stremo dono da essi elargito al loro dio quando erano andati a raggiungerlo
nelle Terre dell'Aldilà. Vicino all'altare era in attesa un uomo tanto vecchio e
magro che la sua faccia sarebbe potuta sembrare un pezzo di pelle tesa su un
altro teschio se non fosse stato per gli occhi ancora pieni di vita. Quando
Nevyn, il principe e gli altri nobili si avvicinarono all'altare provenienti dalla
porta principale, in fondo alla stanza si aprì una porta secondaria e altri preti
entrarono nel tempio, tutti vestiti con una semplice tunica di lino, con un fal-
cetto d'oro appeso al fianco e una lanterna in mano. Uno alla volta, essi pre-
sero posto davanti alle statue, fino a quando ogni Bel di legno ebbe un uomo
vivente che lo rappresentasse e il tempio fu pieno di luci danzanti.
«Benvenuti!» tuonò il Sommo Prete, con una voce sorprendentemente forte
per un uomo dall'aspetto tanto fragile. «È costui che gli uomini chiamano il
Principe Maryn di Cerrmor?»
«Sono io, Vostra Santità» rispose Maryn, facendosi avanti con un rispetto-
so cenno del capo. «Sono venuto in risposta alla tua convocazione.»
Lasciando Nevyn e i nobili in attesa accanto alla porta, Maryn avanzò poi
da solo nel tempio, e al suo avvicinarsi Gwaevyr posò una mano su un cofa-
netto d'argento brunito dal tempo, che era posato sull'altare.
«Principe Maryn, il dio mi ha mostrato molti presagi» disse. «Nell'ora più
cupa della notte vengo da solo in questo tempio a pregare e ad ascoltare la
sua voce in cerca di una visione. Lui mi ha parlato e mi ha mostrato che tu sei
il legittimo proprietario di ciò che si trova in questo cofanetto d'argento.»
«Benedetto sia il nome del dio» sussurrò Maryn. «Sarò lieto di accettare
qualsiasi cosa mi vorrai dare.»
«Allora è tua» dichiarò Gwaevyr. «Più volte nell'arco di molti anni trascor-
si i falsi re sono venuti da me e mi hanno chiesto dove fosse la spilla a cer-
chio che indica l'unico, vero re di tutto Deverry, ma io non l'ho mai detto a
nessuno fino a questo momento. Retyc di Lughcarn l'ha tenuta nascosta nel
suo tempio» continuò, indicando uno dei preti, «per evitare che qualche em-
pio nobile attaccasse il mio tempio e cercasse di prenderla con la forza. Ades-
so il dio mi ha detto di consegnarla al principe che lui ha prescelto.»
Mentre Maryn si lasciava cadere in ginocchio davanti all'altare, dietro ri-
chiesta di Nevyn il Popolo Fatato dell'Aria e dell'Aethyr si affrettò ad accor-
rere al suo fianco. Di colpo il tempio parve farsi più grande e risplendere di
una luce argentea che faceva impallidire la fiamma delle candele, uno spetta-
colo che strappò un sussulto ai nobili presenti ma che non destò la minima
reazione nei preti.
Gwaevyr intanto prese ad armeggiare con il lucchetto per aprirlo fino a
quando esso gli si spezzò fra le dita, cosa che strappò a Nevyn un impreca-
zione soffocata perché lui avrebbe preferito che i presagi risultassero ancora
più chiari. Con dita tremanti, il vecchio sacerdote aprì quindi il coperchio del
cofanetto, rivelando un'antica e logora pezza di seta che era ancora di un ros-
so acceso per il suo lungo isolamento lontano dalla luce del sole, ma che gli
si crepò e sgretolò fra le dita quando lui la sollevò.
«Ah!» sorrise Gwaevyr. «Mirate! La spilla dell'unico, vero re!»
Quando l'anziano prete sollevò l'enorme anello d'oro tempestato di rubini e
decorato da un complesso motivo di intrecci. Nevyn inviò su di esso un rag-
gio di luce che fece scintillare la lunga spilla modellata come una lama di
spada che aveva un rubino al posto dell'elsa.
«Come la treccia si avvolge intorno a questa spilla così deve la volontà del
Sommo Re avvolgere i suoi sudditi in un tutto unico! E con la spada li deve
difendere!»
Gli uomini in attesa vicino alla porta trattennero il respiro in un sussulto
collettivo mentre Nevyn accentrava la sua attenzione sulla spilla, esaminan-
dola con cura: pur essendo un po' offuscata dal tempo, era indubbiamente
quella originale... anche se di certo nessuno gli avrebbe creduto se lui avesse
detto di averla vista quando era nuova.
«Sei degno di questo simbolo, Principe Maryn?» domandò Gwaevyr.
«Con l'aiuto degli dèi lo diventerò, Vostra Santità. In caso contrario, pos-
sano gli dèi abbattermi.»
Il vecchio prete annuì con un sorriso.
«Benissimo!» approvò quindi. «Finché la guerra non sarà finita, terrò al si-
curo questa spilla presso di me. Una volta che il regno sarà in pace, torna qui
e sarai incoronato Sommo Re secondo gli antichi riti.»
Troppo entusiasti per poter continuare ancora a tacere, i vassalli di Maryn
applaudirono, un coro di voci che echeggiò stentoreo nel tempio come un in-
sieme di campane di ottone, e con una risata Gwaevyr levò di nuovo in alto la
spilla con entrambe le mani perché potessero vederla bene.
«Combattete con valore per il vostro principe, miei signori!» esclamò. «Poi
lo vedrete diventare re!»
Gli applausi echeggiarono ancora, ma nel profondo della sua anima Nevyn
avvertì una gelida fitta di timore mentre si chiedeva cosa stesse causando
quel ritardo.
Nelle prime ore del mattino successivo, quando ancora Maryn non si era
svegliato e non lo aveva mandato a chiamare, Nevyn tornò da solo al tempio
di Bel. A quanto pareva il suo arrivo era stato previsto, perché alle porte i
giovani preti di guardia gli permisero immediatamente di passare e all'interno
lui trovò Retyc. un massiccio uomo di mezz'età, che passeggiava da solo sot-
to le querce, fra i raggi del sole del mattino che proiettavano in mezzo al fo-
gliame colonne di luce, quasi fossero davvero nella casa stessa del dio, con il
cielo come tetto.
«Immaginavo che saresti venuto, Nevyn» esordì Retyc, con un sorriso.
«Lasciami indovinare, ti stai chiedendo perché non lo abbiamo incoronato re
la scorsa notte, facendola finita una volta per tutte.»
«Infatti» annuì Nevyn. «I presagi sono stati nefasti?»
«Nulla del genere! È una piccola cosa dannatamente strana che mi secca
moltissimo ma che non è possibile aggirare: i riti per l'incoronazione di un
sovrano esigono l'impiego di una giumenta bianca, e noi non riusciamo a tro-
varne una.»
«Cosa?»
«Abbiamo inviato messaggeri in tutto Deverry e perfino nel Gwentaer, ma
a causa di questa dannata guerra i cavalli di ogni tipo scarseggiano perché ne
muoiono moltissimi ogni estate e non si riesce a trovare una giumenta bianca.
Mi era giunta voce di una bestia anziana che aveva appena una chiazza grigia
sulla fronte, ma le antiche leggi sono inflessibili: deve essere una giumenta
tutta bianca, e giovane. L'ideale sarebbe una bestia che non avesse mai parto-
rito puledri, ma su questo le leggi lasciano un certo margine di manovra.»
«Davvero gentile da parte loro. Posso confidare che stiate continuando a
cercare?»
«Ma certo. Purtroppo i migliori cavalli del regno vengono da Cantrae e du-
bito che i Cinghiali onorerebbero la mia richiesta, anche se la accompagnassi
con una sacca d'argento.»
«Già! Che dannato inconveniente!»
«Suvvia, non ti mostrare così avvilito! Troveremo una giumenta. Questo ri-
tardo è una vera seccatura, ma del resto i cavalli bianchi sono sacri perché
sono tanto rari, e con questa guerra...»
Retyc lasciò in sospeso la frase, allargando le mani e scrollando le spalle
con aria impotente.
A livello logico e razionale Nevyn sapeva che Retyc aveva ragione, ma un
senso di timore continuò a tormentarlo perché aveva la sensazione che questo
ritardo contrassegnasse un punto di svolta in un intreccio di trame e che lui
avrebbe dovuto essere in grado di capire di cosa si trattava; anche se continuò
a rifletterci sopra per tutto il giorno, però, la risposta giusta si ostinò a rima-
nere fuori della portata della sua mente.

Quella sera Lilli cenò con Peddyc e con il suo signore, un invito che lì in
mezzo a una guerra si tradusse nel fatto che loro portarono del cibo nella sua
tenda e sedettero per terra a mangiare con lei, lasciandole a disposizione l'u-
nica sedia; insieme al resto il Gwerbret Daeryc le recò in dono tre prugne av-
volte in un pezzo di stoffa, che le porse con un inchino.
«Sono grata a Vostra Grazia» sorrise Lilli. «Queste da dove vengono?»
«Uno degli uomini ha trovato una pianta di prugne in città. Dal momento
che il suo proprietario deve essere fuggito da tempo, era inutile lasciare che
quei frutti andassero sprecati: un po' di cibo fresco vuol dire molto in un lun-
go assedio come questo.»
«Posso immaginarlo, Vostra Grazia.»
Anasyn aveva trovato anche un po' di sidro, e dopo cena i tre uomini le ri-
volsero formalmente un brindisi con sbrecciate tazze di ceramica.
«Al tuo coraggio, ragazza!» esclamò Daeryc.
Anasyn e Peddyc levarono la loro tazza di sidro per unirsi al brindisi, e nel
guardarli Lilli disse a se stessa che doveva aver fatto la cosa più giusta, se la
onoravano per il suo gesto.
«Vi ringrazio, miei signori, ma io sono soltanto grata di poter servire il mio
principe» affermò quindi.
«Nostra madre ti ha educata bene» commentò Anasyn, con un sorriso. «Sai
dire le parole giuste, ma scommetto che dentro di te sei quanto mai orgoglio-
sa di te stessa.»
Lilli rispose con una linguaccia e tutti scoppiarono a ridere, poi Daeryc finì
il suo sidro e si alzò in piedi, porgendo la tazza a una delle serve di Lilli.
«Ora sarà meglio andare» disse, rivolgendo un cenno a Peddyc. «Presto il
principe indirà il consiglio di guerra.»
Ferma sulla soglia della tenda sotto il cielo sempre più buio, Lilli li guardò
allontanarsi sentendosi quasi ubriaca di gioia, ma al tempo stesso sotto quella
sensazione avvertì anche uno stato d'animo più cupo: da qualche parte, appe-
na oltre la soglia del suo io cosciente, il terrore era pronto a spiccare il balzo
per aggredirla.

«Bene, mio signore» affermò Caradoc, «mi sembra che le daghe d'argento
siano gli uomini più adatti per il compito di aprirti le porte. Chiedo scusa a
voi tutti, miei signori» proseguì quindi, lasciando scorrere lo sguardo sui no-
bili radunati in consiglio, «ma gli uomini che prenderanno parte a questa pic-
cola spedizione dovranno essere assolutamente fedeli al principe e non avere
parenti prossimi o remoti all'interno della fortezza.»
Quelle parole strapparono un sussulto a Nevyn e generarono un coro di
borbottii fra i nobili. Caradoc però non aveva ancora finito e alzò la voce per
farsi sentire sopra il chiasso generale.
«Soprattutto» aggiunse, «gli uomini che si addosseranno questo compito
non dovranno avere il minimo brandello di onore. Se qualche serva dovesse
scoprirci e cercare di urlare dovrà morire in fretta: fra voi c'è qualcuno dispo-
sto a fare una cosa del genere?»
I borbottii cessarono. Come Nevyn ben sapeva, tutti i presenti erano perfet-
tamente capaci di compiere un assassinio a sangue freddo ma non sarebbero
mai stati disposti ad ammetterlo, neppure con loro stessi.
«Il mio capitano dice la verità» intervenne il Principe Maryn. «Per quanto
mi dolga il cuore a condannare qualsiasi uomo a un compito del genere, sa-
ranno le daghe d'argento ad aprire le porte.»
I nobili si guardarono a vicenda, poi annuirono in segno d'assenso, e Nevyn
ebbe l'impressione che fossero addirittura sollevati di non doversi addossare
quell'incarico.
«Ricapitolando» proseguì intanto Maryn, «per prima cosa prenderemo il
terzo muro con un assalto aperto, poi l'esercito riposerà per uno o due giorni,
a seconda di quanto sarà andato bene l'assalto, e infine passeremo al quarto
muro. Di notte le daghe d'argento useranno il passaggio segreto e noi terremo
pronti i nostri uomini: non appena loro avranno aperto le porte del quarto mu-
ro, andremo alla carica e conquisteremo anche quella cinta. Siamo tutti d'ac-
cordo?»
Tutti i nobili assentirono, annuendo, tranne il Tieryn Peddyc che si alzò in
piedi.
«Mio signore, le daghe d'argento avranno bisogno di avere con loro un
uomo che conosca Dun Deverry» disse. «Io ho trascorso qui ogni estate fin
da quando ero un ragazzo.»
«Un momento!» esclamò Daeryc, alzandosi a sua volta con espressione i-
rosa. «Hai ragione nell'asserire che questo è necessario, ma spetta a me anda-
re!»
«Invece no. Vostra Grazia è molto più prezioso per il principe fuori delle
mura» ribatté Peddyc.
Poi entrambi si girarono verso il principe perché decidesse per loro.
«Direi che la scelta spetta a Caradoc» affermò questi. «Sarà lui a stabilire
chi deve andare.»
«Io concordo con il tieryn, Vostra Altezza» affermò Caradoc, tenendo lo
sguardo appuntato sul principe e distolto da Daeryc. «Sua Grazia il gwerbret
è un uomo troppo prezioso per rischiare la sua incolumità.»
Avendo salvato il proprio onore, Daeryc poté sedersi e lasciare quel perico-
loso compito al suo vassallo; dal canto suo, Nevyn si trovò pronto a scom-
mettere che in una spedizione del genere Daeryc sarebbe stato più un peso
che un aiuto, ma al tempo stesso si sorprese a chiedersi perché Peddyc si fos-
se offerto volontario.
Quando infine il consiglio si concluse attirò quindi l'attenzione di Peddyc e
si allontanò con lui dagli altri di qualche passo, in modo da potergli parlare in
privato.
«Sono un po' sorpreso che sia tu ad andare con Caradoc e non il giovane
Anasyn» osservò.
«Anasyn è il futuro del mio clan, e non intendo metterlo a repentaglio» ri-
spose Peddyc.
«Allora sei consapevole di quanto sia pericolosa questa missione.»
«Certamente» annuì Peddyc, con un pallido sorriso. «In questi giorni però
mi sento io stesso come una daga d'argento. Bada bene, credo con tutto il mio
cuore che Maryn sia il vero re, ma gli Arieti hanno combattuto al fianco di
Cantrae fin da quando la guerra ha avuto inizio, per quanto tempo sia passato
da allora.»
«Capisco. Del resto non pensavo che avessi cambiato schieramento alla
leggera.»
«Ti ringrazio. Alcuni clan sono come le foglie autunnali, seguono qualsiasi
vento di vittoria che prenda a soffiare, ma per me questa è stata una decisione
dura e difficile» ammise Peddyc, poi fece una lunga pausa, fissando il campo
sempre più buio, e infine aggiunse: «Il principe può anche avermi perdonato,
ma io continuo a sentirmi un uomo disonorato.»
«Per aver combattuto contro di lui o per essere passato dalla sua parte?»
«Per entrambe le cose.»
«Ebbene, io non ritengo che siano motivo di vergogna, nessuna delle due.»
«Grazie» mormorò Peddyc, con un accenno di sorriso. «Si sta facendo tar-
di, consigliere. Sarà meglio andare a riposare.»
E si allontanò senza aggiungere altro. Osservandolo mentre se ne andava,
Nevyn si chiese se ci fosse qualcosa che gli poteva dire per dare sollievo a
questa crisi d'onore che lui stava attraversando, pur sapendo in cuor suo che
non c'erano parole che potessero bastare.

Quando nessuna delle daghe d'argento prese parte all'assalto alla terza cer-
chia di mura Branoic ne fu sollevato e cercò conforto alla vergogna che quel-
la sensazione generava in lui nel pensiero di ciò che Caradoc gli aveva detto,
e cioè che a loro sarebbe toccato il compito più difficile di tutti. Il cielo non
aveva ancora cominciato a ingrigire per i primi chiarori dell'alba allorché le
squadre d'assalto iniziarono ad approntare gli arieti e le scale; subito Caradoc
convocò a sé i suoi uomini e, con sorpresa di Branoic, anche il Tieryn Peddyc
e Lady Lillorigga, e li condusse lontano dal rumore.
«Dunque» esordì il capitano, «Lady Lillorigga ha graziosamente acconsen-
tito a spiegarci dove sbuchi il passaggio all'interno della fortezza e al momen-
to di agire il tieryn verrà con noi per accertarsi che non finiamo per perderci.
Mia signora, ci vuoi dire quello che sai?»
Lilli cominciò a parlare con una precisione e chiarezza che impressionaro-
no Branoic, spiegando la posizione dello sbocco del passaggio così bene da
permettergli di formarsi subito nella mente un'immagine del posto; in risposta
alle domande degli altri uomini, lei tornò poi a fornire le informazioni, of-
frendole ogni volta in maniera leggermente diversa, fino a quando tutti ebbe-
ro la sensazione di conoscere il terreno. Preso un bastoncino, la ragazza pro-
cedette quindi a tracciare per terra una mappa del luogo, che Peddyc dichiarò
essere accurata.
«Ero ancora un ragazzo quando quella parte della fortezza è bruciata» dis-
se. «A quanto ho appreso da mio padre, non si sono addossati il costo della
ricostruzione perché quell'area era deserta e non conteneva nulla di valore.»
«Quello che mi chiedo, mio signore» replicò Caradoc, «è come mai nessu-
no si ricordasse dell'esistenza di quel passaggio.»
«Io stesso non lo so, capitano, ma posso immaginarlo. I re non si sono mai
fidati molto di nessuno, probabilmente a ragion veduta, quindi dubito che
chiunque a parte loro fosse a conoscenza dell'esistenza di quel passaggio.
Quando mio padre era ragazzo, un re e il suo figlio maggiore sono morti en-
trambi nella stessa battaglia, evidentemente prima di mettere il figlio minore
al corrente dei segreti di famiglia.»
«Una supposizione valida» annuì Caradoc, poi si girò verso Lilli: «Mia si-
gnora, hai i miei più umili ringraziamenti. Adesso non hai più motivo di ri-
manere in mezzo a gente come noi.»
«Sarò lieto di scortare la dama fino alla sua tenda» si offrì Branoic, facen-
dosi avanti con un inchino.
«Davvero?» intervenne Peddyc, girandosi a fissarlo con tanta freddezza da
indurlo a indietreggiare. «Provvederò io stesso a riaccompagnare la mia figlia
adottiva.»
Branoic riuscì a esibire un sorriso e tornò a mescolarsi alle altre daghe
d'argento, ma non prima di aver fatto in tempo a cogliere l'espressione appar-
sa sul volto di Caradoc, che stava ridendo di lui! Per fortuna, nessuno dei suoi
compagni provò a prenderlo in giro per la figura che aveva fatto, neppure una
volta che il tieryn e Lilli non furono più a portata di udito.
«Vorrei che potessimo fare a meno dell'aiuto di Peddyc» commentò intanto
Caradoc. «Questo non sarà certo un combattimento adatto a un nobile, a piedi
nel fango e nel buio.»
«Se pensi che possa essere d'intralcio parlane con il principe» suggerì O-
waen.
«Non si tratta di questo» replicò però Caradoc, e nel lasciar scorrere lo
sguardo sui suoi uomini proseguì: «Ragazzi, ascoltate. Dovremo trovare la
strada in una fortezza che non abbiamo mai visto e pregare che le porte non
siano sorvegliate. Credete che gli dèi risponderanno a quella preghiera? Io
non lo credo. Alcuni di noi finiranno per intraprendere un'azione di retro-
guardia in modo che gli altri possano passare... capite cosa voglio dire?»
Branoic sentì un brivido gelido scorrergli lungo la schiena, e nel guardare
verso i compagni vide che alcuni stavano sfoggiando un teso sorriso, alti sta-
vano annuendo e altri ancora erano semplicemente cupi in volto. Pochissimi
di loro sarebbero sopravvissuti a quella spedizione.
Ah, bene, del resto ho sempre saputo che sarebbe venuto il giorno in cui
sarei morto per il nostro principe, pensò.
«Quando sarà il momento, verrò con voi» dichiarò intanto Maddyn, facen-
dosi avanti con la mano sull'elsa della daga.
«Invece no» scattò Caradoc. «Voglio che rimanga qualcuno che tenga vivo
il nostro nome.»
In quel momento dall'alto della collina giunse un rumore di corni d'argento
accompagnato da grida improvvise che echeggiarono come un tuono nel ven-
to, e nel girarsi all'unisono verso quel suono le daghe d'argento sorrisero: l'as-
salto al terzo muro era iniziato.

A parere di Nevyn, la presa del terzo muro andò meglio di quanto ci si po-
tesse aspettare. Anche se il Reggente aveva disposto delle guardie su di esso,
l'attacco parve comunque prenderle di sorpresa, perché dopo cento anni di
guerre civili l'andamento del conflitto era diventato prevedibile come i rituali
dei templi: tutti sapevano che Dun Deverry non avrebbe mai potuto essere
presa con la forza ma soltanto mediante un assedio, una pratica a cui gli esau-
sti condottieri e i loro eserciti ancor più sfiniti si erano sempre conformati...
fino a Maryn.
In guerra la sorpresa è una delle sette grandi delizie, almeno secondo quan-
to dicono i Gel da Thae. Nel tempo che il Reggente impiegò per radunare il
numero di uomini necessario a una difesa adeguata, gli arieti presero a per-
cuotere le uniche porte del terzo muro, alternandosi uno all'altro in un ritmo
costante.
«Non ci è voluto molto tempo a praticare una breccia» spiegò Maryn alla
fine della battaglia, «e Burcan non ha potuto raccogliere abbastanza in fretta
gli uomini necessari a tenerci lontani dalle mura.»
«Capisco, mio signore» annuì Nevyn. «Bene, sono lieto che sia finita in
fretta.»
«Lo sono anch'io, ma la prossima volta Burcan sarà pronto ad accoglierci.
Prego tutti gli dèi che Caradoc riesca ad aprire quelle porte, perché altrimenti
non prenderemo mai il quarto muro.»
In quel momento un paggio uscì dal padiglione e porse al principe un boc-
cale, che Nevyn notò essere pieno di sidro; Maryn ne trangugiò il contenuto
come se fosse stato acqua e si asciugò la bocca con il dorso della mano.
«Adesso il terzo muro è nostro?» chiese intanto Nevyn.
«Completamente. Le squadre d'assalto hanno già rimosso le passerelle e
spostato l'argano» rispose Maryn, guardando verso il cielo, dove il sole era
ormai basso verso ovest. «Direi che il momento determinante è stato verso
mezzogiorno.»
«Bene. Vostra Altezza può scusarmi? Caradoc vuole parlarmi.»
Nevyn s'incontrò con Caradoc fuori della sua tenda.
«Nevyn, mio signore, ho una cosa da chiederti» esordì il capitano, venendo
subito al dunque, «Stavo pensando a quella pioggia misteriosa che si è abbat-
tuta sull'esercito di Burcan subito prima della battaglia del Ponte di
Camrydd.»
«Davvero? E suppongo tu ricordi che io ho avuto qualcosa a che vedere
con quell'evento.»
Caradoc si limitò a sorridere.
«E quindi?» lo pungolò Nevyn.
«Sarebbe una cosa eccellente se nessuno potesse vedere noi daghe d'argen-
to mentre sgusciamo fuori dal quel passaggio per addentrarci nella fortezza, e
non c'è niente di meglio di una pioggia battente per tenere gli uomini al chiu-
so.»
«È vero, ma come pensano le daghe d'argento di riuscire a guardarsi intor-
no con una pioggia abbastanza fitta da nasconderle?»
Caradoc aprì la bocca come per dire qualcosa ma poi la richiuse senza aver
emesso parola.
«Vedo che hai capito» sorrise Nevyn. «Non ci avevi pensato, vero? E pri-
ma che sprechi fiato a chiedermelo, ti avviso che non posso rendere invisibili
gli uomini. Se solo potrò aiutarti con la magia lo farò» continuò poi, tornando
serio, «ma devo rifletterci sopra perché ogni idea che mi è venuta finora vi
sarebbe più d'ostacolo che di aiuto.»
«Capisco» annui Caradoc, sollevando una mano a massaggiarsi la nuca.
«Maledizione a tutto!»
Dall'altra parte delle tende qualcuno lanciò un grido di applauso, seguito
poi da altri e da alcune risate che echeggiarono sempre più vicine.
«Andiamo a vedere cosa stanno combinando i ragazzi» suggerì Caradoc.
I due si avviarono fra le tende lungo una specie di strada che era più che al-
tro una striscia di terreno sgombro e fangoso che si snodava per tutto il cam-
po, e ben presto videro venire verso di loro un gruppo di uomini che portava
sulla camicia lo stemma delle tre navi di Cerrmor; uno di essi teneva una
bandiera del Cinghiale legata a una lunga lancia e la agitava ridendo mentre
lungo tutto il suo percorso gli uomini si fermavano a guardarlo e a unirsi alle
sue risate.
«È un bel maialetto, vero? Pronto per essere arrostito e affettato!» esclamò
l'uomo con la bandiera.
Gli altri avanzarono una quantità di osceni suggerimenti su quello che il
Reggente avrebbe potuto fare con un cinghiale, se fosse stato abbastanza uo-
mo da catturarne uno, e nell'ascoltare Caradoc si limitò a scuotere il capo con
un sorriso.
«Che gongolino pure» disse a Nevyn. «Gli dèi sanno che se lo sono guada-
gnato.»

Lilli stava passeggiando con Anasyn quando la bandiera sottratta al Cin-


ghiale passò loro accanto, accompagnata ormai da una nutrita scorta di solda-
ti che ridevano e la schernivano in modo tale da dare l'impressione che aves-
sero in corpo una buona quantità di birra. Circondando con un braccio le
spalle della sorella, Anasyn la trasse di lato e fuori dal percorso di quella pa-
rata improvvisata, i cui membri non si accorsero di loro. Nel vedere quello
stemma che un tempo aveva riassunto l'onore, l'orgoglio e l'identità stessa del
suo clan, Lilli si sentì tremare al pensiero che ben presto l'informazione che
aveva portato al principe avrebbe fatto strappare quello stendardo da ogni
muro fino a quando il nome stesso del clan sarebbe stato adatto soltanto per
battute di scherno.
«Sei bianca come un fantasma» osservò Anasyn. «Vuoi tornare nella tua
tenda?»
«Non lo so. Mi sento così strana. Oh, dèi, in realtà sono una traditrice, ve-
ro?»
«E chi avresti tradito? Un branco di stolti assassini?» ribatté Anasyn, con
voce incrinata e ringhiante. «Un Reggente che è in realtà un usurpatore e che
uccide le donne sulla strada?»
Lilli si sentì di nuovo lacerare interiormente, come se mani invisibili le a-
vessero afferrato l'anima e stessero cercando di squarciarla, una sensazione
che d'un tratto divenne anche fisica, come se quelle mani le stessero compri-
mendo i polmoni.
«Torniamo indietro» decise Anasyn. «Avanti, appoggiati a me.»
Con il respiro affannoso e affaticato, Lilli non ebbe altra scelta che permet-
tergli di riportarla alla sua tenda, dove si lasciò cadere sulla sedia e permise
alle sue serve di circondarla di attenzioni mentre la sua mente continuava a
scandire sempre le stesse parole a ogni battito del cuore: traditrice, traditrice,
traditrice del tuo clan.

Nel corso della battaglia Burcan era stato colpito al volto da qualcosa... non
ricordava né gli importava di sapere se si era trattato di una spada vibrata di
piatto, di un guanto di maglia di ferro o di un palo... e il colpo gli aveva la-
sciato un livido rosso e porpora cosparso al centro di minuscoli tagli simili a
una sorta di ricamo. Dopo averlo costretto a sdraiarsi sul suo letto, Merodda
preparò per lui un impiastro di erbe sul fuoco acceso nella stanza accanto;
quando tornò nella camera da letto con l'impiastro, scoprì che Burcan si era
addormentato, ma il rumore che lei fece nel posare le pentole e i panni sulla
cassapanca sottostante la finestra fu sufficiente a svegliarlo.
«Quello cos'è?» le chiese. «Ha un odore orribile.»
«Non ne dubito, ma prosciugherà la ferita da ogni umore corrotto.»
«Non è una ferita, è solo un dannato livido» protestò Burcan, ma non obiet-
tò quando lei gli posò sulla guancia il panno caldo avvolto intorno alle erbe
umide e si sedette sul letto per tenerlo fermo.
«Oggi è stata una vera sconfitta, non è così?» chiese Merodda, osservando
le lunghe ombre proiettate dalle candele agitate da una corrente d'aria che fil-
trava da sotto la finestra.
Burcan esitò a rispondere, lo sguardo fisso sul soffitto.
«Naturalmente lo è stata, ma ne è derivato almeno qualcosa di buono» dis-
se poi. «Adesso rimangono ancora due cerchie di mura fra noi e loro, ed en-
trambe sono di dimensioni tali da permetterci di difenderle. Questa dannata
cosa mi sta gocciolando nel collo» aggiunse, agitandosi a disagio.
Merodda prese il panno con l'impiastro, lo strizzò e lo rimise al suo posto;
Burcan emise un grugnito quando il panno gli toccò il volto, ma le permise di
tenerlo sul livido.
«Domani, quando ci sarà abbastanza luce, farò spostare la gente del villag-
gio all'interno dell'ultimo muro» decise. «Dove si trova adesso è troppo espo-
sta: se quel demone dell'Usurpatore dovesse conquistare il quarto muro cattu-
rerebbe quella gente e anche una quantità di scorte di cibo. Lasceremo là il
bestiame e i maiali, ma il resto delle scorte e le persone dovranno essere spo-
state.»
«Credi che tenterà di prendere il quarto muro?»
«E perché non dovrebbe? Ne ha già presi tre, giusto? Adesso però noi sia-
mo in una buona posizione, e abbiamo gli uomini per tenerla, quindi lui non
conquisterà il quarto muro a meno che non lo aiuti qualche dio.»

Il Principe Maryn fece riposare il suo esercito per due giorni, che Nevyn
impiegò per escogitare il modo di aiutare le daghe d'argento. Quando giunse
la notte prestabilita, invocò quindi i Grandi Signori degli Elementi, che invia-
rono una tempesta sulla fortezza e sul campo in pari misura al fine di far ab-
bassare la guardia agli uomini del Reggente; verso mezzanotte si levò poi un
vento irregolare che cominciò a spingere via le nuvole, con l'effetto di oscu-
rare di tanto in tanto la luna. In questo modo le daghe d'argento avrebbero po-
tuto vedere bene a tratti e nascondersi nel buio quando ne avessero avuto bi-
sogno... o almeno questo era ciò che lui poteva sperare. Dal campo Nevyn
avrebbe seguito il contingente con una visione mentre esso attraversava la
fortezza in modo da permettere al principe di sapere quando fosse arrivato il
momento giusto per sferrare l'attacco contro il quarto muro.
Nel cuore della notte Nevyn si congedò da Caradoc e dai suoi uomini vici-
no alla cinta di mura più esterna, dove essi si erano riuniti con i cavalli per
raggiungere l'imboccatura del passaggio dopo aver cosparso gli abiti di fango
ed essersi sporcati di terra il volto e i capelli per essere meno visibili. Portare
con sé lo scudo era impossibile e come armatura avevano indosso una coraz-
za fra due camicie, senza maniche o cappuccio di cotta di maglia per evitare
di fare rumore. Il Tieryn Peddyc era in mezzo agli altri, sporco come il resto
di loro.
Tutti avevano passato intorno alla vita dei rotoli di corda e per il momento
erano avvolti nel mantello, anche se Caradoc precisò che avrebbero rimanda-
to indietro i mantelli insieme ai cavalli.
«Ci dovremo muovere in fretta, mio signore» spiegò a Nevyn. «e non pos-
siamo permettere che qualche pezzo di stoffa in più ci sia d'intralcio.»
«Infatti. Che gli dèi vi diano fortuna.»
«Grazie. Ne avremo bisogno.»
I due si strinsero la mano e Nevyn si concesse di chiedersi se avrebbe rivi-
sto il capitano senza però ricevere nessun presagio in merito. La risposta al-
l'interrogativo se la missione sarebbe riuscita o meno, se quegli uomini sa-
rebbero vissuti o sarebbero morti risiedeva nell'abilità con cui le daghe d'ar-
gento avrebbero svolto il loro compito e non in una questione di Wyrd. Ades-
so tutto dipendeva da loro.

Quando raggiunsero la fortezza in rovina, le daghe d'argento consegnarono


i cavalli ai servi che li avrebbero riportati al campo. Munito di lanterna, Ca-
radoc passò quindi in rassegna i suoi uomini per accertarsi che tutti avessero
legato il fodero alla gamba per evitare che urtasse contro una parete o un o-
stacolo, dando l'allarme al nemico, e qua e là sfregò ancora un po' di terra sul
vestiario di qualcuno per nascondere un'area di lino rimasto bianco. Non ap-
pena ebbe finito le daghe d'argento si radunarono davanti alla porta che dava
accesso alla cantina.
«D'accordo, ragazzi» disse Caradoc. «Per ora restate fermi dove siete.» Gli
uomini si girarono a guardarlo. «Vediamo chi lo prende per primo. Ecco!»
E lanciò in mezzo al gruppo qualcosa che Trevyr il rosso fu pronto ad af-
ferrare al volo.
«È un pezzo di stoffa legato intorno a un sasso» disse agli altri. «Ci divi-
diamo in squadre.»
«Infatti» annuì Caradoc. «Tu sei il numero uno e l'uomo accanto a te è il
due; il successivo è di nuovo uno e poi ancora due. Ciascuno di voi ricordi il
suo numero, ragazzi, uno o due.»
Con sua estrema irritazione, Branoic finì per avere il numero due, cosa che
gli seccava perché ogni volta che il comando della seconda squadra andava
sempre a Owaen e Branoic avrebbe preferito di gran lunga essere il più lon-
tano possibile da lui. Alla fine il Tieryn Peddyc estrasse il numero uno, ma
Caradoc gli segnalò di farsi avanti.
«Tu andrai con la seconda squadra, mio signore» disse. «Il motivo ti risul-
terà chiaro più tardi.»
«Sei tu ad avere il comando, non io» rispose Peddyc.
«Proprio così» annuì Caradoc, con un fugace sorriso, poi si girò verso i
suoi uomini e proseguì: «Ragazzi, ricordate che il rumore è nostro nemico e
fate molta attenzione a memorizzare il punto in cui sbocca la galleria. Se per
qualche motivo doveste rimanere isolati ed essere impossibilitati ad avanzare,
ritiratevi nel passaggio e tornate qui, ma badate di essere ben sicuri di non ri-
velare l'esistenza della galleria, perché non vogliamo che quel dannato, pic-
colo falso re ci possa sfuggire.»
Le daghe d'argento entrarono quindi nella galleria in fila per quattro, pre-
cedute dalla lanterna di Caradoc che oscillava luminosa, mostrando loro la
strada mentre procedevano verso il basso allontanandosi dalla fortezza in ro-
vina. Nel camminare Branoic si rese conto di non essere mai stato così con-
sapevole del più piccolo rumore... il suono degli stivali che colpivano il ter-
reno fangoso, il rumore del loro respiro, l'occasionale colpo di tosse o il fru-
sciare della stoffa che copriva la corazza... e più volte dovette ricordare a se
stesso che all'aria aperta dell'esterno quei suoni sarebbero risultati molto più
fievoli.
D'un tratto la galleria descrisse una svolta e nel protendere una mano Bra-
noic incontrò una di quelle colonne di pietra lavorata di cui aveva parlato Lil-
li, segno che si trovavano sotto le mura di Dun Deverry. Da quel momento il
passaggio cominciò a salire con tanta pendenza e per tanto tempo che Bra-
noic si ritrovò fradicio di sudore quando finalmente il terreno tornò in piano.
Di lì a poco un mormorio di avvertimento corse lungo la linea: erano arrivati
alla porta.
Da dove si trovava, Branoic vide alcuni uomini che si muovevano confu-
samente alla testa della colonna, senza però che nessuno parlasse, poi la luce
della lanterna s'intensificò all'improvviso quando il Tieryn Peddyc la levò in
alto per fare luce a Caradoc, che pareva stesse armeggiando con la porta. Il
momento successivo la lanterna si abbassò e si spense, accompagnata da una
ventata d'aria fresca che si diffuse nel passaggio: la porta si stava aprendo,
ma in assoluto silenzio e non con lo stridio di cui aveva parlato Lilli. Lenta-
mente, con cautela, la fila riprese ad avanzare, e dopo aver tratto una lunga
boccata d'aria fresca Branoic seguì i compagni attraverso la cantina e su per i
gradini umidi che portavano nel cortile deserto.
In alto una densa coltre di nubi gravava sul cielo, creando un'oscurità così
fitta che Branoic riuscì a stento a distinguere solo le sagome più grandi delle
pareti irregolari del cortile, della rocca in rovina alle loro spalle e, di altri edi-
fici più lontani; intorno a loro il terreno era reso viscido dall'umidità e ovun-
que si avvertiva l'odore della muffa. A un segnale di Caradoc il gruppo tornò
ad accalcarsi nella cantina, poi due o tre uomini per volta attraversarono di
corsa il cortile fino al muro sui lato opposto, dove si sparpagliarono nell'om-
bra con le spalle appoggiate alla fredda pietra e in fila per uno. Quando rag-
giunse a sua volta il muro, Branoic si guardò dietro attraverso il piccolo corti-
le, ma scorse soltanto una distante confusione di torri scure che si stagliavano
sullo sfondo di un banco di nubi. Poi la luna emerse di nuovo dalle nuvole e
trasformò quella confusine nel complesso della rocca del falso re, abbastanza
distante da non comportare un pericolo. Non appena la luce lunare si affievolì
Caradoc venne a raggiungerli di corsa e si portò al suo posto in testa alla co-
lonna, accanto al Tieryn Peddyc.
Naturalmente nel corso degli ultimi giorni Caradoc li aveva istruiti tutti a
fondo per quanto concerneva il piano di attacco: avrebbero trovato una via
d'uscita dal piccolo cortile in cui sbucava il passaggio e si sarebbero messi al-
la ricerca del punto adatto per scalare la quinta cerchia di mura. Con Peddyc
come guida mettere in atto la prima parte del piano risultò facile: le daghe
d'argento uscirono dalla stessa porta utilizzata da Lilli, ma mentre lei si era
diretta su per la collina in direzione del complesso della rocca esse percorsero
uno stretto passaggio fra due muri, svoltarono a destra e si vennero così a
trovare in un vicolo fra alcuni edifici deserti, al di là dei quali il quinto muro
si ergeva incombente, e a una distanza che la luce incerta rendeva impossibile
valutare.
Lentamente, muovendosi pochi per volta e solo per brevi distanze, le daghe
d'argento strisciarono lungo il vicolo, che sboccava in un tratto di terreno
scoperto e fangoso, troppo angusto per essere definito un cortile, al di là del
quale era visibile la curva di pietra del quinto muro. In quel momento la luna
emerse dalle nuvole e a un gesto di Caradoc gli uomini tornarono ad arretrare
fra le baracche, lasciandolo accoccolato all'imboccatura del vicolo; non ap-
pena la luce lunare si attenuò, lui spiccò la corsa attraverso il tratto di terreno
scoperto, svanendo nell'ombra alla base del muro.
Nascoste nel vicolo, le daghe d'argento rimasero in attesa per quella che a
Branoic parve un'eternità prima che Caradoc riapparisse e segnalasse loro a
gesti di raggiungerlo. Pochi per volta, approfittando dei momenti in cui la lu-
na era coperta, gli uomini attraversarono di corsa lo spiazzo e si sparpaglia-
rono lungo il muro, sfruttando l'attesa per sciogliere le corde che portavano
avvolte intorno alla vita. Non appena la luce tornò ad attenuarsi, Caradoc si
spostò lungo la fila.
«Niente guardie sul quinto muro» sussurrò. «Qualcuna sul quarto. Passe-
remo pochi per volta.»
Anche se la pietra irregolare offriva abbastanza appigli da rendere facile ar-
rampicarsi, i primi che salirono legarono l'estremità delle corde intorno ai
merli perché una manovra del genere, che sarebbe stata semplice alla luce del
giorno, diventava più complicata se si doveva tastare alla cieca in cerca di
punti d'appoggio evitando di fare rumore. Branoic era quasi arrivato in cima
quando puntellò un piede contro quella che sembrava essere una sporgenza
della pietra, ma che risultò essere soltanto un'ombra. Sentendo lo stivale che
scivolava sulla pietra umida, si afferrò alla corda e rimase appeso per un
momento, esposto come un bersaglio in una gara di tiro con l'arco; una volta
in cima si lasciò rotolare sull'ampia sommità del muro e si nascose dietro un
merlo per riprendere fiato, mentre lungo tutta la parete le altre daghe d'argen-
to facevano la stessa cosa.
In basso, fra loro e il quarto muro si allargava il villaggio deserto... case ro-
tonde, baracche, lunghi granai, recinti per il bestiame e, qua e là, un porcile a
forma di alveare. Gli animali costituivano un pericolo, perché i maiali erano
abbastanza intelligenti da saper riconoscere un intruso e da fare tanto chiasso
da dare l'allarme, ma per fortuna l'odore dei porcili arrivava abbastanza lon-
tano da permettere loro di evitarli. Se però contadini avevano lasciato dei ca-
ni a guardia delle loro case... quella era una cosa a cui Branoic si rifiutò di
pensare mentre sotto l'incerta luce della luna osservava il Tieryn Peddyc che.
accoccolato dietro un merlo, si sporgeva in fuori per osservare la disposizione
del villaggio, con Caradoc inginocchiato accanto a lui.
D'un tratto si udirono voci distanti che indussero Peddyc a ritrarsi al riparo
del merlo. Quei suoni, che provenivano dalle guardie appostate sul quarto
muro, si fecero sempre più vicini e si risolsero infine nelle voci di due uomi-
ni... segno che le sentinelle circolavano in coppie... e dopo un po' tornarono
ad affievolirsi per la distanza. Per molto tempo le daghe d'argento rimasero in
attesa con l'orecchio teso, valutando gli intervalli fra i diversi passaggi e con-
statando che non erano molto frequenti: a quanto pareva, la tempesta magica
evocata da Nevyn aveva avuto il suo effetto.
Un uomo alla volta, le daghe d'argento scesero quindi lungo il lato opposto
del muro; Branoic era a metà della discesa quando una nube si squarciò a e-
sporre la luna: nel sentire voci distanti s'immobilizzò, scese di qualche altro
metro e tornò a immobilizzarsi. Poi la luna scomparve di nuovo e lui rimase
appeso a circa tre metri da terra mentre le guardie gli passavano sotto conver-
sando tranquillamente; non appena lo ebbero superato, si lasciò subito scivo-
lare di qualche altra spanna e superò con un salto il resto della distanza, ve-
nendosi a trovare fra le case dai tetti di paglia.
«Nato con la camicia» gli sussurrò Caradoc, afferrandolo per un braccio.
Non appena furono tutti di sotto, si avviarono in fila per uno, tenendosi
bassi e arrestandosi di frequente per ascoltare, Branoic ora in testa alla colon-
na appena dietro Owaen e Caradoc: quanto a Peddyc, supponeva che fosse
davanti a tutti, per fare da guida, dato che al buio ed essendo tutti sporchi di
terra e di fango, riconoscerlo era impossibile.
Più avanti apparve poi una grande struttura rettangolare con il tetto semidi-
roccato che si stagliava sullo sfondo irregolare delle nubi, edificio che a giu-
dicare dall'odore di letame secco doveva essere una stalla in disuso; fra esso e
il quinto muro alle loro spalle si allargava uno spazio abbastanza grande da
permettere a tutti loro di radunarsi in relativa sicurezza, cosa di cui Caradoc
approfittò per fare una rapida conta dei suoi uomini.
«Ci siamo tutti» mormorò. «Riposatevi un momento perché il peggio sta
per arrivare.»

«Mio signore!» esclamò Nevyn. «Hanno oltrepassato il quinto muro.»


«Qualcuno li ha visti?» chiese Maryn.
«Finora no.»
«Bene. Vado ad avvertire gli uomini di tenersi pronti» decise Maryn, poi si
sfilò dalla cintura un corno d'argento e lo consegnò a Nevyn, aggiungendo:
«Prendilo, per ogni eventualità. Se dovessero arrivare alla porta prima che
noi si sia in posizione, esci e soffia qui dentro più forte che puoi.»
«Non ho mai usato un corno prima d'ora.»
«Otterrai un orribile stridio» sorrise Maryn, «ma del resto non mi aspetto
musica di qualità.»
E con un cenno di saluto uscì dalla tenda. Tornato vicino al tavolo, Nevyn
abbassò lo sguardo sulla ciotola piena d'acqua che stava utilizzando come lo-
calizzatore per la visione e dalle immagini opache che essa rimandava valutò
che le daghe d'argento dovevano essere ancora fra il muro e la vecchia stalla
fatiscente. Evidentemente Caradoc voleva essere certo che il principe avesse
il tempo di preparare gli uomini in attesa fra il secondo e il terzo muro.
Dal momento che anche la sua tenda era vicina al terzo muro, dall'interno
Nevyn poté sentire la voce di Maryn che impartiva gli ultimi ordini ai nobili
radunati all'esterno: la porta era già socchiusa di circa un metro e appena al di
là di essa, accoccolati alla base delle mura, c'erano i guerrieri dell'Ariete e un
contingente di esperte truppe d'assalto. Quando gli uomini di Caradoc avesse-
ro attaccato le porte, quelle bande di guerra si sarebbero lanciate su per la
collina, le porte del terzo muro sarebbero state spalancate e alla prima ondata
di attacco ne sarebbe seguita un'altra formata da uomini a cavallo.
Se tutto fosse filato liscio. Se. Massaggiandosi lo stomaco che bruciava per
la tensione, Nevyn tornò a concentrarsi sulla visione.

Ah, dannazione! pensò Branoic. La nostra fortuna si è esaurita. Un po'


strisciando e un po' correndo accoccolate, le daghe d'argento si erano portate
in una posizione non lontano dalle porte del quarto muro e insinuando lo
sguardo fra due capanne lui poteva vederle da dove si trovava, a circa trenta
metri di distanza... e ciò che stava vedendo non era un bello spettacolo: sopra
le porte c'erano circa venti uomini, le coppie di sentinelle di pattuglia anda-
vano e venivano con un ritmo regolare e la luce delle lanterne abbondava: nel
complesso le loro speranze di arrivare alle porte senza essere visti erano mi-
nori di quante ne avesse un fiore di sbocciare all'inferno.
Caradoc prese a spostarsi lungo la fila, sussurrando.
«Prima squadra con me, la seconda con Owaen» gli sentì mormorare Bra-
noic quando lui gli passò accanto.
Gli uomini a cui era toccato il numero uno si staccarono dalla fila e segui-
rono il capitano, che pareva essere avviato nella direzione da cui erano venu-
ti, mentre la seconda squadra attese che i compagni si fossero allontanati
prima di serrare con cautela e lentezza le file. Giratosi, Owaen prese a spo-
starsi lungo la fila ripetendo lo stesso ordine.
«Aspettate il segnale, poi attaccate le porte.»
Un'altra dannata attesa! Pieno di tensione, Branoic si chiese cosa diavolo
stesse combinando Caradoc e in quel momento sentì lo stomaco che gli si
contraeva in una gelida morsa: sia che dipendesse dalla sua propensione per i
presagi o dal fatto che conosceva bene il suo capitano, d'un tratto comprese
che Caradoc e la prima squadra avrebbero creato una diversione da qualche
parte per attirare su di sé le guardie e che era dannatamente improbabile che
chiunque fra loro riuscisse a tornare indietro vivo.
Poi Owaen confermò il suo sospetto quando nel voltarsi verso la fila sus-
surrò qualcosa come "alla pusterla, là dietro da qualche parte" in risposta alla
domanda mormorata da qualcun altro. Oppresso dall'angoscia, Branoic si
sorprese a desiderare di aver restituito a Trevyr le cinque monete di rame che
gli doveva, anche se presto lui non ne avrebbe più avuto bisogno.
Con il protrarsi dell'attesa gli uomini s'inginocchiarono nel fango e si co-
strinsero a restare immobili e con i muscoli rilassati mentre Owaen si azzar-
dava di tanto in tanto a lanciare un'occhiata oltre il muro, in direzione delle
porte. Sentendo che la gamba sinistra cominciava a intorpidirglisi, Branoic si
arrischiò a cambiare posizione, spostando il peso sulla destra, e controllò la
spada per l'ennesima volta.
Urla improvvise infransero poi la quiete della notte e grida d'allarme si le-
varono in risposta dagli uomini sopra le porte; subito Owaen si alzò in piedi,
imitato dal resto della squadra, e nel guardare verso le porte Branoic vide che
metà delle guardie stava correndo lungo la sommità delle mura, diretta verso
la pusterla. Owaen estrasse allora la spada con la destra e la daga d'argento
con la sinistra, imitato da tutta la squadra con un sibilare di acciaio che usciva
dal fodero, poi levò in alto la spada, attese per un momento e infine urlò:
«Adesso!»
Emergendo di corsa dal nascondiglio, le daghe d'argento si lanciarono ver-
so le porte. In un primo momento i pochi uomini del Reggente rimasti sul po-
sto s'immobilizzarono per la sorpresa poi si lanciarono giù per le scale delle
passerelle. In alto sulle mura qualcuno prese a suonare un corno d'argento e
nell'arrivare al muro Branoic sentì uno squillare di corni sul lato opposto, se-
gno che le forze del principe si stavano muovendo. Quattro daghe d'argento si
lanciarono verso l'argano e due di esse riuscirono a sopravvivere per impa-
dronirsene. Girandosi di scatto Branoic vide un uomo del Cinghiale che stava
puntando dritto verso di lui con la spada snudata e intercettò il colpo con la
daga, vibrando al tempo stesso un deciso fendente in tralice: raggiunto alla
parte bassa del corpo, l'uomo del Cinghiale si contorse da un lato e questo
permise a Branoic di mettere a segno anche il colpo di ritorno: l'assalitore si
accasciò all'indietro con la gola tagliata, facendo inciampare un compagno
che stava venendo in suo aiuto.
Obbedendo agli ordini che Owaen continuava a urlare, Branoic prese quin-
di a indietreggiare, limitandosi a parare gli attacchi, fino a raggiungere il
gruppo che stava combattendo intorno all'argano; dividendosi in coppie, le
daghe d'argento si misero a lottare schiena contro schiena, cercando dispera-
tamente di tenere indietro le guardie mentre i due uomini che si erano impa-
droniti dell'argano ne manovravano la manovella snocciolando imprecazioni.
Poi al di sopra del rumore della battaglia Branoic sentì un suono che poteva
essere quello delle porte che si aprivano scricchiolando, ma il momento suc-
cessivo dovette riportare la propria attenzione sugli avversari per tener testa a
due uomini del Cinghiale che lo stavano incalzando da vicino, schivando l'at-
tacco del primo mentre si sforzava di parare con la propria la spada dell'altro,
indistinta nella luce fioca. Nel sentire il compagno alle sue spalle che si acca-
sciava con un grugnito di dolore, ruotò quindi su se stesso e si spostò di lato
appena in tempo per evitare un affondo. In tal modo venne soltanto raggiunto
di striscio dalla lama che gli lacerò la camicia senza però trapassare la sotto-
stante corazza.
«Branno! A me!» gridò una voce familiare.
Schivando, Branoic tornò a ruotare su se stesso e si venne a trovare vicino
a Peddyc. Fianco a fianco, i due si addossarono con le spalle alle mura e con-
tinuarono a parare e a schivare con il respiro sempre più affannoso. D'un trat-
to tre uomini del Cinghiale sferrarono un attacco congiunto e nel farsi avanti
per fronteggiarli Peddyc incassò un brutto colpo, abbattendo poi il secondo
avversario nell'accasciarsi contro di lui. Branoic intanto uccise il terzo assali-
tore, ma sentì nascere dentro di sé la certezza di essere sul punto di morire:
adesso tutto quello che importava era tenere a bada quei bastardi il più a lun-
go possibile, il resto non contava più.
D'un tratto ci fu un echeggiare di corni accompagnato da un martellare di
zoccoli.
«Le daghe d'argento!» gridò una voce, a cui se ne unì subito una seconda.
«Soccorriamo le daghe d'argento.»
All'improvviso, sbucando all'apparenza dal nulla, gli uomini dell'Ariete si
riversarono oltre le porte aperte seguiti dagli scudi azzurri di Glasloc, spaz-
zando via i soldati del Cinghiale. Sorpreso dalla nitidezza con cui riusciva ora
a vedere intorno a sé, Branoic levò d'istinto gli occhi al cielo e scoprì che es-
so si stava tingendo del primo chiarore dell'alba.
Gettatosi in ginocchio, afferrò per le spalle Peddyc, che aprì gli occhi e
tornò subito a richiuderli, tanto da indurlo a chiedersi se fosse vivo o morto.
Intorno a loro gli uomini del principe si stavano riversando sempre più nume-
rosi oltre le porte, sparpagliandosi all'interno delle mura fra un crescendo di
urla e di squilli di corno, e in mezzo a quel caos Branoic decise che non pote-
va lasciare Peddyc dove si trovava con il rischio che finisse calpestato, anche
se dubitava di riuscire a trasportarlo da solo.
«Branoic!» gridò una voce, quando già lui stava insinuando un braccio in-
torno alle spalle del tieryn. «Aspetta, ti aiuto io!»
Disimpegnatosi dal combattimento, il giovane Anasyn andò a raggiungere
suo padre e insieme lui e Branoic riuscirono a sollevare lo svenuto Peddyc e a
trasportarlo lentamente oltre le porte. Frenetico, Branoic si stava chiedendo
dove potessero essere i chirurghi quando nel guardarsi intorno vide Nevyn
che stava correndo loro incontro.
«Mio signore!» esclamò Branoic, con voce soffocata. «Caradoc!»
«Lo so» rispose Nevyn, gridando per farsi sentire sopra il fragore generale.
«L'ho visto morire. Avanti, portiamolo... ah, per gli dèi! Mi dispiace, Sanno,
non c'è più nulla da fare.»

Dal momento che né Owaen né Caradoc erano presenti per vederlo disob-
bedire agli ordini, dopo che le daghe d'argento si furono allontanate Maddyn
andò nella sua tenda ad armarsi, ma quando la ebbe indosso, la cotta di ma-
glia risultò così spaventosamente pesante dopo tanti anni che non la portava
più da fargli comprendere che non sarebbe riuscito a combattere per quanto
potesse desiderarlo. Imprecando con il fervore e la fantasia propri delle daghe
d'argento, si sfilò quindi la cotta e la gettò per terra.
Decidendo che se non altro avrebbe preso parte alla battaglia in spirito, ri-
salì quindi la collina fino al terzo muro e salì sulla passerella per trascorrere
lassù il resto della notte, dove riteneva che non sarebbe stato d'intralcio ai ve-
ri guerrieri; ogni volta che la coltre di nubi si sollevava abbastanza da per-
mettergli di vedere la luna, Maddyn constatò che essa era sempre più bassa
verso occidente e infine, quando ormai essa accennava a tramontare, sentì ur-
la lontane che apprese in seguito essere state prodotte dal falso attacco sferra-
to contro la pusterla da Caradoc e dai suoi uomini. Imprecando, Maddyn s'in-
camminò lungo le mura per dirigersi verso il suono, ma un momento più tardi
si girò e tornò indietro di corsa quando echeggiò il fragore dell'attacco effet-
tivo contro le porte principali.
Dal momento che la quarta cerchia di mura era più a monte rispetto alla
terza, lui non poteva spingere lo sguardo al di là di essa, ma non faticò a ve-
dere gli uomini dell'Ariete raccolti sotto di lui balzare in piedi e lanciarsi in
avanti. Nella fortezza del falso re il fragore andò crescendo di volume, ac-
compagnato da uno squillare di corni, e gli uomini dell'Ariete spiccarono la
corsa verso il quarto muro seguiti da quelli di Glasloc.
Il cielo si stava ormai tingendo di grigio quando le porte si aprirono scric-
chiolando e la cavalleria le oltrepassò a passo di carica, una vista che indusse
Maddyn ad arrampicarsi sul parapetto e a sporgersi fra due merli per osserva-
re meglio. Quando poi notò Nevyn che stava correndo verso le porte,
Maddyn si lasciò scivolare sulla passerella e scese dalle mura, raggiungendo
il vecchio alla base del lato interno del terzo muro.
«Maddo!» gli gridò Nevyn. «Prendi dei cavalli! Ci sono un paio dei vostri
uomini nella fortezza in rovina. Devono essere tornati indietro attraverso il
passaggio.»
Maddyn girò sui tacchi e si precipitò verso il campo delle daghe d'argento,
dove ordinò a un paio di servi di seguirlo e di aiutarlo a sellare i cavalli; por-
tando con loro le cavalcature di scorta, i tre si avviarono poi verso la fortezza,
alternando il galoppo al trotto dove il terreno lo permetteva e facendo a tratti
rallentare i cavalli al passo perché riprendessero fiato; per quanto cercassero
di fare in fretta, però, il sole aveva già superato l'orizzonte orientale quando
finalmente raggiunsero la fortezza in rovina.
Là trovarono Trevyr il rosso seduto sulle macerie di un muro, con il volto e
la camicia coperti di sangue incrostato; ai suoi piedi giaceva Albyn, accascia-
to come un sacco di farina, e nel momento stesso in cui posò gli occhi su di
lui Maddyn si rese conto che era morto. Smontato di sella gettò le redini del
suo cavallo a uno dei servi e si affrettò a raggiungere Trevyr, che sollevò lo
sguardo e lo fissò con incredulità, quasi credesse di avere una visione dovuta
al delirio.
«Sono io» lo rassicurò Maddyn. «Nevyn vi ha individuati con una visio-
ne.»
«Che gli dèi lo benedicano! Il capitano è morto. Abbiamo cercato di soc-
correrlo, ma è caduto in mezzo a una massa di nemici.»
Per un momento Maddyn non riuscì né a muoversi né a parlare, sentendo
come in sogno i corvi che in alto nel cielo volavano in cerchio con rauche
strida. Vedendo Trevyr sollevare una mano nera di sangue come per tenere a
bada quei predatori di carogne, Maddyn notò che le dita sembravano essere
state spezzate tutte da un unico colpo e si chiese come l'amico riuscisse a
muovere un arto ridotto in quel modo.
«Sono arrivati alle porte?» chiese poi Trevyr.
«Ce l'hanno fatta. Owaen è vivo, e anche Branoic. Sei in grado di cavalca-
re?»
Trevyr rifletté su quella domanda per un lungo momento, poi cercò di sor-
ridere e quel gesto fece riaprire la ferita che gli segnava il volto, da cui scaturì
un rivoletto di sangue.
«Non ho molta scelta, vero?» replicò, e abbassando lo sguardo aggiunse:
«Allo è morto qui; se non altro è riuscito a tornare indietro.»

«Lilli!» chiamò in tono angosciato la voce di Anasyn. «Lilli, vieni qui, pre-
sto!»
Uscita a precipizio dalla tenda, Lilli trovò Anasyn ad attenderla con ancora
indosso la corazza e il suo stesso atteggiamento, con le mani serrate a pugno
e la bocca contratta in una smorfia di dolore, le rivelò cosa fosse successo.
«Nostro padre?» sussurrò.
«È morto. Branoic e io siamo riusciti a disimpegnarlo dal combattimento,
ma era troppo tardi.»
Gettando indietro il capo, Lilli emise un lungo lamento che parve scaturirle
direttamente dal cuore; circondandola con le braccia, Anasyn la strinse a sé
ed entrambi si tennero aggrappati uno all'altra come bambini mentre lui co-
minciava a piangere.
«Adesso è con Bevva nelle terre dell'Aldilà» disse Lilli. «Ora staranno in-
sieme.»
Con quelle parole giunsero anche le lacrime e lei scoppiò in un pianto iste-
rico e irrefrenabile che indusse le sue serve a uscire dalla tenda e ad avvici-
narlesi, incerte sul da farsi, mentre Anasyn le accarezzava i capelli mormo-
rando parole di conforto. Quando alla fine recuperò la calma e sollevò lo
sguardo, Lilli vide che Anasyn aveva smesso di piangere e che il suo viso era
così teso e inespressivo da sembrare disegnato sulla pergamena, come uno
dei diagrammi del libro di Brour. Intorno a loro si era intanto raccolto un cer-
chio di uomini che stavano osservando in silenzio la scena, fra gli altri anche
Nevyn.
«Mi dispiace, Lilli» disse il vecchio, avvicinandosi. «Tieryn Anasyn, il
principe ha bisogno di te.»
«Andrò subito da lui» rispose Anasyn. «Per favore... vuoi tenere d'occhio
tu mia sorella?»
«Lo farò, ragazzo, non ti preoccupare.»
Lilli intanto posò una mano sul braccio di Nevyn, guardandosi intorno con
aria stordita: il Tieryn Anasyn? Ma certo, adesso Anasyn era l'Ariete ed era la
sua banda di guerra quella che la stava osservando con espressione tanto tri-
ste, quasi che il suo lutto stesse esprimendo quello di tutti loro. Infine il capi-
tano di Peddyc si fece avanti.
«Lo vendicheremo, ragazza, puoi esserne certa» promise.
Lilli cercò di ringraziarlo, ma dalle labbra le scaturì invece un lungo la-
mento che indusse Nevyn ad afferrarla per un braccio e a trascinarla senza
tante cerimonie nella tenda, dove avrebbe potuto dare sfogo al dolore attor-
niata dalle sue donne.

Entro mezzogiorno la situazione si era ormai chiarita: gli uomini del prin-
cipe erano padroni dell'intera collina, con la sola eccezione della cresta e del-
la fortezza vera e propria di Dun Deverry, mentre le forze del Reggente con-
trollavano il complesso della rocca e del circostante cortile interno, difeso
dall'ultima, forte cerchia di mura di pietra, con il risultato che il villaggio de-
serto era adesso una terra di nessuno che divideva il muro tenuto dagli uomi-
ni del principe da quello difeso dalle forze del Reggente. Il cortile laterale in
cui si trovava lo sbocco del passaggio era però sotto il controllo di Maryn,
come pure tutto il bestiame e i maiali presenti nella fortezza.
«Adesso possiamo mandare altri uomini lungo il passaggio» osservò
Maryn. «Avendo a che fare solo con quel basso muro sarà molto più facile at-
taccare le posizioni del re.»
Nevyn stava per ribattere ma la conversazione venne interrotta da alcune
grida provenienti dal quarto muro, anzi, vere e propria urla di furia incontrol-
lata. Quando il principe si avviò di corsa in direzione di quel suono a Nevyn
non rimase che imitarlo, trattenendosi a stento dal gridare "Vostra Altezza
stia attento!", come se il principe fosse stato ancora un bambino, nel vedere
Maryn salire a precipizio una scala che portava in cima alle mura. Nevyn si
venne quindi a trovare in mezzo a un gruppo di furenti daghe d'argento.
«Che Vostra Altezza guardi là!» ringhiò Branoic.
Dall'altra parte della terra di nessuno, sulla sommità dell'ultimo muro in
possesso delle forze del Reggente, la testa di un uomo era stata issata su una
picca ed esposta fra due merli, e proprio in quel momento un paio di uomini
del Reggente stavano gettando oltre le mura il corpo decapitato, che cadde
nella polvere in un mucchio inerte.
«È Caradoc» aggiunse Owaen, che stava quasi soffocando per l'ira. «Quei
dannati porci orgogliosi!»
«Hai una buona vista, ragazzo» replicò Nevyn, riparandosi gli occhi con la
mano. «Sì, credo che sia lui, anche se da questa distanza non ne sono del tutto
sicuro.»
«È lui» confermò Branoic. «Io dico di andarlo a prendere.»
Le daghe d'argento accolsero la sua proposta con un grido di approvazione,
ma il principe afferrò Branoic per un braccio e gli assestò uno scrollone deci-
so.
«Non farete nulla del genere» ringhiò. «Nessuno di voi! È un mio ordine,
avete capito?»
Le daghe d'argento lo fissarono per un lungo momento, poi annuirono con
un mormorio d'assenso, Branoic ultimo fra tutti.
«Ho capito, Vostra Altezza» rispose, con voce che pareva incrinata dal
pianto represso. «Posso almeno chiedere umilmente il perché?»
«Certamente» replicò Maryn, addolcendo il tono della voce. «Perché quan-
do vi avvicinerete a quel muro vi uccideranno con i giavellotti, se ne hanno
ancora, o con delle pietre se non hanno altre armi. È una trappola.»
«Oh!» esclamò Branoic, sollevando la testa di scatto. «Non ci avevo pensa-
to...»
«Nessuno di noi sta pensando con molta chiarezza» ribatté Maryn, fissando
lo scempio esposto sul quinto muro. «Detesto lasciarlo là, ma so che lui non
vorrebbe che i suoi uomini si facessero uccidere invano. Dico bene?»
«Non lo vorrebbe» annuì Branoic. «Chiedo scusa a Vostra Altezza.»
Anche Nevyn stava sentendo l'ira dilagargli nelle vene, ma nel suo caso
non era una sensazione rovente, bensì un flusso gelido che gli lasciava la
mente del tutto limpida. Sapeva bene che all'anima di Caradoc non importava
più quello che stava succedendo al suo corpo, ma permettere che i resti del
suo amico venissero esposti in quel modo all'ignominia finché non fossero
marciti era intollerabile. Lui poteva avere anche duecento anni ed essere un
maestro del dweomer, ma era pur sempre in fondo al cuore un uomo di De-
verry. Voltatosi di scatto, si allontanò lungo la passerella fino a portarsi a di-
stanza di sicurezza dalla folla che circondava il principe, poi assunse un'e-
spressione concentrata.
Sul muro opposto gli uomini del Reggente stavano ridendo e gridando pro-
vocazioni beffarde che la distanza rendeva incomprensibili, ma il cui tono era
comunque inequivocabile, e nell'udirle Nevyn sentì la sua ira farsi fuoco, pu-
ro e incandescente. Nell'intimità della propria mente invocò allora i Signori
del Fuoco, che vennero a lui come amici, per condividere la sua rabbia: scin-
tillanti colonne di luce si formarono intorno alla sua persona e in ciascuna di
esse fluttuò una figura vagamente umana nella forma ma fatta di fuoco, per-
vasa del rosso incandescente dei carboni accesi e dell'oro della fiamma.
«Il mio amico è morto» disse loro Nevyn, esprimendosi mentalmente.
«Vorrei che avesse una pira degna degli eroi dell'Alba dei Tempi, ma non
posso arrivare fino a lui con legna e olio.»
Quando avvertì nella mente la loro risposta, la loro furia all'idea che meri
mortali potessero negare a un loro pari qualcosa che questi desiderava, alzò
lentamente le braccia sopra la testa e per un lungo momento indugiò a fissare
il corpo di Caradoc e la povera testa recisa confitta sulla picca. Poi abbassò le
braccia fino a puntare le mani verso i resti del capitano e pronunciò una sin-
gola parola sacra.
Dal cielo scese una luce argentea, una strana fiamma metallica sfumata di
azzurro che si riversò sul corpo di Caradoc con un ruggito e un'ondata di fuo-
co e si levò poi verso l'alto, protendendo lunghe dita argentee verso la testa
recisa posta sulle mura. All'improvviso anche la testa prese fuoco, mutandosi
in una torcia più luminosa della luce solare, e gli uomini che un momento
prima gridavano provocazioni si diedero alla fuga fra urla di terrore, sparpa-
gliandosi lungo la passerella e scomparendo alla vista giù per la scala per cor-
rere senza dubbio a cercare rifugio nella fortezza. Sul loro muro, le daghe
d'argento rimasero a contemplare in assoluto silenzio quel rogo magico che si
protrasse solo per pochi minuti. Quando le fiamme rimpicciolirono fino a
spegnersi, tutto ciò che rimaneva di Caradoc risultò essere qualche manciata
di pura cenere bianca che si disperse subito sulle ali del vento.

Maddyn aveva appena lasciato Trevyr nelle mani dei chirurghi quando al-
cuni uomini dell'Ariete gli riferirono la notizia. Naturalmente lui si diresse
subito verso il quarto muro, ma al suo arrivo il principe stava già precedendo
le daghe d'argento giù per il pendio, seguito da Nevyn che appariva cupo ma
soddisfatto di sé; quando Maddyn si affiancò al vecchio, Owaen rallentò il
passo per parlare con loro.
«Adesso è finita, bardo, ma ti sei perso uno spettacolo notevole» disse a
Maddyn. «Gli uomini del Reggente strillavano come ragazze spaventate, e
vederli correre in quel modo era un piacere.»
Il principe precedette il gruppo nel suo padiglione, dove erano in attesa il
suo scriba, Oggyn, e un paio di servitori, e quando le daghe d'argento accen-
narono ad allontanarsi le richiamò a sé.
«C'è una cosa che voglio dire a tutti voi» affermò. «Nell'interesse delle da-
ghe d'argento vi faccio un giuramento: ciascuno di voi che siete ancora vivi
potrà avere da me un dono... delle terre, un titolo nobiliare, cavalli, il poco
oro di cui disponiamo... qualsiasi cosa! Chiedete e io ve lo concederò.»
«Mio signore, sei troppo generoso» replicò Maddyn, sentendo le lacrime
che gli salivano agli occhi, «però ti ringrazio dal profondo del cuore.»
Nevyn, che aveva preso il suo solito posto alle spalle del principe, assunse
però un'espressione accigliata e nel notarlo Maddyn ne comprese il perché:
con la sua offerta Maryn si era esposto alla loro eventuale avidità, quindi sa-
rebbe stato compito dei nuovi capi del contingente, lui stesso e Owaen, accer-
tarsi che i loro uomini avanzassero richieste ragionevoli.
«Vorrei soltanto che Caradoc fosse ancora vivo» continuò Maryn. «Gli of-
frirei senza indugi il rhan di Cerrmor.»
«Mio signore» mormorò Maddyn, «c'è una cosa che Caradoc desiderava
più di ogni altra e di cui mi ha parlato centinaia di volte. Lui voleva che noi...
che le daghe d'argento gli sopravvivessero. Presto le guerre finiranno e forse
nessuno avrà più bisogno di un contingente mercenario come il nostro, ma so
che nelle terre dell'Aldilà gli si rallegrerebbe il cuore se sapesse che le daghe
d'argento continueranno a cavalcare per Deverry.»
«Allora il suo desiderio sarà realizzato!» esclamò Maryn, e rivolto allo
scriba aggiunse: «Scrivi questo: finché la mia discendenza governerà il regno
e finché esse vorranno cavalcare, ci siano sempre daghe d'argento. Che que-
sto sia conosciuto per sempre come il Dono di Caradoc.»
Il cipiglio di Nevyn si accentuò ulteriormente, poi il vecchio si accorse che
Maddyn lo stava osservando e si affrettò ad atteggiare il proprio volto al sor-
riso piatto e inespressivo proprio di un cortigiano.
Più tardi Nevyn spiegò il perché della propria contrarietà, mentre lui e
Maddyn passeggiavano insieme sul quarto muro nel fresco della notte, con le
rovine di Dun Deverry che si allargavano sopra e sotto di loro, un insieme di
mura diroccate che emergevano dal buio, stagliandosi più scure sullo sfondo
della notte.
«Dimmi, Nevyn, cos'hai contro di noi?» domandò Maddyn. «Quando il re
ha fatto quel voto allo spirito di Caradoc hai assunto un'espressione tanto aci-
da da far pensare che avessi addentato un limone del Bardek.»
«Non ho nulla contro di voi, ma mi preoccupano gli uomini che verranno
dopo di voi. Senza dubbio le daghe d'argento si sono conquistate un posto
nella leggenda e già adesso i bardi parlano di voi come di creatori di re, ma
cosa succederà se qualche altro uomo deciderà di voler diventare re in un
momento imprecisato della lunga strada del Tempo, e corromperà quello che
sarà allora il vostro capo?»
«Oh, dèi, non ci avevo pensato! Ti chiedo scusa, dal profondo del cuore!
Se mi fosse venuta in mente una cosa del genere non avrei mai avanzato una
simile richiesta.»
«Non ne dubito. Tutti voi dovrete riflettere bene prima di chiedere quei do-
ni, perché conosco abbastanza il re da sapere che li onorerà al di sopra di
qualsiasi altro deciderà di concedere. Hai capito bene?»
«Molto bene. Comincerò io stesso a riflettere per trovare il modo di accer-
tarmi che lo facciano anche gli altri.»
«Ottimo. La riflessione è una cosa che consiglio sempre.»

Per tutto il pomeriggio Burcan si aggirò per Dun Deverry con il petto fa-
sciato sotto la camicia, respingendo con voce ringhiante le continue suppliche
da parte di Merodda di sdraiarsi per riposare, e a lei non rimase che seguirlo,
pronta a curargli le ferite ogni volta che lui glielo permetteva. Burcan era sta-
to raggiunto al fianco da un fendente che aveva rotto numerose costole e la-
cerato la pelle, poi era stato trafitto alla base della schiena, forse lungo una
giuntura della cotta di maglia, ed entrambe le ferite sanguinavano a tratti.
Nell'osservarlo, Merodda stava cominciando a temere che la ferita alla schie-
na fosse più profonda e grave di quanto lui volesse ammettere, perché nei
momenti in cui nessuno tranne lei poteva vederlo Burcan si appoggiava a un
muro o a uno stipite per lunghi momenti, mordendosi le labbra per soffocare
il dolore.
Dovunque andasse gli uomini gli si radunavano intorno. A volte lui rideva
per tirarli su di morale, in altri momenti si faceva solenne e parlava di quanto
facesse affidamento su di loro. Nel seguirlo tenendosi in disparte Merodda
non faticò a notare il cambiamento portato dalla sua presenza: uomini avviliti
e pallidi che se ne stavano accasciati a terra o a ridosso delle pareti si muta-
vano nell'ascoltarlo in guerrieri pieni di vita che balzavano in piedi pronti ad
applaudirlo.
«Per amore del re e nel suo nome io vi imploro!» continuava a ripetere
Burcan. «Per il re e per Deverry!»
Nell'ascoltarlo Merodda pensò però che anche i suoi uomini stavano pen-
sando, e cioè che in quei momenti Burcan stesso era il re e che sarebbe stato
per lui che l'indomani quei guerrieri avrebbero combattuto.
La cena nella grande sala fu per Burcan una vera agonia. Dal momento che
non poteva sedersi se non a prezzo di un'intensa sofferenza, continuò a pas-
seggiare fra i tavoli con un boccale di sidro in mano, ridendo con i suoi alleati
e incitando i nobili a tenere duro, ma con il passare del tempo Merodda lo vi-
de farsi prima pallido, poi cadaverico e quindi grigiastro in volto. Infine, con
un'ultima battuta Burcan si volse per lasciare a grandi passi la sala e quando
si affrettò a seguirlo Merodda lo trovò appena oltre la soglia, barcollante e
puntellato con una mano contro un muro. Fuori il tramonto stava tracciando
nel cielo le ultime scie di colore, ma le ombre della sera si stendevano già
fredde nel cortile.
Nel sentirla arrivare Burcan si girò verso di lei, cercò di parlare e si acca-
sciò al suolo. Inginocchiatasi accanto a lui, Merodda vide che il sangue di un
rosso acceso stava filtrando attraverso le bende e la camicia. Con tenerezza,
gli sollevò la testa nel cavo del braccio sinistro e gli accarezzò il volto con
l'altra mano mentre lui la fissava socchiudendo gli occhi, come se fosse stato
a stento in grado di vederla.
«Rhodi?» sussurrò. «Mi ami davvero?»
«Sì. Ti ho sempre amato.»
Burcan sorrise, parve sul punto di parlare ancora, poi il suo sguardo si fece
fisso. Nel comprendere che era morto, lei si chinò a baciarlo e poi tornò a
raddrizzarsi in posizione seduta, con gli occhi chiusi. Il sangue di Burcan le
aveva inzuppato il davanti del vestito, e nel notarlo si chiese se gli aveva det-
to la verità, se lo aveva mai amato. Alla fine però si disse che non aveva im-
portanza... Burcan aveva fatto così tanto per lei che aveva avuto diritto a
quella menzogna, sempre che fosse stata tale.
«Mia signora!» chiamò Lord Belryc, fermandosi accanto a lei. «Oh, mia
signora!»
«È morto» affermò Merodda, alzandosi in piedi e guardandosi intorno.
Tutto le sembrava stranamente rimpicciolito e distante, perfino quel nobile
che le stava tendendo una mano come se avesse voluto sostenerla, mentre tut-
t'intorno gli uomini accorrevano gridando ad accalcarsi intorno al corpo.
«Dovremmo seppellirlo da qualche parte nella fortezza» mormorò quindi.
«Lui l'amava così tanto.»
Poi il mondo le vortice bruscamente intorno e quando si svegliò si trovò di-
stesa nel suo letto con la regina e le sue donne raccolte tutto intorno. A-
brwnna le teneva la mano piangendo, e nel guardarla Merodda pensò che a-
vrebbero dovuto piangere tutti perché l'indomani avrebbe segnato la fine di
ogni speranza.
«Oh, domani sarà una giornata terribile, mia signora» commentò Clodda.
«Ho sentito parlare gli uomini e dicevano che ci sarà una battaglia molto du-
ra.»
«Non ne dubito, ma io non ci voglio pensare» rispose Lilli. «Vorrei che
fossimo di nuovo a Cerrmor.»
«È una cosa a cui ho pensato anch'io più di una volta.»
Le due donne erano sedute appena fuori della tenda di Lilli con una lanter-
na posata per terra in mezzo a loro, la cui luce incerta si muoveva tremolante
sul loro volto e proiettava strani disegni sulla tela della vicina tenda di
Nevyn, vuota perché il vecchio era andato a presenziare a un consiglio di
guerra insieme al principe e a quelli fra i nobili che erano sopravvissuti ai
combattimenti di quel giorno.
«Mi sento un'assassina» osservò d'un tratto Lilli. «Se non avessi parlato il
principe avrebbe dovuto assediare la fortezza e questo orribile massacro non
ci sarebbe stato.»
«Cosa dici, mia signora?» esclamò Clodda. sinceramente confusa. «Ma gli
dèi vogliono che il Principe Maryn diventi re, quindi tu dovevi dirglielo.»
«Se però avessi taciuto...»
«Quella di attaccare è stata una decisione del principe e non tua, mia signo-
ra.»
A parlare era stato Branoic, che si era fermato appena fuori del cerchio di
luce della candela dopo essersi avvicinato così silenziosamente che Lilli non
lo aveva sentito. Sorpresa, lei balzò in piedi con uno strillo.
«Oh, dèi!» balbettò. «Mi hai spaventata.»
«Allora ti chiedo scusa» replicò Branoic, venendo avanti degli ultimi passi
fino a fermarsi di fonte a lei; i calzoni erano ancora sporchi di fango, ma lui
aveva avuto cura di lavarsi e di cambiare la camicia. «Però non voglio che
rimproveri te stessa per quelle che sono le sorti della guerra.»
«Tu non mi biasimi per quello che è successo a Caradoc?»
«Per nulla, anche se mi duole il cuore per la sua perdita. Come si può co-
noscere il Wyrd di qualcun altro? È stato Maryn a decidere di attaccare inve-
ce di porre l'assedio e Caradoc stesso lo ha convinto a permettere che fossero
le daghe d'argento ad aprire le porte. E poi, chi può sapere cosa sarebbe suc-
cesso se fossimo rimasti accampati qui per tutto l'inverno? Molti eserciti sono
stati decimati dalle febbri, quando è cominciato a nevicare e il cibo si è fatto
scarso.»
«Suppongo che sia vero. ma...»
«No, no, no, niente supposizioni! La tua serva ha ragione e ciò che il suo
Wyrd porterà a un uomo dipende soltanto dagli dèi.»
«Le tue parole mi danno sollievo. Non sai quanto mi spaventasse l'idea che
tutti potessero odiarmi.»
«Cosa?» esclamo Branoic, ridendo. «Mia signora, dubito che tu potresti
mai fare qualcosa di così perfido da indurmi a odiarti.»
Nel parlare prese a fissarla in modo tanto intenso e sincero che Lilli si sentì
assalire dall'imbarazzo e Clodda si alzò in piedi con una piccola riverenza e
un colpetto di tosse.
«Mia signora, è meglio che rientri invece di stare qui seduta a origliare»
disse.
«Puoi rimanere, perché non intendo dire nulla di disonorevole» ribatté
Branoic, poi tornò a rivolgersi a Lilli e proseguì: «Il principe ha promesso di
offrire un premio a ognuna di noi daghe d'argento, quando la guerra sarà fini-
ta. Se gli dèi mi permetteranno di sopravvivere, ho intenzione di chiedergli
abbastanza terra da poter mantenere una moglie, quindi volevo chiederti se
vorresti essere tanto cortese da tenermi presente come tuo possibile preten-
dente. Per il momento nessuno di noi due occupa un gran posto nel mondo,
ma mi riempirebbe di gioia il cuore guadagnarne uno per entrambi.»
«Ma io quasi non ti conosco!»
«E io non ho ancora la terra» replicò Branoic, ammiccando. «Limitati a
pensarci su.» Poi s'inchinò, girò sui tacchi e si allontanò a passo rapido prima
che Lilli potesse aggiungere una sola parola.
«Oh, com'è eccitante!» esclamò Clodda. «Non trovi che sia molto avvenen-
te?»
«Lo pensi davvero? È un po' troppo massiccio per i miei gusti.»
«Suvvia, mia signora! Parli in questo modo soltanto per fare la preziosa,
vero? Voglio dire, si suppone che le dame si facciano desiderare dai loro pre-
tendenti, non è così?»
«Non sto facendo la preziosa! Dico sui serio!» protestò Lilli.
Quando Clodda cominciò a ridacchiare lei però si trovò a imitarla, nascon-
dendosi la bocca dietro una mano mentre pensava che di certo non voleva
sposare Branoic, sia che avesse delle terre o meno. D'altro canto, però, le era
di conforto il pensiero che qualcuno la volesse in moglie anche se era un'esu-
le e non portava in dote neppure un cavallo.
Più tardi quella notte, quando già si stava addormentando, si rese conto che
nella battaglia dell'indomani si sarebbe preoccupata per Branoic, che ancora
una volta sarebbe stata costretta ad attendere, impotente, senza poter fare al-
tro che pregare per un uomo che le importava sopravvivesse al combattimen-
to. Quando infine si addormentò, sognò di Peddyc e di Bevyan, e si svegliò
con il volto bagnato di pianto.

L'attacco all'ultimo muro ebbe inizio poco dopo l'alba. Circondato dalle
daghe d'argento superstiti, il Principe Maryn salì sul quarto muro mentre sca-
le d'assalto e arieti prendevano posizione alle quattro porte e gli uomini di
quelle squadre si tenevano pronti ad aprirle a un segnale del principe; sul
quinto muro, l'ultimo che separasse il Grifone Rosso da Dun Deverry, gli
uomini del falso re erano in attesa in un silenzio assoluto.
Un senso di repulsione tanto intenso da dargli la nausea indusse Nevyn a
volgere le spalle alla scena molto prima che il combattimento avesse inizio e
a lasciare il principe e i bastioni, scendendo dalla passerella e allontanandosi
verso valle fino a raggiungere il muro più esterno e il rifugio offerto dal cam-
po, dove lavorò al fianco dei chirurghi per tutta la giornata.
Ben presto gli uomini feriti abbastanza lievemente da essere in grado di
camminare o di strisciare crearono una quantità di lavoro tale da impedirgli di
pensare a quanti versavano in condizioni molto peggiori e che erano rimasti
dove erano caduti: quando finalmente qualcuno avesse avuto il tempo e la
possibilità di allontanarli dal campo di battaglia, per i più non ci sarebbe stato
nulla da fare e del resto i chirurghi non avrebbero comunque potuto fare mol-
to per loro...
Come sempre, Nevyn era quanto mai consapevole dei limiti letali del suo
sapere: anche se studiava fisica e chirurgia da quasi due secoli, sapeva con
assoluta quanto amara certezza di non possedere le chiavi necessarie a svela-
re i misteri delle ferite. Perché alcune di esse s'infettavano e altre no? La teo-
ria degli umori contenuta nei libri dell'erudito greco Gaelyn non gli aveva
mai dato una risposta a questo interrogativo e a centinaia di altri che lo tor-
mentavano mentre lavorava, con le braccia rosse di sangue fino ai gomiti. Un
altro mistero era perché alcune ferite lasciassero uscire lentamente sangue
rosso cupo mentre altre fiottassero sangue di un rosso acceso; quello che lui
sapeva al riguardo era soltanto che chi aveva un'emorragia lenta poteva esse-
re salvato ma che pochi di coloro che perdevano sangue in fretta arrivavano
vivi fino a lui.
Sulla collina intanto la battaglia infuriava in un fragore delirante di urla e
di grida, di armi che cozzavano fra loro o sulle armature, una serie di suoni
che il vento e la distanza fondevano in un unico rumore privo di significato.
Le informazioni vere e proprie venivano invece fornite dai feriti, secondo i
quali gli uomini del Reggente stavano combattendo con tutte le loro forze per
proteggere l'ultimo muro e l'ultimo cortile, il cuore segreto di Dun Deverry.
«Abbiamo issato le scale e loro hanno cercato di spingerle via» riferì un
ragazzo. «Noi però abbiamo continuato a strappare loro di mano quei dannati
pali e alla fine devono essere rimasti senza, perché hanno smesso di ostaco-
larci.»
«Bene» replicò Nevyn. «Ora sta' fermo. Questo brucerà un poco.»
Nel parlare versò un po' di sidro annacquato sul taglio che solcava il volto
del ragazzo, che lanciò un urlo e svenne.
Questo permise a Nevyn di ricucire con maggiore facilità la lacerazione,
ma al tempo stesso lo costrinse ad aspettare un altro ferito in condizione di
parlare per avere altri dettagli relativi al combattimento. Gli uomini di Maryn
erano sulle scale, quelli del Cinghiale sulla passerella. Adesso la battaglia era
in precario equilibrio e il suo esito dipendeva da chi avrebbe avuto la forza di
combattere più a lungo o dal fatto che Maryn riuscisse a riversare sulle mura
una tale ondata di soldati da spazzare via i nemici dagli spalti. Verso la metà
del pomeriggio una prima squadra arrivò a mettere piede sulla passerella, sol-
tanto per essere sopraffatta e annientata, ma sulla spinta del suo slancio un
secondo gruppo riuscì a sua volta a raggiungere i bastioni e a mantenere la
posizione conquistata.
«Non appena ci saremo attestati abbastanza bene li terremo in pugno» riferì
un uomo con un braccio rotto. «Per gli dèi, fa un male terribile, soprattutto
quando cerco di muoverlo.»
«Allora non lo fare!» ribatté Nevyn, secco. «Sta' fermo mentre ti fascio.
Dovrai aspettare prima che possa tentare di comporre la frattura.»
«Certo, ci sono molti che stanno peggio di me» annuì l'uomo, madido di
sudore e pallidissimo in volto. «Quando me ne sono andato, i nostri ragazzi
erano arrivati in cima al muro.»
L'uomo non seppe però dire se la posizione conquistata era stata tenuta o
meno. I rapporti cominciarono ad affluire progressivamente fino ai chirurghi
per poi diffondersi per il campo: gli uomini di Maryn tenevano un tratto di
muro; gli uomini di Maryn avevano conquistato le mura sovrastanti le porte e
avevano chiesto l'intervento dell'ariete.
Finalmente, nel tardo pomeriggio le porte crollarono, un evento che tutti
poterono sentire sotto forma di un urlo immenso portato dal vento, un misto
del grido di orrore dei difensori e delle esclamazioni di trionfo degli assalito-
ri. Da quel momento il rivolo di feriti si trasformò in una piena e Nevyn non
ebbe più tempo per preoccuparsi dell'andamento della battaglia fino a quan-
do, con il sole ormai basso sull'orizzonte, un messaggero non venne a cercar-
lo per avvertirlo che il principe gli voleva parlare.
«Le mura sono nostre, mio signore» riferì il messaggero, «ma quanto alla
rocca... ecco quella è tutta un'altra faccenda.»
Nevyn si ripulì ricorrendo al semplice espediente di rovesciarsi sulla testa
un paio di secchi d'acqua, lavandosi con tutti i vestiti, poi si avviò, sentendosi
umido ma anche fresco per la prima volta dall'inizio della giornata.
Sudato e con ancora indosso la cotta di maglia e l'elmo sporchi di sangue, il
Principe Maryn era in attesa sulle mura vicino ai resti infranti delle porte, af-
fiancato da Oggyn che era lindo e azzimato come sempre. Salita una trabal-
lante scala da assedio, Nevyn andò a raggiungerli e il principe gli rivolse un
cenno di saluto.
«Hanno il controllo del complesso della rocca principale e di alcune rocche
laterali» disse, estraendo la spada sporca di sangue secco per indicare. «Il
cortile è nostro, ma ormai è quasi notte e non ho intenzione di rischiare il
vantaggio acquisito cercando di finire l'opera adesso.»
«Mi sembra una scelta saggia, mio signore» approvò Nevyn.
Al centro di quell'ultima cerchia di mura si levava il complesso originale
della rocca, nato ottocento anni prima come una singola, tozza torre più larga
alla base che alla sommità. Altri re avevano eretto altre rocche, alcune isolate
e altre a forma di semicerchio e unite alla prima, e una serie di baracche e di
altri edifici di servizio si era diffusa come una massa di funghi fra le diverse
torri, mentre qua e là uno snello pinnacolo nello stile più recente svettava dal
tetto di qualche edificio di pietra. Da un lato, a una distanza di una trentina di
metri, c'erano due gruppi di rocche più piccole e su tutti e tre i complessi
sventolava la bandiera del grifone verde quale ultimo atto di sfida.
«Domattina tenterò di avviare una trattativa» decise Maryn. «Spero che sì
arrendano, perché ormai non possono essere rimasti in molti.»
«Auguriamoci che lo facciano, anche se personalmente ne dubito.»
«In quel caso dovremo trasformarci in segugi e stanarli.»
Nevyn si limitò ad annuire, intento a esaminare il complesso alla ricerca
delle torri che aveva conosciuto da bambino e da adolescente, impresa che ri-
sultò però impossibile a causa dei nuovi edifici che avevano mutato l'aspetto
generale della rocca.
«Domani, mio signore!» commentò Oggyn. «Domani potrai finalmente re-
clamare il tuo diritto di nascita. Domani il regno sarà tuo.»
«È molto probabile» annuì Maryn. «Speriamo soltanto che valga le perdite
che è costato.»
«Suvvia, Vostra Altezza!» esclamò Oggyn. scoppiando a ridere. «Nessun
altro uomo in tutto Deverry penserebbe una cosa del genere.»
«Infatti» interloquì Nevyn. «E nessun altro uomo tranne il Principe Maryn
è degno di essere il Sommo Re.»

Intrappolati nella rocca reale con Re Olaen e i suoi ultimi difensori, c'erano
alcune donne e bambini... nove donne, contò Merodda, e dodici bambini, so-
prattutto paggi ma anche un neonato figlio di una delle serve, Pavva, che sì
stava stringendo il piccolo contro il petto con tanta forza da indurla a temere
che potesse soffocarlo.
«Lascialo respirare» le disse Merodda. «Così va meglio, ragazza. Per ades-
so non corriamo pericolo.»
Merodda aveva fatto rifugiare le donne e i bambini all'ultimo piano della
rocca principale, l'ultimo posto dove gli assalitori sarebbero arrivati l'indo-
mani, in un magazzino vuoto di forma semicircolare, e aveva costretto alcuni
dei servitori rimasti nella rocca a portare lassù acqua e viveri. Adesso non ri-
maneva altro da fare se non aspettare là dove non sarebbero stati d'intralcio ai
combattenti e vedere che sorta di Wyrd gli dèi avrebbero deciso di infliggere
loro.
A una certa distanza dagli altri la regina giaceva distesa su un mucchio di
cuscini, sola perché le sue due serve erano fuggite dalla rocca nell'orribile
confusione che aveva regnato nel corso della giornata. Adesso di loro non si
sapeva più nulla, né se fossero al sicuro oppure morte.
Avvicinatasi, Merodda posò per terra il pesante sacco che aveva con sé e
sedette accanto alla regina, che aveva il vestito sporco e lacero. Anche il vol-
to era sporco e soltanto i capelli rossi brillavano come fuoco alla luce della
lanterna.
«Cosa c'è lì dentro, Rhodi?» chiese Abrwnna.
«Alcune cose che ho portato via dalle mie camere: un libro e qualche po-
zione.»
«Hai un veleno che io possa mangiare?»
«Oh, dèi, no, Vostra Altezza, e se anche lo avessi non te lo darei mai.»
«Perché no? Sarebbe comunque meglio di quello che mi succederà domani.
Preferirei essere morta, quando verranno a prendermi.»
Merodda si limitò a sospirare. Se soltanto i Sali dei Nani non avessero in-
flitto una morte così orribile! Suo malgrado si sorprese a ricordare Caetha che
si contorceva nel proprio vomito e le parve di sentire in lontananza una donna
urlare: era Caetha, come se il suo spettro fosse apparso per godere della mor-
te della sua assassina. D'un tratto Merodda si rese poi conto che le urla erano
assolutamente reali e tutt'altro che lontane, in quanto provenivano da oltre la
botola di accesso alle scale della torre.
Poi le urla andarono salendo di tono, miste ora a una voce maschile che
parlava rabbiosamente, e Merodda scattò in piedi proprio nel momento in cui
la botola si sollevava e qualcuno veniva spinto nella stanza.
«Non posso! Non posso!» gemette una donna, con voce così distorta dal-
l'angoscia che Merodda non riuscì a riconoscerla. «Non posso lasciarlo!»
Avvicinandosi alla botola, Merodda vide sui gradini Rwla, la balia del pic-
colo re, che opponeva resistenza piangendo e tremando mentre dietro di lei
due soldati cercavano di spingerla a forza nella stanza. Protendendosi verso il
basso, Merodda afferrò allora la donna per una mano.
«Vieni su» le disse. «Cosa è successo? Olaen ti ha mandata via?»
«Mi ha detto che forse sarei potuta fuggire» singhiozzò Rwla. «Come se
potesse esserci salvezza per chiunque fra noi. Oh, dèi! Non costringetemi a
lasciare il mio povero bambino!»
«Anche se è piccolo, lui è il re e ti ha dato un ordine» ribatté Merodda.
«Vieni, su.»
Continuando a piangere, Rwla si lasciò sospingere in quel temporaneo ri-
fugio e si accasciò sul cuscino che Abrwnna stava allungando verso di lei; nel
guardare la donna sfilarsi la sciarpa nera che le raccoglieva i capelli grigi e
usarla per asciugarsi le lacrime, Merodda cercò invano di trovare qualche pa-
rola che potesse confortarla.
«Dimmi una cosa» chiese invece. «Hai visto qualcuna delle altre donne
della fortezza? Sai che ne sia stato di loro?»
«Non ne ho idea. Potrebbero essere state uccise tutte.»
Fuori intanto la luce diurna stava cominciando a sbiadire e le ombre si sta-
vano allargando nella stanza, dando l'impressione di levarsi dal pavimento e
di filtrare dalle pareti stesse. Per un momento Merodda vagliò l'opportunità di
accendere delle candele, ma poi la scartò perché i paggi si erano già addor-
mentati, raggomitolati gli uni contro gli altri come cani.
«Vogliamo cercare di dormire?» propose quindi.
Le altre donne assentirono e cominciarono a frugare fra le poche cose che
avevano portato con loro in quel rifugio, trovando alla spicciolata coperte e
cuscini con cui sistemarsi il più comodamente possibile. Merodda si addor-
mentò quasi subito, ma poco dopo mezzanotte si svegliò e rimase distesa al
buio maledicendo il proprio Wyrd. A quanto pareva tutto il suo dweomer si
era ridotto a questo, a poter vedere il proprio destino senza essere in grado di
fare la minima cosa per impedirlo. Tutti i presagi, le visioni e gli incantesimi
non erano bastati a salvarla dalla trappola di quella stanza, dove regina e ser-
ve dividevano uno stesso letto costituito da un duro pavimento.
Il suo solo conforto era dato da un unico pensiero: la vendetta. Adesso
Maryn pensava di essere il vincitore ma avrebbe pagato per questo suo gon-
golante momento di gloria, a patto naturalmente che il suo primo maestro
nelle arti oscure avesse detto la verità e che l'incantesimo da lui elaborato a-
vesse avuto l'effetto promesso.
Quell'uomo si era vantato a tal punto che lei aveva perso fiducia in lui, ma
non dubitava che Burcan sarebbe stato vendicato e che presto sarebbe andata
a raggiungerlo.
C'era però altro sapere, c'erano altri incantesimi che lei aveva appreso. E se
fosse stato vero che ci si poteva vendicare dei propri nemici da vivi come da
morti? Merodda rimase sveglia a lungo, sondando la propria memoria alla ri-
cerca delle oscure nozioni che il suo maestro le aveva insegnato, perché se
non altro adesso che era alla fine di tutto ciò che aveva amato questo le con-
cedeva almeno la dolce speranza della vendetta.

L'alba sorse ammantata di bagliori scarlatti, presagio del combattimento


imminente, e quando Nevyn cercò di intraprendere la consueta meditazione,
il piano astrale fu invaso da tali immagini di morte e di disperazione che lui
preferì desistere. Si era appena vestito quando Maddyn venne a raggiungerlo
di corsa, ululando il suo nome con voce degna di un banshee.
«Devi venire dal principe!» gridò il bardo. «Vuole partecipare all'attacco
finale contro la rocca reale.»
«Accompagnami da lui, ragazzo, e subito.»
Trovarono Maryn dove Maddyn lo aveva lasciato, fermo al limitare del-
l'accampamento e accerchiato da impassibili daghe d'argento che gli blocca-
vano il passo, ignorando le sue imprecazioni e le sue minacce rabbiose. Alla
fine, quando ormai Nevyn lo aveva quasi raggiunto, il principe estrasse la
spada.
«Gli dèi non vogliano che io ferisca uno dei miei uomini» ringhiò, «ma se
non mi lascerete passare, è quello che farò!»
«Ecco Nevyn, mio signore!» replicò Branoic. «Se dopo aver parlato con lui
vorrai ancora guidare la carica, sarò lieto di trarmi da parte.»
«Bastardo!»
«Avete agito bene, uomini» approvò Nevyn. «Ora aspettateci a una certa
distanza.»
Obbedienti, le guardie si allontanarono, ma quando Maryn cercò di seguirle
Nevyn fu pronto a pararglisi davanti; i loro sguardi s'incrociarono e il princi-
pe si rassegnò a rimanere dove si trovava.
«Sotto certi punti di vista sono ancora un ragazzino e tu il mio severo tuto-
re» commentò. «È una cosa che mi fa infuriare, ma è così.»
«Mio signore, mio unico e vero re» replicò Nevyn, «il primo uomo che ol-
trepasserà quelle porte morirà, e così pure la maggior parte di coloro che ver-
ranno subito dopo di lui. Impossibile sperare che sia altrimenti.»
«Risparmiami la tua astuta retorica! Come posso restarmene qui a guardare
e lasciare che altri uomini combattano per me?»
«Tenendo i piedi ben piantati su questo pezzo di terreno» ribatté Nevyn,
aggiungendo poi "mio signore", «se venissi ucciso adesso tutti gli uomini che
sono morti per porti su questo trono avrebbero sofferto invano. È questo che
vuoi?»
Maryn esalò il respiro in un sospiro che era quasi un gemito e abbassò la
spada; alle sue spalle, Maddyn intercettò lo sguardo di Nevyn e sillabò in si-
lenzio una parola di ringraziamento.
«Che ne è stato dell'idea di trattare?» chiese intanto Nevyn.
«Quando Gavlyn si è avvicinato alle porte, gli hanno svuotato in testa dei
pitali dalle finestre. Il messaggio mi è parso abbastanza chiaro» rispose
Maryn.
«Infatti. L'onore è una cosa terribile, quando porta un uomo a morire per
una causa persa.»
Maryn scrollò le spalle e ripose la spada con un aspro clangore dell'elsa
contro il fodero.
«Ho dato loro una possibilità» replicò quindi. «Se vogliono seguire il loro
falso re nelle Terre dell'Aldilà, chi sono io per oppormi?»

Le donne intrappolate nel magazzino sentirono l'attacco più che vederlo.


All'inizio Merodda si arrischiò ad avvicinarsi a una finestra per lanciare qual-
che occhiata all'esterno, ma tutto quello che riuscì a scorgere fu una massa di
uomini che sciamavano attraverso il cortile per circondare le torri che davano
rifugio agli ultimi uomini del re. Dalla posizione in cui si trovava, la curva
della rocca nascondeva alla vista le grandi porte rinforzate in ferro che dava-
no accesso alla grande sala, ma gli uomini di Cerrmor parevano essere già più
che impegnati su quel lato.
«Sembrano cani» riferì, «Un grande branco di cani intorno a un pezzo di
carne caduto per terra.»
In quel momento la torre fu scossa da un tremito improvviso e violento che
strappò un grido alle altre donne, poi l'impatto si ripeté mentre gli uomini al-
l'esterno ululavano grida d'incitamento.
«È l'ariete» commentò Merodda.
I colpi continuarono a ripetersi, non abbastanza violenti da farle perdere
l'equilibrio ma comunque tanto forti da darle l'impressione di sentire la rocca
gemere di dolore... le ci volle un momento per rendersi conto che quello che
stava sentendo erano gli uomini del re raccolti in attesa nella grande sala, che
a ogni impatto gridavano a loro volta quasi per supplicare le porte di resiste-
re. Quando si affacciò di nuovo per guardare, Merodda vide cadere dalle fi-
nestre dei piani inferiori una pioggia di sassi e di torce accese che gli assalito-
ri deviavano con gli scudi, anche se qua e là alcuni di essi barcollavano e si
accasciavano ai suolo.
D'un tratto le grida provenienti dall'esterno e dall'interno cambiarono tona-
lità e si mutarono in ululati che esprimevano ira e sete di sangue.
«Le porte hanno ceduto» intuì Merodda. «Che la Dea ci aiuti.»
Lasciata la finestra si andò quindi a sedere vicino ad Abrwnna, e quando la
regina si girò verso di lei come una bambina le cinse le spalle con un braccio,
traendola vicino a sé. Alla spicciolata, le altre donne vennero a raggiungerla e
si strinsero le une alle altre in un semicerchio approssimativo con i paggi nel
centro, mentre il neonato scoppiava in un pianto irrefrenabile che nulla parve
essere in grado di arrestare. Dal basso giunsero intanto altre grida, soffocate e
al tempo stesso stranamente echeggianti a causa delle spesse pareti di pietra,
e se in un primo tempo quei suoni rimasero distanti, poi il loro lento ma co-
stante avvicinarsi denunciò che gli uomini di Cerrmor dovevano aver conqui-
stato la sala e aver iniziato a salire le scale.
Il combattimento si protrasse per tutta la mattina, una stanza e un corridoio
per volta, o almeno così supposero le donne che da dove si trovavano poteva-
no soltanto sentire i suoni della lotta, che giungevano dall'interno come pure
dal cortile... urla, il clangore del metallo contro il metallo e ululati di dolore.
Per tutto quel tempo nessuna di loro disse una parola né mangiò, anche se
uno dei paggi andò a prendere una borraccia da cui bevvero a turno. Verso
mezzogiorno il neonato, ormai rauco per il troppo piangere, scivolò finalmen-
te in un sonno agitato e quel riconquistato silenzio parve a Merodda una pic-
cola benedizione, la sola che sarebbero riusciti a ottenere; di lì a poco si rese
poi conto che i rumori provenienti dall'esterno stavano aumentando d'intensi-
tà fino a trasformarsi in una vera e propria marea di suono.
«Pare che stiano arrivando altri uomini» osservò. «Ciò significa che devo-
no essere padroni delle rocche secondarie.»
Mentre uno dei paggi cominciava a piangere, si alzò poi in piedi e tornò al-
la finestra, da dove vide che in basso gli uomini di Cerrmor erano ormai pa-
droni dell'intero cortile ed entravano e uscivano dalle altre rocche con estre-
ma tranquillità, la spada riposta nel fodero.
«Hanno conquistato tutto tranne questa torre» riferì alle altre.
Nessuno le rivolse anche solo un'occhiata: nel tornare a guardare fuori Me-
rodda si chiese se non le sarebbe convenuto gettarsi dalla finestra e morire al-
le sue condizioni, ma il solo pensiero fu sufficiente a paralizzarla, indicando
che non le sarebbe stato concesso di ricorrere a quell'ultima via di fuga.
D'un tratto qualcosa passò sibilando davanti alla finestra... una corda muni-
ta di rampino... accompagnato da esclamazioni trionfanti che provenivano dal
basso, poi altre corde solcarono l'aria senza che nessun uomo del re si affac-
ciasse alle finestre per tagliarle.
«Oh, dèi, vogliono raggiungere il tetto!» esclamò Merodda.
Abrwnna si lasciò sfuggire un urlo e subito si affrettò a soffocarlo premen-
dosi una mano contro la bocca, mentre Merodda si accasciava in posizione
seduta accanto alla finestra, le spalle addossate al muro, e il neonato si sve-
gliava e ricominciava a piangere con voce rauca, ignorando i tentativi da par-
te della madre di placarlo.
«Adesso non ci vorrà più molto» sussurrò Merodda, «e suppongo che forse
sia meglio così.»
Nessuno parve averla sentita. Da dove si trovava scorse alcune ombre ol-
trepassare la finestra, di certo uomini armati che si issavano sulle corde, poi
un rumore di passi e alcune risate giunsero dal tetto di legno sopra la sua te-
sta, inducendo le altre donne a scoppiare in pianto e generando in Abrwnna
un pallore tale da far temere a Merodda che potesse svenire. Dall'alto giunse-
ro altri rumori di movimento e altre voci, anche se lei non riuscì a distinguere
le parole, poi ci fu il suono ottuso delle asce che affondavano nel legno.
«Venite qui!» gridò Merodda. «Toglietevi dal centro della stanza.»
Le donne e i paggi si affrettarono a obbedire e si strinsero le une agli altri
in un gruppo singhiozzante mentre le asce continuavano il loro lavoro; Me-
rodda, che si era venuta a trovare davanti al suo piccolo gregge, decise che
non c'era motivo di cambiare posizione.
In alto le asce continuarono a martellare e altri uomini a salire sul tetto, poi
ci fu un bagliore metallico seguito da un raggio di sole: era stata aperta la
prima breccia.
«Può darsi che non si fermino per farci del male per l'ansia di andare in
combattimento e che noi si riesca ancora a fuggire» sibilò Merodda.
Nessuno, e tanto meno lei stessa, credette a quelle parole. In alto echeggia-
rono altre risate e rumore di stivali che andavano avanti e indietro, poi nuove
asce trapassarono il legno e infine un'intera porzione di tetto compresa fra
due travi cedette, lasciando filtrare un'ondata di luce solare, simile a sidro av-
velenato.
«Siamo passati!» gridò una voce. «Portate qui quelle scale!»
Dall'alto una scala di corda venne calata attraverso il buco nel tetto, un
uomo in elmo e cotta di maglia scese metà della sua lunghezza e superò il re-
sto della distanza con un salto, voltandosi goffamente nell'estrarre la spada.
«Oh, dèi!» esclamò, fissando le donne, poi guardò verso l'alto e gridò ai
compagni: «Qui c'è soltanto un gruppo di donne con i loro bambini.»
Un'altra voce rispose qualcosa e un secondo e un terzo uomo scesero lungo
la scala mentre il compagno che si trovava già di sotto si rivolgeva ancora a
qualcuno sul tetto.
«Conosco bene quanto te gli ordini del principe, razza di peloso bastardo,
ma in nome di tutti gli inferni, come ti aspetti che le portiamo fuori di qui?»
Intanto un numero sempre più elevato di uomini che puzzavano di sangue e
di sudore stava scendendo lungo la scala per radunarsi vicino al pianerottolo,
ma nessuno di essi degnò le donne anche solo di un'occhiata. Scambiandosi
cupi sorrisi, i soldati si avviarono poi giù per le scale a due per volta e di lì a
poco in basso qualcuno lanciò un grido d'allarme seguito dal cupo clangore
delle armi. Spada in pugno, l'uomo sceso per primo si avvicinò intanto a Me-
rodda, che si erse sulla persona e lo fissò in volto preparando un incantesimo
del dweomer con l'intenzione di scagliare una maledizione su quegli uomini
se le avessero violentate e uccise.
«Per ordine del Principe Maryn non si deve fare del male a nessuna donna»
la prevenne però il soldato. «Credo tuttavia che sul tetto sareste più al sicuro.
Pensate di poter salire lassù?»
Merodda ebbe l'impressione che la stanza le vorticasse intorno e Abrwnna
si affrettò a sorreggerla per un braccio. Intorno a loro un numero sempre
maggiore di uomini stava scendendo dal tetto per poi riversarsi giù per le sca-
le in un fiume di morte.
«Ci consegniamo alla misericordia del principe» disse infine Merodda, ri-
trovando la voce.
«Un'idea dannatamente buona» approvò il soldato con un sorriso. «Mi è
stato ordinato di sorvegliarvi e non voglio avere problemi, capito? Non appe-
na le squadre saranno scese tutte, andremo di sopra e vi giuro che non corre-
rete pericoli, a patto che teniate sotto controllo quei paggi. Se non causeranno
problemi potranno vivere e combattere un giorno per il vero re.»
Merodda sentì le lacrime che le salivano in gola e minacciavano di sopraf-
farla. Indifferente al suo stato d'animo, la guardia intanto si volse a guardare i
suoi compagni che correvano incontro alla morte o alla gloria.

Gli ultimi superstiti fra gli uomini del re cominciarono ad arrendersi verso
mezzogiorno, e nel guardare dal cortile insieme a Nevyn mentre essi veniva-
no scortati fuori in file irregolari, Maryn perse infine la pazienza.
«Per tutti gli dèi, ormai dovrei poter entrare senza correre rischi!» esclamò.
«È molto probabile, mio signore» annuì Nevyn, e rivolto a Oggyn aggiun-
se: «Cosa ne pensa il mio stimato collega consigliere?»
«Vado a dare un'occhiata, mio signore, e a parlare con quelle guardie» ri-
spose Oggyn, e si allontanò di corsa verso le porte infrante della grande sala,
dove scambiò qualche parola con uno degli uomini prima di tornare indietro a
precipizio.
«Mio signore! Mio signore!» esclamò. «Hanno trovato il falso re!»
«Bene! Dov'è?» replicò Maryn.
«Nella sua camera. Posso suggerirti di andare subito là? Prima sarà ucciso
e meglio sarà.»
«Non ho intenzione di assassinarlo sui due piedi, Oggyn. Sarà giudicato
opportunamente dal mio malover.»
Oggyn si trattenne a stento dal ribattere e nascose quella reazione con un
inchino. Nell'osservarlo Nevyn si rese conto che aveva l'aria spaventata e
quando infine si trovò alla presenza di quel terribile falso re ne comprese il
motivo.
Insieme a Maryn e a una manciata delle sue guardie, Nevyn salì in fretta le
scale che partivano dalla grande sala e percorse un corridoio costellato di ca-
daveri fino a una camera cosparsa di arredi devastati. Naturalmente tutti loro
sapevano che l'aspirante re che si trovava a Dun Deverry era un bambino, ma
esserne consapevoli e vederlo con i propri occhi erano due cose differenti: il
piccolo Olaen era seduto per terra nella curva della parete con un cavallo di
legno stretto al petto, il faccino sporco di lacrime e i vestiti che puzzavano di
urina.
«Per tutti gli dèi del cielo!» esclamò Maryn. «È solo un bambinetto! Non
posso ucciderlo!»
«Mio signore!» ululò Oggyn. «Può avanzare una rivendicazione sul tuo re-
gno, quindi devi ucciderlo se vuoi che ci sia una pace duratura.»
Olaen cominciò a singhiozzare.
«Nevyn?» chiese Maryn, girandosi verso il vecchio con un sopracciglio i-
narcato.
«Oh, dèi! Non so proprio cosa consigliarti, mio signore» gemette Nevyn.
«L'idea di uccidere un bambino mi fa dolere il cuore, ma...»
«Ma ho ragione io, mio signore, non è così?» intervenne Oggyn. «Non si
tratta del bambino in se stesso, mio signore, ma delle fazioni che inevitabil-
mente si formeranno intorno a lui.»
«So tutto questo» lo interruppe Nevyn, secco. «Dammi però almeno un
giorno per consultarmi con i preti di Bel in merito alle leggi relative a questa
situazione. Il nostro signore è deciso a governare secondo le leggi, giusto?
Allora lasciami controllare cosa dicono gli antichi libri.»
Oggyn accennò a ribattere, ma Maryn gli ordinò con un cenno di tacere.
«Procedi come hai detto, Nevyn» decise, poi si girò verso le guardie e ag-
giunse: «Portate il bambino in un posto sicuro. La sua bambinaia deve essere
qui da qualche parte. Trovatela.»

Mezzogiorno era passato da tempo quando infine qualcuno si ricordò delle


donne prigioniere, che avevano da tempo finito l'acqua della borraccia ed e-
rano esposte al sole cocente che batteva sul tetto. Merodda stava prendendo
in considerazione l'idea di umiliarsi davanti alla guardia implorando che pro-
curasse loro un riparo migliore quando un altro soldato emerse dalla breccia
nel tetto.
«Ordini del consigliere del principe. Dobbiamo scortare le donne nella loro
sala e permettere che si sistemino lì. La bambinaia del falso re è fra loro?»
«Sono io» rispose Rwla, venendo avanti. «Cosa avete fatto al mio bambi-
no?»
«Nulla, per ora. Il principe ha detto che devo portarti da lui.»
Rwla si concesse un singhiozzo di sollievo.
«Avanti, muovetevi tutte quante» ordinò la prima guardia. «Sono dannata-
mente stanco di sorvegliarvi e sarà un piacere scendere da questo maledetto
tetto.»
Merodda aveva sperato che venissero lasciate senza sorveglianza, ma non
appena furono di nuovo nella sala delle donne altri due soldati si piazzarono
davanti alle porte. Dietro sua richiesta essi permisero però a due paggi di an-
dare a prendere dell'acqua e i due ragazzi tornarono con un secchio pieno e
un paio di pagnotte di pane che le donne divorarono senza la minima esita-
zione.
«È tutto così strano» commentò infine Abrwnna. «Perché il principe ci sta
risparmiando in questo modo?»
«Non ne ho idea» rispose Merodda. «Forse per fare di noi un oggetto di
pubblico spettacolo.»
«O forse è davvero misericordioso come tutti dicono» interloquì Pavva.
«Con te lo sarà, ragazza. Senza dubbio soltanto la regina e io abbiamo un
rango tale da interessargli» replicò Merodda, poi un sorriso le affiorò lento
sulle labbra mentre aggiungeva: «Già. gli interessiamo soltanto noi. Senti, ti
andrebbe di scambiare i tuoi abiti con i miei?»
«Cosa?» esclamò Pavva, abbassando lo sguardo sul proprio vestito logoro.
«Ma è così vecchio e sporco.»
«Esattamente. Credi che la grande Lady Merodda del Cinghiale indosse-
rebbe mai un abito del genere?»
Pavva scoppiò a ridere.
«Benissimo, mia signora» rispose quindi. «Quando verrà il momento, sarò
lieta di barattare il mio abito con il tuo.»
«Meglio farlo adesso, dato che non credo che ci manderanno gentilmente
un paggio per invitarci a banchettare con loro o qualcosa del genere» replicò
Merodda, e guardando verso Abrwnna aggiunse; «Potremmo fare lo stesso
per te, Altezza.»
Abrwnna scosse il capo, poi si girò e si diresse verso la sua sedia preferita,
che giaceva ribaltata su un fianco vicino al focolare spento, la raddrizzò e si
lasciò cadere su di essa con uno dei suoi lunghi sospiri.
«Morirò con mio marito» annunciò. «Mi troveranno qui, pronta a sfidarli
fino alla fine.»
«Oh, per l'amore degli dèi!» cominciò Merodda, ma poi non aggiunse altro,
perché aveva ormai esaurito la sua pazienza con la regina. «Come preferisci»
disse soltanto. «Pavva, scambiamoci i vestiti.»
Effettuato lo scambio, Pavva prese con sé il suo bambino e si andò a sedere
ai piedi della regina, che si appoggiò allo schienale della sedia e prese a fissa-
re il soffitto, ignorando i poco sentiti tentativi che le altre donne stavano fa-
cendo per convincerla a cercare un modo per fuggire. Il tempo a loro disposi-
zione si era però esaurito; Merodda aveva appena finito di legarsi uno scialle
sporco intorno alla vita come sopragonna quando le guardie spalancarono la
porta e un uomo robusto, calvo ma con una folta barba, entrò nella sala segui-
to da altri soldati.
«Quella con i capelli rossi» disse in tono secco, indicando. «A quanto mi
hanno detto è la regina. Avanti, ragazza, vieni con noi. Nessuno farà del male
a te o a chiunque altra fra voi, ma vi suggerisco di rimanere qui, calme e al
sicuro dai soldati perché non posso garantire per la loro condotta. Lady Me-
rodda è fra voi?»
«No» rispose Abrwnna, alzandosi in piedi. «Non so neppure se sia vi va o
morta.»
«Non ne dubito. Ora vieni con noi. Tu sarai imprigionata altrove.»
A testa alta, Abrwnna lasciò a grandi passi la stanza, e nel guardarla uscire
Merodda pensò che adesso, alla fine, si stava finalmente comportando da re-
gina.

Lilli aveva trascorso l'intera giornata stesa sulle coperte, nella sua tenda.
Cedendo alle insistenze delle sue serve, quella mattina si era vestita e aveva
anche mangiato un po' del cibo che le avevano portato, ma costringersi a u-
scire era stato superiore alle sue forze, perché si sentiva esausta e addirittura
quasi paralizzata, al punto che a tratti le mancava perfino la forza di sollevar-
si a sedere. In distanza poteva udire il fragore della battaglia e di tanto in tan-
to le ragazze uscivano dalla tenda per raccogliere qualche notizia sul suo an-
damento, mentre a tratti lei sprofondava nel sonno soltanto per svegliarsi ur-
lando da qualche sogno di grifoni e cinghiali che lottavano.
«Cosa ti succede, mia signora?» le chiedeva ogni volta Clodda.
«Mi sento lacerare a metà» rispondeva Lilli. «Non so come altro descrivere
ciò che provo.»
Quando poi il rumore della battaglia si spense Lilli riuscì infine a uscire
dalla tenda, constatando che il sole era ormai al tramonto e che stava rischia-
rando con i suoi ultimi raggi le conquistate torri di Dun Deverry.
«Padrona, devo portarti la tua sedia?» chiese Clodda.
«Sì, per favore.»
Accasciatasi sulla sedia, Lilli rimase a fissare la fortezza mentre intorno a
lei si sviluppava una crescente confusione di uomini che trasportavano i feriti
o inneggiavano per la vittoria o ancora piangevano qualche amico morto.
Quanto a lei, si sentiva ormai al di là delle lacrime o della speranza, ma no-
nostante i suoi timori Anasyn finalmente tornò sano e salvo, attraversando il
campo a grandi passi e chiamandola per nome quando giunse abbastanza vi-
cino; con la cotta di maglia ancora indosso, lui teneva l'elmo in una mano e lo
stava facendo dondolare a ogni passo com'era solito fare da bambino con i
giocattoli. Sollevata, Lilli si alzò in piedi per accoglierlo, ma non riuscì a
sfoggiare un sorriso soddisfatto quanto il suo.
«Ce l'abbiamo fatta!» gongolò Anasyn. «La rocca è nostra e il falso re è
nelle mani di Maryn.»
«Questo mi rallegra» cercò di rispondere Lilli, ma le parole parvero in
qualche modo bloccarlesi in gola.
Soffermandosi a osservarla meglio. Anasyn smise di sorridere e gettò l'el-
mo a una delle serve per poi cingere le spalle di Lilli con un braccio.
«Non dovrei essere così contento» osservò.
«Perché no? Bevva è vendicata e questa dannata guerra è finita. Non so co-
sa ci sia in me che non va» replicò Lilli, volgendogli le spalle per timore di
scoppiare in pianto. «Dovrei essere felice.»
«No, no, nessuno se lo aspetta da te, sorellina. Hai perso il tuo clan natale e
io ho perso una quantità di uomini, come pure molti amici! Gli dèi sanno che
farei meglio a piangerli invece di gongolare.»
La sua voce esprimeva un dolore così sincero che Lilli riuscì nuovamente a
guardarlo. Lui la trasse vicino a sé e in quel momento parve così simile a
Peddyc che lei temette di finire per soffocare per il pianto.

Quella notte le daghe d'argento ancora in vita si raccolsero intorno a un


fuoco davanti alla tenda di Maddyn... ventitré, di cui due ferite, delle cento
che a primavera avevano lasciato Cerrmor; con loro c'erano anche Caudyr e
Otho, che era riuscito a procurarsi un intero barilotto di sidro.
«Credo che il falso re ce lo deva» commentò, con uno dei suoi rarissimi
sorrisi. «È stato alquanto faticoso sfilarlo dalle mani di uno dei servi del
Gwerbret Daeryc, ma alla fine ho vinto io.»
Owaen sfondò il barilotto con un'accetta e le daghe d'argento ne attinsero il
sidro, immergendoci le loro tazze.
«Ai nostri morti!» esclamò Maddyn, levando in alto la propria. «E al nostro
capitano.»
«A Caradoc» mormorarono gli altri, mentre i brindisi si succedevano uno
all'altro. «E ai nostri morti.»
Per qualche tempo continuarono a bere, poi si limitarono a rimanere raccol-
ti in silenzio, guardandosi a vicenda, e d'un tratto Maddyn si sorprese a ricor-
dare un tempo passato, in cui le daghe d'argento erano altrettanto scarse di
numero, dopo la prima battaglia che lui aveva combattuto agli ordini di Cara-
doc, nel lontano Eldidd. A quel tempo loro erano stati una marmaglia disono-
rata che veniva mandata allo sbaraglio in prima linea, e adesso che erano tor-
nati a essere guerrieri vincolati dall'onore, si erano comunque venuti di nuovo
a trovare schierati in prima linea.
«Otho?» disse d'un tratto. «Ricordi quando hai forgiato questi coltelli per
noi? E la battaglia che ha dato a Caradoc l'idea di crearli?»
«Certamente. Si è trattato di una faida a causa di un ponte, vero? Mi pare di
ricordare che alla fine lo abbiamo conquistato e che il nobile che lo voleva ci
ha pagato un prezzo elevato.»
«È quello che ricordo anch'io» annuì Maddyn, e rivolto ai membri più gio-
vani del gruppo proseguì: «E così Otho ha preso a prestito la fucina del nobi-
le in questione e ha creato le prime daghe.»
Gli altri sorrisero appena, annuendo, e Branoic estrasse dal fodero la sua
daga, sollevandola in modo che la luce del fuoco facesse risplendere la spe-
ciale lega di cui era fatta come se fosse stata illuminata dall'interno.
«Il nostro onore e la nostra maledizione» disse. «Alla lunga strada che ci ha
condotti qui.»
Tutti vuotarono la coppa fino all'ultima goccia.
«Riempiamole di nuovo» propose Maddyn. «Chi può sapere cosa ci porterà
ancora il nostro Wyrd?»
Continuarono a bere fino a notte inoltrata, senza però che nessuno riuscisse
a pensare a una battuta scherzosa o a intonare una canzone che non si spe-
gnesse quasi subito nel silenzio. Dal resto del campo giungevano intanto risa
e canti, o qualche esplosione di grida di trionfo e di entusiasmo che non pare-
vano avere una motivazione specifica, ma nessuno di loro se la sentì di unirsi
a quei festeggiamenti e quando infine verso l'alba sul campo scese progressi-
vamente la quiete, le altre daghe d'argento se ne andarono alla spicciolata, la-
sciando Maddyn solo ad alimentare il fuoco morente. Gettati sulle braci gli
ultimi pezzi di legno, Maddyn attizzò i carboni ardenti intorno a essi e rimase
inginocchiato al suolo a guardare le salamandre che giocavano fra le fiamme
e le silfidi che si libravano nel fumo, sopra di esse. Poi il suo spiritello azzur-
ro apparve e gli si appoggiò contro, succhiandosi un dito.
«Dicono che i membri del Popolo Fatato si possono recare nelle Terre del-
l'Aldilà e tornare indietro. Puoi andare a riferire a Caradoc che il principe ha
vinto?» gli chiese Maddyn.
Lo spiritello lo guardò, annuì e scomparve.
«Per gli dèi, Maddo, ragazzo mio, sei proprio ubriaco» si disse allora
Maddyn. «Del resto, è meglio così.»
Poi abbandonò il volto fra le mani e pianse.

Era appena l'alba quando Merodda si svegliò di soprassalto da un sonno


pieno di disagio con un urlo a stento trattenuto che le vibrava in gola e la cer-
tezza che qualcuno fosse entrato nella sua camera e fosse fermo sulla porta
con fare minaccioso... solo che nella stanza non c'era nessuno. La sensazione
continuò così intensa da darle la certezza che non si fosse trattato di un sem-
plice sogno, ma di un avvertimento del dweomer che la informava del fatto
che gli uomini del nuovo re la stavano cercando.
E cosa avrebbero fatto quando l'avessero trovata? Consapevole che doveva
progettare con cura la propria fuga e uscire dalla fortezza al più presto possi-
bile, Merodda si alzò e andò a guardare fuori della finestra della sala delle
donne. All'esterno le porte erano ancora chiuse e sorvegliate, ma presto si sa-
rebbero aperte e lei avrebbe dovuto tenersi pronta a sfruttare la prima occa-
sione che le si fosse presentata.

Il soldato spinse indietro il telo d'ingresso della tenda, lasciando entrare la


grigia luce dell'alba.
«Lord Nevyn?» chiamò, protendendo un oggetto avvolto in tela di sacco
che teneva fra le braccia. «Il Consigliere Oggyn mi ha incaricato di darti que-
sto. Dice che c'è il tuo nome scritto all'interno.»
«Davvero?» replicò Nevyn, prendendo l'involto, poi le sue dita avvertirono
la liscia copertina di cuoio sotto la tela e lui scoppiò a ridere, aggiungendo:
«Scommetto di sì. Lasciami togliere questo involucro... ah! Sì, è proprio il
mio libro, quello che mi è stato rubato molti anni fa.»
Compiaciuto, Nevyn lasciò scorrere la mano sul cuoio, constatando che il
volume pareva intatto a parte un po' di muffa; accanto a lui il soldato, che in-
dossava ancora la cotta di maglia sporca della battaglia, osservò quel compor-
tamento per lui bizzarro con un sorriso indulgente sulle labbra.
«Dove lo ha trovato, Oggyn?» chiese poi Nevyn.
«Mi ha detto che glielo ha portato uno degli uomini, insieme ad altra roba
che ha trovato nella stanza dove abbiamo catturato la regina e le sue donne.
Dato che si trattava di un libro ha pensato che Oggyn potesse volerlo, ma
quando lo ha aperto lui ha detto che era tuo e che era una cosa davvero stra-
na.»
«Forse si è trattato davvero del Wyrd. Ti sono grato per avermelo portato, e
quando vedrò il consigliere ringrazierò adeguatamente anche lui.»
Riposto il libro nella cassapanca dei bagagli, Nevyn lasciò quindi la tenda.
Fuori gli uomini del re erano già al lavoro, impegnati a scavare lunghe fosse
per seppellire i caduti dell'ultima battaglia svoltasi nella rocca reale; quando
avessero finito, avrebbero creato sulle fosse un monticello di terra a memoria
della strage che aveva permesso al vero re di conquistare il trono che gli spet-
tava. Una volta oltrepassate le porte Nevyn vide poi altri corpi, disposti in file
ordinate in attesa della sepoltura, e al di là di essi scorse i cavalli dell'esercito,
impastoiati gli uni accanto agli altri e affidati ad alcuni soldati che li stavano
portando ad abbeverarsi in piccoli gruppi.
Nel cortile interno c'era già un via vai di servi impegnati a eseguire gli or-
dini dei nuovi padroni della fortezza e nel dirigersi verso la rocca Nevyn
chiese a tutti quelli che incontrò dove si trovasse Lady Merodda del Cinghia-
le, senza però che nessuno di essi sapesse o comunque volesse rispondergli.
Dal canto suo, Nevyn era però deciso a trovare quella donna, sempre suppo-
nendo che non fosse fuggita dalla fortezza, perché aveva una serie di doman-
de ben precise da rivolgerle in merito a quella tavoletta maledetta che si tro-
vava a Cerrmor. Purtroppo, nel corso della giornata il suo posto sarebbe stato
al fianco del principe e questo gli avrebbe reso difficile trovare del tempo per
portare avanti le ricerche.
Per tutta la mattina Maryn tenne una sorta di malover improvvisato. Anche
se rifiutava di considerarsi re finché i preti non avessero completato le ceri-
monie d'incoronazione, infatti, adesso nessuno poteva più negargli il diritto di
conquista su Deverry, dato che dopo tutto lui era il Principe Ereditario di
Pyrdon e di Cerrmor, e ora per default anche di Deverry. Pochi per volta, di-
sarmati e sotto scorta, i nobili che la sua vittoria aveva trasformato in ribelli e
traditori s'inginocchiarono al suo cospetto per chiedergli perdono e giurare
per sempre fedeltà a lui e alla sua discendenza, quelli del meridione con ab-
bietta sottomissione, quelli del nord cupi e contrariati ma comunque pronti a
farlo.
La gente di umile nascita e le donne di tutti i ranghi presenti nella fortezza
erano da considerarsi privi d'importanza agli occhi del re, tranne naturalmen-
te l'ex regina di tutto Deverry. Sul finire di quella giornata Oggyn la scortò
nella sala del malover accompagnata da una serva come protezione sia pur
minima per il suo onore. Per l'occasione la regina aveva scelto un vestito ver-
de scuro coperto di ricami lungo l'orlo e sulle maniche, e portava i capelli
rosso fiamma sciolti sulle spalle come uno scialle. Nevyn non mancò di nota-
re come tutti i presenti si girassero a guardarla con ammirazione quando le
guardie la scortarono nella sala.
«Vostra Altezza» disse una di esse, «ecco la supposta regina.»
Abrwnna s'inginocchiò ai piedi del re con il volto rigato di lacrime e alcune
ciocche di capelli che le si erano incollate alle guance; nel guardarla, Nevyn
ebbe l'impressione che quelle ciocche sembrassero dei graffi, come se lei si
fosse devastata il volto con le unghie come si usava all'Alba dei Tempi.
«Questa è la moglie del falso re?» domandò Maryn.
«È lei, mio signore» confermò Oggyn. «Uno spettacolo pietoso.»
«È poco più che un'adolescente, mio signore» interloquì Nevyn, «ed è stata
data in sposa a un bambino, quindi non la definirei una minaccia per il re-
gno.»
«Sono d'accordo con Lord Nevyn» annuì Oggyn. «Senza dubbio le potre-
mo trovare un rifugio in qualche tempio della dea.»
«Preferisco morire» dichiarò Abrwnna, con voce che era appena un sussur-
ro. «Non mi rinchiudete. Preferisco morire.»
«Suvvia, bambina!» esclamò Oggyn. «La penserai in maniera diversa una
volta che avrai avuto modo di rifletterci sopra.»
Abrwnna sollevò il capo e lo fissò con espressione così piena d'ira da in-
durlo infine a distogliere lo sguardo.
«Principe Maryn» disse poi, «tutti parlano di come tu sia incredibilmente
misericordioso, quindi uccidimi piuttosto che rinchiudermi ad ammuffire,
perché preferisco morire piuttosto che impazzire.»
Maryn si lasciò sfuggire un sospiro secco e tagliente.
«Allora, non possiamo trovare un altro modo di disporre di lei?» chiese
quindi, lanciando un'occhiata verso Nevyn. «Dopo tutto, non può avanzare
rivendicazioni di sorta sul trono.»
«Infatti» annuì Nevyn. «Potremmo darla in sposa a uno dei nobili a te fede-
li, considerato che senza dubbio il suo è stato un matrimonio solo di nome e
non di fatto.»
«Proprio così» confermò Abrwnna, con un bagliore di speranza nello
sguardo. «Sono pronta a pronunciare qualsiasi giuramento mi richiediate e
comunque non farei mai nulla che potesse danneggiare te o la tua gente.»
«Lei non è nella posizione di poter fare alcun danno» intervenne Oggyn.
«Sono d'accordo con Nevyn, in questo caso.»
L'enfasi data alle ultime parole era inequivocabile, ma Maryn scelse di i-
gnorarla.
«Benissimo» replicò invece. «Chi si occupa di questo genere di cose? I
preti?»
«Prenderò io tutti gli accordi necessari, Vostra Altezza» si offrì Nevyn.
«Forse uno dei tuoi nobili sarà disposto a offrirsi spontaneamente di prender-
la in moglie.»
Nella sala affollata il Tieryn Anasyn scattò in piedi con la rapidità di una
pernice stanata dai cani e avanzò rapido verso il re, inginocchiandosi accanto
ad Abrwnna.
«Mio signore» mormorò, «sarei onorato di garantire per questa donna e di
accoglierla nel mio clan come mia sposa.»
«Affare fatto, allora» annuì Maryn. «È tua, non appena Nevyn avrà distri-
cato la situazione dal punto di vista legale.»
Abrwnna spostò lo sguardo dal principe ad Anasyn, parve sul punto di par-
lare poi scoppiò d'un tratto in singhiozzi che peraltro cessarono repentini co-
m'erano iniziati di fronte alla consapevolezza che nessuno avrebbe chiesto il
suo parere. Rialzatosi in piedi, Anasyn l'aiutò a fare altrettanto e lei si lasciò
scortare fuori della grande sala tenendosi aggrappata al suo braccio.
Quando le guardie accennarono a uscire a loro volta, Nevyn attrasse la loro
attenzione.
«Nessuna traccia di Lady Merodda?» chiese.
«Nessuna, mio signore» rispose una di esse, mentre l'altra si limitava a
scuotere il capo scrollando le spalle.
«Comincio a chiedermi se sia riuscita a fuggire, come hanno fatto alcuni
membri del Cinghiale» mormorò Nevyn. «Comunque continuerò a cercarla,
perché è dannatamente importante trovarla.»

«Mi è appena venuta in mente una cosa» osservò Branoic. «Nessuno dei
nobili che ha abbandonato il Reggente ha più fatto ritorno.»
«È vero» annuì Maddyn. «Mi chiedo quanti di loro si stiano radunando in-
torno a Lord Braemys, a Cantrae.»
«Senza dubbio lo scopriremo prima di quanto ci faccia piacere. Speriamo
solo che la maggior parte di essi si sia rintanata nelle rispettive fortezze, co-
me tanti conigli spaventati.»
Le due daghe d'argento erano in piedi sulla passerella delle mura più inter-
ne, e sotto di loro si stendeva la città, una polla di rovine che si allargava in-
torno a una collina devastata.
«Credi che la gente tornerà?» domandò Branoic in tono riflessivo, sputan-
do oltre le mura.
«Sì, prima o poi. Questa è pur sempre la Città Santa, la città del re, e ades-
so la guerra vera e propria è finita, sia che Braemys decida o meno di ribel-
larsi.»
«Infatti. Per gli dèi, non ho mai pensato che sarei vissuto abbastanza a lun-
go da vedere questo giorno.»
«Neppure io. Vorrei soltanto che anche gli altri...»
Maddyn non riuscì a finire la frase, e nel guardare verso le rovine mentre
accanto a lui Branoic sputava ancora ebbe l'impressione di vedere Caradoc
che rideva nel levare in alto un boccale.
«Scendiamo dabbasso e cerchiamo di scoprire dov'è finito il vecchio
Nevyn» propose.
Quando giunsero nel cortile antistante le porte principali, lo trovarono inta-
sato di gente, perché nonostante il condono generale elargito dal nuovo re i
membri della corte del precedente sovrano stavano lasciando la fortezza...
servitori di nobile nascita e paggi, artigiani e servi di rango più elevato, tutti
camminavano verso e oltre le porte con il solo bagaglio che erano in grado di
trasportare sulla schiena, le donne per lo più in lacrime come pure alcuni de-
gli uomini... un pianto che Maddyn si chiese se fosse di dolore per il crollo di
una dinastia o di preoccupazione per quello che li aspettava.
Alcuni uomini spingevano un carretto su cui erano ammucchiate coperte e
bambini, e dietro uno di quei carri procedeva una giovane serva... no, una
donna matura, dato che nonostante i capelli biondi e il corpo snello alla luce
del sole il suo volto rivelava una sottile rete di rughe. Vestita con uno sporco
abito marrone e con uno scialle grigio legato intorno alla vita e su un fianco,
la donna procedeva a passo lento, con lo sguardo fisso a terra come se fosse
stata preda della disperazione, e dopo averla fissata per un momento Maddyn
si lasciò sfuggire una sommessa imprecazione.
«Cosa c'è?» domandò Branoic.
«Quella donna. Vieni con me.»
Quando si avvicinarono, la donna li guardò con un disinteresse così totale
che per un momento Maddyn esitò, chiedendosi se non si fosse sbagliato; poi
però notò le sue mani snelle e morbide, con le unghie ben curate, e le posò
con decisione una mano sulla spalla.
«Lady Merodda, per gli dèi!» esclamò.
Lei si mise a urlare e cercò inutilmente di percuoterlo con i pugni, ma Bra-
noic fu pronto ad afferrarle le braccia da dietro e a bloccarla contro il proprio
petto senza badare alle sue contorsioni.
«Abbiamo trovato una preda notevole» commentò intanto Maddyn. «Sei
Merodda del Cinghiale, vero?»
«No! No! Lei è stata presa in consegna dagli uomini del principe. Oh, non
mi fate del male! Io sono soltanto la sua serva!»
«In tal caso non ti dispiacerà se la figlia di quella dama ti dà un'occhiata.»
«Dunque Lilli è qui» mormorò Merodda, accasciandosi nella stretta di
Branoic con le lacrime che le scorrevano silenziose lungo le guance. «Oh,
dèi, è incredibile che la mia stessa figlia mi si sia rivoltata contro! Sì, daga
d'argento, io sono Lady Merodda, o per meglio dire adesso sono soltanto Me-
rodda. una vecchia come qualsiasi altra, dato che non ho più famiglia né clan.
Cosa vuoi da me? Un riscatto? E chi potrà pagarlo? Per favore, lasciami an-
dare. Non posso certo impugnare una spada o cavalcare contro di voi, quindi
cos'è la mia vita per te?»
Branoic allentò istintivamente la propria stretta quando lei si mise a sin-
ghiozzare, ma Maddyn notò che quei singhiozzi erano stranamente privi di
lacrime.
«Abbiamo una domanda da rivolgerti» disse. «Dimmi, ti ricordi di un uo-
mo chiamato Aethan? Molto tempo fa cavalcava per tuo fratello.»
«Oh, Dea!» esclamò Merodda, fissandolo per un lungo momento. «È qui
anche lui?»
«No, è morto da molti anni e tutto per causa tua, perché tu lo hai coperto di
vergogna e gli hai rubato l'onore mentre tuo fratello per poco non gli ha ruba-
to la vita quando lo ha fatto frustare nel cortile. È per quello che hai fatto a lui
che adesso finirai impiccata. Branoic, portiamola dal re.»
Maddyn si aspettava che Merodda gli imprecasse contro o arrivasse a spu-
targli addosso come una contadina, ma quella piccola cagna sfrontata si limi-
tò a continuare a fissarlo con occhi svuotati di qualsiasi emozione. Quando
poi Branoic le assestò una leggera spinta, Merodda si incamminò a testa alta
e si lasciò condurre al cospetto di Maryn per essere sottoposta alla sua giusti-
zia.

Nella grande sala di Dun Deverry il Principe Maryn aveva appena finito di
occuparsi dei prigionieri di nobile nascita e stava ora tenendo una corte im-
provvisata mentre i servi versavano per nobili e cavalieri in pari misura il si-
dro del suo predecessore. Pur essendosi seduto alla tavola reale, per onorare i
dettami del Grande Bel aveva scelto un posto alla destra del seggio reale,
vuoto tranne che per i cuscini ancora ammucchiati su di esso, e i nobili sede-
vano tutt'intorno a lui, Anasyn al posto di suo padre, mentre sparsi per la sala
i soldati ridevano e scherzavano con le serve che versavano loro il sidro del-
l'imprigionato Olaen.
In mezzo a quel chiasso Nevyn stava pensando al re-bambino e a come fare
per salvargli la vita nonostante tutto, dato che la sola soluzione alternativa of-
ferta dalle leggi era aspra quasi quanto la morte stessa e prevedeva di castrar-
lo o di accecarlo in modo che non fosse degno di regnare sulla base di antichi
precedenti, per poi consegnarlo ai preti di Bel perché lo allevassero come uno
di loro. Forse sarebbe stato meglio lasciare che Oggyn potesse averla vinta e
che il bambino venisse soffocato nel modo più indolore possibile, per permet-
tergli di incominciare una nuova incarnazione in circostanze che si sperava
sarebbero state migliori, ma d'altro canto era così giovane, ad appena cinque
anni di età... quel pensiero rifiutava di abbandonarlo, anche nel conforto della
vittoria.
Di lì a poco però Nevyn venne distolto dalle sue riflessioni da un evento
che avrebbe preferito non si fosse verificato. Vicino alla porta qualcuno gridò
e qualcun altro scoppiò in una risata soddisfatta, poi Maddyn e Branoic ven-
nero avanti sospingendo davanti a loro una donna bionda che era vestita co-
me una serva con uno sporco abito grigio e marrone e camminava come se
fosse stata già morta, con la testa alta ma gli occhi vacui e fissi nel nulla, fra
le beffe dei soldati di Maryn e dei servi che fino al giorno prima erano stati
agli ordini del precedente re.
«Bene! Hanno preso quella sgualdrina, lei e i suoi veleni» sentì borbottare
Nevyn a una serva, e comprese allora che la prigioniera doveva essere Lady
Merodda.
Finalmente! Adesso sarebbe riuscito in qualche modo a strapparle la verità.
Sulla scia di quelle riflessioni, il vecchio si guardò intorno alla ricerca di Lilli
ma non la scorse da nessuna parte.
«Tu!» chiamò, indicando la serva che aveva parlato. «Ci sono un paio di
monete di rame per te se vai a cercare Lady Lillorigga e l'accompagni qui.»
«Subito, mio signore» rispose la ragazza con una riverenza, e si allontanò
in tutta fretta verso la scala dalla parte opposta della grande sala.
Alzatosi in piedi, Anasyn si affrettò a seguire la serva, ma pur accorgendo-
sene Nevyn non ebbe il tempo di chiedersi il perché di quel comportamento.
Tornando a voltarsi verso Merodda, prese quindi a studiarla con attenzione,
chiedendosi se lei sarebbe stata disposta a rivelargli il segreto della tavoletta
con la maledizione e decidendo che molto probabilmente avrebbe dovuto of-
frirle qualcosa in cambio. Intanto i suoi catturatori costrinsero Merodda a in-
ginocchiarsi ai piedi di Maryn, che si volse a fissarla con una certa sorpresa.
«Cosa significa questo, daghe d'argento?» chiese.
«Mio signore, ti posso presentare Lady Merodda del Cinghiale?» replicò
Maddyn, inchinandosi.
«Oh, capisco! Una preda importante, dunque. Vi ringrazio.»
Quando Maryn si alzò, torreggiando su di lei, Merodda continuò a fissare il
pavimento senza muoversi né parlare, pallida ma all'apparenza assolutamente
calma e composta, il ritratto di qualcuno che aveva abbandonato ogni speran-
za. Maddyn, d'altro canto, pareva ribollire di rabbia come un boccale da cui
la birra stesse per fuoriuscire, tremante e con i pugni serrati, un atteggiamento
che allarmò Nevyn abbastanza da indurlo ad alzarsi in piedi a sua volta.
«Lady Merodda» esordì Maryn, «sarai posta sotto sorveglianza nelle tue
stanze e ti suggerisco di cominciare a pregare la Dea che voi donne riverite
perché non appena i miei consiglieri avranno preso tutti gli accordi, sarai
condotta a finire i tuoi giorni in uno dei suoi templi.»
«Mio signore, come puoi perdonarla?» ululò Maddyn, e quando Branoic lo
afferrò per un braccio si affrettò ad aggiungere: «Chiedo scusa per la mia
scortesia, mio signore, ma gli dèi mi sono testimoni che se mai è esistita una
donna malvagia, quella è lei! Mi rode l'anima pensare che possa finire i suoi
giorni in tutta tranquillità.»
«Sarà praticamente imprigionata» intervenne Nevyn, avvicinandosi al re.
«Dubito che una cosa del genere le farà piacere.»
Maddyn scosse il capo con la veemenza di un cane bagnato che cercasse di
asciugarsi, mentre nella grande sala cavalieri e servi in pari misura si accal-
cavano intorno in cerchio per ascoltare e guardare.
«Lui sta pensando ad Aethan, mio signore» spiegò Branoic, rivolto a
Nevyn. «Ricorderai anche tu come è morto.»
Nel sentir quel nome Merodda mutò espressione: rapida come un uccello,
una smorfia di angoscia le contrasse il volto e scomparve.
«Anch'io mi ricordo di Aethan» affermò il Principe Maryn. «È questa la
donna che...»
«È lei, mio signore» lo interruppe Maddyn. «A quel tempo ho pronunciato
un voto di vendetta che ho tenuto sempre chiuso nel mio cuore.»
«In effetti quello che gli ha recato è stato un grave torto» ammise il princi-
pe, poi si concesse una pausa di riflessione e domandò: «Ma dimmi, buon
bardo, cosa vorresti che facessi? È una donna, per di più avanti negli anni, e
non ha mai sollevato una spada contro di me. Per gli dèi, se ho risparmiato la
vita a Nantyn come posso non fare lo stesso con lei?»
«Mio signore! Tutti sanno che ha avvelenato delle persone e svolto opere
di stregoneria!»
«Davvero? Lady Merodda, devi avere qualcosa da ribattere a queste accu-
se.»
Merodda sollevò il capo e fissò prima il bardo, poi il re.
«Varrebbe la pena di consumare del fiato per rispondere?» ribatté, con vo-
ce salda ma stranamente piatta. «Tutto ciò che ho sempre onorato e amato è
morto e perduto, Principe Maryn. Uccidimi pure, se così ti aggrada.»
«Nessuna morte mi fa piacere, mia signora.»
Merodda si appoggiò all'indietro sui talloni e lo fissò con un accenno di
bagliore vitale nello sguardo.
«Mi pare che tu stia dicendo il vero» affermò infine, «e questa è una cosa
incredibile, in un nobile.»
Di nuovo Maddyn si scrollò come un cane bagnato e quando Nevyn allun-
gò una mano per sorreggerlo la respinse con violenza, tremante e pallidissimo
in volto nel fissare la donna che aveva odiato per vent'anni.
«Le accuse che mi vengono mosse sono abbastanza esatte» proseguì intan-
to Merodda, «anche se ho avvelenato soltanto una donna e poi me ne sono
amaramente pentita nel vedere la morte orribile che ha fatto. Tu quanti uomi-
ni hai ucciso, Principe Maryn? Di quante morti è responsabile ogni uomo che
si trova in questa sala? Una sola morte da me causata è una cosa tanto grave
paragonata a tutti gli uccisi che ho visto giacere nel cortile e sotto le mura?»
Il Principe Maryn s'irrigidì.
«Quanto alla stregoneria, mio principe, sai cosa significhi per una donna
nascere in un clan come quello del Cinghiale? Sai cosa si provi a essere pas-
sata da un marito al successivo per decreto di tuo fratello senza che nessuno
pensi mai a quello che tu potresti volere? Sai cosa voglia dire aspettare men-
tre l'uomo per cui vivi va in guerra, senza sapere se vivrà o morirà? O cosa
significhi umiliarsi per ottenere qualche avanzo quando ai tuoi fratelli spetta
tutto il banchetto? Lo sai, mio principe? Io credo di no, e penso che potrem-
mo parlare tutto il giorno senza che io riesca a farti capire perché mi sono ri-
volta agli incantesimi e alle visioni per il bisogno di avere una piccola cosa
che fosse soltanto mia.»
Nella grande sala tutti stavano tacendo per ascoltare e Nevyn in particolare
si stava sentendo lacerato a metà dalle parole di Merodda. Meglio di chiun-
que altro lui sapeva quanto quella donna fosse corrotta e crudele ma del resto
chiunque fra loro era migliore di lei quanto bastava per poterla giudicare? Lui
stesso non aveva forse fatto ricorso al proprio dweomer per porre il re sul suo
trono e così facendo aveva interferito nella vita di migliaia di persone? I suoi
presagi e i suoi incantesimi non avevano forse causato la morte di innumere-
voli persone per favorire la causa del re? Quando infine Maryn guardò verso
di lui in cerca di un consiglio, Nevyn mosse in silenzio le labbra a formulare
una sola parola: misericordia.
«Le tue parole contengono una notevole dose di verità, mia signora,» af-
fermò allora Maryn. «Se fossi nata uomo saresti stata uno splendido consi-
gliere per un re ed è indubbio che tu abbia perorato molto bene il tuo caso,
pur essendo una donna.»
«Mio signore!» gridò Maddyn, con una vibrante nota di dolore nella voce
ben addestrata.
«Tu!» esclamò Merodda, balzando in piedi e girandosi di scatto a fronteg-
giarlo. «Tu che dici di essere stato amico di Aethan! Io lo amavo, per gli dèi,
e sarei fuggita con lui, ma mio fratello ci ha scoperti e ho creduto che ci a-
vrebbe uccisi entrambi. Io ero una piccola pietra nel suo gioco di carnoic, una
vedova che poteva dare in moglie per ottenere un'alleanza o prevenire una ri-
bellione, ed ecco che avevo osato sminuire il mio valore legandomi a un co-
mune cavaliere. Cosa avrei potuto fare?»
«Stai mentendo!» ringhiò Maryn. «Aethan mi ha raccontato questa storia, e
non è andata come tu dici.»
«Come poteva sapere lui quello che mio fratello...»
«Oh, taci, sgualdrina!» la interruppe Maddyn, poi si volse verso Maryn e
aggiunse: «Merita la morte.»
Con fare deciso Nevyn si parò allora davanti al bardo e lo costrinse a indie-
treggiare, poi si volse di scatto verso la folla nel sentire una voce femminile
emettere un lungo gemito di angoscia, pensando che si trattasse di Lilli. La
donna che stava piangendo era però una sconosciuta... segno che se non altro
Merodda aveva almeno un'amica nella fortezza... e Lilli non si vedeva da
nessuna parte. Perplesso, Nevyn girò lentamente su se stesso, scrutando la
folla, e alla fine scorse la ragazza ferma a metà della scala, inespressiva in
volto quanto sua madre, con il Tieryn Anasyn che si parava dietro di lei e le
teneva le mani sulle spalle.
«Qualcuno vuole parlare in favore di Lady Merodda?» chiese Maryn.
Sulla scala Lilli accennò a farsi avanti, ma Anasyn l'afferrò e la trasse in-
dietro, parlandole con fare concitato; accorgendosene, Nevyn attirò l'atten-
zione di Maryn su quanto stava succedendo.
«Tieryn Anasyn!» chiamò il principe. «Lascia che la tua sorella adottiva
venga avanti.»
Con un sommesso e diffuso mormorio, la folla che si era raccolta nella
grande sala si aprì per permettere il passaggio del nobile e di Lilli, che proce-
deva composta in volto e a testa alta anche se stava tremando visibilmente.
Arrivata davanti al principe, gli rivolse una riverenza senza guardare verso
sua madre e accennò a parlare, ma subito Anasyn la prevenne.
«Mio principe» disse, «Merodda ha fatto assassinare mia madre. Aggiungo
la mia voce a quella della daga d'argento.»
Di nuovo Lilli cercò di parlare, ma questa volta fu Maryn stesso ad antici-
parla.
«Ti ringrazio, Tieryn Anasyn» replicò. «Con tutto quello che è successo,
me ne ero dimenticato.»
«Mio signore» interloquì Nevyn, decidendo che era venuto il momento di
intervenire, «posso capire il desiderio del tieryn di vendicare sua madre e
quello del bardo di avere vendetta per il suo amico, ma ti chiedo comunque di
risparmiare questa donna per motivi che ti risulteranno chiari in seguito.»
Il principe esitò, riflettendo; quanto a Lilli, pareva aver rinunciato a cercare
di parlare e si stava appoggiando al fratello adottivo come se fosse stata trop-
po spossata per reggersi in piedi da sola. Poi Maddyn emise un'imprecazione
e spinse da parte Nevyn, che ancora gli si parava dinanzi per venire avanti a
grandi passi.
«Mio signore» esclamò, «non molto tempo fa mi hai concesso un premio,
dicendomi che avrei potuto avere qualsiasi cosa avessi chiesto. Io ti chiedo la
vita di questa donna, perché sia impiccata come merita.»
«Maddo! Non farlo!» gridò Nevyn.
«Invece lo farò, dannazione a tutto!» ribatté Maddyn, lasciandosi cadere in
ginocchio davanti a Maryn. «Mio signore, ti chiedo ora il premio che mi hai
concesso.»
«Per tutti gli dèi!» gridò Maryn, in tono contrariato. «Io intendevo elargirti
qualcosa di glorioso, non questo!»
«Eppure, mio signore, questo è il premio che ti chiedo, e perché nessun
uomo possa accusarti di nulla, che si sappia che è stata la mia richiesta a pro-
vocare l'impiccagione di costei. Che il tuo scriba lo inserisca nella sentenza.»
«Così sia» si arrese il principe. «Lady Lillorigga, mi duole il cuore dirti
questo dopo tutto quello che hai fatto per me, ma non posso negare a que-
st'uomo un premio che gli ho promesso davanti agli dèi e ai miei vassalli.
Spero e prego che tu lo capisca.»
L'unica risposta di Lilli fu un tremito convulso, e lei non parve neppure ac-
corgersi del braccio di Anasyn che le cingeva fraternamente le spalle. Scoc-
cando un'occhiata impotente in direzione di Nevyn, il principe sollevò intanto
le mani con il palmo verso l'alto.
«Così sia» ripeté. «Lady Merodda del Cinghiale, domani a mezzogiorno
nel cortile sarai impiccata per il collo fino a che morte non sopravvenga.
Guardie!» chiamò quindi, guardandosi intorno. «Portatela via.»
Merodda levò in alto le braccia come in un'invocazione agli dèi, poi le la-
sciò ricadere lungo i fianchi e degnò appena di un'occhiata le guardie che le
avevano afferrato le braccia, lasciandosi scortare fuori della sala con lo
sguardo fisso davanti a sé. Lilli intanto scoppiò in singhiozzi fra le braccia di
Anasyn, piangendo tanto per Lady Bevyan quanto per sua madre, e Maddyn
si rialzò in piedi inchinandosi profondamente al principe.
«Ti sono umilmente grato, mio signore» disse, con uno spaventoso sorriso.
«Glorificherò in eterno il tuo nome per questo.»
Il principe rispose soltanto con un cenno del capo. Segnalato con un gesto a
Branoic di seguirlo, Maddyn si congedò con un ultimo inchino; per un mo-
mento Maryn indugiò a guardarlo andarsi a sedere con le ultime daghe d'ar-
gento superstiti, poi si girò verso Nevyn.
«Tutti gli dèi mi sono testimoni che spero di aver fatto la cosa giusta.»
«Hai fatto la sola cosa che potevi fare, mio signore» rispose Nevyn. «Quale
che possa essere, il Wyrd che nascerà da tutto questo ricadrà sulla testa di
Maddyn, non sulla tua.»
Poi girò sui tacchi e si affrettò a seguire le guardie. Esse stavano scortando
Merodda attraverso il cortile e verso una delle rocche laterali, e a giudicare
dalla folla che la derideva e insultava al suo passaggio pareva che parecchi
fra i servitori dello spodestato re l'avessero odiata; orgogliosa, a testa alta, lei
procedeva però con lo sguardo fisso sulla torre che aveva davanti, senza cu-
rarsi di altro. Nevyn si tenne alle spalle delle guardie fino a quando esse non
ebbero condotto Merodda nella torre, poi le raggiunse ai piedi della scala e
per fortuna venne subito riconosciuto da uno dei soldati.
«Vorrei parlare con questa dama, da solo» disse Nevyn.
«Certamente, mio signore» assentì il soldato. «Qui c'è una stanza vuota. Ti
aspetteremo fuori, nel caso che dovessi aver bisogno di noi.»
Nevyn attese che i soldati spingessero nella stanza la prigioniera, poi entrò
a sua volta, chiuse la pesante porta e si appoggiò contro di essa; Merodda dal
canto suo degnò appena di un'occhiata i pezzi di mobilio infranto sparsi per la
stanza e accentrò subito l'attenzione su di lui.
«Chi sei, vecchio?» chiese.
«Il maestro di Brour.»
Merodda sollevò la testa di scatto e indietreggiò di un passo.
«Infatti» sorrise Nevyn. «Vedi, io ne capisco molto più del principe in me-
rito alla cosiddetta "stregoneria" che si suppone tu praticassi, mia signora.»
«Cosa vuoi da me?»
«Che tu risponda a una domanda. Se mi dirai quello che voglio sapere ti
prometto che farò del mio meglio per aiutarti a fuggire. Tuo nipote Braemys
si è salvato con alcuni uomini e si trova senza dubbio a Cantrae, in attesa di
poter trattare da una posizione di forza, quindi avrai dove andare e io ti posso
procurare un buon cavallo e provviste sufficienti per il viaggio.»
«Capisco» mormorò Merodda, mentre il suo sguardo tornava ad animarsi
di vita. «Sei pronto a giurare che mi tirerai fuori di qui se ti dirò quello che
vuoi sapere?»
«Sono pronto a giurare sul dweomer stesso, e scommetto che Brour ti ha
spiegato cosa questo significhi.»
«Sentiamo la tua domanda.»
«Molti anni fa, quando Maryn era ancora principe di Pyrdon, un tuo servi-
tore ha creato un incantesimo malvagio. Si tratta di una tavoletta di piombo
su cui sono intagliate parole che risalgono all'Alba dei Tempi. Cosa signifi-
cano? E come posso annullare l'incantesimo?»
«Non lo so.»
«Stai mentendo.»
«Perché dovrei?» replicò Merodda, scrollando il capo e distogliendo lo
sguardo con la bocca contratta in un'espressione dolorosa. «Perché fra tutte le
cose che potevi chiedermi hai dovuto scegliere proprio questa?»
«Avanti, dimmelo» insistette Nevyn, addolcendo il tono della voce. «Che
t'importa, ormai? Dopo tutto, l'incantesimo ha fallito il suo scopo.»
«Adesso sei tu che menti» ribatté Merodda, prendendo a camminare avanti
e indietro con la bocca contratta in una smorfia nervosa. «Se pensassi che
quel dweomer si fosse esaurito e che avesse finito di nuocere, non saresti qui
a interrogarmi.»
«È vero, lo ammetto.»
Merodda si arrestò e si girò a fronteggiarlo.
«Sono pronta a dirti qualsiasi cosa, ma non questo. Non questo! La Dea
Oscura stessa mi è testimone che preferisco morire, piuttosto che annullare
quell'incantesimo. O forse intendi farmi torturare? Fa' come credi, tanto non
mi spezzerai.»
«Non userei mai la tortura, neppure per una cosa tanto importante.»
Merodda accennò a ribattere, la bocca contratta in un sogghigno, ma poi si
bloccò.
«E non permetterei neppure altri di fare una cosa del genere» proseguì
Nevyn, mantenendo un tono pacato. «Il dweomer della Luce non lo permette-
rebbe mai. Per favore, dimmi quello che ti chiedo e io ti proteggerò, indipen-
dentemente da ciò che può aver deciso o promesso il principe.»
Merodda lo scrutò in volto come se cercasse di capire fino a che punto fos-
se sincero e per un momento Nevyn pensò di averla convinta nel vedere
qualcosa di simile alla fiducia che le affiorava nello sguardo; poi però lei
scosse il capo e indietreggiò di un passo.
«Il tuo principe ha avuto la sua dannata vittoria» disse. «L'uomo che mi
amava giace morto e anche se riuscissi a fuggire, con il giudizio del principe
che mi grava sulla testa finirei per dover implorare asilo in qualche tempio. Il
mio clan è morto, il mio re in prigione, e tu e il tuo prezioso principe mi avete
tolto tutto, perfino mia figlia.» A quel punto la voce le si incrinò, ma lei fece
una pausa e concluse, in tono più saldo: «Ebbene, non mi toglierai anche la
mia vendetta! Preferisco essere impiccata che rinunciarvi.»
«Allora si tratta di vendetta?»
Imprecando Merodda gli volse le spalle, serrando i pugni con tanta forza da
far sbiancare le dita. Con calma, Nevyn la aggirò in modo da tornare a fron-
teggiarla.
«Mia signora, hai commesso un errore! Adesso comincio a capire di cosa si
tratta. Il neonato morto seppellito con la tavoletta... l'incantesimo aveva lo
scopo di rovinare l'inizio di tutto, vero? La sua vittoria, il suo regno avrebbe-
ro dovuto essere avvelenati dal principio! Mi hai già detto molto, per quanto
astuta tu creda di essere!»
«Davvero, vecchio?» ribatté Merodda, con un sorriso compiaciuto, sputan-
do per terra ai suoi piedi. «Allora ferma l'incantesimo, se puoi!»
«Guardie!» esclamò Nevyn, volgendole le spalle. «Venite a prenderla!»
Tolta la sbarra alla porta la spalancò e subito i soldati si affrettarono a en-
trare per prendere in consegna Merodda, che nell'andare loro incontro scop-
piò in una risata.
Quando tornò nella grande sala, Nevyn fu aggredito come da un colpo fisi-
co dalla vista del seggio vuoto del Sommo Re accanto al posto dove sedeva
Maryn. Non c'era da meravigliarsi che fosse stato impossibile trovare una
giumenta bianca! La maledizione di Merodda aveva già iniziato la sua opera.
Era ormai sera inoltrata quando infine Nevyn ebbe l'occasione di parlare
con Maddyn. Dopo averlo cercato per tutta la fortezza, si recò all'accampa-
mento sul fianco della collina e trovò l'area in cui le daghe d'argento avevano
piantato le loro tende; Maddyn era seduto là davanti a un piccolo fuoco acce-
so all'aperto e stava suonando con la sua arpa un assortimento di melodie
mentre tutt'intorno a lui i membri del Popolo Fatato saltavano e danzavano
come lingue di fiamma. Quando Nevyn gli sedette accanto su un ceppo,
Maddyn lasciò che la sua musica si spegnesse nel silenzio.
«Sei venuto a rimproverarmi? Perché ho fatto in modo che il re schiaccias-
se una vipera?» chiese.
«No, perché dubito che mi daresti ascolto» rispose Nevyn.
«Bene, per gli dèi!» esclamò Maddyn, calando la mano aperta sulle corde
dell'arpa da cui si levò un suono discorde. «Che sorta di uomo sarei se non
vendicassi il mio amico?»
«Non lo so.»
«E poi c'è anche la madre adottiva di Lilli. Merodda l'ha fatta macellare
come un maiale.»
«È vero, ma dubito che tu oggi abbia pensato a Lady Bevyan.»
«E con questo? Voglio Merodda morta. Domani ho intenzione di essere
presente in mezzo alla folla e riderò quando il boia la spingerà nel vuoto. Co-
sì Aethan avrà finalmente pace nell'Aldilà.»
Nevyn si limitò a sospirare, fissando un ceppo che proprio in quel momen-
to finì di consumarsi e si disintegrò, proiettando verso il cielo nero una lunga
colonna di fiamma.
Cosa gli posso dire? pensò fra sé. Come posso spiegargli cosa ha fatto
senza sfiorare il grande segreto, e cioè che ogni anima umana vive molte vite
e non una sola?
Senza dubbio Aethan era rinato già da tempo, come sarebbe successo an-
che a Merodda e a Maddyn, solo che adesso la catena del Wyrd li avrebbe le-
gati uno all'altra, che lo volessero o meno.

Su richiesta di Lillì, uno dei paggi di Maryn le disse dove era stata impri-
gionata Lady Merodda, in una stanza vera e propria di una rocca laterale in-
vece che nella prigione comune, un piccolo segno di rispetto dovuto alla sua
nobile nascita; munita di qualche moneta con cui eventualmente corrompere
le guardie, Lilli si recò nella torre, ma uno dei soldati fermi davanti alla porta,
un uomo robusto con i capelli brizzolati, la riconobbe.
«È la figlia della dama» disse agli altri. «Non mi pare che ci sia nulla di
male nel concederle di dire addio a sua madre.»
I suoi compagni annuirono e uno di essi sollevò la pesante sbarra mentre
l'altro apriva la porta di una fessura per permettere a Lilli di entrare.
Merodda sedeva su uno stretto letto, poco più di un materasso di paglia su
cui era stesa una coperta, e alla luce incerta di una singola candela non sem-
brava più vecchia di sua figlia, con i capelli biondi che le ricadevano sciolti e
arruffati sulle spalle. Una volta dentro Lilli sentì il respiro che le si faceva af-
fannoso, mentre Merodda si limitò a fissarla con occhi indecifrabili.
«Perché sei qui?» chiese infine.
«Non lo so, ma dovevo venire» rispose Lilli.
Sospirando, Merodda si appoggiò alla parete.
«Vuoi che me ne vada?» aggiunse intanto Lilli.
«No. C'è una cosa che mi stavo chiedendo: avresti parlato in mia difesa, se
Anasyn te lo avesse permesso?»
Lilli sentì il cuore darle un sobbalzo nel petto.
«Mi sentivo divisa, a causa di Bevva.»
«Ah. Quindi non avresti parlato.»
«Non lo so, e comunque era già troppo tardi» rispose Lilli, con voce che
suonò soffocata e tremante. «E poi c'è anche Brour: è morto, vero? Tu lo hai
fatto uccidere.»
«Non io ma Burcan. Quella è stata opera sua» rispose Merodda, alzandosi a
fronteggiarla. «E comunque tu sei l'ultima che dovrebbe lanciare accuse, con-
siderato che hai tradito la tua famiglia e il tuo clan! Che cosa hai detto al tuo
prezioso Principe Maryn? Dove si trovano le porte della fortezza? Quanti
uomini avevamo? Si deve essere trattato di qualcosa del genere, dato che l'ho
sentito parlare di quello che hai fatto per lui. Piccola cagna traditrice!»
Lilli indietreggiò e si venne a trovare con le spalle contro la porta.
«Piccola sgualdrina!» continuò Merodda, con voce ringhiante. «Rimpiango
il giorno in cui ti ho generata e vorrei averti soffocata con le tue stesse fasce.
Hai tradito tua madre e il tuo clan.»
«Oh, davvero? Il Cinghiale non è mai stato il mio clan!»
«E con questo cosa vorresti dire?»
«Mi hai data via, giusto? Bevva è stata la mia vera madre, non tu, e quando
l'hai uccisa, mi hai data via di nuovo. Che cosa ti devo? Soltanto infelicità. E
comunque se mio padre fosse vissuto sarei appartenuta al suo clan.»
«Oh, davvero?» esclamò Merodda, scoppiando in una piccola e fredda risa-
ta. «Ne sei proprio certa?»
«In ogni caso adesso non ha importanza» tagliò corto Lilli, infine consape-
vole del motivo che l'aveva indotta a recarsi lì, di cosa voleva davvero sapere.
«Perché hai fatto uccidere Bevva? Perché?»
«Non ha importanza... oppure sì? Tu avresti ereditato le terre di Garedd,
solo che lui non era tuo padre. Ho mentito per tutta la durata della tua vita,
mia piccola e preziosa figlia, ho mentito per darti qualcosa che non ti spettava
di diritto. Tu sei una bastarda, mia bella Lillorigga! Puoi andare a dire anche
questo al tuo prezioso principe!»
Lilli si addossò alla porta con un sussulto e Merodda le si avvicinò ulte-
riormente con una risata.
«Allora, che te ne pare di questa notizia?» continuò. «La tua carissima Be-
vyan aveva intuito la verità, quindi l'ho messa a tacere prima che potesse co-
prirti di vergogna e privarti della tua eredità.»
«Non lo avrebbe fatto. Bevva non mi avrebbe mai fatto del male.»
«Ah, ne sei certa? Io non lo sono.»
Lilli si costrinse a sollevare il capo e a fissare sua madre alla luce incerta
della candela, dicendosi che non era vero, che non poteva esserlo! Al tempo
stesso però un flusso di ricordi le stava affiorando nella mente, minacciando
di sopraffarla... piccoli commenti sentiti per caso, l'espressione che appariva
su qualche volto quando veniva menzionata la sua eredità, pettegolezzi rela-
tivi all'onore macchiato di sua madre. Goccia a goccia, quel flusso si trasfor-
mò in un'onda di marea.
«Chi è allora mio padre?» chiese, con voce ridotta a un sussurro.
«E perché mai dovrei dirtelo? Presto sarò morta e tu non lo saprai mai.»
«Mi va benissimo. Senza dubbio ti devo un po' di tormento per ricambiare
quello che mi hai inflitto.»
Nel vedere l'ira affiorare sul volto di sua madre, Lilli comprese che lei si
era aspettata si sentirla supplicare e implorare.
«Addio, madre» disse. «Ora ti lascio, visto che non riesci a sopportare la
mia vista.»
E si girò, protendendo una mano verso la porta.
«Aspetta!» ingiunse però Merodda, in tono secco.
Suo malgrado Lilli tornò a voltarsi.
«Ripensa a tuo zio, Lilli. Senza dubbio avrai sentito dei pettegolezzi sul
suo conto e sul mio.»
«Non li ho mai ascoltati perché sapevo che erano dettati dall'invidia.»
«Oh, in effetti mi invidiavano, ma quei pettegolezzi avevano un fondo ef-
fettivo di verità. Sei due volte maledetta, mia figlia bastarda. Burcan era tuo
padre... tuo zio, mio fratello. Il suo amore è stata la sola cosa buona che gli
dèi mi abbiano mai dato nella vita e sarei stata una stolta a gettarlo via.»
«Stai mentendo!»
«Invece no!» ribatté Merodda, che alla vista particolare che il dweomer le
donava parve a Lilli grondare veleno. «È la pura verità. Quando si è deciso
che avresti sposato Braemys non hai sentito tutte le vecchie comari della for-
tezza che prendevano a borbottare e a mormorare? Devi averle udite chieder-
si se ti stavo dando in moglie a tuo fratello. Tu eri doppiamente un Cinghiale,
Lilli, eri figlia del tuo clan quanto più può esserlo una donna.»
Con un urlo Lilli si girò e calò il pugno contro la porta. Subito una guardia
aprì il battente dal lato opposto e nell'oltrepassare la soglia lei sentì nella
stanza sua madre scoppiare in una lunga risata isterica.
«Suvvia» la consolò la guardia. «Non so cosa ti abbia detto, ragazza, ma ri-
corda che è fuori di sé. Fra un po' rammenterai di lei soltanto le cose buone,
vedrai.»
Scoppiando in singhiozzi, Lilli spiccò la corsa lungo il corridoio e scese le
scale così in fretta che rischiò di cadere e di precedere sua madre nelle Terre
dell'Aldilà. Una volta fuori si arrestò per un momento nel centro del cortile
fino a quando non ritrovò in certa misura il controllo.
«Non è vero. Non può esserlo» mormorò.
Mentre parlava la marea dei ricordi sorse però a sopraffarla e lei rammentò
come Burcan l'avesse difesa da Tibryn, offrendo della terra per tenerla al si-
curo.
«Bevva!» urlò, in preda a una disperazione così grande da dare l'impres-
sione di poter svegliare davvero i morti. «Bevva, Bevva!»
Annaspando e incespicando riprese a correre alla cieca attraverso il cortile,
trovò le porte per pura fortuna e continuò la corsa fino a quando il bruciore ai
polmoni non la costrinse a fermarsi; affannata, senza fiato, si appoggiò a un
freddo muro di pietra e si guardò intorno, scoprendo di essere finita nel corti-
le principale in cui sorgeva la rocca reale; al suo interno la luce delle torce
filtrava dalle finestre e si sentivano uomini che cantavano e ridevano.
Quando sgusciò all'interno, quanti si trovavano nella grande sala erano
troppo ubriachi per accorgersi di lei e poté salire le scale senza essere vista,
trovare la sua camera e gettarsi sul letto, dove il sonno la sopraffece all'istan-
te.

«Mio signore! Mio signore Nevyn!» gridò una voce proveniente dal buio
dell'esterno. «Sei lì dentro?»
Constatando che chi gridava stava anche agitando il telo di ingresso della
tenda, Nevyn si sollevò a sedere e gettò indietro le coperte.
«Sono qui!» rispose. «Chi è?»
«Mi manda Caudyr. Il falso re sta morendo!»
Infilatosi calzoni e stivali, Nevyn afferrò la camicia e uscì di corsa dalla
tenda dove trovò ad attenderlo il servitore... poco più che un ragazzo... muni-
to di lanterna che lo precedette su per la collina. Arrivato alla porta della roc-
ca reale, Nevyn si arrestò per un momento e si infilò la camicia.
«Dove sono Caudyr e il bambino?»
«Nelle camere del falso re. Il Principe Maryn lo ha fatto mettere sotto sor-
veglianza.»
Non appena aprì la porta dell'appartamento reale, Nevyn avvertì un odore
di vomito che aveva uno strano puzzo amaro e si precipitò subito nella came-
ra da letto, che era illuminata a giorno dalle lanterne. Il re-bambino giaceva
sul suo letto con accanto il solito cavallo di legno, mentre Caudyr era in piedi
vicino a un tavolo su cui erano sparsi pacchetti di erbe e di medicinali. Con-
statando che anche quella stanza puzzava di vomito e di escrementi, Nevyn
raggiunse in due passi le finestre e ne spalancò le imposte.
«Cos'hai fatto per lui?» chiese quindi.
«Gli ho somministrato grandi quantità di acqua salata. Dato che continuava
a vomitare, ho cercato di pulirgli i visceri.»
Accostatosi al letto Nevyn posò una mano sul volto del bambino, consta-
tando che era freddo e umido e che la pelle aveva una sfumatura grigiastra;
nel sentirsi sfiorare, il piccolo aprì gli occhi per un istante, ma subito tornò a
richiuderli.
«Sangue» osservò Nevyn, notando una macchia di vomito sulla coperta,
accanto alla bocca del bambino. «Sì vede dal colore. Speriamo che sia dovuto
soltanto allo sforzo di vomitare.»
Senza parlare, Caudyr si girò a indicare una bacinella posata per terra, pie-
na di un vomito acquoso misto a molto sangue. Accoccolatosi accanto al pic-
colo, Nevyn lo toccò ancora nella speranza che riaprisse gli occhi perché vo-
leva controllargli le pupille, ma questa volta Olaen non reagì.
«Avanti, ragazzo, guardami» sussurrò Nevyn. «Siamo qui per aiutarti. Apri
gli occhi e guardami.»
Olaen non si mosse però di un millimetro, neppure quando Nevyn provò
delicatamente a scuoterlo e alla fine il vecchio si decise a sollevargli con de-
licatezza una palpebra, scoprendo che la pupilla era molto dilatata anche se
lui sembrava addormentato. Nel sentirlo imprecare sottovoce Caudyr gli si
avvicinò zoppicando.
«È troppo tardi?» chiese.
«Temo di sì. Lo stiamo perdendo.»
Caudyr si lasciò sfuggire un lungo sospiro mentre Nevyn si rialzava e rin-
calzava la coperta intorno alle spalle esili del bambino... un gesto inutile det-
tato dal bisogno di avere l'impressione di fare qualcosa.
«Quando è successo?» chiese poi.
«Una guardia è venuta a chiamarmi poco dopo la mezzanotte» spiegò
Caudyr. «Avevano già cercato i chirurghi ufficiali ma non erano riusciti a
trovarli e alla fine qualcuno aveva pensato a me. Ho preso le mie medicine e
sono accorso più in fretta che potevo.»
«Naturalmente è stato avvelenato.»
«È ovvio. L'ultima persona a vederlo è stata la sua balia. Le guardie mi
hanno detto che gli ha portato una focaccina al miele dalle cucine.»
Guardandosi intorno Nevyn vide per terra in frantumi un piatto di coccio e
quando ne raccolse i pezzi constatò che erano appiccicosi; un pezzo calpesta-
to di focaccia si trovava vicino al tavolo e lui lo raccolse con un frammento
del piatto, ma quando lo annusò non avvertì nulla di inusuale e infine posò il
tutto sul tavolo con una scrollata di spalle.
«Voglio parlare con la balia» disse.
«È di là» rispose Caudyr, indicando una piccola porta nella partizione di
legno. «Ora che ci penso, mi pare strano che non abbia sentito nulla, con tutto
il rumore che stiamo facendo.»
Assalito da un improvviso senso di gelo, Nevyn spalancò la porta ed entrò
nella piccola camera al di là di essa, dove alla luce della lanterna proveniente
dalle sue spalle vide esattamente ciò che aveva temuto di trovare, una donna
di mezz'età che giaceva contorta e morta al suolo vicino a un pagliericcio ar-
ruffato e macchiato di escrementi e di vomito. Nel guardare la scena, Nevyn
suppose che la donna dovesse aver perso il controllo dell'intestino e si fosse
alzata per andare a prendere un pitale, soltanto per accasciarsi subito al suolo
e morire. Inginocchiatosi accanto a lei, le toccò una guancia e constatò che
non era del tutto fredda: se soltanto Caudyr si fosse accorto di lei che giaceva
lì impotente, forse avrebbero potuto salvarla. Scuotendo il capo, Nevyn infine
si rialzò e trovò Caudyr fermo sulla soglia.
«Per gli dèi! Non ho sentito un solo grido né lamento» mormorò il chirur-
go.
«Ha l'aria fragile ed è possibile che il veleno l'abbia uccisa molto in fretta.
Senza dubbio ha assaggiato il dolcetto che qualcuno ha mandato così gentil-
mente al ragazzo.»
Oltrepassato il letto, sul quale Olaen continuava a rimanere del tutto im-
mobile, Nevyn si affacciò alla finestra per respirare un po' di aria pulita.
«Secondo te chi è stato a fare questo?» domandò Caudyr. «Il Consigliere
Oggyn?»
«È una valida supposizione, visto che temeva la propensione di Maryn a
essere misericordioso.»
«E dove credi che quel vecchio porco si sia procurato il veleno?»
«Io non... oh, per gli dèi! Sì, so dove l'ha preso, dalle cose di Lady Merod-
da, che le guardie gli hanno consegnato insieme al mio libro.»
«Dobbiamo andare a parlarne con il principe?»
«Come possiamo farlo? Non abbiamo la minima prova.»
«A che servono le prove?» ribatté Caudyr. «Interroga Oggyn. Tu sei sem-
pre in grado di capire se un uomo sta mentendo, e il principe accetterà la tua
parola al riguardo.»
«E allora? La mia parola non costituisce una prova secondo le leggi. Anche
se mi piacerebbe moltissimo veder vendicata quella povera donna, sarebbe
davvero una cosa grave se per renderle giustizia il principe dovesse infrange-
re le leggi.»
Caudyr lo fissò intensamente per un lungo momento, poi sospirò.
«A volte penso che non riuscirò mai a capirti, pur conoscendoti da così tan-
to tempo» disse.
«Davvero? Ebbene, non si può avere tutto nella vita.»
Olaen non si svegliò più e morì proprio quando nel cielo cominciava ad
apparire il primo chiarore dell'alba. Chiamate le guardie, Nevyn ordinò loro
di convocare i servi perché ripulissero la sporcizia causata dall'avvelenamen-
to e componessero adeguatamente i corpi, poi scese nelle cucine che si trova-
vano dietro la rocca nella speranza di rintracciare i cuochi e di interrogarli.
Al suo arrivo si trovò però nel caos più totale, perché la metà dei servi di
alto rango era fuggita e si era portata dietro i propri utensili, una grave perdita
se si considerava che mannaie, pentole di ferro e altri oggetti del genere ave-
vano raggiunto un prezzo elevato nel regno devastato dalla guerra; adesso i
servi di Maryn stavano cercando di ripristinare l'ordine e di mettere insieme
una colazione di qualche tipo per il principe, i suoi nobili alleati, le guardie, i
consiglieri e la servitù stessa, badando però a tenere anche d'occhio coloro
che un tempo erano stati al servizio del falso re, e il solo guardare la scena
permise a Nevyn di comprendere che nella confusione connessa alla prepara-
zione della cena della sera precedente nessuno poteva essersi accorto di
Oggyn o di un piatto di focacce al miele che era stato portato via.
Sulla scia di quelle riflessioni, Nevyn si rese anche conto del fatto di non
sapere neppure il nome del veleno. Come poteva andare da Maryn con un'ac-
cusa di avvelenamento se non conosceva neppure il nome della sostanza che
era stata usata? Soffermandosi nel centro del cortile, sollevò lo sguardo verso
la torre in cui era imprigionata Lady Merodda e dentro di sé imprecò contro
Maddyn.
Dannato stolto di un bardo, pensò. Ci sono così tante cose che avrei potuto
chiederle se soltanto il principe avesse potuto concederle il perdono! Ci sono
così tante cose che ho bisogno di chiederle...
Con l'occhio della mente poteva vedere infatti con fin troppa chiarezza la
tavoletta di piombo incisa con parole del dweomer oscuro tracciate in una
lingua antica. Cosa significavano? Come poteva renderle innocue? Adesso
Merodda non glielo avrebbe mai detto e in cuor suo lui non si sentiva neppu-
re di biasimarla.
Continuando a riflettere su quel problema trovò poi un'altra possibile solu-
zione, e cioè rivolgersi a Lilli, che forse era stata al corrente del genere di ve-
leni in possesso di sua madre. Si stava dirigendo verso le porte della fortezza
per scendere nell'accampamento quando sentì qualcuno che lo chiamava per
nome e vide una delle serve di Lilli che gli correva incontro.
«Mio signore Nevyn!» esclamò Clodda. «Hai visto la nostra signora?»
«No. Ha lasciato la sua tenda?»
«La scorsa notte non è rientrata e questo ci ha preoccupate moltissimo.
Quando sono venuta a cercarvi, non sono però riuscita a trovare né il Tieryn
Anasyn né te.»
«Bene, adesso hai trovato me. Torna ad aspettare nella tenda mentre io va-
do a cercarla.»
Non appena la ragazza si fu allontanata Nevyn si appoggiò con le spalle a
un muro e guardò verso il cielo, all'apparenza per contemplare le nubi con
occhi distratti, ma in effetti per evocare un'immagine di Lilli. La trovò imme-
diatamente, vestita e seduta all'estremità di un letto in una camera che, a giu-
dicare dal suo aspetto, si doveva trovare ai piani superiori della fortezza prin-
cipale... ma dove? Rientrato nella grande sala, Nevyn rintracciò una delle
serve del precedente regime che sapeva quali fossero state le camere assegna-
te ai membri della famiglia del Cinghiale e che fu ben lieta di indicargliele in
cambio di una moneta di rame.
«Lady Lillorigga aveva la camera più piccola, in fondo al corridoio» preci-
sò.
Quando ebbe trovato la camera Nevyn prese a bussare alla porta e non smi-
se finché Lilli non lo lasciò entrare; quando la vide, in un primo tempo pensò
che si fosse ammalata, perché i capelli le pendevano in ciocche opache intor-
no al volto pallidissimo e gli occhi erano cerchiati di scuro.
«Cosa c'è che non va?» le chiese.
«Io... ho fatto degli incubi orribili» replicò Lilli, lasciandosi cadere seduta
sulla cassapanca posta sotto l'unica, stretta finestra della stanza. Quando il so-
le del mattino le si riflesse sul volto si alzò con un sussulto e dopo essersi
guardata intorno, si sistemò di nuovo ai piedi del letto mentre Nevyn occupa-
va il posto da lei lasciato libero alla finestra.
«Devono essere stati davvero terribili» osservò. «Si è trattato della sorte
che attende tua madre?»
«In parte sì, anche se sono contenta che muoia.»
«A causa di Lady Bevyan?»
Lilli annuì, poi sollevò una mano tremante e cercò di allontanarsi dal volto
una ciocca dei capelli ancora troppo corti per essere raccolti, continuando a
spingerla indietro ogni volta che essa persisteva a ricadere in avanti con u-
n'ossessività che destò in Nevyn il desiderio di urlarle di smettere.
«Cosa ci fai qui?» domandò. «Le tue serve sono preoccupate per te.»
«Oh, dèi! La scorsa notte ero così sconvolta che mi sono rifugiata senza ri-
flettere nella mia vecchia stanza.»
«Lilli, è successo qualcosa di grave, vero?» la pungolò Nevyn, in tono
sommesso.
«Sono andata a parlare con mia madre, e adesso ne sono pentita.»
«Ti ha maledetta?»
«Sì, e mi ha detto... delle cose» ammise Lilli.
«Delle cose?» ripeté Nevyn, cercando di indurla a proseguire.
Lilli però smise infine di armeggiare con i capelli e si serrò le mani in
grembo.
«Mi volevi vedere per qualche motivo?» chiese.
«Infatti» rispose Nevyn, decidendo dopo un attimo di riflessione di aspetta-
re a cercare di farsi dire cosa fosse successo. «Conosci il nome del veleno in
possesso di tua madre?»
«Brour lo chiamava sali dei nani.»
«Come nome non è un granché ma può bastare. Sai come operasse?»
«Bisognava metterlo nel cibo o nelle bevande di qualcuno ed esso agiva
dall'interno, in maniera terribile. La persona moriva con gli stessi sintomi che
vengono dall'aver mangiato carne andata a male o latte acido. Una donna,
Caetha, è morta in questo modo, e tutti hanno detto che mia madre l'aveva
avvelenata perché...»
D'un tratto Lilli s'interruppe, con lo sguardo fisso nel nulla.
«In effetti tua madre ha confessato di aver avvelenato una persona» com-
mentò Nevyn.
«Allora è vero» sussurrò Lilli, parlando prevalentemente a se stessa. «Tutto
indica che è vero.»
«L'avvelenamento?» domandò Nevyn.
Lilli si limitò a fissarlo con un'espressione vacua.
«Cosa c'è che non va?» tornò a ripetere Nevyn. «È evidente che si tratta di
una cosa grave, ed è solo per questo che continuo a insistere.»
«Mia madre» mormorò Lilli, distogliendo il volto e fissando la parete, «mi
ha detto che in realtà sono una bastarda e che mio padre non era suo marito.»
«Ah! Non mi meraviglia che tu sia tanto turbata. Mi dispiace, per te, ragaz-
za, ma non c'è bisogno che nessuno lo venga mai a sapere. Dimmi, non è che
per caso tuo padre fosse Aethan, vero?»
«Vorrei che fosse così» replicò Lilli, poi fece una pausa, come per racco-
gliere le forze, e proseguì: «No, lei mi ha detto che mio padre... che mio pa-
dre era... ecco, era suo fratello, mio zio.»
Nevyn sussultò per la sorpresa e quel suono indusse Lilli a girarsi a guar-
darlo.
«Ho pensato che lo avesse detto soltanto per farmi del male» aggiunse,
«ma tutte le cose che lui ha fatto hanno senso, se era davvero mio padre.»
«Capisco. In ogni caso tu non hai commesso nessun crimine, bambina, per-
ché non eri certo presente al tuo concepimento.»
Lilli però respinse con una scrollata di spalle quelle parole di conforto, per-
ché senza dubbio stava pensando a quello che la gente diceva dei figli nati da
un incesto, e cioè che erano maledetti dagli dèi e condannati a morire anzi-
tempo. La sua lunga esperienza aveva peraltro dimostrato a Nevyn che tutti
quei detti non erano veri e lui stava cercando il modo di rassicurare la ragazza
quando lei lanciò un urlo improvviso che era quasi un singhiozzo.
«Mezzogiorno è vicino» sussurrò. «Presto la impiccheranno.»
«Infatti. Non andare ad assistere.»
«Non voglio farlo. Puoi rimanere qui finché non l'avranno giustiziata?»
«Certamente. Ho il sospetto che avvertirai quando sarà tutto finito.»
Lilli annuì e riprese a tormentarsi i capelli mentre Nevyn si appoggiava alla
finestra e si girava un poco per guardare fuori: da lassù però tutto quello che
si vedeva erano le torri e una striscia di terreno coperto di acciottolato... do-
vunque fosse, il luogo in cui avrebbero impiccato Merodda era misericordio-
samente lontano da lì. Se soltanto avesse potuto offrirle il perdono, forse lei
gli avrebbe rivelato il segreto della tavoletta in cambio di una vita che le
permettesse di conservare la libertà e il suo rango, ma Maddyn non si sarebbe
mai lasciato convincere a rinunciare alla sua vendetta.
«Hai l'aria turbata» osservò Lilli.
«Lo so. Tua madre ha assassinato due donne che non hanno avuto modo di
difendersi e ha intessuto un dweomer innominabile contro il nostro principe,
e tuttavia avrei preferito che le fosse risparmiata la vita.»
«Anch'io» confessò Lilli, scoppiando a piangere. «Oh, dèi, anch'io!»

«Avanti, vieni, è ora di andare» disse Maddyn.


«Andare dove?» replicò Branoic.
«Ad assistere all'impiccagione di Merodda.»
«Io non voglio venire.»
«Cosa? Che ti prende?»
Branoic non rispose e si limitò a scrollare le spalle, perché questa era una
di quelle occasioni in cui non riusciva a capire se stesso. Dopo tutto, avrebbe
dovuto desiderare di assistere mentre il boia del principe vendicava Aethan,
ma non era così.
«Va' tu» disse a Maddyn, che lo stava fissando con le mani sui fianchi e
occhi roventi. «Dopo mi racconterai tutto.»
Con un'ultima scrollata di spalle Maddyn si voltò e lasciò la grande sala. A
quanto pareva nella fortezza quasi tutti condividevano l'opinione del bardo
riguardo all'intrattenimento di quella mattina, dato che ben presto Branoic si
ritrovò solo con una serva che sedeva piangendo sull'ultimo gradino della
scala. D'impulso, si alzò in piedi e le si avvicinò.
«Cosa c'è che non va?» le chiese.
«Possono dire quello che vogliono sul conto di Lady Merodda» pianse la
ragazza, «ma ha salvato la mia vita e quella del mio bambino, durante la bat-
taglia.»
«Davvero? È la prima cosa buona che sento dire sul suo conto.»
La ragazza si asciugò gli occhi con una manica. Notando che i suoi abiti
erano di qualità molto migliore di quella dei vestiti delle altre serve, Branoic
stava intanto cominciando a chiedersi se anche lei non fosse una dama sotto
mentite spoglie quando la vide soffiarsi il naso con l'orlo della sopravveste.
«Ah, bene» commentò. «Se non altro quella dama avrà qualcuno che pian-
gerà la sua morte. Non deve essere bello lasciare questa terra sapendo che tut-
ti festeggiano la tua dipartita.»
La serva annuì e lasciò ricadere la sopravveste.
«È vero» annuì. «Oh, dèi, devo spicciarmi! Dovevo portare dell'acqua di
sopra, per quel vecchio, il consigliere che ha ancora i capelli.»
«Nevyn è di sopra?»
«Ha detto che con lui c'era una dama che non si sentiva bene.»
Scommetto che si tratta di Lilli, pensò Branoic.
«Avanti, dammi l'acqua, ci penso io» disse poi. «E anche un po' di sidro,
che può essere d'aiuto.»
Con un boccale di sidro in una mano e una caraffa d'acqua nell'altra, salì
poi in fretta le scale e trovò un impaziente Nevyn ad attenderlo.
«Che ne è stato della serva?» chiese il vecchio.
«È sopraffatta dal pianto, mio signore. Pare che Merodda le abbia fatto del
bene.»
Notando dietro Nevyn una porta aperta, Branoic si affrettò ad aggirare il
vecchio e a portare dentro l'acqua prima che lui potesse impedirglielo: come
si aspettava, nella stanza trovò Lilli seduta sul letto, pallida e con gli occhi
gonfi per il pianto... cose che lui suppose essere dovute al dolore per sua ma-
dre.
«Mia signora, mi duole il cuore per la tua perdita» disse.
«Davvero?» scattò Lilli. «Non voglio falsa compassione! So che odiavi
mia madre.»
«Allora diciamo che mi duole il cuore a vederti tanto triste.»
«Così va meglio.»
«Io però non la odio» continuò Branoic, guardandosi invano intorno alla ri-
cerca di un tavolo e finendo poi per posare caraffa e boccale sul davanzale
della finestra. «È Maddo che è impazzito per la sete di vendetta, non io. A me
interessava soltanto il torto che lei aveva fatto ad Aethan, e forse sarò stupi-
do, ma gli dèi mi sono testimoni che quando lei ha detto che voleva fuggire
con lui io le ho creduto.»
«Anch'io» interloquì Nevyn, «ed è un peccato che gli dèi non lo abbiano
permesso, perché in quel caso i presagi per il nuovo regno sarebbero stati
dannatamente migliori di come siano adesso.»
Branoic stava per chiedergli cosa avesse inteso dire quando dal cortile
giunse un ruggito di voci levate in grida di applauso e di derisione.
«È finita» mormorò Lilli.
Branoic si aspettò che scoppiasse in pianto, ma lei invece si sdraiò di tra-
verso sul letto e si raggomitolò su se stessa come un cane nella paglia.
«Vattene, Branoic» ingiunse Nevyn, aggirando il letto per sedersi accanto a
lei. «Subito.»
Branoic si volse e lasciò a precipizio la stanza, perché per principio evitava
di destare le ire dei maghi.

Anche se avevano decretato che Maryn non sarebbe potuto diventare re fi-
no a quando non si fosse trovata una giumenta bianca, i preti non ebbero pe-
raltro da obiettare a che il principe celebrasse la vittoria con un banchetto.
Nei magazzini di Dun Deverry era accumulato il meglio del raccolto prima-
verile, accantonato per uomini ormai morti in un assedio che si era già con-
cluso. Per tutto il pomeriggio i servi continuarono a servire carni e altri cibi
mentre i bardi si sforzavano coraggiosamente di sovrastare con il loro canto il
chiasso generale e le risate che accompagnavano ogni nuovo brindisi. Nevyn
però abbandonò il banchetto quasi subito, perché voleva dare un'occhiata ad
alcuni dei feriti più gravi finché c'era ancora abbastanza luce. Arrivato all'o-
spedale, che era stato improvvisato in uno degli alloggiamenti, scoprì che
Caudyr lo aveva già preceduto sul posto.
«Ho appena mandato un paggio a cercarti» disse il chirurgo.
«Stavo già venendo qui di mia iniziativa. C'è qualcosa che non va?»
«Direi proprio di sì. Vieni a dare un'occhiata» rispose Caudyr, e lo prece-
dette verso la cuccetta di un giovane che Nevyn aveva curato il giorno prece-
dente.
Il ragazzo aveva subito un fendente al torace che gli aveva lacerato la pelle
e spezzato parecchie costole e aveva avuto il lato della coscia squarciato da
un giavellotto, ma per quanto avessero sanguinato abbondantemente, quelle
ferite non erano parse tali da ucciderlo. Adesso però lui giaceva immoto e
morente, e gli rimaneva a stento la forza vitale necessaria per spostare lo
sguardo, che appuntò su Nevyn. Alla luce incerta della lanterna la sua pelle
appariva di un pallore azzurrino e quando gli toccò il volto Nevyn constatò
che era freddo e umido.
«Le ferite si sono infettate?» domandò.
«No. Ho appena cambiato le fasciature ed è tutto a posto.»
Accoccolatosi accanto al ragazzo, Nevyn lo guardò negli occhi e lui parve
sul punto di dire qualcosa, ma non emise suono: si irrigidì e smise di respira-
re. Quando il vecchio lo afferrò per le spalle e lo scosse, la sua testa dondolò
all'indietro e lo sguardo privo di vita si appuntò sul soffitto.
«È come se non avesse avuto la forza di vivere» commentò Caudyr, dopo
aver snocciolato una sfilza di imprecazioni degne di una daga d'argento quale
era. «Eppure la scorsa notte ha mangiato e bevuto, e ha anche parlato. Sareb-
be dovuto guarire.»
Nevyn si guardò intorno. Su quel lato dell'alloggiamento erano ricoverati
uomini feriti così gravemente da non avere energie da sprecare per la morte
di un compagno. Quelli che erano coscienti giacevano supini a fissare il sof-
fitto oppure erano raggomitolati per la sofferenza, alcuni gemevano e altri
piangevano, e di certo nessuno poteva aver visto... cosa?
Nel porsi quella domanda Nevyn tornò a fissare il ragazzo morto e notò un
segno gonfio su entrambe le labbra, come se un'ape lo avesse punto due vol-
te, una sul labbro superiore e una su quello inferiore.
«Questo è davvero strano! Hai visto delle api, qui dentro?»
«Cosa?» esclamò Caudyr, guardandolo come se lo ritenesse impazzito.
«Api? Cosa vuoi dire?»
«Ecco, non credo che un tafano possa aver lasciato quel segno.»
«Una puntura?» domandò il chirurgo, grattandosi la testa con fare pensoso.
«No, non ho notato api qui dentro, ma dato che nella fortezza avevano un or-
to, suppongo che da qualche parte ci debba essere almeno un alveare. Però mi
sembra una cosa dannatamente strana di cui morire.»
«Una volta ho visto un bambino punto da un'ape andare in convulsioni e
morire, ma di certo se questo ragazzo avesse avuto delle convulsioni qui nella
sua cuccetta, qualcuno se ne sarebbe accorto.»
«Sembra anche a me! Sono davvero sconcertato, Nevyn. Non riesco a tro-
vare una causa che possa aver fatto morire così questo ragazzo.»
«Neppure io. Non era nemmeno abbastanza importante perché qualcuno lo
avvelenasse.»
«Infatti. Ah, questo mi ricorda...»
Nevyn si affrettò a sollevare una mano per ingiungergli di tacere.
«Incarica qualcuno di portare via questo poveretto e di seppellirlo, poi rag-
giungimi nella mia tenda» disse.
Naturalmente Nevyn non aveva dimenticato il problema dei possibili as-
sassinii commessi da Oggyn, anche se in realtà si trattava di un solo assassi-
nio, come lui disse più tardi a Caudyr.
«Il giovane re era comunque condannato, quindi nessuno tranne me lo ri-
terrebbe mai colpevole per averlo ucciso» osservò.
«Infatti» annuì Caudyr. «E quella povera bambinaia non era neppure di no-
bile nascita.»
«Se riuscissi a raccogliere prove sufficienti, Maryn non si lascerebbe fer-
mare da questo dettaglio. Rwla... così si chiamava... non ha parenti, altrimenti
sarei ben felice di costringere Oggyn a pagare un salato lwdd per la sua mor-
te. Così come stanno le cose, però, la sola cosa che il re può fare per punirlo è
impiccarlo.»
«O mandarlo in esilio. Però Oggyn è troppo utile, dannazione a lui, e il re
ha bisogno di uomini del genere. Vincere una guerra è una cosa, ma restaura-
re un regno è tutta una faccenda diversa.»
«È vero, e l'applicazione di tasse per raccogliere il denaro necessario a ri-
costruire la città sono cose che Oggyn comprende bene.»
I due si scambiarono un'occhiata e nel constatare che Caudyr condivideva
il suo senso di stanchezza, Nevyn comprese in quel preciso momento che non
sarebbero mai riusciti a raccogliere prove contro Oggyn.
È un'altra piccola ferita, disse a se stesso. La maledizione di Merodda. Sa-
ranno piccole pecche e piccole corruzioni, ma alla fine arriveranno a toccare
anche il re... a meno che io non possa bloccare prima la cosa.
«Cosa c'è che non va?» domandò in tono tagliente Caudyr.
«Nulla, nulla. Sono solo molto stanco.»
«Non ne dubito. Senti, ora io me ne vado e tu cerca di dormire un poco. È
un ordine di un collega.»
«A cui sarò lieto di obbedire.»
Anche se si sdraiò e cercò di dormire, Nevyn rimase però sveglio suo mal-
grado per molte lunghe ore. Nulla avrebbe mai potuto cancellare la vittoria di
Maryn, neppure il più potente dweomer oscuro del mondo: il dweomer della
luce aveva invertito la marea della storia e contro ogni speranza era riuscito a
respingere un mare di sangue. Sui piani interiori, nel profondo della mente
comune di Deverry, l'equilibrio si stava ripristinando e questo avrebbe signi-
ficato pace per il regno. Però quella tavoletta con la maledizione e la pura e
semplice malvagità che essa rappresentava avrebbero potuto protendere mani
immonde e infettare i vincitori, trasformando la loro gioia in una malattia del-
l'anima.
Alla fine Nevyn invocò la Luce che aveva servito così fedelmente, perché
se aveva una sola possibilità di vincere quella battaglia essa consisteva nel
vincerla nel nome della Luce e non in virtù delle sue sole forze, e soltanto al-
lora riuscì infine a scivolare nel primo sonno profondo di cui avesse goduto
da mesi.
Adesso che la fortezza era sotto il controllo del Principe Maryn, Lilli re-
clamò per sé la sua vecchia stanza e fece portare là dalle serve le cose che si
trovavano nella tenda, aggiungendole ai suoi abiti che erano rimasti intatti
nella cassapanca sotto la finestra, perché senza dubbio nessuno aveva avuto il
tempo di preoccuparsi dei pochi averi di una traditrice.
Impegnata a ripiegare ogni cosa con cura, d'un tratto Clodda infilò una ma-
no nella cassapanca con una risatina.
«Parte della tua dote, mia signora?» chiese poi, sollevando il davanti di
quella che sarebbe dovuta essere la camicia nuziale di Braemys.
«Lo era» rispose Lilli, togliendole la stoffa di mano. «Ora puoi andare. Di'
a Oggyn di trovare per te e per Nalla un posto comodo per dormire e avverti-
lo che mi accerterò che sia confortevole e che quindi è meglio che non cerchi
di barare.»
Clodda eseguì una riverenza e si affrettò a uscire. Rimasta sola, Lilli chiuse
la cassapanca e si posò in grembo il pezzo di camicia, ricordando come fosse
stata Bevva a ricamare quelle file di intrecci e ad aggiungere sopra di esse il
blasone del Cinghiale. Lentamente accarezzò i punti, così piccoli e uniformi,
ma invece di dolore provò soltanto stanchezza.
«Hanno impiccato la tua assassina, Bevva» disse ad alta voce. «Vorrei po-
ter pensare che tu ne sia contenta, ma conoscendoti probabilmente tu l'avresti
perdonata.»
Io però non posso farlo.
Quel pensiero le rimase sospeso nella mente, troppo doloroso per esprimer-
lo a parole, anche in una stanza vuota.
Quella notte sognò di sua madre. Nel sogno era bambina ed era appena ar-
rivata a Dun Deverry, per cui si era persa nel groviglio di torri e di cortili. Nel
guardare lungo un corridoio vide poi Bevyan ferma in fondo a esso ma quan-
do le corse incontro la sua figura si mutò in quella di Merodda che impugna-
va una daga. Urlando, Lilli si girò per fuggire, ma trovò Burcan che le bloc-
cava la strada e che teneva a sua volta un coltello in pugno.
Svegliandosi con un grido soffocato, Lilli si scoprì in piedi accanto al letto
con la coperta stretta in una mano e in un primo tempo credette di essere an-
cora intenta a sognare.
La stanza era immersa nel silenzio più assoluto e in ombra, tranne per un
pallido raggio di luce lunare che cadeva sulla cassapanca, e nel girarsi per
vedere da dove provenisse, Lilli scoprì che una delle imposte di cuoio si era
strappata dal suo gancio e pendeva, permettendo alla luce della luna di entra-
re nella stanza. Pensando che a svegliarla doveva essere stato il fruscio pro-
dotto dal cuoio, rise di se stessa e si diede della stupida per aver permesso a
un sogno di spaventarla, ma quando si volse con l'intento di tornare a letto,
vide sua madre in piedi dall'altra parte del giaciglio.
Vestita con una camicia grigia e lucente come la luce della luna, Merodda
la fissava immobile, con la bocca aperta e una mano stretta intorno alla gola
illividita e segnata da un solco profondo. Guardandola a sua volta, ferma dal-
la parte opposta del letto disfatto, Lilli notò che lei stava muovendo le labbra
come se cercasse di formulare delle parole.
«Cosa c'è?» le chiese in un sussurro. «Oh, dèi, tu sei morta!»
L'apparizione cominciò a muoversi verso di lei, solo che invece di cammi-
nare parve fluttuare intorno al letto. Spaventata, Lilli indietreggiò sempre di
più ma alla fine si venne a trovare a ridosso della parete, con la rozza pietra
che le premeva dolorosamente contro la pelle, e fu allora che Merodda solle-
vò un braccio, protendendo una lunga mano bianca e toccandole le labbra
proprio quando lei stava per urlare. Quel contatto fu come un fuoco che le
bruciasse la carne, ma al tempo stesso Lilli si sentì come se fosse uscita nuda
in un giorno d'inverno a causa di una ventata di gelo che le risucchiò la forza
vitale e la lasciò barcollante e prossima a svenire.
«Oh, non farlo» sussurrò. «Madre, perdonami.»
L'apparizione infranse il contatto e indietreggiò. Adesso appariva molto più
solida e Lilli riuscì a distinguerne i lineamenti, i capelli tagliati corti per faci-
litare il lavoro del boia. Poi le labbra si mossero ancora, sempre in silenzio, e
fissandole Lilli infine decifrò la parola che il fantasma continuava a ripetere
all'infinito: traditrice. Poi l'apparizione si volse e si allontanò fluttuando verso
la finestra, svanendo all'improvviso.
Lilli mosse un passo in avanti e svenne.
Al risveglio si trovò dolorante ed esausta, avvolta in un raggio di sole che
penetrava dalla finestra aperta; la bocca era secca e amara come se avesse
leccato una pietra e quando si toccò le labbra doloranti, scoprì che erano gon-
fie. A fatica, riuscì a sollevarsi in ginocchio e aggrappandosi al letto arrivò
poi a issarsi in piedi. La sola cosa a cui era in grado di pensare era spegnere
l'arsura che la divorava, quindi puntellandosi contro il letto si costrinse ad ar-
rivare fino alla cassapanca, dove c'era una brocca d'acqua posata accanto a
una bacinella. Sedutasi per terra, versò poi dell'acqua nella bacinella e se la
portò alla bocca con entrambe le mani.
Quando ebbe bevuto metà del contenuto della brocca, si sentì abbastanza
bene da alzarsi in piedi e fu soltanto allora che nel guardare il panorama fa-
miliare offerto dalla sua finestra, una striscia di cielo azzurro incorniciato da
due torri, ricordò la visitatrice della notte precedente.
«Un sogno» sussurrò. «È stato solo un sogno.»
Il dolore alle labbra smentiva però quel diniego e nel pensare che avrebbe
dovuto parlare della cosa con Nevyn lei si sentì assalire da un'improvvisa av-
versione nei suoi confronti. Non era forse stato lui la vera causa della morte
della sua famiglia e del suo clan?
Subito dopo però s'ingiunse di non essere stupida, perché era ovvio che
Nevyn non aveva colpe, e con quel pensiero la mente d'un tratto le si schiarì,
permettendole di comprendere che era stata sua madre a insinuare quell'av-
versione nel suo cuore come una spina, una sensazione contro cui dovette
combattere per tutto il tempo che impiegò a vestirsi. Attraversare la stanza
ebbe il potere di sfinirla e quando sollevò la sbarra di legno essa parve pesan-
te come se fosse stata di solido acciaio.
Barcollando come un'ubriaca, si avviò quindi per il corridoio, ma ogni pas-
so si fece più difficile e lei fu costretta a fermarsi spesso per riposarsi, appog-
giandosi alla parete perché sapeva che se si fosse seduta si sarebbe addor-
mentata. Una volta aveva sentito la storia di uno dei servi di Hendyr che per
poco non era morto congelato: quell'uomo aveva descritto lo stesso spavento-
so sfinimento e lo stesso terribile desiderio di sedersi e di morire che lei stava
provando adesso.
Alla fine arrivò in cima alle scale e a quel punto le gambe l'abbandonarono:
al primo gradino che cercò di scendere sentì il proprio corpo ripiegarsi su se
stesso come uno straccio lasciato cadere e riuscì a stento a sedersi, finendo
per trovarsi raggomitolata nell'ombra con le spalle addossate alla parete.
Ora tutto quello che poteva fare era pregare che qualcuno salisse o scen-
desse al più presto la scala e la trovasse quando ancora era in condizione di
parlare.
Sotto di lei la grande sala era quasi vuota, tranne per pochi servi intenti a
pulire i tavoli e alcuni cavalieri che stavano finendo di fare colazione, fra cui
anche Branoic che perfino da quella distanza era ben riconoscibile a causa
della sua statura... se solo fosse riuscita a chiamarlo o se almeno lui avesse
sollevato lo sguardo e l'avesse vista! Pur ritenendo che fosse uno sforzo inuti-
le, Lilli prese a ripetere il suo nome mentalmente e d'un tratto lui si alzò in
piedi, girandosi di scatto per guardare verso la scala.
«Lilli!» chiamò.
Lilli cercò di rispondere, ma le sue labbra si rifiutarono di formulare le pa-
role, del resto inutili perché Branoic stava già salendo i gradini a due per vol-
ta.
«Cosa ti succede?» chiese. «Ti ho sentita chiamarmi. Stai male?»
Quando lei annuì, Branoic si chinò per guardarla meglio.
«Sei bianca come la neve!» esclamò. «È meglio che Nevyn ti dia un'oc-
chiata.»
Quando lui menzionò quel nome, Lilli si sentì di nuovo assalire dall'avver-
sione, più intensa che mai, ma per fortuna Branoic fraintese la sua reazione.
«Stai per vomitare?» domandò. «A guardarti sembra di sì, quindi è meglio
che non cerchi di camminare.»
Alzatosi in piedi, si chinò a sollevarla fra le braccia senza quasi il minimo
sforzo e Lilli gli passò le braccia intorno al collo sussurrando a fatica una pa-
rola di ringraziamento mentre lui la trasportava lungo la scala muovendosi
con cautela.
«Devi mangiare di più, ragazza» osservò. «Pesi al massimo una cinquanti-
na di chili e questo non va bene.»
Stretta fra le sue braccia Lilli si sentì di nuovo calda e soltanto allora si rese
conto che fino a un momento prima stava tremando di freddo... ma perché?
Cosa le era successo per farla stare tanto male?
Qualcosa era senza dubbio successo... ricordava di essersi svegliata in pre-
da a quel malore e di aver forse fatto un brutto sogno, ma i dettagli comincia-
vano già a sfuggirle, al punto da indurla a dubitare che quanto ricordava fosse
esatto e di aver davvero fatto un sogno. Era più probabile che si fosse sempli-
cemente svegliata sentendosi già male.
«Ecco, siamo giù dalle scale, su sicuro terreno solido» le disse Branoic.
«Ora troviamo il vecchio in modo che ti dia un'occhiata.»
Lilli sollevò la testa che gli teneva appoggiata sulla spalla e si guardò in-
torno, scorgendo qualcuno che stava venendo loro incontro senza però riusci-
re a riconoscerlo.
«Cosa succede?» chiese la voce di Maddyn, il bardo. «Lady Lillorigga sta
male?»
«Molto male» rispose Branoic. «La sto portando da Nevyn.»
«No, no, riportala nella sua camera e poi va a cercare Nevyn. Se sta così
male non è il caso di farla uscire.»
Lilli sentì il terrore serrarla in una morsa gelida.
«Non nella mia camera» sussurrò.
«Perché no?» domandò Maddyn. «Suvvia, ragazza, stai male e non ragio-
ni.»
«Non nella mia stanza, Branoic, ti prego» insistette Lilli.
Il volto perplesso di Maddyn incombette su di lei con fare insistente, ma
per quanto desiderasse urlargli di andarsene, Lilli non riuscì a emettere altri
suoni.
«Io farò ciò che questa dama desidera» dichiarò Branoic. «Visto che non
vuole tornare di sopra, cerca di renderti utile, Maddo: precedici e cerca
Nevyn.»
Maddyn si affrettò a uscire dalla grande sala e Branoic si avviò per seguirlo
mentre Lilli gli abbandonava di nuovo il volto contro la spalla pervasa da un
senso di sollievo; una volta fuori, sotto il sole, sentì in qualche modo di esse-
re al sicuro e quando Branoic chinò il capo verso di lei con un sorriso lo ri-
cambiò, chiedendosi al tempo stesso come aveva potuto sbagliare così tanto
nel giudicarlo, come aveva fatto a non rendersi conto che lui era in effetti il
genere di uomo che poteva amare.

Dopo la riposante notte di sonno che si era concesso, Nevyn si era vestito
con calma e stava pensando ad andare alla rocca per ottenere qualcosa per co-
lazione quando sentì delle voci risuonare davanti alla sua tenda.
«Mio signore, sei lì?»
«Sì. Maddo. Cosa c'è?»
«Lady Lilloriga sta male. È come se in qualche modo la vita le fosse stata
risucchiata dal corpo.»
Sollevato di scatto il telo che chiudeva la tenda, il vecchio trovò Maddyn
fermo davanti alla soglia e vide sopraggiungere Branoic che teneva Lilli fra
le braccia.
«Portala dentro, ragazzo, e grazie» disse a Branoic. «Avanti, adagiala sul
mio giaciglio.»
Nonostante la luce tenue che regnava nella tenda, Nevyn notò subito la
gonfia infiammazione che segnava le labbra di Lilli e i cerchi scuri, simili a
lividi, che le circondavano gli occhi.
«Maddo, Branoic, lasciateci soli» ordinò in tono secco, «e rimanete fuori di
guardia.»
Lilli guardò i due uomini uscire dalla tenda, poi si accasciò contro il cusci-
no come se la testa le si fosse fatta troppo pesante.
«Metti anche queste sotto il capo» ordinò Nevyn. togliendo le coperte dal
letto e appallottolandole. «Ecco, così. Ora dimmi cosa è successo.»
«Non lo so» rispose Lilli, fissandosi le mani con espressione accigliata.
«Sto cercando di ricordare, ma so solo che c'è stata una specie di sogno e che
quando mi sono svegliata stavo male.»
Sedutosi sul telo che copriva il terreno, Nevyn ricorse alla vista del dweo-
mer e constatò che l'aura di Lilli appariva pallida e rimpicciolita, aderente al
corpo; invece di avere una forma vagamente ovoidale, essa creava una sorta
di nuvola irregolare, come se qualcosa ne avesse strappato grossi frammenti.
Mentre procedeva nell'esame si chiese poi se l'aura del soldato morto aveva
avuto quello stesso aspetto, ma purtroppo il ragazzo si era spento troppo in
fretta per permettergli di controllare, anche se indubbiamente il marchio che
aveva avuto sulle labbra era uguale a quello presentato dalle labbra di Lilli.
«Dici che si è trattato di un sogno?» chiese, riportando la vista alla norma-
lità. «Cerca di pensarci, ragazza. Cominciamo da quando ti sei svegliata e
proviamo ad andare a ritroso.»
«Svegliata! Ma certo, mi sono svegliata durante la notte.»
«Bene. Dunque, ti sei svegliata e nella tua camera era buio. Cosa ti ha de-
stata, un rumore?»
«Sì. Una delle pelli che coprono le finestre... sì, è stata una delle pelli che è
scivolata giù con un fruscio. Nella stanza c'era luce...» Lilli lasciò che la voce
le si spegnesse e dopo un lungo momento concluse: «Stamattina mi sono
svegliata sul pavimento.»
«Ah! Quindi è successo qualcosa fra quei due risvegli. Cerca di tornare in-
dietro con la mente.»
Con la bocca socchiusa e lo sguardo perso in lontananza, Lilli si concentrò
per cercare di ricordare.
«Non ci riesco» disse alla fine. «Proprio non ci riesco. Rammento che vo-
levo venire a cercarti, ma che il solo pensiero di farlo ha destato in me una
sensazione orribile, come di repulsione.»
«Scommetto che è importante» replicò Nevyn, ma dentro di sé continuò a
porsi una quantità di interrogativi, non riuscendo ancora a dare un senso a tut-
te quelle informazioni. «E al mattino ti sei svegliata per terra.»
«Mi sono alzata e vestita, ma è stato faticosissimo perché mi sentivo esau-
sta, come se avessi corso per chilometri e chilometri.»
«Non ne dubito. Adesso lascia che tenti un piccolo trucco. Forse quando ti
sentirai più in forze ti tornerà la memoria.»
Inginocchiatosi accanto al giaciglio, Nevyn posò una mano sul ventre della
ragazza, appena sotto le costole e sopra lo stomaco, poi richiamò la propria
vista del dweomer che gli permise di individuare il nodo che l'aura di lei for-
mava appena sopra la sua mano. Quello era il Nodo del Sole, dove le nume-
rose energie provenienti dalle diverse parti del corpo si univano e scambiava-
no le loro forze, e nel caso di Lilli il chiarore che esso emanava era fioco co-
me quello di un carbone ardente che fosse stato scagliato lontano dal fuoco e
stesse per spegnersi. Invocata la Luce, Nevyn la sentì concentrarsi sopra la
propria testa come una corona e al tempo stesso vide i membri del Popolo Fa-
tato materializzarsi tutt'intorno a lui per osservarlo con espressione solenne.
Visualizzata la Luce, con la volontà le impose di fluire lungo la propria co-
lonna vertebrale e di scaturirgli dalla punta delle dita, riversandola nell'aura
di Lilli come acqua da un secchio pieno in uno vuoto.
Dopo aver reso grazie alla Grande Luce, Nevyn trasse indietro la mano e si
accoccolò sui talloni per osservare l'energia dorata che stava avviluppando la
ragazza ruotando in senso orario. Dopo un momento Lilli scoppiò a ridere e
si stiracchiò, come se si fosse appena svegliata.
«E tu lo definisci un trucco, mio signore?» chiese con un sorriso, sollevan-
dosi a sedere. «Direi che è un trucco meraviglioso!»
«Allora ti senti meglio?»
«Mille volte meglio.»
«Bene. Ho immaginato che questo avrebbe funzionato ottimamente con te,
considerato il tuo talento per il dweomer.»
«Senza dubbio ha funzionato» annuì Lilli, poi distolse lo sguardo e parve
concentrarsi per un momento. «Però non riesco ancora a ricordare» ammise
dopo un istante, serrandosi d'istinto il labbro inferiore fra i denti, poi lanciò
un grido di dolore e aggiunse: «Oh, fa male!»
«Non ne dubito. Sulle labbra hai un segno davvero strano, una via di mez-
zo fra una vescica e una puntura d'ape.»
«Ricordo il dolore, freddo e rovente allo stesso tempo» disse Lilli, solle-
vando con cautela una mano a toccarsi il labbro «però non so cosa lo abbia
causato.»
«Io sto cominciando a mettere insieme alcuni indizi. Qualcosa è penetrato
nella tua camera nel cuore della notte, ti ha toccato sulla bocca e ti ha sottrat-
to una quantità enorme di energia vitale. Sei fortunata di essere una ragazza
giovane e sana, perché se fossi stata una vecchia ti avrebbe uccisa.»
«Ti credo, mio signore. Questa mattina mi sentivo trasparente come uno
spettro.»
Nevyn si sentì assalire da un'intuizione il cui impatto fu come un fulmine
che gli percorresse crepitando la spina dorsale.
«Già, come uno spettro» ripeté. «Per gli dèi, possibile che sia vero? Ho
sempre creduto che fossero solo sciocche fantasticherie!»
«Cosa, mio signore?»
«Lasciami il tempo di pensarci sopra prima di aggiungere altro. Ora è me-
glio tornare alla rocca, perché tu hai bisogno di nutrirti e io mi sento abba-
stanza affamato da mangiare un lupo con tutta la pelle.»
Più tardi quello stesso giorno Nevyn ricevette la prova della validità della
sua bizzarra teoria.
Dopo aver trascorso alcune lunghe ore in consiglio con il re, stava attraver-
sando il cortile principale quando vide un folto gruppo di serve intente a spet-
tegolare vicino al pozzo principale e qualcosa nel tono urgente dei loro di-
scorsi attrasse la sua attenzione, inducendolo ad avvicinarsi. Era stata sua in-
tenzione ascoltare senza parere, ma non appena lo vide Clodda lo chiamò.
«Mio signore Nevyn, per favore, ci potresti dedicare un momento del tuo
tempo?» chiese.
«Certamente. C'è qualcosa che non va?» rispose Nevyn.
Le donne si girarono tutte verso una di loro, vestita molto meglio delle al-
tre, e cominciarono a mormorare frasi di incitamento al suo indirizzo fino a
quando lei infine si fece coraggio e venne avanti con una riverenza.
«Mi chiamo Pavva, mio signore» si presentò. «Ecco... penserai che sia paz-
za, ma ho visto lo spettro di Lady Merodda aggirarsi nella fortezza.»
Nevyn sussultò e si lasciò sfuggire un fischio sommesso; fraintendendo la
sua reazione, Pavva si tinse di un violento rossore.
«Non ti devi vergognare di quello che hai detto perché io ti credo» la rassi-
curò Nevyn. «Quando è successo, e dove?»
«Poco fa, mio signore, quando sono salita per portare dell'acqua fresca a
Lady Lillorigga. Su nel corridoio c'è penombra e fa sempre fresco, ma quan-
do mi sono chiusa la porta alle spalle ho sentito un gelo invernale, tanto che i
peli mi si sono rizzati sulle braccia, e subito dopo ho visto Lady Merodda fer-
ma nel centro del corridoio. Aveva un aspetto così orribile, con la gola segna-
ta di lividi, che non sono neppure stata in grado di urlare. Lei stava cercando
di parlarmi ma non riuscivo a sentirla, quindi le ho detto che mi dispiaceva
che fosse morta e lei ha sorriso ed è sparita.»
Nevyn si sentì avviluppare lui stesso da uno spettrale senso di gelo.
«Quanto tempo fa è successo tutto questo?» chiese in tono secco.
«Non molto. Sono scesa subito e ho cercato Clodda e le ragazze e stavo
raccontando loro l'accaduto.»
«Clodda, dov'è la tua signora?»
«Su nella sua camera. Per questo Pavva le ha portato l'acqua.»
Imprecando come un comune cavaliere, Nevyn si allontanò di corsa, la-
sciando le donne a fissarlo con espressione interdetta.

Poiché la cura di Nevyn si era rivelata effettivamente temporanea... un


semplice trucco, come lui lo aveva definito... Lilli si era sentita di nuovo e-
sausta verso la metà del pomeriggio e dopo aver chiesto a Pavva di portarle
una brocca d'acqua si era ritirata nella sua camera per dormire; sfinita com'e-
ra, non si era quasi accorta dell'arrivo della serva e si era assopita prima anco-
ra che Pavva si richiudesse la porta alle spalle... soltanto per essere svegliata
con un sussulto da qualcosa pochi momenti più tardi.
«Non ho sbarrato la porta» pensò sbadigliando nell'alzarsi dal letto.
Poi sua madre apparve fra lei e la finestra, materializzandosi come una co-
lonna di polvere illuminata da un raggio di sole, e nel ricordare di colpo tut-
to... il sogno, lo spettro di sua madre e la vendetta che esso voleva ottenere...
Lilli sentì il cuore che prendeva a martellarle nel petto. La tremolante imma-
gine fra il bianco e l'azzurro sorrise e cominciò a muovere le labbra come se
stesse parlando, ma anche questa volta Lilli non riuscì a sentire nulla.
Terrorizzata, prese a indietreggiare ma Merodda la seguì fluttuando una
trentina di centimetri al di sopra del pavimento, con le labbra che continua-
vano a formulare le parole "figlia mia" senza interruzione e una mano che si
protendeva lentamente per penetrare la sua aura e prosciugarle le energie vi-
tali che le rimanevano.
Con un urlo Lilli si girò e si diede alla fuga, uscendo a precipizio dalla ca-
mera e lanciandosi di corsa lungo il corridoio, dalla cui estremità opposta vi-
de un uomo venire dritto verso di lei, come Burcan aveva fatto nel sogno.
Con un altro urlo, si arrestò e si premette le mani sulla bocca per proteggersi
le labbra.
«Sono io!» la rassicurò Nevyn, rallentando il passo nel raggiungerla. «Ho
visto Pavva nel cortile e sono venuto subito qui. Grazie a tutti gli dèi sono ar-
rivato in tempo.»
Poi prese Lilli per un braccio e la riportò nella sua camera senza che lei po-
tesse opporsi a causa del tremito violento che la scuoteva, ma una volta all'in-
terno constatarono che l'apparizione si era dileguata.
«Ora dimmi che cosa hai visto» ordinò Nevyn, chiudendo e sprangando la
porta.
«Lo spirito di mia madre. Era ferma ai piedi del letto e mi guardava. Ades-
so ricordo tutto, mio signore. È stata lei anche la scorsa notte, è venuta da me
e mi ha toccato le labbra.»
«Era proprio ciò che temevo. Pare che il dweomer di tua madre avesse vero
potere.»
Continuando a tremare, Lilli si lasciò cadere seduta sulla cassapanca.
Guardandosi intorno nella stanza Nevyn individuò la caraffa e il boccale e le
versò da bere, porgendole la coppa che lei afferrò con entrambe le mani, sor-
seggiandone il contenuto come una bambina.
«Mi lascerà mai in pace?» sussurrò poi.
«Non qui a Dun Deverry, anche se dubito che possa apparire altrove. Il suo
dweomer è reale ma non era una maestra delle arti oscure e ci vuole una vita
di pratica e di studio per imparare a spostarsi come fantasma. Presto o tardi
dovrà affrontare il giudizio che l'attende ma, per il momento cerca di aggrap-
parsi alla vita... se la si può chiamare vita... il più possibile.» Interrompendo-
si, Nevyn rifletté per un lungo momento con espressione accigliata, poi pro-
seguì: «Dobbiamo trovarti un posto sicuro dove andare perché finché, resterai
qui, lei cercherà di risucchiare la tua energia vitale per nutrire il suo spirito.»
Lilli si portò alla gola le mani gelide in un gesto di panico.
«Mi dispiace, so che queste sono cose difficili da comprendere» aggiunse
Nevyn, in tono gentile.
«Non si tratta di questo. Ho sentito... sono certa che volesse cercare di uc-
cidermi e non di fare quello che tu hai detto.»
«In tal caso dobbiamo allontanarti immediatamente da qui» affermò
Nevyn, poi esitò di nuovo e infine riprese: «D'altro canto esiste però la possi-
bilità che lei ti segua come un bagaglio che viaggi su una nave e io non posso
venire con te perché il principe ha bisogno di me qui. Dannazione a lei! In
tutta onestà non so con certezza cosa possa o non possa fare, perché prima
d'ora non avevo mai sentito parlare di fantasmi capaci di apparire in pieno
giorno.»
La stanchezza che già l'aveva sopraffatta in precedenza tornò ad assalire
Lilli. che ebbe l'impressione di sprofondare come se la cassapanca di legno
fosse stata invece fatta d'acqua.
Non c'è speranza, pensò. Alla fine vincerà ancora lei.
«Lilli» chiamò la voce di Nevyn, sommessa come un sussurro. «Dimmi co-
sa stai pensando.»
«Alla fine l'oscurità vince. L'oscurità risucchia sempre la luce.»
Nevyn batté con violenza le mani e Lilli tornò in sé, scuotendo leggermen-
te il capo.
«Cosa c'è?» chiese. «Che cosa ho detto?»
«Nulla che tu debba ricordare. Non ti voglio mentire: la situazione è molto
grave» rispose Nevyn.
«Se solo ci fosse qualcosa che potrei fare...»
«Se vuoi, mi puoi aiutare a vincere questa battaglia, anche se in tutta onestà
ti devo avvertire che potrebbe essere molto pericoloso.»
«È già pericoloso, vero? Ma cosa posso mai... oh, capisco, devo fare da e-
sca.»
«Esatto. È un innegabile rischio, ma non so che altro fare. Lei potrebbe va-
gare qui intorno per molto tempo e considerato quanto è vasta la fortezza non
mi sarebbe molto facile darle la caccia.»
Lilli esitò, con il cuore che le martellava nel petto per la paura, ma poi ri-
cordò Bevyan, che giaceva nella tomba dietro la fortezza di Lord Camlyn.
«Non m'importa del rischio» decise. «Lo farò.»
«Sei sicura?» insistette Nevyn.
«Sì. Per quel che ne so, è possibile che cerchi di uccidere qualcun altro,
quando avrà finito con me.»
«Lo ha già fatto, credo per esercitarsi. Benissimo, allora. Per quanto detesti
esporti a questo rischio, io... un momento, ora che ci penso posso predisporre
una doppia trappola.»
Lilli si limitò ad annuire perché adesso il cuore le stava battendo così forte
da renderle quasi difficile sentire e il respiro le si era fatto affaticato e irrego-
lare.
«Ti sposteremo in una stanza in un'altra rocca e metterò Branoic di guardia
alla tua porta. Io mi terrò nascosto da qualche parte nelle vicinanze e staremo
a vedere se lei cadrà nella trappola.»

Quando aveva detto che si sarebbe nascosto nelle vicinanze, Nevyn aveva
inteso sottintendere che lo avrebbe fatto sul piano dell'eterico, lasciando il
proprio corpo fisico a distanza di sicurezza. Per il resto del pomeriggio il
vecchio rimase con Lilli e badò a che lei fosse sempre fra altre persone in
modo che non corresse rischi. Quando poi fu scesa la notte e le maree astrali
si furono calmate dopo il cambiamento serale, Nevyn impartì a Branoic i suoi
ordini.
«Io andrò nella vecchia camera di Lilli. Dammi il tempo di arrivare là, poi
accompagnala nella nuova stanza e resta di guardia all'esterno. Ricorda però,
ragazzo: se la senti urlare, entra subito.»
«Puoi fidarti di me, mio signore» promise Branoic. «Non temere, non ti
verrò meno.»
Nella camera della ragazza, Nevyn si adagiò sul letto nell'oscurità, incrociò
le braccia sul petto con ciascuna mano sulla spalla opposta e fece in modo
che il suo respiro rallentasse sempre più mentre lui costruiva nella mente
l'immagine del proprio corpo di luce, un simulacro azzurro chiaro quasi privo
di fattezze. Con uno sforzo della sua volontà ben addestrata, trasferì poi la
propria consapevolezza nel corpo di luce e anche se esso si librava sopra di
lui, per un momento ebbe la sensazione di precipitare. Ci fu poi una sorta di
scatto frusciante e si trovò a fluttuare sopra il proprio corpo nella luce azzurra
che pervadeva la stanza e si rifletteva sulle pareti di pietra nera e morta che lo
circondavano come una prigione. Voltandosi appena, fluttuò verso la con-
giunzione di una parete con il soffitto, mentre alle sue spalle si snodava il
cordone argenteo, pulsante di vita, che lo collegava al corpo fisico.
Incuriositi, alcuni membri del Popolo Fatato si materializzarono intorno a
lui, simili a cristalli scintillanti adesso che si trovavano sul loro piano esisten-
ziale.
«State lontani, piccoli fratelli» li avvertì mentalmente Nevyn. «Sto prepa-
rando una trappola.»
Una dopo l'altra le creature svanirono e una volta solo Nevyn si dispose ad
attendere. Valutare il passaggio del tempo era però difficile sul piano dell'ete-
rico e dopo un po' lui cominciò a temere che Merodda fosse in grado di per-
cepire da lontano la presenza della figlia e fosse quindi andata direttamente
da Lilli; d'altro canto, se avesse lasciato troppo presto quella stanza e Merod-
da avesse trovato il suo corpo privo di protezione, le conseguenze sarebbero
state nefaste, perché se lei avesse spezzato il cordone d'argento il suo corpo
sarebbe morto e lui sarebbe andato alla deriva sul piano astrale molto prima
di quanto prevedeva il suo Wyrd.
Sempre più preoccupato, alla fine scese verso il basso e si librò sopra il
proprio corpo, ma appena prima che potesse trasferirsi in esso percepì piutto-
sto che vedere un'altra presenza poco lontana da lui sull'eterico. Come una
pernice stanata dai cacciatori, si affrettò a tornare nel suo angolo proprio nel
momento in cui la forma fra il blu e l'argenteo di una donna nuda fluttuava at-
traverso la parete sottostante.
Invece che con un corpo eterico creato artificiosamente, Merodda appariva
nel suo doppione eterico, la matrice che aveva formato e interpenetrato il suo
corpo durante la vita e che ne aveva registrato fedelmente anche la morte: la
gola era infatti segnata dalla corda e la testa pendeva da un lato a causa della
frattura del collo. Il doppione aveva inoltre già cominciato a distorcersi, con
le gambe che sembravano lunghe e sottili rispetto al torso tozzo e gonfio. An-
che se sapeva come attingere la forza vitale dalle sue vittime, a quando pare-
va Merodda non aveva idea di come fare a distribuirla all'interno della forma
eterica.
Quel grottesco simulacro fluttuò fino al letto e si arrestò, fissando l'inatteso
dormiente che giaceva su di esso. In quel momento Nevyn invocò la luce e
calò su di lei come un falco in picchiata, mentre la luce rispondeva alla sua
invocazione manifestandosi sotto forma di una vasta rete scintillante pervasa
di un mutevole chiarore multicolore come l'arcobaleno, simile alle luci set-
tentrionali di cui parlavano i nani. Prontamente, Nevyn afferrò per un lato
quella rete con le mani del suo corpo di luce.
Sollevando lo sguardo Merodda li vide arrivare e urlò, o meglio trasmise il
pensiero di un urlo sul piano dell'eterico dove Nevyn lo recepì come un la-
mento nel momento in cui le scagliava addosso la rete di luce. Continuando a
urlare, Merodda prese a contorcersi e ad artigliare la rete con entrambe le
mani, ma Nevyn ne afferrò i bordi e li tenne saldamente chiusi in modo da in-
trappolarla. Ormai incapace di parlare, Merodda persistette nell'urlare e nel
dibattersi, ma a poco a poco quel lottare la sfinì e lei smise di muoversi, le ur-
la che si spegnevano in un sottile lamento di terrore.
Nevyn visualizzò allora sopra entrambi un pentagramma scintillante di luce
fra l'azzurro e l'argenteo, e tracciò intorno a esso un cerchio d'oro, poi si levò
nell'aria trascinandosi dietro Merodda e proiettò entrambi attraverso quella
porta e sul piano astrale. Là un vento color indaco, scuro e opaco, li afferrò e
li fece vorticare e rotolare mentre cadevano verso il basso a velocità vertigi-
nosa, passando attraverso una moltitudine di fugaci immagini... volti, bestie,
stelle, simboli e lettere di alfabeti ignoti... che continuarono a percuoterli nel
corso del loro volo sulle ali del vento indaco. Nella rete, Merodda riprese a
urlare e a dibattersi, cercando di lacerare i fili lucenti che la componevano.
«Coraggio!» le gridò Nevyn. «Stai andando incontro alla redenzione!»
Davanti a loro nel vento indaco apparve una lunga fenditura violetta che si
allargò fino a formare un ovale di pallida luce color lavanda. Nevyn invocò
un Nome ed entrambi precipitarono oltre l'apertura per andare a finire su un
campo di fiori bianchi, accarezzati da una brezza tanto lieve da far vibrare
appena i loro pallidi petali. A poca distanza scintillava un fiume d'argento... o
forse era nebbia?... che appariva mutevole e tenue come la luce della luna.
Nevyn impresse allora uno strattone agli ultimi brandelli della rete di luce a-
strale ed essi si dissolsero, rivelando la forma minuscola di una bambina fatta
di pallida luce dorata.
«Invoca la Luce!» esortò Nevyn. «Invoca la Luce e rinnega l'Oscurità!»
La bambina si mise a piangere, riparandosi il volto con le mani minuscole
come se temesse di essere percossa mentre il vento astrale, che pure era tanto
lieve da non essere quasi percepibile, la sollevava e cominciava a trasportarla
verso il fiume seguendo un percorso irregolare, ma puntando inesorabile ver-
so la meta prescelta.
«Va' con la Luce!» gridò ancora Nevyn. «Va' in pace!»
Se pure lei gli rispose non sentì mai le sue parole. Lo sforzo che aveva
compiuto per raggiungere quel piano nel corpo di luce stava cominciando a
farsi sentire e a diventare eccessivo, e la conseguenza di quella crescente de-
bolezza fu un progressivo frantumarsi della visione: pezzi di panorama si
staccarono dal resto e caddero nel nulla, i fiori bianchi avvizzirono e svaniro-
no. Soltanto la luce violetta continuò a risplendere, solcata da una fessura co-
lor indaco.
Facendo appello alle ultime forze che gli rimanevano, Nevyn si lanciò at-
traverso quella fenditura e ricadde preda del vento, che parve trasportarlo
sempre più su con il suo soffio vorticante, attraverso una frenesia di immagi-
ni incomplete e strani accordi musicali altrettanto tronchi, fino a quando lui
vide davanti a sé il pentacolo azzurro e argento che fungeva da porta. Si sfor-
zò di raggiungerlo e sgusciò al di là di esso, tornando a fluttuare nella luce
azzurrina che rivestiva le pareti di pietra morta della camera. Sotto di lui il
suo corpo giaceva contorto su un fianco, ma ancora collegato al corpo di luce
dal cordone d'argento, quindi Nevyn fluttuò fino a posizionarsi su di esso e si
librò per un momento, raccogliendo le forze per completare il ritorno.
In quel frangente si rese però conto che qualcosa o qualcuno stava dividen-
do la camera con lui, perché all'improvviso avvertì una presenza, un fremito
di vita all'interno di quello spazio di pietra. Poi la presenza acquistò forza e
prese a scintillare in un angolo come un cristallo, crescendo di dimensioni fi-
no a trasformarsi in una forma vagamente umana, enorme e minacciosa, che
sollevò le braccia avvolte in un mantello, permettendo così a Nevyn di notare
i lunghi capelli che le ricadevano sulle spalle e sulla schiena, neri come la
pietra. Il volto dell'apparizione rimase però nascosto dal cappuccio, che non
gli consentì di distinguerne il minimo particolare.
«Lei dov'è?» fu il pensiero che gli giunse nella mente come un sommesso
sussurro.
«È andata al cospetto della Luce, dov'è il suo posto.»
La presenza parve riflettere per un momento sulle sue parole, poi svanì.
Rabbrividendo per quello che si sentì disposto ad ammettere essere un senso
di timore, Nevyn scivolò lungo il cordone d'argento fino a librarsi appena so-
pra il proprio corpo, poi si lasciò ricadere in esso: un altro scatto, un lungo
respiro affannoso, e tornò alla realtà.
«È finita!» esclamò, calando con forza una mano sul materasso, accanto a
sé. «Che possa trovare la Luce!»
Notando poi che dalla finestra non filtrava neppure un accenno della con-
troparte terrena della Luce, si rese conto che doveva essere un'ora molto tarda
e si sollevò infine a sedere, stiracchiando i muscoli doloranti e chiedendosi
cosa fosse stata quella presenza.
Poteva essere stata una forma divina, dato che ispirava lo stesso freddo
senso di reverenziale timore derivante da una di quelle incarnazioni di potere
puro, e tuttavia era parsa troppo interessata a livello personale e individuale
alla sorte di Merodda perché potesse essersi trattato di una dea. Scrollando le
spalle, infine si alzò in piedi ma mentre si affrettava ad attraversare il cortile
per raggiungere Lilli, continuò a pensare a quella presenza in nero.
Le sole conoscenze in suo possesso che potessero collegarsi a essa erano
costituite da quello che Aderyn gli aveva detto in merito ai Guardiani, quegli
strani esseri connessi al gruppo di anime degli elfi, ma cosa ci faceva uno di
essi a Dun Deverry? Alla fine scelse di accantonare quella spiegazione, cosa
che alla luce degli eventi che si verificarono in seguito risultò un grosso erro-
re.
Munito di una lanterna accesa, Branoic stava montando la guardia appog-
giato alla porta di Lilli e quando vide arrivare Nevyn si affrettò a raddrizzarsi,
teso e pieno di aspettativa.
«Lilli sta bene?» chiese Nevyn.
«Sì, per quel che ne so, mio signore» rispose Branoic, girandosi di scatto
per aprire la porta.
Lilli per poco non cadde nel corridoio e coprì il proprio imbarazzo con una
risata.
«Ero appoggiata contro il battente» spiegò. «Vedi, volevo essere accanto
alla porta in modo che Branoic potesse sentirmi bene se avessi urlato.»
«Una mossa molto saggia» approvò Nevyn. «Comunque è finita. Adesso
lei è veramente morta.»
Lilli emise un lungo sospiro tremante.
«Sia ringraziata la Dea» sussurrò poi. «E mille volte grazie anche a te,
Nevyn.»
«Stranamente, l'ho fatto per lei e non solo per te. Comunque sia, adesso tua
madre non disturberà più né te né altre anime.»
E tuttavia, pur nell'enunciare quella che era in effetti una verità, lui era
consapevole di mentire, perché se da un lato Merodda non avrebbe più causa-
to problemi in questa vita, senza dubbio avrebbe avuto a disposizione altre
vite in cui recare danno ai suoi nemici, che certamente avrebbe ricordato e
avrebbe saputo riconoscere tutti, anche con nuovi corpi e nuovi nomi. Adesso
che aveva imparato ad accogliere in sé il male, esso sarebbe andato a cercar-
la. Nevyn poteva soltanto sperare e pregare che Merodda scegliesse di rinun-
ciare a esso quando le si fosse presentato, ma non aveva modo di sapere se lo
avrebbe fatto o meno e la sola cosa di cui poteva essere certo era che presto o
tardi nella lunga catena delle rispettive vite il suo filo esistenziale si sarebbe
incrociato di nuovo con quello di Lilli.

PARTE TERZA
LE TERRE DEL SETTENTRIONE
Inverno 1117

Sonno e Trance sono i gemelli della Signora Morte. Un maestro del dweo-
mer accoglie in amicizia tutti e tre.
Dal Libro Segreto di Cadwallon il Druido

Con estrema sorpresa di Niffa, sia Verrarc sia Raena vennero al suo matri-
monio. Supplicando, implorando e puntando i piedi come un furetto cocciuto,
lei era riuscita a convincere sua madre a permetterle di anticipare la data al
primo giorno del nuovo anno, che gli abitanti di Deverry chiamavano "Sama-
en".
Nel corso dei loro lunghi anni di schiavitù, gli abitanti del Rhiddaer aveva-
no fatto propria quella festa e l'avevano importata nella loro nuova terra, ma
pur considerando la vigilia un giorno di cattivo presagio, come facevano gli
abitanti di Deverry, essi ritenevano invece che il primo giorno del nuovo an-
no fosse una data perfetta per avviare qualcosa di nuovo.
Quando il sole era ormai prossimo a toccare l'orizzonte, Niffa e la sua fa-
miglia risalirono la collina fino al luogo delle assemblee, vicino al picco della
Cittadella, dove una piazza pavimentata in mattoni si allargava davanti alla
costruzione di pietra della sala del consiglio, che sfoggiava un colonnato e
una rampa di bassi gradini.
In quel momento i servitori di Colei che Parla con gli Spiriti stavano spaz-
zando la neve dalla piazza con scope di saggina, mentre Werda in persona era
ferma accanto al grande mucchio di legna di un falò che non era ancora stato
acceso. Alta di statura e sottile come un ramo di arbusto, Werda portava i
lunghi capelli grigi sciolti sulle spalle in una massa che si allargava argentea
sul suo mantello azzurro e che nella luce sempre più fioca sembrava brillare
come la luna, dimora degli spiriti che lei aveva appreso a dominare.
La famiglia di Demet, una vera e propria folla di fratelli e sorelle con ri-
spettivi consorti e figli, attraversò in fretta la piazza parlando e ridendo, con
la sola eccezione di Demet, che sfoggiava un teso sorriso di trionfo. Quando
lo vide, Niffa sentì il sangue che prendeva a pulsarle nella gola perché quella
notte lui appariva particolarmente affascinante, così alto e biondo; la loro
lunga attesa era stata punteggiata da una quantità di baci e di carezze, e fi-
nalmente quella notte...
«Niffa!» ingiunse in tono secco la voce di Dera. «Smettila di sorridere in
quel modo! È sconveniente.»
«D'accordo, mamma» rispose Niffa, sforzandosi di smettere di sorridere e
di apparire composta e distaccata. «Chiedo scusa.»
Demet e la sua famiglia presero posto da un lato del falò, Niffa e i suoi si
schierarono dall'altro, poi il servo di Werda s'inginocchiò e cominciò ad ar-
meggiare con acciarino ed esca; con il freddo che faceva, il poveretto faticò
non poco a ottenere una scintilla, ma era necessario che il fuoco di un matri-
monio venisse acceso in quel modo e non con una fiamma presa da un foco-
lare.
«Perché lei è qui?» sussurrò intanto Niffa a sua madre.
«Ecco, ho dovuto invitare formalmente Verro. Non credevo che sarebbe
venuto, ma ho precisato che se avesse deciso di presenziare, la sua donna sa-
rebbe stata la benvenuta.»
«Nessuno ha chiesto a me se sarebbe stata la benvenuta.»
«Zitta! Vuoi cominciare la tua vita matrimoniale da avara, risentendoti di
dare ospitalità a qualcuno?»
Niffa fissò la neve con aria accigliata e si rifiutò di scusarsi, pensando che
lei non avrebbe mai chiesto a quella vipera di presenziare al suo matrimonio
e chiedendosi al tempo stesso per quale motivo si sentisse tanto certa che in
qualche modo Raena li avrebbe morsi e avvelenati tutti. Poi il tratto di terreno
innevato che lei stava fissando con tanta intensità si tinse di una tonalità dora-
ta e nel sentire il crepitare delle fiamme appena accese lei sollevò lo sguardo,
scoprendo che adesso lingue di fiamma si levavano nel centro del mucchio di
legna e si avviluppavano intorno agli arbusti secchi. D'un tratto in quel fuoco
le parve di vedere la rovina di Cerr Cawnen e si sentì certa che Raena sarebbe
stata la scintilla che li avrebbe inceneriti tutti.
«Cosa ti turba?» domandò Dera, prendendola per un braccio. «Sei pallida
come una morta.»
«Nulla, nulla» si schermì Niffa, deglutendo a fatica. «Io... uh, ecco, sentirò
la tua mancanza, mamma, e mi mancherà anche non vivere più con te e con i
furetti.»
«Ah» mormorò Dera. battendole un colpetto sul braccio. «Senza dubbio è
duro lasciare il focolare materno, ma comunque andrai a vivere vicino, appe-
na dall'altra parte del lago, e non in qualche villaggio sconosciuto. E alla pri-
ma cucciolata ti potremo regalare un furetto come animale domestico.»
«Se la mia nuova madre lo permetterà.»
La madre di Demet, Emla, era ferma accanto a suo figlio e stava sorridendo
e agitando la mano imparzialmente all'indirizzo di Niffa e di Dera. Quella
donna alta e grigia di capelli, con la mascella lunga e appuntita, appariva ad-
dirittura raggiante per l'eccitazione, perché se non altro la famiglia di Demet
aveva approvato all'unanimità la sua scelta di sposare la figlia del cacciatore
di topi. Dal momento che il padre di Demet aveva sposato una sua cugina, in
famiglia erano tutti alti, biondi e dinoccolati come lui, perfino il giovane Co-
tzi che aveva appena dieci anni, con tratti angolosi che davano un aspetto av-
venente agli uomini ma riuscivano meno gradevoli nelle donne. Piccola e
bruna com'era, Niffa si senti d'un tratto un furetto in procinto di mescolarsi a
un gruppo di cani da caccia e dentro di sé si augurò che non finissero per
morderla.
La cerimonia in se stessa fu una cosa veloce. Un gesto di Werda chiamò al
suo fianco Niffa e Demet, che la raggiunsero alle spalle del fuoco, in modo
che la folla si trovasse davanti a tutti e tre.
«Di fronte a noi ci sono un giovane e una fanciulla che desiderano sposar-
si» cominciò Werda. «Quando siamo fuggiti dalla nostra terra, quando le no-
stre case ci sono state rubate dagli Schiavisti, i nostri dèi hanno viaggiato con
noi fino alle terre libere. Grazie a essi siamo sopravvissuti e in cambio gli dèi
esigono che cresciamo di numero e che continuiamo ad adorarli, prendendoci
cura delle loro dimore terrene. Demet, un uomo deve generare molti figli per
conseguire il favore degli dèi. Niffa, una donna deve dare alla luce molte fi-
glie per ottenere il favore delle dee.» Interrompendosi, Werda indugiò a fissa-
re i due giovani, poi concluse: «Siete pronti ad addossarvi il fardello del vo-
stro popolo?»
«Lo sono» risposero entrambi all'unisono.
«Allora che gli dèi vi benedicano» recitò Werda, poi fece un'altra pausa,
questa volta scrutando la folla, e proseguì: «Parenti e amici, voi avete visto
questi due giovani parlare davanti a voi. D'ora in poi Demet è l'uomo di Niffa
e lei è la sua donna, ed è opportuno che tutti voi onoriate il loro matrimonio.
Il matrimonio è una cosa sacra» precisò, guardando ora direttamente verso
Raena e Verrarc. «Che nessuno interferisca in esso perché questo coprirebbe
di vergogna la tribù e le famiglie.»
Niffa vide Raena abbassare lo sguardo al suolo con un sussulto, mentre
Verrarc assumeva un'espressione rigida ma continuava a sorridere nel soste-
nere lo sguardo di Werda. Sulla folla calò un protratto silenzio quando poco
per volta tutti i presenti si girarono a osservare quel confronto e alla fine fu
Verrarc a distogliere lo sguardo per primo.
«Che gli dèi vi concedano sempre la benedizione di avere figli sani» conti-
nuò Werda, con un piccolo sorriso. «Demet, possa tu avere sempre cibo a
sufficienza per nutrire la famiglia. Niffa, possa tu essere sempre capace di di-
viderlo equamente fra tutti.»
Demet cinse la vita di Niffa con un braccio, la trasse a sé e la baciò, scate-
nando un'ondata di grida e di applausi dalla folla, che si mutarono in risa di
apprezzamento allorché lei accettò un secondo bacio; girandosi poi per rivol-
gere un saluto generale ai presenti, Niffa vide Verrarc e Raena che sguscia-
vano via nel buio.
Bene, pensò. Non voglio che quella donna avveleni i nostri festeggiamenti.
Il resto degli ospiti scese poi la collina fino alla casa di Dera e di Lael dove
la botte di birra inviata in dono da Verrarc era già aperta e pronta a essere
consumata. Tutti gli ospiti avevano portato con loro un boccale, oltre a cibo
sufficiente a imbandire un eccellente banchetto a base di pane salsicce, for-
maggio e altri cibi invernali, e mentre Niffa e Demet restavano sulla porta ad
accogliere gli ospiti, Dera si occupò di ammucchiare legna nel focolare per il-
luminare l'ambiente e Lael si piazzò vicino alla botte, provvedendo a riempi-
re la massa di boccali protesa davanti a lui. Poi le donne cominciarono distri-
buire il cibo fra risa e chiacchiere generali.
«In tutta la mia vita prima d'ora non ero mai stata così felice» osservò Nif-
fa.
«Neppure io» annuì Demet, cingendole la vita e stringendola a sé. «Sono
davvero lieto che non abbiamo dovuto aspettare fino al periodo più buio del-
l'anno.»
«Sapevo che sarei riuscita a convincere mia madre.»
Ridendo, Demet si chinò a baciarla e lei accennò a passargli le braccia in-
torno al collo, ma proprio in quel momento vide sopraggiungere qualcuno
lungo il sentiero: Verrarc, questa volta da solo.
«Buona sera a te, Niffa» salutò il consigliere. «Ho pensato di passare a
scambiare qualche parola con tua madre, se per te non è un disturbo.»
D'un tratto Niffa si sentì veramente arida e avara nel nutrire del risentimen-
to verso quell'uomo e la sua donna quando lei stessa era così piena di felicità.
«Ma certo, consigliere!» rispose. «E dov'è Raena?»
«Ah... ecco... non si sentiva molto bene e ha deciso di rimanere a casa.»
«Tu però ora entra, consigliere» interloquì Demet. «E grazie per quel barile
di birra.»
Verrarc gli rivolse un sorriso stranamente pieno di gratitudine, come se
Demet fosse stato fra i due l'uomo ricco e potente, e si addentrò fra la folla in
festa; seguendolo con lo sguardo, Niffa lo vide restare vicino alla parete e
spostarsi lungo il perimetro della camera fino a raggiungere Dera, ferma in
piedi dalla parte opposta della stanza.
«Forse Werda è stata un po' troppo acida a coprire di vergogna in quel mo-
do lui e la sua donna» osservò Demet.
«Lei se lo merita» scattò Niffa. «Non si tradisce il marito a quel modo!»
«Mi rallegra il cuore sentire che non approvi un comportamento del gene-
re» commentò lui, poi scoppiarono entrambi a ridere e si baciarono.
Le risa e le chiacchiere si protrassero fino a quando la botte non fu vuota e
non ci fu più cibo, poi Dera pulì il tavolo con uno straccio e Lael passò nel-
l'altra stanza, tornando con una coperta nuova di lana che stese sul tavolo in
modo che Niffa potesse adagiarvi sopra la sua dote, un pezzo per volta: due
vestiti, una camicia da notte, un coltello da cucina a manico lungo, una teglia
di ferro fabbricata dai nani e quattro monete di rame in una sacca di cuoio.
Quanto al mantello, lo lasciò fuori per poterlo indossare. Lael legò poi insie-
me gli angoli della coperta in modo da formare un vero e proprio fagotto e
nel guardarlo Niffa si accorse che aveva gli occhi lucidi di pianto; accanto a
lui, Dera stava piangendo apertamente, soffiandosi il naso in un grosso strac-
cio, ed Emla le passò un braccio intorno alle spalle per confortarla.
«Continuo a pensare al nostro Jahdo» mormorò Dera. «Vorrei con tutto il
cuore che lui avesse potuto essere qui per assistere al matrimonio di sua so-
rella.»
Il Consigliere Verrarc abbassò di scatto lo sguardo, concentrandolo sulle
assi del pavimento.
«Tornerà a casa, sorella» la consolò Emla. «A primavera porteremo un sa-
crificio al dio delle strade, perché lo guidi fino a noi sano e salvo.»
Lael intanto consegnò il fagotto a Cronin, il padre di Demet, che lo prese
con entrambe le grosse mani coperte di calli.
«Vieni, figlia» disse allora Cronin a Niffa, «è tempo di andare a casa.»
Cronin ed Emla precedettero poi Niffa, Demet e gli altri ospiti che si stava-
no accomiatando a loro volta. Nel lasciare la casa materna, Niffa si lanciò u-
n'occhiata alle spalle e prima che Lael chiudesse la porta vide che Verrarc era
rimasto indietro e stava parlando con Dera accanto alla tenue luce del fuoco.
Ridendo e cantando, la processione nuziale si snodò lungo la Cittadella e fino
al molo, sulla riva del lago, dove fra la sorpresa generale trovarono in attesa
la chiatta del Consiglio, tutta addobbata con lanterne accese che la facevano
risplendere nella caligine notturna.
«Ordine del Consigliere Verrarc» spiegò il capitano della chiatta. «Congra-
tulazioni, giovane Niffa! Salite tutti a bordo e vi trasporteremo sull'altra ri-
va.»
Ci furono altre risa e molti applausi, perché la generosità di Verrarc aveva
risparmiato a tutti una lunga remata in stato di ubriachezza; mentre la chiatta
si allontanava dalla riva, gli uomini presenti nel gruppo si misero a cantare,
scambiandosi strofe così sboccate da far arrossire Niffa.
La famiglia di Demet viveva in un disordinato complesso di abitazioni co-
struito in parte su palafitte e in parte sul terreno solido, vicino alle porte me-
ridionali della città. Nella grande stanza comune il fuoco era già pronto per
essere acceso e, come richiedeva l'usanza, Demet s'inginocchiò per accender-
lo con acciarino ed esca mentre gli ospiti si toglievano il mantello e si dispo-
nevano ad affrontare il secondo banchetto della serata, approntato su un paio
di tavoli sul lato opposto della stanza.
«Vieni con me, figlia» disse Emla. «e ti assegnerò una camera tutta per te.»
Dal momento che erano la coppia sposata più giovane del complesso Niffa
e Demet ricevettero una stanza in legno che si affacciava sul lago, lontana dal
focolare centrale ma riscaldata dal calore delle acque lacustri che filtrava at-
traverso le fenditure del pavimento. Al di sotto si poteva sentire lo sciacquio
delle onde contro i pilastri di sostegno, che faceva scricchiolare l'edificio co-
me una nave al largo. L'arredo era costituito da una cassapanca di legno, in
cui Niffa depose gli oggetti della sua dote, e da un grosso letto quadrato.
«Qui non avete nessuno su entrambi i lati» commentò Emla, appendendo la
lanterna a un lungo gancio d'ottone fissato alla parete. «Ora mettiti comoda.
Demet deve aver quasi finito di accendere quel fuoco.»
Strizzandole l'occhio, si congedò quindi da lei per tornare dai suoi ospiti e
dopo aver steso la coperta nuova su quelle vecchie Niffa si tolse il mantello,
appendendolo a un altro gancio vicino alla porta. Dal momento che la stanza
era più calda di quanto si fosse aspettata, si tolse anche i vestiti e li gettò nella
cassapanca; rabbrividendo un poco al contatto con le lenzuola fredde, s'insi-
nuò quindi nel letto e si assestò in una comoda depressione del vecchio mate-
rasso.
In lontananza poteva sentire i canti che provenivano dalla sala comune e,
più vicini, i suoni prodotti dall'acqua che minacciavano di mutarsi in voci che
sussurravano presagi di segreti e di pericolo. Poi però Demet aprì la porta ed
entrò nella stanza.
«Sei bellissima, stesa nel mio letto in quel modo» commentò. «Il ricordo di
questa notte mi sarà prezioso per sempre.»
«Lo sarà anche per me. Vieni a scaldarti.»
Appeso il mantello sopra quello di lei, Demet si tolse la tunica che gettò
nella cassapanca, poi sedette sul letto per slacciarsi gli stivali e nell'accarez-
zargli la schiena nuda lei lo sentì tremare. Liberatosi finalmente delle calzatu-
ra Demet le lasciò cadere per terra e si alzò per sfilarsi i calzoni prima di sci-
volare sotto le coltri che Niffa gli teneva sollevate in un gesto d'invito.
«Che freddo!» sussurrò. «Ah, ma presto sentirò di nuovo caldo.»
Poi la abbracciò con tanto impeto che per un momento Niffa ebbe paura,
una sensazione subito placata dai suoi baci. Nell'ultimo mese, sapendo che
ormai il matrimonio era indissolubilmente deciso, si erano spesso concessi
momenti di intimità, accarezzandosi dapprima con timidezza e poi con cre-
scente audacia quando avevano scoperto il piacere reciproco che ne traevano.
Ora nel sentire la mano di Demet che le scivolava lungo la coscia, Niffa
schiuse le gambe, gemendo sotto il suo tocco.
«Ora» sussurrò. «Per favore.»
«Ho paura di farti male.»
«Se anche farà male, sarà solo la prima volta, quindi lasciamocela alle spal-
le.»
Lui continuò però a baciarla e ad accarezzarla a lungo, cosicché quando in-
fine la fece sua, Niffa non avvertì dolore, soltanto una fitta improvvisa che
lasciò subito il posto al piacere.

Samaen era passato da quattro notti quando la prima neve cadde su Cen-
garn, molto a sud del Rhiddaer. Svegliandosi una mattina con l'aria che sape-
va di neve e che pervadeva di gelo la sua stanza in cima alla torre, Dallandra
protese con cautela un braccio da sotto le coltri in direzione del braciere di
bronzo posto vicino al letto e già pieno di rametti di legna e di pezzi di car-
bone e indicò verso di esso, chiamando a sé il Popolo Fatato perché accen-
desse il combustibile prima di affrettarsi a ritrarre al caldo il braccio.
«Sta nevicando» commentò, rivolta a Rhodry.
Quando lui borbottò qualcosa d'irripetibile, tirandosi le coltri sulla testa,
Dallandra gli si raggomitolò accanto e indugiò per qualche momento a osser-
vare i membri del Popolo Fatato, soprattutto gnomi grigi, che oziavano come
gatti ai piedi del letto. Quando si svegliò di nuovo, la temperatura dell'aria era
a stento tollerabile, ma se non altro i suoi abiti, che lei teneva su una sedia vi-
cino al braciere, erano leggermente più caldi. Restando sotto le coperte, Dal-
landra s'infilò i calzoni, poi afferrò la tunica e si sedette di scatto per indos-
sarla come una trota che balzasse dall'acqua per afferrare una mosca.
«Sei decisa ad alzarti, vero?» commentò Rhodry.
«Sì, perché ho fame e il pitale è quasi pieno.»
«Ah. Se scendi nella grande sala portami un po' di pane, d'accordo?»
«Pigro furfante.»
Con un sospiro da martire, Dallandra si sollevò a sedere e prese da terra gli
stivali, scendendo dal letto soltanto dopo averli calzati. Accostatasi alla fine-
stra aprì l'imposta di una fessura e nella grigia luce che regnava all'esterno
constatò che in effetti la neve stava scendendo fitta dal cielo. Se non altro,
questo avrebbe eliminato in buona parte il fetore, ma fra sé lei giurò che quel-
lo sarebbe stato l'ultimo inverno che avrebbe trascorso fra gli umani, nelle lo-
ro tende di pietra.
«Sta nevicando» confermò.
Rhodry però non rispose, perché si era riaddormentato.
Nella grande sala di Dun Cengarn, la banda di guerra del gwerbret era rac-
colta intorno al focolare della servitù per cercare di scaldarsi dopo la notte
trascorsa negli alloggiamenti; seduto al tavolo d'onore, il Gwerbret Cadmar
stava dividendo una forma di pane con il suo ospite, il Principe Daralanteriel,
marito di Carra. Un tempo il gwerbret era stato un uomo imponente, alto oltre
un metro e ottanta, ampio di spalle e con mani possenti, ma quell'estate di
combattimenti lo aveva lasciato esausto e in qualche modo fisicamente inde-
bolito, con i capelli grigio ardesia che cominciavano a diradarsi e i baffi che
stavano incanutendo progressivamente; nel guardarlo seduto in posizione ac-
casciata sul suo seggio, con la gamba lesa protesa verso il calore del focolare,
in qualità di erborista e di unico vero medico presente nella fortezza Dallan-
dra si sentì seriamente preoccupata per lui.
Per contro, il principe era un giovane avvenente e vitale, caratteristiche ti-
piche della sua razza, con occhi di un grigio molto chiaro dalla pupilla color
lavanda verticale come quella dei gatti e i capelli di un nero corvino che, per
quanto lunghi e arruffati, non riuscivano a nascondere i lunghi orecchi dalla
sommità appuntita ed elegantemente ricurva come quella di una conchiglia...
orecchi elfici come quelli di Dallandra.
Un gruppetto di ragazzi, fra cui anche Jahdo, sedeva quanto più vicino pos-
sibile al focolare d'onore che aveva la forma di un grande drago di pietra e
due dei più grandi stavano giocando una partita a Carnoic mentre gli altri sta-
vano a guardare o tenevano a bada i cani che continuavano a minacciare di
spazzare via le pietre dalla scacchiera con il loro scodinzolare. Dal momento
che Jahdo svolgeva per Rhodry le mansioni di paggio, Dallandra decise che
poteva benissimo provvedere a portargli il pane e a svuotare il pitale; si stava
dirigendo verso di lui quando sentì una donna lanciare un urlo, subito imitata
da un'altra, e nel girarsi di scatto nella direzione da cui giungeva il suono vide
Evandar attraversare la parete di pietra della fortezza a circa tre metri di di-
stanza da lei, inducendo i cani a scattare in piedi abbaiando.
«Chiedo scusa, volevo soltanto vedere la piccola Elessi» disse Evandar.
«È di sopra nella sala delle donne» rispose Dallandra. «E vorrei che ti ri-
cordassi di usare la porta.»
Evandar reagì con una risata e tornò a scomparire, lasciando una vera e
propria folla di serve a urlare e a indicare mentre gli uomini fingevano di non
aver visto nulla e i ragazzi fissavano con occhi sgranati il punto in cui lui era
svanito. Dal canto suo, Dallandra assestò un calcio al cane più vicino e in-
giunse con voce irosa agli altri di tacere; intimidite, le bestie obbedirono.
Più tardi, quella stessa mattina, la serva personale di Lady Ocradda, Ylla,
venne a chiedere a Dallandra di salire nella sala delle donne e quando vi si
recò Dallandra trovò la moglie del gwerbret seduta su un seggio intagliato vi-
cino al focolare, con un lavoro di cucito in grembo.
«Ti ringrazio per essere venuta» esordì Ocradda, quando lei ebbe preso po-
sto su uno sgabello accanto al suo seggio. «Spero di non aver interrotto qual-
che... uhm... qualche lavoro importante.»
«Assolutamente nulla, mia signora. Che cosa ti turba?»
«Si tratta dei servitori. Hanno una paura terribile della stregoneria e adesso
che è arrivato l'inverno non c'è abbastanza lavoro per tenerli occupati. Natu-
ralmente, i loro sono sciocchi timori» spiegò Ocradda, con una risata nervosa
e un po' tesa.
«Non li definirei sciocchi» replicò Dallandra. «Il dweomer malvagio di cui
sono stati testimoni sarebbe stato sufficiente a turbare chiunque.»
«Questo Evandar» proseguì Ocradda, mentre il suo sorriso forzato svaniva.
«Lui è il nonno della piccola Elessi, almeno a quanto mi ha detto la Princi-
pessa Carra, giusto?»
«È vero, mia signora.»
«In tal caso sarà il benvenuto nella nostra fortezza ogni volta che vorrà ve-
dere la bambina, ma non potrebbe arrivare a cavallo come qualsiasi uomo
normale? Il modo che lui ha di apparire dal nulla... ecco, spaventa tutti.»
«L'ho notato. Vedrò di parlargliene la prossima volta che verrà qui.»
«Ti ringrazio» replicò Ocradda, appoggiandosi allo schienale del seggio.
«Noi tutti abbiamo visto troppe cose strane, ma gli dèi sanno che se siamo
salvi lo dobbiamo al dweomer! Spero che non mi vorrai considerare un'ingra-
ta.»
«Niente affatto. Adesso sai perché il dweomer preferisce operare in segre-
to. La gente vive più tranquilla se può semplicemente fare finta che la magia
non esista.»
«Infatti. Sono contenta che adesso sia tutto finito» concluse Ocradda.
Dallandra accennò allora ad accomiatarsi, ma poi ricordò d'un tratto una
piccola cosa di cui era stata sua intenzione occuparsi.
«Mia signora, posso chiedere al ciambellano di procurarmi un po' di sapo-
ne?»
«Sapone?» ripeté Ocradda, inarcando un sopracciglio. «In questo periodo
dell'anno?»
«Ne basterebbe un piccolo pezzo» precisò Dallandra. «Giusto da usare o-
gni tanto.»
«Ecco, può darsi che forse il ciambellano riesca a trovartene un pezzetto
anche se dubito che sarà granché. Vedi, è colpa dell'assedio, perché di solito
noi facciamo il sapone in autunno con il grasso e il sego ricavati dalla macel-
lazione, mentre quest'anno abbiamo mangiato tutto il grasso e comunque
quelle povere bestie mezze affamate non ne avevano molto da sprecare.»
«È ovvio» annuì Dallandra, vergognandosi di se stessa. «Chiedo scusa. In
tal caso mi accontenterò dell'acqua.»
«Non ti secca, vero?» chiese Ocradda, con una vaga nota di disperazione
nella voce, quasi si stesse chiedendo se lei non avrebbe incendiato la fortezza
per vendicarsi di quella carenza di sapone.
«No, per nulla» garantì Dallandra.
Ciò che Ocradda non sapeva, per il bene della sua pace mentale, era che
Dallandra operava il dweomer nella fortezza ogni notte, in quanto ormai da
qualche tempo aveva preso l'abitudine di apporre delle protezioni intorno al
letto che divideva con Rhodry, per tenere Raena lontana dai suoi sogni; anche
se aveva intagliato le rune elfiche su pezzi di legno per avere una focalizza-
zione fisica, le vere protezioni ardevano sul piano eterico e astrale sotto for-
ma di immagini di stelle fiammeggianti.
«Funzionano a meraviglia» commentò Rhodry, quella sera. «Da quando
hai cominciato con questa procedura, ho fatto soltanto sogni piacevoli.»
«Bene. In tal caso credo che sia arrivato il momento di far scattare la mia
trappola, perché ormai Raena dovrebbe essere furente. Vedi, volevo ridurla in
uno stato di frustrazione, perché non riuscisse più a pensare con chiarezza.»
«Credo di capire. Significa che una di queste notti non apporrai la prote-
zione?»
«Infatti, e credo che ci proverò stanotte. Tu va' pure a dormire come al soli-
to...»
«... sapendo che una sacerdotessa pazza è a caccia del mio sangue. Una
stupidaggine di poco conto, a cui non permetterò di turbare la mia tranquilli-
tà.»
«Oggi sei uscito a cavallo con il principe, giusto? Quindi dovresti essere
piuttosto stanco.»
Involontariamente, Rhodry sbadigliò.
«Infatti lo sono» ammise. «Questo freddo ti toglie le energie.»
Quella notte quando si addormentò Dallandra si recò nella Terra delle Por-
te, "un'area al limitare del piano astrale", se così la si poteva definire. Nel
corso del sonno l'anima di qualsiasi persona fluttuava vicino al piano astrale
per ricevere sogni veri insieme a immagini più prosaiche generate dalla men-
te, e di conseguenza un maestro del dweomer o un soggetto anomalo quale
Raena era in grado di rintracciare una persona che stava sognando ed effet-
tuare con essa un contatto di qualche tipo, così come un maestro del dweomer
poteva incontrare e affrontare qualcuno che stesse interferendo con i sogni di
un'altra persona.
Lunghi anni di pratica avevano reso Dallandra esperta nell'arte dei sogni
veri, per cui nello scivolare nel sonno le era bastato dire alla sua mente cosa
desiderava sognare per essere in grado di sognarlo e adesso le stava sembran-
do di attraversare un prato erboso i cui steli risultavano stranamente pallidi e
setosi a contatto con le sue gambe nude. In alto spiccava una luna purpurea
tanto grande da occupare metà del cielo e nel guardarsi indietro da sopra la
spalla Dallandra vide sotto il suo chiarore quel che restava delle sue protezio-
ni, due opache stelle a cinque punte ormai prossime a spegnersi; in mezzo a
esse si apriva la porta di sogno che portava fino a Rhodry, un segno nell'erba
tanto nitido e definito da indicare che Raena doveva aver usato spesso quella
porta. Nel sogno. Dallandra materializzò un rotolo di corda, poi invocò la pu-
ra forza dal piano eterico e la convogliò nella fune in modo da darle una vita
che andasse oltre quella di una semplice immagine, quindi tese la sua trappo-
la fra l'erba, davanti alle due stelle. A quel punto si allontanò di un breve trat-
to si nascose con l'estremità della corda in grembo in un punto da cui poteva
vedere le stelle sempre più fievoli semplicemente aprendosi un varco fra l'er-
ba.
Poi ebbe inizio l'attesa, che si protrasse per un tempo indefinito in quanto
in quella terra di sogno, sotto la luna che restava immota nel cielo, non era
possibile stabilire se fossero trascorsi pochi momenti o molte ore. Finalmente
Dallandra sentì qualcuno muoversi fra l'erba facendola frusciare e quando
provò a guardare chi fosse vide Raena avanzare con decisione nel suo corpo
di sogno, coperta soltanto dai capelli neri che le ricadevano lungo le spalle.
Arrivata alle protezioni, la donna si arrestò con un sorriso soddisfatto.
«Finalmente c'incontriamo!» esclamò Dallandra, scattando in piedi rapida
come un'allodola che spicchi il volo. «Stai pensando di combinare qualche
danno, vero?»
Con un urlo Raena si volse per fuggire, ma in quel momento Dallandra af-
ferrò la corda e impresse uno strattone, serrandole il cappio intorno alle gam-
be in modo così repentino che lei cadde in avanti stridendo e dibattendosi.
Badando a tenere tesa la corda, Dallandra le si avvicinò e nel vedere la sua
preda che si sollevava a sedere per cercare di sfilarsi il cappio dalle caviglie,
con uno scatto esperto del polso creò un altro cappio che andò a serrarle le
spalle e assestò un nuovo strattone, tendendo la corda prima che Raena potes-
se liberarsi.
«Il mio popolo alleva e doma cavalli» commentò poi. «Insisti a lottare e la
corda ti causerà una quantità di escoriazioni che continueranno a farti male
anche quando ti sveglierai. Vedi, so un paio di cosette sui corpi magici.»
Raena la fissò con occhi roventi e la bocca semiaperta, il respiro legger-
mente affannoso.
«Lascia in pace Rhodry» continuò Dallandra. «Non capisci a fondo quello
che stai facendo e se continui così, potresti finire per danneggiare te stessa.»
Senza rispondere, Raena si accasciò con la testa abbandonata in avanti.
«Non m'importa se mi vuoi ascoltare oppure no» scattò Dallandra. «Non
hai mai ricevuto un adeguato addestramento nell'uso del dweomer e se conti-
nui a fidarti del tuo supposto dio, lui ti metterà nei guai e poi ti pianterà in as-
so.»
Notando d'un tratto la strana immobilità della sua preda, Dallandra si rese
conto di colpo di quello che probabilmente Raena stava facendo e scattò in
avanti per afferrarla... ma troppo tardi.
Con un tremolio di luce azzurra e un bagliore argenteo, Raena scomparve e
mentre la corda cadeva vuota al suolo, un corvo nero prese a saltellare nel-
l'erba per poi spiccare il volo con un acuto stridio, puntando veloce nella di-
rezione da cui Raena era giunta. Per un momento Dallandra prese in conside-
razione l'eventualità di trasformarsi a sua volta in uccello, ma poi rifletté che
ormai il corvo aveva un notevole vantaggio e che se pure fosse riuscita a rag-
giungerla, Raena avrebbe potuto comunque svegliarsi e fuggire così dalla
Terra delle Porte.
Prima di andarsene, Dallandra ripristinò le protezioni, riversando energia in
esse fino a farle ardere; dopo aver indugiato per un momento a osservarle, si
diresse quindi verso la porta di sogno e si lasciò cadere, fluttuando nel pro-
prio corpo e verso un sonno normale.

Non c'era da stupirsi se le apparizioni di Evandar avevano tanto sorpreso


tutti gli abitanti della fortezza, considerato che lui viaggiava seguendo le se-
grete madri di tutte le strade che guidavano lungo le vie fra i mondi. Dal
momento che la sua terra non esisteva in un vero mondo, tutte le strade s'in-
contravano al suo interno e a quel tempo Evandar le conosceva meglio di
qualsiasi altro essere del vasto universo. Tuttavia nel corso di quel viaggio
trovò una sorpresa ad attenderlo, perché quando sbucò sulla piccola collina
che costituiva l'accesso alla sua terra vide che il suo mondo si era fatto strano.
In esso era giunto l'inverno, il primo che quella terra eterica avesse mai co-
nosciuto. Quando l'aveva creata, tanti eoni prima da non riuscire neppure a
ricordare con esattezza quanto tempo fosse passato, lui aveva scelto di man-
tenere una costante stagione primaverile, calda e soleggiata; in quell'epoca
lontana, peraltro, la sua terra si era trovata molto lontana dal mondo fisico
degli elfi e degli uomini mentre pareva ora che con il tempo vi si fosse avvi-
cinata sempre di più... o almeno questa fu la sola spiegazione che gli riuscì di
trovare per quel fenomeno.
Una spessa coltre di neve copriva i lunghi prati e più in basso, ai piedi della
collina, si ammucchiava intorno alle mura infrante e alle siepi morte dei giar-
dini formali che lui aveva creato in passato per Dallandra. Gli alberi erano
scheletri privi di vita, fiori morti pendevano dagli anneriti cespugli di rose e
in mezzo a quella devastazione vagava uno dei suoi guerrieri, intento a tra-
passare qua e là la neve con un lungo bastone.
«Menw!» chiamò Evandar.
Nel sentire la sua voce, il guerriero gettò via il bastone e si avviò su per il
pendio. Alto di statura, con i capelli biondo cenere, nel salire Menw continuò
a tenere la mano sull'elsa della spada d'argento, quasi che la neve fosse un
nemico in attesa di aggredirlo.
«Mio signore!» esclamò. «Vederti mi rallegra! Stavo aspettando qui, nella
speranza che tornassi indietro, e ci stiamo chiedendo cosa sia andato storto.»
«Molte cose» rispose Evandar. «Ci siamo avvicinati tanto da permettere al
tempo di invaderci.»
«Davvero, mio signore? Ebbene, sembra che esso stia vincendo la batta-
glia.»
Evandar indugiò a contemplare il fiume d'argento, dove mucchi di canne
morte si erano arenati lungo le rive e l'acqua scorreva più lenta del consueto.
«Dov'è la mia gente?» chiese poi.
«Ti aspetta nel padiglione.»
Insieme si avviarono giù per la collina fra l'erba secca e la neve, raggiun-
gendo la riva del fiume su cui, a una certa distanza, sorgeva un padiglione di
stoffa dorata che adesso pendeva da un lato a causa del peso della neve che si
era accumulata sul tetto e ammucchiata sul suo lato sottovento; avvolti nel
mantello sopra l'armatura, gli uomini della banda di guerra di Evandar erano
radunati all'esterno intenti a parlare fra loro.
Il popolo di Evandar era costituito da individui avvenenti, in quanto quei
corpi illusori erano stati modellati a imitazione della razza elfica, con capelli
chiari come la luce lunare o dorati come i raggi del sole che si abbinavano a
occhi viola, grigi o ambrati e a orecchi affusolati e delicatamente ricurvi. I
più avevano la pelle chiara, ma alcuni di essi avevano avuto modo di vedere
gli umani che abitavano nelle lontane isole meridionali e avevano imitato il
colore della loro pelle, scura come la terra appena arata bagnata dalla pioggia.
«È tornato!» avvertì Menw.
Gli uomini della banda di guerra lanciarono un grido di gioia e mentre E-
vandar e Menw si affrettavano a raggiungere il padiglione, anche le dame
sbucarono all'esterno, guidate dalla Principessa della Notte, una donna dalla
pelle scura e dai ricci capelli neri; il loro abbigliamento, costituito da vesti di
seta dai colori sgargianti come quelli della primavera, non era certo adeguato
a proteggerle dal gelo circostante.
«Cosa significano questi strani eventi?» domandò la Principessa della Not-
te. «Cosa ha reso il mondo tanto freddo?»
«Si chiama neve» spiegò Evandar. «Cade nel corso della stagione che uo-
mini ed elfi definiscono inverno.»
«È una sostanza fastidiosa! Falla scomparire.»
Gemendo e protendendo le mani con aria supplichevole, uomini e donne
gli si accalcarono intorno in pari misura e nel guardarli bene Evandar si rese
conto che il freddo li stava facendo soffrire, perché erano giunti a credere nel-
la realtà dei loro corpi illusori a tal punto da risentirne gli effetti. Al tempo
stesso, però, acquistò consapevolezza anche di una cosa molto più importan-
te, e cioè del fatto che aveva infine imparato cosa significasse la sofferenza e
che per questo la loro infelicità gli causava dolore.
Una lezione davvero strana! pensò fra sé. E quante altre cose ancora po-
trei imparare se nascessi nel mondo del tempo?
«Per favore, mio signore, per favore!» imploravano intorno a lui molte vo-
ci. «Riporta qui la primavera.»
Il potere di Evandar derivava dal piano astrale superiore, ma molti eoni
prima lui aveva imparato a intrecciare come un tessitore la sostanza del piano
astrale inferiore sul telaio della propria volontà in modo da generare forme e
immagini, così come aveva appreso come evocare potere che rendesse stabili
quelle forme e desse loro un'anima.
Lanciando un grido, levò le braccia sopra la testa e nell'appuntare lo sguar-
do sulla luce che vorticava appena al di là del cielo grigio si visualizzò nel-
l'atto di scagliare dalle dita immagini di reti che la intrappolassero e la traes-
sero entro la sua portata. Afferrando a manciate quell'energia, la scagliò
quindi intorno a sé nel fiume, sul terreno e sulla sua gente che prese a ridere e
afferrò al volo ciò che le veniva dato, come bambini che afferrassero le mo-
nete lanciate loro da un grande nobile.
All'improvviso l'aria si fece più calda, la neve si sciolse e il fiume prese a
scorrere più vigoroso, alimentato dal nuovo potere, mentre sulle rive le canne
tornavano ad assumere una vivida tonalità verde e in alto il sole riprendeva a
splendere nel cielo. Tratta a sé altra luce, Evandar la sparse intorno girando
su se stesso e ovunque caddero quelle gocce di energia scintillante sbocciaro-
no i fiori.
Inneggiando a lui, la sua gente si liberò dei mantelli e un bardo si mise a
suonare l'arpa imitato subito da altri.
«Avanti, danziamo!» esclamò ridendo la Principessa della Notte, rivolta al-
le sue donne.
Esse subito presero per mano gli uomini e li trascinarono con sé ridendo e
cantando; soltanto Menw rimase accanto a Evandar mentre gli altri iniziava-
no a danzare sui prati soleggiati.
«Mio signore?» osservò d'un tratto. «Non è possibile che sia tuo fratello il
responsabile di questo inverno?»
«Non lo so, ma è una supposizione valida e credo che andrò a chiederglie-
lo» replicò Evandar. «Paggio, i nostri cavalli!»
Il ragazzo arrivò subito conducendo per la briglia uno stallone dorato per
Evandar e un castrato nero per Menw. I due montarono in sella e si avviarono
risalendo il fiume, che in quella direzione si restringeva e si faceva più rapido
a mano a mano che le rive intorno a esso si alzavano fino a racchiuderlo in
una profonda gola. Mentre intorno a loro la luce impallidiva di colpo e assu-
meva una tonalità verdastra che al limitare del campo visivo si mutava in una
densa nebbia, Evandar e Menw si addentrarono in una foresta di antichi e no-
dosi alberi, il cui sottobosco era composto prevalentemente da fitte felci mi-
ste a rovi e a viticci. Nonostante la folta vegetazione, i cavalli procedettero
spediti senza rallentare o incespicare e senza che un singolo ramoscello osas-
se protendersi ad agganciare gli abiti dei due cavalieri. Nella luce spettrale
che li circondava, i due potevano vedere fra gli alberi enormi pietre e rovine
che parlavano di fortezze diroccate e di perduti re, rovine di cui neppure E-
vandar conosceva la natura in quanto quella foresta era opera sua solo in par-
te e la loro direzione di marcia li stava portando fuori dalla zona che gli ap-
parteneva.
Al confine estremo dei domini di Evandar sorgeva un albero per metà co-
perto di un ricco fogliame estivo e per metà avviluppato da fiamme eterne:
quando lo raggiunsero, i due fecero rallentare i cavalli al passo e lo aggiraro-
no con cautela perché esso indicava il punto in cui le strade s'incrociavano in
maniera davvero particolare.
«Ti ho mai parlato dell'uomo chiamato Domnall Breich?» chiese d'un tratto
Evandar.
«Lo hai fatto, mio signore» rispose Menw.
«Mi chiedo come stia adesso. Nelle sue terre il tempo scorre in maniera co-
sì diversa che non ho idea se è invecchiato di un solo giorno o di vent'anni.»
«Ha importanza?»
«No. Nei presagi soltanto suo figlio ne ha, ma mi auguro comunque che
Domnall stia bene.»
Al limite estremo dell'impero di immagini creato da Evandar, si stendeva
una spoglia pianura e oltre l'orizzonte pareva che infuriasse sempre un vasto
incendio che levava grandi pennacchi di fumo verso il sole color rame nell'a-
ria secca e aspra. Là non c'era nulla di vivente, neppure uno stelo d'erba, e
nulla infrangeva il silenzio se non un rombo di tuono che echeggiava a tratti
dal fumo eterno. Nel guardarsi intorno, Menw si agitò a disagio sulla sella.
«Non c'è segno di lui, mio signore» osservò poi.
«Verrà quando lo chiamerò. Io conosco il suo vero nome» replicò Evandar,
poi gettò indietro il capo e gridò, con quanta voce aveva: «Shaetano! Io ti
convoco! Shaetano!»
Le sue parole parvero echeggiare sonore quanto i tuoni e la sua voce giunse
lontano; per qualche tempo i due attesero in silenzio mentre i cavalli caracol-
lavano e scuotevano la testa con fare irrequieto.
«Shaetano!» tentò poi di nuovo Evandar. «Ti chiamo alla piana della batta-
glia!»
Seguì un'altra attesa punteggiata in lontananza da fulmini alternati a rombi
di tuono, ma ancora Shaetano non si fece vedere.
«Comincio a ricordare una cosa» osservò allora Evandar. «Conoscevo an-
che il nome di Alshandra, ma lei è sempre riuscita a sfuggirmi senza difficol-
tà una volta che si è creata un gruppo di adoratori fra i Fratelli dei Cavalli.»
«Non capisco, mio signore» mormorò Menw.
«Neppure io ci capisco qualcosa. Sto soltanto enunciando quello che i sag-
gi elfici definirebbero un dato di fatto. Alshandra deve aver tratto potere dai
suoi adoratori, servendosene per crearsi una vita indipendente nel loro mondo
e fuori dalle nostre terre, quindi perché escludere che Shaetano stia facendo
la stessa cosa?»
Menw accennò a ribattere, ma poi si limitò a fissarlo con espressione con-
fusa e perplessa.
Prima di incontrare Dallandra, anch'io non sarei stato capace di collegare
così bene fra loro questi due eventi, rifletté Evandar.
«Perché non torni dagli altri e ti unisci ai festeggiamenti?» suggerì ad alta
voce. «Inseguirò Shaetano da solo.»
«Ti ringrazio, mio signore! Quando tornerai?»
«Non lo so. Il più presto possibile, anche se ho più di un compito da assol-
vere. Shaetano può anche essere il più grosso dei miei problemi, ma purtrop-
po non è l'unico» replicò Evandar, poi smontò di sella e gettando le redini
dello stallone a Menw aggiunse: «Riporta indietro anche il mio cavallo, per-
ché non ne avrò bisogno.»

Nel corso dei lunghi e oscuri mesi invernali, Raena si recò spesso al tempio
in rovina per invocare il Signore del Caos e qualche volta permise a Verrarc
di accompagnarla, anche se il più delle volte insistette per andare da sola no-
nostante lui si ostinasse a voler andare con lei.
«C'è da avere paura ad andare in giro di notte con tutta quella neve intor-
no» obiettò lui una volta. «Cosa accadrebbe se dovessi cadere e farti del ma-
le?»
«In quel caso tu verresti a cercarmi prima dell'alba, giusto?» replicò lei,
battendogli un colpetto rassicurante sul braccio. «Non temere, amore mio,
quando il Signore del Caos dirà che puoi farlo, verrai con me e apprenderai
ciò che io già so.»
Dopo che Raena se ne fu andata, Verrarc rimase a camminare nervosamen-
te avanti e indietro davanti al fuoco, in attesa, per quella che gli parve mezza
nottata. Alla fine decise di andare a letto, per non dare a Raena la soddisfa-
zione di sapere che l'aveva aspettata alzato e tormentato dalla gelosia dovuta
al sapere segreto che lei stava apprendendo dai suoi strani maestri.
Si era però appena coricato quando Raena fece ritorno, sgusciando nella
camera da letto con qualcosa in mano. Giacendo immobile nel letto, con gli
occhi socchiusi, Verrarc rimase a osservarla alla luce dei carboni ardenti sen-
za farle capire che era sveglio e la vide posare sulla pietra del focolare l'og-
getto che aveva con sé, una ciotola piena di neve. Mentre la neve si scioglie-
va, Raena si sfilò i vestiti e li appese a un piolo vicino alla porta; nuda e tre-
mante, s'inginocchiò quindi davanti al focolare e dopo aver riflettuto per un
momento procedette ad alimentare con esca e rametti il fuoco morente da cui
ben presto si levarono vivide fiamme che proiettarono ombre danzanti per
tutta la stanza.
Sbadigliando, Verrarc finse di svegliarsi solo allora e si sollevò a sedere
stiracchiandosi.
«E così sei tornata.»
«Infatti, e sono molto preoccupata» affermò Raena, accoccolandosi sui tal-
loni e girandosi a guardarlo. «Il Signore del Caos mi ha avvertita che in que-
sta città c'è qualcuno che ha un grande talento per operare il dweomer, una
donna che teme possa rivelarsi una nemica per lui e per me.»
«Ti ha detto chi può essere?»
«No, ma evocherò immagini nell'acqua e cercherò di rintracciarla» replicò
Raena.
Quando si protese in avanti sulla bacinella, i lunghi capelli neri scivolarono
a incorniciarle il volto, lucidi sotto la luce del fuoco, e una ciocca andò a in-
sinuarsi come un serpente fra i suoi seni nudi.
«Cosa vedi?» sussurrò Verrarc.
«Ancora nulla» rispose Raena, con espressione concentrata. «Ah! Eccola!
Ora la vedo ma in modo vago... non distinguo il suo volto, solo il suo porta-
mento, e a giudicare da come cammina deve essere giovane.»
Per qualche momento il solo rumore fu il crepitare del fuoco che proiettava
lunghe schegge di luce in giro per la stanza fra pigre volute di fumo, poi...
«Questa sì che è una sorpresa, Verro» affermò Raena. «Si tratta di quella
ragazza bruna, la figlia del cacciatore di topi.»
«Niffa?»
«Proprio lei» dichiarò Raena, distogliendo lo sguardo dalla ciotola e accoc-
colandosi di nuovo sui talloni. «È necessario eliminarla.»
«Non se ne parla neppure, Rae, non intendo permetterlo. Non puoi fare del
male a quella ragazza.»
«Davvero?» ribatté lei, socchiudendo gli occhi e cambiando tono. «E posso
chiederti il perché?»
Nel parlare si alzò in piedi e si stiracchiò vicino al calore del fuoco, senza
però cessare di fissarlo con aria cupa e sospettosa, cosa da cui Verrarc dedus-
se che doveva essere gelosa.
«Non è per lei, ma per sua madre» replicò. «Ho un debito verso quella
donna, un grande debito, e non intendo permettere a nessuno di fare del male
alla sua famiglia.»
Raena rifletté per un momento sulle sue parole, poi si rilassò con una scrol-
lata di spalle.
«E in cosa consisterebbe questo debito?» domandò.
«Mi ha risparmiato dei dolori, e io non intendo causarne a lei. Si tratta di
mio padre. Quando eri ragazza sei venuta spesso qui dal nord per il Grande
Mercato e senza dubbio lo avrai visto all'apertura della fiera, tutto sorrisi e
inchini nell'accogliere i mercanti e gli uomini che in qualche modo potevano
recargli profitto, ma non lo hai mai visto a casa. Picchiava sia me che mia
madre e sono certo che sia stato lui a ucciderla, anche se ancora oggi non so
in che modo» spiegò Verrarc, con voce ridotta a un sussurro, serrando i pu-
gni. «Ero troppo giovane per capire, ma ricordo il suo volto rosso e gonfio
mentre lei piangeva, poi è arrivata l'erborista e ha ordinato alla nostra serva di
portarmi fuori di casa. Quando siamo rientrati, lei era morta.»
«Oh!» sussurrò Raena. «Non ne ho mai saputo nulla.»
«È una cosa che ho tenuta chiusa dentro di me, come un prezioso veleno»
replicò Verrarc, costringendosi a rilassare le mani e traendo un profondo re-
spiro per rendere salda la voce. «Dopo quanto era successo, nessun'altra don-
na lo ha voluto sposare e a lui non è rimasto più nessuno tranne me su cui
sfogare le sue ire. Guarda: aveva una cintura con la fibbia d'argento e io ne
porto ancora i segni.»
Sedutasi sul letto, Raena scivolò in parte sotto le coltri e si girò in modo da
poter vedere la schiena che lui le offriva, facendo scorrere dita morbide e cal-
de sulle vecchie cicatrici che la segnavano.
«Mi ero chiesta cosa le avesse causate» mormorò. «E come entra Dera in
questa storia?»
«In questa dannata città, tutti sapevano quello che mio padre mi faceva ,ma
non c'era nessuno che fosse disposto a darmi riparo quando lui era in preda
alle sue crisi di furia o a intervenire in mia difesa. Nessuno tranne Dera. Può
darsi che sia soltanto una cacciatrice di topi, ma ha un'anima nobile ed è co-
raggiosa quanto uno dei suoi furetti. Quando andavo da lei, era disponibile ad
accogliermi in casa e non permetteva a mio padre di varcare la sua soglia per
quanto lui infuriasse e imprecasse, e ogni volta che lo incontrava per strada
era pronta ad accusarlo e a indicarlo a tutti i passanti, commentando su quan-
to fosse vergognoso che un uomo picchiasse un bambino che non era grande
neppure la metà di lui. In questo modo ha indotto gli altri a vergognarsi di lo-
ro stessi e a prendere posizione contro mio padre, che alla fine ha smesso di
picchiarmi.»
«Capisco» mormorò Raena, posandogli le mani sulle spalle. «Ti prometto
che non torcerò un solo capello a quella ragazza. Verro. Anzi, comincio a
chiedermi se non sia possibile fare amicizia con lei e vedere se questi suoi ta-
lenti possano essere utilizzati al servizio degli dèi.»
«Ti ringrazio» replicò Verrarc, girandosi a guardarla. «Non voglio che De-
ra abbia a soffrire per causa nostra.»
«Io non le causerò problemi, te lo giuro.»
Raena sigillò quel giuramento con un bacio a cui ne seguì un altro più in-
tenso, poi Verrarc l'afferrò per le spalle e la spinse supina, possedendola co-
me piaceva a lei... rudemente... fino a quando giacquero tutti e due appagati e
spossati.

Sul piano astrale superiore, ciò che Evandar immaginava diventava reale,
sia pure per un breve periodo di tempo, mentre là sul piano fisico ciò che lui
immaginava non accennava neppure a esistere.
«È un enigma» commentò lui fra sé. «Uno dei più grandi che ho incontrato
finora.»
In quel momento si trovava in piedi su un muro di pietra ricoperto di mu-
schio e di edera, tutto ciò che rimaneva del Palazzo dello Zodiaco della città
di Rinbaladelan, la Città della Luna. Nel corso dei circa mille anni trascorsi
da quando la città era caduta, la foresta circostante era venuta avanti per re-
clamare quell'area e, da dove si trovava, Evandar poteva contemplare un pa-
norama ricco di vegetazione, con gli alberi che crescevano da crepe nella pa-
vimentazione delle strade, viticci e muschio che coprivano i muri ed erba e
cespugli che invadevano quelli che erano stati eleganti cortili. Appena sotto
di lui, un paio di corvi si stavano inseguendo a vicenda fra acute strida, quasi
si prendessero gioco dei suoi vani sforzi. Ricordando con chiarezza come
fosse stata quella parte della città, infatti, Evandar ne stava ricreando l'imma-
gine nella mente, ma essa si ostinava a restare un semplice ricordo impotente,
e per quanto lui si sforzasse di invocare la luce astrale, essa continuava a ri-
fiutare di materializzarsi.
Dallandra aveva cercato di spiegargli la differenza che esisteva fra il mon-
do degli elfi e degli uomini da un lato e la sua luminosa terra dall'altro, ma
per quanto avessero senso quando la stava ascoltando, le sue parole gli svani-
vano dalla mente rapide come semplici immagini non appena loro si separa-
vano, perché lui non era in grado di capire cosa Dallandra intendesse dire con
parole come materia o inerzia delle forme. Anche se aveva viaggiato spesso
per quel mondo fatto di tempo e di pietra, infatti, non vi aveva mai vissuto,
non aveva mai avuto un vero corpo fisico, né si era sentito vincolato dal tra-
scorrere degli anni.
«E non lo sarò mai! Meglio dissolversi che fare questa fine!»
Adesso però per la prima volta nei quattrocento anni trascorsi da quando
aveva cominciato a riflettere su quegli interrogativi, le sue parole orgogliose
gli parvero vacue e vuote. Cosa si provava a svanire, a cessare di esistere, a
morire? Non morire per rinascere, trascinandosi all'infinito attraverso il fango
e la sofferenza del mondo del tempo, ma semplicemente morire, una volta per
tutte, e scivolare via come una delle sue immagini mentali senza però avere
nessuno che lo ricordasse? Questo concetto di morte definitiva gli era ancor
meno chiaro dei discorsi che Dallandra faceva riguardo alle cose astrali e ma-
teriali, ma sapeva che l'idea di svanire nel nulla lo spaventava.
Saltato giù dal muro, si lasciò cadere nel sottostante cortile invaso dalle er-
bacce. Se ricordava in modo esatto, sotto l'edera che ricopriva il tratto di mu-
ro diroccato che lui aveva davanti doveva esserci un dipinto del Palazzo del
Sole di Bravalmelim, un'altra città del Popolo dell'Ovest che sorgeva un tem-
po nel lontano nord. Afferrati alcuni viticci d'edera prese a tirare per staccarli
dal muro e con radici e steli da esso caddero anche pezzi di sporcizia, foglie
morte, qualche lumaca e schegge di una strana sostanza granulosa e tinta di
colori sbiaditi. Incuriosito, Evandar raccolse una scheggia un po' più grande
delle altre e nel vedere che su di essa spiccavano segni che parevano parte di
un carattere della lingua elfica si rese conto con un senso di gelo che ciò che
stava vedendo era esattamente questo: una runa elfica.
Nel dipinto che rammentava erano state presenti anche alcune parole e a-
desso nel tentativo di riportarlo alla luce lui stava evidentemente distruggen-
do quel poco che ancora sopravviveva sotto la coltre di edera. Imprecando fra
sé, lasciò cadere la scheggia, dicendosi che sarebbe stato meglio non toccare
nulla fino a quando non si fosse fatto un'idea di come procedere per salvare le
preziose reliquie di quel luogo che aveva tanto amato un tempo. Sulla scia di
quelle riflessioni si ricordò poi di qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo e che
in effetti conosceva la pianta originale di quella città bene quasi quanto lui,
ma decise che prima doveva occuparsi di quel furfante di suo fratello.
Mentre la fresca brezza marina agitava il fogliame incolto portando con sé
un sentore di marcescenza, Evandar si levò nell'aria, mosse un passo nel ven-
to e lasciò che i suoi vortici lo trasportassero fino al Rhiddaer e, sperava, da
Shaetano.

I preti dei Gel da Thae erano convinti che gli dèi avessero donato Cerr Ca-
wnen agli umani del Rhiddaer come indennizzo per quello che avevano sof-
ferto per mano degli Schiavisti, e in effetti in quei tempi la città sembrava
davvero essere sotto una benedizione divina, in quanto il lago era circondato
da terre fertili che elargivano ricchi raccolti di avena e d'orzo, due volte più
abbondanti di quelli che con la stessa fatica si potevano ottenere nell'Arcodd.
Inoltre, anche se nessuno ne sapeva il perché, coloro che bevevano le fumanti
acque minerali del lago sviluppavano ossa robuste e di rado perdevano i denti
con la vecchiaia, perfino le donne che si nutrivano prevalentemente di pane
d'orzo. In aggiunta a questo, la città sorgeva a un crocevia di strade mercanti-
li, perché i Gel da Thae dell'ovest e i mercanti dei nani provenienti dall'est
venivano entrambi a Cerr Cawnen per barattare fra loro e con gli abitanti del
Rhiddaer. La ricchezza più grande, però, giaceva nascosta nelle vicine colli-
ne, solcate da vene di pietre di luna e piene di cristalli vulcanici dai colori
dell'arcobaleno.
Era stato il commercio di quelle pietre ad arricchire il padre di Verrarc e lui
stesso aveva una certa esperienza in fatto di commerci. Da ragazzo si era re-
cato all'est con le carovane e aveva visto come si viveva a Dwarvenholt, nelle
montagne del settentrione, notando che quel popolo allevava poche pecore e
si procurava a caro prezzo la maggior parte della lana e del lino dai confini di
Deverry. Nel corso di uno di quei viaggi, Verrarc aveva portato con sé alcune
balle di pregiato filo per tessere e ne aveva ricavato dodici volte il loro valore
in gioielli lavorati che quell'autunno i Gel da Thae gli avevano comprato a un
prezzo molto elevato, fornendogli così il capitale per acquistare della stoffa al
posto del filo.
Ora che suo padre era ormai morto da tempo, Verrarc si era costruito una
fortuna come mercante di lana e procurava gemme soltanto in via di favore a
clienti di vecchia data, perché essendo lungimirante sapeva che un giorno le
vene di pietre preziose si sarebbero esaurite, mentre ci sarebbero stati sempre
nuovi agnelli e nuove scorte di lana a ogni primavera. Di riflesso, grazie a lui
la Corporazione dei Tessitori era diventata una vera e propria potenza a Cerr
Cawnen.
«Mi ha fatto molto piacere quando tuo padre è venuto da noi con la propo-
sta di matrimonio» commentò Emla, rivolta a Niffa, «perché la tua famiglia
occupa un posto speciale nel cuore del Consigliere Verrarc.»
«Infatti» annuì Niffa. «Sono lieta che la cosa ti soddisfi.»
Mentre conversavano, le due donne stavano risalendo il tortuoso sentiero
che portava in cima alla Cittadella sotto un limpido ma freddo sole invernale,
che si rifletteva sui campi innevati circostanti la città, dirette alla casa del
consigliere; infatti se Cronin era quello che sapeva tutto ciò che c'era da sape-
re in fatto di tessuti e di telai, era peraltro Emla a occuparsi di gestire gli affa-
ri per conto della famiglia.
«Non vedo nulla di male a portarti con me per questa trattativa e può darsi
che ne derivi invece qualcosa di buono» continuò Emla. Comunque mi piace
che tutte le mie figlie sappiano trattare vantaggiosamente gli affari, quindi è
meglio che cominci a imparare. Magari un giorno Demet avrà un negozio tut-
to suo e questo ti servirà.
«Sarebbe davvero splendido!»
Arrivate davanti all'ingresso del cortile del consigliere, le due donne si
fermarono per riprendere fiato ed Emla ne approfittò per tirare fuori dalla
propria sacca un pettine d'osso e spingere indietro il cappuccio per rassettarsi
i capelli, porgendo poi il pettine a Niffa perché facesse lo stesso.
«Anche avere un aspetto ordinato non fa mai male» commentò.
Trovarono la porta d'ingresso di Verrarc spalancata e nell'oltrepassare la
soglia sentirono la vecchia Korla rimproverare a gran voce qualcuno che
piangeva e cercava di giustificarsi; un momento più tardi Magpie arrivò cor-
rendo lungo il corridoio e per poco non le travolse. Arrestandosi per un mo-
mento, la ragazza guardò verso di loro, scoppiò nuovamente in pianto e si
precipitò fuori, mentre dietro di lei Korla sopraggiungeva a passo più lento e
borbottando fra sé.
«Devo scusarmi con te, Dama Emla» disse. «Mi manca la pazienza per ge-
stire quella ragazza, perché sono troppo vecchia e il freddo mi fa dolere le os-
sa.»
«Cosa c'è che non va?» domandò Emla.
«Ah, ha toccato qualcosa che appartiene al padrone e quella donna mi ha
rimproverata» spiegò Korla, con una smorfia di disgusto, aggiungendo: «Da
quella vera signora che è. Comunque senza dubbio voi siete qui per vedere il
padrone e non per stare ad ascoltare me.»
Trovarono Verrarc che le aspettava seduto sulla sua sedia preferita davanti
al fuoco, nella sala principale. Al loro ingresso, il consigliere scattò in piedi,
fece accomodare Emla sull'altra sedia e accostò al focolare una panca in mo-
do che anche Niffa si potesse scaldare.
«Salve Niffa» salutò, poi subito si corresse: «No, no, adesso sei Dama Nif-
fa! Come ti vanno le cose?»
«Bene, consigliere. E a te?»
«Molto bene, grazie» rispose Verrarc, e tuttavia nel parlare continuò a
guardarsi furtivamente intorno, quasi si aspettasse di vedere qualche proble-
ma pronto ad aggredirlo a tradimento. «Stai imparando il commercio della
lana, vedo.»
«Madre Emla è tanto buona da permettermi di osservarla per imparare.»
«Splendido! Splendido! È meglio approntare i nostri piani ora per poter a-
vere commerci proficui in primavera.»
Per parecchio tempo Verrarc ed Emla discussero poi di tessuti, mentre Nif-
fa faceva del suo meglio per ascoltare. A quanto pareva, i Gel da Thae prefe-
rivano alcuni tessuti mentre i nani ne prediligevano altri, ma quanto ai colori
desideravano un rosso acceso che non sbiadisse né scolorisse.
«Se possedessi il segreto per creare un rosso del genere, sarei senza dubbio
ricca quanto te, consigliere» dichiarò Emla, infine. «Nessun colore a me noto
resiste però a più di un'estate sotto il sole e a qualche lavaggio energico nel-
l'acqua di un fiume.»
«E questo è un vero peccato. Ah, bene, pazienza! Come procede il vostro
lavoro? Quante balle avrete pronte per me allo sciogliersi delle nevi?»
Nel corso della lunga discussione che seguì a quella domanda Niffa ebbe
serie difficoltà a restare sveglia, perché il calore della stanza e le voci som-
messe avevano un effetto rilassante e nelle ultime notti lei e suo marito ave-
vano dormito assai poco. A un certo punto arrivò addirittura ad assopirsi, ma
riuscì a riscuotersi prima che Emla se ne accorgesse, e stava ormai comin-
ciando a chiedersi fra quanto tempo sarebbero finalmente tornate a casa
quando la porta si aprì e Raena sgusciò nella stanza.
Niffa si sentì subito sul chi vive e del tutto desta allorché la donna attraver-
sò la stanza con un cenno di saluto per tutti e si venne a sedere accanto a lei
sulla panca; per l'occasione, Raena indossava due larghi vestiti sovrapposti e
fermati in vita da una sopragonna, come si addiceva a una donna sposata, e i
suoi capelli erano ordinatamente raccolti sotto una sciarpa.
«Spero di non disturbare» osservò in tono cordiale.
«Per nulla» garantì Verrarc. «Ormai ci siamo detti tutto quello che dove-
vamo.»
Sia pure a denti stretti, Emla annuì.
«Desideravo salutare le nostre ospiti» spiegò Raena, e girandosi verso Nif-
fa con un sorriso, aggiunse: «Mi fa sempre piacere vederti.»
«Ah... ti ringrazio» rispose a fatica Niffa.
Raena la stava fissando in pieno volto con quei suoi occhi scuri che alla lu-
ce del fuoco sembravano due polle d'ombra profonde e pericolose, quasi a-
vessero avuto il potere di trasformarsi in laghi d'inchiostro nero e annegarla.
D'un tratto Niffa ebbe l'impressione che Raena avesse proteso entrambe le
mani per afferrarla e costringerla a fissare a sua volta quelle polle d'oscurità e
con uno sforzo della volontà interruppe il contatto, alzandosi in piedi.
«Chiedo scusa» mormorò, «ma il freddo e le correnti d'aria mi hanno fatto
venire i crampi alla schiena.»
«Quella panca non è certo il sedile migliore che abbiamo» si scusò Verrarc.
«Avrei fatto meglio a portare di qui una sedia dall'altra stanza.»
«Oh, non ti disturbare, consigliere» intervenne Emla, alzandosi a sua volta
con un cenno del capo. «Ora è meglio che torniamo a casa, perché c'è la cena
da preparare e abbiamo anche altre cose da fare.»
«Ma certo» annuì Raena, costringendosi a sorridere. «Niffa, quando avrai
un po' di tempo libero, in queste lunghe giornate d'inverno, vieni a farci visi-
ta. Sarà piacevole fare una chiacchierata di tanto in tanto.»
«Ti ringrazio» replicò Niffa, costringendosi a reprimere l'ostilità che pro-
vava nei suoi confronti. «Però ho del lavoro da fare a casa. Sto imparando a
filare, capisci, ed è una cosa che non ho mai fatto prima.»
«Imparerai, ragazza, imparerai» la rassicurò Emla. «Ti ringrazio, consiglie-
re. Riferirò a Cronin quello che mi hai detto.»
Invece di chiamare Korla, Verrarc le accompagnò di persona alla porta e
una volta sulla soglia afferrò il mantello appeso a un piolo come obbedendo a
un impulso improvviso.
«Se posso, vorrei accompagnarvi fino alla riva» disse.
«Ma certo» replicò Emla, inarcando un sopracciglio con aria sorpresa. «Per
noi è senza dubbio un piacere.»
Percorsero in silenzio le prime svolte della strada, ma una volta oltrepassa-
to il granaio pubblico, quando arrivarono nel punto il cui il sentiero si allar-
gava, Verrarc d'un tratto si fermò.
«Ho un favore da chiedervi» mormorò. «Se poteste trovare nel vostro cuore
la voglia di perdonare Raena, ve ne sarei per sempre grato. Si sente sola, tan-
to sola che a volte guardarla mi fa dolere il cuore. Senza dubbio il nostro a-
dulterio è stato colpa mia tanto quanto sua, anzi, molto più mia che sua, e tut-
tavia nessuno dei nostri concittadini mostra disprezzo nei miei confronti o mi
copre di vergogna.»
Emla sospirò e scoccò un'occhiata in direzione di Niffa, per poi riportare la
propria attenzione su Verrarc.
«In effetti non è giusto» replicò, «ma l'onore di una donna si spezza con
una rapidità doppia di quello di un uomo e richiede un tempo doppio per ri-
sanarsi. Consigliere, spero di non travalicare i limiti di ciò che mi è permesso
dire, ma se vuoi davvero che la gente dimentichi e perdoni, devi sposare
quella povera donna con tutte le formalità. Inoltre nel corso della tua festa di
nozze non sarebbe male se distribuissi un po' di monete ai poveri.»
Verrarc annuì, lo sguardo fisso al suolo.
«Io voglio farlo» dichiarò, «ma Colei che Parla con gli Spiriti non è dispo-
sta a darci la sua benedizione. Gliel'ho già chiesto.»
«Werda è una santa donna e gode del favore degli dèi» affermò Emla, sbuf-
fando con impazienza, «ma credo che a volte dimentichi cosa sia l'esistenza
per il resto di noi. Se vuoi, consigliere, posso parlarle io.»
«Lo faresti davvero?» esclamò lui, sollevando lo sguardo con un sorriso
che in quel momento lo fece sembrare giovane quanto Demet e altrettanto in-
namorato. «Il mio cuore si riempirebbe di gratitudine!»
«In tal caso le parlerò al più presto. Ora è meglio andare, Niffa, in modo da
essere a casa prima che sopraggiunga il freddo notturno. Consigliere, è inutile
che tu faccia altra strada con noi.»
«Ne sei certa? Benissimo, in tal caso accetta i miei umili, umilissimi rin-
graziamenti.»
Agitando allegramente la mano in un gesto di saluto, Verrarc si avviò per
risalire la collina ed Emla attese che non fosse più a portata di udito prima di
rivolgersi a Niffa.
«Ora ascoltami bene, Niffa» le disse. «Capisco benissimo perché tu non
voglia stringere amicizia con una sgualdrina come quella Raena, ma nell'inte-
resse dei nostri commerci sarebbe meglio assecondarla... per il bene della no-
stra famiglia, intendo. Riesci a capirlo?»
«Lo capisco» rispose Niffa, sentendo lo stomaco che le si contraeva per il
disgusto, «ma non è il suo comportamento con gli uomini che mi dà fastidio.
Si tratta di un'altra sensazione che lei mi trasmette, come se in un campo mi
capitasse di calpestare un animale morto.»
«Oh, suvvia! A volte hai un modo di esprimerti davvero strano, sai? Ora
torniamo a casa. Ne parleremo ancora durante la cena.»

Dopo essersi congedato dalle due donne, Verrarc imboccò la scorciatoia


che passava fra il masso e l'armeria della milizia senza curarsi dello spesso
strato di ghiaccio che si era creato nelle zone d'ombra, perché quella era una
strada che aveva fatto così tante volte fin da bambino da sapere con esattezza
dove mettere i piedi. Era arrivato circa a metà del tragitto quando si rese con-
to che qualcuno era fermo vicino al sentiero, appoggiato al tronco di un anti-
co pino.
«Consigliere Verrarc?» chiamò l'uomo, venendo avanti. «Posso scambiare
qualche parola con te?»
«Certamente, anche se temo di aver dimenticato il tuo nome.»
Alto e snello, avvolto in un mantello azzurro, lo sconosciuto aveva un a-
spetto abbastanza umano... almeno fino a quando lo sguardo di Verrarc non si
posò sugli orecchi lunghi e appuntiti, notando al tempo stesso il colore giallo
acceso dei capelli e l'altrettanto innaturale tonalità azzurro carico degli occhi.
«A dire il vero non puoi aver dimenticato il mio nome, perché non lo hai
mai conosciuto» replicò lo sconosciuto, con un pigro sorriso. «Io sono il fra-
tello del Signore del Caos.»
Verrarc sentì un brivido corrergli lungo la schiena. In effetti là nell'ombra
quell'essere sembrava davvero stranamente privo di peso, come se i suoi pie-
di non avessero poggiato davvero sul terreno e lungo i contorni il suo corpo
appariva quasi trasparente, come se fosse stato fatto di acqua opaca e non di
carne e ossa.
«Se vuoi mi puoi chiamare il Signore dell'Armonia» proseguì lo sconosciu-
to. «Sono venuto per darti un avvertimento.»
«Davvero?» domandò Verrarc, ritrovando infine la voce. «E da dove sei
venuto, buon signore?»
«Dalla mia bella terra, che si trova molto lontano. Tu però farai meglio a
tenere d'occhio la tua donna.»
«Raena? Cosa? Come fai a sapere...»
«Vedi, mio fratello è molto abile a combinare guai e io cerco sempre di te-
nerlo sotto controllo ogni volta che mi è possibile. Ho visto la tua donna ado-
rarlo come se fosse un dio.»
«E non lo è?»
«Per nulla, come non lo sono io. Il popolo che vive più a sud rispetto a voi
ci definisce i Guardiani... nome che può bastare a identificarci... e siamo ef-
fettivamente dotati di un grande potere per fare il bene o il male, come ho a-
vuto modo di imparare nel corso degli ultimi cento anni. Non ti fidare di lui,
Verrarc, ed è meglio che al riguardo tu metta le briglie anche alla tua donna.»
Verrarc sussultò, a corto di parole.
«I veri dèi non amano che qualcuno finga di appartenere alle loro file» pro-
seguì intanto il Signore dell'Armonia, «e tu faresti bene a ricordare alla tua
donna questa sgradevole verità.»
«Un momento! Chi sei tu per dirmi cose del genere?»
La creatura scoppiò in una risata prolungata e musicale come un accordo
d'arpa e scomparve, lasciandosi alle spalle la scia echeggiante della sua risata.
In preda alla confusione, al timore e all'ira, Verrarc risalì in fretta la collina
ed entrò in casa a passo di carica, spingendo di lato senza cerimonie Korla,
che era venuta alla porta. Raena lo stava aspettando seduta su una delle due
grandi sedie accostate al focolare, con i piedi appoggiati a uno sgabello, e
quando lo vide entrare gli rivolse un sorriso così radioso che lui sentì l'ira
dissolversi al pensiero di quanto fosse profondo l'amore che nutriva per lei. A
volte aveva addirittura l'impressione che se mai lei lo avesse lasciato, sarebbe
avvizzito e sarebbe morto, come un bambino abbandonato.
«Cosa ti turba, amore mio?» domandò Raena.
Invece di rispondere Verrarc si tolse il mantello, lo gettò su una cassa
«panca e si lasciò cadere sull'altra sedia, di fronte a lei.»
«Qualcosa ti turba» insistette Raena. «Che cosa?»
«È vero, sono turbato» ammise lui, stendendo le gambe verso il calore del
fuoco. «Poco fa nel tornare a casa ho incontrato qualcuno che si è presentato
come il Signore dell'Armonia e ha sostenuto di essere il fratello del tuo Si-
gnore del Caos.»
«Oho! Allora è venuto a interferire, proprio come il Signore del Caos mi
aveva avvertita che avrebbe fatto.»
«Cosa intendi dire?»
«Mi ha parlato di questo suo geloso fratello che lo seguiva ovunque spar-
gendo menzogne sul suo conto.»
«Davvero? Io però ho trovato stranamente facile credergli. Mi ha detto che
lui e il Signore del Caos non sono dèi ma spiriti, di una specie che lui ha de-
finito i Guardiani.»
«Sciocchezze» dichiarò Raena, agitando una mano nell'aria per respingere
quelle menzogne come se fossero state mosche fastidiose. «Si tratta solo di
stupide bugie.»
«Rae, usurpare il nome degli dèi è una cosa grave, e se questo Signore del-
l'Armonia ha ragione...»
«Sta sbagliando! Verro, come puoi startene lì seduto senza ascoltare nep-
pure una parola di quello che dico? Ti ripeto che il Signore del Caos mi ha
avvertita riguardo a questo suo stupido fratello.»
«Io credo a tutto quello che tu mi dici, ma avere fede nel Signore del Caos
è una cosa del tutto diversa. Se questo Signore dell'Armonia è davvero suo
fratello... e tu mi hai appena confermato che lo è... allora deve essere a sua
volta un dio e non un idiota o uno spirito geloso.»
Raena si tinse di un intenso rossore e si protese in avanti, le mani serrate
intorno ai braccioli della sedia.
«Ti ripeto che il Signore del Caos è un dio» ringhiò. «Quando opero la ma-
gia, avverto il suo potere su di me.»
«Il Signore dell'Armonia non ha negato che sia lui che suo fratello possie-
dano grandi poteri.»
«Non intendo ascoltarti!» inveì Raena, balzando in piedi in preda a un vio-
lento tremore. «Se pensi che sia una bugiarda, allora lascerò questa casa.»
«Rae!» esclamò Verrarc, alzandosi a sua volta con il cuore serrato dal pa-
nico. «No, no, non ho mai inteso dire...»
«Come posso restare qui ad ascoltare le tue parole blasfeme?» gridò lei.
scuotendo il capo. «Meglio congelare fra la neve!»
Con due rapidi passi Verrarc la raggiunse e la circondò con le braccia.
«Non mi lasciare!» esclamò. «Te ne supplico.»
«Allora non pronunciare altre parole blasfeme e non ascoltare quelle di
questa creatura che si definisce il Signore dell'Armonia.»
«D'accordo. Hai la mia parola.»
Sorridendo, Raena gli permise di baciarla, il primo bacio ne generò un se-
condo e Verrarc stava per suggerire di trascorrere a letto il resto di quella
fredda giornata quando sentì qualcuno tossire due volte dietro di loro; giran-
dosi di scatto, lui e Raena trovarono la vecchia Korla che li fissava con occhi
roventi.
«Sei pronto per la cena, padrone?» chiese. «Oppure devo lasciarla in attesa
al caldo?»
«Mangeremo subito, quindi puoi portare in tavola.»
Sbuffando, Korla uscì fra uno strascicare di ciabatte e si sbatté la porta alle
spalle.
«Odio quella donna!» sibilò Raena. «Dovresti buttarla fuori insieme a quel-
la sua orribile nipote deficiente.»
«E dove andrebbero? Korla ha servito bene mia madre e avrà un posto qui
finché vivrà.»
Raena parve sul punto di protestare, ma poi si limitò a una scrollata di spal-
le e si girò verso il focolare.
«Andiamo a cena» la incitò Verrarc, e quando lei esitò, continuando a fis-
sare il fuoco, insistette: «Per favore, amore mio, non facciamo freddare il ci-
bo.»
«Oh, d'accordo! Come preferisci» assentì Raena.
Quando lui provò a sfiorarle il braccio, si liberò però con uno strattone e
uscì a grandi passi dalla stanza senza aggiungere altro e Verrarc la seguì pen-
sando a come poteva scusarsi.
Nel far ritorno alla sua terra, Evandar scoprì che l'inverno stava tornando a
insidiarla: anche se il sole era ancora caldo e intenso, infatti, gli alberi aveva-
no perso di nuovo le foglie che adesso giacevano sparse sull'erba in un vasto
tappeto rosso e oro. Imprecando come una daga d'argento, attinse di nuovo
alla luce astrale per riversare energia nelle Terre, rivestendo gli alberi di fo-
gliame e riempiendo il fiume di acqua fresca, richiamando a nuova vita gli
uccelli e cospargendo i prati di fiori. Ovunque lui andasse tornava la prima-
vera... ma per quanto tempo sarebbe durata? D'ora in poi sarebbe forse stato
costretto a rimanere costantemente lì per lottare contro l'inverno, come un
nobile assediato nella sua fortezza?
Nel porsi quegli interrogativi, Evandar rifletté che forse sarebbe dovuto
andare a consultarsi con Dallandra in merito al cambiamento subito dalle
Terre, ma il pensiero del ferro e del tormento che da esso gli derivava lo rese
riluttante a farlo. D'un tratto si ricordò poi di un uomo che doveva essere sta-
to un altro maestro del dweomer e che lui aveva incontrato per caso nel corso
della guerra dell'estate precedente, quando stava dando la caccia ad Alshan-
dra, in un luogo che si trovava al limite estremo del suo dominio e che non
era stato creato da lui.
Fermandosi sotto un'antica quercia che cresceva vicino al fiume argenteo,
si spogliò dei suoi illusori abiti nello stile di Deverry e li lasciò ammucchiati
nell'erba per correre nudo lungo la riva con le braccia protese e spiccare poi
un balzo nell'aria, mutandosi al tempo stesso in un enorme falco rosso che
per qualche momento volò in cerchio lanciando strida acute e cercando di o-
rientarsi. Sotto di esso le Terre si allargavano in una vasta distesa di prati
verdi delimitati da un lato dalla foresta e dall'altro dal fiume argenteo, mentre
in lontananza si perdevano nella nebbia e lungo un orizzonte che lui aveva il
sospetto corrispondesse ad altre terre nate secondo lo schema di quella di sua
creazione, terre selvagge prive di un signore che le governasse. Era stato in
una di esse che aveva incontrato quel misterioso vecchio, solo che a quell'e-
poca era stato troppo concentrato sulla ricerca di Alshandra per chiedersi chi
potesse essere.
Sulla scia di quelle riflessioni, Evandar si diresse infine rapido verso il con-
fine di nebbia che sfiorava il verde dei prati come onde che lambissero una
riva e una volta raggiunta la caligine ripiegò le ali per scendere in picchiata,
riprendendo il suo volo orizzontale una volta perforata la cortina nebbiosa.
Adesso stava sorvolando un paesaggio grigio che si stendeva anonimo sotto
una luce cupa e altrettanto grigia. Là, grossi massi sporgevano dal terreno a-
rido che un vento costante sollevava in piccoli vortici di polvere; in lontanan-
za, fra chiazze di licheni e di erba rada, era visibile un albero morto, privo di
rami e inclinato verso il terreno.
Il vecchio con la pelle scura e il sorriso costante sedeva ancora sulle rocce
dove Evandar lo aveva lasciato e stava sempre tagliando con un coltello dalla
lama priva di filo una mela le cui fette si ricreavano ogni volta che lui le stac-
cava. Qualcosa però era cambiato, in quanto tutt'intorno a lui per un raggio di
una decina di metri la terra si era tinta del verde dell'erba novella e accanto
all'albero morto era spuntato un nuovo alberello. Con un tremolio di piume
Evandar tornò ad assumere la sua forma elfica e creò anche una tunica verde
da indossare, poi sedette di fronte al vecchio.
«Un melo?» domandò. «È una cosa nuova.»
«Infatti» convenne il vecchio, sollevando lo sguardo e rivolgendogli un
sorriso. «Sei tornato.»
«Sì, perché ho una o due domande da farti.»
«Ah, davvero? È possibile che io non ti risponda a meno che tu non faccia
lo stesso con le mie.»
«Mi sembra soltanto giusto, buon signore. Ti ho spiegato perché sono qui.
E tu, perché sei qui?»
«Per fungere da canale.»
Evandar lo fissò a bocca aperta, sconcertato.
«Non sei mai stato nel Bardek?» domandò il vecchio, con aria divertita.
«Là i canali di irrigazione portano l'acqua da dove abbonda a dove manca.»
«Allora tu porti l'acqua? In effetti questa terra è un po' più verde rispetto al-
l'ultima volta che l'ho vista.»
«In un certo senso si tratta di acqua. Adesso però è il mio turno di fare do-
mande. Sei venuto da me per pormi degli interrogativi, ma cosa ti fa pensare
che io conosca le risposte?»
«È a causa di quella mela. Nella mia terra c'è un albero che segna il confi-
ne: una metà è sempre verde e piena di foglie, l'altra è morta e avvolta dalle
fiamme. Non so perché, ma quella mela mi sembra essere una cosa uguale al-
l'albero.»
«Eccellente. Hai proprio ragione.»
«Credo di essere io stesso un canale, quando si tratta di mantenere intatte le
mie terre.»
«Potrebbe essere.»
«Puoi dirmi come funzionano questi canali?»
«Il potere proviene dal piano astrale, incontra uno schema e lo riempie,
come l'acqua che scorre lungo un canale e riempie una polla. Sai cosa intendo
quando parlo di piano astrale?»
«In effetti è una parola che ho già sentito. Dunque il potere scorre attraver-
so me nelle mie terre?»
«Suppongo di sì» replicò il vecchio, con una risata improvvisa. «Però non
ti ho mai visto all'opera.»
«Ah, ecco, io sono il signore di quelle verdi terre laggiù» spiegò Evandar,
indicando. «Le ho create per la mia gente, attingendo l'energia e intrecciando-
la nelle forme. Naturalmente è successo molto tempo fa. A quell'epoca vaga-
vamo fra le stelle, ma poi ci siamo stancati.»
«Ah, allora non provieni dal mondo della materia.»
Di nuovo quella parola, materia! Evandar la considerava uno dei tre più
grandi enigmi, insieme alla morte e al tempo.
«No, buon signore» rispose. «Potresti essere così gentile da rispondere a
questo? Quando sono presente nelle mie terre posso creare tutto quello che
voglio semplicemente immaginandolo, ma ciò che creo rifiuta di permanere.
Se non continuo a far giungere acqua attraverso il canale, per usare la tua si-
militudine, la polla si secca. Come posso arrestare questo fenomeno?»
«Non puoi, perché è frutto della natura stessa del piano eterico, dove nulla
persiste a meno che non si continui a ricostruirlo.»
Evandar si lasciò sfuggire alcune imprecazioni che aveva imparato da
Rhodry, abbastanza colorite da far apparire una smorfia contrariata sul volto
del vecchio.
«Adesso puoi farmi una domanda, signore» aggiunse poi. «È il tuo turno.»
«Oh, non ne ho altre. Le terrò di scorta nel caso che più tardi debba chie-
derti qualcosa.»
«Mi sembra giusto. In tal caso ti darò un'altra domanda da tenere di scorta.
Quando vado nel mondo degli uomini e degli elfi nulla di ciò che immagino
prende vita. Perché?»
«Questa è la natura del mondo della materia. Là creare è molto più diffici-
le, ma è anche molto più faticoso distruggere ciò che si crea. Nel mondo ete-
rico ciò che si crea con facilità svanisce altrettanto facilmente.»
Sospirando, Evandar rifletté su quelle parole mentre il vecchio continuava
a tagliare e a mangiare fette di mela.
«Credo di cominciare a capire» affermò infine. «Mi stai dicendo che a me-
no che io non nasca e mi assoggetti alla carne, al fetore e alla morte nulla di
ciò che faccio può perdurare?»
«Oh, non è poi così grave... quasi ma non del tutto. Le immagini amate ri-
mangono tali, sebbene siano imperfette. In alcuni mondi i bardi già cantano
della tua terra anche se la definiscono con ogni sorta di nomi errati.»
«Quindi se pure dovessi perderla, essa non svanirebbe del tutto?»
«Non finché i bardi canteranno le loro canzoni e uomini ed elfi saranno di-
sposti ad ascoltarle. Alla fine, però, anche le canzoni finiscono per tacere.»
«Allora sono condannato a perderla definitivamente.»
«Non è detto. Se la perdi, la ritroverai mentre se la custodisci come un te-
solo, la perderai davvero.»
Anche se quell'affermazione non aveva per lui il minimo senso, Evandar
non aveva per ora il tempo di rifletterci sopra.
«Ti ringrazio, buon signore» disse, alzandosi con un inchino. «Se mai avrai
bisogno del mio aiuto, potrai contare su di me.»
«Allora hai avuto le risposte che ti servivano?»
«Sì, anche se non mi piacciono.»
Protese le braccia nell'aria, Evandar tornò ad assumere la forma di un falco
rosso e con uno stridio di saluto spiccò rapido il volo diretto verso la sua terra
e le madri di tutte le strade.
Molto, molto lontano, a sud del Bardek, così remote che la loro esistenza
era a quel tempo nota a pochissimi esseri umani, c'erano alcune isole che se-
condo alcuni erano state sparse sul mare dalla Dea del Fuoco alcuni eoni
prima. Quale che fosse la loro origine, esse avevano offerto rifugio ai membri
del popolo elfico che erano sfuggiti per mare alla distruzione delle Sette Cit-
tà, all'epoca in cui gli uomini di Deverry erano giunti per la prima volta in
Annwn. Il nome della più grande di quelle isole era Linalantava, l'Isola del
Rimpianto.
Nella sua forma elfica, vestito con la tunica verde e calzoni di cuoio, Evan-
dar si recò a Linalantava. Portando sotto il braccio un paio di pesanti libri ri-
legati in cuoio, si avviò su una pista nebbiosa che non sembrava condurre da
nessuna parte, poi all'improvviso l'abbandonò e fluttuando verso il basso si
venne a trovare fra alcuni pini contorti.
Là un vento fresco sferzava un panorama spoglio e nell'incamminarsi fra i
grossi massi grigi che segnavano la cresta di una collina, lui ebbe l'impres-
sione che la luce stessa del sole si fosse fatta più tenue. Più in basso, un'altura
scendeva a strapiombo su una lunga e arida valle solcata da un fiume in secca
e in lontananza si levavano monti alti e minacciosi, incappucciati di neve.
Dovunque il vento soffiava costante, sibilando fra l'erba, e l'inclinazione dei
pochi alberi rendeva evidente che esso non cessava quasi mai.
Girandosi, Evandar vide poi alle proprie spalle altri alberi deformi sparsi
intorno ad alcuni edifici bassi e oblunghi dal tetto di tegole, con le pareti, gli
stipiti delle finestre e quelli delle porte interamente coperti di incisioni raffi-
guranti animali, uccelli, fiori, parole in rune elfiche, il tutto tinto di colori sfu-
mati con prevalenza di azzurri e di rossi, in modo da evidenziarne i contorni.
Da un punto al di là del complesso di edifici, giungeva un debole nitrire di
cavalli misto a frammenti di canzoni portati dal vento.
Lentamente, Evandar si addentrò fra gli edifici di legno, alcuni poco me-
glio che capanne, che ospitavano ciò che restava di una delle migliori univer-
sità che il mondo avesse mai conosciuto. L'aria secca di quelle montagne pro-
teggeva i libri che il Popolo aveva portato con sé in esilio, gli ultimi miseri
resti delle grandi biblioteche di Rinbaladelan e le copie che generazioni di
scribi avevano creato da allora. La persona che era venuto a cercare era il cu-
stode e curatore di quei libri e lo trovò nello scriptorium, un edificio lungo e
stretto con numerose finestre su ogni lato.
Nel vederlo arrivare, Meranaldar scattò in piedi per salutarlo con un pro-
fondo inchino. Anche se il suo nome significava "uccisore di demoni", Mera-
naldar era un individuo magro, curvo di spalle e con gli occhi infossati a cau-
sa dei lunghi anni trascorsi a prendersi cura dei testi sacri; i suoi capelli erano
chiari come quelli di Evandar, ma gli occhi avevano un più normale color
porpora.
«I miei umili saluti» esclamò. «Una visita di uno dei Guardiani è un grande
onore.»
«In tal caso ti ringrazio» replicò Evandar, porgendogli i libri. «Ti ho ripor-
tato questi.»
Meranaldar prese i volumi e li posò sul tavolo di legno, sfogliandoli con di-
ta tremanti.
«Allora Jill non ne ha più bisogno?» chiese infine.
Evandar impiegò qualche momento a rendersi conto di cosa lui avesse inte-
so dire.
«Mi dispiace» rispose poi. «Sì, è morta.»
Gli occhi di Meranaldar si riempirono di lacrime e lui se li asciugò con la
manica della tunica.
«Quando ci ha lasciati aveva contratto la malaria in forma grave» disse in-
fine. «Possano gli dèi trattarla bene in quelle che lei chiamava le Terre del-
l'Aldilà.»
Evandar prese in considerazione l'eventualità di riferirgli come fosse effet-
tivamente morta Jill, ma poi decise che era meglio non farlo perché il dolore
sarebbe rimasto ugualmente intenso quale che fosse la causa che lo aveva ge-
nerato e lui non aveva voglia di narrare lunghe e complesse storie relative al
dweomer e ai Guardiani.
«Sapevo che lei avrebbe voluto che ti venissero restituiti» affermò soltanto.
«Amico mio, sono venuto a chiederti un favore. Se ben ricordo tu hai una
mappa della città di Rinbaladelan e a me piacerebbe averne una copia.»
Meranaldar lo fissò per un lungo momento senza rispondere.
«Ecco... tu hai quella mappa, vero?» domandò infine Evandar.
«Certamente! Sono soltanto sorpreso perché la tua mi sembra una strana ri-
chiesta.»
«Ah, certo, suppongo sia così. Vedi, ho un progetto in mente ma non è an-
cora abbastanza maturo da poterne parlare.»
«Benissimo. Non sia mai che io mi metta a discutere con un Guardiano»
annuì Meranaldar, poi fece una pausa, tamburellando con le dita sul tavolo
mentre rifletteva, e infine aggiunse: «La copia migliore non è qui ma in città,
quindi devo trovare qualcuno che mi sostituisca mentre mi reco laggiù.»
Un tempo Evandar avrebbe accettato quegli sforzi come un semplice tribu-
to reso a un Guardiano, ma di recente aveva avuto modo di apprendere cosa
essi significassero per coloro che vivevano nel mondo del tempo e della mor-
te.
«Come posso ripagarti?» chiese quindi.
«Oh, mio caro Evandar, non c'è bisogno di nessun pagamento.»
«Ma io voglio portarti qualcosa in cambio. So che Jill ti ha parlato delle
Terre dell'Occidente e del vostro popolo rimasto là. Altre notizie ti farebbero
piacere?»
Meranaldar sollevò lo sguardo con un sorriso che parve illuminare l'intera
stanza.
«Benissimo» annuì Evandar. «Che genere di informazioni ti piacerebbe a-
vere?»
«Ecco, mi piacerebbe... piacerebbe a tutti noi sapere come siano riusciti a
sfuggire alla distruzione delle Sette Città. È una cosa a cui ho continuato a
pensare fin da quando Jill è stata qui, perché lei sapeva ben poco della loro
storia effettiva.»
«Eccellente! Per favore, preparami la mappa e in cambio ti porterò tutte le
notizie che riuscirò a trovare in merito al Grande Incendio, come adesso vie-
ne definito.»
«Ed è un nome appropriato» sospirò Meranaldar. distogliendo lo sguardo.
«Davvero appropriato.»

Approfittando di un pomeriggio di sole, nonostante la neve ricoprisse anco-


ra Cengarn, Dallandra andò a fare una passeggiata in città per il puro piacere
di uscire per qualche tempo dalla fortezza; stava risalendo la collina per tor-
nare indietro quando vide Evandar che l'attendeva all'ombra di un muro e gli
corse incontro con una risata, gettandoglisi fra le braccia.
«Oh, è così bello vederti» commentò, mentre lui la baciava. «Va meglio
qui fuori, lontano dal ferro?»
«Alquanto, ma non posso comunque restare a lungo, perché ho un incarico
da assolvere.»
«Davvero?»
«Davvero» rispose lui, con un sorriso vagamente provocatorio, ben consa-
pevole di quanto lei fosse curiosa. «Dalla, rispondi a una mia domanda: De-
vaberiel Mano d'Argento è ancora il più grande bardo di tutte le Terre Occi-
dentali?»
«Per quanto ne so sarebbe difficile trovarne uno migliore. Perché me lo
chiedi?»
Invece di rispondere lui però scomparve, lasciandola a fissare accigliata il
punto in cui si era trovato un istante prima. Più tardi scoprì poi di non essere
stata la sola a ricevere una sua visita, dato che quando s'incontrarono per una
parca cena a base di pane e formaggio, Rhodry commentò sul fatto che Evan-
dar era apparso anche a lui con domande sul conto di Devaberiel.
«Ti ha dato la possibilità di chiedergli perché voleva saperlo?» domandò
Dallandra.
«Non direi» replicò Rhodry, estraendo la daga d'argento e adocchiando il
formaggio con espressione dubbiosa, poi aggiunse: «Se per te va bene, cerco
di togliere quella muffa.»
«Procedi pure.»
«Evandar mi ha detto soltanto che qualcuno che lui conosce nelle Isole Me-
ridionali vuole saperne di più sul Tempo dell'Incendio e sulle Terre dell'Oc-
cidente. Quando gli ho chiesto chi fosse e perché volesse saperlo, mi ha ri-
sposto che lo avrei appreso a tempo debito e che era un...»
«Un enigma, giusto?»
«Infatti. Ho il sospetto che lo sapremo quando lui ce lo dirà e non un mo-
mento prima.»
Dallandra rispose soltanto con una smorfia e rimase poi a guardarlo mentre
spingeva di lato i pezzi di formaggio ammuffito e dopo aver pulito la daga
sulla camicia procedeva ad affettare quello che era rimasto.
«Sai, anch'io stavo pensando al Tempo dell'Incendio» affermò poi. «Nel
recitare la storia delle invasioni, i bardi hanno sempre definito gli invasori
meradan... cioè demoni, o forse orchetti sarebbe un termine più appropriato
nella lingua di Deverry. Dicono che si trattava di un popolo brutto e di bassa
statura.»
«Ecco, non direi che i Fratelli dei Cavalli siano precisamente delle bellez-
ze, ma sono più alti di me e stando a quello che ci ha detto Meer le loro don-
ne sono alte quanto gli uomini.»
«È sconcertante, al punto che mi chiedo se non ci siano stati due gruppi di
invasori e se siano stati quelli di bassa statura a essere spazzati via dalla pe-
ste.»
«Meer non ne ha mai parlato, e gli dèi sanno che lui era pronto a parlare
dei tempi antichi alla minima scusa» replicò Rhodry, tagliando il formaggio
in parti uguali e porgendo a Dallandra la sua metà. «La sola distinzione che
abbia mai fatto è stata quella fra i Gel da Thae come lui, che vivono in città, e
i Fratelli dei Cavalli veri e propri, che nel lontano nord viaggiano con le loro
mandrie.»
«Infatti. Ebbene, quando torneremo nelle Terre dell'Occidente potremo
chiederlo noi stessi ai bardi.»
Seguì un lungo momento di silenzio.
«Non tornerò con te nelle Terre dell'Occidente» affermò d'un tratto
Rhodry. «Manterrò la promessa che ho fatto a Jahdo di riportarlo a casa a
Cerr Cawnen, ma dopo andrò di nuovo nelle terre dei nani.»
«Ah» commentò Dallandra, poi vagliò per un momento i propri sentimenti
e si rese conto di essersi aspettata una cosa del genere. «Intendi cercare Haen
Marn?»
«O per meglio dire aspettare che riappaia... seduto su quelle desolate colli-
ne fino a marcire... ma ho promesso a Enj che alla fine della guerra sarei tor-
nato» precisò lui, scrutandola in volto. «Mi dispiace, ma...»
«Non hai bisogno di scusarti» replicò Dallandra, sollevando una mano per
chiedergli di tacere. «Non abbiamo forse saputo sempre entrambi che il mio
cuore appartiene a Evandar?»
Rhodry sorrise, rilassandosi visibilmente.
«Infatti» convenne infine. «Vuoi dell'altro pane?»
«Sì, grazie.»

Fra gli elfi, nelle Terre dell'Occidente, l'inverno era caratterizzato da piog-
gia e cieli cupi e non dalla neve. Quando le giornate estive cominciavano
progressivamente ad accorciarsi, il Popolo provvedeva a spostarsi con le
mandrie verso sud in modo che il sopraggiungere dell'inverno lo trovasse già
accampato lungo le coste del Mare Meridionale, dove c'erano gole atte a pro-
teggere i campi dal vento e i prati collinari offrivano erba sufficiente a nutrire
i cavalli fino a primavera. In sella al suo stallone dorato, Evandar vagò da un
campo all'altro chiedendo ovunque del bardo Devaberiel Mano d'Argento e
alla fine riuscì a rintracciarlo accampato con il suo alar molto a ovest di De-
verry, in un giorno in cui le prolungate piogge avevano finalmente ceduto il
posto a un pallido sole e a un vento intriso di umidità.
Lasciato il cavallo fuori del campo, Evandar si rese invisibile e si addentrò
fra le tende circolari di cuoio, in mezzo alle quali gli elfi sostavano a chiac-
chierare mentre cani e bambini si inseguivano a vicenda abbaiando e ridendo
per la semplice gioia di poter finalmente stare un po' all'aria aperta. Seduto su
un ceppo davanti alla sua tenda, Devaberiel sembrava intento ad assaporare la
giornata di sole; alto di statura, aveva i capelli chiari come la luce lunare e
lunghi orecchi elfici, ma chiunque avesse conosciuto Rhodry bene come lo
conosceva Evandar non avrebbe avuto difficoltà a notare la somiglianza esi-
stente fra di loro.
Quando Evandar si rese visibile davanti a lui, Devaberiel scattò in piedi
con un grido di sorpresa, ma subito dopo ritrovò il controllo e apostrofò il vi-
sitatore con voce calma e secca.
«Questo è un modo scortese di presentarti» commentò, «anche se ho l'im-
pressione che ci siamo già incontrati.»
«Infatti, molto tempo fa, quando avevi appena concluso il tuo apprendista-
to. A quel tempo ti ho fatto un dono.»
«L'anello con le rose» scandì Devaberiel, girandosi e sputando per terra
come se quelle parole gli avessero ustionato la bocca. «Non dimenticherò mai
quell'oggetto maledetto.»
«Cosa? Adesso chi è che si sta comportando male? Questo è davvero un
bel modo di trattare un dono elargito da un Guardiano.»
«Non m'importa. Quel tuo velenoso monile mi è costato la perdita di due
dei miei figli: non credi che un vecchio abbia diritto d'infuriarsi per la perdita
di due figli di cui avrebbe bisogno per essere rallegrato nei suoi ultimi gior-
ni?»
«Oh, suvvia, non dimostri più di trecento anni!»
Devaberiel si limitò a incrociare le braccia sul petto e a fissarlo con occhi
furenti.
«Mio caro bardo» continuò Evandar, «non avevo intenzioni dannose quan-
do ti ho dato quell'oggetto dotato di dweomer.»
«Ma esso ha portato danno e anche dolore. Il tuo dannato anello con le rose
ha condotto Rhodry molto lontano, lo ha fatto tornare nelle terre degli uomi-
ni. Ora che ci penso, è stata la tua Alshandra a costringerlo a fuggire là!»
«Uh... ecco, non posso negarlo, però ti garantisco che lei non è più mia
moglie. Ma che ne è stato dell'altro ragazzo?»
«Quando è partito alla ricerca di suo fratello per consegnargli l'anello, E-
bany si è recato nel Bardek e là si è innamorato di una donna che stando alle
ultime notizie che ho avuto lo sta trattenendo ancora presso di sé.»
«Ah. Ecco, non posso negare neppure questo, ma ora non potremmo accan-
tonare i vecchi dolori e...»
«No! Non possiamo farlo. E poi, si può sapere che cosa vuoi da me?»
«Sono alla ricerca di un antico sapere e mi è stato detto che tu ne sei il de-
positario. Si tratta del Grande Incendio.»
«Sì, è un sapere di cui sono in possesso. Al riguardo credo di aver raccolto
più informazioni di qualsiasi altro bardo vivente, ma non sono disposto a dirti
una sola dannata parola di ciò che so.»
«Ma è per il bene del tuo popolo!»
«Il mio popolo è una razza morente e presto io morirò con essa, solo con il
dolore della perdita dei miei figli» dichiarò Devaberiel, poi volse le spalle al
visitatore e con un ampio gesto del braccio levò una mano a coprirsi gli oc-
chi, aggiungendo: «Non desidero vedere altro.»
Evandar si sentì assalire dall'impulso di scrollarlo, ma poi si soffermò a
chiedersi cosa avrebbe fatto Dallandra al suo posto. In Deverry spesso i bardi
si esibivano in cambio di doni... un gioiello da parte di un ricco, o qualche
moneta o anche solo un pasto, se erano in un periodo sfortunato.
«Ascoltami, cosa diresti se io ti facessi un dono in cambio del sapere che
possiedi?» chiese quindi. «Cosa ti farebbe piacere?»
«Ormai dovrebbe esserti perfettamente chiaro.»
«Rhodry ha un Wyrd che io non posso modificare, ma quanto a Ebany...
ecco, nel suo caso potrei riportartelo a casa.»
Devaberiel lasciò ricadere la mano e si girò verso di lui con un sorriso.
«Affare fatto, allora» affermò. «Riporta a casa mio figlio sano e salvo e io
ti dirò tutto quello che so sul Grande Incendio.»
«Benissimo. Tu e io abbiamo stretto un patto» replicò Evandar.
«Un patto» ripeté. «E che gli dèi del cielo ne siano testimoni.»

In quelle giornate invernali il sole saliva lento nel cielo e non arrivava mai
allo zenit, come se l'orizzonte lo avesse tenuto legato a una corta catena e lo
avesse trascinato indietro prima che potesse levarsi abbastanza in alto. Il
mezzogiorno si annunciava come un accentuarsi del chiarore dietro le nubi
argentee e la notte scivolava sulla città silenziosa come l'acqua. In quelle
giornate tediose Niffa passava ore seduta con sua suocera a esercitarsi a filare
fino a quando non le faceva male il polso per lo sforzo di far muovere il fuso,
e regolarmente ogni volta Emla prendeva il suo gomitolo di filo nodoso e
scuotendo tristemente il capo lo passava a Cotzi perché lo lavorasse di nuovo
con le sue lunghe dita sottili fino a renderlo utilizzabile, ma nonostante la fa-
tica e gli insuccessi Niffa era solita pensare che quel lavoro fosse comunque
migliore dell'annegare ratti.
Le sue erano giornate sonnolente, trascorse raggomitolata vicino al fuoco
con le altre donne a filare e a scambiarsi pettegolezzi, accompagnata dal suo-
no degli uomini impegnati a tessere nella stanza accanto. Spesso i membri del
Popolo Fatato venivano a unirsi a loro anche se naturalmente Niffa era la sola
che potesse vederli accoccolati ai suoi piedi intenti a osservare il fuso che sa-
liva e scendeva, saliva e scendeva; quelle creature erano affascinate in pari
misura anche dalla tessitura, come dimostrava il fatto che ogni volta che pas-
sava vicino alla porta della bottega Niffa era solita vedere grossi gnomi grigi
seduti ai piedi del telaio e intenti a fissare la spoletta che Lark o Cronin gui-
davano attraverso l'ordito.
Nelle rare occasioni in cui Demet era a casa a lavorare, i membri del Popo-
lo Fatato gli si accalcavano intorno mentre lui avvolgeva il filo sulle spolette,
e di tanto in tanto capitava a Niffa di sorprendere qualche gnomo a premere
un lungo dito coperto di verruche sui fili come per valutare in che modo po-
teva aggrovigliarli: non appena si accorgeva di essere stata scoperta, la crea-
tura svaniva, ma lentamente come se stesse strisciando via in preda alla ver-
gogna.
Nei giorni in cui il clima era sereno o cadeva poca neve, dopo il pasto di
mezzogiorno Demet usciva di casa per andare alla sua postazione come
membro della milizia. La primavera precedente un bardo dei Gel da Thae, i
membri civilizzati della razza dei Fratelli dei Cavalli, aveva avvertito la città
del fatto che le tribù selvagge di Fratelli dei Cavalli che vivevano nel nord si
stavano armando e si stavano radunando con intenzioni bellicose, e anche se
da allora non erano più giunte altre notizie, la città continuava a rimanere in
stato di allerta. Anche Kyle, il fratello di Niffa, faceva parte della milizia e a
volte nel tornare alla Cittadella e a casa capitava che si fermasse alla bottega
dei tessitori per salutare la sorella.
A sera, Niffa avvolgeva la cena di Demet in una pezza di stoffa e gliela
portava sulle mura cittadine, dove si concedevano il tempo per scambiarsi
qualche parola e qualche bacio prima che il freddo spingesse Niffa a rientrare
a casa ad aspettare che lui finisse il turno di guardia; ogni volta, nel tornare a
passo affrettato verso la casa dei tessitori, era solita guardare in direzione del-
l'Isola della Cittadella, avvolta nel vapore che saliva dal lago, e chiedersi co-
me se la stesse cavando la sua famiglia, visto che quando s'incontravano al
mercato Dera era solita dirle che la casa sembrava vuota ora che lei e Jahdo
se n'erano andati.
Come ultima arrivata nella dimora dei tessitori, Niffa stava attenta a quello
che diceva e faceva del suo meglio per non offendere nessuno ma Farra, la
moglie di Lark, aveva un brutto carattere che prendeva fuoco come olio ver-
sato sul fuoco alla minima affermazione sbagliata. Spesso quando lavoravano
Niffa lasciava la sua mente libera di vagare, chiedendosi come stesse la sua
famiglia o cosa stesse facendo suo marito; a volte l'assalivano anche strani
pensieri relativi a cose che aveva intravisto nei sogni o nel fuoco, dove si av-
vicendavano immagini che nessun altro poteva vedere, e quando quei pensie-
ri le facevano "rallentare il ritmo", come era solita dire Farra, quest'ultima era
pronta a farglielo notare in termini pungenti.
In una serata particolarmente fredda, Farra parve essere di umore ancora
peggiore del solito, tanto che ringhiò a Cotzi, usò del sarcasmo con Niffa e
arrivò perfino a ribattere con Emla quando lei cercò di intervenire per riporta-
re la pace intorno al fuoco.
«Mi fa torcere l'anima vedere Niffa che se ne sta seduta lì con lo sguardo
perso nel vuoto mentre abbiamo qui tutta questa lana da filare» dichiarò Far-
ra.
«Suvvia, smettila» replicò Emla. «Presto o tardi si muterà tutta in filo. Nif-
fa sta imparando tutto da zero e per lei questo non è un lavoro facile.»
«Suppongo di no» convenne Farra, guardando Niffa con sarcasmo. «Dopo
tutto, dai ratti non si ricava molta lana, vero?»
«E neppure dalle cagne!» scattò Niffa, prima di riuscire a controllarsi.
«Oppure le cose erano diverse nel canile in cui sei stata allevata?»
Cotzi scoppiò a ridere, poi si affrettò a premersi una mano sulla bocca co-
me per ricacciare indietro quel suono. Farra gettò a terra il suo fuso per scat-
tare verso Niffa con la mano levata ad assestarle uno schiaffo. Con un vortice
simile a quello di foglie morte spinte dal vento, numerosi gnomi si materia-
lizzarono e si scagliarono contro i piedi della ragazza, che con uno strillo
cadde lunga e distesa per terra davanti alla sedia di Emla. Mentre gli gnomi
tornavano a scomparire, Emla depose sospirando fuso e filo sul pavimento
coperto di canne.
«Alzati, Farra, e d'ora in poi stai attenta a quello che dici» ordinò. «Quanto
a te, Niffa, falle le tue scuse.»
Niffa esitò, poi decise che valeva la pena umiliarsi un poco per mantenere
la pace in famiglia.
«Mi dispiace, Farra. Ho sbagliato nel definirti una cagna.»
Farra si rialzò e si riassestò i vestiti, ma rifiutò di guardare verso Niffa e il
suo atteggiamento strappò a Emla un altro sospiro.
«Se non riesci a essere cortese e ad accettare delle scuse...» cominciò.
Ignorandola, Farra si rimise a sedere e afferrò il proprio fuso. Per un mo-
mento Emla continuò a fissarla con aria riflessiva, ma poi scrollò le spalle e
si dedicò nuovamente al lavoro.
Fuori intanto stava cominciando a calare il buio e mentre lottava per torce-
re la sua parte di lana e trasformarla in filo, Niffa sentì il proprio umore incu-
pirsi progressivamente insieme al cielo, consapevole che Farra avrebbe trova-
to il modo di vendicarsi e che comunque sarebbero state costrette a vivere per
sempre insieme in quella casa. All'improvviso si sentì assalire da un senso di
angoscia violento come lo schiaffo di una mano umida che l'avesse colpita in
pieno volto e si lasciò cadere il fuso in grembo, annaspando per respirare.
«Cosa c'è che non va?» domandò Emla. «Sei pallida come un morto.»
«Davvero? Non so cosa mi succede, Madre, so solo che all'improvviso mi
sono sentita svenire.»
Però stava mentendo, perché sapeva benissimo cosa c'era che non andava e
sapeva che non poteva dirlo agli altri, non poteva rivelare che qualcosa di for-
temente malvagio aveva appena contrassegnato come preda il suo Demet, fis-
sandolo con occhi colmi di odio. Lei poteva avvertire il pericolo che lui stava
correndo come se si fosse trattato di un grido che le echeggiava negli orecchi.
Guardandosi intorno si accorse d'un tratto che le altre donne la stavano fis-
sando.
«Posso andare a portare a Demet il suo pane e formaggio?» chiese allora.
«So che è un po' presto, ma l'aria fresca mi farà bene.»
«Ma certo» assentì Emla. «Ti senti abbastanza in forze per andare da so-
la?»
«Certamente» replicò Niffa, riuscendo a sfoggiare un luminoso sorriso.
«Vado a preparargli la cena, poi prendo il mantello ed esco.»
Quando lasciò la casa la luna piena stava ormai sorgendo nel cielo limpido.
Con la cena di Demet in una mano e una lanterna nell'altra percorse le piatta-
forme su palafitte fino a raggiungere la riva del lago, dove sotto la luce della
luna le mura cittadine si levavano simili alle ombre della morte, una vista che
le fece martellare il cuore a tal punto da costringerla a fermarsi per un mo-
mento a trarre una profonda boccata d'aria.
«Chi è là?» intimò la voce di Gart, il sergente della guardia.
«Sono Niffa. Porto la cena al mio uomo.»
Un momento più tardi Gart si materializzò davanti a lei, emergendo dal-
l'ombra alla base del muro.
«In tal caso dovrai aspettare un poco» replicò, «perché l'ho mandato alla
Cittadella.»
Le voci che urlavano nella mente di Niffa salirono d'intensità, assordando-
la. Vagamente si accorse che Gart era scattato in avanti per afferrarla per un
gomito e sorreggerla.
«Cosa c'è che non va, ragazza?» le chiese il sergente.
«Oh, è solo il freddo. È andato alla Cittadella? Rimarrà là a lungo?»
«Non ne ho idea. Eravamo sulle mura e abbiamo visto una cosa molto stra-
na, quindi l'ho mandato là a verificare di cosa si trattasse. Era una luce argen-
tea che brillava sulla sommità dell'isola, dove c'è quella casa crollata.»
«Le rovine di pietra.»
«Infatti, e sono troppo vicine all'armeria perché io possa ignorare qualsiasi
evento strano che si verifichi fra di esse. Avanti, dammi la lanterna e spostati
di un tratto lungo la riva per vedere se quella luce c'è ancora. Era così strana
che mi sto ancora chiedendo se io e Demet non abbiamo avuto un'allucina-
zione.»
Avanzando con cautela sulla neve fangosa e calpestata, Niffa si allontanò
di un buon tratto dal cerchio di luce della lanterna e quando sollevò lo sguar-
do verso la Cittadella non faticò a distinguerne la cresta che emergeva dall'a-
lone di vapore. In effetti su di essa splendeva una luce argentea, la più strana
che lei avesse mai visto, troppo fredda per provenire da un fuoco e più simile
a raggi di luce lunare ispessiti e attirati sulla terra ma sfumati di azzurro. La
luce tremolò, riducendosi a un accenno di bagliore, poi scomparve per un
momento, riapparve e andò crescendo di intensità fino a mutarsi in un im-
menso globo simile alla luna che emetteva luce argentea e la riversava su di
lei, trascinandola via come una grande onda. Alle sue spalle sentì Gart emet-
tere un grido allarmato.
Quel grido venne però subito troncato da uno strano silenzio pieno di vita
che pareva librarsi a un passo dal divenire un suono e lei si fece trasportare
da esso come se fosse stato un'onda del lago che la trascinava verso la Citta-
della, anche se in effetti era la sua visione che la stava guidando là. In un an-
golo imprecisato della sua mente era consapevole di essere distesa sulla neve
gelida con Gart inginocchiato accanto a lei, ma non era in grado di vedere il
sergente perché tutto il suo potere visivo era proiettato oltre il lago e ciò che
stava vedendo era pietra, drappeggiata di luce argentea che come un arazzo
lacero pendeva dalle pareti di un tunnel. Al suolo un uomo giaceva prono con
le braccia e le gambe scomposte e vicino a lui c'era una donna dai lunghi ca-
pelli neri, la cui risata accompagnò lo svanire della luce.
Niffa urlò e con quell'urlo la sua vista tornò a concentrarsi sulla riva del la-
go e sul tremolio dorato della lanterna, permettendole di constatare che Gart
la stava aiutando a sollevarsi a sedere.
«Demet!» sussurrò. «Devi andare da Demet, nelle rovine di pietra.»
Alla luce della lanterna, il sergente la fissò con espressione dapprima per-
plessa che poi si fece d'un tratto decisa.
«Hai ragione» affermò infine. «Avanti, ora lascia che ti aiuti a rimetterti in
piedi.»
Con il suo supporto Niffa riuscì a rialzarsi barcollando e a recuperare la
lanterna, poi Gart spiccò la corsa verso il casotto di guardia vicino alle porte
principali gridando a gran voce alcuni nomi e in risposta ai suoi richiami Nif-
fa vide apparire le chiazze di luce di altre lanterne a mano a mano che gli
uomini si riversavano all'esterno. Incerta, esitò a raggiungerli, chiedendosi al
tempo stesso dove poteva andare ad aspettare, ma in quel momento Gart le
segnalò di avvicinarsi.
«Aspetta qui dentro vicino al fuoco, ragazza» le disse. «Io e Stone prende-
remo la barca per andare a recuperare il tuo uomo.»
Fra l'indifferenza degli uomini lasciati di guardia, Niffa si sedette su uno
sgabello in un angolo della piccola stanza di legno e prese a fissare il fuoco
che ardeva nel focolare di pietra. Nell'osservare il fumo che veniva risucchia-
to verso il buco di sfogo nel tetto, le venne da chiedersi per la prima volta se
poteva evocare le visioni quando voleva invece di aspettare che si manife-
stassero a loro piacimento.
Demet, pensò. Mostrami Demet, per favore. Mostramelo.
Il fumo e le fiamme non subirono però il minimo cambiamento.
L'attesa continuò a protrarsi mentre al tavolo le altre guardie cominciavano
a giocare a dadi senza però dire quasi una parola, un silenzio che la indusse a
chiedersi se fossero a loro volta allarmate o se giudicassero pazzi sia lei sia il
sergente che aveva dato ascolto alle sue visioni stregate. Di tanto in tanto
qualcuno degli uomini si alzava a mettere un nuovo ceppo nel fuoco e torna-
va al suo posto senza però mai guardare verso di lei, e ogni volta Niffa cerca-
va di cogliere qualche immagine nei carboni ardenti, implorando inutilmente
il fuoco di materializzarle. Infine dall'esterno giunse un suono di voci che la
indusse a balzare in piedi di scatto ma sulla porta apparve soltanto Emla, av-
volta in un mantello scuro che faceva risaltare il pallore del suo volto.
«Niffa!» esclamò in tono secco. «Cosa stai combinando, seduta qui? E do-
v'è Demet?»
Gli uomini si girarono tutti verso di lei mentre si liberava del cappuccio del
mantello; quanto a Niffa, cercò di rispondere ma non riuscì a emettere suono.
«Cosa c'è che non va?» sussurrò Emla. «Dov'è mio figlio?»
«Non lo so, Madre» rispose infine Niffa, alzandosi e protendendo una ma-
no. «Vieni a sederti. Io starò in piedi.»
Emla si appollaiò sullo sgabello e per un momento ancora parve sul punto
di formulare altre domande; poi però cominciò ad accorgersi dell'atmosfera
che regnava nella stanza e scelse di restare in silenzio, mentre l'attesa si pro-
traeva senza che il fuoco accettasse di fornire una sola visione e con gli uo-
mini che ora giocavano senza più pronunciare parola.
«Hola!» gridò infine la voce di Stone, in tono cupo. «Venite fuori, venite
fuori!»
Alzandosi, gli uomini afferrarono i mantelli e si precipitarono alla porta,
seguiti più lentamente da Emla e da Niffa, munite di lanterne. Sulla riva, Gart
e Stone stavano tirando in secca la leggera barca di vimini, facendo leva con
forza sulla corda come se essa avesse contenuto un carico pesante. Assalita
dalla consapevolezza di cosa avrebbe trovato, gelida come una scheggia di
ghiaccio conficcata nel cuore, Niffa urlò e spiccò la corsa così in fretta da far
spegnere la candela nella sua lanterna. Afferrato il lato viscido e umido della
barca, si protese a guardare all'interno.
Demet giaceva sul fondo dell'imbarcazione con le braccia incrociate sul
petto e gli occhi ancora aperti fissi nel vuoto e da qualche parte una donna
stava emettendo un urlo acuto e inarticolato che si ripeteva all'infinito. Per un
momento Niffa si chiese perché qualcuno non la stesse facendo smettere, poi
Gart l'afferrò per una spalla e soltanto allora lei si rese conto che la voce che
urlava era la sua.

«Lui ha visto. Verro!» sibilò Raena. «Era necessario metterlo a tacere. Ti


dico che ha visto il Signore del Caos.»
Verrarc avrebbe voluto afferrarla e percuoterla, un desiderio così intenso
da essere quasi incontenibile, e quando avanzò di un passo verso di lei, Raena
si ritrasse sollevando una mano a proteggersi il volto.
Chi sei tu? si chiese Verrarc. Sei davvero il degno figlio di tuo padre!
E con quel pensiero si costrinse a incrociare le braccia sul petto e a infilare
le mani traditrici sotto le ascelle.
«E se ne avesse parlato con sua moglie?» continuò Raena, con voce che
tremava di paura. «Pensa, Verro! Se lo avesse detto alla piccola Niffa?»
«Ecco, quella sarebbe stata senza dubbio una cosa peggiore» replicò Ver-
rarc, costringendosi a mantenere salda la voce, «ma per tutti gli dèi, Rae, i
tuoi e i miei, un omicidio a Cerr Cawnen è una cosa grave e nessuno lascerà
mai che rimanga insoluto!»
«Ah, ma sarai tu quello che dovrà indagare, giusto? Chi se non tu, un po-
tente consigliere che la famiglia dei cacciatori di topi considera un amico?»
ribatté Raena, arrischiandosi ad avanzare verso di lui di un paio di passi, con
un sorriso sulle labbra. «Spetterà a te dire chi ha fatto cosa o se si è trattato
soltanto di una febbre improvvisa. Sul suo corpo non c'è un solo segno, Ver-
ro, lo hai visto quando il sergente è venuto a chiamarti.»
«L'ho visto.»
Accasciandosi a sedere su una cassapanca posta sotto la finestra della ca-
mera da letto, Verrarc abbandonò le braccia inerti sulle cosce, con le mani
che pendevano fra le ginocchia allargate, assaporando il sollievo della corren-
te d'aria che gli giungeva dalle imposte chiuse, simile al tocco di una mano
fresca su un volto febbricitante.
«Come lo hai ucciso?» domandò infine.
«Cosa? Non sono stata io!» esclamò Raena, raggiungendolo con due passi
aggraziati e gettandosi in ginocchio davanti a lui. «Verro, Verro! Come hai
potuto pensare una cosa del genere sul mio conto? È stato il Signore del Ca-
os!» proseguì, afferrandogli le mani e premendosele contro il petto nell'ap-
poggiarsi contro le ginocchia di lui. «Non so come abbia ucciso il ragazzo. È
stato dweomer, più potente di qualsiasi altro io abbia mai visto prima.»
«Ahi! Perdonami, amore mio. Ho creduto... non so cosa ho creduto, davve-
ro. Perdonami!»
Nel parlare la trasse a sé e la tenne stretta contro il suo petto, ma mentre
continuava a mormorare parole che la calmassero si trovò a domandarsi come
mai era stato così pronto a pensare che lei fosse un'assassina, nel momento
stesso in cui la guardia cittadina lo aveva svegliato per informarlo della morte
di Demet.
Come membro più giovane del consiglio, Verrarc era a capo della guardia
cittadina e di tutto ciò che la riguardava, e ora era di fronte al dilemma di
come riuscire a soddisfare i suoi concittadini pur proteggendo Raena, un in-
terrogativo che lo tenne sveglio per il resto della notte anche se lei scivolò in
un sonno tranquillo e profondo, tanto che non si svegliò neppure quando alla
fine lui rinunciò a dormire e sgusciò fuori del letto.
Dopo una frugale colazione, Verrarc lasciò la casa e scese sulla riva del la-
go, dov'era in attesa l'imbarcazione appartenente al Consiglio dei Cinque e
dove trovò ad attenderlo Admi, il portavoce cittadino; avvolti nel mantello
rosso proprio dei consiglieri, i due presero a camminare avanti e indietro sul-
la spiaggia ghiaiosa sotto la luce grigia di una mattina invernale, mentre ac-
canto a loro le acque del lago lambivano fumanti la riva.
«È inutile andare dall'altra parte fino al sorgere vero e proprio del sole» os-
servò Admi.
«Infatti» convenne Verrarc. «La scorsa notte, alla luce delle candele, non
sono riuscito a trovare nulla; d'altro canto, se ci fosse stata una ferita l'avrei
vista.»
«E cosa ci faceva il ragazzo in quelle rovine?»
«Il Sergente Gart mi ha detto che hanno visto quella che lui ha definito una
strana luce argentea» replicò Verrarc, poi esitò, pensando se era il caso di
mentire, ma rifletté che senza dubbio ormai Gart doveva aver raccontato la
cosa a mezza città e concluse: «È stata la stranezza di quella luce che lo ha
indotto a mandare un uomo alla Cittadella, anche se personalmente credo che
abbiano avuto un'allucinazione. Dopo tutto, montare la guardia d'inverno è un
lavoro lungo e solitario.»
«Gart però è un uomo affidabile e se dice di aver visto una luce io gli cre-
do.»
«Oh, non dubito che la luce fosse reale, ma trovo difficile credere a questa
faccenda di stregate luci argentee.»
«Ah, capisco cosa intendi dire» annuì Admi, con un gesto che fece sussul-
tare le sue grasse guance.
«Intendo parlare con ogni guardia che è andata all'armeria e ho detto a Gart
di accertarsi che fossero tutte radunate alle prime luci dell'alba.»
«L'armeria? Gart mi ha detto che hanno scoperto il morto nelle rovine di
pietra.»
«Davvero? Allora è un altro punto che sarà meglio chiarire.»
Trovarono Gart e gli altri uomini che erano stati in servizio ad attenderli
vicino al casotto di guardia; quando Verrarc aprì la porta essi smisero quello
che stavano facendo e si alzarono per salutarlo.
«Sedetevi, tutti quanti» disse Verrarc. «Non intendo trattenervi a lungo.»
Gli altri si sedettero e Gart portò uno sgabello che Verrarc pose alla testa
del tavolo; nel prendere posto notò l'aria stanca delle guardie, che probabil-
mente non avevano chiuso occhio per tutta la notte.
«Benissimo» esordì. «Ora riferirò la storia che ho sentito e ho bisogno che
ciascuno di voi mi dica se è giusta o sbagliata.»
Gli uomini annuirono, scambiandosi occhiate di tensione.
«All'inizio del turno di guardia serale» cominciò Verrarc, «Demet e Gart
erano sulle mura vicino alla Porta Meridionale e hanno visto una strana luce
argentea sulla sommità della Cittadella, vicino all'armeria. Demet ha preso
una barca da solo e ha risalito la collina per vedere di cosa poteva trattarsi.»
Gli uomini annuirono e Verrarc si girò verso Gart.
«Hai detto che Demet è rimasto assente molto tempo e che poi sua moglie
è venuta a portargli la cena?» domandò.
«Sì, consigliere» rispose Gart. «E si è mostrata molto agitata quando ha sa-
puto dov'era andato il suo Demet. Per questo ho preso con me uno dei ragazzi
e sono andato a cercarlo.»
«Ma cosa ti ha fatto decidere di indagare?»
«Quella povera donna, ecco cosa. Tutti sanno che Niffa ha qualche talento
da strega. Ha avuto una specie di svenimento e poi ha cominciato a parlare
con una voce strana, farfugliando che Demet giaceva fra le rovine di pietra.
Era come se si fosse trovata sulle mura e stesse guardando in basso, descri-
vendomi quello che io non potevo vedere.»
Verrarc fu assalito da un tal senso di gelo e di malessere da sentirsi indotto
a chiedersi se il sangue gli si stesse ghiacciando nelle vene.
«E che altro ti ha detto, sergente?» domandò.
«Nulla, soltanto qualcosa sulla luce argentea e su Demet che giaceva im-
mobile per terra.»
«Non ha visto nessun altro che si aggirasse nell'ombra?»
«Nulla di cui mi abbia parlato.»
«Ah, capisco» mormorò Verrarc, sentendo il sangue che cominciava a sge-
larsi. «Ora la povera Niffa è insieme alla famiglia di Demet per accompa-
gnarlo nel suo ultimo viaggio e per oggi non intendo disturbarla.»

Come richiedeva l'antica usanza, la famiglia di Demet portò il suo corpo


nella foresta per restituirlo agli dèi che gli avevano permesso di utilizzarlo
per qualche tempo. Dopo aver lavato il corpo e averlo adagiato su una lettiga,
Niffa ed Emla lo avvolsero in una coperta e gli uomini trasportarono fuori la
lettiga per caricarla su una slitta trainata da due massicci cavalli e guidata da
Werda, che indossava una veste di pelliccia bianca in modo da essere coperta
da testa a piedi dal colore dello spirito. In qualità di vedova di Demet, Niffa
si avvolse in un mantello bianco e s'incamminò dietro la slitta, seguita dall'ir-
regolare processione dei familiari di Demet e dei suoi.
A causa della neve alta, il tragitto si trasformò in una marcia faticosa attra-
verso un mondo tinto di un candore abbagliante da un sole freddo, e per
quanto cercasse di rimanere sui solchi tracciati dalla slitta ben presto Niffa si
trovò a sudare sotto il pesante mantello. Tuttavia accolse quel disagio e quel-
la fatica come uno strumento per escludere dalla propria mente ogni cosa
tranne il compito di muovere un piede dopo l'altro. Davanti a loro, lungo la
valle fluviale, la foresta di pini si faceva più vicina a ogni miglio e appariva
sempre più cupa, come se si stessero avvicinando alla fortezza stessa del Si-
gnore della Morte; quando arrivarono al suo limitare, Werda fece arrestare i
cavalli e consegnò a Niffa e a Emla lunghi coltelli con cui esse tagliarono
rami di pino per ricoprire il corpo, lasciando la coperta sulla slitta. Demet sa-
rebbe tornato nudo alla foresta e alla terra.
Quando le donne ebbero finito e i fratelli del defunto vennero avanti per
sollevare la salma sulla sua lettiga, il padre di Demet scoppiò nel pianto vio-
lento e secco di un uomo poco abituato alle lacrime.
«Perché non hanno preso me?» gemette. «Vorrei essere andato al suo po-
sto.»
Emla, che appariva ancora stordita come una donna che si stesse ripren-
dendo da una violenta caduta, lo sostenne per un braccio.
«Non mettere in discussione il volere degli dèi e non li indurre in tentazio-
ne» ammonì Werda. «Addentriamoci fra i sacri alberi.»
Lael e Kyle precedettero gli altri per cercare di aprire un sentiero fra la ne-
ve, ma i cumuli erano così alti e ghiacciati sotto l'ombra degli alberi che la
processione fu costretta ad arrestarsi dopo poco più di cinquecento metri.
«Abbiamo fatto strada a sufficienza» decise Werda. «Deponetelo al suolo.»
Per prima cosa vennero disposti i rami di pino per creare un letto per il
corpo nudo e una volta che ebbero composto la salma Werda levò in alto le
mani, alzando il volto verso il cielo con un gesto che le fece ricadere sulle
spalle il cappuccio di pelliccia.
«Gli dèi vivono negli alberi e nelle montagne, vivono nelle sorgenti e nella
terra stessa. Tutte le cose sono rese sacre dalla vita degli dèi. Ora il corpo di
Demet giace fra cose sacre anche se la sua anima è volata lontano. Ricordia-
molo sempre e pronunciamo il suo nome perché se il nome di un uomo scom-
pare, la sua famiglia lo ha perso due volte» scandì, poi batté tre volte le mani
con un suono che echeggiò stentoreo nell'aria immota e concluse: «Così sia.»
Quando la processione si volse per andarsene, Niffa sostò immersa nella
neve fino alle ginocchia e si girò a guardarsi indietro. Demet giaceva sul suo
letto di rami pallido come la neve stessa, un'ombra argentea fra le ombre più
scure degli alberi, e nel guardarlo lei ebbe l'impressione di scorgere piccoli
occhi fra le felci morte, di sentire piccoli artigli frusciare fra la neve, pronti a
balzare sul suo corpo non appena quei fastidiosi umani se ne fossero andati.
Senza accorgersene mosse un passo verso di lui e poi un altro, con gli abiti
che strisciavano nella neve; alle sue spalle sentì risuonare delle voci, ma le
loro parole le parvero in quel momento aliene e indecifrabili. Poi qualcuno
l'afferrò alle spalle.
Anche attraverso il pesante mantello Niffa avvertì la stretta decisa della
mano di sua madre e sentì la voce di lei risuonarle all'orecchio.
«Quella cosa non è più Demet. Piangeremo la sua morte ma è necessario
che le creature selvagge abbiano ciò che spetta loro. L'uomo che amavi se n'è
andato, ragazza, dove nessuno lo potrà più toccare.»
La pressione della mano materna sulla sua spalla si accentuò, inducendola
a girarsi fino a quando lei poté vedere gli occhi di Dera, lucidi di pianto; ac-
cettando la mano che lei le porgeva, Niffa permise infine a sua madre di con-
durla via.
La marcia di ritorno, su neve già calpestata, fu più facile. Niffa rimase in
coda alla processione insieme a suo fratello Kyle, che le offrì il braccio per
sorreggerla, ma anche così ben presto si sentì tanto esausta che entrambi fini-
rono per rimanere un po' indietro.
«Sorellina» disse infine Kyle, «ti prometto che nessuno di noi permetterà
che questo crimine resti impunito... mi riferisco a me stesso e ai ragazzi della
milizia. Ne abbiamo parlato per tutta la mattina, anche con il Consigliere
Verrarc.»
«Verrarc!» esclamò Niffa, girandosi a sputare nella neve. «Oh, lui è pro-
prio quello più adatto a scoprire la verità su tutto questo!»
«Cosa?» esclamò Kyle, girandosi a guardarla. «Cosa vuoi dire?»
«Nel profondo del mio cuore so chi ha ucciso il mio uomo e so che è stata
quella creatura chiamata Raena. Nel corso del mio svenimento l'ho vista con
estrema chiarezza ridere davanti al corpo di Demet.»
«Come si può vedere qualcosa mentre si è svenuti?»
«Io l'ho fatto! Ero sulla riva del lago. Se non mi credi, va' a chiederlo al tuo
sergente!»
Kyle rifletté per un momento in silenzio su quelle parole.
«Gli dèi sanno che sei sempre stata strana» affermò infine. «Ricordo quan-
do eri una bambinetta che rideva e indicava cose che il resto di noi non pote-
va vedere.»
Seguì un'altra pausa di silenzio, poi lui sospirò e scosse il capo.
«Il sergente ci ha raccontato che hai visto delle cose, quella notte. Se dav-
vero si tratta di Raena hai proprio ragione... Verrarc è il mastino meno indica-
to da lanciare su questa pista.»
Più avanti, Lael si girò e lanciò un richiamo, fermandosi ad aspettarli e co-
stringendoli così ad accelerare il passo per raggiungere gli altri. Quella notte
Niffa tornò a casa sua e i furetti le danzarono intorno ai piedi in segno di
benvenuto, inconsapevoli del suo dolore.

Sulla piana della battaglia, seduto sul suo stallone dorato, Evandar chiamò
il nome di suo fratello e questa volta Shaetano venne da lui, in sella a un ca-
vallo nero e con indosso un'armatura anch'essa nera, anche se l'elmo era ap-
peso al pomo della sella. Nell'osservare suo fratello, Evandar ebbe l'impres-
sione che a ogni anno che passava questi diventasse sempre più volpino nelle
fattezze. Adesso un morbido pelo rossiccio gli copriva tutta la faccia anche se
gli occhi e la bocca conservavano un taglio elfico; un ciuffo di rigido pelo
rosso gli copriva la testa e anche le mani erano rivestite di pelliccia, con dita
dalle unghie nere e appuntite.
«E così questa volta sei venuto al mio richiamo» osservò Evandar.
Shaetano si limitò a ringhiare, mostrando lunghi denti candidi.
«Ho sentito che hai ucciso un uomo nel mondo del tempo» continuò Evan-
dar. «Ciò che hai fatto è una cosa grave e malvagia.»
«Perché?» ribatté Shaetano, con voce che suonò però stranamente incrina-
ta. «Gli uomini si uccidono a piacimento fra loro. Cosa conta una morte in
più?»
«Conta moltissimo per quanti sentiranno la mancanza di quell'uomo. Per-
ché sei venuto?»
«C'è una domanda che ti devo rivolgere.»
«Chiedi pure, anche se non è detto che io ti risponda.»
«Prima d'ora non avevo mai visto morire un uomo, non così da vicino» af-
fermò Shaetano, contemplando le redini che teneva in mano. «Moriremo an-
che noi come fanno loro?»
«Oh! Ti sei spaventato delle tue stesse azioni, vero?»
Con un ringhio Shaetano assestò uno strattone al cavallo per farlo girare e
lo spronò, allontanandosi al galoppo. Evandar accennò a inseguirlo ma poi si
arrestò e rimase a lungo immobile dove si trovava a osservare la polvere che
tornava a posarsi lenta sul terreno.
«Corri quanto vuoi, fratello» disse. «Alla fine ti ritroverò.»

EPILOGO
Primavera, in una terra molto lontana.

Tre sono le Madri di Tutte le Strade, non quattro o due ma tre. Se volete
camminare su una di esse le dovete conoscere tutte e tre bene come conoscete
il sentiero che da casa vostra porta al mercato perché se ponete piede su una
di esse soltanto la conoscenza vi salverà dal percorrerle tutte e tre.
Dai Libro Segreto di Cadwallon il Druido

Quell'anno con il giungere della primavera Lady Angmar partorì due ge-
melle e portarle alla luce e alla vita entrambe sane e salve con il solo aiuto
della sua vecchia serva Lonna non fu una cosa facile. Poco dopo il tramonto,
all'insorgere delle prime doglie, le due donne si ritirarono nella camera da let-
to di Angmar dove lei, con estrema seccatura della vecchia serva, spalancò le
imposte della finestra e fino a quando le doglie non diventarono troppo forti e
ravvicinate rimase seduta a contemplare la luna piena che spiccava nel cielo e
che tramontò all'alba, fra il canto degli uccelli che parvero cullarne il sonno
come altrettanti bardi.
Le bambine nacquero quando ormai il sole era sorto da tempo, una così vi-
cina all'altra da indurre Lonna a giurare che la seconda doveva essersi tenuta
aggrappata al piede della prima, e quando la vecchia gliele accostò al seno,
Angmar avvertì più dolore che gioia.
Non erano piccole quanto lei aveva temuto per il fatto che erano gemelle,
visto che ciascuna doveva pesare almeno un paio di chili se non qualcosa di
più.
Ma sarebbero vissute? Oppure gli dèi avrebbero deciso di privarla di tutto
ciò che apparteneva a Rhodry tranne i suoi ricordi? Tenendole strette a sé a-
scoltò il battito dei due minuscoli cuori, il respiro di ciascuna coppia di pol-
moni, che suonava limpido.
«Arriva la placenta» avvertì Lonna.
Ci fu un'ultima fitta di dolore, ma quando fu passata Angmar vide che le
sue figlie continuavano a respirare e ad avere un bel colorito roseo.
«Hanno nelle vene una buona dose di forte sangue del Popolo della Monta-
gna» commentò Lonna. «Ora non ti preoccupare, mia signora, vedrai che ce
la faranno. Ringrazio gli dèi con tutto il cuore che sia ormai primavera e che
l'aria si vada riscaldando.»
Una volta che le bambine e Angmar furono lavate, avvolte in abiti puliti e
sistemate insieme nel grande letto per stare più calde, le piccole si riscossero
abbastanza da succhiare un po' di latte e Lonna avvicinò uno sgabello e si se-
dette con un lungo sospiro a cui Angmar rispose con uno sbadiglio. Infatti si
sentiva cedere dallo sfinimento, ma voleva restare sveglia per qualche mo-
mento ancora per contemplare le sue neonate.
«Pare che il latte si stia già formando» commentò. «Con le altre ne ho avu-
to subito e più che abbastanza per due.»
«Lo ricordo, ed è un buon presagio.»
La più grossa delle due neonate aprì gli occhi, ancora di un indefinito colo-
re fra l'azzurro e il grigio e parve fissare in volto sua madre che si sentì affio-
rare sulle labbra un irrefrenabile sorriso. Dentro di sé si autoammonì di non
affezionarsi troppo alle bambine, perché sarebbero potute morire... cosa che
succedeva di solito ai gemelli... ma al tempo stesso si rese conto di essersi già
legata troppo.
«Hai stabilito come le chiamerai, mia signora, o preferisci aspettare un po-
co a decidere?» domandò Lonna.
«Una di esse ha già un nome: Marnmara.»
«Possibile?» sussurrò Lonna, serrando fra le mani ossute una piega della
veste. «È tornata fra noi?»
«Ne sono certa, ma lo sarò del tutto quando comincerà a ricordare e si la-
scerà riconoscere. Del resto tutti i presagi concordano e Rori ha visto il suo
spirito aggirarsi intorno a Haen Marn con le sue damigelle. Desiderava dispe-
ratamente rinascere.»
«Sempre che tu possa fidarti di quello che ha detto, visto che apparteneva
al Popolo dell'Ovest e aveva la loro lingua sciolta.»
«Oh, suvvia, perché mai avrebbe dovuto mentire su una cosa del genere?
Non il mio Rori!»
Lonna mimò ostentatamente il gesto di sputare per terra e altrettanto osten-
tatamente si trattenne dal farlo.
«Se ho ragione» proseguì Angmar, «lei ricorderà presto. È quello che mi ha
detto quando giaceva morente, che avrei riconosciuto con facilità la vera Si-
gnora di Haen Marn e che lei mi avrebbe riconosciuta non appena avesse im-
parato a dire qualche parola e a camminare.»
«Benissimo. E che mi dici dell'altra?»
«Oh, si deve trattare di un'anima comune nata secondo l'ordine normale
delle cose» replicò Angmar, poi scoppiò a ridere e aggiunse: «Sempre che un
qualsiasi bambino di Haen Marn possa essere definito un'anima comune.»
Lonna si concesse a sua volta un accenno di risata, poi si alzò con un altro
sospiro e stiracchiò la schiena con uno sbadiglio.
«A proposito» disse, «ora è meglio che vada a occuparmi di Avain nella
sua torre. Povera piccola! Naturalmente non può capire, ma si starà preoccu-
pando.»
«Sei sfinita, Lonna, manda il giovane Mic.»
La vecchia rifletté per un momento, poi annuì.
«Sai, è strano come la nostra povera piccola ritardata si sia affezionata al
ragazzo, ma ormai lui riesce a gestirla bene quasi quanto noi. Lo incaricherò
di portarle del porridge e di dirle che stai benissimo. Le neonate... le importe-
rà di loro?»
«Non ne ho idea. Non si sa mai, con la mia povera Avain» replicò Angmar,
poi esitò, assalita da un pensiero improvviso, e aggiunse: «Aspetta un mo-
mento! Ecco il nome per l'altra, ed è una parola che nella nostra lingua dei
nani costituisce un buon presagio. La chiamerò Berwinna perché suo padre
era Rhodry di Aberwyn e Berwin è la Stella del Nord. Avrà bisogno di qual-
cosa che la guidi, dato che siamo tutti esuli.»
«Mi piace» sorrise Lonna. «Ma come farai a capire a chi spetta un nome e
a chi l'altro?»
«Non ne ho la minima idea» ammise Angmar, studiando le neonate che
dormivano profondamente contro il calore del suo corpo, «però dovremo
chiamarle in qualche modo. Ci penserò sopra» concluse, poi di colpo sbadi-
gliò e aggiunse: «Ora non me la sento di mangiare. Devo dormire.»
Con un cenno di assenso Lonna si avviò alla porta, ma sulla soglia si fermò
e si volse.
«Informerò anche gli uomini della tua salute.»
«Fallo» assentì Angmar, e si addormentò ancora prima che la serva si fosse
richiusa la porta alle spalle.

«Non intendo lasciare questa dannata isola e non c'è altro da aggiungere!»
ringhiò Otho.
«D'accordo» sospirò Mic. «In tal caso andrò da solo o vedrò se uno dei bat-
tellieri è disposto a venire con me.»
«Non voglio che vada neppure tu. Cosa succederà se questo dannato pezzo
di roccia deciderà di andarsene da qualche altra parte lasciandoti dove sei?»
«Qualcuno deve farlo, zio! Siamo qui in questa terra, dovunque si trovi, e
dobbiamo mangiare, giusto? Sono solo contento che abbiamo quelle gemme
per avviare qualche trattativa di affari. Tu e Garin mi avete insegnato parec-
chie cose su come contrattare, quindi andrò a vedere cosa posso fare.»
Otho non rispose e incrociò le braccia sul petto con aria furente mentre Mic
riprendeva a mescolare il porridge nella grande pentola di ferro appesa a un
gancio del camino, tenendo con entrambe le mani il lungo cucchiaio di legno
e grattando lungo i bordi e il fondo del recipiente.
«Non è ancora pronto?» scattò Otho, in tono iroso.
«Quasi. Puoi chiamare i battellieri.»
Otho uscì a grandi passi, lasciando aperta la porta da cui entrò la calda aria
primaverile del mattino. Qualsiasi cosa suo zio pensasse dei suoi piani, Mic
riteneva che presto sarebbe riuscito a lasciare l'isola e a esplorare le terre cir-
costanti il lago. E magari allora avrebbe trovato qualche indizio su dove il
dweomer li avesse portati; naturalmente, la sua speranza era quella di scopri-
re di trovarsi abbastanza vicino a Dwarvenholt da poter tornare a casa a piedi,
per quanto tempo questo potesse richiedere. Sollevando lo sguardo dal porri-
dge, vide poi la serva di Lady Angmar venire verso di lui.
«Eccoti qui» disse la vecchia Lonna. «La mia signora vuole che porti la co-
lazione ad Avain.»
«Lo farò non appena potrò affidare la pentola a uno dei battellieri. Come
sta Angmar?»
«Bene, e così pure le sue due figlie.»
«Figlie?» ripeté Mic, sentendo un sorriso affiorargli sul volto. «Davvero
splendido! E sono gemelle? Speriamo che sia un buon presagio.»
«Huh! Lo sarà se sopravvivranno all'estate.»
«È vero» annuì Mic. «Pregherò perché siano sane.»
Con un lungo sospiro Lonna si avvicinò a una cassapanca di legno e ne tirò
fuori le ciotole per il pasto degli uomini; non appena essi rientrarono, incari-
cò suo figlio Lon e il capo dei battellieri di occuparsi del porridge, cosa che
permise a Mic di prepararne un'abbondante porzione per Avain.
«C'è ancora un po' di sale?» chiese quindi.
«Pochissimo» rispose Lon. «Spero che tu possa ottenerne un po' con il ba-
ratto, e non mi dispiacerebbe anche del burro.»
«Non rimane più neanche molto grano» intervenne Lonna. «Sarà bene tro-
vare il modo di commerciare un poco, altrimenti moriremo di fame.»
«Sai, anche se detesto ammetterlo, a volte condivido l'opinione che mio zio
Otho ha di quest'isola» osservò Mic. «Se il suo dweomer è così dannatamente
potente perché non può anche nutrirci, come si sente narrare nelle vecchie
storie, magari con un calderone magico o qualcosa del genere?»
Lonna si erse sulla persona e lo fissò con occhi roventi.
«Non mettere in discussione chi ti è superiore, giovane Mic» ingiunse. «O-
ra và a portare il porridge ad Avain.»
Sistemati su un vassoio la ciotola del porridge e una caraffa d'acqua fresca,
Mic lasciò la dimora e l'aggirò per raggiungere la torre quadrata, assaporando
la calda luce del sole che gli batteva sulla schiena e la brezza che sempre sof-
fiava su Haen Mara. Intorno a lui gli alberi circostanti la dimora cominciava-
no ad ammantarsi delle prime gemme primaverili, ma quando entrò nella tor-
re si sentì avviluppare dall'odore della pietra umida e antica.
Reggendo con cura il vassoio salì la lunga scala a spirale e oltrepassò un
pianerottolo intasato di sacchi vuoti e di legna da ardere, arrestandosi poi a
metà della rampa successiva.
«Avain!» chiamò. «Ti porto la colazione!»
Dall'alto gli giunse la sua risatina di risposta e riprendendo a salire rag-
giunse una stanza vera e propria, resa luminosa e soleggiata da grandi finestre
nonostante le pareti fossero anch'esse di pietra scura.
Vicino alla finestra più grande era accostato un tavolo con una sedia semi-
circolare, ma Avain aveva scelto di appollaiarsi pericolosamente sul davanza-
le per guardare fuori. La ragazza aveva uno strano volto rotondo e quasi gon-
fio su un corpo altrettanto rotondo e i capelli biondi le incorniciavano il viso
in una massa ricciuta e arruffata che le ricadeva fino alle spalle e che nessu-
no, neppure sua madre, riusciva a indurla a intrecciare, così come nessuno
riusciva a convincerla a vivere nella dimora vera e propria e non nella torre,
neppure nel cuore dell'inverno quando quella stanza si faceva gelida quanto
l'esterno.
«Ora è meglio che scendi dalla finestra per mangiare il tuo porridge» con-
sigliò Mic.
«Avain volerà» rise lei, allargando le braccia come se fossero state ali. «A-
vain volerà via.»
«Davvero? E dove ti procurerai il porridge, in quel caso?» chiese Mic, po-
sando il vassoio sul tavolo. «Se non lo vuoi me lo mangerò io, tutto quanto.»
Ridacchiando, Avain scese dal davanzale e prese posto sulla sedia, impu-
gnando il cucchiaio di legno.
«Attenta, perché nel centro è ancora molto caldo» consigliò Mic.
«Ad Avain piace caldo.»
Dentro di sé Mic pensò che era vero, dato che l'aveva vista mangiare cose
abbastanza bollenti da ustionare la bocca di un uomo, per non parlare di quel-
la di una ragazza. Avain trangugiò qualche cucchiaiata, poi lo guardò con
quei suoi occhi strani, verde cupo con la pupilla verticale gialla simile a quel-
la di un gatto e quasi privi di palpebre. Le mancavano anche le sopracciglia,
sebbene avesse uno spiccato arco sopraccigliare a indicare dove esse si sa-
rebbero dovute trovare.
«Il porridge è buono?» chiese Mic.
«Sì» rispose lei, riprendendo a mangiare.
«Ho delle notizie per te. Ricordi che tua madre doveva avere un nuovo
bambino?»
Avain annuì e indicò con la mano libera davanti al proprio ventre, senza
dubbio per mimare la condizione di sua madre.
«Ebbene, la scorsa notte ha avuto due bambine» spiegò Mic, sollevando
due dita. «Adesso hai due nuove sorelle.»
Avain posò il cucchiaio e sollevò due dita a imitare il suo gesto.
«Bambine» disse poi. «Avain vuole vedere le bambine.»
«Temo siano troppo piccole per poter venire a trovarti» replicò Mic, e
quando lei lo fissò senza capire sollevò le mani per indicare dimensioni molto
minuscole, ripetendo: «Le bambine sono troppo piccole e devono restare a
letto.»
Avain sorrise, annuì e accennò a riprendere il cucchiaio, ma poi esitò e in-
clinò il capo da un lato.
«Avain vuole vedere le bambine.»
«Non puoi vederle nella tua bacinella d'argento?» chiese Mic, indicando
una grossa ciotola d'argento posata sul tavolo. «Non puoi guardare nell'acqua
e vederle?»
Avain si accigliò, riflettendo su qualcosa. Nel corso dell'inverno appena
trascorso, Mic le aveva visto evocare immagini di cose lontane abbastanza
spesso da non dubitare che lei possedesse il dweomer così come lo possedeva
l'isola stessa.
«Avain le vuole vedere davvero» decise poi la ragazza. «Avain scende di
sotto.»
«Fino alla dimora? Vuoi fare tutta la strada fino alla dimora? Loro sono
là.»
«Avain va alla dimora» dichiarò lei, alzandosi. «Adesso.»
Farle scendere le scale richiese non poco tempo, perché ogni pochi gradini
lei perdeva il coraggio, ma ogni volta quando Mic le suggeriva di tornare nel-
la sua stanza scuoteva il capo e scendeva di qualche altro scalino. Quando in-
fine arrivarono alla porta della torre, Avain ebbe un ultimo momento di esita-
zione.
«La dimora è là» indicò Mic. «Le bambine sono a letto con tua madre. Le
vuoi vedere o preferisci tornare di sopra?»
Tratto un profondo respiro, Avain uscì sotto la luce del sole e subito lanciò
uno strillo, coprendosi gli occhi con entrambe le mani e separando le dita ap-
pena quanto bastava per sbirciare fra di esse.
«Cattivo» commentò, forse rivolta a quel chiarore. «Avain vuole vedere le
bambine.»
Mic la condusse dentro attraverso una porta posteriore in modo da evitare
gli uomini radunati nella grande sala e una volta nell'ombra relativa dell'in-
terno lei abbassò le mani con un sospiro di sollievo. Quanto alle scale che
portavano di sopra, le affrontò senza rimostranze, ridacchiando un poco. Ar-
rivati alla porta Mic bussò e dopo un momento il battente si schiuse di una
fessura a rivelare l'irritabile Lonna.
«Che cosa vuoi?» sibilò. «Non intendo permettere a nessuno di disturbare
la mia signora... oh! Avain!»
«Avain vuole vedere le bambine» dichiarò la ragazza. «Due bambine.»
«In effetti sono due» affermò Lonna, indietreggiando e spalancando la por-
ta. «Se desideri vederle a tal punto da essere venuta fin qui, allora le vedrai.»
Avain entrò nella stanza a passo di carica e Mic la seguì per tenerla d'oc-
chio. A casa, a Lin Serr, non sarebbe mai stato ammesso alla presenza di una
donna che aveva partorito, perché agli uomini era proibito di interferire in co-
se tanto sacre e pericolose, ma essendo lontana ormai da così tanto tempo
dalla società dei nani, Lonna gli permise di rimanere. Lui però badò a tenersi
vicino alla porta per evitare di contaminare Angmar e le neonate.
Avain corse fino al capezzale della madre che si svegliò, sorrise e girò il
volto in modo da permetterle di baciarla sulla guancia.
«Bambine!» strillò Avain. «Due bambine!»
«Infatti» rise Angmar. «Mia cara Avain! Quanto sei stata dolce a venire!
Queste sono le tue nuove sorelle.»
Con l'aiuto di Lonna, Avain prese in braccio la più grossa delle due neona-
te e nell'osservarla Mic rimase sorpreso dalla sua delicatezza: tenendo la
bambina con cautela, Avain si limitò a fissarla negli occhi e infine la restituì
alla serva con un sospiro.
«Bella!» annunciò. «Così bella.»
«È bella, vero?» commentò Angmar. «Avanti, vuoi vedere anche l'altra?»
Avain annuì con un sorriso e di nuovo prese la neonata fra le braccia con
sorprendente tenerezza; quando poi si chinò a guardarla negli occhi, emise
uno strillo deliziato.
«Nonna!» esclamò. «Avain è qui, nonna!»
Lanciando un'occhiata ad Angmar, Lonna si protese a recuperare la bambi-
na, che Avain le restituì dopo averle dato un bacio su una guancia.
«Avain?» sussurrò Angmar, mentre Lonna le porgeva la piccola. «Ti riferi-
sci a nonna Marnmara?»
«È la nonna» dichiarò Avain, ridendo, poi sì allontanò dal letto con una se-
rie di piroette, d'un tratto aggraziata nel tenere allargato il vestito come se
fossero state ali. «Nonna, la mamma vuole tornare a casa» disse.
Intanto la neonata si era addormentata in braccio alla madre, e Lonna le si
avvicinò, tenendo in mano un pezzetto di filo da cucito verde.
«Leghiamolo intorno alla caviglia di Mara in modo da distinguerla da
Berwinna» suggerì, poi scoccò un'occhiata a Mic e aggiunse: «Ti spiegherò
poi.»
«Benissimo, se non morirò prima di curiosità» replicò lui.
Avain rise, batté le mani e danzò fino alla finestra.
«Casa» disse. «Presto andremo tutti a casa.»
Mic si sentì stupido a concedersi di sperare, ma non poté fare a meno di nu-
trire la speranza che Avain avesse forse ottenuto il presagio che presto Haen
Marn sarebbe tornata a Dwarvenholt. Ma chi poteva sapere cosa intendesse
lei con "presto" e cosa vedesse davvero nel contemplare il futuro con quei
suoi strani occhi da drago?

APPENDICI

NOTE SUL CALENDARIO DI DEVERRY

Il calendario di Deverry parte dalla fondazione della Città Santa, approssi-


mativamente nell'anno 76 CE. Il lettore dovrebbe ricordare che il capodanno
celtico cade nel giorno che noi chiamiamo 1 Novembre e che quindi l'inverno
è la prima stagione del nuovo anno.

NOTE SULLA PRONUNCIA


DELLA LINGUA PARLATA A DEVERRY

La lingua parlata a Deverry è pre-celtica, quindi anche se strettamente col-


legata al gallese, al bretone e al cornovagliese non è identica a nessuna di
queste lingue esistenti e non deve essere scambiata per tale.
Gli scrivani di Deverry distinguono le vocali in due categorie: nobili e co-
muni. Quelle nobili hanno due pronunce diverse, quelle comuni una sola.
A come in father quando è lunga; quando è breve si usa una versione più
corta dello stesso suono, come in far.
O come in bone quando è lungo; come in pot quando è breve.
W come Yoo di spook quando è lungo; come quello di roof quando è breve.
Y come la i di machine quando è lungo; come la e di batter quando è bre-
ve.
E come in pen.
I come in pin. U come in pun.
Le vocali sono generalmente lunghe nelle sillabe accentate, brevi in quelle
non accentate. La Y costituisce l'eccezione fondamentale a questa regola per-
ché quando compare come ultima lettera di una parola è sempre lunga, indi-
pendentemente dal fatto che la sillaba sia accentata o meno.
I dittonghi hanno una pronuncia costante.
AE come in mane.
AI come in aisle.
AU come il suono ow in how.
EO come una combinazione dei suoni eh e oh.
EW come in gallese, con una combinazione dei suoni eh e oo.
IE come in pier.
OE come il suono oy in boy.
UI come il suono wy nel gallese del nord: una combinazione dei suoni oo
ed ee.
È da notare che OI non costituisce mai un dittongo ma genera invece due
suoni distinti, come in carnoic (KAR-noh-ik).
Le consonanti sono come in inglese, con le seguenti eccezioni:
C è sempre un suono duro, come in cat.
G è sempre un suono duro, come in get.
DD si pronuncia come il th di breathe, ma il suono si fa sentire molto più
che in inglese e si contrappone al TH, che è il suono muto, come in the o in
breath (questo è il suono che i Greci chiamavano la tau celtica).
R è un suono molto marcato.
RH è una R muta, pronunciata in Deverry più o meno come se fosse scritta
hr, in Eldidd questo suono sta progressivamente diventando indistinguibile
dalla R.
DW, GW e TW formano per lo più un suono unico, come in Gwendolen o
in twit. Y non è mai una consonante. I è considerata una consonante se posta
davanti a una vocale, soprattutto all'inizio di una parola, e questo vale anche
per la desinenza plurale -ion (che si pronuncia yawn).
Le consonanti doppie vengono sempre pronunciate chiaramente entrambe,
al contrario di quanto accade in inglese; è da notare però che DD è considera-
to una singola lettera e non una consonante doppia.
L'accento cade di solito sulla penultima sillaba, ma i nomi composti e i
nomi di luoghi costituiscono spesso un'eccezione a tale regola.
Nel complesso ho trascritto i nomi e i vocaboli elfici e bardekiani sulla ba-
se del sistema di ortografia sopra esposto, che è abbastanza adeguato, almeno
per quanto concerne la lingua del Bardek. Quanto alla lingua elfica, in un'o-
pera di questo tipo l'uso dell'intero apparato con il quale gli studiosi cercano
di rappresentare le sottigliezze e le sfumature delle diverse lingue sarebbe ri-
sultato soltanto ridicolo. Per esempio, l'orecchio umano non è in grado di di-
stinguere fra sfumature di suono come B> e <B, quindi non vedo perché si
dovrebbe creare una distinzione scritta e creare solo confusione. Devo im-
mensi ringraziamenti ai diversi individui di lingua elfica che mi hanno sugge-
rito quali consonanti scegliere in casi che creavano perplessità e che hanno
faticato, spesso invano, per affinare la sensibilità del mio orecchio al sistema
di vocali elfiche.

GLOSSARIO

Aber (Deverriano) Lo sbocco di un fiume, un estuario.


Alar (Elfico) Un gruppo di elfi che possono essere o non essere imparentati
e che acconsentono a viaggiare e a vivere come una singola unità.
Alardan (Elf.) L'incontro di parecchi alarli, di solito occasione per festeg-
giare e ubriacarsi.
Angwìdd (Dev.) Inesplorato, sconosciuto.
Arconte (traduzione dal bardekiano atzenalern) Il capo elettivo di una città
stato (in bardekiano ai).
Astrale Il piano dell'esistenza direttamente "al di sopra" o "all'interno" del-
l'eterico. In altri sistemi di magia è spesso indicato come l'Archivio Akashic o
lo scrigno d'immagini.
Aura Il campo di energia elettromagnetica che permea un essere umano ed
emana da esso.
Aver (Dev.) Un fiume.
Bara (Elf.) Un'enclitica indicante che il precedente aggettivo di una parola
elfica agglutinata è il nome dell'elemento che segue l'enclitica, come in
can+bara+melin = fiume rapido (fiume+contrassegno nome+rapido).
Bel (Dev.) Il principale dio del panteon di Deverry.
Bel (Elf.) Un'enclitica, per funzione simile a bara, tranne per il fatto che
indica che un precedente verbo è il nome dell'elemento che segue nel termine
agglutinato, come in Darabeldal, Fluente Lago.
Brigga (Dev.) Ampi calzoni indossati da uomini e ragazzi.
Broch (Dev.) Tozza abitazione a forma di torre. Una volta, nella Terra d'O-
rigine, quelle torri avevano un grande focolare al centro e parecchie piccole
stanze lungo i lati, ma al tempo del nostro racconto quella struttura architet-
tonica era ormai stata rimpiazzata da normali piani con focolari e camini su
entrambi i lati della costruzione.
Cadvridoc (Dev.) Un condottiero di guerra. Non un generale nel senso let-
terale del termine, il cadvridoc deve accettare i consigli dei nobili che servo-
no ai suoi ordini, ma la decisione finale spetta a lui di diritto.
Capitano (traduzione dal deverriano pendaely) Il secondo in comando di
una banda di guerra dopo il nobile a cui essa appartiene. È interessante notare
come il termine taely possa indicare tanto una banda di guerra quanto una
famiglia, a seconda del contesto in cui è usato.
Conaber (Elf.) Strumento musicale simile alla fistola ma con una gamma
ancor più limitata.
Corpo di Luce Una forma di pensiero artificiale costruita da un maestro del
dweomer per permettergli di viaggiare attraverso gli altri piani dell'esistenza.
Cwm (Dev.) Una valle.
Dal (Elf.) Un lago.
Doppione eterico La vera sostanza di una persona, la struttura elettroma-
gnetica che tiene insieme il corpo fisico e che costituisce la vera sede della
consapevolezza.
Duri (Dev.) Una fortezza.
Dweomer (traduzione dal deverriano dwunddaevaed) In senso stretto è un
sistema di magia che mira all'illuminazione attraverso l'armonia con l'univer-
so naturale in tutti i suoi piani e le sue manifestazioni; in senso popolare e-
quivale a magia, stregoneria.
Elcyon Lacar (Dev.) Gli elfi. Letteralmente, gli "spiriti lucenti".
Englyn (Gallese, pl. englynion) Una forma metrica che consiste di una
stanza di tre versi; ciascuna stanza ha sette sillabe, anche se è possibile ag-
giungere a qualsiasi verso una sillaba in più. Tutti i versi finiscono in rima. In
Deverry, all'epoca della nostra narrazione, questa forma di poesia era così
dominante che il suo nome veniva tradotto semplicemente come "breve poe-
sia", il che spiega il mio ricorso a un termine gallese per fornire una defini-
zione.
Eterico Piano dell'esistenza direttamente "al di sopra" di quello fisico. Con
la sua sostanza magnetica e le sue correnti esso trattiene materia fisica in una
rete invisibile ed è fonte di vita.
Evocare una visione. L'arte di vedere a distanza luoghi o persone mediante
la magia.
Fola (Elf.) Un'enclitica che mostra come il nome che la precede in una pa-
rola elfica agglutinata sia il nome dell'elemento che segue l'enclitica, come in
Corafolamelim (gufo+enclitica+fiume).
Forma di pensiero Un'immagine o forma tridimensionale che è stata mo-
dellata con sostanza eterica o astrale mediante l'azione di una mente addestra-
ta. Se un numero di menti addestrate opera congiuntamente per costruire una
stessa forma di pensiero, essa esisterà indipendentemente per un periodo di
tempo proporzionale alla quantità di energia riversata in essa. Le manifesta-
zioni di dèi e di santi sono spesso forme di pensiero avvertite da chi ha molta
intuizione o un accenno di seconda vista.
Geis Un tabù, di solito la proibizione di fare qualcosa. Infrangere un geis
comporta la contaminazione rituale e di solito la morte di chiunque creda
fermamente in questo concetto o tramite una morbosa depressione o mediante
un "incidente" autoprovocato.
Gerthddyn (Dev.) Letteralmente, "uomo della musica". Menestrello e in-
trattenitore girovago di livello molto inferiore a quello di un bardo.
Giavellotto (traduzione dal deverriano picecl) Dal momento che l'arma in
questione è lunga appena novanta centimetri, il lettore deve evitare di pensare
a essa come a una vera e propria lancia o a uno di quegli enormi giavellotti
usati nei moderni giochi olimpici.
Grandi Spiriti ora disincarnati ma un tempo umani, che esistono su un pia-
no inconoscibilmente elevato e che hanno dedicato loro stessi all'illuminazio-
ne di tutti gli esseri senzienti. I Buddisti li definiscono Bodhisattvas.
Gwerbret (Dev. Il nome deriva dal gallico vergobretes) Il rango nobiliare
più elevato dopo quello della famiglia reale stessa. I Gwerbret (Dev. gwer-
bretion) fungono da principali magistrati delle loro regioni e perfino i re esi-
tano a scavalcare le loro decisioni a causa delle loro molte, antiche prerogati-
ve.
Hiraedd (Dev.) Una particolare forma celtica di depressione, contrassegna-
ta da un profondo e tormentoso desiderio per una cosa impossibile a ottener-
si; inoltre e in particolare, è un senso di nostalgia elevato all'ennesima poten-
za.
Luce azzurra Altro nome con cui indicare l'eterico.
Lwdd (Dev.) Un prezzo di sangue. Differisce dal wergild per il fatto che in
alcune circostanze l'ammontare del lwdd può essere contrattato invece di es-
sere prestabilito dalla legge.
Malover (Dev.) Una corte formale che comprende tanto un sacerdote di Bel
quando un gwerbret o un tieryn.
Melim (Elf.) Un fiume.
Mor (Dev.) Un mare, un oceano.
Pan (Elf.) Un'enclitica, simile a fola che abbiamo definito in precedenza,
solo che indica che il nome che la precede è plurale oltre a essere il nome del-
la parola che segue, come in Corapanmelim, Fiume dei Molti Gufi. Ricordate
che gli elfi indicano sempre il plurale aggiungendo un morfema semi-
indipendente e che questa semi-indipendenza si riflette sulle diverse encliti-
che della sintassi.
Pecl (Dev.) Lontano, distante.
Rhan (Dev.) Unità politica di territorio; tali sono il gwerbretrhyn e il
tierynrhyn. rispettivamente aree poste sotto il diretto controllo di un gwerbret
o di un tieryn. Le dimensioni dei diversi rhannau variano ampiamente a se-
conda delle eredità e della fortuna di guerra piuttosto che a seconda di una
definizione politica.
Sigillo Una figura magica astratta, di solito rappresentante un particolare
spirito o un particolare potere o tipo di energia. Queste figure, che somigliano
molto a scarabocchi geometrici, vengono derivate secondo svariate regole da
diagrammi magici segreti.
Sottoporre a incantesimo Ipnotizzare una persona mediante diretta manipo-
lazione della sua aura piuttosto che manipolandone la consapevolezza per in-
fluenzare l'aura.
Spiriti Esseri viventi anche se incorporei che appartengono ai diversi piani
e alle diverse forze dell'universo. Soltanto gli spiriti elementari, cioè il Popo-
lo Fatato (traduzione dal deverriano elcyon goecl) si possono manifestare di-
rettamente sul piano fisico. Gli altri hanno bisogno di un veicolo di qualche
tipo come una gemma, incenso, fumo o il magnetismo salato del sangue ap-
pena versato.
Taer (Dev.) Territorio, paese.
Tieryn (Dev.) Un grado nobiliare intermedio, inferiore a quello di gwerbret
ma superiore a quello di un nobile comune (in deverriano arcloedd).
Wyrd (traduzione dal deverriano tingedd) Fato, destino. Gli inevitabili pro-
blemi residuati dall'ultima incarnazione precedente.
Ynis (Dev.) Isola.
PERSONAGGI E LORO INCARNAZIONI

GUERRE CIVILI TERRE DEL SET- DEVERRY, 1065


TENTRIONE, 1116

Anasyn Kyle
Bevyan Dera
Bellyra Carramaena
Burcan Verrarc Sarcyn
Branoic (non ancora apparso) Jill
Caradoc (non ancora apparso) Blaen di Cwm Peci
Lillorigga Niffa
Maddyn Rhodry Rhodry
Merodda Raena Mallona
Nevyn (non ancora apparso) Nevyn
Olaen Jahdo
Owaen (non ancora apparso) Cullin di Cerrmor

NOTA DELL'AUTRICE

Devo chiedere scusa ai fedeli lettori di questo lungo progetto che per così
tanto tempo hanno atteso il volume che hanno ora in mano, ma di recente so-
no stata molto assorbita da questioni legali specialmente dalla serie di cause e
controcause relative a un particolare studioso di lingua elfica e i suoi attacchi
diffamatori nei miei confronti. Quando il Gwerbret di Aberwyn ha tenuto un
Malover e ha emesso una sentenza in nostro favore io e il mio editore abbia-
mo sperato che la cosa si fosse finalmente conclusa, ma purtroppo il nostro
avversario ha ritenuto opportuno appellarsi al Sommo Re in persona. Dopo
un lungo e faticoso viaggio in carrozza e per nave, la sottoscritta e un rappre-
sentante del mio editore ci siamo sistemati in un appartamento di una locanda
di Dun Deverry e abbiamo presentato la nostra controdenuncia. In attesa che
il nostro caso venisse giudicato, io mi sono poi applicata di nuovo a quell'arte
per cui ritengo di essere molto più portata che per gestire cause legali, e cioè
scrivere romanzi.
Da allora sono trascorsi alcuni mesi e noi siamo ancora in attesa. Speriamo
che la corte del Sommo Re si decida a risolvere presto questa contesa.
FINE

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