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Guglielmo Peirce

L’ARTIGLIERIA DA DIABOLICA ARTE A NUOVA SCIENZA.


Storia filologica delle armi ossidionali e da fuoco dalle origini all’esordio della Guerra dei
Trent’anni.

L’artiglieria da diabolica arte a nuova scienza.


di Guglielmo Peirce
Prima stesura depositata alla S.I.A.E.-SEZIONE OLAF
con il n. di repertorio 9998746 e con decorrenza 8.12.2010.

1
Alla memoria di mio padre, uomo
d’ogni arte meccanica intendente.

2
Abbr.

itm. = italiano medievale.


frm. = francese medievale.
gr. = greco antico e greco bizantino.
td. = tedesco.
td. collt. = tedesco colloquiale.
fm. = fiammingo.
olt. = olandese.
prlt. = proto-latino
lt. = latino.
tlt. = tardo-latino.
lt. arc. = latino arcaico.
fr. = francese.
gm. = germanico.
sp. = spagnolo.
np. = napoletano.
i. = inglese.
ts. = toscano.
plt. = plurale.
polt. = polacco.
vn. = veneziano.
ctm. = catalano medievale.
cst. = castigliano.
sic. = siciliano.
fr. volg. = francese volgare.
lmb. = lombardo.

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Prefazione e introduzione.

Com’è nostra abitudine, abbiamo cercato di costruire questo racconto delle origini
dell’artiglieria non tanto con le nostre parole e le nostre impressioni quanto con quelle di
coloro che in quei tempi effettivamente vissero, quelle cose videro e quelle esperienze
fecero, cioè soprattutto commentando citazioni di scritti coevi. Ci siamo avvalsi pertanto solo
di cronache e trattati originali, di pubblicazioni di documenti d’archivio e tra queste ultime, per
quanto riguarda l’artiglieria medievale, soprattutto di quelle fondamentali del Finot e
dell’Angelucci, autori molto rigorosi nella raccolta e nell’esame dei documenti, sempre da loro
citati senza alcuna rielaborazione personale, a differenza di altri, per esempio del Cittadella,
le cui citazioni sono purtroppo chiaramente falsate dalle sue proprie ‘inclinazioni’
interpretative; per questi motivi abbiamo preso in considerazione ‘con beneficio d’inventario’
anche i documenti citati da Luigi Bonaparte, perché, com’è noto, i militari, quando scrivono di
storia, hanno generalmente il malvezzo di cercare di ‘piegare’ gli avvenimenti alle loro
convinzioni. Il Finot infatti intese solo pubblicare documenti interessanti senz’alcuna pretesa
d’interpretarli, l’Angelucci, il quale questa pretesa invece ebbe, lasciò in verità molto a
desiderare in quanto ad acutezza di sintesi, perché apparentemente, pur essendo un attento
lettore di documenti e di cronache sincrone, non arricchì le sue ricerche con l’indispensabile
studio dei tanti trattati militari esplicativi immediatamente successivi al Medioevo. Cesare
Saluzzo poi, meritevole di aver pubblicato il manoscritto di Francesco di Giorgio di Martino,
fece nel commentarlo l’errore opposto a quello dell’Angelucci, perché lesse moltissimi autori
sincroni ma non documenti d’archivio e pertanto rimase invischiato nella sua selva di
numerosissime dotte citazioni, spesso però contraddittorie o troppo laconiche, e quindi non
potè elevarsi a quella necessaria sintesi storica che sola può rendere comprensibile lo
sviluppo dell’artiglieria nei suoi primi secoli. Unì addirittura tutti i predetti errori il suddetto
Louis Napoléon Bonaparte, il quale pretese di trattare dello sviluppo dell’artiglieria dalle sue
origini utilizzando le sole cronache e storie, cioè senza citare un solo documento d’archivio
né un solo trattato d’artiglieria anteriore a quello, oltretutto abbastanza povero, del Sury del
1633, e limitandosi a tener conto solo di qualche testo di fortificazioni (lt. munitiones); come
se storici e cronachisti, solo perché descrivono assedi e battaglie, fossero mai stati per
questo in grado di spiegare tecnicamente la guerra e come se l’arte della fortificazione non si
fosse evoluta sempre e solo come risposta all’evoluzione dell’artiglieria! A chi volesse
comunque leggere una buona storia dell’artiglieria, complessivamente ben interpretata,
sufficientemente completa e ben scritta, possiamo certamente consigliare il Figuien; ciò
perché questo nostro studio non vuol essere né una storia né tanto meno una descrizione

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tecnica della materia e solo si prefigge di farne un’analisi filologica, soprattutto in quanto della
tecnica della metallurgia e della fondizione siamo tutt’altro che esperti.
Abbiamo voluto esercitare una particolare cura nel render al lettore più leggibili le dunque
tante citazioni, razionalizzandone, più che modernizzandone, la punteggiatura e le
congiunzioni quando lo abbiamo ritenuto appunto utile a facilitare la comprensione del lettore,
senza per questo stravolgerle in alcun modo e in alcun punto di esse; precisiamo inoltre che,
da qualsiasi lingua, antica o moderna, le conversioni in italiano siano ricavate, sono, come al
solito, strettamente letterali e inoltre sempre e solamente nostre. Questa nostra maniera di
procedere ha dunque il pregio di non mistificare nulla e solo ci si potrebbe magari addebitare
di aver mal interpretato qualche passaggio o qualche tratto paleografico, il che però non
riuscirebbe certo a guastare il risultato generale, ossia un affresco grande, vivido, sincero e
spesso sorprendente di un aspetto del nostro passato con il quale nessun diverso modo di
raccontare riuscirebbe a farci entrare così tanto in reale contatto. Abbiamo cercato di non
usare la locuzione ‘pezzi d’artiglieria’ (sp. piezas; td. Stücke) per riferirci alle bocche da fuoco,
perché riteniamo trattarsi di un modo di dire improprio, anche se invalso già nel Medioevo in
Italia e Spagna e dovuto all’esser state le bombarde medievali fatte generalmente di più pezzi
avvitati insieme, in modo da agevolare sia la loro realizzazione sia il loro trasporto; abbiamo
quindi preferito chiamarle ‘bocche’ o anche ‘canne’ d’artiglieria come hanno sempre fatto gli
inglesi (guns). C’è da aggiungere che abbiamo trovato la locuzione ‘bocche da fuoco’ più
antica nel Diario di Giovanni Portoveneri, all’anno 1496 (piantovvi due boche di fuochi e
bombardollo).
Oltre a tralasciare un approfondimento della materia della fondizione e fabbricazione delle
bocche da fuoco, per il quale ci sentiamo senz’altro di consigliare al lettore, eventualmente a
ciò interessato, soprattutto la lettura del trattato del de Marchi e del Discurso del Lechuga,
abbiamo anche ritenuto di omettere l’argomento dell’artiglieria di presidio, ossia da difesa
delle piazze, perché, per renderla comprensibile al lettore, si sarebbero dovuti descrivere
prima sia l’architettura militare sia i compiti dei sopraintendenti d’artiglieria di quei tempi, cioè
una complessa materia del tutto eccedente il nostro assunto; e per lo stesso motivo abbiamo
anche tralasciato la trattazione dei lavori d’assedio, cioè approcci, trincee e mine, argomenti
anche questi certo interessanti, ma indubitabilmente poco avvincenti per il lettore medio;
aggiungeremo solo che non più s’usava innalzare, tutt’attorno all’abitato assediato, un recinto
(lt. munimentum; gr. ἐπιτείχισμα; grb. έχύρωμα) specie per vietargli i soccorsi, e ciò a causa
sia dell’aumento delle dimensioni e dell’importanza delle città sia perché l’uso intenso delle
bocche da fuoco rendeva gli assedi più brevi. In relazione a tali argomenti ci limitiamo
pertanto a dire che, per battere i luoghi fortificati (gr. ἐρῠμνά) e offenderne le difese, a partire
dalla famosa discesa di Carlo VIII di Francia in poi s’usarono, come più avanti
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dettagliatamente vedremo, principalmente bocche da fuoco di quello che più tardi sarà detto
secondo genere d’artiglieria o genere dei cannoni ferrieri da batteria, mentre prima di detta
discesa s’erano in Italia battute le mura, le merlature e le altre difese di castelli e città
fortificate sia con bocche petriere del genere delle bombarde sia con quelle plombiere del tipo
dei passavolanti e delle spingarde - nome quest’ultimo ereditato da quello di precedenti
congegni scaglia-sassi medievali detti in fr. espringalles, essendo i primi a caricamento
anteriore ordinario, le seconde invece con il caricamento posteriore detto da camera e che poi
spiegheremo. Per tali luoghi fortificati invece difendere, non avendosi ovviamente da battere
metodicamente mura nemiche a distanza ravvicinata per aprirvi delle brecce e dovendosi
invece colpire del nemico assediante i ripari, le batterie, mante, bastite (o bastide o bastie o
bastilie), cioè fortini di legno spesso muniti di doppi fossati e ponti levatoi, e inoltre le elepoli
(gr. ἑλέπολεις, gr. μοσσύνες; gr. μόσυναι: grb. ἑλεπόλεις) dette nel Basso Medioevo battifolli
(sing. battifolle, dal tlt. batifolium; detti pure battifredi o buttifredi dal tlt. berfredi; fr. beffrois),
ossia le grandi torri di legno (gr. ξυλόπυργοι), perlopiù arietarie, da accostare alle mura
assediate, macchine della cui costruzione furono nell’antichità greca particolarmente esperti
l’ingegnere ateniese Epimaco e un altro di nome Possidonio il Macedone, il quale serviva
Alessandro Magno, inoltre le gatte o i gatti, cioè gli arieti coperti, le vinee, ossia quelle che
nell’antichità erano state anche dette testuggini (lt. vineae, plutei, plutea, testudines; grb.
σπαλίωνες, ἀμπέλοι, οἰϰήματα, χελώναι), le quali perlopiù erano fossicie (gra. διορυϰτρίδαι
χελώναι), cioè servivano a proteggere i minatori che, scesi nel fossato, cominciavano a
scavare sotto le mura nemiche, ma potevano essere anch’esse arietarie (gra. & grb.
χρῑοφόροι χελώναι) e quindi assimilate alle gatte (o all’inverso gli arieti potevano essere
considerati ‘testudinati’ (εἰς τὰς χελώνας ϰριοὶ), inoltre i castelli delle navi staccati e portati a
terra dagli assedianti per usarli come fortini d’assalto e infine i musculi, piccoli ripari perlopiù a
forma di gallerie che servivano di complemento ai ripari maggiori, cioè per proteggere gli
uomini che questi spingevano o traevano fino all mura nemiche; dunque per difendere le mura
e le torri (gr. πύργοι) si preferirono, a partire dal Rinascimento, soprattutto quelle canne da
polvere, grandi e piccole, in seguito dette del primo genere o genere delle colubrine, le quali
avevano maggior gittata, e quindi di queste si guarnirono soprattutto le cortine (da coltrine;
cst. lienzos; gr. μεσοπύργια, μεταπύργια), i baluardi (dal fra. boullewarder, ‘guarda-proiettili’, e
questo dal gr. προβολαί) o bastioni, come furono anche impropriamente detti a partire dal
Seicento, e, prima che questi le soppiantassero, e infine le maggiori torri murarie, insomma
tutte quelle opere di difesa che in latino si dicevano propugnacula e in ga. ἐπάλξεις, προβόλια
e grb. προβολαί, come già detto; s’usavano inoltre cannoni petrieri, vale a dire del terzo
genere, da usare a mitraglia per la difesa del fossato e contro gli assalti del nemico. Tutto ciò,
apparentemente complicato quando riassunto così in breve, diventerà poi al lettore molto più
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chiaro quando descriveremo nel dettaglio genere per genere, precisando che c’erano stati tre
generi d’artiglieria anche nel precedente Quattrocento, ma con differenziazioni del tutto
diverse, come anche vedremo.
Per quanto riguarda poi le fortificazioni, si tratta di una materia la cui trattazione non è tra i
nostri assunti; poiché è però un argomento molto complementare di quella dell’artiglieria,
abbiamo voluto comunque aggiungere nella nostra bibliografia anche un copioso numero di
trattati di architettura militare di quei tempi onde facilitare i lettori che intendessero farne
oggetto di studio. Noi ci limiteremo qui a spiegare perché si passò dalle mura medievali ai
terrapieni rinascimentali, per cui da allora i borghi maggiori incominciarono a prendere il nome
di terre e i loro cittadini terrazzani, e i motivi furono due; il primo era che i frammenti delle palle
di pietra o di marmo che si andavano a infrangere su difese anch’esse lapidee facevano
strage dei difensori (lt. primoscutarii e primosagittarii; tlt. protectores; gr. ὐπερασπισταί) e le
palle di ferro, pur non frangendosi, andavano a frantumare le pietre delle muraglie con lo
stesso medesimo pernicioso effetto; il secondo era invece che il fuoco di batteria finiva per
abbattere qualsiasi muraglia, mentre non aveva quasi alcun effetto sui terrapieni, anzi più
palle di ferro si conficcavano in un terrapieno più questo si rassodava:

… onde in progresso di tempo si potrà dire con ragione esser il detto terrapieno divenuto
quasi di ferro per la quantità delle palle che vi saranno state confitte dall’avversario […] che
però (‘perciò’) concludo esser più facile rovinar muraglia di pietra che di mattoni, di tuffo che
di terra, quando però questa sia pingue, cretosa e tenace come si richiede (Annibale Porroni,
Trattato universale militare moderno ecc. LT. VI, p. 311).

A conferma di quanto ora detto, ecco quanto scriveva sull’argomento delle fortificazioni un
anonimo ambasciatore che, un po’ prima del 1588, descriveva la Francia:

… Nelle fortezze ho notato questo, che si dilettano di farle più che si può di terra e di
legname, non solamente perche è manco (‘minor’) spesa che non è il fabricarle di mura e si
fabricano più presto e serve meglio contra l'artiglieria e, se bene si guastano, si racconciano
con poco interesse (‘spesa’), ma ancora perché, trovando sempre l'industria degl'huomini
nuovi modi di offendere, bisognandosi opponere a quelli con nuova forma di diffesa, è più
facil cosa aggiungere e mutare quel che bisogna in un fianco fatto di terra che in un che sia
tutto di muro, del quale non si può rapezzare vna parte senza distruggerlo tutto e molte volte,
per non venire a questo, si lasciano le cose inutili e imperfette mascolo (Accademia Italiana
di Colonia, Tesoro politico, cioè relationi, instruttioni, trattati, discorsi varij di ambasciatori ecc.
T. I, p. 239. Colonia, 1598).

A causa della lentezza con cui gli eserciti dei secoli pre-napoleonici si formavano,
avanzavano e ripiegavano, le fortezze e i loro assedi avevano molta importanza, cioè quanto
le battaglie campali, e tutti pensavano fosse pericoloso lasciarsene di nemiche alle spalle
senza essere riusciti a occuparle; ma comunque non proprio tutti la pensavano così e lo
leggiamo negli indirizzi di strategia di guerra espressi dal capitano generale milanese

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Ludovico Gonzaga, marchese di Mantova, e da adottare contro il nemico veneziano, le cui
frontiere erano, come si sa ben protette da un sistema di solide fortezze:

… ‘l parere de loro Signorie (‘gli Sforzia di Milano’) è de non perdere tempo, per el primo
anno, a le terre che possono fare resistentia, perchü se perdaria la estate cum poco fructo;
ma spinzersi sempre inanzi et, col favore et cum la reputatione, acquistare terreno et fare
reinculare li nimici et le terre forte che fuosseno rimaste adrieto rimarieno asediate, che non
bisognaria poy operar(g)li troppo (con) bombarde (Carlo E. Visconti, Ordine dell’esercito
ducale sforzesco 1472-1474 in Archivio Storico Lombardo etc. Anno III. . P. 487. Milano
1876).

I concetti a cui qui ci si richiama sono sufficientemente chiari e non necessitano di chiose, se
non l’ultima frase in cui si fa cenno al vantaggio di lasciarsi indietro fortezze nemiche non
espugnate perché, quando poi, battuto il nemico sul campo o allontanatolo, si tornerà indietro
a espugnarle con maggior calma e con minor determinazione da parte degli assediati, non si
dovrà più lavorare così tanto di bombarde per prenderle.
In realtà, se la storia dell’Evo Moderno si fa convenzionalmente iniziare dal 1492, ossia dalla
scoperta delle Americhe, la data invece del passaggio dalle fortificazioni medievali a quelle
moderne va, a nostro avviso, ravvisata già nel 1453, cioè dalla caduta di Bisanzio conquistata
dai turchi; allora infatti per la prima volta si videro forti, spesse e massicce mura di pietra
rovinare perché battute da grosse bocche da fuoco - o canne da polvere, come allora si
preferiva dire, in quanto le ‘bocche da fuoco’ propriamente dette erano allora considerate le
trombe o soffioni di galea, armi marittime che venivano dall’antichità, cioè dai sifoni bizantini,
ed erano le più dirette antenate di quell’artiglieria da sparo che nascerà in Europa (e non in
Cina) nel Basso Medio Evo.
Abbiamo purtroppo spesso tralasciato di aggiungere il numero di pagina delle citazioni,
specie delle tradotte, e sarebbe ormai un lavoro molto lento e impegnativo rintracciarle; ma,
trattandosi perlopiù di pubblicazioni di cronache e di elenchi di documenti, la pagina è quasi
sempre rintracciabile dall’anno, questo invece sempre indicato, a cui la citazione si riferisce.
Non abbiamo inoltre avuto nemmeno il tempo di formare alla fine un indice dei nomi, il quale
sarebbe stato naturalmente utilissimo ai lettori; ma, come ci siamo giustificati in altre
occasioni, si sarebbe trattato di un impegno che avrebbe consumato troppo del nostro tempo,
sottraendolo a quel completamento di altri lavori che è già da tanti anni in attesa. Abbiamo
comunque pensato che, trattandosi di una pubblicazione on line, al lettore sarà naturalmente
possibile rintracciare i nomi di suo interesse con la funzione di ricerca del programma di
scrittura.
Ai soliti cui usui est che possono esserci domandati dai tanti che queste minuziose ricerche di
filologia militare giudicano del tutto inutili rispondiamo socraticamente come già fatto nelle
prefazioni di altre nostre opere e cioè che non sappiamo dire se fare questi studi sia utile o
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inutile, ma che innegabilmente il non farli non sarebbe di certo utile ad alcuno. Invito
comunque i miei lettori a considerarli soprattutto delle palestre di riflessione, perché sono
convinto che l’esercizio del riflettere su argomenti materiali è molto più educativo, formativo e
proficuo di quello che tanto siamo usi e spinti invece a fare su materie di teoretica filosofica o
sociologica, attività intellettuale questa che troppo spesso serve solo a generare sempre
nuova materia di riflessione in un infinito processo fine a sé stesso e quindi incapace di farci
raggiungere un concreto arricchimento intellettuale. Insomma, a nostro parere, un alunno che
fosse abituato a letture del tipo di quella del problema dell’etimologia del nome artiglieria
uscirebbe dalla scuola certamente più maturo di quello spinto invece a inutilmente riflettere,
per esempio, sull’ipotesi di una realtà veicolata dall’interagire di tesi, antitesi e sintesi. E, per
finire, non c’è poi dubbio che la storia dell’umana sofferenza passi anche per l’ingrato,
rischioso e poco conosciuto lavoro degli innumerevoli fonditori, polveristi e coraggiosi artiglieri
che per tanti secoli si sono cimentati nella truce realtà della guerra, realtà che sempre tutti
scongiuriamo ma che ancora oggi non sempre evitiamo; forse questo libro, come del resto
anche gli altri nostri, vuole solo essere un omaggio agli uomini del passato, i quali
meriterebbero di esser più spesso ricordati e in molti casi anche imitati, perché, come
giustamente notava Cicerone, essi non furono certo a noi inferiori né di numero né di qualità.
Riteniamo che non possa esserci migliore introduzione a questo libro dell’Avvertimento a’
bombardieri di Orlando Rossetti che leggiamo nella sua Corona pubblicata nel 1620, perché
ben spiega il ruolo importante, impegnativo e estremamente pericoloso che svolgevano
quegli uomini nella guerra del tempo in cui l’artiglieria, non ancora avendo la gran potenza e
gittata di quella di oggi, si poteva usare solo a corta distanza dal nemico, quindi con un
grandissimo rischio che s’aggiungeva a quello del suo ancora alquanto rozzo maneggio:

Come non vi è soldato in guerra che più esposto si trovi del bombardiero né habbi più vicina
la Morte di lui, così deve più d’ogni altro esser avvertito (‘prudente’) e cauto per fuggir quei
improvisi accidenti e quelle subite rovine che gli soprastanno.
Ogn’altro soldato, combattendo, può star sempre con l’occhio fisso verso il nemico,
osservando tutti li suoi andamenti per pararsi da’ suoi colpi, e sa, si può dire, in scaramuccia
in un istesso tempo caricar l’arcobugio e guardarsi dal nemico e può, dal solo veder acceso
(per così dire) il fogone dell’arcobugio nemico, col gettarsi a terra o tirarsi da parte,
assicurarsi dall’infortunio procuratoli; ma il bombardiero, essendo necessitato haver più
l’occhio al suo pezzo di artellaria nel nettarlo, caricarlo, inescarlo e metterlo a segno per non
abrugiarsi da sua posta con la polvere o restar stropiato o privo affatto di vita, da quello non
può haver gli occhi di Argo per ricoverarsi e assicurarsi se stesso dall’insidie nemiche, anzi,
se pur fugge la disgrazia vicina di creparli il pezzo, sta del continuo sottoposto a quella del
nemico, dal qual vien più d’ogn’altro soldato bersagliato, né senza ragione, perché la perdita
d’un solo generoso bombardiero riesce di maggior danno che la morte di 25 altri soldati,
ricevendo il nemico maggior offesa da questo solo che da tutti gli altri; onde con somma
prudenza da’ prencipi vien premiato e honorato il bombardiero sopra tutti i soldati, sapendo
che senza questo l’artellaria, tanto da tutti temuta, riesce inutile e ponderoso peso….
(Orlando Rossetti, Corona de’ bombardieri ecc. Pp.n.n. Venezia, 1620.)
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Capitolo I.
L’artiglieria prima dell’invenzione della polvere da sparo.

Perché ancora si trovi traccia della primissima artiglieria, cioè dei congegni che gli antichi
usavano per difendersi dagli assedi – perché, prima dell’introduzione generale di quelli a
contrappeso, quasi all’opposto di quanto si farà poi dal Medio e soprattutto dal Basso Medio
Evo, quasi esclusivamente per difesa e non per offesa li usavano - possiamo andare indietro
nel tempo fino al terzo secolo a.C. e cioè alla famosa scuola di meccanica della città greca di
Alessandria in Egitto, il cui maggiore esponente e capostipite fu Ctesibio, un inventore di
macchine e congegni bellici del quale non ci sono purtroppo rimasti scritti diretti, per cui
sappiamo delle sue realizzazioni solo dalle decrizioni che ne hanno poi fatto suo figlio Erone
e altri suoi principali allievi. Perché la materia possa essere più comprensibile conviene
ripetere subito la classificazione dei congegni da lancio che leggiamo nel trattato del predetto
Erone:

… Di quelle macchine che dunque dicemmo, alcune sono ‘euthytone’ (‘a tiro rettilineo’), altre
invece ‘palintone’ (‘a tiro arcuato’); le euthytone sono da alcuni anche dette, per similitudine
di forma, ‘scorpioni’. In sostanza, le euthytone lanciano solo dardi, mentre le palintone (da
alcuni chiamate ‘lithobole’, cioè ‘lancia-pietre’) o lanciano pietre oppure sia dardi sia pietre
(Erone di Ctesibio, βελοποιίϰα, in Veterum mathematicorum opera etc. P. 121. Parigi, 1693).

Queste chiare premesse sono essenziali per comprendere quanto poi andremo a dire nel
prosieguo. Erone spiega che i primi congegni da lancio o catapulte non furono altro che dei
grandi archi maggiori di quelli manuali tradizionali, e che poiché, date appunto le dimensioni,
risultava troppo difficile e faticoso tenderli con le sole forze del corpo umano, si inventarono
dei sistemi meccanici per tenderne le corde, i quali consistettero dapprima in semplici
verricelli di trazione della corda, ma poi anche in avvolgimenti elastici fatti di matasse di crini
o di tendini animali e con i quali si ottenevano potenti tiri di fionda parabolici e quindi si
poteva lanciare pesanti pietre al disopra delle mura nemiche e cominciare così a offendere
anche l’interno di una città assediata e non solo le sue difese esterne, come invece si poteva
fare usando le sole catapulte primigenie a tiro rettilineo. In somma, oltre che i combattenti
nemici, si poteva contemporaneamente offendere anche le popolazioni civili, uno sviluppo
quindi particolarmente drammatico della guerra. Le catapulte a verricello e tiro rettilineo
ebbero però lunghissima vita, perché durarono fino ai primi secoli del Basso Medioevo,
diventando infatti inutili solo con l’invenzione della polvere d’artiglieria e segnatamente con
l’uso dei troni (‘cannoncini’) introdotto dai mori nelle guerre di Spagna; quelle a
retrosvolgimento elastico, le quali erano frattanto state ribattezzate onagri dagli antichi

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romani, erano invece già state dismesse diversi secoli prima e cioè durante l’Alto Medioevo,
quando il loro posto negli assedi fu preso dai potenti congegni litobolici a contrappeso detti
mangani, manganelli e briccole in Italia e Grecia e trabocchetti in Francia e Belgio. Fatte
queste importanti premesse, a esse conviene che il nostro lettore sempre vada a
riferirsi laddove la nostra seguente narrazione dovesse magari sembrargli poco da
esse conseguenti. Bitone, discepolo di Ctesibio del quale non
sappiamo però il luogo di nascita, ci ha anche lui lasciato un intero piccolo trattato
sulle macchine e sugli ordigni ossidionali della poliorcetica dell’antica grecia; egli
descrive dapprima due catapulte petriere ossia fundiboli a tensione d’arco che
esistevano ai suoi tempi, cioè una costruita a Rodi da Carone di Magnesia e l’altra a
Tessalonica da Isidoro di Abido (Κατασκευαὶ πολεμικῶν ὀργάνων καὶ καταπελτικῶν, in
Veterum mathematicorum opera etc. Parigi, 1693). Trattandosi di lancio di pietre a mezzo
fionda (anche se fionda spinta da distensione d’arco e non da contrappeso) e quindi con tiro
non orizzontale bensì parabolico, si tratta delle prime armi ossidionali non più contra-moenia
ma ultra-moenia che si possono rintracciare nella storia, insomma delle precorritrici degli
onagri romani, lanciatori questi non più ad arco ma a retrosvolgimento.
Troviamo poi il trattatello di Erone di Bisanzio, autore del settimo secolo d. C., in cui,
trattandosi dei congegni bellici (gr. πολεμιστήρια ὂργανα), si dice brevemente solo della
catapulta ad arco (gr. ϰαταπέλτης o ϰαταπάλτης, da (ϰατα)πάλλειν, ‘tendere’), di cui
abbiamo già detto, e della ballista (dal gr. βάλλειν, ’lanciare’, ma ripreso dal gr. con la corr.
βαλλίστρα), fionda a tiro parabolico e a retrosvolgimento di corde fatte di grosso sparto o di
tendini d’animali (e non di budella, come erroneamente taluno ha scritto) o, in mancanza,
crini, capelli e a tiro frontale, la quale più tardi, come già detto, i romani chiameranno onagro,
comune fionda meccanica anch’essa a retrosvolgimento di corde, ma a tiro parabolico, in uso
ai tempi della Roma imperiale; e che il nome non fosse ancora in uso nei tempi repubblicani
è dimostrato anche sia dalla circostanza che una sua menzione manca anche nel trattato di
Vitruvio (I sec. a. C.) sia dall’ignoranza in materia del più tardo Ammiano Marcellino, il quale
infatti lo ravvisa erroneamente nella catapulta ad arco che, come abbiamo visto, gli antichi
greci chiamavano appunto scorpione, nome che poi i romani finiranno per restringere al
grosso dardo da quella lanciato:

… Lo scorpione invece, il quale chiamano ora onagro, è fatto in questa guisa:.. (Ammiano
Marcellino, lt. XXIII, c. IV).

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Ammiano, dopo aver fatto questo errore, cerca di dare un senso a quella sua sbagliata
interpretazione e scrive che lo scorpione era stato chiamato così perché il palo eretto
posteriormente ricordava il modo di attaccare di quel grosso insetto, cioè con la coda
velenosa eretta, e si chiamava invece ora onagro (‘alce’) per un’altra similitudine zoologica e
cioè perché quel poco affabile quadrupede usava scalciare le pietre con le zampe posteriori
in maniera molto violenta e pericolosa per chi si trattenesse dietro di lui:

… Scorpionis, quem appellant nunc ‘onagrum’, huiusmodi forma est […] Et ‘tormentum’
quidem appellatur ex eo, quod omnis explicatio torquetur; ‘scorpio’ autem, quoniam aculeum
desuper habes erectus, cui etiam ‘onagri’ vocabulum indidit aetas novella, ea re quod asini
feri cum venatibus agitantur, ita eminus lapides post terga calcitrando emittunt, ut perforent
pectora sequentium aut perfractis ossibus capita ipsa displodant (Ammiano Marcellino,
Rerum gestarum libri XXXI etc. Lipsia, 1773. P. 282.)

Insomma in queste sole poche righe Ammiano si voleva dare una spiegazione sia del perché
del nome scorpione sia di quello di onagro sia di quello di tormenta; aggiungeva che le saette
della catapulte erano così veloci e violente che spesso se ne restava colpiti senza averle
nemmeno potuto vederle avvicinarsi:

… et evenit saepius, ut, antequam telum cernatur, dolor letale vulnus agnoscat (ib.)

Con la catapulta i romani lanciavano anche un grosso dardo detto trifax, nome probabilmente
dovuto all’essere lungo tre cubiti e forse anche incendiario, visto che fax, tra l’altro, significa
‘bolide, meteorite’ (Sesto Pompeo Festo, De verborum significatione. P. 559. Budapest,
1889). Ma che con il nome scorpione si intendesse correttamente la catapulta ad arco e non
quella più complessa a retrosvolgimento si evince anche dalla Historia di Bernardo
Giustiniano, laddove racconta della presa di Padova fatta dal re langobardo Agilulfo nel 1601:

… Finalmente, essendoſi leuato una notte un vento gagliardo, comandò che fossero lanciate
nella città facelle di pece in molte parti fornite di scorpioni. Il foco facilmente s'apprese in
quei legnami (Historia dell’origine di Vinegia ecc. L. VII, f. 102 recto. Venezia, 1545).

Comunque, la cattiva abitudine più invalsa, a proposito dei nomi dati agli evoluti onagri, era
quella di continuare a chiamare anch’essi catapulte, malvezzo probabilmente dovuto ad
assimilazione dalla primigenia e debole catapulta lanciasassi (gra. πετρόβολος) a torsione
usata dagli antichi greci e a quella, anch’essa lanciasassi, azionata da compressione d’aria e
detta pertanto catapulta aerotona, che era stata inventata a metà del terzo secolo a. C. dal
primo grande balistico dell’antichità greca e cioè dal già nominato alessandrino Ctesibio, così
ricordato dal suo discepolo Bitone:

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…la catapulta che dicono aerotona e che lancia pietre […] Anche questo strumento fu
escogitato da Ctesibio. {catapulta quae aerotona dicitur et quae lapides proijcit [...] Hoc
quoque instrumentum excogitatum est a Ctesibio. Filone di Bisanzio, Βελοποιἲϰών λόγος.
L. IV, in Veterum mathematicorum opera etc. P. 73. Parigi, 1693.}
.
Ctesibio fu dunque il più grande ingegnere formatosi alla preclara scuola di meccanica di
Alessandria d’Egitto e non inventò solamente questa catapulta ad aria compressa, la quale
però in effetti non ebbe alcuna fortuna e fu presto dimenticata, ma anche, come abbiamo già
detto, diversi altri congegni sia di uso civile sia di uso militare,.
Tornando ora ad autori ‘più recenti’ e dapprima ad Ammiano, diremo che egli poi prosegue
descrivendo il funzionamento dell’onagro; ricordiamo che stiamo parlando di congegni che
comunque nel Medioevo saranno dismessi del tutto a favore di quelli a contrappeso che
troveremo infatti più tardi descritti invece dal romano Egidio Colonna e di cui in seguito
diremo. L’onagro era un equino selvatico ma, secondo Plinio, addomesticabile; nel X sec. il
Suida, nel suo dizionario enciclopedico, lo dice semplicemente asinus ferus. Molto più tardi
invece, cioè nel secolo sedicesimo, lo svedese Olaus Magnus lo faceva coincidere con l’alce
(De onagris seu alcibus [...] Onagrorum sive alcium. Cit. P. 392), ma riteniamo fosse in
errore.
Che con il nome scorpione i romani ora intendesseo solo un dardo e non più un congegno
lanciatore si legge anche in un frammento di Caio Sallustio Crispo (I sec. a.C.):

… I saccheggiatori di Valeriano, imbattutisi per caso in una di tali lettere portate da un servo,
la lanciarono negli accampamenti con uno scorpione (Quarum unam epistolam forte cum
servo nacti praedatores Valeriani scorpione in castra misere. In Omnia quae extant opera
cum variorum notis. C. 1265. Venezia, 1840).

Ecco poi Lucio Cornelio Sisenna (II-I sec a. C.):

… Longius scorpios catapulta concitat. In Historiarum libri. E poi Nonio Marcello (IV sec.
d.C.): Scorpio est genus taeli. In De genere armorum.

Della struttura di detti congegni dell’antichità romana si può ben leggere solo nelle descrizioni
che ci sono state lasciate da Procopio di Cesarea nel VI sec. e prima da Vegezio nel V e
ancor prima appunto dal predetto Ammiano Marcellino nel IV (per la precisione nel 363 dC,
secondo il Muratori), visto che quella di Vitruvio risulta non solo essere incompleta ma anche
corrottissima dalle evidentemente sciatte trascrizioni che poi ne furono fatte già nei secoli
della Roma imperiale; se ne possono poi trovare numerose immagini nei manoscritti miniati
medievali e tra i disegni di Leonardo, anche se certamente frutto in gran parte delle originali
concezioni di questo autore e non dell’antica realtà, in quanto nemmeno lui, come nessuno
del resto, può averne trovato schemi originali. Nei primi secoli dell’Alto-Medioevo si continuò

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a usare i predetti due congegni dell’antichità e cioè l’onagro (d’abitudine detto anche
catapulta, come già sappiamo) per lanciare pietre e la ballista (da ballistra, nome italiano
della catapulta tradizionale) per lanciare dardi; questa, in versioni minori, si adoperava in
epoca imperiale anche come artiglieria da battaglia montata su piccoli carri (lt. carroballistae),
i quali, secondo alcuni, sarebbero ravvisabili in alcuni carri raffigurati sulla Colonna Traiana;
ciò ci è confermato da Procopio di Cesarea (sec. VI d. C.), il quale però, come purtroppo
hanno fatto anche gli altri storici dei primi secoli dell’Era Cristiana non ci ha lasciato una
descrizione dell’onagro e, per quanto riguarda la ballista, la descrizione che ne fa – o
perlomeno quella che è giunta fino a noi – è poco comprensibile, forse lacunosa, per cui ci
asteniamo dal riportarla del tutto ipsis litteris, com’è invece nostro costume; di conseguenza
risulta poco comprensibile anche la traduzione in latino fattane nell’Ottocento. E’ certo
comunque che era diffusa la catapulta ad arco ordinaria che si usava ai tempi di Filone di
Bisanzio (III sec. a. C.) non era grande in quanto aveva un arco largo solo tre spanne, cioè
circa 70 cm. [… e due catapulte da tre spanne (ϰαὶ ϰαταπάλτας δύο τρισπιθάμοις. Cit. P. 93)].
Narrando dell’assedio goto di Roma, difesa dai bizantini comandati dal generale Belisario,
avvenuto nel biennio 537-538, dopo aver descritto le macchine d’assedio (gr. πολεμιϰά
μηχανήματα o τειχομαχιϰὰ μηχανήματα oppure προσαγόμενα μηχανήματα o anche
μηχανημάτα πορθητιϰά) dei goti, ossia le elepoli (gr. ἑλέπόλεις o anche πύργοι) e gli arieti (gr.
ϰριοὶ, ἐϰμοχλευτήρια ὂργανα), armi che, come si tramanda, sarebbero state inventate dagli
antichi ganditani e di cui più avanti qualcosa di più diremo, anche se si tratta di argomento
che non concerne questo nostro studio, il quale, come si sa, è dedicato invece ai congegni
lancia-proiettili (gr. ὃργᾶνα ἐϰηβόλα), Procopio ci conferma che Roma era allora ancora
difesa come lo sarebbe stato nella precedente antichità imperiale e cioè da ballistre (gr.
βαλλίστραι; ὀιστοβόλα ὂργανα, τοξοβόλα ὂργανα) e da onagri (gr. ὄναγροι), le prime dunque
congegni ad arco a tiro diretto e i secondi invece fionde meccaniche a tiro parabolico.
La ballistra era dunque ora, agli inizi del Medioevo, non altro che la classica catapulta (gr.
ϰαταπέλτης) lanciante dardi a tiro orizzontale, cioè un grosso arco di materiale che Procopio
non precisa (ma comunque si trattava di corno, legno o acciaio), il quale si tendeva su un
teniero (‘manubrio’; lt. tenerium) di legno incavato a mezzo di due verricelli laterali manovrati
da due o più uomini; lo strale lanciato da quella, detto quadrello (gr. ἅτραϰτος; fr. carreau) o
verrettone o muschetta, era lungo circa la metà della comune freccia da arco ma largo e
spesso circa quattro volte quella, aveva una cuspide di ferro molto doppia e, invece delle
solite penne direzionali, dei fac-simili di quelle fatti di legno sottile oppure di pergamena o, in
mancanza, anche di carta reale, ossia di carta spessa; una volta sganciata la corda in
tensione dell’arco, scorreva nel canale del teniero come di regola e ne era emessa con molta
violenza, ottenendosi così un tiro di lunghezza al minimo doppia di quella che si aveva invece
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con il tiro d’arco; inoltre la violenza del tiro, unita alla doppiezza della cuspide, poteva
infrangere la singola pietra o il singolo albero che andasse a colpire. Si trattava dunque di un
congegno adatto a offendere macchine, uomini e animali di un esercito assediante ma non
certo mura assediate, per il quale effetto restavano dunque necessari l’ariete e il lavoro di
zappa; il primo, come sappiamo, era una macchina pesante, fatta di grosse e forti travi,
protetta da un tetto di legname e ricoperta anche lateralmente da cuoi freschi distesi, i quali,
oltre a essere ignifughi, trattenevano anche le frecce d’arco; all’interno di questa macchina
alcuni uomini spingevano e ritiravano la trave arietaria, la quale oscillava appesa a delle
catene, e Procopio di Cesarea, a proposito dell’assedio portato nel 551 d.C. ai persiani di
Petra Lazica dall’esercito bizantino del generale Bessas, narra di un ariete leggero di nuovo
tipo inventato dagli alleati sabiri dei bizantini e utile appunto in casi come quello, in cui cioè
non c’era luogo sufficiente o luogo abbastanza piano da poter fare arrivare alle mura nemiche
un normale pesante ariete ruotato tradizionale, come per esempio quello descritto da Ateneo
Meccanico nel suo Περὶ μηχανημάτων (in Veterum mathematicorum opera etc. Pp. 4-5.
Parigi, 1693); si trasportava questo dunque a spalla direttamente sotto le mura nemiche e per
questo occorrevano quaranta uomini; questo tipo di ariete fu adoperato per la prima volta
proprio nel predetto assedio di Petra e, dato il successo con esso ottenuto, Bessas chiese ai
detti alleati di costruirne altri:

… Affidò dapprima ai sabiri il compito di di fabbricare quanti arieti possibile, di quelli per
portare i quali fossero sufficienti le spalle degli uomini, laddove si avesse da spingere le
macchine condotte contro le mura di Archeopoli, e pertanto, essendo (persona) interessata
alle nuove invenzioni e avendo udito ciò che poco tempo prima gli (stessi) sabiri alleati dei
romei avevano fatto alle mura di Petra, volle giovarsi di quanto da loro usato (πρῶτα μὲν τοῖς
Σαβείροις ἐπήγγειλε ϰριοὺς παμπληθεΐς ἐργάζεσθαι, οἳους ἂν φέρειν ἄνθρωποι ἐπὶ τῶν ὢμων
δυνατοὶ εἷεν, ἐπεὶ μηχανὰς μὲν τὰς ξυνειθισμένας τρόπῳ οὐδενὶ ἐς Ἀρχαιοπόλεως τὸν
περίβολον ἑπάγεσθαι εἶχε , ϰατὰ τὸν ὅρους πρόποδα ϰείμενον. ἠϰηϰόει δὲ ὂσα τοῖς Ῥωμαίων
ἐνσπόνδοις Σαβείροις ἀμφὶ τὸ Πέτρας τεῑχος ἐργασθείη οὐ πολλῷ ἕμπροσθεν, ϰαὶ τοῖς
ἐπινενοημἐνοις ἐπόμενος τὴν ἐϰ τῆς πείρας ὠφέλειαν μετῄει. ἠϰηϰόει δὲ ὂσα τοῖς Ῥωμαίων
ἐνσπόνδοις Σαβείροις ἀμφὶ τὸ Πέτρας τεῑχος ἐργασθείη οὐ πολλῷ ἕμπροσθεν, ϰαὶ τοῖς
ἐπινενοημἐνοις ἐπόμενος τὴν ἐϰ τῆς πείρας ὠφέλειαν μετῄει. In De bello gothico, lt. IV.11).

Ancora a proposito delle balliste c’è da ribadire che i bizantini (gr.Ῥωμαῑοι, quindi ‘romei’ e
non romani) chiamavano in Italia queste armi ballistre (τὰς βαλλίστρας ϰαλουμένας; le
balestre, come le chiamano. Ib. I. IV. 35) o arcobolistre (τοξοβολίστρας. Leone VI, Tattica.
Const. VI, par. 27); questo nome, nato da qualche contaminazione del termine greco-latino
ballista causa le lunghe guerre che essi combatteranno in Italia, avrà fortuna e sarà adottata
anche dalla nascente lingua italiana; nel 1466; il nome deriva originariamente, com’è noto,
dal verbo greco βάλλειν, ‘scagliare’: Le ballistre erano dai bizantini talvolta anche dette τῶν
τοξευμάτων μηχαναί, cioè ‘macchine da frecce’.
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… Di tal maniera è la macchina che prese il nome dal (suo) scagliare quant’altre mai
(τοιαύυτη μὲν ἡ μηχανή ἐστιν ἐπὶ τοῡ ὁνόματος τούτου, ὄτι δὴ βάλλει μάλιστα, ἑπιϰληθεῖσα. Ib.
lt. 21).

Un violento colpo di bal(l)istra poteva risultare anche efficace a rompere l’animosità di un


folto gruppo di nemici che stesse irrompendo nella città assediata, magari approfittando di
una breccia appena ottenuta, visto che in genere si assaliva protetti da scudi e quindi le
normali frecce d’arco non avrebbero potuto ottenere questo buon effetto interdicente, seppur
momentaneo; in tal caso bisognava che gli assedianti assalissero tanto repentinamente da
non dar tempo ai ballistrari degli assediati di azionare la loro macchina; questo riteniamo che
abbia voluto intendere Procopio, a proposito di un episodio del suddetto assedio gotico, in
un paragrafo un po’ involuto del successivo lt. 22. Poco più avanti narra poi di un goto che si
era posto alla porta Salaria a scoccar frecce contro i difensori che si riparavano dietro le
merlature; a un certo punto costui fu però preso in pieno da uno strale lanciato da una
ballistra istallata alla sinistra della torre che sovrastava la porta e il violento proiettile
trapassò il suo lorichio (gr. λωρίϰιον; ζάβα; lt. lorica), ossia la sua toraciera, e il suo intero
corpo, finendo con l’affiggere il malcapitato a uno stipite della porta suddetta e provocando
così l’arretramento dei suoi atterriti compagni (lt. 23). Tanto più tardi, cioè nel 1284, nel
corso dell’assedio angioino dell’allora filo-aragonese Messina, Bartolomeo di Neocastro
narrava che, trovandosi il re Carlo I ritto davanti alla chiesa di S. Maria delle Monache, fu
preso di mira dalla potente balistra maneggiata dal mastro balistrario messinese
Buonaccorso, il cui colpo però, invece di lui, trapassò e uccise due nobili francesi che gli si
erano posti davanti (Historia sicula. Cap. XLII. In Giuseppe Del Re, Cronisti e scrittori
sincroni napoletani etc. Vollt. 2. Napoli, 1868).
Purtroppo anche il predetto autore non descrive per nulla l’onagro, limitandosi a dire che
Belisario ne fece affiancare alle ballistre poste sulle mura di Roma:

… posero sugli spaldi del muro di cinta altre macchine atte a lanci di pietre, le quali sono
simili alle fionde e sono chiamate onagri (ἐτέρας δὲ μηχανὰς ἐπήξαντο ἐν ταῖς τοῡ περιβόλου
ἐπάλξεσιν ἐς λίθων βολὰς ἐπιτηδείας͵ σφενδόναις δὲ αὖταί εἰσιν ἐμφερεῑς ϰαὶ ὅναγροι
ἐπιϰαλοῡνται.) (Ib.)

Vedremo poi perché questi congegni erano chiamati così e, che dessero effettivamente
l’idea di grosse fionde di ferro, sarà alcuni secoli più tardi confermato dall’imperatore
Costantino VII, il quale, nel suo De cerimoniis aulae byzantinae (II.45), essendosi ormai
perso da tempo il nome di onagri, chiamerà queste al suo tempo però ormai già in declino
armi σφενδόνας σιδηρᾶς, cioè appunto ‘fionde di ferro’ e aggiungerà un po’ più avanti che

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per la già ricordata spedizione contro i saraceni (oggi diremmo ‘i sunniti’) di Creta del 949 ne
erano state richieste 12 soprannumerarie alla provveditoria dell’armamento; ne troveremo
ancora al finalmente vincente assedio condotto nel biennio 960-961, cioè durante l’impero di
Romano II, dal generale Niceforo II Focas contro i saraceni di Creta :

… mise in campo contro di quelli arieti e artifici testudinati e fionde scagliatrici di sassi e
minacciose combinazioni di scale componibili (ϰριοὺς ἀφῆϰε ϰαὶ χελωνίους τέχνας͵ ϰαὶ
πετροπόμπους σφενδόνας͵ ϰαὶ συνθέσεις δεινὰς ϰατʹαὐτῶν ϰλιμάϰων ἀσυνδέτων· Teodosio
Diacono, De expugnatione Cretae. Acroasi II.)

Anche Leone Diacono parla, a proposito dello stesso predetto conflitto, di un effetto fiondante
degli onagri laddove racconta che il Focas aveva comandato di tagliare le teste ai nemici
uccisi fuori dalle mura della città assediata, conficcandone alcune su aste da esporre davanti
al vallo che proteggeva gli assedianti e lanciandone invece altre dentro la città con i suddetti
congegni lapidanti:

… altre invece fiondare nella città a mezzo dei congegni petrobolici. (τὰς δὲ ϰαὶ διὰ τῶν
πετροβόλων ὀργάνων ἐπὶ τῷ ἄστει ἐϰσφενδονᾷν· Historiae liber I. 8.)

C’è da ritenere però che quest’ultimo autore, cioè Teodosio Diacono, pur essendo il suo
poema del tutto sincrono degli avvenimenti che narra, dovesse naturalmente, appunto in
quanto poeta, avere nello scrivere necessità poetiche e che non potesse quindi troppo darsi a
descrizioni tecniche; ciò perché, oltre alla considerazione che al suo tempo ormai i mangani
già stavano soppiantando gli onagri perché in grado di lanciare carichi di pietre molto maggiori,
più avanti egli racconta che il generale bizantino che comandava appunto i volteggianti lanci di
pietre delle fionde d’assedio (ὦ πετροπόμπων σφενδονῶν στροφουργίαι. Ib. Acroasi V) fece
lanciare in un’occasione nella città nemica assediata, invece di pietre, un asino vivo a titolo
d’insulto, cioè volendo così chiamare asini gli assediati, il che, dato il peso dell’asino, non
poteva esser fatto se non con un mangano, non certo con un debole onagro; omettiamo
comunque la pur divertente - ma certo crudele - narrazione che il poeta fa del disperato
comportamento del povero animale durante il lancio, perché certamente ininfluente sulla
comprensione storica e tecnica del fatto (ib. Acroasi III.) Erano infatti gli onagri, come le
balliste, anch’essi congegni del tipo streblomatobolico, cioè ricavavanti la necessaria energia
dalla tensione o retrosvolgimento di corde fatte di grosso sparto, tendini o crini animali, a
mezzo di verricelli, ed erano anch’essi armi non ossidionali bensì anti-ossidionali, perché,
appunto come le balliste, capaci di offendere uomini, animali e opere di legno, ma non di
muratura, in quanto non lanciavano carichi di pietra sufficientemente pesanti da abbattere né
solai di palazzi né torri di pietra e merlature; le catapulte petrarie (gra. λῐθοβόλα ὂργᾰνα) a
torsione dell’antichità lanciavano in genere selci da un peso che andava dalle due (διμναία
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πετροβόλα, ‘petrarie da due mine’) alle dieci mine (δύο δεϰαμναῖοις λιτοβόλοις, ‘con due
petrarie decamine’. Filone di Bisanzio, cit P. 91; λῑτοβόλων δέϰα μνών, ‘di petriere da dieci
mine’. Ib. P. 93), cioè di quasi 4 kg e mezzo, ma, in funzione antinavale, cioè a difesa
dell’imboccatura di un porto, lo stesso autore consigliava di porne sulle torri ovviamente di più
leggere, cioè da quattro mine (πετρόβολοι τετράμνοιϛ. Ib. P. 95), e invece a ognuno dei suoi
lati una più grossa da venti mine (πετρόβολον εἰϰοσαμναῖον. Ib.); nell’antichità greca di
catapulte petrarie ce n’erano anche da dodici e da trenta mine, ma in quel caso queste
potevano risultare o troppo leggere o troppo pesanti, perché bisognava anche tener conto
della relativa distanza del bersaglio da raggiungere. Le maggiori potevano comunque arrivare
a lanciare grossi sassi fino a un talento di peso, corrispondendo il talento greco a circa 26 kg
di oggi e quello romano a circa kg 32 e ¾.; parlano infatti di ballistas talentarias Lucio Cornelio
Sisenna (I-II sec. a.C.) e di catapulta talentaria (gra. τᾰλαντιαῖον πετρόβολον) Filone di
Bisanzio [III sec. a.C. … la petriera talentaria che è violentissima (ταλαντιαῖον πετροβόλον ὅς
ʹστἰ σφοδρότατον. Cit. L. V, p. 82, 84-85)]. Per quanto riguarda invece le catapultas
centenarias (‘da cento libbre’) di Gaio Lucilio (II sec. a.C.) qui si trattava in verità di un antico
modo di dire romano per esprimere la potenza di particolari catapulte o balliste; Lucilio infatti,
quando scrive: Quid fit? Ballistas iactant centenarias (‘Che accade? Lanciano baliste
centenarie.’), in realtà ripete un modo di dire che suonava pressappoco così: Questi mentitori
le stanno sparando grosse davvero! Dunque le balliste non arrivavano - o perlomeno
normalmente non arrivavano - a tirare simili pesi. Molto tempo dopo pure il Suida (X sec. d. C.)
menzionerà pietre da lancio del peso di un talento ciascuna (ταλαντιαῖοι λίθοι), ma ormai, ai sui
tempi, è ormai chiaro che si faceva riferimento soprattutto ai congegni a contrappeso, molto
più potenti degli antichi onagri. Il predetto Procopio, ancora a proposito della difesa bizantina
di Roma, aggiunge anche macchine difensive chiamata lupi, grosso modo dei congegni di travi
posti esternamente sulle porte della città e fatti in modo che, in caso di assalto nemico,
facessero venir fuori all’ingiù una serie di spiedi appuntiti sui quali andavano a infilzarsi i
nemici assalenti; ma, trattandosi di macchine da difesa e non di congegni da lancio, quindi di
argomento che esula alquanto dal nostro assunto, non ci preoccuperemo di dirne di più, tanto
più che evidentemente non ebbero fortuna (ib.) Per quanto riguarda l’Alto-Medioevo, oltre a
quelle dei predetti Procopio ed Erone non abbiamo altra testimonianza classificatrice dei
congegni da lancio (gr. ἀφετηρίαi μηχαναί o ἀφετηρίoi ὸργάνα o ἑϰηβόλοι ὀργάνα) allora
adoperati ma solo poche sporadiche menzioni; da queste apprendiamo che non più tardi
dell’ottavo secolo (anche se il Suida nel suo Lexicon del decimo non ne fa menzione) iniziò un
uso generale dei mangani o trebuchets, congegni a contrappeso dal tiro parabolico derivati dai
tollenones romani, congegni questi bilicanti o altalenanti sui quali poi ritorneremo; questi
mangani, che come vedremo, già dunque si conoscevano nell’antichità, andarono a sostituire
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il molto più debole onagro neurobalistico, mentre, sempre con il nome di ballista e ballistra,
continuava a essere adoperata l’antica catapulta tradizionale, cioè la lancia-dardi (gr.
ὀιστοβόλα; ἰοβόλα μηχανήματα; ὀξυβελεῖς; τοξοβόλοι); e ciò durerà fino al Trecento, cioè fino a
quando il suo tiro retto non sarà reso anch’esso inutile dall’introduzione delle
incommensurabilmente più forti ed efficaci canne da polvere o ‘artiglierie da sparo’ (dette in gr.
τηλεβόλοι, ma poi nel Quattrocento βομβαρδαὶ).

A giudicare da un però poco condivisibile progetto di Leonardo, sembra che nell’antichità ci sia
stata della catapulta ordinaria, oltre alla predetta classica versione ad arco, anche un secondo
tipo, anch’esso lancia-dardi a tiro diretto, e cioè una catapulta senz’arco, a vibrazione, alla
quale abbiamo già accennato; si trattava di un congegno che lanciava i suoi proiettili con una
colpo di spinta violenta dato dal ritorno elastico di un palo fatto di un legno flessibile, il quale,
saldamente legato nella parte bassa ad un altro anteriore più spesso e rigido, si faceva
inclinare il più possibile all’indietro, tirandolo con la robusta corda di un argano legata alla sua
cima, e poi si liberava all’improvviso; il suo ritorno ‘schiaffeggiava’ violentemente l’estremità
posteriore di un dardo posto su un sostegno situato verso la cima del palo anteriore e in tal
modo lo proiettava con forza, come possiamo osservare in qualche rara raffigurazione
medievale; oppure, come vediamo invece in, avrebbe forse potuto anche fiondare un sasso
posto su una mensola di legno attaccata verso la suddetta cima. Ma questa catapulta
senz’arco non ebbe successo, probabilmente perché si trattava di un congegno che richiedeva
certo un ripristino molto frequente in quanto il palo, di qualunque legno fosse fatto, doveva
perdere rapidamente la sua elasticità né doveva esser facile trovare dappertutto tronchi adatti
a quel tipo di uso. Questo palo flessibile sembrava comunque nel suo primo movimento
ricordare la disarticolazione e l’espianto procurati agli arti dei condannati da grossi pesi a quelli
legati, un tipo di supplizio detto in gr. catapelto (ϰαταπέλτης) e che era in uso nell’antichità e
nel Medioevo, e fu, chissà, forse proprio da questo supplizio che quei congegni bellici presero
il loro triste nome:

Catapelto: tipo di strumento di pena, dalla forma di uno strumento di bronzo con il quale i
carnefici disarticolano le membra. Кαταπέλτης· εἶδος βασανιστηρίου͵ ὼς ὂπλον χαλϰοῦν͵ ἐν
ᾦ ἐξαρθροῦσι τὰ μέλη οἰ δήμιοι [Esichio Alessandrino (V sec.), Lexicon, c. 829. Iena, 1867].

A quanto ne scriverà secoli dopo Suida, sembra appunto che talvolta per semplicità
all’argano di bronzo si sia preferito il peso di due grosse pietre appese alle caviglie o ai
polsi del condannato:

Catapelto: tipo di strumento di pena, […] Il Logoteta nel martirio di San Tirso dice: ‘Con
vincoli alle mani, catapelti ai piedi {(Καταπέλτης· εἷδος ϰολαστηρίου. […] Ό δὲ Λογοθέτης
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λέγει ἐν τῳ τοῦ ἀγίου Θύρου μαρτυρίῳ· Δεσμοῖς χειρῶν, ϰαταπέλταις ποδῶν (Suida,
Lexicon, graece et latine. T. II, p. 261. Halle e Brunswick, 1705.)}.

Ma questo autore comunque ribadisce che era, come ben sappiamo, anche il nome di un
ordigno bellico:

Il (cata)pelto è dunque un tipo di macchina dal quale si lanciano dardi e qualche altra cosa.
E’ cioè un’arma [(Κατα)Πέλτη γάρ εἷδος μηχανῆς, ἀφ' ἦς ἀϰόντια καὶ ἂλλα τινὰ ἀφιᾶσιν. ἢ
ϰαταδραμοῦνος. Ib.].

Pensiamo che poteva trattarsi di quelle ‘catapulte macedoniche’ (ϰαταπέλται Μαϰεδονιϰοί)


menzionate da Giulio Polluce nel suo Onomastikon (cit. I.X. 95). Questo tipo di supplizio
appare conosciuto ancora nel dodicesimo secolo:

Il catapelto è un congegno punitivo, nel quale sta legato chi è in tal modo castigato
(Кαταπέλτης· τιμωρητιϰὸν ὂργανον, ἐν ᾧ προςδεσμουμενός τις οὔτως ϰολάζεται [Giovanni
Zonaras (XII sec), Lexicon. T. II, c. 1144. Lipsia, 1808].

Che le catapulte belliche originarie fossero soprattutto dei congegni lancia-dardi e non
lancia-pietre si ricava facilmente dalle antiche scritture; ecco per esempio il già citato Filone
di Bisanzio, autore del III secolo a. C., discepolo del predetto Ctesibio, il quale, distingue
nettamente le catapulte dai congegni petrarii:

... con le catapulte e le petriere, o meglio cvon i dardi e le pietre… (τοῖς ϰαταπάλταις͵ ϰαὶ
τοῖς λιθοβόλοις͵ ἒτι δέ τόξευμασι ϰαὶ τοῖς λίθοις. Cit. P. 93.)

Lo stesso Filone, descrivendo in dettaglio una straordinaria catapulta multidardo costruita da


un certo Dionyso, anche lui d’Alessandria, e che aveva visto a Rodi, così (ma in greco)
iniziava:

Porro Dionysus quidam Alexandrinus catapultam polybolon, seu multijaculam Rhodiis


construxit, quae propriam quandam ac variam fabricationem habebat, de qua scribam
singula quaeque declarans quanta potero diligentia… [Βελοποιἲϰών λόγος Δʹ (‘Discorso
della fabbricazione dei proiettili, libro IV’), in Veterum mathematicorum opera etc. P. 73.
Parigi, 1693].

Che quindi le catapulte ordinarie non siano da identificarsi con quelle primigenie balliste
lancia-selci (πετρόβολοι) a retrosvolgimento sperimentate dagli antichi greci, delle quali
abbiamo già detto a proposito del trattato di Bitone, né con i successivi onagri lancia-pietre
romani è confermato anche dal suddetto Suida, laddove aggiunge Καταπελτάσουσιν, ἀντὶ
τοῦ ἀκοντίσουσι, cioè dice che il verbo ϰαταπελτάζειν (‘vibrare un’arma’) si poteva usare al
posto di ἀϰοντίζειν (‘lanciare dardi’), ossia ne era sinonimo (ib.) D’altra parte il Suida,
20
seppure contribuendo a far distogliere da quella confusione, non mancava di portarne
un’altra grossa sua, confondendo infatti gli onagri degli antichi romani con gli arpagoni (Ib. p.
695), strumenti di cui poi diremo. Che le catapulte (parliamo sempre delle originarie)
lanciassero dardi e non sassi si legge anche nel Compendio dello storico bizantino Giorgio
Cedreno (sec. XII), il quale, laddove narra di avvenimenti del sec. IX, scrive di τοῖς
ϰαταπελτιϰοῖς βέλεσι (‘i dardi di catapulta’. P. 580). E, per arrivare a tempi più vicini a noi,
anche il Lipsius spiegò che, anche se altri invece dicevano pietre, le catapulte lanciavano in
effetti dardi; ma noi abbiamo già spiegato che era già nell’antichità invalso l’uso di chiamare
gli onagri, congegni litobolici, catapulte perché in effetti derivanti appunto dalle primigenie
catapulte lancia-sassi a torsione dell’antica Grecia:

Catapulta […] Erat autem machina, quae tela et ligna jaciebat, quamquam alii et pro
instrumento saxijaculo ponant (Justus Lipsius, Roma illustrata, sive antiquitatum romanarum
breviarium. P. 175. Amsterdam, 1667).

Persino nel De Bello civili di Caio Giulio Cesare si chiamano gli onagri romani catapulte, per
esempio dove si racconta che all’assedio di Marsiglia del 49 a.C. i massiliensi posero
materassi a protezione di sia del tavolato sia della muraglia della loro fortificazione
perimetrale:

… vi sovrapposero materassi affinché né i dardi scagliati con i congegni ne spaccassero il


tavolato né i sassi delle catapulte ne infrangessero il mattonato (centonesque insuper
iniecerunt, ne aut tela tormentis immissa tabulationem perfringerent, aut saxa ex catapultis
latericium discuterent. LT. II, cap. 9).

I due termini, onagro e catapulta, erano dunque già da secoli diventati praticamente sinonimi,
anche se, dopo l’avvento dei mangani o congegni di lancio a contrappeso, avvenuto nel VII
secolo d. C., le loro funzioni furono concettualmente di nuovo separate in quanto l’onagro
logicamente scomparve subito, ma la catapulta o ballista lanciadardi restò in uso ancora per
diversi secoli. Quanto scriveva Giovanni Lido, autore bizantino del VI sec., ci dimostra infatti
che ai suoi tempi le cose non erano ancora cambiate, anche se poi confonde onagro e
catapulta addirittura con l’elepoli, cioè con una macchina statica:

… la catapulta è in effetti un tipo di elepoli chiamato dai più ‘onagro’ (ϰαταπέλτης δέ έστιν
είδος ἐλεπόλεως, ϰαλείται δε τώ πλήθει ὂναγρος. In De magistratibus romanis LT. I, p. 158.)

Nelle Storie di Zosimo, autore anch’egli del sesto secolo, a proposito della guerra bizantino-
sassanide si racconta che nel 363 l’imperatore Flavio Claudio Giuliano, pur vincitore in
battaglia, essendo stato ferito dal tiro di una catapulta persiana, presto ne morì (ϰαταπέλτῃ
τρωθείς. Storie. LT. III, par. 25); Teofilatto Simocatta, storico bizantino del settimo secolo,

21
descrivendo l’assedio àvaro di Dioclezianopoli avvenuto nel 587, dice che i bizantini assediati
all’inizio si difendevano egregiamente dall’attacco di un’elepoli nemica portando sulle mura
appunto una catapulta e altri congegni anti-ossidionali {ϰαταπέλται [...] ἅλλα τε ἀμυντήρια. In
Historiarum, LT. II, 17}; le pietre si lanciavano nella maniera più continua possibile
appunto per cercare di impedire al nemico di far avvicinare alle mura elepoli o
testudini, arietarie o non che fossero, e in questo caso si preferivano quelle da 30
mine (gra. τοὶς τριαϰονταμναίοις πετροβόλοις. Filone di Bisanzio, cit. P. 95), evitando
di usarle però arrotondate, perché queste tendevano di più a schizzar oltre dopo aver
toccato il bersaglio e quindi a gravare di meno su di esso.

… Infatti con macchine petrarie così ottimamente costruite e con postazioni in luoghi
comodi e opportuni allestiti nel modo consueto, e finalmente con addetti che da parte
loro abbiano conseguito una somma perizia nell’arte, non ci sarà né tartaruga di vimini
né portico mobile né testuggine che possa facilmente essere accostata al muro; e,
quand’anche si siano avvicinate al muro, non potranno battere alcuna parte di esso,
essendo in tal modo dalle macchine percossi (ib. P. 96).

Le antiche petriere a retrosvolgimento erano dunque ordigni molto più tecnici ed


efficaci di quanto oggi si tenda a pensare. Gli assalitori, dal canto loro, dovevano
cercare di proteggere la costruzione che stavano spingendo appendendovi tavole di
palma, lamine di ferro e grossi sacchi di lino imbottiti (gra. μαλάγματα), tranne poi, una
volta fattale raggiungere la muraglia, di liberarla di tutto questo, lasciandovi però
ovviamente le tegole di piombo protettive e le eventuali unzioni ignifughe fatte alle
strutture utilizzando miscugli di cenere e sangue animale, aggiungendovi poi ora
ulteriori corredi anti-fuoco come pellami ancora freschi e inumiditi con acqua, aceto o
vischio, reti piene di alghe ancora bagnate di acqua di mare e di grosse spugne intrise
d’acqua (ib. P. 99). Certamente sarà però ormai errore filologico l’uso ripetuto che Laonikos
Kalkokondulos, storico bizantino del quindicesimo secolo, farà di questo termine catapulte
nel libro primo del suo De rebus turcicis a proposito delle guerre turco-persiane che si
combatterono ai suoi tempi; d’altra parte i persiani erano ancora allora tecnologicamente
arretrati e infatti perderanno proprio quelle loro guerre del Quattrocento contro i turchi
specialmente perché questi avevano bombarde e schioppietti in quantità e loro invece si
affidavano ancora quasi del tutto alle frecce (Corpus scriptorum historiae byzantinae.
Historiae politica et patriarchica Constantinopoleos. Epirotica. P. 73. Bonn, 1849). Non a
caso i tre ambasciatori di Venezia, cioè Josafat Barbaro, di Roma e di Napoli, che nel 1472
andarono a portar il supporto dei loro stati al re di Persia Ussan Kassan per aiutarlo nelle sue

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guerre contro il comune nemico turco, si presentarono a lui, oltre che con ricchi doni, anche
con corposi aiuti bellici e cioè uomini e artiglierie:

… 6 bombarde grosse che pesa 400 lire (l’una), 10 bombarde de reparo (‘da postazione’),
che pesa 500 lire, 200 spingarde de bronzo e de fero,10,000 schiopeti, 3,000 pali de ferro,
3,000 ba(d)ili ( 2) da guastadori, 2,000 zappe, 1,000 schiopetieri; 2 ingegneri, 2 tagiapiera
(‘tagliapietre’); e tutte queste cose è stà condote in Cipro e de là in Armenia (Domenico
Malipiero, Annali veneti dal 1457 al 1500 ecc. Parte Prima, p. 82. Firenze, 1843).

Tornando ora alla detta assimilazione tra i termini onagro e catapulta, col passare dei secoli
si andarono poi confondendo nei ricordi storici, come anche già accennato, anche quelli di
catapulta e ballista e infatti il monaco vocabolarista Papias (sec. XI), ai cui tempi oltretutto la
ex-catapulta era ancora talvolta usata, così brevemente chiosa infatti la voce balista:

… Balista: genus machinae ab emittendo dicta; torquetur ex robore nervorum et iacit astas
vel saxa. Βαλλεῖν: graece mittere…

Contribuisce a perpetuare ancora la predetta confusione anche il Suida ai suoi più tardi
tempi, laddove, traducendo da un greco non suo una citazione del De bello Judaico di Tito
Flavio Giuseppe, rende con il latino balista il gr. πετρόβολον e con vis balistae ή τοῦ
μηχανήματος ἀλκή τοῦ πετροβόλου, quantunque quel passo, narrando di alcune vittime civili
della violenza dei congegni litobolici d’assedio dei romani, lascia chiaramente capire che si
trattava appunto di persone non combattenti alle mura (gr. οὐ τειχομάχοι), ma uccise
casualmente da schegge murarie, prodotte queste quindi con ogni probabilità da tiri
parabolici di onagro più che da tiri diretti di balista (cit. T. III, p. 103).
E’ comunque proprio Flavio Giuseppe, esperto tra l’altro anche di cose militari, l’unico a
chiarire in maniera indubitabile la sostanziale differenza tra i due principali congegni di lancio
usati dall’esercito imperiale romano nel primo secolo d. C. e nella fattispecie ai tempi
dell’assedio di Gerusalemme, avvenuto nel corso della prima guerra giudaica; egli ci
racconta infatti che la decima legione, specializzata appunto in macchine d’assedio, usava
negli assedi baliste da dardi e onagri da pietre particolarmente potenti (βιαιότεροι τε
ὀξυβελεῖς, ϰαὶ μειζονα λιθοβόλα). Simone, difensore della città, aveva fatto istallare sulle
mura alcuni congegni da lancio che aveva conquistato alla XII legione romana, da lui
sconfitta qualche tempo prima, ma i suoi uomini non sapevano usarli; ecco il brano in
questione nella traduzione pubblicatane dal tipografo Vettor Ravano a Venezia nel 1531:
:

… ed aveva messo in su le mura molte armi da gittare, le quali lui aveva tolto per l’addietro
alli romani […], ma tali armi per l’imperizia giovavano loro puoco imperocché non le
sapevano adoperare, onde […] s’aiutavano con gli sassi e con le saette che gittavano loro
23
addosso d’in su le mura e con lo scorrere alcuna volta ancho tra loro ed appiccare la zuffa.
Ma li romani che facevano l’argine (d’assedio) si difendevano con gli scudi minori che essi
avevano posti in su lo steccato, con li quali essi si ricoprivano, e con le macchine mirabili che
tenevano in ordine in tutte le loro schiere contro alle scorrerie delli nimici e massimante con
gli più vehementi balisti ch’erano nella decima legione e con gl’ordigni da gittar sassi con li
quali essi pericolavano non solamente quelli che uscivano lor fuori addosso, ma eziandio
quelli che erano in su le mura, imperocché ogni sasso che ssi gittavano pesava quanto un
talento (circa 36 chili di oggi) et gittavanlo anco discosto più che uno stadio, con tanto impeto
che egl’era intollerabile non solamente alli primi che egl’avessi giunto ma etiandio alli
secondi (Tito Flavio Giuseppe, Della guerra giudaica. LT. VI, cap. X, p. 240 verso).

Gli ierosolomitani avevano comunque trovato un modo di schivare quei pericolosissimi


proiettili che piombavano nella loro città dall’alto, cioè approfittavano del riflesso del sole:

… Bene è vero che gli giudei nel principio se ne guardavano, perocché gli detti sassi erano
bianchissimi e non solamente si sentivano dalla lunga pel suono e pel romore che essi
faceuano mentre che egl'erano per aria, ma eziandio si vedevano per la bianchezza loro. E
acciocché gli potessino meglio schifare, tenevano in su le torri alcune guardie che ponessin
mente quando gli romani ſi mettevano in ordine per gittarli e da qual parte, li quali, subito che
vedevano la macchina sboccare, cridavano in lor lingua: “ecco che il figliuolo ne viene!” E a
questo modo gli giudei, essendo advisati innanzi da qual banda e’ veniva, lo schifavano prima
che giugnessi loro addosso. Onde ne interveniva che il sasso cadeva in vano. Di che gli
romani essendosi avveduti, pensorono di tingere le dette pietre che gittavano co’ l'inchiostro,
acciocché elle non si vedessino così facilmente per aria come elle si vedevano, e, fatto
questo, non cadevano in vano come in prima, anzi n'ammazzamano a un colpo molti (Pp. 240
verso, 241 recto).

Questa decima legione doveva avere una grossa scorta d’inchiostro, a quanto pare! Questo
distinguere i sassi in volo dalla loro bianchezza, esaltata evidentemente dalla luce solare, ci
dice una cosa importante e cioè che i romani molto probabilmente non lanciavano di notte;
non è invece facilmente immaginabile perché il sasso dovesse, volando, fare un rumore
particolare. Singolare infine il suddetto grido di allarme dei giudei, i quali paragonavano lo
‘sbocco’ del sasso dal congegno al parto femminile!
Ai tempi tardo-romani del Vegezio, il quale era veterinario militare dell’imperatore romano
d’occidente Valentiniano III (425-455 d.C.), i nomi dei congegni bellici da getto erano,
rispetto all’antichità, talvolta mutati e talvolta invece, pur persistendo, avevano perso il loro
significato originario; infatti, andando ancora più indietro nel tempo sino all’ultimo secolo
prima di Cristo, troviamo le più antiche descrizioni di questi congegni che siano giunte sino a
noi e cioè quelle di Vitruvio, architetto militare al quale Ottaviano Augusto, primo imperatore
di Roma, aveva affidato proprio la gestione dei congegni bellici dell’esercito romano e quindi
pochi allora se ne doveva intendere quanto di lui; egli faceva infatti una distinzione tra
catapulte, lanciatrici di saette, e balliste, lanciatrici queste invece di sassi. Poiché però lo
scritto che ci è pervenuto, certo perché più volte mal trascritto nei primi secoli della nostra
era, risulta in questo punto involuto e non facilmente comprensibile, il Vegezio, influenzato

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dall’errore di Ammiano, fu evidentemente portato a mal interpretarlo e quindi nel suo trattato
leggiamo:

… Scorpiones dicebant quas nunc manuballistas vocant: ideo sic nuncupati quod parvi
subtilibusque spiculis inferant mortem. (Vegezio, lt. IX, c. XXII).

Ma il prestigioso autore tardo-romano (o molto più probabilmente qualcuno dei suoi


trascrittori) sbagliava il nome delle antiche manubalestre, strumenti lancia-saette da fanteria
che nell’antichità già esistevano, ma che erano pochissimo diffusi e quindi in quelle storie
molto raramente menzionati; ma si tratta di un errore comune al suo tempo, tanto è vero che
lo ritroviamo anche in Tertulliano. Probabilmente ciò a cui Vegezio si riferiva non erano gli
scorpiones, nome che era stato dato, come già sappiamo, prima in Grecia alle catapulte a
tiro diretto e poi a Roma ai soli dardi da quelle lanciate, ma erano gli scorpiunculi (gr.
σκορπίδια), essendo questo infatti il primo nome delle manubalestre che troviamo nella
storia, leggendosi infatti nella traduzione greca del primo libro biblico dell’epopea dei
Maccabei, laddove si narra dell’assedio che il principe Antioco pose a Dora, sono menzionati
i predetti scorpiuncoli:

5 Ι. E lanciarono nel santuario per molti giorni e da là usarono di rimando baliste (‘tensioni di
strali’) e macchine e congegni pirobolici e congegni litobolici e scorpioncelli lancia-strali e
fionde [Καὶ παρενέβαλεν ἐπὶ τὸ ἀγίασμα ἠμέρας πολλὰς, καὶ ἒτησεν ἐκεῖ βελοτάσεις καὶ
μηχανάς καὶ πυρόβολα καὶ λιθόβολα καὶ σκορπίδια εἰς τὸ βάλλεσθαι βέλη καὶ σφενδόνας.
(Vetus testamentum etc. Maccabaeorum primus. Cap. XV, par. 51. T. II, p. 544. Zurigo,
1731)].

I greci però preferivano chiamarli ‘lanciatori ventrali’ (gra. γαστραφέται), perché per tenderli si
tenevano poggiati allo stomaco; il meccanico greco Bitone (fine del terzo secolo a.C.) ne
descrive due che attribuisce a Zopyro Tarentino da Mileto, attivo ben due secoli prima di lui,
e il scondo dei quali sarebbe stato costruito a Cuma in Italia; si tratta comunque di armi delle
quali, come vedremo, non si comincerà a far uso veramente comune se non nell’Alto Medio
Evo. All’inizio del Cinquecento Jacopo da Porcia (1462-1538), nei suoi De re militari libri II,
Strasburgo 1527, ripeterà il suddetto errore e chiamerà I balestrieri pertanto scorpionarii (L.
I, p. 60 verso). A noi è purtroppo pervenuta solo parte del trattato di Bitone, manca tutta la
parte che riguarda le armi a torsione ossia a retrosvolgimento, come preferiamo dire noi,
armi di cui comunque si parla negli scritti del suo coevo Filone di Bisanzio, del quale
abbiamo già detto.
Nel racconto che fa Polibio (II sec. a.C.) del famoso assedio navale di Siracusa, si dice che i
siracusani si difendevano dall’alto delle mura non solo con gli archi, per i quali avevano
aperto delle opportune feritoie, ma anche con (lt. scorpiunculi, ‘scorpioncelli’), cioè con armi

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abbastanza piccole da poter essere usate anch’esse attraverso dette aperture praticate nelle
mura e queste non potevano essere che le manubalestre, le quali chiamavano scorpiuncoli
evidentemente perché saettavano all’improvviso, come all’improvviso colpiva lo scorpione
con il suo avvelenato aculeo caudale (Historiarum etc. T. II, p. 106. Vienna, 1763). Bisogna
considerare che nei secoli passati il rischio di essere punti (pizzicati, in it. meridionale) da
scorpioni e tarantole era, specie nelle regioni mediterranee, molto più elevato di quanto
possa esserlo oggi; nell’antica Grecia, quando si voleva dire che una persona vedeva
pericoli dappertutto, si usava il detto “(Teme) uno scorpione sotto ogni sasso!” (Ύπὸ παντὶ
λίθῳ σϰορπίος. Suida, cit. T. III, p. 558.)
Scrisse correttamente di manubalistae (χειροβαλλίστραι) Erone di Bisanzio, vissuto sembra
nel decimo secolo d.C., il quale ci ha lasciato la descrizione di due tipi, uno detto ‘campestre’
(ϰαμβέστρια) e un altro ‘cameretta’ (ϰᾰμάριον. In Veterum mathematicorum opera. Cit. Pp.
117-118), ma nel frattempo il suddetto errore del trascrittore di Vegezio era perpetuato da
scrittori medievali successivi e infatti leggiamo che nel 1191, nel corso del Terza Crociata, gli
assediati di S. Giovanni d’Acri, allora detta Tolemaide, avevano tra le altre armi preparato
sulle mura ben 250 scorpioni (P. Emilio, De rebus gestis francorum. LT. VI, f. CXXI recto),
numero che fa naturalmente pensare più a manuballiste che a congegni da posta complessi
e costosi quali erano le balliste e gli onagri. Il lettore non deve comunque meravigliarsi dei
predetti errori filologici fatti dagli antichi; anche noi oggi, per fare un esempio, chiamiamo
‘carabine’ o ‘moschetti’ armi da fuoco che, come vedremo, sono sostanzialmente molto
diverse da quelle che con tali nomi s’intendevano circa quattro secoli fa.
In verità né l’onagro né la catapulta-ballista si dovrebbero definire machinae, perché con
quest’ultimo termine s’intendevano nell’antichità costruzioni di legno passive, come le elepoli
o le torri d’assedio (lt. falae) in genere, oppure anche attive ma comunque prive di
meccanismi, come erano appunto le sambuche, macchine queste di cui fu noto costruttore
nell’antichità greca un certo Damio di Colofone e che prendevano nome dallo strumento
musicale multicorde detto in gr. σαμβύϰη, con le quali - detto in breve - a mezzo del tiro
appunto di molte funi (gra. πολύσπαστον) di canapa si elevavano piattaforme cariche di
soldati fino all’altezza degli spalti nemici, piattaforme a volte armate di un corvo (gra. ϰόρᾰξ),
cioè di una passerella mobile con in punta un rostro (gra. ἒμβολον) uncinato, cioè appunto a
becco di corvo, con il quale si cercava di agganciare la sommità dello spalto nemico per
permettere così ai soldati di scendervi; come erano quindi anche gli arieti, le trivelle (lt.
terebrae; gra. τρύπᾰνα) meccaniche e i grandi uncini di ferro demolitori o arpagi [gr. ἀρπάγες
(femm.); grb. ἂρπαγες (masch.), ἀγϰάλαι; lt. harpagones]; quelli da lancio erano congegni
detti più propriamente organa (dal gr. ὂργᾰνα; più tardi ingenia, aedificia o anche molimina)
jaculatoria, in quanto strumenti appunto anisocyclici, ossia azionati con rulli ruotanti o ruote
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dentate; noi comunque, come già detto, per distinguerli dalle prime chiameremo questi
appunto sempre ‘congegni’, anche se il mal uso di chiamare anch’essi ‘macchine’ prenderà
poi nel Basso Medioevo il sopravvento e si veda per esempio Marin Sanudo il Vecchio
(1270-1343. Liber secretorum fidelium Crucis super Terrae Sanctae recuperatione et
conservatione etc. P. 79-80. Hannover, 1611), Giorgio Pakymeres (c. 1242-1310) nei suoi
De Michaele et Andronico Palaelogis libri tredecim (πετροβόλοις βάλλοντες μηχανήμασι. T. I,
lt. II, par. 20; πετροβόλόν μηχάνημα. t: II, lt. III, par. 18) e poi Niceforo Gregoras (c. 1295 -
1360), il quale nelle sue Historiae byzantinae, all’anno 1260, cioè laddove racconta della
riconquista bizantina di Costantinopoli compiuta da Michele Paleologo, scrive di macchine
litoboliche e petroboliche (πλεῑστα γὰρ τῶν λιτοβόλων μηχανημάτων. LT. IV, par. 1;
μηχανήματα πετροβόλα. LT. VI, par. 32), anche se poco dopo in verità si riferirà invece a
‘congegni difensivi’ (μηδὲ τειχῶν ἀμυντήριον ὂργανον οὐδὲν. Ib.), per poi tornare però ben
presto a chiamarli ‘macchine’ [… dai colpi violenti delle macchine da guerra (πρὀς τὰς βιαίας
τῶν πολεμιϰῶν μηϰανημάτῶν ἐπιφοράς. Ib.)] Inoltre – e più volte - τὰς πετροβόλους μεχανὰς
all’anno 1348 (L XVII. Par. 3), a proposito delle difese di Costantinopoli approntate dai
bizantini contro la minaccia di assalti dei genovesi, con i quali in quegli anni essi erano in
guerra per divergenti interessi commerciali; essendo queste ultime ‘macchine lapidanti’ dette
di ogni potenza, cioè infatti quante lanciano carichi di pietre da vicino e da lontano (… ὂσαι
βάρη πέμπουσι λίθων ἐγγύς τε ϰαὶ πόῤῥω. Ib.) Questo poter colpire sia da vicino sia da
lontano si riferisce non alla possibilità di regolare la portata di lancio di cui disponevano tali
congegni petrobolici con l’utilizzo del goniometro meccanico di cui certamente essi erano già
dotati, ma alla loro diversità di mole (cioè piccole briccole e grandi mangani), come infatti si
chiarisce poco dopo (… πετροβόλων μηχανημάτων μεγάλων τε ϰαὶ μιϰρῶν. LT. XVII, par. 4).
A proposito delle predette arpagi, c’è da chiarire che il nome veniva da congegni provvisti di
pertiche uncinate che servivano a prendere acqua dai pozzi e di essi si legge in Esichio (cit.
c. 232).
Ma, tornando ora ai suddetti due tipi di congegni dell’evo precedente, cioè dell’antichità
romana, diremo che il primo, l’onagro, era munito di funda, cioè di una grossa borsa da
fionda fatta di pellami bovini congiunti da cucitori (talvolta invece di una cucchiara), posta su
stilus (‘palo’) oscillante e cassa di sostegno quadrangolare, con la quale si lanciavano pietre
più grosse o nugoli di sassi con tiro non rettilineo, quali erano invece quelli della catapulta-
ballista, e cioè con tiri parabolici, come quelli dei moderni mortai; infatti in Nonio Marcello,
autore anch’egli del IV secolo, il Lipsius trovava così perpetuato l’errore filologico di
Ammiano: Longius scorpio catapulta se concitat (‘L’onagro tira più lontano della catapulta’).
Che l’onagro lanciasse sassi dando impulso a una grande fionda lo abbiamo letto in Procopio
e lo si intuisce anche da un’affermazione di Modesto, un contemporaneo di Ammiano
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Marcellino, il quale infatti così scrisse a proposito del fustibalo o fionda astata (da non
confondersi con il fundibalo, di cui poi diremo), assimilando la sua tecnica di lancio a quello
appunto dell’onagro:

… Fustibalus est longus pedes quatuor, cui per medium ligatur funda de corio, et utraque
manu impulsus prope ad instar onagri dirigit saxa (F. D. Modesto, De vocabulis rei militaris.
Par. 12.)

La suddetta basilare distinzione tra congegni lanciatori di pietre e congegni lanciatori di dardi
era comunque già chiara negli scritti di Filone di Bisanzio, tecnologo greco del terzo secolo
a.C., dove infatti si fa netta differenza tra πετροβόλοι o λιτοβόλοι o πετροβόλα μηχανήματα o
πετροβόλα ὄργανα oppure λιθοβόλα ὂργανα o anche semplicemente πετραρίαι (lt. petrariae,
da non confondersi però con quelle che poi saranno le bocche da fuoco proto-moderne dette
petriere), cioè ‘congegni lapidanti’ o balliste, e ϰαταπάλται (lt. catapultae) o ἀφετηρίαι μηχαναῑ
(molto più tardi, cioè nel Basso Medioevo, saranno detti anche ἰοβόλα μηχανήματα), ossia
‘congegni lancia-dardi’; inoltre tra jaculi e sagittae, cioè tra grossi dardi da congegni balistici e
piccole frecce da semplici archi, i primi lanciati da catapultari e le seconde da sagittari e
manuballistari (gr. τζαγρατοξότης). Erone d’Alessandria, figlio e discepolo del suo
concittadino Ctesibio, vissuto anch’egli nel terzo secolo, distingueva gli ευθύτονοι, congegni
saettatori, dai παλίντονοι o λιθοβόλοι, congegni lapidanti, cioè anch’egli praticamente le
catapulte dalle balliste; la sua dissertazione è, nell’edizione capitataci, accompagnata da
disegni purtroppo aggiunti a cavallo tra Seicento e Settecento, i quali potrebbero avere un
certo valore se fossero fedeli riproduzioni di altri più antichi; essi raffigurano piccoli congegni
elastobalistici, cioè basati su un arco la cui corda è tesa non dalla semplice trazione ma dalla
retrosvolgimento di altre corde.
Ma, per concludere ora questo alquanto ostico discorso sulle artiglierie antiche, diremo qual
è, a nostro avviso, il miglior modo per comprendere agevolmente i concetti più importanti
della materia. La gran confusione che gli storici antichi – e di conseguenza anche moderni -
fanno tra ballista, catapulta, scorpione e onagro lasciava più che sconcertato e perplesso
anche uno studioso del calibro di Carlo d’Aquino (Lexicón militare. Parte I, p. 109 e altre.
Roma, 1724), in quanto egli vedeva appunto taluno dire che la catapulta lanciava dardi e la
ballista pietre, altri affermare l’esatto contrario; certi parlare degli scorpioni come di ordigni
lancia-proiettili, altri come di semplici proiettili ecc. Noi crediamo che in questi
apparentemente inestricabili casi d’incertezza bisogna affidarsi preferibilmente a quelle brevi
enumerazioni che talvolta si possono trovare nelle pieghe della storia e alle quali
generalmente si tende a non dare molta importanza, perché sono quelle che, essendo state
tratte con ogni probabilità da inventari di armerie coeve o da resoconti contabili che di
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necessità dovevano differenziare i vari armamenti, ne certificano di conseguenza la sicura
diversità. Cominciamo quindi nel nostro caso con Polibio che descrive l’esercito di Filippo il
Macedone:

… Avendo dunque messo insieme centocinquanta catapulte e venticinque congegni


petrobolici, si spinse verso il Tebano… (συναχθέντων δὲ ϰαταπελτῶν μὲν ἐϰατὸν πεντήϰοντα͵
πετροβολιϰῶν δὲ ὀργάνων πέντε ϰαὶ εἲϰοσι, προσῆλθε ταῖς Θήβαις. In Historiarum Liber V,
par. 99).

Qui si nota che le catapulte sono in numero molto maggiore dei congegni petrobolici, ossia di
quelli lancia-pietre, e si evincono quindi due cose importanti, la prima che con esse non si
lanciavano pietre e la seconda che, poiché erano molto più numerose dei petroboli, dovevano
necessariamente anche essere di questi molto meno impegnative, grosse e costose.
Passando ora a Nonio Marcello, vediamo che egli cita una frase dello storico Lucio Cornelio
Sisenna (II-I sec a. C.), in cui, a proposito dell’armamento di un esercito romano, così
scriveva:

… inoltre sedici catapulte, quattro balliste, venti carri carichi di scorpioni e d’altri minori
saette… (praeterea catapultas sedecim, quattuor ballistas, uiginti plaustra scorpiis ac
minoribus sagittis onusta. LT. III. Historiarum libri in De compendiosa doctrina per litteras ad
filium etc. Cap. XVIII, pp. 379-380. Basilea, 1842.)

Qui si ribadisce il numero molto maggiore delle catapulte e inoltre ci viene anche confermato
che i congegni petrobolici si chiamavano in latino balliste; si evince inoltre che per i romani gli
scorpioni, come abbiamo già affermato, non erano congegni di lancio, bensì erano i più
grossi dardi che si lanciavano con le catapulte, e infine che queste dovevano essere di varia
misura in quanto, come si legge, di varia misura erano i dardi che lanciavano. Ciò non
impedisce che col tempo sembra essere invalso un processo metonimico per cui le grosse
catapulte lancianti gli scorpioni erano talvolta chiamate di nuovo col nome di questi.
Infine ecco Tito Livio, laddove narra della presa di Cartagena fatta da Publio Cornelio
Scipione nel 210 a.C. Queste sono le sue parole:

Fu preso un ingente apparato bellico; 120 catapulte dalle più grandi dimensioni, 281 minori;
23 balliste maggiori, 52 minori; un ingente numero di scorpioni maggiori e minori e di armi (da
difesa) e di dardi; 74 insegne militari (Captus est apparatus ingens belli; catapultæ
maximæ formæ centum viginti, minores ducentæ octoginta et una; ballistæ majores
viginti tres, minores quinquaginta duæ; scorpionum majorum minorumque et armorum
telorumque ingens numerus; signa militaria septuaginta quatuor. In Historiarum ab
Urbe condita. LT. XXVI, cap. XLVII).

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E’ dunque di nuovo confermato il numero nettamente superiore delle catapulte
rispetto a quello delle balliste e in più è anche ribadita la differenza di dimensioni sia di
questi congegni sia dei suddetti dardi-proiettili detti scorpioni; l’unica differenza è che
Livio sembra estendere quest’ultimo nome a tutti i dardi che si lanciavano con le
catapulte, quindi anche a quelli minori.
Vegezio, il quale visse agli stessi tempi di Ammiano e cioè quelli della tarda romanità ci
chiarisce comunque una caratteristica fondamentale dei congegni bellici antichi e cioè la
comune propulsione elastica dovuta generalmente al discioglimento di una tendino-
contorsione o di una crino-contorsione:

… Conviene usare molta cura nel raccogliere anche una grande quantità di tendini di animali,
perché gli onagri, le balliste e gli altri congegni a contorsione di corda, se non tesi con funi
tendinee, a nulla servono; tuttavia (anche) i crini delle code e delle criniere dei cavalli sono
ritenuti adatti alle balliste (Vegezio, lt. IV, c. IX). (Inoltre) è indubbio che in siffatti congegni i
capelli delle donne non dimostrino minor utilità [come si legge nella Storia romana di Lucio
Cassio Dione Cocceiano, a proposito del famoso assedio del Campidoglio del 390 a.C.]
Giova (inoltre) far scorta di corni e di cuoi crudi per proteggere sia i suddetti sia gli altri
congegni sia le (loro) munizioni (‘saette’) (Vegezio, lt. IV, c. IX).

Premettendo che i tendini d’animale più apprezzati e richiesti, come si legge nei suddetti
antichi trattati romani, erano quelli che si traevano della spalla del toro e dal piede del cervo,
erano anche necessari dei grossi corni di bovino in cui infilare le estremità delle antenne di
legno e larghi corami protettivi perché detti congegni, tutti di legname, non restassero bruciati
dai materiali incendiari a questo scopo accesi e lanciati dal nemico e cioè da malleoli di
sparto o stoppa cosparsi di bitume, solfo, pece liquida o olio incendiario (oleum, quod
incendiarium vocant. Vegezio, lt. IV, c. VIII) oppure da triboli di ferro acuminati e avvolti da
stoppa bituminosa accesa; di notte poi sia essi sia le macchine e le altre costruzioni lignee
degli assedianti medievali erano generalmente guardate da balestrieri (grb. prima
τζαγγρατοξόται; poi τζαγγράτορες o τζαγκράτορες, infine latinizzato in μπαλαιστροὶ o
μπαλeστροὶ e βαλλιστράριοι), perché poteva esser necessario contrastare a distanza
assediati che dalle loro mura cercassero di dar fuoco a dette costruzioni. I balestrieri delle
Langhe erano considerati tra i migliori d’Italia e d’Europa, come lo erano anche quelli
genovesi, ma con la differenza che questi lo erano più per il loro numero e quelli invece per la
loro qualità. Nel secolo successivo, cioè nel Cinquecento, una volta definitivamente dismesse
le balestre, si metteranno di guardia alle artiglierie i picchieri - non certo gli scoppiettieri a
causa del pericolo del fuoco che quelli usavano per le loro armi - e negli eserciti
multinazionali imperiali si arriverà poi all’abitudine di affidare questo incarico ai fanti tedeschi,

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ai picchieri ma soprattutto agli alabardieri, perché i soldati di questa nazionalità lo
considerava un impegno particolarmente onorevole.
Tornando alle predette affermazioni del Vegezio, esse sono importantissime, perché
dimostrano che nell’antichità non si usavano le armi di lancio a contrappeso e quindi non si
era ancora scoperta tutta la loro potenziale forza; non che i romani, naturalmente, non
conoscessero il semplice principio del contrappeso bilicante e infatti avevano, come già detto,
dei congegni bellici ossidionali detti tollenones che su quel principio appunto si basavano; si
trattava di grosse travi basculanti con una estremità delle quali gli assedianti sollevavano e
portavano soldati sulle mura nemiche, ma ci asteniamo in questo caso di riportare il relativo
brano (Vegezio, lt. IV, c. XXI), trattandosi appunto solo di semplici altalene o mazzacavalli. E’
da notare comunque che tanto più tardi e cioè nel Basso Medioevo lo storico veronese Paolo
Emilio, nel suo De rebus gestis Francorum, ancora si serve del vocabolo tollenones, ma ora
nel senso di mangani o trabocchetti, cioè di congegni lapidanti, a proposito di un importante
episodio della Terza Crociata, cioè dell’assedio di S. Giovanni d’Acri del 1191, allora detta
Tolemaide:

… Saxorum molarium ictu, quae tollenonibus mittebantur, tecta domorum in urbe superne
perfringebantur, magna incolentium peste… (LT. VI, f. CXXI verso.)

Nell’antichità, come spiega Vegezio, gli assedianti usavano macchine e stratagemmi che
servissero a superare le mura nemiche o ad abbatterle ed erano di principalmente di due tipi,
cioè i già menzionati arieti mantellati ruotati, detti gatte o gatti, e le elepoli o grandi torri lignee
d’accostamento che, come già accennato, i militari bizantini chiamavano μόσυναι nel loro
gergo (οὺς οι ταϰτιϰοὶ μόσυνας ὀνομάζουσι. Const. Tattica. Appendice, cap. LIII) e delle quali
erano soprattutto esperti i persiani; queste ultime, come già detto, erano perlopiù anch’esse
arietarie e, poiché costruzioni molto pesanti, si facevano avanzare, quando però fossero già
molto vicine alle mura nemiche, non su ruote ma su cilindri di legno fatti di tronchi levigati loro
sottoposti come le palanche o taccate che appunto i palancari usavano per varare le
imbarcazioni:

… coloro che, anch’essi avvicinandosi alle mura nelle torri lignee mediante uso di cilindri,
dalle sue parti alte colpiscano (οἰ ἐπὶ τῶν ξυλίνων δὲ πύργων διὰ ϰυλίνδρων ὠσαύτως τοῑς
τείχεσι πλησιάσαντες ἐξ ὐπερδεξίων βαλλέτωσαν. Ib. Cap. LIV.)

Oppure, se la distanza iniziale era maggiore, su molteplici ruote (lt. machinae subrotatae):

… dunque, avendola approntata e trasportata, collocarono presso le mura una macchina


d’assedio, una scala spinta agevolmente (in quanto) provvista di ruote, tutta avvolta di
cuoiami bovini, e, si inicitavano ad assalirli… [ϰαὶ μηχάνημά τι πολιορϰιϰόν (leggi invece
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'μηχάνηματα πολιορϰητιϰόν'), προωθουμένην εὐϰινήτως ὐπότροχον ϰλίμαϰα, βύρσαις βοῶν
διʹ ὃλου ϰεϰαλυμμένεν, ἑξετοιμάσαντες φέροντες πρὸς τοῑς τείχεσιν ἵστων, ϰαὶ τοὺς
ἐπιβησομένους ἐξώτρυνον· Giorgio Pakymeres, cit. LT. VII, par. 19.]

Le ruote delle macchine d’assedio si facevano generalmente di ferro, in modo che, dopo il
trasporto al luogo prefissato, restassero conficcate nel suolo ed evitassero quindi alla
macchina di spostarsi facilmente all’indietro, magari nei tentativi che poteva fare il nemico per
spingerle via. Le uniche macchine non ruotate perché abbastanza leggere da portarsi a spalla
erano le testudini o vigne graticciate, costruite con i grossi vimini intrecciati per quanto era
possibile - perlomeno in alto e davanti - ad angoli acuti, perché questi più resistenti alle
percussioni di massi ed eventualmente di anfore di piombo che i difensori facevano piovere
dall’alto. Comunque anche per portare sotto le mura nemiche queste testuggini bisognava
preparare il fondo d’avanzamento e riempire di alberi, pietre e terreno la fossa di difesa, se
presente; ecco per esempio l’assedio bizantino di Creta del biennio 960-961, comandato da
Niceforo II Focas:

… dispose che vi si gettassero pietre e terra e legni perché le testuggini avanzassero


agevolmente (… ϰαὶ γῆν͵ ϰαὶ ξύλον͵ ὁδοιπορῆσαι τὰς χελώνας εὐϰόλως. Teodosio Diacono,
De expugnatione Cretae. Acroasi II.)

Costruzioni più pesanti e robuste erano quelle testudini di forma rotonda che negli assedi
costieri si montavano su lembi o altre imbarcazioni, magari appaiate a catamarano, ma in
realtà queste, più che testudini, si potevano dire delle petriere mantellate, perché infatti
perlopiù destinate a coprire quelle lanciatrici a retrosvolgimento, e quindi erano fatte più che
di vimini di forti assoni.
iQuesta tipologia di macchine sarà preponderante ancora nell’Alto Medioevo e infatti
l’imperatore bizantino Leone VI detto Il saggio (866-912), nella sua Tattica, scrivendo di che
cosa dovesse portarsi dietro un esercito che andasse ad assediare una città, le semplificava
in arieti, testuggini, torri e scale (ϰριοὺς͵ χελώνας͵ πύργους… σϰάλάς. Const. XV, par. 19) e
nominerà altrove i mangani o congegni petrobolici, ma solo con un ruolo collaterale e non
principale; infatti al suo tempo non avevano ancora l’importanza che acquisteranno a partire
da qualche tempo dopo. Naturalmente, se la città da assediare si fosse trovata non in pianura
ma su una stretta altura, sia le macchine sia i congegni d’assedio non si sarebbero potuti
usare, a meno che detta altura non fosse dominata da un’altra più alta sulla quale si potesse
magari montare un potente mangano; in tali casi si doveva ricorrere alle scale d’assedio
componibili, ma assaltare con quelle era, come si può faclmente capire, molto rischioso per i
soldati che su di esse s’avventuravano, perché gli assediati potevano rovesciare loro
addosso materiale offensivo a tal scopo approntato, cioè grosse pietre, olio o bitume liquido

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bollente, pesanti reti di fibre di legno per impedirne i movimenti e farli cadere, rostri amati
(‘uncinati’; gra. ἀγϰιστρωτὰ ἒμβολα o ἒμβολοι) per agganciare le loro scale e farle cadere ecc.
Negli eserciti multinazionali di quei secoli gli assalti rischiosi si affidavano preferibilmente agli
italiani, perché, anche se poco adatti alle battaglie campali perché generalmente indisciplinati
e quindi poco saldi nel sostenere l’urto del nemico, erano però riconosciuti come gente ricca
di inventiva, abile nei sotterfugi e capace di adattarsi facilmente alle nuove situazioni, qualità
essenziali per arrivare a mettere piede su mura nemiche senza perderci la vita.
Mentre gli assedianti istallavano e usavano le predette macchine, magari persino usando, in
caso di assedi costieri, i rostri dei vascelli da guerra maggiori a mo’ d’ariete contro le parti più
deboli delle mura, cioè contro le cortine, gli assediati si difendevano cercando di colpirli
invece con armi di tre qualità e cioè da pietre, da fuoco e da dardi (τοῖς πετροβόλοις͵ τε τοῖς
πυροφόροις, ϰαὶ τοῖς δορυβόλοις. Filone di Bisanzio, cit. P. 95); il più volte già citato Filone di
Bisanzio consigliava, per esempio, di opporre a ognuna delle petriere (gra. λιθοβόλοις
δωδεϰαμναίοις) da 12 mine del nemico assediante un ordigno lancia-dardi dall’arco di 5 palmi
o spanne (gra. πεντασπίθᾰμον), cioè di circa cm 120.
Sui vascelli nemici si lanciavano anche a braccia grossi pesi per cercare di sfondarli e cioè
massi o pesanti anfore di piombo forgiate allo scopo.
I latini invece chiamavano le grosse armi da getto tormenta, termine che proviene dalla
locuzione torquenda instrumenta attraverso la evidente sincope tachigrafica torquementa,
‘torcimenti’, questo perché, armi ad arco (le ‘catapulte primigenie’) e soffioni navali a parte, la
maggior parte dei congegni bellici da getto antichi e anche proto-medievali trovavano, come
già detto, la loro forza propulsiva dallo svolgersi improvviso e violento di funi elastiche in
precedenza strettamente ritorte, insomma quell’artiglieria che, utilizzando il greco antico,
potremmo chiamare, come già detto, streblomatobolia (da στρέβλωμα, ‘contorsione’, e βόλος,
‘getto’):

… Contro queste (macchine d’assedio) difendevano usualmente gli assediati le balliste, gli
onagri, gli scorpioni, le arcoballiste, i fustibali, gli arcieri, le fionde. La ballista si tende con funi
tendinee e, quanto più grossi braccetti ha, cioè, quanto più grande è, tanto più lontano manda
i (suoi) dardi, i quali, se (essa è) fatta secondo i canoni dell’arte meccanica ed è usata da
uomini esercitati che abbiano prima misurato le sue dimensioni, penetra qualsiasi cosa
colpisca (Vegezio, lt. IV, c. XXII).

Come si vede, già ai tempi di Vegezio il nome balliste, non usandosi più le balliste da pietra
perché sostituite dagli onagri, tende ugualmente a sopravvivere sostituendo quello antico di
catapulte. Naturalmente la ballista a dardo (chiamamola così) – come del resto tutti i
congegni da lancio (gr. ἑϰηβόλα πέφυϰεν ὂργανα. Leone Diacono, Historiae. IX.1) - non
danneggiava ovviamente robuste opere murarie, per abbatter le quali bisognerà dunque

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continuare a usare i minatori (molto richiesti quelli tedeschi) e inoltre gli arieti e gli uncini
demolitori o arpagi, congegni che del resto saranno infatti adoperati fino al quattordicesimo
secolo, cioè fino a quando saranno soppiantati dall’artiglieria a polvere pirica:

… L’onagro invece lancia pietre, ma getta pesi di sassi conformi alla grossezza e grandezza
dei tendini; infatti quanto più è grande tanto più grandi sassi vibra (“contorquet”) a mo’ di
fulmini […] finalmente, lanciando con l’onagro sassi più pesanti, non solo si abbattono cavalli
e uomini, ma si fracassano anche i macchinari dei nemici (ib.)

Quindi al massimo si potevano infrangere le macchine e le difese di legno dei nemici.

… Non si è (ancora) inventato alcuna specie di tormenti più impetuosa di questi due generi
(ib.)

Parole risolutive queste; dunque, come già detto, i congegni manganici o a contrappeso,
cioè mangani e briccole o, alla francese, trabocchetti, al tempo di questo autorevolissimo
autore non erano state ancora inventate, anche se, come vedremo, anche queste serviranno
soprattutto per spezzare, per quanto riguarda le costruzioni militari, quelle di legno.

… Sono da raccogliersi molto diligentemente sassi fluviali rotondi, perché, a causa della
(loro) solidità, sono più pesanti e più adatti a essere lanciati, dei quali si colmino mura e torri;
i più piccoli da lanciarsi con fionde e fustiboli o con le mani e i maggiori da lanciarsi a mezzo
di onagri. In verità si lanciano i più grandi, di vario peso e forma, contro le opere di difesa,
affinché, lasciate cadere precipitosamente, non solo atterrino coloro che siano pervenuti di
sotto, ma anche (ne) fracassino i macchinari (Vegezio, lt. IV, c. VIII).

Riteniamo sia a questo punto il caso di ricapitolare quanto sinora detto della preponderanza
nelle varie epoche dei vari congegni ossidionali e anti-ossidionali precedentemente
all’invenzione dell’artiglieria da polvere pirica; parliamo qui dunque di ’congegni’ e non di
‘macchine’:

Grecia antica:
Catapulta ad arco o scorpione: lanciatrice a verricello e a tiro orizzontale di grosse saette.
Catapulta litobolica a retrosvolgimento per il lancio parabolico di sassi.
Catapulta talentaria a torsione: grossa litobolica lanciatrice parabolica di selci o sassi fino a
un
talento di peso.

Grecia ellenistica e Roma repubblicana:


Catapulta o ballista romana ad arco e verfricello lancia-dardi idem come sopra.
Catapulta a retrosvolgimento per il lancio parabolico di selci o ciottoli e di piccole sfere di
piombo.
Onagro elastobalistico romano: lanciatrice a tiro parabolico di carichi di pietre da diverse
decine di chili.

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Roma imperiale e Primo-Alto-Medioevo:
Onagro elastobalistico parabolico idem come sopra.
Espringalles o spingarde, ossia balliste lanciatrici di sassi.
Catapulta ad arco o ballista, cioè lanciatrice a verricello di grosse saette a tiro orizzontale.

Secoli attorno all’anno Mille:


Catapulta ad arco o ballista o algarrada, ossia lanciatrice a verricello di grosse saette a tiro
orizzontale come sopra.
Briccola e mangano o trabocchetto a contrappeso, vale a dire lanciatori di grosse pietre o di
ammassi di sassi a tiro parabolico.

Basso-Tardo-Medioevo (canne a polvere pirica).


Dapprima solo troni, poi anche spingarde, schioppietti e via via nel tempo tutti gli altri generi
di questa artiglieria a polvere.

Naturalmente anche gli assediati usavano per la difesa costruzioni in legno, ma ovviamente
più piccole e deboli di quelle degli assedianti, perché nel loro caso servivano solo a
completare quelle murarie principali, laddove magari insufficienti; e si trattava principalmente
di bertesche [anche baltresche o beltresche o bretesch(i)e o britesch(i)ie; sic. virdische],
ossia balconi e balconcini che si aggiungevano esternamente generalmente a finestre di torri
onde permettere a più lanciatori di scagliare i loro proiettili contemporaneamente, oppure di
loggette o altane fatte sulle cortine, magari tra i merli, per scoprire meglio la campagna
circostante; infine di barricate costruite in fretta per ostruire una breccia aperta dal nemico. Si
chiamavano però generalmente così tutte le strutture rinforzanti in legno applicate all’esterno
della cerchia di mura difensive, come vediamo e.g. nel racconto di Bartolomeo di Neocastro a
proposito dell’assedio siculo-aragonese di Monteleone (oggi ‘Vibo Valentia’) del 1289. Gli
assediati, di parte angioina, avevano costruito, addossata all’esterno della porta della città,
una bertesca (‘virdiscam’) occupata da dieci difensori per difenderla dagli insulti del nemico,
fortificazione di cui però gli assedianti ebbero subito ragione estirpandola dal terreno a mezzo
di corde con cui la tiravano fortemente; e così i dieci difensori furono uccisi e la porta della
città bruciata (cit. Cap. CXII). Per quanto riguarda le piccole armi da getto da fanteria,
Vegezio non si dilunga, essendo ai suoi tempi oggetti sotto gli occhi di tutti:

Reputo supefluo descrivere fustibali (‘fionde astate’), arcoballiste (‘balestre’) e fionde


che l’uso presente conosce… (LT. IV, c. XXII.)

Il termine tormenta fu poi esteso alla tortura, strumento dell’esame inquisitorio, in quanto
anch’essa esercitata perlopiù con i tratti (vn. scossi) di corda, definita questa in quei secoli ‘la
regina delle torture’, cioè esercitando brusche e innaturali torsioni, anche se qui non della
corda stessa, bensì delle articolazioni degli inquisiti e dei condannati. A chi volesse

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comunque approfondire lo studio dei congegni da guerra dell’antichità e dell’Alto Medioevo,
materia che non è oggetto di questo nostro studio, consigliamo, oltre alle loro descrizioni
tecniche lasciateci da Ammiano Marcellino, la buona raccolta di citazioni fatta da Matthäus
Praetorius nel suo Mars Gothicus (pp. 40-50) e dal suddetto Justus Lipsius nel suo
Poliorceticωn.
Chiudiamo questo capitolo sulle macchine e congegni ossidionali pre-manganici con qualche
parola sui già più volte nominati uncini demolitori o arpagi; si trattava di forti uncini di ferro
fissati all’estremità di lunghe e alte pertiche fatte non di fragili pali ma di forte tavolato e che si
abbassavano su parapetti di legno (tlt. tabulata) e merlature delle cortine murarie,
agganciandone le pietre e facendole precipitare giù; in questa maniera si toglievano le difese
agli assediati e si poteva quindi colpirli più facilmente; furono usati dall’esercito
dell’imperatore Arrigo VI assediante Napoli nel 1191 e infatti Il poeta e cronista Pietro d’Eboli
(c. 1150 – c. 1220), narrando di detto assedio, tra l’altro così scriveva:

… Si costruisce una macchina alta quanto l’eccelse mura, (la quale) protende i lunghi bracci
verso le pesanti pietre. (Carmen de motibus siculis etc.

I ‘lunghi bracci protesi’ possono solo voler dire che si trattava appunto delle predette pertiche
uncinate.

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Capitolo II.
I congegni ossidionali a contrappeso.

I congegni lancia-pietre a contrappeso alto-medievali, tipo d’artigliera che, utilizzando il greco


antico, potremmo chiamare antibarobolia (da ἀντίβᾶρος, ‘contrappeso’, e βόλος, ‘getto’), oltre
a differenziarsi sostanzialmente dai congegni bellici dell’antichità per essere principalmente
ossidionali, cioè dei τειχομαχιϰά ὀργάνα come si diceva in greco bizantino, e molto meno
anti-ossidionali, si distinguevano anch’essi per le diverse fatture e dimensioni. L’azione dei
congegni lapidanti anti-ossidionali e ossidionali, detti dal greco litobolici, era stata comunque
molto differente da quella che sarà poi esercitata dall’artiglieria da sparo che le seguirà;
mentre quelli avevano infatti il principal scopo di lanciare con tiri ad arco pietre e fuochi nella
città assediata, questa, mortari (lt. mortaria) a parte, serviva per ‘battere’ le mura nemiche
con tiri diretti sino a procurare una breccia, varco che in precedenza si era ottenuta in altre
maniere, cioè o scavando cave sotto la muraglia o battendola con arieti [fr. bél(l)iers,
moutons, foutouers; fr. volg. carcamousses] nei suoi punti più deboli, in primis nelle porte
naturalmente.
Abbiamo detto che i congegni a contrappeso non erano ancora usati nell’antichità perché le
prime testimonianze di un loro uso sono tutte posteriori a quell’evo storico; ma lo storico
bizantino Agazia Scolastico del sesto secolo d.C., narrando dei successi da lui stesso vissuti,
laddove tratta dello sfortunato assedio bizantino di Onoguris (Georgia occidentale), luogo
fortificato allora tenuto dai persiani, avvenuto nel 555, scrive queste esatte seguenti parole:

… preparavano le cosiddette ‘vigne’ e le lanciatrici di grosse pietre a alcuni altri congegni da


oppugnare le mura, se necessario (τούς τε ϰαλουμένους σπαλίωνας ἐπεσϰεύαζον, ϰαὶ τὰ τῶν
μεγάλων λίθων ἀϰοντιστήρια, ϰαὶ ἄλλα ἂττα τοιάδε ὂργανα, ὡς, εἰ δεήςοι, τειχομάϰήσοντες. In
Corpus scriptorum historiae byzantinae. Pars III. Agathias, Historiarum libri V. LT. III, p. 147.
Bonn, 1828).

Delle vigne (lt. vineae) e dei loro addetti (lt. vinearii) poi diremo. Ora i congegni lanciatori di
pietre dell’antichità erano, come già sappiamo, gli onagri, ma questi non lanciavano ‘grosse
pietre’ (τῶν μεγάλων λίθων) perché i congegni streblomatobolici (’a contorsione di funi
elastiche’) non ne avevano la forza; si tratta dunque di una prima memoria di un uso di
congegni a contrappeso? Non ne abbiamo sinora trovato conferme. L’anno successivo i
bizantini, guidati dal generale Valeriano, assediano, ora con successo, Phasis, città fortificata
affacciantesi sul Mar Nero, anch’essa tenuta allora dai persiani, e lo fanno anche con grosse
navi onerarie sulle quali erano state imbarcate tra l’altro congegni lanciatori (μηχανάς τε
ἐϰηβόλους), ma queste potrebbero esser state, queste sì, dei tradizionali onagri o anche delle

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catapulte (ib. P. 186). In Italia e nell’impero bizantino i nomi specifici più usati per i congegni a
contrappeso erano due, il primo era mangani e manganelli (dal gra. μονάγϰωνες, ‘a un solo
braccio’ tlt. mangonelli, mangonali; fr. mangonneaux; i. maggunel). Il già citato Papias ci dice
che questo nome era popolare:

Tormentum dicitur quicquid summa vi torquetor ut vulgo manganum (cit.)

Nel gr. troviamo dunque μονάγϰων e ẚγϰών, ‘congegni ossidionali monobraccio’, da cui poi i
gr. μάγγᾄνον, ‘mangano’; μάγγανον πολεμιϰόν, ‘mangano bellico’, μαγγανιϰὸς, ‘manganico’;
μαγγανιϰὰ, ‘congegni d’assedio manganici’, μαγγανίτζασον, ‘colpo di mangano’; μαγγανάριος,
‘erettore di mangani’; ϰουράτωρ τῶν μαγγάνων; ‘soprintendente dei mangani’; ό οἷϰος τῶν
μαγγάνων, ‘l’arsenale dei mangani’. Il nome μάγγᾄνον ha però in greco antico il significato
originario di ‘magia, sortilegio, incantesimo’, il che dimostra quanto l’azione potente di quel
getto a contrappeso fosse ai suoi inizi creduta dovuta quasi a forze soprannaturali. Diventato
il mangano a contrappeso la principale arma d’assedio dal VII secolo d.C., lo troviamo però
già considerato già negli scritti di Filone di Bisanzio, autore, come sappiamo, del III sec. a.C.,
cioè dell’inizio dell’era ellenistica della Grecia:

… facendosi inoltre tiro di grandissime pietre sia con le macchine e con le antenne, cioè
facendosene lancio con le petriere, sia con i congegni a svolgimento elastico sia con quelli a
monobraccio. (ὠσαύτως δέ ἀπὸ τῶν μηχανημάτων͵ ϰαὶ ἀπὸ τῶν ϰεραίων λίθοις μεγίστοις
ἀφιέντας͵ ϰαὶ τοῖς πετροβόλοις ἂνω βολέοντας τοῖς παλιντονίοις͵ ϰαὶ τοῖς μοναγϰῶσι· (Cit. P.
91)

Qui, trattandosi di lancio di grosse pietre e non di dardi, per ‘macchine’ si intendono i congegni
a contorsione elastica (quindi catapulte ad arco talentarie e onagri), mentre per ‘antenne’ non
si può intendere altro che i mangani, perché per ottenere il loro alto palo si utilizzavano
appunto perlopiù le antenne navali. Infatti poi a conferma si spiega: con i palintoníoi (da
πάλιν, ‘all’indietro’ e τέινω, ‘mi svolgo’) e questi quindi sono i congegni a contorsione elastica;
inoltre con i monanconi (da μόνος, ‘uno’, e ἀγϰών,’ braccio con gomito’) e questi sono
invece gli alti congegni a contrappeso, appunto i mangani insomma.
Che nell’antichità non si fosse presa in considerazione la forza del contrappeso era infatti
altamente improbabile; perché dunque i romani non l’usavano? Forse perché erano congegni
da montare sul posto con legnami grossi, lunghi e pesanti da doversi portarsi dietro
faticosamente, mentre catapulte e onagri, ordigni più piccoli e leggeri, trasportabili (gra.
ἀγώγιμοι tl. aggesticii) già montati; infatti le legioni romane erano sì dei corpi grossi, ma
dovevano anche essere agili e molto mobili. Si aggiunga che nell’antichità gli assedi erano più

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rari e le città allora generalmente non presentavano grossi e forti tetti da sfondare con il lancio
di grossi pesi.
Facendo poi un gran salto storico, ritroviamo il termine mangano negli avvenimenti dell’anno
626 d.C., cioè al tempo dell’assedio avaro-persiano di Costantinopoli, essendone allora
imperatore Eraclio Nuovo Costantino, il quale poi sarà ricordato come Eraclio I° (575-641),
come si legge nel Chronicon Paschale scritto da un anonimo cronachista bizantino
contemporaneo (... ὀλιγα μαγγανιϰἀ ϰαὶ χελώνας... πλῆθος μαγγανιϰῶν… πάμπολλα στῆσαι
μαγγανιϰἀ… ); con quello vediamo però coesistere anche petrarei (τἀς πετραρίας o
πετραρέας), cioè il nome che, come abbiamo giè detto, s’usava per gli onagri Si può dunque
pensare che le armi d’assedio a contrappeso siano state introdotte proprio dai bizantini verso
il sesto secolo.
Lo reperiamo poi nella Chronographia dello storico bizantino Teofane Isauro, morto nel
biennio 817/818 d.C. [παραδεδωχὼς αὐτῷ πρὸς χαστρομαχίαν χριόν (‘ariete’), μαγγανιχά
(‘mangani’) τε χαὶ πᾶσαν ἐλέπολιν (‘elepoli’)]. Si tratta di un episodio ossidionale riferito
all’anno 703, ma non è detto che l’autore, come spesso si costata negli storici antichi, non
abbia attribuito a quell’evento un’arma allora non ancora esistente ma inventata più tardi nel
corso dello stesso secolo e diventata ormai comune invece al tempo in cui lui ne parla, cioè
all’inizio del secolo seguente; ripeterà poi questa menzione con attinenza a un altro episodio
di tre anni più tardo e cioè a preparativi di guerra bizantini appunto dell’anno 706 e ricorderà
tutti e quattro i principali congegni ossidionali che erano usati nel medioevo prima
dell’invenzione di quelle che allora si dissero dapprima canne da polvere e si trattava quindi
delle arcobaliste da posta caricabili con verricelli e rotoli di corda sericata (‘filata’) di sparto
grosso (gr. τοξοβολίστραι μεγάλαι μετὰ τροχιλίων ϰαὶ ϰόρδων μεταξοτῶν; … ϰόρδας
μεταξωτὰς παχέας σπαρτίνας εʹ. Costantino VII, De cerimoniis aulae byzantinae. II.45), dei
petrarei, cioè degli onagri, delle torri mobili, ossia dell’elepoli, e dei mangani (τοξοβολίατρας
ϰαὶ πετραρέας εἰς τοὺς πύργους ϰαὶ μαγγανιχά· Ib.) Interessante è notare anche qui la
coesistenza dei due tipi di congegni litobolici, cioè onagri e mangani, e. poiché i secondi
erano destinati a sostituire i primi, questo sembra quindi proprio un segno che si era agli inizi
dell’uso dei mangani. Infatti in seguito, descrivendo un altro episodio bellico, questo dell’anno
805, cioè dell’assedio bulgaro della città bizantina di Mesembria (oggi Nesebar), Teofane
parlerà solo di mangani e di elepoli (ἐν μηχανήμασι μαγγανιϰῶν ϰαὶ ἐλεπόλεων). Crummo,
signore dei bulgari, aveva allora preso la suo servizio un arabo specialista di macchine
d’assedio (gr. μηχανοποιός) il quale era stato prima al servizio dell’imperatore Niceforo I e,
ritenendosi maltrattato da questo, lo aveva lasciato, passando appunto al servizio dei bulgari,
ai quali aveva pertanto insegnato la sua arte. In una breve storia di anonimo coevo del
predetto Teofane si conferma che Crummo aveva raccolto un grande esercito fornito di ogni
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possibile macchina e congegno d’assedio e infatti elenca tra l’altro elepoli, testuggini, arieti,
grandissimi mangani, baliste, falariche o scorpioni, petrarei, inoltre dardi da getto (gr. ὀιστοῑ;
βέλοι) e frombole:

… προς ή τοῡτοις παρασϰολάζες διαφόρων ἐλεπόλεων ὂργανά τε, ϰαὶ μηχανήματα, ϰαὶ
μαγγανιϰά παμμεγές ατα͵ τριβόλους, τε ϰαὶ τετραβόλους, ϰαὶ χελώνας [...] ϰριοῡς τε, ϰαὶ
βελοστάσεις, πυρόβολα τε, ϰαὶ λιθόβολα, ϰαὶ σϰορπίδια, εἰς τὸ βάλεσθαι βέλη, ϰαὶ σφενδόνας
παντα μηχανήματα… (Historia auctoris incerti, in Teofane, Chronographia e Leone
Grammatico, Historia recentiorum imperatorum. P. 345. Venezia, 1729.)

Interessante qui notare soprattutto il termine greco che dette origine a quello lt. di ballista e
cioè appunto βελοστάσις (in precedenza βελόστᾶσις e βελοστᾶσία) e poi quello di πυρόβολα,
i quali erano grossi dardi incendiari (gr. anche πυρφόροι οἰστοί) che si lanciavano con le
catapulte. A proposito poi delle falariche, pure essi grossi dardi ma non incendiari, si tratta di
un nome greco corrispondente in latino agli scorpioni di cui abbiamo già detto; l’etimologia
che ce ne da Nonio Marcello, cioè da uno strano e altrove introvabile φάλις, che, sempre a
suo avviso, significherebbe ‘torre lignea’, non ci convince per nulla, anche perché, quando si
saliva a combattere sulle torri lignee d’assedio, ci ci portava ovviamente le armi offensive più
leggere e non cero le più pesanti; noi crediamo invece che il termine venga da φᾰλᾱρίς
(‘folaga, smergo’), cioè che, trattandosi di un grosso e pesante dardo, essa si abbatteva
velocemente sul bersaglio come fa un accello acquatico quando vuole afferrare il pesce che
vede sotto il pelo dell’acqua. Nella Chronographia di Teofane Isauro si dice che, perlomeno ai
tempi dell’imperatore Niceforo I (802-812), alla corte bizantina c’era uno di quegli alti
funzionari detti spadari (nome dovuto all’esser quelli stati in origine semplicemente i paggi
dell’imperatore addetti a portargli la spada), che si chiamava Eutimio (‘Benstimato’) ed era
l’esperto di macchine (Εὐθὐμιος ὀ σπαθάριος μηχανιϰῆς ἒμπειρος), non chiarendosi però di
quale tipo, se cioè di quelle semplici o di quelle organiche che, per distinguerle appunto dalle
prime, chiameremo da ora in poi sempre appunto ‘congegni’; dirà poi dei mangani Abbone di
Saint-Germain-des-Prés nel racconto dell'assedio vichingo di Parigi degli anni 885-886,
descrivendo come i parigini, avendo costruito dei mangani, come popolarmente erano
chiamati, che erano fatti di due pertiche uguali accoppiate (geminati, come allora si diceva),
con quelli lanciavano dalle mura grosse pietre che sfasciavano le umili capanne degli
accampamenti di quei sanguinari assedianti:

conficiunt longis aeque lignis geminatis mangana,
quae proprio vulgi libitu vocitantur,
saxa quibus iaciunt ingentia, seu iaculando
allidunt umile scenas gentis truculentae (Bella Parisiacae urbis, I, v. 363ss).

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Nella sua Tattica l’imperatore bizantino Leone VI detto Il saggio (866-912) prescriveva che
un’armata di mare si portasse dietro, oltre alle armi comuni, anche i mangani e altre usuali
d’assedio, se necessario (…ϰαὶ μάγγανα, ϰαὶ τἁ ἂλλα ὂπλα πρὸς χρείαν, εἰ τύχοι... Const.
XIX, par. 13); inoltre definiva talvolta manganici anche i congegni nevrobalistici, lasciandoci
quindi pensare che il nome fosse più vecchio dell’avvento di quelli a contrappeso, i quali
infatti lui chiama, oltre che mangani, talvolta anche petrarei, nome dei vecchi onagri che si
stava allora riciclando per i nuovi mangani. Ecco dove tratta della tipologia dei carri che erano
necessari a un esercito in viaggio e poi del modo di incendiare gli edifici di una città
assediata:

… Altri carri che abbiano arcobalestre e dardi per quelle, inoltre quelle balestre (in verità
manganiche) che si chiamano ‘matassare’ e che si possono girare in ogni verso e (uomini)
manganarii… (Έτέρας ἀμάξας ἐχούσας τοξοβολίστρας ϰαὶ σαγίττας αὐτῶν͵ ϰαὶ βαλίστρας͵ ἢτοι
μαγγανιϰὰ τὰ λεγόμενα ἀλαϰάτια στρεφόμενα ϰύϰλωθεν͵ ϰαὶ μαγγαναρίους… Leone VI,
Tattica. Const. VI, par. 27.)

Dunque un esercito si portava dietro anche un buon numero di arcobalestre da fante con le
loro quadrelle (ossia di quelle armi che altrove lo stesso autore chiama solenari) ed anche
alcune di quelle più grandi balestre che egli, come appena già detto, definisce manganiche,
cioè aventi delle caratteristiche che ne facevano dei mangani, vale a dire dei congegni
d’assedio; queste balestre manganiche sembrerebbero essere istallate sugli stessi carri che
le trasportano, cioè come in verità e notoriamente già si vede addirittura tra le figure che
decorano la colonna traiana. La circostanza che questi congegni erano chiamati
popolarmente ἀλαϰατία o anche ἠλαϰατία, ossia ‘matassari’, fa capire che si trattava di
lanciatori streblomatobolici di dardi, cioè a retrosvolgimento di corde fatte di tendini o crini
animali, come già spiegato:

… scagliando materiale incendiario legato alla freccia mediante quei mangani petrobolici
detti ‘matassari’ oppure ‘pignatte di fuoco’ riempite con (detta) materia mediante petrarei per
incendiare più facilmente le case. (ῡλην πυρὸς προσδεσμῶν τῇ σαγίττῃ διὰ τῶν πετροβόλων
μαγγανιϰῶν τῶν λεγομένων ἀλαϰατίων͵ ἢ πετραρέων τῶν πετρῶν πυρὸς πεπληρωμένων͵ διʹ
ῡλης ͵ ϰαὶ βαλλομένων ϰατὰ τῶν εὐεμπρήστων οἲϰων· Leone VI, Tattica. Const. XV, par. 27.)

Qui si dà un’alternativa alle frecce incendiarie da lanciarsi con le catapulte e cioè pignatte di
creta piene di quella stessa materia incendiaria, ma da lanciarsi con i petrarei, cioè con quelli
che erano ora i mangani a contrappeso. Leone VI il Saggio prescriveva mangani anche per
l’armamento della armate di mare e ci farà sapere che allora quelli di tipo più comune erano
chiamati γεράνια (‘gruati, fatti a mo’ di gru’):
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… Possibilmente anche con quelli che chiamano ‘geranii’ o con qualche simile artifizio
geminato ruotabile in circolo si verseranno o pece liquida accesa o artificiata o qualche altra
materia sulle navi nemiche con i dromoni legati assieme e con il mangano ruotato verso di
quelle (Δυνατὸν δὲ ϰαὶ διά τίνων γερανίων λεγομένων͵ ἢ τίνων ὀμοίων ἐπιτηδευμάτων
γαμματοειδῶν ϰύϰλῳ περιστρεφομένων͵ ἣ πίσσαν ὐγρὰν πεπυρωμένην͵ ἢ σϰευὴν͵ ἢ τίνα
ἐτέραν ὒλην ἐπιχύσαι τοῐς πολεμιϰοῐς πλοίοις διὰ τῶν δρομώνων δεσμουμένοις ϰαὶ τοῡ
μαγγάνου στρεφομένου ϰατʹ αὐτῶν· Const. XIX, par. 60).

Si trattava dunque di mangani in piena regola, armi dunque che, a causa dell’alto ostegno che
reggeva la borsa di cuoio dalla quale lanciavano a parabola il loro carico, ricordavano tra gli
animali, essendo in Europa poco noto lo struzzo, pennuto africano, la gru con il suo lungo
collo; ma in Italia si usava invece popolarmente chiamarli ‘cicogne’, in quanto anche questi
uccelli molto ‘colluti’ e nell’Europa meridionale sicuramente più comuni delle gru; ecco per
esempio l’assedio francese di Messina del 1284:

… Già si portano scale e si appoggiano alle mura e inoltre in prossimità si erigono ‘cicogne’
contro i messinesi. Si rivolgono verso i messinesi ‘cicogne’ circondate da mura, sulle quali
salendo alcuni giovani (assediati) uccidono gli astanti nemici. (Jam scalae portantur et
ponuntur in muros ac vicinae ciconiae contra farios eriguntur; declinantur ad farios ciconiae
comprehensae de muris, in quae juvenes ascendentes hostes adstantes interimunt.
Bartolomeo di Neocrasto, cit. Cap. XLII.)

Anche in questo caso si trattava però di un sostegno geminato, cioè di due pertiche
convergenti e le cui sommità si divaricavano di fianco alla borsa di cuoio di lancio, insomma a
forma di lettera gamma, ed ecco perché Leone VI qui infatti li dice γαμματοειδῶν; da notare
per inciso che nel LT. II.45 del suo già cit. De cerimoniis. Costantino VII, a proposito dei
congegni d’assedio di cui un’armata di mare avrebbe al suo tempo dovuto disporre, nomina
invece i λα(μ)βδαρέαι, cioè congegni petrobolici dalle due pertiche unite in maniera opposta
alla predetta e cioè nell’estremità superiore, quindi a forma di lettera lambda.
La circostanza poi che la summenzionata cicogna fosse tanto protetta da eventuali sortite
incendiarie che potevano fare degli assediati da essere addirittura circondata da mura, ci fa
capire quanto fosse in errore Nicolao Speciale (‘Niccolò il Farmacista’), cronachista siciliano
vissuto a cavallo tra tredicesimo e quattordicesimo secolo, quando accomunava la ciconia da
guerra a quella omonima macchina idraulica che ancor oggi si usa e che consiste in una
palanca bilicata la cui estremità più lunga si abbassa con un secchio ad attingere acqua nei
pozzi o nelle basse sorgenti; secondo lui, fatta aderire alle mura della città assedita una torre
di legno più alta delle stesse, dalla sua sommità si abbassava al loro interno una simile grossa
palanca provocandosi pertanto, come lui ingenuamente pensava, chissà quali terribili danni

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alla città… (Historia sicula. LT. III, cap. 22. In LT. A. Muratori, Rerum Italicarum scriptiores
etc. LT. X, cc. 987-988. Milano, 1727.)
Ma, per tornare al succitato Bartolomeo di Neocastro, egli, nel narrare l’assedio aragonese di
Augusta del 1287 e la costruzione appunto di una cicogna, assieme a grandi torri e bastide di
legno, fattavi dagli oppugnatori, usa, evidentemente per esprimere detta geminazione di pali,
il termine bipenne, ma impropriamente perché questo si usava invece correttamente quando
si voleva intendere che un attrezzo o un’arma presentava ai suoi lati due pari terminazioni e le
due pertiche della cicogna erano sì simmetriche ma non delle terminazioni:

… Et die illa terribilis ciconia bipennis erigitur, immensae turres et castra de trabibus et
lignaminibus, aequiperancia castrum, in confusionem hostium fabricantur (ib. Cap. CX).

E’ probabile che questo termine bipenne, il quale si usava principalmente per la nota scure a
due lame contrapposte, fosse di origine nautica, in quanto nelle galere l’antenna del principale
albero aveva una delle estremità, quella più alta e sottile, che si definiva appunto penna;
infatti tale scure si usava soprattutto negli stretti combattimenti corpo a corpo, come appunto
quelli che avvenivano negli scontri navali, poiché il suo maneggio abbisognava di minor luogo
e di un numero minore di giravolte; ma, per tornare alla detta cicogna, ecco quanto ancora ne
scriveva Bartolomeo:

… Ascolta figlio una cosa mirabile e dannosa ai destini del nemico e cioè che il mastro del
mangano dell’ammiraglio, il quale si chiamava Castelliono, avendo sollevato il diametro
(‘l’indicatore di elevazione’), con tanto più consumato talento regolò il congegno che quante
volte dallo stesso lanciava una pietra nella fortezza altrettante le faceva finire in un pozzo che
si chiamava Basilio. (Audi fili mirabile, et hostis ſatis obnoxium, quod magister ingenii admirati,
qui vocabatur Castellionum, erecto diametro, adeo subtiliori ingenio temperavit ingenium,
quod quoties ex ipso lapidem immittebat in castrum, singulos lapides immisit in puteum, qui
vocatur Basilius. Ib.)

Certo che, anche se era stato fin qui impensabile che un mangano medievale potesse avere
una tale regolarità di tiro, la sorprendente circostanza però che tutti questi precisissimi tiri
finissero perduti in un pozzo ci lascia alquanto divertiti. C’era poi naturalmente da doversi
portar dietro tutta una serie di accessori (ἐξόπλισις) per i congegni d’assedio, materiale sia di
ferro sia, non esistendo allora né gomma né plastica, di cuoiame di vario tipo; infatti nel suo
De cerimoniis (II.45) l’imperatore Costantino VII, nell’ambito dei preparativi per la sfortunata
seconda spedizione di Creta, quella cioè del 949, oltre a elencare i tipi di congegni d’assedio
di cui un’armata navale di 20 dromoni avrebbe dovuto dotarsi, menziona anche vario
materiale accessorio, tra cui per esempio pezze di pelle di vitello per rivestirne i vari verricelli
dei congegni in modo da preservarli quando non in uso [πέταλα πορτ(ι)ῶν λόγῳ ἐνδύσεως

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τῶν διαφόρων τροχιλίων…; πέταλα πορτ(ι)ῶν εἰς τἀ τροχίλια σʹ ('200'); πέταλα μεγάλα
πορτ(ι)ῶν τʹ ('300'). Ib.] Leggiamo infatti, a proposito dei predetti allestimenti, di un elenco di
materiali per l’istallazione e l’uso di 4 petrarei (‘onagri’), 4 lambdarei, 4 briccole (‘εἰλαϰτιῶν’,
dal verbo ἒλϰω, ‘tiro giù’), queste ultime dopo chiamate più genericamente ‘4 manganici’
(μαγγανιϰῶν δʹ), inoltre per un particolare tipo minore di ariete mantellato (παγούρος o
anche ϰριϰελοπάγουρος, ‘paguro bernardo’) provvisto di un mantello protettivo (ϰριϰέλλιον,
‘conchiglia a spirale’) di riserva, perché copertura particolarmente esposta alle offese degli
assediati; per la sfortunata spedizione di Creta del 949 i vascelli di supporto avrebbero
dovuto portare 15 di questi arieti (πάγουροι ιεʹ), i quali più avanti si specifica che sono di
ferro, e infatti il doppio, 30, dei loro mantelli (ϰριϰέλλια λʹ). C’erano poi da portare gli arieti
propriamenti detti, quelli grossi testudinati, cioè 15 [… arieti nelle testuggini 15 (ϰριοὶ εἰς τὰς
χελώνας ιεʹ)], e quindi 15 erano anche i relativi anelli di ferro (grb. δαϰτύλιοι o anche
δάϰτυλοι) i quali, infilati fino alla metà del tronco (gr. ϰαυλός), servivano ad attaccarvi le funi
di canapa con le quali detti arieti si tenevano sospesi ai tronchi (lt. canones) di supporto
superiori; c’erano poi di riserva 10 delle loro grosse teste di ferro (ϰριοὶ σιδηροΐ μεγάλοι ιʹ). A
proposito della canapa per fare le funi, si trattava di un materiale la cui qualità doveva essere
più che ottima, perché era quello sul quale principalmente si basava l’operatività delle
macchine da lancio del Medioevo; ecco per esempio quanto si legge in un’ordinanza del
1280 promulgata dal re di Napoli Carlo I d’Angiò perché si approntasse una spedizione
navale che sarebbe dovuta partire dal porto di Brindisi il 10 aprile di quell’anno:

… E nello stesso tempo ordina all’ingegniero maestro Giovanni de Tullo di prescegliere uno
esperto ingegniero per la costruzione delle macchine da guerra e subito spedirlo a Brindisi con
una certa quantità di buona canape matura d servire per quelle macchine; il quale ingegniero
dovrà imbarcarsi per la Vallona, dove costruirà le predette macchine per quel castello (In
Archivio Storico Italiano etc. Tomo III, Dispensa I del 1879. P. 7-8. Firenze, 1879).

L’ingegner Giovanni invierà poi alla Vallona in ‘Romania’, dove risiedeva il già ricordato Ugo
detto ‘Rosso de Sully’, capitano di Romania, non uno bensì due costruttori macchinisti di
macchine da guerra e cioè i fratelli Giovanni e Pietro da Trani, il primo capomaestro e il
secondo maestro. Ma conviene a questo punto dire qualcosa di più sull’ariete e, per farlo, ci
dobbiamo avvalere ancora della descrizione datane nel I° secolo d.C. da Tito Flavio
Giuseppe nel suo De bello judaico, in quanto da quella circa nove secoli dopo ancora
pedissequamente copia il Suida, il che depone per due osservazioni e cioè che da una parte
evidentemente nei secoli quell’arma non si era di molto evoluta e che dall’altra probabilmente
ai tempi del lessicografo bizantino non era più tanto adoperata in quanto ora, più che a
praticare delle brecce nelle muraglie, ci si dedicava opprimere le città assediate con continui
lanci dei mangani. Era dunque l’ariete formato da un grosso tronco, della misura cioè di

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quelli usati per farne alberi maestri delle navi, e, nella sua parte centrale, era sospeso
mediante funi (‘come da una bilancia’, dice il predetto Flavio Giuseppe) ad un altro simile
superiore, il quale era a sua volta sostenuto su un telaio di robusti pali fortemente ancorato
all terreno. Nella parte anteriore il tronco era irrobustito da un lungo e spesso rostro di
metallo cavo fuso dall’apice in forma di cornuta testa d’ariete, la quale era in gr. chiamata
comunemente προτομή (appunto ‘testa, muso’) e dalla quale pendevano 4 grossi anelli di
ferro ai quali si allacciavano alcune delle predette funi che lo sostenevano. Il corpo dell’ariete
era in genere coperto e avvolto strettamente da grossi cordami per evitare che il rostro
potesse accidentalmente sfilarsi; la parte posteriore del tronco, quella cioè non interessata
dal rostro metalllico, era anche avvolta in tre luoghi da grosse catene alle quali allacciare
altre funi di sostentamento. Un nutrito gruppo d’uomini posti ai due fianchi del tronco, lo
sbilanciava all’indietro tirandolo con forza e poi ancora con forza lo rispingeva in avanti,
facendolo così andare a urtare violentemente col rostro la muraglia nemica. Se questi uomini
applicassero la loro forza a mezzo di gallocce di legno o di manubri di ferro ricoperti di pelle
e infissi nei fianchi nel tronco o con altri strumenti non sappiamo:

… né c’è alcuna torre tanto forte né mura così spesse che, ancorché sostengano dei primi
colpi, possano poi resistere a quelli assiduamente ripetuti (Tr. da De bello judaico libri septem.
LT. III, cap. VII, par. 19. Oxford, 1837).

C’erano poi ancora, nel suddetto elenco di materiali bellici, 30 arganelli (‘mulinelli’) di ferro
per tendere le grandi arcobalestre (ψελλία σίδηρᾱ λʹ͵ ϰαὶ λόγῳ τῶν μεγάλων τοξοβολίστρων)
e, anche per le stesse grandi, 20 tenieri grandi e 30 più piccoli (βαρέας μεγάλας ϰʹ͵ ϰαὶ
μιϰροτέρας λʹ), anche di ferro se così richiesto dal tipo (σίδηρᾱ ϰατὰ τύπον), infine 12 fionde,
anch’esse di ferro (σφενδόνας σιδηρᾶς ιβʹ), ossia i vecchi onagri, come già detto. Inoltre 100
banchi quadrupedati per sostenere i sifoni lancia-fuoco di cui più avanti diremo (τετράϰουλα
εἰς τὰ σιφώνια ρʹ), quindi essendosene calcolati 5 a dromone. Ma, per tornare ora alla
suddetta citazione della Tattica, vi leggiamo anche altre cose interessanti e cioè che a bordo
delle navi o dei dromoni istallavano i geranii su base girevole, in modo che si potessero
orientare verso qualsiasi bersaglio e tirare da ogni lato, e che, nel caso dei dromoni,
essendo questi troppo stretti, si usava affiancarne due e legarli insieme in modo da poter
basare il geranio come su una moderna bilancina o un moderno catamarano; ma di queste
cose diciamo forse meglio nel nostro libro sulla guerra nautica. Questo nome di γεράνια però
non resisterà al tempo, soverchiato come poi sarà da quello di mangani e inoltre anche
sostituito da quello nuovo francese di trébuchets (it. trabucchi, ovviamente ambedue dal lt.
trabs, ‘trave, pertica’). Nell’ultimo capitolo poi Leone Vi fa una netta distinzione tra armi

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manganiche e arcobaliste, cioè tra i due tipi di congegni ossidionali e controssidionali che
nell’Alto Medioevo si usavano:

… vale a dire le cosiddette ‘manganiche’ e le arcobaliste e tutte le tante altre armi da difesa e
da offesa per la guerra ossidionale (οῗον τὰ λεγόμενα μαγγανιϰὰ͵ ϰαὶ τοξοϐολίστρας͵ ϰαὶ τὰ
ἂλλα ὂλα ὂπλα ὂσα πρὸς τειχομαχίας άντίϰειται͵ ϰαὶ ἐτέρας δὲ πρὸς τειχομαχίας ἐπιτήδεια·
Const. XX, par. 60.)
Nell’Appendice alla sua predetta opera l’imperatore raccomanderà poi di cercare d’appiccare
il fuoco alle case nemiche scagliando nella città assediata non solo dardi ignifori ma anche
misture di fuoco mediante appunto congegni litobolici (ὂργανα πετροβόλα) Per quanto
riguarda il secolo seguente, ritroveremo il termine mangani nei capp. 44 e 45 del secondo
libro del De cerimoniis aulae byzantinae, trattato cerimoniale composto al tempo
dell’imperatore Costantino VII Porfirogenito (905-959), laddove si da la forza della spedizione
militare che nel 935 fu inviata contro la Longobardia meridionale, cioè la Campania, regione
italiana che era allora in gran parte appunto in mano a duchi longobardi, e alla quale
partecipavano volontariamente anche 36 manganari armeni, e inoltre di quella condotta da
Niceforo II Foca che strappò Creta ai saraceni negli anni 960-961; c’è però qui da eccepire
che Teodosio Diacono, anche se certamente autore non esperto di cose militari, quando
elenca i tipi di congegni e macchine d’assedio che i bizantini usarono in quest’ultimo conflitto,
ne ricorda solo tre e cioè arieti, testuggini e fionde (‘onagri’):

… Niceforo rivolse arieti, testuggini e fionde a percuotere le mura, i camminamenti dei


parapetti e coloro che stavano dentro le mura (Νιϰηφόρος ϰριοῑς͵ χελώναις͵ σφενδόναις
ἐπιτρέπε βαλεῑν τὸ τεῑχος͵ τὰς ἐπάλξεων βάσεις͵ τοὺς εἰς τὸ τεῑχος... Teodosio Diacono, De
expugnatione Cretae. Acroasi III.)

Quest’autore dunque non nomina né elepoli ne torri in generale, ma leggendosi anche la


cronaca che di questi stessi avvenimenti fece un altro diacono, cioè Leone, si capisce a
questo tempo tutte le elepoli dovevano essere fatte arietarie e che quindi, quando si diceva
ariete, il più delle volte si voleva dire anche ‘torre d’accostamento’; infatti Leone Diacono
sembra nominare elepoli e arieti in maniera del tutto equivalente. Egli dice che il nome
d’ariete fu attribuito a quello strumento d’assedio dagli stessi bizantini (Ῥωμαῑοι) per
l’abitudine consolidata di fondere il suo bulbo (l. cuspis) di ferro a somiglianza di un lungo
rostro raffigurante appunto una testa di montone (Historiae, LT. II.7); questo rostro era
contrappesato all’estremità posteriore del tronco, appendendovi un peso adeguato, in modo
da dare all’ariete una stabilità orizzontale.

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C’è inoltre da notare che nel libro II del suo Degli imperatori lo storico bizantino Genesio
racconta che all’assedio portato a Costantinopoli dal ribelle Tommaso lo Slavo negli anni
821-823, egli usò anche un’armata navale sulla quale aveva montato torri d’assedio con
quattro gambe (τετρασϰελεῑς ἑλέπόλεις, ‘elepoli a quattro gambe’), in quanto sulle oscillanti
coperte delle navi le macchine quadrupedi risultavano più stabili delle tripedi e fin qui tutto
chiaro; ma poi aggiunge che da queste elepoli intendeva lanciare grosse pietre che
facessero venir giù le mura della città (τετρασϰελεἳς ἑλεπόλεις ϰατασϰευάσας ϰαὶ ἐϰ τῶν
πεμπομένων δἰ αὐτῶν άπὸ τῶν νεῶν λίθων ϰατασείειν τὸ τεῖχος οἰόμενος) e qui la narrazione
perde chiarezza, in quanto dall’elepoli, per quanto grosse, si potevano certo lanciare piccole
pietre a mano (gr. λίθους χειροπλήθεις ἐπαφεἳναι) o con frombole ma non certo con onagri,
congegni non pesantissimi ma certo troppo ingombranti e complicati da usarsi su torri di
legno, e inoltre le pietre lanciate dagli onagri erano troppo piccole e i loro lanci troppo deboli
perché se ne potesse ottenere uno sconquassamento di mura, mura inoltre, quelle di
Costantinopoli, non certo deboli e sottili. C’è quindi da sospettare che Genesio abbia usato
qui il termine ἑλέπόλεις in un senso improprio e cioè in quello generico di ‘congegni e
macchine ossidionali’, che in realtà si trattasse quindi già di sistemi a contrappeso, magari
non grandi, visto che, a quanto da capire, avevano quattro gambe non per dimensioni ma
solo per motivi di stabilità marittima; dunque avremmo qui la prima testimonianza
dell’esistenza di tali congegni già nel primo quarto del secolo nono d.C. Ancora più certa è la
presenza di congegni a contrappeso nel biennio 960-961, cioè alla guerra con cui i bizantini
presero Creta ai mussulmani, narrando infatti il coevo Leone Diacono nei libri II e VIII delle
sue Storie – episodio ripreso poi da Michele Attaliota (c.1022-1080) nelle sue - che essi,
comandati dal generale Niceforo Focas, il quale poi diventerà imperatore, ne assediavano la
capitale non solo con nuguli di giavelotti e nembi di frecce ma anche con frequenti lanci fatti
con congegni litobolici (gr. πετροβόλοις ὀργάνοις) che ne conquassavano i parapetti
sovrastanti le mura [gr. προμαχ(ε)ῶνες], quindi si trattava di grosse pietre:

... lanciando intensamente pietre con i congegni petrobolici e diroccandone (così) i parapetti
(θαμινὰ τῶν λίθων τῶν πετροβόλων ὸργάνων ὰφιεμένων, ϰαὶ ταῑς ὲπάλξεσι
προσαρασσομένων.)
… scagliando i petrarei frequentemente pesanti pietre, con faciltà i barbari furono contenuti
(τῶν δὲ πετροβόλων βάρη θαμινὰ τῶν λίθων ἐπαφιέντων, εὐπεπῶς οἰ βάρβαροι
ἀνεστέλλοντο.)
… scagliando dardi incendiari e pesanti pietre contro i bizantini (πυρφόρα τε βέλη ϰαὶ βάρη
λίθων ϰατὰ τῶν Ῥωμαίων βάλλοντες)…

C’è da notare che qui naturalmente si parla di πετροβόλoi (‘congegni litobolici’) e non ancora
di τηλεβόλοι (‘bombarde, ‘canne da polvere’); c’è poi da aggiungere che nella seconda metà
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del secolo successivo e precisamente nel 1081 vediamo Giorgio Paleologo difendere
Durazzo affollando le mura della città, tra l’altro, di congegni litobolici (ϰαὶ λιθοβόλοις τἀ τείχη
ϰαταπυϰνῶν μηϰανήμασι; e anche λιθοβόλα ὂργανα o πετροβόλα μηχανήματα. Anna
Comnena, Alexiadis. LT. IV, 1-4), smentendo così la regola da noi più sopra esposta che
voleva i mangani molto usati nell’offesa delle città e poco invece nella loro difesa; ma non è
detto che la Comnena, quantunque coeva degli eventi che narrava, fosse sufficientemente
esperta di cose di guerra.
Per quanto riguarda invece le cronache italiane, nella cosiddetta Cronaca pisana del
Marangone all’anno 1114, quando cioè un’armata (volg. brigata) pisana espugnò la saracena
(‘mussulmana’) isola di Maiorca dopo sei mesi d’assedio:

… quam per sex menses cum manganis et gattis et castellis ligneis obsidentes, eam cum
triumpho magno tandem ceperunt… (in A.S.I. Tomo VI, p. 8.)

Poi, nel luglio del 1138, quando i pisani, dopo essersi impadroniti di Ischia, attaccano ancora
l’Amalfitano cominciando da Maiori:

… in qua multitudo erat magna populorum cum manganis et pedrieris et, dei voluntate, victi
sunt (ib. P. 10).

Dopo aver conquistato tutte le altre frazioni di quel ducato, gli imposero un tributo e andarono
ad assaltare Salerno, dove ancora l’assedio vide attacco e difesa condotte cum manganis et
castellis (‘elepoli’) et gattis (ib.) Nel 1148, nel corso della guerra che li opponevano ai
lucchesi, prepararono una spedizione fluviale per assaltare il castello posto sull’isola del lago
di Sesto:

…cum plus quam L navibus, plattis et scafis, cum XII manganis in plattis positis, etc. (ib. P.
12.)

Interessante qui dunque vedere che questi congegni lapidanti a contrappeso già ai loro inizi
si montavano all’occorrenza su chiatte fluviali. Nel 1149 saranno i lucchesi a usare i mangani
nell’assedio del castello di Vurno, nel 1160 l’imperatore Federico all’assedio di Crema,
ancora i pisani l’anno seguente, nei loro preparativi di guerra contro il conte Ildebrando
Novello, e nel 1170 negli assedi dei castelli di Corvaria e di Agnano (ib.)
Nelle Storie di Niketas Koniatos (c.1155–c.1217), laddove si narra della conquista bizantina
di Gangra (oggi Çankiri) in Anatolia, avvenuta nel corso delle campagne del vittorioso
imperatore Giovanni Comneno II (1087-1143), leggiamo che a Levante erano proprio i
bizantini a essere all’avanguardia nell’uso dei congegni a contrappeso; a Costantinopoli infatti
48
molto importante era nel Basso Medioevo l‘ ‘arsenale dei mangani’, luogo dove tali congegni
si costruivano e conservavano, il quale era ricordato ancora in epoca moderna dalla
sussistenza di un palazzo detto vulgo ‘dei mangani’ e sito nei pressi di un famoso santuario e
monastero detto appunto ‘di S. Giorgio ai Mangani’ (ἐν τῇ μονῇ τῶν Μαγϰάνων. Giovanni VI
Cantacuzeno, Historiarum libri IV. I, 50) – definito nel suo Chronichon da Giorgio Franzes
bellissimo (‘περιϰαλλὲς’. LT. II, cap. VI), nomi entrambi appunto dovuti al far parte una volta
quegli edifici del complesso del predetto arsenale, il quale sembra comprendesse anche un
ospedale; il detto palazzo era di rango imperiale, in quanto in esso usavano di solito andare a
ritirarsi a vita privata quegli appartenenti alla famiglia imperiale che si vedessero caduti in
disgrazia. Dapprima i bizantini avevano provato ad abbatterne le mura in maniera
tradizionale, cioè con arieti, ma, a causa della robustezza di quelle e della tenacia difensiva
degli assediati, cambiarono presto strategia e, tralasciati gli arieti, approfittando invece della
posizione elevata dei loro accampamenti d’assedio, posti infatti su alture che dominavano la
città, cominciarono a bersagliarla da lì molto efficacemente con i petrarei a contrappeso:

… tralasciate le mura, (l’imperatore) decise di lanciare con le fromboliere le pietre giù sulle
case, visibili giù dalle alture sulle quali i romei si erano accampati; scagliando pertanto, quelli
che erano addetti alle macchine, pietre rotonde e non pesanti contro quanto si vedesse
anche molto lontano, così queste, sembrando che volassero e non che fossero tirate da
macchine, piombavano sulle case. Cadendo giù e fracassando i tetti, prostravano la folla
degli abitanti, venendo ad essere così pertanto sia rischioso il cammino nelle strade sia
inopportuno lo starsene del tutto tranquillamente all’interno. Dunque a causa di queste
circostanze e dell’assedio dell’imperatore, soprattutto a ragione della estinzione del presidio
taismanio di Gangra per la miseranda morte degli uomini, dettero se stessi e la città al
monarca (… μή προχωροῡντος δε τοῡ ἔργου διὰ τὴν τῶν ἐπάλξεων ὀχυρότητα ϰαὶ τὸ ὲπὶ
πολὺ ἐϰθύμως μάχεσθαι τοὺς ἐνόντας, βάλλειν τὰ τείχη παρεὶς ϰατὰ τῶν οὶϰιῶν ἐγνώϰει
διασφενδονᾶν τοὺς λίθους, προφαινομένων ἐϰ τῶν ἒξωθεν ϰολωνῶν ἐφ' ὧν Ῥωμαῑοι
ϰατεστρατοπεδεύοντο, οἱ μὲν οὗν ἐπὶ τῶν μηχανῶν λίθους στρογγύλους ϰαὶ ϰούφους διὰ τὸ
εὐσύνοπτον ἐς ὅτι πορρωτάτω διαφιέντες, ὡς δοϰεΐν ἵπτασθαι τούτους, οὺ μὴν ἀπὸ
μηχανημάτων ἴεσθαι, τοὺς δόμους ϰατέσειον. οι δ' έπι γόνυ ϰλινόμενοι ϰαι τους ορόφους
διαλυόμενοι τό ένοιϰούν πλήθος έϰτεινον, ώς έντεύθεν είναι ϰαι την ἐν ταῑς ἀμφόδοις
ἐπισφαλῆ πάροδον ϰαὶ τὸ ἒνδον ἡσυχῇ ϰαθῆσθαι πάντῃ ᾀσύμφορον. διὰ ταῡτα τοίνυν ϰαὶ τὴν
τοῡ βασιλέως προσεδρείαν, οὐχ ἤϰιστα δὲ τὴν ἐπὶ μαλαϰῷ θανάτῳ ἔξ ἀνθρώπων ἀφάνισιν
τοῡ τῆς Γάγγρας ἐπιστατοῡντος Ταϊσμανίου, ἑαυτοὺς ϰαὶ τὴν πόλιν τῷ αὐτοϰράτορι
ἐνεχείρισαν.)

Città evidentemente secolare Gangra, perché certamente fondata prima che prendessero
piede i petrarei a contrappeso, altrimenti non l’avrebbero certamente costruita dove
sovrastata da alture. Nella stessa campagna i bizantini presero poi la fortificatissima città
armena d’Anabarza, le cui mura erano armate a difesa anche di petrarei a contrappeso, a
quanto si evince dalla narrazione, anche se, come abbiamo già detto, erano congegni più
adatti ad assediare che a difendere da un assedio (ib.):

49
… dopo breve tempo furono portate le macchine alle mura, furono fiondate le pietre rotonde e
percossero gli edifici (… μιϰρῷ, δὲ ὕστερον ϰαὶ τοῒς τείχεσιν αἱ μηχαναὶ προσάγονται, ϰαὶ οἱ
λίθοι ἐϰσφενδονῶνται σφαιροειδεῒς ϰαὶ τὰς βάρείς βάλλουσιν.)

Ma gli armeni non si dettero per vinti e presero dunque a ricambiarli della stessa moneta:

… salirono in opposizione sull’alto dei propugnacoli e tiravano con le macchine cariche di


pietre contro l’esercito (τῶν δ'ἐπάλξεων ἅνωθεν ἒξ ὰντιπάλου στῆσαν ϰαὶ αὺτὸ μηχανήματα
βάρη τε λίθων ὴϰόντιζεν εἰς τὸ στράτευμα)…

Poi fecero una coraggiosa sortita appiccando il fuoco all’elepoli degli assedianti, ma alla fine
furono anch’essi costretti ad arrendersi alla superiorità del nemico. I bizantini dovevano avere
un buon numero di petrarei perché in seguito si arresero loro anche gli abitanti agareni (oggi
diremmo ‘sciiti’) di Pizà in Siria, bersagliati come si vedevano da una vera e propria grandine
di pietre:

… essendo molte delle torri state disfatte e abbattute a terra dai nembi di pietre, gli agareni si
persero d’animo (πολλὰ δὲ τῶν πυργωμάτων ὑπενδόντα ταῑς τῶν λίθων νιφάσι ϰαὶ πρὸς γῆν
ϰαταρρεύσαντα τῶν ἐϰ τῆς "Αγαρ ϰαθεῑλε τὸ φρόνημα)...

Qui c’è da considerare che, se le torri della cinta muraria erano facilmente abbattute dal
semplice lancio di grosse pietre, dovevano essere fatte non di muratura bensì di legno, come
avevano usato farle nel passato gli antichi romani; ma sembra che a questo si potesse
ovviare con pietre particolarmente pesanti, come quelle dal peso di un talento, ossia di circa
kg. 26, che nel 1165 usarono i bizantini dell’imperatore Manuele I Comneno all’assedio di
Zeugmino (l’antica Sirmio in Pannonia), dove, dopo averne riempito il fossato, innalzeranno 4
grossi mangani in circolo per poter bersagliare l’interno della città da ogni lato:

… disposte intorno le macchine petroboliche (le stesse erano quattro), comandò di abbattere
le mura (τάς τε πετροβόλους μηχανὰς περιστήσας (τέσσαρες δ'ἧσαν αὗται) τὰ τείχη ϰατασείειν
ἐπέταττεν. Niketas Koniatos, Storie. Manuele I Comneno (1118-1180), lt. IV].

Ma non si era detto che questi congegni erano adatti a fracassare strutture militari di legno
ma non di muratura? Sì, ma in questo caso si trattava non solo dei predetti grossi congegni
scaglianti pietre di talento ma soprattutto di una cortina muraria già compromessa dall’averne
in precedenza i minatori bizantini scavatene le fondamenta:

… Essendo infatti tutte in azione e scagliando pietre di un talento di peso, disgiungevano le


connessioni delle mura. Una di quelle soprattutto, dellla quale era architetto Andronico,
essendone stata regolata la fionda nel suo roteare e nel canapo, poiché quanto più si allenta
l’avvolgimento tanto più la cortina, colpita dal carico di pietre, subito ammencisce e perde la
sua dirittura, anche per esser stata nel frattempo pure svelta dai minatori (ἐνεργείς μὲν οὖν
50
ἅπασαι ἧσαν, ϰαὶ οἱ πέτροι ταλαντιαἲοι ἀφιέμενοι τὰς τῶν τειχῶν παρέλυον ἁρμογάς. μία δ'ἒξ
αὐτῶν μάλιστα, ἦς ἀρχιτέϰτων ἧν Άνδρόνιϰος, αὐτὸς τὴν σφενδόνην τόν τε στρόφαλον ϰαὶ τὸν
λύγον διατιθέμενος, πλειόνως δiεσάλευε τὸν περίβολον, ὡς ϰαὶ τὸ μεσοπύργιον, ϰαθ'ὅ τὰ
βάρη τῶν πετρῶν ὴϰοντίζοντο, ὑποχαλᾶν ἥδη ϰαὶ μεθίστασθαι τοῡ ϰεῑσθαι ὀρθόν, ἅλλως τε
ϰαὶ ὀρυϰτῆρσιν ὐπομοχλευόμενον. Ib.)

Il predetto Andronico fu l’unico architetto bizantino il cui nome ci sia stato tramandato per
quanto riguarda questo settore delle costruzioni petroboliche medievali, mentre ne abbiamo
altri friulani, francesi e savoiardi che poi individueremo. Nel secolo successivo Giorgio
Pachymeres chamerà le grosse pietre lanciate da grandi mangani col termine generico di
ιοβόλα (‘proiettili esiziali’):

… allora dunque molti lanciando e gettando ogni giorno giù dalle mura mortiferi proiettili con
grossi mangani… [τότε γοῦν πολλῶν ϰαθʹ ἠμέραν ἐϰ τοῦ τείχους βαλλομένων τε ϰαὶ
πιπτόντων ἰοβόλοις (‘ἰοβόλους) μεγίστοις μαγγάνοις. In De Michaele Palaelogo. LT. II.]

A proposito di mangani particolarmente grossi, Saba Malaspina narra nella sua Historia,
opera iniziata nel 1284 e terminata, come l’autore stesso dichiara, a Perugia il 29 marzo
1285, che Carlo I d’Angiò nel 1282, assediando Messina, aveva fatto costruire un mangano
particolarmente grande (mandavit fieri machinam, seu trabuccum immane), con il quale,
posto oltretutto sull’alto del colle dove si trovava il convento dei frati Predicatori di S.
Domenico, molto danneggiava la città; ma gli indomiti messinesi trasportarono e istallarono di
contro un loro trabucco che puntualmente rilanciava sugli assedianti le pietre che quelli
lanciavano (LT. IX, cap. 5. In Giuseppe Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani etc.
Vollt. II. Napoli, 1868.) Bartolomeo di Neocastro, del tutto coevo del Malaspina, aggiungeva al
detto episodio dei particolari, tra i quali che per difendere il maneggio del predetto mangano
angioino gli era stato costruito attorno una bastita di legno (si erige un edificio di legnami
costruito a mo’ di botte. Cit. Cap. XXXVIII) e inoltre che il mastro manganaro si chiamava
Pantaleone e che, quanso da Messina arrivò una grossa e pesante pietra che sfasciò la
bastita, rimasto praticamente allo scoperto, dovette fuggirsene con i suoi per non rischiare di
restarne anche ucciso (ib.) Conviene qui chiarire che il grande mangano ricordato negli
Annales genuenses dei fratelli Stella all’anno 1372 e chiamato troja non era un tipo diverso di
congegno litobolico bensì un normale trebuchet, forse però in questo caso di disegno
savoiardo o francese per cui gli era rimasto il nome transalpino truie:

… Machinae plures magni ponderis lapídes jacientes; et prae aliis macbina una, que Troja
(idest sus femina five scrofa) vocata jaciens lapidem ponderis quod cantariorum XII usque in
XVIII vocatur (LT. A. Muratori, Antiquitates italicae Medii Aevi etc. T. II, c. 474. Milano, 1739).

51
A proposito del predetto cantariorum dobbiamo chiarire che qui cantarium è sincope di
centenarium e, anche se in volgare italiano divenne, specie a Napoli, càntaro perché confuso
con il greco ϰάηθᾱρος (‘vaso a due manici’) e con il suo diminutivo ϰαηθάριον, nulla ha quindi
a che fare con questi due vocaboli greci. Nelle scritture contabili savoiarde per spese militari
della prima metà del Trecento, pubblicate a Chambéry nel 1848 da Léon Ménabréa -
purtroppo non solo non integralmente ma talvolta anche con interpretazioni arbitrarie, i
congegni litobolici si dividono in due tipologie: mangani o trebuchets e briccole o manganelli,
quelli, come già sappiamo, grandi e potenti e retti da solide basi quadrangolari, quelle invece
più piccole e deboli, reggentisi su 3 o 4 pali posti a capra e montate spesso, appunto per le
loro minori dimensioni e pesi, anche sulle mura dagli assediati, come più avanti meglio
spiegheremo.
In una sua lettera del periodo 1481/1482 inviata a Ludovico il Moro Leonardo da Vinci
sembra far distinzione tra trebuchet e mangano (‘componerò briccole, manghani, trabuchi et
altri instrumenti etc.), ma ai suoi tempi detti congegni d’assedio erano ormai da molto obsoleti
e quindi ciò che lui ne scriveva non poteva far molto testo. In francese le briccole erano
generalmente dette engins (lt. ingenia) e i trebuchets, per i quali si usava in Francia anche il
dim. trebus, erano invece qui vulgo appunto chiamati con quello di truies (‘scrofe’; lt. troiae). I
pali delle briccole potevano talvolta essere rivestisti all’esterno da tavolati che facevano
assumere al tutto l’aspetto di una piramide chiusa.
Dalle suddette scritture savoiarde si ricava la struttura dell’esercito di Amedeo V di Savoia
che nel 1321 andò all’assedio del Castello di Combières; i congegni litobolici erano 9 e cioè
quattro truies (tlt. troiae), ossia trebouchets o mangani, e cinque engins (tlt. ingenia), cioè
briccole, ognuno d’essi costruito e offerto da una singola comunità feudale e gestito da un
governatore, come segue:

Truie di Gex governata da Jean de Bagnolt.


Truie di Ginevra governata da Jacques de Bordeaux.
Truie di Villeneuve governata da Antoine Girod de Villeneuve.
Truie del signor Pierre de Longecombe governata da Guigues de Saint-Apre.
Engin di mastro Jean de Monthey governato da lui stesso.
Engin di mastro Gauthier governato da Jean Reynard, castellano di Chillon.
Engin di Michel de Benevis governato da Rolet Tavelt.
Engin di acques Mallet governato da Raymond d’Alinge.
Engin di Gex governato da Conon de Chastenay.

Alla manutenzione dei predetti ‘congegni’ litobolici erano addetti 17 carpentieri sotto la
direzione di un esperto ingeniere friburghese detto maistre Jean e c’erano poi numerosi
scalpellini per la ricerca e la sagomazione delle pietre da lanciare (tlt. lapides rotondos); i
minatori erano 25, di cui 20 provenienti dallo Chablais e cinque lombardi guidati da uno di

52
loro, certo Martino da Lanzo. L’esercito assediante disponeva anche di armi lancia-quadrelli o
verrettoni e cioè di un numero imprecisato di balestre da posta affidate a Jean de Rougemont
e di alcune spingarde (espringalles) affidate a Guy de Saix e a Jean de Marin. Purtroppo
l’autore sintetizza qui il documento e ne da informazioni lacunose, dicendo quelle balestre de
tour (lt. balistae a turno), cioè caricabili a mulinello, ma anche de cornu, cioè fatte di grandi
corna di bue, mentre non da assolutamente nessun dettaglio delle espringalles; di queste
ultime, delle quali però sappiamo che erano le balestre che in origine avevano lanciato non
dardi ma sassi, l’unico che in effetti scrisse qualcosa fu Lampo Birago, il quale però visse nel
secolo seguente al Trecento, cioè dopo l’ultimo in cui erano state usate le balestre da posta, e
sappiamo bene quanto purtroppo velocemente nei secoli passati si perdesse molto presto
precisa memoria delle cose, specie di quelle tecniche. Dice dunque il Birago nel suo
Strategicon adversus turcos esser state le espringalles, delle balestre da posta di corno; è
probabile però che egli si sbagliasse e che le espringalles fossero si quelle maggiori baliste,
ma con l’arco di legno fatto di lunghe e strette tavole di legno associate, cioè insomma del
genere di quelle che vediamo nei progetti di Leonardo, anche se certo non così gigantesche;
ciò anche perché all’inizio del Trecento Marin Sanudo il Vecchio, nelle sue raccomandazioni
per l’organizzazione delle imprese di Terra Santa, a proposito delle balestre da portare sui
vascelli dell’armata cristiana fa appunto netta distinzione tra balestre con l’arco piccolo di
corno e balestre più potenti, da tendersi conl’uso di ambedue i piedi, con l’arco grande di
legno, raccomandando per questi l’uso del legno di nasso, ossia di un tipo di acero che si
importava dall’isola di Corsica e da altri luoghi (Cit. P. 97-98. Hannover, 1611). Certo è che,
se erano le più grandi, nella dotazione dell’esercito predetto dovevano certo essere in numero
minore delle più piccole arbalètres à tour; e d’altra parte, mentre queste, pur essendo dunque
in numero maggiore, erano affidate al governo di un solo uomo, quelle invece a due
personaggi e quindi forse anch’esse erano due. E un vero peccato pertanto che il Ménabréa
non abbia pubblicato quei documenti integralmente, presumendo evidentemente che, oltre a
quanto ne aveva capito lui, non ci fosse altro da capire per nessuno! Da parte nostra abbiamo
potuto incominciare a farne ricerca all’Archivio di Torino solo on line, finora purtroppo non
trovandoli.
Che le spingarde fossero state in origine delle balestre lancia-sassi si evince anche da quanto
appunto ne scriveva il predetto Marin Sanudo il Vecchio, laddove chiedeva l’uso di tali
congegni sui vascelli crociati da inviarsi alla liberazione della Terra Santa:

… detto naviglio abbisogna tanto di congegni quali baliste, silicestre ossia spingarde, quanto
di macchine… (indiget dictum nauigium tam aedificiis balistarum, silicestrarum vel
spingardarum, quam etiam machinarum. Ib. P.60).

53
Oltre alle baliste (‘lanciatrici di saette’) c’erano dunque allora da prendere ancora in
considerazione, secondo il Sanudo, anche le silicestre (‘tiratrici di selci’; e non silvestre, come
sbrigativamente interpreta il traduttore!) queste avevano il sinonimo di spingarde; più chiaro
di così. Infine, nel suddetto esercito di Amedeo V, c’erano le seguenti macchine ossia
costruzioni di difesa:

Chat (gatto) da minatori governato da Jean de Blonay.


Chat da ariete governato da Mermet d’Arbignon.
Grande beffroi (berfredo o elepoli) governato dal già elencato Jacques de Bordeau.
Piccolo beffroi…
Mantelli di varie misure.

L’unico modo di difendersi dai lanci di grosse pietre che allora si conoscesse era affine a
quello dei freschi cuoi bovini con cui ci si riparava dall’insulto delle armi incendiarie e cioè
fresche pelli vellose di ovini distese sulla muratura dagli assediati o sulle parti più alte
dell’elepoli dagli assedianti e che così attutivano alquanto i colpi di pietra; oppure distese tra
due pali di sostegno al di sopra della merlatura muraria in modo da intercettare qualche
pietra, invilupparla e smorzarne l’effetto facendola cadere giù:

… avendo disteso sulle mura velli scorticati di fresco, affinché, da quelle avviluppato,
cadesse giù quanto le macchine lanciavano (νεόδορα νάϰη τοἵς τείχεσι προπετάσαντες, ὡς
περιολισθαίνειν αὐτοἵς ϰολπουμένοις ὄσα αἱ μηχαναὶ διηφίεσαν. Niketas Koniatos, Historie.
Urbs capta).

Così fecero nel 1090 i turchi che difendevano la recentemente conquistata Chio dalla
reazione ossidionale dei bizantini; questi avevano abbattuto, con arieti o forse con minatori,
una cortina delle mura e si preparavano all’assalto attraverso quella breccia, ma i turchi
nottetempo vi costruirono alla meglio un riparo sostitutivo, cercando poi di ricoprire il tutto di
materassi, pelli e grossi panni (στιβάδαας ϰαὶ βύρσας ϰαὶ πᾱν τὸ παρατυχὸν. Anna Comnena,
Alexiadis. LT.VII, 8) per attutire i colpi delle pietre che su di esso avrebbero l’indomani
sicuramente lanciato con i mangani i nemici; infatti, trattandosi di un riparo non più solido e
duro come la muraglia perduta, i colpi di mangano sarebbero stati ora adatti ad abbatterlo.
Frattanto nella Guerra di Riconquista spagnola, erano invece i mori a prevalere nell’uso dei
congegni lapidanti, così come poi lo saranno anche in quello delle artiglierie da sparo, e nel
1147 le usavano con successo nella difesa d’Almeria contro un’enorme torre lignea d’assedio
costruita dai cristiani, né si può pensare che si trattasse di congegni streblomatobolici, cioè a
retrosvolgimento, all’antica insomma, data l’asserita mole delle pietre lanciate (immanis
ponderis saxa machinis suis intorquentes. U. Foglietta, Historiae genuensium libri XII).

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Il secondo nome volgare usato era trabuc(c)o (in), da cui quindi anche i dim. trabuccolo,
trabucchetto, dal fr. trébuchets (cioè ‘trois bûchettes’, ‘tre tronchi’; i. tribuket; tlt. trabutium),
perché era un congegno eretto su un alto tréspolo fatto appunto di tre o quattro tronchi
d’albero. Questo nome francese, il quale ebbe poi tanta fortuna, sembra esser stato
introdotto in Italia dai tedeschi, come fa capire un frammento di una cronaca anonima citato
dal Lipsius:

Anno Domini MCCXII. Otto imperator, ab Apulia et Italia reversus, obsedit oppidum Wizense,
quod similiter expugnavit usque ad arcem. Ibi tunc primum coepit haberi usus instrumenti
bellici quod vulgo ‘trybock’ appellari solet (Poliorceticωn, p. 129).

Che si trattasse di un nome non ‘tecnico’ ma popolare è confermato dal vescovo Saba
Malaspina nella sua coeva Rerum sicularum historia (1250-1285) laddove narra che nel 1265
Carlo I d’Angiò, ricevuta a Roma dal papa Clemente IV l’investitura a re di Sicilia, lasciò la
città alla testa del suo esercito per andare a impossessarsi di quel regno. Poiché si trattava di
un esercito venuto da lontano, cioè appunto dalla Francia, e perdipiù via mare, non si era
portato dietro gli ingombranti e pesanti materiali necessari alla costruzione di mangani
d’assedio e allora a Roma Carlo ottenne di poter prendersi e portarsi via quelli di quei nobili
romani usi a organizzare e condurre eserciti di parte guelfa:

… Ma, averndo il re Carlo fatte seco trasportare sopra moltissimi carri tutte quelle macchine
dei nobili di Roma del cui ausilio i romani usavano avvalersi nell’assedio dei castelli e che
altrove son dette volgarmente ‘trabucchetti’, presso S. Germano, quasi che non fossero
ulteriormente necessarie, furono scaricate dai carri e nel medesimo tempo carri e carrettieri si
fermarono… (LT. III, cap. IV. In Giuseppe Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani etc.
Vollt. due. Napoli, 1845-1868.)

Ma la ragione non era che non servissero più, in verità era successo che i carrettieri erano
rimasti in troppo pochi per continuare e ciò perché, venuti alle mani con i cavalcatori francesi
che li scortavano per futili motivi, ne erano rimasti uccisi più di cento. Per la cronaca la
giacobina S. Germano, la quale era difesa soprattutto da saraceni mercenari imperiali, fu
presa dai francesi ugualmente anche senza i mangani (ib. Cap. V).
In Catalogna era comunque ancora molto usato anche un antico congegno, il fonevol o
fenevol (dai tlt. fundibalus o fundibulum o funda petraria, ‘fromboliera’. Papias, Fundibalus:
funda emittens transiectorium, 'congegno lanciatore emittente a mezzo di fionda'); cioè in
pratica il già ricordato onagro della Roma imperiale; questo nome fundibulum si trova già
usato sia nella Vulgata sia da S. Ambrogio, cioè già nel secolo precedente a quello di
Vegezio. Nel 1291, assediati a loro volta dal sultano mamelucco al-Ashraf Ṣalāḥ al-Dīn
Khalīl, i crociati persero quell’importante piazza e per quell’occasione nel Chronicon del
55
monaco Cornelius Zantfliet si fa un’importante distinzione e cioè si distingue fundibuli da
petraria, i primi dunque congegni lapidanti a retrosvolgimento di corde e i secondi ora invece
lapidanti a contrappeso, come già sappiamo, con l’ulteriore differenza che nei primi il carico di
pietre, alquanto limitato, si poneva in un giacchio o rezzaglia peduncolata, mentre nei
secondi, uno molto maggiore, in una robusta ed ampia sacca di tela che veniva fuori da una
ferma cassa di legno (lt. sacca casolae):

… Quarto die assultum facere coeperunt fundibulantes et petrarias jacientes decem diebus
continuis in modico damnificantes civitatem…
… additis fundibulis et balistis illic erexerunt…
(In E. Martène – U. Durand, Veterum scriptorum et monumentorum etc. Cc. 126-127, t. V.
Parigi, 1729).
… il fenevol che non tirava tanto (lontano) tirava alla città, il trabucchetto (invece) al
castello… (Cron. del re Giacomo I. Cit.)

L’antico fenevol a retrosvolgimento (cioè quello che era stato l’onagro dei romani) era dunque
molto meno potente del più moderno trabucchetto o petrareo a contrappeso; ma per
converso il fenevol degli assedianti, al confronto con le algarrade degli assediati, era un
gigante:

… Frattanto il fenevol non cessava di tirare; e tiravano da dentro due algarrade molto buone
che avevano, perciò avevamo tanto coperto di mantelletti il fenevol, il quale (rispetto a quelle)
si trovava in basso, ma quando cominciava a tirare, le algarrade cessavano di tirare così
tanto perché avevano paura del fenevol (ib.)

Troveremo ancora in questo Chronicon la suddetta mal classificata distinzione tra congegni
lapidanti a carico fiondato e a carico spinto (fundae e petrariae) a proposito dell’assedio
leodiense di Utrecht del 1408, con la differenza che ora a quelle si aggiungono anche le
bombarde:

... a partire dal 5 giugno e per tutto il medesimo mese i leodiesi non smettevano di gettare
innumerevoli pietre sferiche con le loro fionde (fundis, ossia fundiboli), petrarie e bombarde
per sconquassare Utrecht, con le quali tetti e pareti delle case di fatto portavano gran danno;
ma degli uomini, incredibile a dirsi, pochissimi restarono da quelle uccisi… (Ib. C. 389.)

Frattanto, tra gli avvenimenti della metà del Trecento, lo stesso cronista aveva aggiunto ai
predetti tre termini, un quarto termine e cioè mangonabuli; non citando invece quello di
bric(c)ola (ctm. e cst. brigola), congegno indicante un tipo più piccolo di trabucco da potersi
usare pertanto, istallato sulle mura di una città, anche da assediati e che sembra essere di
origine italiana, anche perché dette il nome alle bricole, ossia ai guarda-secca ancora oggi
tanto caratteristici soprattutto della laguna di Venezia e la cui struttura di sostegno

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rassomiglia infatti moltissimo a detto congegnio bellico. Infine, molto più avanti, a proposito
della battaglia di Konitz, avvenuta il 18 settembre 1454 e nella quale l’ordine teutonico
sconfisse i ribelli prussiani e i loro alleati polacchi guidati da re Casimiro IV, lo Zantfliet scrive
che, tra l’altro, furono prese al nemico 16 fundae petrariae, tra le quali una così grande da
esser trainata da ben 14 cavalli (ib. C. 488) e, poco dopo, descrivendo la sconfitta turca a
Belgrado del luglio 1456 lo Zantfliet aggiunge che i turchi in ritirata lasciarono sul campo le
loro più impaccianti attrezzature:

… Reliquerunt autem illic turci undecim fundas grossas seu bombardas, quarum sex
continebant in longitudine 33 spangas manuales et septem in altitudine. Similiter et alias
fundas ducentas illic reliquerunt et alia jocalia in numero copioso (Ib. Cc. 492-493).

Dunque adesso per fundae il detto autore non intende più congegni lapidanti meccanici bensì
quelli chimici, da polvere, insomma le bombarde; da qui il singolo traino equino per le
maggiori (che non fu dunque un’invenzione di Carlo VIII) e il gran numero di quelle piccole (et
alias fundas ducentas). Per quanto riguarda alia jocalia, vedremo nel secolo seguente
chiamarsi da gioco quelle più piccole artiglierie usate dagli studenti delle scuole d’artiglieria
appunto nel gioco di mira, ossia nelle esercitazioni al bersaglio.
L’azione di lancio dovuta alla caduta di un contrappeso molto più grave del peso che si
voleva lanciare è ben sintetizzata dal verbo lt. rotare che il de Redusiis, a proposito dei
congegni usati nell’assedio di Tarvisio del 1368, usava con il significato di ‘lanciare ruotando’
(LT. A. Muratori. Rerum italicarum scriptores etc. Cit. C. 743, t. XIX. Milano, 1723-1751):

… Et exinde machinas erexerunt, saxa intra Tergestum magno impetus rotantes.

A proposito di questo assedio, poiché gli assedianti lanciavano dall’alto del monte che
sovrastava la città, dove avevano all’uopo costruito una bastita, cioè un forte di legno, saxa et
spicula (‘sassi e dardi’) intra Tergestum, non potendo ovviamente trattarsi di dardi di piccole
balestre, data la distanza, ecco che dunque nel 1368 abbiamo ancora l’uso di congegni
giaculatori nello stile antico, anzi, come poi vedremo, a Bologna ancora nel 1381 e in Francia
ancora nel 1428! Non bisogna però pensare per questo che le baliste dell’antichità e le
espringales del tardo Alto-Medioevo fossero quegli enormi congegni ad arco che, pure ipotesi
di scuola, vediamo disegnate da autori rinascimentali, come il Valturio, il Taccole e lo stesso
Leonardo da Vinci, e i cui archi sarebbero stati in realtà irrealizzabili dalla limitata tecnosofia di
quei tempi; in realtà, come si vede sia nei bassorilievi della Colonna Traiana sia negli inventari
medievali, le balliste installate sui carri ballistarii o carroballiste dell’antica Roma o da
postazione erano, tranne poche più grandi, generalmente di dimensioni all’incirca solo doppie
di quelle maggiori da fanteria, cioè di quelle i cui proiettili erano detti, come vedremo più
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avanti, ‘verrettoni da due piedi’, trattandosi infatti di balestre più pesanti e potenti da caricarsi
tenendole ferme con ambedue i piedi e ad usarsi in postazione, cioè non in itinere o a bordo
dei vascelli, dove cioè era più pratico e agevole usare quelle più leggere da caricarsi con un
solo piede:

… che ogni balestriere abbia due balestre, una più forte dell'altra, in modo che operi proprio
con la più forte in qualche luogo determinato, da cui in quel tempo non occorra allontanarsi:
con la più debole nel viaggio a terra e al ritorno quando ce ne fosse bisogno (quod quilibet
balistarius duas balistas habeat, unam altera fortiorem: quâ quidem fortiore utatur in aliquo
loco certo, a quo tunc temporis ipsum non oporteat removeri: debiliore, per terram in itinere &
regressu, dum ipsa indigeret. In Marin Sanudo il Vecchio, Liber secretorum etc. Cit. P. 59.
Hannover, 1611).

Di media grandezza tra le suddette leggere e pesanti erano alcune, anch’esse da fanteria,
che però, a causa del loro maggior rinculo, dovevano esser usate poggiate sullo stomaco del
balestriero e pertanto si chiamavano γαστρoφέται.
Poiché i trabucchi erano generalmente provvisti di ruote a raggi, perché si potessero così
spostare più agevolmente, dal suddetto termine trabuccolo venne poi evidentemente quello di
trabiccolo, nel senso di veicolo. Gli assedianti, per eliminare soprattutto difese lignee,
macchine avversarie e per sfondare tetti, usavano congegni capaci di tirare grosse pietre
detti trabucchi o trabucchetti o montoni, alla francese, oppure mangani, manganelle o
briccole; usandoli, bisognava fare attenzione a ben dosare il rapporto peso-contrappeso
perché, per esempio, se si eccedeva col secondo, si otteneva un tiro di eccessiva elevazione
e, al limite, poteva anche capitare che, la pietra elevandosi verticalmente, ricadesse sullo
stesso trabucco che l’aveva lanciata e lo sfasciasse:

… Quelli della città misero troppo contrappeso alla loro macchina, di maniera che la pietra si
sollevò dritta in alto e ricadde sulla loro stessa macchina e la ruppe [Cronaca di Pietro IV
d’Aragona (1336-1387). P. 187. Barcellona, 1850].
… E quelli della città tiravano alla torre che avevano perduta con una macchina grande e con
una brigola (ib. P. 200.)

Troviamo disegni di questi trabucchi nelle miniature dei manoscritti medievali, nel trattato del
Valturio e nel purtroppo ancora inedito De machinis bellicis del Santini, ambedue del sec.
quindicesimo, ma è facile capire, per quanto riguarda detti due trattati, che solo in parte dette
illustrazioni raffigurano la realtà d’allora e che molte di loro scaturiscono invece dalla fantasia
propositiva degli autori. Era la costruzione di un trabucco, specie se fatta per l’occasione sul
posto dell’assedio, cosa impegnativa e per quei tempi costosa; ecco infatti cosa scriveva
Riccardo da S. Germano nel suo Chronicon all’anno 1229 a proposito di Pelagio vescovo di
Albano e Giovanni ex-re di Gerusalemme, ambedue a capo dell’esercito papale, i quali, per
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sottrarsi all’arrivo di quello dell’imperatore Federico II, sbarcato nel frattempo a Brindisi,
decidono di togliere l’assedio che avevano posto alla ghibellina Caiazzo:

... tolto l’assedio e bruciata la macchina volgarmente detta trebuchetto, il quale con molte
spese avevano costruito, si trasferirono a Teano (rupta obsidione et combusta machina, quae
vulgo dicitur trebuvettum, quod multis sumptibus fecerant, Theanum se conferunt).

Il che si evince anche da quanto narrato più avanti nel detto Chronicon, cioè all’anno 1239,
quando cioè troviamo che il suddetto imperatore Federico II, ancora impegnato in Italia,
impone alle popolazioni locali di fornire il legname e i buoi necessari alla costruzione di
mangani (bidde, termine di cui poi diremo) e di manganelli o briccole per la difesa dai guelfi di
due terre a luii fedeli e cioè Rocca Janula e Cassino:

… Che, per ordine dell’imperatore, si facessero congegni, i quali chiamano bidde e


manganelli, per la difesa di Rocca Janula e Cassino, per la qual cosa furono non poco
gravati e gli uomini delle terre del monastero perché tagliassero il legname necesario a dette
macchine e i buoi perché lo trasportassero (Ingeniae, quae biddae dicuntur, et manganella
fiunt, Imperatore mandante, ad defensam Roccae Janulae et Casini, propter quod et homines
terrae monasterii ad incidenda lignamina ipsis machinis opportuna et boves ad ea deferenda
non modice sunt gravati. Ib.)

Molto usate dagli assediati erano i congegni lapidanti a contrappeso più piccoli, cioè le
briccole (cst. cabrejas; fr. perriers, bricolles: gr. ἀφετηρία), dette algar(r)adas quando moresche e
in it. anche brecciere in quanto lanciatrici di breccia o ghiaia, perché si potevano istallare dove lo
spazio disponibile era limitato come sulle cinte murarie, inoltre le dette briccole non avevano
grande potenza di elevazione del proietto e quindi erano più adatte a tiri dall’alto in basso. A
differenza di mangani o trabocchetti le più piccole briccole non avevano una cassa di base, ma si
reggevano a capra, cioè su un semplice treppiedi o quadripiedi fatto di tronchi d’albero.
Parlandosi dei congegni usati dai moreschi, ossia dai mussulmani di Spagna, quando assediati
dagli aragonesi-catalani, in antico catalano si diceva almajanechs, almanganels e appunto
algarradas; ma, a giudicare da quanto segue, tratto dal par. 69 delle cronache aragonesi del re
Giacomo Primo (1213-1276), sembrerebbe che l’ultimo nome, in considerazione anche del gran
numero che di solito lo accompagna, riguardasse le antiche catapulte da dardi e non gli ormai
consueti congegni dal tiro ad arcata:

… i sarracini fecero 2 trabucchetti e 114 algarrade e c’era una di quelle algarrade, la migliore
che si potesse allora mai vedere, che ben trapassava da 5 a 6 tende quando entrava nel
campo del (nostro) esercito, mentre il trabucchetto che noi avevamo portato per mare tirava
più lontano di qualsiasi dei loro…

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Le algar(r)adas erano comunque il nome più comune che si legge nelle cronache medievali a
proposito dei congegni lapidanti moreschi, come per esempio nel racconto dell’assedio
portato a Siviglia dal re di Castiglia Ferdinando III nel biennio 1247-1248:

… Per ordine del re Ferrando furono allora fatte macchine molto in fretta e cominciariono con
quelle a battere detto castello di Triana con molta veemenza. I mori altresì, quando videro
questo, prepararono le loro algarade che avevano dentro (la città) e con le quali
cominciarono a tirare alle (suddette) macchine… (Las quatro partes enteras e la coronica de
España etc. Quarta parte. Valladolid, 1604.)

Che i congegni ossidionali basso-medievali fossero, a partire però dal secolo duodecimo,
ormai tutti o quasi tutti a contrappeso o comunque a contro-forza c’è lo spiega unicamente
Egidio Colonna, autore romano del secolo tredicesimo, laddove le suddivide inoltre in quattro
tipi: a contrappeso fisso (lt. trabutium), a contrappeso modificabile (lt. bissa, ‘biscia’)), a
contrappesi fissi e modificabili insieme (lt. tripantum) e a contro-forza da trazione umana:

… I congegni lapidanti dunque si riducono all’incirca a quattro generi; in ognuno d’essi c’è un
qualcosa che tragga ed elevi la pertica del congegno alla quale è congiunta la fionda dalla
quale le pietre sono scagliate. L’elevazione della pertica del congegno avviene talvolta per
contrappesi, talvolta invece il contrappeso non è sufficiente, sollevandosi la pertica anche con
funi, la quale sollevata, si ha il getto delle pietre.
Quando dunque il lancio avvenga per solo contrappeso, quel contrappeso o è fisso o è
mobile o e composto di ambedue. Si dice dunque che il contrappeso è fisso quando alla
pertica è infissa una cassa stabilmente aderente alla pertica, piena di pietre e sabbia o piena
di piombo o di qualche altra materia pesante, il qual genere di congegno gli antichi vollero
chiamare ‘trabutium”.
Alcuni di questi congegni però, altrettanto per contrappeso e sempre uniformemente, per
cui sempre con la stessa forza spingono, scagliano drittamente, cosicché, quasi come con
uno stocco, possano colpire; con esse sono dunque da colpirsi dei bersagli. Se il congegno
scaglia troppo a destra o troppo a sinistra, vuol dire che è da girarsi maggiormente verso il
luogo al quale è da scagliarsi la pietra; se invece scaglia troppo in alto, allora bisogna
allontanarlo dal bersaglio o bisogna mettere nella sua fionda un peso maggiore che non
possa dunque elevare così tanto; se poi scaglia troppo giù o troppo basso, allora il congegno
è da avvicinarsi al bersaglio o da allegerirne il proiettile di pietra. Pertanto le pietre sono
evidentemente sempre da pesarsi quando si devono scagliare per colpire un determinato
bersaglio.

Era altrettanto comune lanciare nelle città assediate pietre non tanto grandi e a gruppi di
quanto fosse lanciarne invece una sola molto pesante per sfondare tetti e distruggere
macchine di legno; si faceva naturalmente per colpire gli uomini più che gli edifici:

… scagliavano dunque continui carichi di pietre con i congegni petrobolici [ἒϰ τε οὖν τῶν
πετροβόλων ὀργάνων τὰ βάρη τῶν λίθων ἠφίετο συνεχέστερα. Niketas Koniatos, Storie.
Manuele I Comneno (1118-1180), lt. II].

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Anche Anna Comnena ci conferma, a proposito dell’assedio crociato della città di Nicea del
1097, che si era soliti lanciare con gli organi (‘mangani’) mitragliate di ciottoli oltre che grosse
pietre, queste certo necessarie se si volevano sfondare tetti o rompere macchine ma non
sempre disponibili:

… qua forandone i celti (‘i francesi’) le mura là addensandovi i carichi di pietre con i congegni
petrobolici (τῶν δὲ Κελτῶν ὂπου μὲν διατιτραινόντων τὰ τείχη, ὃπου δὲ διὰ πετροβόλων
ὀργάνων ϰαταπυχνούντων τὰς τῶν λίθων βολάς. In Alexiadis. LT. XI, 2).

Inoltre, come già accennato, con il lancio parabolico di pietre, anche se grosse, era molto
difficile, se non impossibile, ottenere un abbattimento di spesse mura di cinta, dovendosi
questo risultato ortodossamente ottenere invece con l’uso di arieti e di scavi minatorii; solo il
già citato Giorgio Pakymeres (c. 1242-1310) parla, nei suoi De Michaele et Andronico
Palaelogis libri tredecim, di grosse pietre approntate per abbattere mura nemiche, ma si tratta
di uno storico bizantino il quale, come più volte nei suoi scritti si dimostra, era persona del
tutto digiuna di conoscenze militari (LT. II, par. 20 e lt. VI, par. 32).
Le casse (tlt. archae o archedae) di contrappeso potevano essere una o due, cioè una per
lato della base della pertica, come si capisce da quanto si legge sia nella Crónica del
Muntaner sia in quella di Pietro IV (un manganéll de dòs caxes de Barcelòna) e da una
illustrazione del Valturio; inoltre i congegni più piccoli potevano essere montati su cavalletti
girevoli:

… E furono messi in ordine quattro congegni o brigole da due casse, i quali girano verso
dove si vuole… (Cronaca di Pietro IV d’Aragona. Cit.)

Il d’Esclot ne ricorda una particolare all’assedio di Girona del 1285, in cui i due contrappesi
ricordavano le grandi orecchie d’una lepre. I francesi assedianti avevano fatto fare
segretamente scale speciali per dare l’assalto alle mura:

… Ma Raimondo de Folch, che venne a saperlo, fece fare sulle mura in molte parti un
congegno che chiamano “Lepriera”, cioè una gran pertica con una macina di pietra rotonda a
ciascun lato, e poi la pertica si caricava bene di pietre, per cui avea una gran forza…
(Cronache catalane del secolo XII e XIV, una di Raimondo Muntaner, l’altra di Bernardo
d’Esclot etc. Firenze, 1844.)

Quando i francesi ebbero appoggiate le scale e vi si furono affollati sopra, le gragnuole di


pietre lanciate da questi congegni li fecero tutti precipitare giù a centinaia. Nel Muntaner,
parlandosi poi a un certo punto del lancio di una pietra fatta a due mani da un uomo, si dice
‘come avviene nei mangani’, cioè volendocisi evidentemente riferire a cuffie di congegni

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lapidanti sorretti non da una sola pertica, come nelle più piccole briccole, bensì da due
geminate; ecco infatti anche una citazione dalla Chronique universelle dell’arcivescovo di
Vienna Adon (?-875) fatta da Claude Fauchet:

… Conficiunt longis aeque lignis geminatis, mongana, qua proprio vulgi libitu vocitantur, saxa
quibus iaciunt ingentia… (Origines des dignitez et magistrats de France. Recueillies. P. 119.
Ginevra, 1611.)

La terza illustrazione del Valturio rappresenta appunto questo trabutium.

…. Un secondo genere di congegni ha il contrappeso attaccato in maniera non fissa bensì


mobile… (Egidio Colonna. Cit.)

Questo secondo tipo di congegno purtroppo non è descritto dall’Egidio in maniera


abbastanza chiara da permetterci di capire come agisse il suo contrappeso; interessanti però
sono le sue differenze operative dal tipo precedente:

… Differisce però in ciò dal ‘trabutium’: poiché dunque il contrappeso è attaccato alla pertica
in maniera mobile, il congegno permette tiri più lunghi a ragione di detto moto, tuttavia non
colpisce così uniformemente e direttamente come i tiri di quello… E questo genere di
congegni i combattenti romani lo chiamarono ‘bissa’ (‘biscia’)… (ib.)

In realtà né Vegezio né Ammiano, i quali, come sappiamo, vissero ambedue nel IV secolo
d.C., fanno alcuna menzione di congegni a contrappeso, in ciò smentendo quanto qui
affermato da Egidio a proposito della bissa e cioè che questo nome glielo avevano dato gli
antichi romani. La bissa è rappresentata dalla quarta illustrazione del Valturio. Un terzo
genere di congegni, essendo fornito sia di un contrappeso fisso sia di uno mobile in
abbinamento riusciva a presentare – anche se più moderatamante - i vantaggi di ambedue i
due tipi precedenti:

… C’è poi un terzo genere di congegni che chiamano ‘tripantum’, avente ambedue i tipi di
contrappeso, uno cioè infisso alla pertica e un altro che si gira attorno a essa mobilmente… a
ragione quindi del contrappeso infisso più rettamente tira della bissa; a ragione invece del
contrappeso che mobilmente si gira più lontano tira del trabutium (ib.)

Il tripantum potrebbe forse essere rappresentato dalle prime due illustrazioni del Valturio. Del
quarto e ultimo genere di congegni l’Egidio non da il nome, ma tutto lascia pensare doversi
trattare di quelli, più piccoli, chiamati briccole:

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… Il quarto genere di congegni è poi quello che, invece del contrappeso, ha corde che si
traggono con le forze e le mani degli uomini. In tal modo il congegno non lancia pietre così
grandi come quelle dei predetti tre generi, tuttavia non occorre qui dedicare tanto tempo a
proporzionare il congegno come nel caso dei predetti, cosicché questo congegno scaglia più
volte e più velocemente di essi (ib.)

Il nome briccola era dovuto all’esser l’antenna lancia-pietre non retta da una robusto e stabile
telaio o cassa, a volte ruotata a volte fatta avanzare su cilindri - o curri o rulli che dir si voglia,
a seconda del peso, come avveniva negli altri congegni usati dagli eserciti cristiani, bensì
sostenuta da un gruppo di 3 o 4 pali convergenti all’estremità superiore, insomma proprio
come le briccole segna-navigabilità che ancora oggi si vedono nella laguna di Venezia e
quindi anche come le caprie (più tardi dette capre) solleva-artiglierie; in modo analogo si
reggevano le briccole mussulmane, rette però, più che da un gruppo di grossi tronchi, da una
più complessa costruzione piramidale di legno. La circostanza che le briccole, a differenza
degli altri congegni lapidanti, si manovrassero a forza di braccia di alcuni uomini, cioè tirando
con forza e decisione e a mezzo di corde l’estremità inferiore dell’antenna, lascia intendere
che per esse, anche se minori, occorressero più uomini di fatica, cioè un equipaggio
maggiore di gente meno specializzata, da cui non a caso il termine ‘combriccola’ (lt. cum
bricola), nel senso di una cricca, di un gruppo di persone molto poco distinte; nulla sembra
invece avere a che fare con le briccole il termine ‘bricconi’, il quale, di origine italianissima,
dovrebbe invece essere una semplice corruzione di briaconi. Bisognava stare attenti con
queste briccole che, una volta mollata la corda o le corde di contro-forza, una di queste non
s’andasse ad avvolgere attorno alla pertica, lasciando così la briccola inutilizzabile per
qualche minuto. E questi detti erano dunque i quattro tipi principali allora in uso:

… Infatti qualsiasi genere di congegno lapidante o è uno dei predetti o prende origine dai
predetti (Egidio Colonna. Cit.).

Volendosi usare questi congegni di notte, bisognava sempre unire al proiettile della materia
ardente o un tizzone acceso:

… così di notte si può capire come il congegno lancia e quale ossia quanto pesante debba
essere la pietra da mettersi nella sua fionda (ib.)

Lo Zurita, all’inizio del terzo dei primi cinque libri dei suoi Anales, cerca di raccogliere un po’
tutti i nomi di congegni da getto che aveva trovato leggendo le antiche cronache:

… due congegni che portavano per combattere la città, i quali erano un trabucco e un’altro
che chiamavano ‘almajanec’ […] Anche i mori preparano due trabucchi e altri congegni che
chiamavano ‘algarradas’; però i nostri poterono armare un trabucco e un altro congegno che
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chiamavano ‘fonebol’ prima che i mori armassero le loro […] nell’esercito del re c’erano due
trabucchi e il fonebol e un altro congegno che chiamavano ‘manganello turchesco’; e questa
era l’artiglieria con la quale si battevano e smantellavano i muri e le torri in quei tempi…

I moreschi continuarono a fare un intenso uso delle loro algarradas, cioè delle antiche
catapulte, anche nel Basso Medioevo:

… e tutta la notte non fecero altro se non tirare colle algarrade, che lanciarono ben più di
cento colpi… (Cron. del re Giacomo I. Cit.)

Un interessante documento contabile udinese del 1332 reperito e pubblicato dal Bianchi
nell’ormai lontano Ottocento ci informa sui materiali noccorenti a costruire una manganella;
concerne alcuni esiti tratti dai libri di Guecello da Purtogruaro, camerario (lt. cancellarius) del
comune di Udine, e datati domenica 7 giugno:

Il sette giugno dette denari 16 per due carri su cui furono condotte in Castellerio balestre,
papesi (‘pavesi’) ed altro occorrevole.
A Giovanni da Lavariano per sei legni necessari a far la manganella che deve condursi a
Castellerio…
Al mastro marangone Zerando per un legno di cimo ('olmo’, secondo il Manzano) del quale fu
fatta la pertica di detta manganella, acquistato dal medesimo Denari 20.
Al calciaro Nicolò fu Orso da Talmasono (oggi ‘Talmassons’) per otto tavole che il medesimo
andò a comprare al prezzo di tre denari ognuna per fare la cassa di detta manganella. Denari
24.
Al calciaro Bartholotto per 4 tavole da costruire per la galla (‘gallam’) della predetta
manganella acquistate dal medesimo a tre denari l’una. Denari 12.
A Novella da Cramis per la fune della stessa manganella acquistata dalla medesima. Denari
24.
Al sellario Henrico per la coppa (fionda’) della stessa manganella acquistata dal medesimo.
Denari 24.
A Jacobo Blauclio che condusse col suo carro le pietre nel brolo (‘verziere recintato’) del
Sig.Federico onde porle nella cassa della stessa manganella, della quale si sperimentò
come proiettava. Denari 8.
A due nunzi, spediti uno a Gorizia e l' altro a Duino con lettere per sapere domandare se
dalla signora contessa e da quel (signore) di Duino si sarebbe prestato ajuto a quelli di
Castellerio, diede denari 52 c. (Giuseppe Bianchi, Documenti per la storia del Friuli ecc. Pp.
579-580. Udine, 1845.)

Qui dunque il palo di lancio era singolo, fatto di un tronco d’olmo, legname adatto perché
resistente e allo stesso tempo sufficientemente elastico da non spezzarsi facilmente, palo
innestato in una cassa di legno quadrangolare di base fatta di otto tavole più altre quattro per
farvi la galla (‘tumefazione’), con la quale forse s’intendeva il supporto d’oscillazione centrale;
completavano la fornitura la fune per tirar giù il carico di lancio, la fionda fatta di pellami
congiunti con cuciture (quindi da ripristinare spesso) oppure di avvolgimenti di pelo e larga
dieci dita (Funda autem sit ex pilis, quae ferre possit lapidem, qui imponitur; ejusque ambitus
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sit digitorum decem. Bitone, cit. P. 106) e le pietre da proiettare. In un grande mangano il
palo di lancio poteva raggiungere e superare i 25 piedi di lunghezza.
Dovendosi costruire i trabucchi o mangani nel luogo d’assedio stesso in cui dovevano essere
usati, soprattutto quiando si volevano grandi, si utilizzavano comunemente, se in località
marittime, generalmente le antenne delle galere e, per il resto, il legname di cui le stesse navi
erano fatte; altrimenti comune tavolame e tronchi d’albero:

… Pisani andoro a oste (‘andarono a combattere’) a Pietrabona di maggio, il qual castello era
de’ lucchesi ed erasi ribellato da’ pisani e lucchesi […] I pisani fero cinque trabochi al detto
castello e guastarovi dentro quasi tutte le case… (Annali senensi di Neri di Donato ecc.
All’anno 1362. In LT. A. Muratori. Cit. T. XV).
Fiorentini vennero con grande sforzo di gente a pie’ e a cavallo […] E poi l’altro dì andaro a
Monte Carulli e ine vi rizzaro due trabocchi e molto el disfero e non lo potero avere e
ritornarosi in quello di Firenze… (ib. All’anno 1364.)
Senesi ordinaro segretamente di pigliare Perolla […] e andaro a Perolla e fero ciò che potero
in rizzare trabochi e mangani e fero castella di legname per combattere al pari delle mura del
castello e portaronlo (‘portaronli’) fin presso alla terra… (ib. All’anno 1374.)

Dunque i congegni lapidanti erano sì efficaci a sfasciare civili abitazioni e costruzioni militari
lignee, ma, come del resto più tardi neanche i cannoni petrieri, non certo a diroccare le
muraglie massicce di castelli e città, se ben fatte di grossi massi squadrati, potendo quindi
abbattere eventualmente solo le deboli sovrastrutture di queste e cioè merlature, torri e
campanili, come vediamo per esempio nel riuscito assedio del castello lucchese di Motrone
portato dai pisani nel 1171:

… Cumque diu pugnatum esset, illi (‘i lucchesi’) se non valentes tenere, videntes murum a
gatto foratum et a manganis turrim, quarto nonas decembris se reddiderunt pisanis…
(Cronaca pisana del Marangone, all’anno 1171.)

Quindi il muro del castello era stato forato da un gatto o gatta, cioè in questo caso da un
ariete coperto da una cupola lignea ruotata, e invece la torre dai mangani, restando
comunque questi soprattutto utili ed efficaci nello sfondare tetti di case e palazzi interni alle
città murate, rendendovi la vita impossibile, e inoltre bastite, gatte, battifolli, vigne, mantellii,
barriere (lt. repagula) e altre costruzioni belliche di legno comprese gli stessi congegni
lapidanti del nemico. Contro le costruzioni di legno ancora molto efficaci erano le antiche
catapulte o algarrade:

… (i difensori) hanno due algarrade e se le drizzano contro un castello di legno, il castello


non ha alcuna difesa… (Cron. del re Giacomo I. Cit.)

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All’assedio di Algeciras del 1342 gli assedianti cristiani cercavano di portare nel fossato della
città più bastite, cioè fortini di legno, che fosse possibile allo scopo da un lato a combattere i
difensori attestati sulle mura ponendosi alla loro stessa altezza e dall’altro di proteggere
coloro che lavoravano all’abbattimento delle mura nemiche, ma i mori gliele fracassavano
sistematicamente con le pietre lanciate dai loro ingegni:

… i cristiani usavano gran premura nel fare più bastide di quelle che già tenevano nel fossato
e fecero fare bastide di legno a mo’ di torri e ve le portarono sopra ruote; e dopo che furono
arrivate al luogo dovuto, si misero a rivestirle all’interno di mattoni crudi, ma i mori dalla città
le bersagliavano con i loro congegni e le fracassarono tutte prima che potessero farvi dentro
altri lavori (Juan Nuñez de Villasan, Cronaca del re Alfonso XI di Castiglia, f. 158 recto).

Certo, a furia di battere, un muro non particolarmente ciclopico, come generalmente erano
quelli dei castelli medievali, si poteva perforare anche con un congegno lapidante, come
avvenne nel maggio del 1219, quando il re d’Aragona Giacomo I, detto Il conquistatore, prese
il castello di Lizana:

… e comandò di portare da Huesca un congegno che chiamavano Fonebol, per combattere il


castello […] e si cominciò a battere con il congegno di notte e di giorno e si tiravano, secondo
quanto si scrive nella storia del re, cinquecento pietre di notte e mille di giorno, e si fece un
gran varco nel muro (Anales de la Corona de Aragón, tomo I, di Gerónymo Zurita).

Nel suddetto tomo anche leggiamo che il 24 giugno del 1218 il conte Simone IV di Monforte,
nella guerra che lo opponeva a quello di Tolosa per il possesso di questa medesima città, fu
gravemente ferito e ucciso da una pietra lanciata con un congegno lapidante:

… fué herido el conde de Monforte de una piedra que tiró una machina que le abrió la
cabeça y luego espiró. (Ib.)

Ormai, nel Basso Medio Evo, si era preso a definire impropriamente machinae anche briccole
e mangani, ma non le antiche balliste (… Veneti cum machinis & baliftis eos rétrocedere
faciebant. Andrea Dandolo, Chronicon. LT. X, c. VIII, p. VIII).
Un altro importante personaggio ucciso da un congegno litobolico era stato Stefano
Contostefano, il comandante in capo dell’esercito bizantino che nel 1149 aveva assediato
Corfù per riprenderla al re di Sicilia Ruggiero il Normanno, il quale aveva da qualche tempo
occupato quell’isola (Niketas Koniatos, Storie. Manuele I Comneno, lt.II); egli era stato ferito a
morte da un un frammento volante di una scala d’assedio colpita da una grossa pietra.

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All’assedio del castello di Bedford del 1224, atto finale della prima guerra inglese dei baroni
(1215-1224), gli assedianti lo battevano con congegni lapidanti da tutti e quattro i punti
cardinali e i manganelli ne sfondavano le mura:

… Ex parte orientali fuerat una petraria et duo maggunella, quae cotidie turrim infestabant, et
ex parte occidentis erant duo maggunella, quae turrim veterem contriverunt; et unum
maggunellum ex parte australi et unum ex parte aquilonari, quae duo in muris sibi proximis
duos introitus fecerunt… (Annales monastici. Vol. III, p. 87. Londra, 1866.)

Come ricaviamo dalla lettura del Lipsius, nel Basso Medioevo si continuò a usare, anche se
impropriamente, pure il nome latino tormenta per i nuovi congegni ossidionali lapidanti, ossia
per le petrarie, nome, anche questo generico, con cui, come abbiamo già detto, allora si
indicavano i mangani o trabocchetti e le briccole, differenziandoli quindi dalle sole catapulte o
algarrade, congegni questi saettanti e azionati, come sappiamo, dallo sprigionarsi d’energia
accumulata con l’avvolgimento elastico di grosse corde, le quali, mentre gli onagri erano stati
ormai da tempo sostituiti dalle più potenti macchine lapidanti a contrappeso, si continuarono
invece correntemente a usare fino al quattordicesimo secolo, cioè finché non furono
anch’esse rese obsolete dall’invenzione delle canne da polvere - o ‘armi da fuoco’, come
impropriamente sono oggi dette, perché in realtà, quando furono inventate, già esistevano
delle armi che erano veramente ‘da fuoco’, in quanto emettevano materie infocate e
incendiarie, cioè i sifoni o trombe di galea, e non già palle di pietra o metallo come quelle.
Scomparsi erano invece ormai i nomi, anche latini, di aedificia e aedificatores, mentre quello
di ingenia era rimasto, per esempio, nei ctm. ginys ed enginyadòrs (tlt. ingeniatores), nell’it.
ingegnieri, termini questi ultimi che non avevano allora il significato che hanno oggi, ma che
erano soprattutto usati per indicare gli addetti ai predetti congegni e, per quanto riguarda
costoro, c’è anche da notare che essi erano definiti anche opliti, cioè protetti da un pesante
armamento difensivo, e ciò era normale in persone che, dovendo lavorare manualmente al
cospetto del nemico, di conseguenza non potevano né guardarsi adeguatamente dai colpi né
tanto meno usare uno scudo per proteggersi; ecco infatti quanto, tra l’altro, si legge nella
sommaria descrizione dell’esercito di Andronico III Paleologo attivo nel 1322, cioè nel corso
di quelle guerre civili bizantine, a proposito dei ballistari (gr. ϰαταπελταφέται, ϰαταπαλταφέται;
grb. ϰαταπελτισταί), cioè degli addetti al maneggio delle catapulte:

… trenta opliti che lanciavano dardi con le macchine, dei quali quello che fosse più preciso
degli altri nel lanciare veniva festeggiato… (ὁπλῖται τε οἱ ἐϰ μηχανῶν ἀφιέντες βέλη τριάϰοντα,
ἐξ ᾧν εἷς ἐπὶ τῷ εὑστόχως τῶν ἅλλων μᾶλλον διαβεβόητο βάλλειν· Giovanni VI Cantacuzeno,
Historiarum libri IV. I, 29.)

67
Andronico disponeva anche di un ingegniero tedesco molto esperto di costruzione di elepoli e
infatti poco più tardi, all’assedio di Filippopoli, ne costruirà una che portava cento uomini e
che per spostarsi aveva bisogno di ben 16 ruote (ib. I, 36). Naturalmente nei medi e penultimi
secoli del Medio Evo principi e repubbliche si contendevano i migliori tecnici di congegni
litobolici così come in seguito faranno con i migliori fonditori e i migliori cannonieri; ne
abbiamo un esempio nella guerra che attorno all’anno 1200 fu combattuta tra l’imperatore di
Bisanzio Alessio IV Angelo (1182-1204) e il suo ribelle Criso, un vassallo che si era
impadronito di Prosaco e Strumize in Tracia. Assediando la prima Alessio si rese conto che il
nemico reagiva con pericolosi congegni petrobolici, in quel caso particolarmente efficaci
nell’uso anti-ossidionale perché posti in posizione elevata rispetto al suo campo assediante;
infatti Criso in precedenza gli aveva tolto, facendolo passare al suo servizio, il migliore dei
suoi architetti di congegni petrobolici, essendo rimasto costui scontento del servizio
dell’imperatore perché non gli era stato pagato lo stipendio pattuito:

… c’era colà altresì il migliore degli architetti che dirigeva i lanci di pietre, avendo predisposto
sia un ‘giunco roteante’ (‘mazzafrombola meccanica’) sia una frombola (‘frombola
meccanica’, briccola)… [ἦν γὰρ ϰαὶ ὁ ταϊς τῶν πετρῶν ἀφέσεσιν ἐφεστὼς ϰαὶ τὸν λύγον
περιάγων ϰαὶ τὴν σφενδόνην διατιθεὶς ἐν μηχανουργοἵς ἄριστος (Niketas Koniatos, Storie.
Alessio IV Angelo. lt. III)].

Premesso che, pur non avendoci il Koniatos tramandato il nome del suddetto esperto
artefice, poteva ancora trattarsi di quell’Andronico più sopra già ricordato al servizio di
Manuele I Comneno, c’è da capire che cosa poteva intendere questo autore per ‘giunco
roteante’ e ‘frombola’; ora, mentre in questa si può senza troppo dubbio ravvisare una
‘frombola meccanica’, ossia una semplice briccola, in quella, dato l’asserito movimento
roteante del braccio che scagliava la pietra o il carico di pietre, possiamo invece vedere
un’evoluzione dell’antico onagro, cioè di un congegno a propulsione streblomatobolica, ossia
a retrosvolgimento di funi elastiche, in quanto la roteazione richiede un’energia propulsiva più
protratta nel tempo di quanto offra la semplice spinta di contrappeso. Nel 1453 tra i difensori
dell’assediata Costantinopoli e per la precisione tra quelli del quartiere detto ‘dei caligarî’’,
cioè dei fabbricanti di calzature, troveremo un altro esperto di macchine al soldo dei bizantini
e cioè un certo Giovanni Germano (forse ’Johannes Hermann’, un altro tedesco. Giorgio
Franzes, cit. LT. III, cap. III).

68
Capitolo III.
Le canne da polvere dette lombarde, pommarde e infine bombarde.

In sintesi, prima dell’avvento delle canne da polvere o lombarde, i grandi strumenti bellici del
Basso Medioevo si dividevano in tre categorie: le machinae, cioè le costruzioni in legno tipo
le gatte (‘arieti mantellati’), le vigne, i buttifredi, cioè le già ricordate grosse torri cilindrate
d’accostamento alle mura nemiche dette dagli antichi greci e dai bizantini elepoli (ἐλέπόλεις –
nome derivante forse da quello dell’antica città egiziana di Eliopoli - o più semplicemente
πύργοι), le quali negli assedi terrestri erano perlopiù armati di un ariete alla loro base, ma,
assediandosi una città dal mare, si montavano, prive sia di ariete sia di ruote, ma a quattro
piedi di sostegno e mai a tre soli, anche sulle coperte delle navi maggiori, come già detto, e le
bastìe (‘fortini’), gli ormai sempre più rari ingenia o tormenta, ossia le lanciatrici di dardi e
pietre che sfruttavano l’energia sviluppantesi dalla tensione o dalla tensione o o
retrosvolgimento di grosse corde fatte perlopiù di sparto o di tendini d’animali e i mangani o
trabucchetti, vale a dire le lanciatrici di pietre a contrappeso; ma nessuno d’essi prese mai il
nome di artiglieria [corr. dell’afr. attilerie; tlt. attil(i)eriae], termine generico che nel Medioevo
significava l’armamentarium complessivo portato al seguito d’un esercito e che s’incomincerà
a trovare sporadicamente attribuito anche al genere delle canne da polvere solo dal secondo
quarto del Quattrocento in Francia, per esempio negl’inventari del castello di Sainct-Anthoine
di Parigi del 1430 (artillerie et canons) e 1435 che leggeremo più avanti e, per quanto
riguarda la Spagna, abbastanza più tardi, cioè nella Crónica di Álvaro de Luna all’anno 1453
(pertrechos é artilleria. P. 342. Madrid, 1784), né tanto meno quello, per tre secoli unico
ortodosso in Spagna, di lombarderia, nomi ambedue portati dall’introduzione delle bocche da
fuoco, le quali nel secolo precedente, a seguito dell’invenzione della polvere pirica [fr.
pou(l)dre à canon], a detti ingegni di legno si era incominciato ad affiancare, come appunto
leggiamo nel Chronicon del de Redusiis laddove si narra della guerra veneto-genovese per
Chioggia (1378-1381):

… Fecit bombardas atque machinas erigi contra Feltrum… (LT.A. Muratori. Cit. c.754, t. XIX.)
… Et, fixis bombardis ac machinis erectis, die noctuque non cessabat contra Mestre
projicere… (ib. C. 764)
… Illa namque die elevati sunt in litore Clugiae parvae duo mangani per gentem Carrigeri et
Januensium rotantes saxa… Nec non plantaverunt plurimas bombardas etiam per costam, ut
supra lapides corrotantes (ib. C. 773).
… Nam vi magna expugnata est chocha illa cum bastita, manganis atque bombardis illa
numquam fallentibus, et importune ac immisericorditer decertantibus (ib.).
… adactis atque plantatis bombardis praemaximis et itidem machinis… (ib. C. 786.)

69
Solo sei anni prima però, nel 1372, cioè allo scoppio della prima guerra tra Venezia e
Padova, nel Veneto di bombarde ancora non si parlava:

Nel 1372 alli 13 di Decembre la Torre del Coran […] fu assalita da’ veneziani con dieci galere
e molte piatte e burchi con manganelli e ponti disnodati ed infinite gondole con molti
balestrieri sopra, sotto la condotta di Michele Delfino… (Daniello Chinazzo, Cronaca della
guerra di Chioza etc. In LT.A. Muratori- Cit. C. 705, t. XV. Milano, 1727.)

Molto interessanti qui i burchi armati di manganelli ossia di congegni lapidanti. Si dirà invece
di bombarde l’anno seguente nei conflitti feudali del Regno di Napoli e in particolare nella
repressione regia della ribelle Teano:

… Alli 1373 di aprile lo campo (‘l’esercito’) andò a Teano e furono fra li fanti e cavalli 12mila
persone, delle quali era capitanio messer Giovanni Malatacca […] Dentro Teano era lo Duca
di Andria e la moglie e presto furono fatti tre trabucchi, quali dì e notte tiravano dentro Teano
[…] ma, stando pure ostinato ed essendo combattuto con trabucchi e bombarde e cave da
ogni banda, fe’ pensiero di abbandonare Teano… (An. Diaria neapolitana etc. In LT. A.
Muratori. Cit. C. 1.036, t. XXI. Milano, 1732.)

Interessante qui la conferma che trabucchi e grandi congegni lapidanti in genere si


‘facevano’, cioè si costruivano, sul posto all’occorrenza e solo raramente se ne trainavano di
già costruiti, ma comunque da montare, in non lontani teatri di guerra. Per esempio era stato
costruito sul posto uno molto grande usato nel 1382 all’assedio di Oudenaarde durante le
guerre civili di Fiandra:

… e che quelli di Gant si sforzassero di fare, lavorare e sagonare sul monte d’Audenarde un
congegno meravigliosamente grande, il quale avesse venti piedi di larghezza e venti
d’altezza e 40 piedi di lunghezza e tale congegno si chiamava ‘montone’, in modo da gettare
pietre da fatti d’arme nella città e far crollare tutto (Jean Froissart, Chroniques. LT. II, par. 88,
p. 248. Parigi, 1897).

Ma, per tornare all’introduzione delle bombarde per quanto riguarda Venezia, si comincerà a
parlare del loro uso non prima di avvenimenti del 1376, cioè in relazione cioè alla guerra
austro-veneziana:

Giacomo de’ Cavalli, veronese, fu fatto capitano generale de’ veneziani […]
Quelli di Feltre e di Cividal […] mandarono due bombarde, una sul monte di Corveta, l’altra
su la strada appresso la chiusa vecchia, chiamata ‘la Moschetta’ […]
Il Cavalli […] prese la Montada e prese insieme le due bastie (‘forti di legname’) di Quero per
forza di bombarde e di battaglia da mano […] fu combattuto il castello di S. Vettore e per
forza di mangani, bombarde e battaglia da mano fu ottenuto […] passò poi il campo
veneziano sotto Feltre e, stando nel Vescovado, si cominciò a bombardar la città ed andarle
sotto con mangani… (ib. C. 709-710.)

70
Due colonne dopo (C. 712), arrivati ormai al 1376 e quindi ai prodromi della guerra di
Chioggia, troviamo addirittura l’incredibile espressione molte cannonate d’artiglieria,
espressione assolutamente non credibile perché di secoli più tarda, e quindi riteniamo
indiscutibile che, non essendosi evidentemente mai trovato l’originale in latino, il Muratori ne
abbia solo reperito e pubblicato una moderna traduzione in volgare. Dimostra ad
abundantiam quanto predetto anche la circostanza che il Chinazzo era trevigiano e che un
trevigiano non avrebbe mai usato l’ispanismo galere bensì l’italico galee, alla veneziana; si
aggiunga che i d’Oria sono qui chiamati sempre modernamente ‘Doria’, corruzione che nel
Medioevo non si era ancora affermata. Peccato, veramente peccato, perché, leggerne il
linguaggio originale, ci avrebbe sicuramente non solo permesso di scoprire cose molto
interessanti, ma anche di evitare appunto la fatica di doverne ravvisare e rigettare
modernizzazioni fuorvianti.

(Anno 1378:) … ed alli 5 luglio il capitano del signor di Padova mise campo a Mestre […] e al
circondò da tutti i lati, accioché veneziani non potessero soccorrerla, battendola con e e
mangani… (Ib. C. 714.)

Anche qui, quel battendola non è credibile, come non lo è quel navi grosse armate da
battaglia che troveremo più avanti alla c. 723, in quanto pur esse locuzioni del tutto moderne;
lo stesso dicasi dei sopracomiti, titolo allora non ancora esistente e che ricorre anche alla c.
761, e del cognome de Oria qui già volgarizzato in Doria, cambiamento che avverrà invece
dopo il Rinascimento; ci piacerebbe poi sapere quale termine latino fu tradotto con galeotta a
c. 764 e 770. Insomma questa unica, famosa relazione della guerra di Chioggia, essendo
così infedelmente tradotta, va letta cercando di interpretarla priva dei neologismi.

… Alli 23 aprile (1380) un’hora innanzi giorno genovesi uscirono di Chioza con una
grossissima brigata […] assaltarono le sbarre del campo (veneziano) […] bruciarono una
bastiola, nella quale erano le bombarde, e così i cavalletti di quelle; e con le mannare
guastarono le casse del mangano… (ib. C. 761.)

Premesso che si tratta qui ancora, purtroppo, della suddetta infedele traduzione in volgare e
non dell’originale in latino, sono molto interessanti due particolari; il primo che le bombarde
appaiono già d’uso comune in quanto incavallettate e inoltre non grosse, perché altrimenti
poggerebbero su zocchi o rozzi affusti; il secondo, che il mangano ha due casse, cioè uno di
quei grossi trebuchets che i francesi chiamavano couillards (‘dai grossi testicoli’). Inoltre, a c.
769 si parla di rochette (‘razzi’) lanciate dai veneziani a scopo incendiario contro la sommità
di una torre tenuta dai nemici genovesi:

71
… E furono tirate molte rochette su la cima della Torre e, tra le altre, una che impizzò il
colmo, che mai poterono estinguere il fuoco (ib. C. 769).

Un altro esempio dell’uso incendiario dei razzi si vedrà all’assedio della sforzesca Castione
delle Stivere (‘Castiglione delle Stiviere’) posto dai veneziani nel gennaio l’anno 1453:

… deliberarono di trarre il fuoco nel ricetto di Castione per la moltitudine del fieno che v’era; e
lì trassero molti rochetti, che appicciarono sì grandissimo fuoco che per forza si convennero
arrendere (Cristoforo da Soldo, Memorie delle guerre contra la signoria di Venezia etc. In LT.
A. Muratori. Cit.. C. 877, t. 21. Milano, 1732).

Ma, per tornare alla suddetta relazione della guerra di Chioggia, troviamo ancora un po’ più
avanti (c. 784) mangani in azione all’assedio padovano di Asolo (aprile 1781):

… Il signor di Padova […] mandò Ugolino de’ Ghislieri bolognese con molta gente da
Bassano e da Romano […] ed Ugolino si accampò nel borgo, manganando e bombardando
esso castello e fece una cava, mettendoli il muro sopra ponte (‘tronchi appuntiti’) che lo
sostentavano; e, rompendo i mangani molte case, s’avvide il podestà che quel muro era in
mali termini e […] si rese a patti…

In verità la prima menzione delle bombarde che si trovi nella prosecuzione del Chronicon di
Andrea Dandulo riguarda sì l’anno 1378, ma precede di qualche mese l’inizio della guerra di
Chioggia; vi si parla di colpi di bombarda d’ammonimento che galere veneziane tirarono
contro la citta di Jadra (lt. Jadera, oggi Zara), città allora ribellatasi alla Serenissima (…
portum et civitatem stimulantibus cum bombardis. In A. Dandulo, Chronicon, In LT. A.
Muratori. Cit. C. 445m, t. XII: Milano, 1728). Appare comunque un contestuale uso delle
bombarde anche in un differente teatro di guerra, come si legge nel Chronicon ariminense di
anonimi, e cioè all’assedio posto nel 1378 a Cesena da Galaotto Malatesta:

… E assediò intorno il castello di cesena e fe’ fare di fuori due fossi con due palade intorno e
poi cominciò a fare quattro cave sotto il detto castello. Poi gli fe’ dirizzare cinque trabucchi e
bombarde e balestre infinite, che dì e notte non finivano (In LT.A. Muratori. Cit. C. 921. T. XV.
Milano, 1727).

I congegni lapidanti si erigeranno contestualmente alle canne da polvere ancora nel


Quattrocento e vedi infatti nel summenzionato Chronicon del de Redusiis, alla fine dell’anno
1426, quando cioè Francesco Bussone, conte di Carmignola e capitano generale (gr.
στρατηλάτης) dell’esercito della lega stretta tra Venezia e Firenze, dopo aver preso la città di
Brescia, assaltò il suo Gran Castello ancora tenuto dagli sforzeschi e lo costrinse al capitolato
di resa del 10 gennaio successivo:

72
… bombarde e macchine non cessavano di bersagliare giorno e notte il castello, contro il
quale in una sola notte furono lanciate 200 pietre dalle bombarde senza contare quelle delle
macchine… (ib. C. 857.)
… et ibi die noctuque impugnans vi machinarum atque bombardarum… (ib. C. 864.)

Prese poi il Carmignola altre località minori, tra cui Brescello e Casal Maggiore, cum
bombardis et aliis bellicis instrumentis (ib. C. 860.) Il coesistere delle due artiglierie si legge
anche nel Chronicon ariminense di anonimi all’anno 1444:

… A dì XI del detto (giugno) si partì il nostro magnifico signore m. Sismondo Pandolfo de’
Malatesti d’Arimino con tutte le sue genti da cavallo e da piè ’e con bricole, bombarde e
mantelette per andare a campo alla Tomba (oggi ‘Ca’ Tomba’) che se gli era ribellata (in
LT.A. Muratori. Cit. C. 948, t. XV. Milano, 1727.)

E poi all’anno 1446, sempre nell’ambito del secolare conflitto italiano tra guelfi e ghibellini,
laddove si narra del fallito assedio sforzesco portato al castello malatestiano di Gradara:

… A dì XXVII detto (‘novembre’) si partì il conte Francesco Sforzia da campo da Gradara,


che lì era stato quarantadue dì, e si partì con poco onore e furongli mori molti uomini d’arme
da piè e da cavallo del detto conte, e (questo anche se) sempre di notte le bombarde
traevano; e diegli il guasto, che non vi rimase frasca sopra la terra per isdegno che non
l’aveva potuta avere, e diegli molte battaglie; e gli uomini del detto castello, sempre solleciti
co’ i ripari, portaronsi valentemente. Il qual castello si è del prelibato signore misser
Sismondo Pandolfo (Malatesta) prenominato, e fu tratto al detto castello dal detto
contequattrocentoquarantasei pietre tra grandi e piccole, tutte (di) bombarde; e vi furono
morti di quelli di dentro circa quindici persone. E quelli di dentro fecero una briccola, che dì e
notte briccolava il campo, e ammazzarono molte persone del detto conte (ib. C. 958).

Insomma una sola ben fatta briccola ebbe in questo caso ragione di molte bombarde; ed
eccoci ora, per altri esempi, al 1453, cioè agli assedi veneziani di Manerbio e di Quinzano:

… A dì 14 di marzo andarono a campo a Manerbio con forse mille cavalli e duemila fanti e
mille saccomani a piedi; e fu necessario, pe’ soldati ch’eranvi dentro, menarvi cinque
bombarde e una briccola, in modo che a dì 18 detto l’ebbero a patti, salvo la roba e le
persone…
La mattina si levarono e andarono a campo a Quinzano. La notte vi piantarono le bombarde,
tre grosse e una briccola e, per far presto, fu necessario mandarne altre due grosse…
(Cristoforo da Soldo, Memorie delle guerre contra la signoria di Venezia etc. In LT. A.
Muratori. Cit. C. 878- 879, t. 21. Milano, 1732).

Ma, ritornando ora al predetto Chronicon ariminense:

… A dì XII del detto (luglio 1447) passarono per Arimino le bombarde del conte Francesco
che venivano da Pesaro e condussonle cinquanta paja di buoi per fino fuori dalla Porta di
San Giuliano; e lì era la bombarda chiamata ‘la Contessa’ e una bronzina, la quale andava in
Lombardia (Cit. C. 959).

73
Non conosciamo la storia di questa grande bombarda detta la Contessa (dal lt. comitissa) e
se fosse stata costruita a Pesaro; certo è che c’è, come si sa, in quella zona d’Italia una
strada omonima che unisce l’Eugubino alle Marche centrali e che potrebbe forse aver preso
quel nome proprio da quella grossa artiglieria, nel senso che potrebbe esser stata
originalmente tracciata o successivamente ampliata da guastatori militari proprio per
agevolarne il difficoltoso traino in campagna. Bronzine si dicevano allora, nell’Italia centro-
settentrionale, le artiglierie fatte di bronzo e non semplicemente di ferro colato o battuto come
le bombarde; a proposito invece dei guastatori, diremo che essi erano stati in origine
semplicemente i contadini obbligati dai loro principi e signori a seguire l’esercito per fornire
appunto soprattutto quei servizi di sterro e di interro che gli antichi soldati romani si facevano
da sé, ma che nel Medioevo, ridottosi di molto il ruolo e la disciplina della fanteria, i soldati
non erano più disposti a fare. Il primo uso di questo termine ‘guastatori’ che ci è stato dato di
trovare si trova in una nota del Codice Ambrosiano riportata dal Muratori e riguarda l’esercito
che Venezia mandò a reprimere la ribellione di Trieste del 1369 (A. Dandulo, Chronicon. In
LT. A. Muratori. Cit. C. 432, t. XII. Milano, 1728).
Le cose ultimamente dette trovano conferma anche nei documenti medievali, specie
comaschi, pubblicati da Angelo Angelucci (Documenti inediti per la storia delle armi da fuoco
italiane etc. Torino, 1869), e inoltre ben si arguisce dalle cronache, per esempio in quella
suddetta di Álvaro de Luna, laddove narra dell’assalto dell’esercito castigliano alla città di
Atienza nel 1446 (las lombardas è engeños que el rey tenia. P. 168.), narrazione ripresa dallo
Zurita (y combatieron el castillo con diversos trabuscos (sic) y lombardas. T. 2-1, c. XLI).
Olav Månsson (Olaus Magnus) scriveva che nell’Europa scandinava il congegno lapidante a
contrappeso si chiamava Blida e lo descriveva brevemente due volte:

… Appresso li gothi ancora si truova (‘trovava’) un altro modo di tirare e questo è un


instrumento di legno, posto in alto, il quale, a guisa d’una bilancia che sia elevata o calata in
basso, pieno di gravi sassi, e poi con violentissimo impeto e gravezza lasciano andare dentro
a le rocche ed a le mura grossi sassi overo cadaveri d’animali putridi fa cadere. E questo
vulgarmente dali sueci e da li gothi è detto ‘blida’ […] Con le pecosse dunque di tale
istrumento, circa gli anni del Signore MD li gothi meridionali, ne la terra detta Calmernia,
premevano assai gagliardamente il presidio di Giovanni re di Dania e finalmente (lo)
supperarono (Historia delle genti e della natura delle cose settentrionali etc. Venezia, 1565.
LT. IX, cap. X, p. 106).
… Un’altra sorte di tormento bellico si ritrova, assai più antico, il quale è così fatto. Tra due
alti ed elevati travi, a guisa che sarebbe una bilancia, e nel mezo sospeso, di cui l’una parte è
legata in terra overo in basso; la quale ha una borsa fatta di due o tre pelli di bue e di corde, a
guisa che vediamo le frombe di cuoio da tirare sassi; la quale, piena di putridi cadaveri, cioè
di cavalli o di cani o di sassi o di palle di ferro, sciogliendo li lacci che la ritengono, una parte
dove è il grave peso legato, con un grande impeto al destinato luogo de la rocca o della città
ne gli assedij per aere scaglia tutto quello che in sé ritiene. E questo tale istrumento in lingua
volgare gothica è detto ‘blida’… (ib. LT. XI, cap. XXXIV, p. 141.)

74
Riteniamo però che, più che scandinavo, il termine doveva essere germanico in senso lato,
perché lo troviamo usato anche in Italia e vedi e.g. il patavino Rolandino nel suo De factis in
marcha tarvisina libri XII (1180-1260). LT. V, cap. XV.In colt. 245.), laddove, narrando dei fatti
belllci di Ezzelino da Romano, scriveva:

… Ma mentre Ezzelino assaliva con molta forza Anoale con blide ed altri strumenti e già
aveva diroccato il Palazzo dell’abitato (Dum autem Eccelinus cum blidis et aliis instrumentis
impugnaret Anoale fortissime et jam fregisset Palatium Castri…)

In Italia il termine fu, come già accennato, presto corrotto in bidda (Ingeniae, quae biddae
dicuntur, et manganella fiunt, Imperatore mandante… Riccardo da S. Germano, cit. All’anno
1239.) Ma dove si può trovar traccia, nella storia medievale, di un primo uso di congegni a
contrappeso, la quale possa così indicarci con buona approssimazione l’epoca in cui
cominciò ad avvenire il passaggio dalle tecniche ossidionali dell’Evo Antico e dell’Alto
Medioevo a quelle, molto più efficaci, del Basso Medioevo? Noi la ravvisiamo in Paolo
Diacono (720-799), laddove questo storico narra dell’assedio bizantino di Benevento
avvenuto nel 663 e in particolare di quando l’imperatore Costanzo fece lanciare nella città,
appunto con un congegno a contrappeso, la testa di Sesualdo, colpevole di aver tradito la
sua fiducia:

… Cumque hoc dixisset, iussu imperatoris caput eius abscissum, atque per belli machinam,
quam petrariam vocant, in urbem proiecta est (De origine et gestis regum langobardorum libri
VI. Libro V, cap. IV, fo. XXVI).

Dunque, anche se il principio del lancio da contrappeso veniva dall’antichità, come abbiamo
già letto e come era del resto logico, i bizantini sarebbero stati i primi a farne finalmente un
deciso e fortunato uso pratico. Sembra poi esserci un buio di diversi secoli, perché, almeno a
quanto risulta a noi, si passa direttamente alle storie di Roger di Wendover (?-1236), laddove
narra dell’assedio di Gerusalemme del 1099 e scrive che i turchi assediati avevano solo
balistae, ossia gli antichi congegni petrarei e giaculatori a contorsione (tlt. da lt. contortione),
mentre i crociati, oltre a questi congegni contorquentes o retorquentes, avevano anche le più
moderne fundae o trubucula (trabucchi minori, briccole) con le quali lanciavano grosse pietre
capaci di diroccare le deboli fortificazioni medievali:

… Alii vero infra machinas et castella constituti, cum petrareis et trubuculis molares maximos
et lapides damnosos ad moenia dirigentes, ipsa collisione assidua et ictibus ingeminatis
debilitare et ad casum impellere satagebant; alii cum minoribus machinis (quindi baliste e
onagri) lapides leviores ad illos, qui in propugnaculis stabant, contorquentes, a nostrorum

75
infestatione compescere nitebantur… (Chronica sive Flores Historiarum. P. 137-139. Londra,
1841)

Ma avevano i cristiani montato anche un grande trabucco che lanciava pietre di grossissimo
peso, quali erano per esempio le mole asinarie:

… Erat tamen una ex machinis nostris, quae saxa miri ponderis in urbem multa violentia
remittebat… (ib.)

Narra il cronista che, non riuscendo gli assediati turchi in nessun modo a neutralizzare questo
gran congegno con i normali sistemi, cioè in pratica con tentativi di incendiarlo, provarono
curiosamente con il fare scongiuri e il lanciare malefici dall’alto delle mura, ma anche in
questo caso, ovviamente, senza successo.
Il passaggio di cui parliamo fu comunque lento e infatti troviamo, ancora nel 1356 e a
proposito d’un incendio notturno allora scoppiato nel palazzo del Comune, conservate
appunto nella masseria comunale (‘magazzini del Comune’) di Bologna grandi e costose
balestre da posta:

… e nella sala di sopra era mille balestra e molte casse di giurittoni (‘verrettoni’) e pavesi ed
altre armature, fra le quali balestra ve n’era 10 fatte al torno (‘grandi, caricabili a mulinello’) e
si ve n’era molte che gittavano tre giurittoni e tra quelle v’era delle balestra che si guadagnaro
a Monte Catini; e tutte arsero (Annali senensi di Neri di Donato ecc. C. 150. Cit.).

Lo stesso suddetto episodio si trova ripreso nella Cronaca pisana di Ranieri sardo (A.S.I,
tomo VI, parte seconda. Firenze, 1845). Nel Chronicon di Domenico da Gravina, il quale
narra di guerre del suo tempo e cioè di quelle che alla metà del Trecento si combatterono,
perlopiù in Puglia, tra Giovanna I d’Anjou e la Casa d’Ungheria per il dominio del Regno di
Napoli, decrivendosi gli assedi, non ancora si menzionano armi da fuoco ma solo baliste e
trabucchi e si distinguono in maniera da confermare ancora una volta che le prime non
lanciavano pietre ma dardi (balistis et lapidibus; trabuccorum ictibus lapidum nec etiam
balistarum, ecc. In Chronicon. In L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores etc. Milano,
1728) .
In un noto e importante inventario d’armamenti del 1381, documento in latino che abbiamo
qui ripreso dal Bonaparte, non essendoci riuscito di leggerne la coeva pubblicazione fatta
dell’Angelucci, troviamo coesistere bombarde e balestre da postazione, trattandosi di quanto
trovavasi allora nella massaria (‘magazzini d’ammasso’) del comune di Bologna; in detto
documento non si parla di congegni a contrappeso, ma solo perché generalmente non si
conservavano nelle armerie e ciò sia per le loro eccedenti dimensioni sia perché, non
essendo fatte di congegni delicati e deteriorabili come invece erano le più antiche baliste e
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onagri, s’usava di costruirle al bisogno e, possibilmente, nei luoghi d’uso medesimi. Però in
un altro inventario riguardante li stessi locali, ma meno vecchio di 16 anni, non si rinviene più
traccia d’uso di baliste grosse e quindi fu probabilmente in quel lasso di tempo che a Bologna
si dismise l’uso dei congegni da getto antichi e basso-medievali, uso ora quindi del tutto
sostituito da quello dei suddetti congegni a contrappeso. Riportiamo qui di seguito i detti
inventari dalla pubblicazione fattane appunto dal Bonaparte, ma li riportiamo tradotti in
volgare e da noi opportunamente commentati:

- 295 pietre da bombarde.


- 34 pietre marmoree da bombarde.

Il marmo era più pesante della pietra ma anche più frangibile.

- 4 pietre per lavorare all’ufficio delle bombarde (cioè ‘4 pietre da arrotondare’).


- 4 code (canones) da bombarde tra i quali uno è di rame senza ceppo (’senza zocco di
legno’)
e gli altri con ceppi ferrati.
- 2 quintane da festeggiamenti (‘quintaneas a bagordando’).

Forse, poiché si trattava sostanzialmente di scudi di legno, le usavano come bersagli per le
prove di bombarde.

- 2 carretti da bombarde con due ruote per qualsiasi (‘per qualsiasi d’essi’).

Doveva trattarsi di bombarde piccole, se bastavano carrini a due ruote; d’altra parte i tempi
non ancora producevano le grandi bombarde che vedremo poi nella seconda metà del
Quattrocento.

- ‘Unam bancam a carregando balistas’.

Se erano queste baliste che avevano bisogno di un banco per essere caricate, allora vuol
dire che non si trattava certamente di piccole balestre da fanteria.

- ‘Unum scannum a bombardis cum uno police’ (‘un cavalletto da bombarda con una
puleggia’).

Se da cavalletto, doveva esser dunque una bombarda piccola, ma, a quanto pare, non tanto
leggera da non aver bisogno di una puleggia da sollevamento.

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- Un cannone di rame da bombarde dal peso di 361 libbre.

Si tratta di quello che in italiano si chiamava, oltre a cannone, anche coda, cioè del pezzo
posteriore dei due di cui generalmente una bombarda era fatta, pezzo che i francesi
chiamavano invece chambre (‘camera’); ci sembra però dubbio che queste code fossero solo
di malleabile rame e cìè da ricordare che allora si definiva talvolta semplicemente ‘rame’
anche quello in lega con lo stagno, ossia il bronzo.

- 65 stili di ferro a mo’ di uncini dal peso (complessivo) di libbre 142.

Si trattava degli stili, detti anche aguggie, con i quali si portava il fuoco al focone delle
bombarde.

- Una capra (‘taglia a briccola’) di ferro dal peso di 20 libbre.

Punto interrogativo per questa voce, perché le capre da sollevare artiglierie si facevano di
legno, non di ferro e comunque questa ci sembra troppo leggera per avere quella funzione.

- 14 pali di ferro dal peso (complessivo) di libbre 310.

Si trattava dei pali da usare per far leva nel sollevamento posteriore delle bombarde.

- ‘Duas dalaturas (‘talaturas’) de ferro’ (‘due bilance di ferro’ per pesare i proiettili e le polveri;
dal lt. tollo, ‘sollevo’).

Da qui quindi anche taglia (‘macchina a due carrucole per sollevare le artiglierie’. Dal gr.
τάλαντα, ‘bilancia’; lmb. taglià(ra).

- 170 cocconi lignei da bombarda.


- 54 pallotte di ferro da bombarde libbre (totali) 374.

Qui quel da bombarde è improprio perché queste sparavano proiettili più leggeri, cioè di
pietra o al massimo di marmo; dovevano esser dunque proiettili di ferro per artiglierie
propriamente dette, ossia per monofusioni, cioè per quei mortai ante litteram che nel
Trecento chiamavano troni, cioè ‘tuoni’ e, per sineddoche, anche ‘fulmini’, specie a Napoli:

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Accadde uno prodigio de male augurio; un catalano, che haveva in guardia la torre del
campanile del Carmelo, mandò un suo saraceno a remettere la bandera che’l vento haveva
buttata in terra e, come fo ad alto, un trono l’uccise e buttaje a terra una banda del campanile
con la bandera… (Diaria neapolitana etc. In LT. A. Muratori. Cit. C. 1.059, t. 21. Milano,
1732.)

E ancora:

Il primo de jennaro 1395 caddero troni de fuoco dal cielo, (il) che in Napoli diede timore
grandissimo ed in molte altre parte (ib. 1.065).

Ma torniamo al predetto inventario:

- 16 pallotte di ferro da bombarde dal peso (complessivo) di libbre 300.

Queste poi sono palle di ferro da quasi 20 libbre l’una! Ma i suddetti troni potevano, come
presto vedremo, esser anche di calibro tutt’altro che piccolo.

- 385 pallotte piccole di ferro da bombarde per un peso di libbre 235.


- 133 pallotte di ferro da bombarde per un peso di libbre 66.
- 262 pallottedi ferro da bombarde per un peso di libbre 92.
- 60 palllotte di ferro da bombarde per un peso di libbre 46.
- Un barile nuovo di salnitro dal peso di libbre 266.

Si trattava in effetti, dato il peso, non di un barile (vn. vezzotto) ma di una botticella.

- 18 pallotte di ferro da bombarde per un peso di libbre 6.


- Una botticella di polvere da bombarde dal peso di libbre 163.
- Una botticella di polvere da bombarde non buona dal peso di libbre 77.
- 3 pali di ferro (e) due scroccatorie per un peso (totale) di libbre 181.
- 9 scroccatorie di ferro da bombarde.

Il termine scroccatorie ricordava l’uso di un crocco (sp. gafa), ossia d’un gancio, per tendere
la corda di sparto della balestra sino a fissarla alla noce o per liberarla da quella (scroccarla,
da cui i moderni verbi ‘scoccare’ e ‘incoccare’ una freccia) e quindi assimilabile alla seconda
di queste operazioni era lo scaricare, lo sparare la bombarda, il che s’otteneva appunto con
un ferro incandescente inserito nel focone. L’uso lessicale spontaneo di tale similitudine
tecnica è un’altra dimostrazione che siamo qui ancora agli inizi della pirobolia.

- 14 stivatori (‘tassatorias’) di ferro per un peso di libbre 39.

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Si tratta degli stivatori per calcare (‘intasare’; da taso, ‘grumo, mucchio’) cariche di polvere e
proiettili nelle canne.

- 11 letti (‘telerie’) da bombarde vecchi e inutili.


- 14 bombarde nuove corredate (‘fulcitas’; dal lt. fulcio, ‘sostengo’) con misure (‘congiis’, cioè
cucchiare da polvere), letti (‘teleriis’) e code (‘canonibus’).
- 4 bombarde vecchie corredate con cucchiare, letti e code.
- Una bombarda con una coda di rame.
- 9 bombarde da scaramuccia (‘a scaramusando’).
- 2 bombarde (di cui) una con manico di ferro e l’altra senza.
- Una botticella di polvere dal peso di libbre 148.
- Barilotto piccolo con solfo sano dal peso di libbre 18 e mezza.
- Una borsetta (‘taschitum’) di pelle con polvere dal peso di libbre 7 e once 7
- Una borsetta piena di solfo pestato dal peso di libbre 4.
- 3 letti (‘telerios’) nuovi non corredati da bombarde.
- Una celata crestata.
- 3 cervelliere.
- Un cappelletto di ferro.
- 3 scudi di legno.
- 2 scudi castellani (‘chatellanos’, cioè triangolari, nobiliari).
- 8 pavesi vecchi.
- 25 pavesi nuovi.
- 42 cocconi grandi di legno da bombarde.
- 114 cocconi piccoli da bombarde.
- Un pezzo di cuoio da frombole.

Il pavese (dal lt. pavens, ‘temente’) era il grande scudo medievale da difesa statica dietro il
quale il fante poteva appunto ripararsi, laddove appunto ‘temesse’ i colpi del nemico; differiva
da quello dell’antica fanteria romana soprattutto per aver l’estremità inferiore appuntita, da
infilzarsi quindi nel terreno, mentre quello era del tutto rettangolare. Il suo nome non aveva
dunque nulla a che fare con la città di Pavia. Molto interessante è, in quest’inventario, quanto
racchiuso nella stanza della massaria comunale detta Camera a balistis, perché è qui che
troviamo conservato, oltre al materiale per le piccole balestre di fanteria, anche quello
appartenente a più grandi baliste da posta, allora quindi ancora in uso, mentre, almeno a
quanto riportato dalla nostra fonte, cioè dal Bonaparte, non appare sorprendentemente
traccia di congegni lapidanti a contrappeso; bisogna però considerare che che quest’ingegni
generalmente si costruivano al momento e direttamente sul luogo del loro impiego,
utilizzando per esempio antenne di galera e altro legname navale:

- 5.000 verrettoni con ferri (‘punte’), impennati con carta.

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Infatti le penne direzionali dei quadrelli (tlt. quadrella) o verrettoni o moschetti, ossia dei dardi
da balestra, in mancanza di penne naturali, si facevano anche di carta reale, ossia di carta
forte.

- 942 verrettoni in una cassa, impennati con carta.


- 393 rocchette ferrate, cioè con apice di ferro, e impennate di carta, in una cassa.

Si tratta di razzi d’artificio, anch’essi impennati per una migliore direzionalità.

- 315 aste nuove da verrettoni impennate di carta.


- 145 verrettoni impennati con penne d’oca.
- 59 verrettoni impennati di penne d’oca.
- Mille verrettoni vecchi impennati di carta, in una cassa.
- 266 verrettoni dispennati ferrati inutili.
- 120 verrettoni impennati di carta ferrati da balista di due piedi.

Più grossi e lunghi dei verrettoni ordinari, questi erano per quelle più grandi balestre da
fanteria (lt. balistae grossae a turno) da caricarsi tenendole ferme con ambedue i piedi.

- 274 moschette impennate di carta in una cesta.

Questi invece sono dardi da balestra più sottili e leggeri dei verrettoni; infatti ce ne sono ben
274 in semplice cesta e non nelle casse come abbiamo visto dei verrettoni.

- 1190 aste di verrettoni non ferrate, impennate di carta, in una cassa.


- 300 verrettoni da baliste grosse inferrati e impennati in parte di rame (‘de ramo’) e in parte
no, in una cassa.
- 440 aste di verrettoni da baliste grosse in parte impennati di rame e in parte no.

Dunque ai grossi dardi per le balestre da postazione l’impennamento si faceva in lamina di


rame.

- 900 aste di verrettoni di nessun valore, spezzate e distrutte.


- 200 aste da rocchette impennate parte in rame e parte no.
- 3 rocchette impennate di rame e inferrate, cioè con apici di ferro.
- 18 verrettoni vecchi da balista.
- Un verrettore impennato di rame.
- Mille verrettoni impennati di carta, in una cassa.
- 52 verrettoni impennati di carta e inferrati, buoni, in una cassa.
- 123 aste non inferrate e impennate di carta.
- Una nocella (‘noxita’) grande d’osso da balestra.
- 3 nocelle di rame da baliste.
- 39 nocelle da baliste.

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- Un pennone di valesio (‘tela di canapa’) per insegna dei guastatori.
- Un pennone di seta per insegna delle chiavi (‘insegna pontificia’).
- Un letto (‘telerium’) del re Enzio.

Enzio di Svezia, re di Sardegna e figlio dell’imperatore Federico II, nel 1249 era stato
catturato in battaglia dai bolognesi e poi tenuto prigione fino alla sua morte. Un letto da lui
usato, non esistendo allora i musei, era dunque conservato nella massaria comunale, cioè
nello stesso palazzo in cui era stato tenuto prigioniero; ma chissà che non fosse attribuito a
lui solo da una diceria…

- 2 manette (’guanti’) di cuoio da baliste.


- 54 staffe da baliste e da cavalli.
- 100 chiavi da baliste.
- 5 chiavi da baliste.
- 2 verrettoni da baliste grosse (di cui) uno dispennato e l’altro impennato.
- 245 ferri (‘apici di ferro’) da verrettoni.
- 6 manticelli vecchi e distrutti per soffiare nelle bombarde.

Servivano a soffiar via dalle canne i residui di polvere.

- 1.412 frecce impennate e ferrate.


- 1.160 aste da frecce distrutte e inutili.
- 21 baliste (di cui) alcune buone e vecchie con corde e alcune con corde maestre
(’magistris’).
- Una balista nuova grossa di nervo.

La corda era qui fatta non di canapa bensì di nervo d’animale.

- Una balista di nervo da cavallo.

La balestra fu detta a Bisanzio prima τζαγγρατόξον; poi solo τζάγγρας ο τζάγκρας e


χειροτοξοβολίστρα, infine il nome fu definitivamente latinizzato in μπαλαὶστρα ο μπαλέστρα.
In che cosa differisse quella da usare a cavallo non sapremmo dire; certo doveva essere di
dimensioni più compatte per agevolare le molto maggiori diffcoltà di maneggio.

- 126 baliste nuove corredate (‘fulcitas’) con corde e corde maestre (‘magistris’).
- (Voce incomprensibile).
- 50 crocchi da baliste deboli e inutili.
- 12 nocelle, non rifinite (‘non laboratas’), da balista.
- 1.462 ferri da frecce nuovi.
- 2.508 aste da ungaro nuove, in una cassa.

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Voce questa interessantissima perché si tratta di aste nuove, quindi fatte per lance di
cavalleria leggera ungara che, evidentemente, anche Bologna, come faceva l’Impero, in quei
tempi assoldava al suo servizio.

- 29 arconi (tlt. arco-nis, ‘arco’) da baliste piccole.


- 17 letti (‘telerios’) da baliste grosse da nervo, deboli e di nessun valore.

C’erano naturalmente grosse differenze costruttive tra le balestre da corda, cioè a tensione di
corda di sparto, e balestre da nervo, cioè a retrosvolgimento di funi di tendini o crini.

- Due manticelli (‘buffitos’) nuovi da bombarde in una cassa (vedi sopra).


- 11 baliste grosse rotte, distrutte e di nessun valore.
- 68 baliste rotte e distrutte.
- 44 corde maestre (‘magistras’) da balestre grandi e piccole (cioè a caricamento a un piede e
a caricamento due piedi).
- 28 lance inferrate.
- 2 lance inferrate.
- 1 doccia (‘duciam’) chiamata Inghilterra.

In quei secoli ‘doccia’ era solo un termine medico e con esso s’intendeva un bagno
terapeutico fatto con stille cadenti sul capo e non immaginiamo quindi che tipo d’attrezzo
potesse essere questo conservato in un’armeria; bisogna comunque ricordare che vi
abbiamo già trovato un normale letto da riposo. Perché poi il detto attrezzo fosse chiamato
‘Inghilterra’ è difficile da dirsi; forse si trattava di una pratica usata soprattutto dagli inglesi…
- 61 dardi inferrati.
- 20 lancioni ferrati.

I ‘lancioni’ erano quelli usati dalla cavalleria pesante.

Il Bonaparte fa seguire un altro inventario della stessa massaria comunale bolognese, ma


questo del 1397:

- In primis 12 bombarde da secchia (‘bombarde da coda’, cioè di quelle fatte in due pezzi).
mancanti di 2 corregge di ferro, 6 di caviglie di ferro e 5 piattine (‘bletas’) di ferro; due delle
quali sono difettose e rotte.
- Una bombarda integra (‘saldam’).
- 2 bombarde con ceppi (‘zippis’), integre.
- 17 bombarde con code (‘secchis’), mancano 11 piattine di ferro e 2 caviglie.
- 8 bombarde mancanti di 6 caviglie di ferro e di 5 piattine di ferro ed un cippo grande di
legno.
- Un ceppo da bombarda con corregge di ferro.
- Una bombarda piccola con manico rotto.
- 7 bombarde con letti.
- Una bombarda piccola con pietra e ceppo.

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- 4 schioppi piccoli in un solo letto (‘telerio’).

Ecco un primo esempio di organo da polvere, ossia di bocca da fuoco multicanne.

- 34 schioppi con ceppi (‘manici’).


- 7 schioppi senza letti (‘teleriis’).
- Uno schioppo piccolo da cavalletto e senza cavalletto.

Si poteva cioè usare in ambedue i modi.


- Uno schioppo con letto.
- Uno schioppo di ferro con ceppo.
- 8 schioppi di ferro dei quali tre sono da mano (‘a manibus’).

Insomma questi schioppi da mano sono quelli che poi, a partire dal secolo seguente, si
diranno spingarde, se con caricamento posteriore da camera, e colubrine o ancora schioppi,
se con caricamento anteriore ordinario.

- Un letto con due cannoni (‘canonis’, ossia code di bombarda).


- Un letto con due schioppi.

Due altri esempi di multicanne, il secondo antenato dei ribadochini, come vedremo.

- Un cannone per bombarda (‘ad modum bombardae’) senza letto.


- 2 bombarde con letti da pallotte di pietra (‘a ballotis de lapidibus’).

La circostanza che qui s’indicasse nella pietra la materia dei proiettili non significa che tante
altre delle bombarde già più sopra annotate non fossero palesemente anch’esse da palla di
pietra, specie se fatte di due pezzi, cioè di tromba (fr. volée) e cannone o coda (fr. chambre).

- 3 salvavinelli (‘imbuti’) per empire (di polvere) le bombarde.


- 52 uncini di ferro per un peso (computata una punta di ferro) di libbre 299.
- una capra di ferro del peso di libbre 19.

E’ probabilmente quella già elencata nel predetto inventario di ben 16 anni prima, pesando
quella all’incirca lo stesso peso di 20 libbre.

- 12 stivatori (‘tassatorios’) di ferro da bombarda dei quali dieci sono del peso di libbre 375
(errore di trascrizione: dovrebbe essere ‘libbre 37 e cinque…’), uno dei quali rotto.
- 17 stivatori di legno.
- Uno stivatore di ferro piccolo.
- 7 stivatori di ferro per un peso di libbre 20.
- 7 stivatori di ferro con manico di legno da schioppi.

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- 84 uncini di ferro senza manico, per un peso di libbre153.
- 4 platte piccole di ferro da bombarde.
- 3 platte di ferro da catenacci da ponte levatoio.
- 6 cappelli di ferro.
- Un cimiero di cuoio cotto.
- 6 cervelliere di ferro vecchie.
- 6 bacinetti di ferro senza camario (‘appendice di maglia di ferro’) e senza visiere.
- 11 barbute di ferro con camario senza visiere.
- 12 armature di ferro da testa senza camaro e senza visiere.
- 148 trigoli (‘tricuspidi anti-cavalleria’) di ferro.
- 21 giavellotti (‘javarottum’) di ferro.
- 14 buttafuoco (‘ferros ad trandum ignem’).
- Mille verrettoni impennati con carta.
- 40 verrettoni impennati con rame (‘de ramo’)

Questa voce è l’unica di questo inventario che appare riguardare balestre da posta; infatti, a
differenza dell’inventario precedente, più vecchio di 16 anni, ora nella Camera a balistis della
massaria comunale di Bologna non si nota più nulla che confermi ancora in uso quelle armi
da postazione, ma solo materiale di balestre piccole da fanteria:

- Una balestra legata alla maniera dei genovesi.


- 158 balestre tra rotte e distrutte con corde e senza corde, con nocelle e esenza nocelle e
senza corde maestre, tra grosse e piccole.

Anche se qui si dice ‘tra grosse e piccole’, si tratta chiaramente di materiale non
manutenzionato, quindi in disuso.

- 129 nocelle d’osso da balestre.


- 6 nocelle di bronzo (‘de metallo’) da balestre.
- 90 crocchi da balestre.
- 44 ferri (‘punte di ferro’) da verrettoni.
- Due migliaia di ferri da frecce.
- 495 guarda-petto (‘antipectos’) da balestre (‘pettorina da balestriere’).
- 31 chiavi di ferro da balestre.
- Duemila aste da frecce.
- 9 archi da frecce con corde e senza corde.
- 3 frecce all’inglese (‘ab inghilixis’).
- 3 navicelli da ponte (‘da ponte fluviale di barche’).
- Un pennone di panno per l’insegna dei mastri falegnami (tlt. marangoni).
- Un pennone per l’insegna della Chiesa.
- Un pennone pe l’insegna dei guastatori.
- 65 libbre di ferro da bombarde ossia pallotte.
- 750 pallotte di ferro da bombarde.
- Una cazzuola di ferro per caricare le bombarde.
- 2.220 pallotte di pietra da bombarda.
- 32 pavesi vecchi e rotti.
- Una bombarda dal peso di libbre 273.

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Per esser l’unica bombarda della massaria di cui si notava il peso, doveva essere la più
grossa, il che sembra attestare che era ancora epoca di sole bombarde piccole.

- 32 scudi vecchi e rotti.


- Un palo di ferro ossia stivatore (‘tassatorium’).

Per quanto riguarda il peso delle pietre che si potevano lanciare con questi congegni, esso
doveva certamente essere molto variabile, dipendendo dal contrappeso o dalla contro-forza
utilizzata; nel 1373, nell’ambito di preparativi di guerra, i genovesi allestirono anche dei
congegni lapidanti, tra i quali uno particolarmente potente:

… e vi furono diversi gran congegni che lanciavano pietre di gran peso; e il più importante era
un congegno che chiamavano ‘Troja’, il quale lanciava pietre di un peso valutato dai 12 ai 18
cantari… (G. & G. Stella, Annales genuenses (1298-1435) etc. Anno 1373. Colt. 1.104. In LT.
A. Muratori. Cit. Vol. 17. Milano, 1730).

Un cantaro (sp. quintal), mentre a Venezia era cento libbre, a Napoli e a Genova era 100
rotoli e il rotolo una libbra e mezza, paragonandosi la libbra a quella anglosassone odierna. I
genovesi erano da sempre molto versati nella costruzione di detti congegni:

… Anno Domini 1173 ianuenses occulte cum octo galeis et manganis iverunt in Planosam et
obsederunt castrum de Planosa… (Cronaca pisana del Marangone.)

In occasione dell’assedio francese che Messina subì nel 1284 nell’ambito delle guerre
angioino-aragonese per il dominio dell’Italia Meridionale il maneggio dei congegni difensivi
della città fu dai messinesi affidato appunto a 45 genovesi che si trovavano in quella città,
essendovi sbarcativi in precedenza da cinque galee genovesi, e che avevano preso
anch’essi le arni per partecipare alla sua difesa; e si trattò di un aiuto che sarà poi dai cittadini
loro riconosciuto (eos semper habuimus ad ingenias nostras. Bartolomeo di Neocastro, cit.
Cap. L). Anche nel secolo quattordicesimo i genovesi dimostravano di eccellere nella
costruzione dei trabucchi, cioè in occasione del conflitto di natura commerciale che nel
biennio 1348-1349 avvenne tra i bizantini e appunto i genovesi, stavolta trattandosi dei coloni
liguri di Galata, sobborgo della stessa Costantinopoli; essi, avuta la fortuna di veder la flotta
bizantina neutralizzata da una tempesta di vento senza quindi bisogno di alcun colpo inferire,
costruirono un grosso mangano e lo impiantarono su una grande nave oneraria poi
rimorchiata dalle loro galee sotto le mura della città nemica, prendendo quindi a bersagliarne
l’interno:

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…avendo fissata una macchina ossidionale su una grandissima nave oneraria dalla quale
scagliare tanto peso di pietre quanto un uomo robusto potesse sollevare… (ἑφʹ ὁλϰάδος
μυριοφόσου μηχανὴν ἐπιστήσαντες τειχομαχιϰὴν͵ ᾀφʹ ἦς λίθου βάρος͵ ὅσον εὒρωστος ἀνὴρ
ἂν ἅροιτο͵ ἡφίετο· Giovanni VI Cantacuzeno, Historiarum libri IV. IV, 11.)

Per la cronaca, i bizantini reagirono istallando all’interno delle sue mura enormi congegni da
lancio con i quali riuscivano a danneggiare direttamente le case degli stessi galatesi, specie
quelle litoranee, e inoltre colpivano duramente anche i vascelli dei genovesi, tanto da
affondare presto la predetta oneraria che era stata avvicinata alle mura:

… ma, innalzate macchine litoboliche di meravigliosa grandezza, presero a scagliare pietre


da Bisanzio verso Galata… (ἀλλὰ πετροβόλους στήσας μηχανὰς τὸ μέγεθος ὑπερφυεῖς͵
λίθους ἐϰέλευεν ἑϰ Βυζαντίου ἁφιέναι πρὸς Γαλατᾶν… Ib. IV, 11).

Nell’Alto Medioevo la distinzione storica tra ‘macchine’ e ‘organi’ d’assedio che si era fatta in
precedenza e alla quale abbiamo già accennato si era ormai persa e infatti qui si, come si
vede, si parla di πετροβόλους μηχανὰς, ossia di ‘macchine petroboliche’, ma ciò già si può
reperire negli scritti del decimo secolo, e.g. ἀφετηρίους μηχανὰς, ‘macchine lanciatrici’. In
seguito, ottenuto l’appoggio di un’armata veneziana, furono bizantini e veneti ad assalire le
mura di Galata con tre grandi torri lignee costruite su onerarie accoppiate (Ib. IV, 26), ma alla
fine, richiesta dagli stessi galatesi, intervenne la pace.
Tradizionalmente interessati al risparmio in ogni settore, i genovesi avevano soprattutto
imparato a costruire trabucchi molto leggeri, dalle casse sottili, trasportabili (gra. ἀγώγιμοι; tl.
aggesticii) e velocemente assemblabili; nel 1342 si avvalse di questa loro arte Alfonso XI di
Castiglia all’assedio di Algeciras, citta in dominio dei mori. Egli aveva per quell’occasione
fatto costruire e portare all’assedio più di venti trabucchi che con i loro nutriti lanci di grosse
pietre avevano cominciato a danneggiare molto la città; allora i mori avevano eretto loro più
leggeri congegni sulle mura, briccole e algarrade, con cui, non appena il nemico si metteva a
erigere le casse (cst. curueñas) dei suoi trabucchi per procedere ai lanci, subito glielo
impedivano, colpendo e scassando quanto andavano costruendo:

… E per questo motivo il re comandò di porre nel fossato due di quei trabucchi che avevano
fatto a Siviglia i genovesi, i quali erano ognuno d’essi (larghi solo) un piede, avevano due
casse (di contrappeso), erano molto sottili e tiravano molto (‘molte volte’), e che con questi
tirassero ai congegni della città e le rompessero e che dopo armassero i propri trabucchi e ne
istallassero anche degli altri... (Juan Nuñez de Villasan, Cit. F. 153 recto.)
Il re ordinò inoltre che si mettessero a difesa di detti trabucchi i genovesi, perché si trattava
di uomini che combattevano di molto buon grado […] molto ben armati di tutte le dovute armi
ed erano molti di loro balestrieri armati di ottime balestre… (Ib.)
… los ballesteros de Genova, que […] tenian muy buenas ballestas y eran hombres que
andavan muy bien armados de todas sus armas… (Ib. F. 170 recto.)

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Gli assedianti dovevano far buona guardia ai loro congegni soprattutto di notte, cioè quando
gli assediati tentavano sortite per andare a incendiarglieli; era comunque pericoloso
intrattenersi presso quei congegni ossidionali, proprio perché il nemico assediato le prendeva
continuamente di mira con le proprie per cercare di sfasciarle, e infatti così morì, per
esempio, nel 1293 il noto Berthold von Hohkönigsburg, legato imperiale in Italia
dell’imperatore Enrico VI, durante cioè l’assedio del castello di Monte Rodone; mentre si
stava appunto occupando dell’edificazione dei suoi congegni d’assedio (gr. & gr.
πολιορχητιχὰ ὄργανα), una pietra lanciata da una di quelle degli assediati lo uccise (Antonio
Caracciolo, Chronologi antiqui quatuor etc. In Raccolta di varie croniche, diarij ed altri
opuscoli etc. T. II, p. 186. Napoli, 1781.) Nel 1375 fu il conte Francesco di Santa Fiora a
morire ucciso d’una pietra di mangano a Perugia, nel corso delle solite guerre tra Guelfi e
Ghibellini (Nerio di Donato, Annali senensi, Cit.)
Si usavano i trabucchi anche per lanciare nelle città assediate cose diverse dalle pietre e cioè
teste e cadaveri di nemici sorpresi e uccisi all’esterno della città per intimorire così gli
assediati oppure cadaveri in putrefazioni e altre brutture per rendervi insostenibile la
permanenza a causa del fetore e infine carogne infette di animali nel tentativo di farvi
scoppiare epidemie. Nell 1233, all’assedio di Maiorca, essendo stato catturato un capiatno
moro che ne veniva al soccorso e che i cristiani chiamavano Infantilla, il re Giacomo I ordinò
che se ne lanciasse la testa nella città assediata (Mandó el rey lançar con la honda del
almajanech la cabeça de aquel moro dentro dela ciudad. Zurita, Anales. T. I. LT. III). Nel
1280, durante l’assedio che i veneziani posero a Trieste, fu da loro lanciato nel campo del
soccorso nemico un mercenario tedesco traditore, non si sa se vivo o morto:

… In questo periodo di tempo un certo Girardo detto ‘da le lanze longhe’, una volta transfuga
dei nemici, ma allora militante con i veneziani, entrò in trattative di tradire una delle porte
degli accampamenti alle genti del patriarca (d’Aquileia); ma, scoperto, esaminato e confesso,
fu lanciato nel campo nemico con il getto d’un congegno (LT. Monaci, Chronicon, LT. XIV, p.
261).

Nel 1348 la regina Giovanna d’Anjou e il principe Ludovico di Taranto sbarcarono a Napoli
per riprendere il regno agli ungaro-austriaci che l’avevano invaso; poiché la guarnigione del
Castello Maggiore, fatta appunto di tedeschi e di briganti (‘pedoni scaramucciatori e
saccheggiatori’) lombardi e comandata dal governatore vicario del regno Ulrich von Wulfort
non intendeva arrendersi, si cominciò appunto a gettare con i trabucchi nel castello cadaveri
e altre materie corrotte puzzolenti, ma non si ottenne il risultato sperato perché gli assediati,
avendo il castello un lato costiero, ributtavano tutto in mare vanificando così gli sforzi del

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nemico (Domenico da Gravina, Chronicon. In L. A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores etc.
C. 587. Milano, 1728).
Si lanciavano anche crogiuoli di rame pieni di materiali incandescenti o bolllenti, come
all’assedio di Oudenaarde in Fiandra nel 1382, dove gli assedianti avevano piazzato davant
alla città un congegno che lanciava venti crogiuoli alla volta:

… Encores fisent faire ung engien les gantois et assoir devant la ville, qui jettoit vint
craiseules de cuivre tout boulant (Jean Froissart, Chroniques. LT. II, par. 88, p. 248. Parigi,
1897).

Nel 1349 l’armata di mare castigliana aveva tentato di usare i trabucchi per lanciare
rifornimenti di viveri all’affamata guarnigione del castello di Gibilterra, assediato dai mori:

… l’ammiraglio […] fece porre due trabucchi in due navi e con quei trabucchi lanciavano i
sacchi della farina, cercando di farne cadere dentro il castello, ma i più cadevano fuori e li
prendevano i mori, ma non per questo l’ammiraglio desisteva di lanciar loro farina con quei
trabucchi. E i mori, per evitare che quelli del castello ricevessero quel soccorso, posero due
congegni che tiravano a quelle due navi in cui stavano i trabucchi e i marinai delle navi
dovettero farle arretrare per timore che ne restassero danneggiati e non poterono più tirare
né quindi riuscivano più a gettare la farina nel castello… (Juan Nuñez de Villasan, Cit. F. 70
verso).

Già nell’antichità con gli onagri si usava lanciare nelle città nemiche, oltre alle pietre, anche
altre cose poco gradevoli; per esempio nel 363 d.C. l’esercito dell’imperatore d’oriente
Giuliano che assediava la città sassanide di Besuchis, mancandogli le pietre, si mise a
gettare zolle bituminose infiammate (ἀσφάλτῳ βώλους πεπυρωμένους. Zosimo, Storie. LT.
III, par. 21) per provocare incendi Si usavano detti congegni anche per eseguire o completare
giustizie, cioè pene capitali, come avvenne per esempio a Genova nel 1318 in un episodio
del secolare contrasto tra guelfi e ghibellini; sette guardiani della torre del faro, i quali
avevano abbandonato la loro postazione per motivi contingenti e da loro creduti legittimi,
furono invece ritenuti dalla città dei disertori traditori e fatti morire crudelmente tra i tormenti
del cavalletto; i loro corpi furono infine vilipesi lanciandoli in aria con i trabucchi:

… Dunque con una congegno, che in lingua volgare chiamano ‘trabucco’, posta presso S.
Tommaso, ne furono lanciati quattro a mo’ di pietre e i tre rimanenti con un altro congegno
che si teneva presso S. Stefano (Ib. Colt. 1.032).

Nel settembre dell’anno successivo un ghibellino fu direttamente ucciso lanciandolo vivo con
un trabucco:

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… E dunque il giovedì 27 gli intrinseci (‘i guelfi’), spinti da un gran tumulto popolare, un ricco
cittadino genovese, tra quelli indicati dal popolo, lanciarono a mo’ di pietra nel porto di
Genova con un congegno che dicono ‘trabucco’ affinché morisse d’inconsueta morte (ib. Colt.
1.037).

I mangani non erano dunque armi fatte per le battaglie campali, ma talvolta, quando l’esercito
avversario si presentava in ordine molto folto e serrato, quindi vulnerabile anche ai colpi
portati con grossi proiettili, se disponibili si usavano, come avvenne nel corso dell’ultima
battaglia della guerra del Vespro avvenuta poco prima della tregua del 1289:

… Ed ecco che si slega il congegno di Matteo da Terme (oggi ‘Termini Imerese’) puntato
contro i sopravvenienti nemici, il cui cuneo (‘battaglione a cuneo’) era tanto fitto e uniforme
che la pietra scagliata col congegno stesso, percuotendone in un colpo solo, uccise molti
impossibilitati a evitarla. Poi gli altri congegni spronarono gli altri che retrocedevano non
senza gran spavento. (Et ecce que obtemperata erat Matthei de Ttermis ingenia in venientes
hostes dissolvitur, quorum adeo erat spissus et uniformis cuneus, quod lapis emissus
ingenie, cum illum vitare non possent, plures uno ictu percutiens exanimavit. Recedentes
vero alios non sine grandi formidine relique ingenie stimularunt. Bartolomeo di Neocastro, cit.
Cap. CXII).

Si parla di slegare il mangano per lanciarne il carico perché, una volta caricatane la borsa di
cuoio, la sommità del palo o dei pali che la reggevano si tirava giù fin dove richiedesse il
puntamernto prescelto e si legava in quella bassa posizione; quindi, quando poi si voleva
lanciare, bastava slegarla e il contrappeso faceva il resto. Non si ritrovano altre notizie del
summenzionato mastro manganaro Matteo da Termini. Nel Chronicon di Lorenzo Monaci (
LT. XII, p. 216) si dice che nella battaglia navale di Alghero del 29 agosto 1352, combattuta
dai veneziani e catalano-aragonesi capitanati dal capitano generale veneziano Nicolao Pisani
contro i genovesi dell’ammiraglio monegasco Antonio de Grimaldo, si combattè anche con
spingarde, cioè con armi da fuoco [‘saxis, ballistis (‘balestre’), telis igneis, spingardis aliisque
missilibus eminus decertabant’], e questa sembra dunque essere la prima memoria storica
dell’uso di tal armi nella guerra navale; prima infatti troviamo sì questo stesso nome, ma solo
a significare grandi baliste da posta, le quali in origine, quando appunto chiamate
espringales, da cui spingarde, tiravano, come abbiamo già detto, non saette ma sassi; in
seguito, dismesso il loro uso, ne restò però il nome come sinonimo di baliste, cioè di
lanciatrici di grosso saettume; ecco un esempio del 1304 in cui il nome già è usato in detta
maniera impropria:

… Et font l’espringale gieter


Li garros.
(Guillaume Guiart, Branche des royaux lignages, all’anno 1304. In N. Harris Nicolas, The
siege of Carlaverock etc. Nota a p. 373.)

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Infatti l’afr. garros viene dal lt. veruta, cioè verrettoni, quadrelli; ma, tornando ora al Monaci,
diremo che egli potrebbe anche essersi sbagliato, visto che non nomina più le spingarde in
nessun altro episodio, mentre sicuramente non si sbagliò, narrando dell’assedio veneziano a
Pola avvenuto nel 1311 (Ib. P. 228), dove il termine ballistis va ora inteso per le grosse
balestre da posta (fr. arbalestes de chantelle; lmb. balestre da bussola). Nella Cronaca
catalana del re Pietro IV si narra della battaglia che nel 1359 gli aragono-catalani
combatterono nella rada di Barcellona contro la potente armata di mare del re di Castiglia
venuta ad assalire la città; fu uno scontro molto interessante perché si trattò di uno dei primi
confronti tra congegni lapidanti e nuove artiglierie da sparo; una sola efficace bombarda
presente su una nave catalana costrinse i vascelli castigliani, ancora armati solamente di
detti congegni ossidionali tradizionali, a ritirarsi:

… Verso l’ora terza tutta l’armata del re di Castiglia s’avvicinò alla nostra detta armata di
galere e fecero accostare a quelle tutte le navi; e nelle poppe delle navi maggiori avevano
fatte alcune piccole bricole che tiravano pietre, ma che non erano loro di alcun vantaggio,
anzi tutte le nostre genti della detta nostra armata e della riviera, a ciascun getto di quelle
pietre che non facevano a nulla danno né detrimento, prorompevano in gran grida di scherno
o di disdegno. Nel frattempo, a poco a poco e come meglio poterono, fecero accostare alla
detta nostra nave la maggiore e più grossa nave del detto re di Castiglia, la quale aveva a
poppa un gran trabucco che avevano fatto, perché tirasse contro la nostra nave, e allora la
nostra nave sparò una bombarda e colpì il castello di detta nave di Castiglia danneggiandolo
e uccidendone un uomo; e dopo poco fecero un altro tiro con la detta bombarda e colpirono
l’albero della nave castigliana producendogli una grande frattura e ferendo alcuni uomini…

D’altra parte nella Cronaca del re Pietro I di Castiglia, laddove si descrive la stessa suddetta
battaglia, si dice che la città di Barcellona difendeva la sua armata con grand ballesteria è
truenos, essendo questi ultimi bocche da fuoco diverse dalle bombarde (grb. βουμπάρδα) per
esser fuse o battute in un solo pezzo, il che si capisce perché, come presto vedremo,
sparavano palle di ferro piuttosto pesanti; erano inoltre fatte per i tiri ad arcata, trattandosi
insomma dei primi mortai della storia; lo Zurita poi, descrivendo detto episodio alquanto
imprecisamente, perché circa due secoli e mezzo più tardi, così scriverà:

… per quanto io arrivo a congetturare, si tratta di ciò che nella storia di Castiglia chiamano
‘troni’ e sembra che quella invenzione infernale fosse molto usata in quei tempi (Anales. T. II,
LT. IX.)

Insomma l’era dell’artiglieria da sparo era in Europa davvero iniziata, ma nonostante


l’esperienza appena fattane a suo danno a Barcellona, sembra, a quanto narra il talvolta
impreciso e appossimativo Zurita, che Pietro I negli anni successivi tardò a sostituire i suoi
congegni lapidanti d’assedio con le nuove canne da polvere e infatti nel 1362, all’assedio

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dell’aragonese Calatayud, a quelle ancora si affidava, anche se si trattava della più
imponente istallazione di detti congegni che si fosse mai vista:

… e cominciarono a battere la villa terribilmente con la loro artiglieria, la quale era la


maggiore che si fosse in precedenza vista in Spagna, perché avevano nel loro campo
trentasei macchine, le quali una volta chiamavano ‘ingegni’, tutte da batteria (Los cinco libros
postreros de la primera parte etc. LT. IX, p. 312 recto).

Sì, era vero che nell’alto medioevo i congegni da getto si erano chiamate ingenia (gr.
πολεμηητήρια ὂργανα, ‘congegni bellici’), ma poi anche in occidente prevalse il chiamarle
appunto machinae e ciò a imitazione dei bizantini, i quali in genere distinguevano inoltre
spicciativamente le loro ‘macchine’ in έλεπόλεις ϰαὶ μηϰανήματα, cioè in elepoli o grandi torri
d’assedio arietarie, e mecanemata ossia macchine da lancio; noi, come il lettore avrà
certamente notato, preferiamo chiamarli ‘congegni’, un termine che a nostro avviso traduce
bene appunto il latino ingenia; infatti il chiamarli ‘macchine’ era una degenerazione filologica,
in quanto per machinae nell’antichità e nell’Alto Medio Evo si erano sempre intese solo le
costruzioni di legno fisse, anche se magari ruotete, non composte da congegni mobili, quali
erano quindi torri, elepoli, bastide, vigne, ponti, mantelletti ecc. Non molto tempo dopo in
Italia, cioè nel 1380, vediamo le artiglierie già tanto mature da risolvere un assedio; si trattava
di quello delle torri di Novalia, località del Vicentino, condotto dall’allora signore di Padova
Francesco I Carriger (‘carrarese’), per liberare il corso del fiume Bacchiglione dalla chiusa tra
esse costruita dagli scaligeri di Milano a danno dei patavini, perché la loro città non ne
ricevesse così più l’acqua:

… et multis fixis bombardis grossis, illas tandem, vi bombardarum quasi solo aequatas, in
deditionem habuit (A. de Redusiis, Chronicon tarvisinum. In LT. A. Muratori. Cit. T. XIX, c.
786)

Che le torri fossero la parte più debole delle fortificazioni murarie medievali, le quali si
dimostravano comunque nell’insieme sempre più inadeguate a reggere le batterie
dell’artiglieria da polvere e quindi si comincerà poi nel Rinascimento a costruirle non più di
sola pietra ma di spalti (‘spalati’) di terra incamiciata, lo si vede anche da un altro episodio,
questo avvenuto più tardi, attorno al 1422, quando cioè l’esercito veneziano, occupata la
località della Chiusa di S. Vittore, oggi Chiusa d’Anzù, nel Bellunese, assalì Feltre da sud,
cioè cominciando a battere senza sosta la torre dalla Porta Anuria (poi ‘Porta Imperiale’), e i
feltrensi (oggi ‘feltrini’) si arresero:

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… et circa Feltrum castra posuit sua nec ante discessit quam, confracta turris Portae Anuriae
et vi bombardarum solo aequata, dilaberetur et civitas in deditionem veniret venetorum […]
Verum bombardis, machinisque et aliis bellicis instrumentis expugnata… (ib. C. 849).

Questo brano non è però tra quelli che dimostrano l’uso congiunto di congegni lapidanti e
bombarde, perché machinae, come abbiamo appena detto, si dicevano anche gli arieti e le
costruzioni lignee d’approccio, generalmente ruotate per poterle spingere verso la muraglia
nemica e ricoperte da tegole di piombo per difesa dal fuoco ma anche per una maggior
stabilità, e si trattava soprattutto di quelle torri arietarie dette dai bizantini elepoli e dai
ponentini invece, come già spiegato, belfredi o buttifredi o battifolli, inoltre delle vigne e
mantelli d’ariete detti gatti o gatte, già menzionati, per la somiglianza di forme che avevano
con i detti felini. Questi gatti potevano essere anche molto grandi, come per esempio quello
che gli aragonesi costruirono nel 1287 per l’assedio dell’angioina Augusta:

… Quel giorno l’ammiraglio (Roger de Lauria) fece fabbricare uno straordinario gatto
(‘gactum’) di travi, coperto di tavole di quercia sulle quali aveva comandato di porre cuoi
bovini e sopra questi della terra a motivo del fuoco e delle pietre che dall’alto vi avrebbero
gettato sopra; e fecero rotolare detto artificio costruito su ruote conducendolo ad aderire al(le
mura del) castello (Bartolomeo di Neocastro, cit. Cap. CX).

E quello che leodiesi e oiensi costruiranno nel 1408, cioè in occasione del già ricordato
assedio di Utrecht:

… Frattanto, disperando ormai del successo i leodiesi, costruita un certa macchina lignea con
travi d’immensa grandezza, il quale chiamano ‘gatto’, sottopostevi ingegniosamente ruote di
legno per rovinare le mura di Utrecht e della cittadina di Wick, cominciarono a spingerla
avanti. Ma i traiettesi con continui lanci di pietre sferiche (fatti) con le loro macchine e petrarie
frantumaroro completamente la fronte del ‘gatto’, trucidando alquanti di coloro che
custodivano lo stesso dal di dentro; nel qual modo fu frustrata la principale speranza (della
fazione) dei Cornuti (Cornelius Zantfliet, Chronicon etc. In E. Martène – U. Durand, Veterum
scriptorum et monumentorum etc. C. 386, t. V. Parigi, 1729).

Per quanto riguarda le già più volte nominate vigne (lt. plutei, plutea militares), antiche
costruzioni rettangolari di sottili tronchi, intessute di vimini e ramoscelli che servivano a
proteggere soldati e minatori assedianti una citta da quanto di offensivo gli assediati
lasciavano cadere su di loro dall’alto delle mura, la loro descrizione ci è stata lasciata nel
sesto secolo da Agazio Scolastico nel terzo dei suoi Historiarum libri V e inoltre da Suida nel
suo Lexicon. Si trattava di un corridoio mobile poco più alto di un uomo e con tetto spiovente,
interamente fatto di densi e stretti vimini intessuti (ma già dal II sec. d.C. anche di tavole,
come scrive il già citato Festo) e ricoperti di cuoi di bufalo che ne fortificavano la superficie in
modo da renderlo non solo impenetrabile a dardi e sassi e poco attaccabile dal fuoco ma

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anche resistente a quelle grosse pietre dette in greco ἐπαλξίτεις e che nel Medioevo si
tenevano talvolta in permanenza tra le merlature, riservandosi di spingerle poi giù
all’occorrenza su nemici che venissero eventualmente ad assaltare le mura della città; uomini
posti al suo interno ne sollevavano e trasportavano la leggera struttura fino alle mura
nemiche, dove subito subentravano minatori, i quali, anch’essi appunto così celati e protetti al
suo interno o scavavano con zappe e pale cunicoli attraverso i quali entrare all’improvviso
nella città nemica o, nel caso fuori le mura fosse presente il fossato d’acqua, per farne
espandere il contenuto sotto le mura e così comprometterle; oppure, nel caso di mura
particolarmente robuste, con stanghe e mazze di ferro scalzavano e dissestavano in quel
punto le loro fondamenta, nel frattempo però puntellandole con pali di legno per evitare che le
mura stesse cadessero loro addosso, e alla fine davano fuoco a detti puntelli per farle crollare
e aprivano così un’ampia breccia dalla quale si potesse penetrare combattendo nella città
assediata. Abbiamo accennato che queste ultime macchine, quando grosse e pesanti come
quella con ben 8 ruote progettata dall’ingegnere bizantino Egetore e descritta dal già citato
Ateneo Meccanico (cit. Pp. 5-6), magari anche arietarie, si chiamavano in lt., con temine più
antico, anche testudines e in grb. χελώναι; ecco come Anna Comnena descrive quella fatta
fare da Raymond de Saint-Gilles nel 1097 all’assedio crociato di Nicea, allora occupata dai
turchi (traduzione di Giuseppe Rossi):

… Sangele, del resto assiduo nell’intrapreso apparecchio, costruito avea una rotonda torre di
legno tutta coperta di cuoio bovino e verso la metà intorniata da lenti giri di vimini e spaccati
ramuscelli, fortificatala eziandio accuratissimamente nelle altre parti, l’accostò alla torre della
rocca della Gonatos…
... A lei Sangele (Saint-Gilles) appressò la costruita macchina (che detta sarebbesi testuggine
dai periti di simiglianti cose), avendovi al di fuori coraggiosi militi destinati a scommetterne
dappertutto le pietre e forarne i lati. Eranvi pur di quelli esperti nell’arte di scavare sotterra le
mura, i quali, di ascoso pervenutivi e postisi a riconoscerne le fondamenta, sforzavanle con
raffii, bolcioni ed altri ferrei strumenti, quindi a ciascheduna delle svelte pietre surrogavano
puntelli di tronchi d’albero o travi a sorreggerne pel momento la parte superiore; e tanto
inosservati operavano, mentre gli arcieri, avventando strali ai difensori della città e
mostrandosi pronti a darvi la scalata, tratto aveano a sè tutta l’ attenzione de’ Niceesi. Ora,
nel continuato lavoro di forare la torre e supplire le pietre levate con adatti legni, riuscirono
ben presto a toccare l’intima superficie della parete verso la città, dai praticati fori trasparendo
il chiaro. Dopo di che il fuoco, distruggendovi i sostegni, ne fece di più curvare sopra sé
stessa la parte superiore (L’Alexiadis di Anna Comnena etc. LT. 11, V-VI. Milano, 1846).

Le testudini o vinee o plutei potevano essere anche progettati per essere usate in un fossato
antistante le mura nemiche e in questo caso si dicevano in lt. anche galeriae. Per quanto
riguarda le coperture ignifughe, nell’Appendice della Tattica di Leone VI si spiegava che le
pelli fresche di bue (gr. βοείας) andavano meglio per le macchine mobili (gra. ἀγώγιμαι; tl.
aggesticiae) come appunto torri e arieti, ma per le pesanti e ferme testudini, atte a proteggere

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i minatori che scavavano alle fondamenta delle mura nemiche, si preferiva cospargene il tetto
di fango e di tenere all’esterno dei fianchi tutta una serie di grosse spugne ben intrise d’aceto
da usare al momento per tamponare i fuochi appiccati alla struttura dagli assediati, perché
non si conosceva allora nulla di meglio dell’aceto per spegnere qualsiasi materia che fosse
accesa e perfino incandescente, soprattutto il famigerato ‘fuoco liquido’ (specialmente quello
che chiamano ‘liquido’. μάλιστα τοῡ ὑγροῡ ϰαλουμένου… Cap. LIV.) di cui presto diremo. Le
spugne erano istallate sospese in reti di filo di lino (100 reti di lino per le spugne. λινάρια εις
τοὺς σφόγγους υʹ… Costantino VII, De cerimoniis aulae byzantinae. II.45).
Ma alle mura si potevano anche avvicinare costruzioni più grosse non solo delle vinee o
testuggini ma anche delle stesse torri o elepoli, cioè delle vere e proprie bastite, ossia fortini,
come leggiamo dell’assedio estense della città di Argenta e poi delle guerre dei veneziani in
Italia:

… Nicolaus de Macaruffis […] misit exercitum ad partes inferiores Argentae et ab alio latere
dirigi fecerunt quandam bastitam… (Chronicon estense all’anno 1333, in LT.A. Muratori. Cit.
T. XV. Milano, 1727.)
… Tunc veneti incontinenti destinaverunt exercitum circa civitatem cum forti bastilia (ib.
All’anno 1345).

All’impresa di Costantinopoli del 1453 l’emiro Maometto, più tardi Maometto II, oltre alle
artiglierie da fuoco, tra cui gli enormi mortari che tanto si ricordano, usò anche una
gigantesca elepoli di cui ci ha lasciato una sommaria descrizione il già citato Giorgio Franzes,
il quale la poteva vedere personalmente dalle mura della città. Trattandosi in questo caso di
una semplice descrizione e non di un’argomentazione risparmiamo al lettore il testo greco
originario e ci limitiamo alla sola nostra traduzione:

Fece allestire infatti una grandissima elepoli di gran larghezza e altezza, fatta di grossi
tronchi e che aveva molte ruote. La fece rivestire dentro e fuori di tre strati di pelli di bufalo e
di bue; e aveva in cima torrette e cortine di tela, scalinate per salire ed altre per scendere,
perché non potessimo offendere coloro che vi stavano dentro. Aveva inoltre all’esterno una
parte aperta onde facilmente quelli che l’avessero deciso potessero uscirvi od entrarvi. Infine
nella parte per quelli che volevano entrare nella fossa c’erano tre grandi porte
completamente avvolte da cortine, come dicevo (Cit. LT. III, cap. III).

E più avanti:

… l’elepoli […] rivestita di pelli di bufalo e di bue {ἐλέπολιν […] μετὰ βουβάλων ϰαὶ βοῶν
δορῶν ἐνδεδυμένην… Ib.}

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Altri dettagli della struttura dell’elepoli troviamo nella descrizione che ne aveva già dato il
Cananos a proposito del precedente assedio che i turchi avevano posto a Costantinopoli nel
1422; anche in questo caso evitiamo di riportare il testo originale in greco:

… allora fecero grandissime torri di legno su molte ruote con i cerchioni rivestiti di ferro, pari
all’altezza delle torri della città, anzi di quelle anche più alte. E disponevano agevolmente di
gioghi di innumerevoli buoi e bufali per tirare le torri con funi e portarle fino al margine della
fossa e con quelle dall’esterno assalire la città e distruggerla (Giovanni Cananos, De
Constantinopoli anno 1422 oppugnata narratio).

Ma, per quanto riguarda le ruote, in quell’occasione non era questa l’unica macchina degli
ottomani ad averne molte, come pure leggiamo più oltre:

… Avendo inoltre fabbricato anche in altri luoghi carri con un gran numero di ruote e sopra
come delle torri e gli stessi attrezzati nel modo che dicemmo (Ποιήσαντες δὲ ϰαὶ ἑν ἑτέροις
μέρεσιν ἁμάξας μετὰ πλείστων τροχῶν͵ ϰαὶ ἃνωθεν ὡς πύργους͵ ϰαὶ αὑτοί ἐνδεδυμένοι ὂν
τρόπον εἳπομεν· Cit. LT. III, cap. III).

Com’è facilmente intuibile, tutte le suddette macchine d’assedio presentarono in tanti secoli
molte variazioni costruttive e ciò perché ogni scuola d’artifici le costruiva o addirittura le
reinventa a modo suo; secondo Anna Comnena lo stesso imperatore suo padre, Angelo I
Comneno, si dilettava di disegnarne di nuove, come sembra abbia fatto in occasione del
predetto assedio di Nicea:

… mise in lavoro gran numero di macchine adatte alle presenti bisogne, né pago di quelle
note pe’ modelli ed uso loro, approvatone il ritrovamento dalle sperienze de’ consueti artefici,
si rendè pur egli primo inventore di nuove, e, terminata l’opera, mandolle ai conti delle Gallie
(‘ai capitani crociati francesi’), i quali, non infingendosi, ammirarono la generosità ed i talenti
imperiali (L’Alexiadis di Anna Comnena etc. Trad. di Giuseppe Rossi. LT. 11, VI. Milano,
1846).

Di una potente testuggine arietaria disegnata e costruita non da Alessio I ma dal suo nemico
Boemondo I d’Altavilla, il normanno che nel 1081 venne ad assediare la bizantina Durazzo, ci
ha lasciato una sommaria descrizione Anna Comnena, figlia di Alessio, della quale però
stavolta non riporteremo anche le originali parole greche perché lo riteniamo in questo caso
superfluo. Si trattava dunque di una testuggine dalla base quadrangolare più piccola delle
solite, ma anche molto più alta poiché raggiungeva la sommità delle mura nemiche, in
sostanza, più che di testuggine, si sarebbe dunque dovuto parlare di una piccola elepoli, di
una torre d’accostamento insomma; era ricoperta di larghe pelli taurine dal compito ignifugo e
cucite insieme a ben sette strati sovrapposti, crcostanza però quest’ultima poco credibile e
piuttosto dovuta, come sembra di capire dal testo, alle letture omeriche della Comnena.
Questa macchina era fornita di ruote e fu avvicinata alle mura nemiche con la leva di forti

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pertiche; tolte poi le ruote, fu sotto le mura stabilita e fermata come si fissavano allora di
norma le elepoli d’assedio sotto le mura nemiche, cioè piantando fortemente nel terreno molti
robusti pali lungo i margini interni del quadrilatero di base, facendosi ciò lungo quelli interni
perché, se si fosse lavorato invece all’esterno, gli operai sarebbero rimasti esposti alle offese
degli assediati; ma detta macchina non funzionò, perché nonostante il suo ariete fosse armato
di una esta di bronzo molto pesante e provvista di forti corna di ferro, le mura di Durazzo
risultarono troppo robuste per esser abbatute così e i colpi dell’ariete, invece di demolire
quelle, sconquassavano e disfacevano con i loro contraccolpi la stessa struttura di quell’alta e
poco compatta macchina, la quale, usata dunque troppo prolungatamente nel caparbio
tentativo di ottenerne un risultato, finì per esser incendiata dai fuochi che gli assediati le
facevano cader su dall’alto delle mura e restarne miseramente bruciata La stessa miseranda
fine farà dopo una grossa elepoli che i normanni avvicineranno a quelle mura al posto di
quella testuggine arietaria. (ib. L XIII, III.); in effetti cercare di bruciare i congegni e le
macchine ossidionali del nemico era nel Medioevo il comportamento difensivo più comune ed
efficace che gli assediati potessero tenere.
Che in Italia si usasse poco il termine elepoli e si preferisse invece generalizzare al suo posto
quello di vinea si costata per esempio nel già citato vocabolario di Papias, dove appunto si
descrive la seconda con le caratteristiche della prima:

Vineae: machinamentorum genera quae sunt in modum turrium ac rotis (ut) dicuntur, in
quibus ascendunt milites et muros expugnant.

Nel gergo militare dell’antica Roma combattere protetti dalle predette vigne si diceva sub
vitem proeliari (‘combattere sotto la vite’) e toccava soprattutto ai veliti, non ai soldati di linea
(Sesto Pompeo Festo, cit. p. 446-448). Ancora un esempio di come le torri perimetrali
nemiche fossero le prime a essere prese di mira dalle artiglierie degli assedianti lo troviamo,
nello stesso Chronicon, all’anno 1426, quando Francesco Bussone conte di Carmignola,
capitano generale dell’esercito della lega veneziano-fiorentina, prese Brescia, cominciando
col bersagliare con le bombarde la torre della Porta delle Pile:

… postquam bombardas per tres vices affigi fecerat atque projicere diu noctuque adversus
Turrim Pilarum ad utrumque latus, tamdem, quarta vice repositis bombardis, adduxit ad
expugnandam dictamTurrim Pilarum… (ib. C. 856.)

A proposito del ritrovamento della polvere pirica propulsiva, così si esprimerà nel secolo
successivo il senese Francesco di Giorgio di Martino (1439 – 1503/1504):

I moderni nuovamente hanno trovato un instrumento di tanta violenza che contro a quello le
armi, gli studi, la gagliardia poco o niente vale e che più e in piccolo tempo ogni fortezza di
muro, ogni grossa torre si ruina e getta per terra; e certo tutte le altre macchine antiche, in
97
rispetto di questa potentissima chiamata ‘bombarda’, vane e superflue si possono appellare;
l’impeto della quale solo per quelli è credibile i quali con gli occhi lo comprendano, perocché
più veloce è il moto della pietra impulsa da quella che non arrivi l’orrendo strepito da quella
causato alle orecchie de’ circostanti… (Saluzzo, Cesare, Trattato di architettura civile e
militare di Francesco Maurizio di Giorgio di Martino etc. Torino, 1841.)

Egli attribuisce dunque detta invenzione a i moderni, acutamente osservando, da buon


architetto e ingeniere (tlt. inginerius), che, se si avesse avuta conoscenza dell’artiglieria da
sparo già da molto tempo prima del suo, non solo i più vecchi autori d’arte militare ne
avrebbero certamente parlato, ma soprattutto, nelle antiche fortificazioni da lui osservate e
professionalmente trasformate, avrebbe dovuto notare vestigia di bombardiere o troniere oltre
che di feritore e balestriere, aperture che invece costantemente a quelle mancavano. Certo
gli antichi, come dimostrano le opere di Plinio, di Marco Gracco (e non ‘Greco’), autore
medievale di cui nulla sappiamo, e di Roger Bacon, già ben conoscevano e molto si
servivano delle qualità incendiarie ed esplosive di quelle misture di bitume, catrame, peci,
resine e salnitro [(hali)nitrum, sal petrae, sal petrosus, sal ardens, petra salis] con le quali i
pirotecnici antichi cercavano di ottenere artificialmente le qualità distruttive del magma
vulcanico e alcune delle quali si chiamavano genericamente fuoco greco; ma ciò non perché
fossero state inventate dagli antichi greci né perché si trattasse di composti perlopiù a base,
oltre che di pegola navale o pece di nave comune e di altre sostanze, anche quasi sempre
sia di quella pegola detta pece di Spagna sia di quella detta appunto pece greca, con la quale
s’otteneva un’ottima sigillazione a tenuta stagna dei manufatti pirici, i quali quindi, essendo
così ben impermeabilizzati, potevano magari di notte esser trasportati a nuoto da bravi
nuotatori e sommozzatori che segretamente andassero ad attaccarli al basso fasciame dei
vascelli nemici. Infatti era specie nella guerra marittima che gli antichi, trovandosi a dover
distruggere del nemico macchine di legno e non fortificazioni di pietra, si servivano
correntemente di fuochi artificiati d’ogni genere, bastando ricordare a tal proposito il sifone
lancia-fuoco che si usava comunemente come artiglieria di prua a bordo dei dromoni bizantini
e di cui scrisse infatti l’imperatore Leone VI (866-912) () nella famosa Тάϰτιϰα, trattato
d’arte militare a lui tradizionalmente attribuito. Il motivo di quel nome appare invece
legato alla circostanza che i primi a provare a usarli in maniera sistematica furono i
bizantini, i quali infatti non lo chiamavano affatto ‘fuoco greco’ bensì ‘fuoco liquido’ (πῠρ
ὑγρόν), come leggiamo per esempio nella Chronographia di Teofane Isauro all’anno 709,
nelle seguenti storie del Teofane continuato (LT. V, p. 60; lt. VI, p. 7, 8 e 10), i quelle di
Genesio (Regum. LT. II, assedio di Costantinopoli 821-823 d.C.) e al par. P. 581 del
Compendio storico di Giorgio Cedreno (sec. XI), volendosene così evidentemente mettere in
risalto la consistenza magmatica; in seguito, nella seconda metà del secolo decimo, accanto

98
alla predetta locuzione ‘fuoco liquido’, nelle guerre allora combattute dai bizantini contro i
taurosciti di Crimea appare anche quella sinonima di ‘fuoco medico’, usata soprattutto da
Leone Diacono, dove però ‘medico’ significava ‘originario della Media’, regione dove dunque
sarebbe stato inventato e in seguito dai bizantini sviluppato:

… mentre gli sciti erano presi dallo spavento, temendo che da quelle fosse portato il ‘fuoco
liquido’; avevano sentito infatti dai più anziani del loro stesso popolo come i bizantini
avessero arso nell’Eusino, con il medesimo ‘fuoco medico’, l’innumerevole armata navale di
Ingoro, padre di Sfendostlabo… (Σϰύθας δὲ δέος ᾓρει, τὸ ἐπιφερόμενον αυτοῑς ὑγρὸν πῡρ
δεδιότας. Ἠϰηϰόεισαν γὰρ πρὸς τῶν γεραιτέρων τοῡ σφῶν ἒθνους, ὼς τὸν μυριόστολον
στρατὸν Ἲγγορος, τοῡ τὸν Σφενδοσθλάβον τεϰόντος, Ῥωμαῑοι τῷ τοιούτῳ Μηδιϰῷ πυρὶ ϰατὰ
τὸν Εὔξεινον ἐξετέφρωσαν. Leone Diacono, Storie, all’anno 972. IX.1.)

… infatti temevano grandemente il fuoco medico, il quale persino le pietre poteva ridurre in
cenere… (ἐϰτόπως γὰρ ἐδεδίεσαν τὸ μηδιϰὸν πῡρ, δυνάμενον ϰαὶ τοὺς λίθους
ἀποτεφροῡν. Ib. LT. X.)

Negli eserciti era però popolarmente conosciuto come ‘fuoco splendente’ (πῠρ λαμπρόν),
come s’apprende dal cap. LIII dell’Appendice alla tattica di Leone VI (ὂ δὴ ϰαὶ λαμπρρόν
παρὰ τοῑς πολλοῑς ὀνομάζεται). A quanto poi leggeremo nelle già citate Storie di Niketas
Koniatos, questi fuochi liquidi saranno in seguito alquanto abbandonati, finché poi
l’imperatore bizantino Manuele I Comneno (lt. II) non li riprenderà nell’ambito dei preparati di
mare e di terra fatti per la sua campagna d’Antiochia del 1144; aveva infatti preparato una
poderosa armata di mare composta di triere sia riattate sia costruite di nuovo e si trattava di
vascelli armati appunto dei già menzionati sifoni, qui però ora chiamati dal Koniatos
‘apportatori di fuoco’ (gr. αι πυρφόροι), cioè di quelli che a ponente saranno poi invece detti
trombe di galera:

… gli apportatori di fuoco furono caricati di fuoco liquido, fino ad allora alquanto tralasciato (αἱ
πυρφόροι τὸ ὑγρὸν εἰσδέχονται πῡρ τὸ τέως ἠρεμοῡν ἀδιέϰχυτον.)

Perché questi ‘fuochi liquidi’, conosciuti a ponente come ‘fuochi greci’, come appena detto,
fossero stati per un certo tempo nel Medio Evo tralasciati è senza dubbio domanda da porsi;
certamente ciò non avvenne perché fosse stato trovato qualcosa di meglio; infatti, come si
sa, le canne da polvere non si incominceranno a vedere prima del primo quarto del
Trecento… e allora perché mai? L’unica spiegazione che, a nostro avviso, se ne può dare è
che probabilmente un ripetersi di disgrazie, magari di triere mandate a fuoco incidentalmente
dai loro stessi fuochisti, abbia potuto convincere per qualche tempo i comandi militari
marittimi bizantini a lasciar perdere quelle armi dal tanto pericoloso maneggio. Quando

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riapparvero, nel Quattrocento, non si usavano più con i soli sifoni ma si tiravano anche con
congegni da lancio (μετὰ τοῦ ὐγροῦ πυρὸς τέχνας. G. Franzes, cit. LT. III, cap. IV).
Per quanto riguarda invece la cosiddetta inestinguibilità di alcuni di questi fuochi, si
esagerava un po’ a dir così perché ci si riferiva all’uso delle sostanze che sono della più
violenta e rapida combustione che si possa ottenere in natura e cioè di bitumi, di catrami, di
peci e di resine. Infine, i fuochi che si dicevano non estinti, bensì persino alimentati
dall’acqua, erano ovviamente composizioni a base di calcina viva la cui preprazione era da
affidarsi a un magister calcariae (‘mastro calcinario’); ma in realtà di questi ultimi si faceva
ben poco uso perché preparati d’uso più sperimentale che pratico. Evidentemente però né
nell’antichità né nell’alto Medioevo accadde mai che, quando si aggiungeva alle misture
incendiarie anche del salnitro, si arrivasse a intuirne anche le grandi potenzialità propulsive.
La mancanza di certe testimonianze storiche riguardo a dove, quando e per merito di chi ci
sia stata nella storia una tale intuizione, provocò alcune conseguenze nella comune fantasia,
come scriveva il de Alaba y Wiamont:

… dal che ne sono conseguite la varietà di opinioni che in ciò c’è popolarmente e l’attribuire
questo modo d’offendere non a ingegnio d’uomini né la sua origine a che sia frutto d’alcuna
scienza, come lo sono altre stupefacenti invenzioni, ma a disegno e artificio infernale,
immaginato per una maggior offesa e danno di quanti per altri cammini per abbreviare le
nostre vite dall’inferno poterono uscire… (Diego de Alaba y Wiamont, El perfecto capitán
instruido en la disciplina militar y nueva ciencia de artilleria etc. Madrid, 1590.)

Già dal Quattrocento gli storici si domanderanno dove avesse avuto origine l’artiglieria da
sparo e lo stesso bizantino Laonikos Kalkokondilos (sec. XV) già ai suoi tempi, narrando
dell’assedio portato a Costantinopoli dal sultano Amurat II nel 1421, nel libro V del suo De
rebus turcicis scriveva che non si era in grado di dirlo con certezza [… ma non sarei capace
di affermare con certezza dove le armi da fuoco abbiano avuto origine.. (οἱ δὲ τηλεβόλοι οὐϰ
ἂν εἰδείην σαφὦς ἰσχυρίζεσθαι ὅθεν ἐγένοντο τὴν ἀρχἡν·], pur tendendosi ad attribuirne
l’invenzione ai tedeschi perché ai suoi inizi in Europa e in Nord Africa chiunque volesse
conoscerla e dotarsene doveva assoldare bombardieri tedeschi; per esempio, ancora in una
relazione del giugno 1525 su Napoli di Romania, allora possedimento veneziano, inviata a
Venezia dal bailo e capitano di quella città Nicolao Giustiniano, si diceva che l’artiglieria di
quel presidio era comandata da un certo maistro Antonio Todesco capo de Bombardieri de li,
fedelissimo servitor. Il suddetto resta comunque un autore importante nella storia
dell’artiglieria perché ci ha lasciato una seconda spiegazione del funzionamento di quella di
bronzo da polvere, restandone la prima, come poi vedremo, quella di Andrea de Redusiis; e
tutto sommato ce ne da un’immagine piuttosto moderna. Poi, a partire dal secolo successivo,
a quelli che propendevano per i tedeschi si affiancheranno quelli che invece vorranno
100
attribuirne l’invenzione ai cinesi, citandosi ai predetti propositi autori e relatori chiamati
Ricardo Bertolino, Bertoldo (evidentemente il negromante di cui ora diremo), Giovanni da
Montenegro e la Historia della China del monaco agostiniano Juan Gonzales de Mendoza
(1540-1617); quest’ultimo viaggiò a lungo in quel vasto paese e in detta sua opera riferisce
d’aver visto le città cinesi armate di numerosissime artiglierie da sparo, alcune delle quali
avrebbero portato iscrizioni risalenti addirittura ai tempi di Gesù Cristo, e inoltre i soldati
cinesi armati principalmente d’armi da fuoco del tipo degli archibugi e dei moschetti; ma,
poiché nella seconda metà del Duecento né Marco Polo, il quale soggiornò nell’Asia centrale
circa 17 anni, né suo padre Nicolò né suo zio Matteo avevano visto in Cina e in Mongolia
nulla di tutto questo – e certamente Marco l’avrebbe riferito nel suo Milione, anzi sicuramente
avrebbe portato a Venezia dal suo viaggio qualche esempio di arma da fuoco cinese, è
innegabile che ai tanto più tardi tempi del de Mendoza fossero stati ormai i cinesi ad
apprendere la pirobalistica dai portoghesi tramite le travagliate colonie indiane di questi. Anzi,
nel Duecento in Asia non solo non si conoscevano ancora, come del resto in ogni altra parte
del mondo, le armi da fuoco ma nemmeno si erano mai visti quei congegni lapidanti
protagonisti degli assedi medievali in occidente; infatti, Nicolò, Maffeo e Marco Polo, come si
narra nella versione originale in francese del Milione, per ingraziarsi ulteriormente il Gran
Khan e aiutarlo a sottomettere la nemica città di Saianfu (sic), approfittando della presenza
nella loro masnada (‘compagnia di viaggio’) di due uomini, un austriaco e un cristiano
mediorientale (cristien nestorin), ambedue maestri in questo campo, fecero loro costruire tre
grossi mangani (fr. trebuches) capaci di lanciare pietre da 300 libbre:

… E quando i trabucchi furono arrivati all’esercito, li fecero drizzare e i tartari dimostraroro la


più grande meraviglia di questo mondo… (Recueil de voyages et de mémoires etc. Vol. I.
Voyage de Marc Polt. Cap. CXLVI. Parigi, 1824.)

La prima pietra che fu lanciata sfondò una casa della città con gran fracasso e suscitò gran
preoccupazione tra gli abitanti:

… E quando gli uomini della città videro questa mala ventura che non avevano mai visto
prima né restarono così attoniti e spaventati che non sapevano cosa dover dire né fare… (ib.)

Tennero consiglio e, giunti alla conclusione che, nonostante la loro fosse una città ricca e
importante, contro quelle nuove potenti armi non poteva trovar difesa alcuna, s’arresero al
Gran Khan:

… Vi ho dunque raccontato di come questa città si rese a causa dei trabucchi che fecero fare
messer Nicolò e messer Maffeo e messer Marco… (ib.)

101
Secondo una diffusa tradizione il primo ad accorgersi casualmente di questa nuova grande
forza propulsiva che il salnitro apportava alle misture incendiarie fu, non si sa bene in quale
parte d’Europa né in quale secolo del Basso Medioevo, ma presumibilmente nel tredicesimo,
come più sopra già accennato, un certo mastro Bertoldo, al qual nome s’aggiungeva
l’appellativo di ‘il Nero, evidente popolare e impropria risonanza della principale qualifica di
negromante, oltre che di alchimista, che aveva costui. Un giorno questo mastro Bertoldo, il
quale sarebbe stato poi appunto ricordato come Berthold der Schwarz, stava cercando di
ottenere un colore da pittore che fosse il più possibile simile all’oro e aveva messo a cuocere
sul fuoco, in una pentola di terraglia ben chiusa, salnitro, piombo (frm. ploncq), solfo e olio;
ma, quando detta miscela raggiunse una certa temperatura, la pentola scoppiò e si ruppe in
più pezzi e il contenuto si sparse intorno; Bertoldo lo raccolse meglio che poté e lo rimise a
cuocere, ma stavolta, pensando che la colpa di quanto avvenuto fosse stata l’aria che era
inevitabilmente contenuta nella pentola e che col calore era aumentata di volume, ne usò una
di rame con il coperchio inchiodato che non permetteva assolutamente all’aria di uscire; ma
anche questa seconda pentola volò in pezzi. Vedendo quest’effetto della sua mistura, mastro
Bertoldo ne intuì la forza propulsiva e fece altri esperimenti sinché, tolti l’olio e il piombo e
aggiunto carbone, infilò la miscela in un tubo chiuso da un lato e vi aggiunse anche una
pietra; questa, una volta acceso il composto - forse con una miccia dalla stessa bocca o forse
da un forellino - saltò via molto lontano. Avrebbe così inventato le armi da fuoco, ma chissà
se il perduto piccolo manoscritto dal quale fu copiata questa storia era attendibile o no; noi
pensiamo che la storia dimostri sufficientemente che si tratta di una leggenda e non solo
perché non ci ha lasciato notizia di altre esperienze piriche primigenie avvenute in Germania,
ma anche perché, come più avanti vedremo, le cronache medievali spagnole ci raccontano di
soldati cristiani terrorizzati dalle bocche da fuoco usate dai mori di Granada, armi nuove che
vedevano per la prima volta.
L’origine storicamente più probabile delle armi da fuoco, nonostante se ne dichiarasse
ignorante lo stesso succitato bizantino Kalkokondilos, autore comunque già tardo rispetto
all’origine delle armi da fuoco, sembra invece da doversi storicamente collocare, a nostro
modestissimo avviso, proprio nell’impero romano d’oriente, dove non a caso avevano già
avuto molto sviluppo i già da noi ricordati sifoni navali da ‘fuoco liquido’. Nella sua più volte da
noi già citata Tattica, scritta attorno all’anno 900, l’imperatore Leone VI, tra le varie armi che
prescriveva alla sua armata di mare, poneva, oltre ai grandi sifoni incendiari da istallarsi a
prua su banchi di legno a quattro piedi, come già accennato, anche piccoli sifoni incendiari da
fante (ϰειροσίφωνα), insomma dei veri e propri predecessori degli schioppietti e delle
spingarde basso-medievali, una novità bizantina che non risulta infatti allora esistente in
102
nessun’altra parte d’Europa e che avvalora la nostra tesi che a inventare le armi da polvere
da sparo, non altro che evoluzione di quelle da fuoco, furono proprio i bizantini a seguito del
suddetto impulso dato ai ϰειροσίφωνα dall’imperatore Leone VI, anche se poi furono alcuni
dei mercenari lomgobardi di Bisanzio a diventarne i maestri e a diffonderne l’arte in Europa,
dove infatti il nome originariamente dato alle bombarde fu lombarde, diventandone presto
Brescia forse il primo importante luogo di produzione:

… Usandosi anche un’altra tattica, cioè di piccoli sifoni, i quali chiamano ‘manusifoni’, da
sparare a mano da dietro gli scudi di ferro tenuti dai soldati, disposti a tal proposito dal
comando dei frombolieri; saranno infatti loro a scaricarne il fuoco artificiato sul viso dei
nemici. (Χρήσασθαι δὲ ϰαὶ τῇ ἂλλῃ μεθόδῳ τῶν διὰ χειρὸς βαλλομένων μιϰρῶν σιφώνων
ὂπισθεν τῶν σιδηρῶν σϰουταρίων παρὰ τῶν στρατιωτῶν ϰρατουμένων͵ ἄπερ ϰειροσίφωνα
λέγεται͵ παρὰ τῆς ἠμῶν βασιλείας ᾃρτι ϰατεσϰευασμένα· Ῥίψουσι γὰρ ϰαὶ αὐτὰ τοῡ
ἐσϰευασμένου πυρὸς ϰατὰ τῶν προσώπων τῶν πολεμίων· Const. XIX, par. 57.)

Dunque a sparare questi piccoli sifoni da spalla, non esistendo ancora le armi da fuoco e i
fanti a quelle addetti, erano tenuti a imparare dei frombolieri e, usandoli, dovevano ripararsi
dietro a soldati che portassero i grandi scudi di cui abbiamo già detto, ma che questi scudi
fossero di ferro e non di legno né di cuoio perché naturalmente i fuochi emessi da questi
manusifoni avrebbero potuto facilmente bruciarli. Nell’Appendice della Tattica si dice che i
detti manusifoni erano stati tempo prima ideati dallo stesso Leone VI:

… e i detti manusifoni furono escogitati tempo addietro dalla nostra maestà… (ϰαὶ τὰ
λεγόμενα χειροσίφωνα͵ ἂπερ νῡν ἠ βασιλεία ἠμῶν ἐπενόησε. Cap. LIII.)

L’aspetto però qui più interessante è che, usandosi allora certamente nelle misture
incendiarie di fuoco liquido anche il salnitro, imprescindibile da quelle a motivo delle sue
peculiari virtù propulsive, doveva esser stata cosa inevitabile che prima o poi qualche residuo
ammassato di mistura, magari nememno accesosi, andasse a colpire e a ferire il volto d’un
nemico, facendo così nascere nel sifonista l’idea di aggiungere alla mistura stessa qualche
piccola pietra che fungesse da proiettile; ed ecco quindi inventata l’arma da fuoco. D’altra
parte c’e davvero un forte indizio di quanto affermiamo e cioè che, come poi avverrà nella
polvere da sparo, anche nel cosiddetto ‘fuoco greco’ si usava lo zolfo come elemento
d’accensione degli altri elementi:

… allora nello stesso tempo accenderanno il fuoco liquido con il solfo… (τότε ἐν μιᾷ ὢρᾀ
θεαφίῳ τὸ ὐγρὸν πῡρ ἀνάψωσι. Giorgio Franzes, cit. LT. III, par. IV).

E’ veramente incredibile come gli studiosi non abbiano mai tratto le debite conseguenze dai
chiari collegamenti storici tra l’uso secolare bizantino del cosiddetto fuoco greco e l’origine

103
della polvere da sparo! Vedi per esempio il contrammiraglio Ettore Bravetta (L’artiglieria e le
sue meraviglie ecc. Milano, 1919), il quale, pur intuendo la certa derivazione della polvere
pirica dalle misture usate per la formulazione del fuoco greco, non si spinge fino all’inevitabile
conclusione e cioè che l’invenzione della polvere da sparo è sicuramente da attribuirsi ai
bizantini, cioè agli unici esperti di fuoco greco o liquido, come allora si diceva, che al mondo
ci fossero. Che poi quelle prime esperienze di polvere pirica fatte a Bisanzio siano state
magari esportate in Germania da qualcuno dei tanti mercenari tedeschi che ritornavano dal
servizio prestato in quell’impero e lì ulteriormente sviluppate in una vera e propria artiglieria
da polvere è un’altra circostanza più che ammissibile.
Secondo Francesco de Marchi (Della architettura militare et fonditione dell’artiglieria etc.
Brescia, 1599.) ci sarebbero stati esempi di pirobolia già nelle cronache del Duecento, ma,
pur facendo egli alcune interessanti citazioni, ciò nondimeno restiamo molto perplessi dalla
datazione a queste attribuita dal suddetto autore e ciò sia perché egli è l’unico a portare
esempi di pirobolia di quel secolo sia perché, come vedremo, i documenti d’archivio e le
narrazioni storiche non confortano affatto le sue affermazioni in proposito; ci sono però due
eccezioni, una delle quali troviamo nella Chronaca foroliviensis di Leone Cobelli (1425-1500),
il quale dice che nel 1281 il capitano generale forlivese Guido Feltrano sconfisse i francesi
con un esercito in cui c’erano due turme di fanti, una armata di balistrieri et scopittieri e una di
targoni, ossia di armati di scudo (gr. e grb. θυρεοφόροι o θυρεαφόροι) e zagaglia; ma poi
subito dopo parla di altre turme de fancti balestre et targoni, senza più parlar di scopette,
arma questa in uso al suo tempo ma certo non ancora nel 1281, trattandosi quindi
chiaramente di un errore storico del Cobelli, errore che però il nostro preziosissimo Angelucci
prenderà per buono.
La seconda eccezione, anch’essa però inaccettabile, si reperisce negli Anales di Gerónymo
Zurita, dove, all’anno 1282 e a proposito dell’inizio della guerra della Meloria tra pisani e
genovesi, si legge che un’armata di mare dei primi entrò nel porto di Genova e sottopose la
città a tiri di lombardas, cioè di armi da fuoco [y entraron dentro del puerto de Genova […] de
donde lombardearon la ciudad. Da Annali d’Aragona. Tomo II. LT. V, p. 620. Saragozza,
1668]. Vero è che lo Zurita visse circa tre secoli dopo gli avvenimenti che narra e quindi
potrebbe non esser attendibile, anche perché non dichiara da dove ricavò quella memoria; in
altre pagine afferma solo di aver letto il Villani e Bernardino Corio e, d’altra parte, in qualche
caso egli stesso si poneva dei dubbi per aver trovato contraddizioni in quanto andava
leggendo. Per fare un esempio sulle ponderazione che bisogna esercitare prima di decidersi
a ripetere affermazioni di un cronista a posteriori quale fu appunto Gerónymo Zurita,
possiamo dire che egli a p. 22 del suo secondo tomo – anno 1322 – scrive che Bernaldo de

104
Sarria, un capitano rico hombre (‘cittadino possidente’) catalano, il quale si era trasferito in
Sicilia alla testa di 300 uomini d’arme a cavallo e circa mille pedoni per difendervi gli interessi
della corona d’Aragona, estava en Palermo con su tercio, quando, come si sa, i reggimenti
spagnoli di fanteria non presero questo nome né le caratteristiche del tercio prima del
Cinquecento, cioè non prima del secolo in cui appunto visse lo Zurita; lo stesso si può dire
quando, per l’anno 1346 (ripetendosi poi più avanti anche per gli avvenimenti del 1353 e del
1354), narra che i messinesi armarono treynta galeras entre bastardas y ligeras, quando
avrebbe dovuto dire galeras gruesas y ligeras, nel senso d’allora di uscieri porta-cavalli e
galere ordinarie, in quanto quelle bastarde o quartierate non si vedranno, come poi meglio
spiegheremo in altra nostra opera, prima appunto della sua stessa epoca, cioè della fine del
Cinquecento, e poi, all’anno successivo, quando definisce Carlo Grimaldi capitan general
dela armada de Francia, e ancora al 1351, dove anche dice Perino Grimaldi generale
dell’armata di galere genovese, titolo che allora proprio ancora non esisteva, chiamandosi il
comandante in capo di un’armata, anche se di sole galere, ancora ammiraglio. Infine, lo
Zurita descrive le artiglierie della battaglia di Barcellona del 1359 con una certa
approssimazione e anche confusione di circostanze, rispetto a quanto possiamo leggere
direttamente nelle cronache originali, aragonesi e castigliane, da lui utilizzate per ricostruite
detto episodio, il che ci lascia capire quanto possa esser stato impreciso e approssimativo in
tutta la sua opera.
Certo è che nel Chronicon ariminense di anonimi vediamo all’anno 1312 Malatesta signore di
Rimini assediare Sogliano, feudo del fratello Gianne, con ben 12 trabucchi, il che significa
che di bombarde non ne aveva, altrimenti i trabucchi, pur essendoci, sarebbero certo stati di
numero molto minore, vista la piccolezza del sito nemico:

… e pose tre osti a Sogliano con XII trabucchi, i quali traevano dì e notte; e finalmente si
renderono a patti. E questo fu anni MCCCXII… (In LT.A. Muratori. Cit. C. 896, t. XV. Milano,
1727).

D’altra parte ancora nel 1357, all’assedio portato da Galaotto Malatesta con il legato pontificio
cardinale Egidio, spagnolo, prima alla città vecchia di Ancona e poi al suo cassaro
(‘maschio’), entrambi tenuti dai ghibellini, s’usavano solo mangani e nessuna canna da
polvere:

… E poi se fe’ fare fossi e pallade (‘palizzate’) intorno la terra vecchia al cassaro (‘maschio’)
di Cesena. E poi fe’ dirizzare sei trabucchi, i quali traevano dì e notte. E fece fare
grandissime cave e fe’ cadere de le mura in quantitade per cagione delle dette cave…
E qui pose sei trabucchi, i quali traevano dì e notte pietre grosse e altra sozzura. Poi si fe’
afre quattro cave grandi e condussele assai fatto fine, che, s’egli avesse fatto infocare le

105
dette cave, il detto cassaro andava in terra (An. Chronicon ariminense etc. In LT.A. Muratori.
Cit. C. 904-905, t. XV. Milano, 1727).

Tornando poi allo Zurita, egli narra che nel 1316, avendo deciso Federico d’Aragona
d’assediare il castello di Castellammare del Golfo tenuto allora da forze del suo avversario
Roberto d’Angiò, la vicina città di Palermo gli inviò il contributo di algunos trabucos y ciertas
compañias de ballesteros (Anales. T. II, LT. VI), il che significa che le artiglierie da polvere,
come allora si sarebbe detto, ancora non c’erano o che perlomeno non erano ancora in uso
generale.
Sono comunque certi primi impieghi dell’artiglieria nella prima metà del Trecento e, per ciò
che concerne poi la prima notizia di ciò in assoluto, c’è ancora il detto Zurita, stavolta all’anno
1331, p. 100, nell’ambito delle guerre tra Yusuf I sultano di Granada (1318-1354) e il re di
Castiglia e Leon Alfonso XI (1312-1350):

… y puso en aquel tiempo grande terror una nueva invencion de combate que, entre las
otras maquinas que el rey de Granada tenia para combatir los muros, llevava pelotas de
hierro que se lançavan con fuego…

Naturalmente le circostanze più notevoli che si evidenziano in questo passo sono due e cioè
l’uso di armi da fuoco da parte dei mori, i quali l’avevano appreso nel Levante dai bizantini,
loro secolari nemici, già quindici anni prima della battaglia di Crécy e inoltre che con la prima
artiglieria da sparo, come confermato del resto anche dal Villani, si lanciassero palle di ferro e
non di pietra, come si è sempre creduto. Una seconda menzione, in ordine di tempo, d’uso
d’armi da fuoco riguarda il 1334 e le guerre italiane tra guelfi e ghibellini e più avanti la
vedremo. Frattanto i cristiani di Spagna, quelli stessi che ai mori si opponevano,
continuavano ad affidarsi ai congegni lapidanti e lo faranno ancora per lungo tempo; infatti,
per cominciare con il 1341, in quell’anno ci fu a Tarragona un concilio dei più alti prelati del
regno di Aragona nel quale furono espresse lamentele al re Pietro IV, il quale intendeva
continuare nel suo aiuto bellico ad Alfonso XI, re di Castiglia e León, da tanto impegnato nella
liberazione dai mori del regno di Granada, e soprattutto ci si riferiva alla tradizionale servitù
dovuta all’esercito dalle popolazioni delle terre ecclesiastiche, servitù che si concretizzava nel
doversi occupare del trasporto in guerra de los ingenios y pertrechos y machinas de guerra
(Zurita, Anales. T. II, LT. VII). Per la cronaca, il re si dichiarò disposto ad ascoltare quelle
lamentele, ma nel frattempo chiese ancora al clero un tangibile aiuto economico per la nuova
campagna che stava preparando. Poi nel 1354 Pietro IV d’Aragona andò a porre assedio alla
città di Alghero e lo Zurita così riporta:

106
… e si presero dalle navi e dalle galere i congegni d’assedio (‘para combatir’) che portavano
y, una volta erette, cominciarono a battere la città, perché il re si era prefisso di prendere quel
luogo con il minor danno possibile per i suoi. A tal fine si comandò di costruire diversi castelli
di legno (‘bastite’) e molte macchine d’assedio che chiamavano gatte, mantelline e arieti
(‘bancos pinjados’, cioè letteralmente ‘travi appese’) e altri artifici […] che era tutta l’artiglieria
grossa di quei tempi così per appianare i fossati della città come per batterla. Però erano di
tanto imbarazzo e peso che ai primi tiri se ne ruppero quattro dei maggiori come se fossero di
legno marcio; comunque, due che restavano batterono tanto furiosamente che abbatterono
due torri.
… si fecero diversi artifici e macchine e tra le altre un forte di mattoni crudi pieno di botti di
terra […] e un castello di legno coperta di cuoi di vacca e in queste macchine si pose molta
balestreria per difendere da esse un’altra macchina più grande che chiamavano ‘gatta’,
anch’essa incuoiata, dalla quale si appianava il fossato per potersi avvicinare a battere il
muro… (Anales. T. II, LT. VIII.)

A proposito di congegni lapidanti malfatti, un inconveniente come quello sopraricordato era


capitato nel secolo precedente anche al re di Castiglia Ferrando III (1230-1252) quando
assediava Alcalá del Rio:

… e comandò di battere molto fortemente la città, ma non la poterono molto danneggiare


perché i congegni si rompevano tutti alla seconda o terza pietra che tiravano e così dovevano
più pensare a ripararli che non ad adoperarli (Las quatros parte de la corónica de España
etc. Quarta parte, p. 333. Valladolid, 1604.)

Un indubitabile primato nell’uso sempre più generalizzato di artiglierie da fuoco e di palle di


ferro verrà attribuito ai mori anche da un altro storico – o meglio cronachista, Juan Nuñez de
Villasan, e cioè a quelli che poco più tardi, cioè nel biennio 1342-1343, difenderanno
Algeciras dall’assedio degli alleati castigliani e aragonesi; in questo caso si tratterà di truenos
che, quasi novelle espringales, in alternativa a grossi dardi sparavano anche palle di ferro

… E i mori della città tiravano con molti troni contro l’esercito, con i quali lanciavano grosse
palle di ferro, della grandezza di mele molto grandi, e le lanciavano così lontano dalla città
che alcune d’esse passavano oltre l’esercito, altre colpivano l’esercito. Con i troni lanciavano
anche dardi molto grandi e molto grossi, cosicché si vedevano lì dardi particolarmente grossi
(Juan Nuñez de Villasan, Cit. Cap. CCLXXIII, f. 148 recto).
… E dalla cinta della città lanciavano molte frecce di balestra da torno (‘da mulinello’) e di
trono e altresì tiravano molte palle di ferro con i troni (ib. F. 153 verso).
… [de saetas y de piedras de hierro che lançavan con los truenos (ib. F. 154 recto).
… tiravanles muchas pellas de hierro con los trueno (ib. F. 158 verso).
… e dalla parte della città lanciavano molte palle di ferro con i troni e molte frecce d’arco e di
balestra (ib. F. 167 verso).

A quell’assedio erano dunque sempre i difensori mori a servirsi di queste prime armi da
fuoco, mentre i cristiani che li assediavano non solo non ne avevano ancora ma, specie quelli
che lavoravano a erigere bastite offensive nel fossato della città, ne avevano anzi una gran
paura per le gravissime ferite che ne riportavano:
107
… E questo lavoro delle bastide e della loro custodia durò una quantità di giorni e, poiché era
molto vicino alla città, i cristiani ne soffrirono grandissimo affanno, dovendo restar armati di
notte e di giorno e ricevendone moltissimi colpi di freccia e di pietra lanciati con i congegni e i
trabucchi (‘con los engeños y con los trabucos’) e altresì molte palle di ferro che tiravano loro
e delle quali gli uomini avevano grandissimo spavento, perché, qualsiasi membro di un uomo
colpissero, glielo portavano via quasi come se glielo avessero tagliato con un coltello e, per
quanto poco vuoi che uno fosse ferito da quelle, era presto morto e non c’era chirurgo
(‘çurujano’) alcuno che gli potesse esser utile, sia perché arrivavano ardendo come (fossero
di) fuoco sia perché le polveri con le quali le lanciavano erano siffatte che, qualsiasi (tipo di)
piaga gli lasciassero, presto l’uomo era morto; e arrivavano così violente che trapassavano
un uomo con tutte le sue armature. Pertanto le bastide si fecero, ma vi morirono molti cristiani
tanto di quellli che vi lavoravano quanto di quelli che vi montavano la guardia…
… E tra gli altri faceva la guardia a dette bastide un cavaliere che chiamavano don Beltran
Duque e che da tempo seguiva il re ed era nativo del regno di Maiorca; lo colpirono con una
palla di trono nel braccio e glielo mozzarono e morì subito; il giorno seguente accadde lo
stesso a tutti quelli che erano stati feriti dal trono… (Ib. Ff. 159 verso; 160 recto).
… I mori che furono accolti nella città prepararono immediatamente i loro troni e con quelli
tiravano contro i cristiani grandi palle di ferro; altresì tiravan loro molte saette di balestra da
torno (‘da mulinello’) e di altre balestre, delle quali avevano molte, e inoltre tiravano molte
frecce d’arco e con (tutto) ciò ferivano e uccidevano molti dei cristiani… (Ib. F. 170 verso)

Questi truenos dei mori non erano dunque armi da fuoco da porto personale ma vere e
proprie piccole artiglierie, visto che le loro palle erano grandes, cioè tanto grandi da portar via
una gamba, un braccio o una testa; e, poiché i chirurghi militari del tempo non sapevano
ancora come arrestare una tale violenta emorragia, i feriti ne morivano velocemente
dissanguati. Era comprensibile che quei soldati, abituati a ferite di freccia o di pietra lanciata
da un congegno lapidante, cioè di proiettili non tanto violenti da portar via interi arti, ne
fossero terrorizzati ed è interessante notare che, più che a detta inusitata violenza di tiro,
attribuissero la causa di quelle spaventose ferite alla circostanza che le palle arrivavano
ardenti como fuego e alla stessa natura della polvere da sparo, a loro ancora misteriosa. Che
i mori lanciassero ai cristiani le loro palle arroventate – il che significa che già allora avevano
buona dimestichezza con il caricamento delle armi da fuoco – è confermato più avanti,
sempre in occasione di quell’assedio di Algeciras:

… E quelli che stavano di guardia uscirono a tirar saette ed altri tiravano dalle troniere (cst.
aldarves) palle di fuoco con i troni […] e in tutto ciò era il re molto spaventato,
segnalatamente per quel che riguardava i troni (ib. F. 181 verso).

Dunque è proprio dall’uso dei troni che venne il termine troniera (‘feritoia’). Lo spavento dello
stesso re Alfonso XI, il quale era ormai un uomo fatto, avendo allora già 31 o 32 anni,
dimostra che nemmeno lui aveva in precedenza mai avuto molto a che fare con le armi da
fuoco.

108
Procedendo nell’assedio i cristiani cominciarono però ad abituarsi anche alle armi da fuoco
del nemico e, un giorno che i mori fecero una pericolosa sortita, li ricacciarono nella città
inseguendoli nel fossato senza più alcuna paura dei troni posti sulle mura:

… e i cristiani furono di nuovo congiuntamente contro di loro senza alcun timore né dei
troni né d’altro che potesse loro succedere e assalirono i mori in tal maniera che quelli non
riuscirono a sostenerli e tornarono nella città fuggendo… (ib. F. 167 verso).

Insomma, a leggere queste cronache medievali iberiche, sembra proprio che i mori siano
stati gli antesignani dell’uso di artiglierie da sparo e già lo notava il Crollalanza nella sua
Storia militare di Francia (vedi nota ‘a’ a p. 636 del Libro II), autore che però, nel trattare delle
origini dell’artiglieria, oltre a considerare ingenuamente quello di bombarde un semplice nome
e non una precisa tipologia di bocche da fuoco, da buon epigono del Brunet (Histoire
générale de l’artillerie), il quale dedicò all’uso dei congegni a contrappeso medievali solo un
impercettibile accenno, dimostrò, come del resto anche lo Zurla, di non essersi
assolutamente accorto che tra il periodo dei congegni antichi elastobalistiche e quello delle
bombarde da polvere c’era stato appunto quell’importante e plurisecolare passaggio
medievale intermedio e cioè appunto l’uso di mangani, briccole e trabucchi, ossia dei
congegni d’assedio a contrappeso; e questo è infatti il principale pericolo che corrono tutti
coloro che costruiscono le proprie ricerche molto su quelle fatte da altri prima di loro e poco
su i documenti e i testi originali. Poi venne il Valturio, molto letto e citato purtroppo dagli autori
dei secoli successivi, il quale portò grandissima confusione in materia di congegni bellici da
tratto (dal gr. ἂτραϰτος, ‘freccia’) dell’antichità, al punto per esempio da arrivare a definire
ballista una bombarda trecentesca da lui raffigurata, e d’altra parte non si dette minima pena
di spiegare i congegni lapidanti in uso al suo tempo, non commentando per nulla nemmeno
alcune pur interessanti sue illustrazioni.
Si può dunque solo pensare, se proprio vogliamo conciliare queste memorie storiche con la
suddetta leggenda del negromante tedesco Berthold, che i sultani del Marocco siano stati i
primi a credere nei polveristi e bombardieri tedeschi e ad assumerli con profitto; poi lo farà il
sultano turco Amurat II, il quale nel 1421 assedierà Costantinopoli battendola con artiglierie
azionate appunto da artiglieri tedeschi mercenari (Laonikos Kalkokondilos, De rebus turcicis,
lt. V) e lo imiterà poi Maometto II nel 1453, quando cioè i turchi riusciranno a prendere la città
e il suo impero. Il suddetto primato fu perso dai moriscos perché i cristiani in Spagna seppero
non solo trar anch’essi vantaggio dalle bocche da fuoco, ma in seguito anche dei suoi
sviluppi e potenziamenti molto meglio dei mori, tanto che, descrivendo l’assedio posto
appunto dai cristiani alla moresca Setenil nel 1484, quindi quasi un secolo e mezzo dopo
dopo, lo Zurita così scriveva:
109
… Intendendosi la grande rovina che faceva l’artiglieria e lo spavento che procurava ai mori, i
quali erano abituati a un tipo di guerra molto differente, comandò il re (Ferdinando II
d’Aragona) di accrescere il numero delle lombarde e delle artiglierie da campo [...]; ma poiche
essi (‘i mori’) non avevano artiglieria, essendo combattuti da quella che portava il re nel suo
campo, tenuta molto in ordine per il gran lavoro di Francisco Ramirez, il quale era il capitano
maggiore di quella, non trovavano i mori rimedio né riparo alcuno nei combattimenti (Anales.
T. 2-2, lt. XX, c. LX.)

Per concludere questo argomento di quei primigeni truenos usati dai mori di Spagna, con i
quali essi sparavano sia palle sia corti dardi, ecco dunque trovata l’origine dei termini italiani
‘sparo’ e ‘sparare’; ai tempi dell’antica Roma infatti sparus e sparum si chiamava appunto un
tipo di “giavellotto assai corto, proprio dei contadini”, come spiega il primario vocabolario di
latino Gheorghes-Calonghi e come infatti per esempio leggiamo nell’Eneide di Publio Virgilio
Marone (Agrestisque manus armat sparus. Libro XI, v. 82) e nel Bellum Catilinarium, dove si
descrive com’era armato l’esercito raccogliticcio di Catilina, tra l’altro spari, pertiche con
punte di ferro lanceolate e pertiche con la punta semplicemente appuntita:

… Sed ex omni copia circiter pars quarta erat militaribus armis instructa: ceteri, ut quemque
casus armaverat, sparos aut lanceas; alii præacutas sudes portabant. In Caio Sallustio
Crispo, Omnia quae extant opera cum variorum notis. C. 1129. Venezia, 1840.

Marco Verrio Flacco, enciclopedista romano che visse tra il I sec. a.C. e il I d.C., riportato dal
già citato Festo, scriveva che questi spari erano dardi gallici e che in Italia se ne usavano di
simili detti murices (cit. P. 369). Ecco quanto infatti Festo, riprendendo l’argomento, poi
aggiunge:

Spari: dardi di piccolissimo tipo, così detti da ‘spargendo’. Lucilio: «Allora si portano spari,
murici e inoltre traguli» (Spara: parvissimi generis iacula a spargendo dicta. Lucilius: «Tum
spara, tum murices portantur tragula porro.» Cit. P. 489).

I traguli erano giavellotti recuperabili dopo il tiro a mezzo di una correggia con la quale
restavano legati al tiratore, metodo utile specie quando si erano andati a infiggere in uno
scudo nemico, come spiega Festo (Cit. P. 559). Per quanto riguarda invece il primo uso delle
armi da fuoco in una battaglia campale, da sempre si è citata quella continuazione delle
Istorie fiorentine di Giovanni Villani scritta dal fratello Matteo, nelle quali infatti si narra che
alla coeva battaglia di Crécy del 1346 gl’inglesi usarono armi da fuoco:

… E ordinò il re d’Inghilterra i suoi arcieri – che n’avea gran quantità – su per le carra e tali di
sotto con bombarde che saettavano pallottole di ferro con fuoco per impaurire e disertare i
cavalli de’ franceschi…

110
Quest’osservazione delle pallottole di ferro, le quali poi, come vedremo, caratterizzaranno
quasi tutta l’artiglieria sia della seconda metà del Trecento sia dei secoli seguenti, con una
cospicua eccezione del solo Quattrocento, nel quale invece si preferirono i proiettili di
piombo, quest’osservazione dunque lascia pensare che il Villani volesse intendere che si
trattava di un’innovazione introdotta allora dagli inglesi, mentre sul continente si usavano
invece correntemente le bombarde a proiettili di pietra e ciò anche se in verità i Villani, nel
descrivere le tante guerre d’Italia di quei tempi, non fanno più giammai altra menzione di
bombarde, neppure a proposito di assedi, e sempre dicono infatti gli eserciti ossidionali
utilizzare ancora solo congegni lapidanti e macchine di legno in genere:

… Stando l’oste (fiorentina) intorno alla scarperia e dando opera i capitani a far fare (e)dificii
da traboccare nella terra per rompere le torri e mura e gatti e altri ingegni di legname… (M. e
F. Villani)

D’altra parte altre cronache, per esempio quelle ferraresi pubblicate dal Muratori, non parlano
assolutamente di uso di armi da fuoco in quella battaglia e solo confermano il virile confronto
avvenutovi tra i balestrieri genovesi al servizio francese e gli arcieri inglesi, con il prevalere
dei secondi e conseguente fuga del re di Francia. Le suddette palle di ferro offrivano un
vantaggio importante e cioè che non si fermavano al primo impatto, schiacciandovisi su come
facevano invece quelle di piombo, ma, essendo indeformabili, proseguivano schizzando via e
saltellando per il campo nemico e provocando così molte più vittime; quelle di pietra invece,
poiché al primo impatto perlopiù si spaccavano, facevano molte vittime con le loro schegge;
comunque nel secolo successivo i truenos saranno convertiti ai proiettili di pietra (piedras de
truenos, vedi Crónica de D. Álvaro de Luna etc. Cit. All’anno 1446. Tt. LXII, LXIII. Pg 163,
164, 171). Ma, per tornare a Crécy, Giovanni Villani riporta che in quella battaglia gli inglesi
ebbero la meglio perché i loro arcieri impiegavano a saettare tre frecce lo stesso tempo che i
balestrieri genovesi al servizio francese impiegavano a tirare invece uno solo dei loro
quadrelli; e in più avevano l’artiglieria da sparo, risorsa che evidentemente, perlomeno in
quella battaglia, ai francesi invece mancava:

… sanza (dire) i colpi delle bombarde, che facieno ‘sì grande tremuoto e romore che parea
che Iddio tonasse, con grande uccisione di gente e sfondamento di cavalli…

In Italia l’uso di una bombarda appare per la prima volta a proposito dell’anno 1364,
nell’ambito delle guerre tra guelfi e ghibellini toscani:

… Pisani andoro con loro gente a dì 12 luglio su quel di Firenze […] corseno infino alle porte
di Pescia e gittarovi dentro colla bombarda molte pietre e quadrella e lancie e fero molto
111
danno d’ardare e robare (‘e poi fecero molto danno incendiando e rubando’. Nerio di Donato,
Annali senensi, all’anno 1364. Cit.)

Il de Redusiis, nel suo Chronicon tarvisinum nomina la prima volta le bombarde all’anno
1373; sempre molto citato è stato poi anche lo storico ligure Paolo Interiano, il quale narra
che l’anno 1376 alcuni tedeschi vennero a Venezia a presentare a quel senato due bocche
d’artiglieria in ferro; queste bocche da fuoco sarebbero state quelle poi usate con successo
dai vascelli veneziani contro i genovesi nella guerra (1378-1381) per il recupero della terra di
Fossa Claudia, vale a dire di Chioggia; ecco per esempio il commento che di detta memoria
storica dette il Collado:

… E questa è la maggior chiarezza ch’io habbia potuto havere della polvere e dell’artiglieria,
del tempo e del luogo ove fu ritrovata ed adoperata, benché io habbia dispensato molto
tempo, letto molti libri e dimandatone a molti studiosi. (Luis Collado (1520-1589), Prattica
manuale dell’artiglieria etc. Venezia, 1586; p. 16 dell’ediz. di Milano, 1606.)

Ma in verità la cronaca della guerra di Chioggia del Chinazzo ci dimostra che a quel tempo le
bombarde erano già molto evolute, differenziate e di uso comune nella guerra sia terrestre
sia marittima e ciò concorda con rintracciarsi loro prime notizie datate già 15 anni prima della
battaglia di Crécy, come abbiamo già detto, mentre in Italia sarebbero dunque arrivate più
tardi e cioè dopo la metà del secolo. Infatti anche negli Annales genuenses dei già ricordati
fratelli Stella, a proposito di detta guerra di Chioggia, troviamo un accenno (ma non il primo,
come abbiamo appena visto) all’uso di bombarde, dove cioè vi si narra che il 18 gennaio
1380 il capitano generale dei genovesi Pietro d’Oria vi morì colpito da una pietra lanciata da
una bombarda veneziana (lapidis ictu percussus ab instrumento bombarda vocato. Colt.
1.115), e poi, all’anno 1398, un secondo in occasione di un ennesimo scontro tra guelfi e
ghibellini genovesi (machinarum, quae bombardae dicuntur, lapides vero ex aliquo dato
ordine jaciebantur), e poi all’anno 1400 in una simile occasione (machinarumque, quas
vulgus bombardas nominat, lapides de Castelleto versus Portam Novam saepius emittuntur),
all’anno 1402 (machinarum ictis, quae bombardae lingua vulgari dicuntur), all’anno 1409
(instrumentorum pro jacendis impetuose lapidibus, quae bombardas vulgus nominat […] vas
ferreum grossos emittens lapides, quod vulgaris italorum lingua bombardam asserit), all’anno
1411 (instrumenta, quae vulgus bombardas nominat, plures jecerunt lapides) e al 1418
(machinis praesertim lapides emittentibus, quas bombardas dicuntur).
Nel frattempo le bombarde si usavano anche nelle guerre civili di Fiandra e nel 1382,
all’assedio di Oudenaarde, gli assedianti, insieme ad altri innovativi congegni da lancio di cui
abbiamo già detto, usavano una bombarda, smisurata per quei tempi, con la quale sparavano
contro gli assediati non palle di ferro ma grossi quadrelli:
112
… Inoltre, per far restare ancora più attoniti quelli della guarnigione di Oudenaarde, fecero
fare e mettere in opera una bombarda meravigliosamente grande, la quale aveva 53 pollici
(‘pols’) di bocca (‘bée’) e gettava quadrelli meravigliosamente grandi, doppi e pesanti; e,
quando tale bombarda scattava, s’udiva di giorno da ben cinque miglia lontano e di notte da
dieci e faceva venire così gran bufera che sembrava che tutti i diavoli fossero usciti
dall’inferno (Jean Froissart, Chroniques. LT. II, par. 88, p. 248. Parigi, 1897).

L’artiglieria del Trecento, ossia del primo secolo, si distingueva infatti soprattutto per due
caratteristiche attinenti ai proiettili, come già accennato, e cioè l’uso di palle di ferro e di
spessi dardi da balestra, detti questi in italiano quadrelli o verrettoni e che potevano più o
meno robusti a seconda se fatti per balestre da caricarsi con un solo piede o con ambedue i
piedi; ma in verità una bocca così ampia come quella sopra riportata dal Froissart, il quale
comunque confermerà poi le suddette affermazioni poco più avanti (ib. par. 99, p. 272),
sembra in verità esser adatta più per grossi carichi di pietra piuttosto che per detti proiettili.
Certo questo poeta e famoso cronachista non era anche un esperto della nuova arte
dell’artiglieria e potrebbe aver fatto confusione tra le bombarde usate in quell’assedio.
Dopo il suddetto Pietro d’Oria, un altro importante personaggio che fu in quei tempi ucciso da
un colpo di bombarda fu, questa volta però nel regno di Napoli, Loise de Capua conte di
Altavilla, colpito al fianco durante l’assedio della città di Capua avvenuto nel predetto 1398
(An. Diaria neapolitana etc. In LT. A. Muratori. Cit. C. 1.066, t. 21. Milano, 1732.); ancora, nel
1438 Alfonso d’Aragona assediò una prima volta Napoli e fallì l’impresa, mentre suo fratello
Pietro ne restava ucciso da un proiettile di bombarda (ἔνθα ϰαὶ ὁ ἀδελφὸς αὐτοῦ βληθεὶς
τηλεβόλᾠ ἐτελεύτησε. LT. Calcocondile, De rebus turcicis. LT. V); infine, nel 1453, il capitano
dei genovesi, certo Longo, che partecipavano alla difesa di Bisanzio, assediata dai turchi, fu
ferito a una mano appunto da una palla di bombarda durante le ultime fasi dell’assedio (ib.
LT. VIII). Ma, come abbiamo appena visto con il caso della battaglia navale di Barcellona del
1359 e come ancora vedremo, molti, toscani e veneziani inclusi, avevano usato le bombarde
già molto prima della guerra di Chioggia e sembra dunque che il Collado non abbia avuto a
disposizione granché per queste sue ricerche e, a ulteriore dimostrazione che in ogni epoca i
militari, anche se ottimi nella loro professione, fanno sempre della magre figure quando
pretendono di scrivere di storia, anche se di argomento bellico, ancor meno si sprecò il Sardi:

Quanto alla origine delle nostre macchine moderne dell’artiglieria e suoi inventori, multi multa
dicunt. (Pietro Sardi, (1560-c.1640), Corona imperiale dell'architettura militare etc. P.n.n.
Venezia, 1618.)

D’altra parte a quanto narrato dall’Interiano per l’anno 1376 si oppone il de Redusiis nel suo
Chronicon, dove, a proposito del nuovo tentativo di prendere l’imperiale Tarvisio fatto dalla

113
Serenissima in quello stesso anno, dice i veneziani aver fabbricato loro le bombarde che in
quell’occasione usarono:

… vi tamen bombardarum, quae ante in Italia nunquam visae nec auditae fuerant, quas
veneti mirabiliter fabricari fecerunt (LT. A. Muratori. Cit. T. XIX, c. 754).

Ma lasciamo andare le opinioni poco documentate e atteniamoci invece ai documenti


d’archivio e alle cronache coeve; gli esempi di cronache duecentesche italiane che, a dire
dell’Angelucci nel suo pur meritevolissimo saggio sulle bombarde, a proposito di alcuni
assedi già nominerebbero queste armi, una volta controllati, ci parlano invece solamente di
machinae e di balliste, anche se, nel caso dell’Historia fiorentina di Leonardo Aretino,
l’Angelucci da evidentemente credito al traduttore dell’Ottocento, Donato Acciajuoli, il quale
tradusse molto impropriamente, arbitrariamente e indebitamente in italiano il primo dei detti
due termini con bombarde. Considerazioni analoghe si possono fare anche a proposito
dell’Historia bononiensis di Matteo de Griffonibus. Certo è singolare che l’Angelucci, per
sostenere un primato italiano anche in questo settore della pirobolia, si lasciasse andare a
simili tentazioni, soprattutto quando si consideri che non solo conosceva, ma anche citò i
primi documenti d’archivio italiani che davvero menzionino armi da fuoco e si tratta di carte
del 1326 che si conservano (o forse si conservavano) nell’Archivio Centrale Toscano di
Firenze. Nella prima d’esse, datata 11 febbraio 1326, il Comune di Firenze deliberava
l’ingaggio di uno o due mastri che fabbricassero canne e pallottole di ferro per la difesa della
città, dei suoi castelli e delle sue terre:

… ad fatiendum et fieri fatiendum pro ipso Comuni pilas seu palloctas ferreas et canones de
mettallo pro ipsis canonibus et palottis habendis et operandis per ipsos magistros et offitiales
et alias personas on defensione Comunis Florentie (sic) et Castrorum et terrarum que pro
ipso Comuni tenentur et in dampnum et preiudicium inimicorum. (Giovanni Gaye, Carteggio
inedito d’artisti dei secoli XIV, XV, XVI etc. T. I. P. 469. Firenze, 1839.)

E che si sia proprio agli inizi dell’artiglieria da sparo italiana lo dimostra non solo l’uso di
pallottole di ferro invece di quelle di piombo che caratterizzeranno invece il secolo
successivo, ma anche e soprattutto la circostanza che ancora si usava il termine generico
ultramontano di canones (‘canne’) invece di quello prettamente italiano di bombarde.
Sennonché, dopo solo circa due mesi, il 23 aprile, il Comune di Firenze, essendosi accorto
d’essersi fatto strappare da Rinaldo da Villamagna e da un suo sodale, i mastri ingaggiati, un
incredibile salario mensile di ben 30 fiorini d’oro e, poiché a Firenze c’erano altri mastri con le
richieste competenze ma con pretese molto più modeste, li licenziava in tronco:

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Cum […] dictum salarium dicitur esse inconveniens maxime pro tempore quo Comune
Florentie (sic) indigere videbitur pecunia pro suis necessitati bus et multi alij in Civitate
Florentie sint dictum ministerium exercere scientes et cum minori pretio pro pulvere et aljis
necessarijs ad dictum sagipulamentum (‘lancio di proiettili’), providerunt […] quod dictus
Rinaldus et sotius, […] de dicto salario per Comune Florentie solutum, sit a dicto offitio
remotus […] (A. Angelucci, Documenti inediti etc. Cit. Vplt. I, p. II, p. 492. Torino, 1870.)

In questo secondo editto si definiscono i canones che il Villamagna avrebbe dovuto


fabbricare ferreos come le paloctas e non più de mettallo, cioè di rame stagnato o bronzo,
come nel precedente invece si diceva; il che autorizza quindi a pensare che si trattasse più di
un fabbro calderaro che di un fonditore rifinito e di conseguenza fa sembrare ancora più
esagerato il suddetto pattuito compenso. Noto è l’episodio tornacese del calderaro (potier
d’estain) di nome Pieres o Pieron de Bruges, al quale nel 1346, poiché si era saputo che egli
sapeva fare gli ingegni bellici chiamati connoilles (‘cannoni’), il Consiglio municipale ne aveva
commissionati alcuni per eventuali future esigenze difensive della città. Provato il primo
cannone fuori della porta urbana chiamata allora Moriel as cans, sparandosi con esso, come
s’usava all’inizio dell’artiglieria da polvere, non una palla bensì un quadrello armato di
un’apice di piombo di due libbre, il tiro risultò inaspettatamente molto più potente del
preventivato e ne rimase purtroppo colpito e ucciso un lavandaio (foulon) di nome Jakemon
de Raisse; il calderaro, il quale era quindi fuggito a farsi ospitare e proteggere in un luogo
sacro, fu però presto scagionato dall’accusa d’omicidio perché riconosciutone non
responsabile. Quest’episodio, il quale si legge - o si leggeva sino a qualche tempo fa - in un
documento originale dell’archivio di Tournai, dimostra quanto fosse ancora a quel tempo
nuova e poco conosciuta l’effettiva forza della polvere da sparo (N. LT. Bonaparte, Études
etc. T. I, pp. 357-358. Parigi, 1846. – A. G. Chotin, Histoire de Tournai etc. Pp. 61-62.
Tournai, 1840).
In verità, per tornare alle cose italiane, come più antica menzione delle bocche da fuoco in
Italia, ci sarebbe da ricordare la Polyhistoria del cronachista fra’ Bartolomeo da Ferrara, il
quale, all’anno 1311, laddove diceva dell’assedio che l’imperatore Arrigo Vi portò alla città di
Brescia, così scriveva:

… i bresciani virilmente e fortemente si difendevano e con mangani e con bombarde e con


trabucchi e con balestre faceano gran danno alle genti dell’imperadore e ogni dì uscivano
fuori alla battaglia.

Certo che far guerra a Brescia, in ogni tempo sempre preminente fucina di ottime armi, non
doveva esser una facile impresa; ma il Muratori purtroppo usava pubblicare molte delle
cronache da lui reperite non anche nell’originale testo latino ma solo nella sua traduzione in
volgare. E se avesse dunque sconsideratamente reso con bombarde il tlt. machinae come
115
abbiamo già visto farà l’Acciajuoli un secolo dopo? Ma che comunque ci si trovi ora
effettivamente nel periodo iniziale delle armi da fuoco in Italia si evince anche e soprattutto da
un lungo inventario dei materiali e delle attrezzature di cui erano dotati i cassari [‘torrioni,
maschi (dal lt. masculus, ‘forte, veemente’), fortificazioni alte’] e i fortilizi del comune di Siena,
documento datato 1335/1336 e riportato dall’Angelucci; in tutti gli elenchi di armi in esso
inclusi non c’è infatti assolutamente alcuna traccia di canne da fuoco o di polveri piriche. Una
prima menzione italiana di preparativi bellici con armi da fuoco si legge invece al gennaio
dell’anno 1334 nel Chronicon estense di anonimo, laddove il marchese Rainaldo d’Este fa
preparare un grande esercito contro la città di Argenta sostenuta dai bolognesi:

… Interim praeparari fecit maximam quantitatem balistarum, sclopetorum, spingardarum et


aliorum militum et peditum per terram et per aquam in maxima quantitate ne inimici transirent
(il Po)… (in LT.A. Muratori. Cit. T. XV. C. 396. Milano, 1727.)

In realtà anche questo Chronicon non è, in questa materia dell’artiglieria, molto affidabile
perché è stato scritto nel secolo successivo e quindi probabilmente il cronachista la
descriveva come la vedeva ai suoi tempi. La distinzione fatta qui tra gli schioppetti (anche
schioppietti, scoppietti, scopetti o scopette; grb. ἐλεβολίσκος, corr. di ἐϰηβολίσκος)), canne da
fanteria immanicate (inmanicate) fatte di un sol pezzo, sparanti pallottole di piombo o
comunque di metallo, e le spingarde, le quali erano invece piccole artiglierie, allora anch’esse
da piombo, ma dalle 6 alle 18 once di calibro, usate incavallettate oppure semplicemente
fissandole a robusti banconi di legno, del genere di fondizione delle bombarde, cioè fatte di
due pezzi (canone et chiave, cioè ‘cannone e ghiave ossia gavone o culatta’) e con
caricamento posteriore da camera, dimostra una già raggiunta maturità non solo delle armi
da fuoco per la fanteria, ma anche dell’artiglieria da sparo in generale. L’Angelucci cita un
inventario vercellese della rocca di Frassineto sul Po del 20 febbraio 1346 in cui tra l’altro si
legge:

Sclopum unum cum pulvere […] verretonos quadragintatres pro dicto schiopo […] (A.
Angelucci, Il tiro a segno in Italia, P. 46)

È quindi confermato che ai suoi inizi lo schioppetto fu inteso soprattutto come lancia-dardi più
che come lancia-pallottole. Abbiamo poi un passo della Cronaca perugina detta del Graziani,
in cui, all’anno 1364 (pp. 196-197), si legge:

… Et nel nostro comune de Peroscia fece afre cinquecento lance ferrate da cavallo,
cinquecento cette con le scote lunghe a doi mano et cinquecento bombarde una spanna
lunghe, che le portavano su in mano, bellissime, et passavano ogni armatura… (A.S.I. Tomo
XVI, parte I)
116
Un chiaro documento milanese presumibilmente dell’inizio della seconda metà del
Quattrocento, anch’esso citato dall’Angelucci (Gli schiopp. milt.), testimonia
inequivocabilmente della notevole differenza di numero e quindi d’uso tra schioppetto a
caricamento anteriore e spingarda a caricamento posteriore; si tratta di una richiesta d’armi
avanzata dal comune di Caravaggio al duca di Milano Francesco Sforzia (o forse al figlio
Galeazzo Maria):

Comune et nomine terre Caravagij petunt ab Excellentia Vestra provideri de infrascriptis


videlicet
Schopeti cento cum le balote
Balestre cento cum gli soy veratoni
Barilo uno de polvere per essi schiopeti
Coracine (‘corazzine’) cinquanta
Spingarde octo

Altri del 1487, anch’essi milanesi, riguardano l’armeria di Pavia e confermano esser le
spingarde armi da posta come gli archibusi e a essi paragonabili per calibro e per numero di
pezzi (due), anche se le prime erano bombardelle (tlt. bombardulae) con caricamento
posteriore da camera (quindi a maggior ragione da posta) e i secondi a caricamento anteriore
ordinario, paragonabili le prime per fragilità a quelle piccole artiglierie da braga [archibugioni,
moschetti e moschettoni, cerabattane, bombardelle di ferro e periere di metallo (‘bronzo’)]
che vedremo specie nel secolo successivo, anche se si tratterà di un tipo di caricamento sì
posteriore ma diverso, perché queste spingarde quattrocentesche non erano da braga, cioè
con culatte aperte ma fisse, caricabili con inserimento di mascolo, bensì erano caricabili a
mezzo di camera cioè di una culatta incugnata nella canna e quindi da ricaricarsi dopo averla
asportata, sistema più lento del precedente ma sicuramente anche a tenuta più forte e sicura.

(Om.)
Balote (anche ballotine) de sciopetto 5.000
Balote de spingarde et de archibusi 200
(Om.)
(Ordine indirizzato a:)
Dominis Joanni de Attendulis, Leoni Tatto et Philippo de Crema offitiali munitionum Papie.
… Per alcuni bisogni quali ne occurreno de presente volemo che alla hauta (‘avuta,
ricezione’) di questa nostra mandati (‘mandate’) a Milano centocinquanti archabuxi et dece
spingarde cum li soi canoni et chiave, … le quale spingarde siano de portata (’calibro’) de
onze XII… (ib.)

In realtà alcune delle suddette distinzioni si perderanno e, mentre in Italia le piccole canne
personali da fante si chiameranno sempre schioppetti, in Spagna saranno a quell’epoca
invece sempre conosciute come espingardas, come dimostrano le cronache delle guerre
117
contro gli emirati iberici della seconda metà del Quattrocento; tra i documenti inediti allegati a
corredo dell’Elógio de la Réina Católica Doña Isabel (1451-1504), a cui fu dedicato l’intero
vol. 6 delle Memorias de la Real Académia de la História pubblicato a Madrid nel 1821, ce n’è
uno del 1492 sul progetto di armamento dei regni di Fernando e Isabella di Castilla e
Aragona:

… y que toda la artilleria que se fisiere y gente que se armare de espingarderos (it.
schioppettieri; fr. coulevriniers; td. Schützen; tlt. tormentarii milites) que tengan espingardas,
todos los jueses executores, cada uno en la provincia de que tiene cargo, sea obligado de
andarlo á visitarlo todo, y tomar por escrito la artilleria que se fisiere y lanceros y ballesteros
y espingarderos que en cada lugar se fisieron y enviarlo todo firmato de su nombre è del
escribano de la provincia á los del Consejo de las cosas de la Hermandad…. (P. 602.)

Le balestre si continuarono a usare, contestualmente agli schioppetti, fino a Cinquecento


molto inoltrato. In Italia al massimo gli schioppetti saranno talvolta detti spingardelle, nel
senso di piccole spingarde portatili, ma, come spiegava Lampo Birago nel suo Strategikon,
del quale, dato che non ci è stato mai dato di leggerne un manoscritto, qui traduciamo in
volgare un brano citato dal Promis, il nome era genericamente usato per indicare tutte le più
piccole armi da fuoco eccetto lo schioppetto di fanteria:

… Al di là dello schioppetto, chiamano infatti, come reputo, ‘spingarde’ ogni genere di


bombarde che tirino proiettili di ferro o di piombo non solo fino alla libbra di peso ma anche
fino alle due o alle tre libbre. Quelle poi che tirano palle di pietra anche più pesanti le
chiamano piuttosto ‘bombardelle’, per quanto taluni dicano ‘spingarde’ quasi tutto questo
nuovo genere di queste bombarde più lunghe e migliori di quanto fossero le antecedenti, altri
poi chiamano queste più piccole ‘cerbatane’ (come anche ‘schioppi’), da quelle cerbatane di
legno a mo’ di canne, ugualmente scavate e perforate, per le quali con la spinta del nostro
fiato si emettono pallottole di creta per uccidere gli uccellini; e chiamano similmente gli
schioppettari ‘cerbatanari’… (Promis, Carlo, Dell’arte dell’ingegniere e dell’artigliere in Italia
dalla sua origine sino al principio del XVI secolo e degli scrittori di essa dal 1285 al 1560
memorie storiche cinque etc. Pp. 183-184. Torino, 1841.)

Questa genericità sarà confermata dal Giovio a proposito delle armi da fuoco usate nella
battaglia della Riccardina, combattuta nel 1467 tra i capitani generali Bartolomeo Coglione e
Federico da Monteferetro (poi ‘Montefeltro’), perché vi dice spingarde armi che avrebbe
invece dovuto più propriamente chiamare cerbottane, come presto vedremo:

… Percioché spingarde si chiamavano i pezzi picciolo d’artiglieria lunghi tre braccia, le quali
trahevano una palla grossa quanto una grossa susina. Questi pezzi, serrati in picciole
carrette, si faceva egli menar dietro alle schiere e, dato il segno con la tromba, accioché le
sue schiere, lasciando lo spazio in mezzo di qua e di là, si venissero ad allargare, gli faceva
scaricare contra i nemici. E con questo trovato spaventò talmente l’essercito nemico alla
Ricardina sul contado di Bologna, c’havendo una palla di spingarda rasentato il calcagno a
Hercole duca di Ferrara, mandò a dire a Bartolomeo Coglione ch’egli s’era portato
118
malignamente e da barbaro, havendo cercato di far amazzare con inusitata e horribil
tempesta di palle i valent’huomini, i quali combattevano a spada e lancia per la virtù e per la
gloria... [Paolo Giovio, Historiarum sui temporis (1494-1517) etc. Pp. 120v. Firenze, 1550-
1552.]

Dunque questa era nel Quattrocento, cioè prima dell’arrivo di Carlo VIII, l’artiglieria da campo
italiana, cioè piccole bocche da fuoco montate su carrette che seguivano l’esercito; e così ne
commissionavano i veneziani ancora nel 1496:

Ressona da ogni banda (‘Si ragiona da gni parte’), che'l Re Carlo torna in Italia; e la Signoria
per questo ha då ordene che se fazza in ogni luogo - e particularmente a Treviso - purassà
carete da spingarda, con ruoda granda (D. Malipiero, Annali veneti etc. Cit. Pp. 439-440).

La ruote grandi evidentemente sarebbero servite per far superare alle carrette strade aspre,
come per esempio i passi montani; non a caso infatti Carlo VIII sarebbe prevedibilmente
sceso in Italia nuovamente dalle Alpi. All’art. 25 di un complesso Privilegium concesso il 10
febbraio 1499 dal doge Agostino Barbadico alla città di Cremona leggiamo che la stessa, per
la sua sicurezza, avrebbe dovuto mantenere il seguente armamento:

… per munizione e tutela della città, settemila corazzine, cinquemila baletre, tremila
schioppietti, cento spingarde e settemila lance, con ale altre munizioni necessarie (Ib. P. 583).

Che cerbottane e schioppetti fossero sinonimi è confermato anche da un elenco d’armi che
troveremo in inventari di castelli sforzeschi stesi nell’anno 1503 (Zarbatane siue sgiopeti) e di
cui poi diremo diffusamente. Secondo l’anonimo quattrocentesco autore dei Diaria eapolitana,
l’uso di intere compagnie di fanti spingardieri, come evidentemente all’inizio si chiamarono gli
schioppettieri, fu portato nel Regno di Napoli da Renato d’Anjou quando venne a combattere
le pretensioni di Alfonso d’Aragona e cioè nel 1435:

… E per declarare da prima in questo reame non si conoscea che cosa fossero spingarde,
quando venne Rè Ranato indusse seco 60 spingarderi; lo Rè Ranato e dui altri deli detti
spingarderi solamente sapeano lo conso (‘concia, preparazione’) dela polvere. Rè de Rahona
(Il re d’Aragona’) fece fare molte spingarde, per (‘ma poiché’) la polvere non era naturale
(quella giusta’) non operavano niente. Rè de Rahona tenendo assediato Sant’Arcangelo,
casale de Napole, Rè Ranato che mandò alcuni infanti con dui soi spingarderi, el quale uno
de quelli sapea la polver, foro tutti pigliati e constretti; questi sapea la polvere l’insignò a Rè
de Rahona e tutti subito foro impiccati e lo castello de Sant’Angelo presto se rendì a Rè de
Rahona; ed in questa forma ciascuno imparò de fare la polvere e moltiplicaro le spingarde
(come vedeti). In quelli tempi li catalani la chiamavano ‘la candola franciosa’ (An. Diurnali
detti del duca di Monteleone, a cura di Nunzio Federico Faraglia. P. 108. Napoli, 1895).

All’inizio del Seicento il Sardi confermerà la predetta confusione:

119
... de i moschettoni a cavallo, che in alcune parti sono chiamate spingarde, ce ne doveriano
essere un buon numero disposti proporzionatamente sopra tutte le piazze de i baluardi, per
tirare ad huomini soli in debita distanza, e de’ moschetti con le sue forcelle ce ne doveria
essere per armare 6 o 7mila soldati... (Pietro Sardi. Il capo de' bombardieri essaminato, &
approuato dal generale dell'artiglieria etc. P. 130. Venezia, 1641.)

Il breve vocabolario marinaresco toscano-italiano pubblicato nel 1612 dal cap. Alessandro
Falconi partecipa dell’errore predetto, assimilando le ormai antiche spingarde ai moschettoni
da posta a carica anteriore :

Spingarde: Moschettoni grossi da cavalletti.

Ciò nondimeno e nonostante, come abbiamo già accennato, gli spagnoli rinascimentali
chiamassero ‘espingarderos’ i loro schioppetteri (d’altra parte, i francesi chiamavano i loro
coulevriniers!), nell’ortodossia militare, la spingarda vera e propria resterà sempre solo
classificata come un’arma leggera da postazione, portatile sì, ma non tanto da potersene fare
arma da fante.
Alla voce bombarda il Du Fresne (), tra le varie citazione, ne incluse una francese del 1338
tratta dal Computum Bartholomaei du Drach Thesaurarii guerrarum, e relativa a un
pagamento di materiale d’artiglieria:

A Henri de Faumechon pour avoir poudres et autres choses necessaires aux canons, qui
estoient devant Puy Guillaume… (Fresne du Cange (du), Charles, (1610-1688), Glossarium
mediae et infimae latinitatis. Tomi 10. Parigi, 1938.)

Ciò dimostra che le bocche da fuoco (grb. ἐλεβόλεις) furono chiamate canons in Francia sin
dalla loro origine e in seguito anche bâtons à feu.
C’è poi una raccolta di bandi lucchesi trecenteschi, pubblicata dallo studioso ottocentesco
Salvatore Bongi, in cui si può costatare che sino all’assedio pisano di Lucca dell’agosto 1341
nei documenti dell’armeria lucchese si parlava sempre e solo di balestre (fr. arbalêtes) e
trabucchi, cioè delle frombole a contrappeso lancianti grosse pietre, di vario modello, grandi
congegni da lancio non azionati da polveri piriche di cui abbiamo già trattato, mentre è a
partire dal suddetto episodio bellico che le carte incominciano a menzionare registrazioni di
spesa per canne da fuoco manufatte a Villa Basilica, località della Lucchesia nota sino ad
allora per la forgia delle lame da spada; in particolare si legge:

… unum cannonem ad proicendas pallas de ferro…


… tronum a sagittandum palloctas…
… uno cannone de ferro ad tronum et pallis de ferro…
… pallis ad tronum…

120
Dove tronus, come già detto, è chiaramente sincope (‘contrazione’) metatetica del lt. tonitrus.
Notevole qui l’uso di palle di ferro, a conferma che agli inizi dell’artiglieria da sparo era
soprattutto questo il metallo che, affiancato alla pietra, s’usava per i proiettili e non il piombo,
pur presente ma sporadico, il quale, come abbiamo già detto, sarà invece preferito nel secolo
seguente e solo in quello.
Un’ulteriore conferma dell’uso di armi da fuoco già in quel periodo è di cinque anni più tardi,
cioè in un rogito in pergamena del 20 febbraio 1346 con il quale Porolo (sic, ma forse Povolo,
‘Paolo’) da Marliano, castellano di Frassineto del Po (Casale), accusava ricezione di
materiale, armi e provviste alimentari per detto suo presidio e, tra l’altro:

… Item schiopum unum cum pulvere et discrocandi.


Item veretonos quadragintatres pro dicto schiopo. (A. Angelucci, Documenti inediti etc. P.
47.)

L’Angelucci prima di quel discrocandi avrebbe inserito un ferro, ma si astiene


dall’interpretarne poi il significato; noi ne abbiamo invece già più sopra parlato.
Un’osservazione particolarmente interessante è che questo schioppo (da cui schioppito,
‘scoppio’) sparava non pallottole, bensì dardi da balestra bellica (verete, verettoni,
guerrettoni), e ciò perché nel loro primo secolo, cioè nel Trecento, le armi da fuoco furono
effettivamente viste come una semplice alternativa a quell’arma da lancio, con la cui versione
più antica, cioè quando ancora si chiamava dottamente archiballista, a differenza dell’arco si
usava lanciare sia saette sia pallottole (balle, dal gr. ßάλλω, ‘lancio’) di piombo o di pietra o di
terracotta (fr. arbaleste à boulet o à jal(l)et o à gelais) e ciò in alternativa alla frombola, la
quale infatti da allora scomparve dai campi di battaglia. Ecco infatti quanto si legge nella
Cronaca catalana del d’Esclot all’anno 1285, cioè relativamente all’assedio francese di
Girona in Catalogna avvenuto nel 1285:

… I balestrieri corsero per le balestre che avevano molto grosse e scoccarono quadrella e
pietre su quella torma di cavalieri francesi, sicché ne uccisero molti e più molti ne ferirono…
(Cronache catalane etc. Cit.)

Ed ecco un momento dei primi contrasti tra guelfi e ghibellini a Genova verso la metà
d’ottobre del 1265:

… Ma all’improvviso una fanciulla nata dal defunto Fulcone Guercio, colpita al petto da una
pietra di balestra (‘ex ictu ballistae cum lapide’) scoccata dalla torre, ne resto uccisa…
(Annales genuenses Cit. Colt. 1.000.)

121
Nella Historia (1210-1258) di Nicolò Jamsilla leggiamo che, morto Federico II nel 1250, il
figlio Manfredi principe di Taranto estese il suo dominio su quasi tutta la Calabria e allora i
messinesi, per contrastarne l’avanzata, sbarcarono sul continente, saccheggiarono
indegnamente Seminara sottoponendone gli abitanti ad ogni genere di violenza e poi si
ritirarono non manifestando alcun rispetto nemmeno per le proprie armi:

… e così tanto li accecava l’avidità che, in spregio della gloria di quel fatto, in qualsiasi modo
si voglia vederla, legavano con le corde delle balestre i fagotti di panni e di altre cose che
avevano depredato.

Questo passo è importante perché ci fa capire che le balestre di fanteria erano a metà
Duecento già molto diffuse, anche se non sappiamo quali proiettili in quel caso lanciassero, e
anche i loro nemici imperiali ne erano armati, come si legge un po’ più avanti [Praecedebant
autem pedites Principis (cioè di Manfredi di Svevia) cum arcubus balistisque…] Nel 1314, per
tornare ora ai torbidi genovesi, perderà la vita Cataneo d’Oria (‘de Auria’), colpito anch’egli da
una balestra, ma stavolta da freccia e non da pietra:

… e a quella medesima ora della sera il suddetto Cataneo fu ucciso con una freccia di
balestra da uno degli stessi amici… (ib. Colt. 1.027.)

Infine nel 1322 vediamo di nuovo balestre lapidanti a Genova:

… cum ballistis eas percusserunt literas et lapides in illas jecerunt… (Colt. 1.047.)

Le balestre a pallotte vennero di nuovo in voga tra i cacciatori fiorentini nella prima metà del
Cinquecento e, poiché facevano inutile strage di uccelli commestibili, un bando comunale del
19 febbraio 1537 ne proibì l’uso, pena sanzione di 20 piccioli:

… atteso e considerato al danno e disordine grande che nasce e segue per le balestre che
da qualche tempo in qua si sono cominciate a usare, vulgarmete dette ‘le balestre a
pallottole’, con le quali s’è visto e vede ogni giorno far grandissimi danni con l’ammazzare
colombi ed altri uccelli, de’ quali maggiore abbondanza assai sarebbe se da simil cose guasti
e morti non fussino […] per esser questo modo di balestre da non molti anni in qua trovato e
moltiplicato assai… (A. Angelucci, Il tiro a segno in Italia. App. LT. P. LIII.)

In realtà non si trattava di un nuovo ritrovato, essendo infatti stato quello di lanciar pallottole
un antico uso delle balestre, come del resto lo stesso loro nome testimonia, ma si era
evidentemente reintrodotto con successo tra i cacciatori del Cinquecento.
Ma, per tornare alle armi da fuoco, diremo che, nei suoi dialoghi De remediis utriusque
fortunae ad Azonem libri duo, scritti tra il 1360 e il 1366 (Parigi, 1557), Francesco Petrarca fa
122
una chiara menzione delle bombarde, anche se le sue parole ci fanno capire che di questa
nuova artiglieria non molto doveva sapere:

La Gioia: Dispongo d’innumerevoli macchine da guerra e balliste.
La Ragione: Fa meraviglia che tu non abbia anche quei globi di bronzo che, riempiti di
fiamme, si lanciano con orrisonante tuono… Era questa peste sino a qualche tempo fa tanto
rara da riguardarsi come un gran miracolo; ora, piegandosi docilmente l’animo umano alle
cose peggiori, è tanto comune quanto qualsiasi altro genere d’armi.

Si penserebbe che il poeta dunque sapesse già di bombe lanciate da mortari, ma era troppo
presto perché si potesse anche solo immaginare tali armi e quindi certamente egli, con quel
suo riempiti di fiamme, voleva riferirsi alle stesse canne dell’artiglieria e non certo a proiettili
cavi esplosivi.
All’anno 1364 del Diario perugino del Graziani riportato nel sedicesimo tomo dell’Archivio
Storico Italiano leggiamo di un grosso quantitativo di bombardelle da porto individuale e di
altre armi preparato dal comune di Perugia per difendere il suo territorio dalle continue
scorrerie e depredazioni fattevi da una compagnia mercenaria inglese, detta la compagnia
bianca:

... Et el nostro comuno de Peroscia fece fare cinquecento lance ferrate da cavallo,
cinquecento cette con le scote (‘accette con i manici’) lunghe a doi mano e cinquecento
bombarde una spanna lunghe, che le portavano su in mano, bellissime, e passavano ogni
armatura; et fu fatto grande aparecchio per combattere con la dicta compagnija bianca de gli
inghilesi…

Del 9 agosto 1371 è un primo documento trovato dall’Angelucci in cui si faccia una netta
distinzione tra armi da fuoco da posta e da porto individuale; si tratta di una richiesta di
munizionare la bastia di Formigine, fortificazione di legno che nei secoli successivi sarà
trasformata in castello, inviata dai reggenti di Modena al marchese Niccolò II d’Este a
Ferrara; tra l’altro, oltre a balestre grosse da posta e piccole da staffa, si chiedevano le
seguenti altre artiglierie:

Imprima 4 schiopi grandi fornidi de polvere et balote.


4 schiopi pizoli da man fornidi.

Questa differenziazione è certo indice di un’artiglieria da sparo già abbastanza evoluta,


anche se in Italia non era ancora molto diffusa, come si evince per esempio allo stesso
suddetto anno 1371, però qui dell’anonima Cronica pisana riportata dal Muratori, quando cioè
si ricorda l’assedio portato a Pisa dalle forze del pisano Giovanni dell’Agnello, il quale era

123
stato il primo doge della città; egli godeva dell’appoggio militare di Bernabò Visconti, signore
di Milano, mentre i pisani, una volta tanto, quello di Firenze:

… E in su le mura stavano di buoni balestrieri e di molte bombarde; e la gente di messer


Giovanni, come sentiano le bombarde, si scostavano e uscivano fuore del prato per paura…

Nel Chronicon tarvisinum di Andrea de Redusiis, laddove si ricorda la guerra scoppiata nel
1376 tra il duca Leopoldo d’Austria e Venezia, l’autore da una prima compiuta e semplice
descrizione dell’arma detta bombarda, arma che però a gran torto egli dice vedersi e udirsi
allora in Italia per la prima volta:

… È infatti la bombarda uno strumento di ferro fortissimo con una larga tromba anteriore,
nella quale s’inserisce una pietra rotonda della misura della tromba, avente nella parte
posteriore un cannone a se congiungentesi e lungo il doppio della tromba, ma più sottile, nel
quale, attraverso l’apertura di detto cannone dalla parte della bocca, s’inserisce della polvere
nera artificiata fatta di salnitro, solfo e carbone di salice; e, otturata detta apertura con un
calcone (‘concone’) di legno calcatovi dentro e postavi e assestatavi la predetta pietra
rotonda, s’immette il fuoco attraverso un buco più piccolo del cannone e con la forza della
polvere accesa la pietra viene emessa con grande impeto. Né le si possono opporre mura di
sorta, quantunque spesse; il che si è poi accertato con l’esperienza nelle guerre che
seguirono. Con le quali bombarde eruttanti pietre allora gli uomini certamente presumevano
di poter tonare al di sopra di Dio (In L. A. Muratori, cit. T. XIX, col. 754. T.d. a.)

È interessante qui notare come l’autore credesse il caricamento della bombarda da farsi con i
due pezzi separati, cioè la polvere dall’apertura del cannone e la palla da quella della tromba,
ma è non era certamente così, perché sarebbe stato molto macchinoso e poco pratico,
dovendosi infatti in quel modo necessariamente svitare la bombarda a ogni tiro; invece, per
evitare appunto il doversi svitare i due pezzi a ogni caricamento, s’introducevano anche la
polvere e il concone dalla bocca della tromba, limitando quindi lo svitamento solo ai casi di
necessità, cioè quando c’era da cambiare il cannone perché troppo consumato dal fuoco o
quando c’era da trasportare la bombarda. Una seconda spiegazione del suo funzionamento
ci è stata lasciata dal Calcocondile (sec. XV), come abbiamo già detto, ma non è tecnica
come la predetta e tutto sommato, avendone noi già citato all’occasione i due o tre passi più
interessanti, assicuriamo al lettore che non vale la pena di trattarne ulteriormente.
Il primo uso intensivo e massiccio dell’artiglieria da polvere fatto in un assedio che si rintracci
nelle antiche cronache sembra esser stato quello dei turchi che assediavano Costantinopoli
nel 1422. Gli ottomani infatti, come racconta Giovanni Cananos nella sua De Constantinopoli
anno 1422 oppugnata narratio, avevano preso di mira con le loro bombarde uno dei punti più
deboli delle mura bizantine e cioè una torre che appariva in condizioni particolarmente
fatiscenti, pertanto più facile da abbattere, e le cui rovine, avrebbero potuto in quel luogo fare

124
da ‘scala’ ad un tentativo di assalto; ma, nonostante l’avessero quindi colpita e danneggiata
decine di volte, non ne ottennero poi il vantaggio sperato:

… poiché confidavano allora i turchi che le pietre delle grosse bombarde avrebbero abbattuto
quella fatiscente torre senza alcun problema […] ma la fiducia degli empii condusse a un
esito sfortunato, perché (ben) 70 colpi di quel gran lancio colpirono quella fatiscente torre, ma
ciò non apportò alcun nocumento ai romei (‘bizantini’) e nemmeno giovò ai turchi. {ϰαὶ
προσδοϰῶντες οἰ Τοῦρϰοι ὅτι τῶν μεγίστων βουμπάρδων αἰ πέτραι τὸν σεσαθρωμένον
πύργον ἐϰεῖνον θέλουν χαλάσειν […] πλὴν εἰς ϰενὸν ἐϰατήντησε τέλος ἠ τῶν ἀσεβῶν
προσδοϰία͵ ἐπεὶ ἐβδομήϰοντα βοϰία τῆς βολῆς τῆς μεγίστης ἐϰείνες τὸν σεσαθρωμένον
ἐϰεῖνον ἒϰρουσε (leggi ἒϰρουσαν) πύργον͵ ϰαὶ οὐδεμίαν βλάβην τοῖς Ῥωμαίοις τοῦτο
προυξένησεν͵ ἀλλʹ οὐδὲ τοῖς Τούρϰοις ὠφέλειαν·}

Né ne restarono sensibilmente danneggiati nemmeno importanti edifici vicini, qual’era per


esempio la basilica di Santa Ciriaca, posti tra la porta di San Romano e Porta Carsa [… e ciò
a causa della futilità delle bombarde (ϰαὶ ταῡτα μὲν περὶ τῶν βουμπάρδων τὴν ἀπραξίαν· Ib.]
Insomma, com’è del tutto immaginabile, era veramente ancora troppo presto perché le armi
da fuoco d’assedio potessero aver raggiunto una sufficiente efficacia; d’altra parte, a
quest’assedio i turchi non avevano ancora le grosse bombarde che poi faranno stupore a
quello, purtroppo definitivo, del 1453 e infatti il Cananos chiama queste del 1422 solamente
falconi (φαλϰούνια), cioè quelle che poi, sviluppandosi e differenziandosi maggiormente
l’artiglieria da polvere nel prosieguo del secolo, saranno classificate come bocche da fuoco
medio-piccole. Infatti, elencando i congegni d’assedio in uso a quel tempo, il Cananos non
sembra citarne altre da fuoco, perché, oltre alle ormai a noi note testuggini (χελώνας), grandi
torri di legno (ἐλεπόλεις; prlt. falae) e pertiche uncinate (ἀγϰάλας, ἂρπαγες; lt. perticae
uncae), tutte macchine avvicinabili alle mura nemiche in quanto montate su ruote, nomina
ancora solamente dei cosiddetti addomesticatori di orsi (ἀρϰουδάμαξα), congegni di cui non
abbiamo purtroppo trovato altre memorie e che non sapremmo quindi spiegare, se non
immaginare che includessero spiedi acuminati, visto che era con aste appuntite che di solito
si riusciva a contenere la furia di tali animali.
Le storie riportano poi l’intenso uso fattone più tardi dall’esercito spagnolo di Alfonso V
d’Aragona che, tentando la conquista del regno di Napoli, assediava Gaeta nel 1435 e che,
quando, dopo la sconfitta navale di Ponza, dovette abbandonare anche quell’impresa, lasciò
nelle mani dei genovesi vincitori una potenta batteria di 7 grosse lombarde che avevano
battuto la città dall’alto del monte che la sovrasta, provocandole grandi distruzioni (Zurita,
Anales. LT. XIII, c. XXVIII). Quando tre anni dopo Alfonso ci riprovò e pose l’assedio alla
stessa Napoli, un colpo di bombarda napoletana uccise suo fratello, l’infante di Castiglia
Pedro de Trastámara (An. Chronicon ariminense etc. In LT.A. Muratori. Cit. C. 935, t. XV.

125
Milano, 1727); e fu il secondo Pietro illustre che moriva di bombarda dopo il già ricordato
d’Oria alla guerra di Chioggia.
Poco tempo dopo Bartolomeo Facio (1400-1457) farà della bombarda una descrizione
sostanzialmente uguale a quella già fattane dal coevo de Redusiis:

… Ma, perché io ho fatta menzione della polve e delle palle che si adoprano alle artiglierie,
non sarà fuor di proposito ragionare alquanto sopra questa materia per beneficio di coloro
che verranno dopo di noi.
Di queste artiglierie alcune se ne fanno di bronzo alcun’altre di ferro; ma le prime sono
migliori e più nobili. Fannosi con due bocche o due canne, come vogliamo dire, l’una delle
quali, cioè quella di fuori, è più larga; e sono quasi uguali in longhezza. Gettansi le più volte
insieme e talhor separatamente; ma quelle che separatamente si gettano si commettono poi
insieme e le sottili si pongono nelle grosse e si congiungono insieme strettissimamente
perché non rifiatino (‘sfiatino’) in alcun luogo. Si acconciano dipoi sopra un tronco di quercia
cavato che chiamano il ceppo, accioché la palla se ne vada più alta e più lontana. E questa è
la forma e l’uso di questa machina. La forza poi con la quale è mandata la palla di pietra con
tanto impeto fuori nasce dalla polve, che si fa di salnitro, di zolfo e di carbone di salcio (om.)
Questa polve si mette nella più stretta canna e calcasi dentro con un cogno di ferro fatto a
questa fine; e poi vi s’aggiunge una palla di pietra, ridotta con ugual misura (‘fatta dello
stesso calibro’) della canna più grande. Finalmente si da fuoco per un piccolo pertugio ch’è
nella canna men grande, lavorato sottilmente, et, a questa guisa combattendo egli con molto
impeto dentro, procacciando d’uscire, getta la palla da lontano a guisa di fulmine; né fin qui
s’è trovato machina che tiri con maggior violenza né più discosto i sassi di quello che fa
l’artiglieria. Et con questa si fendono le forti muraglie, le gagliardissime torri si gettano a terra
e ne vanno le palle più di due miglia discosto; ma l’artiglieria del re Alfonso, chiamata ‘la
Generale’, le mena più lontano di qualunque altra, percioché ella dall’isola ch’è di fronte a
Marsiglia tirava le palle di pietra infin dentro di quella città… (Bartolomeo Facio, Fatti
d’Alfonso d’Aragona, primo re di Napoli di questo nome etc. P. 222 e segg. Venezia, 1580.)

Le bombardelle personali si facevano talvolta anche d’ottone, come si legge in una


riformagione (‘decreto’) jesina del 1454 citata dall’Angelucci:

… tre scoppettos de octone trium ducatorum valoris […] cum manichis de ligno… (Il tiro a
segno in Italia ecc. Cit. Pp. 6-7.)

Ma, tornando al secolo precedente, diremo che nel 1377 il popolo di Biella assaltò e prese il
castello perché in esso risiedeva il vescovo Giovanni Flischo (poi ‘Fieschi’), il quale con le
sue private milizie mercenarie italiane e inglesi da tempo vessava crudelmente la città; si
ingiunse però poi ai cittadini di dichiarare e consegnare alle autorità comunali tutti i beni e i
materiali da loro asportati in quell’occasione dal castello e nel registro di tali dichiarazioni si
notano, tra l’altro, diverse quantità di dardi da schioppo:

Perrono da Bientino riconsegnò un elmo e 1 quadrellum de schiopo.
Il ferraro Giovanni da Vallesia un tornietto di balestra da tornio (lt. a turno) e 10 o più
quadrellos de schiopo, poi detti moschetas 10 sine astis.

126
Il castaldo Iacopo Tardito 1 schiopum.
La moglie di Lantelmo Spola 1 certam quantitatem moschetarum.
Guglielmo da Guaschino 3 morsi da cavallo, 5 veras (‘spiedi’) di ferro, circa 20 moschetas
cum ferro, 200 sine ferro (poi dette 1mazum moschetarum), 2 sagitas de schiopo (poi dette
plures moschetas sine astis, cioè i soli ferri apicali).
Perrono Borserio da Bugella 1 ‘bracciata’ di balestre e di moschette e quadrelli da schioppo.
Giovanni, figlio di Guglielmo Parella da Bugella, 1 bacchetta (‘calcatore di ferro’) da schioppo.
Il calderaro Rulfo 35 moschette senz’aste.
Ambrogio da Varallo un pettine di legno di bosso e poi un lapidem parvum rotondum ad
trandum cum schiopo. Il detto dichiarava di non aver preso lui tali cose direttamente nel
castello, ma che altri gliele avevano date.
Bartolino Gromo 2 morsi (bochonos) da cavallo di ferro e anche lui una pietra rotonda da
schioppo come sopra. Inoltre lo stesso ammise d’aver abbondantemente bevuto vino nel
castello.
Alberto Alberterio disse di non aver preso nulla se non anche lui una pietra rotonda da
schioppo.
Alberto Neghia da Bugella e suo figlio Bertoldo 3 quadrelli da schioppo.
Il calderaro Giulio circa 6 quadrelli.
La moglie di Antonio da Pozzo da Bugella consegnò 1 quadrello da schioppo e 1 quadrello
grosso.
Uberto Bessacho ‘tirò fuori molte moschette’ (proiecit extra quamplures moschetas).
Ambrosino da Pesina 1 telaro di balestra e 80 moschette (ma queste da balestra
probabilmente).
Il pellicciaio Lavesino 8 ferri (‘calcatori’) da schioppo.
Uberto Burella 9 quadrelli di grosso schioppo.
Antonio Formaggio 14 nervi da balestra e 6 verette (‘frecce comuni da balestra’).

(A. Angelucci. Cit. Pp. 231-233.)

A prescindere dall’interessante antroponimia, qui notiamo innanzitutto quanto le armi da


fuoco da porto personale ancora sparassero soprattutto dardi di vario genere più che
pallottole; queste poi s’usavano comunemente di pietra, come quelle per le bombarde più
grosse; aggiungiamo che i nervi da balestra si fornivano in gavete, cioè in matassine. Ma, per
tornare a Siena, documenti del biennio 1362/1363 tratti anch’essi dall’Archivio di Stato
dall’Angelucci ci dicono di bombarde fornite, cioè accessoriate e quindi già evolute, di polvare
per bombarde e di dodici bombarde tra gli approvviggionamenti inviati ai cassari di Talamone,
Castiglione di Val d’Orcia e Montalcino (Angelucci). Inoltre in un inventario d’armi del 24
novembre 1363 tra l’altro si notano:

Quatro bombarde.
Cinquanta pallette da bombarde.
Due ferri da bombarde.

Una schatola da tenere polvare da bombarde.

127
Le 50 pallette [altrove palotole o bal(l)otte da bombarde] erano, a giudicare da altri documenti
di fine secolo, molto probabilmente di ferro e quindi si trattava di quelle piccole canne da
porto individuale che nel secolo successivo saranno detti schioppetti in Italia, colubrine
oltralpe e spingarde in Spagna; i ferri da bombarde (altrove detti tocchatoi da bombarde)
erano lunghi aghi che s’introducevano incandescenti nei foconi. Nel 1380 i senesi posero
assedio a Montorio con tutto loro sforzo e con bombarde (Nerio di Donato, Annali senensi,
Cit.); del 25 maggio del 1381 è poi l’esito per l’ingaggio che Siena pagò al mastro
bombardiero Guiglielmo d’Ivone perché lavorasse bombarde e altro (conducto per Comune
Senarum ad laborandum de bombardis vel alio magisterio) e si trattava di cento fiorni d’oro
per un anno, a partire dal primo del detto maggio a finire al primo maggio del seguente 1382,
in ragione di 8 fiorini d’oro e ⅓ mensili, impegnandosi detto maestro a non fare in quell’anno
alcuna bombarda per nessun altro committente che non fosse il comune di Siena, salvo
licenza di quella signoria.
È poi del 2 aprile del 1380 la prima menzione di una differenziazione tra le polveri piriche a
seconda che siano destinate all’uso di bombarde o di schioppi; si tratta infatti d’una fornitura
di 21 libbre di pulvis a sclopo fatta ai castelli di Vercelli e Saluzzola (Angelucci). Per quanto
riguarda l’ingaggio di fonditori d’artiglieria, il Bongi trovò non prima delle registrazioni del 1382
una prima chiara commissione data dal comune lucchese a un mastro bombardiero perché
gittasse quattro bombarde e poi una seconda nel 1384; in seguito risulta che il comune si
servì di mastri fonditori prussiani. Tra i documenti senesi riportati dall’Angelucci, troviamo le
prime menzioni di riparazioni di bombarde e di forniture di polvare da bombarda in rendiconti
del biennio 1391-1392; le spingarde appaiono invece in un documento della fine del 1397 che
riporta forniture fatte nel triennio 1394-1397 al cassaro di Lucignano e tra queste le seguenti:

Bombarda grossa con ceppo una.
Spingarda piccola una.
Pallotte di ferro per la spingarda (altrove da spingarda) 24.
Palo da’nceppare (altrove da ferrare) bombarde uno.
Polvare da bombarda in uno saccho di chuoio, lib. settantatre. (Cesare Quarenghi, Tecno-
cronografia delle armi da fuoco italiane etc. P. 54. Napoli, 1880-1881.)

Interessante qui è non solo il chiamare spingarda lo schioppetto, ma anche l’uso di proiettili di
piccolo calibro di ferro e non di piombo come s’userà invece nel Quattrocento, ma anche. Il
palo da’nceppare o da ferrare (‘serrare’?) era evidentemente usato a mo’ di leva per
incavalcare la bombarda nel suo ceppo, ma non sapremmo descriverne l’uso. In un altro
rendiconto dello stesso anno notiamo ghuirettoni (‘guerrettoni’), grilli e pietre da bombarda;
ora noi riteniamo che, così come i verettoni e le pietre, è molto probabile che, anche se non
sapremmo descriverli, pure i grilli fossero un tipo di proiettili; l’Angelucci invece cita l’Alberti,

128
per il quale si trattava invece di un tipo di buttafuoco per lumiere troppo allargate dall’uso, ma
non ci dice in qual punto delle sue opere quest’affermazione è reperibile e noi, pur
scorrendole, non l’abbiamo trovata; aggiungiamo che, per il Vocabolario della Crusca, i grilli
erano macchine da guerra ossidionali medievali come lo erano le torri e i gatti (artificia ex
lignis septem numero, quae gati dicuntur, pro fractione murorum. In Annales genuenses Cit.
Anno 1320, colt. 1.041).
Andando ora avanti ancora di qualche anno verso la fine di quel secolo sono da notarsi
due inventari dell’armeria della cittadella di Vercelli nelle quale appaiono le seguenti armi da
fuoco:

13 novembre 1392:
… sclopos 101.
… pulveris a sclopis bariles 2 et sachetos 2.

18 ottobre1395:
… ballottas a sclopis 112.
… pulveris a sclopis bariles 2.
… pulveris a sclopis sachetos 2.
Sclopi 6 ferrati cum buxolis.
Ligna 4 scloporum veterum.
Balote (sic) a sclopis 127.
Bombarde (sic) 2.
Lapides a bombarda 28.
Macie 2 de ferro (sic), martelli 2 et ferreti 12 a sclopo.
23 luglio 1393:
… ferreti 15 a sclopis, martelli 11 et maxie (sic) 11, ferri a sclopis…

Per quanto riguarda il 1392, un numero di schioppi tanto alto (101) vuol dire che essi erano
non solo arma da porto personale ma anche già molto diffusa nelle fanterie del tempo; invece
i 6 schioppi ferrati con mantelletti (buxolis) del 1395 erano evidentemente armi da posta,
come anche certamente ceppi (ligna), mazze di ferro, martelli e ferretti buttafuoco. Per
concludere infine anche con la Siena del Trecento, menzioniamo un rendiconto dell’anno
1400, anch’esso per forniture al cassaro di Lucignano, in cui appaiono due cerchi da pietra
da bombarda, cioè chiaramente due calibratoi.
In Spagna il termine lombarderia precedette nel Medio Evo l’affermarsi di quello più moderno
di artilleria, come leggiamo nella Cronaca del re Giovanni II:

… E quelli della città (‘i mori d’Antequera’) avevano una così grande lombarderia che ogni
giorno uccidevano e ferivano molti dei cristiani, così uomini d’arme come fanti (om.),
specialmente quando i mori tiravano con una grossa lombarda che avevano e nessuna cosa
risultava idoena a ripararsene. E l’Infante (‘don Fernando, fratello del re’) sollecitava
pressantemente il suo lombardiero di nome Giacomino Alemanno perché incominciasse a
tirare con le lombarde in maniera da impedire ai mori di far tanto danno con le loro come in
effetti facevano…
129
Jackob, il lombardiero-capo tedesco del re Giovanni, s’impegnò a colpire la grossa lombarda
dei mori con la migliore delle sue, la quale chiamavano la Santa Croce, e in effetti, dopo
alcuni tiri imprecisi, approfittando di un momento in cui i mori visibilmente s’apprestavano a
dar fuoco alla loro perché l’avevano spinta sino a farla sporgere al difuori dellle difese della
troniera [da spm. trueno, ‘piccolo mortaio’; lt. tonitru(u)s o tonitruum], la colpì con la sua
‘sboccandola’, cioè mandandone in frantumi la bocca e rendendola così inservibile. L’Infante
don Fernando non mancò di premiare immediatamente il suo lombardiero.
Per quanto riguarda poi l’origine del nome bombarda, un’affermazione dello storico gesuita
spagnolo Juan de Mariana suggerisce un’interessante assimilazione:

… Sex ignea tormenta malora, quas nostrates historiae lombardas vocant, fortasse quod in
Longobardia id genus machine inventum primum esset. (Jan de Mariana (1536-1624),
Historiae de rebus Hispaniae libri XX etc. P. 907. Toledo, 1598.)

In effetti dallo spagnolo lombardas alla corr. italo-spagnola bombardas il passo assimilatorio
è più che probabile, anche perché sarebbe in questo caso anche stimolato dal facile effetto
onomatopeico; quanto affermato dal Mariana è poi anche confermato dal Giornale di bordo
del primo viaggio di Cristoforo Colombo, in cui l’arma è detta sempre appunto lombarda e
non bombarda (vedi per esempio alle date 7, 15 e 18 dicembre e 2 gennaio 1492) e inoltre da
una ricerca che fu fatta nell’Archivo General de Simancas, Valladolid, dallo studioso
ottocentesco spagnolo Martín de Navarrete, il quale trovò, come poi meglio vedremo, la
composizione degli equipaggi delle quattro caravelle del navigatore genovese, ognuna delle
quali aveva a bordo un lombardero (‘artigliere’), mentre su quella Capitana navigava anche
un lombardero mayor.
Quanto detto trova conferma negli studi di storia medievale spagnola fatti nell’Ottocento;
infatti nel suddetto vol. 6 (1821) delle Memorias de la Real Academia de la Historia si legge
quanto segue:

… Las piezas de mayor calibre destinadas á batir los muros de llamaban lombardas y amás
habia otras de menor fuerza con los nombres de ribadoquines, cerbatanas, vasavolantes y
búzanos (om.) En la campaña que hizo el infante Don Fernando el año siguiente de 1407
contra los moros llevaba el ejército cinco lombardas, á saber ‘la grande, la de Gijon, la de la
Vanda’ y dos quel lama la crónica de Don Juan II ‘de fuslera’, con diez y seis truenos ó tiros
menores. (P. 169).

Non sapremmo dire le caratteristiche dei suddetti búzanos, piccole artiglierie usate dai mori di
Granada nella seconda metà del Quattrocento e più volte nominate nella Crónica del Perez
del Pulgar, mentre ai loro invasori cristiani vi s’attribuisce una molto più complessa artiglieria
130
fatta di lombardas, pasabolantes, cerebratanas, ribadoquines e cortaos, oltre naturalmente a
vecchi congegni di legno medievali ancora in uso e alle balestre e spingarde da fanteria
usate da ambedue le parti. Per tornare al nome lombardas basta leggere attentamente la
detta Cronica per capire che a quei tempi le bombarde in Spagna ancora si chiamavano
sempre e solo così; leggiamo per esempio del treno d’artiglieria del re Fernando nel 1485 alla
guerra di Granada:

… Otrosí mandáron traer gran número de bue yes de las tierras de Ávila é de Segovia é de
otras partes; é carros para llevar las lombardas é otros tiros de pólvora (‘altre bocche da
fuoco’) é las escalas é mantas é gruas y engenios (‘congegni di legno d’assedio’) é otros
pertrechos para combatir; con lo qual venian carpinteros con sus ferramientas é ferreros con
sus fraguas, que andaban de continuo en los reales y en todas las otras partes por do se
llevaba el artilleria, é maestros lombarderos y engenieros é pedreros che facian pietra de
canto é pelotas de fierro é todos los maestros que eran necesarios é sabian lo que se
requeria para facer la pólvora é para todos quello officio é para todas las cosas que eran
menester. De cada lombarda daban cargo á un home para que solicitase de tener la pólvora
é todos los aparejos que le fuesen menester, de manera que for falta de diligencia no
dejasen de tirar. (Cronica de los reyes católicos Don Fernando y Dona Isabel de Castilla y de
Aragon etc. P: 242. Valencia, 1780.)

Leggiamo lombardas ancora nel Silva de varia lección del sevigliano Pedro Mexia (1497-
1551) ():

… los navios del rey de Tunez trayan ciertos tiros de hierro lombardas con que tiravan
muchos treno de fuego… (P. 42. Anversa, 1603.)

Fadrique Erriquez de Rivera marchee di Tarifa, nel suo resoconto del viaggio che fece da
pellegrino a Gerusalemme e che durò circa due anni, cioè dal 1518 al 1520, a proposito delle
artiglierie che vide sulla nave veneziana che lo portava in Terra Santa, le distingueva in tiros
de metal (‘bocche da fuoco di bronzo’) e lombardas de hierro (‘bombarde di ferro’) (In Este
libro es de el viaje que hize a Ierusalem etc. P. 39 recto. Siviglia, 1606), a riprova che
lombarda era il nome antico che si usò in Spagna alle origini dell’artiglieria, cioè quando
appunto le canne da polvere si facevano di ferro e non ancora di bronzo; questo può voler
dire che l’artiglieria da polvere fu introdotta in Spagna da artiglieri provenienti dalla
Lombardia, probabilmente da Brescia. Il nome, portato poi in Italia dagli spagnoli, vi fu
corrotto in bombarda, in quanto gli italiani ne attribuivano l’invenzione ai tedeschi e non ai
lombardi.
Troviamo poi il detto termine usato anche dopo il Rinascimento, per esempio in un altro
documento d’archivio spagnolo citato dall’Angelucci, cioè un preventivo d’artiglieria del 1573
fatto per una disegnata impresa d’Algeri, la quale invece fu poi dirottata contro Tunisi (50

131
lumbardetas de metal, fundicion de Màlaga); inoltre a pag. 234 del già ricordato El perfeto
capitán dell’Alaba y Viamont pubblicato nel 1590:

… morteretes y lombardetas…
… lombardeta…

Di quest’ultimo stesso periodo è il greco proto-moderno λουμπάρδα (‘lumparda’), il quale


contribuisce notevolmente a dimostrare che, anche se le canne da polvere erano armi di
origine germanica, la bombarda di ferro fatta di pezzi avvitati si diffuse nell’Europa
meridionale a partire dalla Lombardia, probabilmente inventata a Brescia:

… Sia per le lombarde sia per gli schioppetti sia per la grande quanità di soldati tutto si
oscurò e sembrava che il giorno divenisse notte. (Καὶ ἀπὸ ταϊς λουμπάρδαις ϰαὶ ἀπὸ τὰ
τουφέϰια ϰαὶ ἀπὸ τοϋ πλῆθος τοΰ λαοῠ ἐσϰοτινίασεν ὁ ϰόσμος, ϰαὶ έφαίνετον ἡ ἡμέρα ὡσὰν
νύϰτα. In Corpus scriptorum historiae byzantinae. Historiae politica et patriarchica
Constantinopoleos. Epirotica. P. 166. Bonn, 1849.)

Più avanti nelle suddette Historiae, ossia a p. 247, troveremo anche il moderno termine
ϰανών (‘cannone’) laddove si tratta di episodi ossidionali di circa il 1610; ma infatti a questo
punto della storia il greco antico è da considerarsi ormai disusato, perché lingua del tutto
coinvolta nella caduta dell’Impero Bizantino, e già da gran tempo sostituito in Grecia dal
volgare.
Ecco ancora lombarda a p. 9 e 12 del trattato dell’Ufano, terminato nel 1611 e pubblicato due
anni dopo:

… pieças antiguas a quien comunmente llamavan pedreras o lombardas…


… La primera pieça llamada lombarda pedrera o despacha caminos…

Le bombarde sarebbero dunque state, se non inventate, molto probabilmente prodotte per la
prima volta in gran numero in Italia nelle tante manifatture d’armi della Lombardia (da cui
quindi il nome), probabilmente tra Milano, Brescia, Gardoni (oggi Gardone Riviera) e altre
cittadine del Bresciano, cioè le più famose località per la produzione ed esportazione di
eccellenti armi d’ogni tipo; ma il vocabolo è senza dubbio frutto dell’incontro tra la predetta
assimilazione e la contaminazione con bomba (lt. bombus; gr. βόμβος, ‘rombo, rimbombo,
strepito’). Bisogna però considerare che, mentre in Spagna s’affermava il termine lombarda ad
indicare le armi da fuoco in generale e in Italia settentrionale l’assimilazione regressiva
bombarda, in quella meridionale s’usava invece pommarda, il quale a differenza del
precedente, non è frutto di una corruzione fonetica ma si tratta di un termine molto razionale e
che di corrotto e dialettale presenta solo il raddoppiamento della m; infatti, come si sa, in latino
il sostantivo pomus non ha solo il significato di ‘frutto di forma globulare’ ma anche di ‘globulo’
132
in generale; quindi in napoletano l’artiglieria (arte con cui si lanciano pomi di ferro) si diceva,
molto giustamente, pommarderia. Ecco infatti alcuni esempi di quanto detto in antichi scritti
letterari napoletani:

… quanno sentette ‘na gran tozzoliata de porta, isso, ch'ogne pilo le pareva travo e ogne mosca
cavallo d'hommo d'arma e - cò lleverenzeja - ogne pideto pommarda, pecché steva sospetto…
[Giulio Cesare Cortese (Napoli c. 1575 – Napoli 1622), Li travagliuse ammure de Ciulla e Perna, L. V.]
… Chesta de lo Vasciello è Pommardera,
E da tutt’è chiammata la Trammera.
[Giovanni [Battista Valentini (c. 1474- c. 1515), La Mezacanna co’l Vascello dell’Arbascia etc. Carme I.]

… E se non pozzo chiù mengo a pretate,


Acciso sia de botta de pommarda,
Chi vole contradì la veretate…
[Ib.]

St’arma de gioja squaglianno mme và


Torra, Castiello, cannune, e pommarde,
Lanze, rotelle, cavalle, e libarde.
[Catubba in Opere inedite di varj autori. T. I. Napoli, 1789.]

Che non sia quindi magari l’it. bombarda a derivare dal np. pomarda e non viceversa?
Mentre in Italia le bocche da fuoco delle origini si suddividono in una varietà di tipi e di nomi,
in Spagna nel 1407 già vediamo invece un’artiglieria d’assedio suddivisa in soli due tipi di
canne; affidato infatti dal malato re Enrico III di Castiglia e León il suo treno d’artiglieria a
certo Diego Rodriguez Zapata, il fratello Fernando, impegnato nella guerra di liberazione
della Spagna dai potentati mori, decise in quell’anno che il compito fosse troppo gravoso per
un solo uomo e ne suddivise quindi il carico tra alcuni suoi cavalieri e vassalli, nella seguente
maniera:

A Juan Hernández de Bovadilla affidò la responsabilità e il trasporto della lombarda grande


con la sua cassa (‘con su curueña’), con le relative carrette, buoi e i 200 uomini necessari (‘è
hombres que han de ser docientos’).
A Suer Alonso de Solis: la lombarda de Gijón (con quanto sopra, ma solo 150 uomini).
A Juan Sanchez de Aguilar: la lombarda de la vanda (150 uomini).
A Sancho Sanchez de Londoño: las dos lombardas de fuslera (‘le due lombarde d’ottone’ con
100 uomini ciascuna)
A Fernán Sanchez de Badajoz e a Gutier Gonzales de Torres: cinque mantas (‘ripari di
legno a forma di tettoia’) ciascuno, con tutti i loro accessori e legname di rispetto (150
uomini).
A Juan Hernández de Valera: tutti i materiali da scavar mine, catrame incluso (100 uomini).
A Diego Rodriguez Zapata: la polvere pirica (80 uomini), incluse cinque carrette vuote di
riserva affinché, in caso qualcuna se ne fosse rotta, il cammino della polvere non si
ritardasse.
A Sancho Vásquez de Medina e a Fernán Rodriguez: tutti i pavesi (‘grandi scudi da fanteria’.
150 uomini).
A Juán Sanchez de Salvatierra: le casse dei pasadores (‘dardi di balestra’; 80 uomini).
A Garcí Rodriguez e a Diego Hernández de Medina: le nove fucine da campo (80 uomini).
A Luís Gonzales de Bozmediano: 50 quintali di libbra (5.000 libbre) di ferro (50 uomini).
133
A Diego de Monsalve: tutte le ferramenta (picconi, zappe, pale, vanghe, mazze di ferro,
asce, chiodaggine, perni, lamiere, leve ecc. 150 uomini).
A Juán Vásquez de Casasola: le mole da affilare con loro accessori, accessori da torniere, da
cordoniere, cocconi di legno per le lombarde e legname per farne di nuovi (50 uomini).
A Gillo e a Rodrigálvarez de Arévalo: el ingenio grande con la fustada (‘il congegno grande
con il fusto’, cioè un trabucco con la sua pertica. 200 uomini).
A Ruy Gonzales de Henestrosa: i 16 truenos (‘piccoli mortari’. 50 uomini).
A Pero Sanchez Jurado de Sevilla e a suo nipote Fernán Sanchez de Villareal: tutte le pietre
per le lombarde e per i truenos (150 uomini).
A Juán Gonzales de Villanueva: il carbone e I carbonari per far altro carbone quando fosse
necessario (30 uomini).
A Lope Ruiz de Cárdenas: il compito di far tagliare tutto il legname che dovesse servire
a far assali di carretta e a quant’altro fosse necessarrio per riparar le carrette medesime che
si rompessero e a far cocconi per le lombarde.
A Luís Gonzales de Ledesma: il compito di tenere preparati tutti I carpentieri.
A Juán Álvarez e a Diego de Bolaños: con la responsabilità dei pedreros (‘cavapietre’) e di
mandarli a far pietre per le lombarde e per i truenos.
A Luís Gonzales de Salamanca: con il compito di portare tutti mastri d’ascia.
A Martín Hernández Nieto: il compito di tener d’occhio tutti i buoi, sia quelli adoperati sia
quelli di riserva (40 uomini).
Ad Alonso Álvarez de Bolaños: con il carico di portar 20 maestri da riparar carrette e che li
portasse ripartiti per dove fossero le artiglierie e che gli si dessero due carrette con 10
uomini e con le quali si portassero le ferramenta a tal compito necessarie; e che altresí
avesse incarico di ricevere i cuoi dei buoi che si rendessero necessari per i loro capestri da
tirar i materiali; e che questi venti uomini, quando non avessero da fare, facessero corde,
perché sono necessarie a molte cose.
A Juán Gonzales de Arenas, presso Olmedo: il carico di portar tutte le scale con muli da
soma (15 uomini).

Che cosa c’è di particolarmente notabile dunque nel più antico treno d’artiglieria che la storia
ci ha voluto conservare? Due soli tipi di bocche da fuoco: lombarde da batteria (bombarde da
muraglia, come dicevano i veneziani), cioà da tiri diretti contro le muraglie medievali, prive di
terrapieni posteriori, per forarle e farle crollare in alternativa alle mine, e truenos, ossia piccoli
mortai per lanciare grosse pietre sui tetti delle città aldilà delle predette mura. C’è poi ancora
un congegno ossidionale lapidante pre-‘pirobolico’ a contrappeso, evidentemente un grosso
trabucco; ma, si chiederà, perché allora si trasportano pietre per lombarde e truenos e non
per questo congegno? Perché quelle per l’artiglieria a canne dovevano sempre essere
arrotondate e quindi implicavano molto lavoro preventivo, mentre per quanto riguarda le
pietre da trabucco o mangano, anche se poi, avendo modo e tempo di farlo, si era preso ad
arrotondare anche quelle per dar loro così una forma più aerodinamica e che le facesse volar
meglio nell’aria, si era, specie nell’Alto Medio Evo, usato generalmente lanciarle così come
riuscivano tagliate e quindi senza alcuna necessità di trasportarsele dietro; bastava infatti
individuare la cava più vicina al luogo dell’assedio e inviarvi i cavapietre, anche se, a volte,
reperirne una poteva risultare un problema, come avvenne all’assedio che nel 1407 l’infante
di Castiglia don Fernado pose ai mori di Setenil in Andalusia:

134
… E comandò che tutte le lombarde tirassero quanto potessero; e tirarono tanto che
consumarono tutte le pietre che avevno portato e furono presi da gran preoccupazione
perché non si trovavano cave dalle quali si potessero cavar pietre adatte. E dissero all’Infante
che presso Montecorto c’era una buona cava e allora egli comandò che i cavapietre vi
andassero subito; ma il Maestro di Santiago disse che era troppo distante dal loro campo e
pertanto l’Infante comandò che si andasse a cercare in un altro luogo e così trovarono una
buona cava in una valle vicina al campo e vi trassero tutta la pietra necessaria.

Ma, trovata la pietra, sorsero altri problemi:

… e allora si ruppe la lombarda di Gijón, del che l’infante restò molto infastidito e subito inviò
al Pendon de Xerez e il suo cameriere Álvaro a Záhara per la lombarda che dicono ‘della
banda’, la quale egli aveva colà lasciato, e subito fu portata…

D’altra parte che, assieme alle nuove lombarde, in Spagna ancora s’usassero anche i vecchi
congegni ossidionali lapidanti si legge anche negli Anales de la Corona de Aragón dello
Zurita a proposito dell’assedio posto da Ferdinando I d’Aragona a Balaguer, tenuta dal ribelle
Jaime conte di Urgel, episodio avvenuto nel 1413:

… e da quel posto molto alto si faceva gran batteria con un congegno e due lombarde e
facevano molto danno allo spaldo e alla torre del castello; e con un altro congegno più
grande si batteva dal cantone della città ed era di tal fatta e di tale grandezza che lanciava
una pietra che pesava trentaquattro ‘arrobas’ (cioè 850 libbre) [om.] ed era il congegno
circondato da uno steccato per difenderlo, affinché non uscissero a incendiarlo e non c’era da
dove entrarvi [om.]; e la batteria cominciò con gran furia e, poiché il congegno maggiore che
batteva il castello lanciava tali pietre che ciascuna pesava otto quintali (cioè 800 libbre, non
chili) e faceva tanta rovina che, dovunque desse, sfondava fino al primo solaio, la principessa
donna Isabella, moglie del conte, inviò una supplica al re che gentilmente comandasse che
non battessero la parte del castello in cui ella dimorava con le sue donzelle perché in quei
giorni avrebbe partorito… .

Per inciso il re, detto non a caso il Giusto, acconsentì immediatamente.

… C’era un altro steccato dalla parte della strada di Lerida, in cui tenevano tre lombarde, le
quali tiravano alla torre e al muro della città dalla parte più bassa [om.] e si fece un profondo
fossato tra lo steccato e la città; e tra queste lombarde ce n’era una dalla canna molto grossa
che il re comandò di fabbricare a Lerida e che tirava una pietra di cinque quintali e mezzo
(cioè 550 libbre); e si fece in quel luogo un castello di legno ben alto, sul quale si posero
alcune squadre di balestrieri, i quali facevano tanto danno che non poteva affacciarsi
nessuno dalle torri e dai merli senza che fosse ferito.
Dalla parte del ponte dove stava il duca di Gandia si armò nel monastero di San Domenico
un congegno che chiamavano ‘Capretta’ e con quella e con una lombarda si batteva la prima
torre del ponte e la casa della contessa madre (Margarita de Monferrat), la quale si difendeva
con molta balestreria ed aveva un ottimo fossato ed era una casa forte [om.] Si combatté la
casa della contessa con gran furia e le pietre che tirava quel congegno che chiamavano

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‘Capretta’ erano tali che dovunque facevano il loro colpo rompevano travi grosse come due
grandi pini e sprofondavano dall’alto per uno e anche due piani… (ib. T. III, lt. XII.)

A un certo punto dell’assedio Ferdinando fu personalmente preso di mira da una lombarda


degli assediati:

… poiché andava vestito di una pelandrana scarlatta e inforcò un cavallo bianco e (così) lo
riconobbero, quelli di Balaguer armarono una lombarda in un cantone della barriera della città
e la palla passò sulla testa del re; e ciò suscitò in lui tanto sdegno che deliberò di entrare
nella città a filo di spada. Ciò fu di martedì 26 settembre e da quel momento non cessavano
le lombarde e i trabucchi di battere con gran furia di giorno e anche di notte, ‘a pietra
perduta’, come (allora) si diceva (ib.)

Che le petrarie servissero, più che ad aprire mura, soprattutto a sfondare tetti si evince dalle
cronache di molti assedi medievali; ecco per esempio quello di Utrecht del biennio 1407-
1408; la città fu circondata di machinis petrareis, fundisque et mangonalibus e con esse
continuamente bersagliata:

… E, pur avendo lanciato pietre infinite con impeto orrisonante nella città e avendo fatto
crollare molte case e tetti, ciò nonostante pochissimi uomini ne restarono offesi,
miracolosamente preservando Dio coloro che combattevano per la giustizia (Cornelius
Zantfliet, Chronicon etc. In E. Martène – U. Durand, Veterum scriptorum et monumentorum
etc. T. V. Parigi, 1729).

Quando nell’assedio di un castello se ne batteva il muro, sia con i congegni lapidanti sia con
le più moderne lombarde, le pietre così ricavatene si raccoglievano e si usavano per i propri
trabucchi, come nell’altro assedio posto a Lizana da Giacomo I d’Aragona nel 1266 (y
derribaron mucha parte del muro y hazian gran daño las piedras que dela misma muralla
cayan. (G. Zurita, Anales, T. I, lt. III.); inoltre si potevano riciclare anche quelle appena
lanciate, se non frantumate. A pietra perduta era dunque un’espressione dal senso letterale;
significava cioè lanciare pietre all’interno del circuito assediato, dove poi non era quindi
possibile recuperarle, e non battere invece difese esterne del circuito stesso.
Contestualmente, era negli assedi allora ancora molto diffuso anche l’uso di ripari di legno
(bastite, gatte, battifolli, mante, pavesi ecc.) che permettessero agli assedianti di lavorare
all’abbattimento delle mura avversarie e alla preparazione di scale d’assalto (gra. ἐπιβάθραι),
le quali erano fatte di legno leggero ma forte, cioè di olmo, frassino, orno, carpino e simili;
quando tutto mancasse, si potevano eventualmente fare di lance e picche di fanteria legate e
intrecciate fortemente insieme; al predetto di Balaguer operava per l’esercito della Corona un
artefice di queste costruzioni allora molto conosciuto e apprezzato, certo Juan Gutierez de
Enau:

136
… Per prima cosa, per combattere la città si fece muovere la bastida e la scala maggiore che
stava nella Mata, e uscirono nella pianura; ed era la bastida macchina di tanto straordinario
grandezza e pesantezza che sembrava eguagliare una torre molto grande e si muoveva con
gran facilità e leggerezza e le compagnie di balestrieri che andavano in essa suscitavano
tanto terrore e spavento come se non dovessero trovar alcuna resistenza (ib.)

Ma il re Ferdinando disponeva, come abbiamo detto, anche di buone lombarde e il mercoledì


11 ottobre si dette inizio alla batteria generale attaccando la città in sei punti:

… con la lombarda maggiore di Lerida si era fatta tanta batteria (‘breccia’) che le palle
passavano da parte a parte il camminamento della muraglia, in tal maniera che in due giorni
s’abbatterono fino al suolo due tratti di cortina da torre a torre. Dalla città si tirava con
lombarde più piccole, le quali erano come tiri da campo (‘artiglierie da campagna’) e facevano
gran danno all’accampamento reale; e il venerdì seguente, che fu il 13 ottobre, fu ucciso da
un tiro di lombarda un cavaliere molto principale della compagnia del governatore di Castiglia
che si chiamava Sancho de Leyva… (ib.)

Che con le bombarde quattrocentesche si facesse breccia nelle mura castrensi del tempo era
però un caso, perché in genere esse non erano adatte a fare batteria e bisognerà aspettare i
canons ferrieri di Carlo VIII per ottenere questo risultato; di tale inadeguatezza leggiamo un
esempio ancora nell’episodio dell’assedio pisano della fortezza di Librafatta, tenuta dai
fiorentini, avvenuto nel 1496:

… Anco nella piassa del grano, overo la Sapienzia, si fa molti lavori di legnami, cioè gatti e
travate e altre cose per potere andare coperto alle mura di Librafatta, per potere scalsare le
mura, peroché le bombarde non vincieno, salvo alle difese; e tiensi che Librafatta sia la più
forte roca sia al presente in Toscana, perché le bombarde non vi fanno niente (Diario di
Giovanni Portoveneri, all’anno 1496).

Erano capaci quindi le bombarde tradizionali di diroccare solo le difese superiori delle
fortezze e cioè merlature, cavalieri, bertesche, travate, barricate ecc. Per questo motivo i
pisani inviano all’assedio nuove bocche da fuoco di modello francese:

… Ed ad dì 16 di maggio si mandò a Librafatta tre passavolanti alla fransese sulle carette


congengnate al trave, uno grosso, uno messano, uno piccolo molto.

Presto però saranno i fiorentini ad assediare Pisa:

… E sempre si bombarda di Pissa el campo de’ fiorentini… con farconcini (‘falconcini’) alla
fransese sulle carrette.
… ed avevano recato per anco ottanta boche d’artigliarie, che ve n’era, tra passavolanti e
cortali, boche cinquanta in carete e bombarde grosse sulle culatte, boche sette, in modo che
tiravano circa colpi dugento per ora tra nelle mura e per la ter(r)a, che parea che il mondo si
disfacesse… (ib.)

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Quel congengnate al trave lo spiegheremo più avanti e altrettanto faremo riguardo ai cortali o
cortaldi ((fr. courtaulx, sp. cortaos), cannoni di ferro di origine francese di cui poi di più
diremo, mentre soprattutto interessante è qui vedere che l’artiglieria da traino fiorentina è
tutta incassata su carrette-affusto, alla francese, mentre restano sulle culatte, cioè solo
inzoccate, le grosse bombarde tradizionali; che i francesi fossero maestri in materia di
mobilità delle piccole artiglierie da campagna lo vediamo già nella descrizione di una battaglia
combattutasi tra essi, capitanati da Renato d’Angiò, e i genovesi tanto tempo prima di questi
ultimi avvenimenti, cioè nel 1461:

… I francesi avanzavano in formazione tripartita. Avevano posto davanti a tutti gli armati alla
leggera con parte dei balestrieri (‘sagittariorum’); nella seconda schiera avevano collocato
quelli che operavano con bombardelle e schioppetti (‘colubrinis') maggiori trainati con veicoli,
e inoltre il nerbo di tutto l’esercito. Tutti i soldati gregari e la residua moltitudine di bagaglioni
e vivandiere trasportata con le navi seguivano in retroguardia (G. Simoneta, Historia de rebus
gestis Francisci Primi Sfortiae etc. In LT.A. Muratori. Cit. C. 724, t. XXI. Milano, 1723).

Sembra che inoltre i genovesi, allora capitanati da Paolo Fregoso, fossero manifestamente
inferiori anche per quanto riguarda l’uso di armi da fuoco e ancora s’affidassero
principalmente a quelle da tratto elastico, cioè balestre da fanteria e catapulte o balestroni da
posta:

… Poiché da questa parte i francesi con numerose bombardelle e schioppetti atterrivano i


genovesi […] per cui con un’affollata schiera posta sul colle e con catapulte e ogni genere di
missili (‘dardi e pietre’), di cui Genova abbondava, Paolo da (quella) posizione strenuamente
contrattaccava i persistenti francesi (ib).

Ma, per tornare appunto ora all’uso contestuale di congegni lapidanti e canne da polvere, ne
troviamo esempi anche nei già citati Annales genuenses dei fratelli Stella; ecco dunque una
briccola all’assedio posto dai ghibellini savonesi al forte Sperone di Genova, accaduto
anch’esso nel suddetto 1413:

… Per nove giorni dunque contro detta rocca Sperone si fece guerra scagliandole numerose
pietre con otto congegni che il volgo dice ‘bombarde’ e un’altro che chiama ‘briccola’; infatti, a
quanto sentii, furono scagliate più di seicento pietre con le bombarde e circa trecento con la
briccola, per cui tutti i fabbricati all’interno della rocca ne restarono demoliti… (cit.)

E ancora nel 1415, sempre a proposito di scontri armati tra guelfi e ghibellini liguri:

… Jacebat ibi pars una contra altera lapides per machinam, quam bricolam vulgus dicit. (Ib.)

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D’altra parte il nostro lettore costaterà il trasporto di una briccola quando, tra breve,
analizzeremo un treno d’artiglieria milanese preparato dagli sforzeschi negli anni 1472-1474
e anche lo Zurita menzionerà l’uso di ingegni e trabucchi in occasione di quattro assedi del
1476, cioè quello basco-francese di Fuentarrabia, laddove cioè narra di una sortita degli
assediati finalizzata appunto alla distruzione di congegni lapidanti del nemico, e quelli
spagnoli di Zamora, allora occupata da una guarnigione portoghese e da elementi di un
partito ribelle valenciano, dove un ricco canonico combattente, certo Diego de Ocampo,
oppositore politico di detto partito, fece costruire a sue spese appunto un trabucco e con
quello procurò gran rovina alla città assediata; del castello del ribelle marchese di Villena e
della cittadella di Toro (T. 2-2, lt. XIX, c. XLV, LIII, LIV). Il primo assedio in cui il suddetto
annalista menziona solo le lombardas e non più anche di congegni lapidanti è quello di Loja
del 1482, cioè durante la guerra al regno moresco di Granada (ib. LT. XX, c. XLIV). In effetti il
Sanudo, riportando un epistolario del 1496 e relativo alle operazioni della crudelissima e
sanguinosa guerra della riconquista aragonese del regno di Napoli, per quanto riguarda i
numerosi assedi mai menzionerà congegni lapidanti ma sempre e solamente bombarde.
Diremo infine che nel 1480, all’assedio turco di Rodi, furono usati dai difensori lanciatori di
sassi realizzati per quell’occasione:

… e fabricò (‘fabbricarono’) alcuni istrumenti da tirar sassi nel campo turchesco e con essi ne
amazò gran quantità…
… fo parechià (‘fecero preparare’) diverse sorte de fuoghi artificiadi da tirar in le schiere de
Turchi in tempo de fatto d'arme e e alcuni istrumenti da tirare piere (‘pietre’) addosso a
Turchi… (Domenico Malipiero, Annali veneti etc. Cit. Parte prima, p. 127.)

La circostanza che il Malipiero (1445-1513), benché fosse stato anche un importante militare
veneziano, non chiami quelle macchine petrarie mangani o trabucchi, ma li definisca in
maniera molto vaga, dimostra che a quei suoi tempi se stava ormai perdendo la memoria.
Tornando però ora a Lucca, un inventario dell’armeria (terzanaia) della Cittadella redatto il 14
settembre del 1410 registra ancora una gran quantità di antiche armi dei tipi che s’usavano
prima dell’introduzione di quelle a polvere, ma anche molte nuove armi da fuoco con le loro
provvisioni di proiettili e polveri e cioè scop(p)ietti e bombardette da mano, uncinetti-
buttafuoco da arroventarsi, bombarde di ferro colato e battuto a mano, bombarde a ruote o a
ceppi ferrati, bombarde di doghe di legno legate con funi o cerchiate di ferro; e
particolarmente:


Anche 7 isschoppietti picholi cho ceppi di lenghio.

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Anche 54 isscopieti di ferro da tenere in mano cho manichi grandi.

Anche uno isscopietto di fero chol cepo.
Anche 4 isschopietti di lengname cerchiati di ferro.

(A. Angelucci, Il tiro al segno in Italia ecc. App. e p. XVIII.)

Che i lucchesi fossero allora tra i primi in Italia a usare armi da fuoco da porto individuale è
dimostrato anche dalle cronache dello storico coevo Andrea de Billiis laddove narra
dell’assedio tenuto dai fiorentini alla città nel biennio 1429-1430:

… e oltre ai giavellottti e alle balliste da saette trovarono anche un nuovo tipo di proiettile.
Portavano nelle mani un bastone di un cubito e un altro di mezzo, a cui erano attaccate
canne di ferro, le quali riempite parimenti di solfo e salnitro, con la forza del fuoco emettevano
pallottole di ferro. Certo era il flagello provocato dal tiro quando colpisse, né c’erano armi
difensive o scudi che fossero sufficienti a reggerlo, che anzi spesso ne trapassavano due e
anche tre con una sola pallottola quando in ordine fossero tenuti. Pertanto di ciò c’era timore
soprattutto negli accampamenti (degli assedianti); infatti da quel male erano (già) rimasti
uccisi in gran numero.
(Andrea de Billiis, Rerum mediolanensium historiae in LT.A. Muratori. Cit. T. XIX. Milano,
1731.)

Dunque si trattava di regolari schioppetti, armi che evidentemente i fiorentini, pur già
impiegandosi da tempo bombarde d’assedio, non avevano ancora l’abitudine di usare. Come
vedremo, i lucchesi resteranno eccellenti nel campo delle armi da fuoco portatili per più di un
secolo e il 24 aprile 1487 il consiglio generale del Comune di Lucca, per addestrare i giovani
al loro uso sull’esempio di quanto si faceva per esempio in Francia, istituì il cosiddetto giuoco
degli archibugi (tlt. archibusi), ossia un pubblico tiro a segno con esperimenti e premi da farsi
con armi da fuoco di mira, cioè da bersaglio, o di guerra, cioè di armeria militare (cum
archibugiis, schioppettis et passavolantibus et aliis huiusmodi tormentis et instrumentis
bellicis); queste gare andavano a sostituire le preesistenti per balestrieri (lt. ludi balistarum),
le quali si tenevano per esempio nella Mantova dei Gonzaga già nel quattordicesimo secolo e
i primi classificati si premiavano con ricchi palii (Angelucci, Notizie ecc.)
Le origini dell’artiglieria da sparo in Europa sono dunque in ogni caso e senza alcun dubbio
da ricercarsi nella prima metà del secolo quattordicesimo e non prima, come sufficientemente
dimostrano le testimonianze storiche raccolte dall ‘Angelucci, dal Gentilini, dal Bonaparte, dal
Venturi e dal Promis, a comprova delle quali c’è poi il già citato trattato De regimine principum
del romano Egidio Colonna (c. 1243-1316), precettore italiano del re di Francia Luigi il Bello,
il quale, laddove tratta dell’arte della guerra e in specie delle tecniche ossidionali, non fa
alcuna menzione né di polveri da sparo né tanto meno d’armi da fuoco, ma solo, come

140
abbiamo visto, di congegni ossidionali lapidanti a contrappeso, precisando persino quali
erano i congegni non più in uso al suo tempo.
Possiamo poi risalire alla vera origine del nome ‘artiglieria’ [itm. artigl(i)aria], termine di conio
francese e quindi adottato per primo in Italia dal semi-transalpino ducato di Savoia,
avvalendoci innanzi tutto dell’insostituibile opera del Du Cange, ricca di citazioni di scrittori e
di codici di un tempo in cui l’artiglieria non era ancora quella (impropriamente) detta
‘pirobolica’ (da pirobolia, poi ‘pirobalistica’), ossia basata su proiettili lanciati dalla forza di
polvere pirica; premettiamo per inciso che l’ipotesi etimologica ars telaria, pur essendo
certamente suggestiva e inoltre anch’essa concordante con i concetti appena espressi, non è
accettabile per tre ragioni e cioè che detta espressione può linguisticamente significare
‘fabbricazione dei dardi’ ma non ‘lancio dei dardi’, che i tela (‘dardi, strali, frecce, giavellotti’;
gr. βέλεμνα) si lanciavano soprattutto a mano e solo pochissimi a mezzo di congegni e infine
che si tratta d’ipotesi non supportata da alcun documento storico; ecco ora la più antica
spiegazione del significato del termine ‘artiglieria’, ma non della sua origine:

… Artillerie est le charroi,


Qui par duc, par comte ou par roy
Ou par aucun seigneur de terre
Est chargè de quarreaux en guerre,
D’arbalestes, de dars, de lances
Et de targues d’unes semblances.
De tels harnois là prendre seulent
Les desgarnis qui prendre en veulent,
À ce-que les delivrent et baillent
A ceux à qui tels choses faillent…
(Guillelmus Guiardus, ubi de praeli ad Montem Puellarum, an. 1304; Jules Finot, L’artillerie
bourguignonne a la bataille de Montlhéry. Lille, 1896).

E inoltre:

… Item ordinatum est quod sit unus artillator qui faciat ballistas, carellos, arcos et alia
necessaria pro garnizionibus castrorum. (Statutum Edwardi II regis Angliae, ubi de officio
senescalli Aquitaniae et conestabilis burdegalensis, in Regesto Aquitaniae, folt. 80)

I carelli, cioè le frecce di balestra, si dicevano anche in tanti altri modi e cioè in itm. querelli,
quadrelli, verret(t)oni, g(h)uiretoni, ghiritoni, giurittoni, viratoni, veruti, passatori; in fr. carreaux
o garraux, garrots, vires, viretons, dondaines, traicts, sagettes ; in. sp. jaras. Potevano
differire soprattutto nella misura, ossia piccoli se per balestra da braccio e grandi se per
balestra da postazione, oppure per la materia di cui era fatto il loro impennaggio. Concordano
con i suddetti anche i documenti pubblicati e citati nell’Ottocento dall’Angelucci, rigoroso
paleografo e ottimo tecnico dell’artiglieria, il quale, per le sue conclusioni, prendeva in

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considerazione solo documenti e trattati coevi, diffidando persino – ma giustamente – da
certe sciatte cronache medievali e rinascimentali.
Insomma, come abbiamo già spiegato, artiglieria si diceva nel Medioevo l’armamentarium
che un esercito si portava dietro e che proveniva dalla Camara, cioè dall’armeria pubblica, la
quale a quei tempi, non essendoci ancora il pericolo rappresentato dai depositi di polveri da
sparo, era situata all’interno dei Palazzi Comunali; vedi per esempio quanto segue, tratto da
un’anonima cronaca della battaglia di Montecatini, avvenuta il venerdì 29 agosto 1315, tra
perdenti forze guelfe (Firenze, Siena, lucchesi fuorusciti, alcuni perugini e gli angioini di
Napoli) e vincenti forze ghibelline (Pisa, Lucca e gialdonieri (‘lancieri’) tedeschi:

… Fiorentini vi perderono, oltre a loro uomini, molto arnese de la Camara, che era grande
amunizione (in. amunition) di balestre, scudi, quadrella ed altra artigliaria ; e trabacche e
bestie da portar some.
Deì senesi vi rimase molta camara d’artiglieria, perché i sanesi avieno mandati i suoi forniti di
tutte artiglierie e la camara da fornirgli, quando bisognasse, di balestra, di scudi e trabacce e
quadrella ed altre artiglierie che bisogna a la guerra ; e così era la camara in campo per loro
soldati, d’onde tutta si perdé con le bestie de’ carriaggi, che poco ne camparo (‘che poche ne
scamparono’).
E così vi rimase la camara dell’altre terre guelfe di Toscana, ch’ognuno ne avea la sua
camara fornita di tutte l’artigliarie sicondo la sua possibilità. Avvisandovi che la detta oste de’
fiorentini col prenze ed altri capitani era la meglio fornita dì ogni artigliaria… (Cronica sanese
di Andrea Dei ecc. In LT. A. Muratori. Cit. Vol. XV, c. 58.)

Fu dunque questa del 1315 a Montecatini una delle ultime grandi battagli combattute senza
armi da fuoco. L’artiglieria (itm. artelarie) era quindi in origine – ma in seconda origine come
presto vedremo - non altro che quella che dal Cinquecento sarà chiamata invece monizione (
estendendosi però da quel tempo anche al cibo e al vestiario), cioè l’insieme delle armi, degli
attrezzi e dei materiali di cui era dotato un esercito medievale in marcia e poi, per facile e
veloce sineddoche, il ‘carro’ con cui quello si trasportava (vedi anche Angelucci, A.
Documenti inediti etc. Nota 114 a pag. 57); per la precisione allora, mentre l’armurier era
l’artigiano addetto alle armi corporee da difesa (armature, elmetti, brigantine, barbute, celate,
cappelli di ferro, ecc.) l’artilleur (tlt. artillator, it. artiere) non era, come più tardi, l’addetto a
sparare le grandi bocche da fuoco, bensì era l’artiere, l’artefice, l’artigiano che s’interessava
invece delle armi portatili da offesa (archi, balestre, frecce, dardi, armi d’asta d’ogni tipo,
schioppetti e simili) e di esse doveva aver cura, manutenzione e riparazione. Poiché gli
furono affidate, una volta inventate, anche le piccole armi da offesa da fuoco (sclopeti o
espingardas), il suo nome prese man mano a sostituire quelli sempre meno adeguati e
consoni ai tempi in Italia di bombarder(i)o e in Spagna di lombardero, mentre in Francia, dove
ovviamente si era più consapevoli del suo suddetto vero significato, prevarrà quello di
canonnier.

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A conferma di quanto detto diremo che nei numerosissimi documenti borgognoni
(‘fiammingo-valloni’) citati dal Finot e relativi specie alla battaglia di Montlhéry (6 luglio 1465)
e alla seconda metà del Quattrocento in generale si costata come delle forniture d’artillerie di
quell’esercito facessero allora parte per esempio anche i fusti e i ferri delle lance degli uomini
d’arme, tutte le altre armi bianche inastate come ronche (fr. vouges; sp. cuchillas) e picche e
inoltre archi, corde di archi, frecce, verrettoni o veratoni o passatori (lt. spicula) per balestre di
varie misure, cioè dardi grossi ferrati per grandi balestre da posta - ossia da bussula o
bussola - detti in it. passato(r)i, in quanto facevano maggior passata, mezzani o piccoli per
balestre portatili, detti anche piloti e moschette, differenti a seconda che fossero da fante o da
Soldoto montato, tutti comunque impennati, cioè forniti di alette stabilizzatrici di penna o di
carta all’estremità posteriore; inoltre mazze di piombo, giavellotti da gettare a mano dalle
gabbie delle navi, infine gli strumenti degli zappatori quali zapponi, vanghe, pale, scuri (ts.
picozze) e roncole (J, Finot. Cit.).
Tutto quanto appena detto riguarda l‘interpretazione semantica del termine ‘artiglieria’, ma
non spiega la sua etimologia… Per comprenderla, ci siamo serviti delle ricerche dell’onesto
Cibrario, il quale equivocò il termine attill(i)eriae trovato più volte nel tardo-latino di varie
quattrocentesche menzioni dell’artiglieria francesi e savoiarde, perché credette che volesse
significare l’artiglieria stessa; invece il significato era un altro, anche se talvolta attinente alle
bocche da fuoco, come vediamo appunto in queste citazioni di documenti quattrocenteschi:

… Pro reparari faciendo attillierias…


… Una cum attilleriis seu garnisionibus equorum.
… Et plures attillerias ipsarum bombardarum (Operette, p. 405).

Il significato originario dell’antico termine francese attillerie era dunque quello di ‘guarnimenti,
utensili’ (noi oggi diremmo ‘accessori’; sp. aderezos) delle armi, provenendo infatti non dal
sostantivo arte ma dal verbo latino apto, ‘adatto, congiungo’, il che ci permette di riportarlo
facilmente a un più che supponibile basso-latino aptiliaria (questo a sua volta dal lt. aptabilis,
‘appropriato, adatto’), nel senso di ‘cose atte, adatte’; si tratta dunque di un nome che, pur
essendosi poi corrrotto in artilleria perché contaminatosi per le indubbie attinenze con la
parola ‘arte’, non da alcun’arte o artificio deriva né tanto meno dagli artigli dei rapaci, come
talvolta fantasiosamente si scrisse. Vero è che poi, come spesso succede in linguistica, si
verificò una sineddoche e si prese a chiamare il tutto, ossia le bocche da fuoco, con il nome
di una loro sola attinenza e cioè dei loro importantissimi accessori.
Un processo analogo al precedente si vede anche nel vocabolo tedesco-romanico Aerckelei
o Arckeley o Arckelley (polt. archelia; dal lt. arculae, ‘piccole arche’, nel senso di ‘cassette
delle armi’), termine correntemente usato da Jacob Preuss (1530) e, nel suo noto trattato, da
143
Lienhart Fronsperger, barone di Mindelheim (c. 1520-1575), esperto e colto provveditore
generale dell’esercito dell’imperatore Ferdinando I; egli chiama infatti anche così l’artiglieria e
non solo die Büchs(s)en (dal gr. πυξίς attraverso il lt. pyxis), anche questo in origine vocabolo
dal senso di ‘casse delle armi’,) o die Stücken o das Geschütz. Si tratta dunque anche in
questo caso di un termine che evidenzia la sua derivazione dalla suddetta armeria medievale
di archi, corde per archi, frecce, balestre, verrette, bolzoni o pulzoni e altre armi portatili, le
quali in tutta Europa si fornivano e portavano in casse di legno. Esso sarà in Germania, oltre
che per tutto il Cinquecento (Ein Arkoleymeister ist nicht anders alse ein oberster Büchsenmeister.
Junghans, 1594) troviamo in alternativa a ancora molto usato a Seicento inoltrato, per
esempio nel Politische Reichshandel di Melchior Goldast von Haiminsfeld pubblicato nel
1614, nella traduzione in tedesco del trattato d’artiglieria del Wallhausen (Archiley
Kriegskunst), edita nel 1617, in quella della Discipline militaire (Kriegs Practica) di Guillome
du Bellay, pubblicata a Francoforte nel 1619 e poi anche nel 1621, del trattato d’artiglieria di
Diego Ufano (Archeley) e nel Dictionarium Teutsch-Italiaenisch di Levinus Hulsius del 1618
(Archeley, Archeleymaster); più tardi, cioè al tempo della Guerra dei Trent’anni, questo
latinismo germanico comincerà a essere gradualmente sostituito nell’uso da quelli francesi
Artelarei, Artillerie, Artollerey e Artillerey. L’Italia, nella quale, come ora vedremo, sembra
proprio che fosse avvenuta la prima significativa produzione di bombarde medievali e il cui
Rinascimento prevalse in eccellenza su quello di tutte le altre nazioni in ogni aspetto della
vita civile, restò invece in quello splendente periodo del tutto arretrata nello sviluppo militare e
ben lo si comprende non solo dal frequente ingaggio di bombardieri tedeschi che allora, ma
anche più tardi, fecero i principi italiani, ma soprattutto dalla grande confusione terminologica
che riscontriamo nei documenti d’archivio che riguardano appunto l’artiglieria rinascimentale
italiana. Nei Diarii del Sanudo, dunque tra fine Medioevo e inizio Evo Moderno, vediamo
comunque fare una distinzione tra bombarde e artillarie, intendendosi per le prime le canne
da sparo in più pezzi, fatte di ferro colato o anche di rame battuto, e con le seconde quelle in
monofusione di bronzo o di ferro (passavolanti, zarabottane, falconetti ecc.) Per esempio,
quando nel 1496 galere veneziane e napoletane di Federico d’Aragona bloccavano Gaeta
occupata dagli angioini, a proposito dei preliminari scambi di colpi d’arma da fuoco, nei
suddetti Diarii così si legge:

… Franzesi montòno sui repari e trazevano archibusi e schiopeti, ma non podeva nuoser per
esser il castello lontano. El (‘Dal’) qual trazevano (anche) bombarde a le sue galie, ma non
zonzeva. Si aspetta le artilarie per meter fin a questa impresa… (T. I, colt. 342.)

Dunque piccole bocche da fuoco e bombarde francesi risultavano inefficaci per la distanza
mantenuta dal nemico; occorrevano pertanto artilarie, cioè armi con una maggior gittata.
144
Poiché è stato comunque qui nostro assunto trattare più della pirobolia delle origini che delle
origini della pirobolia, a chi volesse invece approfondire questo secondo argomento
consigliamo senza alcun dubbio di leggere le commendevolissime trattazioni analitiche del
Promis, oltre naturalmente allo studio delle miniature dei codici medievali e dei disegni del
Valturio, del Santini, di Leonardo da Vinci e d’altri architetti militari che ripresero progetti di
macchine e congegni medievali; molto commendevole l’opera ottocentesca di Lorédan de
Larchey, il quale nel suo Origines del’artillerie française riprodusse le llustrazioni del trattato
di Paolo Santini. Noi abbiamo solo voluto dimostrare che già nel Medio Evo l’artiglieria da
sparo centro-europea era stata organicamente e razionalmente ben classificabile, quindi non
molto diversa da quella proto-moderna che stava per seguirla, e ci siamo avvalsi, come il
lettore avrà notato, soprattutto dei documenti relativi a quella borgognona - poi fiammingo-
vallona - citati nell’Ottocento dal Finot, cercando di formularne sintesi e classificazioni più
rigorose ed esplicative di quelle sin’oggi talvolta intuite dallo stesso Finot e dall’Angelucci, ma
poi da essi solo un po’ confusamente accennate.
Abbiamo parlato di una ‘seconda origine’ del termine ‘artiglieria, ma, per concludere con
questa etimologia, qual’era stata la sua prima origine? Come si evince chiaramente dal
Glossarium del Dufresne du Cange e da quanto abbiamo noi aggiunto, in tardo-latino per
artilleria o artillaria o artelaria s’intendevano tutti gli oggetti metallici prodotti in una fucina,
anche quelli domestici da cucina o argentei da chiesa (vasa vinaria et artillerias; unum
calicem argenteum, unum parvum tintinnabulum pro Missa [...] et omnes alias artillarias. In
Glossarium, T. I, c. 743. Parigi, 1733) e quindi l’artillator medievale non era altro che il fabbro,
il quale poteva anche essere specializzato in armi e quindi far parte del seguito di un esercito;
del resto ancor’oggi in francese atelier significa bottega artigiana.

145
Capitolo IV.
I progressi dell’artiglieria al tempo di Carlo VIII di Francia.

Alla metà del Quattrocento le armi da fuoco erano già tanto evolute da essere ben suddivise
nelle loro quattro dimensioni ortodosse, cioè canne grosse, mediane, piccole (queste perlopiù
zarabattane) e infine portatili da fanteria, come si nota per esempio nei preparativi difensivi
che nel 1454 si fecero al porto di Napoli per fronteggiare la minaccia portata da un’armata
navale nemica genovese, la quale aveva tra l’altro l’obbiettivo di distruggere due nuove navi
di straordinaria grandezza colà fatte costruire dal re Alfonso V d’Aragona:

… Nel frattempo si poté difendere il molo, dove stavano quelle due grosse navi, e si fortificò
con molta artiglieria di lombarde grosse e di molte altre mediane e di altri tiri da polvere
minori, che chiamavano ‘troni’, e spingarde in numero di quattromila… (Zurita, Anales. T. 2-2,
lt. XVI, c. XXVII.)

Del 1472 è un elenco, al quale abbiamo più sopra già accennato, del materiale occorrente
per un carreggio (’treno’) d’artiglieria che Galeazzo Maria Sforzia, duca di Milano, voleva che
si preparasse per le necessità della guerra che conduceva contro la Repubblica di Venezia
(trad. dall’itm.):

(11 dicembre 1472:) Infrascritta è la provvisione delle cose che bisognano ad un carreggio
per condurre in campo quattro bombarde grosse, due ferline, due russianelle e otto
spingarde (Carlo E. Visconti, Ordine dell’esercito ducale sforzesco 1472-1474. P. 469 e
segg. in Archivio Storico Lombardo etc. Anno III. Milano 1876).

Tutte le otto suddette erano bombarde con caricamento da camera, cioè con un tipo di
caricamento posteriore tipico del Quattrocento e che più avanti, come già promesso,
spiegheremo, e infatti tutte e otto avevano bisogno di cocconi (‘cilindri di legno’) di
caricamento, - da non confondersi però con i cocconi degli strumenti di servizio di cui poi
diremo:

- Per la Corona, cioè tromba e coda, carri matti 2 paia e 16 buoi.


- Per i ponti con i finimenti “ “ 4 “ 8 “
- Per i ripari e spiazzi (sedimi) di legno “ “ 3 “ 6 “
- Per i sedimi di metallo con due ruote grosse “ “ 1 “ 2 “
- Per la culatta “ “ 1 “ 2 “
- Per la verna (‘capra’) con i suoi finimenti “ “ 1 “ 2 “
- Per pietre 102 per detta bombarda che pesano
libbre 400 l’una (cioè kg. 131, a 12 oncie la libra),
a pietre 6 per carro “ “ 17 “ 34 “
- Per la polvere per trarre dette pietre 102; a libbre
50 per pietra sono in somma libbre 5.100 con
cocconi 102 “ “ 3 “ 6 “
146
- Per le leve di ferro e stanghe di legno per
maneggiare la detta bombarda, per cacciare il
coccone e per le altre cose necessarie “ “ 1 “ 2 “

In somma, per trainare questa sola bombarda grande milanese, chiamata Corona, servivano
33 carri tirati da 78 coppie di buoi. La seconda, chiamata la Bisciona (‘Bissona’), e la terza,
detta invece la Liona, erano un po’ più piccole della precedente, perché lanciavano pietre di
300 libbre, bastando 40 libbre di polvere a tiro; la quarta, la Galeazzesca, era la più grande di
tutte e lanciava pietre di ben 625 libbre (kg. 204 circa) l’una, servendole libbre 100 di polvere
a tiro. C’erano poi, come già accennato, 2 bombarde ferline, così dette perché opera del
famoso maestro fonditore Freylino da Chieri nel Torinese, le quali tiravano pietre di 225 libbre
l’una, bisognando di circa libbre 33 di polvere a tiro; infine due altre dette ruffianelle o anche
bastardelle, le più piccole di tutte, e che si chiamavano la Symona e la Serpentina, le quali
erano montabili non su affusti ruotati ma su semplici ceppi non ruotati, e delle quali non si
danno caratteristiche, se non che per il traino loro, dei loro suddetti ceppi, di 200 pietre, di
1600 libbre di polvere e attrezzi vari servivano solo 5 carri e 10 paia di buoi per ciascuna.
Queste ruffianelle o roffianelle servivano a difendere la postazione di una bombarda,
perlomeno a quanto commentava Guglielmo VIII Paleologo, marchese di Monferrato e
cognato di Galeazzo Maria Sforzia, auspicandone una maggior presenza nella suddetta
artiglieria lombarda, magari togliendone al nemico (Vero che ad ogni bombarda voriano due
roffianelle per defendere et reparare. Cit. P. 501). Delle qualifiche bastardelle e serpentina
più avanti discuteremo il significato, mentre il nome Symona sembrerebbe proprio dovuto
all’esser stata quella bombarda prodotta da un maestro-artigliere di nome Simone.
Oltre alle suddette otto bombarde, per le quali poi si deciderà di uniformare il numero delle
pietre, cioè dei proiettili, a 500 ciascuna e quindi a raggiungerne un totale di 4mila con una
conseguente necessità di 170mila libbre di polvere d’artiglieria (mentre quella per spingarde
e schioppetti sarà portata a 12.500 libbre), il detto carreggio portava anche otto spingarde
con loro ceppi et cavalletti, canoni et chiave (‘affusti non ruotati, cavalletti a forcina, canne e
culatte’), perché anch’esse bocche da fuoco fatte in due pezzi, e 100 schioppetti, questi
invece in un solo pezzo, come già sappiamo, con ballotte 800 per le prime e ballottine 10mila
per i secondi, il che conferma che le spingarde erano da posta e gli schioppetti da fante.
Nuove spingarde e nuovi scoppietti si sarebbero poi potute fondere con forme appositamente
portate al seguito dell’esercito (trad. dall’itm.):

Per piombo, ballotte da spingarde e da schiopetti oltre le antescritte per munizioni da campo
e tazze da colare piombo n.2 e forme da spingarda 1 e schioppetto (1)… carro 1 paia di buoi
2 (ib. P. 472).

147
Seguivano cinque carri che portavano lanze 2.000 da cavallo ferrate, a lanze 400 per carro,
cioè le lance da lanciere a cavallo, le quali in questo caso erano già ferrate, cioè già provviste
della loro punta di ferro, e quattro che invece portavano lanze 1200 da pede ferrate a 300 per
carro, cioè picche da fanteria. Le prime non dovevano essere i doppi lancioni da uomo
d’arme perché altrimenti un carro non ne avrebbe potuto contenere addirittura un numero
maggiore di quello delle picche per la fanteria. Anche queste ultime erano già ferrate e che si
trattasse di picche di fanteria lo attesta quella dizione lanze da pede, perché, come abbiamo
spiegato nella nostra opera sulla fanteria e sulla cavalleria di quei secoli, i più dei picchieri
italiani non erano né abbastanza forti né abbastanza addestrati da poter tenere le loro picche
ferme contro la cavalleria nemica all’attacco solamente a forza di braccia e quindi si
limitavano a tenerla fermata a terra contro la pianta del loro piede destro. L’abuso era
evidentemente tanto diffuso da far prendere alla picca appunto il nome di lanza da pede. Si
aggiungono poi 2500 libbre polvere per le dicte spingarde et schiopeti, il che significa che già
allora per le piccole, canne s’usavano polveri diverse da quelle per l’artiglieria grossa.
Interessante era poi previsione di 6 carri e 12 paia di buoi per il traino di una briccola, vecchio
congegno ad una sola pertica, quindi il tipo più piccolo tra i mangani o trabocchetti, che
poteva evidentemente essere nel tardo Medioevo ancora utile negli assedi, soprattutto
perché il suo tiro parabolico non era ancora del tutto sostituibile con quello dei mortari,
all’epoca ancora molto impreciso; oltretutto con la briccola si potevanio gettare nella città
nemica assediata anche oggetti diversi dai proiettili e cioè corpi infettanti, teste di nemici
uccisi a scopo intimidatorio ecc. Non bisogna infatti dimenticare che a quei tempi le artiglierie
non erano ancora di fondizione sufficientemente elaborata e sofisticata e infatti, per esempio,
l’esercito turco, approfittando anche del basso costo della manodopera che c’era nel suo
impero, non perdeva tempo a trascinarsele dietro, ma le andava a fondere direttamente nel
luogo dove si metteva l’assedio, trasportando rame e stagno a ciò necessari sul dorso dei
cammelli e poi, terminato l’assedio positivamente o negativamente che fosse, frangevano le
artiglierie colà fuse e, sempre a dorso di cammello, se ne riportavano indietro i pezzi (rami,
cioè bronzi) per rifonderli in un’altra occasione (D. Malipiero, cit. Parte prima, pp. 93 e 98).
Ecco dunque la voce riguardante la suddetta briccola:

Per condurre una briccola, cioè la pertica, il fuso, le braghe e altri legnami e fornimenti: carri
6 e paia di buoi 12 (Carlo E. Visconti, cit. P. 472).

Qui si leggono dunque le principali caratteristiche della briccola e cioè la pertica unica, il fuso
rotatorio in cui era innestata, le due braghe, ossia i due sostegni laterali di detto fuso; tra gli
altri legnami c’erano evidentemente le basi delle braghe e la cassa di bilanciamento. Di

148
seguito il Visconti riporta un lungo elenco di materiale d’artiglieria, ma noi ci limiteremo a
menzionarne le parti più significative:

Rachette (‘rocchetti’, ‘razzi’) 400 da trare foco cum le balestre.

Dunque con le balestre, oltre ai verrettoni, cioè alle saette, si tiravano anche razzi accesi per
appiccare il fuoco alle istalalzioni del nemico. Si chiamavano rocchetti, come del resto
abbiamo probabilmente già spiegato, perché si trattava di dardi fatti di materiali incendiari
reattivi stretti in avvolgimenti di corda. Il nome resta ancora oggi nell’inglese rockets.

Casse 40 de verrettoni mezzani n. 500 per cassa e casse 5 de verrettoni da bussola e 5 da


cavallo, cum uno barile de sevo e rubo de canevo per ungere le carre de le bombarde.

I verrettoni mezzani sono i dardi da ordinaria balestra da fante e perciò sono in così gran
numero; in quantità invece molto più ristretta quella da balestra da bussola, cioè per la
grande balestra da posta, la quale si montava appunto in una bussola, cioè in una grosso
contenitore rettangolare di legno che faceva da ceppo o affusto dell’arma; infine, i verrettoni
da cavallo, cioè quelli per i balestrieri a cavallo, sono anch’essi in 5 sole casse, ma non solo
perché ovviamente molto più pochi di quelli necessari alla fanteria, quanto anche perché più
piccoli e leggeri in quanto necessariamente più maneggevoli. Nei carri necessari per
trasportare queste armi erano poi stati caricati occasionalmente anche il sego e il ‘ruvo di
canapa’, ossia la stoppa, materiali usati per ingrassare i mozzi delle ruote. Seguivano ancora
4 carri, sempre trainati ognuno da due coppie di buoi, carichi di mantelletti da usare in
campo, cioè soprattutto per proteggere artiglieri, minatori e zappatori, e 4 di scale per dare la
bataglia; qui campo e battaglia sono termini bellici usati impropriamente, perché si trattava di
ripari e di ‘macchine’ che, com’è noto, servivano soprattutto a combattere e ad assaltare le
mura nemiche; infatti a un certo punto dell’elenco di materiali si dice: “quando se dà la
bataglia alle mure” e lo si fa a proposito di paletti 60 de ferro de libre 12 l’uno per dare in
mano ad li homeni d’arme. Come dovessero maneggiare gli uomini d’arme appiedati questi
paletti di ferro non sappiamo spiegare, in quanto, se come corpi contundenti, avrebbero
invece dovuto preferire le loro mazze d’arcione. Nella lunga lista di materiali tra l’altro
notiamo ancora 50 balestre; in totale tutto il traino di queta artiglieria lombarda sforzesca
richiedeva ben 227 carri tirati da 522 paia di buoi, di cui 219 erano carri ladini, cioè leggeri,
mentre gli altri otto erano carri matti, cioè forti e senza bordi, che servivano per il trasporto
delle 4 predette pesanti bombarde grosse. Dopo solo tre giorni dopo seguì un’altra lista
che riportava il costo di tutti i mteriali e in essa ora si aggiungono altre tre verne (‘capre’) con
rozelle (‘carrucole’) di bronzo e ci sembra spiegabile, perché infatti le bombarde grandi
erano, come abbiamo visto, quattro e ognuna aveva bisogno della sua verna. Erano previsti
149
poi sei mesi di paga per un minimo di 14 bombardieri e 8 magistri de legname (‘falegnami’)
con i loro aiutanti e ausiliari, personale che, una volta che avesse raggiunto un’intesa di
lavoro con i suoi predetti maestri, si raccomandava di evitare di cambiare:

… e questi se toleno perché se habiano ad intendere cum li bombarderi; che non potria
essere cambiandoli como se fa de li magistri comandati… (Ib. P. 481.)

Infine occorrevano due officiali de monitione, i quali avessero appunto il compito di distribuire
i materiali di munizione in base alle necessità che si andavano manifestando. Dopo ulteriori
due giorni (16 dicembre) ecco una terza lista, questa di materiali aggiuntivi, di cui si era
evidentemente riscontrata la necessità, e vi troviamo, tra l’altro, attrezzature molto
interessanti e molto utili ad una ulteriore comprensione del detto carreggio di artiglieria
sforzesca; innanzitutto un totale di 17 altri carri, così suddivisi:

2 per condurre li arganeti [fr. perdris(s)eaux] vecchij.

Si trattava di piccole bocche da fuoco multicanne così chiamate perché ricordanti appunto gli
organi da chiesa e di cui poi di più e meglio diremo, ma che comunque, come conferma
quell’aggettivo vecchij, già a querl tempo avevano cominciato a subire un processo di
obsolescenza. Seguivano due carri per il trasporto di due spingarde grosse con i loro ceppi e
che fossero di formato maggiore di quelle già più sopra elencate lo dimostra la differenze del
numero di carri necessario, cioè due per queste due spingarde e due sole per tutte le otto
precedenti. Ancora 1 carro per lo scalone della bombarda più grande, cioè della
Galeazzesca, cioè per sostegno di legno graduato per la punteria; 5 per 200 targoni, ossia i
grossi scudi statici che altrove diciamo pavesi, dipinti con il leone rampante in campo rosso
(cum il leone nel foco); 3 per 200 corazine coperte, vale a dire corazzine di cuoio ricoperto di
fustagno o di altro tessuto più pregiato; 1 per 200 celate e 200 guanti dritti, cioè non articolati
bensì rigidi, trattandosi probabilmente di quelli usati all’avambraccio destro dagli uomini
d’arme lancieri; 3 per il trasporto di 750 braccia di catene di ferro con serrature necessarie a
incatenare detti 17 carri l’uno cum l’altro una volta arrivati all’alloggiamento, essendo questi
infatti spesso trafugati dai contadini delle campagne che l’esercito attraversava; erano infatti
tempi in cui l’acquisizione di un semplice carro poteva cambiare sostanzialmente le
opportunità di lavoro e quindi la qualità di vita di un bifolco:

Item, per sarature 250 cum una chiave che apra et sarà tutte le dicte sarature che andarano
atachate a le suprascripte catene, quali ligarono insieme l’uno carro cum l’altro, a soldi 12
l’una … Libre 150 (Ib. P. 484).

150
In totale i carri necessari a tutto quanto sopra elencato in detto carriaggio d’artiglieria
arrivavano dunque a 244 e le coppie di buffali – perché ora veniamo anche a sapere che si
trattava in effetti di un traino di bufali e non di buoi, come sopra invece sono stati
evidentemente per convenzione chiamati – a 556 più altri 25 di riserva:

Item, per para 25 de altri buffali che se averanno a menare drieto desligati al carregio, per
rimettere poi se alcuno de l’altri se guastasse…
Item, per bulci (‘bifolchi’) 581 mettendo uno bolco per ogni paro de buffali, che haveriano
quelli erano in campo al tempo de la bona memoria del quondam Ill. Signore Duca
Francesco… (Ib. 485.)

Il Visconti riporta un ultimo documento d’artiglieria, quello dato a Vigevano il 7 dicembre 1473
e nel quale si espone un vasto progetto di carrette bi-ruote (medij currus) da organetti, cioè
armate ognuna con due spingarde o appunto con un organetto, cioè con una serie di 8
schioppetti da sparare in veloce sequenza probabilmente con lunghe micce, ordigni quindi
eredi di quelle carrette da piccole catapulte che usavano gli antichi romani e che si vedono
tra le figure che ornano la Colonna Traiana e in un certro senso precorritori delle moderne
mitragliatrici; un progetto quindi d’artiglieria sforzesca aggiuntivo a quello appena descritto e
però talmente vasto che dubitiamo si sia potuto poi effettivamente realizzare o perlomeno
realizzare per intero:

Primo. Carrette mille da due ruote delle quali cinquecento habbiano a condurre spingarde
mille de bronzo sive de ferro a due spingarde per carretta cum li suoij fornimenti et cose
necessarie. Le altre cinquecento habbiano a condurre organetti de schioppetti che siano a
numero bocche 4.000, similmente con li fornimentio necessarrij (Ib. P. 508 e segg.).

Le spingarde, essendo solo due a carretta, erano evidentemente bocche da postazione,


mentre gli schioppetti, ben otto, dovevano certamente essere quelli normali piccoli da fante.

Item, che siano deputati mille huomini per el servitio delle stesse arteglierie quali sieno
experti et apti ad osservare et exercitare simili istrumenti et quali cavalchino li cavalli de
dicte carrette (Ib.).

Insomma la tanto decantata velocità del treno di artiglieria di Carlo VIII non sarà la vera
novità; la vera innovazione sarà l’abbandono definitivo della centralità delle canne petriere per
conferirla invece a quelle ferriere.

Item, che per la guardia de dicte carrette et artiglierie sieno 500 balestreri de le Langhe cum
balestre da molinello comune (Ib.).

Quando si alloggiava, anche queste carrette, come già i carri della provianda e delle
munizioni, si dovevano incatenare tra di loro per evitarne il furto:
151
Item, quando se allogierà lo exercito, che de le dicte carrette se farà uno parco sive serraglio
per guardia et difesa de quello e che sieno incatenate l’una carretta cum l’altra cum catenate
de ferro ben forte, incatenando li timoni cum le code desse carrette et cum tale modo che
non possano essere rotte né tagliate (Ib.).

Un po’ più tardi il già ricordato Jacopo da Porcia ancora ci parlerà delle carrette offensive di
cui abbiamo appena detto, anzi le dirà decisive per la vittoria in battaglia a causa del terrore
che infondevano nel nemico, però non facendo più distinzione tra spingarde, canne bifusione,
e serpentine, canne queste invece monofusione, anche se con caricamento a camera, il che
molto probabilmente significa che, attorno all’anno 500, la multi-fusione che aveva
caratterizzato la maggior parte delle artiglierie medievali, non era ormai più in uso:

Dei mezzi-carri con serpentine e spingarde e organi. Sarà molto utile avere nell’esercito un
gran numero di serpentine su mezzi- carri. Infatti non ci sarà alcun esercito tanto robusto e
grande che non sia da quelli atterrito più di quanto si possa dire, giacché già da lontano sia i
soldati sia i cavalli vengono con essi abbattuti e in breve nessuno né da vicino né da lontano
sarà senza pericolo, a tutti i soldati per il terrore svanendo (così) le forze e venendo a mancare
il coraggio (cit. L. I, p. 51 recto).

Per quanto riguarda la difesa del circuito esterno degli accampamenti degli eserciti Jacopo
consigliava larghi e forti carri ferrati sui quali erigere torrette di legno da guarnire di spingarde,
armi che, approfittando pertanto di quella loro posizione alquanto elevata, avrebbero avuto
più bersagli da colpire (ib.); ma sembra proprio che l’idea di una tale veloce fortificazione
precostruita non abbia trovato poi degli estimatori perché nessun autore successivo racconta
di averla effettivamente vista in opera da qualche parte; forse perché delle torrette di legno
sarebbero state probabilmente troppo facile bersaglio di dardi incendiari lanciati dal nemico.
Interessante raffrontare il materiale del suddetto carriaggio d’artiglieria milanese con gli
inventari, anch’essi sforzeschi, dei materiali d’artiglieria risultanti in quegli stessi anni (1476)
nei due castellli di Bellinzona e in quello di Locarno e poi, nel 1484, in quello di Sasso
Corbaro, territori oggi svizzeri ma allora parte del ducato di Milano, e dei quali evidenziamo
quanto segue; premettiamo che diamo un senso al ripetere elenchi già pubblicati da altri nel
passato (Bollettino Storico della Svizzera Italiana, Anno IV, 1882 e Anno XII, 1890.
Bellinzona) quando pensiamo di poterlo fare in una maniera ‘interpretativa’, avvalendoci cioè
di qualche conoscenza della materia che in tanti anni riteniamo di aver maturato:

Castello piccolo di Bilinzona, castellano Giovanni Visconte.

- 10 casse di verrettoni (da balestra) per un totale di 2.922, tra cui un piccolo numero
carolenti (‘carenti, difettosi’).
- 1 cassa di verrettori da stambechina, cioè da piccola balestra da balestriero a cavallo
con arco fatto di corna di stambecco (vedi ns. Tecnica e tattica della guerra al tempo
della Controriforma. P. 34. Napoli, 2010) per un totale di 569, ma ormai guasti, quindi
inutilizzabili.
152
- 1 balista (‘balestra’) da bussola (‘affusto di bossolo, legno di bosso’), bona.
- 2 baliste da sortò (fr. surtout), cioè di quelle piccole da cospiratore che si potevano
portare occultate sotto il largo soprabito detto in milanese sortò, insomma
antesignane di quelle terzette o pistoletti di cui sarà più tardi generalmente vietato il
porto ai civili per gli stessi motivi.
- 4 once di cera per fare corde da balestra, cioè per incerarle e così renderle più
elastiche.
- 10 cerbottane (‘zarbatane’) di ferro senza manici, leggere armi ad fuoco di cui
diremo..
- Barilli 3 de pulvere da zarbatane, pexano libre 190.
- Libre 25 de piombo
- 2 forme da far pallottole di piombo.
- Parte una de una bombarda de ferro .
- Rode 2 per condure bombarde.
- Rode 2 simile vegie.
- Tarchoni (‘targoni’, scudi simili a pavesi) 2 de pocho valore.
- Mantelli (di legno da protezione) 10 boni.
- Mantelli 16 rotti.
- Bombarde 3 de ferro de portata libre 2 ½ de puluere (si tratta ovviamente di piccole
bocche da fuoco, ecco perché fatte di ferro e non di bronzo).
- Bombarde 2 de ferro de portata libre 2 de puluere.
- Piode (‘pietre’) 300 per le dicte bombarde.
- Schioppi 2 de ferro.
- Barilli 4 de poluere da bombarda pexano libre 260.
- Barilli 4 de poluere da bombarda libre 88 brut (‘lordo’).
- Balista 1 de ligno da cirella (‘girella’, quindi ‘da caricarsi a mezzo di una girella’).
- Cinto l da balista fornito (‘cintura guarnita di sostegno al gancio da caricare’)
- Baliste 2 dazale da bussola (‘Balestre 2 d’acciao da affusto grande di bossolo’).
- Bussole 2 fornite (‘guarnite’) da balestre.
- Lanterne 3 de corno.
- Schioppi 5 de ferro con li soy manichi.
- Barilli 2 de poluere da bombarda.
- Spingarde 1 de ferro, con canoni (‘canne intercambiabili’) 3 et chiaue (culatta’, come
abbiamo già spiegato) et ceppo et caualetto.
- Gauette (‘matassine, rocchetti’) 25 de filo da balestre .
- Balotte 100 de piombo de onze 18.
- Balottine 1000 da zarbatana (‘cerbottana’, come già detto).
- Gauette 40 de filo da balestra.
- Cazafusti (‘mazzafrusti’, cioè ‘fionde a bastone’) 6.
- Balestre 2 dazale da bussola fornite con le sue bussole.
- Fusti 2 dazale (qui sono gli stessi fusti ossia tenieri ad essere fatti d’acciaio) da cirella
con duy cinti forniti.
- Libra 1 de cera per fare corde da balestre .
- Balottine 100 da zarbatana.

Furono poi consegnati a detto castello, tra l’altro, i seguenti materiali richiesti:

- Spingarde 3 de ferro cioè 2 de portata de onze 12 ed i de onze 18 fornite (‘guarnite’).


- Balotte 100 de piombo de onze 18.
- Balotte 200 de piombo de onze 12.
- Rubbi 5 (cioè 125 libbre da 30 once) de piombo da fare balotte.
- Schioppi 15 de ferro inmanegati (cioè con i loro tenieri, manici di legno) .
153
- Balottine 2000 per dicti schioppi.
- Barilli 4 de poluere da schioppo.
- Barilli 5 de poluere da bombarda.
- Gauette (‘matassine’) 150 de filo da balestra.
- Capse (‘casse’) 2 de verettoni mezani.
- Capse 3 de verettoni da bussola (v.s. Cioè più grandi perché da balestra da posta).
- Rodella (‘carrucola’) 1 de corda (‘scudo rotondo fatto di corda’) grossa comme vna
asta
de vno dardo. (Si tratta di un congegno per sollevare pesi, ma come funzionasse non
sapremmo dire).
- Mazolo (‘martello’) 1 da piccare prede.
- Agugie (‘picchetti di ferro’) 4 da fabricare prede da bombarde.
- Frappo (?) 1 da fabricare utsupra.
- Lumere (‘fiaccole’) 2 da fare falodi (‘falò’).
- Stoppini 75 da fare falodi ( falò ).
- Para 3 de forme da fare balotte per le antedicte spingarde et schioppi.

Castello grande di Bilinzona, castellano Lando da Casale.

Ovviamente non ripeteremo spiegazioni già date:

- Bariselli (‘barilotti’) 2 de poluere da spingarde et da schioppo.


- Barilli 3 de poluere da bombarda, cioè doy pieni et vno mezo.
- Capse 9 de verettoni con l’aste carolente (‘difettose’) et marze in parte et in parte boni.
- Capse 32 de verettoni con le aste carolente et piu non inpenate (‘prive delle penne
direzionali di coda’).
- Statera 1 grande de ferro con la bonzale (‘base’?) de preda (‘di pietra’).
- Baliste 6 de ligno tal quale antique et de poco valore et vna altra balestra de ligno
rotta
con cinti 4 cioè 2 rotti et 2 boni con vna carella et vna manetta (‘una girella et una
maniglia’).
- Aspe (‘arganelli’) 2 da balestra, vna da cirelle 4 et l’altra de due.
- Tellari (‘tenieri’) 6 da baliste nelli quali non sono se no noxette (‘nocette’) 2.
- Barille 1 grosso pieno de puluere.
- Barille 1 nel quale non gli è se no la terza parte de puluere de tenuta (‘contenuta dal’)
del soprascripto barille.
- Bombarde 13 grandi et grosse
- Bombarda 1 picola
- Bombardella 1 rotta in fonto (‘fondo’)
(tute sono senza ceppo).
- Omnia ferramenta per ferrare li ceppi delle suprascripte bombarde.
- Bombardelle 2 de bronzo, da mano (‘cioè da fante).
- Bombardelle 2 de ferro, da mano.
- Schioppi 9 de ferro grosso et picoli.
- Prede 1150 da bombarde tal quale tra grande et picole bone.
- Prede 120 da bombarda rotte.
- Cechoni (‘cestoni’) da bombarda 160.
- Pestoni (‘stivatori o calcatori’) 2 de ferro per caricare bombarde.
- Leuere (leve, spranghe’) 2 de ferro .
- Bavere (‘baviere, barbozze’, parte inferiore dell’elmo) 2 de ferro todesche antique
senza
magie (mangie’, cioè senza apribili per l’introduzione di cibo).
154
- Cellata (‘celata’) 1 bona.
- Cazafusti 7 inmanegati (‘mazzafrusti con manici’).
- Cazafusti 17 marzi (‘marci’) senza manichi.
- Cellate 2 rotte et forate.
- Bussole 2 da balestra senza cordoni.
- Tagliè (‘tagliere’, it. ‘taglie, capre’) 2 con cuxelle (‘girelle, carrucole’) per tirare suxo
ligname et prede.
- Rota (‘carrucola’?) 1 per piantare pali et ripari (strumento di perforazione che non
sapremmo descrivere).
- Spingarde 2 con canoni 6 et chiave 2 de portata de onze 18 de balotta con soy caualetti
de ligno fornite.
- Barille 1 de poluere de libre 101.
- Balestre 3 d’azale (d'acciajo) con duy molinelli (‘girelle’) fornite.
- Balestre 2 da cirella (‘girella, molinello’) con soy cinti fornite.
- Forma 1 per fare balotte da spingarda onze 18.
- Lanterne 2 bone et 2 rotte .
- Schioppi 5 de ferro inmanegati senza bachette(‘bacchette’), tasche (?) et forme (?).
- Gauette (matassine’) 100 de filo da balestre in una capsa tolta (‘presa’) nella torre
rottonda
de Como.
- Torsero (‘torciero’) 1.
- Balotte 291 de spingarde de onze 18 in sachetti 2.
- Balottine 1000 da schioppi in vno sachetto.
- Gerletti (‘cestini’) 2.
- Rubbi 4 (ciè ‘100 libbre da 30 once’) de chiodi de 4 sorte .

Qui le balestre a sono a caricamento a mezzo molinello, le più comuni, ma si usavano


comunemente anche a caricamento a mezzo pesarola, cioè a martinetto o cricco che dir si
voglia. A integrazione di quanto elencato nel suddetto inventario, a questo castello grande
sarà poi fornito, tra l’altro, quanto segue:

- Spingarde 6 de ferro, cioè 2 de portata de onze 18 et l’altre de onze 12, con ceppi et
fornimenti soy de ligname, con canoni 8, cioè 6 per le grande et 2 per la minore con
chiaue 3.
- Balotte 200 de piombo de onze 18.
- Balotte 100 de piombo de onze 12. -
- Bariselli 11 de pulvere da bombarda.
- Bariselli 6 de pulvere da spingarda et da schioppo.
- Rubi 7 et onze 4 de piombo.
- Schioppi 25 inmanegati.
- Capse 5 de verettoni mezani.
- Capse 2 de verettoni da bussola (v.s.).
- Balottine 3000 da schioppo.
- Gauette 150 de filo da balestra.
- Rodella (per sollevare pesi. V.s.) 1 de corda grossa come vna asta de vno dardo per
tirare ligname et prede alinsuso.
- Mazolo 1 per picare (‘picchettare’) prede.
- Agugie 4 per fare prede da bombarda.
- Frappino (?) 1 per fabricar prede.
- Lumeri (‘lumiere’) 2 per fare falodi (‘falò’).
- Stoppini 75 per fare falodi.

155
- Rubi 4 de chiodi diuersi.
- Pare 3 de forme, cioè 2 per balotte da spingarde et yno per balotte da zarbatana.
- Store (‘) 8 de lisca (forse ‘liscia’, cioè slitta per trascinare pesi).
- Spingarde 1 de ferro con 3 canoni et con chiave de ferro, li quali canoni sono troppo
grossi et la chiave troppo piccola con suo ceppo et cavaletto de legno.
- Balestre 17 d’azale da cirella (‘girella’) con li soy centi (‘tenieri’?), fornimenti de cirelle et
cordoni.
- Rubbi 7 (175 libbre da 30 once) de piombo.
- Schioppi 60 de ferro inmanegati (‘con loro manici di legno’).
- Barixello (‘bariletto’) 1 de poluere da schioppo.

Castello di Locarno, castellano Camerino da Camerino.

Sotto il portico:

- Bombarde 2 grosse con li soy ceppi.


- Bombarde 5 picole con li soy ceppi .
- Spingarde 4 con li soy ceppi.
- Spingarda 1 senza ceppo (quindi ‘scavalcata’).
- Bancho 1 per conzare (‘riparare’) balestre.
- Ferrata (‘inferriata’?) 1 grande presso alla camera (‘delle armi’).

Nella camera delle armi (‘armeria’):

- Coraze LX fornite con li soy elmetti et arnexe (‘resto dell’armatura’).


- Cellate (‘celate’) 44.
- Schioppi 14 in li quali sono 2 rotti .
- Corazine 8 tal quale (‘perfette, conservatesi tali e quali’).
- Secrette (?) 5.
- Spingarde 12 con soy fornimenti senza ceppo excepto 1.
- Bombardelle 3 con li soy ceppi.
- Capse 3 de filo de balestre.
- Molti altri ferramenti de arme.

Sopra il muro (‘pallatio’, da cui ‘palizzata’):

- Bombardelle 3 con li soy ceppi.

Nella camera della torre:

- Panzere (‘panciere’) 30 in vna capsa.


- Bachi (‘bachia’, ‘vasi’) 4 de poluere ouero salnitro.
- Bombardelle 2 con li soy ceppi.
- Tarchoni (‘targoni’, ‘pavesi’) 17.
- Tarchoni 5.
- Capse 5 de verettoni ferrati et non ferrati.
- Balestre 100 bone.
- Bombardelle 18 picole.
156
- Schioppi 5 .
- Barilli 3 de poluere.
- Capse 3 de verettoni ferrati et non ferrati.
- Fassi (‘fastelli’?) 3 de ferro.
- Segiono (saccone’?) 1 de poluere.
- Spingarde 1 rotta.
- Tarchoni 25.
- Capsa 1 de verettoni ferrati, et non ferrati.
- Bancha 1 per caricar balestre.

Munizioni aggiuntive di cui c’era bisogno; tra l’altro:

- Barilli 5 de polvere da bombarda.

- Barilli 5 de polvere da schioppo.


- Rubbi 20 (‘500 libbre da 30 once’) de piombo per far balotte per le spingarde che gli sono,
abenchè se maraveglia non gli debia esser balotte (ci si meraviglia che nel suddetto
inventario non ce ne siano).
- Prede et cochoni n.50 per caduna delle bombarde et specialmente alla megliore non
essendone, come appare per il libro.
- Capse 3 de veretoni mezani.
- Capse 3 de veretoni da bussola.
- Lanterne 4 de corno.
- Rubbi 1 de candelle de sippa (‘sivo’, ‘sego’).
- Lumere 4 per fare falodi.
- Stoppini 100 da fare falodi.
- Levere (‘leve’) 2 de ferro da gambaro (?).
- Palli (‘pali’) 2 de ferro da vigna.
- Corde 2 grossa come vna asta d’uno dardo longha braze 60 luna.
- Cuxolla (‘carrucola’) 1 con la sua ruzella (‘girella’).
- Molino (per granire la polvere), se gli faza se non gliè.
- Corde 4 per ligare spingarde et bombarde.

Castello di Sasso Corbaro.


- Bombarda una facta a due (‘fatta di due pezzi’), che era nel castello de Sartirana (in
Lomellina), con lo suo cepo et code (‘camere’) 2, de portata la preda de libre 18 grosse.
- Prede 96 per dicta bombarda et cochoni 95 per essa.
- Spingarde 3 de portata de onze 18 luna, fornite.
- Spingarde 5 de portata de onze 19 luna, fornite.
- Archabusi 12, schiopeti 8.
- Balotte 75 de onze 18.
- Balote 200 de onze 12.
- Balote 800 da archabusi, et 112 da schiopeto .
- Barili 16 de polvere dogni sorte, pexo libre 1613.
- Balestre 2 d’azale da aspa (‘arganello’), fornite.
- Capsa una de veretoni da cavalo n. 400.
- Lanterne 2 de corno, rote (‘rotte’).
- Lumere 2, stonini (‘stoppini’) 32.

157
Facciamo ora un salto in avanti di 17 anni – e precisamente al 16 maggio 1493, cioè all’anno
precedente a quello della famosa discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII - e arriviamo a
tre ordini del duca Ludovico Maria Sforzia di farsi forniture d’artiglieria al castello di Milano,
ordini trascritti, purtroppo non del tutto alla lettera, e pubblicati dall’architetto Luca Beltrami;
molto interessante notare che si tratta di forniture che, anche se impensabilmente ancora
includono le balestre da bussola, cioé quelle grandi da postazione, non ci parlano più di
bombarde petriere fatte di più pezzi ma solo di canne plombiere e una sola petriera, il
cortaldo, bocca da fuoco questa dal nome però improprio perché, come vedremo, courtaulx
era il nome che i francesi davano alle loro nuove canne fatte di ferro, quindi più leggere di
quelle di bronzo di conseguenza molto più velocemente trasportabili, che porteranno l’anno
seguente in Italia, suscitando una generale meraviglia. Si crede generalmente che la novità di
quei pezzi d’artiglieria francese consistesse nello sparare palle di ferro, ma, a prescindere
dalla considerazione che i proiettili di ferro già esistevano da molto tempo, addirittura dal
secolo precedente come abbiamo già spiegato, questa caratteristica non li avrebbe certo resi
più leggeri e quindi trasportabili a mezzo di tiro di cavalli; in verità la loro leggerezza stava
nell’essere fatti non di bronzo ma di ferro, metallo questo che si usava molto, anche se non
esclusivamente, pure per le artiglierie navali appunto per la loro maggior leggerezza e ciò
anche se erano inevitabilmente molto soggetti ad arruginirsi. Il nome non era di origine
tedesca, come alcuni cattivi etimologi esterofili poi pensarono, ma era dovuto alla similitudine
con i cavalli detti appunto cortaldi, cavalli da guerra grossi e robusti ma compatti, molto adatti
ala cavalleria pesante - dal tardo Rinascimento poi chiamati corsieri, i quali si producevano in
gran numero specialmente nel regno di Napoli e che non erano però grandi quanto i
giganteschi frisoni. Le canne dei cannoni ferrieri erano infatti più sottili di quelle delle più
antiche bombarde, le quali, come sappiamo, tiravano grosse palle di pietra. Questo ‘cortaldo’
petriero lombardo da 60 libbre di pietra si può quindi invece considerare un antesignano dei
mortari petrieri che poi per secoli si useranno. Tra l’altro notiamo:

- Passavolante uno de portata la balota de n. 10 (libbre) di balota con su cepo et carro.


- Springardoni (‘spingardoni’) 4 di portata circa n. 4 (libbre) di balota l’uno.
- Curtaldo uno con suo carro et cepo di portata circa n. 60 (libbre) di preda.
- Balote cento per il suprascripto passavolante.
- Balote quatromila da archibuso.
- Forma una de ligno da fare scartozi per lo soprascripto passavolante.
- Forma una de ligno per far li scartoci per li soprascripti springardoni.
- Quaterni 4 de papere per fare scartozi utsupra.
- Gavete ducento de filo de balestra.
- Barili 110 de polvere da springarda et schiopeto.

158
Dunque qui, nel 1493, abbiamo già il modo di caricare a scartozzi, cioè a sacchetti, oggi
cartucce, modo che credevamo più tardo di circa un secolo. Tra le forniture per un lato delle
mura:

- Passavolanti uno de portata de N. 10 (libbre) di ballota con suo cepo et carro.


- Ballote cinquanta per dicto passavolante.
- Forma una de ligno per fare scartozi per dicto passavolante.
- Springardoni 6 di metallo da portata de N. 5 (libbre) di balote.
- Ballote per dicti springardoni setantatre.
- Forma una di legno per fare scartozi per dicti springardoni.
- Quaterni 4 di papero de la forma grande per far li scartozi per dicti passavolanti et
springarde. -
- Balote cinquemila sesanta de archibuso.
- Archibuso uno di ferro.
- Barrili cento dece de polvere da springarda et schiopeti.
- Balestre dodece d’azale da bussola.
- Bussule 4 da carichare dicte balestre.
- Casse quatro veretoni ferrati N. 500 per cassa.
- Gavette 300 filo da balestra.

Tra le forniture per l’altro lato delle mura notiamo:

- Passavolante uno de portata de N. 10 (libbre) di balota con el ceppo.


- Ballote cento per dicto passavolante.
- Forma una de ligno da far scartozi per dicti passavolanti.
- Springardoni 6 di metallo di portata circa N. 5 (libbre) di ballota.
- Ballote cinquantacinque de springardoni.
- Forma una de ligno de far scartozi per dicti springardoni.
- Quaterni 4 de papiro de la furma grande per fare scartozi per dicto passavolante et
springarde.
- Balote quatro milia da archebuso.
- Balestre 16 d’azalo da bussula.
- Bussule 4 da carecare dicte balestre.
- Casse 4 veretoni ferrati n 500 per caduna.
- Barrili cento dece de polvere da springarde et schiopeto.

Arriviamo ora al 12 ottobre 1503, cioè agli inventari che con quella data furono stesi avendo
per oggetto i materiali d’artigliera esistenti nel castello di Mesocco, anch’esso allora nel
territorio del ducato di Milano; qui tornano le vecchie bombarbe, ma solo per l’ovvio motivo
che, non trattandosi di richieste di forniture, come era nel precedente caso di Milano, ma di
esistenze sia di postazione sia di magazzino, la roba vecchia e disusata abbondava. Il
documento si intitola Consegna de le robe…, non perché dunque si tattasse di nuove
forniture, ma mplicemente perché inventari fatti nell’occasione di un avvicendamento di
castellanie e quindi i vecchi castellani, Andrea Brocco e Battista da Musso (Como),
consegnavano, oltre al castello, anche i materiali in esso contenuti ai nuovi castellani e cioè
ai fratelli Galeazzo e Francesco da Pozzobonello; tra l’altro:

159
Al terzo piano della torre grossa.

- Barili vinti et meza de polvere.


- Sacho uno con paira 42 scarpe (anche queste evidentemente fornite di munizione).
- Sacho uno de gavete (già sappiamo cosa sono)…
- Sacheto uno de solfuro (‘solfo’) pexa a la lipra (‘libbra’) de Como rubbi 6.
- Casa (‘cassa’) una de pasadori che piena et una altera che (è) inzata (‘iniziata’).
- Segione (‘secchione’) 1 de salnitro pexa rubbi 48 a la stadera da Como (cioè ‘in libbre
comaschi’).
- Scala 1 de leynio.
- Corda una da ligar springarde qual è inzata (‘iniziata’).
- Cazi fusti (‘mazzafrusti’) 4.
- Casa una grande de pasadori senza fero.
- Canono uno de aramo (‘bronzo’) longo brazo uno et mezo.

Al quarto piano.

- Case 6, dentro paira 22 ½ de forme da scarpe.


- Salnitrio pexato pexa rubbi 577 ad once 30 per lipra.

Perché ‘legare’ le spingarde? Si legavano nell’usarle e nel trasportarle perché bocche da


fuoco piccole e leggere, quindi instabili.

Ne la Cuxina del Signore tra l’altro troviamo: forma uno per lo pasavolante; probabilmente per
forma si intendeva una lamina di ferro con un foro rotondo per misurare il calibro dei proiettili
da passavolante; ne la camera apreso a la cuxina troviamo invece conservata, tra l’altro, una
spingarda.

Ne la canepa (‘cantina’) del Signore.

- Zerzi (‘cerchi’) 6 de forme de prede da bombarda. Inoltre


- Zerzi 2 de fero. Di queste forme per misurare i calibri delle palle abbiamo or ora già detto.

Ne la camera del Signore.

Qui troviamo, ovviamente, armi e oggetti molto interesanti perché collegati alla figura del
castellano:

- Uno sciopeto (‘schioppetto’) dorato con li suoi fornimenti (‘accessori’).


- Dui spalazi (‘due spallacci’ di armatura).
- Paira 1 guanti (‘guanti di ferro’).
- Una zelata (1 ‘celata’).
- Gorgiarino 1 sive (‘ossia’) barbozo.
- Una corazina (di cuoio) coperta de veluto zilestre (‘celeste’) pel signore.
- Stambochini 2 con li suoi fornimenti cioè li martineti, le coperte di coiro e li turchasi voidi.
- Balestre due d'azale (d’acciaio’) senza li fornimenti da carichar.

Ne la stricta (‘strettoia’?).

160
- Zornie (‘giornee, cottardite, casacche’) 109 a la divixa del Signore.

Ne la camera appreso a la stua (‘stufa’).

- Panzere (‘petti di ferro per cavalleria’) 5.

I pezzi d’armatura suddetti formano all’incirca un corsaletto, il quale non era dunque di
proprietà del castellano ma di munizione, cioè da lasciarsi e passarsi al prossimo castellano
al quale fosse stato affidato il castello. Gli stambochini, come già sappiamo, sono le
balestrine da balestriere a cavallo, cosiddette perché i loro archi si facevano di corna di
stambecco e nel Medioevo ne produceva ed esportava molte l’isola di Creta; queste si
caricano con martinetti, cioè con avvitature meccaniche a manovella, evidentemente il
sistema meno impacciante per un cavaliere, sono protette da coperture di cuoio e dotate di
turcassi da sella in cui portarle. In questa dotazione personale del castellano sono anche due
forti balestre ordinarie d’acciaio, prive però di congegni di caricamento. Le giornee erano le
lunghe sopravvesti portate dalla cavalleria sopra le armature e decorate con la divisa, ossia
la livrea, del principe.

Ne la camera de la monizione soto la sala doe staua pavol sgiarro (‘Paolo Giarré’?).

- Casa 1 de pasadori ferati grandi.


- Balote da pasxa volante a (in) N. 43.
- Balote da spingarde in la casa a (‘in’) N. 798
- Balote da sgiopeti (‘schioppetti’) 760.
- Maze (‘matasse’) 6 de corda da legar spingarde et un altro inzò (‘in alto’) qual non haueva
l'atro Castelaro in consegnia (‘che non risulta nel precedente inventario’).
- Archibusi 17 de li quali gli nè 2 picoli.
- Schiopeti 31.
- Balestre 6 de legno.
- Squadra 1 de legno.
- Corazine de fustanio N. 20.

Le corazine de fustanio erano probabilmente solo ricoperte di fustagno e non fatte


principalmente di quel materiale, come invece potranno essere alcuni di quei più tardi corpetti
da difesa che si chiameranno brigantine o brigantine; infatti più avanti in questo inventario ne
troveremo altre dette più precisamente coperte di fustanio.

- Petoral 1 de fante a pe (‘a piedi’).


- Zelate (‘celate) 12.
- Almeti (‘elmetti’) 6.
- Barbozi (‘baviere’) 13
- Pairo 1 arnesi (‘cosciali’).
- Paira 2 schenere (‘schinieri, gambiere’).
161
- Paira 1 scarpe de fero.
- Paira 1 guanti de fero.
- Maza 1 de fero da omo d'arme.
- Tarchoni 9 depenti a la forzescha. (‘Pavesi 9 dipinti con lo stemma degli Sforzia’).
- Un altro (‘targone’) a un altra divixa (‘con un altro stemma’).
- Partesane 13 inastate.
- Lanzoni 2.
- Pezo 1 de coiro de bo (‘di cuoio di bue’) per conzar le corazine.
- Caza fusti (‘mazzafrusti’) 3.
- Aspe (‘aspi, avvolgitoi’) de balestra 4 rote (‘rotte’).
- Raxiroli (‘involti di rasa o ragia di trementina’) 4 (per) una luminera.
- Lanterne 3 de corno triste (‘rovinato’). Mazi 3 de corda da ligar springarda de li quali gli n’é 1
inzata (‘già iniziata’).
- Uno giovo de bo de coiro (‘Un giogo da bue di cuoio’).
- Caseta 1 intramezata (‘una cassetta suddivisa in scomparti’) in una parte uno sacheto de
balote de schiopto (‘schioppo’) qual non è pieno. In l’altro lime 12, una tanaja (‘tenaglia’) da
morso, uno martelo. In l’altro uno sacheto de fibie qual non è pieno, corneti (‘cornetti da
polvere’) 12 da schiopeto. In l’altro pezi 9 de piastre, uno martelo da inc(h)iodare corazine,
uno altro sacheto con certi artifizi per tore (‘misurare’) il livelo (‘inclinazione’) a le bombarde.
- Casa 1 de pasatori ferati a la todescha (‘ferrati alla tedesca’).

Come fosse questa ferratura ‘alla tedesca’ di passatori, cioè questo modo di applicarvi i ferri
apicali, non sappiamo.

- Casa una de pasadori inzata (‘iniziata’).


- Case 2 qual sono meze (‘mezze piene’) de balote de spingarda.
- Case 3 de balote d'archebuxo (‘archibugione da postazione’) quale sono inzate tute.
- Case due de balotte de spingarda le quali sono inzate.
- Clavature (‘serrature’) 2 le quali una con la clave l'altra picola senza clave.
- Pano (‘pane’) 1 de plombio del quale n'è tagliato via un pezo.
- Pano 1 de plombio inzato.
- Pani 2 de plombio intregi (‘integri’).
- Feri dui de manteleti.
- Forcheta (‘forchetta d’appoggio ante litteram’) 1 de fero.
- Brentali (‘vasi di legno vinarii dalla capacità di una brenta’) 2 con certe balote da preda
dentro.
- Uno barile de tripori (‘triboli’, chiodi at re punte da usare contro la cavalleria nemica).
- Serzeti 4 de fero (‘acersetti, ‘bustini di ferro acciarato’).
- Corseti (‘bustini di cuoio’) 3.
- Corpo (‘busto’) 1 de coraza.
- Paira 1 de schenere (‘schinieri’).
- Paira l brazali.
- Paira 1 arnexi (‘cosciali’).
- Certe piastre rote (‘rotte’; sono piastre pettorali di ferro per rinforzare le armature).
- Paira i guanti roti.
- Code 42 da spingarde (‘maniglie’ posteriori per farle girare sul cavalletto’).
- Stangete (‘stanghette’?) 13 de spingarde.

Ne la contrascripta camera (‘Nella camera di cui si dice qui a fronte).

162
- Uno segione (‘secchione’) con forme per l'artaleria.

Se contenute in un secchione poteva solo trattarsi di sagome per fare proiettili di piombo.

- Stadiarolo (‘staderola’) 1 da pexare.


- Cazeta (‘cassetta’) 1 da fare balote.
- Casa (‘cassa’) 1 senza coperta (‘coperchio’) con certi pasadori ferati a la todescha.
- Mazo (‘matassa’) 1 de filo de fero trafilato.
- Balota 1 de plombo, fata per la forma (‘modello per le pietre’) de le bombarde.
- Forme 2 de fero da fare balote ne li falconi.
- Balote 11 de plombo per li falconi.
- Cargatore (‘cucchiara o cazza’) 1 da spingarda.
- Cargatori 3 da falconi.
- Cargatore 1 per le bombarde.

Ne la altra camera da monizione.

- Corazine coperte de fustanio numero 65.


- Secrete (‘celate con visiera’) a n. 50.

La visiera rendeva irriconoscibile il cavaliere, ecco il perché del nome secreta.

- Celate 6
- Barbozi de fero n. 62.
- Capeli (‘cappelli’) de fero a la todesca n. 4.
- Balestre d'azal n. 22 de le quali gli n’é da aspa 12.
- Strambochine (‘stambecchine’) 3 con uno martineto et coperte (‘foderi’) 2.
- Rodele (‘rotelle’) non dipinte n. 25.
- Partexane inastate num . 33.
- Manirono (‘mannarino’) 1 todescho.
- Roncha 1 bologniexa.
- Maza (da cavalleria) 1 franzoxa (‘francese’).
- Banca 1 da torno coli suoi fornimenti da caricar balestra (‘balestra grande da posta’).
- Forcelete 8 con le sue clave (‘clave, cioè bastoni, manici di legno per orientarle’) da caricar
bombarde de le quali li è una rota.
- Sguanze (‘guance’) 6 da spingarda.
- Spranga 1 da spingarda.
- Mortareti 4 picoli de fero.

- Code 4 da spingarda bone et una rota.

Il trascrittore qui non si lancia a interpretare l’uso delle predette forcelete, ma noi lo facciamo e
riteniamo che siano assimilabili ai cavafieno, con la differenza però che questi servivano
soprattutto a tirar fuori foraggi o stoppagli dalla canna che, non dovendo più essere usata, si
voleva svuotare della sua ormai inutile carica, mentre quelli, pensiamo, servivano
all’operazione contraria, cioè a inserire nelle canne i necessari bocconi di fieno o paglia o
sfilacci. Invece, non sapremmo proprio come spiegare l’uso delle dette ‘guance’ e spranghe

163
da spingarda se non forse immaginarle come accessori per incavallettarle. Per quanto
riguarda invece i mortaletti, si trattava probabilmente di piccole bocche di ferro del tipo di quel
primigenio tipo di artiglierie che sin dal secolo precedente in Spagna si era chiamato truenos e
che ora si usavano anche a salve (vn. piezaria) in occasione di feste od accoglienze
particolari. Le code infine erano le camere di polvere delle spingarde, le quali, come poi
meglio spiegheremo, si inserivano posteriormente e più tardi saranno dette mascoli.

- Carchasa (‘carcassi, faretre’) 6.

Qui si tratta di faretre da balestra (piccola); si usava però, come vedremo, questo termine per
indicare involti di attrezzi in generale; niente dunque a che vedere con i grossi proiettili
composti di egual nome che vedremo andando più avanti nel tempo.

- Mazi 4 di pasadori ferati.

Seguono materiali da balestra e da spingarda che non sapremmo descrivere:

- telari due senza fusto.


- Scuti 7 da balestra de li quali gli ne due che sono forniti colle sue zirele da 4 plurese.
- Incuzenela 1 portata a la fusina.
- Cavigie (‘casse, affusti’?) 5 da spingarde.

Inoltre:

- Certe folie de palpe (carta) de far cartozi (‘cartucce’ d’artiglieria).


- Zerchi 2 de fero picoli per forme d'artaliaria (per forme di proiettili, ovviamente).
- Asta una de partesana.
- Cavigia (‘cassa, affusto’?) 1 per lo pasavolante.
- Capelo (‘cappello’) 1 de feltro.
- Pezor pasadori (‘passatori peggiori’) con fero e senza fero appresso al usgio (‘vicino
all’uscio’).
- Leva l da balestra.
- Aspa (per balestra) 1 rota.
- Aspe 13 bone.
- Fero 1 piegato per tirare le bombarde fora de la fosa.

Evidentemente un ferro necessario a maneggiare le bombarde più antiche, cioè quelle prive di
affusto e che semplicemente si usavano depresse in uno sterro con la bocca in alto.

- Rubbi 40 solfaro con li soi sachi ad oncie 30 per rubbio.


- Doi zeste (di zolfo?) et uno altro coperto de canovazo pesano rubbi 135.
- Balote 3 de stagnio con certo altro stagnio in uno cavagniolo.

Quindi, mentre il ferro si forniva laminato (come del resto ancora oggi), lo stagno in forma di
palle.

164
- Una altra barile con salmitrio (‘salnitro’) uno pocho che pexa a onze 30 per rubbio pesa
rubbi 39 con la barile.
- Uno brentalo (‘brenta’) con pocho de cola.
- Paira forma 2 de metalo da zitare (‘gittare, fondere’) le balote per le bombarde.
- Paira forme 2 de forme de fero da zitare balote per le bombarde.

Poiché si ‘gittano’ proiettili di piombo e non di pietra, riteniamo che qui il termine bombarde
sia usato in senso lato.

- Paira 3 tenaje datenere le sopra scripte forme.


- Forma 1 da preda per li falconi.

Qui, al contrario, per forme da fusione dei proiettili di piombo che si usavano per i falconi di
allora, si parla impropriamente di ‘preda’.

- Zerzi (‘cerchi’) 2 de tola (‘di latta’) per compasare (‘calibrare’) le balote.


- Caze (‘cazze’) de fero 3 per butare (gittare’) le balote.
- Manera (mannaja’) 1 a la franzoxa.
- Cortelo (‘spadone’?) 1 da 2 mane.
- Cordone 1 per far dui lazi da picare (‘impiccare’).

Ne la corte de la rocha .

- Bombarde 3 con li suoi zepi et code (‘con le loro casse e camere per la carica di polvere’).
- Bombarde 1 de fero con 2 code et zepo.
- Pasa volante 1 de metallo (‘bronzo’).
- Spingarde 3 una de bronzo 2 de fero.
- Mortareti (‘anche da salve’) 3 con li soi zepi.
- Pezor (‘peggiori, meno adatte o mal fatte’) prede de mortar et bombarde.
- Dui feri grandi per le forme de le bombarde.
- Prede 2 de lavezi per fare forme per li falconi.

A giudicare anche dalle forme di legno per bombarde e falconi che seguono, sembrerebbe
dunque che in questo castello esisteva una vera e propria fonderia di artiglieria.

De fora de la giesia.

- Forme due de legno de bombarde.


- Forme 4 de legno de falcone.
- Rode 6 de bombarde ferate.
- Rode 13 de falcone desferate.
- Timoni (‘per orientare i carri o affusti’) 35 per li falconi.
- Asa (‘assi’) X da falcono.

Ne la corte del castelo.

- Asoni 17 per fare li cari a le bombarde et falconi.

165
- Pezor pezi de gaveli de rovere per far rode per falconi et certi altri pezi de legniame.
- Stagnio 1 (1 ‘pane’) per le rode de le bombarde

A la stala (‘stalla’).

- Bombarda 1 in caro (‘affustata’). Se domanda « non più parole ».

Questa bombarda dunque, a giudicare dal nome, sembra fosse la più indicata per smettere di
tergiversare col nemico e ‘passare alle vie di fatto’.

- Falchono 1 in caro.
- Falchono 1 sopra 1 caro abasso (‘basso’).
- Falconi 5 senza caro.
- Bombarde 3 senza caro. Una se domanda « la triulza » l'altra la « misocca » l'altra « la
furiosa».

La prima di queste bombarde si chiamava la Trivulzia perché evidentemente fusa per


disposizioni dello famoso capitano di condotta Gian Giacomo Trivulzio (1442- 1518) e la
seconda invece la mixocha perché proveniente, con altri materiali che vedremo, da un
presidio smantellato posto nella vicina località di Misocco.

Ne la canepa [‘cantina, cellaio’; ven caneva; tlat. can(n)ava] de la tore grosa de mezo.

- 1 morso de caualo con la testera.


- Spingarda 1 de fero traverso el rivelino con lo suo cavaleto.
- Bronzina (‘bocca da fuoco di bronzo’)1 con lo suo zepo.
- Una spingarda de fero traverso mixocho (‘puntata verso Misocco’) con lo suo cavaleto.
- Uno altro cavaleto.
- Forcela (‘cavafieno’?) 1 da falcone.

Il falcone era una bocca troppo pesante per poter essere ‘inforcellata’ sopra un cavalletto
come erano invece le piccole spingarde.

Sopra la tore verso mixcocho (’dalla parte di Misocco’).

- Spingarda con lo cavaleto.


- Spingarde 3 senza cavaleto con le sue forchete (‘forcine da cavalletto’) et clave (‘manici’).
- Campana 1 (da allarme) bona.
- Cavaleto 1 grande con le soprascripte (spingarde).
- 3 spingarde.
- Caro (‘carro, affusto’) 1 con due rode ferate per lo pasavolante.
- Rode 2 picole (di cui) 1 ferata l'altra senza fero.

Sopra dito curatore (‘corridoio’) de la tore masiza.


166
- Forme 3 de legno per li falconi (v.s.)

Sopra el gabione dove se butava (‘sparava’) la bombarda.

- Uno curleto (‘piccolo cilindro di legno per trascinare pesi’) dove se tirava l'artaliaria.

Sopra dito torione.

- Uno banchone da spingarde.

Un bancone sul quale si istallavano le spingarde senza cavalletto girevole.

- Spingarde 3 – due con li suoi cavaleti l’altro con lo suo cepo.

Da la tore de mezo fino a la tore del cantone.

- Spingarde 6 de li quali le ne due de bronzo.


- Banconi 3.
- Cavaleti 2.

Sopra il rivelino.

- Banconi 3 da spingarda.

Sopra la torre del cantone verso la moexa.

- Spingarde 2 una con lo bancone l’altra con lo cavaleto.


- Una campana bona.

In fondo de dita tore.

- Spingarda 1 de bronzo traverso (‘puntata verso’) il rivellino.


- Bancone 1 per la spingarda.

A la porta.

- Tarchioni (‘targoni’) 4.
- Rodela 1.
- Roncha 1 bologniexa (‘ronca 1 alla bolognese’).
- Partesane 5.
- Spedi (‘spiedi’) 2.
- Roncho 1 franzoxo (‘ronca 1 alla francese’).
167
Nel revelino abaso apreso a la porta.

- Spingarde 2 - 1 con lo cavaleto l'altra sopra uno legnio.

Descritta una delle principali artiglierie dell’Europa della fine del Medioevo, cioè quella degli
Sforzia di Milano, ci proponiamo ora di individuare le caratteristiche principali delle bocche da
fuoco di quei tempi, soprattutto per mostrare così la vera portata del salto di qualità che
indubbiamente l’artiglieria fece a partire dalla discesa di Carlo VIII in Italia, progressi di cui il
Guicciardini, laddove descriveva il predetto esercito francese, così diceva:

… e, per unirsi con questo essercito, erano state condotte per mare a Genova quantità
grande di artiglieria da battere le muraglie e da usare in campagna, ma di tale sorte che
giammai aveva veduto Italia le simiglianti.
Questa peste, trovata molti anni innanzi in Germania, fu condotta la prima volta in Italia da’
viniziani nella guerra che circa l’anno della salute milletrecent’ottanta ebbono i genovesi con
loro, nella quale i viniziani, vinti nel mare ed afflitti per la perdita di Chioggia, ricevevano
qualunque condizione avesse voluta il vincitore se a tanto preclara occasione non fusse
mancato moderato consiglio. Il nome delle maggiori era ‘bombarde’, le quali, sparsa dipoi
questa invenzione per tutta l’Italia, si adopravano nelle oppugnazioni (‘assedi’) delle terre,
alcune di ferro alcune di bronzo, ma grossissime, in modo che, per la macchina grande e per
la imperizia degli huomini ed attitudine mala degli instrumenti, tardissimamente e con
grandissima difficultà si conducevano, piantavansi alle terre co’ medesimi impedimenti e,
piantate, era dall’uno colpo all’altro tanto intervallo che con piccolissimo frutto, a
comparazione di quello che seguitò da poi, molto tempo consumavano; donde i difensori de’
luoghi oppugnati havevano spazio (‘tempo’) di potere oziosamente (‘comodamente’) fare di
dentro ripari e fortificazioni; e nondimeno, per la violenza del salnitro col quale si fa la
polvere, datogli il fuoco, volavano con ‘sì horribile tuono ed impeto stupendo per l’aere le
palle che questo instrumento faceva, eziandio innanzi che havesse maggiore perfezione,
ridicoli tutti gli instrumenti i quali, nella oppugnazione delle terre (‘citta’) havevano, con tanta
fama di Archimede e degli altri inventori, usati gli antichi.
Ma i franzesi, fabricando pezzi molto più espediti né d’altro che di bronzo, i quali chiamavano
‘cannoni’, e usando palle di ferro, dove prima di pietra e senza comparazione più grosse e di
peso gravissimo s’usavano, gli (‘li’) conducevano in sulle carrette, tirate non da buoi, come in
Italia si costumava, ma da cavalli con agilità tale d’huomini e d’instrumenti deputati a questo
servigio che quasi sempre al pari degli esserciti caminavano e, condotte alle muraglie, erano
piantate con prestezza incredibile; ed, interponendosi dall’un colpo all’altro piccolissimo
intervallo di tempo, ‘sì spesso e con impeto ‘sì vehemente percotevano che quello che prima
in Italia fare in molti giorni si soleva da loro in pochissime ore si faceva, usando ancora
questo più tosto diabolico che humano in strumento non meno alla campagna che a
combattere le terre (‘che negli assedi’) e co’ medesimi cannoni e con altre pezze (‘altri pezzi’)
minori, ma fabricati e condotti, secondo la loro proporzione, con la medesima destrezza e
celerità… (Francesco Guicciardini, L’historia d’Italia etc. Firenze, 1561)

Il primo a parlare di creazione ‘demoniaca’ dell’artiglieria da sparo – ma demoniaca non nel


senso moderno di ‘diabolica’ bensì in quello antico di ‘divina’ – fu lo storico bizantino

168
Laonikos Kalkokondilos nel suo da noi più volte già citato lt. V del De rebus turcicis (διὸ ϰαὶ
ἀρετῆς ἒλαττον ἲσχει αὐτῇ την δαιμονίαν ἐϰείνην φοράν.) Ancora verso la fine del
Quattrocento si dirà l’artiglieria da polvere uno strumento diabolico (bombardis, diabolico
instrumento in Jacopo da Porcia, cit. p. 42 verso).
Come sappiamo, al tempo della guerra di Chioggia l’artiglieria era già più che sperimentata e
quindi è impensabile che, a prescindere dall’antico nome lombarde, di cui abbiamo già detto,
gli italiani se ne siano serviti per mare la prima volta non prima di quell’occasione. Si badi
bene che la scelta che avevano fatto i francesi di generalizzare l’uso sia delle canne ad
avancarica sia dei proiettili di ferro non riguardava solo i detti cannoni velocemente trainabili
da robusti cavalli in campagna, ma concerneva anche le pesanti colubrine che però, appunto
a causa del loro maggior peso e della loro maggior lunghezza, Carlo VIII in Italia non portò,
eccezion fatta per quelle due che farà sbarcare dalle sue navi a Napoli e che a Napoli, come
vedremo, unitamente con due cannoni serpentini, evidentemente anche questi alquanto
pesanti, sarà poi costretto, ritirandosi, a lasciare. Tale scelta implicava però allora un maggior
rischio per gli artiglieri francesi; infatti era cosa ben nota che le palle di ferro, essendo più
dure di quelle di piombo e, a differenza di queste, anche indeformabili, incontrandosi
nell’espulsione dello sparo con le non infrequenti irregolarità della imperfetta superficie
interna delle canne di bronzo del tempo, c’era più pericolo che potessero farle crepare,
mentre la relativa morbidezza del piombo a quelle regolarità meno s’opponeva; né d’altra
parte sembra che allora in Francia avessero pertanto pensato ad adeguare in meglio le loro
fondizioni e lo faranno solo nel corso del secolo successivo, perlomeno a quanto scriverà
molto più tardi della venuta di Carlo VIII il Busca laddove avvertirà di non dar troppa carica di
polvere a canne dal non adeguato spessore di metallo:
… Percioché molti pezzi vi sono corti e leggieri fuor di modo, come lungo tempo fa usavano i
francesi e come certi che si addoprano sopra le navi, i quali non potrebbono lungo tempo
durare dandosegli tanta carica. (Gabriello Busca, Instruzione de' bombardieri etc.
Carmagnola, 1584.)

Anche se nulla avevano a che fare con le serpentine medievali, bocche da fuoco da palla di
pietra di cui presto diremo, i cannoni francesi da palle di ferro, detti dai transalpini canons,
nome sineddotico perché in precedenza distinguente il genere di tutte le bocche da fuoco
tecnicamente diverse dalle bombarde, furono in Italia e in Spagna chiamati dapprima cannoni
serpentini (in spagnolo semplicemente serpentinos) e poi, dalla fine del Cinquecento, cannoni
ferrieri, essendo quel primo nome di nuovo dovuto all’essere canne molto più sottili di quelle
delle bombarde e quindi al loro ricordare alquanto, nella detta differenza, appunto le suddette
vecchie serpentine, anch’esse dalla forma particolarmente affusolate. In realtà, come
abbiamo già visto, i proiettili di ferro erano quelli che s’erano più comunemente usati nel

169
primo secolo dell’artiglieria da sparo, cioè nel Trecento, mentre nel Quattrocento essi furono
sostituiti universalmente da quelli di piombo con nucleo parallelepipedo centrale (frusto, dato,
tessera) di ferro o d’acciao (lt. chalybis) per diminuirne la deformabilità, perché considerati
allora il più giusto punto d’incontro tra peso e durezza ai fini dell’apertura di brecce nelle
muraglie; si continuarono comunque a usare anche quelli di ferro, ma molto raramente, sia
per le bocche da fuoco di media grandezza sia per gli ischoppietti, come dimostra più volte la
documentazione pubblicata dall’ottimo Angelucci, specie nelle note alle pagg. 536-537.
Dunque i francesi ne avevano ora, alla fine del secolo quindicesimo, solo reintrodotto l’uso
generale in un periodo in cui in Italia per esempio a Firenze, Ferrara e Napoli, si usavano
invece ancora quelle di piombo con la suddetta anima di ferro anche per le nuove bocche da
fuoco medio-piccole da poco introdotte come passavolanti, falconetti e smerigli, come si
legge in inventario d’artiglieria emiliani di cui diremo si useranno per moschetti, archibugioni e
anche per i falconetti da 2 e 3 libbre di calibro, ancora dopo la metà del Cinquecento. Poiché
dunque le palle di ferro, essendo più pesanti di quelle di pietra, abbisognavano di una
maggior carica di polvere, i francesi dovettero cambiare anche le canne, rinunziando a quelle
deboli ed esalanti sia delle bombarde in più pezzi sia di quelle a retrocarica a mezzo di
camera, generalizzando invece l’uso di quelle fuse in un solo pezzo e ad avancarica,
insomma come erano i già i soli ma diffusi passavolanti a palla di piombo; infatti nel 1496
Marin Sanudo così annotava riguardo a nuove artiglierie che si era deciso di fondere in
Venezia:

… Ancora fu principiato di far far alcune artigliarie da bombardar, come fanno le bombarde
grosse, le qual vien menate su charete al costume et modo usano francesi. Sono longe quasi
pasavolanti, ma grosse; trazeno ballote di peso di libre 6 in 12 l’una ert sempre stan su dicti
cari. Ed è da saper era in questa terra Basilio da la Scola vicentino, (il quale) era stato col re
di Franza sopra le artigliarie, e cussì fo cominzato a far gitar (de) dicte artigliarie in Canarejo
(‘Canal Regio’) pezi 100 e (fo) mandato dicto Basilio con lettere per le terre nostre a tuor
legnami e far far li cari, li qualli a Padoa si lavoravano (Diarii. T. I, p. I, colt. 146).

Nello stesso anno anche i pisani cominciarono a fondere artiglierie ferriere alla francese:

… Ed ad dì ditto (14 maggio) si mandò alcune bombarde, chiamate passavolanti, a Ripafatta,


li quali si portavano sulle carrette e così si trovano fatti in Pissa all’usanza di Franza; li quali si
feciono a Santo Sepolcro e provossi in Pissa e da Santo Sepolcro nella torr non fornita
(‘sguarnita, in disuso’) al ponte alla Spina, la quale (artiglieria) passò nel muro di ditta torre.
Ed in ditto luoco se n’è fatti al presente cinque, tra grossi e piccoli. Sono molto belle cose e
furiose… (Diario di Giovanni Portovenere, all’anno 1496.)

All’inizio i canoni, cioè le canne ferriere francesi, si chiamarono infatti talvolta in Italia
erroneamente passavoganti per la somiglianza delle forme estetiche, ma nella sostanza

170
erano molto diverse da quelli, come abbiamo già spiegato; congegnate al trave significa che
queste artiglierie erano fissate alla struttura del carro che le trasportava perché esso serviva
anche da affusto. Tornando però ora al precedente diarista, ossia a Marin Sanudo, e specie a
quanto egli narra a colt. 211, è ribadito che la principale innovazione dell’artiglieria di Carlo
VIII era consistita nell’introduzione dei cannoni serpentini, ossia delle bocche da fuoco a palla
di ferro, le quali saranno più tardi in Italia dette appunto cannoni ferrieri:

… Questo castello di Frangieto è mezzo mi(gli)o da drieto e doman matina se principierà a


bombardar con molte boche de artigliarie menude, zoè falconeti e alcuni zirifalchi, le qual son
molto gagliarde, oltra do (‘due’) boche de canoni che son grosse, di la sorta di quelle conduse
il re di Franza…

La fragilità di questi primi cannoni ferrieri è confermata dalla circostanza che dei suddetti due
in dotazione all’esercito alleato che stava riprendendo ai francesi il regno di Napoli uno si
ruppe poco dopo durante l’assedio di Gesualdo:

… Ozi, bombardando questa terra, di do canoni se ne era roto l’uno. Na ha mandato la


majestà regia (Ferdinando II d’Aragona) a tuor do a uno castelo qui vicino… (ib. Colt. 218.)

Non erano però le predette le uniche due importanti novità che i francesi portarono allora in
Italia; infatti due altre loro fondamentali innovazioni erano l’incavalcamento delle bocche da
fuoco mediante l’aggiunta di orecchioni alla forma di bronzo delle canne da fondere e
appunto l’uso di carri forti ma non molto pesanti, trainati agilmente e velocemente da cavalli e
non più da pesantissimi carri-matti tirati da lentissimi buoi. In campagna i loro corpi d’armata
si trascinavano dietro piccole artiglierie da non più di due libbre di palla, come quelle che usò
Gilbert de Bourbonne conte di Montpensier, viceré di Napoli per Carlo VIII, nell’assedio della
debole Coglionise nel Termolese, avvenuto nel 1496. A proposito poi della predetta guerra di
Chioggia (1378-1381), se, come pare, fu in quell’occasione che, sotto forma di piccole
bombardelle, si usò per la prima volta in Italia, l’artiglieria da sparo marittima era però già
stata adoperata in Europa, come sembra certo, nel 1340 alla battaglia d’Arnemuiden e nel
1346 a quella dell’Écluse.
Che i carri delle artiglierie di Carlo VIII non fossero carrini-affusti a due ruote, come chissà
perché credeva il pur ottimo Angelucci, ma carri-affusti a quattro ruote, seppur più leggeri e
trainati da cavalli dei pesanti carri-matti trainati da buoi che s’usavano allora in Italia, ce lo
conferma un testimone oculare, cioè il pisano Giovanni Portoveneri, il quale nel 1495 (e
non1494, come si crede) fu tra i pisani benestanti che dovettero sobbarcarsi l’alloggio
dell’esercito del re che fece colà sosta nel suo viaggio verso Napoli:

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… Ed a dì 8 di detto (novembre 1495) il re venne in Pissa con circa tremila cavalli […] fu in
sabbato ed io alloggiai sei homini del re con sei cavalli (Diario di Giovanni Portoveneri,
all’anno 1495.)

Ciò riportiamo per dimostrare l’attendibilità di questo diarista per ciò che concerne quegli
avvenimenti e per esempio anche per quanto riguarda la descrizione fisica del re, descrizione
che però qui omettiamo. Delle artiglierie egli così dice:

… Ed a 24 ditto (dicembre) si partì l’artigliaria del magnifico re di Franza, circa cinquanta


carrette, sussovi bombarde le quali eran tirate da quindici o sedici cavalli l’una, con circa fanti
cinquecento o più alla guardia di dette, e tutti alla volta di Firenze per Napoli (ib.)

È chiaro che 15 o 16 coppie di cavalli sarebbero state un numero eccessivo per trainare in
maniera controllabile un semplice carrino a due ruote. Nel primo quarto del Cinquecento il
fonditore e trattatista Vannoccio di Paolo de Biringuccis (1480-c.1539), pur vivendo in
un’epoca in cui in Italia l’artiglieria era una scienza ancora troppo informe e carente di regole,
nella sua ‘Pirotechnia’ già definiva le bocche da fuoco del suo tempo moderne, con ciò
volendo contrapporle a quelle del secolo precedente, pesantissime, poco potenti e poco
maneggevoli, composte perlopiù di più pezzi fusi separatamente e contraddistinte da nomi
ormai in disuso:

… Già quelli grandi e spaventosi strumenti che usavano gli antichi gli chiamavan bombarde, li
minori, ma molto più longhi, basalischi, gli altri passavolanti, li più minori spingarde e
cerbotane ed ancho li più minori archibugi e poi schiopetti; ma hoggi li moderni […] hanno
moderato il superfluo ed agumentato il debile ed, in luogo delle sconcie ed intrattabili
bombarde che tiravan grosse palle di pietra con gran quantità di polvere e grande spesa di
maestranza e di guastatori e di gran numero di bestiame obbligato, hoggi si fan cannoni di
gran longa per la leggerezza più agili a maneggiare ed a condurre, che tiran palle di ferro,
che, ancor che le sien minori che quelle delle bombarde, col spessegiare li tiri e per esser
materia dura, si fa con essi assai maggior effetto che non facevan le bombarde e piantansi
senza tanti ponti o altre gran difese a luochi per far le battarie per espugnarli… (Vannoccio di
Paolo de Biringuccis, Pirotechnia. Pp. 79r-79v. Venezia, 1558.)

Il de Biringuccis visse proprio nel periodo di transizione tra la vecchia artiglieria tardo-
medioevale e la nuova proto-moderna ed è quindi, considerata anche la sua profonda
competenza in materia, ottimo testimone delle principali innovazioni che si erano adottate
recentemente in quella scienza:

… basilischi, che per farli più longhi gli facevano già di due o tre pezzi l’uno avitati, come
ancho in que’ tempi facevano le code delle bombarde ed ancho di passavolanti. Hoggi si
fanno le colubrine e mezze colubrine, che in nome dall’antiche variano poco, ma in effetti
assai, perché si fanno d’un pezzo, tiran spesso e facilmente si caricano ed ancho facilmente
dove bisogna si conducono, ed in luoco di pietra tiran palle di ferro […] fannosi più grosse

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(spesse) e gagliarde di bronzo che le antiche […] e così, in luogo delle spingarde, cerbottane
e cacciacornachie e simili, si fan sacri, falconi e falconetti, che tutti tiran ferro… (Ib.)

Premettiamo che il suddetto nome di basilischi diventerà nel tempo sempre più generico e
sarà via via attribuito a tutte le bocche da fuoco particolarmente grosse, sia petriere sia
ferriere, siano esse del genere dei cannoni da batteria sia di quello delle colubrine; ma in
verità quelle suddette veneziane ricordate dal de Biringuccis sembrano esser state davvero
particolari perché, anche se da palla di ferro, erano fatte in più pezzi avvitati come le
classiche bombarde medievali da palla di pietra; e che così fossero lo confermo anche il
Bembo a proposito dell’attacco che le artiglierie delle galee di Girolamo Contarini dettero al
castello costiero di Duino durante la guerra tra Venezia e Trieste del 1508:

… Quelle artiglierie erano tali che, tutte fatte di rame, ventidue piedi haveano di lunghezza ed
(erano) stese nella prima parte della galea di maniera che la coda all’albero si avicinava e la
bocca nella proda giaceva. La loro palla di ferro di libre cento l’una, se impedita non era,
duemilaottocento passi lontano mandavano; e però (‘perciò’), alle mura avvicinatesi, con
grande impeto le percoteano. Tale foggia d’artiglierie ‘basilisco’ era chiamata; né poteva
essere portata se non o dalle galee grosse o (almeno) dalle bastarde ed eran di due pezzi,
acciò che più agevolmente recare e riporre si potessero, e, invite dal didentro nel fine dell’uno
e incominciamento dell’altra, più volte rivolgensosi si richiudeano; che un solo pezzo parea
che fosse e niente d’aere entrar vi potea… (Bembo, Pietro, Della historia viniziana etc.
Venezia, 1552.)

Di basilischi più tradizionali, cioè petrieri, ma enormi, all’uso ottomano insomma, leggiamo
invece in un documento spagnolo del 1534, cioè nella relazione di Andrés Igarcía, un ex-
prigioniero del famoso corsaro barbaresco rinnegato Kheir Eddine Barbarossa -
soprannominato, come sembra, Khizr, che costui scrisse nel 1534, dopo essersi
fortunosamente liberato, a proposito delle artiglierie turche che armavano in quel tempo i due
castelli, detti Dardanelli, che tradizionalmente guardavano, fronteggiandosi, l’ingresso
occidentale dello stretto dell’Ellesponto:

… Fu molto da vedere l'artiglieria dei castelli, i quali avevano ciascuno trenta basilischi di
pietra, che nel più piccolo di essi può stare un uomo seduto nella bocca senza impaccio alla
testa per quanto alto possa essere. Questi tiri (‘Queste artiglierie’) poggiano a terra perché gli
affusti ruotati non possono sostenerli e hanno i loro orecchioni in zoccoli di legno. Non è
necessario metterli su carri né spostarli da nessuna parte ma solo caricarli e spararli; e, la
pietra tirata da nell’acqua alla distanza di tre giochi (‘lanci’) di ferro di cavallo e va saltando
sulla superficie dell’acqua fino ad arrivare alla sponda opposta dove sta l’altro castello
(Coleccion de documentos inéditos para la historia de España etc. Tomo II, pp. 388-389.
Madrid, 1843).

Appunto perché perlopiù capaci di tiro a fior d’acqua, le artiglierie dei due suddetti castelli
erano considerate ancora molto temibili ancora alla fine di quel secolo, così come già alla
173
metà di quello precedente; infatti in una sua a Vittore Capello, allora capitano generale dei
veneziani nelle guerre di Morea, il patrizio Andrea Duodo aveva sconsigliato di tentare di
offendere l’ormai turca Costantinopoli passando appunto dallo stretto dei Dardanelli:

… El tentar passar el stretto al Dardanello non è al proposito, perche è di certo dano e de


nula sperata vittoria, che dove zuocha le bombarde vicine non val la valentisia deli homeni
[…] Ho visto il dito Dardanelo più volte in persona, ma chi la visto armado chom’è hora, il sa
meio di me che, quando a quello si pasasse il forzo de l'armada, lasandone qualche galia nel
profundo, noi avesamo perso e non vinto e pezo si staria pensando de la ritornada (Hippolyte
Noiret, Documents inédites pour servir a l’histroire de la domination vénitienne en Crete de
1380 a 1485 etc. P. 104. Parigi, 1892).

Poiché si tratta di insediamenti castrensi molto più antichi dell’invenzione della polvere
d’artiglieria, i Dardanelli probabilmente in precedenza erano stati armati di mangani lancia-
pietre e si tratta dell’unico complesso di questo genere armato di cui abbiamo notizia; infatti è
l’unico che non è ricordato col nome di fariglioni (‘portatori di faro’), nome questo, che
originatosi dai fariglioni posti all’ingresso dell’antico porto di Alessandria in Egitto, fu poi,
corrotto in faraglioni, usato impropriamente per nominare nel Mediterraneo grossi scoglioni
emergenti dal mare, perlopiù accoppiati, ma privi sia di costruzioni castrensi sia a maggior
ragione di fari o artiglierie, come per esempio sono quelli dell’isola di Capri, oggi i più famosi..
Il de Biringuccis, che fu il primo non solo in Italia, ma nel mondo, a trattare di fondizioni
d’artiglieria, non riteneva opportuno nemmeno parlare dei vecchi metodi, anche se in effetti
solo da poco tempo superati, segno che le trasformazioni, anche se veloci, s’erano ormai
stabilmente affermate:

… lasciarò ancho di dirvi quali modi usavano li nostri antichi nel tirar quelle loro grosse e
sconcie bombarde perché più non si usano, ma delli modi che usano li moderni e così delle
moderne artigliarie parmi havervine assai detto… (V. de Biringuccis. Cit. 325v-326r.)

In effetti, se leggiamo la specifica dell’artiglieria che, divisa in sei poste (‘postazioni’), i turchi
istallarono nel 1538 per battere il castello portoghese di Diu sulla costa occidentale dell’India
possiamo capire facilmente che si tratta d’artiglierie di tipo sì ‘moderno’, come dice il de
Biringuccis, ma le cui boccature (‘diametri di bocca, calibri’) e i cui proiettili dimostrano per lo
più una concezione dell’artiglieria non ancora né organica né economica, anche se qui
aggravata dalla circostanza di trattarsi di batterie turche, quindi, sebbene dirette da òieri
rinnegati cristiani, alquanto collettizie; dunque si trattava di due colubrine da 150 e una da
100, un cannone petriero da 400, uno da 300 e uno da 200; due passavolanti requisiti a
galere di mercanzia veneziane, i quali, pur se classificati ora come bocche ferriere da 16, in
effetti si continuavano a usare, come nel secolo passato, con proiettili di piombo (fr.
plommets o plombetz) colati al momento; infine un sagro da 12, un cannoncino da 16 e un

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falcone da 6. Dobbiamo quindi, per dire dell’artiglieria italiana tardo-medioevale propriamente
detta, affidarci naturalmente ad autori precedenti al de Biringuccis. Per esempio dal trattato
d’architettura civile e militare di Francesco Maurizio di Giorgio di Martino del Viva (oggi ‘Vivo
d’Orcia’), pubblicato dal Saluzzo e commentato dal Promis, siamo informati che, nell’ultimo
quarto del Quattrocento, l’artiglieria italiana era sostanzialmente suddivisa nei tipi che
seguono.
La bocca da fuoco principale, la bombarda (td. Stückbüchsse o Stückgeschutz), era lunga dai
15 ai 20 piedi e lanciava pietre di libbre 300 circa, ma ciò in generale, perché si trovava
anche gittata (colata’) in molti altri grossi calibri. Quest’arma era divisa generalmente in due
parti avvitate, la gola o coda o culaccio o anche ma, come presto vedremo, molto
impropriamente, cannone, maschio e persino cassa, che riceveva la carica di polvere, e la
tromba, ossia la parte che finiva nella bocca, presentando il vantaggio che, poiché la gola era
soggetta a più rapido deterioramento in quanto in essa avveniva la combustione della
polvere, questa si poteva sostituire senza doversi per questo tragittare (‘versare il metallo
nella forma, fondere’) anche una nuova tromba e infatti molto spesso le bombarde nuove si
fornivano con due cannoni, cioè già con un primo ricambio; ma ciò non lasci credere
erroneamente che fossero a retrocarica. Inoltre in relazione alla sua mole, la quale poteva
essere quindi anche di 400, 500 e anche più libbre di calibro, si faceva la tromba in un sol
pezzo (td. Stück; sp. pieza) o in due pezzi avvitati (da cui la locuzione ‘pezzo d’artiglieria’), in
modo da poterla trasportare smontata, perché tutt’intera sarebbe risultata molto pesante e
quindi difficile da condurre; però, scrive il di Giorgio di Martino, quanto la tromba più lunga e
l’instrumento di manco parti fusse, di tanto maggiore efficacia saria e ciò significa che già
allora s’era capito che bisognava sì tendere a costruire bocche da fuoco potenti, ma in un sol
pezzo, per evitare gl’inconvenienti dell’avvitatura, soprattutto lo sfiatamento. In verità i
predetti vantaggi della molteplicità dei pezzi significavano far di necessità virtù perché, con
l’ancora arretrata arte della fondizione del tempo, era molto difficoltoso l’ottenere grosse
bocche da fuoco fatte di un sol pezzo.
La lunghezza delle canne cominciava già allora a essere espressa, oltre che in piedi, anche
in diametri di palla e infatti il di Giorgio di Martino ci ha lasciato le seguenti misure ottimali
della bombarda:

Cannone: due diametri.


La vite che congiungeva il cannone con la tromba: mezzo diametro.
Tromba: da cinque a sette diametri. (C. Saluzzo. Cit.)

Non si capisce se la predetta vite fosse pezzo a sé o invece parte d’uno degli altri due pezzi.
La gola o coda o cannone era per lo più di forma dritta e cilindrica, ma alcuni la preferivano a

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tronco di cono e incampanato d’un quinto, cioè l’estremità posteriore della culatta era più
angusta d’un quinto di quella anteriore della culatta medesima, e ciò per ridurre il rinculo, al
qual stesso fine si raccomandava che il fogone fosse piccolo e posto all’estremo fine del
vacuo del predetto cannone. Il di Giorgio di Martino raccomandava inoltre che la tromba
avesse lo stesso vacuo dall’inizio alla fine, che non fosse cioè svasata in avanti, per evitare
che la palla se n’andasse da una parte o dall’altra invece che diritto; questa deprecata
svasatura si traduceva in una differenza di diametro tra la bocca del cannone e quella della
tromba, essendo il primo inferiore al secondo di un quinto o d’un quarto o addirittura d’un
terzo, e doveva comunque essere stata sino allora invece abbastanza apprezzata da molti,
se aveva addirittura dato origine al nome di tromba. Comunque, a prescindere dai trattati, i
quali troppo spesso esprimono, frammisto all’effettivo essere delle cose, anche quello che il
suo autore considera il loro ‘dover essere’, ci sembrano molto interessanti le memorie di
bombarde che troviamo nelle cronache senesi del de Allegreti relative alla guerra combattuta
nel biennio 1478-1479 tra Roma, Siena, Forlì e Napoli da una parte e Firenze, Milano e
Venezia dall’altra; eccone alcune:

Adì 6 detto (‘settembre 1478’) si partì il campo (‘l’esercito’) e andò sulla Staggia verso
Castiglioncello e dopo desinare si partirono di Siena 2.000 fanti de’ nostri e 1.000 guastatori
[…] e la nostra bombarda di ferro con tre carri carichi di cerbottane e salmaria con molti
maestri di legname.

Adì 8 di settembre. Io Allegretto mi partii di Siena con altri compagni a ore otto di notte per lo
sportello (‘porticciuola nascosta delle mura’) e giognemo in campo a buon’ora, mentre si
levava il sole […] e la sera scaramucciorono con quelli (‘i nemici appostati’) della Abbadia di
San Luchese in sul Poggio (Imperiale) e con quelli di Poggibonzi, ma e’l tirar che facevano
quelli della badia e della bastìa con cerbottane e spingarde non lassavano assicurare (‘dar
sicurezza a’) i fanti…
Adì 14 detto da mattina si mandò in Campo vintidue carri carichi, cioè 3 carichi della
bombarda del Re (‘Ferrante I d’Aragona’) di tre pezzi e’l ponte per la bombarda, 50 pezzi di
scale da scalare terre (‘abitati fortificati’), polvere da bombarda, saettime e altre salmarie
(‘armerie’) per trar‘alla badia di San Luchese e dove bisognasse.
Adì 18 da sera venne la novella come la badia di S. Luchese sul Poggio Imperiale s’era data
d’accordo (‘s’era arresa a patti’), perché credevano non potersi tenere (‘difendere’), avendo
prima le bombarde tirato a terra gran parte di mura.
Adì 21 si partì di Siena una bombarda grossa di tre pezzi fatta in Siena e non è ancora
adoperata.
Adì 22 si prese Poggibonzi a patti ed eravi dentro una bombarda grossa de’ fiorentini
chiamata ‘la Vittoria’. E a dì 23 detto si ebbe il bastione d’accordo (cioè ‘il bastione, principal
difesa di Poggibonzi, si rese a patti’).
Adì 24 di settembre il campo si levò da Poggibonzi e andò a Colle (‘Colle di Val d’Elsa e
Borgo’) con cinque bombarde grosse e ci era centodieci squadre di cavalli.
Adì detto si provò la nostra bombarda grossa di due pezzi, la qual fece Pietro detto ‘il
Campana’ ed è lunga tutta braccia 7 e mezzo (‘m. 4,380’), cioè la tromba braccia 5 e la coda
braccia 2 e mezzo. Pesa il cannone libre quattrodicimila e la coda undicimila, (quindi) somma

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in tutto libre vinticinquemila (‘t. 8,200’). Gitta dalle 370 (‘kg. 121,360’) alle 380 libre di pietra
secondo (la) pietra.
(Allegretto de Allegreti, Ephemerides senenses ab Anno MCCCCL usque ad MCCCCXCVI
etc. in Ludovico Antonio Muratori. Cit. T. XXIII, colt. 763 e segg. Milano, 1733.)

Le conversioni di misure qui indicate sono dello stesso Angelucci. Come abbiamo già detto,
artefici di bombarde di bronzo erano spesso i fonditori di campane, perché già abituati a
fondere quella lega metallica, e quindi evidentemente da qui il soprannome il Campana
acquisito dal suddetto mastro bombardiero Pietro; infatti ancora in data 29 dicembre 1531
troviamo in un atto notarile ferrarese un magister Joannes filius quondam Alberti Del Bon
constructor artelariarum et campanarum civisque ferrarensis de contrada Buccechanalium;
ma torniamo alle suddette cronache senesi:

Venerdì a dì primo d’ottobre si cominciò a trar le bombarde a Colle […] e tutta questa
settimana è piovuto o tanto o quanto e massime giovedì e venerdì notte; e’ nostri (causa
pioggia) hanno ripiantate le bombarde altrove.
Quelli di Colle si difendeno valentemente e hanno dentro di molte spingarde, cerbottane e
passavolanti e due bombarde grosse e traggono alli alloggiamenti e al padiglion del Duca,
che l’hanno fatto levar già due volte, e fanno il peggio (’il maggior danno’) che possono.
Adì 11 d’ottobre. Gionse dentro alla porta S. Vieno la bombarda grossa del Papa di due
pezzi, longa braccia 6 e un terzo, gitta libre 340 in circa di pietra, la quale era a Sciano.
Adì 12 detto da mattina. Furon tolti circa 80 buffali (da tiro d’artiglierie) del Papa, quali
pascevano in Mazzafonda.
Adì 13 detto. Quelli di Colle chiovorno (‘inchiodarono’) la bombarda del Re, ma non a
perfezione, perché quello che la chiovava non ebbe tempo, perché fu morto (‘ucciso’) con una
ronca. E a dì 14 ricominciorono a trar le bombarde a Colle.

Adì (‘19’) detto. Gionseno in Siena 28 carri carichi di pietre da bombarda che venivano da
Talamone e 4 carri n’era a Camollia.
Adì 20 detto. La bombarda del Papa che era a S. Vieno si condusse a Camollia e la notte a
Soriana andò in campo.
Adì 24 d’ottobre in domenica innanzi le 10 ore la nostra bombarda grossa che fece ‘il
Campana’, uscì alla Porta della Madonna a Camollia con la scorta per essere a Colle. Adì 26
detto cominciò a tirare a Colle e passava mura, ripari e ogni cosa; e non era cosa che la
tenesse (‘che le resistesse’). E, veduto quelli di Colle tal rovina, deliberarono la notte
d’abbandonare e andare al Borgo; e così fecero.
… (Ib. C. 794-795.)

Ma poi furono costretti ad arrendersi alle tanto superiori forze di Diomede Carafa duca di
Calabria, capitano generale del re di Napoli, il quale il 15 novembre fece così il suo ingresso
da vincitore in Colle, così valorosamente e ammirevolmente difesa dai fiorentini:

… Vero è che avevano dentro molte spingarde e passavolanti e ciò che bisognava alla difesa
della terra e tre bombarde grosse, ma poco lo’ (‘loro’) valse contro tale esercito e sette
bombarde grosse che avevano dattorno (‘che li assediavano’), le quali hanno tratto 1.024
colpi di bombarda…

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E a dì detto da sera. Tornando una soma di polvere di bombarda da Colle, la missero dentro
la Porta de’ Signori e percossero le casse nella Porta e alquanta polvere andò sul focone de’
famegli e avventossi il fuoco sulle casse della soma e a due altre casse scariche di prima
(‘scaricate dapprima’). El mulo, come sentì il fuoco, si scagliò fuor della porta e ine (‘ivi’)
bruciò la polvere adosso al mulo e’l mulo ancora si bruciò e abbruciossi tutta la Porta de’
Signori e fece scrostare lo scialbo della Mora, dove sta una tavola dipenta (‘dipinta’) con
Nostra Donna e bruciò tutto il velo che teneva coperta detta persona, e la figura non maculò
niente, e certi targoni attaccati a detta mora tutti furon guasti dal fuoco. (Ib.)

Questo incidente, subito sapientemente commutato a miracolo dalle autorità, fu dovuto non
tanto alla disattenzione del conduttore del mulo, quella cioè di aver fatto collidere le casse di
polvere legate sul basto con i battenti della certamente stretta Porta de’ Signori, porta cioè
del Palazzo poi detto del Comune, in cui erano allora allocate per sicurezza politica non solo
l’armeria pubblica, ma anche la fonditura d’artiglieria e, incredibilmente, la pericolosissima
manifattura delle polveri e dove quindi evidentemente e tanto imprudentemente si portavano
non solo le armi ma anche le polveri conquistate al nemico, non esercitandosi allora ancora
nemmeno l’elementare prudenza di relegare le polveriere in luoghi lontani dall’abitato
cittadino; ma fu l’incidente causato da un’altra inconcepibile imprudenza, dovuta anch’essa
però all’ancora insufficiente maturità ‘pirobolica’ raggiunta e da quella repubblica e da quei
tempi in generale, cioè dalla sfortunata circostanza che, certo per esigenze di pura vanagloria
e spettacolo, si era lasciato che quel pericoloso bottino fosse scortato in città da famegli
dell’artiglieria che portavano sconsideratamente o schioppetti o con i micci accesi.
Sicuramente il vero miracolo fu dunque in quell’occasione la mancanza di altre vittime oltre al
povero mulo.
Prima di lasciare gli avvenimenti predetti, non possiamo non ricordare un importante
manoscritto napoletano della Biblioteca Nazionale di Parigi del quale purtroppo la vita non ci
ha concesso di prendere visione e cioè il codice PET FOL ID-65; si tratta di un codice dipinto
a Napoli nel 1476 e nel quale sono raffigurati ben 135 tra bombarde, cortane, mezzane,
cerbottane e spingarde che facevano parte della poderosa artiglieria napoletana del re
Ferrante d’Aragona. Sui contorni storici di questo certamente mirabile documento non si può
aggiungere una sola parola a quanto sapientemente scrittone da Fabrizio Anzani
(L’immagine della forza. Il ‘Libro degli armamenti’ di Ferrante d’Aragona. In Archivio Storico
per le Province Napoletane, tomo CXXXVII, pp. 147- 178. Napoli, 2019.
Nel Medioevo si era dunque usato tenere le provviste d’armi nelle masserie comunali, cioè
nelle armerie situate all’interno degli stessi palazzi che erano sede del governo comunale, e
questa era una generale abitudine che fu mantenuta anche nei primi tempi dell’invenzione
della polvere da sparo, cioè finché non ci si rese conto della pericolosità di quella mistura a
causa gli incidenti che subito iniziarono, come per esempio l’incendio che distrusse l’armeria

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comunale di Pisa il mercoledì 20 maggio 1356, in un tempo in cui la città ospitava l’esercito
imperiale:

… s’apprese il fuoco in nella casa del popolo, là dov’erano le munizioni del Comune di Pisa; e
fu sì grande il fuoco che non si potette soccorrere e bastò (‘durò’) insino alla mattina alla
campana, in modo non ne rimase nulla che non ardessi; e questo si fu perché la fente
dell’imperadore vi stava e faceva fuoco (‘aveva acceso un falò’) in sul solaio; per questo
modo venne ad ardere il solaio di sotto e ogni cosa cadde in terra…. (Cronaca pisana di
Ranieri sardo. Cit.)

Il cronachista non parla qui esplicitamente di polvere d’artiglieria, ma certamente nel 1356
qualcuna delle nuove armi da fuoco e delle loro necessarie munizioni non dovevano mancare
al comune di Pisa. Nel 1482, apertesi, per motivi di concorrenza commerciale fluviale, le
ostilità tra la Signoria di Venezia e il duca Ercole I d’Este signore di Ferrara, i veneziani
inviarono una flotta a distruggere tre bastìe (‘fortificazioni di legno’) che il predetto duca aveva
appena fatto costruire in una zona del fiume Po di Primaro detta Pilosella (‘Polesella’) a
protezione appunto non solo dei traffici ferraresi ma anche della stessa città di Ferrara;
durante l’attacco dei veneziani, la provvista di polveri di una delle suddette bastìe s’incendiò,
facilitando il successo delle armi della Serenissima:

… Sed unum ex castellis ex bombardarum pulvere parum apte administrato inflammatur.


Milites in fluvium prosiliunt, ad ripam natando confugiunt. Venetus castellis potitur (Pietro
Curneo, Commentarius de bello ferrariensi etc. In LT. A. Muratori. Cit. C. 1.196, t. 21. Milano,
1732).

Ma, dopo questa digressione ferrarese, torniamo alle predette cronache senesi:

Adì 17 detto (novembre). Tornò in Siena da Colle la nostra bombarda di ferro e quella del
Papa di due pezzi e una de’ fiorentini di tre pezzi chiamata ‘la Crudele’, la quale era in Colle
con altre bombarde.
Adì 19 di novembre gionsero in Siena una bombarda di due pezzi chiamata ‘la Disperata’ e
quattro passavolanti, che una ne era longa braccia 7, le quali erano in Colle mandate da’
fiorentini.

Adì 21 in domenica ritornorono da Colle in Siena la nostra bombarda grossa di due pezzi che
fe’ ‘il Campana’, chiamata ‘la Disperata’ (quindi non il 19, come predetto) e un’altra nostra di
due pezzi che andò alla Castellina, che (‘la quale’) non si poteva né si può svitare, e’l
cannone di due pezzi di quella del Re che si fe’ questa vernata qui in Siena, sulle quali
bombarde erano molti olivi. E con gran festa entrorono in Siena con più che cento paja di
buffali e più che cento guastatori de’ nostri; e, gionti che furno a’ piè del Palazzo, fu fatto
molta provisione di pane e vino, tanto che ognuno n’ebbe quanto volse, e tal n’ebbe (persino)
8 e 10. (A. de Allegreti. Cit.)

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Il de Allegreti non chiarisce se la suddetta bombarda senese di due pezzi insvitabile lo era
perché mal progettata o perché magari col tempo incrostatasi di ossido; per quanto riguarda
poi i molti olivi, il diarista si riferiva ai rami d’ulivo ornamentali scolpiti sulle culatte di quelle
bombarde.
Un altro diarista senese, questo anonimo, alla data del 30 novembre di quel 1478 riassume
tutte le suddette artiglierie introdotte a Siena in seguito ai predetti conseguimenti bellici:

Per far ricordo della nobile artigliaria che era in Colle e Poggibonzi, a onta e vitupero de’
fiorentini, la quale fu finita d’arrecare (‘di portare’) adì 20 di novembre, e tutta fu posta a’ pie’
del palazzo della Signoria di Siena, (dirò che) in prima venne una bombarda grossa che gitta
pietra (d)a 200 libre (‘kg. 65,600’), la quale era in Poggibonzi e chiamavasi ‘la Vettoria’,
perché v’era intagliato (‘v’erano intagliati’) su rami d’ulivi, e con questa si fece guerra a Colle.
Appresso di questa (è) seguita un’altra bombarda poco minore di questa, la quale si chiama
‘la Disperata’, ein su questa era intagliata una femina che s’ammazava; è poi seguita un’altra
minore che v’era su scritto ‘la Crudele’ e un’altra minore che si chiama ‘la Ruffiana’; e poi v’è
a’ pie’ ‘l palazzo dieci cierbottane, le quali loro (‘i fiorentini’) le chiamavano passavolanti, e
furono di lunghezza nove braccia (‘m. 5,147’) e otto braccia e sei braccia e quattro braccia e
erano di più sorte, èvvi intagliato su una passare (‘un passero’) e a chi (invece) colombe che
volavano con rami di olivo in bocca e con altre armi di marzoccho e molto bene lavorate. Poi
seguiva le bombarde della Lega (nostra); in prima quella del Papa, poi quella de la maestà
del Re di Napoli con tre serpentine e poi seguiva la grossa de’ senesi, che gitta 350 libre (‘kg.
114,800’), e due altre più (‘ancora’) pure de’ senesi; e tutta questa artigliaria era condotta a’
pie’ ‘l palazzo de la Signoria di Siena, che pareva un monte di bronzo a vedere, che erano in
tutto 22 bombarde a’ pie’ ‘l palazzo in sul campo (‘Piazza del Campo’. LT. A. Muratori. Cit.)

Delle serpentine, piccole artiglierie che qui servivano a difendere la postazione di una grossa
bombarda, poi diremo; giusta l’osservazione critica del diarista riguardo alle cierbottane,
bocche a braga, quindi di due pezzi, che i fiorentini chiamavano, con altro nome medievale,
passavolanti ma impropriamente, perché queste erano infatti artiglierie molto diverse da
quelle, tra l’altro di un solo pezzo e molto più lunghe; d’altra parte, come ci racconta il medico
legnaghese Alessandro Peanzio Benedetti (c. 1450-1512), il miglior cronachista rimastoci
della battaglia di Fornovo del Taro, con questo stesso errato nome di passavolanti i veneziani
chiamavano invece le serpentine, poi dette cannoni ferrieri, il che significa che nel
Quattrocento i passavolanti erano state, tra le artiglierie maggiori, quelle più diffuse e
conosciute; ma presto meglio diremo di queste differenze, comprendendo che non possono
risultare immediatamente comprensibili a chi poco mastica di pirobalistica rinascimentale.
Torniamo ora al diario del de Allegreti:

Adì 10 detto (febbraio) […] El dì partirono di Siena carri con passavolanti e salmarie e una
bombarda di tre pezzi chiamata ‘la Crudele’, che fu tolta a’ fiorentini. (A. de Allegreti. Cit.)

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La pace tra i principali contendenti, cioè Firenze e Ferrante I d’Aragona, fu conclusa a Napoli
il 13 marzo seguente.

Adì 29 d’Aprile in sabbato. La bombarda del Re in tre pezzi che si fe’ qui in Siena, che non si
poteva svitare, partì di Siena su due carri; e altri carri carichi di due mortari e sei carri di
passa volanti e altre salmarie esciro (‘uscirono’) a Porta Nuova. (Ib.)

Il suddetto 29 aprile vennero a Siena ambasciatori fiorentini e i senesi misero in bella mostra
le artiglierie che avevano loro conquistato a Colle:

… E a lato alla Porta fu messa la bombarda chiamata ‘la Disperata’, la quale se li è (‘si è
loro’) tolta, e 4 passavolanti de’ loro; e molta gente che stava a vedere che viso facevano a
quella bombarda, facendo largo, che (‘perché’) la potessero ben vedere; ma loro, che
s’avvidero del tratto (‘che a un tratto se ne avvidero’), fecero vista di non la vedere. Ma un
fanciullo figliuolo d’Augustin Ghezzi lo (‘loro’) disse, toccandola con mano: ‘Questa è pure
delle vostre marzocchine’. (Ib.)

Tipico ‘Il re è nudo!’ di questo ragazzino senese, il quale comunque era abbastanza grande
per sapere che le artiglierie fiorentine si chiamavano anche marzocchine, cioè con riferimento
al Marzocco, il leone ornamentale posto sulla ringhiera di Palazzo Vecchio a Firenze a far da
insegna del potere di quella signoria. Poi il Pontefice si era riprese le artiglierie che aveva
inviato alla guerra:

E adì 2 di giugno partirono di Siena some 14 di polvere di bombarda del Papa; escì alla
Porta.
Adì 5 detto si caricò (su carri) la bombarda del Papa che era a’ pie‘ del Palazzo.

E adì 13, il dì di S. Antonio da Padova, si partì di Siena la bombarda grossa del Papa di due
pezzi e altri carri carichi di più salmarie e scale da scalar terre… (Ib.)

Nel 1482, avendo il Pontefice chiesto in prestito a Siena le sue artiglierie, il 27 settembre i
senesi gli risposero diplomaticamente che mettevano senz’altro le loro bombarde a sua
disposizione, ma lo avvisavano che le stesse erano in cattivo stato, cioè in gran parte crepate
e fessurate (rimose) dall’uso fattone nella recente guerra, e quindi si rimettevano alle sue
decisioni:

… quod Sua Sanctitas bene consideret quo in statu ponit Senensem Rempublicam ob dictam
eius requisitionem et quod bombardae nostrae senenses pro maiori parte sint rimosae et non
aptae ut eis uti possit. Nihilominus Senenses sunt parati facere de dictis bombardis quae
placita sint Suae Sanctitati (A. Angelucci. Cit.).

181
C’è da ritenere che il Papa non abbia insistito nella sua evidentemente sgradita richiesta.
L’essere le grosse artiglierie medioevali composte da due o tre pezzi tra loro commessi era la
loro principale caratteristica e lo affermerà per esempio anche Gasparo Contarini nella sua
interessante descrizione dell’arsenale di Venezia del 1525:

… Nella munizione dell’artiglierie trovai gran copia d’artigliaria minuta e grossa, come sono
moschette, falconetti, cannoni, mezzi, quarti, colubrine, sacri e simili, e del continuo si gettava
assai della nuova, convertendo in questo la materia molto vecchia che all’uso presente della
guerra non è più accommodata, si(c)come erano molti pezzi grossi che io vidi di quella sorte
che si commette, si(c)come usavano gli antichi nostri. Eravi ancora un numero grandissimo di
artiglieria curta di ferro che si usava in su’ navili. (Gasparo Contarini, Della republica et
magistrati di Venetia, Venezia, 1525.)

Per quanto riguarda le piccole bocche di ferro d’uso marittimo, ne diremo qualcosa in seguito,
anche se esulano dal nostro argomento perché dell’artiglieria marittima meglio diremo in altra
nostra opera. Dunque il motivo per cui oggi nei nostri musei non si vedono quasi mai prodotti
dell’artiglieria medioevale è che naturalmente s’era sempre usato riciclare il metallo delle
bocche da fuoco tecnicamente superate per farne canne di nuova concezione, quando non
anche campane e candelabri:

… mandement de délivrer au comte de Chimay (Philippe de Croy) un courtaut de metal,


rompu (…) pour en faire certaine menue artillerie destinée à la défense de ses places… (J.
Finot. Cit. Al 2 novembre 1481)
… serpentine rompue dont le métal sera employé à faire des chandeliers à placer devant la
statue de la Vierge au dit château… (ib. 1477-1498)

Che il materiale d’artiglieria potesse talvolta risultare utile anche a congregazioni non militari
è testimoniato anche dal seguente esito di magazzino datato 4 ottobre 1502:

- Istanza prodotta dalle povere badessa e suore del convento di St. Clara di Bruxelles,
domandando che si consegnino loro 50 palle di ferro per rimpiazzare le grosse pietre che
esse mettevano a scaldare nelle stufe per riscaldarsi esse stesse la notte (sino) al risveglio
mattutino, pietre che, a causa del ripetuto calore, si sono spaccate e rotte (ib.)

Evidentemente le suore, per riscaldare i loro freddi giacigli di notte, usavano inserirvi grosse
pietre surriscaldate dal fuoco e avvolte in panni, così come sino a non molti decenni fa si
faceva con le bottiglie d’acqua calda; dunque anch’esse, le quali probabilmente pure le dette
pietre avevano a suo tempo ricevuto dall’amministrazione dell’artiglieria, ritennero che fosse
più pratico e moderno sostituirle con le palle di ferro!
C’era poi, nella classificazione del di Giorgio di Martino, la c(h)ortana, la cui tromba doveva
esser lunga piedi otto e la coda o cannone piedi quattro; questa lanciava pietre o gruppi di

182
pietre pesanti in totale dalle 70 alle 100 libbre e il suo nome era corr. di quartana, poiché in
origine bocca da fuoco più piccola, dal quarto di calibro di quello della bombarda grande
comune. Seguiva la comune ovvero mezzana, perché in origine concepita da metà calibro di
quello della suddetta bombarda grande, e con la quale quindi nulla avrà a che fare la moiana
cinquecentesca di cui abbiamo già detto; doveva essere lunga dieci piedi e lanciava pietre
per circa 50 libbre. La spingarda (dal gm. (Zer)sprung, (zer)springen staccare, scattare,
scoppiare, attraverso prima il lt. springalis, springaldus e il fm. espringal(l)e, poi il tlt.
spingarda, spingardus) era stata nel passato, come abbiamo già spiegato, dapprima una
balestra da posta che lanciava sassi e poi, come leggiamo nello Strategikon del Birago e
come abbiamo anche già visto a proposito del poema di Guillaume Guiart all’anno 1304, una
grossa balestra da posta da saettume ad arco di corno e corda, probabilmente quella baleste
de passe (‘di gran passata’), tendibile solo con a mezzo di pulegge, che il de Bourdeilles
scriveva fosse la vera l’insegna del gran capitano Gonzalo Fernández de Córdoba:

… E, per dimostrare il detto Gonsalvo che era favorito dalle sue astuzie quanto e forse più
che dalle sue prodezze, scelse per insegna una grande balestra di passata (che si
chiamavano così), la quale si tende con pulegge, e questo motto scritto: ‘Ingenium superat
vires’, come a voler dire che non c’è gran forza che l’intelligenza e l’industria de l’uomo non
possa vincere; com’è vero che non c’è uomo per quanto forte sia né gigante che possa
tendere quella balestra con le sole mani, invece essa con detti strumenti si tende molto
facilmente… (Pierre de Bourdeilles visconte di Branthôme (1540-1614), Oeuvres etc. Parigi,
1823 ; Memoires, Leyde, 1666.)

La spingarda era ora invece, come sappiamo, anch’essa una bocca da fuoco in due pezzi, a
caricamento posteriore, inceppata o, più spesso, incavallettata e, se nuova, fornita con più
code; era di forma sottile, generalmente lunga piedi otto e sparava generalmente proiettili
dalle 10 alle 15 libbre, ma le dimensioni erano molto variabili e in un documento senese del
1438 troviamo anche l’espressione bombardette overo spingardette (Angelucci); infatti negli
inventari del ducato di Ferrara della metà del Cinquecento, anche questi citati dall’Angelucci,
e precisamente in quello della monizione di Rubiera leggiamo anche di palle di sole libbre 3 e
di 6. D’altra parte per le spingarde piccole si usavano anche palle (ballotte) di ferro,
ovviamente più leggere di quelle di piombo, dette in td. Stuck-Klugen, e abbiamo appunto già
detto di una siffatta della fine del Trecento; negli stessi suddetti inventari troviamo poi
spingardelle portatili sparanti proiettili di ferro che andavano dalle 8 once alla libbra e 6 once
e l’Angelucci cita un documento milanese del 1462 in cui si legge di spingarde da 12 once di
piombo, quindi da postazione e non da fanteria:

… 4 spingarde de ferro de portata de onze 12 con seij chiave (‘ghiave, gavoni, culatte’) et
octo code… con soij ceppi e cavalletti, ballotte 400 di piombo de onze 12 l’una, capse seij de
183
veretoni mezani, de li quali se trovano tri in Viglevano e l’altre in Milano… (A. Angelucci, Gli
schioppettieri milanesi nel xv secolo. P. 18. Milano, 1865.)

Dunque, oltre alle pallottole di piombo e di ferro, le spingarde sparavano anche verrettoni
come le balestre e questa loro versatilità ha fatto sì che siano state poi variamente descritte e
definite dagli studiosi; ma si usavano dardi anche nelle spingardelle o schioppetti da porto
individuale di fanteria, detti oltralpe colubrine:

… uno di quelli aveva una colubrina armada e, posto in essa un grosso verrettone, prese di
mira Gutierre de Robledo, il quale neanche smetteva il suo disonesto parlare, e il verrettone
colpì nel mezzo un targone (‘scudo quadrangolare’) che (quello) portava e gli trapassò sia il
targone sia la corazza da un fianco all’altro, in tal maniera che cadde subito morto (Crónica
de D. Álvaro de Luna etc. Cit. P. 185.)

Lo Zurita riprende l’episodio da questa stessa cronaca, dimostrano però così tutta la sua
approssimativa conoscenza dei vecchi congegni lapidanti, congegni che comunque, come
abbiamo già detto, egli non aveva potuto vedere perché esistiti molto prima del suo tempo;
egli infatti racconta che Gutierre de Robledo fu colpito e ucciso de una saeta que se lançó
con un trabuco (T. 2-1, c. XLI); ora, come sappiamo, i trabucchi non lanciavano dardi, ma egli
non si sentiva evidentemente di avvalorare che li lanciassero le colubrine, poiché non sapeva
che le colubrine di quei tempi medievali che stava narrando erano qualcosa di molto diverso
da quelle del suo tempo, essendo infatti quelle piccole armi da fuoco e queste invece grosse
artiglierie. In verità la principale caratteristica di tali piccole canne da porto individuale era
l’esser composte di due pezzi come le altre bombarde e infatti si chiamavano anche
genericamente bombardelle, come leggiamo in un un altro documento senese, questo del 5
settembre 1441, in cui si menziona l’arruolamento della compagnia di fanteria del capitano di
condotta Andrea di Jacobo da Nagni e del mastro tedesco Johann Johanns, consistente in 60
uomini e 4 cavalli, inclusi due ragazi (tlt. ‘palafrenieri’. Vedi du Cange Vol. VII). Di questi 60
pagae (paga, pagua, pangum, tlt. dal lt. pango, ‘pattuisco’; quindi ‘uomo pagato, soldato’; da
cui poi l’it. ‘paga’ e il fr. page, ‘paggio’, cioè ‘famiglio stipendiato’. Vedi du Cange ancora Vol.
VII) 20 erano armati di bombardelle (quindi spingardieri), dieci di ballistae (quindi balestrieri;
gr. τζαγροτοξόται; fr. arbalestiers, se a cavallo, e crenequiniers o cranequiniers, se a piedi) e i
rimanenti con lanceae e targonae (cioè con giavellotti e scudi quadrangolari). Il predetto
mastro tedesco fu però assunto dal comune di Siena come bombarderius communis per tre
mesi rinnovabili una volta e con un salario mensile di 10 fiorini da 4 lire ognuno (Angelucci);
ciò perché i comuni autonomi, per motivi di sostenibilità delle spese, assumevano perlopiù i
bombardieri solo per la durata di una campagna o della fonditura di necessarie bocche da
fuoco. Il 24 gennaio 1456 la stessa Siena deliberò un salario di 40 lire senesi (ossia 10 fiorini

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da 4 lire l’uno da 20 soldi l’una) per il bombarderio mastro Ottolone (figlio) di mastro Antonio
da Milano, cioè per il solo tempo in cui egli aveva servito al campo che i senesi, condotti da
Jacobo Piccinini, avevano ultimamente posto contro Sorano, castellania del Grossetano
allora feudo degli Orsini, e che non erano riusciti a conquistare, il 27 fiorini 50 al bombarderio
Chiodo da Papia (oggi ‘Pavia’) per il suo servizio contro Sorano e Grosseto, detratto però
quando già ricevuto in prestantiam (‘a titolo d’anticipo’) e il 4 febbraio ducati 25 (da 5 lire
ciascuno) al bombarderio mastro Au(gu)stino di Nicola da Piacenza per il suo servizio contro
Soriano, prestato con 25 schioppetteri, 2 bombarderi e 3 famigli e per altre sue recenti
prestazioni (Angelucci). Quest’ultimo, ma maestro bombardiero ufficiale della Signoria di
Siena già nel 1451, come si legge nelle cronache dell’Allegreti, sarà poi evidentemente
elevato da quel comune al superiore carico di ingegnere militare, perché il 12 novembre dello
stesso predetto 1456, in una sua lettera in volgare a quella signoria, si firmerà appunto
Augustino de Nicolla vostro insigneri etc. Il 12 giugno 1459 lo stesso predetto concistoro
comunale autorizzò l’ingaggio di un mastro artigliere francese, appunto Pierre di mastro
Mathieu de Francia, perché fabbricasse a Siena balestre, spingarde e altre armi, e, per fare
un’ultimo esempio, il 22 febbraio 1482 quello di Jean di Jean Stanibruch (sic) de Malines,
mastro bombardiero borgognone, a partire dal seguente 1° marzo, con un salario mensile di
4 ducati da lire 5 ciascuno.
Oltre alle predette bombarde, le quali offendevano per retta linea, esisteva già allora una
bocca da fuoco chiamata mortaro diritto e un altro detto mortaro campanuto (‘incampanato’),
larghe e corte canne monofuse, lunghe ambedue da cinque a sei piedi e fatte appunto in un
sol pezzo, le quali sparavano palle di pietra per un totale che andava dalle 200 alle 300 libbre
di peso (F. di Giorgio di Martino in C. Saluzzo. Cit.).
C’era ancora un secondo genere di bocche da fuoco, quello che i francesi chiamavano dei
canons, cioè canne monofuse come i suddetti mortari ma molto differenti da questi perché
strette e longilinee, le quali, partite, ma solo teoricamente, in due sotto-generi, cioè a
retrocarica e ad avancarica, vedevano allora nel Medioevo più usate le prime, le quali erano
quelle dette a caricamento da camera (fr. à chambre), sistema che poi spiegheremo, e tra di
esse la più comune era il veuglaire, un po’ meno comuni la serpentina, il ribadocchino,
l’archibugio da posta e la cierbotana; tra quelle ad avancarica le più note erano invece il
mortaro e la collaverina, poi detta colubrina. Tutte, nel Quattrocento, lanciavano palle di
piombo, tranne il detto veuglaire, che le tirava di pietra, e la maggiore tra quelle ad
avancarica, cioè il basalisco, lungo da 22 a 25 piedi, il quale sparava palla di circa 20 libbre di
qualunque metallo e possiamo quindi ritenerlo un’antesignano della moderna colubrina,
anche se poi, come vedremo, nella seconda metà del Cinquecento prenderanno invece e
impropriamente questo nome, anche se leggermente mutato in basilisco, dapprima, nella
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prima metà del Cinquecento, le doppie colubrine, ossia quelle, piuttosto rare in verità, da 40
di calibro in su, e invece in seguito, a partire appunto dalla metà di detto secolo, i grossi
cannoni da breccia ottomani, enormi bocche da fuoco usate negli assedi appunto dai turchi, i
quali se le potevano permettere in quanto ricchissimi, tra l’altro, di trasporto e facchinaggio a
pochissimo prezzo. In effetti la propensione dei turchi all’uso di bocche da fuoco d’assedio
dalle proporzioni disorbitanti era nata già nel Medioevo, cioè nel secolo quindicesimo, come
per esempio si legge nel Chronicon di Giorgio Franzes, dove si accenna infatti alle bocche da
fuoco usate dall’esercito ottomano che l’emiro Maometto (poi ‘Maometto II’) aveva condotto al
fatale assedio di Costantinopoli del 1453 ed tra quelle specialmente a una smisurata:

… portarono infatti molte bocche da fuoco, delle quali alcune di una tale smisurata grandezza
che una di quelle (in particolare) non avrebbero potuto tirare né quaranta né cinquanta gioghi
(‘coppie’) di buoi e nemmeno duemila uomini [ἒφερον γὰρ ἐλεβόλεις (leggi ἐλεπόλεις) πολλάς.
ἒξ αὖτῶν δέ τινες τοσοῦτον ὐπῆρχον εἰς μέγεθος͵ ἂς οὐϰ ἐδύναντο τεσσαράϰοντα ζεύγη βοῶν
σύρειν ἐϰάστην αὐτῶν ἢ ϰαὶ πεντήϰοντα ζεύγη ϰαὶπλέον ἣ δύο χιλιάδες ἂνθρωποι. G.
Franzes, cit. LT. III, cap. III.]

E si trattava dunque di bocche da fuoco già distinguibili in grandi e piccole, mentre la


suddetta smisurata, come si capisce chiaramente da quanto ne dirà ancora il medesimo
Franzes, il quale visse quegli avvenimenti, era in realtà un mortaro molto largo di bocca e non
quindi un basilisco molto lungo, come erroneamente si crede:

… i cannoni e gli schioppetti e le altre macchine… (τὰς ἐλεβόλεις ϰαὶ ἐλεβολίσϰους ϰαὶ ἐτέρας
μηχανάς. Cit. LT. III, cap. III.)

… e innumerevoli pietre e altri proiettili e palle da cannone… [ϰαὶ ἀναριθμήτους πέτρας καὶ
ἒτερα βέλη καὶ ἐλεβολίσκους. Cit. LT. III, cap. VI]

Leggiamo qui dunque ἐλεβόλεις, nome da non confondersi con quello delle quasi omonime
ἑλεπόλεις, ‘torri d’assedio’ - un grossolano errore che invece fecero i traduttori ottocenteschi
del Corpus; e che si tratti ora delle grandi bocche da fuoco e non delle torri di legno si
capisce anche da quest’altro brano, in cui si descrivono alcuni apprestamenti bellici fatti dagli
ottomani per stringere il suddetto assedio:

… avendo collocato grandi bocche da fuoco in alto sul colle di San Teodoro di fronte a Galata
per affondare le nostre navi all’ingresso nel porto e quindi per farle tornare indietro (ϰαὶ
ἂνωθεν ἐν τᾠ λόφῳ τοῦ ἀγίου θεοδώρου πἐραν ἐν τῷ Γαλατᾷ ἐλεβόλεις μεγάλας στήσας, ἲνα
τὰς ἠμετέρας νῆας τὰς ἐν τῇ εἰσόδῳ τοῦ λιμένος βυθίσῃ ϰαὶ ὂθεν ἦσαν ποιήσῃ ἀναχωρῆσαι...

…ed ecco che si vide il prodigio che con la prima bocca da fuoco alla quale l’artiere dette
fuoco s’affondò (proprio) la nave che era capitana delle altre (ϰαὶ ἧν ἰδεῖν σημεῖον ὂτι τῇ πρώτῃ
ἐλεβόλει ᾗ ὀ τεχνίτης τὸ πῦρ ἐνέβαλε τὴν νῆα τὴν τῶν ἃλλων ἂρχουσαν ἐβύθισεν· Ib. LT. III,
cap. IV).

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Se dunque con queste ἐλεβόλεις si poteva colpire e affondare le navi a gran distanza
dovevano essere ovviamente potenti armi da getto e quindi non delle torri di legno!.
Comunque, che quel fortunato colpo fosse poi considerato un ‘prodigio’ fu dovuto soprattutto
alla circostanza che, sebbene impiegassero in quell’assedio più di 130 bocche da fuoco con
le quali facevano in più punti rovinare le pur robustissime mura della città, agli ottomani non
riuscì più non solo di affondare con esse una nave né di uccidere un solo altro uomo; ciò è
ben indicativo di quanto ancora poco efficaci fossero a quei tempi i tiri a distanza delle
artiglierie da fuoco:

… e così fu (poi) causa di stupore che, pur sparandosi con più di 130 bocche da fuoco, non si
sommersero più navi né si uccisero più uomini, se si eccettua che una pietra staccatasi dalle
mura uccise una donna (ϰαὶ ἧν θαυμάσαι ὂτι πλεῖον ἧ ἐϰατὸν ϰαὶ τριάϰοντα ἐλεβόλεις ῥίψας
ουδέν τι πλέον τὰς νῆας ἒβλαψεν οὒτε ἂνθρωπον ἐθανάτωσεν͵ εἰ μὴ γυναῖϰά τινα πέτρα
πεσοῦσα ἐϰ τῷν τειχῶν ἀπέϰτεινεν· (Ib.)

Che i traduttori abbiano da secoli sempre creduto ἐλεβόλεις solo un diverso modo di scrivere
ἑλεπόλεις è per esempio platealmente dimostrato dal seguente brano del Franzes, il quale si
riferisce alla grave breccia fatta dai turchi alle mura di Costantinopoli in corrispondenza della
porta di S. Romano dove questa errata interpretazione si aggiunge accumula ad un evidente
errore del copista:

… in prossimità della porta di S. Romano, dove istallarono quel mortaro e innalzarono la


grande elepoli la grande πλησίον τῆν πύλης τοῦ ἀγίου Ῥωμανοῦ, ὂπου τὴν ἐλέβολιν ἐϰείνην
ϰατεσϰεύασαν ϰαὶ τὴν μεγάλην ἐλέβολιν ἒστησαν… (Ib. LT. III, c. VIII.)

Poiché è il verbo ἴστημι che ha il senso di ‘innalzare’, mentre ϰατασϰευάζω ha solo quello
generico di ‘istallare’, cioè senza includere necessariamente anche il concetto di ‘elevare’, se
ne deduce che è il secondo ἐλέβολιν a doversi invece leggere ἑλέπολιν; insomma il Franzes
qui ribadisce che era nei pressi di quella importante porta della città che gli agareni, ossia i
turchi sciiti, avevano sia istallato il grosso mortaro (ἐλέβολιν) sia innalzato la più grande torre
d’assedio (ἑλέπολιν).
Da notare inoltre in queste ultime citazioni anche il termine ἐλεβολίσκους (corr. di
ἐϰηβολίσκους), ‘piccole bocche da fuoco’, schioppetti insomma, e il Franzes lo usa qui due
volte, una nel senso appunto di schioppetti e l’altra in quello di proiettili di bocche da fuoco,
ma probabilmente si tratta di un errore del copista; nel primo e corretto senso lo userà ancora
all’inizio del predetto cap. VIII di questo libro III. E che la ‘super-arma’ degli ottomani fosse un
grossissimo mortaro sembra confermato anche più avanti, cioè dove i suddetti ἐλεβολίσκους
sono poi detti più volte dal Franzes ἀϰροβολισμοὶ, cioè ‘tiri dall’alto’, come appunto, erano
quelli sia dei mortari sia degli - allora ancora in uso - congegni litobolici (ib.); e che si trattasse

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di proiettili che piovevano dall’alto, ossia ad arcata, è poi da quell’autore ulteriormente
ribadito:

… e gli innumerevoli tiri d’artiglieria e le pietre grandinanti dall’alto giù su di noi come pioggia
dal cielo (ϰαὶ τοὺς ἁναριθμήτους ἑλεβολίσϰους βέλη τε ϰαὶ πέτρας ἂνωθεν ϰαθʹ ἠμῶν
βρεχομένας ὠς ὐετοὺς ἔξ οὐρανοῦ… Cit. LT. III, cap. III).

Troviamo più avanti un’altra implicita dimostrazione che quella grande bocca da fuoco doveva
necessariamente essere un mortaro e cioè laddove il Franzes ci dice che gli oppugnanti
avevano concentrato i loro sforzi soprattutto alla porta di S. Romano e infatti in quel luogo,
oltre all’avervi posto la sua tenda lo stesso emiro, avevano gli ottomani messe in opera sia
quella grande bocca sia la predetta grande elepoli:

… in quelle parti innalzarono anche la grande bocca da fuoco e l’elepoli… [ϰαὶ τὴν ἐλεβόλιν
τὴν μεγάλην ϰαὶ τὴν ἐλεβόλιν (leggi ἐλεπόλιν) ἐν ἐϰείνοις τοῖς μέρεσιν ἒστησαν... Ib.]

Ora, se la bocca da fuoco fosse stata a tiro diretto, sarebbe risultata del tutto incompatibile con
la concomitante presenza di un’elepoli, perché essa avrebbe rappresentato per questa
addirittura un grosso rischio di ‘fuoco amico’; doveva quindi giuocoforza trattarsi di una bocca
che sparasse tiri ad arcata,cioè passanti aldisopra della muraglia attaccata. Il Franzes era uno
degli assediati e quindi le sue testimonianze riguardo a quel funesto fatto d’arme hanno molto
più valore di quanto potrebbe narrare un semplice testimone oculare neutrale:

… noi frattanto, osservando quelle cose dall’alto delle mura, pregavamo Dio di avere pietà di
loro (‘di quei nostri combattenti’) e di noi. [ἠμεῖς δὲ ἐϰ τῶν τειχῶν ἂνωθεν ταῦτα θεωροῦντες
ἐδεόμεθα τοῦ θεοῦ ἐλεῆσαι αὐτοὺς ϰαὶ ἠμᾶς. (Ib.)]

Era invece l’uso di mangani e mortari ovviamente compatibile con quello delle bocche da
fuoco da batteria, cioè con quelle che tiravano dritto alle mura per dissestarle e farle il più
possibile rovinare:

… Per qualche giorno l’emiro non ci fece, come in precedenza, guerra ortodossa come d’uso
ma da lontano con tiri dall’alto e nel frattempo non cessava né di giorno né di notte di battere
fortemente le mura con le canne da fuoco (Ήμέρας γάρ τινας ὀ ἀμηρᾶς οὐ τελείαν συμπλοϰήν͵
ὠς σύνηθες͵ ἐνέδιδεν ἠμῖν ὠς τὸ πρότερον͵ εἰ μὴ ἀϰροβολισμοὺς μαϰρόθεν· ϰαὶ ταῖς ἐλεβόλεσι
ᾐμέρᾳ τε ϰαὶ νυϰτὶ οὐϰ ἒπανον τὰ τείχη σφοδρῶς τύπτειν· Ib. Cap. IV).

C’è poi in quello stesso Chronicon un brano altrettanto interessante perché per la prima volta
troviamo in greco bizantino il concetto di ‘fuoco’ (πῦρ) che entra a far parte appunto di quello
di arma da fuoco:

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… facendo rovinare le mura in parecchi luoghi con espugnatrici e macchine
piroboliche… [χαλάσαντες δὲ ἒν τισι τόποις τὰ τείχη μετὰ ἐλεβόλεων ϰαὶ πυριβόλων
μηχανημάτων (ib.)]

Il Franzes senbra aver qui scelto di smettere di chiamate le bocche da fuoco con il loro primo
nome greco di eleboli (da non confondersi, come già detto, con quello delle grandi torri
d’assedio chiamate elepoli) e di passare a quello nuovo di piroboliche. Più oltre egli, ancora a
proposito di quel fatale assedio, sarà apparentemente il primo anche a usare il concetto di
‘battere’ (τύπτειν) una muraglia per mezzo di armi da fuoco (μετὰ τῆς φοβερᾰς ἑϰείνης
ἐλεβόλεως τύψαντες σφοδρῶς. Cit. LT. III, cap. III). A proposito comunque della ‘isonimia’ tra
ελεπόλις e ἑλεβόλις è più che probabile che il secondo di questi due termini abbia subito
contaminazione dal primo e che in origine fosse invece τηλεβόλος (‘che lancia lontano’);
infatti il Kalkokondilos, autore coevo, come il Franzes, della caduta di Costantinopoli, chiama
le armi da fuoco appunto οἱ τηλεβόλοι, come abbiamo più indietro già visto. Insomma, mentre
il primo è un bitematico correttamente formato da un verbo e da un sostantivo e cioè da εἶλον,
aor. II di αἰρέω (‘espugno’), e da πόλις (‘città’), significando quindi ‘espugnatrice di città’,
l’altro si dovrebbe considerare un bitematico formato da due verbi, ossia dal predetto εἶλον e
da βολέω (‘scaglio, lancio’), il che è filologicamente insostenibile (vedi Guglielmo Peirce, Le
origini preistoriche dell’onomastica italiana. Pp. 160 e segg. Smashwords, 1910).
Ma, per tornare al suddetto episodio, Laonikos Kalkokondilos ci ha lasciato comunque molti
più dettagli e particolari; si trattava dunque di una canna talmente grossa che, per trainarla,
occorrevano ben 70 gioghi, cioè 140 buoi, e 2mila uomini di servizio (εἰναι δὲ τοῦτον τὸν
τηλεβόλον ὡς ζεύγη βοῶν ἕλϰειν ἑβδομήϰοντα ϰαὶ ἂνδρας ὲς δισχιλίους. In De rebus turcicis.
LT. VIII) e il cui rimbombo atterriva la gente anche a 40 stadi di distanza, ossia a quasi 8
chilometri. Il Calcocondile poi aggiunge che l’artiglieria turca era allora sotto il comando di
bombardiero romeno o moldavo di nome Orban (ma che in verità dal nome si direbbe esser
invece stato piuttosto un ungaro), il quale, durante le prime fasi dell’assedio, era stato
licenziato dai bizantini perché accusato d’incapacità ed era così passato al servizio di
Maometto II, sultano che, come tutti quelli che lo seguiranno, remunerava abbondantemente
tutti i rinnegati cristiani che andavano a mettere al suo servizio – o a quello dei suoi vassalli
algerini e tunisi - le loro competenze tecniche, terrestri o marittime che fossero, e gli
permettevano così di aggiornare tecnologicamente il suo esercito e la sua marina da guerra.
Ma che cosa era successo al predetto bombardiero da essere congedato dagli assediati per
poi essere subito assunto dagli assedianti?
Sempre secondo il Calcocondile, il quale però in quanto a cose di guerra non si esprime in
maniera particolarmente chiara e precisa, le principali batterie turche che offendevano le
mura di Costantinopoli erano due, una costituita dalla predetta grossa bocca da fuoco dal
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calibro di tre talenti, cioè da proiettili di un’ottantina di chili, e fiancheggiata da due bocche
minori dai proiettili di mezzo talento, l’altra da una meno grossa dal calibro di oltre due talenti,
ossia da palle di circa una sessantina di chili, e fiancheggiata nello stesso modo dell’altra; è
quindi pensabile che anche quest’ultima fosse quindi un mortaro. La tattica, già molto
moderna, era quella di battere un punto della cortina nemica prima più volte con bocche di
medio calibro, in modo da indebolire la muraglia, e poi con una di grande calibro, la quale,
trovandola indebolita, la faceva crollare bastando in tal modo un numero minore di tiri; ma il
Calcocondile sembra far qui confusione tra le bocche dal tiro diretto contro le muraglie e le
bocche di mortaro dal tiro ad arcata passante invece sopra le muraglie. Siamo comunque
appena nel Quattrocento e l’artiglieria era un’arma ancora poco nota e poco compresa dalla
maggior parte dei suoi osservatori; persino gli esperti di essa ne nutrivano allora concetti e
credenze che poi nel secolo successivo si andranno man mano dimostrando errati, ma di
questo poi parleremo.
A causa delle dimensioni con queste grosse bocche gli assedianti riuscivano a sparare solo 7
colpi al giorno, più uno la notte, colpo unico questo che, sempre a quanto narra il
Calcocondile, serviva a segnare sulla muraglia il punto sul quale poi si sarebbero dovuti
concentrare i tiri del giorno dopo. Perché questa necessità di segnare di notte il nuovo punto
di batteria? Proviamo a capirlo: poiché naturalmente cambiare questo punto significava
spostare le bocche da fuoco, i lavori di spostamento obbligavano artiglieri, inservienti e buoi a
uscire dai loro ripari e quindi li esponeva fatalmente al mortale bersagliamento di schioppetti
e balestre che veniva dalle mura nemiche; ora, se per spostare le canne medio-piccole non
bisognava esporsi troppo a lungo, non altrettanto si poteva dire per quanto riguardava il
difficile e macchinoso spostamento delle due più grandi e quindi, per non offrire troppo
bersaglio, si faceva quel lavoro nell’oscurità della notte. Ma, ritornando al suddetto episodio
del bombardiero Orban, i bizantini avevano posto sulle mura, di fronte alla maggiore delle
suddette artiglierie turche, una delle loro più grosse, le quali erano da un talento e mezzo di
calibro, per tentare di imboccare quella nemica, cioè di colpire la bocca della sua canna per
renderla inservibile, come s’usava allora fare; sennonché, era più il suo boato, spaventoso
per gli abitanti, e più il conquassamento delle stesse mura su cui poggiava, dovuto
all’esplodere delle sue grosse cariche, che i danni che riusciva a fare al nemico. Quando poi,
o per una carica di polvere esagerata o per una magagna interna della canna, questa si era
spaccata, il bombardiero Orban che la adoperava fu dapprima creduto un traditore, ma poi,
non essendosi trovata prova di radimento alcuna a suo carico, era stato considerato solo un
incapace e licenziato in tronco; invece l’uomo, rimasto senza lavoro, era passato nel campo
avverso dove, dando un grosso contributo alla presa della città, si dimostrò invece un
professionista capace.
190
Secondo il Franzes le bocche da fuoco portate dai turchi a quell’oppugnazione erano
talmente tante che battevano le mura nemiche in ben 14 punti diversi, il che è possibile in
quanto allora non si formavano ancora delle vere e proprie complesse batterie d’assedio
come si farà invece dal secolo successivo:

… a terra invece i nemici collocarono quella grande bocca da fuoco che avevano, larga di
bocca dodici spanne, e molte altre bocche da fuoco (anch’esse) degne di esser vedute; e,
avendo fatto un alto fossato di guerra e avendole protette con steccati di pali di legno,
sparavano dall’alto e battevano fortemente le mura della città in quattordici luoghi; inoltre con
i congegni petrobolici facevano rovinare molte case che apparivano accanto alle mura e
soprattutto i palazzi signorili. Con le bocche da fuoco invece sconvolgevano la città e
procuravano percuotimenti e scuotimenti alle mura e alle torri, mentre collateralmente non
cessavano le uccisioni dovute alle bocche da fuoco grandi e piccole, alle balestre, agli archi e
agli altri strumenti di guerra; e né di giorno né di notte cessava il combattimento, non le
mischie, non gli scontri, non le scaramucce [ἐϰ δὲ τῆς χερσου ἒστησαν οἰ ἐναντίοι τὴν μεγάλην
ἐϰείνην ἐλεβόλιν͵ πλάτος ἒχουσαν ἐπὶ τοῦ στόματος σπιθαμὰς δυοϰαίδεϰα ϰαὶ ἐτέρας πολλὰς
ἐλεβόλεις ἀξίας θεάματος· ϰαὶ στρατήγιον ὀρυϰτὸν ποιήσαντες ὐψηλὸν ϰαὶ μετὰ ξύλων
σταυρώσαντες αὐτὰς ἃνωθεν ἒβαλλον͵ ϰαὶ ἐν τόποις τέσσαρσι ϰαὶ δέϰα τὰ τείχη τῆς πόλεως
σφοδρῶς ἒτυπτον· ϰαὶ ἐϰ πετροβόλων μηχανημάτων πολλαὶ οἰϰίαι περιφανεῖς ἐγγὺς τῶν
τειχῶν ἠχρειώθησαν͵ ϰαὶ μάλιστα τὰ ἀνάϰτορα· ἐϰ δὲ τῶν ἐλεβόλεων τὴν πόλιν ἐθορύβουν
ϰροτοῦντες ϰαὶ ϰλονοῦντες τοῖς τείχεσι ϰαὶ τοις πύργοις ἐνέδιδον͵ ϰαὶ διαμφὶς οὐϰ ἓλιπον
θάνατοι ἓϰ τε τῶν ἐλεβόλεων ϰαὶ ἐλεβολίσϰων μπαλαιστρῶν τε ϰαὶ τόξων ϰαὶ ἐτέρων
μηχανημάτων· ϰαὶ οὐϰ ἒπαυεν ὀ πόλεμος ϰαθʹ ἠμέραν τε ϰαὶνύϰτα͵ αἰ συμπλοϰαὶ ϰαὶ αὶ
συρρήξεις ϰαὶ οὶ ἀϰροβολισμοί (cit. LT. III, cap. III)].

Successe però che tale gigantesco mortaro, usato in quell’assedio continuamente, ma


evidentemente non fatto di ottimo metallo, crepò con gran dispiacere dell’emiro Maometto, il
quale, molto rammaricato da questo inconveniente, ordinò pertanto che se ne fondesse al più
presto un altro migliore:

… ma quella grande e potente bocca da fuoco, a causa del continuo tirare e per non essere
di metallo abbastanza genuino, crepò, nell’appiccare il bombardiero il fuoco, e si spartì in
molti pezzi e da questi molti restarono uccisi e feriti. E, venuto a saperlo, l’emiro molto se ne
contristò, e comandò che in luogo d’essa ne facessero un’altra (ancora) più potente, né da
quel giorno innalzarono contro di noi alcun’altro paragonabile strumento [ἠ δὲ μεγάλη ἑϰείνε
ϰαὶ ἱσχυρὰ ἑλέβολις διὰ τὸ συνεχῶς σφενδονίζειν ϰαὶ οὑ τοσοῦτον τὸ μέταλλον ὐπάρχειν
ϰαθαρὸν διερράγη ἐν τῷ βάλλειν τὸν τεχνίτην τὸ πῦρ ϰαὶ εἰς πολλὰ διεμερίσθη ϰλάσματα͵ ϰαὶ
ἐϰ τούτων πολλοί ἀπεϰτάνθησαν ϰαὶ ἐπλήγησαν· ϰαὶ ἀϰούσας ὀ ἀμηρᾶς ἐλυπήθη λίαν͵ ϰαὶ
προσέταξεν ἲνα ἀντʹ αὐτῆς ποιήσωσιν ἂλλην ἰσχυροτέραν͵ ϰαὶ ἒως τῆς αὐτῆς ἠμέρας οὐδὲν
ἂξιον ἒργον ϰαθʹ ἠμῶν ϰατώρθωσαν (ib.)]

Il Franzes ci dice che effettivamente ne fusero e istallarono contro la città un altro di simile
potenza in un breve tempo (ib.) Qualche tempo dopo l’annalista veneziano Domenico
Malipiero scriverà che lo stesso Maometto II, quando poi invece nel 1464 dovette ritirarsi
dall’assedio di Giaza in Bosnia, città difesa da genti del re d’Ungheria Mathias, non potendo
riportare indietro, con la prestezza che si era resa necessaria, le sue maggiori artiglierie
191
d’assedio, cioè 5 pesantissime bocche da fuoco lunghe 17 piedi e larghe 3 palmi, le quali
aveva fatto fondere proprio in vista di quell’assedio, comandò di abbandonarle e di gettarle
però nel fiume per evitare che il nemico se ne impadronisse; ma l’esercito di soccorso del re
Mathias, anche se a mezzo di grandi fatiche, riuscì a recuperarle (D. Malipiero, Annali veneti.
Cit. Parte prima, p. 33). Che tipo di artiglierie d’assedio fossero queste suddette turche, cioè
se bombarde o monofusioni, il Malipiero non lo spiega, ma riteniamo che si trattasse delle
seconde, anche perché in una sua relazione posteriore di solo qualche anno un sovraccomito
veneziano, il quale aveva catturato una parandaria turca, trovandovi, tra l’altro, anche pietre
da bombarde, dirà esser le bombarde ottomane differenti da quelle delle potenze cristiane:

... Le bombarde son d’altra sorte che non sono le nostre. Vi poderò mostrar le piere che ne
trovai su la parandaria (ib. P. 51).

E in che cosa poteva consistere tale rimarchevole differenza se non nelle tecniche di
fondizione? D’altra parte anche in Europa cominceranno presto a vedersi monofusioni
importanti, anche se non così grandi come le predette turche; all’inizio del Seicento Diego
Ufano descriveva e disegnava due grosse monofusioni di ferro colato come tipiche della fine
del Medioevo e cioè un pedrero o bombarda e una che, non essendone più rimasta traccia
del nome originario già al suo tempo, lui stesso battezzava escalamira; della prima criticava
la maggior sottigliezza della culatta rispetto alla tromba, perché la violenza della polvere,
passando da un ambiente più angusto a uno più ampio, doveva necessariamente perdere
forza; e ciò senza nemmeno il vantaggio che offriranno poi i cannoni incamerati e cioè quel
maggior spessore del metallo, appunto in corrispondenza della loro camera, che permetteva
l’uso di cariche più potenti; il predetto autore le considerava comunque ancora utilizzabili
come sgombracammini, cioè caricati di mitraglia e, attraverso una troniera bassa, sparati
contro colonne di assedianti che si affollassero davanti a una porta della città per entrarvi.
Per quanto riguarda la seconda, l’escalamira, trattasi di quelle lunghe e sottili canne poste su
casse elevatrici scalari, il cui cambio d’elevazione s’otteneva spostando in basso o in alto due
sbarre di ferro di sostegno, una inseribile in prossimità della bocca e un’altra in
corrispondenza dell’inizio della culatta; l’Ufano scriveva di averne vista una a Dickesmühle in
Germania e di aver saputo di un’altra ancora esistente a Dunquerque. Egli descriveva ancora
una terza canna della fine del Medioevo, da lui vista nell’arsenale di Lisbona, quando aveva
servito in quel paese, e che chiamavano parafuso (‘vite’), in quanto, pur essendo di bronzo,
era fatta di due pezzi avvitati, proprio come le più antiche bombarde di ferro, e la
assomigliava alle già ricordate canne da braga, ancor tanto in uso al suo tempo, specie a
bordo di vascelli, e delle quali in seguito compiutamente diremo.

192
Il piombo, in quanto più pesante e allo stesso tempo più morbido degli altri metalli, aveva i
due vantaggi di dare ai proiettili una maggior velocità di gittata e, pressandolo nella canna,
quello di deformarsi otturandola meglio, aumentando così la potenza del tiro; aveva però,
come già accennato, lo svantaggio di esser poco perforante, schiacciandosi sul bersaglio
invece di penetrarlo, e quindi un soldato protetto da armatura, se fatto oggetto di un tiro a
palla di piombo, poteva anche salvarsi. Ma in seguito, come vedremo, dovendosi poi sempre
più spesso usare l’artiglieria per abbattere rigide muraglie, si preferirà, dopo qualche
esperienza col più duro stagno, passare definitivamente ai proiettili di ferro, riservando il
piombo alle piccole armi da fuoco di calibro non superiore alle due libbre e preferendosi
inoltre perlopiù usare nelle meno piccole, invece di piombo assoluto, dadi di ferro ricoperti di
piombo per ottenerne così sia i vantaggi del peso sia quelli della penetrazione. Per analoghi
motivi le frammentabilissime palle di pietra si riservarono all’offesa di bersagli ‘morbidi’, cioè
eserciti, accampamenti e vascelli.
Il passavolante (tlt. transvolantium), lungo circa 18 piedi, lanciava palle da 16 libbre, le quali
erano sì plumbee, ma, come usavasi in genere per tutte le piccole artiglierie, racchiudenti un
cubetto di ferro nel mezzo per evitarne la completa deformazione all’impatto sul bersaglio;
sarà nella seconda metà del secolo, quando cioè si affermeranno compiutamente le artiglierie
ferriere in luogo di quelle plombiere, sostituito dalla mezza colubrina. Il girif(f)alco, il quale
andava dalle 6 alle 8 libbre di palla di piombo e, quando appunto si cominciarono a preferire
le bocche ferriere, sarà sostituito dal falcone. La cerrabatana o cer(re)batana o cierbotana o
cer(er)bottana o ciarabattana o serbatana o zer(a)batana o zar(a)bactana o zarabotana o
zarabatana o zebratana o cebratana; (zarabatana seu colverina… colovrinas seu
cerrebottanas… colloverinas seu cerebatanas…Angelucci); era questa una bocca da fuoco di
piccolo calibro, perlopiù di bronzo, da braga, cioè caricabile dal retro con mascolo, metodo di
cui poi meglio diremo; era inforchigliata e da usarsi, come anche il ribadochino, però là nel
genere delle canne petriere, specie nelle battaglie campali in coppia su carrette (ὲφέροντο δὲ
ϰαὶ ἐπὶ τῶν ἁμαξῶν τελεβόυλος ζαροβοτάνας ϰαλουμένας. Laonikos Kalkokondilos, De
rebus turcicis. LT. VII; … artilleria de campo, que llamavan cebratanas. Zurita T. 2-2, lt. XX, c.
XLVIII). Era lunga da otto a dieci piedi e lanciava palla di piombo dalle due alle tre libbre di
peso, era guarnita di una bacchetta di ferro (ad deprimendum ballotas intus… pro ballotas
intus deprimendas… Ib.), la quale, nonostante che in queste canne, come il mascolo carico di
polvere, anche la palla s’introducesse dal retro, doveva però certamente servire a spingerla
più indietro dalla bocca anteriore e non più avanti da quella posteriore, visto che quest’ultima,
essendo fatta a braga, cioè aperta solo nella sua sezione superiore, non poteva permettere
l’inserimento di una lunga bacchetta. A circa metà del Quattrocento quest’arma era molto
diffusa e di conseguenza gli specialisti cerbattanieri erano, se non numerosi quanto gli
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schiopettieri, certo tanti quanti gli springarderi e i sotospringarderi (Angelucci, Gli schiopp.
milt. P.34, nota 1 e p. 49):

… Ordinate le sue battaglie, pose il re di Portogallo alla fronte di quelle le sue zarabattane e i
suoi spingardieri (Zurita, Anales. LT. XIX, c. XLIV).

Dovevano però esserci zarabattane di calibro anche più piccolo del suddetto, perché nel
gennaio del 1453, durante l’assedio posto dai veneziani a Castione delle Stivere (poi
‘Castiglione delle Stiviere’) una loro pallottola, forato l’elmetto, si conficcò nel cervello di un
figlio del famoso capitano Erasmo da Narni detto il Gattamelata, cioè in quello dell’allora
ancora diciottenne Giovanni Antonio, senza però spappolarglielo all’istante come avrebbe
dovuto fare una pallottola di un certo calibro; anzi il giovane, dopo l’estrazione del detto
proiettile fatta da ottimi chirurghi di Lonado, ne venne miracolosamente fuori e addirittura
guarì (Cristoforo da Soldo, Memorie delle guerre contra la signoria di Venezia etc. In LT. A.
Muratori. Cit. C. 877, t. XXI. Milano, 1732).
C’era poi l’arcobuso (da posta), lungo da tre a quattro piedi, con palla di piombo da 6 oncie,
antesignano dunque dello smeriglio, anche questo fatto di due pezzi perché con caricamento
posteriore a braga, e infatti per esempio nel 1495 Siena pagò 224 lire al mastro fonditore
Giacomo di Bartolomeo Gozzarelli per 8 archibusi di bronzo, ognuno fornito di 3 chode
(Angelucci). C’era infine lo schioppetto (fr. coulevrine à main), arma da porto personale lunga
da due a tre piedi, con palla di piombo pesante dalle quattro alle sei dramme, ossia ottavi
d’oncia, predecessore dell’archibugio da braccio cinquecentesco; l’Angelucci (Gli schiopp.
Milt.) riporta un interessantissimo documento milanese del 1467, un conto di pagamenti
militari (in lire e soldi) sostenuti dagli Sforzia per l’impresa del borgo di Val di Tarro avvenuta
nel settembre di quello stesso anno:


Pagamento per uno maestro da bombarda per uno mese e mezo… libre 36 ss. ---
Item per duij maestri pichapietre per lo suprascripto tempo… libre 42 ss. ---
Item per duij schiopeti per li suprascripti maestri… libre 1 ss. 17
Item per lxxv schiopeteri a libre 15 per cadauno per mese e mezo… libre 1125 ss. ---
Item per schiopeti lxxij a ss. 18 l’uno per li suprascripti schiopeteri… libre 64 ss. 16
Item per portata (‘trasporto’) de dicti schiopeti ali maestri de legname… libre ---- ss. 3
Item per una stadera con j sacheto de polvere e due lanterne… libre 2 ss. ---

Da questo documento apprendiamo che s’armavano di schioppetto gli scalpellini (ctm.


picadores) dell’artiglieria, evidentemente per servirsene come fanti quando non impegnati a
cercare e sagomare palle di pietra (tlt. lapides rotondos) e che due schioppetti costavano
meno dell’insieme di una stadera, un sacchetto di polvere e due lanterne. Era questa un’arma
194
interpretata in maniere differenti a seconda del paese in cui era fabbricato; per esempio nel
1538 a Siena si diceva scopietto da onghari il tipo di cui sei anni prima i senesi avevano visto
andare armati i 500 schioppettieri dell’esercito del titolare del Sacro Romano Impero
Sigismondo, quando appunto costui si era presentato alla città in aiuto nella guerra che la
stessa sosteneva contro Firenze.
Che comunque in Italia si usassero nelle operazioni d’assedio ancora le grandi bombarde a
palla di pietra lo conferma anche il Diario di Giovanni Portoveneri, laddove ricorda l’assedio
pisano la fortezza di Ripafatta difeso dai nemici fiorentini, assedio avvenuto nell’aprile del
1496:

… E ad 17 d’aprile ditto il campo de’ pissani andò a Ripafatta per prenderla e dì 19 v’andò
(‘v’andarono’) le bombarde con boche otto tra picole e grande; la maggiore gettava libre
sessanta di pietra… E bombardossi el secondo e’l terzo dì di Pasqua di Resurressio… (Diario
di Giovanni Portoveneri, all’anno 1496.)

Furono i predetti dunque i principali tipi di bocche da fuoco che Carlo VIII si trovò a dover
affrontare in Italia negli anni 1495-1496, cioè un’artiglieria che, prima che si cominciasse a
invitare dissennatamente gli eserciti stranieri nella penisola, non aveva potuto avere né
esperienza né cognizione dei più recenti progressi della balistica europea; ce n’erano però
anche altri perché anche in Italia, anche se molto più lentamente, si trattava d’una scienza in
continua evoluzione, come conclude il di Giorgio di Martino:

… E di questi simili instrumenti ogni giorno si è trovato e trova più varie invenzioni traenti ad
un medesimo fine. (C. Saluzzo. Cit.)

L’artiglieria molto innovativa di Carlo VIII rappresentò uno spartiacque nella storia della
pirobolia; infatti dopo di lui essa si cominciò a dividere non più in due generi bensì in tre,
come poi vedremo.
Il metallo della bombarda doveva essere spesso un quarto, un quinto o un sesto del suo
diametro totale o altezza e, quantunque il bronzo fosse ormai la lega più usata perché
dimostratasi, anche se la più fragile, anche quella più lenta a surriscaldarsi, il famoso
architetto ancora preferiva rame e ferro:

… La bombarda dia (‘debba’) essere di rame o di ferro fatta, quantunque el più di bronzo
sieno e queste più facilmente si rompano e per la corruzione della materia frangibili sono
(‘siano’); e quando di rame sieno, essendo tenacissimo, (solo) per qualche strano caso o
inconveniente si spezzeranno e’l simile (quelle) di ferro farà (‘faranno’) per le vene, tiglio e
corpo suo. E per che, ciascuna di queste, misura richieda, è da sapere che quanto le
bombarde, spingarde e cerbottane più lunghe sono tanto più con furia e lontan gitta(n); e
massime la tromba sua col cannone a essa conveniente (ib.)

195
La carica di polvere che il di Giorgio di Martino prescriveva per le canne predette era di 16
centesimi del peso-palla per bombarde, mortari, cortane, comuni e mezzane, ossia per il
genere delle bombarde, di 10 centesimi per passavolanti, basilischi, cerbottane e spingarde,
di 50 centesimi per gli archibusi e infine di 80/100 centesimi per gli schioppetti. Premesso che
le suddette cortane non avevano nulla a che fare con i courtaulx già menzionati e dei quali
poi meglio diremo, si tratta qui, come si può capire, di regole dettate da semplice pratica e
destinate a ottenere tiri certamente deboli; probabilmente non era allora possibile l’uso di
cariche di polvere maggiori perché i pezzi avvitati sarebbero saltati e, per quanto riguarda le
bocche da fuoco fuse in un solo pezzo, essendo frutto anch’esse di un’ancora rozza
metallurgia pirotecnica, sarebbero crepati (cst. rebentados; sp. reventados). Abbiamo infatti
già detto che la crepatura delle canne era, nei primi secoli dell’artiglieria da sparo, incidente
più che frequente; ecco per esempio cosa si raccontava della rovinosa ritirata dell’armata
veneziana di Orsato Giustiniano nel 1464 dall’assedio di Metelino, perché questa era stata
soccorsa da un preponderante esercito ottomano:

… E’l general s’ha partido da Metelin per haver perso 5.000 homini che era su larmada e i
altri è rimasi feridi; non ha artigliarie, che ghe son crepade quasi tutte in l’assedio e la polvere
ghe è mancada… (D. Malipiero, Annali veneti. Cit. Parte prima, p. 28)

La polvere per le bombarde e i mortari dalle 200 libbre di calibro in su doveva essere
costituita da sette parti di salnitro, quattro di zolfo e tre di carbone; quella per le bombarde e
mortari minori, cortane, comuni o mezzane e spingarde da quattro di salnitro, due di zolfo e
una di carbone; infine quella per passavolanti, basilischi, cerbottane e archibusi otto parti di
salnitro, tre di zolfo e due di carbone:

… Ma per più intelligenza delle dette polveri è da sapere che dei passavolanti, cerbottane,
archibugi e massime degli schioppetti, il nitro debba essere affinato e il zolfo citrino (‘giallo’),
non nero vivo o terrestre, e il carbone nuovamente fatto. (F. di Giorgio di Martino in C.
Saluzzo. Cit.)

In verità era quello ancora un tempo in cui ogni bombardiero [tlt. bombardeirus; gr.
τηλεβολίσϰος; sp. artillero; fr. canonnier e coulevrinier; ing. gunner (‘canniere’); olt. Artillerist;
td. Büchßenmeyster, poi Constabel], in materia di formulazione di polveri, aveva una sua
individuale preparazione e sue proprie convinzioni dovute alla personale esperienza; alcuni
ancora pensavano che la miscela potesse ricever un potenziamento dall’aggiunta di quarti
elementi, quali mercurio, acquavite, salmiaco, canfora, carboni di legni diversi ecc. Il de Alaba
y Wiamont, ancora ai suoi tempi, sosteneva che, per quanto riguardava la migliore miscela di

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polvere da ottenersi, contavano soprattutto l’esperienza e il buon senso del polverista (el
verdadero maestro della y la regla más precissa que se puede dar en su composición es el
buen alvedrio y discreción del polvorista). Alcuni avevano addirittura provato a usare polvere
di fiori secchi invece del carbone; ma le tante diversità di opinioni a proposito delle dosi degli
stessi tre principali elementi, salnitro, carbone e solfo, avevano nel tempo portato a provare,
continuava il de Alaba, perlomeno 23 miscele diverse; eccole, dalla più antica alle più
moderne:

Parti per polveri medievali da bombarda: salnitro solfo carbone


1 1 1
3 2 2
10 3 3
12 3 2
9 2 3

Parti per polveri cinquecentesche.


Da schioppetto: 4 1 1
Da bombarda: 20 3 10
100 10 36
Polvere grossa: 100 20 37

Polvere fina (no muy antigua): 9 3 6


(il carbone di fiori di miroca, cioè forse di mirrofora).

Polvere grossa (más moderna): 2 1 1 (di salice)

Polvere di archibugio moderno: 3 1 1 (di salice)

Polvere fina moderna: 5 1 1


(salnitro raffinato molte volte; carbone d’avellano).

Polvere grossa moderna: 3 1 2 (di salice)

Polvere mezzana moderna: 10 2 3 (di salice)

Polvere moderna d’archibugio: 10 1 1 (di canapa)


(salnitro raffinato molte volte).

Polvere di moderno schioppetto: 27 3 4 (di canapa)

Polvere di escopeta más moderna y buena: 7 1 1 (di canapa)

Polvere di escopeta más fina y gallarda: 8 1 1 (di canapa)


(salnitro raffinato molte volte).

Polvere grossa moderna: 4 1 1 (di salice)


20 4 5 (di salice)
Polvere di moderno schioppetto: 48 7 (citrino) 8 (di canapa)
8 2 3 (di canapa)

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E in base a quanto suddetto facilmente s’arguisce che in ciò non può esser regola certa,
perché quella (polvere) che in certi tempi s’è approvata in altri si è riprovata, come si vede
dalla diversità delle polveri surriferite (D. de Alaba y Wiamont. Cit. p. 175).

Comunque, considerando detta evoluzione delle polveri nel passaggio dal Medioevo all’Età
Moderna anche con l’ausilio degli altri principali autori post-rinascimentali, si può senz’altro
osservare che all’inizio del Cinquecento si cominciò generalmente ad affermare, come
polvere grossa, cioè d’artiglieria ordinaria convenzionale, quella detta da tre-asso-asso, dove
asso sta per ‘uno’, e quindi tre parti di salnitro, una di solfo e una di carbone, talvolta con
variazioni tipo 3-2-1, ciò perché si era visto che polveri più ricche di salnitro raffinato e quindi
più potenti non erano tollerate dalle grosse ma sottili bocche da fuoco del tempo. Restavano
comunque in uso anche polveri più potenti, cioè la 4-1-1 per archibugi da posta a cavalletto e
altre come la 5-2½-1½, la 6-1½-1 o la 7-¾-1 per le piccole canne da fuoco portatili (p.e.
pulveris a zarbatanis), le quali erano anche allora in proporzione fatte di bronzo più spesso e
quindi erano più resistenti alle cariche di polveri (Nicolas Luillier, Livre de canonnerie et
artifice de feu etc. Parigi, 1561); per queste ultime canne l’Isacchi prescriveva persino una
polvere da 8-1-11, intendendosi per quell’ ‘11’ undici once di libbra (Giovan Battista Isacchi,
Inventioni […] nelle quali si manifestano varij secreti et utili avisi a persone di guerra e per i
tempi di piacere. Parma, 1579.) In seguito, con il progresso della qualità delle fondizioni e
l’aumentare degli spessori del bronzo, si passerà alla 4-1-1 e poi, dopo il tempo del Alaba,
alla 5-1-1, come più avanti vedremo.
La polvere andava calcata nella canna con un calcatore dopo avervi però inserito un
calcone [corr. in colcone, poi coc(c)one; cochiume; tlt. anche cancanus; fr. tampon] di legno
dolce, per esempio di salice o di pioppo, il quale, specie se il cannone era incampanato, la
poteva serrare molto meglio, perché in tale forma a campana s’andava a ben incastrarsi. Il di
Giorgio di Martino raccomandava di miscelare i componenti della polvere il più tardi possibile
perché zolfo e salnitro, posti a contatto, col tempo si guastavano a vicenda e inoltre
consigliava di conservare scorte di legno da tramutare in carbone quando questo fosse
richiesto e non di carbone già pronto, perché avrebbe assorbito umidità e si sarebbe
guastato. Dei predetti cocconi se ne richiedevano sempre in buon numero perché
naturalmente poco resistevano ai tiri di polvere (‘agli spari’) e quindi ne occorrevano sempre
di nuovi.
Nel terzo quarto del Quattrocento e cioè ai tempi della lunga guerra che, dopo la caduta di
Costantinopoli e la fine dell’impero bizantino, i veneziani condussero contro i turchi per
difendere la Morea, allora loro possedimento, a Venezia c’era un bravo fonditore capace di
costruire grosse bombarde, cioè un certo Tonin, e i generali veneziani di terra, quando si
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apprestavano a fare un’assedio, chiedevano al loro doge di ricevere qualcuno dei suoi lavori;
ma come s’avvitavano o svitavano i due pezzi di cui erano formate le grosse bombarde? Gli
autori letti non ce lo spiegano, ma alcuni disegni di quel periodo mostrano chiaramente, in
corrispondenza delle giunture tra i due pezzi, delle fasce dentellate nei cui intacchi
s’infiggevano stanghe di ferro, le quali, forzate a leva, facevano girare le impanature.
Tal’intacchi non si notano nelle bocche da fuoco minori, evidentemente perché costituiti da un
sol pezzo. L’avvitatura e svitatura dei pezzi suddetti non erano lavori per nulla agevoli e,
quando si rendevano necessari, non essendo competenza dei bombardieri, si
commissionavano a fonditori professionisti di cui quindi gli eserciti dovevano predisporsi la
disponibilità anche nei teatri di guerra.
Le principali caratteristiche dell’artiglieria medioevale, ossia le bocche da fuoco composte di
due pezzi avvitabili per facilitarne la fusione e il trasporto, ma con la generale
consapevolezza della loro minor potenza, dovuta all’inevitabile sfiatamento dalla
commessura; la suddivisione di queste bocche in petriere e plumbiere, in relazione alla
materia di cui erano fatti i proiettili che sparavano; la mancanza di regole balistiche e
metallurgiche certe e rigorose, il credere che più lunga fosse la canna tanto maggiore fosse
anche la gittata (ἐπίμηϰες δʹὂν͵ ὅσον δʹἂν εἲη ἐπιμηϰἐστερον͵ τοσούτῳ ἐπὶ μήϰιστον ἀφίησι
τὀν λίθον. Laonikos Kalkokondilos, De rebus turcicis, lt. V), il frequente preferire la fusione in
semplice ferro a quella in bronzo; il porre queste armi nel Trecento in batteria semplicemente
poggiandoli sul suolo, ma con un grosso pezzo di legno sotto la bocca per rialzo e un altro
fortemente conficcato in terra dietro la culatta per impedire il rinculo, dicendosi infatti in it.
piantar le bombarde; infine, pur essendo l’uso del diametro della palla come unità di misura
delle proporzioni iniziato già da dopo la metà del Quattrocento, il persistere della mancanza
di comprensione del nesso esistente tra spessore del metallo, potenza della carica e peso del
proiettile. Tutto questo è magnificamente esposto dal Promis con numerose e preziose
citazioni di molti autori medioevali, dalle quali s’evince molto chiaramente che tali
caratteristiche erano in gran parte appunto già osservabili nell’artiglieria della seconda metà
del Trecento – vedi a tal proposito la stupefacente descrizione d’una bombarda ordinaria fatta
nel 1376 dal veneziano Andrea Ramusio e appunto riportata dal Promis (Cit.). Di tali citazioni
del predetto studioso ci approprieremo il meno possibile, cioè solo quanto ci sarà necessario
a dimostrare il nostro discorso; il Promis infatti, nonostante l’ottimo lavoro di ricerca, non
comprese il netto distacco che c’era stato nel passaggio dall’artiglieria medioevale italiana e
quella moderna di concezione franco-tedesca, fatta conoscere in Italia dall’esercito di Carlo
VIII, anzi le confuse, come si comprende chiaramente da alcune sue affermazioni, specie là
dove quasi rimprovera al medioevale Francesco Maurizio di Giorgio di Martino di non aver
fatto menzione delle moderne colubrine o dei moderni falconi! In effetti il primo a trattare in
199
Italia di queste nuove artiglierie sarà Leonardo da Vinci, il quale alla fine del Quattrocento,
durante il suo periodo milanese, compilò un elenco di bocche da fuoco moderne, costituito
appunto per la prima volta da grandi colubrine, mezze colubrine, falconi e cannoni; tale
elenco trovasi nel cosiddetto Codice Atlantico Ambrosiano. Leonardo dà sì, di tutte le bocche
da fuoco da lui descritte, le misure e gli spessori, ma lo fa in una maniera e con una
terminologia tanto personali e insolite, non conoscendo evidentemente quelle professionali
franco-tedesche, da risultare totalmente incomprensibile ai più e pertanto non abbiamo
ritenuto utile trascriverne alcunché; c’è da notare però l’aggettivo francese che usa per il
cannone ferriero, in effetti la maggior (quasi) novità che anch’egli fu in grado di vedere
nell’esercito di Carlo VIII. La predetta suddivisione fatta da Leonardo sarà poi confermata dal
Giovio, il quale, nel descrivere l’innovativissima artiglieria dell’esercito di Carlo VIII nel suo
ingresso a Roma, mette appunto l’accento sui cannoni ferrieri trainati da cavalli:

… Ma soprattutto diedero gran maraviglia e spavento a ogniuno più che trentasei artiglierie
su le carrette, le quali con incredibil prestezza erano tirate da cavalli per luoghi piani e
diseguali; le maggiori d’esse, di lunghezza di otto piedi e di peso di seimila libre di bronzo, si
chiamavano ‘cannoni’, le quali trahevano una palla di ferro di grandezza quanto è il capo di
un huomo. Dopò i cannoni erano le colubrine, più lunghe la metà ma di più stretta canna e di
minor palla; seguivano i falconi di così certa proporzione, maggiori e minori, che i minimi
pezzi trahevano palle grosse come un melo arancio. Tutti questi pezzi erano inserti in due
grosse asse con le fibbie tiratevi sopra e, sospese con le loro anse, in mezzo dell’asse
s’aggiustavano a dirizzare i colpi. I piccioli havevano sotto due ruote e i grossi quattro, delle
quali quelle di dietro si potevano levare e (ri)porre per affrettare o fermare il corso; e con
tanta prestezza i lor maestri e carrettieri le facevano correre che i cavalli postivi sotto, incitati
dalle sferze (e) dalle voci, ne luoghi piani pareggiavano il corso de’ cavalli spediti. (P. Giovio.
Cit.)

Si trattava dunque di 36 bocche da fuoco, tutte da palla di ferro, e cioè 12 cannoni da breccia,
di un solo calibro secondo alcuni cronisti del tempo, ma più probabilmente di due, e 24 di
minor palla ma a maggior gittata che i cronisti italiani del tempo definirono perlopiù falconetti,
ma che dovevano esser di vario calibro e nome; quando invece lasciò Napoli si portò dietro
42 canne d’artiglieria, perché, pur avendo, come poi vedremo, lasciato in quella capitale
alcune pesanti bocche da fuoco d’assedio perché non più gli occorrevano e solo sarebbero
servite a rallentare di molto le sue marce, ne aveva però requisite alcune di quelle che
difendevano il regno di Napoli, alcune che evidentemente rispondevano ai più moderni
requisiti cercati dai francesi e di certo principalmente alla leggerezza e alla presenza di quegli
orecchioni che ne permettevano il traino veloce (Angelucci); naturalmente può darsi
benissimo che un maggior quantitativo d’artiglieria sia stato allora inviato in Francia via mare
con tutto il resto del più ingombrante bottino fatto a Napoli, magari su vascelli mercantili

200
genovesi noleggiati, risorsa alla quale i francesi ricorrevano sin dai tempi delle prime crociate.
Il 20 giugno però si presentò a Pisa con sole 37 bocche da fuoco:

… E ditto dì venne l’artigliarie del re; furono pezzi trentasette, cioè boche di bombarde tutte
su carrette e molte carrette di fornimenti di esse, come pallotte e polvere e altri fornimenti
appartenenti, circa carette cinquanta, tratte da sedici o quale (‘alcune’) venti cavalli, alcune
piccole da cavalli tre o quattro (Diario di Giovanni Portoveneri, all’anno 1496).

Il treno d’artiglieria veloce introdotto dai transalpini porterà poi naturalmente a un più
importante uso dell’artiglieria campale, la quale per tutto il Quattrocento era praticamente
consistito solo in quello delle zarabottane e dei ribadochini, dei quali però meglio diremo più
avanti; a quanto racconta nelle sue memorie Pierre de Bourdeilles visconte di Branthôme
(1540-1614), la superiorità francese in questo campo sussisterà comunque ancora nel 1512,
alla battaglia di Ravenna, perché in quell’occasione i fanti spagnoli, mentre erano tenuti al
coperto dei loro trinceramenti dal generale conte Pedro Navarro, si videro a un certo punto
così mortalmente bersagliati da alcune bocche da fuoco di campagna francesi da mettersi a
protestare e gridare: Matados somos del Cielo, vamos à combater los hombres! (Qua dentro
ci uccide il Cielo, usciamo e andiamo a combattere invece gli uomini!)
Per quanto riguarda l’artiglieria di campagna, la prima volta in cui se ne fa sicuro cenno è a
proposito della seconda battaglia di Olmedo in Castiglia, avvenuta nel 1467 tra il re Enrico IV
e l’arcivescovo di Toledo Alfonso Carrllo de Acuña, il quale appoggiava le pretese del
fratellastro del re Alfonso; nella Crónica del rey D: Enrique el Quarto a p. 191 si dice che al
centro dello schieramento dell’esercito del detto arcivescovo c’era una lombarda armata para
tirar á los primeros encuentros, il che non aveva l’esercito del re e ciò naturalmente
siugnificava che in campagna l’artiglieria non era ancora invalsa.
Il Promis cita anche il famoso incunabolo francese Le livre des faits d’armes et de chevalerie,
attribuito a Cristina da Pizzano (1365 - c.1430), manoscritto del quale esiste una traduzione
manoscritta in italiano alla Biblioteca Nazionale di Napoli, ma del quale purtroppo non ci è
riuscito di trovare una versione in lingua originale sufficientemente leggibile; di esso trae un
breve e un po’ confuso inventario d’artiglierie medioevali, in cui tutte le bocche da fuoco sono
chiamate per sineddoche generalmente canons ( da canons de trone, ‘canne da sparo’),
essendo in effetti la canna il loro principal elemento comune; ma deve trattarsi di opera tardo-
trecentesca, perché, come presto vedremo, negli inventari parigini del secondo quarto del
secolo seguente riportato dal Bonaparte nell’artiglieria francese il genere delle bombarde
sarà considerato altro da quello dei canons, comprendendo questo tutte le altre bocche da
fuoco. In Italia invece, come abbiamo visto, per cannone s’intendeva solamente la parte
posteriore delle bombarde.

201
In generale le artiglierie quattrocentesche erano molto più leggere di quelle che verranno nel
secolo successivo perché la poco evoluta metallurgia e le ancora troppo scarse conoscenze
di polveri e balistica non portavano certo né alla bontà delle leghe né ai maggiori spessori di
bronzo che si raggiungeranno poi nel Cinquecento. Riportiamo, a proposito dell’artiglieria
medioevale, un'altra interessante citazione dal Promis, questa di nuovo a proposito
dell’artiglieria medievale italiana, e cioè dal Libro di architettura del tardo-quattrocentista
Bonaccorso Ghiberti:

La tromba delle bombarde vuole esser lunga senza il cannone 7 pallottole e ½; altri dicono 8
ed è meglio, cioè 8 pallottole. E la grossezza del bronzo vuole essere il sesto del diametro
delle pallottole. E’l vano del cannone vuole essere uno poco più che la metà del vano della
tromba. La grossezza del bronzo del cannone vuole essere la metà del voto; vuole avere
grosso il fondo 1/3. (C. Promis. Cit.)

È questo del Ghiberti il più antico esempio che troviamo dell’uso del diametro del proiettile
per calcolare le giuste proporzioni della relativa bocca da fuoco, uso che poi, come vedremo,
diventerà generale in Europa. Per descrivere l’artiglieria medioevale è molto importante
riferirsi a quella borgognona del Quattrocento e quindi alla gran messe di documenti
borgognoni pubblicati dal Finot, il quale, ottimo e infaticabile ricercatore e analista proprio
come l’Angelucci e il Promis, però, anche come quelli, non si elevò – o più
probabilmente non si concesse poi il tempo – di elevarsi a precise e stringenti sintesi.
Inizieremo col dire che l’artiglieria del Trecento, la prima che il mondo vedesse, era ancora
ingenuamente destinata al lancio, sì di proiettili di pietra o di piombo, ma anche e soprattutto
di verrettoni e d’altri dardi da balestra, perché soprattutto per questo tipo di proiettili la polvere
da sparo era stata ai suoi inizi considerata utile. Quella italiana allora si divideva molto
genericamente in bombarde composite da mediane palle di pietra, in spingardelle o
bombardelle manesche monofuse da piccoli proiettili di ferro o da dardi e in schioppetti
portatili da pallottole (tlt. palloctae; ts. palozole) di piombo o di piombo con anima di ferro o da
verrettoni e l’unica evoluzione allora raggiunta era la già presente suddivisione della polvere
in da bombarda (tlt. a bombardis), da spingarda e da schioppo (tlt. a sclopo. Angelucci), cioè
per artiglieria grossa, per armi da porto ferriere e per armi da porto plombiere; anzi, in
documenti senesi del 1438 e del 1443 troviamo già una suddivisione in polvare comuna e
polvare sotile (ib.) In una relazione ferrarese del 5 aprile 1482 leggiamo che, nell’ambito delle
operazioni belliche condotte dai veneziani contro Ercole I d’Este duca di Ferrara, quelli
avevano inviato un grosso rifornimento di biscotto e spingardelle a Montagnana nel
Padovano con sette vascelli fluviali, dai quali poi s’erano caricati dei carri per l’inoltro finale:

202
… nave septe cariche de beschotto et de spingarde. Di li quale fureno caregate carri tri tute
de spingardelle longe forsi uno brazo e mezo; lo resto è bischotti. Et tute son state conducte
in Montagnana… (A. Angelucci. Cit. Pp. 266-267.)

Dunque le spingardelle veneziane a proiettile di ferro, fatte, come sappiamo, di due pezzi,
prime antenate del fucile assieme agli schioppetti, erano lunghe, secondo il calcolo
dell’Angelucci, circa m. 1,011.
Alla fine del detto secolo invece troviamo l’artiglieria borgognona già divisa in tre generi ben
definiti di cui stiamo appunto per dire:

Inventaire des courtaulx, bombardes et serpentines estans en l’ost devant Corbies (J. Finot.
Cit. Al 1392.)

Purtroppo i documenti dell’artiglieria borgognona pubblicati dal suddetto autore non


riguardano sostanzialmente anche la prima metà del Quattrocento e quindi dobbiamo
passare direttamente all’inattuato progetto di crociata del duca di Borgogna Filippo il Buono, il
quale, iniziato nel 1455 e abbandonato solo nel 1464 dal figlio Carlo il Temerario, si poneva
come principale obiettivo la riconquista cristiana di Costantinopoli. Dunque tra gli armamenti
elencati, tra il 1455 e il predetto 1464, come necessari alla spedizione in Medioriente notiamo
la seguente artiglieria e materiali connessi:

-… 8 bombarde guarnite dei lor affusti e mantelletti con gran copia di pietre, 50 serpentine,
tanto di ferro quanto di bronzo, 500 colubrine a mano, 12 lastre di piombo per farne pallottole
con gli stampi… carri di ribadochini provvisti di quantità di pietre, una gran quantità di
carbone di tiglio per farne polvere…
- … mémoria di Jean Roelant, cannoniere et portiere del castello dell’Écluse, indicante al
duca di Borgogna quale deve esser l’artiglieria per seimila combattenti destinati al viaggio di
Turchia, cioè: 6 bombarde piccole, portatili di cui 4 (che sono) al castello dell’Écluse possono
convenire, l’una delle quali avente una camera; ce ne sono anche di convenevoli al castello
di Lille dove troviamo anche da 7 a 8 veuglaires, ben valendo queste piccole bombarde che
hanno ciascuna una camera o due e che sono più portatili delle bombarde a un solo pezzo…
… per ciascuna bombarda deve esserci: un cavaliere o gentiluomo esperto del suo maneggio
con un garzone per far sollecitazione quando ciò sarà necessaria; un cannoniere e suo
garzone, un carpentiere e suo garzone, sei manovrieri per aiutare a puntarla, con un piccolo
mantelletto portatile, un affusto, 2 veuglaires portatili, 2 serpentine, 4 carri di ribadochini da
mettere in battaglia dove sarà necessario… polvere e pietre per l’artiglieria in proporzione…
(Ib.)

L’autore non doveva certo essere molto esperto d’artiglieria, se chiamava bombarde le
veuglaires e le canne a un solo pezzo. Troviamo menzionati i ribadocchini negli Annales dello
Zurita per la prima volta a proposito dell’assedio di Loja del 1482:

203
… Ganose un cerro que era muy importante para estrechar el cerco […] y assentaron en el
quatros tiros de pólvora, que en lengua francesa llamavan ribaudoquines… (t: 2-2, lt. XX, c.
XLIV.)

Ma, poiché in questo progetto s’accenna anche alla menue artillerie, ritornando a quanto più
sopra spiegato, ribadiamo che per essa s’intendeva anche e soprattutto correntemente non
solo le piccole armi da sparo, ma anche – e sino al Trecento soprattutto - archi, frecce, asce,
mazze ferrate, balestre e simili:

… quant à la menue artillerie, comme ars, fléches, haches, maillets, petites coulevrines à
main, petites serpentines à chevalet, le Duc en avisera avec son conseil…
… per l’esercito ci saranno anche da 6 a 8 mortari aventi ciascuno un affusto con un uomo
che sappia tirare…
- … lance getta-fuoco, pomi di fuoco ardente, un numero d’operai fabbri, carrellieri o
falegnami […] 5 o 6 barili di zolfo e salnitro di Francia, un barile di pece resina, della
trementina per fare fuoco sottile, pece resina per fare pietre da fuoco da tirare con i mortari,
vagli e mortai per far polvere […] una quantità di pallottole di piombo per le serpentine, da 20
a 30 pani di piombo, due teglie di ferro per fondere piombo, una dozzina di cucchiai di ferro
per attingere detto piombo, una grande padella di rame per fondere lo zolfo e le altre
sostanze (‘gomme’) […] per le grosse bombarde si abbiano tagliatori di pietre tonde ed
tornitori per fare i tamponi (‘cocconi’) e ‘du marien’ (‘dei mozzi’?), una quantità di pietre
ardenti per firar fuoco con i mortari e due o tre pomi di rame per ciascuno, poiché sono cosa
che, quando piomba sulle città, fa gran strage… un barile di grasso di porco per ingrassare i
carri etc. (J. Finot. Cit.)

Purtroppo l’annotazione del Finot è però in questo punto molto lacunosa. C’è anche
l’armamento di galere, sia borgognone sia francesi sia veneziane, e inoltre di caravelle
destinate a scortare la spedizione, ma è argomento che riserviamo ad altro nostro lavoro qui
limitandoci solo a dire che, oltre a balestre d’acciaio a mulinello (fr. à guindal), si prescrivono
bocche da fuoco di tutti i tipi già menzionati, tranne naturalmente dei più grossi e pesanti, e si
preferivano quelle a caricamento posteriore e quelle che si potevano incavalcare su forcelle.
A quest’epoca l’artiglieria era già molto evoluta e classificabile, anche se in verità ancora si
trattava di bocche da fuoco [ba(s)tons o engins à feu o à pou(l)dre] che nell’uso di guerra in
buona parte si rompevano e quindi si perdevano; il che avveniva soprattutto perché fuse in
spessori inadeguati alle cariche di polveri e nonostante già si usassero polveri differenziate a
seconda della tipologia di canne e del metallo di cui erano fatte. La polvere pirica era detta
genericamente poudre à canon, ma in particolare si chiamava così quella grossa per le
bombarde e i courtau(l)x; se ne usavano poi di più fini per le bocche da fuoco a proiettili
piombo e quindi c’era una polvere de veuglaire, una de serpentine e una de couleuvrine
(…poudre à canon pour coulevrines…) La preservazione delle polveri dall’umidità era già
allora un grosso problema, specie nei trasporti di campagna, ed ecco a tal proposito una
significativa registrazione contabile franco-borgognona del biennio 1479-1480:
204
… 100 caques pour la poudre et 100 tonneaux pour mettre les caques afin que la poudre soit
sous double enveloppe (Ib.)

Tutte le bocche da fuoco, anche i piccoli schioppetti da porto individuale, si gittavano


indifferentemente in ferro o in bronzo, mentre, anche se nei documenti medievali il bronzo è
spesso chiamato cuprum (tlt. ‘rame’) invece che aramen (lt. aeramen, ‘bronzo’) perché dal
rame in effetti per la maggior parte costituito, le artiglierie non si facevano ormai già più
anche in puro rame, perché metallo che, se non reso appunto più corposo e uniforme con
l’aggiunta di stagno o di lottone (da lattone, oggi ‘ottone’) da un risultato di fonditura
disomogeneo. In italiano comunque si diceva generalmente ‘bronzo’ (tlt. bronzium) solo
quando lo stagno contenuto era poco; ma quando questo superava il 12% (potendo arrivare
sino al 26%), allora gli esperti lo chiamavano bronzo fino o metallo; in spagnolo invece
bronzo si diceva comunemente bronce, mentre metal (con i sinonimi latón e azófar)
significava ottone. Molto dipendeva da quanto il principe committente voleva spendere e se
commissionava le sue artiglierie a un vero fonditore di leghe (fondeur) e quindi anche di
campane di bronzo, o a un battitore di ferro, magari un ex-fabbro calderaro, specializzatosi in
artiglierie di quel più semplice metallo (maître ouvrier de bombardes et courtaux de fer); a
volte un fonditore serviva anche da bombardiere (…fondeur et bombardier… Jean l’Admiral,
canonnier et fondeur de fer…) Generalmente le bocche da fuoco si gittavano ornate con
rilievi rappresentanti solitamente motivi floreali, iniziali del fonditore, nome e stemma gentilizio
del principe o del generale dell’artiglieria che l’aveva commissionate:

… un courtault de fer appartenant a l’évêque d’Utrecht, armorié des armes dudit évêque…
(ib. 1483-1484.)

Dalla metà del Quattrocento tutte le grandi e mediane, dette grosse artillerie, erano affustate
(affûté) in legno d’olmo o di quercia ferrato e poi istallate (assis) ognuna su un suo carro da
trasporto a 4 ruote (chariot), ma sino alla prima metà del secolo erano state solo ‘inceppate’,
cioè incassate su grossi ciocchi di quercia non ruotati o non incassate per nulla, cioè
semplicemente conficcate in un dosso del suolo preparato per l’occasione; infatti si diceva
allora in Italia piantare e spiantare le bombarde (… e venne a campo a Monte Isabre e lì
piantò le bombarde… An. Chronicon ariminense, Anno 1446. In LT.A. Muratori. Cit. C. 955, t.
XV. Milano, 1727). Interessante è a tali riguardi anche un documento del 5 febbraio 1418
riportato dall’Angelucci in cui si dava istruzione al referendario del duca di Savoia a Como,
Ardenghino de Beccaria, perché facesse appunto inceppare alcune bombarde del principale
castello di quella città, secondo le indicazioni che gli avrebbe dato a tal proposito il
bombarderio Zerbino (… pro incepando seu incepari faciendo certas bombardas…) Invece le
205
piccole canne da posta, dette artillerie menue, già s’incavalcavano su forcine girevoli, e le
usabili a braccia, dette invece artillerie légère, s’immanicavano in legno regolarmente per
facilitare il loro maneggio. Per quanto riguarda la sola materia di cui erano fatti i proiettili
allora usati, si differenziavano allora le artiglierie in canne petriere, cioè lancianti proiettili di
pietra (fr. pierres de canon), e canne plombiere, ossia le bocche da fuoco tiranti più piccole
palle di piombo [bal(l)ottine; fr. plommets), le più grandi delle quali perlopiù contenevano un
cubetto di ferro per diminuirne il peso complessivo e quindi la necessità di polvere, mentre
erano state dismesse quelle di solo ferro in voga nel precedente Trecento; ed ecco per
esempio in data 10 giugno 1485 un ordine di far fare con la maggior diligenza:

… jusques au nombre de xii à xiiii c (cioè ‘da 1.200 a 1.400’) habillemens qui se nomment
‘fers quarrez’ servant à plommés de serpentines et hacquebusses… (ib.)

I proiettili di pietra nella pratica si classificavano più facilmente per le loro dimensioni che non
per il loro peso, essendo più facile disporre sul campo di un’asticella o di una corda pre-
misurata, per prenderne il diametro o la circonferenza (itm. volta), che di una stadera; per
esempio il diametro in pollici di quelli dei piccoli ribadochini era di circa 2 pollici mentre quello
dei proiettili delle grandi bombarde arrivava anche a 13), Solo talvolta s’usavano proiettili
completamente di ferro e ciò avveniva già dal primo quarto del secolo precedente,
circostanza provata da documenti toscani del 1325-1326 raccolti dall’Angelucci; è negli anni
Ottanta del Quattrocento che in Borgogna essi si fanno più frequenti, anche se le canne
ferriere, cioè gittate espressamente a questo scopo, erano però ancora rare. Infatti alle date
22 e 24 giugno del 1486 vediamo registrata la commissione di un quantitativo di 300 boulets
de fer fatta dallo scudiero N. de Flament et Liênart, luogotenente del maître dell’artiglieria, a
mastro Zewert van Zeghe, fondeur de fer, al prezzo di 50 lire francesi; ed ecco un ordine di
consegna del giorno 30 successivo:

… à don Ladrón de Guevara, un courtault de métal qui a été fondu à Lille, armorié des armes
de l’Archiduc et qui jette fer… (Ib.)

Come si sa, nel 1477, alla morte di Carlo il Temerario, l’arciduca Massimiliano d’Austria
ne sposò la figlia Maria e divenne così signore di quella parte della Borgogna trasmettibile in
linea femminile. C’è poi un altro mandement, questo del 10 giugno 1488, che però il Finot
forse mal interpretò:

… d’envoyer à l’Archiduc en toute diligence quantité de pierres de fer pour les courtaulx et
pour la bombarde de Zutphen et de la poudre… (Ib.)

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Riteniamo infatti che lo scritto, forse perché fatto un po’ in fretta, omettesse di specificare che
i proiettili non dovevano essere tutti pierres de fer; e, se anche non si fosse trattato di un
errore di trascrizione, allora fu un errore originale dell’estensore, perché la bombarda di
Zutphen, come tutte le altre bombarde e come confermano anche altre registrazioni, lanciava
proiettili di pietra e non di ferro; per quanto riguarda invece i courtaulx, questi sì erano in
genere canne ferriere e c’è infatti, a proposito delle artiglierie dell’arciduca d’Austria, una
registrazione del 1492 in cui per la prima volta si parla di un gros courtault portant boulets de
fer de 9 pouces en croisés, quindi uno dei primi esempi di cannone a palla di ferro, ma d’altra
parte siamo ormai a un solo anno dalla discesa in Italia di Carlo VIII. In un’altra registrazione
non datata, ma nella quale, accanto a 16 courtau(l)x e a 12 serpentines compare anche la
novità di 24 fauconnaux, e che pertanto il Finot attribuisce all’inizio del Cinquecento, vediamo
anche l’approntamento di una partita di 160 boulets pesant chacun 80 livres de fer da
utilizzarsi con quatre gros courtaux; ecco dunque che questo genere (il mortaro in effetti)
poteva evidentemente essere usato sia come petriero sia come ferriero, a seconda del tipo di
proiettili per cui era stato fabbricato. Convenzionalmente si considerava la pietra avere un
peso specifico inferiore di circa due terzi a quello del ferro colato e questo averlo inferiore di
un terzo a quello del piombo fuso; naturalmente molto dipendeva dalla qualità dei materiali e
soprattutto da quella, molto variabile, della pietra usata.
Presto poi, nel triennio 1510-1512, il Finot troverà per la prima volta anche un mezzo-
cannone (un demi-canon nommé Bricorf), il quale fu trasportato da Malines a Thionville su un
treno di carri di un mastro-carrettiere di nome Mathieu Roullaude, unitamente a vario altro
materiale tra cui quarante double-arquebuses et 30 simples, trattandosi, i primi, o di
arquebuses à chevalet (‘a cavalletto’) oppure di arquebuses à crochet (o à crochez; it. da
rampo, ossia ‘da forcina, da cavalletto’), espressione in seguito spesso tachigraficamente
abbreviata in arquebuses à croc(q), e vedremo in seguito meglio cosa fossero; i secondi, dei
comuni archibugi leggeri da fante sostenibili con le sole braccia, armi corredate dal loro
fornimento (avec leurs cornets, boittacells et mèches). Quest’ultima distinzione si vede
espressa più chiaramente in una registrazione della metà del Cinquecento:

… 25 arquebuses à croc, 50 arquebuses à main… (ib. 1556-1557.)

Del primo genere d’artiglieria facevano parte soprattutto ancora le grosse bombarde, fatte
generalmente di due (ma talvolta anche di tre) pezzi di ferro o di bronzo, talvolta di rame
ricoperto di cuoio o di legno, di cui quello apicale era maggiore, svasato verso la bocca e
pertanto detto in Italia tromba, e quello posteriore, più sottile, avvitato strettamente nell’altro e
pertanto detto, oltre che cannone o coda, anche culaccio (fr. chambre). Ambedue i pezzi

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erano sostituibili quando fossero troppo usurati, il che avveniva soprattutto per quanto
riguarda il primo pezzo perché in esso avveniva lo scoppio della carica di polvere, ma per
svitarli occorreva un artigiano, fonditore o fabbro che fosse, perché non era lavoro che
potessero fare ordinariamente dei bombardieri. Tiravano proiettili di pietra grossi dai 12 ai 17
pollici di diametro e si trattava di bocche da fuoco nate in verità già nella seconda metà del
secolo precedente, ma solo ora usate in maniera intensiva.
Quando in versione piccola, le bombarde si dicevano bombardelle o bombardette e in
Borgogna, se gittate in un solo pezzo, si dicevano bombardelles toute d’une piéce, ma era
nome improprio e infatti in Francia, quando gittate in monofusione, le bocche da fuoco erano
considerate di un genere differente da quello delle bombarde e infatti non si dicevano
bombardes bensì canons; si trattava generalmente di canne di ferro fino a 10 pollici di calibro
ossia da proiettili di peso non superiore alla quarantina di libbre e, come abbiamo già detto,
ce n’erano anche di molto piccole, da porsi incavalcate perlopiù alle merlature e trasportabili
a spalla da un solo uomo, come si legge nel seguente documento comasco del 26 febbraio
1449, in cui si fa nota spese di un trasporto di 4 bombardelle con 14 proiettili fatto da 4
portatori (lt.arc. baioli; lt. bajuli) dalla nave lacustre Pagiola alla casa dell’ottimate Giannino
degli Albrizzi, perché fossero colà custodite in attesa che la medesima nave fosse pronta a
salpare per Cernobbio, luogo al quale esse erano in realtà destinate, e infatti dopo 13 giorni
di detta custodia erano state reimbarcate sulla medesima nave:

… Item quatuor portatoribus qui portaverunt bombardellas quatuor et qui portaverunt lapides
xiiij. de nave Pagiola usque ad domum ser Zanini de Albricis die xj. januarij…

I quattro facchini (lt. sarcinatores; tlt. gen. famuli) erano stati pagati all’andata con due soldi di
lira comasca e al ritorno, benché i proiettili di pietra fossero nel frattempo diminuiti a 8, con
soldi, perché naturalmente l’imbarco era lavoro più faticoso dello sbarco (A. Angelucci. Cit.
P.149.)
In Francia dunque, premesso il suddetto genere delle bombarde, tutte le canne da polvere in
monofusione, cioè in un solo pezzo, si dicevano canons, ma erano queste a loro volta
suddivise in due sotto-generi, ossia i v(e)uglaires e le serpentines (caricamento a camera) e
le coul(l)evrines, alle quali presto s’aggiungeranno anche i mortiers, (caricamento ad
avancarica). Il nome veuglaire, come del resto anche quello di serpentine, come poi
vedremo, derivava dal tedesco, in questo caso da Vogeler, il ‘serpente uccellatore’, cioè
quello che strisciava silenziosamente sui rami per afferrare gli uccelli che vi si poggiavano e
per razziare i loro nidi); erano di varia misura, grandi o piccole, e, mentre le bombarde, pur
essendo di due pezzi, si caricavano solo teoricamente a retrocarica, ma in pratica ad

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avancarica, cioè dalla bocca della tromba, per i motivi già spiegati, questi, i veuglaires, erano
a retrocarica effettiva; infatti la parte che si caricava di polvere non era una coda o culaccio
strettamente avvitato a quella anteriore, bensì una camera (ma detta in fr. egualmente
chambre) ansata, di diametro molto inferiore a quello della volée (‘canna’) e conficcata nella
parte posteriore della canna, la quale era per questo aperta da dietro, anche se si trattava di
un lume di diametro inferiore a quello dell’anima. La camera differiva dalla coda anche
perché non era, come questa, fissa e da staccarsi solo in caso d’usura o di trasporto, ma
prima di ogni tiro, perché era da caricarsi di polvere a parte, polvere tenuta davanti da un
tampone o coccone di legno, e poi, una volta caricato, era da incunearsi di nuovo
strettamente nell’apertura posteriore della canna, trattandosi praticamente di una ‘cartuccia’
di bronzo (fr. chambre de rame) riutilizzabile; pertanto ogni veuglaire era di solito guarnito di
un paio di camere, in modo che, per guadagnar tempo, se ne potesse caricare una mentre se
ne sparava un’altra. Questo tipo di bocche da fuoco però, a causa dell’evidente difetto dello
sfiatamento posteriore, comportante sia una diminuzione di potenza sia un potenziale
pericolo per i bombardieri, sarà dismesso nel primo quarto del Cinquecento per esser
sostituito dal sistema di caricamento posteriore detto da braga, cioè con canne che si
caricavano sì posteriormente, ma non più a mezzo di camere bensì di mascoli, sistema che
poi spiegheremo; in realtà non si poteva rinunziare a bocche da fuoco di questo tipo perché
erano molto utili all’armamento dei fianchi dei baluardi e delle anguste galere, quindi in quei
luoghi in cui lo spazio di rinculo era generalmente molto limitato, essendo però nel secondo
caso incassate, invece che in un carretta da campagna in una cassa di legno da marina.
Nelle galere italiane si chiameranno, nel Cinquecento, bombardelle di ferro da braga o da
mascolo e, nel Seicento, petriere da braga (vn. petriere con mascolo), trattandosi di calibri
generalmente da 12 a 14 libbre di pietra; il loro uso decrescerà sensibilmente nel Seicento,
come del resto quello di tutte le canne petriere in generale.
C’erano poi, tornando al Quattrocento, canne di diverse dimensioni, come i già menzionati
ribaudequins, piccole bocche sottili anch’esse in un sol pezzo, accoppiate sulla stessa
carretta, usate in battaglia come l’artiglieria d’appoggio alla fanteria, altre, grosse o medie,
dette courtauts o courtaulx [it. c(h)ortaldi; fm. scherfaussen; td. Fewrbűchssen; sp. cortaos],
alle quali abbiamo già più volte accennato; erano queste tutte d’un pezzo e talvolta di bronzo
(‘rame’), e si trattava in effetti di quelli che nel secolo successivo saranno detti mortari; cioè
bocche larghe e corte, fatte per tiri ad arcata, incassate su uno zoccolo non ruotato perché
non dovevano rinculare e sulle quali più avanti ci dilungheremo, limitandoci pertanto ora a
dire che essi avevano allora calibro molto vario dai 7 ai 17 pollici, essendo molto diffusi quelli
piccoli da 7 o 10, mentre, per quanto riguarda i veuglaires, le pietre difficilmente superavano i
10 pollici; molto più piccole, cioè di 2 pollici, erano poi le pallottole di pietra per i ribaudequins.
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Per quanto concerne i mortari, secondo lo storico bizantino coevo della caduta di
Costantinopoli Laonikos Kalkokondulos essi sarebbero stati addirittura un’invenzione di
Maometto II (1430-1481), il quale ne avrebbe pertanto fatto un primo uso quando, dopo aver
preso Bisanzio, attaccò la città bulgara di Burgas (lt. Novopyrgum):

… egli circondò la città e ne batteva l’interno con bombarde volte all’insù, essendo stata
ritrovata da quello stesso re la pratica delle bombarde puntate all’insù, e così la pietra era
scagliata in alto nell’aria e poi scendeva giù fino a colpire il luogo verso cui il bombardiero
l’aveva indirizzata, segno che l’innalzamento della pietra era certo accompagnato a colpire
l’obbiettivo anche dal demonio. Così gli assediati, colpita che fu in verità la città per parecchi
giorni, furono pertanto costretti ad arrendersi. (... αὺτὸς δὲ ἐπολιόρϰει τὴν πόλιν, τηλεβόλοις
ὑπτίοις βάλλων τὰ ἐντὸς τῆς πόλεως. ἐξεύρητο δὲ τῷ βασιλεἶ τούτῳ αὓτη ή τὦν τηλεβόλων
ὑπτίων ϰατασϰευή. ϰαὶ” ἐπαφίασι μὲν ἃνω ὲς τὸν ὰέρα τὸν λίθον, ϰαταβαίνων δὲ βἀλλει ἐς ὅ τι
ἂν ὶθύνοι αύτὸν ό τηλεβολιστἡς, σημεἲον ϰομιζόμενος, ϰαἲ δαιμονίως τυγχάνει τοὒ σϰοποὖ ὲς
τὸν μετεωρισμὸν τοῧ λίθου. οὕτω μὲν οὔν τὴν πόλιν τύπτων ἐπὶ ἡμέρὰς ἱϰανὰς ὴνάγϰασε τοὺς
ἐνοιϰοῡντας προσχωρῆσαι αὐτῷ. Cit. LT. VIII.)

Proseguendo poi nella conquista dell’impero bizantino, Maometto II assaltò Magoula di


Tegea (gr. ΠΙουχλὴ της Τεγέης) e Corinto, usando ora un mortaro, scrive sempre il
Kalkokondulos, che lanciava pietre di ben 7 talenti, cioè più di 200 chili; ma in verità ci
sembra veramente eccessivo e propenderemmo per un calibro inferiore di circa la metà (ib.)
Continuò poi a usare questi mortari anche nel 1462 alla presa di Mitilene:

… Aveva anche bombarde puntate all’insù che sparavano nella città e così spargeva
scompiglio tra i cittadini [Ἓχων ẟὲ ϰαὶ ὑπτίους τηλεβόλους ἒβαλλεν ἐς τὴν πόλιν, ϰαὶ ẟὴ
ἐθορύβει τοὺς ἐν τῇ πόλει (ib. LT. IX)].

E, più avanti, alla resa di Dobobike (‘Babiesa Ocsak’) in Bosnia:

… Spaventandone gli abitanti con bombarde verticali e orizzontali, concesse la resa alla città.
[… τηλεβόλοις όεδιττόμενος τοὺς ἐν τῇ πόλει, ὑπτίοις τε ϰαὶ τοῖς ἲσοις, παρεστήσατο τὴν
πόλιν (ib. LT. X)].

E’ comunque molto improbabile che i mortari fossero un’originale invenzione ottomana,


essendo stato quello un impero molto povero di tecnologia; è molto più probabile che i
mercenari tedeschi esperti d’artiglieria al soldo di questo sultano lo abbiano indotto
semplicemente a farne fondere e sperimentarne qualche nuovo tipo e ciò perché il tiro ad
arcata dell’artiglieria deve esser stato sicuramente il primo sperimentato nel Medioevo, sia
per la scarsa potenza delle prime polveri sia per naturale imitazione del getto delle petrarie,
ossia dei congegni lancia-pietre a contrappeso di cui abbiamo detto.

210
Per quanto riguarda invece i suddetti veuglaires, na vediamo una prima presenza in inventari
dell’artiglieria conservata nel castello parigino di Sainct-Anthoine negli anni 1428-1430,
documenti riportati dalla Revue archéologique e parzialmente anche dal Bonaparte:

- Un pavese bianco.

Il pavese era uno scudo di forma molto simile all’antico scudo rettangolare della fanteria
romana.

- 8 gran pavesi, dei quali 3 vermigli, con lo stemma di Francia e due foglie di zucca, e gli altri
5 bianchi.
- 2 altri pavesi bianchi, tutti piani (‘tous plains’).

Questo tous plains forse voleva dire ‘del tutto rettangolari’, cioè non con la solita parte
inferiore appuntita, da potersi infilzare nel terreno; insomma, più che due scudi, potevano
essere due mantelletti da riparo.

- 17 cannoni a mano (‘canons à main’) di cui due sono di rame e 15 di ferro, senza camere
(‘sans chambres’).

Si tratta dunque di coullevrines, dette in Spagna espingardas.

- 2 vuglaires piccoli affustati in legno, ciascuno guarnito di due camere.


- 14 camere da vuglaires.
- 6 piedi di capra (forse strumenti da tendere balestre).
- 5 mulinelli (‘tours’) per tendere arcobalestre grosse.
- 5 grosse arcobalestre da tendere, a mulinello (‘tour’) e a martinetto (‘vis’), ‘e sono molto
buone e ben incordate’.

Dunque le balestre grosse da postazione erano in Francia ancora in uso in un tempo in


cui invece in Italia non sembra trovarsene più notizia, come abbiamo già visto.

- 8 arbalestre medie (‘moyennes’) di cui due sono rotte e le altre sono abbastanza passabili
(‘assez passant’).

Ora si tratta di balestre di media grandezza, ma non si capisce se sono da postazione o da


armamento individuale. Forse erano individuali, ma da usarsi poggiate su di una forcina o su
di un cavalletto leggero.

- Una grossa e vecchia arbalestra da tendere, del tutto di nessun valore.


- 4 grandi archi di corno con i flettenti (’arbriers’) separati l’uno dall’altro, i quali sono di
poco valore.
- Mezza dozzina di vecchi archi di arbalestre ‘d’if’ (‘di tasso’) con i flettenti separati l’uno
dall’altro e sono di poco valore.
211
- 18 vecchie fionde a bastone (‘fionde astate’).
- Circa 200 cocconi (‘tampons’) tra grandi e piccoli.

- In detti armadi furono trovati sei corde, di cui 3 per lanciare con i congegni (‘engins’) […]
- In uno scaffale in alto dei detti armadi (‘En leitaige den haut desdictes armoires’) fu
trovato all’incirca un migliaio di quadriboli (’chausse-trappes’).

Mi sarei immaginato di trovare una tal riserva di triboli anti-cavalleria dappertutto, ma non
nella Parigi di un tempo in cui i francesi si vantavano di combattere appunto soprattutto con la
cavalleria nobiliare e stigmatizzavano quelle altre nazioni che usavano fanterie armate di armi
ignobili quali balestre e schioppetti.

- Fu trovata una gran pinza di ferro.


- 28 casse di dardi comuni (‘trait commun’) ferrati.

Trait è generico, ma qui dovrebbe trattarsi di dardi per balestra, perché l’uso dell’arco non era
molto apprezzato in Francia come lo era invece in Inghilterra; quindi o di verrettoni o di
muschette.

- Circa duemila dondainnes (‘verrettoni’ da balestre grosse), sia ferrate che


sferrate.
- Un migliaio di dardi comuni sia ferrati che sferrati.
- Circa Vᵉ (‘cinquecento?’) quadrelli (‘garrots’) piccoli (‘moschette; verrettoni’) in 5 casse.
- Circa duecento quadrelli grossi.
- Due pomi di rame da gettare fuoco.

Uno dei primi esempi di bombe a mano.

- 5 lance ferrate (‘con i loro ferri’).


- Una lancia da portare lo stendardo.
- 3 grandi vecchie selle da giostrare di nessun valore.
- Un vecchio elmo e un vecchio frontale (‘chanffrain’; protezione della fronte del cavallo).
- Un grande collare da cavallo da tiro.
- Circa cento palle di piombo (‘plommées’; da tirare con la fionda oppure a mano).

- Tutte le altre camere della detta torre a chiocciola furono già vieppiù (‘piecà’) bruciate dal
foco che si attaccò alla polvere di cannone che stava nella camera sopra a quella detta al
Joyaulx.
- Nelle terrazze di detto castello un vuglaire intelaiato in legno, gettante pietre da circa 6
libbre e con due camere.
- Un piccolo vuglaire d’un solo pezzo con camera (‘a toute sa chambre’), puntato verso la
porta di Sainct-Anthoine-des-Champs, gettante pietre di circa 4 libbre, intelaiato in legno.
- Un pari vuglaire puntato verso la strada e l’argine della chiesa di Sainct-Anthoine-des-
Champs.
- Un altro pari vuglaire puntato verso la torre di Billy.
- Un altro pari vuglaire puntato verso l’ostello nuovo.
- Nel cortile di detto castello fu trovata un vuglaire con due camere di rame.
- Sotto la tettoia coperta di tegole che si trova in mezzo del detto cortile del detto castello fu
212
trovata un vuglaire da due camere di rame, affustato in legno, gettante pietre di circa 20 libbre.
- Un altro vuglaire guanito d’una (sola) camera e d’un cuneo di ferro, affustato in legno,
lanciante pietre di 6 pollici circa.
- Un altro vuglaire affustato in legno senza camera, lanciante pietre di circa 5 pollici.
- Una canna (‘boete’) di ferro intelaiata in legno, lanciante 7 palle di piombo (‘plommées’) in
una volta.

- Sulla porta del detto cortile facente fronte alla via Sainct-Anthoine fu trovata un vuglaire
affustato in legno, senza camera, lanciante pietre di circa 5 pollici.

- In primis, sotto la porta del detto cortile da pollaio (‘basse-court’), andando verso i campi,
fu trovato un vuglaire intelaiato in legno comprensivo di camera (‘a toute sa chambre’),
lanciante pietre di circa 5 pollici di circonferenza.
- Sulla detta porta fu trovata un altro pari vuglaire senza camera e che lancia pietre pari
all’ultima precedente.

Quanto segue è tratto dall’inventario dello stesso castello compilato nel 1430:

- Iem, nella detta camera si trovarono due pomi di rame da gettar fuoco.
- Iem, nella detta camera furono trovate 5 botti (‘quaques’), di cui tre piene di polvere da
cannone (‘a canon’), la quarta e piena di quella polvere per circa un terzo e la quinta è del
tutto vuota.
- Item, circa 200 cocconi (‘tampons’) di legno di più sorte.
- Item. Circa 1000 piccoli cocconi di piombo.

- In una camera adiacente alla detta terza camera, nella quale è al presente l’artiglieria, si
trovò:
- 6 piccoli cannoni di ferro, di cui 5 sono a mano senza camere e la sesta è intelaiata in
legno.

Canne ‘a mano’ e ‘senza camere’, quindi dunque quelle a palla di piombo che in Francia
saranno presto dette coulevrines, in Spagna spingardas, a Bisanzio τουφέϰια o anche (corr.
di ἐϰηβολιϰά) e infine ἐλεβολίσκοι, in italia sono già detti schioppetti.

- 7 piedi di capra di ferro, grandi mediani e piccoli.


- 3 grandi e grosse arbalestre da tendere a martinello e a mulinello (‘a vis et a tour’)
in una delle quali i flettenti (‘l’arbrier’) sono rotti.
- 4 verricelli (‘signolles’) da tendere le balestre, di cui uno è grande, altri due medi
e uno piccolo e in parte spezzato.
- 4 tenieri (‘arbres’) di arbalestra molto comuni.
- 9 archi di arbalestre di più sorte di poco valore.
- 6 flettenti grandi per arbalestre di Turchia.

Non sappiamo come fossero queste grandi balestre turche; c’è da ritenere comunque che
‘flettenti grandi’ significassero che erano con caricamento a due piedi.

- 14 arbalestre sia piccole che medie, di cui 7 sono intere e quasi nuove e di ugual
fattura (‘façon’) e le altre 7 rotte.
- Un’altra arbalestra piuttosto grossa rotta.

213
- Circa 6 borse da fionde di corda senza bastoni, da gettar pietre.

Circa mille quadriboli.

C’erano anche nell’inventario di due anni prima e in pari numero; quindi l’uso che se ne faceva
non era per nulla frequente.

- 17 casse di dardi comuni ferrati.


- 10 casse di medie dondainnes (‘verrettoni da balestre grosse’) ferrate.
- 9 casse di dardi sferrati di vari tipi.
- Circa mezza cassa di grossi dardi in fattura di dondaines ferrate per grosse arbalestre.
- Circa 200 grossi quadrelli (‘garros’).
- Circa 300 piccoli quadrelli.
- Molteplici vecchi cavi di canapa da tirare congegni (‘engins’).

Ecco dunque un primo accenno all’uso di congegni d’assedio.

- 3 vecchie selle per giostare e per fare fatti d’arme.


- 2 cavalletti di legno da mettere a punto arbalestre.

Al disotto della porta esistente tra la seconda e la terza torre del detto lato e fronteggiante la
via Sainct-Anthoine si trovò:

- Due cannoni di rame con lunghi manici di legno per lanciare quadrelli.

Sono le spingardelle in un sol pezzo con le quali si tiravano infatti allora non solo pallottole ma
anche dardi da balestra.

- Un vuglaire e 8 camere da vuglaire sia medie che piccole.



E per quanto concerne tutte le altre camere della detta torre a chiocciola, esse furono arse
dal fuoco che s’accese nella polvere da cannone (cioè da coda di bombarda) che stava
nella seconda camera della detta torre a chiocciola.

- Nelle terrazze del detto castello furono trovati 3 vuglaires infustati di legno di recente.
- Furono trovate 9 camere di vuglaires.
- Nel cortile di detto castello sotto una tettoia coperta di tegole, la quale si trova nel mezzo del
detto cortile, si trovò un vuglaire con due camere di rame affustato in legno e lanciante pietre
pesanti circa di 20 libbre.

C’era già nell’inventario precedente.

- Sotto detta tettoia fu trovata una cassa di 5 o 6 piedi di lunghezza (ecc.)


- Dentro della cassa furono trovati circa 350 pietre di canons (canne in
monofusione) e di vuglaires (canne in due pezzi) di varie sorte e
grossezze.

214
- Nel detto cortile basso (’pollaio’), su i viali di quello, fu trovata un mortaretto (‘boete’) di
ferro con fattura di spingardella (‘canon’) intelaiato in legno e gettante 7 pallotte di
piombo in una volta (cioè a 7 canne, quindi un antenato dell’organo).
- Si sono trovati 4 vuglaires e 5 camere di vuglaires.

Da un inventario del castello di Beauté contenuto nello stesso registro del 1420 si trovano:

Nella sommità della torre: 2 piccoli schioppetti (‘canons a plomées’).

S trattava dunque di armi a pallottole di piombo. Segue un terzo inventario di detto castello,
questo del 1435, documento importante perché in esso leggiamo usato per la prima volta in
Europa il termine artilleries per indicare le bocche da fuoco (Et primierement s’ensuit la
declaration des artilleries et biens appartenant au roy nôtre seigneur…):

- 3 canons forniti di camere, cioè ciascuno di due camere, i quali stanno per esser istallati in
alto nel torrione.

Questi canons, a differenza dei precedenti, i quali erano schioppetti in monofusione, sono
dunque delle spingarde in due pezzi.

- 2 canons di rame (da) spingarda (‘espringal’).

Da notare il passaggio nominale dalla vecchia espringal medievale, congegno del genere
delle antiche balliste, cioè lanciante sassi, grossi dardi e pallottole di piombo, alla più
moderna piccola bocca da fuoco che sarà poi detta spingarda.

- 6 piedi di capra tra grandi e piccoli.


- 4 colubrine (‘couleuvres’) o cannoni (‘canons’) di ferro.
- Una piccola colubrina.

Ecco il nuovo nome francese di coulevrines che si da a quelli sinora chiamati canons o
canons de fer, cioè gli schioppetti italiani, e che verrà poi importato in Italia, ma colà
associandolo a bocche da fuoco molto più grandi.

- 2 arbalestre d’acciaio.
- 8 arbalestre di tasso intere, tra cui ce ne sono 3 grosse dette haussepiez (’alzapiedi’;
cioè di quelle che si caricavano tenendole ferme con ambedue i piedi).
- 12 arbalestre rotte.
- 10 archi d’arbalestre senza flettenti, rotti.
- Una piccola colubrina affustata in legno [‘Ung petit canons en boys’ (sic)].
- 10 flettenti senz’archi sia grandi che piccoli, tra cui ce n’è uno rotto di nessun
valore.
- 5 ingegni (‘congegni’) di legno da tendere arbalestre, di cui 3 sono interi e gli altri no.

215
- 5 argani di ferro, sia grandi che piccoli, da tendere arbalestre.
- 2 pezzi di legno d’un ingegno da cucchiara (‘à couillart’).

Per couillart s’intendeva quel congegno petriero che poi sarà detto trebuchet (‘trabucco o
trabucchetto’) e che poteva essere anche molto grande e potente.

- 2 crocchi di ferro per una scala di corda.


- 9 pari (‘ai suddetti’) sia grandi che piccoli, uguali.
- 44 casse di dardi da arbalestre sia grandi che piccoli, tanto da impennare che impennati e
ferrati e da inferrare.
- Un numero di spingarde (‘espringalles’) senza teniere (‘coffre’).
- Una quantità di corde da cucchiara (‘couillart’), per una o due.
- 3 attrezzi (‘engins’) di cuoio da caricare le pietre della cucchiara.

Probabilmente delle carrucole per sollevare alla cucchiara secchie di cuoio conteneti i
proiettili di pietra.

- 2 dozzine di mazzafrombole (‘fondes’) senza bastone.


- 3 libbre di filo d’Anversa con un numero di quadriboli.

Evidentemente i quadriboli si spargevano legati da filo sottile per poterli poi recuperare
prestamente.

- 3 vecchie selle da giostra con un vecchio elmo.


- Un grande armadio da metterci armature a 6 scomparti (‘cloaus’).
- Un barile e mezzo di polvere da cannone (‘colubrina ’) o giù di lì.
- Un grosso cannone (‘bombarda’) affustato in legno chiamato “il cannone della bastida”
con due camere di rame.
- Un altro gran cannone o bombarda di ferro di circa 6 piedi di lunghezza con 3 camere di
ferro.

Dunque i francesi, a differenza di italiani e spagnoli, preferivano chiamare canons le


bombarde o lombardas; per gli italiani medievali infatti cannone significava solo il pezzo
posteriore o coda della bombarda, pezzo che invece i transalpini, come sappiamo,
chiamavano chambre, ma prenderanno il suddetto uso francese in seguito alla discesa in
Italia di Carlo VIII, ma solo per le canne d’un solo pezzo, petriere o ferriere che fossero,
restando però escluse da questa nuova denominazione, oltre a quelle piccole per uso
personale, anche tutte quelle canne da postazione in monofusione e di metallo spesso,
perché in origine destinate al lancio di pesanti proiettili di piombo; queste ultime canne poi,
anche se convertite alle palle di ferro, resteranno categoria a sé col nome collettivo di
artiglierie del terzo genere, ma non prenderanno mai il nome di cannoni.

216
- 2 lanterne da far luce sulle mura.
- Un cannone a 7 fori (‘troux’) senza camera che si trova nel ‘cortile basso’, lungo circa una
spanna.

Corta multicanna a 7 fori posteriori perché da innesto camera a 7 bocche; la troveremo


ancora esistente in quest’armeria in inventari molto più tardi. Un tipo di bocca da fuoco che
poi nella seconda metà di quello stesso Quattrocento, anche se ormai poco usato, prenderà il
nome di organo o organetto, arma di cui abbiamo già detto.

- 5 cannoni (‘bombarde’) sia grandi sia piccoli, tra i quali ce ne sono 3 con due camere
ciascuno e gli altri 2 con 3 camere ciascuno, posti (‘seans’) nel ‘cortile basso’.

- Una cassa piena di pietre da cannone.
- 3 grosse pietre da bombarde.

‘Sensuit la déclaration d’autre artillerie estant en la dict bastide […] par Guillaume de Troyes
garde des artilleries du roy nôtre sire.

Troviamo ora per la prima volta il termine artillerie non solo in Francia ma anche in Europa,
come abbiamo più sopra già accennato.

- Primieramente 6 colubrine (‘coulevres’; ‘schioppetti’)), una delle quali è rotta.


- 7 quarti di libbra di pietre da vuglaires.
- 7 quarti di libbra di cocconi (’tampons’) per i detti vuglaires.
- 12 pavesini.

Non si tratta di biscotti ma di scudi, cioè dei pavesi più piccoli di quelli normalmente usati
dalle fanterie.

- 20 libbre di filo d’Anversa.



- 100? cavalletti (‘tourteaux’ invece di ‘treteaux’) da lanterne.
- 6 cavalletti da colubrine (‘couleuvres’).
- 2 lance rotte.

Il Bonaparte fa seguire poi un inventario dell’artillerie reale francese del 1463, dove la novità
è che le bocche da fuoco si differenziano ora ufficialmente in bombardes e canons, nomi che
fino a una trentina d’anni prima abbiamo visto invece usare indifferentemente, ma che ora
distinguono chiaramente le bocche da fuoco in due o più pezzi da quelle in monofusione,
anche se a mascolo o a braga (come si dirà più tardi):
A Parigi:
217
Bombarde di ferro.

- La grossa bombarda di ferro di due pezzi chiamata Paris.

Seguono una serie di volées di ferro, ossia di trombe di bombarde prive di coda (fr. chambre)
e dotate ognuna di nome proprio:

- La volée de ‘La ‘Maggiore del mondo’.


- La voléè della Daulphine.
- La voléè della Realle (sic).
- La voléè della de Londres
- La voléè della de Monstreau
- La voléè della Medée
- La voléè della de Jason

Cannoni.

- Uno dei levrieri di ferro d’una pezza (‘bocca da fuoco’).

Le due maniglie superiori che si applicavano alle canne d’artiglieria per poterle sollevare
agevolmente non erano sempre e dappertutto a forma di delfini; spesso erano sculture anche
più belle, rappresentando di solito dei levrieri in corsa.

- Cannone di ferro Barbazan di un pezzo.


- Cannone di ferro Labyre di un pezzo.
- Cannone di ferro Flavy di due pezzi.
- Cannone di ferro Boniface di due pezzi.
- 2 piccoli cannoni di ferro e loro mascoli (‘chambres’).
- ‘La grossa serpentina di bronzo (‘de fonte’) che fece Guerin Payge.’
- ‘Un altro cannone di ferro di due pezzi che è stato stoppato e che fece Colin Robin ed è
all’incirca della grandezza della Flavy.’
- 2 piccoli e corti vuglaires di ferro di nuova fattura.
- 2 vuglaires e 4 serpentine di ferro incassati in legno e portate da Meaux.
- 5 gran pavesi con la Croce bianca di nuova fattura.
- 25 piccoli pavesini di tre colori.

Questi piccoli pavesi erano ‘di tre colori’, ma non nel senso che si differenziassero tra di loro
per il diverso colore, bensì nel significato che erano dipinti con tre colori, probabilmente il loro
fondo era interzato in palo, cioè tripartito in senso verticale.

- VIXX V (85?) pavesini a forma di goccia (‘a goutied’) anch’essi con la Croce bianca.
Probabilmente erano scudi da astati, cioè assottigliati in alto e arrotondati in basso.
218
- Circa 300 pali ferrati per recintare un parco (‘recinto’, d’artiglieria).
- 3.000 archi dei 6.000 acquistati ultimamente.

A la bastille (‘bastida’) Sainct-Anthoine.

- 2 cannoni di ferro chiamati ‘i consoli’, guarniti dei loro mascoli (‘chambres’) e di pietre.
- 8 colubrine, di cui 4 pesanti ciascuna 200 (libbre) e le altre 4 ciascuna 60.
- 48 cavalletti dei suddetti.
- 3 migliari (di libbre) di polvere grossa da cannone.
- Un migliaro di polvere da colbrina.
- Una dozzina di mantelletti (‘pavais’) da farne pavesini.
- 12 arbalestre d’acciaio guarnite di corde (‘tigoles’) che furono prese nell’officina del
defunto Jean Aubry e non furono pagate.

Le balestre d’acciaio erano di quelle grosse da postazione.

- 4 altre arbalestre grosse dette ‘di Romania’ (‘di Grecia’) che furono guadagnate a Rouen.

Evidentemente queste erano di tipo bizantino o turco.

- Circa 2.500 verrettoni grandi (‘dondaines’) e quadrelli (‘traicts’) comuni.


- Circa 248 (libbre) di piombo per fodnere pallotte (‘plomées’).

‘E da ciò che fu lasciato dagli inglesi:’


- Un grosso vuglaire di ferro affustato in legno aventi 2 camere di bronzo.
- Un altro vuglaire di ferro più piccolo e più corto di camera, ugualmente affustata in legno.
- Ancora un altro vuglaire di ferro più piccolo ma più lungo, anch’esso affustato in legno.
- E 5 altri piccoli vuglaires di ferro.

Al bosco di Vincennes.

- La bombarda chiamata St. Pol di ferro e di un pezzo.

Bombarda è dunque qui nome improprio perché di un solo pezzo.

- La coda (‘chambre’) de ‘La maggiore del mondo’.

Perché questa coda si trovasse tanto lontana dalla sua suddetta volée non sappiamo.
S’usava attribuire un nome proprio alle grandi bombarde, spesso trattandosi del luogo di
provenienza o dell’assedio in cui era stata guadagnata al nemico, e quindi troviamo la

219
Bergière, le Bergier, la Cordelière, la Namuroise, la Zutphen o Zuytphen, la Damvillon, la
Veure, la Volquesloin, quella di Luxembourg, quella di Edimbourg, la Griete, la Michault, la
Volstain, quella di Venloo, quella di Beaumont, la Valenciennes, quella di Bohain, quella
dell’Artois, questa di calibro 16, l’Ath di calibro 13 ecc. Le ultime due, delle quali la prima,
quell’Artois, già esisteva nel 1466, verso il 1479 risultavano ambedue colorate di rosso.
Consigliamo al lettore di osservare i bei disegni di alcune antiche bombarde pubblicati
nell’Ottocento dall’ottimo Figuier nel suo L’artillerie ancienne et moderne, in cui anche cita più
volte un interessantissimo trattato di artiglieria del Quattrocento, documento che ai suoi tempi
era conservato alla Biblioteca Imperiale di Parigi al no. 4653.
Dalla Cronica di Napoli del notar Giacomo all’anno 1438:

… e fece sparare la dicta bombarda nominata ‘la Messanesa’…


… posse foco ad una bombarda chiamata ‘la Paza’… (p. 83. Napoli, 1845.)

Nomi più formali e meno curiosi sono poi quelli di alcune bombarde napoletane del 1476
elencate in quel codice parigino PET FOL ID-65 di cui abbiamo più sopra già detto e cioè:

Generale
San Giorgio
Alfonsina
Napoletana
Reale
Guglielma
Vittoria
Vipera.

Nel 1496 Pisa, assediata dai fiorentini che la bersagliavano con passavolanti, rispondevano
con due grosse bombarde, di cui una di nome Fregossina da 300 libbre di pietra, e con una
bocca ferriera, cioè un grosso passavolante detto dai fiorentini il Bufalo e che si poteva
quindi, per le sue dimensioni, considerare un basilisco:

… e se non fusse che pisani si trovòno ditta pessa d’artiglieria, ‘sì grossa e buona che tirava
libre sesanta di palla di ferro colato, la più furiosa cosa sia oggi in Italia, in modo che firentini
le hano posto nome ‘el Bufalo, inperò rompieva le mura e dipoi la palla volava per el campo
de’ firentini e ammassava molti (Diario di Giovanni Portoveneri, all’anno 1496).

Si trattava di artiglierie che i pisani avevano avuto dai loro alleati francesi, i quali le avevano a
loro volta prese agli stessi fiorentini; di altre grosse bocche da fuoco fiorentine i pisani
s’impadroniranno nel settembre del 1499 (ib.):

220
… Ed ad 8 d’ottobre ditto vene in Pissa la tersa bombarda grossa che fu de’ firentini, la quale
si pescò in mare, ed era di tre pessi, molto grande e grossa, chiamata ‘Colombina’ overo
‘Uliveta’ (ib.)

Fatiche però alquanto sprecate, perché si trattava di bocche da fuoco che stavano
velocemente divenendo obsolete a seguito della discesa di Carlo VIII. Era infatti accaduto
che i fiorentini avevano perso in mare un carico di artiglierie:

… Ed in questo mezzo mandorono alla volta di Livorno le barche con la detta artigliaria,
quale, essendo per contro alla Torre Nuova e sorta gran tempesta, le ributtò in dirieto e alle
piagge un poco lontane dalla Foce andorono ad traverso ed annegorono sedici omini di detti
navili, in li quali intendemo essere state caricate dieci peze de artegliarie grosse, dellel quali
insino ad questo giorno ne avemo pescato e condutti in città tre pezzi, videlicet, il basalischio
grande di Livorno, la Colombina e Mazzocchina, bombarde grosse. Le altre artigliarie, per
contro la vernata, non (si) possono né cercare né trovare; alla primavera futura chi ci ha tratto
queste tien per certo troverà e caverà le restante (An. La guerra del Millecinquecento, in
A.S.I. Tomo VI, parte II)

Questa consuetudine di ‘battezzare’ le più grosse bocche da fuoco – o perlomeno di


distinguerle dalla loro provenienza - durerà a lungo e infatti la ritroviamo ancora in un
inventario d’artiglieria della città di Malines del 1522:

… une bombarde de métal nommée la belle Catherine, une bombardelle nommée Austriche,
deux groz courtaulx nomméz ‘scherfaussen’, trois courtaulx diz de Aernhem avec un venant
d’Allemagne, deux autres courtaulx nommez l’un de Lyon et l’autre la Pucelle, une serpentine
gagnée sur les Franchois, une bombarde nommée Ath etc. (ib.)

E in uno molto più tardo, cioè del 21 giugno 1553, che riguardava la città di Thérouanne
(Calais), leggiamo:

… une culverine renforcée appelée ‘Madame de Buisson’… (ib.)

A proposito poi della più volte già menzionata bombarda di Zutphen, traduciamo ora un
interessante mandement del 1° luglio 1488 dato a Laurent Le Mitre, ricevitore dell’artiglieria,
ci informa del corredo principale necessario a una grossa bocca da fuoco di questo tipo in
quell’epoca:

… di far, subito dopo aver ricevuto quest’ordine, caricare su barche la bombarda di Zutphen,
la sua camera, i due carri e la cassa delle minuterie (‘servant’), con il parafuoco (‘écran’),
congegni di sollevamento (‘engins’), mantelletto e pietre che si trovano a Tenremonde e di
farle portare per via d’acqua davanti Anversa fino a Hulst… (ib.)

221
Troviamo due nomi di grosse bombarde veneziane giù nel corso della guerra di Chioggia
(1378-1381):

… la Torre Nova […] fu ottenuta per due grosse bombarde, l’una detta ‘la Trivisana’, che
gettava pietre di peso di libre 195, l’altra detta ‘la Vittoria’, che ne gettava di peso di libre 140
(Daniello Chinazzo, Cronaca della guerra di Chioza etc. In LT.A. Muratori. Cit. C. 755, t. XV.
Milano, 1727).

Nel 1543, alla guerra tra veneziani e sforzeschi, i primi avevano, tra le loro bombarde
bresciane e cremonesi, una molto grossa che si chiamava la Liona e che necessitava di 50
paia di buoi per il traino suo e dei suoi materiali (Cristoforo da Soldo, Memorie delle guerre
contra la signoria di Venezia etc. In LT. A. Muratori. Cit. C. 882, t. XXI. Milano, 1732);
abbiamo, come si ricorderà,. già trovato questo nome a proposito di una bombarda inclusa
nei preparativi bellici che saranno poi fatti, questa volta però dai milanesi, nel 1472; quella
però sarà probabilmente più grande perché avrà bisogno di 68 paia di buoi per il suo intero
carraggio.
Per concludere comunque quest’argomento dei nomi propri ecco quelli di disorbitanti
artiglierie portoghesi e spagnole del Cinquecento ricordate dall’Ufano:

Il Gran tiro di Dio da 100; un cannone ferriero bastardo dall’anima seguita, dallo spessore di
una colubrina ma dalla canna più corta e dal calibro maggiore, del tipo quindi dei asilischi, il
uale si trovava a difesa del castello di S. Giovanni di Lisbona; era stato gittato nell’isola
indiana detta “isola di Dio” dai conquistatori portoghesi di Goa perché se ne facesse omaggio
al re Sebastiano I (1557-1578). Pesava 182 quintali di libbra e mezzo, era lungo 25 bocche e
si caricava con 80 libbre di polvere grossa o 60 di quella fina. Al tiro orizzontale poteva
colpire un bersaglio alla distanza di 750 passi andanti comuni da 2 piedi e mezzo ciascuno e
al tiro elevato a 45 gradi 8.900.
La Serpentina di Malaga da 80 libbre di calibro; nome e calibro ci dicono che anche questa
bocca da fuoco era un grossissimo cannone ferriero e non aveva quindi nulla a che fare con
le piccole serpentine medievali. Pesava 150 quintali di libbra e s’usava con cariche da 64
libbre di polvere grossa o 48 di fina; gitatte: 650 – 7.650 circa. Questa bocca da fuoco, ai
tempi dell’Ufano, non si trovava più a Malaga bensì alle fortificazioni di Cartagena, dove era
stata trasferita a causa del suo eccessivo fragore; spaventava infatti tanto le donne da far
abortire quelle gravide.
Il San Juan di Almarza da 70 libbre, cannone bastardo, colubrinato e, poiché anche
rinforzato, più che un cannone si poteva dire una colubrina bastarda; pesava 140 quintali e
aveva gittate di 680 – 8.000. Gittato a Costantinopoli, era stato abbandonato dai turco-
barbareschi nel 1563, quando si erano ritirati dall’assedio di Mazalquivir (‘Mers-el-kibir’);
allora era chiamato Bazorque (‘diavolo’) dai cristiani, come racconta l’Ufano.
l basilisco di Malta, colubrina bastarda dalle stesse misure della canna precedente, infatti
anch’essa gittata a Costantinopoli e conquistata ai turchi dai cavalieri gerosolimitani. Era
lungo 24 bocche o calibri e aveva alla culatta la grossezza di un calibro, era decorato da
bassorilievi rappresentanti mezze lune e archi da frecce.
La Victoria di Milano, colubrina da 48 che pesava 128 quintali;
La Pimentela di Milano, colubrina da 45 che pesava 120 quintali. Gittata: 740-9.000.

222
Il tricchetracche, multi-bocca che si trovava all’ingresso del Castel S. Angelo di Roma; aveva
5 bocche da 3 libbre che potevano sparare tutte insieme o una alla volta, come si voleva.
Erano canne da falconetto bastardo rinforzato, in quanto lunghe solo 31 calibri ma con
spessori maggiori di quelli che aveva il falconetto ordinario.,

Si dicevano meraviglie anche della Diavolessa, colubrina di Bolduque nei Paesi Bassi, e di
un’altra del Castello del Salvatore a Messina. Tornando ora ai due generi in cui si divideva
l’artiglieria quattrocentesca prima di Carlo VIII, diremo che il secondo genere di canne,
genere detto in francese canons, comprendeva, per quanto riguarda le canne petriere a
caricamento posteriore, oltre ai normali veuglaires, anche dei piccoli veuglaires, cioè le già
menzionate serpentine, canne di dimensioni intermedie tra i veuglaires e le collaverine (poi
dette coloubrines), essendo però quest’ultime armi non di postazione bensì di dotazione
personale. Questo nome non era altro che una fantasiosa versione francese del td.
Scharpffentin(lin), versione corroborata dall’essere la maggiore delle canne di questo
secondo genere dei canons, cioè il passavolante, chiamata in tedesco appunto Schlange
(‘serpente’), nome che poi, divenuto obsoleto quello, passerà alla colubrina. Queste
serpentines, dette talvolta in Borgogna anche jacqmins, avevano dunque lo stesso sistema di
caricamento posteriore a camera che abbiamo già spiegato per il veuglaire.
Proprio perché facevano in realtà tipo unico con le veuglaires e le coloubrines (quelle
medievalida fante, s’intende), condividendone il tipo di retrocarica a inserimento di camera e
il proiettile di pietra, le serpentines finirono per dare il loro nome a tutte quelle canne, le quali
si divisero pertanto, convenzionalmente, in serpentine ‘grandi’ (cioè i veuglaires), ‘medie’
(ossia le serpentine propriamente dette) e ‘piccole’ (fr. serpentinelles, cioè le coloubrines). Le
più grandi arrivavano a pesare circa mille libbre di bronzo e al calibro di 32 libbre di palla di
piombo, ma molto usate erano quelle medio-piccole da circa 250 libbre di peso; per esempio
al tempo della suddetta battaglia di Montlhéry del 1465 troviamo inventariate serpentine
pesanti solo 250 libbre e negli stessi anni vediamo fornite al duca di Borgogna 4 serpentine di
bronzo per un totale di 1.471 libbre borgognone, due di ferro, evidentemente più grossi, per
un totale di 1.414 libbre (ib.) e un’altra di ferro pesante 660 libbre e chiamata la Blanche
Serpentine, perché evidentemente colorata di bianco; in seguito, non usandosi più, dalla
prima metà del secolo successivo, quelle grandi, ossia i veuglaires, il già menzionato
Fronsperger le dirà nel suo principale trattato di 200 libbre circa. Queste canne s’usavano
anche a salve per dare una potente sveglia nei quartieri e ce n’erano un paio di tipi di piccolo
calibro che si differenziavano dalle comuni, cioè i tumereaulx, piccole bocche che già
troviamo nel 1468 e che precorrevano i tempi perché à oreillettes, cioè provviste di piccoli
orecchioni con i quali poggiavano equilibrate su carri leggeri, ossia col sistema che poi si
vedrà generalizzato alla fine del secolo nell’artiglieria da campagna di Carlo VIII, e i crapauds

223
d’eaux (‘rospi’), canne petriere in due pezzi, cioè del genere delle bombarde, con la coda
affustata, con una maniglia di ferro a forma di coda per orientarle, delle quali, poste su un
cavalletto invece che affustate, s’armavano molto i vascelli e di cui in seguito ancora diremo.
Anche le grosse serpentine, come pure le grosse bombarde e i grossi courtaulx, spesso
portavano un nome proprio; nel 1492 ne troviamo una di ferro chiamata Saint Georges, nel
1484 una battezzata la Gérarde e nel 1486 una detta de Nancy.
C’erano inoltre gli hacquebusses o arquebuses à tirer sur chevalet, canne incavalcate e da
postazione di piccolo calibro, talvolta di solo rame, ma comunque anch’esse suddivise in
grosse e mediane; le più piccole erano quelle rette da una forcina e che abbiamo già visto
chiamarsi arquebuses à croc, le quali erano dette invece in Francia coullevrines a crochet.
C’erano ancora in questo secondo genere i perdriseaux, serie di piccole canne affiancate
dette in Italia, come già sappiamo, organi o organetti, e infine le ancora più piccole colubrine,
bocche di ferro in un solo pezzo, incavalcate anch’esse su cavalletti o, le piccolissime, cioè
quelle da braccia immanicate in legno, dette queste in fr. c(o)ulevr(a)ines à main; si tratta
infatti di un nome anch’esso di origine francese, come ci informa il Simoneta nella sua storia
delle gesta di Francesco I Sforzia a proposito dell’assedio di Ponte Vico del 1453:

… donec miles quidam in limine ipso ruinae obstinate persistens aeneo instrumento, quod
‘colubrinam’ galli vocant, ictus cecidit… (G. Simoneta, Historia de rebus gestis Francisci Primi
Sfortiae etc. In LT.A. Muratori. Cit. C. 656, t. XXI. Milano, 1723.)

Che in origine il nome colubrine fosse in Europa solo delle più piccole armi da fuoco, cioè di
quelle che in Italia saranno poi dette schioppetti, è dimostrato anche da una di quelle tante
tipiche sopravvivenze linguistiche isolane che presenta la lingua inglese; nel Cinquecento
infatti in Inghilterra l’handbusse, cioè l’arma da fuoco della fanteria o degli schioppettieri a
cavallo (che anche in quell’isola nulla aveva a che fare con l’hackbusse o hackbutte, ossia
con quell’arma da postazione) continuò a esser comunemente chiamato appunto anche
caleever e caliver; ma comunque basta leggere a questo proposito il già citato storico
quattrocentesco Bartolomeo Facio:

… Trovasi (oltre alla bombarda) un’altra sorte di artigliaria detta (per esser lunga e sottile)
‘colubrina’, assai peggio della sopradetta, la cui palla vien tratta così velocemente che non
può esser da alcuno veduta; e prima uccide che mostri ch’ella habbia ferito. Le canne sono
simili et anco se ne trova delle minori. Questa si mette sopra un tiniero (‘cassa’) di legno fatto
con tre piedi (‘fatto lungo tre piedi’) et viene portata in mano da’ soldati a guisa d’una
balestra. Non v’è alcuna armatura che le resista, anzi ella è ‘sì violente et perniciosa che non
si trova huomo, quantunque armato di gravissima et fortissima armatura, che da lei non
venga forato et ucciso; le sue palle sono di piombo, grosse quanto un’avellana, e sonvene di
quelle ancora che in un colpo solo tirano quattro o cinque palle per volta… (Cit.)

224
Esagerava un po’ il Facio col decantare la forza di penetrazione delle colubrine da porto
individuale; certo quelle di calibro maggiore, essendo non più delle armi portatili bensì delle
vere e proprie artiglierie minute, ottenevano quei risultati, Per quanto riguarda poi le quattro o
cinque palle per volta, non si creda che si trattasse di armi multi canne; semplicemente si
mettevano nella canna, invece di una sola palla dal calibro giusto, più palle più piccole, ma il
loro peso totale non doveva però superare quello della palla grande unica altrimenti la canna
sarebbe potuta scoppiare e comunque in ogni caso i proiettili non sarebbero andati lontano.
Ma venendo ora appunto all’etimologia di questo nome francese coule(u)vrine (i. caleever,
caliver; it. colubrina), diremo che il Facio non l’indovinò, perché dall’esame dei documenti
medievali citati dall’Angelucci si nota chiaramente e inoppugnabilmente che si trattò del
risultato d’un processo metatetico-sineretico delle originarie forme tlt. col(l)(a)verina e
col(l)(o)verina, (poi colovrina), forme usatissime in Italia indipendentemente da qualsiasi
influenza straniera, cioè si trattò d’una corruzione linguistica francese che però, a causa
dell’autorevolezza militare dei transalpini, infettò presto anche l’italiano con la nostra
traduzione colubrina. In effetti, più che di una corruzione, si trattò d’una contaminazione con il
fr. couleuvre (‘biscia’) e non fu immotivata in quanto i nomi primigeni dell’artiglieria da sparo o
ricordavano più antichi congegni bellici medievali (spingarda o spingardo, cerbottana,
schioppetto, trabucco, ballista ecc.) o appunto rettili e anfibi [veuglaire, aspido, crapaudeau
(‘rospo’ in frm.), dragone, basilisco ecc.], mentre, come abbiamo già detto, il fr. serpentine - e
di conseguenza l’it. serpentino - non era altro che una fantasiosa interpretazione dell’originale
td. Scharpffentin(lin).
Ma, se non aveva nulla a che fare con coluber, il nome originario della colubrina a che cosa
può esser stato dovuto? Premesso che, come già sappiamo, tre erano i modi metallurgici di
fabbricare artiglierie, cioè di rame battuto, di ferro colato oppure di metallo (‘bronzo’); ma,
come si otteneva poi l’anima, cioè il vuoto tubolare interno? La cosa è ben spiegata dal de
Biringuccis e cioè le bocche da fuoco medievali, se grosse o medie, si ottenevano battendo il
ferro o il rame proprio come facevano i calderari per fabbricare le loro pentole; se invece
erano piccole – e ciò vale specie per le minime, cioè le portatili, quali erano appunto allora le
sole collaverine o couleuvrines e le spingarde, allora si fondevano in ferro o in bronzo pieno,
in un unico pezzo le prime e in due le seconde, e l’anima si otteneva trapanandola dalla
bocca in tutta la sua lunghezza con un grosso succhiello da metallo, cioè con una ver(r)ina o
tinivella (suchiello, suchelino; oggi trivella) o crivella (sp. barrena) dall’apice a sgorbia
perforante d’acciaio e azionata perlopiù da una ruota bilicata, la quale poteva essere azionata
anche da un flusso d’acqua, come quelle dei mulini fluviali. A questo proposito l’Angelucci
cita un’interessante riformagione (‘decreto’) lucchese del 1470, relativa all’offerta fatta a quel
comune da tale Paolo Nicolini di costruire uno edificio da trapanare spingarde a acqua (Il tiro
225
a segno in Italia ecc. P. 7.), e un’altra della citta di Cingoli del 1518, con la quale si
commetteva all’armaiuolo Francesco di Antonio da Sellano la fattura di 25 archibusi de ferro,
tra l’altro trapanati et verniciati (Il tiro a segno in Italia ecc. Cit. P. 7.). Si trattava di armi che
non dovevano pesare meno di 27 libbre l’uno, quindi non da porto personale bensì da
cavalletto o comunque da postazione.
Il de Biringuccis scriveva che ai suoi tempi la trapanazione dei metalli s’era tanto evoluta che
anche le anime delle canne grosse, quali per esempio cannoni e mezzi cannoni, si
ottenevano ormai per la maggior parte in questo modo; perché si usavano ruote bilicate tanto
grandi e forti che dovevano essere azionate da uomini che vi camminavano dentro. Ora, sarà
pure una coincidenza, ma, se si divide in due il suddetto nome collaverina (‘colla verina’), si
ottiene proprio il procedimento in uso per ottenere l’anima di quelle allora piccole bocche da
fuoco.
In seguito, alla fine del Quattrocento, cominciarono a essere introdotti nell’Europa centro-
occidentale molteplici nuovi tipi di bocche da fuoco, le quali, come già detto, sull’esempio
portato dai francesi tiravano palle non più di piombo bensì di ferro, come era già stato nel
Trecento, cioè ai primordi dell’artiglieria, bocche dette ora per questo in Italia ferriere; a
queste, essendosi già sfruttati ormai i nomi dei rettili e degli antichi congegni bellici a
disposizione, s’incominciarono a dare quelli dei vari tipi di falchi e di uccelli rapaci in genere
[g(i)rifalco, falcone, falconetto, sagro, smeriglio, moschetto, moiana, passavolante,
cacciacornacchie ecc.] Ma perché si pensò ai nomi dei rapaci? Chiaramente perché i
proiettili, volando per l’aria e andando velocemente a colpire lontano, ricordavano in questa
loro forma d’attacco quella degli uccelli predatori, i quali appunto velocemente dall’alto
vengono a colpire le loro prede.
Anche la corr. colubrine, come abbiamo già visto anche di serpentine, fu un francesismo
militare subito adottato in Italia e il ruolo assegnatogli fu quello di versione volgare del
suddetto usatissimo ortodosso tlt. colverina, sinonimo questo allora di zar(a)bactana
(‘cerbottana’); esso però, evidentemente in omaggio alla predetta nuova moda dei nomi
ornitologici, fu in Italia spesso mutato in colombrine e columbrine; e vedi, esempio tra i tanti,
le Inventioni dell’Isacchi (p. 24):

… ma se gli è bisogno di canoni o di colombrine […] da terra sin’al mezzo del canone overo
columbrina… (cit.)

Infatti, se si va a studiare la falconeria, si vedrà che, a prescindere dai suoi trattati, i quali non
riportano mai i nomi volgari dei rapaci, i vari generi di falconi venatori prendevano un nome
gergale a seconda del tipo di piccolo animale che, sfruttando le loro diverse attitudini, erano

226
addestrati a cacciare; tipico esempio il serpentario (sagittarius serpentarius), tipo di falcone
cosi chiamato perché predatore di serpenti. Premesso che in proto-italiano ‘colomba’ già si
diceva spesso dipersé colombra, forma che sussiste tutt’oggi in alcuni vernacoli meridionali, e
ciò senza alcun riferimento ai rettili, in alcune parti d’Italia il nome più comune delle suddette
bocche d’artiglieria fu trasformato da colubrine a colo(m)brine), essendo la colombrina, ossia
il falco columbarius o accipiter palumbarius o smeriglio (dal td. Schmirgel), un tipo di falco
addestrato a cacciare i colombi, volatili selvatici una volta molto ricercati dai cacciatori perché
considerati assolutamente commestibili. Lo stesso Francesco de Marchi – ingegnere e
fonditore militare autorevolissimo del Cinquecento da noi già citato – scriveva unicamente
colombrine e così anche faceva, ancora nel 1620, il rigorosissimo e chiarissimo veronese
Orlando Rossetti (cit.); inoltre il termine fu correntemente usato anche dal Pico, dal Floriani,
dal del Bufalo e dal Gentilini. È curiosa poi la circostanza che il suddetto tlt. colverina (frm.
culverine; i. culverin) sembra aver avuto a sua volta anch’esso a che fare con la falconeria e
la caccia ai piccioni; infatti in inglese, come si sa, culver è il colombo selvatico).
Gli addetti a tutte le suddette bocche da fuoco si dividevano in tre specializzazioni e cioè i
bombardieri (gr. τηλεβολίσϰοι), questi i più pagati perché manovrare una pesante bombarda,
soprattutto per quanto riguarda l’avvitatura e svitatura dei due grossi pezzi di cui erano fatte,
non era certo facile; c’erano poi i cannonieri, cioè gli addetti a tutta l’altra artiglieria medio-
piccola (courtaux, mortari, serpentine, veuglaires ecc.) e infine i colubrinieri (td. anche
sgopeterii, sghiopaterii, cloveronerii, zarabatanerii), i meno pagati, perché si trattava in effetti
dei semplici fanti (compagnons) da armare di colubrina portatile (fr: embastonner). Infatti nel
1474 nell’artiglieria borgognona i primi prendevano un salario di 20 franchi il mese, i secondi
di 15 e i terzi, come anche gli aiuto-cannonieri, di 3 soldi il giorno, considerandosi che il
franco borgognone si divideva in 20 soldi e un soldo in 12 denari.
Per quanto concerne le Cronache medievali iberiche – catalane, aragonesi e castigliane,
troviamo il termine colubrine usato la prima volta a proposito dell’Assalto dell’esercito
castigliano alla città di Atienza, avvenuto nel 1446:

… los de la villa […] comenzaron á disparar las ballestas é culebrinas è á echar piedras con
las fondas è mandrones (‘fionde astate’)… (Crónica de D. Álvaro de Luna etc. Cit. P. 166;
vedi anche pp. 169, 178 e 185.)
… uno scudiero che stava con quelli e che si chiamava Alfonso Gallego fece un tiro con una
colubrina con il quale uccise sul colpo un uomo d’arme degli assedianti, i quali vedendo ciò e
che nella casa del Maestro c’erano balestre forti e colubrine con le quali trapassavano loro le
armature e che facevano loro grave e mortal danno, si ritrassero alle case che stavano di
fronte a quella del (detto) Maestro e ne chiusero le porte per evitare il pericolo di (quei) tiri
mortali che facevano contro di loro…

227
… quelli che stavano nella casa del Maestro, gli uomini d’arme per armarsi delle loro
armature e i balestrieri e colubrinieri per preparare le loro balestre e colubrine e i fanti le loro
corazze e pavesi… (ib. All’anno 1453. Pp. 330; 331.)

Insomma corazze e armature incominciavano a mostrare la loro debolezza nei confronti delle
nuove armi da tratto e, anche se resteranno ancora in uso per un paio di secoli, il loro lento
declino era ormai iniziato. In una nota consultiva presentata nel 1468 all’esercito borgognone
da certo maestro Woulters, evidentemente un mastro carrettiere al quale s’affidavano
trasporti d’artiglieria, si leggono le seguenti necessità di cavalli per traini da farsi in tempo
d’inverno, cioè quando le strade erano nelle peggiori condizioni e i predetti traini più faticosi.
Non si specifica nella detta distinta se le quantità indicate includevano anche il cavallo
limonnier, cioè uno grosso, possente e paziente, indispensabile al traino delle pesanti
artiglierie, che si attaccava per primo tra le due stanghe (limons) del carro, mentre gli altri si
attaccavano all’esterno di queste in due file tenute insieme da corde attaccate ai collari; ma,
trattandosi sempre di numeri pari, riteniamo di no:

Bombarde da 163 libbre di calibro, 24 cavalli.


Bombardelle da 75 libbre di calibro, 14.
Courtaux , 8.
“La grosse serpentine”, 8.
Jacquemin grande, 6.
Jacquemin media, 4.
Jacquemin piccola, 2.
Mortier con la sua carretta, 4 (ib.)

I cavalli limonniers erano, perlomeno dal secolo seguente, anche cavalcabili, essendo infatti
dotati di gualdrappa e sella:

… 40 dossieres et 40 selles pour chevaux limonniers… (ib. 1556-1557.)

Erano animali talmente importati per un treno (‘traino’, dal fr. train; itm. carregio; tlt.
carregium) d’artiglieria che nel Seicento troveremo, oltre che dei commissari d’artiglieria per i
carriaggi in generale, anche talvolta altri dedicati solamente a essi; infatti i chartons
limonniers, cioè i carrettieri che, oltre al carretto, fornivano anche il cavallo da stanghe,
avevano naturalmente diritto a una paga sensibilmente superiore a quella prevista per i
rolliers, cioè per quelli che detto cavallo non presentavano. Molto interessante appare il treno
d’artiglieria che Carlo il Temerario volle si preparasse per la sua campagna del 1475 contro i
suoi molti nemici; ci limiteremo a elencare bocche da fuoco, carri, cavalli e uomini,
escludendo la miriade di materiali d’armeria e di supporto:

6 bombarde, tanto di ferro quanto di bronzo, con loro mantelletti.


6 bombardelle con loro mantelletti.
228
6 mortari.
10 cortaldi (ossia cannoni serpentini o ferrieri).
La grande serpentina detta Lambilllon.
15 serpentine grosse.
36 serpentine mediane.
48 serpentine piccole.
200 archibugi da posta.
100 carrette.
5.245 cavalli senza contare quelli che sarebbero stati necessari per il trasporto delle
polveri, da quantificare in seguito.
6 maestri bombardieri per le 6 bombarde (specializzati cioè per canne di più pezzi).
6 bombardieri o cannonieri per le 6 bombardelle.
6 cannonieri per i 6 mortari.
20 cannonieri per le 15 serpentine grosse e per i 10 cortaldi (specializzati cioè per grosse
canne fatte di un solo pezzo). La Lambillon aveva un suo proprio equipaggio di personale
fisso a parte).
40 cannonieri per le 36 serpentine mediane e per le 48 piccole.
50 colubrinieri per i 200 archibugi da posta.
14 aiuto-bombardieri e cannonieri.
Armand Millon, mastro-carpentiere, con 8 carpentieri a cavallo e 95 a piedi.
Wouters Teytin, mastro-carrelliere, con 20 carrellieri (‘carrozzieri’) a piedi.
50 bigoncieri (‘portatori di tinozze d’acqua’).
47 finimentieri.
400 guastatori.
2 maestri-maniscalchi con 4 maniscalchi.
1 mastro-tagliapietre con 6 tagliapietre (pierrers… avec marteaux à tailler pierres).
3 fonditori di piombo.
8 barcaioli.
4 stampatori di pallottole.
50 minatori.
24 soldati (compagnons) aiuto-artiglieria montati.
Un numero di tenditori di tende e padiglioni.
Un numero di manouvriers, cioè di uomini di fatica per aiutare a puntare le bocche da fuoco
spostandole a forza di braccia.
349 carri da trasporto a 4 cavalli con loro conducenti.

Nella guerra per la conquista del regno di Granada l’esercito di Fernando e Isabella di Castiglia
usava bombardare le città assediate con i detti cortaldi usati come mortari, come leggiamo più
volte nella Cronica del coevo Perez del Pulgar, specie a proposito dell’assedio della città di
Loja:

… Tiraban ansimesmo los cortaos que echaban las pietra en alto é caian sobre la cibdad é
derribaban é destruian las casas; é las pietra que se tiraban eran tantas que los moros
furono puestos en grande turbcion é no tenian espacio para se remediar ni sabian que
consejo tomasen para se defender (om.) Estando los moros en esta turbacion, los maestros
del artilleria tiráron con los cortaos tres pellas confecionadas de fuego, las quales subian en
el ayre echando de sí llamas é centellas; é cayéron sobre tres partes de la cibdad é
quemáron las casas do acertáron é todo lo que alcanzáron… (Crónica de los señores Reyes
Católicos don Fernando y doña Isabel etc. P. 275. Valencia, 1780.)

229
I mastri minatori (td. Minirer, poi Minirier) erano in quei tempi, ma anche un secolo dopo, in
gran parte mercenari inglesi, nazione già allora molto versata in quel mestiere, e per il resto
belgi e olandesi. Per quanto riguarda i proiettili composti, quest’artiglieria borgognona già ne
usava d’incendiari detti pierres de feu. Nel biennio 1479-1480 troviamo a disposizione altre
due particolari grosses serpentines e cioè quella detta di Jean de Malines, dal nome quindi
del suo fonditore, e quella detta invece di Nancy, perché guadagnata con quella città nel
1475. Insomma nel Quattrocento l’artiglieria dell’Europa centro-occidentale già era ben
differenziata ed evoluta, anche se quella cinquecentesca presenterà poi nuove sostanziose
differenze e, prime tra tutte, l’affermazione preponderante dei proiettili di ferro e quindi la
nascita dei cannoni da batteria e da corsia di galera, la scomparsa del genere delle
serpentine propriamente dette e l’arricchimento di quello delle piccole colubrine a palla di
piombo con canne grandi e medie, ma queste in un solo pezzo e a palla di ferro.
Ma torniamo adesso all’artiglieria medievale italiana e, aldilà della trattatistica già
menzionata, in cui, come sempre nei trattati di quei secoli, la realtà si mescola con la
proposta e vedi per esempio Orso degli Orsini (?-1479), il quale nel 1476, come bocca da
fuoco intermedia tra lo scoppecto, arma da braccio, e la zarbactana, arma incavallettata da
posta o da carretta, proponeva l’uso di una zarbactanocta, cioè di un’arma sì da braccio, ma
che, per il suo peso, si sarebbe usata appoggiata su una leggera forcina (un pede da
mecterilo in terra quando se trahe); una bocca da fuoco dunque quest’ultima allora ancora
inesistente e che, come abbiamo visto, non sarà realizzata prima del secolo seguente. Forti
dunque delle chiare sintesi che abbiamo ottenuto dall’analisi della più evoluta artiglieria
borgognona, cerchiamo ora, utilizzando principalmente il gran lavoro che fece l’Angelucci, di
definire anche quella italiana più materialmente e compiutamente.
Iniziamo da un interessante bando di gara del 27 dicembre 1428 per il taglio di pietre per le
bombarde della città di Como (Cumae, in tlt.), proiettili detti sempre nei documenti medievali
italiani semplicemente lapides, in quanto non necessariamente lavorati dai picapetre
(‘piccapietre’) in perfetta forma sferica; infatti alle bombarde era richiesto il lancio di un dato
peso ma non la precisione:

… Hic est incantus… pro lapidibus md (‘1.500’) a bombardis necessario construendis


ponderis lbr. v. usqua in xij, ad libram minutam, pro bombardis triginta diversarum
maniererum nunc existentium in citadella Cumarum, operandum super ducali navigio, casu
adveniente, quod dominus advertat, in partibus lacus Cumarum et alibi ubi necesse fuerit.
Item pro lapidibus clt. (‘150’) ponderis lbr. lxxv. usque in centum pro bombardis tribus grossis
in citadella praedicta existentibus… (Cit.)

Dunque c’erano da fabbricare, per la metà del seguente febbraio, 150 proiettili di pietra
pesanti ciascuno dalle 75 alle 100 piccole libbre comasche, corrispondenti, secondo
230
l’Angelucci, a gr. 316,6 l’una, per tre bombarde grosse; inoltre 1.500 altri, ognuno dalle 5 alle
7 delle dette libbre, per 30 bombarde piccole di diverse sorti custodite, come le precedenti,
nella cittadella di Como e da usare queste sul naviglio ducale di guardia sul Lago di Como e
sulle altre vie d’acqua, cioè su navi, brigantini e gatti o barbote, essendo i due ultimi tipi
ambedue vascelli remieri da una quindicina di banchi monoremi per fianco e comandati
ognuno da un conestabilis. Il primo, praticamente un ‘quarto di galera’ laddove le galeotte
erano invece considerate ‘mezze galere’, era però d’uso soprattutto marittimo, mentre il
secondo era appunto caratteristico della navigazione bellica lacu-fluviale e infatti i comaschi
erano specialisti della loro costruzione. Le barbote (‘barbute’) avevano questo nome in
quanto portavano a prua da 2 a 5 piccole bombarde ciascuno, a seconda delle loro
dimensioni, canne che sporgevano in fuori davanti come radi peli di una barba, disposizione
invece del tutto usuale nelle galere; ancora oggi si usa infatti dire ‘artiglieria disposta in
barbetta’. Quando queste imbarcazioni avevano però il ponte non all’aperto, bensì coperto da
una grande manta di legno, si chiamavano invece gatti, in quanto ricordavano così le gatte
che si usavano negli assedi di terra e di cui abbiamo già detto. Più a sud, nell’Emilia e nella
Romagna, a quello di barboti s’aggiungevano altri due nomi di legni fluviali armati e cioè
ganzaroli, cursii e sandoni).
Ecco una lettera del 31 dicembre 1429 con cui Giovannolo de Billiis, castellano della
cittadella di Pavia, accusava ricezione delle artiglierie sottoelencate al referendario (‘balivo,
prefetto’) ducale Luchino de Conago:

Bombarda una Bronzina signata ad litteras cum eius cepo ferrato.


Bombarda una ferri zitata signata litteris cum anello ferri, cum suo cepo ferrato.
Lapides xj. a bombardis ut scribitis (‘come scrivete’) tracte librarum cccc (ib.)

Come abbiamo già accennato, bronzine era nell’Italia centro-settentrionale nome comune
delle artiglierie fatte di bronzo; quella qui menzionata si distingueva comunque per alcune
lettere in rilievo sulla sua culatta, probabilmente le iniziali del suo fonditore, caratteristica che
anche presentava la seconda bombarda, questa però fatta di ferro gittato (‘colato’); ambedue
le bocche da fuoco erano provviste del loro ceppo di sostegno ferrato, cioè rinforzato con le
debite guarnizioni di ferro - non era infatti ancora venuto il tempo degli affusti ruotati. La
seconda canna era poi guarnita di un anello di ferro, evidentemente per sollevarla
all’occorrenza, il che significa sia che detto anello doveva trovarsi sopra, nel punto d’equilibrio
del suo peso, sia che questa bocca da fuoco non doveva essere grossa, altrimenti un solo
semplice anello di ferro non sarebbe certo stato abbastanza forte e sufficiente per sollevarla.
Infine 11 proiettili di pietra a bombardis tracte librarum cccc, cioè per bombarde grosse dalla
trata (‘tiro, calibro’) di 400 libbre (cioè circa kg. 127, secondo l’Angelucci), dotazione questa
231
trasportabile per qualche tiro iniziale e le ulteriori pietre che fossero poi state necessarie
sarebbero state, come da prassi, da tagliarsi e approntarsi direttamente in zona di
combattimento, potendosi inoltre poi potuto raggiungere il detto calibro anche caricandole
con più pietre alla volta, di minori dimensioni, sino appunto alla concorrenza delle 400 libbre,
il che allora comunemente s’era costretti a fare appunto perché spesso non si disponeva di
pietre uniche dal calibro giusto. C’è poi un ordine del 4 novembre 1432 concernente il
trasporto di due bombarde per barca lacustre da Como a Bellano, una di calibro di pietra da 8
pesi comaschi e l’altra da 4 a 6, equivalendo, secondo l’Angelucci, detta unità di misura a
quasi 8 chili; ognuna delle dette due bocche da fuoco doveva essere corredata da 25 proiettili
di pietra del relativo calibro e da sufficiente polvere. Seguono tre documenti, anch’essi
comaschi, del 21, 26 e 29 gennaio 1433 relativi a 3 bombarde corredate da inviarsi da Como
in Valtellina; sulla prima si evidenzia una delle summenzionate lettere di riconoscimento:

Primo (‘In primis’) Bombarda j. (‘1’) signata A cum ceppis duabus ferratis, tracte libr. c.

Primo Bombarda j. ferri de pezijs ij. tracte libr. lxx. cum ceppo ferrato.

Primo Bombarda j. ferriin pezijs ij. cum ceppo ferrato tracte libr. cc.
… (ib.)

La prima, dal ‘tratto’, ossia dal calibro, di 100 libbre, era corredata da due ceppi ferrati, quindi
anche da uno di riserva; la seconda, dal ‘tratto’ di 70 libbre, e la terza, di 200 libbre, erano di
ferro e fatte di due pezzi, cosa che non si dice della prima, ma, riteniamo, non perché fosse
monopezzo bensì per pura omissione. Seguono pali grandi di ferro (‘calcatori’), uno per
ognuna bombarda, corde per legarle in caso di sollevamento, 89 tarchoni di legno ricoperto di
cuoio da formarne pavesate di riparo e materiali per la manutenzione delle balestre.
Tra le provvidenze da farsi a Como nel 1449 per la campagna contro la sforzesca Canturio
(‘Cantù’) che l’esercito della repubblica ambrosiana, repubblica a cui Como, Alessandria e
Novara avevano aderito due anni prima, si preparava a intraprendere, notiamo invece:

… Primo ordinaverunt quod fiant (et) preparentur manteleti LT.ª boni et sufficientes dupli cum
uno pede pro quolibet portandi in campo contra Canturium… et pro ponendo ad repara
bombardarum et ad muros…
Item… bombardas tres grossas et… tres a reparo…
Item… provideatur de veretonis et pulvere a bombardis et sclopetis ad sufficientiam…
… (ib.)

I 50 mantelletti per riparare sia le bombarde sia i difensori sulle mura dovevano dunque
essere di doppio legno e provvisti di un piede posteriore perché si reggessero da sé; si
distinguono inoltre qui le bombarde in grosse e piccole da posta (lt. a reparo).
E inoltre:
232
… Item ordinaverunt quod fiat bulleta Gualterio Teutonico pro certis ferris artificiosis per eum
factis in modum rochetarum, proiciendis super navigijs inimicorum comburendis… et pro eius
mercede afinandi certam quantitatem pulveris dicti comunis pro serbatanis de duobus ducatis
auri… (ib.)

Dunque bisognava emettere mandato di pagamento a favore del bombardiero tedesco


Walther (Gualterius Teutonicus, altrove de Alamania), il quale aveva fatto e fornito un tipo di
razzi artificiati di ferro da scagliarsi sul naviglio lacu-fluviale nemico per incendiarlo e aveva
raffinato due ducati d’oro di polvere pirica del tipo detto ‘comune per cerbottane’, con
l’impegno però che ne consegnasse 25 libbre a Hans (Anzo), evidentemente questi altro
bombardiero pure tedesco, il quale doveva portarle all’esercito ambrosiano. L’impiego di
fonditori, bombardieri, fuochisti e polveristi tedeschi, oltre che di schioppettieri mercenari,
come già più sopra accennato, era dunque già a quei tempi molto praticato in Italia; ma il
suddetto Walther, come sappiamo da altro documento, aveva avuto una storia a parte,
essendo infatti egli stato dapprima stambechino (‘balestriere’) al soldo di Filippo Maria
Visconti duca di Milano e poi, avuta evidentemente nella vita anche occasione di far pratica
come aiutante d’artiglieria, nell’anzianità era stato assunto dalla comunità di Como come
bombardiero; gli stambechini mutuavano questo nome dalla loro arma, essendo infatti le
stambechine (tlt. stamberlunae) una balestrina, il cui arco era fatto appunto con corna di
giovanissimo stambecco. Che alla qualifica di bombardiero s’arrivasse allora spesso per caso
e non per scuola né per annosa pratica lo testimonia anche una delle lettere che l’ingegnere
militare Peregrino Prisciani scriveva al suo signore Ercole I d’Este duca di Ferrara in
occasione della sua guerra contro i veneziani (1482-1484); avendogli evidentemente il duca
impartito l’ordine di mettere a difesa Lendinara, piccolo borgo del Polesine e disponendo egli
colà di qualche gran bombarda, non aveva però colà alcun bombardiero, ma solo fanti armati
d’arma bianca e uno spingardiero, cioè aveva un solo fante spagnolo armato di arma da
fuoco portatile di piccolo calibro; posto il problema al duca, questi gli aveva evidentemente
risposto di cercar di utilizzare allo scopo detto spingardiero; ed ecco la replica del Prisciani
datata 26 marzo 1482:

… Lo spingardiero, che è Nicolo da Salamancha, dice di non se intender cossa del mondo de
bombarda grossa, si como da principio mi dixe. Si che forza è che Vostra Signoria gli faci
provisione… (ib.)

Dunque per convincerlo bisognava offrirgli un impiego di bombardiero fisso. Ancora a


proposito di mastri tedeschi, un altro documento senese del 5 dicembre 1407 ci informa che
al servizio di quel comune operava allora un tedesco fabbricante di bombarde di ferro (tlt.

233
magistrus bombardarum; itm. ingegniero di bombarde), cioè tale Hugo Gerhardts, al quale
con quella carta si concedevano due anticipi di 25 e di 10 fiorini da scomputare nel suo futuro
salario; un altro, anch’esso senese, del 1433 elenca una serie di materiali per fare polveri e
proiettili di piombo consegnati a un ingiegnero de lo imperatore di nome Johann (ib.).
A causa della loro rarità, i principi italiani usavano correntemente chiedersi in prestito i buoni
bombardieri e fonditori d’artiglierie; per esempio il 15 aprile del 1417 il Comune di Siena
scrisse a quello della città di Castello per chiedergli in prestito per qualche giorno Francesco
de Piperno, maestro di bombarde e ingegniero, che aveva saputo essere al servizio di quel
comune; dopo due giorni scrisse anche a Paolo de Guinigiis, signore di Lucca, per lo stesso
motivo, cioè per chiedergli in prestito un suo mastro e ingegniero di bombarde. Non
sappiamo l’esito di queste richieste, ma conosciamo la risposta del de Guinigiis, datata 21
aprile, e cioè che egli non disponeva di un maestro corrispondente alla loro richiesta, se non
uno vecchio, quasi cieco e di fatto ormai inutile; però tra i suoi stipendiati (lt. stipendiarii) ce
n’era uno che si diceva atto e disponibile come bombardiero ed era inoltre già stato ai servizi
del Comune di Siena, anche se in verità a Lucca non si era mai presentata occasione di
costatarne l’effettiva esperienza in quel settore (Angelucci). Nel 1457 Federico signore di
Monteferetro (oggi ‘Montefeltro’), Urbino e Durante (oggi ‘Urbania’), capitano di condotta al
servizio aragonese e pontificio contro il partito angioino, esigeva dallo stesso predetto
comune il prestito di un valente fonditore d’artiglierie colà impiegato, perché aveva urgente
necessità di nuove bombarde da impiegare nella sua guerra contro il comune nemico
Sigismondo Pandolfo Malatesta signore di Rimini:

Magnifici e potenti signori da onorarsi, Padri carissimi.


El me ocurre al presente el bisogno de uno maestro da gittare bombarde e, perché sono
informato che lì in Siena è uno bono e sufficiente maestro, quale me satisfaria assai, che’l
conobbi fin d’alora quando stetti lì amalato (nel 1453), prego istantemente le Signorie Vostre
che a mia singulare complacenzia li dia licenzia, anzi li commetta, che vegna via subito (che
cusì rechede el bisogno mio), ch’el vegna insieme cum lo messo che mando per questa
cagione a le S. V. Ed io li farò fare el debito del suo pagamento per modo che se chiamarà
(‘si riterrà’) ben contento.
Io debbio sperare che le S. V. me compiacciano del dicto maestro, perché in omne cosa che
tendesse al bene e stato de la vostra Republica io seria affeczionatissimo quanto niun altro
possesse (‘potesse’) avere al mondo e massime attento; che queste bombarde io le voglio
per operarle contra el signor Sigismondo, inimico de la Vostra Signoria, alla quale mi
raccomando.
Urbino, 7 novembre 1457.
(‘Vostro’) figlio Federico Conte di Monteferetro, Urbino e Durante e Capitano Generale del
serenissimo Re d’Aragona (ib.).

Non sappiamo che risposta ebbe da Siena, ma dall’altra seguente sua lettera indirizzata
molto più tardi a quel comune sembra non solo che gli sia stato mandato il già da noi

234
menzionato mastro bombardiero Augustino da Piacenza, cioè il migliore di cui Siena allora
disponeva, ma anche che egli ne approfittò lungamente trattenendolo presso di sé per anni e
utilizzandolo nelle sue guerre contro i Malatesta di Rimini:

Magnifici e potenti signori, Padri carissimi.


Siando qui maiestro Augustino cum mi in campo de comandamento de Nostro Signore (cioè
‘essendo mastro Augustino qui con me in campagna miltare al servizio di Nostro Signore il
Papa’), me ha rechesto e pregato che io li voglia dare licenzia de tornare là (‘a Siena’); la
qual cosa io non ho voluto fare per niente, sapendo che Nostro Signore lo aveva (‘l’avrebbe
presa’) a male, perché in questo punto la Sua Beatitudine ha gran bisogno del detto mastro
Augustino. E perciò io conforto e prego la Signoria Vostra glie sia de piacere aconsentire e
star contenta ch’el decto maestro Augustino restia qua, almancho finché serà avuto
Palombara (cioè ‘almeno sino a che non avremo preso Palombara’) - de che io so che
compiacerete sommamente a la Sua Beatitudine; e remandaravelo (‘e ve lo rimanderò’) poi
incontanente.
Valete. Dal felice accampamento presso Cantalupo 11 giugno 1461.
Federico Conte d’Urbino, regio capitano generale (ib.)

Ma evidentemente Siena aveva nel frattempo ordinato al detto Augustino di tornare senza
porre più alcun indugio, perché quello, nonostante non ne avesse avuto il permesso dal conte
Federico, lasciò il campo immediatamente; ed ecco infatti che il conte, sette giorni dopo,
sempre facendosi scudo dell’autorità pontificia, scrive ancora alla signoria di Siena:

Magnifici e potenti signori, Padri carissimi.


Maiestro Augustino, desideroso de satisfare le Vostre Signorie, non obstante che da Nostro
Signore (il Papa) avesse avuto comandamento in contrario, ha deliberato venire là perché le
Signorie Vostre sieno servite e per adaptare (‘sistemare’) le cose – (per)chè, se pur se mette
un poco de tempo, el quale facilmente se po’ restorare (‘recuperare’), che (‘cosicché’) almeno
in altre cose non ce sia mancamento, priego le Signorie Vostre ve piaccia averlo
recomandato (cioè ‘considerarlo da noi raccomandato egualmente’); e, ultra de ciò, priego
vogliate considerare el presente bisogno de la Santità di Nostro Signore e ch’el ve sia di
piacere concederli licenzia, ch’el possa tornar de subito qua, considerato che la venuta sua
non porria essere più utile né più necessaria; e credo che le Signorie Vostre sappiano che
niuna cosa più grata se porria fare a la Santità di Nostro Signore che adiutare e favorire
questa impresa. E per uno (‘in una parola’) non so che la presente se potesse fare (al Papa)
magiure favore che questo de remandare presto mastro Augustino, la qual cosa serà tanto
grata e acepta a la Sua Beatitudine quanto dire se potesse; e mi anche el receverò in grazia
singulare da le Vostre Signorie, a li piaceri de le quali vo’ sempre apparecchiato (cioè ‘alle
volontà delle quali sono sempre pronto’).

Dal felicissimo accampamento contro Montorio, 18 giugno 1461.


Federico Conte di Monteferetro, Urbino e Durante,
capitano generale del serenissimo re di Sicilia (ib.)

Nemmeno in questo caso conosciamo la risposta di Siena, ma c’è da credere che il tanto
conteso mastro Augustino non sia più stato rimandato al conte Federico; però sembra che in
seguito da quel comune gliene siano arrivati degli altri, come dimostra un attestato di
235
benservito da lui, nel 1474 divenuto frattanto duca, rilasciato a un bombardiero di nazionalità
senese e indirizzato proprio alla stessa predetta repubblica di Siena:

Magnifici Signori, Padri carissimi.


Serà (‘sarà’) esibitore de la presente Giovanni di maestro Stefano piccapietra (‘scalpellino’)
dal quale se è ricevuto optimo servizio ‘sì ne l’esercizio suo predicto come anche nel trar(r)e
la bombarda con diligenzia e solicitudine, per modo che el merita gran comendazione; per
tanto quanto più posso lo racomando a le Signorie Vostre e le prego li faccino intendere che
el servizio suo ne è stato acepto, come è veramente.
Dall’accampamento presso Montone, 28 settembre 1477.
Federico Duca d’Urbino, Monteferetro e Conte di Durante ecc.
Regio Capitano generale e Confaloniero di Sacra Romana Chiesa. (Ib.)

Che Federico avesse continuato a mantenere poi buone relazioni con la signoria di Siena lo
dimostra anche un documento del 1° febbraio 1479 e che ha per oggetto la deliberazione
senese di acquistare da quel duca una bombarda e alcuni passavolanti.
Nel 1530 la città di Arezzo, avendo bisogno di nuove artiglierie, chiese al Comune di Siena il
favore di prestarle un suo fonditore per qualche tempo e i senesi le mandarono certo Giovan
Andrea, appunto maestro della artiglieria; costui, dato il grande rispetto che essi nutrivano per
Siena, fu trattato dai signori aretini con tutti i riguardi, dandogli non solo alloggio nel palazzo
comunale ma anche accolgliendolo alla loro tavola come ospite fisso. Sennonché,
nonostante queste grandi cortesie, questo mastro si dimostrò presto indegno della fiducia
accordatagli e il perché si legge in una lettera di rimostranze inviata dagli aretini a Siena il 9
aprile del predetto anno; in sostanza, modellata la forma di creta della bocca da fuoco
commissionatagli, l’affidò a un suo aiutante di soli 14 anni perché la cuocesse e lui se n’andò
a dormire e il ragazzo, non sapendo controllare a dovere il fuoco, fece bruciare e spaccare la
forma, la cui spesa andò così perduta. Il popolo aretino, non sapendosi spiegare una simile
superficialità, pensò che il fonditore l’avesse fatto apposta per danneggiare la città di Arezzo,
anche perché aveva notato che, mentre lavorava, c’era un fiorentino che gli stava sempre
appresso – e Firenze non era allora certo amica d’Arezzo. Richiesto di restituire l’acconto di
20 ducati ricevuto quando era ancora a Siena e di modellare una nuova forma, ma stavolta a
sue spese, il fonditore si rifiutò e poi, ritenendosi ora, sebbene fosse sempre a palazzo,
tenuto in stato di prigionia, se ne fuggì a Siena, ai signori della quale gli aretini presero
appunto a scrivere lettere di rimostranze e richieste di risarcimento. Non sembra poi che i
senesi abbiano più di tanto punito detto Giovan Andrea perché da altra corrispondenza risulta
che già nel settembre di quello stesso anno era di nuovo regolarmente al lavoro per il suo
comune (A. Angelucci. Cit.).
Un dettagliato inventario della Camara de l’Artiglieria (‘armeria’) del Comune di Siena è
datato 5 giugno 1460 e, per quanto riguarda le armi da fuoco, vi si notano le seguenti:
236

Sedici cierchi (‘calibratoi’) da fare pietre da bombarde fra grandi et picoli.
Una bombarda grande, (che) fecie maestro Ugo (il suddetto Hugo Gerhards, le cui inziali
evidentemente marcavano la culatta).
Un cannone (‘mascolo’) da mettare la polvare ne la bombarda

Quattro cierchi di ferro, due coll’anella e due senza anellla (altri ‘calibratoi’?)

Cinque cerchia di ferro da curba (da ‘gabbione’).

Due bombarde di bronzo, (che) fecie maestro Agustino (il suddetto Augustino da Piacenza).
Due cierbotane di bronzo, (che) fecie maestro Agustino, di lire (‘libbre’) trecento l’una.
Una cierbottana picola di bronzo.
Una cierbotana di ferro con due cannoni.
Tre bombarde di ferro all’antica.
Un cannoncello picolo da bombarda, di ferro.
Cientosettantuna spingarde schiette (‘sane’).
Due spingarde rotte.
Trentuno cannoni di bronzo da serpentine, (che) fece maestro Agustino.
Sei culacci (‘camere’) di bronzo da le serpentine.
Ciento otto schioppetti di bronzo.

Diciesette chiavarde da fare ripari quando si piantano le bombarde.

Quattro pali da battare cochoni (da) spingarde (ossia 4 calcatori)...
Un palo grande da mutare la bronzina (cioè un palo da leva per spostare una bocca da fuoco
di bronzo).
Due manichi da serpentine (cioè le maniglie di ferro direzionali a forma di coda di cui
abbiamo già detto a proposito dei crapaudeaux…

Vinti calzatoi (‘calcatoi’) da scopietti.
Sette culacci di bombarda.
Cierchi (‘calibratoi’) da bombarda a peso libre quatrociento quaranta.

Due frombole da bricchole (fionde da lancia-pietre a contrappeso; congegni d’assedio
anteriori all’invenzione della polvere pirica).
Due bombarde co’ l’arme di Arezo (‘Arezzo’).
Ferri da gittare fuoco (cioè ‘anime di ferro per rocchetti, razzi’) nuovi cientoquarantotto.

Palozole di piombo da cierbottane quarantaquatro.
Polvare da bombarda sottile libre treciento tredici.
Polvare grossa da bombarde libre duomilia noveciento sesanta.
Cannoni et canno(n)cielli da bombardelle tristi et gativi (‘guasti’): non si trovano da vendere
(‘non si è riusciti a venderli’).
Due trombe di ferro da bombarda sanza cannone (cioè due bombarde a cui mancava il
pezzo posteriore.)
Due bombarde picchole co’ cannoncelli (a queste due invece non mancava).

Una bombarda di ferro grande, (che) fe maestro Ugo (v.s.)
Due bombarde grandi di bronzo, (che) fe maestro Agustino (v.s.) (Ib.)

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Questo inventario ci conferma la differenza d’epoca e quindi qualitativa tra i due maestri di
bombarde, Hugo Gerhardts e Au(gu)stino da Piacenza; il primo dunque, all’inizio del
Quattrocento, faceva bombarde di ferro, battuto o colato che fosse, mentre il secondo, circa
cinquant’anni dopo, le gittava in bronzo. Le spingarde sono anche qui del genere delle
bombarde, quindi in due pezzi, ed ecco il perché dei pali da battere il coccone inserito nella
bocca del pezzo posteriore o camera, il quale poi, nella seconda metà del secolo successivo,
si trasformerà in braga e la spingarda prenderà il nome di smeriglio o di moschetto da braga.
In un altro documento senese del 10 aprile 1468 un membro del concistoro propone al
governo della repubblica, cioè ai Nove della Custodia, la fabbricazione di nuove bombarde e i
modi del necessario finanziamento, ciò perché Siena ne disponeva allora solo di due:

Considerato che non sia molto onore che la Vostra Signoria, essendo di stima assai, che
habbi solamente due bombarde, che, quando ce ne fossero dieci, non sarebbero troppe e
darebbero a la vostra Repubblica grande reputazione e anco e pure vergogna che fussero
facte due forme per due bombarde bellissime che si lassano perdare, che costoro assai ala
Vostra Signoria, che sarebbe grande contento de’ cittadini el farne parecchie… (ib.)

Il valente bombardiero che aveva fabbricato le dette due molto ben adornate (bellissime)
forme giacenti nella Camara de l’Artiglieria senese era stato il summenzionato Augustino da
Piacenza, come si evince dalla seguente più tarda deliberazione del suddetto governo datata
4 agosto 1472, documento che abbiamo però stavolta ritenuto di rendere più intelligibile
traducendolo dal suo originale tardo-latino:

… I sopraddetti ufficiali (‘Nove della Custodia’) hanno decretato che maestro Giovanni di
Slavonia, maestro di bombarde, gitti una tromba sulla forma un tempo fatta da maestro
Augustino da Piacenza, cioè quella che è partecipe (‘sotia’) della bombarda fatta esistente
nel Campo del Foro, e similmente un cannone - e, se qualcuna delle dette forme non fosse
buona, quella rifaccia a sue spese – e detta bombarda con cannone a sue spese porti a
compimento e consegni fatta. Resta inteso che qualsiasi difetto o mancamento risultasse,
che differisca (‘absit’) o che il bronzo in parte o in toto sfondasse, frangesse o rompesse le
predette forme o alcuna delle predette, quella sia tenuto a rifare a sue spese tante volte
quante sarà d’uopo finché si giunga alla perfezione. Habbia dal Comune di Siena l’opportuno
rame e stagno e luogo sotto le volte della sala piana dei consigli dove furono fatte le altre e
per il suo lavoro e mercede, ossia salario, lire nove in denaro (senese) per il singolo
centonario (cioè ‘per il primo centinaio di libbre’) e da lì in su sino al totale lire nove e mezzo
come parrà e piacerà a detti ufficiali. Analogamente, diminuendo (il peso) per calo di fusione,
s’ammetta il dieci per centonario. (Ib.)

Al predetto magistro bombardarum Mastro Giovanni di Slavonia, ora chiamato ‘Giovanni di


Giovanni da Zagabria’, sarà concessa il 16 ottobre seguente un’apotissa (dal gr. απότισις,
pagamento) di 30 fiorini, cioè un’anticipazione sul pattuito, e il 2 dicembre una seconda
commessa:

238
… Si è decretato che maestro Giovanni di Giovanni da Sagabria faccia una bombarda simile
alla bombarda dapprima fatta da maestro Agustino, la quale è presso la fontana del Palazzo
dei magnifici Signori e sotto le scale per le quali si sale al predetto Palazzo, con la differenza
che di tromba sia più lunga di quella un mezzo braccio (mm. 301, secondo l’Angelucci) – con
ogni spesa a carico del detto maestro Giovanni, e per suo salario abbia quello stesso che
ebbe per la prima bombarda che attualmente sta facendo, ricevendo però dal Comune al
luogo consueto e il rame e lo stagno bisognevole. (Ib.)

Ecco ora, passando da Siena a Vercelli, un’importante istruzione ducale impartita in data 12
marzo 1462 ai cittadini di quest’altro comune per la difesa della sua cinta muraria:

… IIJ. Item quod dicti cives fieri fatiant duos vuglarios seu serpentinas longitudinis trium
pedum cum dimidio. Et fiant tales ut possint proicere tres aut iiij lapides et unum tractum sive
varatonum tot pro qualibet porta dicte civitatis. Et muniantur dicti vuglarij duabus capsis et
duobus capondinis sive collaverinis longitudinis sex pedum. Et muniantur capsis necessarijs
et longitudinis ordinande per magistros ad hoc expertos. Et fiant dicte artilerie de cupro seu
bronzo.
IIIJ. Item fieri fatiant octo vuglarios ut supra pro qualibet pantera muri dicte civitatis et quod
dicti vuglerij firmentur super turribus ita quod possint duci circa panteras meniorum dicte
civitatis pro defensione dicte civitatis ubi exigeret et esset necesse.
V. Item fieri faciant mille lapides pro dictis vuglarijs et v lapides ferreos pro dictis collovrinis.
VJ. Item fieri fatiant munitiones salpetri, carbonis et surfuris pro pulvere perficienda cum
expediet usque ad summam centum barrilium. Et conserventur predicta separatim in dictis
barili… (Ib.)

Segue la prescrizione di 54 balestre e 6mila verrettoni da approntare per la stessa suddetta


difesa.
Da queste disposizioni apprendiamo caratteristiche interessantissime dell’artiglieria italiana
pre-rinascimentale; in primis, poiché la congiunzione latina seu non è disgiuntiva (‘o invece’)
bensì esplicativa (‘cioè’), c’è da ribadire la grande mancanza di rigorosità in Italia
nell’applicare la nomenclatura della più avanzata pirobolia europea, laddove infatti si
sinonimizza veuglaires con serpentines, canne da fuoco invece del tutto diverse tra loro,
come già sappiamo. Ciascuno dei suddetti 10 veuglaires (che di quelli qui si tratta e non di
serpentines) doveva avere la tromba (fr. volée), cioè la parte anteriore della canna, lunga
piedi 3½ e doveva esser corredata di due code affustate (per cui dette anche casse), di una
lunghezza queste che si lasciava al giudizio degli esperti locali, inoltre di mille proiettili di
pietra appunto per essi veuglaires e di due capondini o colubrine (collaverina o collovrina) da
6 piedi con 5 palle di ferro (solo 5… ma deve essere un errore del trascrittore) per queste.
Qualcuno ha interpretato nel passato il termine capondinus come traduzione del fr.
crapaudeau, ma erroneamente, perché qui reso sinonimo di colubrina, e, mentre quella era,
come sappiamo, una bocca da fuoco in due pezzi e a retrocarica, quindi del genere delle

239
bombarde, questa era invece una monofusione e ad avancarica, ascritta in Francia al genere
dei canons e in Italia a quello delle artillarie.
C’è poi da osservare che siamo ancora nel tempo in cui con le bocche da fuoco si lanciavano
spesso, oltre che tre o quattro palle di pietra alla volta, con esse - o anche da solo - anche un
dardo (lt. varatonum; gr. ἰός, βολίς) e ciò perché in effetti all’inizio del secolo precedente si
erano inventate con il principale intendimento di lanciare appunto verrettoni da balestra. Da
notarsi inoltre che l’uso di palle di ferro per le colubrine era stato oltremonte, come già
sappiamo, soppiantato già da tempo da quello di proiettili di piombo; inoltre che ogni
veuglaire doveva essere provvisto e fiancheggiato da due colubrine, perché evidentemente
con quelle si fronteggiava e si riparava dal fuoco nemico i propri artiglieri intenti al loro lavoro,
specie quando questi erano impegnati a ricaricare il veuglaire. Infine, tutte queste artiglierie
dovevano essere di rame (seu bronzo), chiamandosi allora il bronzo più spesso
semplicemente ‘rame’ in virtù del preponderante metallo di cui quella lega era fatta.
Un altro documento piu tardo, cioè del 31 luglio 1483, il commissario ducale di Vercelli,
Claudio Dambelli, invia al duca Carlo di Savoia le seguenti artiglierie della città:

… Et primo una pezia artigliarie de bronzo videlicet una bormbardella grossa vocata ‘voglero’
- et eius nomen LION – cum duabus caudis sive cazijs, posita super duabus rotis et fulta
nemore et chavaturis sibi necessarijs pro qualibet arma Ducati Sabaudi. (Ib.)

Questo veuglaire, di nome Lion, era corredeto di due camere (qui chiamate impropriamente
code) e trattavasi, come sappiamo, di un tipo di caricamento posteriore; due ne
rappresentavano un normale corredo. Seguivano una serpentina di ferro, una di bronzo di
nome Lest e una bombardella di ferro, tutti su affusto ruotato come il detto veuglaire, un
paletto di ferro dello spessore del braccio d’un uomo da usare come calcatore per caricare
dette artiglierie e un duplice stampo per fare pallottole di piombo.
Ecco poi un piccolo inventario d’artiglieria, anche questo vercellese, del 13 aprile 1505:

… In primis una bombardella con la coda et el cepo.


Una spingardella picolina.
Uno schiopetto.
Uno mortaro con el cepo.
Seij archibusi cum le soe maniche (tlt. anche cepi). (Ib.)

Ecco finalmente dei piccoli archibusi da porto individuale e non da posta.

Uno passavolante.
Una spingardella senza cepo (‘manico’).
Un'altra spingardella picola cum el cepo.
Doe code de spingardella. (Ib.)

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Abbiamo accennato a una sostanziale arretratezza dell’artiglieria italiana del Quattrocento
rispetto alla francese, in specie riguardo all’uso intensivo dei cannoni da palla di ferro
(‘cannoni serpentini’), pezzi più leggeri sia delle bombarde sia delle vecchie serpentine da
palla di piombo di grosso calibro, che i francesi trasportavano velocemente in campagna con
agili carrelli trainati da cavalli; metodo questo presto adottato anche dai tedeschi, ma che
tardò molto ad affermarsi in Italia, mentre in seguito l’imperatore Carlo V, come vedremo,
preferirà affidarsi ai muli. Ma subito dopo la detta venuta di Carlo VIII di Francia
s’incominceranno a fondere nell’Italia settentrionale, come più avanti vedremo, anche
falconetti e cortaldi o cannoni ferrieri; per questi ultimi s’iniziò con bocche da piccolo calibro e
quindi, per esempio, negli inventari del ducato di Ferrara troviamo cannoni ferrieri da solo
quattro libbre, bocche dette colà anche ferretti da cannone da 4. Il più evidente e importante
effetto di quell’evento fu comunque la fine della fabbricazione delle bombarde, le quali furono
ancora usate in tutt’Italia a consumazione di quelle già esistenti, a generale favore delle
canne di bronzo monofuse, petriere o ferriere che si volessero. Tra le ultime grosse
bombarde furono le due sparanti palle di pietra da 200 libbre che 1510 furono inviate da
Milano all’esercito della lega antifrancese che combatteva all’assedio di Novara, città allora
occupata appunto dai francesi di Carlo VIII, come ricorda Alessandro Peanzio Benedetti nei
suoi Diaria:

… Ea nocte bombardae duae íngentes in castra Mediolano delatæ sunt: quae pilas lapideas
librarum 200 emittebant. Iis sequenti die ingenti ruina turres et porta quatere caepunt, una
nocte toti ciuitatis faciem mutatam esse videres (Cit. F. 111 recto).

Ma si era proprio agli ultimi usi di quelle ormai non più costruite bombarde; infatti già qualche
anno prima, cioè nel 1496, Federico d’Aragona, principe di Altamura, il quale stava per
subentrare al morituro nipote Ferdinando II, aveva informato i suoi alleati della predetta lega
anti-angioina di aver preparato per l’assedio di Gaeta grande numero di artilarie grosse di
muri, canoni, spingarde, falchi (falconi in vn.), zirifalchi, passavolanti e archibusi per numero
da 80 e più, non nominando quindi alcuna bombarda (M. Sanudo, Diarii. T. I, colt. 334). In
realtà, rispetto alle altre d’Italia, l’artiglieria del Regno di Napoli risultava allora precorritrice,
perché i catalani vi avevavo già da tempo introdotto l’uso di gittare cannoni ferrieri alla
francese. A quanto infatti risulta da un documento napoletano pubblicato da Luigi Volpicella
nel 1910 (Le artiglierie di Castelnuovo nell'anno 1.500, in Archivio Storico Napoletano, XXXV
(1910), il regno di Napoli, approfittando della possibilità di copiare le bocche da fuoco
d’assedio abbandonatevi dall’esercito di Carlo VIII in ritirata, fu il primo potentato della
penisola a iniziare un adeguamento a tali innovazioni, soprattutto per quanto riguarda
l’introduzione dei predetti cannoni serpentini – del perché di questo nome abbiamo già detto;

241
ecco infatti quanto di più significativo si ricava da detto documento, il quale è un inventario
dell’artiglieria che si conservava nella monizione e in altri locali del Castel Nuovo di Napoli
alla fine del reame catalano-aragonese, relazione che fu stesa dal razionale della Regia
Camera della Sommaria Gabriele della Monica su mandato reale a partire dalla data del 17
dicembre 1499. Trattandosi di una rara testimonianza dello stato dell’artiglieria napoletana e
generalmente italiana alla fine del Medioevo, ne commenteremo ora le voci più significative
raggruppandole per tipologia e tralasciando, oltre all’infirnito materiale accessorio, anche le
polveri e gli attrezzi di servizio perché di ciò ci occuperemo più avanti dettagliatamente;
premettiamo inoltre che tutte le bocche da fuoco elencate erano complete del corrispondente
affusto più o meno integro:

15 cannoni serpentini.
Si tratta dunque di canne di metallo (‘bronzo’) ad avancarica con palla di ferro che non
avevano nulla a che fare con le vecchie piccole serpentine, queste con caricamento
posteriore a camera e a palla di pietra, come già sappiamo, e che stavano per esser
dismesse. 5 portavano lo stemma della Corona d’Aragona e due con quello di Francia; il che
può solo significare che questi, probabilmente bocche d’assedio non più necessarie alla
spedizione francese, siano stati lasciati dall’esercito di Carlo VIII, quando, alla fine del maggio
1496 (e non 1495, come si crede), si era ritirato dal Napoletano e che quelli siano stati fatti a
Napoli negli anni seguenti – se non in precedenza – prendendo questi a modello. Uno dei 5
con lo stemma aragonese era accompagnato da una ‘F’ incoronata, iniziale che naturalmente
ricordava il re che l’aveva fatto fabbricare. Gli altri 8 cannoni serpentini sono detti sensa
arme, cioè privi di qualsiasi stemma dinastico. In questa descrizione dei pezzi trascritta dal
Volpicella (cit.) mancano purtroppo quasi del tutto i dati numerici (peso, lunghezza, calibro e
millesimo), per cui non molto se ne può capire; solo del primo si dice che il calibro era di circa
19 rotoli di Napoli, cioè 28,5 libbre, essendo, come già sappiamo, un rotolo napoletano
equivalente a 1 libbra veneziana e mezza, e solo del primo e dell’ultimo che erano lunghi
circa 10 palmi napoletani, cioè m. 2,435; tutti sono detti semeli (‘simili’) al primo predetto.

3 cannoni perreri.
Questi, anch’essi di bronzo, erano per palla di pietra, uno da 100 libbre e 2 da settanta; sono
lunghi circa 11 palmi, cioè m. 2,678; sono decorati di uno scudo sensa arme, cioè della figura
di uno scudo vuoto, due però sormontati da una corona e uno da un motivo floreale.

15 sacri.

242
Canne di bronzo sfaccettate ottagolateri da palla di piombo con dado di ferro incorporato (ma
più tardi da palla di ferro), di cui la prima lunga circa 10 palmi e decorata con una ‘F’ e una ‘R’
(Federicus Rex) incoronate; le altre dette simili, ma alcune con la superficie sfaccettata
dodecagolatera, alcune decorate con la sola ‘F’ incoronata, uno lungo solo circa palmi 7 e
mezzo, tre lunghi palmi 9 e decorati con uno scudo vuoto.

4 colobrine.
2 gran colobrine francesi di bronzo, per palle di ferro da circa 10 rotoli, cioè da 15 libbre
veneziane, di cui una era detta la colobrina de Francza ed era lunga circa 19 palmi, cioè m.
4,626, decorata con una ‘K’ (Karolus) incoronata, l’altra di calibro simile, decorata con lo
stemma di Francia e detta sopra Pise, probabilmente perché adoperata dai francesi durante
la loro prima occupazione di quella città nel 1495. L’abbandono a Napoli anche di queste
altre potenti bocche da fuoco conferma che evidentemente Carlo VIII, per agevolare il suo
ritorno in Francia, non disponendo evidentemente ora di navi adeguate, volle liberarsi di
quelle pesanti artiglierie d’assedio che ora non più gli occorrevano e che gli avrebbero solo
fatto ritardare di molto la marcia della ritirata. Le altre 2 colubrine, anch’esse di bronzo, erano
invece decorate con uno scudo vuoto incoronato; una, lunga circa 15 palmi, quindi m. 3,652,
(dicono che era portata dal castello), e l’altra di circa palmi 13, quindi m. 3,165, è facta
novamente per mastro Patricio; sta sfornata.

4 girifalchi.
Si tratta di canne di bronzo da palla di piombo inclusivo di dado di ferro, di circa palmi 12 di
lunghezza (m. 2,922) decorati con lo stemma della Corona d’Aragona, con superficie
sfaccettata decagolatera; in seguito, come vedremo, saranno detti sagri o sacri.


Uno peczo de artegliaria de metallo dicto ‘la tortuca’ (‘la tartaruga’) con lo colarzo de boche
de lione, con uno scuto sopra; è laborato ala tortice (‘di torticcio’) ecc.

Lo stesso della Monica non sa qui classificare questa evidentemente vecchia bocca da fuoco
di bronzo, lunga circa palmi 11 (m. 2,678), da palla di piombo con dado di ferro, ma la elenca
dopo i girifalchi, ai quali sembra quindi volerla accomunare. Aveva dunque la superficie
esterna lavorata a tortiglione e la culatta decorata con motivi floreali di ‘bocche di leone’ e con
uno scudo vuoto.

25 falconi.

243
Canne di bronzo da palla di piombo con dado di ferro a superficie ottagolatera meno una
tonda, alcune lunghe circa palmi 8 (m. 1,948) altri palmi 9 (m. 2,191), quasi tutte decorate
con una ‘F’ (Federicus) incoronata tranne alcuni con lo stemma della Corona d’Aragona, altri
senza alcun segno e uno cum certo signale. Una è detto exivitato (‘exventato’) ala lumera,
cioè dalla lumiera sfoconata come poi meglio vedremo. Uno ructo (‘rotto’), pesante cantara
uno e rotola LXXj necto, cioè libbre veneziane 256,5, e un altro francese, sbentato
(‘sventato’, come l’altro predetto) e quindi, anche se non si trattava d’una bocca da fuoco
d’assedio, evidentemente per tal motivo anch’esso abbandonato dai francesi in ritirata.

16 smerigli.
Di bronzo, da pallottole di piombo… so posti sopra cavallecti sive affuti incorriati de ferro ad
modo de scanno; tra essi 13 con il segno della Croce eretta in corrispondenza della lumiera e
con una ‘F’ incoronata; pesanti da 71 a 75 rotola napoletani, quindi da 106,5 a 112,5 libbre
veneziane… li quali, secondo se refea (‘a quanto si riferisce’), le fe mastro Johanni de
Catania… Gli altri tre erano stati fatti invece da mastro Federico de Bergamo, secondo se
referea, con il segno d’un fiore alla lumiera, di cui due pesanti rotoli 67 ognuno e con una ‘F’
incoronata. In seguito saranno detti moschetti da braga.

17 zarbactane.
Nove di bronzo da palla di piombo, tra cui una grossa decorata con un fiore alla lumiera e
una ‘F’ incoronata, pesante circa 65 rotola (libbre 97,5), lunga circa palmi 5 (m. 1,217)… sta
in la forchecta de ferro... e le altre otto dette de serraglio de campo, cioè da difesa di circuito
d’accampamento, di cui due provviste di forchecta de ferro… dice so dela Regina (‘Giovanna
d’Aragona’), che fono pigliate dalo castelllo de Nocera quando si andò ad Diano. Tre di ferro
vecchie con i loro cippi; cinque di ferro saldato (lavorate de saldo) di cui quattro lunghe palmi
3 e una più grossa.

1 mascolo di cerbottana.
Si trattava infatti di canne da braga, cioè a retrocarica.

14 forchecte de ferro per bombarde et zarbactane… pesano rotola novantasei.

Naturalmente qui si intende per bombarde piccole, quindi per spingarde.

1 moschetto.

244
Di bronzo, da palla di piombo, pesante 33 rotoli (libbre veneziane 49,5), decorato con la
figura della Croce eretta … lo fe dicto Johanni, sta sopra cavallecto sive scanno
incorregiato…

1 rendeno.
Canna di bronzo simile alla precedente e che prendeva evidentemente il nome dalla forma
del suo cavalletto:

… ad modo de scoppecta (‘schioppetto’); sta sopra cavallecto a coda de rondena, cum la


clave; lo fe dicto Johanni.

199 spingarde (Di ferro, prive di manici.)


2 archibusi de ferro ructi.
La bombarda de metallo dicta la Melanese, grossa, sta davante lo Castello Novo, cioè la
tromba sopra lo carrectone ad quactro rote incorregiate (cioè, si trattava di ruote rinforzate
con avvolgimenti di ferro). Lo mascolo de dicta bombarda sta dintro lo tarcinale (‘darsenale’,
ora ‘arsenale’).
2 trombe de ligniame da boctare foco, longe circa palmi 4 l’una (cm. 97,4).
Sono quegli antichi lancia-fiamme tanto usati per molti secoli nella guerra marittima e più
conosciuti come trombe da galera.

6 mascoli (da bombarda grossa).


Sono 5 mascoli di ferro, di cui uno con doe anelle (da sollevamento), lungo circa palmi 2 (cm
48,70)… tirava la bombarda con circa un rotolo de petra; uno grosso, lungo circa palmi 3 (cm.
73,05)… che la bombarda tiraria più che 4 rotole de petra et è con doe anelle; uno assai
grosso, lungo circa palmi 4 (cm. 97,4); uno grosso assai, che si dice fo de la Generale, che
dice messer Loisi (Loise Cetaro, conservatore della Regia Artiglieria) non ce ha carrico ipso
(‘non l’ha in carico’); uno grosso, che fo de la bombarda Terrebele, sta nanti la sala dela
artigliaria. Uno di bronzo uno grosso, ma questo di bronzo, con doe anella grosse, sta fore,
vicino la porta dela sala predicta.

2 trombe de bombarda.
Di ferro, lunghe più di 4 palmi l’una (circa m. 1) tirano circa uno rotolo (libbra 1,5) de petra per
una; haveno quactro anella per una.

Una verrina per annectare la tromba del cannone perreri che tira libre libre sectanta; è de
ferro.
Un’altra verrina de ferroda annectare camere de cannon che tirano ferro.
Una verrina de ferro da verrinare li girifalchi, longa circa palmi 12.
Una verrina da verrinare sacri; è de ferro.
Una verrina de ferro da verrinare cannuni e colobrine, longa circa palmi 20.

245
Un’altra rota da verrinare falcuni, tucta de ligno.
Un’altra rota da verrinare sacri, tucta de ligno.

Questi erano grandi trapani (gr. τρΰπᾱνα; lt. terebra) per rifinire l’interno dell’anima delle
nuove bocche da fuoco appena gittate; ciò perché evidentemente la fondizione riusciva
all’interno delle canne normalmente piuttosto difettosa.

Una tavola de noce lunga palmi 15; diceno che è comperata da mastro Patricio per la forma
delo cannone che fa da presente, grosso, in la casa dove lavora mastro Jacobo carrecteri.
3 mascoli piccoli da bombarda (Lunghi ognuno palmi 1,5, cioè cm. 36,52).
Uno mascolo de metallo, picholo, che le soa zarbactane dice messer Loisi che è ala
Madalena (‘al ponte della Maddalena’) et è quella che venne da Aversa in tempo de francisi.
Dicto die dicto messer Loisi et Adohardo credenceri (‘credenzieri, fiduciari’) haveno declarato
havere havuto in la regia artegliaria uno peczo clamato ‘la Gran Colobrina’, de metallo, longa
palmi (deleto) et tira petra de ferro più grossa dele altre colobrine.
1956 palle da cannone (ferriero)
16 palle de ferro da cannone; le quale dice messer Loisi Setaro che le ahve comperate ipso
da diverse persone le hanno trovate per terra.
Palle de ferro da cannuni, doe, poco scantonate (‘insufficientemente tondate’).
413 palle da colobrina
36 pallocte de ferro da colobrina, che similiter dice dicto Loisi le ha comperate ipso.
86 pallocte de ferro dela colobrina de Piso (‘Pisa’).
Una palla de plumbo con lo dado de ferro dela colobrina de Pisa… (evidentemente palla
sperimentale).
339 pallocte de plumbo cum li dadi de ferro da girifalchi.
1 palla de ferro da girifalchi (evidentemente anche questa palla, in quanto di ferro,
sperimentale).
13 palle de plumbo, da falcuni.
115 petre de petra per cannuni serpentini.

C’è qui da ribadire quanto già più sopra affermato e cioè la confusione che si faceva in Italia
tra veuglaires e serpentine, per cui le suddette 115 palle di pietra per serpentino si devono
intendere appunto per veuglaires.

Petre de ferro rocte; pesano cantara 9, rotola 44 (libbre 1.416).


Petre quactro de ferro, da cannone.

Si era stati sino ad allora tanto abituati a tirare palle di pietra con le grandi artiglierie che
adesso anche le palle di ferro sono chiamate petre nel senso generale di ‘proiettili’ ormai
acquisito da questo vocabolo.

Dadi de ferro per pallocte de plumbo da falcuni et girifalchi, cantaro uno, rotola sexanta octo.
1.061 pallocte de plumbo cum li dadi de ferro da falcuni.
4 pallocte de plumbo da falcuni.
Pallocte de plumbo da zarbactane, archibusi, falconecti picholi et de altre sorte, cantara sei,
rotola cinquanta quactro (libbre veneziane 981).
246
13 pallocte de plombo da falcunecti.
53 dadi de ferro da fare pallocte de plumbo per falconecti.

È una delle poche volte in cui questo inventario menziona falconetti.

38 petre da fare forme de pallocte.


14 forme de petra da fare pallocte de girifalchi et de falconi.
Petre quactro, da fare furni da pallocte.

Dunque colavano il piombo fuso da pallottole in forme di pietra; ma non solo di pietra:

4 forme de metallo (‘bronzo’) con le tenaglie de ferro da fare pallocte per falcuni.
Uno affuto de cannone fornito de ligniame.
Uno affuto da falconi, fornito de ligniame solamente (cioè mancavano le necessarie
guarnizioni di ferro).
Due affuti novi per falcuni, lavorati, con loro traverse.
Uno affuto novo de ulmo per girifalco, integro con soe traverse.
Uno affuto ala antica per bombarda, longo circa palmi 12; dicono non vale se non per
legnia.
Uno scanno de czarbactana de serraglio da campo (cioè da difesa di recinto di
accampamento).
Octo affuti vechij che haveno servuti per affuti de falcuni, che tucti so senza ferro (cioè,
privi delle suddette guarnizioni).
Uno affuto vechio de girifalco, che have servuto et è vechio et sensa ferri.
Uno affuto de cortaldo, vechio, sensa ferro.
Uno affuto de cannone, vechio et guasto, sensa ferri.
Uno scanno de zarbactana, ala antiqua.
Meczo affuto per falcone, vecchio, con una corregia de ferro in ponta.
Dui cavallecti per tirare con zarbactane.
Uno scanno da zarbactana, senza pedi.
Meczo affuto per falcone vechio con una corregia de ferro in ponta.
Uno lecto de ligniame da portare bombarde, sensa rote.
Uno carrectone con le rote incorregiate da portare cannone, mancante le piastre de ferro
de sopra et una de sopto.
Un altro carrectone, più picholo, da portare cannone, sensa rote et sguarnito.
Uno lecto de ulmo, con le traverse, da strassinare omne peczo de artegliaria, che
volgarmente have nome ‘vastaso’ (‘facchino’).
Uno carrectone da portare cannuni, ad lo quale so 8 perni et doe correge de ferro per socto
lo asso.
Una vita con li crochi de ferro in pede; serve per alczare le bombarde grosse sopra li
carrectuni.
Lecti tre de carrectuni da portare artegliaria grossa.
Dui lecti da portare bombarde grosse al’antiqua.
Uno barchione grosso per tirare artegliaria in alto.
Dui lecti da portare bombarde grosse (uno dei quali privo di timone).

Inoltre c’erano più di mille tra barili e caratelli (caraguoli; ts. quarteroli)), cioè ‘quarti di botte’,
di polveri, solfo, salnitro, pece, un grande numero di strumenti per la fusione, il maneggio e il
trasporto delle artiglierie, oltre naturalmente a molte armi da difesa e da offesa per la fanteria

247
e la cavalleria. Per completare questo periodo dell’artiglieria napoletana, aggiungiamo un
altro interessante documento d’archivio riportato dal Volpicella e cioè lo stato del personale e
dei relativi salari mensili nell’agosto del 1498 (cit.):

Officiali.
Messer Luise Setaro, conservatore della regia artiglieria: 10 ducati.
Messer Odoardo de Nolis, de officio (‘con l’incarico’) de scrivano de racione in dicta
artegliaria: 12 ducati.
Mastro Antonio Joardo genoese, funditore: 16 ducati.
Mastro Johanne de Cathania, funditore et mastro mannese (mannarese?): 8 ducati.
Mastro Federico francese, funditore: 10 ducati.
Mastro Pietro de Coria, mannese, spagniolo: 4 ducati.
Mastro Johan Francesco Cappello, mastro d’axa (‘d’ascia’): 2 ducati. Mastro Batasacro
(‘Balthasar’?) Ancione, mannese: 2 ducati.
Johan Baptista Stinca, scrivano appresso messer Loise Setaro: 4 ducati.
Johan Baptista de Czicco, quale serve appresso la artegliaria de suprastante et in più altre
cose: 5 ducati.

Bombarderi.
Mastro Jacobo Todisco: 12 ducati.
Flochet: 8 ducati.
Antonello de Johanne de Trane: 8 ducati.
Mastro Arrico Marzucco: 8 ducati.
Acman de Acman: 4 ducati.
Guglelmo Gelece: 4 ducati.
Todeschino de Sangal: 4 ducati.
Urbano Franfort: 4 ducati.
Andria de Brusel: 4 ducati.
Simone de Nicolò Borgongnone: 4 ducati.
Acman de Camp: 4 ducati.
Petro Ambel: 4 ducati.
Petro Corso: 4 ducati.
Ambrosino Joardo: 6 ducati.

Lavoranti de’ fonditori.


Cola Marino dela Mandolara, per lo salario suo del mese de Julio, in lo quale ha servito in
Ferrara et (in) desterarre forme de bombarde et in multe altre cose necessarie in lo fondere
dela
artegliaria (che) fanno li mastri fonditori arretroscripti: 2 ducati.
Loise de lo Cilento: 2 ducati
Cola dela Castellucza: 2 ducati.
Mercurio de Cio (‘Ciro’?) dela Cava (‘Cava dei Tirreni’): 2 ducati.
Silvestro Palumbo: 2 ducati.
Johanne Sagarra dela thesauraria del Signor Re à (‘ha’) servito per thesoriero in la regio
artegliaria: 2 ducati.

Certamente uno degli aspetti più interessanti di questo elenco è la nazionalità del personale;
gli ufficiali e i lavoranti sono in maggioranza italiani mentre i bombardieri sono in gran parte
stranieri, specie borgognoni (oggi diremmo ‘belgi’).

248
Interessante è ora confrontare con il suddetto inventario di Castel Nuovo un altro della stessa
monizione, anche se più stringato, fatto nel 1519, quindi esattamente vent’anni più tardi, che
reperimmo in un fascio del fondo Excerpta della Sezione Militare dell’Archivio di Stato di
Napoli; avvisiamo il lettore che trascriviamo qui tutto il possibile in quanto diverse parole non
erano intellegibili:

Artiglierie di bronzo.
Un cannone duppio perero buono decorato con lo stemma reale, detto Ferrando, con suo
affusto e ruote ferrate, da 60 rotoli di pietra di calibro.
5 cannoni serpentini buoni da palla di ferro (tira petra de ferro), di cui uno duppio detto lo
Rosignolo; uno detto la Agula e decorato con lo stemma reale e una bocca di leone alla
culatta (culazza); uno detto Ferrando; uno mostrante lo stemma reale e le cifre M.C.CCC
(evidentemente incomplete) dopo la culatta, con suo affusto e ruote ferate.
Una colobrina bastarda buona dal calibro di libbre 16½ (tira petra de ferro) fornita di
affusto e ruote ferrate.
Una colobrina buona detta Madama de Forlì (tira petra de ferro) con affusto e ruote
ferrate, ma con non buona corona (?).
Quattro metze colubrine sive sacri bastardi, di cui una quasi buona decorata con le
armi reali di Spagna; tre con affusto e ruote ferrate; una senza stemma; una
decorata con una campana e con un’aquila incoronata.
Tre sacri buoni di cui uno con affusto e ruote ferrate, uno senz’arme o stemma che
dir si voglia e due con l’arme del duca di Milano (serpe et fiore de lis).
Un girifalco o vero sacro.
Due falconetti buoni di cui uno con le armi del re Federico.
Due smerigli sive mosqueti (da braga) di cui uno decorato con le armi del re
Federico e l’altro, alla culazza, con la Croce.
Una bombarda buona [...] la qual tira petra de petra.
42 archibusi de bronzo.

Artiglierie di ferro.
Bombardelle.
Arquebusi.
16 scopette (‘schioppetti’).
Pelote octo de foco artificiale a modo de meloni.
Mascoli per tirar (nel)le feste.

Attrezzi.
Carocaturi (‘cazze’) per canone sey con soe netaturi.
Carocaturi per colobrine con soe netaturi.
Carocaturi per sacri, metze colobrine, girifalco et falconeti dece con soy nectaturi.
Carro buono con quatro rotte ferrate [... (con il quale)] levano (‘trasportano’) la petza del
Emperador dicta ‘la Leona’.
Carro buono con quatro rotte ferrate [...] levano la petza del Emperador dicta ‘Veronesa’
Mortaro buono de bronzo grande con suo pistone de ferro per machinar polvora.
Una campanela per la guardia.

Seguivano varie partite di proiettili che per brevità così raggruppiamo:

249
Petre de ferro per i cannoni serpentini, cannoni duppi serpentini (tra cui quello posto dietro
lo Rosignolo), colobrine, metze colobrine, sacri.
Petre de petra per lo cannone duppio dietro (lo) Ferrando e per la bombardella de bronzo.
Petre de piombo per falconeti, smerigli e arquebusi.
Dadi di ferro per smerigli.

Altri materiali.
Polvore in barrili
Salnitro
Sulfo
Carbone de salice.

Altre armi.
200 balestre
Alabarde
Picche (molte).
35 lanze de hommyni d’arme con li ferri.
Mosquete
4 arquebusy de bronzo
Bombarda de ferro buona
Balestre de adzaro (‘acciaio’).

Anche se il Medioevo è ormai alle spalle, non ancora si notano, rispetto all’inventario
precedente,
differenze evolutive sostanziali; interessante osservare che le cazze per le cariche di polvere
già
allora portavano all’estremità opposta dell’asta un nettatore.
Ancora molto medievale risulta poi l’artiglieria parigina che leggiamo in un inventario del 1505
riportato dal Bonaparte; l’abbiamo riassunto per brevità:

- 22 vuglaires.
Sono in gran maggioranza affustati (uno è detto mal affustè), presumibilmente di bronzo, e
sono, anche in gran maggioranza, corredati di una o due camere. Sono lunghi dai 12½ pollici
ai 3 piedi e il calibro va dai 2 pollici ai 9.
Sono tutti marcati con il marchio del fabbricante, cioè con un semplice segno geometrico, per
esempio tre oches (‘tacche’) o una x oppure una croce con un cerchietto in ognuno dei 4
quarti ecc. Una è marcata con lo stemma di Parigi. Ne sono annotati la lunghezza della
canna e il calibro in pollici.

- 14 mortiers.
Sono in gran maggioranza affustati, presumibilmente di bronzo, fatti di un solo pezzo e quindi
ad avancarica e marcati con lo stemma di Parigi. La lunghezza varia dai 4½ pollici ai 2 piedi e
4 pollici e il calibro da 1½ a 7 pollici.

250
- 9 serpentines.
6 di queste canne di ferro erano accoppiate a due per affusto, lunghe da 30 a 32 pollici, tutte
del calibo di un solo pollice, guanite di alcune camere, perché evidentemente dal caricamento
uguale a quello delle veuglaires e, anche come le veuglaires, variamente marcate. Tre altre,
di bronzo, sono elencate senza alcun dettaglio.

- 42 coullevrines.
23 di ferro e 14 di bronzo (‘cuyvre’), lunghe da 22 a 46 pollici e dal calibro da circa 1 ai 2
pollici, in maggioranza affustate e guarnite d’una camera e marcate generalmente con le armi
della città di Parigi e, in aggiunta, con altri marchi del genere dei suddetti. Due di queste
colubrine sono affustate insieme, come le suddette serpentine, ma è molto probabile che si
tratti solo di un semplice errore di denominazione fatto dell’estensore dell’inventario.

- 21 coullevrines di bronzo e15 di ferro a miccia e a forcina (‘à mesches et crochet’), di


cui una rotta, variamente marcate.
Sono quelle che presto in Francia saranno dette arquebuses à crochet, cioè da appoggio su
forcina e da accensione con miccia (cioè da uso di fanteria).

- 1 faulconneau.
Questo pezzo, affustato, marcato e dotato di una camera, lungo 22 pollici e dal calibro di 3
pollici, presenta tutte le caratteristiche di una veuglaire e non sappiamo quindi spiegare
perché lo si chiami invece falconetto, canna questa ad avancarica e allora di nuova
concezione. Forse l’inventariatore, inesperto delle nuove canne e ravvisandovi delle
caratteristiche esteriori diverse, l’aveva creduto appunto qualcosa di diverso dalle veuglaires.

- 1 courteau.
Questo era, come già sappiamo, un più antico nome francese dato a cannoni di ferro, ma in
questo caso si trattava di una bocca da fuoco di bronzo camerata, quindi a retrocarica, da
solo 6 pollici di lunghezza e forse proprio per quella sua brevità era stata così
impropriamernte battezzata. In realtà si trattava di una vecchia canna sui generis conservata
in quell’armeria parigina e che abbiamo già descritta in inventari più antichi, a partire da
quello del 1430, dove però era chiamata non courteau bensì une boite o genericamente ung
canon a 7 bocche (‘7 troux’) ed era descritta lunga una spanna e, allora, priva di camera; si
trattava in effetti di un’antenata dell’organo, cioè appunto di una multicanna a 7 canne (‘...qui
porte sept pièces…’) lancianti 7 proiettili di piombo contemporaneamente e che si vedeva
però ora di nuovo provvista di una camera.

- 36 hacquebutes di ferro.
Su queste piccole canne plombiere e sul loro nome hacquebutes ci siamo già dilungati più
sopra; peccato che non ne sia qui annotato alcun particolare.
251
E risultano a quest’epoca nell’armeria municipale parigina (‘hostel de la ville’) ancora
conservate grosse balestre da postazione:

- 48 grandi arbalestre d’acciaio.


- 5 grandi arbalestre di legno di tasso.
- 26 verricelli (‘signolles’) per dette arbalestre, più due vecchi verricelli.
- 7 tracolle (‘bauldriers’) di cuoio per tendere arbalestre.
- Casse di dardi d’arbalestre e di varie sorte tutti ferrati, forse una sola cassa (in
tutto)…
- Mezza cassa di vecchi ferri d’arbalestra.
- Una mezza cassa di ferri d’arbalestra dipinti di nero (‘noircies’).
- Più di 6 barili di ferri non dipinti (‘blancs’) d’arbalestra avvolti di calce bianca.

Evidentemente erano tenuti nella calce per evitare che s’arruginissero. Inoltre:

- Pavesi mediani di diverse grandezze e fatture.


- Altri pavesi grandi.
- Archi di legno di tasso.
- Circa 30 faretre di dardi senza legacci, mal intessute (‘sans lier mal enpane’).
- 6 fusti di lance che sono serviti e funsero da stendardi.
- 2 stendardi e una bandiera di taffetà con lo stemma della detta città (di Parigi).
- Pro-memoria per ricoprire le banderuole dei trombetti che sono nelle mani del
capitano.
- Più uno stendardo che serve agli arcieri e arbalestrieri della detta città.
- Due casse di quadriboli.
- Gran picche di ferro senza fusti.
- Un gran paio di tenaglie.
- Stampi di pietra d’Ipre da far piombini, di diversa grossezza.
- Uno stampo di rame da fare i piombini per i falconetti che sono in dotazione ai
guarda-porte (‘quarteniers’).
- Un gran baule di 6 o 7 piedi di lunghezza con chiusura a chiave.
- Un cesto di corde d’arbalestre.
- Un gran tino che serve a far polvere da cannone.
- Cocconi di legno piano… (?).
- 2 macchine da fare corde di arbalestre.
- 64 barili di polvere da cannone.
- 2 bauli multiuso (‘à plusieurs hoites’) guarniti in parte da piombi di diverse
grossezze.

252
Capitolo V.
Dalla fine del Medioevo alla Controriforma.

È veramente singolare, per tornare ora alla teoria dell’artiglieria, che nessuno degli autori
cinquecenteschi e seicenteschi da noi letti e studiati faccia menzione dei loro predecessori
del Quattrocento, quali Francesco Maurizio di Giorgio di Martino, Leonardo da Vinci,
Bonaccorso Ghiberti, Paolo Santini e gli altri citati dal Promis; anzi, addirittura il primo d’essi
in ordine di tempo, cioè il già citato Vannoccio de Biringuccis, si vantava d’esser il primo a
trattare diffusamente delle artiglierie:

… Prima che più oltre proceda, vi voglio le differenzie dell’artigliarie dimostrare secondo che
per l’ope fatte ho possuto comprendere, perché (chi) anchora ne scriva o dica alcun non se
trova; ne ancho chi di tal orribile e spaventoso strumento fosse inventore, ch’io sappi, in luce
universale noto non è. Credesi che venisse della Alemagna trovato a caso, secondo il
Cornazzano, da manco di 300 anni in qua… Io ho di queste vogliuto tritamene parlare, però
che mi son pensato che di tal cose non ne avesti prima notizia alcuna. (Cit. P. 78v.)

Il de Biringuccis continua osservando che ai suoi tempi non c’erano regole precise nella
fonditura delle bocche da fuoco e ogni maestro gittatore (tlt. funditor tormentorum bellicorum)
le faceva come più gli piaceva, secondo la sua personale esperienza, o come piaceva il
signore per cui lavorava, secondo cioè le personali convinzioni di quest’ultimo:

… Tal che si può dire sì di quelli che in questo effetto chiamiamo antichi come oggi li nostri
che a noi son moderni, mai né infra l’una specie né infra l’altra, di quelle che si veggono,
misure proprie non ho trovate e quelli maestri che, per farsi reputazione, dicono averle si
parten dal vero e non le hanno; né altrimenti veggo se no(n) che a chi è piaciuto il farle
longhe e di pallotta piccola, come le cerbottane, o un poco maggiori, come passavolanti e
basalischi, ed a chi è piaciuto le corte, come le spingarde, mortari, cortaldi, cannoni,
bombarde e simili, e, per concludere, a me pare che in ogni età gli huomini siano andati ed
hoggi anchor vadi(no) facendo secondo che si pensa con essa poter operar meglio il suo
effetto o secondo le voglie di chi le fa fare o di quelli maestri che le fanno; ma solo nelle
grossezze del bronzo, misurando, ho trovato regola e questa anchor non fermamente
osservata e tal regola anchor mi penso che sia stata trovata per certa sperienzia da maestri
per moderazione della cosa più che per fare che le sien migliori… Vi dico che così come le
misure e lor grandezze così sono li nomi posti a beneplacito de’ capitani, secondo l’età de’
tempi che si trovano o secondo le provincie dove gli son posti così si chiamano. (Ib.)

La nomenclatura dell’artiglieria qui ricordata dal de Biringuccis è infatti ancora quella


medioevale, ma ciò non deve meravigliare, perché egli fu un fonditore che, che come
abbiamo già detto, visse durante la transizione dalla vecchia artiglieria italiana alla nuova
uniformata portata in Italia per la prima volta da Carlo VIII; infatti in un documento senese a
partita doppia del 1495, tra l’altro, si pareggiano al già ricordato fonditore Giacomo di
253
Bartolomeo Gozzarelli 1.200 libbre di bronzo prima in ‘dare’ perché residue di un quantitativo
da lui avuto dal Comune per la fabbricazione di un cortaldo:

… e li quali li aviamo datto quando lui ci fece per la Chamara (dell’artiglieria) uno chortaldo al
modo di quelli di re di Francia in su la spina, overo di queli fano li altri, 1200. (Cit.)

Ci si riferisce qui a una canna in bilico su orecchioni e, poiché si dice in su la spina, c’è da
pensare che i due orecchioni facessero parte di un’unica spina, cioè di un’unica traversa
cilindrica di bronzo sottostante la culatta e non di due differenti formazioni laterali alla canna
come si farà più tardi. Ma nella colonna ‘avere’ le dette 1.200 libbre si portano a pareggio,
perché si era nel frattempo ordinato a detto fonditore di consegnarle all’altro fonditore nonché
trattatista Vannoccio detto il de Biringuccis:

… lb. 1200 di bronzo li quali li cometerno che lo dexe a Vannoccio di Pavolo di Vannoccio per
fare li falchonetti per la Chamara e so (‘pertanto’) a Vannoccio in debito… (ib.)

Il de Biringuccis fondeva falconetti, anche queste artiglierie più moderne di tipo francese; per
quanto riguarda il suo nome, ecco la sua fede di battesimo del 1480, da noi solo un po’
modernizzata, in cui s’imbatté fortunatamente l’Angelucci:

Vannoccio, Vincenzio, Augustino, Luca figliuolo di Pavolo di Vannoccio di Pavolo di Goro si


battezzò adì xx d’ottobre; fu compare frate Giovanni, frate di Santo Francesco e rettore di
Santo Giorgio. (A. Angelucci. Cit.)

Il padre Paolo fu Vannoccio fu Paolo ( i due nomi si alternano infatti a ogni generazione) era
uno dei tre provveditori della Camera (oggi diremmo ‘dell’Ente’) del Comune di Siena e
appare firmatario di un decreto-rendiconto del 26 luglio 1504, in cui si determina il saldo del
dare-avere accumulatosi con il calderaro mastro Antonio di mastro Giacomo detto Togniuolo,
il quale negli ultimi tempi aveva fabbricato per detto Comune diverse bocche da fuoco e cioè
una coda di bombarde e altre per passavolanti e poi passavolanti interi, falconetti piccoli,
schioppetti e archibusi. Con il quantitativo di bronzo teoricamente residuato da quelli a suo
tempo fornitigli per quei lavori dal Comune mastro Antonio avrebbe dovuto fabbricare ancora
due piccoli falconetti da 250-260 libbre di peso ognuno, cioè simili ma due che aveva già fatto
e che armavano la postazione di guardia detta a Siena Guardia de’ Provvisionati, da
consegnarsi nel limite di un anno, e poi, nel limite invece di due, un falconetto grande dal
peso di circa 1.200 libbre; e fabbricare falconetti significava allora fare della artiglieria ‘di
ultima generazione’, come avremmo detto oggi. Ribadiamo che in qualsiasi comune d’Italia ai
mastri incaricati dalle autorità di fabbricare manufatti di un certo costo si richiedeva la sola

254
opera e non anche i materiali, i quali erano invece regolarmente o forniti dal pubblico
committente o acquistati dall’appaltatore con denaro dal committente anticipatogli; ciò perché
si sarebbe trattato di anticipare somme di cui generalmente gli artefici del tempo non
disponevano. Per esempio l’11 maggio 1508 il Comune di Siena pagherà finalmente al
mastro di legname Lonardo di Piero Lucarini la sola manifattura di 8 carri per il trasporto delle
artiglierie commissionatigli ben sette anni prima, remunerandolo con fiorini 14 da 4 lire il
fiorino per ogni carro e avendogli appunto a suo tempo già anticipato il prezzo per l’acquisto
dei necessari legnami e ferramenta; ma, per tornare al de Biringuccis, osserveremo anche
che il 15 settembre 1506 il detto Comune di Siena vendeva al concittadino Pier Francesco di
Andrea de Picholominibus un'altra bocca da fuoco molto moderna gittata dal suddetto
Vannoccio di Paolo, fonditore e trattatista, e cioè un sagro di bronzo bonum et probatum, dal
peso di lb. 1.230 e provvisto di cassa di legno senza ruote, al prezzo di lire senesi 553 e soldi
10 (cioè e mezza), quindi a lire 45 per quintale di libbra (centenario), da pagarsi nelle mani
dello stesso padre di Vannuccio, Paolo, ora detto operarius della Camera comunale.
Rifacendoci indietro solo di pochi anni, cioè al 1496, troviamo fabbricati a Montepulciano per
conto del comune di Siena ancora due cortaldi - questo, come sappiamo, il primo nome che
fu nel Medioevo dato dai francesi ai cannoni ferrieri, per un totale di circa 11.000 libbre di
bronzo e un prezzo di 800 lire, bocche da fuoco gittate dai maestri fonditori Giacomo di
Bartolomeo Gozzarelli sunnominato e Carlo di Andrea d’Augustino, evidentemente nipote
dell’Augustino di Nicola da Piacenza di cui abbiamo detto più sopra. Ma, per tornare al
concetto della mancanza d’uniformità espresso dal predetto de Biringuccis, esso riecheggia
quello espresso molto tempo prima, ossia nel 1454, da Lampo Birago nel suo Strategicon
adversus Turcos e riportato dal Promis:

Non est autem bombardarum modus certus, utique quas liceat ad arbitrium sive opificiis sive
eius cui parantur, qua cuique placuerit magnitudine excudere, ascendentes a sclopetis
minimis usque ad bombardas maximas. (Lampo Birago, Strategikon adversus turcos. 1454.
Ms. della Bitlt. Vaticana.)

Non che il problema non si fosse infatti posto da sempre e pertanto già in una provvisione
savoiarda dell’8 marzo 1432, la quale aveva lo scopo di premunire l’Adda da eventuali
tentativi che i veneziani facessero di passarlo, tra l’altro materiale d’artiglieria così si era letto:

Item Bombarde iiij, tute d’una trata (‘tutte dello stesso calibro’) fornite de preda (‘pietra’).

Ma, oltre al rapporto tra forza della carica di polvere e spessore del bronzo, erano comunque
già noti ai tempi del de Biringuccis altri basilari concetti che infatti questo autore chiaramente

255
esprime, quale l’altro rapporto tra lunghezza della canna, quantità di polvere buona e quindi
gittata della bocca da fuoco, quale la necessità di spessori di metallo diversi secondo i punti
della canna, etc. Inoltre egli stesso accenna poco più avanti al nuovo modo di classificare le
bocche da fuoco e cioè in base alle misure, le quali ormai già si calcolavano, come abbiamo
visto, usandosi come unità di misura il diametro della palla della bocca da fuoco stessa:

… questo uso moderno, quale dispone li pezzi secondo le spezie (‘specie’) in grossezza e
lunghezza carattate (‘misurate’), però tutte tal misure dal diametro e grossezza della palla
ch’el patrone vuol che tirino… (V.de Biringuccis. Cit.)

Questo nuovo metodo era per esempio adoperato per calcolare gli spessori delle colubrine e
i loro calibri, misure più o meno equivalenti a quelle che poi il Collado codificherà per primo in
Italia, mentre ancora molto varia e soggettiva risultava la determinazione della lunghezza di
queste potenti bocche:

… ed in farle se osserva le grossezze del bronzo da pie’ tutto il diametro della palla o più e
nella bocca il mezzo ed in lunghezza quel ch’el maestro o’l patron che le fa fare più lor
piace… (Ib.)

Il de Biringuccis sembra così elevarsi dai concetti della fondizione tradizionale dell’artiglieria
italiana, probabilmente per l’esperienze fatte in Germania (Ho in Alemagna al tempo di
Massimiliano veduto…) ed è noto quanta attenzione l’imperatore Massimiliano dedicasse alla
sua numerosa artiglieria; per esempio il secretario (‘console, residente’) veneziano Vincenzo
Quirini così s’esprimeva nella relazione stesa nel 1507, alla fine cioè della sua legazione alla
corte del detto sovrano:

… Si ritrova ancora Sua Maestà – il che pure accresce il poter suo – una gran copia di
bellissime artiglierie grosse e minute, da campo e da batter fortezze e ne ha tante che forse
niun altro principe christiano gli è in questo eguale non che superiore; ne è maraviglia che ne
habbia molte e belle, per esser principe che più di niun altro si diletta e s’intende di esse e
per haver ‘etiam’ commodità grandissima e poca spesa in farle gettare per rispetto delle sue
miniere, dove ha tanto metallo quanto gli piace senza pagamento alcuno. (Eugenio Albéri, Le
relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il secolo decimosesto. S. I, v. VI, p. 30.
Firenze, 1839-1865.)

Questa bontà e abbondanza d’artiglieria in Germania sussisterà ancora anche alla fine del
secolo, come si legge nella relazione del residente veneziano Tommaso Contarini, la quale è
del 1596:

In Germania è gran commodità di far polveri, essendo la terra - e massime in Boemia –


asciutta e netta dall’humidità; e però (‘perciò’) in Praga se ne fa della buona, siccome in
Germania la migliore si fa in Argentina (territorio di Strasburgo), Norimberga ed in Svevia; ma
256
la polvere di Boemia è più lustra e più netta e però (‘perciò’) non lascia tanta feccia
nell’arcobugio come fa l’altra.
In Germania si trova gran copia d’artiglieria e particolarmente cadauna città delle terre
franche ne è ben fornita, sicché non solo basta per la difesa, ma sopravanza ancora; la quale
artiglieria viene molto ben governata, siccome anco gli altri istromenti bellici. I principi ne
hanno ben fornite le loro terre e castelli siccome degli altri istromenti e particolarmente, fra
gl’altri principi, vien stimato l’armamento dell’elettor di Sassonia a Dresden, dove è la sua
residenza, il quale per la qualità è eccellente e per la quantità è maraviglioso. (Ib. P. 212.)

Bisogna però precisare che, anche se i veri esperti come il Biringuccio applicavano alla
fondizione delle artiglierie i giusti concetti e le giuste proporzioni, ancora dopo la metà del
Cinquecento sopravviveva nell’opinione qualcuna delle precedenti credenze sbagliate, specie
quella che più lunga fose la canna e maggiore fosse la gittata dell’arma:
… e forse che la cagione per la quale con l'archibugio più lungo si fa tiro maggiore che con il
più picciolo non é altra che per conservarsi nell'archibugio più lungo union maggiore di aere
mosso; e questo per esser in lui il canale maggiore, nel quale è molto versfimile […] ch'esso
aere s'informi dell'impeto e della violenza del fuoco più unitamente che non fa nel piu picciolo,
dal cui canale, si come piu corto, uscendo meno informato e per minore spatio rinchiuso, più
ageuolmente si perde o si smembra in varie parti più di quello che avvenga nell'archibugio più
lungo, onde non è maraviglia se non fa poi tanto gran colpo questo come l'altro. (Antonio
Scaino, Trattato del giuoco della palla. PP. 216-217. Venezia, 1555.)

All’inizio del Cinquecento la migliore artiglieria italiana si poteva trovare a Ferrara dove già
Ercole I d’Este (1431-1505) se n’era sempre molto interessato con grande competenza e
successo; infatti durante la cosiddetta ‘guerra del sale’ persino Venezia fronteggiava a fatica
la qualità dell’artiglierria estense schierata contro la sua potente armata fluviale:

… Ed Ercole aveva piantato in diversi luoghi della riva del PO macchine bronzee (‘artiglierie’),
con il cui getto rendere al Veneto pericolosa ogni cosa, perforare le navi e sommergerle con
tutti gli uomini. Non c’era arma, vallo, infine riparo alcuno che potesse resistere a quella peste
perniciosa. Per la qual cosa successe che l’armata veneziana, quantunque fossero nelle navi
artiglierie e macchine d’ogni genere e inoltre navi e uomini le fosero mandate di rinforzo ogni
giorno, ne restasse tuttavia massimamente fracassata. Persero infatti quasi ottocento
imbarcazioni tra quelle così affondate, quelle sommerse dalle rovine delle mura di Ficarolo e
quelle catturate dai nemici (Pietro Curneo, Commentarius de bello ferrariensi etc. In LT. A.
Muratori. Cit. C. 1.207, t. 21. Milano, 1732).

Ma ora Alfonso I (1476-1534) le aveva dato un ulteriore, notevole impulso, come leggiamo
nelle Memoires del maresciallo di Francia Robert de la Marck, signore di Fleuranges e
Sedan, laddove ricorda episodi della guerra detta della Lega Santa, avvenuti nel 1511:

… Il duca di Ferrara era un nobile principe, uomo di guerra di grande intelligenza e ardito, il
quale trovava tutto il suo passatempo ed esercizio nel fondere artiglieria, come anche nel
fortificare ed edificare, e non c’era alcuno dei suoi fonditori che lo facesse meglio di lui; e io
stesso ho visto in due granai ben trecento grosse bocche da fuoco appartenenti al detto duca

257
e credo che tutti i principi d’Italia messi insieme non avrebbero tanta e così bella artiglieria
quanta ne ha lui solo. Aveva tre granai: uno in cui si faceva la fonderia, un altro in cui si
facevano le forme e un altro in cui si facevano gli affusti e le ruote. (Robert de la Marck,
signore di Fleuranges e Sedan, Mémoires in Collection complète des mémoires relatifs a
l’histoire de France etc. Tomo XV. Parigi, 1827.)

Aveva tra le altre il duca Alfonso, alleato dei francesi, una bocca da fuoco per quei tempi
veramente eccezionale, piazzata contro il campo nemico dei papalini e dei veneziani:

… un pezzo che si chiamava ‘Il Gran Diavolo’, il più bello che io avessi mai visto e che meglio
tirasse, il quale dava un’incredibile gran travaglio al loro detto campo e ammazzava loro
molta gente (ib.)

Come vedremo, con questo nome di “Gran Diavolo” verranno battezzate a Ferrara anche
bocche da fuoco più tarde e il nome verrà usato anche in Spagna ai tempi di Carlo V; ma, a
ulteriore dimostrazione di quanto curasse la sua artiglieria il duca Alfonso I, c’è una lettera
che gli inviò il 24 febbraio 1528 il gittatore d’artiglierie Sigismondo d’Alberghetto, figlio
appunto del fu Alberghetto, anch’egli fonditore, nato questi nella contrada S. Paolo di Ferrara,
mentre Sigismondo allora abitava in quella di S. Blasio a Venezia, città in cui egli e i suoi figli
operavano al servizio della Serenissima appunto come noti e apprezzati fonditori d’artiglierie.
Nella detta missiva Sigismondo gli si professava, unitamente ai suoi, suo servitore ed,
essendo nel frattempo deceduto Giacomo Bevilacqua, maestro delle artiglierie di quel ducato,
gli offriva di subentrare con i figli al defunto; quale unico premio d'ingaggio, chiedeva
l'esenzione fiscale per i beni di famiglia siti a Massa Fiscaglia. Nel caso il duca non avesse
accettato, gli chiedeva in alternativa di assumere nel suddetto prestigioso incarico il solo figlio
Fabio senza alcuna esenzione fiscale (A. Angelucci. Cit). Evidentemente però Alfonso non
ritenne di aver bisogno di quei pur eccellenti fonditori, per giunta suoi sudditi, e non accettò le
loro offerte perché qualche tempo dopo troveremo Fabio di Sigismondo a capo della fonderia
di famiglia presso l’arsenale di Venezia; alla fine dello stesso 1528 Sigismondo soggiornava
comunque a Ferrara dove acquistava un appezzamento da certo Antonio M. Aranio (o
Aragno) fu Andrea, soprannominato 'Barban', di Massa Fiscaglia con atto rogato il 6
novembre dal notaio Galeazzo Schivazappa. Gli ‘Alberghetti’ continueranno a servire la
Serenissima, come verso la fine del secolo confermerà poi il vicentino Alessandro Capo
Bianco, capitano dei bombardieri prima della fortezza di Orzinuovi nel Bresciano e poi della
citta di Crema:

… l’artiglierie che a’ nostri tempi si gettano nell’arsenal nostro, fatta con tanta diligenza e cura
da’ nostri funditori ‘sì famosi, per il Magnifico Sigismondo e Giulio Milio e Cesare e Milio
Alberghetti, successori de’ loro antichi padri che 200 anni fa (‘da 200 anni’) hanno sempre
havuto detto carico, da’ quali si veggono opere in dette artiglierie ‘sì stupende in bontà come

258
in bellezza, oltre che gli è (‘gli sono’) il Magnifico Nicolò e Vincenzo di Conti, persone molto
giudiciose e di non poco valore. (Corona e palma militare di artiglieria etc. Venezia, 1598.)

Altre interessanti memorie delle artiglierie estensi si possono leggere nelle Notizie del
Cittadella, memorie che non però non citiamo, fedeli al nostro principio di non ripeterne di
seconda mano, se non talvolta per completezza concettuale; ma, per ritornare ora al De
Biringuccis e al suo tempo, molto confusa era allora ancora la questione della necessità d’un
rinforzo alla culatta dei petrieri:

… In tutte queste sorti d’artigliarie c’han forma di cannoni si costuma di far le camere e nel
farle è gran differenzia da maestro a maestro, perché ogniuno vuol demostrare d’havervi
sopra gran pareri e gran segreti; perilché alcuni sono che le fanno larghe più ch’el van della
canna ed alcuni strette… (V. de Biringuccis. Cit.)

E ancor più incertezza, ignoranza e arbitrio c’erano per quanto riguardava l’uso delle camere
e delle campane nelle culatte dei cannoni ferrieri:

… è infra li maestri di questa arte certa differenzia non anchor resoluta sopra el fare a l’anime
de’ cannoni da piei una parte che fa nella canna certa differenzia, che la chiaman camera,
perché è a chi piace ed a chi non piace e chi far la vuole in un modo e chi in un altro e sotto
questo velame questi tali mostran d’havervi dentro gran secreto e stanno in su la reputazione
dicendo bugie che non le saltarebbeno li cervi, con promettere che delle (‘dalle’) loro
artigliarie non solo uscirà palle, ma fulguri, li quali al fine altro non fanno che quelle che han
fatte degli altri e, se lor domandate che ragion lor move, malamente vi san respondere… (Ib.)

Il de Biringuccis criticava le camere ordinarie perché, a suo giudizio, stringendo il vano


destinato alla polvere necessariamente anche lo allungavano, accorciando così di
conseguenza il resto dell’anima destinato al corso della palla:

… perché è veduto che quanto una artigliaria è più longa di canna con più vigore il medesimo
fuoco manda più di lontano la palla. (Ib.)

Infatti allora appunto ancora a torto si credeva che la lunghhezza del tiro dipendesse
soprattutto da quella della canna; per esempio, nell’ambito dei preparativi che in Italia la Lega
Santa anti-francese faceva per mettersi in grado di affrontare in campo l’esercito di Carlo VIII,
il delegato veneziano Melchiorre Trievisano chiedeva al suo senato di inviargli 12 bocche da
fuoco ‘più lunghe’, onde porre l’artiglieria dell’esercito veneto alla pari di quella del nemico, il
quale al Tarro avrebbe poi infatti schierato ben 42 canne da fuoco, tra ferriere e plombiere,
‘maneggiate con incredibile perizia’:

L’ambasciatore Melchiorre Trivisano chiese che dal senato gli fossero mandate 12 artiglierie
più lunghe chiamate ‘serpentine’ e volgarmente ‘passavolanti’, delle quali i francesi sogliono
moltissimo servirsi (Alessandro Peanzio Benedetti, Diaria de bello carolino. P. 66 recto.
Venezia, 1504).

259
Sull’importanza dell’eccessiva importanza che in quei tempi ancora si dava alla lunghezza
delle canne troveremo ancora accenni più avanti nella stessa predetta opera del Benedetti, il
quale a quei fatti bellici italiani del 1499 partecipò di persona in qualità di medico militare:

Un altro esploratore riferì a perfezione il numero e la forza delle bombarde: due di esse erano
lunghe otto piedi e mezzo e sparavano palle di ferro da 35 libbre (una libbra contiene 18
once): quattro poi, che chiamano ‘colubrine’, di 14 piedi di lunghezza, le quali altri dicono
invece ‘passavolanti’, sparano palle da libbre 22. Inoltre, 14 che chiamano ‘falconi’, lunghi 7
piedi e mezzo e che sparano palle di piombo di 12 libbre. Circa il numero e la dimensione dei
cannoni queste dunque le cose che furono riferite (ib. F. 104 recto e verso).

L’argomento, preso così in assoluto, sarebbe falso, ma nel caso del de Biringuccis non lo è,
perché, come abbiamo già detto, questo autore non manca di collegare il concetto di
lunghezza di canna quelli di quantità e bontà della polvere e di spessore e bontà della lega
metallica; pur essendo chiaro che una carica di polvere richiedeva una canna di lunghezza
direttamente proporzionale alla sua quantità e qualità al fine di darle tempo e luogo di bruciar
tutta all’interno d’essa, egli sembra però dare forse troppa preponderanza a questa relazione,
la quale invece valeva necessariamente entro certi limiti di spessore, tant’è vero che della
massima espressione di quel concetto, cioè della bocca da fuoco detta passavolante, arma di
cui poi meglio diremo più avanti, sarà dismessa la fondizione prima della fine del
Cinquecento; ciò nonostante, il de Biringuccis s’eleva notevolmente sulla maggior parte dei
fonditori italiani suoi contemporanei e concorrenti:

… perché quanto più longa la facesti e mettestivi più polvere tanto maggior e più potente
saria il suo impeto e vigore; perché la forza del tirar dell’artigliaria procede dalla polvere e
non dall’artigliaria, come molti maestri che, milantandosi, dicono si abbe da camere, parlando
delle loro misure de canne, e dicono bugie più grandi che montagne; ma lasciateli dire, anzi
vi eshorto a vedere che la polvere… sia fatta con gagliardo e buono salnitro e che la sia ben
pesta e benissimo asciutta da ogni humidità. (Ib.)

Egli pensava in effetti che camere buone ci potessero comunque essere e fossero quelle
che, invece di restringere l’anima, l’allargassero, in modo da comprender molta polvere in
uno spazio non troppo lungo, e ammetteva così solo camere dalla stravagante forma di palla
ovale o anche di campana sì, ma con la parte larga all’indietro e non in avanti come nelle
normali bocche incampanate. Alla fine comunque egli già riconosceva il difetto principale
delle camere e delle campane, difetto di cui abbiamo già detto e che presto le farà
generalmente scomparire dalla fonditura dei cannoni ferrieri in tutta Europa e, in Italia, anche
da quella dei petrieri:

260
… una sola cosa conosco, che ognuna d’esse camere che facciate nasce questo
inconveniente, ch’il bombardiere in caricarle non vi può bene assettare e restregner la
polvere né la palla come in una canna equale. (Ib.)

Nel suo Memorial Histórico del 1831, molto consigliabile a chi volesse approfondire il tema
dell’evoluzione dell’artiglieria spagnola, il de Salas ci ha lasciato un’interessante descrizione
del treno di artiglieria imperiale nel 1522, anche se purtroppo con i calibri misurati in palmi e
inoltre priva di qualsiasi tentativo di interpretazione. Si tenga conto che il palmo spagnolo era
corrispondente a cm. 20,873:

28 falconetti lunghi 16 palmi, di cui 4 decorati a spirale dal mezzo alla bocca e con la corona
imperiale e i rimanenti a superfice octagolatera. Erano trainati ognuno da 5 paia di muli. Per
quanto riguarda il calibro in questo documento si dice: Por la boca de cada uno cabia un
puño grande.
18 cannoni da 17 palmi e ½ di lunghezza e di calibro di quasi un palmo, 12 dei quali
erano decorati con fiori di giglio. 8 paia di muli ciascuno.
16 serpentine (‘cannoni serpentini’) lunghe 16 palmi, di cui 12 decorati con fiori di giglio. Un
palmo di bocca. 22 paia di muli.
1 bombarda lunga 10 palmi. Due palmi di bocca. 30 paia di muli.
2 trabucchi in un carrettone tirato da 20 paia di muli. Lunghi 4 palmi. Due palmi di bocca.
1 trabucco detto magnus draco e decorato con una testa di serpente á manera de
Dragón e con una figura del re Filippo I e del suo stemma reale. Un palmo di bocca. Lungo 26
palmi e trainato da 34 paia di muli. (Ramón de Salas, Memorial histórico de la artilleria
española. Madrid, 1831.)

Per quanto concerne quest’ultimo, in effetti, data la grande lunghezza e la non molto larga
bocca, possiamo senz’altro affermare che si trattava non di un trabucco bensì di uno di quei
grossissimi cannoni detti infatti allora dragoni oppure doppi cannoni serpentini. Seguono una
serie di tiros (nome generico sinonimo di ‘bocche da fuoco’ e non di ‘traini’, come si
penserebbe), i quali, data la larghezza della bocca, dovevano essere anch’essi cannoni e
doppi cannoni serpentini o ferrieri che dir si voglia:

2 tiros famosos chiamati el Pollino e la Pollina, lunghi 16 palmi e dalla bocca di un


palmo e mezzo, trainati da 34 paia di muli.
1 lungo 17 palmi e detto umoristicamente Espérame che allá voy. Quasi due palmi di
bocca. 32 paia di muli.
2 chiamati Santiago e Santiaguito, lunghi 26 palmi, seminati di fiori di giglio e decorati
anche con lo stemma di Francia. Un palmo di bocca. 36 paia di muli ciascuno.
1 decorato con l’immagine dell’imperatore Carlo V e degli stemmi dei suoi regni, lungo 16
palmi. bocca un palmo e mezzo. 34 paia di muli.
1 detto la Tetuda (‘la Popputa’) e lungo 17 palmi. Quasi due palmi di bocca. 34 paia di muli.
1 detto el Gran Diablo e lungo 18 palmi. Quasi due palmi di bocca. 38 paia di muli. (Ib.)

261
Il de Salas non menziona qui purtroppo di questo treno alcuna bocca da fuoco da campagna
o comunque più piccola; aggiunge però che il totale dei muli del treno era di 2.128, quello dei
carrettieri 1.074, quello dei carri delle munizioni circa 1.000.
Laddove Niccolò Machiavelli (1469-1527) si dimostrava incredulo dell’importanza
dell’artiglieria da sparo in realtà si riferiva certamente all’uso campale che se ne voleva fare ai
suoi tempi, essendo infatti essa ancora troppo poco maneggevole per poter essere
abbastanza utile in battaglia; perché, anche se egli era in realtà del tutto digiuno di qualsiasi
pratica militare e scriveva di cose che non conosceva, tant’è vero che, come si sa, alcuni
militari fiorentini lo prendevano per questo in giro, è da credersi che non volesse però
includere in tal negativo giudizio anche l’artiglieria d’assedio, la cui opera distruttiva delle
fortificazioni era sotto gli occhi di tutti già da gran tempo. Vedasi per esempio gli Annales
genuenses, i quali raccontano come, il 14 settembre del 1419, i difensori del castello di
Bolzaneto, assediati dai milanesi e oppressi dal fuoco di una sola, grossa bombarda,
dovettero capitolare:

… ad eum exercitum (milanese) magna valde fuerit bombarda lata […] ipsaque bombarda
major diruptione mirabilem intulit, unde castruum ipsum protegentes exterriti, id paciscuntur
linquere, tantum modo salvis personis eorum. (Cit.)

Anche senza dubbio molto efficace risultò l’uso delle bombarde, questa volta quelle degli
aragonesi di Napoli, l’anno seguente, quando la flotta genovese di Giovanni di Campofregoso
tentò di entrare nel porto di Bonifacio in Sardegna, allora occupato dall’esercito napoletano di
Alfonso V d’Aragona:

… Lanciavano infatti alle nostre navi ostili bombarde, a terra istallate, pietre dal grandissimo
peso di sei cantari, terribile a dirsi, più terribile a vedersi e sentirsi, poiché non poco
danneggiarono con i loro molti impatti la nave Montagna Nera, due rotonde lapidi delle quali
furono portate a Genova a testimonianza… (ib.)

Poi l’anno ancor dopo, il 1421, un esercito milanese comandato dal conte di Carmagnola e
dotato anch’esso di potenti artiglierie tentò la stessa Genova:

… continuamente si traeva con le bombarde […] Infatti contro lo stesso monastero della
chiesa di S. Michele di Genova fulminava un’altra bombarda di grandissima mole, le cui
pietre erano di cantari […] dal cui getto il vicino monastero di Santa Consolata era scosso
con massimo tremore e il cui strepito tutta la città sempre sentiva… (ib.)

D’altra parte già una quarantina d’anni prima del Machiavelli quel grande esperto di guerra
che era stato il capitano generale napoletano Diomede Carafa (cv. 1420-1487) ci aveva
lasciato, nei suoi famosi Memoriali, un apprezzamento circostanziato e incondizionato
262
dell’utilità e potenza dell’artiglieria – e non solo di quella ossidionale – (Francesco Storti, Note
e riflessioni sulle tecniche ossidional del secolo XV. In Diano e l’assedio del 1497. Atti del
convegno di studi. Pp. 235-276. Teggiano, 2007) e non a caso il suo re Ferrante d’Aragona
aveva avuto una delle più belle e imponenti arfiglierie d’Italia . Insomma non è in
contraddizione a quanto dal Machiavelli affermato ciò che, solo poche decine d’anni dopo di
lui, scriverà un importante trattatista d’arte militare, il novarese Hieronimo Cataneo, laddove
appunto dirà l’artiglieria determinante nelle guerre (… la vittoria universale, la quale molte
volte consiste ne’ bombardieri e nelle artiglierie), trattandosi infatti certamente d’una
valutazione riguardante la sola guerra ossidionale e navale. Certo che a volte bastava la sola
apparizione di d’artiglieria d’assedio a convincere i difensori ad arrendersi:

… per lettere zonte a dì 21 si intese chome nostri [...] haveano abuto per forza il castel di San
Regulo, mia 20 lontano verso Ligorno, perhoché, piantato le bombarde, se resono (M.
Sanudo, Diarii. Anno 1496. T. I, colt. 321).

A volte bastava anche la presenza d’una sola canna, come leggiamo in questo curioso
episodio della guerra di Siena (1552-1559) narrato dal Sozzini:

… Il dì detto (‘21 giugno 1554’) si ragunorno insieme molti contadini verso Trequanda e
messero un pedone (‘ceppo’) di pero in sur un carro a guisa d’artiglieria e andorno alla volta
della fortezza di Galleno e, lassato il carro un poco lontano, mandorno a dire agl’imperiali che
vi erano dentro se si volevono arrendere, ‘chè gli lasciariano uscire salve le persone e l’arme;
e così se ne uscirno e loro vi entrorno; e vi era assai vettovaglie. (Alessandro Sozzini, Diario
delle cose avvenute in Siena dai 20 luglio 1550 ai 28 giugno 1555 ecc. Firenze, 1842.)

Eppure, a leggere il di Giorgio di Martino, nel secolo precedente anche l’uso campale
dell’artiglieria era stato apprezzato:

… Similmente nelle battaglie campestri applicato quest’instrumento, oltre al terrore per il suo
tonitruo causato, con tanta violenza la pietra trasporta che, facendo strage degli huomini,
spesse volte bisogna la vita miseramente abbandonare da chi con sua forza e ingegnio
vincere e debellare ogni provincia e regno saria stato sufficiente; onde non senza qualche
ragione da alcuni non umana ma diabolica invenzione è chiamata. (C. Saluzzo. Cit.)

Ma poi gli eserciti avevano in battaglia imparato a sottrarsi all’effetto di queste terribili nuove
armi e infatti la ora generalmente scarsa incidenza dell’artiglieria campale nei combattimenti
campali del Cinquecento era ben spiegata dall’esperto militare veneziano Mario Savorgnano
conte di Belgrado (1513-1574), laddove diceva che, per aver buon effetto, l’artiglieria doveva
esser disposta in battaglia nel luogo che da un lato fosse il più adatto a offendere
precisamente il nemico e dall’altro fosse anche così conformato geograficamente da
mantenerla protetta dai suoi assalti, luogo che pertanto raramente si trovava, e d’altra parte
263
un nemico accorto ed esperto, rendendosi conto del pericolo in cui stava incorrendo, poteva
facilmente vanificare detti preparativi e appostamenti d’artiglieria spostando e modificando il
suo schieramento sul campo o anche la sua strategia contingente:

… le artiglierie… hanno bisogno di così commoda disposizion di luogo che rare volte si
possono assicurar bene, che facciano effetto, percioché, se son poste in fronte dell’essercito,
solamente sparate la prima volta, nello spingersi avanti le battaglie de’ fanti, divengno inutili,
o veramente (‘cioè’), volendo reiterar i colpi, fan danno assai (anche) a’ suoi; e, se si
pongono (invece) nei corni dell’essercito [...] fanno certamente grande effetto percioché
possono più fiate offendere il nemico senza impedire il progresso di quelli di mezo (‘dei propri
fanti che sono nella battaglia centrale’), ma sono in pericolo di esser da’ nimici guadagnate
[...] Ma rarissime sono quelle occasioni ove si posson ritrovar siti come (per esempio) quello
di Ravenna (battaglia dell’11 aprile 1512), nel quale l’artiglierie del duca di Ferrara (‘Alfonso I
d’Este’), stando sicure, davano nel fianco a’ nimici con loro gravissimo danno […] Quindi
dunque avviene che chi ha più artiglierie non sempre vince le battaglie, perché la guerra ha
occasione e luoghi indeterminati per li bisogni suoi; ma l’artiglieria ha un sol luogo e modo
co’l quale può far effetto grande… (Mario Savorgnano, conte di Belgrado (1513-1574), Arte
militare terrestre e maritima [...] con un trattato a parte dell’artiglierie. P. 264. Venezia, 1599.)

Certo, ancora quasi un secolo dopo il Machiavelli, lo scarso apprezzamento dell’artiglieria


campale, non solo non era scomparso, ma si era addirittura generalizzato, come dimostra il
negativo giudizio che ne daranno autori come il Collado e il Tarducci, i quali metteranno in
evidenza come, ancora al loro tempo, sino ad allora nessun esercito fosse mai stato
veramente battuto in campagna per un sostanziale merito dell’artiglieria nemica; questa,
posta, come allora s’usava, davanti alla fronte dell’esercito, poteva al massimo fare un solo
tiro prima che i veliti nemici l’assalissero o addirittura l’occupassero; d’altra parte i suoi tiri, se
solo sfioravano il suolo davanti al nemico, ne restavano sbalzati aldilà delle schiere che
intendevano colpire oppure se ne andavano rimbalzando sul terreno e davano quindi tempo e
modo agli uomini di schivarle; se poi i tiri erano al contrario anche leggermente troppo alti,
passavano ugualmente sopra le ordinanze che s’intendeva colpire; infine i siti delle battaglie
campali non erano quasi mai perfettamente rasi e le formazioni nemiche erano spesso in
parte coperte dai rilievi del terreno e quindi non esposte ai tiri frontali. Insomma le singole
grandi palle, di pietra o di ferro che fossero, non potevano far molto danno al nemico, a meno
che non prendessero d’infilata un’intera formazione di soldati ordinati, ossia disposti in ordini
e file, il che era certo più probabile se si sparava a uomini fermi a cavallo, non essendo infatti
possibile ai cavalieri far fare ai loro animali movimenti bruschi e istantanei atti a schivare i
colpi; pertanto in una battaglia campale risultava sempre più utile sparare a palla contro
cavalleria che contro fanteria. Secondo il Tarducci, gli antichi congegni da guerra, cioè le
catapulte e le balliste (poi dette nel Medioevo solamente balliste – dai bizantini balestre - o
anche, come già sappiamo, espringales), dovevano esser state, con i loro lanci di grossi
dardi singoli, di fasci di quadrelli o di ballotte, addirittura più efficaci in battaglia delle artiglierie

264
del suo tempo; egli militò, come sappiamo, nelle guerre che il Sacro Romano Impero
combatteva nell’Europa orientale per arginare l’espansione ottomana e le mire valacche, e
menziona due importanti fatti militari, da lui appunto vissuti, come esempi della scarsa utilità
dell’artiglieria di campagna; il primo è quello della battaglia di Vác in Ungheria, avvenuta nel
1597, dove i turchi utilizzavano tre postazioni d’artiglieria da campagna, tutte poste
malamente e di cui due, perché le si paravano spesso davanti formazioni amiche e perché
situate a valle rispetto alla collina occupata da quelle nemiche, tiravano di conseguenza o
troppo alto (‘alteggiavano’) per evitare le prime o troppo basso (‘basseggiavano’), per cui le
palle rimbalzavano (‘resaltavano’) su per tutto il dolce declivio della collina, dando così
opportunità al nemico di scansarsi; la terza postazione poi, situata invece su un’altura, tirava
di ficco, cioè le palle s’andavano a infilare nel terreno. Per quanto riguarda invece l’altra
battaglia ricordata dal Tarducci, ossia quella di Transilvania, combattuta nell’anno 1600
contro il voivoda di Valacchia Michele II il Bravo e anch’essa con esito favorevole
agl’imperiali, lì addirittura il già ricordato capitano generale italiano Giorgio Basta non volle
servirsi delle sue dodici bocche da campagna e andò con i suoi a incontrare la fronte nemica,
la quale era armata invece di ben 27 bocche da fuoco grosse ben livellate con il suolo, e se
ne andò a lento passo e senza far serrare le sue fila se non quando fu a distanza di tiro delle
piccole armi da fuoco; non subì danno da quell’artiglieria nemica, perché, quando essa tirava,
i suoi s’abbassavano evitandola e, quanto più s’avvicinavano, tanto più gli artiglieri ottomani
sbagliavano i tiri tirando o troppo in alto o troppo in basso:

… conobbe il prudente Capitano senza dubbio non nel contrasto de’ tiri grossi consisteva la
vittoria, ma in un ben concertato e resoluto incontro. (Achille Tarducci, corinaldese, Delle
machine, ordinanze et quartieri antichi et moderni etc. P. 43. Venezia, 1601.)

In verità in qualche battaglia l’artiglieria era stata un elemento decisivo, per esempio, come
abbiamo già visto, a Ravenna nel 1512 e, a dire del Guicciardini, anche l’anno seguente a
Novara. Comunque, poiché in ogni caso poco ci si aspettava dall’artiglieria da campagna, si
voleva che perlomeno fosse quanto più leggera, trasportabile e maneggevole possibile:

… l’arteglieria di campagna da professori si vuole non magior che da 15 (libbre) e più tosto si
prenderanno tre pezzi da 8 e 10 che due da 15 o 20. (ib. P. 43.)

Il Pelliciari, contemporaneo del Basta, voleva in campagna invece pezzi dalle 12 alle 20 libbre
e magari anche meze colubrine dalle 20 alle 25 e non meno lunghe di 9 braccia, utili queste a
colpire a distanza il nemico nel suo campo e costringerlo così ad abbandonarlo. Un altro fatto
d’arme che si disse perso dai veneziani per errore di elevazione della loro artiglieria fu quello

265
detto della Motta di Vicenza (oggi ‘di Schio’) del 7 ottobre 1513, dove, sotto il comando di
Bartolomeo d’Alviano, combattevano contro spagnoli e tedeschi:

… a principio del quale, havendo uno de i capi prencipali dell’essercito veneziano comandato
che fusse l’artigliaria tirata a meza lanza (‘all’altezza di metà lancia di cavalleria’) per salvar i
cavalli (‘la propria cavalleria schierata lì davanti’), accortisi spagnuoli e tedeschi del tratto
(troppo alto), dissero, gettandosi bocconi in terra, ‘habbiamo vinto’ e, lasciate passar’oltre le
palle (che lo fecero senza alcuno loro danno), levandosi poi tutti allegri e serrandosi insieme,
si spinsero innanti e, ripieni d’animo e di ferocia (‘bellicosità’) combattendo, da vinti ch’erano
prima, rimasero vincitori (Giacomo Marzari, Scelti documenti in dialogo a’ scholari
bombardieri etc. Vicenza, 1596.)

Ma, ritornando ancora una volta ai documenti dell’inizio del Cinquecento raccolti
dall’Angelucci, ne troviamo uno dell’11 settembre 1511 in cui si parla della fornitura di ben
800 archibusii ferri cum cauda (‘coda per orientarli sul cavalletto’) che il fabbro-ferraro Paolo
Antonio fu Bartolomeo de Ciolis era chiamato a fare al Comune di Siena al prezzo in denaro
senese di lire 8 e soldi 10 ognuno. Nonostante il loro gran numero, come già osservato in
casi precedenti, non si trattava di archibugi da fante di due pezzi, bensì di piccole artiglierie
da posta fatte anch’esse di due pezzi, intendendosi però per due pezzi, come già detto, una
struttura del tipo di quella delle grandi bombarde del secolo precedente (tromba e coda) e
non da braga.
Forse il più famoso fonditore italiano del Cinquecento fu l’estense di adozione Annibale
Borgognone fu Pietro, nativo di Trento, il quale ricevette diversi incarichi di fiducia dal duca
Ercole II (1534-1559) e infatti nel 1549 lo troviamo inviato sui monti del Modenese e del
Reggiano alla ricerca di vene di rame e d’oro e l’anno successivo a Verona e Venezia,
incaricato di acquistare colà stagno per la fondizione d’artiglieria (ib.); nel 1551 si rese però
responsabile dell’omicidio della moglie, a ciò spinto da motivi ‘d’onore’ che gli valsero il
perdono ducale, come si legge nella supplica di completa amnistia che l’insigne letterato e
ottimate Alessandro Guarini indirizzò al duca a suo favore il 18 ottobre di quell’anno:

… Havendo Anibale Borgognone, gettadore delle artellarie de Vostra Excellenzia et suo


fidelissimo servidore a giorni passati lecitamente et per honestissima cagione uccisa la soa
consorte… (A. Angelucci. Cit.)

Il duca Ercole lo considerava espertissimo e insostituibile nel suo mestiere e perciò gli aveva
perdonato persino quel gravissimo delitto; anzi nel 1556 gli concesse anche la cittadinanza di
Ferrara e due anni dopo la concesse anche al fratello Odorico. Nel 1553 lo inviò a Siena in
prestito al fratello cardinale Ippolito II il quale, avendo gli alleati francesi che, infuriando quella
che sarà appunto ricordata come la guerra di Siena (1552-1559), presidiavano quella
repubblica sotto il comando di Piero Strozzi manifestato la volontà di acquistare nuove

266
artiglierie, gliene aveva fatto richiesta qualche tempo prima, richiesta che Ercole non aveva
potuto subito soddisfare perché il Borgognone era impegnato a fondergli delle nuove grosse
artiglierie; o perlomeno così egli si scusa e si giustifica in una sua lettera al detto fratello
datata il 13 novembre di quell’anno, missiva in cui appunto anche si dichiara grande
estimatore di quel suo servitore:

… spero che della opera di prefato maetro ella rimarrà interamente satisfatta, parendomi che
si sia tale rafinato in questa arte per la molta esperienzia che vi ha fatta, poi che mi serve in
questo mestiere, che forsi abbia pochi pari; il che me ne riporto al testimonio delle opere
istesse… (ib.)

Lo stesso giorno furono per conto del suddetto cardinale elargiti al Borgognone 10 scudi
d’oro in premio della sua trasferta a Siena, trasferta in cui però il Borgognone avrebbe dovuto
solo prendere accordi con quella signoria perché predisponesse il necessario alle nuove
fondizioni in programma e quindi nei primi giorni di dicembre tornò a Ferrara in attesa della
trasferta definitiva che sarebbe poi avvenuta il mese seguente; infatti tra la fine di gennaio e
l’inizio del mese successivo il detto tragittatore d’artiglierie si ripresentò a Siena
accompagnato da un suo collega e avendo nel frattempo ricevuto dal cardinale altri 18 ducati
d’oro, mentre nel marzo successivo ne incasserà un minimo di altri 22 (ib.); troviamo
conferma del suo arrivo a Siena e di quant’altro leggiamo nei documenti che ancora lo
riguarderanno nel Diario del Sozzini:

… In questo tempo vennero in Siena due ferraresi tragittatori di artiglieria mandati di Roma
da monsignor di Lansach, ai quali furno allogati a tragittare otto pezzi di artiglierie, anzi di
cannoni rinforzati, e subito cominciorno a fare le forme per un paro. Gli fu dato uno stanzone
dai chiostri di S. Francesco, molto grande e a proposito, e fu destinato sopra tale negozio il
signor Achillino d’Elci. Era nella città molto metallo di cannoni rotti e di campane; e, di più per
tale effetto, fu per il governo messa una presta (‘anticipo tributario’) a tutti gli allirati (‘allibrati,
estimati’) a libbre quindici di metallo per mille, della quale fu fatto coltore (‘esattore’)
Crescenzio Campana, e si raccolse prestissimamente. (Cit.)

Il 29 marzo egli avviò la fondizione dei primi due cannoni, ma senza successo, come si legge
in una lettera del suddetto cardinale al duca datata 2 maggio 1554:

... Mastro Annibale non riussì a condurre a perfezione due cannoni, ma ne ha fatti tre altri
riusciti benissimo e ne fonderà altri… (ib.)

Ma, che cosa era accaduto di negativo? Ne leggiamo qualcosa di più nel predetto Diario:

… Alli 29 di detto (‘marzo’) furono tragittati li due primi cannoni in S. Francesco e, per
disordine delli maestri, rovinò mezzo il fornello, dove era il pelago del metallo distrutto, e lo
267
fecer mezzo congelare (‘rapprendere’); e, non possendo correre (‘scorrere’), non ne venne
bene nessuno e fu buttato il tempo per li maestri e per li franzesi la spesa; e, risolvendosi di
tragittarli, mandorno a Trequanda a guastare una fornace di bicchieri e si servirno di quelli
mattoni usi al fuoco e rifecero detto fornello. (Ib.)

Il 6 aprile fu provato con successo un basilisco riparato proprio dove lavorava il Borgognone,
ma il diarista non ci dice se fosse stato lui a ripristinarlo:

… Il dì detto si roppero due pezzi grossi d’artiglieria degl’Imperiali, uno chiamato ‘la
Scapigliata’ e una colubrina, e questo lo dissero due soldati, quali vennero in città per
rimettersi (‘per passare’) con li franzesi. Il dì detto, presso a notte, fu portato il basilistio
(‘basilisco’) rassetto nella piazza di S. Francesco per provarlo e vi era più di mille persone a
vederlo caricare. Datoli fuoco, fece grandissimo strepito e portò più d’un miglio di mira e non
mosse niente (‘non cedette’) dove si era rassetto. (Ib.)

Ma la riparazione non si dimostrerà per nulla perfetta, come presto vedremo. Il 25 aprile:

… il dì detto furno tragittati tre pezzi d’artiglieria in S. Francesco, di peso di libbre diecimila
l’uno. Vennero stretti (‘ristretti, rappresi’) benissimo. (Ib.)

Il 19 maggio:

… Alli 19 detto si provò uno delli tre cannoni fatti di nuovo nella Porta di S. Francesco e tirò
fino all’Osservanza; e fu incarrato (‘montato su un affusto’). (Ib.)

Il 20 maggio:

… Il dì detto fu condotto il basilistio di ferro incarrato ed incatenato fuori di Porta a S. Marco e


tirò a Monistero ed alla prima botta crepò in due luoghi vicino a un braccio alla bocca; del che
molti si maravigliorno, per esser di ferro e perché non si vidde dove la botta cogliesse. Il
bombardiere si persuase che fusse passata sopra e disse che le due crepature non erano
pericolose e che arìa in ogni modo servito. (Ib.)

Come abbiamo già detto, le bocche da fuoco di ferro avevano il vantaggio di crepare molto
più difficilmente di quelle di bronzo, di qui la meraviglia degli astanti a quello sparo. Il 23
maggio:

… Il dì detto fu di nuovo scaricato il basilistio alla volta di Munistero per vedere se le due
crepature facevano motivo (‘movimento’) alcuno, quale tirò valorosamente e non mosse
niente. Il dì detto fu condotto il detto basilistio e uno delli cannoni nuovi in Cittadella per trarre
al Prato quando gl’imperiali fussero venuti in battaglia a dare l’assalto etc. (Ib.)

Il 28 maggio:

268
… Alli 28 detto furno provati li due cannoni fatti di nuovo nel prato di S. Francesco; tirorno
verso l’Osservanza e ressero benissimo. (Ib.)

Il 13 giugno:

… Il dì detto furono provati due altri cannoni di nuovo gittati nella piazza di S. Francesco e
tirorno alla volta dell’Osservanza e derno nella trinciera del bastione che vi avevano fatto
gl’imperiali; e la sera arrivò in Siena un soldato che vi era e disse che una botta, quale aveva
dato alla trinciera, aveva ammazzato tre uomini. (Ib.)

Nella seconda metà dell’anno il Borgognone era comunque tornato a Ferrara perché in quel
periodo il suddetto principe Alfonsino gli fece consegnare della carta perché vi disegnasse
dei zirifalchi, disegno che egli intendeva inviare al re di Francia Enrico II e per il quale poi
corrispose a detto mastro-bombardiero anche un compenso (A. Angelucci. Cit.) I francesi, per
le loro esigenze belliche in Italia, tendevano a farsi fabbricare artiglierie nella stessa penisola;
evidentemente il costo del trasporto in Italia dalla Francia lo rendeva conveniente. Anche il
duca di Parma e Piacenza Ottavio Farnese intorno al 1556 aveva fatto gittare artiglieria per i
suoi alleati transalpini dal suo mastro fonditore Giovanni Coutur avignonese (ib.) e l’aveva
spedita alla fortezza di Mirandola, allora ancora presidiaita da una guarnigione francese; il 18
febbraio 1557 Ottavio scrisse una lettera a Ercole II signore di Ferrara pregandolo di
anticipare al detto Giovanni quanto da lui dovutogli per quei lavori in quanto quello si trovava
allora di passaggio proprio a Ravenna; erano queste cortesie che i principi italiani si
scambiavano ricorrentemente con partite registrate in conti reciproci.
Nel 1565 il duca Alfonso II prestò al duca d’Urbino Guidobaldo II della Rovere (1514-1574) il
suddetto Annibale Borgognone, sennonché questi, dopo aver gittato a Pesaro l’artiglieria colà
commissionatagli, essendo con ogni probabilità la fornace di quel ducato già allora nella
rocca della città, oggi detta Rocca Costanza, se n’era tornato a Ferrara senza completare
l’opera e pertanto il 30 settembre di quell’anno Guidobaldo così scrisse ad Alfonso:

… Mastro Annibale, avendo gettato quei pezzi d’artelaria ch’io desideravo, se ne è voluto
tornare a Ferrara per alcun occorrenze sue e, per mettere poi in perfettione questi suoi lavori,
i quali non sono anchora in quel termine che devono stare, mi ha promesso, avendone buona
licenza da Vostra Eccelllenza, di venire subito l’avrà ispedito le facende sue, il che io molto
desidero, e perciò prego Vostra Eccellenza, per compimento del favore e commodo che mi
ha fatto della persona sua, che si contenti in quel tempo lasciarlo tornare, che le resterò con
molto obligo… (ib.)

C’è da ritenere che il Borgognone abbia poi mantenuto il suo impegno di tornare a Pesaro
per rifinire quel suo lavoro perché l’Angelucci in una sua lunga nota ci informa che due delle
suddette bocche da fuoco gittate a Pesaro dal Borgnone ai suoi tempi esistevano ancora ed
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erano nel Museo Nazionale d’Artiglieria, trattandosi di due mezzi cannoni da 30 libbre
finemente decorati, e ne descrive una con gran dovizia di particolari sia tecnici che artistici
(ib.) In un inventario d’artiglieria ferrarese fatta fabbricare all’incirca dal 1560 al 1582 dal
predetto duca Alfonso pubblicato dal Cittadella notiamo quanto segue:

8 cannoni da 50 gittati dal suddetto Annibale Borgognone nel biennio 1560-1561.


8 cannoni da 50, 6 da 25 e due falconetti da 4 gittati dallo svizzero Jean Lamperchet tra il
1576 e il 1582.
4 cannoni da 50 e 4 falconi da 4 alla fortezza di Mont’Alfonso.
2 colubrine da 14, 3 mortaletti di ferro con casse e cavaleti, 6 moschetti da 9 e 1 da 6 e 20
archibusoni da posta da on. 4 e on. 2 nell’armeria di Verrucole.
(Luigi Napoleone Cittadella, Notizie relative a Ferrara etc. Ferrara, 1864.)

Da notare che le bocche da 4 sono in questo documento dette indifferentemente falconi e


falconetti 4 perché di calibro limite tra i due tipi. Da notare ancora che i suddetti mortaletti di
ferro hanno una dotazione di 40 palle di pietra e quindi non sono di quelli fatti solo per
sparare a salve in occasione di festeggiamenti; i moschetti hanno invece palle di piombo con
dado (dato, quadreto) di ferro di vario calibro per un totale di pesi 2, cioè, secondo
l’Angelucci, kg. 17, 256, e gli archibusoni pallottole di solo piombo per un totale di pesi 1e
libbre 2. Infine, è elencata piccola artiglieria per le barche a secco nell’arsenale sul fiume Po
e cioè 14 moschetti da braga (a le biete) da on. 9, 6 da on. 6, 6 da on. 2 e 4 da 1 libbra di
calibro datati in maggior parte tra il 1563 e il 1581 e altri più vecchi, alcuni dotati di braga e
altri no; inoltre 2 moschetti da on. 2 e con le culate quadre, cioè molto probabilmente
ottagolatere, e 1 archibugione da posta di bronzo (metalo) con manica di legno.
Nel 1567 il Borgognone si rese colpevole di un secondo omicidio, questa volta plurimo ma
solo colposo, come racconta lo stesso Cittadella citando una Cronaca conservata nella
Biblioteca Comunale di Ferrara e da lui attribuita stranamente all’alvitese Mario Equicola:

Nel 22 agosto alcuni gentiluomini urbinati andarono alla munizione di sua Altezza a vedere le
artiglierie e maestro Anibale Borgognone, gettatore di artiglierie, disse che l’interno era lucido
come specchio e introdusse in un pezzo un’asta con un lumino, scordandosi ch’era carico.
Sparò; e l’asta con lo scoppio uccise due gentiluomini e ne ferì alcuni altri, fra cui lo stesso
Borgognone e un mastro Camillo, provisionato di sua Eccellenza per far majoliche, nella
quale arte era come unico. Il Borgognone sopravvisse e Camillo morì dopo pochi giorni…
(Ib.)

Certo sembra incredibile che un fonditore e artigliere esperto e famoso come il Borgognone si
fosse concessa una simile disattenzione; è, secondo noi, molto probabile che egli si sia
fidato di false informazioni sullo stato di carica di quella bocca da fuoco (la colubrina Regina
secondo le ricerche dell’Angelucci) dategli volutamente da qualche suo collaboratore che gli

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era segretamente nemico, in ogni caso Alfonso II lo perdonò anche questa volta e infatti
l’anno seguente la repubblica di Ragusa glielo chiese in prestito:

… Il bisogno grande che abbiamo d’un fonditore d’artigliaria, perché ci getti alcuni pezzi per
uso di questa nostra città devotissima di Vostra Eccellenza, fece che a i giorni passati noi
demmo cura d’un agente nostro in Venezia che egli dovesse passare a Ferrara per condor
qua ai servizii nostri un fonditore per alcuni mesi; dipoi abbiamo nuova da esso agente come
è stato a Ferrara e che ha fatto appuntamento con mastro Annibale Borgognone fonditore di
V. Ecc.ª, il quale è prontissimo di venire, quando però con buona grazia e licenza sua far lo
possa; perché, essendoci lodate molto le qualità di quest’uomo nell’arte sua e il bisogno
astringendoci, pensando dall’altra banda che potrebbe essere che di presente V. Ecc.ª non
avesse dell’opra sua molto bisogno, la veniamo strettamente a pregare che si degni per sua
liberalità e per nostro amore privarsi di quest’uomo per un anno o forse manco, dandogli
buona licenza che possa liberamente venire a servirci qua; dove, quando fosse e V. Ecc.ª
nel detto tempo per qualche accidente avesse di lui pure un minimo bisogno, da noi le sarà
subito rimandato, secondo all’or fosse il volere di V. Ecc.ª, alla quale per questo segno
d’amorevolezza resteremo in molto obligo, e ci rendiamo e ci rendiamo certi che V. Ecc.ª,
come signore avedutissimo, considerando il sito di questa città, i termini con i quali vivere
debbiamo e da cui ci guardiamo, benignamente ci concederà questo uomo, il quale sarà da
noi bene trattato; e a V. Ecc.ª intrattanto preghiamo suprema felicità.
Di Ragugia, a 25 di maggio nel 1568.
Di V. Ecc.ª Illt.ma
Devotissimi
Il rettore e i Consiglieri di Ragugia (A. Angelucci. Cit.)

Nonostante l’accenno qui fatto alla difficile situazione di quella repubblica, confinante e
forzatamente tributaria dell’impero turco, il 7 luglio Alfonso rispose una prima volta
negativamente adducendo che il Borgognone era in quel tempo già impegnato a fondere
artiglieria per lui; l’anno seguente però, con nuova lettera del 12 marzo presentata al detto
duca dal loro gentiluomo Marco di Ragnina, i ragusei tornarono a chiedere e questa volta
ottennero il prestito; per cui il 3 settembre successivo si sperticarono in ringraziamenti:

… Alli 19 del passato gionse qua mastro Annibale Borgognone fonditore d’artigliaria,
servitore di Vostra Eccellenza, e ci presentò la sua delli 10 di giugno, per la quale abbiamo
conosciuto il buon animo che V. Ecc.ª tiene verso di noi, dil che la ringraziamo di tutto cuore
ecc. (ib.)

Insomma non crediamo che in Italia ci sia mai stato in qualsiasi tempo un fonditore
d’artiglieria più famoso di questo certo sconcertante Annibale Borgognone, trentino.
Probabilmente, dice l’Angelucci, morì a Ragusa o poco dopo perché più avanti non ne
trovava altra notizia; anche perché il 27 giugno 1571 un certo dr. Giovanni Paciecco scriveva
da Venezia al duca Alfonso raccomandandogli un inventore veneziano, certo Gieronimo o
Gierolamo Lioto, il quale, oltre a saper ottenere dei nuovi preparati aromatici sia da profumo
sia da alimento, asseriva di poter schiodare le artiglierie in un tempo brevissimo, di saper

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riparare le canne sfoconate senza lederle, cioè senza doverle limare per introdurre un nuovo
focone e infine di saper ricavare dell’ottimo salnitro dal comune sale alimentare (ib.) Non
sappiamo però se Alfonso abbia poi voluto mettere effettivamente alla prova quest’uomo;
certo è che il 23 febbraio 1583 il mastro fonditore che aveva preso il posto del Borgognone,
cioè lo svizzero di Sciaffusa Johann Lamprecht, gli chiedeva la cittadinanza ferrarese
(essendo già fa molti anni in Ferrara et havendo preso moglie ferraresa. ib.)
Il Borgognone non aveva commesso delitti di lesa maestà e quindi era stato sempre
perdonato; non la stessa fortunata sorte aveva avuto invece circa 130 anni prima un
lombardero che non solo aveva partecipato alla ribellione di Toledo del 1449 contro il re
Giovanni II, ma addirittura aveva in quelle circostanze fatto fuoco contro il re e il suo
corteggio con una lombarda posta in una fattoria fuori città (tlt. villa foritanea),
accompagnando il tiro con il seguente irriguardoso messaggio vocale (Cronaca del re
Giovanni II. Cit.):

Toma esta naranja que te embian desde la granja! (‘Prenditi quest’arancia che ti inviano dalla
fattoria!’)

Il lombardero fu catturato all’inizio del 1451 e il re ne fece determinare la pena capitale ai


magistrati della sua corte e del suo consiglio riuniti; costoro sentenziarono per il malcapitato
un trattamento non proprio di favore:

… il che discusso da quelli, si sentenziò che fosse strascinato e mutilato dei piedi e delle
mani e infine squartato; e quella morte gli si dette (ib.).

Nel primo quarto del Cinquecento i lucchesi si distinsero ancora per la loro creatività nel
campo delle arrmi da fuoco per la fanteria, come abbiamo visto avevano già fatto circa un
secolo prima in occasione della guerra con Firenze del biennio 1429-1430. Come si evince
dai documenti d’archivio senesi e lucchesi pubblicati dall’Angelucci, Lucca produsse infatti un
nuovo tipo di schioppetto; si trattavia di un’arma in due pezzi da porto individuale (da braccia,
come si diceva allora; i francesi dicevano invece à main) che i lucchesi battezzarono con il
nome di moschettone, nome del tutto nuovo per un’arma da fuoco, anche se evidentemente
derivato da un’altro molto vecchio e cioè da quello di muschetta, nome in volgare dei
quadrelli da balestra che a sua volta prendeva la sua denominazione da un tipo di falchetto
detto musc(h)etto o moscardo perché cacciatore di mosche. Però questo nome, talvolta
anche usato nelle forme moschetto o moschetta, non avrà fortuna per questa nuova arma
perché su di esso prevarrà molto presto quello di archibuso e archibugio [td. (halbe) Hacken(-
büchsse)], perché questo, come già sappiamo, già distinguente piccole artiglierie da posta in

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due pezzi; ma non scomparirà perché nel frattempo moschetto da posta e moschettone
passeranno, come secondo e terzo nome, agli archibugioni da posta. Alfonso II duca di
Ferrara e Modena (1559-1597) chiamava il suddetto moschettone lucchese ‘doppio
moschetto’, come si legge in un suo non datato ordine mandato appunto ad artigiani lucchesi
e riportato dall’Angelucci:

… che mi si facciano 4 doppij moschetti, due di 2 once e ½ e due di 3… e mi facciano


sapere, se io ne vorrò 500 d’una di quelle sorte, quanto mi costeranno… che io voglio
adoprarli su le muraglie o per di fuori a trar alle diffese, ma che però averei caro che fossero
più comodi da portar attorno. (A. Angelucci. Cit. P. 371.)

Quindi armi da posta, ma che dovevano essere di agevole spostamento, cioè non troppo
pesanti, insomma quasi dei moschetti biscaglini ante-litteram. Il nome di doppij moschetti era
dovuto, come vedremo esser uso comune nell’artiglieria di quei tempi, non a un’eventuale
approssimativa duplicità della loro lunghezza o del loro spessore o del loro peso - pur
dovendo essere nel loro caso questi due ultimi valori necessariamente maggiori - rispetto a
quelli delle corrispondenti armi ordinarie bensì si riferiva all’approssimativa duplicità del loro
calibro nei confronti di queste. Infine, a partire dal 1567, il predetto nome di moschetti sarà
riutilizzato anche per una nuova arma da porto personale voluta dal duca d’Alba e di cui
diremo e nascerà così il fante moschettiere; ma, per quanto riguarda l’evoluzione dell’arma
da fuoco di fanteria, ci riserviamo di essere comunque più chiari, magari col disegno d’uno
schema cronologico, in una nostra futura opera avente per oggetto appunto gli eserciti
europei di quei secoli.
Nei summenzionati documenti leggiamo dunque che il 28 gennaio 1527 il Magnifico Consiglio
della città di Lucca si riunì per deliberare se fosse il caso di dare ai magistrati competenti in
materia la facoltà, quando fosse da loro giudicato utile e necessario, di vietare l’esportazione
di armi da fuoco leggere prodotte nel territorio di quella città (si extractio archibugiorum et
scopiettorum extra civitatem et territorium nostrum prohiberetur); la facoltà fu accordata, ma
purtroppo il documento non ci dice anche quale sarebbe potuta essere la discussa
convenienza, cioè per quale motivo sarebbe stato meglio per Lucca che quelle armi di
produzione nazionale non fossero esportate. Poiché però erano quelli tempi fortunati in Italia
in cui le decisioni politiche si prendevano generalmente nell’interesse delle comunità e non,
come invece accade troppe volte oggi, per non dichiarati ma chiari interessi particolari,
possiamo tentare di immaginare il perché di quel divieto. Se degli archibugi e schioppetti
erano richiesti da altri stati, italiani o stranieri che fossero, vuol dire che si trattava di armi
universalmente apprezzate e che quindi o erano di qualità superiore oppure erano di una
fattura non superiore ma tecnicamente innovativa e, da una critica riguardante appunto la

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qualità che farà poi il maresciallo Strozzi, si vedrà che il successo era dovuto all’essere
un’arma innovativa, cioè la prima e ultima arma da porto individuale - o da braccia, che dir si
voglia - in due pezzi che fosse mai stata costruita. Non sappiamo se quest’arma lucchese
presentasse già anche l’innovazione dell’accensione a grilletto e serpentino, introdotta
proprio in quei tempi - non si sa però dove e da chi – perché con lo schioppetto a semplice
accostamento di miccio non si poteva mirare tenendo l’arma accostata alla guancia e quindi il
suo tiro era molto impreciso. Il nome grilletto era dovuto alla circostanza che la leva che
faceva scattare l’appiccatoio a cui s’attaccava il miccio (td. Lunden; poi Lunte) rassomigliava
appunto vagamente a detto insetto, mentre l’appiccatoio stesso si chiamava serpentino
perché somigliava invece a un serpentello; questo importantissimo congegno, il quale
caratterizzerà poi l’arma da fuoco della fanteria per circa un secolo e mezzo, permetteva al
soldato di reggere l’archibugio con ambedue le mani, ottenendone così un tiro più stabile e
preciso, mentre sino ad allora la mano destra era stata impegnata a portare il miccio a a
contatto del polverino.
La qualità di questi archibugi lucchesi non era affatto eccezionale e infatti, come narrerà poi
nelle sue memorie il già citato de Bourdeilles, i francesi, resisi presto conto della loro fragilità
rispetto a quelli che nel frattempo si erano messi a fabbricare altre nazioni, saranno costretti
a dismetterli per adottarne una versione sviluppata nel frattempo dagli spagnoli, la quale era
non solo più robusta ma anche più piccola e maneggevole, come leggiamo in una proposta di
istituzione di milizie territoriali presentata da Giovanni Moro, provveditore in campo e rettore
di Crema, al senato veneziano il 15 ottobre 1525:

… electione de dodici mila homini […] che quattromila se exersitassero cum le piche e
quattro mila cum archibusi non grandi, ma come usano gli spagnuoli, e quattro mila
schioppettieri… (A. Angelucci, Il tiro a segno in Italia ecc. Appendice. XLVIII, cap. LI.)

Questo documento pubblicato dall’Angelucci è molto importante perché testimonia il tempo in


cui si affiancarono i nuovi archibugieri di fanteria ai vecchi schioppettieri. Secondo alcune
fonti la prima fanteria a esser dotata di archibugi da porto personale fu quella spagnola che
partecipò alla battaglia della Bicocca il 27 aprile 1522; secondo Aubert de la Chesnaye
(Dictionnaire militaire ou recueil alphabetique de tous les termes propres à l’art de la guerre
etc. Parigi, 1744.), il primo esercito imperiale a essere largamente fornito, oltre che di
schioppetti, anche di archibugi da porto individuale fu invece quello di Charles de Bourbon
che nel 1524 scacciò dal Milanese i francesi del Bonnivet; è certo che gli imperiali ne
avevano comunque molti alla battaglia di Pavia del 1525, come narra lo storico coevo
Francesco Carpesano (Commentaria), il che significa che invece i fanti francesi in quella
occasione ancora andavano generalmente armati di schioppetti e balestre e, per quanto
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riguarda gli arquebuses, sembra che disponessero solo in minima parte; in Francia
l’importanza della fanteria non si era in realtà allora ancora abbastanza capita. Un atto
notarile ferrarese del 22 febbraio 1530 ci testimonia di recenti disordini avvenuti in quella
città, tra l’altro con l’invasione e il saccheggio del monastero certosino commessi da una
moltitudine di uomini armati con scopetis et archibusis (A. Angelucci. Cit.), il che però non
significa che il nuovo sistema d’accensione a serpentino fosse divenuto ormai molto diffuso in
Italia, perché, come abbiamo già spiegato, la differenza tra schioppetto e archibugio non
consisteva tanto in una diversità dei sistemi d’accensione quanto in una differenza dei sistemi
di caricamento, in quanto il secondo ai suoi inizi fu una piccola arma da arca, come abbiamo
già spiegato.
La Lucchesia e la Garfagnana resteranno per tutto il Cinquecento rinomate per la
fabbricazione di armi da fuoco portatili e infatti nel 1546 Alfonsino d’Este, il quale più tardi
diventerà il suddetto Alfonso II, fece accreditare 12 scudi d’oro al suo mastro-bombardiero
Annibale Borgognone, uomo del quale abbiamo già molto detto e che si trovava in quel
mentre a Lucca con l’incarico di acquistare colà 4 archibusi, essendo evidentemente ancora
considerati quelli lucchesi tecnicamente innovativi. Inoltre, come risulta da un documento del
19 febbraio 1594, ancora a quel tempo il granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici
commissionava armi particolari – in quel caso una piccola canna da posta la cui forma
sembra ricordasse quella dei patrinali da cavalleria - a mastri archibugieri di Petregnana (oggi
Petrognano), frazione del comune di Piazza al Serchio sito appunto nella Garfagnana
lucchese (Angelucci, Cit. pp. 366-368).
L’arma lucchese sarà comunque presto superata; infatti il già citato de Bourdeilles, testimone
importante perché fu soldato coevo degli avvenimenti che narra, sosteneva che, se la fanteria
francese era ora dotata di ottimi archibugi, lo si doveva soprattutto al maresciallo Piero
Strozzi (1500-1558), famoso rifugiato fiorentino in Francia e uno dei migliori capitani del suo
tempo; all’inizio essa era andata infatti armata dei petit méchants canons mal montez, qu’on
appelloit ‘à la luquoise’, en forme d’une éspaule de mouton, et le flasque, qu’on appelloit ainsi
(cioè anche il fiasco di questo archibugio si diceva ‘alla lucchese’), estoit de mesme, voire
pis, comme de quelque cuir boilly ou de corne, bref, toute chose chétive; in seguito François
d'Andelot de Coligny (1521-1569), prima ispettore generale e poi colonnello generale della
fanteria francese, aveva apportato a detto archibugio alla lucchese dei miglioramenti
prendendo spunto da quello allora in dotazione alla nemica fanteria spagnola. Durante le
guerre di Piemonte (1536-1559) i francesi optarono poi per un archibugio che si fabbricava a
Pinerolo, il quale, anche se dotato d’un fiasco che non valeva di più, era tutto sommato
un’arma di ferro più doppio di quello fatto in Lucchesia; ma poi anche questa risultò esser
alquanto inadatta per la guerra perché troppo lunga e sottile e si preferì quindi usarla per la
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caccia. Era questo un tempo in cui anche il maneggio dell’archibugio con serpentino era
alquanto arretrato, perché l’archibugiero ancora portava la corda-miccia attorcigliata in un
solo rotolo attorno al braccio e l’estremità accesa in mano pronto a inserirla nel serpentino
quando gli fosse comandato; questo maneggio del miccio fu qualche decennio dopo reso più
pratico ed efficiente dal tenerlo non più intero bensì suddiviso in una decina di spezzoni
maniera che poi meglio descriveremo, mentre, essendo gli ottomani sempre molto più lenti
ad accogliere le innovazioni, la loro fanteria - i giannizzeri - continuerà a usare il vecchio
sistema ancora per lungo tempo.
Sempre nel corso delle guerre di Piemonte, i francesi si resero poi conto dell’assoluta
superiorità dell’archibugio che usavano i loro nemici spagnoli e che si fabbricava a Milano;
ma riuscivano a procurarsene alcuni solo come bottino bellico, perché il commercio con
Milano era allora loro precluso a causa della guerra. Ci fu poi una tregua e allora il predetto
d’Andelot ne portò da Milano circa trecento - comme je luy ay ouy dire (de Bourdeilles), ma
non gliene avevano dato dei migliori, essendo infatti quelli piccoli, di ferro poco doppio e
provvisti di fornimenti (‘accessori’) altrettanto miserelli. Poi si cominciò a importarne e si
raccomandò ai capitani di dotarne le loro bande più che potessero, ma i quantitativi che si
riusciva a ottenere erano sempre insufficienti e le compagnie che potevano vantare di avere
20 o 30 archibugi - e relativi fornimenti - di Milano si potevano ritenere fortunate; si sopperiva
pertanto con le canne che si producevano in Francia a Metz e ad Abberville e con gli
accessori che si facevano a Blangy, ma era tutta roba che non riusciva nemmeno ad
avvicinarsi alla qualità degli archibugi milanesi. Fu poi il famoso capitano Claude de Lorraine
duca di Guise e d’Aumale (1496-1550) che ne fece arrivare sempre di più ; ma particolare
apprezzatore degli archibugi di Milano fu, a partire da quando era stato un semplice capitano
di fanteria all’inizio delle dette guerre di Piemonte, un suo contemporaneo, cioè il
sunnominato Piero Strozzi, il quale ricevette allora l’elogio del Guise per esserne riuscito ad
armare la sua compagnia per la metà; quando poi divenne governatore della piazza di
Charry, pretese che tutti i suoi capitani non avessero nelle compagnie che archibugi,
fornimenti e corsaletti di Milano - perché anche i corsaletti e i morioni fatti in Lombardia erano
considerati i migliori esistenti. Egli invitò a Parigi un ricco mercante milanese che il de
Bourdeilles chiama Negrot e che quindi certamente apparteneva alla famiglia Negroli ; costui,
sulla semplice parola dello Strozzi, cominciò a far venire da Milano in Francia quantitativi di
dette armi e continuò questo commerciò per ben 15 o 16 anni, arricchendosene per più di
50mila scudi francesi; ma lo Strozzi voleva canne più grosse e rinforzate di quelle che il
Negroli procurava e così scrisse direttamente a un famoso forgiatore (magister a schiopettis)
di Milano, certo mastro Gasparo, considerato allora il migliore esistente (qui a ésté le meilleur

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forgeur qui jamais sera. De Bourdeilles) commettendogli due dozzine d’archibugi e dicendogli
che, quando fossero stati pronti, sarebbe andato lui stesso a ritirarli.
Ciò avvenne e lo Strozzi li trovò ineccepibili, perché di grosso calibro, molto resistenti perché
di gran spessore, molto ben limati e soprattutto molto ben sgrossati all’interno (vuidés),
essendo questo uno dei più ricorrenti difetti delle armi di ferro cavo del tempo, insomma tanto
ben fatti e sicuri che, benché essi tirassero delle archibugiate che sembravano moschettate,
non c’era pericolo che potessero crepare; egli ne regalò pertanto a diversi suoi amici, uno
anche allo stesso de Bourdeilles (et le garde encore dans mon cabinet. Ib.), il quale faceva
stabilmente parte del suo entourage, cosicché altri francesi vennero a a comprarne da detto
mastro Gasparo, il quale cominciò quindi a fabbricarne in grande quantità. Lo Strozzi fece poi
anche fare a quelle armi fornimenti (‘accessori’) e munizioni adeguate; ma, racconta il de
Bourdeilles, erano comunque armi di non agevolissimo uso perché, a differenza degli
archibugi dalla manica corta e leggera che ormai s’usavano al tempo in cui scriveva, quelle
allora lo avevano lungo e grosso e si vantava pertanto di esser stato proprio lui a renderlo più
semplice con l’introdurre un modo diverso di sostenerle e cioè non puntandone il calcio
contro la spalla, come allora si faceva, bensì contro lo stomaco. Già allora infatti gli spagnoli
usavano un tipo d’archibugio milanese dal calcio corto e ben appropriato, ma lo Strozzi, il
quale, a dire del de Bourdeilles, era uno dei migliori archibugieri del mondo, preferiva il
suddetto tipo più pesante perché, anche se c’era da aggiungere il difetto che la grossa carica
che quello richiedeva poteva talvolta dare dei problemi, pur tuttavia era convinto che facesse
miglior colpo; e certo talvolta anche lo dimostrava, perché per esempio nel 1565, narra il de
Bourdeilles, avendo lo Strozzi e i suoi partecipato da venturieri al soccorso di Malta, allora
assediata dagli ottomani, e trovandosi , dopo la felice fine dell’assedio, ancora nell’isola tutti a
tavola con i più alti ufficiali generali della spedizione spagnola, cioè con il marchese di
Pescara, comandante generale di quell’esercito, con Gian Andrea d’Oria (d’Orie), capitano
generale dell’armata di mare, e inoltre con altri capitani e signori spagnoli e italiani, lo Strozzi
affermò che con il suo archibugio di Milano poteva colpire un bianco (ancor oggi in sp. dar en
el blanco, tirar al blanco), cioè un bersaglio (questo metatesi di bressaglio, quindi da
‘breccia’) d’esercitazione, a distanza di ben 400 passi e, messo pertanto alla prova, lo fece
davvero suscitando la meraviglia di tutti. Egli affermava che, sebbene gli artefici francesi
riuscissero a ben imitare tutte le più eccellenti armi straniere, essi restavano invece di molto
inferiori per quanto riguardava quelle di Milano e ciò non solo in quanto ad archibugi e loro
fornimenti, ma anche in materia di armi difensive, cioè corsaletti e morioni, e non solo perché
insuperabili per cesello e dorature, ma anche perché, nel caso dei detti copricapi, si trattava
di manufatti molto ben ‘vuotati’, cioè perfettamente sgrossati internamente, e dalla cresta
non troppo alta come invece era quella dei celatoni francesi. Soprattutto la doratura era cara
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e pochi soldati potevano permettersela, facendosi pagare il suddetto Negroli ben 14 scudi per
un morione dorato; allora lo Strozzi ordinò che tutti i militari comporassero dal commerciante
milanese morioni non dorati e che se li facessero poi dorare da un doratore parigino che si
era trovato e che lavorava bene quanto e forse più di quelli milanesi, venendo così la spesa
totale limitata a a soli 8 o 9 scudi; in seguito entrarono in campo in Francia altri doratori,
incisori e fucinatori, per cui non ci fu più bisogno di importare i celatoni, mentre sempre di
molto superiori, sia per forgia sia per incisioni, restavano i corsaletti milanesi. A una massa
dell’esercito che si raccolse allora a Troye in Lorena, dove le fanterie dello stesso Strozzi e
del de Brissac raggiungevano i 40mila uomini, ben un quarto di questi risultò dotato di
morioni dorati e ciò nonostante non fossero allora ancora tanto diffusi come più tardi; il de
Bourdeilles scriveva che comunque, al tempo in cui redigeva queste sue memorie, il
problema non c’era più per il semplice motivo che i morioni erano stati dismessi, sostituiti
ormai com’erano dai molto più pratici baschi e cappelli, ed era secondo lui un peccato, non
solo per ragioni di estetica, ma anche e sopratutto perché continuavano a riparare bene, se
non più tanto dai colpi d’armi da fuoco (ctsm. tiros de pólvora) divenuti ormai molto
penetranti, certamente ancora sia dai colpi di spada nei combattimenti sia dalle pietre che gli
assediati usavano lanciare dall’alto delle mura; ma la storia delle armi difensive esula da
questo nostro lavoro.
Tuttavia lo Strozzi, anche se tanto appassionato estimatore del grosso archibugio di gran
calibro, arma che poi in Francia prenderà dapprima il nome particolare di arqueb(o)use
but(t)iere [‘bersagliera’, dal fr. but(e), ‘bersaglio’; talvolta compendiato in aquebutte], poi
quello popolare di rainoise (‘ranara’) e sarà usata soprattutto dai nobili per l’uccellagione e
per il tiro a segno, non era d’accordo che si riprendesse in uso militare l’uso dei più grossi e
pesanti harquebuse à croc, pesanti armi da forcina o forchetta di cui abbiamo già detto, che
non si vedevano più dalle vecchie guerre di Piemonte della prima metà del secolo e che
allora i fantaccini francesi, a causa di quella loro canna grossa e corta che avevano avuto
sino ad allora, avevano usato chiamare vits de muletz (‘cazzi di mulo’); il de Bourdeilles
scriveva che in Francia se ne potevano ancora trovare nelle vecchie armerie dei castelli e
che egli ricordava di averne visto più d’una ventina conservati appunto nel castello di
Bourdeilles; ma quando lo spietato Fernando Álvarez de Toledo y Pimentel duca d’Alba
(1507-1582) fece passare in rivista nel 1567 il corpo di spedizione con cui andava a
reprimere la ribellione dei Paesi Bassi, mostrò tra quei fanti un contingente di moschettieri,
cioè di bersagliatori, ognuno dei quali, marciando in campagna, era seguito da un servo (fr.
goujat) che sulle spalle gli portava appunto una pesante arma delle suddette, corredata, tra
l’altro, anche di un appoggio a forcina; gli spagnoli lo chiamavano però, come abbiamo già
accennato, non archibugio bensì, riprendendo quel vecchio nome lucchese, moschetto di
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Biscaglia, probabilmente perché fabbricato all’inizio in quella regione della penisola iberica, e
dicevano di conseguenza moschettieri quegl’imberciatori. Si trattava però d’un tipo dalla
canna più affusolata di quello che ricordava il de Bourdeilles e quindi in sostanza si poteva
considerare un archibugio pesante quasi il doppio di quello ordinario e infatti il Botero li
chiamava archibugioni (Giovanni Botero, Giovanni, Della ragion di Stato libri dieci. Venezia,
1589); esso era inoltre lungo quasi due palmi di più e aveva un calibro maggiore di quasi un
terzo, cioè era da puntare appunto con l’aiuto di un sostegno, di una piccola gruccia. Non
tanto però questo diverso maneggio, dovuto al maggior calibro e quindi al maggior peso,
rendeva quest’arma differente dall’archibugio quanto la sua maggior tratta e potenza di tiro,
qualità che obbligò gli eserciti del tempo a mutar tattica di battaglia. Che poi questi
moschettieri si facessero allora portare quella pesante arma da un servo non deve
meravigliare, perché erano quelli ancora tempi in cui qualsiasi soldato, anche il più semplice,
poteva portarsi in guerra, sostentandolo con un soprassoldo di cui eventualmente godesse,
un servo e magari anche un carro con una serva-compagna personale, se riteneva di
poterselo economicamente permettere. Certo il duca d’Alba aveva fatto molto per invogliare i
soldati a sobbarcarsi a quel grave fardello:

… E detti moschetti stupivano molto i fiamminghi quando ne sentivano il fragore, poiché essi
non ne avevano visti più di noi; e quelli che li portavano li chiamavano ‘moschettieri’. Essi
erano molto ben stipendiati e rispettati, sino ad avere dei grossi e forti garzoni che glieli
portavano, prendendo infatti quattro ducati (mensili) di paga; ma se li potevano far portare
solo quando si marciava in campagna e non quindi quando si combatteva, si marciava in
battaglia o s’entrava di guardia in qualche città. E si sarebbe detto che si trattava di principi
tanto erano arroganti e marciavano altezzosamente e elegantemente; e quando c’era
combattimento o scaramuccia avreste sentito gridare queste parole con grande rispetto:
‘Fuori i moschettieri, avanti i moschettieri!’ E subito si faceva loro posto; ed erano rispettati
ancor più che i capitani a motivo della loro novità, dal momento che sempre una novità piace.
Io li vidi allora passare per la Lorena e li andai a vedere appositamente tanto per la loro fama
che risuonava ed echeggiava dappertutto quanto per rivedere alcuni capitani e soldati che
avevo visto e conosciuto nell’esercito che il re di Spagna aveva inviato a Malta, quando ne
era generale il signor marchese di Pescara; e non era che circa un anno solamente che li
avevo visti. Ne vidi diversi che mi riconobbero con molte gentilezze sia civil che militari alla
spagnola, poiché io parlavo allora lo spagnolo altrettanto bene che il francese, e vi direi che,
se non ci fosse stata quella seconda guerra civile che vedevo prepararsi, sarei andato con
loro… (P. de Bourdeilles. Cit.).

Che fosse quello del duca d’Alba per la Fiandra il primo esercito in campagna che usasse
formazioni di moschettieri, cioè di fanti armati del pesante moschetto di Biscaglia, è
testimoniato dallo stesso de Bourdeilles, il quale nelle sue memorie scrive che due anni
prima, cioè all’assedio di Malta, nell’esercito spagnolo colà impiegato non ne aveva
assolutamente mai visti; ma che fosse stato anche il duca a inventare l’uso della forcina di
sostegno è del tutto falso e infatti egli non fece altro che rivalutare e ammodernare quello dei
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vecchi arquebuses à croc del Rinascimento. Avendo letto in qualche relazione di
quest’innovazione introdotta dal sovrano suo principale competitore, il re Carlo di Valois, IX di
Francia (1560-1574), si fece fabbricare cento moschetti dalle fucine di di Metz, volendo infatti
costituire una centuria di moschettieri nella sua guardia, e, ricevutili, li mostrò allo Strozzi
perché li valutasse e li introducesse anche nella fanteria ordinaria. Fatti da fucine diverse,
sebbene alcuni fossero più lunghi e altri più corti, lo Strozzi li trovò tutti troppo pesanti e
chiese quindi al re la concessione di farne venire da Milano, cioè di quelli lombardi, più
razionali, che usavano gli spagnoli, e così fu. Durante l’assedio della Rochelle del 1573, per
dare l’esempio ai molto riluttanti soldati, i quali spesso persino il soprassoldo promesso a tali
moschettieri non riusciva ad allettare, incominciò a farsi egli stesso vedere sempre armato di
un moschetto che si faceva portare da un paggio o da un lacché e non perdeva occasione di
tirare con esso dei colpi ammirevoli; il de Bourdeilles racconta che al suddetto assedio un
giorno l’aveva visto colpire un cavallo nemico alla distanza di 500 passi. Ottenne da diversi
dei suoi capitani intrattenuti, cioè non in ruolo di carriera ma che per quella campagna
godevano soldo, i quali rispondevano ai cognomi di Berres, Saint-Denis, Calais e ad altri, che
anch’essi portassero un moschetto e anche stavolta ne regalo uno al suo amico de
Bourdeilles, il quale non ne sentiva certo la mancanza, ma lo conservò pour l’amour de luy e
scriveva che, non usandosi allora ancora di tenere le cariche preconfezionate a bandoliera,
espediente questo che fu introdotto solo una decina d’anni più tardi, lui, quando usava
quell’arma, aveva fatto sua la un po’ grossolana regola di inserirvi una doppia carica
d’archibugio. In precedenza, cioè quando lo Strozzi e i suoi s’erano imbarcati a Broüage
appunto per quell’assedio, il maresciallo aveva comunque già regalato al de Bourdeilles un
secondo archibugio di Milano; questo però differiva molto dal primo di cui abbiamo già detto,
essendo leggero, elegante e ricco di dorature, tant’è vero che lo scrittore ne fece presto a
sua volta omaggio a Henri de Bourbone re di Navarra, poi quarto di Francia, il quale era
anch’egli a quell’assedio, al seguito di Henri de Valois duca d’Angoulême, d’Orléans e
d’Anjou poi Henri III di Francia, che lo comandava, e che era il primo archibugio che il duca
avesse mai maneggiato.
Generalmente la Francia militare restò per tutto il Cinquecento molto più estimatrice degli
archibugi di Milano che dei suddetti moschetti di Biscaglia e infatti anche il nipote del
summenzionato duca di Guise, cioè Henri de Lorraine (1550-1588), terzo duca di quella
storica casata, preferiva i suoi fanti armati di quell’arma italiana, anche se non troppo
rinforzata, ossia di metallo non troppo spesso perché non pesasse troppo, ma in ogni caso di
buona tempra (fr. trampe) perché non crepasse usandosi polvere fina e potente che
permettesse di tirare lontano e con effetto ben perforante (pour bien tirer d’assez loing et faire
bonne faucée, de Bourdeilles). La diffusione sui campi di battaglia sia degli archibugi di
280
Milano sia dei moschetti di Biscaglia determinò dunque mutamenti importanti nell’arte della
guerra perché fece gradatamente scomparire sia i grossi battaglioni di fanteria svizzera sia gli
squadroni di reiters tedeschi, grosse e statiche formazioni che erano un facile bersaglio per
quelle nuove armi; un moschettiero poteva infatti cominciare a tirare a una distanza dal
nemico di circa il 50% superiore a quella invece utile per gli archibugi della fanteria e degli
archibugieri a cavallo. Insomma prima che i due eserciti nemici si scontrassero i moschettieri
potevano sparare tre colpi a fronte dei soli due degli archibugieri ; per non parlare poi dei
cavalieri raitri, i quali, per far colpo sicuro con i loro archibugietti (pistoletti; ‘pistole a ruota’);
ne portavano ben 4 o 5 per uno), dovevano, prima di far fuoco, andare quasi ad appoggiarne
la bocca addosso al nemico. D’altra parte un esempio importante di quanto nuove armi da
fuoco obbligassero gli eserciti a un cambio di tattica, s’era storicamente già visto alla battaglia
di Pavia del 1525, quindi già molto prima della diffusione degli archibugi di Milano e dei
moschetti da forcina, dove erano stati soprattutto i fanti imperiali armati della nuova arma
portatile di cui abbiamo già detto, cioè degli archibugi, a determinare la sconfitta dell’esercito
francese, la cui fanteria era allora invece ancora dotata solo di schioppettieri e balestrieri;
tant’è vero che il de Bourdeilles racconta che la regina madre Luisa di Savoia (1476-1531),
reggente durante la prigionia del figlio Francesco I conseguente a quella sfortunata battaglia,
inviò commissari ed emissari a tutte le principali città del regno, ordinando che presto si
dotassero di archibugi e archibugieri per la loro difesa; cosa che le città fecero generalmente
in parte, cioè solo costituendosi nelle loro armerie una dotazione di tale arma, perché in
sostanza ancora per decenni preferirono che i loro giovani si esercitassero a usare la
tradizionale balestra. In seguito lo stesso Francesco I proverà a estendere in Francia l’uso
dell’archibugio modificando il secolare obbligo di servizio di ban e di arrière-ban della nobiltà
feudale, come spiegava il residente veneziano in Francia Matteo Dandolo nel 1542 :

In ciascuna parrocchia di Francia suol esser un huomo pagato da essa di buona provisione e
si chiama il ‘franco arciero’, il quale è obligato a tener un buon cavallo e star provisto
d’armatura a ogni requisizione (‘richiesta’) del re, quando (però) il re fosse fuora del regno per
conto di guerra o d’altro. Sono obligati a cavalcare in quella provincia dove fosse assaltato il
regno o dove fosse sospetto (di ciò) […] Simil ordine è anco d’una grossa quantità di nobili
feudali, ai quali il presente re (Francesco I) ha ordinato che in luogo del cavallo abbino due
servitori con gli arcobusi e che con quelli abbino a ridursi nelle terre (‘città’) ai suoi bisogni,
sicché senz’altra spesa gli saranno sicure, essendo in mano di tanti gentilhuomini… (E.
Albéri. Cit. S. I, v. IV, pp. 36-37.)

Per quanto riguarda l’Italia, vediamo che i senesi deliberarono in data 25 gennaio 1546 di
acquistare ben 400 archibugi lucchesi (instrumenta bellica vocati archibusi de Luca), ma
quando poi effettivamente lo fecero non sappiamo; certo è che in data 28 novembre dell’anno
successivo ci sarà una liberanza di pagamento di 126 ducati d’oro e sei lire all’armaiuolo
281
Francisco Perregrino lucensi, il quale aveva la sua officina a Chifenti, contrada della
Lucchesia, pro pretio instrumentorum bellicorum vocati moschettoni. L’Angelucci inoltre cita
altri documenti concernenti il predetto artigiano; con uno di questi datato 6 settembre 1552 il
duca di Firenze Cosimo de’ Medici, per compiacere la repubblica di Siena, concedeva
agevolazioni gabellari al predetto armaiuolo, ora chiamato mastro Francesco di Pellegrino del
Borgo di Lucca, perché, per servizio di detta repubblica, le portasse un’altra fornitura d’ami e
cioè cento archibusi con suoi fornimenti. In un altro si parla invece d’una contropartita in tanti
archibugi o da mano o da posta alla quale il detto maestro Francesco Pellegrini doveva
impegnarsi a favore dello stesso comune di Lucca a fronte d’un finanziamento pubblico alla
sua attività d’armaiuolo che aveva ricevuto.
Ma dopo questa lunga digressione sull’arma di fanteria, ritorniamo ora all’artiglieria. Del 1553
(14 settembre), quindi molto tardo, è il primo accenno all’accensione a serpentino reperito
dall’Angelucci; si tratta di una delibera senese per l’acquisto appunto di moschettoni:

Messer Bernardino Buoninsegni e Calistio Borghesi a nome publico comprino cento


moschettoni da mercanti che ci sonno de la qualità deli due che hanno portati per saggio, 50
a cavallo (altrove: col ferro da cavalletto) e 50 senza con l’appiccatoio, a scudi nove d’oro il
paio, condotti in Siena, franchi di cabella per tutto gennaio prossimo… (A. Angelucci. Cit.)

È importante questo documento per la distinzione netta che fa tra moschettoni da posta ossia
da cavalletto, cioè da postazione fissa su mura o murate di nave, forniti di cavalletto girevole
(a cavallo), con accensione diretta tradizionale tramite semplice focone, e moschettoni da
braccia, cioè per fanti, senza cavalletto ma provvisti di appiccatoio, cioè di quel congegno che
poi si chiamerà serpentino, al quale appunto appiccare la corda-miccia da accensione. Come
vediamo, il vecchio nome lucchese di moschettoni ancora era usato, né si può pensare che
qui significasse che si volessero armi di calibro superiore a quello medio dell’archibugio per il
semplice motivo che il moschetto di Biscaglia di calibro superiore farà la sua apparizione
internazionale solo nel 1567, voluto cioè dal duca d’Alba nella sua fanteria in partenza per le
sfortunate Fiandre.
Un contratto d’appalto napoletano del 10 aprile 1537 pubblicato dal Capasso riguarda la
costruzione e fornitura di 36 carrette (‘affusti’) commissionate ai mastri d’ascia d’artiglieria
Tomasino e Antonio dela Licorno e Paolo de Chiara per delle evidentemente nuove bocche
da fuoco fatte allora gittare dall’allora viceré del Regno di Napoli Pedro de Toledo marchese
di Villafranca e da posizionarsi sulla cinta muraria aragonese della capitale di cui egli aveva
ripreso il completamento proprio in quel suddetto anno:

…Carrette dudeci de cannuni, altri dudeci de mezi cannuni duppii, octo altre de meze
colubrine et quattro altre de colubrine bone perfette et ad laude de maistri et homini experti in
282
tale opera… consistente ciaschuna de dicte carrecte in la cascia, rote et asse… Et per loro
salario e magisterio ad ragione de ducati quattro et mezzo per ciascuna de dicte carrette…
(Bartolomeo Capasso, Notizie intorno alle artiglierie appartenenti alla città di Napoli dalla fine
del secolo XV fino al 1648. ASPN, XXI (1896), pp. 406-424.)

I legnami erano a carico della città di Napoli. Dunque si trattava di artiglierie del genere allora
più ‘moderno’, una qualità che ritroveremo nell’artiglieria fiammingo-vallona poco più tardi e
cioè in una registrazione del 1545, anche qui per la presenza di cannoni e mezzi cannoni
ferrieri e di palle di ferro generalizzate:

… toutes les pièces de la dicte artillerye … canons, demy-canons, serpentines, courtaulx,


longues cullevrines, hacquebuttes, doubles et sengles cullevrines… boullets de fer et de
pierre… (J. Finot. Cit.)

Ma vediamo ora nel dettaglio un inventario, già più sopra citato, del 21 giugno 1553
riguardante artiglieria trovata nella saccheggiata città di Thérouanne (Calais):

Una colubrina rinforzata chiamata Madame de Buisson.


Tre cannoni di 10 piedi di lunghezza.
Un cannone dal calibro di 11 libbre di ferro.
Sei mezze colubrine di 12 piedi.
Un sagro con le armi dell’imperatore (‘Carlo V’).
Otto falconetti di 10 ½ piedi.
5 pezzi di ferro (mezze serpentine e falconetti).
Etc. (ib.)

Eccone un altro del 19 luglio seguente e concernente artiglieria proveniente invece da Hesdin
(Calais); si contraddistinguono ora le bocche da fuoco dai loro individuali bassorilievi
ornamentali:

… Tre cannoni, di cui due con una F, seminati di fiori di giglio, la salamandra attorniata, il
terzo ha la lettera H coronata e al disopra del focone la mezza-luna o crescente circondata in
alto e al disotto di fiori di giglio, di cui due sono stati messi in guarnigione alla cittadella di
Cambrai, l’altro al Quesnoy; un sagro corto cannoneggiato (‘colpito’) all’imboccatura e alla
culatta, ‘estant fourcourru’ (‘fourconné’?; ‘incavalcato’), seminato di fiori di giglio; un mezzo
cannone come serpentina rotto, avendo ricevuto un gran colpo a metà della canna, marcato
della lettera H coronata, un mezzo crescente sopra il focone e in alto un fiore di giglio; due
mezze serpentine con la lettera F, seminati di fiori di giglio, la salamandra sul focone, etc.
(ib.)

Sembrerebbe il primo caso di sagro non affustato ma incavalcato su forcina, trattandosi però
di un tipo di bocca da fuoco generalmente un po’ troppo pesante per esserlo; ma riteniamo
che quel fourcourru non venga da fourchu (‘forcuto’), ma che abbia a che fare con fourgon
(‘carretta’).

283
Di questo tempo fu anche il Ryff, altro inesperto di cose militari, il cui trattato di architettura,
pubblicato a Norimberga nel 1547, è nondimeno importante per la storia dell’artiglieria perché
egli studiò non solo l’architettura su trattati italiani ma, a quanto sembra, anche la diabolica
arte su testi italiani e francesi è quindi ci ha lasciato una classificazione delle bocche da fuoco
qual erano ai suoi tempi in quei paesi (nach Welscher Manier); allora infatti i tedeschi ancora
chiamavano la Francia, Italia e Spagna Welschlandt, ossia ‘il paese dei celti’ ‘dei galli’, ‘dei
latini’ o comunque ‘dei non-germanici’). Ne risulta un’artiglieria ora già molto più regolata di
quella di cui aveva detto il de Biringuccis forse nemmeno una ventina d’anni prima, tutta
ormai a palla di ferro tranne il piccolo falconetto che era ancora a palla di piombo; inoltre nel
suo scritto non manca qualche interessante accenno alla nomenclatura tormentaria tedesca,
accenni che poi vedremo confemati nel trattato del Fronsperger. I pesi dati dal Ryff sono
naturalmente solo ottimali e quindi indicativi:

Falconetto (td. sing. e plt. Falckanet) da 4 libbre di piombo di calibro, lungo piedi 6½,
pesante 400 libbre e trainabile da 2 cavalli.
Falcone [td. Falck o Falckona; plt. Falckonen)] da 6 libbre, lungo 7 piedi, pesante 890
libbre e trainabile da 4 cavalli.
Aspido da 12, lungo 7½, pesante 1.300 libbre e trainabile da 6 cavalli.
Sagro (i. sacar) da 10, lungo 8 piedi, pesante 1.300 libbre e trainabile da 6 cavalli.
Sagro da 12, lungo 8 piedi, pesante 1.400 libbre e trainabile da 8 cavalli.
Sagro da 12, lungo 9 piedi, pesante 2.150 libbre e trainabile da 10 cavalli.
Passavolante (td. Schlange) da 16, lungo 12 piedi, pesante 2.740 libbre e trainabile da 10
cavalli.
Colubrina (td. Drachen) da 16, lunga piedi 8½, pesante 1.750 libbre, trainabile da 10
cavalli.
Colubrina da 14, lunga piedi 9½, pesante 2.233 libbre e trainabile da 10 cavalli.
Colubrina da 20, lunga 10 piedi, pesante 4.300 libbre e trainabile da 14 cavalli.
Colubrina da 50, lunga piedi 11½, pesante 5.387 libbre e trainabile da 24 cavalli.
Colubrina da 50, lunga 12 piedi, pesante 6.600 libbre e trainabile da 28 cavalli.
Colubrina da 120, lunga 15 piedi, pesante 13.000 libbre e trainabile da 62 cavalli.
Cannone [td. Karthaune, Karthone e Quartha(u)ne], corr. del quartana che ora vedremo) da
20,
lungo 7 piedi, pesante 2.200 libbre e trainabile da 10 cavalli.
Cannone (td. idem c.s.) da 20, lungo 8 piedi, pesante 2.500 libbre e trainabile da 12 cavalli.
Cannone da 50, lungo piedi 9½, pesante 4.000 libbre e trainabile da 18 cavalli.
Cannone da 100, lungo piedi 10½, pesante 8.800 libbre e trainabile da 36 cavalli.
Cannone da 120, lungo 10 piedi, pesante 12.459 libbre, trainabile da 50 cavalli.
(Walther Herman Ryff (?-1548), Der furnembsten, notwendigsten, der gantzen Architectur
angehörigen Mathematischen vnd Mechanischen künst etc. Norimberga, 1547.)

Ecco poi i cannoni petrieri, ossia a palla di pietra:

Petriera da 250 libbre di palla di pietra, lunga piedi 11½, pesante 8.900 libbre, trainabile da
36/38 cavalli.
Petriera da 150, lunga 10 piedi, pesante 6.146 libbre, trainabile da 24 cavalli.
Petriera da 100, lunga 7 piedi, pesante 5.500 libbre e trainabile da 22 cavalli.
Petriera da 100, lunga piedi 9½, pesante 4.500 libbre e trainabile da 18 cavalli.
284
Cortaldo da 45, lungo 7 piedi, pesante 2.740 libbre e trainabile da 10 cavalli.
Cortaldo da 30, lungo piedi 8½, pesante 1.600 libbre e trainabile da 6 cavalli. (Ib.)

Ma, entrati dunque col Ryff nell’autorevolissimo campo dell’artiglieria tedesca, ci conviene
fare un piccolo passo indietro e iniziare dalle sette paginette di Jacob Preuss pubblicate nel
1530. Abbiamo già detto, a dispetto di quanto affermassero il Guicciardini e l’Ariosto, della
probabile origine italiana delle bombarde e in generale delle grandi bocche da fuoco formate
da più pezzi strettamente avvitati insieme, restando sino all’inizio del Quattrocento le fusioni
in pezzo unico relegate alle armi da fuoco da braccia come colubrine o schioppetti,
spingardelle escluse; poi i tedeschi, padroni già allora di una superiore metallurgia, grazie
anche al disporre, come scriveva l’Ufano, di excelentes mathematicos che insegnavano le
giuste proporzioni da darsi alle artiglierie, principiarono nel corso di quel secolo a fondere in
pezzo unico anche bocche da fuoco medio-grandi, genere che chiamarono delle
Scharpffmetzen (‘mezzane, moiane penetranti’), tipizzandole, oltre che con nomi tedeschi,
anche con italianismi, i quali troviamo appunto dapprima nella suddetta operetta del Preuss.
Quest’autore già al suo tempo prescriveva una grossa artiglieria molto standardizzata, divisa
in Maurenbrechergeschütze, cioè ‘da breccia’, Feldtgeschütze, ossia ‘da campagna’
(ambedue i tipi detti grosse Geschütze) e Mörthier, ‘mortai’. Il primo genere includeva i
cinque seguenti tipi, tutti da palla di ferro, indicati dapprima con i loro nomi non germanici e
poi con quelli in uso in Germania, quasi a voler sorprendentemente riconoscere alla
pirobalistica franco-italiana una supremazia che

1) Metzicana o Matzicana [dall’itm. mezza canna; td. collt. Scharpffmetze (‘mezzana,


moiana
penetrante’)].
invece questa a quella tedesca tradizionalmente attribuiva: Era la bocca da fuoco d’assedio
maggiore, dal calibro di un Centner tedesco, cioè da un centinaro di libbre, e dal peso di
10mila libbre. Certo può suonar strano che si chiamasse ‘mezza canna’ o ‘mezzana sottile’
un cannone dal calibro di uno Zentner, ossia di 100 libbre di ferro, ma si tratta evidentemente
di appellativi che volevano differenziarlo dalle precedenti e tanto più larghe canne delle
bombarde fatte per sparare grosse palle di pietra.

2) Cana o Kana [dall’itm. canna; td. collt. Basilisc(h)us (sic); it. basilisco o doppio
cannone], dal calibro di 75 libbre e dal peso di 7.500.
3) Dupplicana (dall’itm. dupla canna; td. collt. Nachtgal), dal calibro di 50 libbre e dal peso
di 5mila libbre.
4) Triplicana [dall’ìtm. tripla canna; td. collt. Singerin(n)], dagli stessi suddetti calibro da 50
e
285
peso di 5mila libbre; ma era di circa due piedi più lunga della Nachtgal, il che significa che
era
necessariamente di metallo più sottile.

In italiano doppio cannone significava una bocca da fuoco che poteva raggiungere un calibro
anche doppio (100 libbre) di quello massimo (50 libbre) del cannone ordinario, mezzo
cannone uno che aveva un calibro di molto inferiore a quello del cannone ordinario e quarto
cannone una canna dal calibro ancora più piccolo, buono dunque anche come bocca da
fuoco da campagna; perché dunque invece in Germania, diminuendo le dimensioni della
canna, aumentava la sua valutazione nominale (‘doppia, tripla’)? Sembra un controsenso…
ma si spiega intendendola dovuta non al calibro bensì alla maggior lunghezza proporzionale
della canna resa rispetto al calibro, come si evince del resto proprio dai predetti loro nomi
italianeggianti.

5) Quartan(a) [dal lt. quartana, agg. di ‘quarta’; td. collt. viertail Büchß]; bocca dal calibro
di 25 libbre e dal peso di 2.500 libbre.

Questa quart(h)an(a) (plt. Quarthanen o Quarthonen) era così detta perché, come si può
vedere, il suo calibro era un giusto un quarto di quello della metzicana; si userà anche in
Italia e in Spagna con il nome - ritornato dal td. - prima di c(h)ortana, per cui i posteri
crederanno erroneamente che si fosse trattato di una bocca da fuoco dalla canna
particolarmente corta, e in seguito di quarto (di) cannone, ma nel senso di ‘quarto in
preminenza’, perché quasi mai ora corrispondendo il suo calibro a un quarto di quello, molto
variabile, del doppio cannone, grande bocca da fuoco che in quei paesi mediterranei faceva
le veci della metzicana. La trasformazione del latino germanico qua- in ca- era un processo
comune in Europa, specie in quella dalle lingue romanze; vedi per esempio il francese
medievale quarteron (‘quarta parte’) poi divenuto appunto carteron. La dizione italiana Quarto
cannone influenzò a sua volta di ritorno il suddetto td. Quarthanen trasformandolo, come
leggiamo nel Fronsperger, in Quartonen.

Il secondo genere dei grosse Geschütze, quello cioè dell’artiglieria da campagna, includeva i
seguenti quattro tipi:

1) Track(h)ana, dall’itm. canna del drago; td. Trachen o anche Rodtschlange e


Rothschlange; ‘colubrina da battaglione’ (td. Rotte).
Era questa una canna da usarsi in campagna quando fossero necessarie lunghe gitatte,
come nel caso si dovessero per esempio abbattere a distanza torri o campanili dalle cui
286
sommità il nemico ci bersagliasse. Troppo grossa per le sole necessità di campagna, si
portava nel treno d’artiglieria per ‘evenienze’ ossidionali, cioè per eventuali necessità di
diroccamenti. Sparava proiettili di ferro di 16 libbre.

2) Schlauckana o Schlangkhana (‘canna del serpente’; td. collt. Schlange; itm.


passavolante; it. colubrina). Palle da 8 libbre di ferro.
3) Falck(h)an(a) oFalckona (dall’it. falcone; td. collt. halbe Schlange). Palle da 4 libbre di
piombo.
4) Falcka o Falckonet (ancheFalckanet o Falckenet; dall’it. falconetto). Palle da 2 libbre di
piombo.

Ecco il terzo genere o dei mortai, bocche da fuoco con le quali sparare ad arcata palle di
pietra o bombe o proiettili di materie incendiarie:

1) Morthier (td. collt. Narren o Boler). Calibro di 100 libbre di palla di pietra e peso di
5mila libbre.
2) halb Morthier. Calibro di 50 libbre di palla di pietra e peso di 2.500 libbre.
3) kleiner Morthier o Boler. Calibro non superiore alle 8 libbre e peso di 150 libbre.

Il Preuss aggiunge poi la seguente serie di nomi riguardante la piccola artiglieria e le armi da
fuoco in generale, senza però le necessarie classificazioni:

Steinbüchßen.
Kamerbüchßen.
Hagelgeschütze.
Bock o Tarriẞ Büchßen.
Scharvffendinen o Scharpffentinen.
Feurbüchßen.
Toppelhacken.
Haacken.
Halbhaacken.
Handgeschütze.
Ziel, Birsch e Feier Büchßen.

A prescindere da quelle dal nome intuitivo, cercheremo di spiegare le altre piccole predette
armi da fuoco con l’aiuto di quanto ce ne dirà più avanti il Fronsperger, il quale anche ci
confermerà le suddette principali suddivisioni dell’artiglieria maggiore (grosse Geschütze),
come segue:

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Maurbrecherine Geschütze (‘cannoni da breccia’) a palla di ferro.

Matzicana [assim. da Metzicana; td. Scharpffmetze)]. Proiettili di uno Zentner tedesco, cioè
di cento libbre.
Cana [td. Basiliscus o Basilisk (plt. Basilisca o Basilisken); ‘basilisco’]. Proiettili di 75
libbre.
Dupplicana [td. Nachtgal(l) e Singerin; ‘usignolo’ e ‘canterina’]. Proiettili di 50 libbre.
Quart(h)an(a) [td. Cartuna o Karthona o Kartauna o Fiertel Büchß(e), plt. Karthaunen
[it. prima cortana e più tardi quarto (di) cannone]. Proiettili di 25 libbre.

Per quanto riguarda ancora la dupplicana, la quale, ribadiamo, nonostante il suo il nome nulla
aveva a che fare con il posteriore doppio cannone, il Fronsperger conferma che Nachtgal e
Singerin avevano lo stesso calibro e che il primo era di due piedi più lungo del secondo,
questo pertanto e ovviamente preferibile in postazioni di cinta o nell’uso di bordo, dove cioè lo
spazio di rinculo fosse più limitato.

Feldtgeschütze (‘bocche da campagna’).

Trackana (td. Rotschlange; ‘colubrina da frotta, cioè da esercito in campagna’). Proiettili di


ferro di 16/18 libbre.
Schlanckana (td. Schlange; ‘colubrina’). Proiettili di ferro di circa 8 libbre.
Falckana [td. halbe Schlange o Falckona; ‘mezza colubrina’ o ‘falcone’]. Proiettili di ferro di
4/5 libbre.
Falcka [td. Falckan(n)et(lin) o Falckonet; ‘falconetto’]. Proiettili di piombo di 2 libbre.

La trackana, a causa del suo discreto calibro, poteva esser anche usata in batteria per
abbatter parapetti e mura più sottili e quindi, a maggior ragione, anche la schlauckana contro
difese aggiuntive e mura sottili. La falcka, utile sia in campo sia nella difesa delle cinte
murarie, sarà poi, nella seconda metà del Cinquecento, convertita in bocca da fuoco da palla
di ferro. Bisogna dire che tutte le suddette bocche maggiori si potevano, in caso di necessità
cioè di mancanza di palle di ferro, usare anche con palle di piombo, le quali contenessero
però una corposa anima di rottame di ferro per diminuirne il peso.
E’ interessante qui notare come l’artiglieria tedesca del Cinquecento non fosse suddivisa nei
generi primo’, ‘secondo’ e ‘terzo’ (quello delle colubrine, quello dei cannoni ferrieri e quello
dei cannoni petrieri, delle petriere e dei mortari), come più avanti meglio vedremo essere
invece allora quella Welsch (‘latina’), bensì in ‘bocche da breccia’, ‘bocche da campagna’ e
Feuwerbüchßen (‘canne da proiettili incendiari’); insomma non si suddivideva per differenze
strutturali ma per campo d’impiego.

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Per quanto riguarda l’ultimo genere, le Feuwerbüchßen, queste canne, proporzionalmente
più corte e larghe delle precedenti, erano in effetti proprio il corrispondente dei predetti
cannoni petrieri e petriere dell’artiglieria latina, con la differenza che non erano state
concepite in Germania per tirare palle di pietra [td. steinerne Kuglen (più tardi Kugeln) oppure
Pölerkuglen] in quanto poco adusi erano i tedeschi alla guerra marittima, bensi appunto per
lanciare proiettili composti contro abitati, fortezze e accampamenti; erano, scriveva il
Fronsperger, lunghe in media circa quattro piedi, ma ce n’erano anche di molto piccole da un
solo piede. Servivano dunque a lanciare proiettili più grossi ma non troppo pesanti, per
esempio cartocci di mitraglia (td. Hagelgeschütz, Hagelbüchssen o Cartetschen), ma perlopiù
palle incendiarie (Feuwerkuglen) per provocare incendi, funzione a cui si doveva il loro
nome; insomma si trattava in effetti di quelli che in Italia e Spagna si chiamavano cannoni
petrieri che tiravano palle di pietra o appunto proiettili composti, quali carcasse (in un primo
tempo dette gabioncelli), lanterne e sacchetti, contro obbiettivi marittimi e formazioni di
uomini. Con le più piccole canne di questo tipo, cortissime, in quanto lunghe appunto solo
circa un piede e mezzo, fatte di metallo molto spesso e forte, dal calibro di circa un uovo di
gallina ma in genere caricate con una manciata di 12 o 15 palle di piombo da archibugio,
usavano le guarnigioni tedesche contrastare gli assalti del nemico alle difese esterne, ma
naturalmente ottenevano il loro miglior effetto quando andavano a colpire strette formazioni
nemiche e non uomini che avanzano invece in ordine sparso.
I grossi mortari per i tiri d’arcata erano detti allora in tedesco Mörthier, ma soprattutto
Böler(n) (nel secolo successivo scritto anche Pölern), e i piccoli mortaletti (Fein)Böler(n) o
Karren e halbe Böler(n) o halbe Karren. Queste erano canne corte e larghe, considerate
anch’esse nel genere di quelle petriere nei paesi latini, oltre che per il lancio ossidionale di
bombe, erano anche molto usati dalle fanterie tedesche con tiri di mitraglia per indebolire le
formazioni nemiche prima di azzuffarsi con loro.
A partire dunque dalla predetta falcka all’ingiù, veniva tutta la piccola artiglieria a palla di
piombo e con funzione ambivalente (campagna/difesa delle piazze), per il semplice motivo
che, a differenza degli assedianti, gli assediati non avevano l’onere di dover abbattere grosse
e forti difese bensì solo quelle piccole e leggere (cavalieri, bastioni, bastite, forti, gabbionate,
pavesate, vigne, mantelletti) di cui un qualsiasi esercito ossidionale si dotava
immediatamente per proteggere i suoi soldati e i suoi guastatori e marraioli lavoranti a
trincee, approcci e bocche di mina; nell’alto Medioevo gli arcieri bizantini avevano usato
difendersi dai tiri degli assediati saettando le loro frecce da dietro cortine di pelli di capra che
chiamavano efestridi (gr. ἐφεστρίδες, ‘soprabiti’). I pavesi posti a protezione dei lavori
d’approccio notturni si coloravano di nero per esser il meno visibili possibile, mentre su quelli
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da usarsi di giorno o a protezione delle coperte di navi si dipingevano in genere a olio le armi
del loro principe; per esempio quelli del duca di borgogna erano decorati bianchi e blu con la
croce di S. Andrea rossa e dei fusils d‘oro e d’altri colori. I pavesi saranno poi sostituiti dai
gabbioni o cestoni, cioè appunto da alti cestoni di pali intessuti di vinchi e riempiti di terra, e
un primo esempio si trova in un documento ferrarese del 18 febbraio 1482:

… Quilli gabiuni che hano facto et che tuta via fano hano de sopto le rodelle picholle per
cazzarsele inanti et che serano per acostarsi et per piantar bombarde… (A. Angelucci. Cit.
P.264.)

Questi erano dunque gabbioni ruotati da spostare così più facilmente in avanti man mano che
si avanzava verso le postazioni nemiche. Più piccole del suddetto Falckonet, erano dunque

la Bockbüchß(lin) [‘canna con cavalletto’; nel secolo successivo Bockstücklin] e la


Scharpffentin(lin) (‘canna penetrante’); nel secolo successivo Scharpffentindel), nome
questo, come abbiamo già detto, fantasiosamente interpretato come serpentine in Francia e
poi, di conseguenza, anche in Italia e invece certo dovuto all’esser un tipo di bocche da fuoco
molto più sottile delle classiche bombarde; si trattava di una piccola artiglieria da circa mezza
libbra di piombo con una gittata di 500/600 passi, lunga circa 6/7 piedi, pesante un paio di
quintali di libbra. Ce n’era poi un’altra più piccola dal nome di Doppelhacken (‘doppia canna
da rampo, doppio archibugione’), cosiddetta perché dal calibro pressoché doppio della
seguente; si trattava di una canna lunga quattro piedi o poco più, dal calibro che andava da
un ottavo a un quarto di libbra [ein Vierling, ‘un quarto’, o anche acht Lot(e),‘otto mezz’once’],
considerando che la libbra europea si divideva quasi dappertutto in 16 oncie e non in 12
come l’italiana, pesante non tanto che un uomo non potesse trasportarla sulle sue spalle,
tant’è vero che gli uomini addetti al suo uso non si chiamavano Büchsenmeister bensì
Doppelte Hackenschützen; si usava appoggiata su un rampo o forcina (Hacken appunto;
oggi ‘Haken’), magari in corrispondenza di una feritoia, ma era così adoperabile anche nelle
battaglie campali come i tipi precedenti; un’altra più piccola detta Hackenbüchße (‘canna da
rampo, archibugione’), dal calibro di circa acht Kuglen ein Pfunde (‘otto pallottole la libbra’),
cioè di circa un ottavo di libbra appunto da 16 oncie, e adoperabile come le precedenti. Infatti,
anche se arma da rampo, era spesso provvista anche di un cavalletto, come si legge
chiaramente nell’elenco del materiale necessario alla formazione di un treno d’artiglieria fatto
dal Fronsperger e includente appunto alcuni Hacken Büchssen corredati di Böcke
(‘cavalletti’):

290
… Item etliche Hacken Büchßen mit Bocken/Ladstecken uñ Pulfferstecken.

Olav Månsson (Olaus Magnus), nella sua Historia de gentibus septentrionalibus etc.
chiamava questi cavalletti tripodes (LT. IX, cap. XIII) e non faceva invece cenno a forcine, in
quanto evidentemente riferendosi a un tempo anteriore all’introduzione di quelle.
C’era, ancora più piccola, la Hacken (‘canna da rampo; archibugio), da 12 proiettili la libbra di
piombo, dette queste ‘semplici’ (einfache) in contrapposizione appunto alle suddette
Doppelha(a)cken, insomma quasi delle armi da porto personale paragonabili per calibro al
moschetto di Biscaglia portatile spagnolo che più tardi, nel 1567, introdurrà il duca de Alba e
con le quali si poteva sparare appunto una palla da un’oncia [zwey Lot(e)] mirando dritto sino
a 300 passi; dovrà passare infatti ancora dovrà passare infatti ancora qualche decennio
perché si incominci a usarla come arma individuale da fante (Mutzquet), cioè portata a spalla

da un robusto bersagliere (Mutzquetir) e usata appoggiandola a una forcina astata piantata

in terra, come poi meglio vedremo quando tratteremo della fanteria; infine la (t)rohr o
Handgeschütz o halber Hacken (‘mezza canna da rampo; archibugio leggero), dal calibro di
20 palle la libbra da 16 once, la quale rientrava però nella categoria delle Zielbüchßen o
Birschbüchßen ed era infatti sia archibugio da fanteria sia arma da caccia.
Nella fanteria la halber Hacken, detta per brevità detta semplicemente Hacken, sarà usata
come archibugio ordinario; in un’incisione in rame di Virgil Solis, fatta intorno al 1545,
vediamo infatti rappresentato un Hackenschűtz, cioè un semplice fante tedesco armato di
archibugio. Nella seconda metà del secolo, sull’esempio spagnolo, si comincerà a usare
anche la suddetta Hacken da postazione come arma portatile della fanteria e, per
differenziarla dalla prima, sarà nominalmente elevata a Doppelhacken; infatti verso la fine del
secolo Lazarus von Schwendi prescriverà che dei 400 fanti complessivi di ogni compagnia la
metà dovessero essere Hackenschűtz, 10 dei quali però armati non di Hacken bensì appunto
di Doppelhacken, cioè in pratica vorrà 190 archibugieri e 10 moschettieri. Questa
ridenominazione della serie delle Hacken avvenuta in seguito al loro passaggio all’uso di
fanteria non può essere negata; non è possibile infatti che, a un certo momento storico, le
suddette Doppelhacken e Hacken da postazione siano state considerate adoperabili anche
dalla fanteria sic et simpliciter e ciò per l’ovvio motivo che avevano calibri troppo grossi per
esser adoperate come armi da porto individuale; ma dell’armamento delle fanterie europee
tratteremo in altra nostra opera.

291
C’erano infine la Kamerbüchße (bombardella da braga, ossia a retrocarica), dotata di più
mascoli e lunga solo due piedi o due piedi e mezzo, e l ’Orgel o Orgelgeschütz (‘organo’),
cioè una piccola bocca multi-canna come gli organi da chiesa, tutte tipologie però queste
ultime sulle quali, non essendo tipiche di quella tedesca, ci dilungheremo più avanti trattando
dell’artiglieria in generale.
Dobbiamo a questo punto chiarire che la presenza di così tanta piccola e piccolissima
artiglieria in quella tedesca era dovuta a due fattori; cioè all’aver quella della Riforma – tempo
a cui si riferisce il trattato del Fronsperger – ancora non poche caratteristiche di quella
medievale, ma soprattutto perché i grossi battaglioni di fanteria tedesca mercenaria la
portavano cautelativamente con sé come artiglieria reggimentale, non essendo infatti mai
inclusa nei loro contratti d’ingaggio l’artiglieria campale maggiore, la cui fornitura era sempre
a carico dei committenti stranieri, così come a maggior ragione lo era quella d‘assedio, salvo
poi questi ultimi a servirsi tradizionalmente, come già accennato, di quegli alabardieri e
talvolta picchieri tedeschi (td. Spießer, Spießbürger, poi Pickenirer e Pijckenier) anche
per far la guardia proprio all’artiglieria, perché un incarico considerato da quei mercenari di
grandissimo prestigio e soddisfazione, mentre gli spagnoli e i francesi lo giudicavano
inadeguato al proprio valore e gli italiani segregante e pericoloso.
La suddetta Hand(t)rohr o halber Hacken, cioè l’archibugio da porto individuale, fu poi detta
in tedesco Hand(t)büchß(e) o Hand(t)geschütz, chiamata però comunemente e
semplicemente Büchß e infine Büchße, finché nella seconda metà del Cinquecento non si
dovette necessariamente differenziare in archibugio e moschetto. C’è però, per completare
questa elencazione, da ricordare che esistevano anche armi da diporto e da caccia più
leggere e precise di quelle da guerra, cioè le Zielro(h)ren (‘canne da mira’) o Birßbűchßen
(‘canne da caccia’) da palle da mezza oncia, con le quali un cacciatore poteva mirare dritto
sino a 400 passi.
La polvere pirica usata allora in Germania, la quale non si diceva, come oggi, Schiesspulver
bensì Zundtpulffer, era di tre tipi e cioè c’era quella per la grossa artiglieria Schlangen
incluse, quella per la piccola, detta Hackenpulffer, e infine quella per le armi da porto
personale, la Handrohrpulffer.
Lo Junghans, nel suo trattato pubblicato nel 1594, fa il seguente elenco di canne d’artiglieria
generalmente in uso al suo tempo; per tutte l’autore prescrive cariche di polvere dal peso pari
a quello di metà della palla. Aggiungeremo ai nomi ora anche il genere maschile o femminile
a quel tempo loro attribuito:

292
Scharffetinlein (m.), canna pesante 3 cantara da cento libbre, lunga sette werck Schuh
(‘piedi
geometrici’, più tardi nel plt. Schuhe), spessa tre palle alla culatta e due alla bocca, dal
calibro
di una libbra di ferro e non più da mezza, come quella che abbiamo visto nella prima metà del
secolo, con una carica di ‘buona polvere da colubrina’. Da trainarsi con 2 cavalli.
Falckenetlein (m. Poi Falckonetlein), falconetto 5 centinara ma dalla stessa lunghezza,
spessore e calibro della precedente. Traino di 3 cavalli.
Feldschlange (f.), colubrinetta da campagna da 3 libbre di calibro di ferro, pesante 8
cantara, lunga 9 piedi geometrici e spessa quanto le precedenti. 4 cavalli.
Falckauna (f.), dal calibro di 9 libbre di ferro, lunga 12 piedi geometrici, pesante 60
cantara e spessa come le precedenti. 6 cavalli.
Sengerin (f.), lunga 10 piedi geometrici, dal calibro di 22 libbre di ferro, pesante 30
cantara e spessa come sopra. 8 cavalli.
Nachtigal (f.), lunga e pesante quanto la precedente, spessa alla culatta 3 palle e mezza,
dal calibro di 25 libbre di ferro. 10 cavalli.
Rohtschlange (f.), lunga 10 piedi geometrici e pesante 36 cantara, spessa tre palle alla
culatta e due alla bocca, dal calibro di 28 libbre di ferro. 12 cavalli.
Halbe Kartauna (f.), (punto di stampa probabilmente erronea; le misure reali presumibili
sono:) calibro 40/50 libbre di ferro, peso 40/50 cantara, lunghezza 10/11 piedi geometrici,
spessore (forse in diametro totale alla culatta) 18 pollici. 14 cavalli.
Kartauna (f.), pesante 80 cantara, dal calibro di 80 libbre di ferro, lunga 14 piedi
geometrici, spessa alla culatta 20 pollici e alla bocca 14. 16 cavalli.
Scharpffe Metz (in seguito Metze; f.), pesante 100 cantara, dal calibro di 100 libbre di ferro,
lunga 16 piedi geometrici, spessa alla culatta 24 pollici e alla bocca 18. 18 cavalli.
Fewerbüchße (f. ‘petriero’), pesante 12 cantara, lunga sei piedi geometrici, spessa 18 pollici
alla culatta e 14 alla bocca, dal calibro di mezzo cantaro di palla di pietra o di un quarto di
cantaro di palla di fuoco artificiale (Fewerkugel). 6 cavalli.
Fewermörsener (‘mortaio da bomba’), dal peso di 12 cantara, lungo 4 piedi geometrici,
dallo stesso calibro della precedente. 6 cavalli.

Consideriamo infine, per quanto concerne l’artiglieria tedesca, l’opera dello zurighese
Leonhard Zubler, pubblicata nel 1608, nella quale sono elencate le seguenti bocche da
fuoco:

Doplet (‘dopplet’) Carthauna o Scharffmetz, dalla canna lunga dalle 15 alle 20 palle e dal
calibro di circa 1 centesimo del suo peso e cioè dalle 90 alle 120 libbre.
Carthauna (poi Carthaune) o Rohrbüchße, dalla stessa lunghezza della precedente e dal
calibro di circa 1 centesimo del suo peso, quindi dalle 50 alle 80 libbre.
Halbe Carthauna o Singerin, dalla canna lunga dalle 18 alle 22 palle e dal calibro, anche
in questo caso, equivalente a circa 1 centesimo del peso e cioè dalle 30 alle 50
libbre.
Quartan Schlang (poi Viertel Carthaune), bocca così chiamata perché, equivalente al

293
quarto cannone italiano, era utilizzabile quindi anche in luogo della colubrina per la sua
maggior gittata; era infatti lunga dalle 15 fino alle 26 palle di calibro, pesava dalle 2mila alle
3mila libbre e quindi il suo calibro andava dalle 20 alle 30 libbre.
Rohrschlang, bocca del genere delle doppie colubrine o basilischi, lunga dalle 26 alle 39
palle, pesante dalle 3.600 alle 6mila libbre, dalle 30 alle 50 libbre di calibro.
Feldschlang, colubrina da campagna, lunga dalle 22 alle 36 palle, pesante dalle 2mila alle
3mila libbre, dalle 12 alle 24 libbre di calibro.
Falkanet (poi Falkonet) o Quartier Schlang (‘colubrina di quartiero o di campo’), piccola
bocca lunga dalle 29 alle 38 palle, pesante dalle 400 alle 800 libbre, dalle 3 alle 6
libbre di calibro, ma in questo caso non di ferro bensì di piombo.

Da aggiungere le Steinbüchßen o Feürbüchßen di cui abbiamo già detto, talune di bronzo


(Metall) altre di ferro, sparanti palle di pietra, ma più spesso mitraglia (Geschrot) e palle di

fuoco artificiato; inoltre mortari (Mörser o Böler) dal peso di circa 5mila libbre e dal calibro
di circa 100 libbre di pietra, mezzi mortari (2.500 e 50 libbre), quarti di mortaro (1.200 e 25
libbre), piccoli mortaletti (100 e da 6 a 8 libbre di pietra).
Ritornando però ora all’artiglieria francese della fine del Rinascimento, dobbiamo dire che
essa fu molto potenziata dal gran maestro dell’artiglieria Jean I d'Estrées (1486-1571), il
quale soprattutto ne migliorò la fonditura e ne rinforzò gli spessori, allontanandola
definitivamente da ciò che era stata l’artiglieria medievale, come racconta il de Bourdeilles:

… Fu lui per primo a darci le belle fusioni d’artiglieria che oggi abbiamo e i cannoni che non
temono di tirare cento colpi l’uno dopo l’altro (per modo di dire) senza spezzarsi né crepare
né scassarsi… Prima di detta fondizione i nostri cannoni non erano per nulla così buoni,
bensì cento volte più fragili e soggetti a dover essere rinfrescati con aceto e altro, per cui si
faceva maggior fatica e si vanificavano le batterie. (Cit.)

Il de Vigenère ricordava che questa razionalizzazione dell’artiglieria francese era cominciata


durante il regno di Enrico II (1457-1559), quando cioè si prese a dare più importanza alle
canne del secondo genere che a quelle del primo e si adotto un cannone rinforzato di peso
intermedio (sulle 5mila libbre) tra quelli dell’allora cannone comune (circa 3mila libbre), troppo
sottile e debole, e quello dell’allora doppio cannone (circa 8mila libbre), troppo spesso e
pesante, inoltre ambedue con affusti mal proporzionati.
Alla fine del Seicento il Surirey de Saint Remy elencava una serie di vecchie bocche da fuoco
rinascimentali francesi, naturalmente ormai molto obsolete e disusate al suo tempo, ma che
egli riteneva un esperto ufficiale d’artiglieria dovesse saper riconoscere perché ogni tanto
ancora qualcuna ai suoi tempi se ne poteva ritrovare nell’armeria di qualche fortezza, come
accadeva infatti per esempio in quella di Brest; è un elenco che comunque qui non
riproduciamo perché, contenendo una nomenclatura talvolta imprecisa e, a nostro avviso,
talvolta addirittura fantasiosa, rischierebbe di confondere le idee del lettore e quindi di
294
vanificare i nostri sforzi di rigorosità espositiva. Per tornare ora dunque ai preziosissimi
documenti citati dal Finot, notiamo la quietanza di un pagamento fatto nel biennio 1553-1554
al mastro fonditore Remy de Halut, residente a Malines, per aver gittato e consegnato la
seguente artiglieria:

12 canons de fonte (‘cannoni di bronzo’).


10 longues doubles coulevrines.
10 demi-serpentines.
12 fauconneaux.

Segue, nello stesso biennio, una ricevuta rilasciata da certo Vryese Nys, certo un conduttore
di carri, per 100 arquebuses courtes, 100 moyennes et 50 longues inviati a Lussemburgo e
un’altra per l’invio al castello di Namur di 100 arquebuses à croc e 20 barili di polvere grossa.
Il perdurare dunque, ancora a quest’epoca, del nome medievaleggiante di ‘mezze
serpentine’, ormai però sempre più spesso sostituito da quello ‘moderno’ di sagri,
corrispondente a bocche da fuoco per palle di ferro di solito da 5 libbre, la persistente
presenza anche di quello piuttosto rozzo di ‘lunghe doppie colubrine’, tipo di canne questo
talvolta di calibro da sole 12 libbre di ferro e talvolta invece includente anche più grossi
basilischi di bronzo (certaine longue double coulevrine de fonte nommée basilisques), il
persistente gran numero degli archibugi da posta - (het) - e la loro ancora evidentemente
importante suddivisione in ‘corti’, ‘medi’ e ‘lunghi’, tutto ciò testimonia che anche nella
Fiandra spagnola il tempo storico della Riforma rappresentò per l’artiglieria europea un
periodo di transizione - infatti alquanto confuso - tra quella medievale e quella, molto più
razionale e moderna, che vedremo nella tarda Controrifoma. C’è poi da notare la consegna a
un conduttore di 450 arquebuses longues, armi probabilmente non da posta bensì da porto
personale (fr. arquebuses à main) per la fanteria come del resto quelle incluse nella seguente
altra fornitura dello stesso 1555:

… idem, 3.000 morillons, 500 longues arquebuses avec leurs flasques et pulvérines et 1.500
paires de tassettes pour le régiment du colonel Georges van Holle. (J. Finot. Cit.)

Il che fa pensare che in precedenza la fanteria usasse archibugi più corti, ora quindi allungati
e evidentemente potenziati; d’altra parte anche gli archibugi à croc, ossia ‘da forcina, da
cavalletto’, si fornivano in numero rilevante e infatti nello stesso predetto anno seguente
vediamo consegnato un numero di 200 di questi, poi altri 300, non meglio identificati,
destinati al nuovo forte di Mariembourge, nel biennio successivo 1556-1557 ancora 200 per
la difesa della città d’Avesnes e infine, nel 1561, una richiesta di solo una dozzina d’essi
(hacquebouttes à crocq) con qualche barile di polvere fina al castello di Trois Fontaines ad

295
Auderghem (Bruxelles). In altre forniture per la fanteria del 1557 gli archibugi leggeri (à main)
sono comunque più chiaramente specificati:

… (mandement) de delivrer… 1.000 arcquebuses à main pour en armer les piétons du


régiment du colonel Nicolas van Astad et autres…
… pour les régiments et autres enseignes allemands, namourois et autres… arquebuses à
main…
… 250 tonneaux de poudre fine granée dont 50 de moindre grain pour les arcquebusiers à
main…
… 400 arquebuses à main de service selon que le souldart (‘soldat’) en use maintenant…
… 600 arquebuses à main … pour les distribuer aux gens du colonel Conrad de
Pennelberg… (ib.)

Notiamo inoltre canons e demi-canons, cioè quello che sarà presto definito ‘il secondo
genere dell’artiglieria’, i cui proiettili di ferro appaiono già a quest’epoca in Fiandra (ma anche
in Francia) standardizzati:

… 200 boulets de fer de 24 livres, 200 boulets de 12 livres, 600 boulets de 2 livres pour le
château de Zeebourg en Zélandee (ib. 1563-1564). (Ib.)

Lo stesso si può dire anche delle palle di pietra per cannoni petrieri e mortari, tagliate in due
sole anche se alquanto generiche misure e cioè pierres de gros traits e pierres de menus
traits. Per avere infine una parziale idea della complessità d’un treno d’artiglieria nella
Fiandra ecco una registrazione del 22 luglio 1557:

Ordini del re Filippo II e dell’arciduchessa Margherita di Parma, governatrice dei Paesi-Bassi,


a Jean du Bois, incaricato della guardia dell’artiglieria e delle munizioni a Malines: di
consegnare al conduttore incaricato dal luogotenente dell’artiglieria Jean de Lyere «tutte le
artiglierie, finimenti, affusti e carri-matti per ricambi, piombo, polveri, palle, miccio,
cordami, argani, martinetti, fucine e altre parti di munizioni necessarie a servire e
approvvigionare lo stato del gran treno (dell’artiglieria) secondo quanto il detto
luogotenente chiederà ecc. » (Ib.)

Prima di passare al tempo storico della Controriforma, chiudiamo il Rinascimento con un


documento napoletano pubblicato dal Capasso e che, pur essendo molto più tardo, cioè del 3
aprile 1617, riguarda artiglierie della prima metà del Cinquecento; esso infatti ha per per
oggetto un prestito di 17 bocche da fuoco fatto in due riprese (16+1) dalla città di Napoli al
suo viceré Pedro Giron duca di Ossuna (1616-1620) perché ne armasse vascelli da guerra
spagnoli destinati a un’impresa di guerra contro l’allora nemica Venezia; si trattava in effetti di
vecchie artiglierie di bronzo ancora adoperabili, anche se ormai non più del tutto adeguate ai
tempi in corso. Solo 10 di esse saranno poi restituite alla città:

296
2 cannoni ferrieri da 35 libbre di calibro, uno lungo bocche 21, pesante cantara 27 da 100
rotoli e rotola 10 (libbre veneziane 4.065), col millesimo 1565 segnato sui treglioni
(orecchioni) e l’altro lungo bocche 20, privo dell’indicazione sia del peso sia del millesimo. Il
primo, decorato con gli stemmi della casa reale di Spagna e della città di Napoli e inoltre con
motivi di fogliaggi alla culatta, portava la scritta opus Cristofari Jordani de Neapoli; il secondo,
con ponte di ferro (sic), decorato con lo stemma imperiale della città di Toledo e con motivi di
frasche alla culatta, ai treglioni e alla gioia.
1 colombrina da 22, lunga bocche 33½ decorata con lo stemma imperiale della città di Toledo,
con un cartoccio (‘cartiglio, targa’) mostrante il millesimo 1537.
2 cannoni petrieri da 22 decorati con lo stemma del duca di Sassonia, con il focone coperto,
lunghi uno bocche 18 l’altro 15, uno con maniche (‘manici’) a forma di teste di drago, uno con
millesimo 1506.
3 sacri di calibro 6 a 8, lunghi due 22 bocche e uno 29, de fondaria genoese. Uno decorato
con scudo liscio senza arme, uno con una rama con una sbarra traversa con schiacchi in
mezzo e con tre lettere, cioè due F e una C, e uno con millesimo 1458.
Due con ponte di ferro (‘supporto a elevazione regolabile’) pesante uno cantara 7 e rotola 83
e l’altro cantara 16, rotola 96 (misure di Genova).
2 mezzi sacri a superfice octagolatera, di calibro da 5 a 6, lunghi uno 34 bocche e uno 35,
decorati con l’arme imperiale e con quella della città di Toledo.
7 falconetti (di cui uno non specificato) da una a due libbre, lunghi da 32 a 36 bocche, 5 dei
quali a superficie octagolatera e 4 decorati con l’arme della città di Napoli; uno con scudo
liscio, ossia con interno non disegnato, uno con l’arme di casa Spinelli e cioè con tre rote da
mezzo (in realtà tre stelle ottagonali), con le lettere S e A vicino la cuoja, cioè presso la
sommità dello scudo; uno con focone coperto. (B. Capasso. Cit.)

A proposito dei suddetti millesimi, ci sembra utile dare al lettore un breve prospetto di
caratteri numerici latini insoliti perché nel Medioevo ancora adoperati:

IϽ = 500
CIϽ = 1.000
IϽϽ = 5.000
CCIϽϽ = 10.000
IϽϽϽ = 50.000
CCCIϽϽϽ = 100.000.

Proseguendo ora il nostro viaggio ‘pirobolico’, siamo ora arrivati alla seconda metà del
Cinquecento, cioè a un’artiglieria ormai divenuta nuova scienza e quindi descrivibile in una
sua pratica consolidata. Cominceremo da un treno d’artiglieria degli anni sessanta del secolo,
come riportato dal Ruscelli; si tratta di un treno teorico ottimale, cioè completo di tutto ciò che
d’artiglieria si sarebbe potuto desiderare in un esercito che si mettesse in campagna e che
prevedesse anche di porre assedi; ecco, tratti del lungo elenco di bocche da fuoco,
personale, animali da tiro, macchine, attrezzi e materiali vari, gli elementi più significativi:

Artiglierie da breccia.
12 cannoni da 50 per ruinar muraglie con 3 bombardieri e 15 aiutanti per ciascuno.
6 cannoni da 20 per cimar muraglie, cioè per privarle delle difese superiori (merlature,
cannoniere, artiglierie, difensori ecc.), con 2 bombardieri e 10 aiutanti per ciascuno.
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Artiglierie da campo.
12 colubrine da 14 con 2 bombardieri e 10 aiutanti per ciascuna.
10 sagri da 12 con 1 bombardiero e 5 aiutanti per ciascuno.

Altro personale, carri e animali da tiro.


320 cavalli da tiro compresi quelli di rispetto.
1.050 guastatori.
10 marangoni.
2 ferrari.
4 lavoranti per detti ferrari.
100 uomini per il governo dei cavalli.
120 paia di buoi per tirare i cannoni grossi.
40 paia di buoi di rispetto.
120 uomini per il governo dei buoi.
44 carrettoni per usi vari.
46 carretti per munizioni.
54 carrettieri pratichi.
2 marescalchi per ferarre e curare i cavalli.

Macchine.
3 argani con loro aspe (‘arganelli’).
2 varne (capre) per cavalcare e discavalcar l’artiglieria.
2 scalette con suoi parandoli over’aspi. (Girolamo Ruscelli, Precetti della militia moderna, tanto
per mare quanto per terra, ne’quali si contiene tutta l’arte del bombardiero etc. Venezia, 1568.)

Le suddette varne e scalette erano comuni e semplici macchine per il sollevare delle pesanti
bocche da fuoco; più avanti ne diremo con maggior dettaglio; ma comunque le caprie da
sollevamento esistevano anche prima dell’invenzione dell’artiglieria da polvere e infatti in un
ordine del re di Napoli Carlo I d’Angiò scritto nel 1280 così si legge:

… Gli ordina in fine di presentare ad Ugo de Leva capitano della fortezza di Lucera il regio
ingegniero Giovanni de Tullo, al quale farà consegnare quattro macchine da guerra dette
‘caprie’, che tra le altre diverse macchine militari si conservano in quella fortezza, cum fundis
cordis e tutto il respettivo corredo, cinque caviglie di ferro per le dette macchine e tutta la
munizione rispettiva ed anche tutto il ferro avanzato alla costruzione della cappella di quella
fortezza di Lucera, e la forgia (‘forceam’); ed il tutto faccia trasportare a Manfredonia sopra carri
e per via di mare poi menarsi a Brindisi, dove sarà il giorno 6 o al più tardi il giorno 7 di luglio
per partire alla volta di Belgrado o della Vallona il giorno otto immancabilmente. Di questa
spedizione fa parte ancora il predetto regio ingegniero Giovanni de Tullo ed il maestro fabbro
Bartolommeo di Foggia con due suoi discepoli… (Archivio Storico Italiano etc. Quarta serie.
Tomo III – Anno 1879. P. 22. Firenze, 1879.)

Immaginiamo ora di trovarci in un parco (lo stesso che varco, ‘ingresso a luogo recintato’,
quindi per sin. ‘recinto’) di artiglieria della fine del predetto secolo e di voler tentare di
classificare a occhio le bocche da fuoco che vi vedremmo; l’impresa ci risulterebbe subito non
facile, perché esse ci sembrerebbero quasi tutte molto simili, eccezion fatta per le diverse

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dimensioni, le diverse decorazioni in bassorilievo e le diverse iscrizioni sulle loro culatte; solo
alcune d’esse, corte e panciute, si presenterebbero subito come evidenti mortari (‘mortai’).
Come fare allora? Per prima cosa andremo vedere le palle d’ogni bocca, perché ognuno avrà
accanto le sue, serrate a terra in un quadrato e ammonticchiate in forma di piramide; dalle 15
libbre in su di calibro l’artiglieria si diceva convenzionalmente reale. Ci accorgeremo inoltre che
per alcune bocche s’usavano palle di ferro e per altre di pietra; chiameremo quindi le prime
bocche ferriere e le seconde petriere. Passeremo poi a sub-classificare le bocche ferriere e,
osservandole, costateremo che alcune d’esse sono di forma più allungata, altre meno;
chiameremo queste bocche del secondo genere o cannoni e le prime bocche del primo genere
o colubrine; di conseguenza qualificheremo i predetti petrieri come bocche del terzo genere o
cannoni petrieri. Fatte queste basilari distinzioni, le quali non sono nostre ma realmente
dell’epoca, proseguiamo con la descrizione dei vari suddetti generi indicandone le
caratteristiche differenzianti, secondo i canoni che allora si seguivano nelle più reputate
fonderie d’Europa, quale era per esempio quella de L’Aia in Olanda, e premettiamo che le
bocche da fuoco erano a quel tempo quasi tutte di metallo, ossia di bronzo, e alcune di ferro; si
definiva infatti allora metallo qualsiasi lega metallica, soprattutto il bronzo, ma non anche il
semplice ferro o il semplice rame etc., come invece si fa oggi. Premettiamo ancora che, per
esprimere le dimensioni d’una qualsiasi canna, poiché allora quasi ogni stato o regno aveva le
sue proprie unità di misura, a evitare confusioni nella maggior parte dell’Europa s’usava
prendere le misure d’ogni canna in diametri della sua stessa bocca, intendendosi per diametro
quello della sola apertura e quindi escludendone il bordo di metallo. Ogni canna aveva quindi la
sua propria unità di misura in base alla quale controllarne o, fondendone di nuove, ricavarne le
necessarie proporzioni sia per quanto riguarda la canna stessa sia l’affusto di legno sia le ruote
sia gli attrezzi di servizio:

Tutte le parti e membra dell’artiglieria si devono formar per la ragion della bocca di essa, per
osservar una regola generale da saper conoscere se loro saranno fatte con ragione; percioché
per ragion della bocca si formano le grossezze de i pezzi e le lor lunghezze, per ragion della
bocca si devono fare le casse e ruote, gli stivadori e le lanate e tutte le altre cose. (LT. Collado.
Cit. P. 352.)

Unico contrario a questa pur consolidata prassi restava Cristóval Lechuga (1556-1622),
tenente generale dell’artiglieria dell’esercito spagnolo di Fiandra, il quale voleva che l’unità di
misura di ogni singola canna d’artiglieria fosse non la sua bocca bensì la sua palla; ciò perché,
poiché l’anima della canna s’otteneva, come sappiamo, trapanandola, succedeva molto spesso
che il fonditore, per livellare ossia normare o regolare detta anima e smussarne i difetti di
trapanazione, finisse per farla facilmente più larga del necessario; di conseguenza, calcolandoli

299
con quel diametro, gli spessori del bronzo risultavano eccessivi e le canne più pesanti del
dovuto, a volte troppo pesanti, tanto da provocare talvolta il fuggir via degli addetti al loro
maneggio, un inconveniente che lo stesso Lechuga ricordava essersi una volta verificato in
Lussemburgo nel 1578, quando si fu costretti a rinunziare ad alcune di cosiffatte artiglierie già
portate in campagna. Egli quindi avrebbe voluto che le misure fossero prese in diametri di palla
e non di bocca (Cristóval Lechuga, (1556-1622), Discurso que trata de la artillería y de todo lo
necesario á ella, con un tratado de fortificación y otros advertimientos. Milano, 1611).

300
Capitolo VI.
Unità di misura lineari e di peso.

Misure fondamentali europee, nate nell’antichità dalla larghezza del grano d’orzo presa come
unità di misura e rapportandola alle misure del corpo umano e di quello degli animali, erano il
palmo, misura indicante lo spazio che intercorreva tra la punta del pollice e quella del mignolo
di una mano aperta, e il passo (olt. treede, schreede), nome originato dalla distanza tra la
zampa anteriore d’un quadrupede e quella corrispondente posteriore durante la marcia, poi
equiparata alla distanza coperta dalle braccia aperte di un uomo, mani incluse. Oltre al passo
comune o passo naturale andante, ossia di normale andatura, corrispondente all’incirca al
nostro metro odierno e usato per misurare il terreno spicciativamente, appunto a passi,
esisteva, come già sappiamo, il passo geometrico o passo di misura, ossia da usarsi per
misurare le distanze precisamente con delle corde, il quale differiva dal primo per esser
formato infatti non da tre, bensì da cinque piedi di misura, detti questi anche piedi militari
perché misura molto usata nello schierare gli eserciti, ed era lungo quindi circa 1 metro e
mezzo; perché il lettore possa comunque rendersi conto della gittata reale delle artiglierie del
tempo, riteniamo utile a questo punto comporre di nuovo uno schema delle unità di misura
lineare più note in Italia nei secoli in esame, misure che abbiamo tratto dal Cataneo, dal
Collado, da Francesco Tensini (1581-1630), dal Sardi, dal Summonte, ma soprattutto dal
Tartaglia, da Bartolomeo Romano, il quale ci ha lasciato una figura delle misure di lunghezza
minori romane, dall’aquilano Geronimo Pico Fonticolano, dal quale abbiamo invece quella del
predetto piede militare, da Francesco Patrizi (1529-1597), dal ferrarese Bonaventura
Pistofilo, dal fiorentino Buonaiuto Lorini (c. 1540–c. 1611), dal sanmarinese Giovan Battista
Belluzzi (1506-1554), dal vicentino Alessandro Capo Bianco e dal bresciano Tomaso Moretti
(?-1675); i quattro ultimi ci hanno lasciato un modello di piede veneziano tracciato nei loro
trattati e, per quanto riguarda il Lorini, anche d’un mezzo braccio fiorentino (); la misura della
pertica milanese che segue è tratta invece da un modello del Collado.
Gli antichi romani imposero il loro sistema di misure in tutta qualle vasta parte del mondo da
loro conquistata, sistema che poi, dopo la caduta di quell’impero, assumerà originali e
particolari differenziazioni presso ogni principale nazione, soprattutto perché differenti
larghezze presentava il grano d’orzo nelle varie parti dl mondo. Noi abbiamo basato qui le
loro misure di lunghezza non da quanto riferito da vari autori moderni, ma su due modelli di
ferro conservati una volta (e forse ancora oggi) nel Museo delle Antichità di Vichy (Revue
archéologique); il primo è un modello di piede, diviso da una parte in dita e palmi e dall’altro

301
in once, e il secondo è uno spithama (gra. σπῐθᾰμή; ‘spanna, palmo’), cioè una barra di ¾ di
piede, usata evidentemente per comodità:

Piede antico romano (mm. 296), divisibile in 4 palmi o in 16 dita o in 12 once o pollici.
Spanna antica romana (mm. 222), divisibile in 3 palmi o 12 dita, ma partito materialmente
in metà e in quarti.
Dito antico romano, divisibile in 4 grana d’orzo
Palmo romano minore, divisibile in 4 dita o in 3 oncie o pollici. Era quello comunemente
considerato in tutte le misurazioni.
Palmo romano maggiore, a mano distesa, distanza tra punta del mignolo e quella del pollice.
Grano romano, la misura di un grano d’orzo misurato per la larghezza.
Cubito o gomito, pari a un piede e mezzo.
Attimo, divisibile in 12 minuti è pari alla metà della grossezza di un grano di panico o miglio.
Punto, divisibile in 12 attimi.
Oncia (gr. οὐγϰία), divisibile in 12 punti.
Grado (da cui l’in. Yard), pari a due piedi.
Gresso, parib a due piedi e mezzo.
Passo, divisibile in 5 piedi, poi divenuto il passo doppio o geometrico, cioè la distanza tra le
due punte dei piedi a passo esteso.
Canna romana antica = pari a 3 passi romani comuni o a 10 palmi.
Orca (‘giara’), divisibile in 6 piedi.
Pertica o decempeda, divisibile in 10 piedi.

Antiche misure di peso greche.


Tálanton, peso divisibile in 60 mnái; la mnà in 100 dracmái, la dracmè in 6 obolói, l’obolós in 6
calcói, il calcós in 7 leptà.
Tritálanton, pari a tre tálanta.

Antiche misure di lunghezza greche.


Stadio greco, divisibile in 600 piedi da 16 dita oppure in 125 passi (m. 140), ma secondo
Bonaventura Pistofilo in 150 passi. Si divideva inoltre in sei pletri oppure in 408 cubiti.
Mil(l)iario o miglio italiano, divisibile in 4.500 piedi oppure 1.000 passi, da cui il nome, oppure
in 7½ dei predetti stadi.
Pletro, divisibile in 2 àrure oppure in 100 piedi.
Parasanga, divisibile in 30 stadi.
Fune (σχοῖνος, ‘fune di giunchi’), antica misura agraria.
Leuca (‘lega’), pari a 1 miliario e mezzo (m. 1.680), poi rimasta unità di misura in Francia e
Spagna.

La leuca corrispondeva alla larghezza di terreno coperta da una legione romana, se si


fossero messi di fianco tutti i suoi 6.666 soldati, ed era pari a 6.666 varas spagnole e ⅔, in
quanto la vara (3 piedi), misura pertanto molto antica, era appunto la larghezza di terreno
necessaria a ogni soldato. Gli antichi greci dovevano poi avere a che fare anche con la
parasanga persiana, un’unità di distanza pari a 30 dei loro stadi.
Nei primi secoli dell’Impero Romano d’Oriente il talanto greco fu reso divisibile in 24 mnái e
più tardi, in quelli della fine del primo millennio, chiamato ora in Sicilia Atticòn, fu
ulteriormente ridotto a sole 12 mnái. Per quanto riguarda la basilare misura del grano d’orzo,
la dimensione che si prendeva in considerazione era la sua larghezza, misura comunque
302
oggi non facilmente determinabile perché questa graminacea, a partire da un secolo fa, ha
certamente subito mutazioni dovute ai progressi delle tecniche di coltivazione; la larghezza
odierna è di mm. 3-4 all’incirca. I chicchi, per esser presi in considerazione come unità di
misura, non dovevano comunque essere né troppo secchi né troppo freschi.

Misure veneziane.
Grano comune o grano dell’Arsenale = cm. 0,5.
Dito comune o dito dell’Arsenale = 4 grana (cm. 2) o acini o cariossidi d’orzo; nel 1594 il
dito del Patrizi è invece cm. 2,16.
Mano o palmo comune o palmo dell’Arsenale = 4 dita (cm. 8) oppure in 3 oncie o pollici. La
mano del predetto Patrizi cm. 8,67.
Oncia o pollice, in teoria equivalente a 5 grani d’orzo e ⅓; invece, passando all’oncia
italiana in generale, è cm. 2,891 quella raffigurata dal Patrizi, cm. 2,86 quella del Lorini nel
1609; cm. 2,51 quella del Capo Bianco nel 1618; cm. 3,00 quella di Pico Fonticolano nel
1645; cm. 2,75 quella del Moretti attorno al 1670; cm. 2,85 quella di altri.
Braccio = 12 oncie, quindi è pari al piede comune; ma il Pistofilo pareggia invece il suo al
passo comune {… le quali passa, per maggior intelligenza, potiamo nominarle braccia,
voce più comune [...] tre passa o semplici o braccia…}
Piede comune o piede dell’Arsenale = 4 palmi o mani (cm. 32); invece cm. 34,70 quello
disegnato dal Patrizi; cm. 34,30 quello del Lorini; cm. 31,02 quello del Capo Bianco;
cm. 33,60 quello di Pico Fonticolano; cm. 33,00 quello del Moretti; cm. 34,20 quello
di altri.
Passo veneziano o geometrico o di misura = 5 piedi (m. 1,60); invece m. 1,735 quello del
Patrizi e m. 1,71 quello di altri. Equivaleva in teoria alla massima estensione che
avanzando si poteva raggiungere tra la punta di un piede e l’altro.
Passo comune o passo naturale andante di campo (militare) = 3 piedi (cm. 96); invece m.
1,041 quello del Patrizi e m. 1,026 quello di altri.
Passo comune o naturale andante (civile) = 2,5 piedi (cm. 80). Nel Pico Fonticolano lo
leggiamo
corrispondente invece a tre piedi e mezzo, ma trattasi certamente d’un errore di stampa.
Pertica = 10 piedi (m. 3,2).
Stadio = 125 passi.
Miglio (gr. μίλιον) = 8 stadi.
Miliare, misura di peso di mille libbre pari a 6 cantaria napoletane.e pugliesi da 100 rotoli.
Misura di vino, pari a un quarto di libbra.
Bigonzio, pari a 70 delle suddette misure, quindi a 17,5 libbre.
Anfora, misura di liquidi pari a 4 bigonzii e a una veggia (lt. veges, ‘vaso vinario’) e un terzo di
Napoli.
Sestario misura di aridi divisibile in 90 libbre.
Quartarola o quartario, misura di aridi pari a un quarto di sestario.

Misure veronesi.
Piede, palmo e oncia pari a quelli veneziani.
Oncia di 12 punti.
Punto di 12 atomi.
Atomo di 12 menicoli.
Braccio = cm. 44,4.
Pertica = 6 piedi (m. 1,92).

Misure padovane e rodigine.


Pertica di 6 piedi.
303
Piede di 12 oncie.
Oncia di 12 punti.

Misure bresciane, bergamasche, cremasche e mantovane.


Braccio di 12 oncie (cm. 44,4).
Oncia di 12 punti.
Punto di 12 atomi.
Atomo di 12 minuti.
Minuto di 12 momenti.
Cavezzo di 6 braccia (m. 2,664)

Dalla raffigurazione fattane dal Lechuga si ricava che l’oncia bresciana era pari a cm. 3,50. Il
cavezzo bresciano era più lungo di quello bergamasco; infatti, nel tracciato lasciatocene dal
Cataneo, il braccio bresciano equivaleva a cm. 48 e quello bergamasco a cm. 45,60. Atomi,
minuti e momenti erano raramente adoperati.
Per quanto riguarda invece le misure di superficie,12 oncie quadrate davano un piede (nel
caso di terreni) o un braccio/quadretto (nel caso di muraglie), 12 piedi davano una tavola, 25
tavole bresciane - o 24 bergamasche - davano una pertica. Un piò quadrato era dato da 20
cavezzi per 20; una pertica quadrata equivaleva a tavole 25; ma, a chi voesse approfondire
questo argomento, consigliamo appunto la lettura del Tartaglia o del detto Cataneo.

Misure trevigiane.
Pertica o passo di piedi 5.
Piede di oncie 12
Oncie di punti 12.

Misure milanesi.
Oncia o pollice = 12 punti (cm. 4,8333, ma il Lechuga la raffigura lunga cm. 4,50).
Braccio = 12 oncie (cm. 58, ma cm. 52,8 nel Lechuga).
Pertica = 8 braccia (cm. 464).
Zucata = 12 braccia.
Passo = 3 piedi.
Piede = 9 punti (cm. 34,20).

Misure napoletane.
Miglio = pari a 8 stadi o a mille passi comuni oppure a 7mila palmi oppure a 1/60 di grado.
Stadio = 125 passi comuni.
Canna o passo maggiore = 6 piedi oppure 8 palmi maggiori (m. 2,1164).
Passo comune = 5 piedi oppure 6 palmi maggiori e ⅔.
Grosso o passo minore = 2 piedi e mezzo.
Braccio = 1,8333 piedi.
Cubito = 12 dita oppure 2 palmi maggiori oppure un piede e mezzo (m. 0,5292).
Piede = 4 palmi minori o 16 dita (m. 0,7052).
Palmo minore napolitano = 4 dita (m. 0,1763).
Palmo maggiore = 6 dita oppure 1 palmo minore e mezzo oppure 9 pollici (m. 0,26455).
Pollice = 5 minuti.
Dito = 4 grani d’orzo posti in sequenza (m. 0,0441).

304
Misure fiorentine.
Braccio fiorentino = 12 oncie (cm. 57,60, come tracciato dal Lorini nel 1609). Divisibile
‘perfettamente’, come scriveva il Sardi, in 2 piedi geometrici reali.
Piede geometrico reale fiorentino = cm. 28,80

Verso la metà del secolo precedente il Belluzzi aveva invece tracciato un braccio fiorentino di
soli cm. 48,00 e infatti dava due piedi (geometrici) corripondenti non a un braccio solamente
bensì a un braccio e un quinto, guarda caso proprio i suddetti cm. 57,60 che traccerà poi
tanto più tardi il Lorini. È chiaro quindi che nel corso della seconda metà del Cinquecento a
Firenze, per semplificare le misurazioni, si aumentò la lunghezza ufficiale del braccio di un
quinto per unificarla così a quella del passo andante, già allora pari a due piedi geometrici.

Altre misure italiane.


Braccio senese, equivalente a due piedi antichi, quindi a 8 palmi romani.
Braccio cremonese = cm. 45,6.

Ecco ora, tratte anche dal del Bufalo, alcune delle più note misure itinerarie e terriere allora in
uso in Italia:

Gomito europeo antico o sesquipede (fr. coudée), equivalente a un piede e mezzo e quindi
a 24 dita. Teoricamente corrispondeva alla distanza tra gomito umano e punta del
dito medio.
Stadio italiano antico, divisibile in 125 passi geometrici da 5 piedi.
Miglio d’Italia, divisibile in mille passi geometrici o passi romani doppi oppure in 2.000 passi
romani comuni; corrispondente pertanto a otto stadi o a km. 1,735 ossia a catene romane 116
oppure a 667 canne romane). Tre miglia erano pari a una lega spagnola o francese.
Lega (lt. leuca) divisibile in 4 miglia (km. 6,940), quindi 20mila piedi. 17 ½ leghe davano un
grado geografico (km. 121,45). La lega marina era però di 5 miglia.
Grado geografico = 60 miglia.
Staiuolo romano = palmi 5 e ¾
Catena romana = 10 staiuoli ossia 57 palmi romani e mezzo.
Pezza di terra = 529 canne.
Rubbio romano = 112 catene romane = 1.120 staiuoli = 3703 canne romane antiche = 7
pezze di terra.

Lega e miglio erano però differenti negli altri paesi europei e infatti un grado astronomico
corrispondeva a venti leghe di Francia e Spagna, ma non di Germania, perché questa era di
ben 4mila passi e in alcuni luoghi anche di 5 o 6mila, come del resto variava anche il miglio
italiano, mentre una lega di Spagna o di Francia, divisibile in sei miglia e non in quattro come
quella d’Italia, equivaleva solo a ¾ di quella italiana; quando quindi si voleva indicare per
mare una misura itineraria alquanto internazionale, sebbene ovviamente molto condizionata
e imprecisa, si usava praticamente quantificarla in ore di navigazione. Non esistendo dunque
allora ovviamente convenzioni internazionali che facessero adottare misure comuni, ogni

305
paese aveva le sue, anche se magari con gli stessi nomi perché di comune eredità romana;
per esempio il palmo spagnolo, detto anche mano atravessada, corrispondeva a cm. 20,873,
quindi era sensibilmente più corto di quello napoletano. In Spagna s’usavano la verga (sp.
vara) valenciana, divisibile in tre piedi, ognuno di 12 pollici o 16 dita, come già detto, e la
verga castigliana, più breve della valenciana di 4 dita, equivalendo il piede di Castiglia a 923
millesimi del suddetto piede geometrico; la pertica si diceva negli ambienti militari spagnoli
comunemente partesana, perché era appunto con la sua partigiana, assimilata come misura
appunto alla pertica, che il sargente disponeva in campo i suoi fanti, allargandone o
stringendone le fila a seconda delle necessità. A proposito poi delle misure dette
geometriche, dobbiamo aggiungere che il palmo tracciato nel 1629 da Joseph Furttenbach
(1591-1667) nel suo trattato è di cm. 24,10 () e che il piede geometrico lasciatoci in immagine
dal Lechuga risulta più lungo del suddetto fiorentino e più corto del milanese, cioè cm. 31,20,
corrispondendo invece sostanzialmente a quello spagnolo disegnato dall’Ufano sia per
lunghezza sia per la sua suddivisione in 11 dita geometriche.
In Francia esistevano da tempo immemorabile il grande palmo (olt. span), equivalente alla
larghezza della mano e divisibile in nove pollici (pouces) del re oppure in 12 dita, e il piccolo
palmo, divisibile questo invece in tre soli pollici del re oppure in quattro dita; la somma di
questi due diversi palmi dava un piede, perché questo era infatti divisibile in 12 pollici. Alla
fine del Seicento il palmo sarà però una misura sopravvissuta praticamente solo in Italia e,
per quanto riguarda il resto dell’Europa, sarà ancora usata dagli ingegneri e architetti militari
solo nelle sue antiche versioni romane come misure internazionali, quindi accettate e
comprese da tutte le nazioni europee; seppure generalmente considerato equivalente a otto
pollici di Francia, il palmo romano antico era per la precisione pari a otto pollici e 5 linee
francesi, quello romano moderno a otto pollici francesi e tre linee e mezza, quello napoletano
a otto pollici e sette linee e quello genovese a nove pollici e due linee. La canna romana
antica era equivalente quindi alla misura di Francia di 6 piedi del re, 11 pollici e 4 linee
oppure a quella d’una tesa e un piede circa, quindi 100 canne erano all’incirca 115 tese.
Il piede (olt. duim) era così chiamato perchési trattava di una misura ispirata alla lunghezza
del piede umano; ma in realtà era di quello sensibilmente più lunga e infatti i tedeschi la
chiamavano non piede bensì ‘scarpa’ (Schuch); esso variava molto in Europa e infatti,
parlando solo di quella centro-occidentale, troviamo innanzitutto il piede renano, divisibile in
12 pollici (altrove l’Aubin dice in dieci palmi, ma riteniamo sia un errore materiale); il piede
d’Amsterdam, usato nel nord dell’Olanda ed equivalente a poco meno di 11 pollici del
precedente; il piede di Vesel, usato principalmente a Dordrecht e pari invece a 11 pollici e ¼
di quello renano; il piede di Maastricht, divisibile in 10 pollici, ma corrispondente a 10 e ¾ del
renano; il piede di Liegi, anch’esso di dieci pollici, ma pari a 11 e ½ ancora di quello renano;
306
il piede di Parigi, divisibile in 12 pollici equivalenti a 12 e ¾ sempre del renano. Infine,
l’Hulsius ci ha lasciato il tracciato del piede di Francoforte (cm. 32,10 divisibili in 12 Zolle,
ossia pollici) e di quello di Norimberga (cm. 34,60 divisibili anch’essi in 12 Zolle); ma
riteniamo utile ripetere ora qui la parte più chiara della spiegazione delle misure di lunghezza
data dall’Hulsius, essendo allora le misure tedesche molto importanti per lo studio
dell’artiglieria:

Grano d’orzo (Gerstenkornlein).


4 grani d’orzo un dito (Finger).
5 grani d’orzo un pollice (oncia; td. Zoll oppure Daum), cioè un dito e ¼.
4 dita, cioè 16 grani, un palmo (Handtbreit).
3 palmi, cioè 12 dita oppure 9 pollici, un palmus maior.
4 palmi, cioè 16 dita oppure 12 pollici, un piede (Schuch).
5 piedi un passo geometrico (doppelten Schritt).
2 passi geometrici una pertica (Rute); ma più lunga, cioè piedi 12½, era la pertica di
Francoforte.
125 passi geometrici uno stadio.
8 stadi un miliarum o miglio italiano.
4 miliara una leuca (‘lega’) o piccolo miglio tedesco.
5 miliara un gran miglio di Germania, cioè 40 stadi.

Il passo francese, a imitazione di quello veneziano, si distingueva in passo comune e passo


geometrico, il primo però divisibile in due ‘piedi e mezzo del re’ e il secondo in cinque piedi
del re; nel Seicendo il piede sarà strumentalmente accorciato, per cui i due passi saranno
risuddivisi in tre e sei piedi rispettivamente. Le misure lineari francesi ricordavano, almeno
per quanto riguarda le loro suddivisioni, quell’antiche romane maggiormente delle predette
italiane, essendo stato il piede antico romano divisibile in quattro palmi oppure in 12 pollici o
ancora in 16 dita. Esisteva infatti in Francia, oltre a una misura detta aune di Parigi,
corrispondente a palmi quattro e 4/5, un’altra detta tesa di Parigi o del re, la quale era però
solo un altro modo di chiamare il passo geometrico in quanto a esso del tutto corrispondente
(quindi era lunga ca m. 1,8) e che i francesi usavano, come del resto appunto il passo
geometrico in Italia, principalmente per tutte le opere ordinate dal re, dovunque esse si
facessero, quindi senza tenersi in nessun conto le eventuali tese locali dette toises
d’éschantillon, ossia tese conformi al campione di legge (éschantillon, ‘campione’), da cui
l’italiano ‘ciantellino’, nel senso derivato di piccola quantità, presto corrotto in centellino per
contaminazione con centino (‘centesima parte’). La predetta tesa del re corrispondeva a circa
due moderne iarde inglesi, era divisibile in due passi comuni o in sei piedi, ogni piede, come
già detto, in 12 pollici, ogni pollice in 12 linee e ogni linea, la quale corrispondeva alla
larghezza d’un grano d’orzo, in dieci parti, venendo quindi a equivalere, per lo meno
nominalmente, ogni antico dito romano a nove di dette linee di Parigi; invece la tesa di

307
Borgogna, tanto per fare un esempio, era di sette piedi e mezzo. Nella seconda metà del
Seicento, il Manesson Mallet uguaglierà la tesa a due passi, lasciando quindi pensare che
qualche riforma delle misure sia intervenuta in Francia nel frattempo.
C’era poi una terza importante misura di cui si servivano in Provenza – ma anche a Genova -
per la costruzione delle galere, la gouë, la quale misurava tre palmi, ogni palmo nove pollici e
ciò sebbene per tutto il resto venisse usata invece l’aune di Provenza, formata questa da otto
palmi pur equivalendo alla predetta tesa del re. Nella seconda metà del Seicento le galere
francesi misureranno ordinariamente 58 gouës di, cioè circa 22 tese, da giogo di prua a giogo
di poppa e poi circa tre tese di larghezza centrale e una d’altezza centrale, dimensioni del
resto comuni anche alle galere delle altre potenze marittime. Gli ingegneri militari olandesi
usavano molto, nel fortificare, la canna renana (fr. verge rhinlandique), misura che equivaleva
a due tese francesi, quindi a 12 piedi. La lega di Francia era di soli tremila passi geometrici e
quella di Germania di quattromila, come a Venezia.
Forse conviene ora completare e schematizzare le misure lineari in uso nella Francia del
Seicento, perché, a motivo del grande sviluppo che prese allora la fortificazione militare in
quel paese, tale da soppiantare in fama quella italiana del secolo precedente, esse erano in
Europa molto conosciute:

Linea = spessore d’un grano d’orzo.


12 linee = un pollice del re.
12 pollici del re = un piede del re.
3 piedi del re = un passo comune.
5 piedi del re = un passo geometrico.
6 piedi del re = una tesa.
2 tese = una verga (specie la ‘rinlandica’ o renana).
3 tese = una pertica (ma in alcuni paesi essa era non di 18, bensì di 20 o anche 22 piedi).
125 passi geometrici = uno stadio.
8 stadi (ossia 1.000 passi geometrici) = un miglio.
2.000 passi geometrici = una piccola lega di Francia.
2.400 passi geometrici = una media o comune lega di Francia.
3.500 (talvolta 4.000) passi geometrici = una grande lega di Francia.

Lo jugero francese (arpent) era 30 tese per 30, cioè 900 tese quadrate o anche 100 pertiche
quadrate di quelle da 3 tese). Per le misure marine militari e di lungo corso – specie per
quelle di cavi e di profondità - si usava invece, specie nella navigazione franco-olandese, il
grande braccio (olt. de groote vaam o vadem), misura che la tradizione voleva nata a indicare
quella dell’apertura in orizzontale delle due braccia dell’uomo sino all’estremità delle mani, il
che, essendo divisibile in sei piedi renani, lo faceva quasi uguale alla tesa e quindi a circa sei
piedi del re, mentre il medio braccio (olt. koopvaarders vadem), equivalente a cinque e
mezzo dei predetti piedi, era adoperato nei vascelli mercantili che non facevano gran viaggio

308
e infine il piccolo braccio (olt. buismans vadem), misurante solo cinque piedi, era detto la
brasse des patrons de buche, ma quanto fosse ancora in uso non sappiamo. Alla fine del
Seicento la Francia adotterà poi per la misurazione terrestre d’acque e foreste nuove norme
agrimensurali e cioè uno iugero di cento pertiche, una pertica di 22 piedi, un piede di dodici
pollici e un pollice di 12 linee.
Per ciò che concerne invece le misure di peso, premettiamo che la lira (‘libbra’) dell’epoca,
pesava all’incirca quanto l’attuale usata nei paesi anglosassoni e infatti gli inglesi da noi
italiani la presero, così come anche il loro miglio non a caso è pari perfettamente a quello
suddetto veneziano; infatti il Sardi all’inizio del Seicento scriverà che un uomo normale
poteva solllevare 50 libbre al massimo. Molte parole commerciali e marittime italiane, come
anche alcune unità di misura e armi, per esempio l’arco lungo friulano, furono introdotte in
Inghilterra dalle galere di mercanzia medievali veneziane che commerciavano con le Fiandre
e usavano terminare il loro viaggio a Londra; a ciò, anche se può sembrare incredibile, è da
aggiungere anche un numero di termini militari, specie di fanteria, che s’introdusse nelle
lingue estere ed era proprio un francese a dirlo, Blaise de Vigenére (… lanspessades, mot
qui nous est venu de l’italien comme beaucoup d’autres de l’art militaire…)
Cento libbre veneziane formavano un cantaro, mille un rubo o un migliaro, misura questa che
i veneziani, abituati a grandi volumi di traffico commerciale, a differenza degli altri stati italiani
adoperavano molto più del cantaro. La libbra veneziana era divisibile in 12 oncie, mentre una
marca o marco veneziano era invece divisibile in 8 oncie, l’oncia in 6 saz(z)i (‘esagi’), un
sazzo in 24 caratti, un caratto in 4 grani d’orzo. La libbra bresciana e quella milanese erano
ambedue divisibili in 12 once e l’oncia in 24 danai o denari; ma la prima era più leggera della
seconda. La libbra francese si divideva in due marchi, il marco in 8 once, l’oncia in 8 grossi e
il grosso in 3 denari; la libbra spagnola in 16 oncie e l’oncia in 16 adarmes ossia in 8 dracme.
Il talento romano antico pesava 60 libbre, il piccolo sesterzio 24, la libbra 12 once, l’oncia 8
dramme, la dramma 3 oboli o scrupoli e l’obolo 6 silique o grani. Il cantaro napoletano era
formato da 25 decine o da 2 tomoli e mezzo o da 100 rotola da once 33 e sfiorante quindi i 90
kilogrammi di oggi; un tomolo da 21 misure o da 10 decine o da 40 rotola, per cui una decina
da 4 rotola; un rotolo napoletano equivaleva a una libbra e mezza veneziana ed era formato
da 33 oncie e un terzo oppure da mille trapesi, una libbra da 12 oncie, un’oncia da 10
dramme, una dramma da 3 tarpesi, un trapeso da 20 granelli comuni di frumento equivaleva
a gr. 0,890997; una veggia (‘botte’, dal lt. veges, ‘vaso vinario’) era pari a circa 93 libbre;
la salma di Puglia, era misura di aridi pari a tre sestari di Venezia.
Le misure di peso rotolo e tomolo furono introdotte nel regno di Napoli nel settembre del
1231, come si legge nel già citato Chronicon di Riccardo da S. Germano; cinque tomoli o
tumuli e quasi un mezzo equivalevano a una salma di Sicilia, mentre questa era poco di più
309
di rubio di Roma (Fabrizio Romanci, La seconda parte del Thesoro politico ecc. F. 355 recto.
Torona, 1602).
Il barile napolitano, antica misura dei liquidi, si divideva in 60 carafe; a Roma il vino e i liquidi
potabili in genere si misuravano a bicchieri, 2 bicchieri facevano una foglietta, 8 un boccale, 8
boccali una brocca, 4 brocche un barile alla romana, 2 barili alla romana una soma, 4 some
romane e mezza o 6 some di Ronciglione una botte. Nell’antica Roma e a Bisanzio il boccale
o congio, equivalente a circa litri 3 e ¼ di oggi, si divideva in sei sestari [gra. ξέσται; grb.
ξεστία, πρόχ(ο)οι] e ogni sestario in due cotule; il moggio, quando misura agricola,
corripondeva a un terzo di jugero, ma poteva essere anche misura di aridi. C’era poi il sato,
misura ebraica, la quale si calcolava convenzionalmente o pari a un moggio romano colmo
oppure pari a un moggio ordinario e mezzo, ossia a 25 libbre o anche a un’arroba castigliana,
essendo questa il peso di 25 libbre da 16 once ciascuna; ma c’era anche un sato per i liquidi
che si calcolava pari a 15 dei suddetti sestari (Suida, cit. LT. III, p. 290).

310
Capitolo VII.
Artiglierie del primo genere, anche dette del genere forzato o delle colubrine.

Il Collado, ingegnere dell’esercito spagnolo in Italia e poi generale dell’artiglieria dello stato di
Milano, primo autore che abbia trattato in Italia con lucida rigorosità di questa materia, scrive,
a proposito di queste bocche del primo genere, che furono essi i primi pezzi ritrovati da’ primi
inventori dell’artiglieria; riferendosi naturalmente a quella da sparo; infatti il primo obbiettivo
che si volle raggiungere con l’artiglieria fu evidentemente quello di lanciare i proiettili il più
lontano possibile, cioè di ottenere delle macchine litoboliche che fossero particolarmente
lontanarie, come si diceva allora. Essi erano dunque le bocche più pesanti, spesse, lunghe e
potenti che ci fossero ed è singolare che oggi i più credano che si trattava invece di bocche
minori, forse perché tratti in inganno dall’apparente desinenza diminutiva del nome.
Per lanciare la palla più lontano era necessario che queste canne sopportassero una carica
di polvere maggiore, il che significava, per evitare che crepassero, bronzo più spesso,
soprattutto alla culatta, cioè dove avveniva l’esplosione, e canna più lunga per dar tempo a
tale maggior carica di polvere di bruciare tutta, che altrimenti sarebbe stato inutile darne di
tanta. In queste bocche, come del resto anche in quelle degli altri due generi d’artiglieria, la
canna doveva infatti essere proporzionata alla quantità della polvere, perché, se fosse stata
troppo corta, parte della polvere sarebbe uscita dalla bocca insieme alla palla senza aver
avuto il tempo di bruciarsi, o perlomeno, trovandosi la polvere troppo vicina alla bocca, parte
dell’energia da essa sprigionata si sarebbe allargata, dispersa e perduta nell’aria esterna; se
invece fosse stata troppo lunga, la polvere avrebbe finito di bruciarsi prima che la palla
raggiungesse la bocca d’uscita e quindi l’ultima porzione di canna sarebbe servita solo
eventualmente a rallentare con i suoi attriti la palla e a rendere così il tiro più fiacco; così
insegnavano gl’impareggiabili maestri d’artiglieria tedeschi:

… e, questa conveniente e determinata lunghezza che si ricerca ne’ pezzi dell’artiglieria è


stata precisamente da qualche valent’huomo fino adesso ritrovata, gli risponderò che per fino
al dì d’hoggi non se ne ha havuta altra maggior certezza di quella che da’ valenti maestri
tedeschi ci è data in prattica; cioè che loro a ogni pezzo ed a ogni genere d’artiglieria hanno
assegnata la sua conveniente e proporzionata lunghezza, accompagnata dalla giusta
circonferenza dell’anima, e secondo questa datogli il suo peso di polvere e palla; e loro
hanno trovato finalmente qual lunghezza era sufficiente a poter consumar tutta la polvere e
fare che in quell’instante che il fuoco haverà infiammata la polvere tutta, in quel medesimo
venga a sboccare il pezzo il boccone, la palla e fiamma tutt’a un tempo per la bocca; la qual
proporzionata lunghezza sempre che sarà ecceduta, hor sia per esser troppo corta over
troppo lunga l’artiglieria, infallibilmente sarà difettuosa (LT. Collado. Cit. P. 42.)

Insomma dare più polvere del necessario a una bocca non significava per nulla aumentare la
lunghezza del tiro, anzi significava diminuirla, perché la polvere che aveva il tempo
311
d’accendersi nella canna doveva, prima della espulsione della palla, spingere in avanti oltre
al proiettile stesso anche l’eccesso di sé stessa che non si sarebbe invece accesa per
mancanza di tempo; pertanto troppa polvere significava paradossalmente tiro corto. In
conclusione, la lunghezza della canna di una bocca da fuoco doveva essere proporzionata
alla quantità di polvere che le si dava, così come questa doveva a sua volta essere
proporzionata allo spessore del metallo; lo spessore che si prendeva in considerazione per
questo calcolo era quello più semplice e sbrigativo, cioè quelo della gioia della bocca, e si
misurava con un attrezzo che i toscani chiamavano prova gioia. Per quanto riguarda gli
spessori di queste bocche del primo genere, essi dovevano allora essere, se le più grandi, i
seguenti:

Alla culatta, cioè tra il focone e la gioia (‘anello’; sp. faja, ‘fascia’), ossia la cornice: 3 bocche.
Alla cornice in corrispondenza degli orecchioni: 2 bocche e ¾.
Al collo, cioè alla gioia della bocca: 2 bocche.

Se invece si trattava delle più piccole, cioè di quelle non superiori alle 14 libbre di calibro,
esse si fondevano, come poi spiegheremo, oltre che di lunghezza maggiore, anche di metallo
più spesso dei predetti valori; la cosa era così spiegata dal de Marchi:

Alli pezzi lunghi che portano piccola palla se li dà più polvere, respetto che sono più carichi di
metallo, che, se si volesse dare tanta polvere all’artegliaria grossa, (cioè) a proporzione delli
piccoli, saria tanta la moltiplicazione del fuoco che non saria artegliaria, che potesse
resistere, che fosse fatta con queste misure; (inoltre) saria di bisogno farle tanto grosse di
metallo che saria impossibile d’adoperarle. Però (‘perciò’) bisogna di questo haver buona
avvertenza, perché è cosa di grandissima importanza. (F. de Marchi. Cit. P. 765.)

Nel terzo quarto del Cinquecento questo concetto si estese e in aggiunta si volle quindi che
una bocca da fuoco medio-piccola, cioè diciamo dalle 30 libbre di carico in giù, dovesse
esser spessa tre palle alla culatta e una palla e ⅔ alla bocca. Per ‘bocche’ s’intendono,
come abbiamo già ricordato, i diametri della bocca della singola bocca, quindi dell’anima (fr.
volée), ossia del vuoto cilindrico interno, misura che in una canna seguente, ossia non
incamerata né incampanata, ovviamente non variava per tutta la sua lunghezza. I calibri
s’intendevano di palla di ferro solo per le bocche medio-grandi; i calibri delle medio-piccole
erano invece da intendersi per palla di piombo e ciò perché, anche se ora anche tale piccola
artiglieria s’usava con palle di ferro, esse erano state originariamente, cioè nel Medioevo,
intese per proiettili di quel più grave (anche se più morbido) metallo e con essi anche
adoperate fino a tutto il Rinascimento; dato il loro permanente superiore spessore di bronzo,
anche se ora adoperate con palle di ferro, era rimasto però l’uso di provarle con palle di
piombo e con carica di polvere appunto dallo stesso peso del proiettile di piombo. Questo
significava che, usandosi ora con palle di ferro, i proiettili da scegliere dovevano essere
312
all’incirca pesanti un terzo di meno del calibro nominale della bocca, in modo da non
eccedere le dimensioni che essa poteva consentire; insomma bisognava tener conto che il
ferro pesava circa un terzo di meno del piombo e quindi un falconetto da 3 si sarebbe provato
con palla di ferro da due sole libbre, un falcone da 6 con palla di ferro da quattro, un sagro o
un aspido da 12 con palla di ferro da otto ecc. Sempre in queste bocche del primo genere, la
lunghezza della canna – dal focone alla bocca – avrebbe dovuto essere di regola, ma molto
generalmente, di 32 bocche, specie in quelle maggiori, cioè quelle da 12 libbre di calibro in
su, definite dal Sardi pezzi reali, cioè da fazioni maggiori, (mentre in precedenza si erano
generalmente dette reali già quelle dalle 8 libbre in su), equivalendo, nel caso delle colubrine
a circa 9 braccia di lunghezza; e comunque non meno di 30 bocche, per poter dar così tempo
alla carica di polvere che loro competeva di bruciarsi completamente, carica che in ognuno di
queste bocche doveva essere di peso pari a quello della sua palla di ferro; ma vedremo
comunque che la suddetta regola delle 32 bocche fu enunciata solo verso la fine del
Cinquecento e quindi presentava molte eccezioni, specie in rapporto alla vetustà dell’arma e
alla qualità della polvere; infatti l’Ufano prescriveva cariche generalmente inferiori perché di
polvere fina. In effetti prima d’allora si facevano lunghe 27 o 28 bocche ( 32 diametri di palla)
e solo quelle napoletane erano di 31 o 32; inoltre, sempre verso la fine del secolo, il Capo
Bianco, esponente della scuola veneziana, il qual amava rifarsi più alla sua esperienza
pratica che alla teoria, dava lunghezze differenti a seconda del calibro e asseriva di essersi
limitato a quelle delle artiglierie delle più accreditate fondizioni, perché nel corso della sua
lunga carriera né aveva costatato tane altre e delle più disparate. Bisogna a questo proposito
ribadire che queste lunghezze di canna, come del resto quelle delle canne di tutti le altre
bocche d’artiglieria di cui parleremo più avanti, s’intendono a partire dal focone e non
dall’estremità posteriore della canna e in sostanza ogni volta che parleremo di lunghezza di
canna intenderemo in effetti la lunghezza totale dell’anima, dividendosi la canna in culatta
(dall’estremità posteriore al focone), pancia o ventre (dal focone ai maniglioni) e volante (dai
maniglioni alla gioia della bocca). Il metallo (bronzo) necessario per la fondizione di una di
queste bocche da fuoco del primo genere era calcolabile in circa 150 libbre per ogni libbra di
calibro.
I tipi di bocche da fuoco inclusi in questo genere primo o delle colubrine erano, dal più grosso
al più piccolo, i seguenti:

Doppia colubrina o dragone.


Colubrina.
Mezza colubrina.
Sagro o quarto di colubrina.
Moiana.
Passavolante (plombiero) o cerbottana.
313
Girifalco (plombiero).
Falcone o mezzo sagro.
Falconetto o saltamartino.
Ribadochino (petriero).
Smeriglio o moschetto da braga.
Organo.
Moschetto da giuoco.
Moschetto da posta.
Moschetto ordinario ‘da cosciale’ (sp. de quijote; poi vedremo perché detto così).
Archibugio di bronzo o spingarda.

Ci sarebbero da menzionare, tra le piccole bocche da fuoco di questo primo genere in uso
nel Cinquecento, anche le catalane verso e versico, nominate in documenti marittimi della
prima metà del secolo, e le inglesi minion e rabinet, di cui la prima circa da 4 libbre e la
seconda da 1½, ma non ne conosciamo altre caratteristiche perché i trattati militari inglesi di
quei tempi non sono stati ancora scannerizzati online né avremo mai presumibilmente il
tempo e l’opportunità di andarli a consultare materialmente. C’è da chiarire inoltre che i detti
diversi nomi, esclusi però quelli delle armi portatili della fanteria e della cavalleria, le quali,
come si è visto, sono da includere in questo primo genere, non indicano affatto diversità né
costruttive né estetiche ma solo differenze di calibri; per cui, quando ci si imbatte in immagini
dell’epoca rappresentanti le suddette diverse bocche da fuoco idealmente affiancate, ci
appaiono tutte uguali, differenziandosi solo per le diverse dimensioni dei vari tipi; la cosa è
spiegata dal Colombina nel suo dialogo Essame de’ bombardieri:

(Domanda:) Di dove hanno havuto origine e principio questi nomi?


(Risposta:) Dal provar detti pezzi con la palla di piombo, la quale, se è del falconetto, deve
pesare libre tre e quella di piombo del sagro libre dodeci; e tanto si può dire de gli altri pezzi
nominati qua di sopra, perché dalla palla della prova si cava il nome di tutta l’artigliaria.
[Giovan Battista Colombina, Essame de’ bombardieri in Origine, eccellenza e necessità
dell'arte militare […] per sapersi servire dell’artiglieria […] et il modo di far il salnitro e la
polvere. Trevigi (‘Treviso’), 1608. In Fucina di Marte etc. P. 448. Venezia, 1641.]

Il detto metodo, da usarsi per le bocche non superiori alle 12 libbre di calibro, è confermato
dal Capo Bianco:

… detti pezzi, li quali si provano con balla di piombo…. dalla balla della prova si cava il
nome… (A. Capo Bianco. Cit.)

Falconi o mezzi sagri, smerigli e falconetti avevano ordinariamente una canna alquanto più
lunga delle 32 bocche, cioè in genere da 34 a 36, e i passavolanti e le sebratane molto più
lunga, cioè fino a 48 o anche 50 bocche; ciò perché erano artiglierie piccole, strette di bocca
e di poco calibro di palla e, se avessero avuto una canna di regolare lunghezza, una volta
incavalcati sui loro normali affusti non avrebbero raggiunto con la bocca l’altezza del
parapetto (gra. ἒπαλξις; grb. ἐπάλξις) delle fortezze e non avrebbero potuto così scoprire la
314
campagna, vale a dire dominarla; vero è che si sarebbe potuto fornire questi due tipi di
bocche di ruote più alte e grosse, invece di allungarne le canne, ma si sarebbe incorsi in un
altro maggior inconveniente e cioè che dette ruote, alte e vicine al parapetto, sarebbero state
troppo scoperte e vulnerabili dai colpi del nemico; inoltre le canne per la loro piccolezza non
sarebbero arrivate a fuoriuscire dalla circonferenza delle ruote stesse e non si sarebbero così
potute affacciare alle cannoniere. A causa di questa loro maggior lunghezza erano anche di
metallo proporzionalmente più spesso e per gli stessi motivi si fondeva più lunga delle 32
bocche e più ricca di metallo anche la colubrina minore, cioè quella da 14; insomma, a partire
dal falconetto a finire alla colubrina da 14, queste canne pesavano all’incirca 250 libbre per
ogni libbra del loro calibro. Il passavolante, con le sue 48-50 bocche, era la bocca da fuoco in
proporzione più lunga.
Oltre che dagli spessori del metallo e dalla lunghezza della canna le bocche del primo genere
o colubrine si distinguevano anche per essere tutti all’interno seguenti, cioè, come abbiamo
già ricordato, la loro anima era dello stesso diametro per tutta la sua lunghezza, dal focone
alla bocca, mentre quelle del secondo e del terzo genere potevano essere incamerate o
incampanate nella culatta e vedremo più avanti che cosa ciò significava.
Oltre che palle di piombo con le bocche di grandezza medio-piccola di questo primo genere
conveniva tirare anche sacchetti di pallottole di piombo da due once l’una e ciò risultava
molto utile specie nella difesa delle piazze. A proposito poi della quantità di polvere da usare
nel caricare queste bocche, diremo che generalmente s’usava dare un peso di polvere
uguale a quello della palla fino alle 14 libbre di calibro e poi, per le bocche di maggior calibro,
cioè colubrine e mezze colubrine, solo i 4/5 del peso della palla. Il de Marchi aveva approvato
questa pratica e anche il de Alaba y Wiamont, esperto d’artiglieria più pratico di tanti altri,
concordava con questa tesi e voleva che si desse una carica di polvere dello stesso peso
della palla alle canne minori d’artiglieria propriamente detta, cioè in effetti dallo smeriglio al
mezzo sagro, e di 4/5 del peso della palla, come suddetto, alle canne del primo genere più
grandi di quelle; ma più tardi il Collado e ancora più tardi il Sardi asserirono esser simili
diminuzioni del tutto prive di ragione, probabilmente perché ai loro tempi le canne più grandi
erano ormai più rinforzate di quelle che si erano usate in Europa prima delle guerre di
Fiandra. Tutto era comunque sempre da riferirsi allo spessore e alla lunghezza di ogni bocca
da fuoco e quindi alla giusta considerazione che in questo primo genere d’artiglieria quelle di
calibro inferiore erano in proporzione più ricche di metallo e più lunghe delle medio-grandi e
ciò soprattutto perché una grande colubrina - ma anche un grosso cannone - non poteva
arrivare a pesare tanto e a essere tanto lunga da risultare poi di difficile utilizzo o addirittura
poco trasportabile.

315
Ma come si faceva a calcolare la quantità di bronzo necessaria a ottenere i desiderati
spessori di queste canne del primo genere? Leggiamo il Collado:

Deve(si) dunque primieramente sapere che nelle fondizioni di Lamagna, Fiandra, Spagna,
Venezia, Napoli e Milano, che… sono le più perfette che al dì d’hoggi si ritrovano, a tali pezzi
si da il peso di metallo corrispondente alla fondizione di Napoli, dove per ciascheduna lira di
peso della palla che tira il pezzo se gli dona un cantaro ed un terzo di metallo. In questo
modo, che, se un pezzo di questo primo genere tira lire 12 di palla, il fonditore per ogni lira di
queste gli dona un cantaro ed un terzo di metallo, che in tutto saranno cantara 16 da rottoli
100 il cantaro e da onze 33 il rottolo; che, fatta la debita riduzione di cantara 16 sodetti a lire
di 12 onze, sono lire 4400, che, partite a lire 12 che pesa la palla, gliene toccano lire 366 e
dui terzi per lira.
Nella città di Milano si fonde alla ragion medesima di Napoli l’artiglieria di questo genere,
però il numero delle lire si numera a centenara, che, ridotte le sodette lire 4400 a centenara,
sono 44, che partiti 44 alle lire 12 di palla, ut supra, gli toccherà centenara tre e dui terzi di
centenaro per lira, che è il medesimo che a Napoli si usa, e senza dubbio alcuno questa è la
vera fondizione e conveniente qualità di metallo che di debba ricercare ne i pezzi di questo
genere […] accioché loro siano gagliardi e resistenti e non troppo grevi da condurgli e
maneggiarli, né eziandio tanto deboli e poveri di metallo che, adoperandogli alquanto,
vengano a creppare subito. (Cit. Pp. 34-35.)

Quanto suddetto corrisponde a quanto prescritto dal de Alaba y Wiamont; egli infatti
conferma che il peso del metallo, cioè del bronzo, di queste bocche da fuoco del primo
genere, secondo quanto allora si praticava nelle migliori fonderie europee, cioè oltre che in
quelle di Germania, anche in quelle di Fiandra a Malines e Utrecht, sedi di fonderie antiche e
di fonditori praticissimi, e inoltre di Spagna a Burgos, San Sebastián, Malaga e Barcellona, di
Portogallo a Lisbona, di Malta e, per quanto riguardava l’Italia, di Crema, Milano e Napoli,
doveva essere di 4 terzi di quintale di libbra per ogni libbra di peso della rispettiva palla;
quindi, per esempio, una bocca da fuoco da 12 avrebbe dovuto pesare circa 16 quintali di
libbra. Ufano le diceva invece più pesanti, ma ciò è spiegabile nel senso che egli
probabilmente parlava di canne più tarde e più rinforzate. A proposito però delle conseguenti
grossezze del bronzo di queste canne del primo genere, soprattutto di quelle maggiori,
bisogna aggiungere che nell’ultimo quarto del Cinquecento e nelle migliori fonderie
s’incominciò ad aumentare d’un ottavo lo spessore del metallo della culatta e a diminuirlo
pure d’un ottavo alla bocca; quello alla culatta si faceva ora dunque d’una bocca e un ottavo,
ottavo in più che, cominciando dal focone e scemando gradatamente e sminuendosi via via,
andava a morire alla cornice degli orecchioni della canna; anzi a partire poi da quest’ultimo
luogo, lo spessore del metallo continuava a decrescere fino ad arrivare al collo della canna
con una deficienza d’un ottavo di bocca rispetto alle colubrine tradizionali; in sostanza gli
spessori di queste nuove colubrine erano 9/8 – 7/8 – 3/8 del diametro della bocca, invece dei
tradizionali 8/8 – 7/8 – 4/8. Ciò si cominciò a praticare per rinforzare ulteriormente la culatta,
cioè la parte che più era travagliata dallo scoppio, senza però di conseguenza appesantire la

316
canna nel suo complesso; tale innovazione potrebbe spiegare il perché dell’accennata
abitudine che fino allora avevano avuta alcuni bombardieri d’usare per le bocche di questo
genere più grosse una carica di polvere pesante solo i 4/5 della loro palla, vale a dire il
surriscaldarsi della culatta, inconveniente al quale ora appunto s’ovviava con questo rinforzo
d’un ottavo di metallo in più, il quale permetteva quindi di fare un maggior numero di tiri tra un
rinfrescamento e l’altro della canna. Inoltre anche l’estetica ne guadagnava perché in tal
modo alla colubrina si conferiva una linea più svelta e piacevole. Il Collado raccomanda
caldamente questa nuova forma, la quale prese ben presto il nome di colubrina rinforzata, e
la dichiara molto migliore della precedente.
Per quanto riguarda la gittata di queste bocche del primo genere, molti allora pensavano a
torto che più grosse fossero e più lontano tirassero; ci volle del tempo finché tutti
s’accorgessero che, per esempio, una colubrina da 25 tirava lontano quanto una da 50 e
questo fu il motivo per cui solo a partire dalla fine del Cinquecento si prese a fondere le
nuove colubrine con un calibro massimo di 35 libbre. Naturalmente una palla più grossa
rintronava, ossia sconquassava, di più una muraglia di quanto facesse una più piccola; in
compenso questa faceva maggior passata, cioè penetrava nel retrostante terrapieno più a
fondo di quanto riuscisse quella più grossa, ma comunque tali effetti erano entrambi
necessari se si volevano abbattere opere fortificate, come meglio vedremo a proposito delle
bocche del secondo genere.
Delle bocche medio-piccole di questo primo genere s’usava armare i circuiti di torri di guardia
che proteggevano le coste di tanti paesi europei, specie dei mediterranei; infatti queste
fortificazioni, pur bisognando di bocche da fuoco di lunga gittata per potersi validamente
opporre alle incursioni delle fuste e delle galeotte turco-barbaresche, disponevano in alto per
l’artiglieria d’una piccola piazza, dove non si potevano brandeggiare grosse bocche da fuoco;
per questa difesa costiera i calibri usati andavano quindi dal massimo delle 8/6 libbre di palla
di ferro del sagro, alle 3/4 libbre dei mezzi sagri o falconi e dei falconetti, alle 2 dei mezzi
falconetti, infine alla libbra degli smerigli o moschetti da braga, queste ultime canne diverse
da tutte le altre del primo genere per essere, come abbiamo detto, a retrocarica.
Passiamo ora a esaminare le principali caratteristiche delle varie colubrine premettendo che
le gittate indicate erano le massime generalmente ottenibili in condizioni ottimali e sono
espresse in passi detti comuni o naturali andanti di tre piedi l’uno (passi militari o di campo) e
ogni piede di nove punti (parlando all’usanza di Milano, dice il Collado), oppure, proprio come
la libbra nel campo delle misure di peso, di 12 oncie, all’usanza di Venezia e della maggior
parte dei principali luoghi italiani. Le abbiamo ricavate in gran parte da un documento
modenese che ci è sembrato in questo senso il più affidabile, ma abbiamo tenuto conto
anche di quelle in passi geometrici lasciateci dal contemporaneo de Marchi, di quelle più
317
tarde in passi comuni civili di due piedi e mezzo (come anche era quello di Parigi) calcolate
dal predetto Busca e poi dal Lechuga e infine di quelle, appunto in passi militari, date dal
Collado; e a questo proposito dobbiamo dire che, anche se indubbiamente in quel trentennio
di differenza l’artiglieria era alquanto migliorata ed era stata senza dubbio potenziata, il
bolognese de Marchi già prescriveva la nuova polvere da 5-asso-asso che vorrà poi anche lo
spagnolo Collado e all’incirca nelle stesse proporzioni. Si tratta comunque d’una materia in
cui c’era oggettiva impossibilità di essere precisi, come già spiegava l’onesto de Marchi:

Pretendono alcuni di sapere le portate de’ diversi pezzi di punto in bianco e di massima
elevazione, ma credo io esser ciò impossibile, perché i tiri fanno varij effetti che possono
provenire da molte cause, cioè dalla qualità della polvere e della palla, dalla maniera di
caricare e dalle variazioni dell’atmosfera. Io stesso ne ho molte volte fatto le prove con ogni
sorta d’artiglieria e, quantunque habbia caricato più volte un pezzo colla medesima polvere,
colla stessa palla e con eguale diligenza, ciò non ostante ho osservato diverse variazione
tanto nella distanza del tiro e nella passata del riparo (‘bersaglio’) quanto nella ritirata
(‘rinculata’) del pezzo. Egli è (quindi) vero che si potrà determinare la distanza de’ tiri a un di
presso, ma non esattamente. (F. de Marchi. Cit. Pp. 16-17.)

Oltre a tale approssimazione c’è poi soprattutto da tener conto della predetta sostanziale
differenza tra passo comune militare passo comune civile e che quasi mai gli autori del tempo
specificavano se avevano inteso tener conto dell’uno o dell’altro. Ci sembrano pertanto molto
interessanti, in quanto reali, i risultati che si riportano nei Precetti del Ruscelli riguardo alla
prova di alcune grosse artiglierie che il 29 settembre del 1544 fu fatta al Lido (vn. Lio) di
Venezia, isola che per la sua estensione in lunghezza e per la scarsa popolazione fu per
secoli adoperata dai veneziani appunto per il tiro a bersaglio di archi e balestre e per la prova
delle nuove bocche da fuoco:

- Un cannon da 100, messo a segno a meza squadra (cioè a 45 gradi d’elevazione) con i due
terzi di polvere (ossia con i ⅔ del peso della palla), tirò passa (comuni) 2.683.
- Il detto, messo a retta linea (cioè con l’anima parallela al terreno), in fine di 200 passa toccò
un poco in terra e poi (rimbalzando) passò avanti, senza (più) toccar, passa 800.
- Una colobrina da 50, messa a mezza squadra con libre 10 di polevre, tirò, anco che nello
sboccar (cioè all’uscir della palla) si levò il pezzo col letto di dietro (fece un balzo in alto con
tutto l’affusto) ed abbassò la bocca (e s’abboccò), passa 2.400.
- E detta colobrina, posta a retta linea, con libre 40 di polvere, in capo (‘alla fine’) di passa 50
toccò un poco terra, poi passò avanti, senza toccare, passa 1.000.
- E la medesima, posta al primo punto (d’elevazione) senza linea retta (cioè non a retta linea
come suddetto) con libre 40 di polvere, tirò passa 1.670.
- Un cannon da 50, messo a meza squadra con libre 33 di polvere, tirò passa 2.684.
- E, messo al primo ponto sotto (‘sopra’) retta linea, tirò passa 1380.
- Un cannon da 20, messo a meza squadra con libre 14 di polvere, tirò passa 2.645.
- E, messo al primo ponto, tirò passa 1.380.
- Un sagro da 12, a un punto sopra retta linea con libre 8 di polvere, tirò passa 1.252.
- E, messo al secondo ponto, tirò passa 1.960.
- E, messo al secondo punto con (sole) libre 5 di polvere, tirò passa 1.587.
(G. Ruscelli. Cit. P. 10v.)
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In teoria si poteva con molta approssimazione dire che una bocca da fuoco aveva alla
massima elevazione una gittata all’incirca decupla di quella che raggiungeva a quella minima,
cioè per il piano dell’orizzonte ossia di punto in bianco, come preferivano dire gli artiglieri del
tempo, e spiegheremo meglio più avanti che cosa questo voleva dire. Ecco ora prove
d’artiglieria fatte anch’esse nell’isola di Lido ma un cinquantennio prima delle predette:

… In questi giorni (primi del novembre 1496) a Lio fo provato 100 boche di artellaria, overo
passavolanti, fati novamente in questa terra (‘città’) per (‘da’) Paulo da Venezia e ordinate per
(‘da’) Basilio da la Scola, vicentino, (che) era stato ale artellarie dil re di Franza. E per (‘da’) la
Signoria sono deputati questi tre ad andarvi a vedeer a provarle: Marco Bolani, savio dil
Consejo (‘Consiglio’), Marco Sanudo, savio a teraferma, e Bortolo Vituri consier
(‘consigliere’), che prima scriver doveva. E poi fo dato per (‘da’) il Consejo di Pregadi
provision mensual a ditto Basilio di ducati 12 (M. Sanudo, Diarii. T. I, colt. 375).

L’artiglieria veneziana aveva fama in Europa di esser di ottima qualità e molto ben adoperata;
i bombardieri veneti di Terra Ferma erano inviati periodicamente all’arsenale di Venezia
perché apprendessero a distinguere e conoscere le varie bocche da fuoco e dove appunto
partecipassero a gare di tiro da tenersi colà, se da farsi con piccole canne, o appunto al Lido,
se invece con bocche da fuoco più grosse; tirare al bersaglio con artiglierie, balestre o archi,
si diceva allora tirare a li pali(j) – e non perché avesse a che fare con il correre i palii, cioè
con quelle corse di cavallo dove al vincitore si dava in premio un ricco palio, cioè
originariamente un mantello, in seguito solo un costoso ‘drappo’, generalmente di velluto
pregiato; derivava invece dal latino classico ad palum exercere, cioè l’esercitarsi che i soldati
romani facevano colpendo con la daga un palus, un simulacro di nemico tenuto ritto da un
palo piantato nel suolo e ancora adesso il bersaglio che nelle gare di tiro si doveva colpire e
cioè perlopiù si affiggeva a un palo una rotella o tavolazzo (tlt. thaulactium), cioè uno scudo
rotondo dipinto di bianco con la brocca, cioè il centro, nera. Gli artiglieri dell’arsenale erano
considerati tutti dei maestri:

… i bombardieri di Venezia sono generalmente in tutte le cose all’arte pertinenti vie più
prattichi, intendenti ed esperti di quelli di Terra ferma, essendo eglino, si può dire, allevati
allevati nelle artigliarie, come quelli che le fondono, che le nettano (‘limano’) e trivellano, che
le provano ed incarrano e che le maneggiano e veggono a tutte l’hore… (G. Marzari. Cit. P.
8.)

Genova, le cui fondizioni producevano invece artiglierie notoriamente scadenti, primeggiava


invece per la qualità delle polveri:

... e dico che in pochi luoghi del mondo si vede artiglieria tanto ben tirata quanto la
veneziana; ma la polvere non è dell’eccellenza che la genovese, la quale è miglior dell’altre
(G. Ruscelli Cit. Pp. 22r-22v.)

319
Premettendo che gli autori italiani del tempo usavano, come più sopra si è visto, dire portata
laddove sarebbe stato più corretto dire gittata o tratta, cioè il tragitto che un proiettile poteva
percorrere a seconda della potenza della bocca da fuoco che lo sparava, il de Marchi da
anche pesi delle varie bocche da fuoco molto inferiori (all’incirca la metà) a quelli da noi
indicati e che sono tratti dal sensibilmente più tardo Collado, il che dimostra che questo
aveva a disposizione bocche ora certamente più pesanti e efficienti, ma non tanto nel senso
della potenza, quanto della durata al fuoco e quindi della velocità della reiterazione degli
spari, velocità in cui sia i francesi sia gli spagnoli si vantavano di primeggiare; quindi,
ribadiamo, pur dovendo certo concedere che ai suoi tempi si dovevano ormai ottenere anche
gittate superiori, ciò non ostante non riteniamo giustificate quelle lunghissime da lui pretese.
Anche le lunghezze delle canne indicate dal de Marchi differiscono alquanto, ma ciò è chiaro
perché regole ormai pacifiche al tempo del Collado, quali quella delle 32 bocche di lunghezza
per il genere delle colubrine, ai suoi tempi non erano state ancora formulate.
Passiamo ora alle maggiori caratteristiche delle singole bocche da fuoco di questo primo
genere, qui tratte perlopiù dal de Alaba y Wiamont e dall’Ufano perché di più chiara
esposizione, premettendo che si tratta di canne ormai tutte rinforzate, quindi dalle gettate
sensibilmente superiori a quelle delle canne più sottili e utilizzanti polveri più deboli che si
erano usate per i primi tre quarti del secolo precedente, inoltre che quelle più piccole, cioè
sino al passavolante da 16 libbre, fino a un quarto di secolo prima si erano ancora usate pure
con proiettili di piombo e infine che le gittate – molto indicative, come già spiegato - sono qui
calcolate in passi andanti civili, cioè da passi 2 e mezzo l’uno, come inteso dall’Ufano,
mentre, se ci fossimo basati su quelle del de Alaba y Wiamont, sarebbero state da intendersi
in passi andanti militari da tre piedi l’uno. Premettiamo ancora che tutte le distanze superiori
ai 6mila passi comuni o andanti che qui di seguito indichiamo come raggiungibili alla
massima elevazione sono in realtà sono teorici; in pratica, come affermava l’Ufano, nessuna
canna, nemmeno le più grosse e potenti, cioè le doppie colubrine e generalmente i basilischi,
potevano superare la massima distanza di una lega di Spagna, ossia di 6mila passi comuni
da due piedi e mezzo ciascuno.

Doppia colubrina o dragone.


Arma ora da 40 libbre di calibro, poco comune e usata perché poco maneggevole a causa
del suo gran peso; aveva una gittata di circa 700 passi comuni da 2 piedi e ½ ciascuno al
nivello (‘livello’) dell’anima, cioè tenuta perfettamente in orizzontale, di circa 750 a quella
minima elevazione detta del raso dei metalli e di circa 8.500 all’elevazione di 45 gradi. Le più
antiche, dette però ai loro tempi sempre solo colubrine, anche se erano più grosse
dell’ordinario, avevano raggiunto pure le 60 libbre e di tanto calibro – e anche di maggiore -
320
erano ancora alcune di quelle usate dai turchi; di colubrine da 60 era infatti dotato l’esercito
che nel gennaio del 1577 il sultano di Costantinopoli Amurat affidò al suo capitano generale
Mustafà Pascià perché facesse guerra alla Persia e ciò perché i turchi, poco versati in tutte le
arti meccaniche, come del resto tutti i mediorientali, cercavano di sopperire a tale mancanza
con la potenza delle misure mastodontiche. D’altra parte, come abbiamo già visto, alla metà
del secolo c’erano state tra le artiglierie del ducato di Ferrara – come del resto anche della
repubblica di Venezia - colubrine da 50 e persino da 100 e 125 libbre; comunque era appunto
dalle 40/45 libbre in su che si definivano ora non più colubrine bensì doppie colubrine o
dragoni o, se turchi, basilischi, intendendosi con questi nomi armi che avessero un calibro
duplice - o anche triplice e più - di quello del tipo ordinario.

Colubrina.
Lunga 32 bocche, cioè 16 piedi geometrici, il suo calibro variava molto poiché andava
teoricamente dalle 20 alle 38 libbre di peso della palla, ma essendo in realtà usata molto
quella da 24 e nel passato quelle da 30. La gittata teorica e approssimativa d’una colubrina di
medie dimensioni, ossia d’una dalle 25 alle 30 libbre di palla, era di circa 630 dei suddetti
passi communi a zero gradi d’elevazione (tiro di punto in bianco o al nivello dell’anima) e tra i
7.000 e i 7.500 di tutta volata, cioè a 6 punti di squadra equivalenti a 45 gradi, cioè alla
massima elevazione utile.

Mezza colubrina.
Era anche questa una canna lunga 32 bocche e dalle boccadure, cioè misure di bocca, molto
varie; c’erano infatti mezze colubrine da 10 a 18 libbre di palla, anche se era molto usata
quella da 12 e nel passato quelle da 15 o 16, e di conseguenza variava anche la sua gittata;
una mezza colubrina da 10 tirava comunque a circa 470 passi comuni a zero gradi e a circa
5.600 a 45. La definizione mezza colubrina è più tarda della metà del secolo e infatti allora
anche una bocca da 10 a 14 si definiva semplicemente colubrina. A Venezia s’usavano
anche mezze colubrine da 14 più lunghe e ricche di metallo delle ordinarie, le quali quindi,
rispetto a quelle si sarebbero potute definire teoricamente mezze colubrine bastarde, perché
questa era una qualifica che, come meglio poi spiegheremo, signicava sostanzialmente non
altro che bocca da fuoco dalla canna di minor lunghezza dell’ordinario e, di conseguenza,
anche dalla minor carica di polvere e dal più facile maneggio; anzi, era proprio per questi
vantaggi che le bocche da fuoco bastarde o basterdelle si facevano e apprezzavano.

Sagro.

321
Il nome appartiene a un rapace del genere dei falconi. Detto anche dai teorici talvolta quarto
di colubrina, il suo calibro andava dalle 7 alle 10 libbre di palla e aveva gittate di circa 370–
4.400 passi. Gli spagnoli lo chiamavano anche pieza de campagña, perché il più pratico tra
quelli di questo primo genere da portarsi appunto al seguito di un esercito.

Moiana.
Sebbene qualche autore della seconda metà del Cinquecento (vedi il Busca) considerasse
erroneamente questa bocca da fuoco come molto antica, essa era invece quella di più
recente invenzione e infatti nella prima metà di quello stesso secolo nessuno la menzionava;
forse il Busca si riferiva a un uso medievale del nome, di cui però non è rimasta a noi traccia.
Era una bocca da fuoco ideata per sostituire gli ormai obsoleti aspidi nell’uso di marina, sulle
navi e specie sulle anguste galere, ed era dello stesso calibro e degli stessi spessori del
sagro, ma in considerazione del limitato spazio di bordo, era di questo più corto di canna e
cioè era di lunghezza inferiore alle consuete 32 bocche, misurandone infatti generalmente
solo 24/26; ciò serviva perché fosse più agevole la carica e perché nel rinculare non
andasse a urtare negli alberi o nell’altre opere morte dei vascelli:

… E se ben il suo tiro è alquanto più corto di quello del sagro, nientedimeno nelle battaglie
navali sono di grande effetto (LT. Collado. Cit. P. 90.)

Non è questa bocca da fuoco assolutamente da confondersi con la moyenne francese della
seconda metà del Seicento, canna da 24 libbre di calibro, il cui nome però fu probabilmente
ripreso da quello appena descritto.

Passavolante o cerbottana.
Si trattava di un antenato sia del falcone sia della mezza colubrina, di una bocca da fuoco
medio-grande ma plombiera, quindi di concezione ancora medievale; si chiamava talvolta,
per la sua gran lunghezza, anche cerbottana, ma molto impropriamente, perché questa,
come il lettore ricorderà, era stata una delle prime bocche da fuoco a braga o a mascolo, che
dir si volesse, e inoltre di piccolo calibro. Era dei più svariati calibri, ma generalmente dalle 5
libbre alle 9, ma se n’erano usati anche da 16; era ricchissimo di metallo, ma non tanto per il
suo pur notevole spessore quanto per l’eccezionale lunghezza della sua canna, cioè per lo
più 48 bocche e a volte addirittura 50. Per queste sue principali caratteristiche, le quali si
riscontravano ora generalmente solo nelle piccole artiglierie, con questa bocca si usavano
palle di piombo con ‘anima’ di ferro molto di più di quelle di solo ferro e si dava di
conseguenza una carica di polvere molto più potente di quella dovuta alle altre medio-grandi
appartenenti a questo primo genere; infatti per essa, oltre a usarsi cariche di peso pari alla

322
palla di piombo, non s’adoperava la polvere grossa d’artiglieria bensì quella fina prevista per
gli archibugi, pistoletti e moschetti da braccio, polvere questa che, a parità di peso, era
notevolmente più potente di quella, come poi vedremo. Nel caso s’usassero palle di ferro
invece che di piombo, si dava una carica di polvere di peso un po’ superiore al peso della
palla; ma, poiché la sola relazione proporzionale tra carica di polvere e lunghezza di canna
non era, come già abbiamo visto, sufficiente all’ottenimento di una bocca da fuoco che tirasse
particolarmente lontano, essendo a ciò necessario anche un proporzionato spessore di
metallo, e poiché una canna molto lunga, come era appunto quella del passavolante, se fusa
con proporzionato spessore, avrebbe reso l’arma troppo pesante e quindi poco gestibile e
utilizzabile, la fabbricazione di questo tipo di bocca da fuoco fu dismesso nella seconda metà
del Cinquecento, continuandosi però poi a usare gli esemplari già esistenti, come si legge nel
Capo Bianco:

Il passavolante, per essere di una fattione (‘fattura’) molto più lunga di canna d’ogni altra
sorte d’artiglieria in rispetto alla sua bocca, il qual pezzo non è moderno ma antico, però
(‘perciò’) da esso si conseguirà gli suoi tiri lontanissimi; e questo l’ho veduto io, ritrovandomi
nel castello di Cattaro nella Dalmazia, essendo uno di detti passa volanti sopra un peritolo
(‘basamento’) girabile nel tempo della guerra contra il Turco (‘Guerra di Cipro’, 1570-1573),
del quale si servivano per tirare in alto alle cime di quelle altissime montagne di ponto in
bianco (‘con tiro rettilineo’), che con altra sorte de pezzi non se li haverebbe potuto arrivare
(‘raggiungere’). Questi sono pericolosissimi, il perché sono molto lunghi ed all’incontro hanno
poco fianco di metallo, che non possono resistere al tormento del fuoco.
Quel passavolante adunque che prima ho detto crepò in molti pezzi nello sbarrare e portò
mezo il corpo d’un bombardiere fuori del castello; la cosa è notoria. E sopra al detto peritolo li
posero un altro di detti passavolanti, il quale al dì d’hoggi si ritrova in detto castello, oltre che
in Zara ne creparono alquanti altri al tempo della predetta guerra. Ho io voluto dir questo per
fare a tutti palese il difetto di questa tal sorte di pezzi, acciò ogniuno si possa guardare,
occorrendo che gli capitino per le mani simil sorte di pezzi. (A. Capo Bianco. Cit. P. 17.)

Un passavolante particolarmente grosso e potente fu quello chiamato Il bufolo dai pisani e da


loro usato nella difesa della loro città dall’oppugnazione dei fiorentini nel 1499 (F.
Guicciardini. Cit.) e, che si trattasse di un tipo di pezzi potente, dal tiro violento e dalla lunga
gittata, si evince per esempio da un documento spagnolo del 1534, cioè dalla già ricordata
relazione di Andrés Igarcía. L’anno precedente questo famoso corsaro, il quale era diventato
re di Algeri, durante un suo viaggio di trasferimento a Costantinopoli, dove contava di
incontrare il sultano di allora e nel quale si faceva accompagnare da ben 33 vascelli corsari,
tra galere, galeotte e fuste, comandò che ci si fermasse a far acqua all’isola di Ponza;
senonché un gruppo di pescatori, vedendoli arrivare, corse a rifugiarsi in una torre costiera
molto forte e da lì cominciò a bersagliare, con molto successo, i vascelli nemci appunto con
un passavolante di cui la torre era dotata; una palla attraversò da prua a poppa tutta la galera
bastarda di comando, passando tra lo stesso Barbarossa e un suo garzone rinnegato addetto

323
alla sua persona e provocando ai due un terribile spavento che durò loro per tutto quel giorno
(de lo cual quedaron tan espantados que no se les quitó el miedo en todo aquel dia. In
Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. e segg. Tomo II. P. 383.
Madrid, 1843); non sembra dunque che il famoso corsaro Barbarossa fosse un uomo
particolamente coraggioso. Dopodiché 33 vascelli corsari, a ciò convinti da quel solo
passavolante, rinunziarono a far acqua a Ponza e andarono a farla a Ventotene (‘Benteta’),
isola però piccola e quindi scomoda da far prendere acqua a una così numerosa squadra.
Dalla seconda metà dei Cinquecento queste bocche da fuoco non si fonderanno però più,
perché saranno ormai considerate poco convenienti; se ne può vedere ancor’oggi un artistico
esemplare nell’armeria del Palazzo Ducale di Venezia, dove è però stato troppo
genericamente epigrafato come ‘colubrina’. Un passavolante piccolo, quindi da 5/6 libbre di
palla, aveva una gittata di 600–5.000 passi comuni.

Girif(f)alco o gerif(f)alco.
Era anche questo un antenato del falcone; era lungo circa 33 bocche e il suo calibro andava
dalle 6 alle 8 libbre di palla.

Mezzo sagro o falcone.


Detto talvolta anche falconetto in Spagna verso la metà del Cinquecento, era di calibro dalle
5 alle 7 libbre di palla, ma si usava perlopiù da 6, e dalla gittata di circa 280 – 3.300 passi, ma
perlopiù da 6, variabile non solo al variare del calibro come nelle altre bocche, ma anche
molto in relazione allo spessore del suo metallo e alla potenza della sua carica.

Falconetto.
Detto talvolta verso la metà del Cinquecento anche mezzo falconetto in Spagna, inoltre da
taluni saltamartino, nome lombardo di quella cavalletta color verde brillante chiamata una
volta gryllus viridis ora tettigonia viridissima, e dai teorici talvolta ottavo di colubrina, aveva un
calibro molto vario, da 2 e ½ a 4 libbre di palla, ma il più delle volte era da 3 e nel passato
anche da 4; alla metà del secolo erano state chiamate falconetti anche bocche più grandi da
5 o 6 libbre. Era lungo bocche 28 e la sua gittata era circa 250 – 3.100 passi, variabile per gli
stessi motivi detti della bocca precedente.

Ribadochino o rebadochino (dal fr. ribaudequin).


Bocca da fuoco obsoleta e già da tempo non più fabbricata, la quale sembra avesse ereditato
il nome da una più antica grossa balestra, era perlopiù di ferro e, come del resto, eccezion
fatta per la pistola d’arcione, tutte le bocche minori di questo primo genere, più lunga
324
dell’ordinarie 32 bocche, cioè in genere 36; tirava palle di ferro da 1 libbra (da 16 oncie) a 1 e
½, più spesso però di 1 libbra e ¼, oppure di piombo di 1 libbra e 14 oncie, ma questo solo
negli ultimi tempi, perché infatti nel Medioevo, chiamata in Francia serpentine, era stata a
palle di pietra da uno a due pollici di calibro; era corredata da più camere di riserva ed era
stata quindi allora in effetti un piccolo veuglaire; ma piccolo per il calibro e non per la
lunghezza, superando questa in genere i 30 pollici. S’adoperava accoppiata con un’altra
uguale, ambedue affustate sulla stessa carretta-affusto, detta questa in fr. ribaudeau e perciò
nella prima metà del Cinquecento in Francia, oltre a trasformarsi in bocca da fuoco a palla di
ferro, il suo nome da serpentine si era per sineddoche trasformato in ribaudequin. Trattandosi
d’una canna di ferro, cioè d’un materiale relativamente morbido e cedevole, si dava una
carica di polvere inferiore al peso della palla, elevabile però al peso-palla in quei pochi di
bronzo che si potessero talvolta reperire. Gittata 220 – 950 (ma anche 2.550, se fatte di
bronzo.

Smeriglio o smerillo o moschetto da braga.


Chiamandosi talvolta ancora con il vecchio nome di spingarda, era generalmente
incavallettato e anch’esso più lungo dell’ordinario, in genere 37 bocche. Il suo nome, come
abbiamo già accennato, è quello d’un rapace del genere dei falchi, piccolo, grazioso e
combattivo, il quale era addestrato soprattutto alla caccia dei colombi. Molto usato, per la sua
maneggevolezza, a bordo di galere e altri vascelli armati aveva un calibro che andava da 6
oncie a 1 libbra di palla di ferro, ma più spesso da 10 oncie (da 15, se di piombo), ma nel
passato sino a 2 libbre; quelli da 1 libbra (da 12 oncie però) con carica di 6 oncie di polvere
fina erano i più usati dai veneziani. Era anche l’arma d’addestramento degli scolari delle
scuole d’artiglieria alla quale si passava quando ci si era sufficientemente impratichiti del
moschetto da giuoco. Era lungo dalle 37 alle 44 bocche e si distingueva dagli altri per la
retrocarica da mascolo, caratteristica di cui parleremo più avanti. Gittata 170–1.940.

Organo (fr. perdrisseau).


Artiglieria composta di molteplici piccole canne poste in semplice serie orizzontale; quando
posto in elevazione si poteva considerare antenato della moderna katyusha; era utile
soprattutto contro la cavalleria.

Moschetto da giuoco.
Il nome viene dal tardo latino musc(h)etus, detto anche muscardus, un tipo di falchetto che la
falconeria addestrava a intercettare le fastidiose mosche, attraverso l’uso che negli eserciti

325
medievali già si faceva del nome muschetta a indicare un tipo di strale da ballista più
elaborato degli ordinari:

… È anche possibile che queste stesse baliste potessero tirare strali comunemente chiamati
"muschette" (Potest praeterea fieri quod haec eadem ballistae tela possent trahere, quae
‘muschettae’ vulgariter appellantur. (M. Sanudo, Diarii. LT.2 part.4).

Dello stesso suddetto strale l’altro Marin Sanudo, quello detto Il Vecchio, scriveva invece che
trattavasi in effetti di un tipo che si sarebbe dovuto usare solo per una particolare balestra: …

... ma le giuste balestre a cui queste ‘moschette’ sono propriamente destinate, sono le
balestre che si chiamano ‘balestre da petti’ (sed rectæ balistæ quibus istæ muschetæ proprie
deputantur, sunt balistæ, quæ balistae a pectoribus nuncupantur (Cit. P. 81).

Insomma balestre che non si usavano poggiandole alla spalla ma al petto. Da quanto si legge
nel de Bruyn, sembrerebbe che questo nome sia stato poi attribuito per la prima volta a
un’arma da fuoco dagli spagnoli. Canna nominalmente da 1 libbra di calibro ma
ordinariamente da 14 once, usata a Venezia per l’esercitazione e per l’istruzione degli allievi
della scuola dei bombardieri e degli artiglieri più giovani e meno ammaestrati; per tal motivo,
cioè per l’uso continuo da esercitazione, si facevano molto ricchi di metallo, cioè di bronzo più
spesso della norma. I veneziani lo chiamavano impropriamente anche falconetto da gioco
perché, fuso per un calibro maggiorato, s’usava correntemente sulle galere al posto del
falconetto. A causa dell’intenso uso che se ne faceva, in tali esercitazioni s’usavano
generalmente con cariche di polvere inferiori a quella che sarebbe stata loro propria e talvolta
anche fatte di polvere grossa, cioè meno potente.

Moschetto o moschettone da posta; dicevasi anche da muro e da rampo e a cavallo.


Il moschetto o moschettone da posta (td. Haackenbüchsse), detto anche, specie nei primi
tempi, archibugio o archibug(g)ione da posta, sparava proiettili di ferro o di piombo da 2 a 6
oncie, ma il più usato era quelli da 2, mentre in Spagna, dove la libbra era però, come
sappiamo, divisibile in 16 oncie, era preferiti da oncie 5, se di ferro, e 7 ½, se di piombo;
l’Ufano invece li vorrà da 4 a 6 oncie, se di ferro, e quindi fino a 9, se di piombo. Era lungo da
38 a 40 bocche, si caricava con polvere fina d’archibugio in quantità pari ai ¾ del peso della
sua palla (in Spagna 4/4) ed era chiamato anche moschettone a cavallo, perché per lo più
posto su un cavalletto girevole e non sulle normali casse (fr. affusts) destinate alle bocche più
grandi; alcuni erano però provvisti non di cavalletto vero e proprio bensì di un rampo
(‘forcina’), sul quale s’appoggiava per poterne sopportare il peso durante il puntamento e lo
sparo. Era una piccola artiglieria molto utile anche perché si poteva trasportare a dorso di
bestia e l’Isacchi (cit.) la consigliava anche montata su carrozze da campagna per difendere
la cavalleria. Gittatta 125 – 1.500 passi communi. Specie da parte degli spagnoli si
326
distinguevano però in questo tipo d’arma due sotto-tipi più piccoli e cioè uno, il maggiore,
generalmente da 2 oncie e ½ di calibro di ferro o di 3 e ¼ se invece di calibro di piombo, dalle
gitatte di 100 - 1.150 passi e dal peso di 130 libbre, e lo chiamavano mosquete ordinario de
quijote (‘da cosciale’), forse perché di peso sufficientemente limitato da poter esser
trasportato per brevi tratti a cavallo, poggiato a traverso sui cosciali di ferro del cavaliere,
insomma come una normale carabina da cavalleria; l’altro era l’archibugio di bronzo o
spingarda, la canna di bronzo più piccola in assoluto di questo primo genere dell’artiglieria,
arma da 1 oncia e ¼ di palla di ferro oppure da 1 oncia e 14 adarmes di palla di piombo, dal
peso di poco più di 80 libbre e dalle gittate di 75 – 900 passi. Ambedue si caricavano come le
canne precedenti e cioè con lo stesso peso della palla in polvere fina. Il Sardi ne consigliava
molti per la difesa delle piazze:

… i moschettoni a cavallo, che in alcune parti o da qualcheduno bombardiero o soldato sono


chiamati spingarde, questi in debita distanzia per difendere la breccia e molestare i
bombardieri sono ottimi, perché con poca munizione di polvere e di palla e con facilità fanno
tiri gagliardi e sicuri; e di questi cene doveria essere un buono numero con i suoi cavalletti.
(P. Sardi. Cit. P. 267.)

Tutte le canne, se non rinforzate, offrivano gittate di circa un 10% inferiori a quanto suddetto.
Per quanto riguarda poi le bastarde, ossia le canne di pari o maggior calibro - ma anche di
minor lunghezza delle ordinarie, esse avevano gli stessi spessori di metallo che avevano
quelle non bastarde o appunto ordinarie e quindi, a parità di calibro, avrebbero anche dovuto
offrire le stesse rese; ma non era così e infatti le loro gittate, se si trattava di bastarde
rinforzate, equivalevano all’incirca a quelle delle suddette canne ordinarie non rinforzate e, se
erano invece bastarde sensiglie (‘semplici, ordinarie’), diminuivano ancora di circa un 10%
abbondante. Perché questo avveniva? Il motivo era che, pur in parità sia di spessori sia di
calibro, si usavano nelle bastarde cariche di polvere di quantità inferiori, in quanto, a causa
della minor lunghezza, le cariche ordinarie non avrebbero avuto il tempo di bruciare
completamente prima dell’uscita del proiettile dalla bocca e quindi una certa percentuale
d’essa sarebbe andata sprecata; ma qual’era allora l’utilità di queste bocche bastarde? Il
vantaggio che offrivano stava quindi, come già accennato, sia nella sufficienza di minori
quantità di polvere sia soprattutto in una maggior maneggevolezza sia nel caricarle (come nel
caso delle moiane, insomma) sia nel trainarle e quindi si poteva per esempio adattarle all’uso
nei vascelli o negli stretti fianchi dei baluardi. I nomi pratici che questo stesso autore dava di
dette canne bastarde erano i seguenti:

Doppia colubrina bastarda o basilisco.


Colobrina bastarda o serpentino.
Mezza colubrina bastarda o aspide.

327
Sagro bastardo o pelicano.
Falconetto bastardo.
Ribadocchino bastardo.
Smeriglio bastardo.
Moschettone bastardo.
Moschetto bastardo.
Archibugio bastardo.

Se, per quanto riguarda i primi quattro, quei nomi di animali fossero o non fossero molto usati
nella pratica non sappiamo; l’aspide o aspido, come già sappiamo, era stato però già da gran
tempo sostituito dalla moiana. Ma l’Ufano prendeva in considerazione anche canne che
avessero le difformità contrarie delle precedenti e cioè quelle più lunghe dell’ordinario ma di
minor calibro dell’ordinario e le chiamava culebrinas extraordinarias; queste, sempre divisibili
in sensiglie e rinforzate, mantenevano gli stessi spessori delle canne ordinarie e bastarde e
avevano gittate paragonabili a quelle delle seconde. Anche per queste ultime il predetto
autore fornisce dei nomi che avrebbero dovuto essere quelli usati nella pratica dagli artiglieri
spagnoli e sono i seguenti:

Doppia colubina straordinaria o dragone volante.


Colubrina straordinaria o colubrina serena o passamuro.
Mezza colubrina straordinaria o merlina o passavolante.
Sacro straordinario o cerbottana o siringa.
Falconetto straordinario.
Ribadocchino straordinario o passatore.
Smeriglio straordinario o girifalco o grifone.
Moschettone da posta o scacciamosche.
Moschetto di cosciale straordinario.
Archibugio straordinario.

A proposito di smerigli e moschetti da posta, il de Biringuccis, il quale scriveva all’inizio del


Cinquecento, ci segnala già d’allora prodromi di quell’artiglieria leggera di campagna che
poco più tardi, ossia verso la metà del secolo, sarà con tanta efficacia usata nelle guerre di
Piemonte dal famoso capitano di condotta imperiale Cesare Maggi da Napoli:

… fannosi appresso smerigli e moschetti, strumenti adatti a poter tirare spesso, logran
(‘logorano, consumano’) poco di polvere e son maneggiabili quasi ad ogni huomo, per il che
volontieri li capitani delle fantarie gli portano in campagna… (V. de Biringuccis. Cit. P. 174v.)

In effetti, secondo il Giovio e altri autori, il primo ad adoperare artiglieria minuta in battaglia
campale era stato in Italia Bartolomeo Coglione (cognome che poi dalla bigotta storiografia
italiana e francese sarà falsato in ‘Colleoni’; 1400-1475), quando questo famoso capitano di
condotta era capitano generale dell’esercito della Serenissima, e cioè per la prima volta alla
battaglia della Riccardina o della Molinella, episodio della guerra di Romagna avvenuto il 25
luglio 1467; si trattava di spingarde di tre cubiti di lunghezza, le quali, poste su dei carrelli,

328
seguivano l’esercito veneziano e sparavano palle di pietra delle dimensioni di una gran
prugna (Elogi etc.). Tornando però al de Biringuccis e al suo tempo, diremo che egli, come
del resto anche il Cataneo, si riferiva, per quanto attiene al moschetto, a una canna con
normali cassa e ruote e più grosso del moschettone a cavallo, cioè a una bocca da fuoco
dall’una alle due libbre di calibro che egli assimila allo smeriglio e alle sue prestazioni, che il
Cataneo chiama moschetto da gioco e il de Marchi semplicemente moschetto, in quanto
probabilmente molto usato nelle gare private di tiro a segno a cui accenniamo a proposito
delle scuole d’artiglieria. Il De Biringuccis, trattando delle più piccole artiglierie, ci informa che,
come del resto anche le piccole canne da fuoco da fanteria e cavalleria, si erano inizialmente
fatte di bronzo come le maggiori:

… archibugi da mura, da forcella e da braccia e questi già come le altre artigliarie si solevano
tragittar di bronzo; hoggi, perché sien più leggieri e perché ancho sien più sicuri a chi gli
adopra si fan di ferro alla fabrica… (ib.)

Il de Biringuccis accenna qui, come abbiamo appena visto, agli archibugi da braccia, ma
d’archibugi, moschetti, carabine e pistoletti, insomma alle armi portatili – queste non di
bronzo, bensì di ferro - usate dalla fanteria e dalla cavalleria e delle quali tratteremo quindi
soprattutto nel nostro testo che sarà a queste dedicato; ma, poiché non sappiamo tra quanti
anni esso potrà veder la luce, visto che, concluso il presente, ci dedicheremo prima a quello
sulla guerra marittima, ci sembra opportuno qui anticiparne qualcosa soprattutto in tema di
etimologia, tema che ci ha qui già più volte impegnato.

Armi da fuoco in ferro della fanteria e della cavalleria.


Moschetto di fanteria.
Archibugio di fanteria e di fanteria montata.
Carabina di cavalleria.
Archibugietto di cavalleria o pistola d’arcione.

Quando si era passati dallo schioppetto, arma dall’accensione a semplice accostamento


manuale della fiamma, all’archibuso, arma d’invenzione tedesca ad accostamento invece a
serpentino? Nella sua Provvisione prima per le fanterie del 6 dicembre 1506 il Machiavelli
ancora prescriveva lo schioppetto ai fanti fiorentini:

… Tutti per difesa abbino almeno un petto di ferro e per offesa in ogni cento fantisieno
almeno settanta lancie e dieci scoppietti ed i restanti possino portare balestre, spiedi, ronche,
targoni e spade, come meglio parrà loro. Possino nondimeno ordinare tre o quattro bandiere -
o più - tutte di scoppiettieri. (Nicolò Machiavelli, Provvisione prima per le fanterie del 6
dicembre 1506. In Opere, vol. II. Firenze, 1961. P. 386.)

329
Abbiamo appena visto parlarsi invece di archibugi da braccia nella predetta famosa opera del
de Biringuccis; nel 1546 abbiamo poi una prima descrizione della nuova arma, riportata
dall’Angelucci, in un documento del 15 agosto 1546, allora inedito; si trattava del contratto
per la fornitura di 4mila archibugi nuovi sottoscritto dall’armaiolo di Gardone Venturino del
Chino al suo committente Pier Luigi Farnese:

… E più promette videlicet di dar detti archibusi bene trapanati, netti e puliti drento e fuori,
senza una macula al mondo, diritti, giusti, boni recipienti, e siano di bonissimo ferro t sicuri da
star a ogni prova solita e del garbo come se li darà la forma. Che abbiano la sua vida col
fondello, con la coda e mira, con li serpentini, come sarà la mostra (‘il modello’) che se li
darà, e siano solii (‘soliti’), col buso e focone trapanati e col focone e mire da mettere e
levare, con la sua bacchetta, raschiatore e forme, con li fiaschi e fiaschini armati, con li
cantoni tutti quatro a detti fiaschi, con le armature più lunghe che la mostra e bene inchiodati,
con la misura solia (‘solita’) col capeleto. E più che detti archibusi habbino le casse de noce
de legno bene astagionate, del modello e foggia che li sarà dato (A. Angelucci, Il tiro a segno
in Italia ecc. P. 8. Torino, 1863).

Il del Chino s’impegnava a consegnarne almeno seicento al mese. Precisiamo, tanto per
completare il tema dell’etimologia delle armi da fuoco rinascimentali, che già nel Seicento si
discuteva del vero significato etimologico del nome archibugio. Tre erano dunque i tipi
d’archibugio in uso e che abbiamo appena ricordato, cioè da braccia, da rampo e da
cavalletto (G. Maggi, Della fortificazione delle città). Il secondo si diceva in tedesco
Hackenbüchße (‘canna da rampo’), mentre il terzo faceva in origine parte di quella piccola
artiglieria da postazione che in Italia si diceva appunto da posta (archibugi o archibugioni o
moschetti o moschettoni da posta ossia da cavalletto). Ciò spiega perché poi anche
l’archibugio delle fanterie tedesche si chiamasse nei primi tempi, cioè nella prima metà del
Cinquecento, Hacken e di conseguenza gli archibugieri Hackenschützen; evidentemente era
quell’arma ai suoi inizi ancora troppo pesante perché non necessitasse anch’essa di una
forcina d’appoggio; in seguito, quando sarà più leggera e la forcina non più necessaria, sarà
infatti chiamata semplicemente e molto più propriamente Handbüchße (‘canna da fuoco
manuale’), anche se poi si usava abbreviare il nome semplicemente in Büchße. Il Crescenzio
fu il primo a pensare che lo stesso nome archibuso o archibugio derivasse da quel termine
germanico, magari tramite il francese arquebuse; non si chiese però perché francesi,
spagnoli e italiani rinunciassero contemporaneamente ai nomi che tradizionalmente davano
ai loro schioppetti per assumere tutti quello tedesco; evidentemente lo schioppetto tedesco
doveva presentare qualche importante innovazione presto accettata da tutti e non poteva
trattarsi che dell’accensione a grillo e serpentino, congegno che quindi, secondo queste
congetture, sarebbe stato ideato in Germania. Solo l’Inghilterra, dove l’arma da fuoco di
fanteria continuò a chiamarsi caleever o caliver, cioè con lo stesso nome precedentemente

330
usato in Francia, e non assunse mai, nemmeno temporaneamente, quello di hakbutte o
hakbusse con cui gli inglesi traducevano quello tedesco, almeno a quanto risulta sin oggi.
Il Sardi ritenne invece erroneamente che il predetto nome dovesse essere non il germanismo
individuato dal Crescenzio bensì il risultato di una contaminazione tra il latino arcus e
appunto il germanico Büchße, interpretazione molto discutibile che già troviamo nel
rinascimentale Alessandro Peanzio Benedetti (tormentorum genus quoddam, quod
arcusperforatos uocant militari uerbo); quindi, a suo dire, archibugio significherebbe ‘canna-
arco’. Ma chi potrebbe dire di vedere un arco nella struttura di quell’arma? Per fare un
esempio calzante, il nome arcoballista (più tardi semplificato in ballista e balestra) è invece
ben giustificato in quanto definisce un’arma composta fatta appunto di un arco e da una
ballista, ossia da una spessa stecca di legno recante intagliata la guida scanalata per il lancio
delle pallottole; sì perché c’è collateralmente da spiegare che l’arcobalestra si chiamava nel
medioevo anche arcus a balottis (A. Angelucci, Gli schiopp. milt. P. 27, nota 2), perché, come
abbiamo già accennato, essa era stata inventata per far concorrenza non tanto all’arco per il
lancio di frecce quanto alla frombola, di cui era evoluzione tecnologica, quindi per il lancio di
pallottole di piombo o di ferro, e infatti era appunto per questi proiettili che era stato
originariamente ideato il suo canale ligneo di lancio e non per le frecce da arco. Ma
l’archibugio un arco proprio non ce l’aveva.
Si potrebbe allora come terza ipotesi (offerta questa volta da noi), pensare a un’etimologia
naturalistica e cioè che, come nel caso di tante altre bocche da fuoco di quel periodo (sagro,
smeriglio, falcone, moschetto, tarabuso, serpentina, colombrina ecc.), si tratti di un nome
ispirato dalla falconeria; quindi, nel caso specifico, dal tardo latino archibuteo (poi anche
buteo-buteo o buteo vulgaris), cioè il nome della rapace poiana o bozzago, vale a dire una
sorta di falchetto che era grande cacciatore di topi e vipere; un tal processo linguistico
apparirebbe molto chiaro appunto nella lingua francese dove, più antico di arquebuse,
troviamo appunto arquebut (de Cleirac) e inoltre nel francesismo napoletano ribotto
(‘archibugio’), questo ancora usato in Calabria. Per fare un esempio molto simile, fu con ogni
probabilità di un tal conio francese anche il consimile nome tarabuso, tipo d’airone dal corpo
tarchiato e detto anche sgarza, airone stellare o trombotto, una volta comune in Italia, e il cui
nome scientifico è botaurus stellaris, nome che fu scelto appunto per un'altra bocca
d’artiglieria da sparo medioevale da tiro d’arcata, cioè per il mortaro primigenio, largo di
bocca e corto di canna, meglio conosciuto nel Rinascimento come trabucco, in quanto erede
del congegno lapidante di ugual nome usata prima dell’invenzione della polvere e di cui
abbiamo già detto. A dire di alcuni, il trabucco si distingueva dal mortaro perché aveva gli
orecchioni posti non, come quello, a circa ⅔ della canna, cioè all’inizio della camera, bensì
all’estremità della culatta e quindi della stessa canna, per cui allo sparo, invece di soffrire
331
d’un mancato rinculo come il mortaro, reagiva traboccando (‘bilicando, bascullando)
all’indietro e procurando così un tiro dalla precisione troppo aleatoria; ma si trattava di una
distinzione poco sostenuta, usandosi perlopiù i due termini in completa sinonimia, tanto più
che presto si passerà a preferire un terzo tipo di mortari, cioè dalle canne tenute non più in
tradizionali casse, dove bilicavano sugli orecchioni, bensì inzoccate quasi in verticale. La
suddetta ipotesi naturalistica è comunque suggestiva ma debole, perché i vari nomi
ornitologici che furono scelti per le artiglierie furono sempre volgari e mai ne fu scelto uno
scientifico; insomma si trattava di nomi tratti dalla falconeria o dalle attività venatorie ma mai
da un trattato di zoologia.
Infine, come quarta ipotesi (anch’essa di nostra congettura), si potrebbe pensare a
un’etimologia di natura squisitamente tecnica; cioèle prime citazioni di archibugi che troviamo
negli inventari d’artiglieria medievali ci dicono, come abbiamo visto, di armi fatte di due pezzi
come erano state le vecchie bombarde petriere, ma con la differenza che in queste i due
pezzi erano stati la tromba (apicale) e la coda o gola o cannone (terminale); invece le
artiglierie piccole plombiere fatte in più pezzi e chiamate archibugi (dal lt. arca, ‘cassetta’ e
dal t. Büchße, ‘canna’) erano costituite appunto da una piccola culatta asportabile, detta
tecnicamente coda e letterariamente arca, che si riempiva di polvere a parte, cioè secondo il
sistema di caricamento delle vecchie bombarde, e dalla tromba o canna, dovendosi infatti
questi due pezzi avvitare insieme come i due della bombarda. Insomma i primi archibugi da
porto individuale di fanteria, così chiamati poiché strutturalmente ispirati agli archibugi da
posta, i quali infatti da allora furono sempre più spesso chiamati archibugioni per distinguerli
da questi piccoli da braccia nuovamente inventati, furono anch’essi armi a carica da mascolo
ed è per questo motivo che il Carpesano, descrivendo la battaglia di Pavia, faceva una netta
distinzione tra fanti schioppettieri e fanti archibugieri, asserendo che gli imperiali guidati dal
marchese di Pescara avevano colà sfoggiato i secondi per la prima volta; infatti, se la
differenza tra le due armi fosse consistita solo nell’introduzione del serpentino cioè solo in
differenti tipi di tenuta del miccio, il Carpesano non avrebbe certo fatto quella netta distinzione
in due tipi di fanti diversi; e poi non sappiamo nemmeno se a Pavia il serpentino fosse già in
uso. Il nome sarebbe poi stato in Germania contaminato in Hacken(büchße).
Resisi però evidentemente e presto conto che quel tipo di carica era troppo macchinoso per
l’agilità operativa che si richiedeva alla fanteria e, approfittandosi forse contestualmente
appunto dell’invenzione del serpentino, congegno che quell’agilità invece favoriva, si ritornò a
quella semplice carica dalla bocca che era stata dello schioppetto, pur conservandosi il
nuovo nome di archibugio perché ancora differenziantesi dall’arma precedente, ora però per
la nuova accensione a serpentino. Quando precisamente si verificarono questi ulteriori
momenti evolutivi dell’arma di fanteria non sappiamo, ma la circostanza che non si riesca a
332
distinguerli storicamente dal precedente, cioè da quel periodo che potremmo definire di prova
sperimentale dell’archibugio da mascolo, vuol dire che lo seguirono molto presto, provocando
in ogni caso la definitiva sparizione dai campi di battaglia dello schioppetto italiano (più tardi
archibugio manesco), della coulevrine à main francese ( più tardi arquebuse à main) e della
espingarda spagnola, nomi tuttì sostituiti da quello d’archibugio; fece eccezione l’arma di
fanteria tedesca che, pur anch’essa sostituita dall’archibugio, mantenne il suo nome
medievale di (Hand)büchße.
Più tardi, a partire dal 1567, l’archibugio sarà affiancato dal moschetto di Biscaglia, arma più
greve da usarsi infatti con l’ausilio d’una forcina o forchetta d’appoggio, poi attorno all’anno
1700 sarà sostituita anch’esso e cioè dal fucile, arma questa con accensione a pietra focaia e
accialino; ma quella delle armi da fuoco della fanteria è altra storia e la racconteremo in
un’altra occasione.
La carabina, arma da cavalleria allora detta in italiano cherubina, poi cherobina (infatti ancora
oggi in calabrese si dice carubina), sembra prendesse il suo nome da un omonimo
particolare antico congegno bellico (ctm. carabina, carrebina), forse giaculatorio forse
lapidante, in ogni caso una variazione dei tipi già descritti, e questa a sua volta dai cherubini,
ossia dai mitici e ben noti tori alati mesopotamici; non era altro che una pistola dalla canna
molto lunga (infatti in td. langes Rohr, più tardi Carabiner) ma comunque anch’essa
annoverata legalmente tra le armi corte, proibite ai civili), quindi come questa era a ruota e
mina (‘solfuro di ferro in forma di pirite o di marcasite’) ed era stata ideata in Fiandra per
aumentare la gittata del fuoco di cavalleria; infatti generalmente era di un calibro maggiore di
quello della pistola [td. Pistohl ma in precedenza anche Faustbüchße (più tardi Faustrohr
e Pistol), ‘canna da pugno’], ossia intermedio tra quello dell’archibugio e quello del
moschetto di fanteria. Si trattava quindi sostanzialmente di un’arma molto diversa da quel
corto fucile di tre piedi, ancora più corto del moschettone e variamente rigato (td. gezogen), a
carica forzata con palla di ferro e a lunga gittata, detto dapprima - e per i motivi che abbiamo
già visto - anch’esso carabina e più tardi moschetto e del quale saranno dotate le cavallerie
europee a partire dal diciottesimo secolo. Da essa presero a loro volta il nome i carabini,
ossia i cavalli leggieri borgognoni (‘fiammingo-valloni’) e poi anche francesi, che ne erano
dotati; il che non avvenne invece per i cavalli leggieri, i quali avevano portato dapprima, ma
per breve tempo, il lungo l’archibugio di fanteria e dopo una sua versione più corta, fatta
apposta per loro e chiamata moschettone, essendo essi infatti stati in Francia battezzati
dragoni, nome anche questo sì di bocche da fuoco e cioè delle doppie colubrine, grosse
artiglierie di cui non potevano certo andar armati singolarmente dei soldati, a cavallo o a piedi
che fossero.

333
Verso il 1560 il napoletano Bombino propugnava una fanteria in cui gli archibugieri fossero il
50% e li voleva armati non d’archibugio, bensì appunto di carabina:
… l’esercito, il quale hoggidì deve esser armato la metà d’archibuggeria con li focili alla
calavrese e tedesca, perché il vento e la pioggia non l’offende… (M. Bernardino Bombino,
Discorsi intorno il governo della guerra etc. Napoli, 1556.)

Anche se il Bombino li dice così, non vuol dire però che le armi a ruota (it. schioppi e
archibusi da pietra; archibugetti da rota; tlt. sclopi lapidei; sp. escopetas de rueda, ma
comunemente escopetas) fossero ai suoi tempi ancora particolarmente usate solo in
Germania e in Calabria, perché già le troviamo proibite nel porto civile in un bando del duca
di Ferrara Alfonso I da Este del 14 febbraio 1522 pubblicato dal solito insostituibile Angelucci:

… commanda e vole sua Excellenzia che niuno, cossì terriero come forastiero, possi portar in
dicta sua citade, né de dì né de nocte, balestre, scoppetti da fuogo – che cerca el portare
quelli da preda o (‘ossia’) da fuoco morto se reporta a quanto per altre cride sua Excellenzia
ha statuito – ecc. (Cit. P. 308.)

Nei decenni successivi i successori di Alfonso promulgheranno ricorrentemente bandi dello


stesso tenore. Per esempio una grida ferrarese del 9 gennaio 1573 proibirà non solo il porto
ma anche la detenzione di certi archibugietti detti in td. Püffer, cioè di quegli archibugi che
sono sì curti e piccioli che si possono portare ne’ calzoni o maniche o in altro modo coperti e
segreti (ib.) Ed è proprio a causa dell’introduzione di queste armi da fuoco molto corte e
facilmente occultabili che nacque nel Rinascimento l’abitudine – anzi l’obbligo – di scoprirsi il
capo al cospetto di principi e sovrani perché ci si voleva così accertare che tra i visitatori non
si nascondesse magari un attentatore che tenesse una simile arma corta nascosta sotto il
cappello, obbligo che diventerà poi in tutta Europa una consuetudine universalmente estesa,
ora con il semplice significato di deferente e rispettoso saluto. Da questa formalità, la quale
allora si diceva riverenza del cappello, da farsi al cospetto del sovrano erano esonerati i
Grandi di Spagna.
La pistola (dal lt. fistula, ‘tubo, canna’) o pistoletto o pistone o anche terzaruolo, era
anch’essa un’arma a ruota e una delle pochissime da polvere del tempo che non
prendessero il loro nome da quello d’un animale; né tanto meno c’entra qualcosa la città di
Pistoia, come ingenuamente asseriva il de la Chesnaye. Il nome di pistone era una
corruzione del primo dovuta alla circostanza che, come del resto anche nelle altre da polvere,
si dovevano in essa pigiare, comprimere con la bacchetta carica e proiettile e quello di
terzaruolo dall’essere la sua canna all’incirca un terzo di quella dell’archibugio da ruota della
cavalleria, detto comunemente carabina. I tipi di pistola non da cavalleria ma più corti, del
genere cioè di quelli odierni da porto personale, si dicevano archibusetti ed erano
proibitissimi ai più perché facilmente occultabili.

334
Il Sardi si domandava come mai, tra i vari nomi di rapaci usati per le prime artiglierie,
mancasse quello dell’aquila, cioè della regina degli uccelli da preda, e si dava una risposta
fantasiosa, cioè che gli antichi maestri fonditori avessero voluto sì adoperare nomi di rapaci,
ma di rapaci addomesticabili, quali appunto erano i falchi o falconi e ciò perché le artiglierie
dovevano anch’esse essere al servizio dell’uomo. Il de Biringuccis non era però d’accordo
con i suoi predecessori per aver scelto tale tipologia di nomi:

… li quali nomi, se per questo l’han fatto, mi par che di gran longa di quella che se lo
conveniva habbino mancato, perché non a(d) animali ma (a) demoni dell’inferno assimigliar
gli dovevano, per esser questi fulgori de gli uomini come son quelli che vengan dal cielo di
Giove. (V. de Biringuccis. Cit. P. 80v.)

La gratuita denigrazione degli animali era dunque già in uso all’ora, così come oggi ancora
s’usa definire criminali particolarmente efferati ‘belve’, confondendo così molto
impropriamente l’anormale con il normale, l’innaturale con il naturale e offendendo quindi
indecentemente la Creazione. Non bisogna poi confondere i nomi che contraddistinguevano i
vari generi e tipi di bocche da fuoco con i nomi propri particolari, quasi affettivi, che a volte
erano dati a singole bocche; per esempio nel 1543 tra i cannoni da campagna dell’esercito
del conte di Alcaudete, nominato capitano generale d’Africa da Carlo V, c’era un cannone
che era chiamato El Salvaje (il Selvaggio’).

335
Capitolo VIII.
Artiglierie del secondo genere ovvero dei cannoni da batteria.

Il nome cannone viene dal francese canon à tron, ossia ‘canna da sparo’ (c’era però anche il
sinonimo bâton de feu), mentre l’inglese gun, talvolta latinizzato in gunna, non è altro che la
versione anglosassone del lt. canna – e non da mangano, come hanno pensato alcuni,
perché questa è arma completamente diversa; quindi detto nome, pur attribuendosi d’ora in
avanti in quest’opera solo a grosse bocche da fuoco, significava nel Medio Evo canna o tubo
da fuoco in generale e stava dunque a significare allora anche la canna della pistola o
dell’archibugio, si diceva infatti allora correttamente anche cannone della pistola o cannone
dell’archibugio. Poiché il predetto nome fu adottato anche dai tedeschi (kanone), c’è da
pensare che questo secondo genere d’artiglieria sia d’invenzione francese ed è certo che in
Italia fu introdotto appunto da Carlo VIII di Francia in occasione della sua famosa venuta del
1493; gli italiani li chiamarono cannoni serpentini, forse perché molto più sottili delle solite
bombarde. Sino allora gli italiani avevano sì visto bocche da fuoco sparanti palle di ferro e ciò
anche quasi due secoli prima, come abbiamo già detto, ma mai trainate da leggeri carrelli e
da cavalli, usandosi nella penisola ancora solamente la grossa artiglieria da sparo
medioevale, la quale, come abbiamo già detto, si divideva generalmemte in bombarde a palla
di pietra e serpentine a palla di piombo. Ecco a tal proposito un brano tratto dalla relazione
della Francia di Carlo VIII redatta dal secretario (‘console, residente’) veneziano Zaccaria
Contarini nel 1492 e quindi molto interessante perché immediatamente precedente alla
famosa discesa di quel re in Italia:

… Le artiglierie del re sono bombarde che tirano balotte di ferro, che, se fossero di pietra,
pesariano circa libre cento; le quali sono assestate su carrette con un artificio mirabile, in
modo che, senza zocchi ed altri preparamenti da portare, tirano i loro colpi benissimo; poi
spingarde assestate su carrette ‘sine fine dicentes’. Le quali artiglierie le adoperano in due
casi; uno si è quando il campo è alloggiato, che fanno i ripari di queste carrette e fanno il
campo inespugnabile; l’altro quando vogliono debellar qualche luogo, che ruinano le mura
con queste medesime bombarde molto più facilmente ed in manco spazio di tempo che non
si faccia con le nostre grandi. E dicono che quando il re Alvise campeggiava ci volevano
trentamila cavalli a menar le sue artiglierie; a’ campi che ha fatto questo re (‘Carlo VIII’) c’è
voluto da circa dodicimila cavalli a menarle. (E. Albéri. Cit. S. I, v. IV, p. 23.)

Premesso che ovviamente il Contarini qui certamente sbaglia il raffronto dei pesi specifici tra
ferro e pietra, ci conferma però una circostanza importante che già conosciamo e cioè che le
carrette sulle quali viaggiavano le artiglierie di Carlo VIII servivano pure da affusti per
spararle. Sia il Giovio nel libro II sia il suo contemporaneo Guicciardini nel I delle loro
rispettive Historie confermeranno poi quanto descritto da questo diplomatico veneziano,
336
allorché descriveranno appunto l’esercito estremamente innovativo – il primo moderno - che i
francesi di Carlo VIII portarono in Italia; molto interessante è anche costatare che già allora i
transalpini avevano adottato un’uniformità di canne:

… Ma soprattutto portarono, con stupore e sbigottimento di tutti, più di trentasei artiglierie


curuli, le quali con gioghi con incredibile celerità sia per i terreni pianeggianti sia per quelli
aspri; con massima lunghezza di otto piedi, perdipiù con peso di (sole) seimila libbre di
bronzo, erano chiamate ‘cannoni’; esse emettevano da uguali canne una palla di ferro di
grandezza pari alla testa umana. (P. Giovio. Cit.)

… Ma i francesi, fabricando pezzi molto più espediti né d’altro che di bronzo, i quali
chiamavano ‘cannoni’, ed usando palle di ferro dove prima di pietra e senza comparazione
più grosse e di peso gravissimo s’usavano, li conducevano in su le carrette, tirate non da
buoi, come in Italia si costumava, ma da cavalli, con agilità tale d’huomini e d’istrumenti
deputati a questo servigio che quasi sempre al pari degli esserciti caminavano… (F.
Guicciardini. Cit. P. 25.)

Insomma, maestri dell’artiglieria da sparo medievale i tedeschi, ai tempi di Carlo VIII vengono
superati dall’intuizione e inventiva dei francesi, i quali fondano le basi dell’artiglieria moderna,
ma, assorbita quest’invenzione delle maneggevoli canne ferriere, subito i teutonici
riprenderanno il sopravvento, reimponendo la loro mai vecchia supremazia nell’arte della
fondizione; in Italia la genialità militare era rivolta invece, come si sa, soprattutto
all’architettura. Proprio come il termine ‘artiglieria’, del quale abbiamo già detto, e
contrariamente a quanto si possa pensare, anche il nome ‘batteria’ è molto più antico di
quello di ‘cannone’ e infatti lo troviamo già nel greco bizantino dell’Alto Medioevo, a
significare le macchine di legno che si usavano per assalire le mura delle città assediate, cioè
principalmente le torri di legno o elepoli o battifolli e le vinee o testuggini; dunque le epibatèria
[ἐπιβατήρια o ἐπιβατήρια μηχανήματα (gra. μηχάνηματα)] erano le ‘macchine assaltatrici’ che
si usavano prima dell’introduzione delle bocche da fuoco d’assedio (Suida, cit. Tomo I, p.
802).
L’invenzione delle predette bocche del secondo genere, ossia dei cannoni, derivò dalla
duplice esigenza, marittima da un canto, di canne proporzionalmente meno lunghe delle
colubrine e che potessero quindi rinculare più agevolmente nel limitato spazio di bordo,
senza finire con la culatta contro gli alberi, le corsie o addirittura contro le bocche da fuoco
del fianco opposto, e terrestre dall’altro, cioè di canne più leggere di quelle del primo genere
e che potessero pertanto essere meno difficilmente maneggiate e trasportate al seguito degli
eserciti, nelle lunghe marce attraverso i cammini aspri e fangosi della campagna. Tirarsi
dietro delle grosse bocche da fuoco era per gli eserciti del tempo, come per quelli d’oggi, una
necessità, perché gran parte della guerra consisteva allora nel battere con l’artiglieria le
fortificazioni nemiche, aprirvi delle brecce e conquistare così per assalto o per resa le
337
fortezze e le terre, ossia gli abitati; ecco dunque, posteriormente a quella degli altri generi,
l’invenzione dei cannoni da batteria e marittimi, meno potenti delle bocche del primo genere,
ma più leggeri perché meno ricchi di metallo e più maneggevoli perché più corti di canna, ma
di calibro non inferiore a quello delle colubrine, anzi, come vedremo, a volte di molto
superiore. I cannoni interi, secondo la vera pratica, da i valenti maestri delle fonderie
tedesche (Collado), erano lunghi dal focone alla bocca 18 o 19 bocche, ma, come anche
vedremo, con notevoli eccezioni, specie in passato, quando si erano generalmente fatti un
po’ più lunghi, cioè di 22 diametri di palla; inoltre anche in questo caso, come in quello già
visto delle bocche del primo genere, il vicentino Capo Bianco prescriveva lunghezze alquanto
differenti a seconda del calibro. Si caricavano con una quantità di polvere d’artiglieria pari a ⅔
del peso della loro palla di ferro, carica che così occupava circa tre bocche di lunghezza della
loro canna, ma anche in questo caso con eccezioni. Perché questo terzo di polvere in meno
rispetto alla carica che invece s’usava per le bocche del primo genere? La ragione è
semplice, il fonditore gittava queste canne usando una quantità di bronzo molto inferiore a
quella invece prevista per la fondizione delle colubrine, cioè, per esempio, per un cannone da
60 s’usavano quaranta quintali di libbra di bronzo, ossia proprio la medesima quantità che
sarebbe servita per una colubrina da 30; bisognava quindi ridurre in proporzione anche la
carica di polvere per evitare che il cannone poi crepasse allo sparo. Gli spessori di bronzo dei
cannoni comuni, misurati agli stessi punti che abbiamo sopra indicato per la misurazione di
quelli delle colubrine, erano quindi normalmente i seguenti: alla culatta, 7/8 di diametro di
bocca, agli orecchioni, 5/8, al collo della bocca 3/8; pertanto il cannone comune risultava di
regola spesso due bocche e tre quarti alla culatta, due bocche e un quarto agli orecchioni e
una bocca e tre quarti al collo. Il Collado fa il seguente esempio, il quale riportiamo
soprattutto per l’interessante riferimento all’unità di misura di peso del tempo:

… che se’l prattico fonditore volesse gettare un cannone di lire sessanta di palla, lui gli daria
di metallo li ⅔ di 60, cioè 40 cantara di Napoli, che sono di rotoli cento il cantaro e da onze 33
il rotolo; ma se lui dovesse gettare un pezzo del primo genere, come saria a dire una
colubrina di lire trenta di palla, gli doveria dare un terzo di metallo di più di quel numero di lire
che pesa la sua palla di ferro, che sariano cantara 40. (LT. Collado. Cit. P. 97.)

In tal modo una colubrina da 30 aveva tanto metallo quanto un cannone comune da 60. I tipi
di cannoni in uso erano, anche qui dal maggiore al minore, i seguenti; per quanto riguarda le
gittate, anche qui espresse in passi andanti comuni, cioè da piedi 2½ l’uno, non consideriamo
quelle delle canne più ‘antiche’ e deboli che erano state le più comuni nei primi ¾ del
Cinquecento, bensì quelle rinforzate e nei calibri più comuni in uso alla fine dello stesso
secolo, eccezion fatta però per il doppio cannone, non più gittato a quel tempo:

338
Doppio cannone e basilisco da 60 a 130 libbre di palla. Gittata passi andanti 600 - 7.150.
Cannone da 40 a 48 libbre di palla; passi andanti 500/550 - 6.000/6.500 a seconda del
calibro.
Mezzo cannone da 24 libbre; passi andanti 450 – 5.050.
Quarto cannone. Calibro da 12; passi andanti 375 - 4.450.

Il mezzo cannone era allora generalmente lungo dalle 22 alle 24 bocche - e il quarto cannone
28; per il Lechuga invece le predette lunghezze ottimali sarebbero dovute essere cannone
19, mezzo 21⅓ e quarto 27.
In precedenza, alla metà del secolo, la dizione mezzo cannone non era stata ancora adottata
e si definivano cannoni anche bocche da 25 libbre. Questa bocca da fuoco dette il nome a
una famosa strada di Napoli, strada lungo la quale, ai tempi dei viceré, correvano le mura
della città e all’incirca alla sua metà c’era anche una delle porte d’ingresso e cioè quella
chiamata Ventosa o Licinia, alla sommità della quale probabilmente la postazione di difesa
della stessa era incentrata sulla presenza di una di quelle bocche da fuoco.
Il doppio cannone (sp. cañon doblado), poco consueto in verità, era così chiamato, come già
sappiamo, non perché i suoi spessori del bronzo fossero maggiori di quelli del cannone
ordinario o perché fosse lungo il doppio, come qualcuno potrebbe pensare, ma solo perché
molto maggiore era il suo calibro, per l’appunto all’incirca il doppio di quello del semplice
cannone, variando infatti dalle 80 alle 130 libbre di palla:

… come sono quelli che si ritrovano nel famoso castello di Milano, che fece gittare il signor
castellano don Alfonso Pimentello, che tirano 130 lire di palla di ferro l’uno (ib. P. 102.)

Questi doppi cannoni erano però molto poco usati dagli eserciti che si mettevano in
campagna, non solo perché molto faticosi da trasportarsi e bisognosi di molta gente per il loro
maneggio a causa appunto della mole, ma anche perché poco convenienti in una batteria;
infatti con essi si consumava una gran quantità di polvere ed, essendo le loro palle molto
grandi, facevano poca passata, vale a dire avevano poca forza di penetrazione nelle muraglie
ed erano solo utili a dare a queste, già sconquassate dalle palle di bocche da fuoco più
piccole, la scrollata finale; perciò in taluni casi poteva essere utile averne qualcuno puntato al
mezzo della breccia (frm. berche, da cui l’italiano ‘rabberciare’), così come appunto usavano i
turchi in qualsiasi delle loro batterie d’assedio. I doppi cannoni dei turchi si chiamavano
basilischi, come anche le doppie colubrine dei cristiani, come abbiamo già visto, ed erano
enormi, le bocche da fuoco in monofusione più grandi esistenti, di calibro dalle 150 alle 200
libbre di palla addirittura e di lunghezza di canna da 26 a 30 bocche (in seguito 24 bocche
fisse, secondo il Sardi), e questi sì che erano anche molto più ricchi di metallo, visto che
339
avevano infatti spessori superiori a quelli delle stesse colubrine, cioè in genere bocche una e
mezza – una – mezza. Anche se i nostri autori li accomunavano ai doppî cannoni, erano
quindi in realtà da considerarsi più del genere delle colubrine che dei cannoni e infatti
ricordavano perfettamente quelle più antiche e ormai obsolete colubrine italiane da 100 e 125
che abbiamo visto alla metà del secolo nell’armeria del ducato di Ferrara. Negli assedî gli
ottomani usavano una grande quantità di artiglierie, per lo più maneggiate da strapagati
bombardieri mercenari cristiani, perché loro, pur se le gittavano più che bene, non erano però
portati per la balistica e riuscivano pessimi artiglieri, e apprezzavano molto i suddetti loro
enormi basilischi; essi erano soliti infatti prima tagliare la muraglia nemica, cioè colpirla
trasversalmente dai lati - e possibilmente anche dall’alto in basso o viceversa, in modo da
smuoverne e indebolirne le pietre; poi vi applicavano frontalmente e tutti insieme i loro
basilischi, con i quali colpivano la zona già indebolita con il peso delle loro enormi palle,
finivano di sconquassare la muraglia e la facevano crollare, aprendo in tal modo la via
all’assalto delle loro sterminate fanterie.
Tanta meraviglia suscitarono nel 1548 alcune palle di ferro che i cristiani difensori d’Orano
troveranno esser state sparate dall’artiglierie turche durante il fallito assedio subito in
quell’anno da quella città:

… Presero le palle che avevano tirato e ne trovarono alcune di meravigliosa grandezza, che
ogni palla pesava 85 libre, cosa terribile, e, quando questi pezzi venivano sparati, tutto il
luogo tremava. (A. Tarducci. Cit.)

A Lisbona nel 1588 esisteva un enorme bocca da fuoco portata dall’India, dove era stata
presa dai portoghesi come bottino di guerra:

… Hanno tre Magazini con venti pezzi d'artigliaria,fra quali vno ve n'è molto longo, che porta
cento libre di palla e fatto con bellissimo artificio, che fu tolto a’ mori da’ portoghefi nella città
di Diù nell'Indie, e 250 penette (‘bombardelle di ferro’) con mascolo (Tesoro politico ecc. Cit.
T. I, pp. 226-227).

Al tempo del Tarducci, il quale scriveva nel 1601, qualche doppio cannone ancora si
produceva, ma più per vanagloria che per utilità e ciò specie, naturalmente, nella guerra di
campagna:

… onde, se bene si fanno pezzi di 80, 100 e più libre ancora, sono più per una certa
magnificenza, tenendoli piantati e quasi radicati in un luogo, che per portarli a torno ed
oprarli… (Ib.)

Che infatti questi doppi cannoni fossero ormai, alla fine del Cinquecento, in deciso discredito
nei potentati cristiani, è chiaro da un episodio che ricorda il Collado:

340
… dirò quel che mi occorse a ragionare con il serenissimo signor duca di Mantova l’anno
1592, essendo io dimandato da quella Altezza, ritrovandosi lei a Casale di Monferrato, dove,
facendomi veder la sua artigliaria, trovai esservi una buona quantità di cannoni ‘sì grossi e
disproporzionati e di una ‘sì smisurata bocca che veramente di ogn’un di loro se ne potevano
formar duoi belli cannoni di batteria de lire cinquantacinque di palla; che, ripresentandolo a
Sua Altezza i danni che apporta a un signore l’artiglieria ‘sì dismisuratamente grossa, si
risolse di disfarla; il che non so se hebbe effetto, perché non son mai là ritornato. (LT.
Collado. Cit. P. 111.)

Questa rinunzia ai doppi cannoni sarà poi resa definitiva dopo il 1600, come scriverà il Sardi
verso il 1630:

I cannoni doppi pochi se ne gettono o nessuno e, se alcuni se ne trovono, o si disfanno per


fare altri pezzi moderni o si lasciano star così per bella mostra. (P. Sardi. Cit. P. 32.)

A maggior ragione sono ormai da gran tempo in disuso anche i giganteschi basilischi:

Il basilisco è pezza anticha disorbitantissima, fatta gettare così per capriccio… ma (questi
enormi ‘pezzi’ sono) come inutili per la troppo grande spesa in gettargli, monizione di polvere,
in caricargli, cavagli per condurgli ed huomini per maneggiarli e con tutto questo di
pochissimo effetto; si lasciano star così per bella mostra o si fondono per gettare altri pezzi
moderni… Ma questi pezzi, per esser troppo disorbitanti, sono stati rifiutati per la poca utilità
che apportano ed infinita spesa nel condurli, maneggiarli, usarli e fonderli e formarli e chi li
tiene gli conserva per una superba apparenza overo gli disfanno e ne formano altri pezzi più
comodi ed utili; e solo pare a me questi pezzi essere utili sopra fortezze di mare situate su la
marina in qualche stretto, per impedire il transito a vasselli forestieri. (Ib.)

Solo i turchi continueranno ad amare queste enormi bocche da fuoco e infatti racconta il già
citato de la Chesnaye che nel 1717, quando Eugenio di Savoia prenderà Belgrado ai Turchi,
s’impadronirà tra l’altro anche d’una bocca da fuoco da ben 110 libbre di palla e 52 di carica
di polvere (); per quanto riguarda gli stati cristiani, qualche grossissima bocca sarà lasciata in
esposizione da qualche parte solo per suscitare la meraviglia o l’ammirazione dei curiosi,
come quella che il Manesson Mallet, il quale era stato ingegnere militare e sargente maggiore
d’artiglieria in Portogallo, ricorderà d’aver visto a Lisbona all’incirca negli anni Settanta del
Seicento:

Il pezzo più lungo tra tutti quelli che ho visto è uno che sta nel castello di S. Giovanni della
Barra di Lisbona, il quale era lungo 22 piedi geometrici, tirava palle di 90 o 100 libbre di ferro
con 60 libbre di polvere. Dal saggio che ne fece fare il re Don Sebastiano ad Alcántara si
trovò che raggiungeva ‘di punto in bianco’ (‘en mire commune’) 1.600 passi. (Allain
Manesson Mallet, Les travaux de Mars ou l’art de la guerre etc. Tomi 3. Parigi, 1684-1696.)

341
Quindi questa enorme bocca da fuoco era lunga più di 7 metri e ½ e con tiro parallelo al
terreno superava i due chilometri e ¾. Come abbiamo già detto, si derogava alla norma delle
18 bocche di lunghezza di canna e non era raro trovare cannoni di lunghezza superiore, per
lo più di 22 o anche di 24 bocche, come per esempio li voleva il Pelliciari, e tali canne si
chiamavano cannoni bastardi oppure cannoni (ac)colubrinati; anzi bisogna dire che già dal
tempo oggetto del nostro esame in effetti in molte principali fonderie i mezzi cannoni si
facevano ormai della maggior lunghezza predetta e i quarti addirittura di 26-28 bocche. Il
motivo per cui si dava questa superiore lunghezza era perché la proporzione calibro-carica-
lunghezza non funzionava quando le bocche di questo secondo genere cominciavano a
essere più piccole e quindi un mezzo o un quarto cannone che fosse lungo le sue normali 18
bocche, avendo la bocca piccola, finiva per essere troppo corto, non dando così alla carica il
tempo necessario per bruciare tutta a dovere e di conseguenza facendo tiro corto; inoltre,
sistemata che la bocca da fuoco fosse tra i gabbioni della batteria, il suo collo, cioè la parte di
canna immediatamente anteriore alla bocca, sarebbe poco o per nulla riuscito a sporgere
dalla gabbionata, condizione necessaria per poterli usare, quando necessario, anche
alquanto girati di fianco; infine i principi, per risparmiare la spesa del trasporto in campagna
delle pesanti colubrine e mezze colubrine, facevano gittare colubrinati i mezzi e i quarti
cannoni, ma non solo più lunghi di canna, come predetto, ma anche rinforzati di metallo,
come vedremo, e se ne servivano nelle batterie per fare le tagliate, vale a dire per colpire
trasversalmente la muraglia nemica, proprio come avrebbero fatto con più spesa con le
costose colubrine e mezze colubrine; queste canne si rinforzavano dunque di metallo alla
culatta fino a raggiungere in quel punto lo spessore delle colubrine comuni, potendosi così
usare nei mezzi cannoni la carica di polvere delle colubrine e nei quarti quella delle mezze
colubrine. Non c’era poi nemmeno bisogno di aumentar molto la loro carica di polvere
quando queste canne colubrinate si usavano in campagna campale dove non c’erano mura
da demolire:

… Si noti che i quarti di cannone eviteranno a quelli che li usano di dover portare colubrine in
campagna, purché sappiano che sono rinforzati, que tirano 16 libbre di palla e che non ne
consumano più di 8 di polvere in ciascun tiro e che a una truppa di cavalli o contro uno
squadrone (di fanteria) tanto danno farà la loro palla quanto quella di una colubrina. Inoltre
sono più sicuri e maneggevoli delle colubrine e più profittevoli agli artiglieri… (C. Lechuga.
Cit.)

Al contrario, quando i cannoni servivano per gli stretti fianchi dei baluardi e per gli angusti
spazi di bordo nautico, si preferiva generalmente farli di canna più corta dell’ordinarie 18
bocche e cioè di 16 solamente e ciò sia per renderne più facile il caricamento dalla bocca sia
per ridurne il lungo rinculo dovuto appunto alla loro leggerezza; soprattutto si cercava così di
342
evitare che, appunto nel rinculare nel ristretto spazio di bordo di navi e galere, andassero a
urtare gli alberi o le sponde di quelle. Del genere dei cannoni ferrieri, essendo infatti, rispetto
alle bocche da fuoco del primo genere, di metallo molto più sottile e di canna molto più corta,
si poteva dunque intendere anche l’aspido, il cui calibro coincideva con quello del sagro,
generalmente da 10 a 12 libbre di palla, perlopiù da 12, ma ce n’erano stati anche da 17, e la
cui lunghezza era generalmente di 22 palle:

Il sagro e l’aspido tirano un medesimo peso di palla ed hanno due nomi differenziati, perché il
sagro è lungo di canna e l’aspido è corto e s’adopera a i fianchi ed in galea per la commodità
della sua (poca) lunghezza; ed il sagro per artiglieria di campagna (G. Ruscelli. Cit. P. 36v.)

Per la sua cortezza l’aspido era una canna comoda da usarsi a bordo dei vascelli e nelle
strette piazzette delle cinte murarie, qui trattenuto dalle ritenute (‘corde’) attaccate agli anelli
delle cannoniere; essendo appunto, oltre che parecchio più breve, anche più sottile del sagro,
era capace di tirar molto meno lontano e inoltre era molto più soggetto a crepare; esso era
stato pertanto dismesso verso i tre quarti del Cinquecento, sostituito, dove lo spazio lo
permetteva, appunto dal lungo sagro, altrimenti dal quarto cannone. A proposito del calibro
dei cannoni, il Sardi scriveva:

I cannoni antichi ed i cannoni moderni tutti tirano dalle 45 alle 50 e 60 libre di palla di ferro,
ma, secondo il mio parere e di altri gran maestri (modesto!), io non vorrei che passassero 50
libre, come furono quegli che, per saggio avviso di que’ signori fonditori franzesi, si gettarono
ultimamente al grande Enrico Quarto Christianissimo Re di Francia e di Navarra al numero di
poco meno di 400, come io ho tutti veduti e toccati, incavalcati dentro al grande arsenal di
Parigi, che non passavano 45 libre di palla di ferro, tutti di una medesima portata, adducendo
le ragioni che di 60 erano troppo scomodi e nel maneggiargli e nel condurgli per viaggi, con
troppa spesa di cavagli e di huomini e di polvere, e che in fine tanta fazione facevano gli da
45 come quegli da 60 e con più prestezza e facilità, come la longa esperienza gli haveva
insegnato. (P. Sardi. Cit. P. 31.)

Questi apprezzamenti del Sardi, aggiunti a quanto di gran bene, se non addirittura di
meraviglioso, già si diceva dell’artiglieria francese sin dai tempi di Carlo VIII, lasciano pensare
che in fondo il Collado, quando così spesso dichiarava l’artiglieria tedesca la migliore del
mondo, si riferiva in effetti alla qualità della sua fonditura e della fabbricazione delle casse e
degli altri suoi accessori e non all’uso balistico di essa, esercizio nel quale i francesi
sembravano usare, se non più esperienza, certamente più intelligenza e fantasia innovatrice.
Effettivamente il calibro dei cannoni sarà, poco più tardi del Sardi, limitato a un massimo di 50
libbre – tutte di 12 oncie per libra modernamente (Sardi), perché davvero ci si era accorti che
tanto effetto faceva uno da 50 quanto uno da 60.

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Secondo l’Ufano i quattro suddetti tipi di canne del secondo genere portavano in Spagna dei
nomi pratici usati dagli artiglieri ed erano i seguenti:

Doppio cannone o svegliarino o spaccamuri.


Cannone o sibilante o tentatore o battimuro o spelacchiatore o abbattitor di muraglie.
Mezzo cannone o traboccante o rimorchiante o brigante.
Quarto cannone o visitante o litigante o persecutore o moiana.

Quelli di cui abbiamo sinora trattato erano i cannoni comuni, ma le bocche di questo secondo
genere dell’artiglieria si differenziavano nelle cinque diverse classi che seguono, ognuna
delle quali formata dai quattro tipi già descritti:

Cannoni comuni.
Cannoni sottili seguenti antichi.
Cannoni sottili incampanati antichi.
Cannoni rinforzati incamerati.
Cannoni rinforzati seguenti.

Cannoni antichi sottili seguenti o incampanati.


Erano i cannoni più antichi, cioè addirittura quelli che i francesi avevano portato in Italia alla
fine del Quattrocento, ed erano ormai divenuti abbastanza rari da trovarsi, perché nel tempo
tutti fusi per utilizzarne il metallo in nuove fondizioni. Erano di spessore minore dei cannoni
comuni, in quanto nel secolo precedente si era usata una polvere d’artiglieria più debole sia
per minor contenuto di salnitro sia perché mal granita. In effetti, rispetto ai cannoni comuni,
dei quali abbiamo già dato gli spessori, era solo lo spessore al focone a risultare più sottile,
cioè 6/8 invece di 7/8, mentre quelli alla cornice sotto gli orecchioni e al collo, sotto la gioia
della bocca (sp. bocal), erano stati anche allora 5/8 e 3/8; ma quell’unico ottavo in meno alla
culatta voleva dire una resistenza allo scoppio di molto inferiore e infatti per queste bocche,
solite in passato a ricevere una carica di ⅔ del peso palla in polvere da quattro-asso-asso,
chiamata comunemente polvere da quattro dai bombardieri, quando s’usava ora una carica di
polvere moderna più potente, cioè da cinque-asso-asso, se ne dava solo la metà del peso
della loro palla di ferro; questa seconda polvere, già esistente da tempo e detta
comunemente in Italia dai bombardieri polvere da quaranta (ma non sapremmo spiegare
perché), s’era sino ad allora usata, come più avanti meglio vedremo, solo per le armi da
fuoco portatili (schioppetti, archibugi e pistoletti), armi in proporzione fatte di perlopiù di ferro
e non di frangibile bronzo; in Italia il primo a usarla per l’artiglieria grossa fu Ottavio Farnese
duca di Parma e Piacenza (1524-1586), il quale, appassionatissimo di balistica, aveva fama
d’avere la migliore artiglieria d’Italia e forse d’Europa, come poi meglio vedremo. Essa
presentava infatti parecchi vantaggi rispetto alla prima, sempre però che si usassero canne di
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metallo più spesso, specie le loro camere; era più potente, si graniva in una grana poco più
grossa di quella per l’archibugio e se ne potevano appunto dare all’artiglieria medio-grossa,
cioè dal calibro 15 in su, cariche di peso inferiore rispetto ai tradizionali ⅔ del peso-palla –
per esempio a un cannone da 60 solo 31 libbre di polvere e a uno di 50 solo 30 – con un
effetto non pari ma addirittura superiore a quello che si otteneva con la maggior quantità che
sino ad allora si era data della quattro-asso-asso, perché, mentre questa bruciava un po’
progressivamente, quella nuova lo faceva tutta contemporaneamente, provocando così
maggior vento, ossia spinta; inoltre, ci voleva meno tempo a caricarla, occupava meno parte
della canna e, sempre in ragione della minor quantità necessaria, si trasportava con minor
spesa.
Comunque, a quelli dei cannoni di questo tipo che fossero stati riconosciuti fatti di una lega
particolarmente buona si potevano dare di polvere moderna anche i normali ⅔ del peso-palla,
sempre che però il bombardiero facesse attenzione a rinfrescarli spesso durante l’uso e a
lasciar passare più tempo tra un tiro e l’altro in quanto era appunto soprattutto la frequenza
dei tiri che rischiava di farli crepare; il Capo Bianco avvertiva appunto della pericolosità delle
artiglierie di vecchio tipo dovuta alla maggior potenza delle polveri che ormai s’usavano:

… E sopra questo proposito mi ricordo che, al tempo della ultima guerra contra il Turco, a
Zara esser creppato in pochi giorni vintiquattro pezzi di Artiglieria tra grossa e picciola… la
cagione è che a’ nostri giorni è più gagliarda la polvere di quello che si costumava ai tempi
passati… (A. Capo Bianco. Cit. P. 10v.)

A quale episodio del conflitto turco-veneziano poi ricordato come ‘Guerra di Cipro’ (1570-
1573) il Capo Bianco si riferisse, non sappiamo. Il peso di queste canne variava dalle 100 alle
120 libbre per ogni libbra di calibro. Questi cannoni antichi si ritrovavano seguenti, cioè con il
cavo della culatta dello stesso diametro che aveva tutto il resto dell’anima, ed erano pertanto
detti anche sottili o semplici, oppure si vedevano incampanati, cioè con il predetto cavo della
culatta rinforzato, nel senso che s’andava restringendo all’indietro in forma appunto di
campana, allo scopo d’aumentarne così la sicurezza e ridurre i casi, allora non infrequenti, di
culatte che crepavano allo scoppio, ammazzando o storpiando gli artiglieri. La lunghezza di
questo rinforzo a campana era di quattro bocche e mezza all’incirca e la larghezza era
davanti ovviamente pari a quella del resto dell’anima, andandosi via via restringendo
all’indietro sino a raggiungere i 4/8 di bocca al fondo della culatta. Per essi s’usava la stessa
quantità di polvere delle canne sottili seguenti, ma cucchiare differenti, come vedremo, per
poter così far arrivare la polvere sino al focone. Secondo il Sardi la campana fu introdotta
proprio per rinforzare i cannoni sottili, quando si volle passare, come abbiamo già detto,
dall’uso della polvere da quattro-asso-asso a quello della cinque-asso-asso e ciò deve essere

345
quindi avvenuto nel terzo quarto del Cinquecento; in seguito, affermatisi come ordinari i
cannoni rinforzati, la campana sarà abbandonata e resterà - così come anche la camera -
solo nei tipi leggeri da campagna, categoria di cannoni che nascerà durante la Guerra dei
Trent’anni; il caricamento della polvere in queste canne incampanate risultava infatti sempre
difficoltoso, in quanto nessuna misura e forma di cucchiara risultava adeguata a quella forma
di culatta.

Cannoni rinforzati incamerati.


Anche questi cannoni, sebbene più recenti, non erano ora più gittati, pur trovandosene
all’epoca che qui ci occupa ancora moltissimi; si trattava in effetti di cannoni comuni che
avevano però il metallo della sola culatta un dodicesimo di bocca più spesso di quello dei
cannoni comuni seguenti e questo vano di scoppio, di conseguenza più stretto, prendeva il
nome di camera. Tali potevano per esempio essere i 10 cannoni che Carlo V si portò in
Gemania nel 1546. Il rinforzo interno, lungo circa quattro bocche, cioè tre bocche per
contenere la polvere e una per contenere invece il boccone di fieno o stoppaccio (sp. taco,
bocado) che, come più avanti vedremo, si poneva prima della palla, finiva in avanti con un
orlo o dislivello interno detto gengiva della camera e spesso appunto un dodicesimo della
bocca della canna, ossia un decimo della bocca della camera stessa. Anche questa camera,
come la campana, s’era usata per aumentare la resistenza della culatta allo scoppio e di
conseguenza la sicurezza della bocca da fuoco; ma anche per poter mantenere leggero il
resto della canna nel caso di uso marittimo su navi e galere. Benché dunque alla culatta
questi cannoni avessero il metallo doppio quasi quanto quello delle colubrine, essi si
caricavano con gli stessi ⅔ del peso-palla di polvere che s’usavano per i cannoni comuni
seguenti, perché in effetti gli altri spessori della canna restavano invariati; addirittura dietro al
focone, verso la cornice della culatta, lo spessore era una bocca giusta di metallo massiccio,
ossia lo stesso della culatta d’una colubrina.
Perché s’era in Europa abbandonato l’uso dei cannoni incamerati? Essi erano risultati poco
pratici, in quanto bisognava costruir loro gli strumenti di servizio in relazione non al diametro
della bocca dell’anima, bensì a quello minore della bocca della camera e pure con questi
specifici strumenti, anch’essi ostacolati alquanto dalla presenza della predetta gengiva,
risultava disagevole caricare, stivare e spazzare la polvere nella culatta, anche in
considerazione che, come regola generale, il caricamento doveva avvenire nel minor tempo
possibile per dar così modo all’artigliero di sottrarsi quanto prima dal pericolo di un’auto-
accensione improvvisa della polvere improvvisa e persino di un’esplosione della canna.
L’introduzione dei cannoni rinforzati seguenti rese comunque del tutto superato e inutile l’uso

346
della camera in questo secondo genere dell’artiglieria, mentre il grosso spessore del bronzo
non ne aveva mai fatto sentire l’esigenza in quelli del primo genere.

Cannoni rinforzati seguenti.


Quest’ultima classe, all’epoca la più ‘moderna’ di tutte, consisteva in cannoni seguenti di
dentro, vale a dire, privi di camera e di campana, ma tanto ricchi di metallo da avvicinarsi alla
culatta agli spessori delle colubrine; ma la differenza in spessore di metallo dai cannoni
comuni si codificherà poi in un dodicesimo di bocca in più alla culatta, quindi 7/8 più un
dodicesimo di bocca, mentre gli spessori agli orecchioni e alla bocca resteranno quelli dei
cannoni comuni. Erano questi i cannoni migliori di tutti, perché i più potenti, e si caricavano
infatti con ⅔ di polvere fina, molto più forte della normale polvere grossa d’artiglieria; essi
erano rinforzati, a decrescere, sin quasi agli orecchioni, mentre gl’incamerati lo erano solo
alla culatta, e inoltre si caricavano, spazzavano e rinfrescavano all’interno con molto maggior
facilità e prestezza per non aver quell’orlo della camera contro il quale negl’incamerati
andavano a intoppare tutti gli strumenti di servizio interno dell’artiglieria.
Le loro prestazioni erano di non molto inferiori a quelle delle colubrine, soprattutto trattandosi
dei mezzi e quarti cannoni, per cui erano da alcuni, per esempio dal Lechuga, ritenuti
sostituibili a quelle. Si caricavano con polvere fina perché di quella grossa ce ne sarebbe
voluta molta di più, quasi quanto se ne usava nelle colubrine, e non sarebbe pertanto riuscita
a bruciarsi tutta in quelle canne che erano sensibilmente più corte di quelle delle bocche del
primo genere; comunque i bombardieri non si lasciavano andare di solito a calcoli molto
sofisticati e si limitavano spesso semplicemente a caricarli con la cinque-asso-asso e con
cazze da colubrina, riempite però queste rase e non colme. Che questi cannoni fossero i
migliori non era, scrive il Collado, da mettersi in dubbio:

… perché se n’è veduta l’esperienza in tempo della Maestà Cesarea dell’Imperatore Carlo V
in tutte le guerre d’Alemagna, dove con questa sorte di cannoni si fecero prove
maravigliosissime e segnalatamente con certe camerate (‘batterie’) di cannoni che si
dimandavano ‘le Moschee di Avene’ (‘le mosche d’avena”), e ciò perché avevano questa
sorte di artiglieria di molte mosche scolpite per di sopra; ed altri che dimandavano ‘le Corone
dell’Imperadore’, perché hanno una corona; ed altri dimandati ’li dodeci Apostoli’, ch’io credo
certo che non si sia fatta al mondo né si farà la più ricca e nobile artiglieria di questo secondo
genere di questa che ho detta. (LT. Collado. Cit. P. 102.)

Né delle ‘mosche d’avena’ né delle ‘corone dell’imperatore’ ci sono pervenute descrizioni;


invece l’Ufano ci ha lasciato le proporzioni dei cannoni da batteria voluti da Carlo III e si
trattava di canne tutte da 45 libbre di calibro e 18 bocche di lunghezza; erano fusi
nell’arsenale di Malaga in tre tipologie, rinforzati, comuni e sensigli, variando solo per

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spessori e conseguentemente per peso, ed erano riccamente ornati di bassorilievi raffiguranti
tra l’altro le armi imperiali; tra questi furono appunto le suddette mosche d’avena, utilizzate
dagli spagnoli nella campagna d’Africa guidata dal conte di Alcaudete nel 1543. In seguito,
per ottenere una maggior leggerezza e maneggevolezza, Luis de Velasco, capitano generale
dell’artiglieria del suddetto imperatore, fece fondere i cannoni da batteria con le stesse
predette proporzioni, ma da 40 di calibro, e tra questi furono i famosi dodeci apostoli.
Il Tarducci, il quale non era evidentemente molto esperto d’artiglieria, chiama i mezzi cannoni
di questo tipo, molto in uso al suo tempo, colubrinati, invece di rinforzati, il che è errato
perché, come abbiamo già visto, un cannone colubrinato era così chiamato non tanto per
essere più ricco di metallo del normale, ma soprattutto per essere più lungo del normale,
caratteristica quest’ultima che alle canne semplicemente rinforzate invece mancava.
Abbiamo già detto delle cosiddette bocche da fuoco bastarde, ossia sostanzialmente di
quelle che si facevano di canna più corta dell’ordinario, ma tale concetto di brevità di canna,
pur avendo un suo significato di utilità e razionalità, con lo scorrere del tempo, così come
avveniva a tanti altri concetti importanti, si andò modificando e perdendo e quindi riteniamo
doveroso aggiungere a tal proposito delle precisazioni. Di conseguenza tra gli stessi
bombardieri ed esperti d’artiglieria spesso si disputava su quali dovessero essere le artiglierie
da definirsi correttamente bastarde e quali no e diverse erano le opinioni al riguardo. Il Sardi,
per esempio, restringe la definizione alle sole colubrine da 30 libbre di calibro in su, perché
altrimenti si sarebbe dovuto definire bastarda una bocca da fuoco invece regolare, quale era
la moiana di marina, perché questa aveva in effetti canna più corta della regola che
generalmente si applicava alle bocche del primo genere; e inoltre ai soli cannoni pure dalle
30 libbre in su, da lui detti cannoni interi bastardi, perché la maggior lunghezza di canna dei
mezzi e quarti cannoni era, come abbiamo detto, universalmente accettata. Il Cataneo
definiva invece bastarde non le canne più corte del normale, ma addirittura quelle più lunghe
del normale, e le chiamava anche sforzate, perché s’allungava la canna per poter caricarla
con più polvere e ottenere così un tiro più potente; ma, non aumentandosi in proporzione
anche blo spessore del bronzo, la bocca da fuoco risultava appunto sforzata e non rinforzata.
Il Romano e il Collado invece estendevano il concetto a tutte quelle numerose e frequenti
bocche di qualsiasi calibro che presentassero caratteristiche intermedie tra quelle del primo
genere e quelle del secondo, cioè lunghezze di canna o spessori di metallo inferiori a quelli
delle colubrine, ma superiori a quelli dei normali cannoni da batteria; a volte qualcuna di
queste canne presentava dentro anche un po’ di camera, cioè un’ulteriore anomalia in
bocche da fuoco di già robusto spessore di metallo e quindi motivo di più di definirla
bastarda; trattandosi soprattutto di bocche da fuoco molto vecchie, gittate prima che nel
corso del Cinquecento s’affermassero universalmente i principi che stiamo ricordando.
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… Dui pezzi di questi bastardi si ritrovano in Napoli, l’uno nel Castello Nuovo e l’altro in
Sant’Elmo, che ciaschedun di loro ha le particolarità tutte che dicessimo haver un pezzo
bastardo (ib. P. 113.)

Si usava poi da taluni definire bastarda anche una canna che presentasse sostanziali difetti,
come per esempio un calibro troppo grosso rispetto allo spessore del metallo, bocca da fuoco
questa difficile da usarsi, perché, se si fosse tenuto conto di tale spessore, si sarebbe data
troppo poca polvere per una palla così grossa e, se invece si fosse data polvere in
proporzione alla palla, si sarebbe rischiato di far andar l’arma in pezzi. L’Ufano aveva definito
bastardos le tipi incampanati del secondo genere che uscivano dalla fonderia di Juan
Manrique di Lara (Burgos), i quali si distinguevano subito non solo per essere più corti
dell’ordinario, ma soprattutto perché la loro culatta era leggermente incampanata anche
esternamente, il che li rendeva esteticamente gradevoli, come si vede in una loro
raffigurazione che ci ha lasciato l’Ufano; in pratica però ne diminuiva lo spessore
complessivo, limitandone di conseguenza la potenza di carica. A tali canne del Manrique gli
artiglieri spagnoli davano i seguenti nomi gergali:

Cannone o rebufo (‘sbuffo’).


Mezzo cannone o crepante.
Quarto cannone o berraco (‘verro’).

Infine, diremo che nel secolo seguente, il Seicento, il Moretti restringerà di nuovo il concetto
al suo corretto significato e chiamerà bastarde solo quelle canne d’artiglieria, a qualsiasi tipo
o genere appartenessero, che fossero più corte dell’ordinario, mentre quelle eventualmente
più lunghe dell’ordinario le chiamerà estraordinarie. Comunque, per riassumere, diremo che
si chiamavano generalmente con il nome di bastarde tutte quelle bocche da fuoco che
presentassero rimarchevoli e importanti sproporzioni rispetto ai canoni del tipo e del genere
d’artiglieria a cui appartenevano, insomma che tralignassero dal loro tipo o genere; secondo il
Busca si trattava anche del nome di una particolare bocca da fuoco medievale o
rinascimentale ormai disusata, ma in verità non se ne trova oggi traccia.

349
Capitolo IX.
Artiglierie del terzo genere o bocche petriere.

Queste bocche, generalmente fatte tutte incamerate in Italia e tutte incampanate in Spagna,
erano conseguentemente nel resto della canna di spessore sensibilmente minore di quello
dei cannoni ferrieri, dei quali erano anche più corte, raggiungendo infatti perlopiù solo gli 8
diametri della loro bocca o i 12 della bocca della loro camera; potevano essere di ferro o di
bronzo e si dividevano in quattro tipi principali, cioè cannoni petrieri (in)camerati, petriere
(in)camerate, pe(t)riere da mascolo - o da braga che dir si volesse – e mortari. I primi erano,
dal punto di vista formale, molto simili ai cannoni ferrieri; le seconde, più o meno dagli stessi
calibri dei primi anche se dal metallo molto più sottile, non ne avevano però di quelli la forma
fuselata (‘fusata’), essendo infatti del tutto cilindriche, eccezion fatta per la parte posteriore,
quella corrispondente alla camera, la quale era, rispetto al resto della canna, discazuta cioè
leggermente più sottile; inoltre queste petriere erano ulteriormente più corte, non misurando
più di una dozzina di bocche, e, per questa loro cortezza e quindi maggior faciltà di
caricamento in spazi limitati, erano molto usate particolarmente dai veneziani a bordo delle
loro galere; i bombardieri più vecchi chiamavano i primi maschi e le seconde femine.
Le petriere da braga, caricabili con mascoli di ferro, come appresso spiegheremo, erano
generalmente del calibro di 12 o di 14 libbre di palla di pietra e, montate generalmente su alti
zoccoli di legno a tre piedi, erano anch’esse fatte soprattutto per uso marittimo e inoltre molto
più diffuse delle precedenti.
Queste canne del terzo genere si caricavano con una quantità di polvere inferiore a quella
usata per i cannoni ferrieri o canne del secondo genere, cioè non più di un terzo del peso-
palla, in quanto, essendo progettate per sparare palle di pietra, quindi più leggere di quelle di
ferro, avevano canne molto più sottili e con esse si realizzava dunque una notevole economia
sia di fondizione sia d’esercizio; erano di conseguenza bocche da fuoco poco potenti, di tiro
corto e poco penetrante, data anche la fragilità dello palle di pietra. L’uso che se ne faceva
non era pertanto contro i bersagli duri come le fortificazioni, ma contro quelli più ‘morbidi’,
cioè contro costruzioni di legno, come navi e galere:

… Questa sorte di cannoni sono detti del terzo genere. Furono ritrovati da valenti maestri
tedeschi, da combatter con essi le navi e le galere e difender gli assalti e le batterie (LT.
Collado. Cit. P. 360.)

350
Ma ce n’era anche un tipo da 14 più potente, il quale, secondo il Capo Bianco, era stato più
recentemente ideato da un fonditore dell’arsenale di Venezia suo contemporaneo, certo
mastro Matthio Beccalua.
L’uso più comune ed efficace delle artiglierie di questo terzo genere non era dunque più – e
da tempo ormai - quello di lanciare palle di pietra bensì mitraglia di ferro di vario tipo e
proiettili composti come lanterne, carcasse e gerlette piene di catene o anelli di ferro
annodati, di giara fiumale (‘ghiaia fluviale’) dalla grossezza d’un uovo di gallina, di palline e
dadi di ferro o di piombo da una libbra l’uno oppure sacchetti di tela pieni di palline di pietra o
di chiodi e cuciti tutt’intorno tranne che verso la bocca contro gli assembramenti di uomini a
bordo dei vascelli e contro i battaglioni e gli squadroni di fanti o cavalieri, perché, come
abbiamo già spiegato all’inizio di questa trattazione dell’artiglieria, le semplici palle di ferro o
di pietra sparate sul campo di battaglia non potevano far molto danno al nemico.
Tradizionalmente queste canne s’erano sempre gittate con la considerazione che, poiché la
proporzione di peso tra palla di pietra e palla di ferro era di circa 1 a 3, di conseguenza anche
il bronzo adoperato doveva essere solo un terzo di quello necessario per le colubrine; però
ora nelle fonderie più moderne s’usava di gittarli con la metà del metallo usato per le bocche
del primo genere, riuscendo pertanto bocche di bronzo più spesso, quindi più resistenti e
potenti. Se dunque, come già detto, una colubrina da 24 libbre di palla di ferro doveva pesare
32 cantara (cioè 32 centinaia di rotoli) di Napoli, un cannone petriero da 24 libbre di palla di
pietra doveva pesarne 16 e di conseguenza il bombardiero doveva usare cariche di polvere
non più d’un terzo bensì della metà del peso della relativa palla di pietra; che darne di più
avrebbe significato rischiare di far crepare queste leggere canne d’artiglieria. Bisogna di
conseguenza osservare che, se con qualsiasi bocca ferriera si potevano, volendo, tirare palle
di pietra o proiettili composti semplicemente diminuendo la carica di polvere sino alla metà
del peso della palla di pietra o del proiettile composto, non era possibile il contrario, cioè
tirare palle di ferro con petrieri, perché la debole carica di polvere che in questi si doveva
usare sarebbe a stento riuscita a smuovere il pesante proiettile e, non riuscendo a togliersela
davanti, avrebbe provocato il creparsi della canna; se poi si fosse voluto aumentare la carica
di polvere per rapportarla al peso del proiettile di ferro, il petriero, essendo troppo ‘povero di
metallo’, sarebbe crepato ugualmente. D’altra parte usare cannoni ferrieri con palle di pietra o
proiettili composti e con cariche di polvere maggiori della metà del peso-palla avrebbe
significato far uscire il proiettile dalla bocca frantumato dalla potenza della carica medesima;
anzi alcuni proiettili particolarmente frangibili e che non dovevano arrivare lontano, come
poteva esser qualche palla di fuoco artificiato, si potevano sparare dai petrieri anche
solamente con il quinto di polvere del peso della predetta palla.

351
I cannoni petrieri incamerati, al tempo in esame e cioè nell’ultimo quarto del Cinquecento, si
potevano dividere, ma un po’ forzatamente, nei seguenti tipi:

Cannoni petrieri, apprezzato da 38 libbre, ma andavano generalmente sino alle 60; se ne


trovavano inoltre di più antichi grandissimi, cioè anche da 200 libbre e più.
Mezzi cannoni petrieri, apprezzato da 24 libbre, ma che poteva andare dalle 18 alle 30.
Quarti cannoni petrieri, generalmente da 12 libbre di palla.

Anche in questo caso, come abbiamo visto per il secondo genere, alla metà del secolo non
ancora troviamo la definizione mezzo cannone petriero e vediamo inventariate molte bocche
da 25 semplicemente come cannoni; in realtà si ritrovava tra queste bocche una grande
varietà di calibri, per cui praticamente si preferiva definirle appunto in base al loro calibro e si
diceva quindi cannon petriero da 6, cannon petriero da 20, da 30, da 40, da 100, etc. Una
ventina d’anni più tardi del Collado, cioè all’inizio del Seicento, ne troviamo però una
suddivione semplificata fatta dal Firrufino e cioè solamente cannoni petrieri dalle 19 alle 40
libbre di calibro e mezzi cannoni petrieri dalle 10 alle 18 libbre. La loro gittata era solo un
terzo o poco più di quella delle bocche del primo genere (per il de Marchi era circa un passo
di misura per ogni libbra di calibro), Ma [om.] fanno il loro officio molto efficacemente e con
poca spesa, scriveva il Sardi; infatti il loro scopo era, come abbiamo già detto, il colpire
bersagli ‘teneri’ e non lontani.
Quando un cannone petriero era gittato con un terzo del metallo che sarebbe servito invece
per una colubrina di pari calibro, si diceva che era gettato o terziato per il sesto, cioè in
ragione del sesto del diametro della bocca; se invece era gittato con la metà del bronzo
occorrente per una colubrina, allora si diceva che era gettato o terziato per la metà, ossia in
ragione della metà del diametro della sua bocca. Vediamo che cosa tutto questo significava.
Ribadendo che generalmente tutte queste bocche erano incamerate, noteremo che tutti gli
spessori delle canne gettate per il sesto erano in effetti in ragione di sesti della loro bocca e
cioè:

Alla culatta, gengiva inclusa, 3/6, equivalenti questi a 6/8 di bocca della camera.
Agli orecchioni 1/6 e mezzo, vale a dire 3/8 di bocca della camera.
Al collo 1/6, cioè 2/8 di bocca della camera.
Bocca della camera: 4/6 di bocca dell’anima.
Gengiva o risalto o anche orlo della camera: 1/6, pari a 2/8 di bocca di camera.

Ai petrieri più moderni, gettati per la metà, troveremo invece i seguenti spessori:

Alla culatta, gengiva inclusa: ½ equivalente a una bocca di camera.


Agli orecchioni: ¼, ossia ½ bocca di camera.
352
Al collo: 1/6, vale a dire 1/3 di bocca di camera.
Bocca della camera: ½ di bocca dell’anima.
Gengiva della camera: ¼, pari a ½ di quella della camera.

La lunghezza del cannone petriero andava, se terziato per il sesto, da 8 a 9 bocche


dell’anima; se invece terziato per la metà, ossia se rinforzato, era di 12 bocche della sua
camera e cioè di 6 bocche dell’anima, ma, secondo il Sardi, anche in questo secondo caso la
lunghezza della canna era di 8/9 bocche dell’anima. La lunghezza della camera era, nelle
canne più antiche, di 4 bocche e mezza della camera stessa, ma, ora che la polvere usata
era più fina e gagliarda, si faceva di sole 3 bocche o 3 bocche e mezza; invece nelle canne
terziate per la metà la camera era lunga circa 6 bocche della camera medesima e ciò per due
motivi, essendo il primo che era più stretta e il secondo che essa era destinata a contenere
maggior carica. Secondo il Romano, i petrieri dovevano essere lunghi 18 bocche di camera.
Ma perché questi petrieri si costruivano quasi tutti incamerati, quando sappiamo che, per
quanto riguarda le bocche del secondo genere, la fonditura di quelli a camera e a campana
era stata in Europa abbandonata perché erano risultati d’uso non pratico? I motivi erano due;
quello principale era che le palle di pietra, a causa della maggior leggerezza della materia di
cui erano fatti, erano parecchio più grosse di quelle di ferro e pertanto era sorta subito
l’esigenza di comprimere l’esplosione della polvere in un ambiente più stretto di quello offerto
dalla troppo larga anima di queste bocche; in tal modo la poca polvere necessaria a queste
canne, stando più stretta, non si disponeva all’interno in maniera dispersa, potendo quindi
accendersi tutta insieme e conferire una sufficiente potenza di tiro; il motivo secondario era
invece che, proprio perché si trattava di canne corte e larghe, risultava molto meno difficile
caricare, stivare e spazzare nella camera di quanto invece lo era stato con le canne più
lunghe di quei cannoni ferrieri.
La qualità delle palle di pietra da usarsi doveva essere forte e dura, per evitare che le palle
medesime, frantumandosi nell’uscire dalla bocca, subito s’aprissero in pezzi nell’aria; ma,
come abbiamo già detto, oramai, ossia già dalla metà del Cinquecento, l’uso del semplice
proiettile unico di pietra era divenuto piuttosto raro e i cannoni petrieri servivano ora, come
abbiamo già detto, quasi esclusivamente a tirare sul nemico involucri di mitraglia o di fuochi
artificiati di vario genere e dei quali più avanti tratteremo compiutamente. Quest’uso era
particolarmente utile nella guerra marittima per preparare la strada a un abbordaggio, ma
anche nella difesa dai fianchi dei baluardi delle fortezze ci si poteva avvalere con vantaggio
dei petrieri sparandone mitraglia minuta (brecciame di mare o di fiume, chiodi, teste di
chiodo, minuzzaglia di ferro, palle d’archibugio, perniconi o pernigoni (‘susine’), cioè grosse
pallottole di ferro o piombo grandi appunto come susine, da cui il nome) al nemico che veniva
all’assalto; poi, caricandoli però ora con mitraglia grossa, cioè con sacchetti di pietre, lanterne
353
di legno piene di ciottoli, dadi di ferro, triboli aguzzi, pezzi di catena (sp. ramales de cadena)
impiombati, cioè appesantiti col piombo alle estremità, si potevano, specie con queste ultime,
spezzare le scale che il nemico fosse nottetempo venuto ad appoggiare alle mura delle
cortine.
Il Collado, a proposito di questi petrieri, ci dona qualche altro dei suoi interessanti ricordi:

… Due cannoni petrieri di questi, i più ben formati e belli che mai cre(d)o si siano fatti, si
ritrovano al dì d’hoggi nel Regno di Napoli, in quel forte che la Maestà Catolica ha fatto fare
per guardia del porto della città di Brindisi, i quali si dimandano ‘il Cane’ e ‘la Fica’ (sic).
Tirano ciascheduno di loro cento lire di palla di pietra ed hanno la medesima grossezza e
lunghezza di metallo che nella seguente figura si veggono in disegno. Furono portati quei due
pezzi con molti altri d’ogni sorte dall’Alemagna dopò quelle guerre che l’invittissimo
Imperador Carlo Quinto fece in quei paesi, quando vinse e pigliò prigione il duca Giovanni
Federico di Sassonia ed il langravio di Assia, de’ quali posso con verità affermare che in vita
mia ho veduto migliaia di cannoni petrieri, però mai non ho veduto pezzi di tanta bellezza e
perfezione come quelli, perché, oltre ch’essi hanno compartite le loro grossezze di metallo
con somma diligenza e tirano una grossissima palla, la loro fondizione è tanto netta e pura e
di bellissimi epitafij, cornicchioni, moldure e fogliami ornata che di argento ed artificiosa mano
non si faria il più bel lavoro.
Quel pezzo che si dimanda ‘il Cane’ ha scolpito quell’epitafio che in una mia figura di
quest’opera si vede in disegno, cioè IN FLAMMATA NEMINI PARCO, e per parermi a
proposito me ne ho servito di esso nelli pezzi del primo genere. (Cit. P. 109.)

Di questo terzo genere d’artiglieria fa parte anche un’altra specie di canne, cioè i mortari
(ossia ‘mortiferi’) o trabucchi; si trattava di bocche da fuoco che erano state però più
apprezzate nel secolo precedente, cioè nel Quattrocento, quando con esse si lanciavano
grosse palle di pietra, di quanto lo fossero ora, come affermano concordemente, a circa 50
anni di distanza l’uno dall’altro, sia il de Biringuccis sia il Busca sia il Collado. Il primo infatti
così ne scriveva:

Delli mortari non v’ho parlato e non vi parlo, perché gli moderni non gli apprezzano… (V. de
Biringuccis. Cit. P. 80r.)

E il secondo:

… I mortari sono parimente di diverse sorti et io ne ho veduti che portano sino a libre trecento
di palla di pietra; ma si va tuttavia spegnendo l’uso loro, si come poco giovevoli e di poco
effetto e valore. (G. Busca. Cit. P. 10.)

Domenico Malipiero narra che all’assedio di Rodi del 1480 i turchi, i quali a quel tempo, non
avendo pratica d’artiglieria, si servivano di bombardieri tedeschi mercenari, portarono
all’assedio grossi mortari, ma che i difensori costruivano sui giardini ripari di legname sotto i
quali correvano a ripararsi di giorno i loro concittadini, i quali invece di notte dormivano in

354
luoghi sotterranei; il che vuol dire che le pietre, anche se grosse, erano il più delle volte
fermate da grossi tavolati elastici, cioè che non si spezzavano perché fatti di grosso legno
non ancora stagionato (Annali veneti etc. Cit. Parte prima, p. 126).
Ma si tratta di armi che torneranno poi in auge nel Seicento, cioè quando non tireranno più
semplici pietre bensì grossi proiettili esplosivi o bombe, e anzi i francesi ne faranno un uso
tanto efficace da risultare spesso risolutivo, come quando se ne varranno per bombardare
Algeri e Genova dal mare e Bruxelles a terra con risultati rovinosissimi quelle disgraziate
città. Il de la Chesnaye dice che nel porto di Tolone si vide per lungo tempo un’enorme
bomba ovale fatta verso il 1688 e destinata appunto al bombardamento della predetta città
pirata, la quale, a giudicare dalle sue dimensioni, doveva esser stata destinata a contenere
dalle sette alle ottomila libbre di polvere (sic); anche se un peso dunque equivalente a circa
quattro tonnellate ci sembra in verità alquanto eccessivo; comunque, fortunatamente per gli
algerini, qualunque fosse stato il suo vero peso, essa non era stata però usata, forse perché
alla fine giudicata esorbitante. I mortari erano armi di grandissimo effetto negli assedi, poiché
scavalcavano le difese, spargevano quindi il terrore tra gli assediati e la notte impedivano loro
di dormire, nel timore che all’improvviso il tetto della loro casa, colpita da una di quelle
micidiali bombe, crollasse loro addosso; inoltre questi mortari erano comodi per la sicurezza
dei bombardieri che l’usavano, in quanto non era necessario spararli dal pericoloso
parapetto, ma si poteva naturalmente benissimo usarli da una posizione più interna e
arretrata, cioè a una distanza di anche 50/60 passi dal parapetto stesso, visto che il loro tiro
non era diritto, bensì ad arcata. Pertanto non si capisce perché nel Cinquecento non fossero
apprezzate, ma il Sardi, pur confermandone il disuso ancora ai suoi tempi, ciò nonostante
così ne scriveva:

… io ho veduto in qualche città di Alemagna da alcuni valenti maestri bombardieri fare effetti
mirabili con questi mortari e tali che mi pareva impossibile che il nemico si potesse in alcun
modo difendere e star sicuro dietro le sue trincere e sopra i bastioni dietro alle gabbionate…
(P. Sardi. Cit. P. 135.)

Come abbiamo già ricordato, oltre che con enormi palle di pietra, i mortari si caricavano
anche con palle metalliche cave e piene di polvere da sparo, le quali, chiamate già allora
onomatopeicamente bombe e munite d’uno stoppino acceso, esplodevano una volta giunte a
destinazione; questi proiettili esplodenti erano già d’uso comune nell’artiglieria borgognona
del Quattrocento, dove erano chiamati pommes o boulets de fer fondu pour getter feu (Finot).
Per evitare che le bombe esplodessero già all’atto dello sparo per attrito contro le pareti
interne, si inserivano di calibro inferiore di un paio di pollici a quello dell’anima e il vuoto che
restava tutt’attorno si riempiva di terra. I mortari si riempivano inoltre con granate e involucri
355
di vario genere, pieni di fuochi artificiati misti a mitraglia di pietra o di ferro, in rottami variabili
dalla mezza libbra alla libbra, i quali, una volta tirati, crepavano in aria lasciando cadere una
pioggia di pietre e di ferri infiammati sulle teste dei nemici, tempestandosi così dalle fortezze
e dalla sommità degli spalti (‘spalati di terra’) delle città i guastatori (fr. pionniers) degli
assedianti intenti al lavoro delle trincee, uccidendoli o storpiandoli e comunque impedendo
loro di lavorare con una continua pioggia di fuoco; si caricavano poi di notte con palle di
fuochi artificiati sprigionanti una forte luce nell’aria, la quale permetteva di scoprire i predetti
guastatori ben intenti al lavoro, perché favoriti dall’oscurità, e quindi di tempestarli anche di
notte con la predetta pioggia di fuoco.
L’elevazioni usate per i mortari erano l’ottavo, il nono e il decimo punto della squadra,
secondo la distanza del bersaglio, perché naturalmente più era vicino il punto da colpire e più
bisognava elevare la canna, cioè esattamente il contrario di quanto si faceva con gli altri tipi
di bocche da fuoco. Trabucco era stato, come abbiamo già speigato, il primo nome del
mortaro, copiato semplicemente da quello della più diffusa dei congegni lapidanti medievali.
Il Capo Bianco diceva i calibri dei mortari del suo tempo andare perlopiù dalle 50 alle 200
libbre di pietra, ma raccontava di averne visto uno che stimava essere di circa 600 libbre
perché il diametro della bocca era di ben 16 oncie, cioè di un piede veneziano e ⅓;
quest’arma era in totale lunga 3 piedi e 3 oncie, di cui 9 oncie di camera.
Un mezzo secolo più tardi Alessandro Chincherni darà ai trabucchi spessori di 7/8 di bocca di
camera al focone e di ¼ di bocca di camera all’altezza della palla inserita, ma riferendosi
quindi in pratica a bocche da fuoco più antichi del suo tempo, all’incirca terziati per il sesto, e
in ciò confermando quanto aveva scritto il Sardi tanto prima di lui; infatti quest’ultimo assegna
a tali canne gli stessi spessori dei normali petrieri più antichi terziati per il sesto e precisa che
3/6 di bocca era anche lo spessore all’indietro della culatta. Riteniamo però che a tal
proposito il Sardi abbia fatto qualche confusione con i mortari, perché da lo spessore anche
agli orecchioni, cosa assurda visto che i trabucchi gli avevano alla culatta e non lungo la
canna come i mortari. La loro camera era lunga 7/4 della sua stessa bocca e la bocca
dell’anima era proporzionata a quella della camera, nel senso che, se quest’ultima aveva un
diametro da 2 libbre di palla di pietra, la prima l’aveva di 50 libbre; se l’aveva invece da 4,
allora la bocca dell’anima era da cento libbre e così via con questa stessa proporzione; ciò
sempre a leggere il Chincherni, il quale però a questo punto è di difficile interpretazione.
L’orecchione di questi trabucchi, detto piede perché posto, come abbiamo già detto, non nella
solita posizione lungo la canna, bensì all’altezza del focone, sarebbe stato inoltre lungo una
bocca e mezza di camera. A queste canne, le quali si caricavano praticamente in piedi, ossia
in verticale, si sarebbe data di carica una sola oncia di polvere per ogni libbra di palla di
pietra; e anche di meno, essendo la loro camera in proporzione più piccola di quella dei
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mortari. Il Chincherni è l’unico autore da noi rinvenuto che in questa materia dei trabucchi si
dilunghi, seppur confusamente e purtroppo senza aggiungere immagini di queste bocche
medievali, e siamo pertanto costretti a riportarne solo quanto da lui affermato; egli, per
esempio, fa a tratti pensare che i piedi dei trabucchi non fossero poi degli orecchioni, bensì
dei veri e propri piedi di metallo che sostituivano la cassa di legno che avevano invece i
mortari e che era detta a schiena d’asino o a basto d’asino alla rovescia.
Le quattro grossezze del metallo dei mortari, trattandosi di bocche più moderne dei trabucchi,
erano invece le stesse quattro dei cannoni petrieri terziati per la metà, come scrive il Sardi nel
suo Il Capo de’ bombardieri etc.; la loro camera era lunga una bocca e mezza di sé stessa,
ossia ¾ di bocca dell’anima, e l’intera canna, cortissima, da 2 bocche a due bocche e mezza,
ma il Sardi finisce per codificarla a 2 e ¼. S’usavano per essi generalmente le stesse
quantità di polvere usate per i suddetti cannoni petrieri e a volte la carica era chiusa in un
sacchetto, involucro del quale più avanti tratteremo compiutamente, ma in pratica la carica di
polvere poteva essere il terzo, il quarto o il quinto del peso della palla, perché la stessa si
diminuiva o s’aumentava – sempre però nel limite massimo prescritto – secondo che il
bersaglio fosse più o meno vicino; infatti con queste bocche non s’intendeva colpire il
bersaglio con la violenza della polvere, ma semplicemente con quella della forza di gravità
agente attraverso la semplice caduta del proiettile e di conseguenza il consumo di polvere
era vantaggiosamente più limitato di quello necessario per gli altri tipi di bocche di questo
terzo genere dell’artiglieria, cioè per i cannoni petrieri; così spiegava la poca polvere
necessaria ai mortari il de Marchi:

... Forse pare poco a rispetto della palla, ma questo procede dalla cortezza di canna, oltre
che non hanno da ferire (‘colpire’) se non qundo calerà la forza del loro tiro; ma anzi è da
essere il peso grande della loro palla che, nel calare, possa per il suo gran peso rompere tetti
e volte, (in modo che), con il fondare (‘lo sfondare’) l’uno o l’altra, possano ferire e dare
terrore alli nemici. Però (‘Perciò’) quanto più grossa sarà la palla del mortaro (tanto) farà più
fazione. Ancora (‘Inoltre’) se li dà poca polvere perché non iscoppia (‘iscoppi’) la palla, perché
la piglia gran vento (‘incontra molta resistenza dall’aria’) per il suo gran diametro. (F. de
Marchi. Cit. P. 765.)

A questo proprosito il Capo Bianco scriveva che ai mortari si dava di norma una carica di
polvere pari al 20% del peso delle rispettive palle di pietra, ma che, al disopra delle prime 100
libbre, alcuni usavano diminuirla del 5% per ogni cento libbre di peso-palla, pratica che però
lui non ammetteva. Soprattutto quando s’adoperava con semplice palla di pietra, sopra la
carica di questi trabucchi e mortari, cioè dopo la polvere e prima del proiettile, si metteva un
grosso boccone (fr. bourre), ossia una massa di fieno, per evitare che la fiammata sfogasse
avanti alla palla e facesse così perdere al tiro parte del suo effetto.

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Di questo terzo genere di bocche da fuoco facevano parte anche le quattrocentesche
bombarde e le bombardette di ferro, quest’ultime d’uso marittimo, le quali sparavano
anch’esse palle di pietra; ma poiché si trattava di canne da braga o da mascolo, cioè a
retrocarica, ne tratteremo più avanti a proposito dei vari tipi di caricamento delle bocche da
fuoco. Infine le camere (mortaletti), da usare a salve e che più avanti ancora ricorderemo.
Il Pelliciari avrebbe voluto delle canne bastarde intermedie tra quelle del secondo e del terzo
genere, cioè dei cannoni da 30 rinforzati, ma corti come i petrieri, agevoli quindi da voltare e
maneggiare, da portare in campagna e da usare anch’essi con catene, sacchetti e misture
contro gli squadroni nemici, specie quelli di cavalleria, ma al contempo da usare anche a
palla in batteria quando mancassero i cannoni grossi.
Non esistevano ancora né i cannoni di ghisa, i quali si vedranno sulle navi francesi e svedesi
– e poi anche nella guerra di terra - solo a partire dalla metà derl Seicento, né le Haubitzen
(‘obici’) o cannoni da bombe, un tipo d’artiglieria intermedio tra il cannone e il mortaro in
quanto lanciava le bombe con tiro di volata, cioè con elevazioni non superiori ai 45 gradi, e
non ad arcata (oltre i 45) come invece si faceva con i mortari; si trattava infatti di un tipo che
sarà inventato dopo la Guerra dei Trent’anni, forse dallo spagnolo Antonio Gonzales, autore
di un’Arte tormentaria rimasta purtroppo manoscritta, come leggiamo nel Filamondo a
proposito delle imprese militari di Francesco Piccolomini d’Aragona principe di Valle, che sarà
raffigurato, forse per la prima volta, dal napoletano G.Battista Martena nel suo trattato del
1676 (Flagello militare, overo il terror de’ conflitti etc. Pp. 14-16. Napoli, 1676) e sarò usato
poi all’assedio di Buda del 1686 con un successo sembra addirittura risolutivo. I generi
d’artiglieria in uso dalla fine del Quattrocento sino a Settecento inoltrato furono dunque solo
quelli che abbiamo sopra descritti:

… Là onde la nostra distinzione sodetta, fatta tra i pezzi dell’artiglieria, degnamente merita
esser osservata e commendata, percioché, come altrove fu detto, mediante essa una
notabile confusione, circa della vera cognizione di tutti i pezzi dell’artiglieria, da qui innanzi si
schiva. (LT. Collado. Cit. P. 39v.)

Il Collado, pur avendo nella sua opera costantemente giustificato quando andava affermando
con l’autorità degli esperti fonditori e balistici tedeschi, alla fine sembra attribuirsi il merito
d’aver ideato lui la predetta rigorosa classificazione, tirando le somme della sua lunga
esperienza personale:

… e concludo finalmente che, quando io feci risoluzione di scrivere e mandar in luce questa
mia ‘Prattica’, fui constretto a terziare e considerare prima molti centinaia di pezzi di artiglieria
dell’uno e dell’altro genere e della maggior parte delle nazioni del mondo; e pigliai tra i due

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estremi della grossezza, cioè, e debolezza dei pezzi il vero e perfetto mezzo che si deve
osservare. (Ib.)

Termineremo dicendo che ai tanti predetti nomi di canne d’artiglieria, va aggiunto quello di
bastardelle fatto nel 1587 da Bonifazio Antelmi, residente veneziano nel ducato di Milano, a
proposito delle artiglierie di cui erano allora dotati i castelli di quel ducato; si tratta di una
qualifica che, come già spiegato, tecnicamente si dava alle bocche da fuoco dalla canna più
corta dell’ordinario – e quindi anche dalla minor carica di polvere - ma non sapremmo dire se
egli, sicuramente poco intendente di artiglierie, intendesse significare proprio questo.
Alla ricerca di conferme reali della classificazione testé dettagliata, vorremmo ora utilizzare
quanto dall’Angelucci riportato del quaderno di inventari dell’artiglieria ferrarese del
Cinquecento che egli consultò nell’archivio di quella città, inventari di cui alcuni sono
erroneamente fatti risalire al tempo di Alfonso I, ma che sono invece palesemente tutti più
tardi e cioè della seconda metà del secolo; ne elencheremo però qui solo le bocche i
materiali più significativi:

Con l’arma ducale. “Il Gran Diavolo”, colubrina dopia sforzata […] da libre 125 senza
millesimo et nome del maestro. (A: Angelucci. Cit. P. 290.)

È questa una bocca da fuoco diversa da quella che abbiamo già letto esser stata la migliore
del duca Alfonso I all’inizio del secolo, infatti è molto più moderna di quelle che si erano
fabbricate in quel tempo sia perché colubrina di grosso calibro (dopia colubrina) sia perché di
metallo più spesso dell’ordinario (sforzata), ambedue evoluzioni non ancora avvenute
all’inizio del Cinquecento; il calibro è errato, come risulta dall’ulteriore più dettagliata specifica
che segue. Si tenga conto che secondo l’Angelucci la libra ferrarese pesava kg. 0,34513:

… di balla libre 100, pesa libre 20,350, fu fatto dal 1556 sotto il duca Hercole (“Ercole II
d’Este”, duca di Ferrara dal 1534 al 1559)… Porta balla di libre 100 et è incamerato e nella
colata (è) grosso balle 2⅓, (è) lungo balle 27, pesa libre 20350. (Ib.)

Le caratteristiche di questa colubrina sono ancora alquanto arcaiche e quindi del tutto
compatibili con la metà del Cinquecento; infatti lo spessore della culatta è ancora inferiore
alle tre palle più tardi regolamentari, la lunghezza non raggiunge ancora il minimo prescritto
di 30 bocche e soprattutto la canna è incamerata, caratteristica non pertinente, come
sappiamo, alle bocche da fuoco del primo genere e che pertanto, quando presente, farà in
seguito classificare quelle che la presenteranno come artiglierie bastarde. L’arma è
accompagnata nell’inventario da altre 32 – canoni, colubrine, falconi, falconetti, cannoni
perieri – tutte consone al l’epoca suddetta.

359
In inventari coevi nello stesso suddetto quaderno ferrarese tra l’altro notiamo:

Balle di piombo con il dato (‘dado’) da falconetti da libre 2… n° 24. (Ib.)

In un altro inventario ferrarese, anch’esso della seconda metà del secolo, ma questo
all’archivio di Modena, notiamo principalmente una colubrina costruita nello stesso anno del
Gran Diavolo; si tratta della Regina, colubrina dopia sforzata da 125 libbre di palla, antica
sottile, cioè dagli spessori del bronzo minori di quelli ormai in uso al tempo dell’inventario,
seguente, vale a dire non incampanata né incamerata, quindi sostanzialmente diversa dalla
precedente, lunga bocche 27 ½ (ma più tardi si dirà 31), la quale portava il nome del
fonditore, Anibal Borgognone, uomo del quale abbiamo già molto detto, e l’anno di
fondizione, appunto il 1556. Questa bocca da fuoco, bellissima per le decorazioni, e il cui
calibro risulterà poi anche per essa essere non di 125 bensì di 100 libbre, fu, a dire
dell’Angelucci, purtroppo distrutta e ridotta in pani di bronzo alla fine del Settecento e per
quanto riguarda le sue precise misure, tra cui una lunghezza complessiva di m. 6,74567, e i
suoi tanti ornamenti che la rendevano una vera e propria opera d’arte, tra cui lo stemma
ducale e una figura di corona in corrispondenza della gioia (‘collana’) della bocca,
rimandiamo appunto alla principale opera di detto autore il quale la trovò disegnata in una
grande stampa del 1766 (). Dello stesso Annibale Borgognone sono poi elencate in questo
inventario 4 altre doppie colubrine da 60 libbre, 6 colubrine semplici da 25, 2 cannoni da 40,
un canoncelo curto da 25, 4 falconi da 8 e uno da 6; c’era poi un cannone da 60 fatto in
Ancona per Vicenzo Giordano 1542.
Quest’ultimo documento include anche un sincrono inventario della monizione di
Brescello, elenco che mostra una dotazione d’artiglieria più antiquata rispetto al quella del
capoluogo Ferrara e cioè, al di fuori di 4 cannoni e una colubrina compatibili con quella
suddetta tipologia che si realizzava negli anni Cinquanta del secolo, per il resto si tratta di
bocche da fuoco anteriori di decenni, insomma ancora rinascimentali; vediamo infatti bocche
da fuoco definite ferriere, cioè lancianti palle di ferro, evidentemente in contrapposizione a
quelle ancora comuni e tradizionali sparanti invece proiettili di piombo o di pietra, e cioè un
cortaldo feriero da 12, due canoni ferrieri da 10 – e questo calibro minimo per un cannone
significa che si trattava di una di quelle bocche che dalla seconda metà del secolo saranno
chiamate quarti (di) cannone – e due giriffalchi ferrieri, vecchia denominazione dei falconi, di
calibro 6. Seguono tre giriffalchi da 8 e due da 6, tutti non ferrieri, cioè tradizionalmente a
palla di piombo, poi tre falconi da 4 e otto falconeti da 3, ma anche i penultimi sarebbero stati
da chiamarsi falconetti in considerazione della piccolezza del calibro; sennonché leggiamo
che le palle conservate in monizione per questi due ultimi tipi di bocche da fuoco sono sì da 4
360
e da 3 libbre, ma sono di piombo e quindi, data appunto l’esiguità del calibro, non potevano
essere in realtà che delle cerbottane, più tardi sostituite dai falconetti ferrieri. Completavano
l’elenco 20 moschetti di ferro da postazione, ma privi del loro letto di legno ferrato, ossai dei
loro affusti, e una bombarda di ferro, anch’essa priva di letto.
In un ulteriore inventario coevo, questo della monizione di Reggio Emilia, notiamo, tra l’altro,
la colubrina da libre 50 “La Giulia”, bocca da fuoco che l’Angelucci ritroverà in un altro
anch’esso di Reggio, ma più molto più tardo e cioè del 1625:

… Una colubrina detta “La Giulia”, antica, povera di metallo et incamerata: ancor lei da 50, a
otto facie da capo a piedi; il suo peso sta scritto in culata 9000; la sua longheza è boche 26; il
metallo in culata boche due et un terzo; agli orecchioni due boche et un decimo; al collo una
boca et sei decimi; risentita (‘lesionata’) da una parte. (Ib.)

Le caratteristiche di quest’altra colubrina del ducato di Ferrara, anche se da metà di quel


calibro e dalla superficie sfaccettata, corrispondono alle precedenti Gran Diavolo e Regina
sia per spessore sia per limitatezza della lunghezza di canna e quindi si tratta di una bocca
da fuoco di quella coeva; non può esser quindi, come riteneva l’Angelucci, la Giulia originaria,
cioè la prima, quella fatta con il bronzo ricavato dalla distruzione della sfortunata statua del
papa Giulio II (1503-1513) avvenuta in Bologna nel 1511 durante i moti di quell’anno, bronzo
inviato ad Alfonso I duca di Ferrara in cambio di artiglierie e con il quale questo duca fece
fondere una grossa bombarda, come si legge nelle Historie di Bologna di Leandro Alberti
citate da Antonio Gotti:

… Poscia i Bentivogli mandarono detta statua a Ferrara al duca Alfonso, a ciò li desse
alquante bocche d'artiglieria; il quale ne fé' una grande bombarda che poi drizzò nel Castello,
de riscontro la porta de esso, che io non ho mai veduto la più lunga e grossa de quella…
(Aurelio Gotti, Vita di Michelangelo Buonarroti narrata con l’aiuto di nuovi documenti da
Antonio Gotti ecc. Firenze, 1875.)

Molto interessante un altro inventario della monizione di Ferrara che l’Angelucci fa risalire al
1575, perché effettivamente vi si nota la classificazione d’una artiglieria ormai ben ordinata
ed evoluta anche se ancora con qualche segno del passato:

Il Terramotto da lb. 150


Il Gran Diavolo da 100
2 doppie colubrine da 50
7 colubrine da 25
2 meze colubrine da 12 ½
2 zirifalchi da ferro (cioè da palla di ferro) da 8
12 falconi tondi da 4
11 falconi a fazze (cioè con la canna esteriormente non arrotondata bensì sfaccettata) da 4
1 falconetto […] porta balla de ferro lb.e 2. Et piombo et 3 con il dato.
361
3 canoni da 60
12 canoni da 50 con li delfini (cioè con i maniglioni per sollevarli, generalmente a forma di
delfini, posti nel punto mediano di gravità della canna)
2 canoni da 40
2 mezzi cannoni da 25
10 perieri con la camara da falcone… porta balle de pietra lib.e…
Un periero corto […] porta balla de pietra lib.e…
2 zirifalchi perieri (‘petrieri’) […] porta balla de pietra. (lb.e… Ib. Pp. 356-357.)

Il suddetto Gran Diavolo da 100 libbre, elencato anche in un altro inventario ferrarese, questo
del 18 ottobre 1586, era quello che abbiamo già detto fabbricato nel 1556; sia questa bocca
sia Il Terramotto non sono inoltre più considerati doppie colubrine, come abbiamo visto si
faceva nel passato, e ciò perché evidentemente si era ormai accettato che il genere delle
colubrine dovesse di regola presentare certi spessori di metallo che per quelle grossissime
canne non si potevano pretendere, pena un peso immane e quindi pressoché inamovibile.
C’è qui inoltre da notare la presenza di antiquati girifalchi e che il falconetto, oltre che
modernamente con palle di ferro da 2 libbre, era considerato ancora caricabile, come nel
passato, con palle di piombo da 3, cioè di quelle con nucleo di ferro. C’è infine da dire che il
calibro delle canne a palla di pietra non è indicato perché per esse il peso variava in relazione
alla qualità della pietra che si usava e quindi sarebbe stato più ortodosso, ma evidentemente
non dovuto, indicare la circonferenza dei proiettili. Il predetto inventario del 1586 confermerà i
dati suddetti per le due doppie colubrine e cioè che il loro calibro era 100 e non 125, che il
Gran Diavolo era incamerato e la Regina non lo era e infine che questa era più lunga di
quello e cioè 31 bocche contro 27; infine sola la Regina recava il nome del loro fonditore,
Annibale Borgognone, e il millesimo, cioè l’anno di fabbricazione 1556, mentre a ulteriore
differenza dall’altro, non portava l’indicazione del proprio peso.
Nel predetto ultimo documento, molto ricco di dettagli balistici, troviamo inoltre due colubrine
da 50 dello stesso Borgognone, lunghe queste 30 bocche e pesanti una 11.308 e l’altra
11.700 libbre; sette mezze colubrine da 25, di cui quattro fatte nel 1553 dal Borgognoni –
peso da 6.050 a 6.45° libbre – e tre molto più vecchie, perché gittate durante il principato del
duca Alfonso I, e infatti, nonostante avessero lo stesso calibro di quelle del Borgognone,
erano molto più leggere, cioè pesavano dalle 4.650 alle 4.850 libbre. Ci sono poi, in questo
stesso primo genere d’artiglieria, 32 falconi da 4 fatti parte al tempo di detto Alfonso I, parte
dal Borgognone e parte dal Lamprecht – lunghi da bocche 33 a 40 e di peso molto vario, cioè
da libbre 1.330 a 1.690; di questi 12 erano sfaccettati a otto facce, due scanalati (incanalati) e
gli altri tondi, quattro erano poi con le biette, cioè a retrocarica, quindi per esser usati in luoghi
di poca piazza come erano i fianchi dei baluardi o i ponti dei vascelli, e infatti erano anche i
più corti, ossia solo 33 bocche. Le canne definite falconetti sono cinque tra cui tre lunghi 26

362
bocche, pesanti dalle 580 alle 600 libbre, fatti al tempo di Alfonso I, di cui due da 2 – quindi di
quelli che poi saranno chiamati mezzi falconetti - e uno da 4, e due, fatti dal Borgognoni nel
1555, di cui però l’Angelucci omette di indicare il calibro, ma che, a giudicare dal peso
(1.770/1.780) e dalla lunghezza (33 bocche) sono senza dubbio da considerarsi invece
falconi. C’e infine un antiquato girifalco da 8, lungo 33 bocche come i falconi ma pesante il
doppio, cioè libre 3.150, il quale mostra lo stemma di papa Giulio II della Rovere; non è detto
però se fosse ferriero o plombiero, per quanto poi ci siamo appena imbattuti anche in due
d’essi detti perieri, ma naturalmente, se erano fatti per sparare pietre, doveva trattarsi di
canne molto più leggere di questa papalina.
Per quanto riguarda invece il secondo genere d’artiglieria, leggiamo, sempre in questo
inventario ferrarese del 1586, 22 cannoni, di cui tre da 60, tre da 40 e il resto da 50 libbre di
palla; erano tutti lunghi bocche 18, tranne i tre da 60, questi più corti perché uno lungo
bocche 16 e due 17; il peso andava dalle 5.300 alle 8.800 libbre ma perlopiù superava le
8.000 e, come al solito, non era in dipendenza del maggiore o minore calibro ma del
maggiore o minore spessore del metallo. Escludendone uno da 60 fatto dal mastro fonditore
genovese Vincenzo Giordani nel 1542, gli altri erano stati gittati all’incirca per la metà dal
trentino Anibale Borgognoni e per l’altra metà dallo svizzero Johan Lamprecht. Undici mezzi
cannoni da 25, di cui 8 lunghi 18 bocche, uno, definito vecchio, 19 e due, detti straordinarij
perché lunghi solo 12 bocche; il peso di ogni canna si aggirava intorno alle 3.800 libbre.
Erano stati fatti tutti dal Lamprecht attorno al 1584, il quale li faceva doppi alla culatta 3
bocche, come le colubrine, tranne naturalmente il vecchio, il quale era del tempo di Alfonso I
e portava il nome del suo fonditore. I due predetti straordinarij avevano lo stesso calibro e gli
stessi spessori di metallo di quelli ordinari, ma evidentemente, avendo la canna tanto più
corta, ne era previsto l’uso in luoghi di poca piazza. Infine tre ultime canne fatte dal
Lamprecht e cioè un cortaldino da 4, lungo solo bocche 11, dal peso di 600 libbre e grosso
(‘spesso’) in culatta ben 3 bocche e ⅓, tipo di cannone di cui abbiamo già detto e il cui
spessore di metallo conferma che si trattava di una canna ferriera e non petriera, e due
marzocchi, canne da 2 libbre di calibro ma molto simili al precedente, perché lunghe solo 12
bocche e grosse 3 in culatta. Perché questi ultimi si chiamassero così non sappiamo; forse la
loro forma ricordava in qualche modo un copricapo in uso in quei tempi detto mazzocchio.
Anche il terzo genere d’artiglieria è presente nel predetto inventario e si tratta di dieci periere
(‘cannoni petrieri’) incamerate da 25, doppie 1 bocca e ¾ alla culatta, lunghe 20 bocche,
pesanti da 1.330 a 1.880 libbre, (vi è l’arma del duca Alfonso et non vi è altro signale). Non si
specifica a quale dei due Alfonsi ci si riferisca, ma, poiché sono ben dieci cannoni, ci sembra
chiaro che fossero di recente fattura. C’è inoltre uno canoncino periero, anch’esso
incamerato e anch’esso da 25, ma lungo solo bocche 8 e spesso in culatta bocche 2,
363
pesante solo 995 libbre in quanto, anche se più spesso, però molto più corto; era stato gittato
dal solito Borgognoni sotto il principato del duca Ercole II d’Este.
Un’ordinanza reale francese promulgata a Blois nel marzo del 1572, anno dodicesimo di
regno del re Charles, ci fa sapere che a quel tempo l’artiglieria francese era stata già molto
precocemente standardizzata in soli sei tipi di bocche da fuoco:

… In primo luogo, che non sia permesso ad alcuna persona, di qualsivoglia stato, qualità e
condizione essa sia, di fare né fondere alcun pezzo d’artiglieria, cioè cannone, grande
colubrina, bastarda, moiana, falcone e falconetto, senza nostre lettere patenti di permesso
[…] Ed, al fine che i detti pezzi si possano meglio riconoscere, Noi vogliamo che essi siano
marcati delle armi di coloro che li faranno fare e della marca del fonditore, con la data
dell’anno in cui essi saranno fatti; e ciò sotto pena di confisca dei corpi e dei beni… (David
Rivault, signore di Flurance, Les elemens de l'artillerie etc. Parigi, 1608.)

La detta regolamentazione sarà ancora valida circa trent’anni dopo, come leggiamo, oltre che
nei regolamenti che ora menzioneremo, anche nel trattato del predetto balistico francese
Rivault (1571-1615), quindi quasi coevo del Collado, il quale così vi descriveva le sei bocche
da fuoco in questione:

Cannone di pollici 6½ di calibro, lungo 19-20 diametri di bocca e lanciante palle di libbre
33⅓.
Grande colubrina di 5 pollici di calibro, di 26-27 bocche di lunghezza e lanciante palle di 16
libbre.
Bastarda di circa 4 pollici di calibro, lunga bocche 28½ e lanciante palle di libbre 7½.
Moiana di pollici 2¾ di calibro, di 36-37 bocche di lunghezza, dalla palla di libbre 2½.
Falcone dal calibro di 2 pollici e cinque linee, lungo 35-36 bocche, dalla palla d’una
libbra e ½.
Falconetto da 2 pollici, da 36-37 bocche di lunghezza e dalla palla di ¾ di libbra.

Questa classificazione, ricordata anche da Joseph Boillot, però molto imprecisamente, e più
tardi invece correttamente da Francis Malthus e della quale omettiamo pesi e lunghezze in
piedi perché non significativi, trova del resto precisa conferma nel Reglement sur le fait de
l’artillerie, pouldres et salpestres promulgato da Enrico IV nel dicembre del 1601 (Frerot,
Libro XX, p. 1406). C’è qui da osservare che per bastarda e moiana s’intendevano altre due
canne del tipo delle colubrine e cioè la couleurine bastarde e la couleurine moyenne, come
più in chiaro leggeremo nel successivo grande regolamento per l’artiglieria francese e cioè
quello del 1613 (Benedit de Vassallieu, Recueil du Réglement Général de l’order et conduite
de l’artillerie etc. 1613); il nome moyanne designava dunque un pezzo che nulla avrà quindi a
che fare né con la moiana navale di cui abbiamo già detto né con quell’altra moyenne, pure
francese ma da 24 libbre, che si vedrà nella seconda metà del Seicento. Nel predetto
documento del 1613 alle sei canne regolamentari s’aggiunge in chiaro anche l’arquebuze à

364
crocq, cioè ‘da forcina’, canna del resto che, essendo sempre utilissima, non era mai stata
abbandonata; vi si parla inoltre anche del double canon, arma che però non doveva essere di
dotazione ordinaria ma solo di fornitura e impiego straordinario. Le lunghezze ‘fuori tutto’ di
questi pezzi, espresse in piedi del re e tradotte in metri, calcolando il piede del re o parigino
equivalente a m. 0,32484 (Ferdinando de Luca, Istituzioni elementari di geografia ecc. P.
369. Napoli, 1857) erano all’incirca le seguenti:

Cannone: 11 (3,58)
Grande colubrina: 11 (3,58)
Colubrina bastarda: 10 (3,25)
Colubrina media: 9,50 (3,09)
Falcone: 8 (2,60)
Falconetto: 7 (2,28)
Archibugio á croc: 5 (1,63)

Dei calibri abbiamo già più sopra detto; quest’ultimo regolamento precisa anche il numero del
personale a cui ogni bocca da fuoco doveva essere affidata:

Cannonieri ordinari - cannonieri extraordinari (‘aiutanti’) - pionieri (‘guastatori’).

Cannone: 2 3 33
Grande colubrina: 2 2 24
Colubrina bastarda: 1 3 12
Colubrina media: 1 2 8
Falcone: 1 1 4
Falconetto: 1 1 3
Archibugio á croc: - 1 2

Gli spagnoli si adeguarono alla logica dello standard con alcuni decenni di ritardo rispetto alla
Francia; alla fine del secolo, su proposta di Cristóval Lechuga, tenente dell’artiglieria spagnola
di Fiandra, il suo generale Valentin de Pardieu de la Motte fece portare tutte le più vecchie
artiglierie grosse alla fonderia di Malines perché fossero rifuse in canne di più moderna
concezione e limitatamente a sei soli tipi e cioè cannone, mezzo cannone, quarto di cannone,
colubrina, mezza colubrina e quarto di colubrina o falconetto, sebbene poi si decidesse di
ridurre il numero a 5 e cioè di eliminare il quarto di cannone e ciò con disappunto del predetto
Lechuga, per il quale, come abbiamo già accennato, si trattava di una bocca da fuoco che
poteva sostituire benissimo le colubrine e che quindi rendeva inutili quelle pesanti canne.

Anche l’artiglieria delle Sette Province Unite d’Olanda fu in quei tempi strettamente
standardizzata; in seguito, verso il 1624, l’ottima e organizzatissima fonderia de L’Aia, in cui
365
lavoravano da 6 a 12 operai (fr. laboureurs), produceva 24 grandi bocche da fuoco l’anno e
cioè sei cannoni interi, dodici mezzi cannoni e sei bocche da campagna da 10 libbre di calibro,
cioè i tre soli tipi che in quello stato erano ormai considerati veramente necessari oltre
all’intramontabile falconetto.

Il cannone intero da 48 libbre di palla (ma se ne facevano anche da 46 e da 42) era perforato
però per una di 52 per il calcolo del vento necessario; era lungo piedi 11 e ¾ (misura di
Malines), ossia circa 18 bocche, e pesava dalle 6.400 alle 7.000 libbre, perché il rapporto
ottimale tra peso in libbre della palla e quello della canna, rapporto però molto variabile
secondo gli stati e le epoche, per questo tipo di bocca da fuoco era qui in Olanda ora
considerato 1 a 150; si caricava ordinariamente con 20 libbre di polvere fina, ma si provava
nuovo con 32 libbre, trovandosi però anche in ciò in altri stati e tempi opinioni disparate
derivanti dalle personali esperienze dei singoli bombardieri. Era questa bocca da fuoco
servita da due artiglieri, perché si considerava che tanti ne occorrevano per le bocche
superiori alle sedici libbre di palla, e poteva tirare da 80 a 100 colpi in 12 ore con soste per
rinfrescarla ogni 10 o 12 colpi con lanate inzuppate di sola acqua (l’aceto non s’usava ormai
più per il suo effetto corrodente anche sul bronzo). Poiché si considerava genericamente
giusta proporzione un paio di cavalli ogni 600/650 libbre di traino su strada ottimale (cioè tra
peso della canna, del carrello e dei conducenti), il cannone intero si trainava con 15 paia di
cavalli più il cavallo timoniere (sp. caballo limonero). Questa canna, elevata a 45 gradi, aveva
una gittata di 500 passi comuni, quindi poco più di 500 metri, ma solo la metà di questa in
caso di tiro orizzontale, col quale poteva trapassare 24 piedi di sabbia, se non sostenuti da
una buona scarpata di terra retrostante, altrimenti solo 10 o12 piedi.
Il mezzo cannone da 24 libbre di palla, perforato per 28, pesava dalle 4.200 alle 4.500 libbre,
con un rapporto di 1 a 190 rispetto alle libbre di palla, ed era lungo piedi 10½, ossia circa 19
bocche; s’usava con una carica di 12 libbre di polvere fina ma di 16 alla prova; si trainava con
11 paia di cavalli più quello di timone (sp. timón o limón).
La canna da campagna o quarto di cannone, da 12 libbre di palla (ma se ne facevano anche
da 10) pesava dalle 2.800 alle 3.200 libbre e misurava meno di 10 piedi, cioè circa 24
bocche; s’usava mediamente con una carica di 6 libbre di polvere, ma alla prova di 9,
dipendendo questo comunque dal bersaglio perché contro uno squadrone nemico bastava
anche ⅓ di polvere del peso della palla, mentre per far breccia era meglio aumentare a ⅔;
naturalmente poi cariche generalmente inferiori sarebbero occorse nell’ipotesi di bocche da
fuoco incamerate. Si trainava con 5 paia di cavalli più il timoniere. In verità da poco tempo
s’usavano in quell’esercito anche utilissime canne di campagna molto più piccole, cioè
pesanti circa 900 libbre, le quali per la loro leggerezza, trasportabilità e maneggevolezza

366
erano adattissimi in battaglia campale; ma il de Hondt non né da le misure perché soggette
ancora a segreto militare:

… recentemente uno dei servitori del capo-mastro fonditore ne ha portato proditoriamente il


disegno al nemico. (Hendrick de Hondt, Beschreibung und Generalregeln der Fortification,
Artillerie und Munition etc. Gravenhagen, 1624.)

Il falconetto o ottavo di cannone da 5 o 6 libbre di palla pesava da 1.900 a 2.100 libbre e


misurava meno di 11 piedi, cioè circa 29 bocche. L’affusto, dato il limitato ingombro della
canna, includeva anche dietro una cassa contenete 6 barili di polvere con 6 palle, una misura
di latta da quattro-sei libbre di polvere e un corno da polvere; un’altra cassa era sotto la
canna ed era destinata a conservarvi due vanghe, un’ascia grande e una piccola, uno
zappone, una leva, un cuneo e un buttafuoco o zagaglia (fr. baston de mesche).
La predetta standardizzazione portava all’artiglieria olandese una sempre maggiore efficienza
e lo dimostra per esempio le 2 invitte difese di Berg(en)-op-Zoom (fr. Bergue on Zoom),
villaggio collinare fortificato del Brabante settentrionale non lontano da Anversa, e cioè quella
del 1581 sostenuta contro l’esercito d’Alessandro Farnese duca di Parma, Piacenza e Castro
(1545-1592) e quella del 1622 contro Ambrosio Spínola marchese de los Balbases; in questa
seconda occasione l’artiglieria della piazza, fornitissima di munizioni, rovesciò così tanto
fuoco sugli spagnoli invasori da costringere lo Spínola ad abbandonare l’assedio dopo avervi
perso molte migliaia di uomini in vani assalti. Di quest’ultimo evento il de Hondt ricorda un
singolare episodio molto tragico e fortunato nello stesso tempo; caso volle cioè che appunto
uno dei tanti colpi della suddetta artiglieria della piazza colpisse in pieno una contadina che
stava lavando biancheria sulle rive dello Zoom, facendola letteralmente a pezzi; mentre i
testimoni del fatto, colà accorsi, costatavano costernati quell’orrore, uno di loro s’accorse che
sulle acque di quel fiumiciattolo galleggiavano dei visceri di quella povera innocente vittima
dai quali proveniva il pianto di un neonato; la donna era infatti in avanzato stato di
gravidanza. Preso il bambino, lo trovarono stupefatti miracolosamente illeso e, avutene le
prime cure, lo inviarono ad Anversa, dove la duchessa moglie di quel governatore lo fece
battezzare Albert Ambrose e in seguito lo fece allevare ed educare a sue spese
onorevolmente; ed è certamente questo l’unico esempio di una funzione ostetrica avuta
dell’artiglieria che la storia ricordi (Ib.).

367
Capitolo X.
La fondizione dell’artiglieria.

Non è nel nostro assunto approfondire la materia delle tecniche di fonditura e della
costruzione delle fornaci per essere una di quelle che, oltre a necessitare di competenze
professionali specifiche, esulano dal campo prettamente militare e quindi dal nostro tema,
ma, a chi volesse leggere di metallurgia proto-moderna, consigliamo senza dubbio i predetti
de Biringuccis, de Marchi e Manesan; diremo comunque che i tedeschi restavano i veri
maestri dell’arte del fondere le artiglierie, anzi la perfezionarono sempre di più, come scriveva
il Collado:

… Sottigliandosi poi sempre più gl’ingegni delli uomini con la malizia, gli Alemanni ritrovorono
l’archibugio da ruota o da focile e per diverse parti del mondo fabricarono diverse sorti di
artigliaria di ferro; perché alcune erano di lame battute co’l martello e cerchiate con circoli di
ferro ed altre di ferro liquefatto e mandato nelle forme. Ma, perché questi pezzi ed erano
fragili a rompersi e deboli da colpire, ritrovarono la composizione di diversi metalli che
chiamasi bronzo; con questa gittarono nelle forme di creta ben secche molti cannoni di
artiglieria e, per la loro varierà e per i diversi effetti, gli nominarono chi moschetto, chi
smeriglio, chi ribadochino, chi falconetto, chi falcone, chi sagro, chi aspide, chi passavolante,
chi serpentino, chi trabucco, chi colobrina e chi con altro nome anco d’animali horribili […]
Non è dubbio alcuno, appresso alle persone di qualche prattica, che, tra tutte le fondizioni
d’artiglieria de’ nostri tempi, quelle de’ tedeschi e de’ fiamenghi siano le migliori; e ciò avviene
per diverse cagioni, prima perché i tedeschi, come furono i primi inventori della polvere e
dell’artiglieria, così si deve creder che abbiano trovato la più perfetta fondizione;
secondariamente, perché i tedeschi sopra le altre nazioni godono di maggior commodità ed
abbondanza di metalli e gli purgano con diligenza grande avanti che adoperargli; la terza e
più importante ragione è che i tedeschi non gettano (‘fondono’) mai artiglieria se non nelle
forme vecchie e tanto secche che nulla di humidità vi sia dentro; la quarta è che i tedeschi,
come che sono huomini flemmatici di natura lavorano in tutte le arti con pazienzia maggiore
che la nazione spagnuola e l’italiana più di loro col(l)erica.
I tedeschi in somma han trovato la proporzione che debbono havere le artiglierie nella
lunghezza e grossezza; han dato la regola di scemare il metallo ove ne’ pezzi manco bisogna
e di crescerlo ove più e necessario, come alla camera, alli orecchioni ed alla gioia della bocca
del cannone; gl’istessi han trovato la vera ragione delle cucchiare per dare la carica
conveniente a i pezzi e l’ingranire della polvere per commodità delli soldati archibugieri;
hanno medesimamente trovato l’uso delle squadre tolte dal quarto della circonferenza,
istromento molto necessario per dare le elevazioni a i tiri dell’artiglieria […]; hanno parimente
ritrovato il martinello, il colibre, la scaletta e molti altri instromenti necessarij intorno
all’artiglieria; e finalmente i tedeschi, dopo’ l’haver trovato le predette cose, hanno anco
mostrato come si applica la polvere ne’ fuochi artificiati. (Cit. Pp. 16-17; 20-21.)

Anche il Tarducci considerava la spiccata inclinazione alle arti meccaniche dei tedeschi, già
allora universalmente riconosciuta come inveterata, una dote sufficiente a far ritenere che
l’artiglieria fosse una loro invenzione:

368
… Hanno nelle mecaniche sempre havuto gran lode per la gran flemma e pazienza nel
lavorare e delle matematiche rispetto l’altre scienze… (A. Tarducci. Cit. P. 41.)

Ma, oltre ai tedeschi, chi altro faceva buone artiglierie in Europa? Ce lo dice ancora il
Collado:

Dopo’ le fondizioni di Lamagna e di Fiandra sodette, fra tutte quelle ch’io ho veduto ne’ regni
e paesi ove mi è occorso andare, quella di Venezia reputo sia la migliore, perché lì si usa
gran diligenza in purgar i metalli, nel seccare le forme ed in somma nell’imitare a pieno la
proporzione e garbo delle artiglierie tedesche.
Tengono il terzo luogo in bontà le fondizioni di Napoli e di Milano, se bene sono più utili che
belle. Il medesimo si può dire di quelle di Spagna e specialmente di quella che fu fatta nel
tempo che don Giovanni Manrico (‘Juan Manriquez’) di Lara era generale dell’artiglieria della
Maestà Catolica, perché, quanto alla bontà della lega, può stare al parangone d’ogni altra.
L’artiglieria della fondizione di Genova è la più brutta e manco buona di quante io ne ho
veduto e credo ciò avvenire perché in Genova si fabrica gran quantità di artiglieria venale,
onde non si curano molto i fabricatori d’altro che di cavarne danari sia come si voglia. Nel
restante, la turchesca, benché sia tutta mal proporzionata e di poco garbo, è però di buona
lega. (Cit. P. 21.)

Sempre dunque guidati dal loro mercantilismo e dalla loro nota parsimonia i genovesi, al
punto di fare scandaloso mercimonio persino della nobile arte del getto dell’artiglieria! Questa
loro produzione d’artiglieria scadente e a basso costo era già fiorente nel Quattrocento e
infatti le cronache genovesi ci raccontano d’una caravella, termine generico con cui allora
s’indicavano le navi di provenienza oceanica, la quale, già caricata d’artiglierie, era stata
catturata da corsari angioini nel porto di Genova nel gennaio del 1463. La ragione principale
della differenza qualitativa tra l’artiglieria dell’Europa centro-occidentale e quelle
mediterranee stava dunque nell’adoperarsi nella prima forme di creta perfettamente cotte e
seccate, mentre nella seconda, contentandosi i fonditori del solo effetto d’essiccazione
provocato dalla cottura, cioè dal porre del fuoco sotto e dentro le forme, la creta si seccava
bene solo in superficie e conservava dell’umidità al suo interno:

… per evitare questo inconveniente, i prattichi tedeschi mai non adoprano forme alcune che
non siano già fatte prima di tre o quattro ed alle volte più anni… ed anchor dapoi le cuocevo
molto bene e perciò l’artiglierie tedesche e fiamminghe riescono così belle e nettissime, come
per esperienza si vede; quel che non si fa in queste nostre bande, che a pena è finita da
lavorare la forma che subito gli si getta dentro l’artiglieria, dal che proviene che i pezzi
riescono tutti brutti, rognosi, cavernosi e ‘sì mal formati che ci è di bisogno poi di limargli e
scoppellargli, per paliare ed occultare simili difetti… Ed, accioché elle siano ben secche e
condizionate, non si deve contentare il fonditore di quel tanto che gli asciuga il fuoco… (Ib.)

Insomma il fonditore doveva lasciare poi le forme molto tempo a seccarsi naturalmente prima
di cominciare a usarle e solo in tal modo poteva ottenere, come i tedeschi, canne nette, lisce

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e ben formate. Dalla metallurgia dell’artiglieria sembra quindi esser nata quella gran fama
della tecnica tedesca che ancor oggi persiste. Il Sardi conferma l’errore dei fonditori italiani:

… perché se lasciassero per due e tre o più anni seccare le forme dentro a magazzini volti al
mezzo giorno sopra tavolati alti da terra due piedi e così secchi e stagionati servirsene, come
ho visto in Ollanda, Alemagna e Spagna ed altri luoghi della Fiandra e Francia, non
incorrerebbono in tanti esiziali inconvenienti. (P. Sardi. Cit. P. 25.)

Ma le bocche da fuoco nostrane avevano spesso altri gravi difetti, quale per esempio quello
di presentare l’anima non perfettamente diritta:

… in tal caso sarà fondizione genovesa, che, come dicemmo di sopra, rari pezzi si ritrovano
in essa che o poco o assai non habbiano storta l’anima, il qual difetto in qualunque pezzo è
notabilissimo, percioché la tal’arteglieria sempre farà il tiro alto o basso over costiero all’una
banda o all’altra e sarà atta a creppare e rompersi presto, per haver il metallo più sottile in un
luogo che nell’altro (LT. Collado. Cit. P. 20v.).

C’erano poi difetti di trivellazione e altri, tra cui uno molto comune era che il focone non
venisse collocato proprio alla fine dell’anima, per cui la bocca da fuoco, sparando, rinculava
furiosamente più del dovuto a causa dell’eccesso di spinta all’indietro che così subiva. Da ciò
derivava il frequentissimo fracassarsi delle casse e delle ruote degli affusti, derivava la
necessità di doversi costruire le piattaforme delle batterie più lunghe all’indietro con spreco di
tempo, lavoro e materiali e derivava infine la grande fatica a cui si dovevano sottoporre i
bombardieri per riportare dopo il rinculo le canne in avanti sino alla barba del parapetto della
fortezza o della batteria.

Li pezzi di artiglieria che saranno di fuoravia tutti martellati, ancora questi si doveranno haver
per sospettosi (‘ritenere sospetti’), percioché per la maggior parte haveranno qualche
magagne secrete; perché, quando i pezzi riescono dalla fondizione con alcune caverne over
creppature spongose, il fonditore allora, per occultarle, riempisce quelle di metallo liquefatto e
con la lima e co’l martello procura d’incorporare il metallo freddo co’l caldo,cosa che tutti
sanno non poter riuscire, e quindi ne avviene il creppare di tanti pezzi in fazione, come ogni
dì si vede (ib.)

Se questi difetti all’esterno non si vedevano perché occultati dalla martellatura, facilmente si
potevano scoprire invece all’interno, dove non si poteva lavorare né di martello né di lima, e a
tal fine s’usava passare dentro la canna un rampino inastato per vedere se per caso
s’attaccasse a qualche cavernosità interna. Queste cavernosità erano molto pericolose non
solo perché potevano provocare il creparsi della canna, ma anche perché dopo lo sparo si
poteva conservare al loro interno qualche scintilla di fuoco, la quale avrebbe acceso la nuova
carica prima del tempo, cioè mentre la si caricava, e ciò naturalmente con gran pregiudizio

370
della sicurezza del bombardiero. Ma lasciamo ora questa digressione sull’artiglieria
medioevale e domandiamoci qual era la giusta lega per ottenere un ottimo bronzo per
l’artiglieria. Si trattava di 10 libbre di stagno per ogni cento di rame:

… e questa sarà una perfettissima lega e con questa ragione si getta per la maggior parte
delle fondizioni di tutta Lamagna (ib.)

Ma in precedenza la percentuale di stagno era variata dall’8 al 12%, essendo possibile


aggiungerne sino al 26%, a seconda delle opinioni personali dei fonditori o dei committenti e
della loro disponibilità di stagno, questo più costoso del rame. Bisognava poi ovviamente che
rame e stagno fossero ben purgati, purissimi e finissimi. Alcuni fonditori europei usavano
comunque meno stagno, addirittura fino a tre sole parti ogni cento di rame; il Sardi per
esempio, il quale fu autore sensibilmente più tardo del Collado, ne prescrive sette libbre ogni
cento di rame e afferma che una percentuale di stagno maggiore di questa, indurendo troppo
la lega, l’avrebbe resa frangibile. Insomma la lega buona doveva dare un metallo piuttosto
dolce e i francesi ben lo sapevano, come già si legge nella relazione di Francia del 1536
redatta dal residente veneziano Marino Giustinian:

… Ha (Francesco I) poi artiglieria assai d’ogni sorte in ordine, poiché, oltra l’altra, io ho
veduto una banda (‘gruppo’) d’artiglierie - fatte nuovamente in Parigi - di cento doppij
cannoni e colubrine e sono d’un metallo più tenero del nostro e per conseguente non così
frangibile; e gli mettono per questa causa manco metallo, (il) che rende due beneficij: l’uno
che costano manco e l’altro che si conducono più commodamente e con minore spesa. (E.
Albéri. Cit. S. I, v. I, p. 186.)

Fonditori disonesti, per risparmiare il rame, usavano in parte al suo posto i più economici
ottone e piombo:

… overo metalli immondi, come son quelli che essi cavano delle spazzature della terra della
bottega lavata nell’acqua, come si usa, o mal esumati e brutti; in qualunque maniera li tali
pezzi riusciranno spongosi, frangibili e troppo crudi di metallo, atti a creppare e di poco
servizio… (LT. Collado. Cit. P. 28.)

Ma i veneziani preferivano includere nella lega un 10% di ottone per rinforzare il loro rame, il
quale non era di buona qualità come quello tedesco; non bisognava comunque eccedere con
l’ottone, come avvertiva il Capo Bianco laddove diceva del giusto colore che la lega di bronzo
avrebbe dovuto avere:

… il metallo sarà di color rossigno mescolato col berettino (‘grigio’; prlt. ravus; lt. furvus), che
questo colore assai mi piace, e che sopra il tutto non tiri troppo al giallo, perché (‘ciò’) ci da

371
manifesto segno che haverà assai lottone, il qual causa fragilità al pezzo… (A. Capo Bianco.
Cit. P. 11r.)

Poiché nel bollire il rame nella fornace, nello spumarlo e purgarlo a dovere, si verificava un
calo di peso, s’usava concedere al fornitore un abbuono, il quale in alcuni paesi era del 10%,
in altri del 7 o dell’8, secondo la qualità del rame e le consuetudini locali. Quanto più si teneva
il rame a bollire tanto più aumentava il calo-peso:

… e per questa causa i fonditori anticipano spesse volte l’hora della fondizione; là onde
avviene che i pezzi riescono crudi, rognosi e mal formati (LT. Collado. Cit. P. 21v.)

Il rame vecchio, già bollito, spumato e purificato, se riutilizzato calava ovviamente molto di
meno; ciò nondimeno il calo pattuito col fonditore poteva anche dipendere dalla qualità e
stato di conservazione del metallo. Per esempio in una nota di credito del 30 dicembre 1530
leggiamo che, avendo ordinato il Comune di Siena al gittatore d’artiglieria Giovann’Andrea di
Carlo Galletti di disfare una grossa bombarda vecchia e di utilizzarne il bronzo così ricavato
per il getto di nuove artiglierie, poiché il detto bronzo era di cattiva qualità (molto lordo,
tritolame e fondaccio), per detto disfacimento gli si faceva credito, oltre del calo-peso
convenzionale ordinario, di uno straordinario di 350 libbre, mentre poi, per quanto riguardava
la fonditura delle nuove canne che si sarebbero ottenute da quel materiale, gli si riconosceva
solo il calo-peso ordinario (A. Angelucci. Cit.).
Era infatti prassi comune che un principe o una repubblica riutilizzasse le sue vecchie canne
d’artiglieria che, a causa dell’uso, fossero ormai crepate, sboccate, sfogonate, cavernose o
che si presentassero mal proporzionate nelle misure e spessori, difficili da sistemarsi sugli
affusti, o perché dai calibri ormai disusati, dandoli ai suoi fonditori perché le rifondessero e ne
utilizzassero il metallo per farne di nuove ed è questo il motivo per cui si trovino oggi al
mondo così pochi esemplari di bombarde rinascimentali, ornate di tanti bei bassorilievi e di
storia, e ancor meno d’artiglieria medioevale; così, prima del 1540, scriveva per esempio
Donato Giannotti (1492-1573) a proposito di una sua visita all’arsenale di Venezia:

… Nella munizione dell’artiglieria trovai gran copia d’artiglieria minuta e grossa, come sono
moschetti, falconetti, cannoni, mezzi, quarti, columbrine e simili, e del continuo si gettava
assai della nuova, convertendo in questo la materia molto vecchia che all’uso presente della
guerra non è più accomodata, siccome erano molti pezzi grossi che io vidi, di quella sorte che
si commette (‘che si congiunge’) siccome usavano gli antichi nostri. Eravi ancora un numero
grande di artiglieria corta di ferro che si usa in su i navigli… (Giannotti, Donato, La Republica
di Vinegia. Lione, 1570.)

372
Chissà dunque quanti meravigliosi esemplari di scultura bronzea dell’antica civiltà ellenistica
e di artistiche campane rinascimentali sono, specie dopo la caduta di Costantinopoli, anche
finiti nelle fornaci delle prime fonderie d’artiglieria dell’impero ottomano! Tanto infatti leggeva
in Senato il bailo veneziano Costantino Garzoni in una sua relazione su Costantinopoli nel
1573:

… D’artiglieria, sebbene non ve ne sia in molta abbondanza, non ne hanno però alcun
mancamento; e, dopo la rotta della loro armata (cioè a Lepanto due anni prima), si sono
serviti per rifarne della nuova di u numerodi campane che tengono in alcuni magazzini a
Trebisonda conservate epr tale effetto. (E. Albéri, Cit. S. III, v. I, p. 421.)

Oltre tutto fondere del vecchio bronzo era più sbrigativo di formarne del nuovo perché, a
causa della interconnessa presenza d’una percentuale di stagno, la liquefazione riusciva
molto più veloce; ma per facilitare comunque il lavoro, prima di rifonderli, i vecchi grossi pezzi
d’artiglieria si arroventavano con fuoco di carbone e, così indebolti, si spezzavano a colpi di
mazza.
Ma perché le bocche da fuoco erano di calibro tanto vario da far sembrare l’artiglieria di fine
Cinquecento ancora priva di qualsiasi regola o norma costruttiva e balistica che li
uniformasse, mentre, come stiamo vedendo, così non era assolutamente? Scrive ancora il
Collado:

Se, dopo’ che le forme dell’artiglieria saranno finite, asciutte, secche e cotte, l’anima di creta
resterà con la sua conveniente grossezza in tal maniera che, gettato che sarà il pezzo, sia di
quella portata di palla che dal signore dell’artiglieria gli fu commesso, all’hora il fonditore sarà
stimato diligente e pratico, per esser questa una delle principali considerazioni che si
ricercano nel suo ufficio… perché in effetto la cagione di ritrovarsi tante differenze di pezzi e
diversità di boccadure proviene sempre da malizia overo negligenza d’essi fonditori, in questo
modo che mai il principe signore dell’artiglieria dirà al fonditore: Maestro, fatemi un falconetto
di lire 5 ed oncie 6 di palla overo fatemi un cannone di lire 56 di portata; anzi si deve credere
che quel signore gli commandò che’l primo pezzo havesse lire 5 overo 6 di palla ed il
secondo che havesse lire 50 overo 60 di boccadura; ma egli, per esser mal prattico overo per
non voler metter qualche poco di fatica di più ed ingegno o per coprire qualche magagna o
altro difetto interiore del pezzo, ne mangiò tanto del metallo con la tinivella che ne fu causa
che quelle oncie e lire che ci sono di più del dovere avanzassero in quelli pezzi, come in
effetto in molti di essi appare. (LT. Colliado. Cit. Pp. 22-23.)

E il risultato della predetta imperizia era dunque la tanta diversità di boccature, ossia di
calibri, che al tempo del Collado ancora si poteva dappertutto costatare; inoltre:

… Da quest’errore resultano diversi altri inconvenienti e’l primo sarà questo: che le palle d’un
pezzo o d’un presidio non sono buone da servire all’artiglieria d’un altro. Il secondo
inconveniente è che ad ogni pezzo d’artiglieria bisogna la sua particolar cucchiare, la onde
procede gran confusione di scambiare le cucchiare nelle fazioni e di fare, per questa causa,
373
creppare spesso i pezzi d’artiglieria, caricando l’un pezzo con la cucchiara dell’altro… Come
per esempio la Maestà Catolica nel suo regio castello di Milano si ritrova la seguente
artiglieria, cioè 49 falconi, 38 sagri, 18 mezze colobrine, 12 colobrine, 28 quarti cannoni, 22
mezzi (‘mezzi cannoni’), 69 cannoni di batteria e due basilischi. Tutti i sodetti pezzi, ne i quali
sono otto differenze tra tutti, quando tutte le bocche d’un genere d’artiglieria fossero simili
l’una all’altra, a un bisogno si caricarebbono con otto sole cucchiare e bisogneriano otto sorti
di palle solamente da tirar con essi. Però adesso per la negligenza de’ fonditori, per queste
otto differenze, che sono 238 pezzi che si ritrovano nel sodetto castello incavalcati, lasciando
da parte le altre artiglierie minute e molte altre ch’ogni giorno si fanno nella casa della
fondizione, bisognano altre 238 cucchiare ed altrettante sorti overo differenze di palle,
altrettante lanate ed estivadori a chi volesse caricar con ragione. Il terzo inconveniente che
causano i fonditori è la gran confusione ed errore de i colibri che adoperano i bombardieri da
trovare per il diametro della bocca quante lire di palla tira qualunque pezzo di artiglieria; che,
per causa dell’errore sodetto, a pena si ritrova colibre che non sia falso. (Ib.)

Ecco dunque spiegata la ragione di tanta diversità d’artiglierie, cioè dei loro calibri, che si
ritrova al tempo in esame e si ritroverà ancora per lungo tempo a venire; in effetti si trattava
d’un artigianato che mal si prestava a una produzione tecnica, la quale avrebbe avuto già
bisogno di un’uniformità industriale. Se i calibri di palla delle varie bocche da fuoco fossero
stati allora debitamente uniformati, prosegue il Collado, oltre agli altri innegabili vantaggi ne
sarebbe ancora risultato il seguente:

… che qualunque bombardiero, per ignorante e mal prattico ch’egli fosse, non faria mai
errore intorno al caricare delle artiglierie sodette e tagliar delle cucchiare quando, a pigliar
solo in mano qualunque cucchiare, la saperia applicar al suo pezzo; quel che adesso non si
può fare per la confusione grande ch’è in esse e percioché un pezzo si ritrova di lire 4 oncie 7
di palla ed un altro di lire 13 e mezza ed un altro di lire 27 oncie 8; ed in questa maniera
similmente si ritrovano quasi in tutte le fondizioni che per sino adesso si sono gettate e si
getteranno da mó innanzi, se nel sonetto modo non si provede. (Ib.)

In realtà, pochi anni dopo, cioè nel 1609, un’ordinanza di Filippo III limiterà di molto la varietà
dei calibri spagnoli riducendoli ai seguenti:

Cannone di batteria da 40, lungo 18 calibri e pesante da 63 a 64 quintali di libbra.


Mezzo cannone da 24, lungo 19 calibri e pesante da 41 a 42 quintali.
Quarto di cannone da 10, lungo 24 calibri e pesante da 23 a 24 quintali.
Pezzo (pieza) di campagna da 5, lungo 32 calibri e pesante da 23 a 24 quintali (ib.)

Naturalmente continueranno a essere usati tutte le bocche da fuoco gittate precedentemente,


se ancora utili. Oltre alle differenze di calibro, bisognava anche tener conto delle eventali
differenze di peso che le palle potevano presentare, anche se apparentemente dello stesso
calibro perchè fuse nella stessa forma, e ciò per tre motivi: le vene di ferro usate potevano
variare di qualità e quindi essere di consistenza e peso differente, le forme potevano essere

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consumate e quindi formare palle un po’ più grandi di quelle iniziali, alcune palle riuscivano
‘spugnose’, cioè con vuoti interni.
Non era certo un lavoro agevole quello del fonditore e il de Marchi ci spiega perché:

… Dico che quelli che vorranno fare detto essercizio bisogna che habbiano più d’una scienza
e che non stimano (‘stimino’) fatica nessuna che in essa vada – che ne va pur’assai (senza)
manco (‘certamente’); non bisogna che stimino caldo né freddo né che curino d’imbrattarsi le
mani né panni, ancora che (‘senza contare che’) passano molti pericoli di non s’ammazzare o
stroppiare in più modi, come si può considerare (‘facilmente capire’), a maneggiare machine
così gravi, le quali son le più graviche sovvente si maneggiano (‘maneggino’). Ancora, vi è il
pericolo del fuoco, del metallo caldo e squagliato la dove (‘laddove’) sempre vi è da fare; oltra
che per natura sia essercizio mal sano ‘sì per gli vapori della terra ed acqua che si cava per
forza del (‘dal’) fuoco facendo le forme; poi per l’humidità che si sente nelli pozzi quando gli
vapori escono delli (‘dalli’) metalli, quando si fanno squagliare nelli forti e si gettano nelle
forme e per li gran calori che diseccanogli humori che ha l’huomo in sé temperati, questo
fuoco tanto violente che si dà alli metalli e bisogna del continuo esservi sopra a vedere e
mescolare li metalli in detta fornace, la dove (‘laddove’) rende uno ardentissimo calore il
metallo e la vampa del fuoco.
Però (‘perciò’) questa è un’arte molto pericolosa e difficoltosa a fare, perché quando haverai
ridutte a perfezione le forme, la fornace e il metallo per gittare le machine (‘le bocche da
fuoco’), in molti modi possono venire fallaci e per poca cosa; prima per le forme mal cotte o
siano (‘ossia’) rotte o non ben interrate o che se rompe (‘si rompono’) le ligature o l’anima di
dentro salta fuori delli (‘dalli’) suoi termini, come io ho veduto più volte. Puol ancora essere se
gli essalatori dell’aria non saranno ben fatti e (‘o’) li condutti, il dare troppo o poco metallo in
una volta a riempir le forme; ancora, potria mancare il metallo; ancora, potria essere che
venesse sobollito (‘bollicolata’) l’opera e fosse spongosa (‘spugnosa’); potria venire torta e
fuora di proporzione e crepare le forme per il grave peso, il non havere metallo di sopra che
facesse fissare l’opera; vi sono tanti pericoli ed inconvenienti in essa opera che sarebbe
longo il scriverli.
Poi bisogna essere valente disegnatore, scultore, muratore per fare le fornaci, che sono di
grande importanza; bisogna essere buono geometra per sapere il peso delli metalli e havere
cognizione di essi; ancora, bisogna sapere lavorare li legnami e ferramenti e saper fare la
lega del metallo dell’artegliaria; in tutti questi essercizi non bisogna essere ignorante.
Oltra poi tanta fatica e spesa e, fatta che sarà l’artegliaria, alla prova si suol perdere non
tanto (‘non solo’) l’opera ma eziandio quello (‘il fonditore’) che l’ha fatta con di molti altri,
perché, se la non sarà fatta proporzionata e di buona lega e carica con ragione, le sogliono
andare in pezzi e portar via quanto (‘quanti’) se ne trovano dinanzi e dalli lati, che essi
toccheranno (‘colpiranno’), andando in più pezzi, dove l’huomo non sa dove sia più securo,
‘sì come a me è avvenuto una mattina, facendo provar cinque cannoni che io haveva da
ricevere per l’eccellenza dell’illustrissimo duca Ottavio Farnese, duca di Parma e Piacenza, li
quali s’apersero, e de molte altre in altri luoghi io ho veduto andare in pezzi.
Perciò quelli che vorranno dar opera a fare l’artegliaria bisogna che siano bene esperti in
più scienze; perciò non bisogna stimar la fatica né’l caldo né’l freddo e sapere fare le forme,
la fornace e la composizione del metallo (F. de Marchi. Cit.)

Il de Marchi non poteva certo criticare il Farnese, suo datore di lavoro, ma in altro punto del
suo trattato ci dice che detti cannoni crepati pesavano ben otto migliara (di libbre) l’uno, cioè
4 tonnellate d’oggi, e nelle sue parole si capisce il disappunto e il dispiacere di esser stato
costretto dal duca a usare cariche non adatte e non tanto perché della cinque-asso-asso
quanto perché da 35 libbre di nuove miscele di polveri ancora più potenti, risultate poi troppo
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forti e così rovinose, mentre non se ne sarebbe dovuto dare da più di 25. Si trattava infatti di
versioni potenziate della cinque-asso-asso, di un tipo cioè che fu detto polvere di 32 (ma
anche polvere di 34 o anche di 34 in 40) di crescimento per cento, cioè con una maggior
presenza di salnitro, e si trattava di 100 parti di salnitro, 15/17/20 di solfo e 16/17/20 di
carbone, secondo i vari esperimenti che se ne fecero. Perciò, dati i disastrosi risultati
ottenutisi in quelle prove, nessun altro principe italiano volle, nonostante certi innegabili
vantaggi pratici economici, allora seguire l’esempio del duca e perché si arrivasse a una certa
affermazione della cinque-asso-asso nell’artiglieria italiana dové passare ancora del tempo:

… Di questa sorte di polvere, non s’è ancora arisicato nessuno prencipe in Italia adoperare
tal polvere, dove che alli pezzi di sessanta libra di palla, si dava quaranta libre di polvere
grossa da quattro, cioè quattro parte di salnitro ed una di solforo ed una di carbone, ma di
questa se ne dà venticinque e fa la medesima fattione (‘e si ottiene lo stesso risultato’), ‘sì
che l’invenzione d’havere ritrovato di questo vantaggio, di portar manco (‘minor’) traino di
polvere, egli è stato l’illustrissimo duca Ottavio Farnese duca di Parma e Piacenza… (ib.)

Non fu il duca a inventare quella polvere, perché, come abbiamo già detto, era già
largamente usata per le armi portatili, ma certo fu lui in Italia il primo ad applicarla
all’artiglieria grossa; solo che volle strafare e usare quelle potenziate, forse queste sì da lui
ideate, che gli distrussero ottime bocche da fuoco e di conseguenza non trovarono
apprezzamento.
Tornando ora alle summenzionate artiglierie del castello di Milano, ne abbiamo un altro
elenco fatto più o meno nello stesso periodo (1587) e tratto dalla relazione del suddetto
Bonifazio Antelmi; è interessante riportarlo a confronto di quello dato dal Collado:

Nel castello di Milano vi sono 220 pezzi di artiglieria, cioè cannoni 60, colubrine 4, mezzi
cannoni 27, mezze colubrine 5, quarti cannoni 11, sagri 35, falconi 11, falconetti 13, smerigli
13 e moschetti di bronzo 41; le quali artiglierie sono per lo più dirizzate verso la città, come
riputata da’ spagnuoli più sospetta ed, in ogni accidente, più importante… (E. Albéri. Cit. S. II,
v. V, p.361.)

Anche se il totale delle bocche da fuoco incavalcate non è lontano da quello asserito appunto
dal Collado, le differenze che si notano nei quantitativi parziali sono notevoli, il che ci fa
sospettare che l’Antelmi, anche se leggeva la sua relazione negli stessi anni a cui si riferiva lo
spagnolo, come spesso facevano questi relatori veneziani, avesse potuto copiare tali dati da
qualche relazione più antica.
Abbiamo detto che il Collado s’attribuiva il merito d’esser stato il primo ad aver dato in Italia
ordine e rigorosità alla scienza dell’artiglieria, avendovi introdotto i principi di quella tedesca:

Alcuni autori hanno scritto e fatto stampare libri d’artiglieria, cioè Nicolò Tartaglia, Girolamo
Ruscelli ed il Cataneo, le cui opere più tosto rendono testimonianza d’huomini matematici ed

376
in altre arti overo scienze in strutti che di prattichi nell’essercizio manuale dell’artiglieria e de’
suoi effetti. (LT. Collado. Cit. P. 30.)

In effetti era vero; in Italia, quando si discettava di tecnica, architettura a parte, lo si faceva il
più delle volte – e Machiavelli docet - con scarsa cognizione di causa. Niccolò Tartaglia (†
1557) trattava dunque dell’artiglieria da puro matematico, Girolamo Cataneo si dimostra
esperto, più che d’artiglieria, di fortificazioni e di squadronamenti della fanteria, Girolamo
Ruscelli († 1566) infine sarà stato forse valido scienziato, ma certo digiuno d’artiglieria, della
quale ha scritto solo tante impertinenze. In realtà il Collado non si rese conto che il Ruscelli,
noto letterato ed erudito del Cinquecento, digiuno di arte militare, si era limitato a farne
raccolta di testi ai suoi tempi poco noti senza purtroppo indicarne sempre i relativi autori,
probabilmente perché in parte anonimi; tale raccolta fu poi pubblicata poco dopo la sua morte
dal veneziano Benedetto de Bolis. Il Collado è veramente il primo autore che, pur di
nazionalità spagnola, fa pubblicare in italiano la sua opera per reclamare uniformità dei calibri
e delle polveri non solo in Italia, ma in tutte le province soggette alla corona di Spagna,
secondo la concezione dell’artiglieria elaborata dai tedeschi, al fine di evitare i giornalieri
errori degli artiglieri, errori dovuti alla grande confusione e arbitrarietà esistente in questa
materia al suo tempo; egli non nomina il de Biringuccis, evidentemente non conoscendolo,
cioè l’unico suo predecessore che, sebbene alquanto ‘arcaico’, pubblicò a stampa un’opera in
cui, anche se non trattava dell’artiglieria secondo rigorose classificazioni’ che a quel tempo
certo ancora non potevano esistere, pure accennò a molti dei concetti che il Collado poi
esporrà tanti anni più tardi; né d’altra parte accenna a particolari moderni autori tedeschi,
autori che pure avrebbe dovuto conoscere, visto che, come egli stesso afferma e sostiene,
quel popolo era maestro e campione nella scienza dell’artiglieria. Dunque prima di lui in Italia
era il caos:

… E la causa di haversi gettato nel mondo tanta diversità di pezzi di artiglieria… la gran
confusione e diversità di palle, il creppare e rompersi innumerabili pezzi nelle fazioni della
guerra non è venuto già da altra cagione che di non essersi ben intesa ed havuta in prattica
la distinzione sodetta de i generi e differenzie dell’artiglieria né meno gli effetti, per che (‘per i
quali’) ciascheduna sorte di pezzi furono formati; e da non essersi osservato ordine né regola
alcuna, che sia stata mai stabile e ferma, intorno alle fondizioni dell’artegliaria. Anzi nella
maggior parte del mondo si ha più tosto seguitato il capriccio e voler de’ principi… overo il
semplice parere de’ fonditori. Per il che torno a dire ch’essendo, come è in effetto, l’artiglieria
il propugnacolo delle città e fortezze ed il nervo della milizia di questi tempi, anzi che senza
essa non si potrebbe perfettamente essequire, è cosa convenientissima e molto necessaria
che da mò innanzi con qualificati rimedij si proveda. (Ib.)

Bisogna chiarire che il primato dei tedeschi nell’artiglieria riguardava sì la fonditura e la


balistica, ma questo non significava che essi fossero i migliori bombardieri, cioè che
sapessero poi usare le bocche da fuoco meglio degli altri; secondo il capitano Baltazar de

377
Morales, il quale si trovò nelle guerre che tra il 1543 e il 1548 combatté in Africa il già più
volte menzionato conte di Alcaudete, i migliori artiglieri erano quelli spagnoli (… Nuestros
artilleros, que creo no los hay mejores en el mundo…)
Il problema di una maggiore uniformità dei calibri fu affrontato efficacemente dapprima dai
francesi, come si legge nella relazione di Francia del residente veneziano Michele Soriano, la
quale è del 1562:

… Quanto all’artiglieria, di molte cose che potrei dire dirò questa sola, che mi par degna di
considerazione grande. S’ha atteso in Francia a ridurre tutti i pezzi ad una forma commune,
non troppo grande per rispetto degl’impedimenti né troppo piccola perché non fa effetto che
mediocre, e tutti ad una misura, per servirsi in tutti di una medesima forma di palle e di una
medesima quantità di polvere e de’ medesimi istrumenti in moverli, condurli ed usarli; il che si
trova molto utile così nelle terre come negli esserciti, perché, quando ogni palla è buona per
ogni pezzo, si leva la confusione che nasce nell’apparecchiarle e nel cernirle e, quando è
guasto un pezzo, non si perde l’uso delle sue palle e, ne’ fornimenti, quello che serve ad un
pezzo serve a tutti, perché son tutti uguali di peso o poco differenti, e dove può andare uno si
possono far andare tutti e l’effetto che può far uno si può far fare da tutti. (E. Albéri. Cit. S. I,
v. IV, pp. 109-110.)

L’uniformità dei calibri fu poi un’esigenza lentamente avvertita anche negli altri stati europei,
per esempio la si legge nell’editto del 15 maggio 1594 promulgato dal duca di Savoia e con il
quale si costituiva una milizia paesana:

… avvertendo, se pur si potrà, che li archibuggi e moschetti siano tutti di una misura o sia
calibre respettivamente (A. Angelucci, Il tiro a segno in Italia. App. LVIII. P. 87.)

378
Capitolo XI.
Orecchioni, casse e ruote.

Tratteremo ora degli accessori delle canne d’artiglieria, cominciando dagli orecchioni, cioè da
quelle due protuberanze cilindriche di metallo che facevano corpo unico con la canna stessa
e che ricordavano appunto le orecchie del capo, da cui il loro nome. Gli orecchioni avevano
un triplice scopo e cioè raccogliere tutto il peso della bocca da fuoco per farlo gravare sul
punto più robusto del carrello o affusto che dir si voglia, in particolare sull’assile e quindi sul
punto mediale tra le ruote; fungere da punto di bilanciamento sul quale la canna si fermava in
equilibrio; tener la bocca da fuoco stessa ferma sulla cassa del carrello, in modo che non
potesse spostarsi su di essa né in avanti né indietro né potesse girarsi di fianco. Il calcolo per
individuare il punto dove dovevano essere piantati gli orecchioni era lo stesso per tutti e tre i
generi dell’artiglieria, vale a dire si divideva la lunghezza della canna in sette parti uguali e gli
orecchioni si piantavano, con il loro centro, al punto in cui finivano le prime tre parti a iniziare
dalla gioia o cornice o anello del focone; nelle bocche da fuoco del secondo genere, per
esser precisi, la distanza ottimale degli orecchioni dalla cornice della culatta era però
considerata dagli esperti bocche 7 e 6/7. Alcuni fonditori usavano invece dividere la canna in
cinque parti e piantare gli orecchioni al punto in cui finivano le prime due parti a cominciare
dal focone; tra questa misura e la precedente c’era una differenza di solo poco più d’una
bocca di lunghezza, ma questo poco faceva sì che le canne divise in quinti, poiché gli
orecchioni si situavano così un po’ più indietro, avessero tendenza ad abboccarsi (sp.
cabecear) dopo lo sparo, ossia a inchinarsi con la bocca a terra, il che non capitava a quelle
invece divise in settimi, le quali però presentavano così una culatta alquanto più greve. In
sostanza andavano bene ambedue i metodi; quello dei due quinti era forse il più antico,
perché lo prescriveva il de Biringuccis come unico adatto a dare equilibrio alla bocca da
fuoco e per evitare che pendesse da dietro o davanti. A proposito di questo autore, egli dava
agli orecchioni o torriglioni altri nomi (li bilighi over manichi che si chiamino), mentre a Napoli
gli stessi erano detti triglioni, traglioni (dal suddetto torriglioni, sembra attraverso la forma
intermedia turuglioni), orchioni (G. B. Isacchi. Cit.), mognoni (dallo sp. muñones), modiglioni o
anche cuglioni e, se quest’ultimo nome ha una ragione facilmente intuibile, il primo ha
certamente a che fare con i mignoni, ossia con i mezzi bracciali metallici che difendevano
l’esterno del braccio dalla spalla al gomito, allora indossato da molti fanti e cavalieri. Ma
quanto dovevano esser grossi e lunghi gli orecchioni? Per quanto riguarda lo spessore, il de
Alaba y Wiamont scriveva che doveva essere semplicemente pari al diametro della palla, ma
altri autorevoli autori facevano delle precisazioni e bisogna a tal proposito fare una principale

379
distinzione tra canne seguenti e canne incamerate; cioè nei primi grossezza e lunghezza
dovevano essere ognuna pari a un diametro della bocca della canna, nei secondi invece
dovevano essere pari a un diametro della bocca della camera della canna stessa o, come
vuole il Sardi, a mezzo diametro della bocca della camera. L’unica eccezione era costituita
dai cannoni ferrieri seguenti di grosso calibro, dove la lunghezza degli orecchioni era
alquanto più corta del diametro della bocca – il Sardi infatti li voleva lunghi 7/8 di bocca, per
evitare che gli assoni della cassa del carrello o affusto dovessero essere di conseguenza
troppo spessi. Perché ci fossero queste distinzioni tra gli orecchioni il Collado non lo spiega;
dice però che in tal maniera il bombardiero pratico, semplicemente osservando gli orecchioni,
poteva subito conoscere se la canna che era al suo cospetto era o non era incamerata e, nel
caso lo fosse, sapeva così subito di che larghezza era la sua camera (ch’è una cosa
bellissima e di molta importanza in questo essercizio.). Alle origini dell’artiglieria gli orecchioni
s’erano piantati proprio al centro dello spessore laterale della canna, ma poi ci si era resi
conto che in questo modo l’artiglieria era troppo infossata tra gli assoni della cassa e ad
avere di conseguenza poca agilità ed elevazione; per tale motivo ora, diviso il diametro totale
della canna da fuoco in tre parti, si piantavano invece nel terzo più basso, cioè nel metallo
pieno inferiore o, in ogni modo, in maniera tale che la loro superficie inferiore fosse
perfettamente al pari con quella della canna; in questo modo s’ottenevano due risultati e cioè
maggior emergenza della canna dalla cassa e maggior saldezza degli stessi orecchioni.
Il buon bombardiero doveva esser esperto anche della costruzione delle casse o carrelli o
letti (td. Laden), delle ruote e degli assili e cioè, in una parola, degli affusti dell’artiglieria;
doveva infatti, ogni volta che gli era affidato una nuova bocca da fuoco, controllare che fosse
ben incavalcato con cassa e ruote ben ferrate per evitare che ai primi tiri di polvere (‘spari’)
cascasse a terra; i buoni affusti si costruivano di duro legno di noce, quercia, leccio, olmo o
simile ben stagionato e secco, ma assali e barili delle ruote si facevano al tornio quando il
legno era ancora verde e nerboso perché non si spezzassero a causa del gran peso che
avrebbero poi dovuto sostenere; era questa però materia in cui c’era abbastanza varietà di
vedute tra i mastri falegnami e tra i bombardieri:

… percioché alcuni di essi le misurano a piedi ed altri a canne, altri a palmi ed alcuni a bracci
ed oncie, non accorgendosi costoro che queste tali misure… sono differenti l’una dall’altra e
si variano quasi in tutti i regni e provincie dell’Europa; conciosiacosa che il piede romano è
differente da quello di Venezia e quello di Venezia differente da quello di Sicilia ed il piede
romano ancora è differente da i piedi di Spagna, Francia ed Alemagna e che la medesima
differenzia eziandio si ritrova tra le canne, alne, braccia, palmi ed oncie di tutti questi regni e
provincie; dal che risulta che’l bombardiero che sarà prattico del braccio di Lombardia overo
del piede di Venezia, se andasse in alcuni altri de’ reami o provincie sodette, egli non saperia
trovare una minima certezza circa delle misure delle cose dell’artiglieria (LT. Collado. Cit. P.
30v.).
380
Ancor più confusione c’era stata a tal proposito in precedenza e infatti all’inizio dello stesso
Cinquecento così scriveva il de Biringuccis:

… E tornando a questi che fanno li carri per l’artigliarie e che fanno li letti e le ruote a caso,
hor più basse, hor più alte, hora più sottili ed hora più grosse e più cariche di legname che al
peso ed alle forze dell’artigliarie non si convengano. (V. de Biringuccis. Cit. P. 242r.)

Alcuni dunque facevano allora casse e ruote troppo piccole e deboli, altri troppo sconcie,
ossia troppo grosse e difficili da condursi, e pertanto lo stesso de Biringuccis ne proponeva
già allora una razionalizzazione:

… Perilché, secondo la mia oppenione e secondo che trovo, dal pezzo dell’artigliaria s’hanno
da cavar tutte le misure, ‘sì la longhezza come la grossezza de’ letti, e dapoi del diametro
della ruota s’ha da cavar la grossezza del mezzo e così del mezzo s’han da cavar li gavi e di
gavi li razzi che li sostentano e così l’asse che entra ne’ mezzi dove girano le ruote, con dar
loro conveniente grossezza e longhezza… (ib.)

Per tal motivo presto s’adotterà come misura universale il diametro della bocca non solo per
le canne, ma anche per i loro affusti e per i loro attrezzi; faranno eccezione solo le canne
piccole, come gli smerigli e i falconetti, le quali, a causa del loro limitato calibro di palla, erano
molto strette di bocca e per tanto le loro ruote sarebbero venute troppo basse rispetto ai
parapetti, se si fosse voluta conservare anche per loro la proporzione basata sul diametro di
bocca, e inoltre sarebbero anche risultate inadeguate sia la larghezza sia il fronte degli
assoni delle casse; in realtà, dal sagro in giù, trattandosi di canne abbastanza leggere per
essere più agevolmente trasportate, conveniva incavalcarle non su casse e ruote bensì su
cavalletti o balestriere resistenti alla rinculata, ottenendosi così inoltre anche tiri più potenti..
Le casse del primo genere d’artiglieria dovevano esser lunghe una volta e mezza la canna
per cui erano fatte, quindi in genere 48 bocche:

… e con questa istessa ragione si formano la maggior parte delle casse tedesche, le quali
sono tutte belle, utilissime e ben ferrate ed appropriate all’uso de’ pezzi (LT. Collado. Cit. P.
63.)

Una cassa più corta avrebbe premuto troppo colla coda (sp. cascabel) nel terreno,
opponendo così resistenza alla ritirata della bocca da fuoco (onde in pochi tiri vanno le ruote
e casse in pezzi. Collado). Una cassa più lunga avrebbe invece provocato una rinculata
troppo lunga; è vero che maggiore rinculo faceva la bocca da fuoco minore ne risultava
l’effetto del tiro, ma bisognava innanzi tutto salvare le casse e le ruote permettendo dunque

381
che le canne si ritirassero alquanto indietro con i loro carrelli, a meno che non si disponesse
per esse di un luogo troppo stretto, perché in tal caso era giocoforza diminuire la lunghezza
delle casse; o a meno che non si volesse adottare l’uso dei turchi, i quali formavano le loro
batterie con bocche da fuoco disincavalcate, cioè prive dei loro affusti e distese
semplicemente per terra con la bocca tenuta in posizione più alta della culatta.
La larghezza (’altezza’) degli assoni o tavoloni laterali (sp. crueñas, più tardi cureñas) della
cassa doveva essere di 4 bocche e ¼ alla fronte, 3 e ½ mezza alla metà, ossia in
corrispondenza del punto in cui poggiava la culatta, e 2 e ½ alla coda, ossia al punto in cui
l’assone toccava terra. La metà dell’assone corrispondeva al punto in cui la culatta della
canna riposava sul calastrello mediano e pertanto lì l’assone stesso doveva essere
abbastanza largo, in modo da piantarsi il detto calastrello più in basso possibile tra gli assoni
e, di conseguenza, da potersi dare maggiore elevazione alla canna. Alcuni maestri falegnami
usavano invece le misure 4, 3 e 2 bocche. La grossezza degli assoni, cioè il loro spessore,
doveva essere in questo primo genere dell’artiglieria d’una bocca, ma per gli smerigli e le
canne più piccole doveva invece essere d’una bocca e mezza. Alcuni erano però del parere
di conferire maggior grazia e leggerezza alle casse, diminuendo d’un ottavo di bocca lo
spessore degli assoni al loro interno, ma ciò solo dal calastrello della culatta a quello della
coda.
Gl’incastri degli orecchioni negli assoni si chiamavano orecchioniere e dovevano esser
lontane dalla fronte dell’assone 3 bocche giuste, in modo che, una volta incavalcata la canna,
si ritrovavano 3 bocche e ½ dalla fronte al centro dell’orecchione. Alcuni maestri artiglieri
preferivano però farle più lontane dalla fronte, cioè fino a 4 bocche e ½, in modo da far
caricare sull’assale tutto il peso della canna agli orecchioni e per compartirlo così meglio su
tutta la cassa. La larghezza di questi incastri doveva poi essere quella stessa degli orecchioni
e la loro profondità ⅔ del diametro dello stesso orecchione e non di più, per evitare che la
canna si presentasse troppo depresso nella sua cassa. A volte l’interno dell’orecchioniere si
rinforzava con un rivestimento di lama di ferro e in tal caso la loro larghezza doveva essere
ovviamente maggiore del doppio dello spessore di quella lama, la quale si chiamava bandone
(da banda = ‘lama di ferro’, come lattone, ‘lama di latta’) e poteva essere di due tipi, semplice
o snodato, ma in ogni caso sembra che non fosse inchiodato.
I calastrelli delle casse, i quali erano detti anche chiavi o traverse (teleras in sp.), erano
appunto le 4 traverse che servivano a collegare tra loro i due assoni in 4 punti:

Devesi notare che a ciascuna di queste chiavi si deve mettere il suo perno o chiavigione di
ferro con il suo dado e chiavetta, forte e gagliardo, che stringino gli assoni insieme e tenghino
le chiavi di legno forte e sicure (P. Sardi. Cit. P. 68.).

382
Oltre però a questa funzione di mantenere stretti insieme i due assoni, ognuno dei quattro
calastrello ne aveva un’altra sua particolare, cioè quello della fronte serviva anche per evitare
che la canna s’abboccasse per terra allo sparo; il secondo serviva a fare da sostegno alla
culatta in caso di massima elevazione della canna e, come abbiamo già detto, doveva esser
posto il più in basso possibile, in modo da permettere la maggior elevazione.

… Il terzo calastrello serve da sostentare con li cogni la culatta del pezo per rispetto
d’inalzare over calare la punteria di esso (LT. Collado. Cit. P. 31v.)

Questa terza chiave era detta anche resalto e si trovava all’inizio della coda della cassa;
faceva dunque da sostegno alla leva con la quale si sollevava la culatta per potervi inserire
sotto i cunei. Il quarto e ultimo calastrello, quello della coda, aveva il seguente uso:

… da poter legare e fermare li pezzi, quando van marciando, su’l carrino con il chiaviggione
di ferro, da potergli commodamente tirare e condurre per viaggio (ib.)

Per rinforzare i calastrello s’usava armarli di ferro:

… si deve mettere appresso a ciaschedun calastrello di legname uno grosso perno over,
diciamo, chiaviggione di ferro, con la sua rosetta over dado e chiavetta forte anch’essa di
ferro, in modo che trapassi ambedue gli assoni dall’un capo all’altro (ib.)

Continuando a descrivere le casse del primo genere dell’artiglieria, diremo ora che le loro
ruote dovevano essere alte 14 diametri di bocca (perché questa è la sua commune e ben
ordinata misura, secondo la usanza tedesca. Collado, ib. P. 66); invece il Capo Bianco, come
per la lunghezza delle canne, dava per quella delle casse misure differenziate a seconda non
solo del genere ma anche del singolo tipo di canna d’artiglieria (A. Capo Bianco. Cit.).
Ciò che asseriva il Collado valeva però per le bocche da fuoco da campagna solamente,
perché ovviamente nei castelli, nelle fortezze e nei vascelli l’altezza delle ruote doveva
essere proporzionata al parapetto della muraglia o del bordo al quale si poneva la canna
(benché si ritrovano tante diversità di altezze che par che non ci sia regola ferma. Sardi).
Come erano suddivise queste 14 bocche? Il mozzo della ruota, detto anche barile, armato di
4 robusti cerchi di ferro, doveva essere grosso 4 bocche (con quegli smussi che gli danno più
grazia. Sardi); i raggi, 4 bocche per lato; il gavello o corva o gaulo o gavio o gavia una bocca
per ogni lato. Quest’ultima misura non comprendeva però il tarenco o tarengo, cioè il cerchio
di ferro che circondava la ruota sul gavello e il cui spessore, il quale doveva essere d’un
undicesimo o un dodicesimo di bocca, s’aggiungeva ovviamente quello del gavello; il tarenco
era tenuto attaccato al gavello di legno per mezzo di chiodi dalla grossa testa e da staffe di

383
ferro bracate, dette anche bride, cioè briglie, le quali erano situate tra raggio e raggio alla
connessione tra due pezzi di tarenco, in modo da stringerli entrambi, ed erano tenute strette
dalle stringhe di ferro legate sotto il gavello; ma per una migliore comprensione di
quest’armatura delle ruote rimandiamo alle illustrazioni che si trovano nei predetti testi. Qui
aggiungeremo ancora solo che i chiodi, oltre ad avere la funzione di fissare i tarenchi,
avevano anche quella di non far slittare le ruote per le loro teste sporgenti:

… Questi tali chiodi doveriano esser fatti con le teste a punta di diamante, ma rotondi a guisa
di cono ottuso (P. Sardi. Cit. P. 74).

Questi chiodi con le teste appuntite a ponte di diamanti erano utili sui terreni accidentati o
pendenti, ma su un terreno liscio dei chiodi invece a testa piatta, i quali non sporgessero dal
tarenco, permettevano di tirare una bocca da fuoco con la metà del bestiame occorrente per
uno con i chiodi a testa sporgente.
La testa della ruota doveva poi esser lunga 4 bocche e ½ e a ogni estremità di questa
s’attaccava un asprezzo od occhiale, vale a dire una guarnizione di metallo (‘bronzo’) nel
caso di bocche da fuoco grandi e di ferro nel caso delle piccole, il quale serviva a preservare
la testa stessa da guasti e usura. L’occhio della testa della ruota, cioè il foro in cui penetrava
la testa dell’assale, era armato all’interno d’una boccola, ossia d’un cerchio di ferro grosso e
forte. Il gavello doveva essere tanto largo quanto alto, cioè una bocca. Insomma una bocca
da fuoco doveva avere ruote non tanto alte da lasciarla troppo esposta, insieme al suo
bombardiero, all’artiglieria nemica né tanto basse da restare impantanata fino alle teste nel
fango della campagna e comunque, in fortezza, la testa o mozzo (gra. ἀμαξήπους) dell’assile,
cioè della sala delle ruote, doveva essere d’altezza pari a quella del parapetto. È molto
importante chiarire che i raggi delle ruote non erano conficcati nella testa a piombo, bensì a
scarpa, ossia obliquamente rispetto alla verticale della testa stessa; ciò era molto utile perché
il più delle volte evitava alla canna di rovesciarsi di fianco durante la marcia attraverso
cammini difficili. I raggi erano 12, cioè 2 per ognuna delle 6 parti uguali in cui era suddiviso il
gavello, parti che all’estremità erano fatte in modo da incastrarsi l’una nell’altra; anche in 6
parti uguali era diviso il già discusso tarenco, ma il punto centrale d’ognuna di queste 6
piastre doveva corrispondere a un punto di sconnessura tra due pezzi di gavello e ciò per
conferire al tutto maggior robustezza. Questa suddivisione in 6 parti permetteva di riparare la
ruota agevolmente, schiodando magari un solo pezzo di tarenco e non tutto, il che avrebbe
invece probabilmente sconquassato l’assetto dell’intera ruota.

384
Il Collado, nostra principale fonte, benché spagnolo, volle – forse aiutato da qualcuno –
scrivere la sua importante opera in italiano, lingua comunque da lui ben conosciuta e molto
apprezzata, ma a un certo punto del trattato chiarisce che il compito non era stato semplice:

… per la gran confusione e diversità de i vocaboli che nell’Italia tutta si usa circa del
nominare le sudette cose ed istromenti dell’artiglieria… Perché a i raggi che gli dimanda
‘mugnoni’ e chi ‘maneggioni’ e chi ‘brazzetti’ ed altri ‘turuglioni’; e similmente in tutte le altre
parti, ferramenti ed instromenti dell’artiglieria si variano li suoi nomi in tutta Italia. (LT.
Collado. Cit. P. 32r.)

In effetti la terminologia da lui usata sarà poi quella più adoperata in Italia nel corso del
secolo successivo, ma, se si legge il seicentesco Chincherni, per esempio, si notano ancora
notevoli differenze terminologiche soprattutto con riguardo alle ferramenta delle casse e delle
ruote. Questo suo apprezzamento e uso della lingua italiana e l’innegabile sua grande
esperienza pratica dell’artiglieria ce lo hanno fatto preferire nella scelta di un ‘autore guida’ al
suo pur autorevole connazionale contemporaneo de Alaba, trattatista certo interessante ma
soprattutto uno studioso di teoria balistica che si rifà infatti molto spesso al Tartaglia.
Tornando ora alle nostre casse del primo genere d’artiglieria, ci resta di parlare degli assi(li),
detti anche assali o sale o stili, i quali dovevano esser fatti di legname molto duro, quale per
esempio l’olmo (gr. πτελέα), perché su essi gravava gran parte del peso e perché soggetti a
grande usura in corrispondenza delle ruote. Quelli di tutte le bocche da fuoco grosse di
qualsiasi genere, dal sagro al falcone in su, dovevano avere un’anima di ferro di rinforzo
quadrangolare e lunga quanto l’assile stesso, anima che, parlando più ‘tosco’, era detta
anche contrassale o stangone; questa s’incastrava di sotto nel legname dell’assile e doveva
essere tanto grossa sa sostentare eventualmente la canna anche da sola senza l’assile di
legno, essendo infatti quest’ultimo soggetto a spezzarsi o a guastarsi facilmente:

… ed ancora se gli mette questo stangone accioché il legname dell’assale non si roda over si
consuma mentre si va marciando in campagna e, come spesse volte accade, che del gran
peso e continuo moto si vede appicciarsi il fuoco dentro della testa del pezzo (‘dello
stangone’), che all’hora questo stangone aiuta a sostentarlo (ib.)

Dal sagro in giù l’anima di ferro però non occorreva perché l’assile era sufficiente a sostenere
quelle piccole canne.
Si faceva nelle due teste di questo stangone un buco nel quale potesse passare il perno di
ferro che riteneva la testa della ruota. L’assile, il cui incastro si faceva lontano bocche 3 e ½ o
4 dalla fronte degli assoni e a partire dalla distanza di mezza bocca dal limite inferiore
dell’assone, doveva essere un quadrato d’una bocca e mezza per lato, ovviamente ciò nel
senso del suo spessore, e doveva poi essere abbastanza lungo da sporgere fuori dai barili,
385
ossia teste, delle ruote, in modo che si potessero applicare le cavicchie o accialini o perni di
ferro necessari a ritenere le ruote stesse. La parte dell’assile che s’incastrava nella cassa,
cioè nell’assone, doveva essere, come abbiamo detto, quadrata e grossa una bocca e
mezza; la parte invece che s’infilava nella ruota doveva essere tonda, grossa una bocca e un
po’ affusolata da ambedue i capi perché la ruota v’andasse intorno più dolcemente.
L’assile, oltre l’anima predetta, presentava anche altri guarnimenti di ferro, i quali, inchiodati
con i chiodi più sopra detti a punta di diamante, lo rinforzavano ulteriormente e i sistemi di
guarnimento erano due, cioè uno detto a manica e l’altro a chiappirone, ma per la descrizione
di questi sistemi rimandiamo alla stessa opera del Collado, poiché solo la figura che egli ne
aggiunge può darne un’idea precisa; a noi basti dire che il chiappirone differiva dalla manica
unicamente perché copriva la testa dell’assale, difendendola così dagli urti, e che la cavicchia
che sostentava la ruota doveva trapassare, oltre il legno dell’assile, anche questi guarnimenti
di ferro. Altri guarnimenti di ferro degli assili erano, oltre le suddette cavicchie, l’annella e
inoltre spesso vi si conficcava un forte uncino di ferro posto con il dorso verso la coda della
cassa e al quale s’attaccava un forte canape per tirare eventualmente la bocca da fuoco o al
contrario per trattenerla dal prendere una pericolosa corsa durante le discese dai declivi; ma
per la descrizione particolareggiata dei rinforzi in ferro delle casse e delle ruote d’artiglieria,
uguali in tutti e tre i generi, vale a dire dei vari bandoni o fascie o lame, delle braghe, perni,
cubetti, rosette, chiavelle o chiavarde o chiaviggioni, piumaccietti, galtelle, piastre, spiaggie,
cossinetti, riparoni, rampini, annelloni, boccole dei barili, etc., rimandiamo alle figure e alle
tavole del Sardi, di Tomaso Moretti († 1675), di Diego Ufano e dello stesso Collado e inoltre a
quanto ne scrissero il Chincherni e il de Biringuccis, il quale ultimo assommava a ben
4.500/5.000 libbre il totale del peso dei ferramenti necessari al letto d’una grossa bocca da
fuoco dei suoi ancora poco evoluti tempi.
La descrizione appena data dei carrelli o affusti del primo genere dell’artiglieria vale anche
per gli altri due generi, ma con le seguenti differenze. Per quanto riguarda il secondo genere,
negli affusti dei cannoni, sia ferrieri che petrieri, l’orecchioniere si praticavano più vicine alla
fronte degli assoni, cioè a 2 bocche di distanza e non a 3, esclusa però l’orecchioniera
stessa; facevano però eccezione nell’eccezione i quarti cannoni colubrinati da almeno 28
bocche di lunghezza, assimilabili questi alle mezze colubrine anche per quanto concerne la
distanza suddetta. Le casse dovevano avere assoni lunghi quanto la canna stessa più un
terzo, vale a dire 24 bocche secondo il Collado, ma 28 secondo il Sardi, e dovevano esser
larghi da 3 bocche a 3 bocche e 1/3 dal fronte alla metà, punto appresso alla culatta in cui
cominciava la coda e si restringevano a 2 bocche e ½ ad anche a 2 bocche e ⅔ e infine, dal
principio all’estremità della coda, a 2 bocche. La loro grossezza doveva essere d’una bocca,
però alcuni maestri falegnami li facevano grossi 7/8 di bocca e altri solo ¾ di bocca,
386
soprattutto nella parte posteriore, e ciò per alleggerire la cassa. I calastrelli avevano le stesse
caratteristiche di quelli del primo genere, mentre gli assali, essendo tutte le bocche da fuoco
di questo secondo genere pesanti, erano tutti rinforzati con l’anima di ferro. Le ruote si
facevano alte il doppio del parapetto della fortezza alla quale le relative canne erano
assegnate, ma, se servivano in campagna, si facevano alte 9 o 10 bocche e cioè il gavello
(tarenco escluso) una bocca, i raggi da 2 bocche a 2 bocche e ½, la testa della ruota 3
bocche. La stessa testa doveva poi esser lunga all’indietro 3 bocche e ½ compreso il suo
garbo. Si badi bene che queste misure, come del resto tutte le altre soprariportate, non sono
né una teoria né una proposta del Collado, perché in tal caso non le avremmo riportato; il
Collado stesso infatti a tal proposito così scriveva:

… questa è la vera formazione delle ruote, secondo la pratica de i tedeschi, che senza
dubbio alcuno sono stati loro i più diligenti huomini del mondo a investigare la ragione delle
misure dell’artiglieria e cose appartenenti a questo essercizio… (ib.)

Passando ora alle differenze del terzo genere dell’artiglieria, cominceremo col dire che gli
assoni dovevano esser lunghi una volta e ¾ la canna e larghi 2 bocche e 1/3 alla testa, 2
bocche al centro, cioè all’inizio della coda, e una bocca e ¼ all’estremità della coda stessa;
infine dovevano esser grossi (‘spessi’) ⅔ di bocca. Il centro delle orecchioniere doveva esser
distante dalla fronte degli assoni solo una bocca e ¼. Gli incastri praticati negli assoni per
ricevere gli assali e i calastrelli erano simili a quelli degli altri due generi dell’artiglieria. Le
ruote di questo terzo genere di bocche da fuoco dovevano necessariamente essere basse, a
meno che non si fosse trattato di grossi calibri dalle 80 libbre in su; infatti, se si fossero a essi
applicate ruote di largo diametro, le loro cortissime canne non ne sarebbero sporte fuori
abbastanza da poter esserne le bocche sufficientemente infilate nelle cannoniere e girate a
destra o a sinistra per scoprire il nemico, cioè per metterlo sotto tiro.
Del tutto differenti e prive di ruote erano le casse per i trabucchi o mortari, le quali erano
volgarmente dette dai bombardieri dell’epoca a schiena d’asino o anche a basto d’asino o
ancora a rovescio; queste infatti non dovevano rinculare come le casse delle altre canne, ma
dovevano calcare in terra, visto che l’alzo delle loro bocche era oltre il sesto punto della
squadra; pertanto, oltre che esser fatto di legname particolarmente forte e resistente, cioè
d’olmo o di noce grossi da 4 a 6 oncie, secondo la grandezza del mortaro, dovevano esser
molto ben rinforzate da piastre o lame di ferro e fasce grosse un dito, ben inchiodate sia
all’interno che all’esterno degli assoni o tavoloni che dir si voglia. Dette piastre, le quali si
chiamavano bandoni, come s’è già accennato, non dovevano esser men grosse di
mezz’oncia e dovevano anche esser, oltre che ben inchiodate, anche fissate con grossi perni
di ferro, chiamati anche chiavette o chiaviconi, i quali trapassassero tutto l’assone dall’alto in
387
basso. Altri perni più grossi servivano a collegare e tenere uniti gli assoni in aggiunta ai
calastrelli o chiavi di legname. Queste canne dovevano inoltre esser ben trattenute da altri
bandoni in prossimità degli orecchioni, per evitare che lo sparo facesse saltare il mortaro fuori
dal suo letto.

388
Capitolo XII.
Palle e calibri.

Passando ora a trattare delle palle e dei loro calibri, incominceremo col dire che, pur
tenendosi conto delle differenti qualità del ferro e della pietra di cui erano fatte, si considerava
sbrigativamente la palla di ferro tre volte più pesante di quella di pietra dello stesso calibro –
ma qualcuno invece calcolava come 5 a 2, mentre quella di piombo un terzo in più di quella di
ferro, sempre del medesimo calibro, e quindi quattro volte quella di pietra. L'uso delle palle di
ferro, scrive il de Biringuccis, fu introdotto in Italia da Carlo VIII, ma in realtà quel re francese,
lo ripropose solamente, come già sappiamo:

... le palle del ferro, invenzione certamente bellissima ed horribile per il suo potentissimo
effetto, cosa nova all'uso della guerra, perché non prima (che io sappi) furon vedute palle di
ferro in Italia, per tirarle con artigliarie, che quelle che ci condusse Carlo Re di Francia per la
(e)spugnazione del reame di Napoli contra del re Ferrandino l'anno 1495... (Cit. P. 117v.)

La predetta datazione è confermata dal Sanudo e dunque con la discesa di Carlo anche in
Italia ha fine l'artiglieria medievale, la quale da più di un secolo proiettava, come sappiamo,
solo palle di pietra o di piombo, e nasce quella moderna. Sempre il de Biringuccis c'informa
che al suo tempo non tutti i fonditori usavano però ferro puro:

... e chi per volere ch'el ferro sia più corrente vi mette alquanto d'antimonio e chi vi mette
alquanto di rame e chi anco il corrompe con arsenico o risagallo; ma, secondo il parere mio,
chi esce del suo naturale erra, perché le fanno più frangibili assai che non farebbeno;
fassene anchora a martello per moschette ed archibusi (e) non sono frangibili, perché sono
fatte di ferro dolce e buono e senza corrozione d'alcuna cosa maligna alla sua natura. (Ib.)

Fare delle palle perfettamente rotonde era a quel tempo cosa non facile; molte di esse infatti,
usandosi spesso forme troppo usurate, riuscivano cornute, cioè storte, bislunghe o allungate
da una parte, o comunque gibbose o bitorzolute; ma, anche quando le forme non erano
vecchie, alcune, per non esser stata la loro forma ben stretta, riuscivano con una cinta di
ferro attorno; altre, per esservi nella forma qualche concavità, riuscivano bugnose, bozzute o
porrose. Tutti questi difetti potevano risultare di particolare nocumento e pericolo, perché una
palla di forma così irregolare poteva facilmente andare a incastrarsi strettamente nella canna
all'atto del caricamento o dello sparo e farlo di conseguenza crepare con grave rischio
dell'incolumità dei bombardieri. Era comunque ammessa, data la gran quantità di palle
difettose che usciva dalle fonderie, una certa percentuale d'imperfezione nelle forniture dei
mercanti, per esempio un 8 o 10% di palle malformate, ed era pertanto conveniente, per non
lasciar perdere tante palle, che il perito bombardiero le sapesse mondare dai difetti e i sistemi

389
per farlo erano vari; il primo era utilizzare l'effetto del freddo sul debole ferro dell'epoca,
effetto che lo rendeva frangibile, e infatti le palle di ferro sparate in un freddo inverno contro
una muraglia andavano spesso in pezzi all'impatto, inoltre i pratici balestrieri avevano
l'abitudine di riscaldare d'inverno l'arco d'acciaio delle loro balestre, fregandolo con una
pezza di panno prima d'usarlo, per evitare che si spezzasse al primo tiro. Il bombardiero
dunque raffreddava il più possibile la palla difettosa con ghiaccio, neve o acqua molto fredda
e poi la batteva con un martello, facendo così saltar via le scaglie e i porri superflui dalla
superficie come se fosse una molle pietra (LT. Collado. Cit.). Un altro sistema era quello di
mettere la palla malformata in una forma di calibro maggiore, completarla con piombo fuso
ed, essendo ormai più grande, usarla per una bocca da fuoco maggiore; questo metodo
s'usava anche per adattare, per esempio, le palle d'un falconetto a un falcone che ne fosse
privo. Metodi più spicciativi per usare palle più piccole del dovuto erano ovviamente quelli
d'avvolgere la palla in un cercine (anche circino, ‘cerchio’) di stracci o di fieno o di rivio
(‘stoppa di canapa’), facendole cioè la cosiddetta ghirlanda, oppure d'aggiungere alla stessa
cocci o pietre fino a raggiungere il giusto peso del calibro dovuto, ma non si poteva
naturalmente pretendere in tali casi dei tiri precisi e sufficientemente efficaci.
Come si faceva a stabilire il calibro delle palle d'artiglieria? S'usava un calibratoio analogico,
detto appunto allora dai bombardieri originariamente culibro (da cui poi colibre, calibre e
calibro) o anche marchio (da cui poi merchio e marco) o anche sagoma o taglia o vilorta e
infine traffila, costituito semplicemente da una tavola di legno o da una larga pietra o da una
lamiera di ferro o di rame o di piombo fornita di manico e nella quale erano ritagliati dei buchi
circolari nei diametri delle bocche delle varie canne a disposizione. Nei fori circolari così
ottenuti si facevano passare le palle che si avevano in armeria, così selezionandole e
assegnandole alle varie bocche da fuoco; comuni i calibratoi da batteria con tre fori, cioè uno
per le palle di cannone, uno per quelle da mezzo cannone e uno per quelle da quarto (di)
cannone. La palla doveva passare nel buco del corrispondente diametro un po' ladina, cioè
con un po' di largo, perché, se fosse passata nel foro troppo giusta e stretta, facilmente poi si
sarebbe potuta incastrare nell'anima della canna, sia a causa dell'immancabili irregolarità
della superficie interna dell’anima stessa sia per quelle della palla; lo stesso bombardiero
avrebbe così potuto incastrare inavvertitamente la palla nella canna pressandola con lo
stivadore e credendo d’averla invece fatta regolarmente giungere alla carica di polvere in
fondo.
Lo stesso nome di colibre o di sagoma o di regola (da cui l’odierno ‘riga’, attr. La sincope
tachigrafica r.ga) o di reghetta (da regoletta) si dava a un righello di legno o di ferro o di rame
o di ottone sul quale, era marcata la scala della portata di palla in libbre delle canne
rapportata a quella del loro diametro di bocca; ecco perché culibro e derivati, cioè dal lt.
390
(forma) cum libris. In genere questa scala, suddivisa perlopiù in 12 once, la quale si
confrontava con le bocche delle canne e con i diametri delle palle per stabilirne il peso,
arrivava a segnalare fino alle 150 libbre di ferro secondo i seguenti esempi:

Una bocca dal diametro di un’oncia e mezza significava palla da una libbra.
Una bocca da 3 once e 1/3 voleva palla da 12 libbre.
Una bocca da once 6 e 4/5 richiedeva palla da 120 libbre. Ecc.

C’erano righelli suddivisi in due settori longitudinali, uno per i calibri italiani e uno per quelli
franco-tedeschi, cioè uno per libbre da 12 once e uno per libbre da 16, come quello disegnato
dal Capo Bianco al f. 3 recto del suo trattato; al Museo Correr di Venezia esistono o
esistevano, come li descriveva il Lazari, due fusetti (’stiletti a tre tagli’) da bombardieri, i quali
servivano non solo da difesa personale ma anche da calibratoi; infatti sulle loro lame era
marcata la seguente scala di calibri delle principali canne d’artiglieria: 1, 3, 6, 9, 12, 14, 16,
20, 30, 40, 50, 60, 90, 100, 120.
C’erano anche righelli quadrangolari e su questi si segnava una scala per le palle di ferro da
un lato, un'altra per quelle di pietra da un altro, ancora un’altra scala per quelle di piombo in
un terzo lato e, sul quarto, una scala di misura di lunghezza, come è per esempio nel righello
disegnato dall’Ufano, lungo questo volutamente un piede geometrico diviso in 11 dita
geometriche, un tipo di righello questo molto diffuso nell’artiglieria transalpina/i. Questo tipo di
colibri era appunto molto più usato dai francesi perché essi correttamente si fermavano a
definire calibro non il peso della palla, come invece facevano per traslato spagnoli e italiani,
bensì il diametro della bocca della canna e quindi avevano bisogno poi di tali righelli o di
tavole che rapportassero i diametri ai pesi da usare; ma i loro canonniers più pratici
sicuramente conoscevano questi rapporti a memoria.
Naturalmente si tentava di ritagliare dei colibri universali, calcolando quale diametro di palla
corrispondesse a ogni peso in libbre; ma, anche ammesso che il ferro, la pietra e il piombo
fossero stati sempre d'immutabile qualità e consistenza, l'estrema diversità delle misure e
delle opinioni che circolavano in Europa a questo proposito, lasciava la materia molto
confusa, come scrive il Collado:

Molta confusione di regole, overo colibri, si vede per tutto il mondo tra' bombardieri e quel che
più è da ridere è che ogn'uno di loro si crede che'l suo colibre sia il più vero e giusto di tutti gli
altri... (Cit. P. 190.)

L'autore suddetto espone quindi nella sua opera alcune regole per trovare la giusta
proporzione tra il diametro delle palle e il loro peso in libbre, sia per la libbra italiana da 12
oncie sia per quella da 16 che era in uso nella maggior parte d’Europa, anche se però con un

391
peso reale sempre diverso; per esempio tra quelle da 16 più usate e note, cioè quelle di
Spagna, Francia, Olanda, Anversa e Norimberga, c’erano differenze di peso che superavano
anche il 10%. Si tratta naturalmente di regole che devono forzatamente prescindere dalla
varietà di consistenza dei materiali usati. Per fare degli esempi indicativi, dalle regole
suddette si ricavano i seguenti diametri per una palla da una libbra:

Di ferro, da 12 oncie: cm. 4,45.


Di piombo, da 12 oncie: “ 3,85.
Di ferro, da 16 oncie: “ 4,75.
Di pietra, da 12 oncie: “ 6,30.

Aggiungeremo il diametro d'una palla di ferro di due libbre da 16 oncie, cioè cm. 5,95, e
rimandiamo alla scala dei diametri delle bocche delle canne espressi in libbre di palla
disegnata dal Cataneo, nella quale il più notevole particolare è la mancanza di proporzione
tra vari dei diametri segnati.
Abbiamo detto che il diametro della palla doveva essere leggermente inferiore a quello
dell'anima della canna per evitare il pericolo che vi si potesse incastrare. Quest'operazione,
ritrovata dai soliti tedeschi ed entrata poi nell'uso comune, si diceva dare il vento alla palla;
ma come si calcolava questo vento, ossia questo piccolo necessario lasco? I sistemi erano
diversi: uno consisteva nel misurare con il compasso curvo o di spessore il diametro
dell'anima alla bocca, se questa era sana; se invece la canna era sboccata, cioè se il boccale
della bocca era sbrecciato dalle cannonate nemiche o consunto e slargato dall'uso, il
diametro dell'anima si misurava alla culatta attraverso il focone. Si divideva poi questo
diametro in ventuno particelle e un ventunesimo doveva proprio essere il giusto vento delle
palle di quella bocca da fuoco; dunque il diametro della palla doveva essere 20 ventunesimi
di quello della bocca della canna. Secondo il Sardi il vento doveva essere invece non un
ventunesimo, bensì un ventiduesimo del diametro dell'anima. Un altro sistema era basato
non sui diametri, ma sui calibri, cioè, se la bocca della canna era per esempio da cento libbre
di palla, la palla da usarsi per la stessa canna doveva essere di novanta libbre, ossia del 10%
in meno; oppure si toglieva un'oncia da ogni libbra di bocca, per esempio dalla predetta
bocca da cento libbre si toglievano cento oncie, cioè otto libbre e un terzo, e la palla ottimale
doveva così essere di 91 libbre e ⅔. Quest'ultimo metodo era il più esatto dei tre, ma i
bombardieri usavano comunemente il secondo, ossia quello del 10% in meno, perché più
spicciativo; anzi, per maggior prestezza, durante le azioni di guerra ne preferivano ancora un
altro, il quale consisteva nel misurare colle gambe del compasso curvo l'esatta misura del
diametro della bocca, nel provare poi quell'apertura dello strumento sulle palle e nel prendersi
infine per buone le palle che entravano giusto tra le due punte dello strumento,

392
considerandosi infatti come vento la piccola distanza che c'era tra le punte stesse e le loro
gambe. Un ultimo metodo per trovare il vento delle palle era - tornando ora a utilizzare il
diametro della bocca - moltiplicare questo per tre e si aveva così la circonferenza della palla
adatta, proprio con quel po' di largo necessario come vento. Bisogna a questo proposito
considerare che a quel tempo non ancora si conosceva la formula 2Πr e infatti il Collado così
scrive:

... e, se tu con una cordicella piglierai il diametro d'un pezzo, qual si voglia, d'artiglieria e
quella sarà triplicata, ti darà la sua circonferenza in circa, in qualunque luogo di esso pezzo
che tu gliel'haverai tolta. Però nota ch'io dico 'in circa', perché la vera proporzione ch'è dal
diametro alla circonferenza da nessun valente mattematico né filosofo (‘scienziato’)
precisamente per fin'adesso si è ritrovata. (Ib.)

Dare il vento alle palle era dunque un'operazione molto delicata, da esperti, dove non era
consentito sbagliare; se infatti se ne dava troppo, la furia della polvere a, detta anch'essa
vento dai bombardieri, sarebbe sfogata passando attorno alla palla con notevole perdita di
compressione e quindi di potenza del tiro; inoltre una palla troppo piccola sarebbe uscita
dalla canna deviando da una parte o dall'altra e il tiro sarebbe venuto quindi troppo alto o
troppo basso oppure costiero. In effetti la necessità del vento era dovuta alla rozzezza della
fonditura dell'artiglieria del tempo, perché, come lo stesso Sardi riconosce, se l'interno delle
canne e le palle avessero avuto una superficie perfetta, a causa della completa
compressione che si sarebbe così verificata nell'anima delle canne, non ci sarebbe stato
bisogno di mantenere questo lasco e di conseguenza i tiri sarebbero stati molto più efficaci.
Quando il bombardiero non disponeva di colibri, poteva sbrigativamente conficcare la punta
di due lunghi chiodi in una tavola - oppure due paletti di legno nel suolo - a una distanza tra di
loro d'un diametro di bocca della canna in questione e assegnare a questo tutte le palle che
passassero un po' ladine tra i due chiodi; se poi non voleva far nemmeno questo, allora
prendeva il diametro della bocca con una spago e utilizzava per quella bocca da fuoco tutte
le palle a disposizione la cui circonferenza risultasse giusto circondata da uno spago tre volte
più lungo del precedente. Secondo il Sardi, la distanza tra i due paletti (lt. stipites; fustes
defixi) conficcati a terra, così anche come il diametro dei buchi rotondi da praticarsi nella
lamina del colibre, doveva invece essere 21 ventiduesimi della bocca più un terzo di
ventiduesimo e la palla, per esser giusta, doveva passarvi proprio a pelo. Bisognava però
fare attenzione con questi sistemi di determinazione del calibro, perché molte canne
presentavano il ricorrente difetto d'esser più larghe alla bocca che nel resto dell'anima e
pertanto era molto più sicuro prendere il diametro dell'anima attraverso il focone.

393
C'è infine d'aggiungere che nei presidi, nelle batterie e nei treni d'artiglieria era comune
trovare in dotazione una statera da pesar le palle, il che significa che l'attribuzione di queste
alle singole bocche da fuoco s'effettuava solitamente con metodi assai sbrigativi. Una volta
selezionate le palle, nelle armerie s'usava di conservarle in ordine, divise appunto per calibro,
ammucchiandole in piramidi quadre o triangolari.

394
Capitolo XIII.
Balistica e proiettili composti.

Volendo trattar adesso della balistica del tempo, bisogna innanzitutto parlare della squadra o
quadrante o livello, cioè di quello strumento al quale abbiamo più volte già accennato e con il
quale si calcolava l'elevazione delle canne d'artiglieria, il che si diceva livellare la bocca da
fuoco. Il Collado afferma che si trattava di strumento già conosciuto dai romani e così
prosegue:

I primi huomini che ritrovarono il modo di adoperare questo instromento all'uso dell'artiglieria
si fa certissimo che furono di Alemagna, ancor che Nicolò Tartaglia si habbia attribuita a sé
questa invenzione in quella sua opera della 'Nuova Scienza', dove tratta delle elevazioni
dell'artiglieria [...] Però (‘infatti’) Daniel Santbech, autor tedesco e famoso matematico, in
un'opera che lui fece de i problema sopra dei triangoli del Monte Regio [...] per la qual
autorità evidentemente consta il Monte Regio havere havuto vera notizia e della squadra e
delle elevazioni di essa artiglieria molti anni prima del sopradetto Tartaglia... (ib.)

In effetti la squadra d'artiglieria non era altro che una delle applicazioni del comune
archipendolo ed era già usata al tempo del de Biringuccis, con questo più antico nome,
proprio per misurare i gradi d'elevazione delle bocche da fuoco, come appunto si legge nella
sua nota Pirotechnia. Si trattava d'un angolo retto di legno formante un quadrante o quarta di
cerchio e che s'infilava nella bocca della canna per il lato più lungo e che era suddiviso in 12
punti uguali di 12 minuti uguali ciascuno; un perpendicolo o archipenzolo o filo a piombo che
dir si volesse, il quale partiva dal centro dell'angolo, segnava le varie inclinazioni della canna.
Per esempio, al sesto punto corrispondeva un'inclinazione di 45 gradi della canna della bocca
da fuoco, ma è naturalmente questo uno strumento il cui uso diventa immediatamente
comprensibile solo osservandolo in figura.
Un altro concetto da premettere, prima di parlare della balistica vera e propria, è quello di
punteria o di punto ovvero del vivo delle canne dell'artiglieria, cioè della differenza di
spessore tra il metallo della culatta e quello della bocca. Si trattava d'una differenza da tenere
in debita considerazione se si voleva precisione nei tiri e si doveva quindi cercar il vivo della
bocca da fuoco, cioè appunto prenderne gli spessori, operazione questa che si faceva
introducendo un'agucchia o stiletto nel focone e confrontandolo poi alla bocca della canna.
Tirare per il raso dell'anima, cioè tenendo l'anima della canna perfettamente parallela al
suolo, era un tipo di tiro usato soprattutto per i cannoni in batteria, bocche da fuoco che erano
cioè tenute a poca distanza dal bersaglio perché le loro palle colpissero già nel corso della
loro traiettoria rettilinea, cioè durante quella più potente, prima quindi che la stessa
cominciasse a curvarsi verso il suolo. Questo tipo di tiro si diceva pure tirare per il nivello
395
dell'anima o per il piano o a squadra ed era ovviamente il tiro più corto, ma anche il più
potente, che una bocca da fuoco potesse fare. C'era poi il tiro per il raso dei metalli o di punto
in bianco o gioia per gioia o di mira, in cui parallela al suolo non era tenuta l'anima della
canna, bensì la linea retta che univa idealmente la mira della gioia della bocca con quella
della gioia della culatta. Per far questo tiro, in considerazione della differenza di spessore dei
metalli delle due estremità della canna, si doveva necessariamente elevare leggermente la
bocca della canna, tanto che il Collado riferisce d'un falconetto da quattro libbre di palla, da
lui stesso provato, che per il raso dell'anima tirò a 250 passi comuni e per il raso dei metalli
440. Prima del Collado in Italia si diceva tirare di punto in bianco il tiro per il raso dell'anima e
non quello per il raso dei metalli, come dimostra appunto quanto ne scrivevano il Cataneo e il
Gentilini. Il predetto modo di dire tirare di punto in bianco derivava dal regolarsi l’elevazione
entro il primo grado della squadra, cioè tra 0 e 1, quindi praticamente in quello detto appunto
bianco in quanto non attribuibile ad alcun punto. In Francia questa espressione era un po’
diversa e cioè de but en blanc, con il senso così non ‘di punto in bianco’ bensì ‘di mira diretta
al bersaglio’, in quanto, come abbiamo già accennato, blanc in fr. significava appunto
‘bersaglio’. In effetti questo secondo senso della frase era in effetti molto accettato anche
nell’artiglieria italiana, specie dai giovani aiutanti inesperti, dal momento che di solito i tiri
d'esercitazione si facevano appunto contro un bersaglio costituito da un cerchio bianco
dipinto al centro di uno scudo di legno annerito e legato a un palo (tirar a li palij); ma, scriveva
il Sardi, in alcuni paesi, per esempio in Germania, come si vede in un’illustrazione dello
Zubler, si faceva il contrario e cioè si dipingeva un cerchietto nero al centro di uno scudo
bianco. Come si sa, il detto di punto in bianco’ è un modo di dire in uso ancor oggi, ma col
significato travisato dal tempo di 'improvvisamente', mentre quello giusto dovrebbe dunque
essere invece 'direttamente', così come diretto era il tiro in parola.
Innanzi tutto, per colpire un bersaglio con un tiro diretto, bisognava controllare che la palla
fosse ben arrotondate e che andassero ben sigillate nella canna con poco vento, perché solo
così avrebbero fatto il tiro più forte e preciso e sarebbe occorsa anche meno polvere per
ottenerlo; ma poiché le palle con poco vento erano anche pericolose, specie se cornute,
perché potevano far crepare la canna della bocca da fuoco, era assolutamente necessario
che tiri di questo tipo s’affidassero a artiglieri molto esperti, i quali sapessero riconoscere
qualità, peso e calibro delle palle a occhio e con le mani senza bisogno di dover ricorrere né
a sagome né a bilance. Per puntare la canna al bersaglio per il raso dell'anima s'attaccava
sul centro superiore della gioia della bocca un pezzetto di candela di cera alto quanto il vivo,
cioè quanto la differenza di spessore suddetta, e si mirava con la linea visuale che andava
così, perfettamente orizzontale al suolo, dal centro della sommità della cornice della culatta
alla sommità della candeletta, la quale di notte s'accendeva per mantenerla visibile, e infine al
396
bersaglio prescelto. Questa operazione si diceva smorzare il vivo alla bocche da fuoco. Tra i
due tiri a raso ce ne potevano essere d'intermedî e per ottenerli si divideva il vivo in tre parti
uguali, si preparavano dei cunei o ceppi di legno, ognuno di spessore appunto pari a un terzo
di detto vivo e se n'inseriva uno sotto la culatta, sollevata all'uopo con pali di ferro, in modo
da ridurne l'elevazione verso il bersaglio. Quest'operazione si chiamava compartire il vivo e
solo pochi bombardieri n'erano pratici, anzi i più non conoscevano nemmeno la differenza tra
i due rasi e, puntato la canna per il raso dei metalli, si meravigliavano poi di fare tiro alto,
credendo ciò esser dovuto a un difetto della canna stessa. I cugnoli di ferro o di legno duro
servivano comunque per correggere qualsiasi tipo di tiro d'una qualsiasi bocca da fuoco.
Il Collado lamentava che al suo tempo molti bombardieri pratici non sapevano nemmeno che
aumentando l'elevazione aumentava anche la lunghezza del tiro e racconta a questo
proposito un episodio accadutogli nel 1576 a Brindisi in occasione della fortificazione
dell'isola del porto, dove egli fece scavare sotto la coda della cassa di una bocca da fuoco,
provocandone così l'innalzamento della bocca, e n'ottenne un tiro ovviamente più lungo sotto
lo sguardo meravigliato dei bombardieri. Premessa dunque la generale ignoranza teorica
degli artiglieri, anche se pratici e anziani, ben pochi di loro avrebbero saputo per esempio
rispondere a una domanda difficile come questa seguente, non insolita quando li si
esaminava:

Dati due pezzi dello stesso calibro e con la stessa elevazione di squadra, ma di cui uno più
rinforzato di metallo dell'altro, e caricatili con la stessa quantità di polvere, perché il più
rinforzato farà tiro più lungo? (Risposta:) Perché il più rinforzato, essendo più pesante, farà
minor rinculata. (Ib.)

Il tiro più lungo che si potesse fare con una bocca da fuoco era dunque al sesto punto della
squadra, cioè a 45 gradi, e si diceva tirar alla stracca; dopodiché, aumentando ulteriormente
l'elevazione la gittata dellla canna diminuiva progressivamente e si entrava così nel campo
dell'elevazioni da mortaro.
I francesi dicevano anch’essi portée de point en blanc la gittata finché essa si manteneva del
tutto orizzontale; chiamavano poi moyenne portée quella seguente, cioè da quando il
proiettile abbandonava la linea orizzontale sino al momento che toccava il suolo; infine
dicevano portée morte il rimanente del percorso che la palla percorreva rimbalzando dopo
aver toccato il suolo.
Il modo più comune di classificare i tiri era quello di prendere il punto del tiro di punto in
bianco o del raso de i metalli come elemento divisore e i tiri d'elevazione pari o inferiori a
quello prendevano il nome di tiri dentro della punteria o di punteria o di mira, mentre tutti
quelli d'elevazione superiore, fino al sesto punto di squadra ossia fino ai 45 gradi, si

397
chiamavano tiri fuora della punteria o di volata o con avantaggio, cioè avvalendosi del
vantaggio della maggior gittata data dal tiro curvo conseguente a un'elevazione della canna. I
tiri dentro della punteria si distinguevano dai secondi per esser dunque quelli che si facevano
a un bersaglio preso di mira con tiro diretto, ossia puntato direttamente con la canna, perché
sufficientemente vicino; quelli fuora della punteria erano invece fatti con tiri arcuati,
trattandosi di bersagli più lontani della gittata di punteria di cui quella bocca da fuoco era
capace. Questa suddivisione era dunque del tutto indipendente dal tiro detto per il raso
dell’anima, perché poteva naturalmente capitare di dover prendere di mira anche un
bersaglio più elevato della bocca da fuoco che si voleva usare, per esempio sparando dalla
pianura a un bersaglio posto invece su una collina o su una rupe; in questo caso tra i tiri
dentro della punteria erano da considerarsi anche quelli di bassa elevazione, cioè di
elevazione non più alta di quella del tiro diretto, di punteria, verso quell’alto bersaglio.
Il tiro di punteria dall'alto in basso si diceva a botta di ficco ed era ovviamente quello meno
efficace, perché la palla colpiva un posto solo in terra e non ne traversava parecchi come
faceva invece il tiro rettilineo; inoltre di quest'ultimo aveva anche minor potenza perché la
palla, tendendo a cadere al basso, offriva alla violenza della polvere ben poca resistenza.
Caricando una bocca da fuoco per un tiro di ficco, bisognava spingere nell'anima, subito dopo
la palla, un boccone o foraggio, ossia una massa di fieno che impedisse al proiettile di
rotolare fuori, visto che la canna si trovava abboccata, ossia puntata verso il basso. Tirare a
un bersaglio coperto da un ostacolo intermedio, cioè dietro una collina, un bastione o altra
costruzione, si diceva trabuccar con li pezzi, cioè usarli a elevazioni superiori al sesto punto
di squadra, insomma come se fossero stati dei trabucchi o mortari.
Per dare l'elevazione necessaria alla canna bastava quella basale che dava la cassa quando
non si poneva alcun cuneo tra la culatta e il suo calastrello; però, se bisognava maggior
elevazione, allora bisognava interrare un po' la coda della cassa perché in tal maniera
corrispondentemente s'elevasse la bocca della canna. Infine, a distanza corta e quindi a
elevazione ancora maggiore, bisognava arrivare al settimo, ottavo o anche nono punto di
squadra, cioè all'elevazioni usate per mortari e trabucchi, e per ottenere ciò era necessario o
segare il calastrello della culatta perché non facesse impedimento a quest'ultima
nell'abbassarsi verso terra o disincavalcare la canna e poggiarla a un mucchio di terra o a un
muretto fino all'elevazione desiderata. Molto adatti a questo tipo di tiri erano i cannoni petrieri
perché, essendo larghi di bocca, potevano essere caricati con proiettili diversi dalle semplici
palle, quali cioè le lanterne, i tonelletti e le scuffie. Le prime erano dei barilotti a forma di
tronco di cono, fatti di 6 o 7 doghe non grosse di legno dolce, quale l'abete, larghe l'una
dall'altra una o due dita. Il fondo che si poneva verso la carica di polvere doveva essere più
largo dell'altro, calcolandovi il giusto vento in relazione al diametro dell'anima; l'altro, un sesto
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più stretto del precedente, doveva avere nel mezzo un buco, nel quale si passava una corda
il cui altro capo si lasciava penzolar fuori dalla bocca della canna in modo da poter tirar fuori
la lanterna in caso non si dovesse più spararla. Le doghe dovevano essere strette da
bragheri ossia da cerchi di lama sottile di ferro o di rame, non troppo forti, in modo che ogni
cosa si spezzasse nell'aria appena uscita dalla canna. La lunghezza di queste lanterne
poteva andare dalle quattro palle nei cannoni ferrieri a una palla e ½ in quelli petrieri, ma tutto
dipendeva dal loro peso, il quale non doveva in nessun caso superare quello della relativa
palla della bocca da fuoco. I tonelletti erano come le lanterne, ma di forma cilindrica, con le
doghe strette, i due fondi uguali e con il giusto vento; anche questi erano maggiormente
serrati con lame di ferro o di latta inchiodate a volte nei fondi e portavano la suddetta
cordicella per estrarli dalla bocca se eventualmente non sparati. La loro lunghezza poteva
essere di tre palle e un terzo nei cannoni ferrieri e d'una palla e ½ in quelli petrieri, ma
sempre con rispetto al peso della palla. Le scuffie erano delle borse di forma sferica e di rete
di fil di ferro ricotto, ossia stemperato, e piuttosto grosso, la cui bocca si chiudeva chiusa
legandola con capi dello stesso filo.
I predetti proiettili s'empivano di mitraglia, cioè di sassi vivi, ossia duri, grandi quant'un uovo o
un pugno, dal peso variante dalla mezza libbra alla libbra, oppure di scaglie di sassi, di ghiaia
di fiume, oppure di cubetti di ferro o di piombo grossi quant'un uovo o più piccoli, dal peso di
3 o 4 oncie ciascuno, di palle di piombo da moschetto fino a tre oncie l'una, di frammenti,
scaglie o triboli di ferro, di pezzetti di quelle vergelle di ferro o di bronzo che residuavano
dalle fusioni e si rinvenivano nella cinigia, o anche di catene di ferro, a pezzi o piegate in
molte volte e raccolte in fascetti legati detti ramali, di vetro pesto, a volte il tutto mescolato
con misture di fuoco artificiale per far cadere sul nemico una grandine infuocata, ma il loro
peso complessivo non doveva comunque superare quello della palla di ferro o di pietra che
quella bocca da fuoco poteva tirare. I pezzi di catene erano soprattutto utili per spezzare le
scale e altre macchine di legno con cui il nemico venisse a tentare la scalata alle nostre
mura. La carica di polvere da usarsi con questi proiettili era teoricamente la stessa stabilita
per le palle, ma conveniva diminuirla d'un terzo o anche della metà quanta più elevazione si
dava o quanto più corta era la distanza dal bersaglio; bisognava infatti tener conto della
circostanza che più elevazione si dava alla canna più il proiettile offriva resistenza alla spinta
dello scoppio della polvere, con rischio quindi che una carica normale facesse crepare la
canna. Dopo aver messo nella canna la carica di polvere e un buon boccone di fieno o di
sfilacci molto ben calcato, s'introduceva la lanterna o il tonelletto, in modo però che tale
proiettile non entrasse nell'anima per più d'un braccio di lunghezza per evitare che l'involucro
di legno e cerchi di ferro si rompesse allo sparo già nella canna. Per ottenere ciò, si legava
un legnetto a quel già menzionato cordoncino destinato a uscire dalla bocca, legnetto che,
399
restando intraversato alla bocca della canna, impediva al proiettile di scendere troppo in
fondo in caso di alte elevazioni della bocca da fuoco. Le scuffie si caricavano allo stesso
modo ma, dato il loro più ampio diametro, erano proiettili più propri dei trabucchi e dei grossi
mortari, canne cioè dall'anima molto larga; anch'esse dovevano essere comunque tanto
larghe quasi quanto lo era l'anima della canna. Con i trabucchi si tiravano anche tonelletti,
lanterne, palle di pietra o di fuoco artificiale e si caricavano con un peso di polvere pari a un
terzo della rispettiva palla di pietra, cioè secondo le proporzioni delle bocche da fuoco del
terzo genere d'artiglieria dei quali facevano parte. La carica non doveva assolutamente
essere maggiore, anzi era meglio farla d'un terzo scarso per evitare il rischio che queste
leggere canne allo sparo crepassero. Bisognava soprattutto moderare la carica della polvere
nel caso delle palle di fuoco artificiato, perché, se fossero transitate nell'aria troppo
velocemente, si sarebbero spente; poi, perché prendessero fuoco più facilmente, non si
copriva la carica di polvere con il solito foraggio o boccone di fieno, anzi era consigliabile
mettere questo dopo la palla, affinché il fuoco della polvere meglio l'avvolgesse e
l'accendesse; per lo stesso predetto motivo si dava meno carica anche alle palle infocate (fr.
boulets rouges), ossia a quelle rese incandescenti e poi subito sparate.
I suddetti tre tipi di proiettili composti erano anche molto efficaci nei tiri di ficco contro gli
assalti delle brecce, perché facevano gran strage tra gli assalitori quando appunto si
trovavano ammassati in uno spazio ristretto. Per quanto riguarda poi le bocche da fuoco più
sottili dei mortari e particolarmente i cannoni ferrieri, se si voleva sparare della mitraglia con
essi, non potendosi usare proiettili composti di grandi dimensioni, il modo migliore e appunto
talvolta usato era sparare barattoli di latta (fr. boîtes) dello stesso diametro della palla, pieni di
pallottole di piombo, teste di chiodi e altri frammenti di ferro detti in francese clincaille e
saldati da ambedue i lati; ma dal lato interno che andava a toccare la polvere si poneva un
fondo di legno per evitare che lo scoppio facesse crepare il barattolo troppo presto.
Per completare l'argomento della varietà dei proiettili diremo che con le bocche da fuoco del
secondo genere d'artiglieria, ossia con i cannoni da batteria, specie nella guerra navale per
tranciare alberi, cordami e vele, s'usavano le palle inramate, ossia due palle unite da un ramo
(‘barra’) di ferro di 5 o 6 pollici di lunghezza e di un paio di dita di spessore, e le palle
incatenate, cioè due mezze palle unite insieme da un ramale (‘pezzo’) di catena; molto usate
erano anche due mezze palle incatenate oppure unite al centro da una barra di ferro, dette
queste angioli, dagli artiglieri spagnoli, nome che nel secolo successivo sarà dato però anche
a certi proiettili d’assedio, verosimilmente esplosivi e incendiari, di cui si sentirà la prima volta
a proposito dell’assedio di Buda del 1686; i toscani le dicevano pure accoppiate o a diamanti
e si potevano fare anche per piccole bocche da fuoco, quali archibugi e moschetti, fondendo
due proiettili uniti con del filo di rame. Inoltre, pure per danneggiare le alberature, si
400
caricavano a volte i grossi cannoni con pezzi di catene grosse invece che con palle e ciò
ovviamente quando il bersaglio era a breve distanza; infine, per incendiare le vele
dell’avversario, si usava talvolta bersagliarle con cannoni caricati con palle di pezza unte
d’olio e imbevute d’acquavite che, allo sparo, prendevano fuoco.
Una bocca da fuoco poteva avere la punteria sbagliata e bisognava quindi correggerla per
evitare di far tiri sbagliati. Generalmente, se pur mirando il bersaglio il tiro risultava inesatto,
invece di modificare la posizione del cannone si faceva più presto a modificare le mire o
traguardi di cera posti all’uopo sulla gioia della bocca e su quella della culatta; pertanto, in
caso di tiro alto, dovuto per lo più a eccessiva ritirata della canna, s’aumentava l’altezza della
mira della gioia della bocca finché la linea visuale non incontrasse il bersaglio errato colpito
prima e poi si ripuntava la canna sul bersaglio giusto più in basso; nel caso inverso di tiro
basso, s’aumentava l’altezza della mira posta sulla gioia della culatta finché la linea visuale
non incontrasse il luogo colpito prima erroneamente e poi si ripuntava la canna sul bersaglio
giusto più in alto; nel caso di tiro costiero destro, si poneva un altro punto di mira di cera sulla
sinistra del punto della culatta, in modo che la ‘mira’ o linea visuale incontrasse il bersaglio
errato prima colpito, e poi si ripuntava la canna sul bersaglio giusto e si sparava; nel caso
infine di tiro costiero sinistro si faceva ovviamente l’inverso. In tal maniera la correzione era
certa, mentre, spostando semplicemente l’intera canna, si sarebbe andati per incerti tentativi;
comunque, quando non s’era in urgenza di combattere, conveniva andare a vedere quale
difetto strutturale facesse sbagliare la punteria d’una bocca da fuoco pur ben squadrata e
caricata dal bombardiero. I difetti possibili che facevano dar di costiero a una canna
d’artiglieria erano molti, ma i più ricorrenti erano generalmente i seguenti:

La cassa troppo lunga o troppo corta.


I tavoloni torti.
La canna non ben incastrata nella cassa.
L’assile non incastrato a squadra negli assoni della cassa.
I bracci dell’assile uno più doppio dell’altro o ambedue troppo sottili rispetto ai fori delle
teste delle ruote.
L’anima non situata nel giusto mezzo del metallo.
Le ruote o parti di esse di grandezza differente.
La piattaforma di batteria non perfettamente orizzontale lateralmente.
Sasso o legnetto o altro impedimento dietro una delle due ruote rinculanti.
Un occhio, ossia incavo, della testa d’una ruota più largo dell’altro.
Un’orecchioniera più larga o più profonda o situata più avanti o più indietro dell’altra; oppure
un incastro d’assile presentante uno degli stessi predetti difetti.
Una ruota più unta di sevo avrebbe rinculato più presto dell’altra meno unta e altrettanto
avrebbe fatto quella ruota che stesse poggiata proprio sulla testa d’uno dei suoi chiodi –
o su un sassetto - a differenza dell’altra poggiata su due, perché il tiro sarebbe risultato
infatti costiero dal lato della ruota che aveva più facilità a muoversi all’indietro.
La palla troppo piccola, tanto da uscire dall’anima vacillando da un lato all’altro.
Un barile più lungo dell’altro o con il buco più largo di quello dell’altro.
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L’assale troppo sottile o i buchi delle teste delle ruote troppo larghi.
Le ruote non perfettamente circolari.

Inoltre gli orecchioni posti troppo avanti o troppo indietro rendevano il tiro alto o basso, ma in
questo caso il difetto si correggeva ponendo un cuneo sopra il calastrello della culatta o su
quello davanti. Anche con cunei si potevano correggere i difetti derivanti da asimmetrie della
cassa, come per esempio l’imperfetto bilanciamento della canna agli orecchioni. Per evitare
poi alla bocca da fuoco un’eccessiva ritirata, causa speso di tiro troppo alto e sempre di
maggior fatica ai bombardieri che dovevano poi spingerlo avanti di nuovo al suo posto,
bisognava evitare di calcare troppo nell’anima sia la polvere sia il boccone, perché in tal caso
l’esplosione avrebbe trovato, oltre a quella del peso della palla, anche altra resistenza alla
sua violenza e la bocca da fuoco sarebbe così rinculata più del necessario, facendo il tiro
falso, ossia impreciso; d’altra parte l’uso d’una palla con troppo vento avrebbe provocato
l’effetto contrario, cioè un tiro troppo corto, perché buona parte della forza propulsiva della
polvere sarebbe sfiatata attorno alla palla.

402
Capitolo XIV.
Le polveri piriche.

Prima di passare a parlare degli attrezzi di servizio dell'artiglieria e in special modo delle
cucchiare per caricarli, altra materia piuttosto ostica per i bombardieri del tempo, riteniamo
indispensabile trattare dei tipi di polvere pirica in uso dalla fine del Rinascimento a tutto il
Seicento. In effetti non era necessario che un buon bombardiero fosse anche mastro-
polveraro, ma, se anche egli non fosse pratico nel preparare le polveri, doveva però
senz'altro esserlo nel riconoscerle, nel trattarle e usarle. La prima polvere da sparo europea
di cui si ha notizia – o leggenda – è quella inventata verso gli inizi del Trecento per caso dal
già ricordato monaco francescano tedesco Berthold der Schwarz, caso che fu così posto in
versi nel lib. 2 cap.3 del suo De re militari dal Cornazano:

Regina delle machine e corona,


Trovata fù per man d’un alchimista,
Se vero è quel ch’l Tedesco ragiona.
Uno in Colonia havea polvere pista,
Per acqua forte far dissolutiva,
Di salnitro, cenabrio, e allume mista.
Poi sul mortar nel quale la condiva,
Per netta la tener fermò un tagliero,
Ch’a caso sigillata la copriva.
Dandosi intorno poi, come ingegniero,
Dell’arte, a riconciare il suo fornello,
Per assettar la boccia a tal mestiero.
Anco improvvisamente su un quadrello
Al predetto mortar coperto pone,
Non già pensando quel ch’avvenne a quello,
E’l foco avviva poi con un carbone,
Per lo vetro asciugar, ch’avea lutato;
E fatto ciò s’assetta a collazione.
Mentre che mangia, il fuoco augumentato,
Scintillando qua e là, come è suo uso,
Dà una favilla sul mortar serrato.
Su l’orlo un poco del polvere inchiuso
S’accende e passa, e’l foco cresce e schioppa,
E’l sasso spinge e fà ne’ coppi un buso.
L’artefice ciò visto, meglio agroppa,
E giunge per allume carbone atro
E solfo per cinabrio ancor ristoppa.
Fù prima invention, sei, cinque, e quattro.
Messegli in pietra, e poi fece che gl’arda,
Talche di casa sua fece un baratro.
Nacque così madama la bombarda,
Di quel che venne le cose iterando,
E due figli hebbe, schioppetti e spingarda.
Questa diabolica arte dette bando
403
All’altre tutte; or le città serrate
Apre a’ nemici, che van saccheggiando,
E fa tremar’ del suon le squadre armate.
(Antonio Cornazano, Opera bellissima de la arte militar etc. P. 58r. Venezia, 1493.)

L’autore sembra vedere dunque la principale evoluzione della bombarda nelle due minori
armi da fuoco medievali, cioè lo schioppetto da braccia e la spingarda, questa da posta in
due pezzi o da braccia in uno solo, a seconda delle dimensioni; e così sarà in effetti ancora
verso il 1560, parlandosene così infatti nel Precetti del Ruscelli, ma ora come di arma da
palle di piombo e non più di pietra o di ferro come nel Rinascimento:

La ragione della polvere che voglion le spingarde, che tiran palle di piombo schietto – et
ancora (‘anche’) col dato di ferro dentro – et, se le spingarde avessero mascoli, vogliono
portar delle tre parti che pesa la palla le due di polvere. (G. Ruscelli. Cit. P. 4r.)

La polvere pirica era dunque formata da questi tre elementi ben macinati: solfo, carbone e
salnitro raffinato, di cui, dicevano i polverari del tempo, il primo provocava il fuoco, il secondo
lo manteneva e il terzo gli conferiva forza propulsiva. Queste tre sostanze si purgavano e
raffinavano in base alle loro caratteristiche e necessità e poi, secondo le proporzioni in cui si
mescolavano, si distinguevano tre tipi di polvere pirica e cioè la quattro-asso-asso (td.
Carthaunenpulffer), detta prima anche polvere grossa o per artiglieria, la cinque-asso-asso
(td. Hackenpulffer), detta in precedenza pure polvere mezzana o fina per le armi da porto
militare personale (schioppetto, pistoletto, carabina, archibugio e moschetto leggiero) e più
tardi invece da archibugioni da posta, e la sei-asso-asso (td. Pirschpulffer), detta più
anticamente polvere soprafina, polverino e anche polvere per schioppo, cioè per arma da
cacciatore, in quanto appunto in precedenza usata solo per l’attività venatoria, ma in seguito
anche per le suddette armi da porto personale.
Per la caccia s’usavano dunque polveri sei-asso-asso, spesso anche più fini e potenti della
comune, perché i cacciatori, specie se nobili e benestanti, usavano armi di gran pregio e
costo dalle canne molto rinforzate. Queste formule significavano che la polvere poteva
essere costituita da 4, 5 o 6 parti di salnitro e sempre da una (asso) di carbone e una (asso)
di solfo, per cui alcuni dicevano più semplicemente polvere di quattro punti, di cinque punti o
di sei punti; ma fino all'inizio del Cinquecento, come abbiamo già visto, i polverari l'avevano
composta anche in proporzioni diverse dalle predette ora invece universalmente adoperate, e
infatti, come suddetto, il Cornazzano riporta che quella inventata dal Berthold fu una sei-
cinque-quattro; inoltre il de Biringuccis così scrive:

... salnitro, solfo e carbone; e chi le va proporzionando con questi a un modo e chi a un
altro... (cit.)

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Questo autore prescrive le seguenti misture, ma si tratta di proporzioni che saranno poi
appunto scartate dovunque in Europa a favore delle suddette:

Per artiglieria grossa: tre parti di salnitro, due di carbone di salcio e una di solfo.
Per artiglieria media: cinque parti di salnitro, una e mezza di carbone e una di solfo.
Per archibugi e schioppi: dieci parti di salnitro, una di carbone di vergelle di nocciuolo e una
di solfo.

Alcuni poi preferivano migliorare quest'ultima usando le seguenti proporzioni: salnitro 13½,
carbone due e solfo una e mezza. Tutte queste misture andavano poi ben incorporate,
pestandole in mortai di bronzo o macinandole e crivellandole, ma sempre dopo averle
inumidite, sia perché così si pestavano meglio sia per evitare che lavorandole s'incendiassero
con gran pericolo dei polverari. Mentre la cinque-asso-asso e la sei-asso-asso si granivano
crivellandole e pestandole a mano con dei pistoni perché i tre ingredienti s’incorporassero
sottilmente, con l’unica differenza che la seconda si lavorava di più in quanto da ottenersi più
fina, cioè fatta di grani quasi la metà più piccoli di quelli della prima, la quattro-asso-asso non
si pestava bensì si macinava solo grossamente con una grossa mola, cioè allo stesso modo
che s’usava per trarre l’olio dalle olive; ciò però avveniva non per il motivo che molti
credevano e cioè che, a parità di salnitro, la maggior finezza conferisse una rilevante maggior
gagliardia alla polvere e che dunque quella per grossa artiglieria dovesse essere poco
gagliarda, al fine di non far crepare le sottili canne dell'artiglieria più antica alle quali fosse
destinata, ma in verità per un’altra ragione e cioè che la polvere non o mal granita – come del
resto anche quella inumidita - non scorreva bene dalla fiasca del fante nel piccolo pertugio
della misura a essa annessa e poi da questa in quello del focone dell’arma, spesso
otturandoli e facendo quindi perdere celerità allo sparo; verificandosi un inconveniente del
genere il soldato o il cacciatore toglieva la misura dalla fiasca e cercava di versare
direttamente la polvere da questa al focone, ma con altrettanta perdita di tempo e spesso
anche con spargimento di polvere.
Alcuni poi usavano diminuire d'un dodicesimo la parte di solfo; altri aumentavano a sette le
parti di salnitro della polvere fina; in sostanza, come abbiamo detto, le proporzioni dei tre
componenti della polvere pirica erano state, fino al tempo del Collado, ragionevolmente
variabili. Verso la fine del secolo, il Marzari prescriverà carbone comune per la 4-1-1, di salice
per la 5-1-1 e di nocciuolo per la 6-1-1.
Sempre all'epoca del de Biringuccis, oltre a usarsi un numero di tipi di carbone molto
maggiore, alcuni usavano inumidire la polvere con aceto bianco fortissimo o acquavite o
acqua di salnitro invece che con l'acqua comune oppure v'inserivano altre sostanze, come
sale armoniaco o mercurio, nella convinzione di renderla così più potente. Ma, tornando ora
alle polveri che nel Cinquecento gradatamente e universalmente s'affermarono sostituendosi
405
a tutte le altre e relegandole così queste al solo campo sperimentale, ribadiremo quanto
appena accennato e cioè che generalmente si prese a usare la quattro-asso-asso per
l'artiglieria medio-grande, la cinque-asso-asso per quella più piccola, cioè in sostanza per gli
archibugioni e moschettoni da posta e anche moschetti da forcelletta, e quella da sei-asso-
asso, più potente per i motivi appena detti, non solo per quantità in quanto più ricca di salnitro
ma anche per qualità, perché, per questa polvere fina (e quindi ancor di più per la soprafina),
il salnitro andava più volte raffinato e la polvere stessa più sottilmente granita, questa dunque
per le piccole armi da porto personale; infatti la canna di queste ultime, fatta in genere di
ferro e non di bronzo, pur riscaldandosi più presto non era frangibile e soggetta a creparsi
come quelle di bronzo e ciò anche in relazione alla piccolezza della quantità di polvere
necessaria alla loro carica.
In seguito, a partire dal terzo quarto del Cinquecento, per ottenere tiri più potenti si cominciò
ad aumentare gli spessori di metallo delle armi da fuoco in generale e si potenziarono le
casse e le ruote, in modo da poter usare cariche più potenti e magari la cinque-asso-asso
anche nelle grandi bocche da fuoco e lasciando così la quattro-asso-asso utile solo per le
vecchie e più deboli bocche da fuoco che fossero ancora in uso; ma presto dopo il Collado, il
quale aveva sempre raccomandato il passaggio alla detta polvere più forte, poiché in effetti di
vecchie d’artiglieria ce n’erano ancora tante in giro, anzi erano la maggioranza specie nelle
fortezze e nei castelli, e quindi molte crepavano se usate con quella polvere più gagliarda; e
poiché, come racconta il Capo Bianco, ci si era resi anche conto che, per converso, la
cinque-asso-asso era troppo debole per le piccole artiglierie da posta e faceva far loro tiro
troppo fiacco, quest’ultima polvere divenne nella pratica disusata e si lasciarono le artiglierie
medio-grandi alla quattro-asso-asso e quella piccola si passo alla sei-asso-asso. Questo in
pratica, perché in teoria si prendevano sempre in considerazione tutte e tre le polveri, come
pubblicava ancora nel 1620 il Rossetti, trattando delle polveri fabbricate nella repubblica di
Venezia:

... Si fanno tre sorte di polvere, di quattro asso asso, cinque asso asso e sei asso asso [...] La
polvere di quattro asso asso s’intende polvere di artellaria, quella da cinque da moschetto da
cavalletto (‘da posta’), quella da sei si intende polvere di archibuso, da scaramuza ed altro
(O. Rossetti. Cit. Pp. N.n.)

Anzi Alessandro Falconi, nel suo trattato del 1612, consigliava per la caccia addirittura la 7
asso asso, perché lasciava la canna dell’archibugio quasi pulita (Breve istruzione
appartenente al capitano de' vasselli quadri etc. P. 28. Firenze, 1612).
Naturalmente una polvere pirica da quattro-asso-asso ben preparata poteva risultare
superiore a una da sei-asso-asso di cattiva qualità o mal lavorata; ma comunque in teoria la
polvere era tanto più potente quanto più salnitro conteneva e quanto migliore era la qualità di
406
questo. Un’ottima sei-asso-asso era quella che si macinava nei due diversi molini (fr. moulins
à poudre) costruiti dal de Marchi per ordine del già ricordato duca Ottavio Farnese, principe
molto interessato al potenziamento delle polveri piriche, qualità dovuta principalmente
all’ottimo salnitro finissimo di doi cotte – cioè purgato sul fuoco due volte – che si faceva a
Parma; questo, unito a solfo, anch’esso ben purgato, e a carbone di nocello e pestato
benissimo al molino fino a far raggiungere al tutto amalgamato una grana sottile e ben secca,
dava una polvere pirica finissima. Il Farnese aveva ottenuto questo risultato con l’ingaggio di
un ottimo ed esperto mastro polveraro, Giovanni da Siena, sotto la supervisione di Francesco
de Marchi.
Verso la fine del secolo, in un contratto ferrarese stipulato il 3 novembre 1594, tra il salnitrato
e polverista Ludovico Alzà e il conte Ercole Estense Mosti, soprintendente generale delle
armerie del duca Alfonso II, troviamo salnitro raffinato di tre cotte:

… che il detto messer Ludovico Alzà sia obligato a lavorar o far lavorar in far fare il salnitro de
fondo con tri caldare, il qual fatto di prima cotta, sia obligato esso Alzà condurlo a Ferrara e,
prima che lo conduca a casa sua per reffinarlo, debba darne conto all’illustrissimo signor
conte Hercole sudetto, acciò possi, parendoli, mandar officiali a pesarlo e riconoscerlo e, poi
raffinato, sia parimente obligato consegnarlo per il suo peso alla Munizione, relassandolo per
il precio de soldi 5 e 6 denari per libra…. (A. Angelucci. Cit. P. 368.)

I filosofi, cioè gli scienziati del tempo, non sapevano spiegare perché il salnitro racchiudesse
in sé tanta potenziale violenza:

Occulta e fin'adesso incognita è la proprietà di questo semplice, quando il vediamo che,


essendo frigidissimo in sommo grado, con vehementissima azione arde ed abbraccia il fuoco,
cosa che alla natura repugna in tutto (LT. Collado. Cit. Pp. 349-350.)

Come ci si procurava generalmente il salnitro necessario? Leggiamo a tal proposito ancora il


nostro Collado:

... E prima dico che'l salnitro si cava in due modi, cioè o dalla terra messa dentro a i tini,
come si usa, fattale passar dell'acqua diverse volte per di sopra, overo cogliendolo dalle
muraglie vecchie e dalle grotte e caverne antiche; e che, per saper qual terreno sia il più atto
a renderti copia di salnitro, dico che quei cortili coperti dove si tengono l'invernata i bestiami
serrati, levato poi quello sterco di sopra del terreno, l'urina di quegli animali genera copia
grande di salnitro; e che questi (terreni) saranno buoni quando saranno raffinati almeno tre
volte. (Ib.)

Per capire se un terreno era salnitroso, uno dei sistemi era quello di forarlo con un bastone di
legno ad apice di ferro e nel buco si cacciava un lungo e grosso chiodo arroventato; quando il
chiodo s'era raffreddato, lo si cavava fuori e, se lo si trovava di colore giallo sbiancato, allora
quel terreno era molto salnitroso. Altri sistemi erano spargere su una fiamma un po' di
polvere di terreno e vedere se da quel contatto fossero salite in alto delle faville a forma di

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piccole stellette, oppure semplicemente mettersi un po' di terreno in bocca e sentire se
mordesse e pizzicasse la lingua; in tutti e due i casi si sarebbe trattato di terreno molto ricco
di salnitro. In ogni caso il terreno salnitroso raramente era più profondo di tre dita. Il salnitro
che si scopava via dalle muraglie si diceva di fior di muro e che 'nasceva' sul muro, ma in
realtà non era altro che il risultato d'anni d'irrorazioni d'urina soprattutto umana. Se poi non
s'avevano a disposizione terreni o muri sufficientemente salnitrosi, il che poteva per esempio
capitare in una città assediata, il Collado così suggeriva:

Metti molti vasi, come sono tini, secchioni, vitine ed altri per le hosterie ed altri luoghi publici
dove concorrono molte genti a orinare... (ib.)

Dopo di che si zappava una gran quantità di terreno che contenesse almeno un po' di salnitro
e lo si stendeva al coperto sotto qualche portico, facendone uno strato alto un paio di palmi;
s'irrigava questo strato dappertutto con l'urina umana raccolta nel modo predetto, lo si
rimescolava molto bene con i badili (it. anche badelli) e lo si lasciava riposare per qualche
tempo; infine lo si metteva dentro a dei tini e lo si passava per le acque come più sopra già
detto:

... che fra quei pochi giorni troverai che sarà cresciuto di salnitro maravigliosamente. (Ib.)

Per rifornirsi di salnitro non bisognava dunque esser troppo schizzinosi, anzi il de Biringuccis
faceva notare che all'occorrenza si poteva reperire anche nel terreno tombale! La terra
doveva comunque esser secca e quasi polverosa e s'assaggiava sbrigativamente con la
lingua per vedere quanto fosse mordace:

... ma il più ottimo (salnitro) di tutti si fa di lutami d'animali, converso in terra nelle stalle o
nelle latrine longo tempo non usate, e sopra tutto di quello che depende da i porci si ne cava
più e migliore (V. de Biringuccis. Cit. P. 150r.)

Dai Precetti raccolti dal Ruscelli:

... ed (il salnitro) fassi di due sorti, di terreno e di fior di muro [...] ed il terreno delle stalle delle
pecore e dove stanno bestiami sono buoni (‘è buono’) ed anco dove l’homo urina e sia molto
calpestato e coperto e detto terreno non vuol esser cavato sotto per più di quattro dita (anche
se in luoghi eccezionali si può arrivare anche a otto dita). Il segno (della presenza del
salnitro) è vederli cerrti fiocchi e bianchi per dentro. Si cava ancora dove lavorano mastri di
legnami e di botti e di fabri e di fabri e dove frequentano molti cavalli, pur che sia al coperto, e
ne i magazini da vini e legni de fornaci e nelle grotti dove si riducono animali; avertendoti che
quello dove gli huomini spandono urina ti da molto sale (e meno salnitro) [...] resta a mostrarti

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il modo che si fa quello del fior di muro; farai raccogliere quella maggior quantità che potrai di
questo fiore che biancheggia sopra alle muraglie de i luoghi humidi...(cit. P. 22v.)

Si potevano far anche come delle ‘colture’ di salnitro, riutilizzando il terreno già usato per tal
scopo:

A conservar sempre il terreno, che è sempre buono a far dell’altro salnitro: prima, quando lo
cavi dalle tine, fallo portare in luogo che sia coperto e che si calpesti molto, caminandovi
sopra, e, quando schiumi il salnitro, di stempera quella schiuma con urina d’huomo e buttalo
sopra a tal terreno e continuamente vi farai votar sopra gli orinali e, avendone quantità, metti
de’ vasi per la terra per raccogliere urina, come fanno in Venezia. (Ib.)

Il regno di Napoli produceva così tanto salnitro ‘crudo’ da esportarlo addirittura e se ne


serviva per esempio l’artiglieria borgognona nel Quattrocento, come leggiamo in una
registrazione d’archivio del biennio 1472-1473; in Borgogna lo si raffinava e poi lo si utilizzava
per le miscele di polveri (…Georges Boucquel, ouvrier de poudre à canon et affineur de
salpêtre…J. Finot. Cit. 1478-1487). Anche i tedeschi esportavano salnitro in Borgogna, ma in
genere già raffinato (ib.) Tralasciando comunque i sistemi di raffinazione del salnitro per non
rendere troppo prolisso il nostro già greve discorso, diremo invece che, per sapere poi se il
salnitro alla fine ricavato era sufficientemente puro e quindi ben raffinato, lo si ardeva su un
asse di legno; se, ardendo, avesse fatto una schiuma grigia, allora sarebbe stato troppo ricco
di grasso; se, dopo bruciato, avesse lasciato dello sporco sull'asse, allora non sarebbe stato
in precedenza ben purgato dal terreno; se, ardendo, stridesse e ‘schioppettasse’, avrebbe
rivelato l'eccessiva presenza di sali non richiesti; se infine avesse fatto una bella fiamma,
lasciando la tavola bruciata, ma pulita, allora si sarebbe dimostrato ben raffinato. Per purgare
ossia raffinare un salnitro venuto impuro lo si bolliva sul fuoco e così sul fondo del recipiente
restavano la terra e il sale da eliminarsi. Il salnitro, esposto all'umidità, si guastava e perdeva
la sua forza e, per recuperare della polvere così rovinata, bisognava farla ben asciugare e
aggiungervi del salnitro fresco.
Aggiunto al salnitro il carbone, possibilmente di verghe o rami giovani di nocciuolo o di salice
o di vite privi di scorza, leggero e morbido fino a sfarinarsi tra le dita, comunque di legno
dolce, e il solfo, anch'esso ben purgato, pestato, sottile, sfarinantesi e di bel colore; il tutto si
mescolava, s'inumidiva e si pestava accuratamente riducendolo, nel caso della sei-asso-
asso, a grana fine per permettergli d'entrare più agevolmente e velocemente nei piccoli orifizi
degli archibugi e delle loro fiasche da polvere. Per granire a grana fine la polvere, la si
poneva in sacchetto di pelle e s'andava sbattendo per un po' tra le mani; poi si cribbiava e
con quella che non fosse passata per il cribbio si ripeteva il procedimento riponendola nel
sacchetto.

409
La polvere che si comprava dai mercanti o direttamente dai maestri-polverari andava provata
per evitare brutte sorprese; infatti fornitori disonesti spesso cercavano di vendere barili pieni
di polvere scadente e con un solo strato di polvere buona in superficie:

... La qual prova, secondo che in Napoli ed in tutti i regni della Maestà Catolica si usa, si fa in
questa maniera... (LT. Collado. Cit. P. 81r.)

Poiché provarla con la lingua, come abbiamo già detto a proposito del terreno salnitroso,
poteva servire a capire se nella polvere di salnitro ce n’era, ma difficilmente di quale qualità
fosse, la prova si faceva spargendo separatamente su delle tavole provviste d'orlo il
contenuto d'ogni barile, rimescolandolo e riempendosene una scodella; si portavano poi fuori
dell’armeria le varie scodelle ricavate dai vari barili e da ogn'una d'esse si traevano con
misurelle dei campioni di polvere che si ponevano su dei banchetti di legno e là
s'accendevano con delle traine o sementelle, cioè con sottili percorsi della stessa polvere.
Ciò avveniva generalmente in presenza del luogotenente del generale dell'artiglieria e di sette
od otto bombardieri dei più pratici ed esperti. Se la fiamma era chiara, faceva sentire uno
scoppio o uno strepito, s'innalzava con velocità istantanea, faceva poco fumo e lasciava il
banchetto intatto e pulito, significava che il salnitro era ben raffinato e tutti i materiali della
polvere ben lavorati e incorporati; se invece la fiamma era lenta a levarsi e a estinguersi e
inoltre poco rumorosa o molto fumosa, allora voleva dire che c'era poco salnitro. Inoltre dal
tipo di residuo lasciato dal fuoco sul banchetto l'occhio esperto comprendeva le magagne
della polvere; cioè, se il legno restava troppo nero, significava troppo carbone; se invece
restava macchiato d'unto, era segno che il salnitro era troppo grasso, cioè mal raffinato; se
sul banchetto restavano granelli grigiastri, questi potevano essere di solfo mal pestato oppure
di sale e terreno per esser stato il salnitro mal purgato; se infine il piano del banchetto restava
bianchiccio, significava eccesso di sali estranei nel salnitro. Comunque, anche senza
bruciarla, si poteva già giudicare dal colore se la polvere conteneva eccesso di carbone,
perché troppo nera, o eccesso di solfo, perché gialliccia; il colore giusto era il grigio chiaro,
perché allora voleva dire che prevaleva giustamente il bianco del salnitro. Prendendo poi
della polvere tra le dita, se si polverizzava facilmente e soprattutto se le tingeva di nero, era
segno d'eccesso di carbone; se i grani pungevano le dita, voleva invece dire che lo zolfo non
era stato ben pestato; se infine le mani restavano pulite, allora era buon segno. La polvere
più fina doveva esser capace d'ardere su della carta o sul palmo della mano senza bruciarli.

... e tutta quella polvere che avanzò nelle scudelle si applica a regaglìe del luogotenente.
Però, se lui è huomo ben considerato, farà la parte a ciascheduno di quegli artiglieri che quivi
si sono ritrovati con esso, accioché, occorrendo qualche festa di allegrezza, possano farsi

410
honore nel fabricar de i raggi ed altri fuochi artificiati per solennizarla; e questo è un
bellissimo ed importante modo di provar la polvere (ib.)

In un’armeria conveniva comunque conservare per tempi lunghi grossi quantitativi dei tre
elementi suddetti separati e non di polvere intera, essendo questa soggetta a incendiarsi,
inumidirsi o guastarsi facilmente; ciò si era imparato con ritardo e infatti ancora alla metà del
Cinquecento si era spesso usato e consigliato di conservare la polvere nei barili non solo
intera ma in forma di palle ottenute bagnando la polvere di aceto forte e poi facendo seccare
dette sfere al sole, insomma allo stesso modo di come si può fare con delle palle di sabbia
inumidita con acqua di mare; e si diceva che due libbre di polvere così conservata e così
introdotta nelle bocche da fuoco rendessero quanto tre di polvere sciolta.
Era in sostanza importantissimo che gli artiglieri fossero esperti di polvere perché altrimenti
ne potevano conseguire pericoli, danni, e problemi bellici molto importanti, come racconta il
de Marchi:

In tempo che l’illustrissimo duca Ottavio (il Farnese già menzionato) hebbe la guerra intorno a
Parma, fatta da Papa Giulio Terzo e dall’imperator Carlo Quinto, per non havere bombardieri
quali sapessero conoscere la polvere, fecero rompere di molti pezzi d’artegliaria per le varietà
delle polvere che erano in monizione; del che bisognò mutare tutte le cargature. In questo si
potrà comprendere di quant’importanza sia il conoscere la polvere e sapere fare le cargature
(F. de Marchi. Cit. Vol. III, parte II, P. 758.).

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Capitolo XV.
Gli strumenti di servizio e i modi di caricare.

La carica di polvere s’inseriva nell’anima della canna d’artiglieria con la cucchiara o cazza [fr.
chargeoir o cuiliere o lanterne (questa da non confondersi però con l’omonimo proiettile
composto); olt. lepel; sic. cucchaio], la quale era un’asta di legno duro, di frassino per
esempio, alla cui punta s’applicava un corto cilindro di legno dolce tornito detto modulo (a
Napoli baschetto), dalla lunghezza pari a quella del diametro della palla destinata all’uso di
quella particolare canna, perciò ogni bocca da fuoco doveva avere anche la sua particolare
cucchiara, e dal diametro leggermente inferiore a quello della palla stessa. A partire dal
cilindro di legno si stendeva in avanti una lastra di rame – ma in origine anche di ferro –
spessa circa mezza costa di coltello e con la punta arrotondata a semicerchio; il tutto a forma
di semi-cilindro aperto, inchiodata al suo inizio attorno al cilindro, del quale dunque misurava
anche ovviamente lo stesso diametro. La lunghezza media della cucchiara, asta esclusa, era,
nelle bocche da fuoco del primo genere, di quattro palle, ma quella totale della lamina di
rame doveva essere di cinque, perché per un diametro di palla si doveva inchiodare sul
modulo di legno, la larghezza una palla e tre quarti – due palle, secondo il Sardi, ma,
caricandosi canne più antiche e più deboli di metallo con polvere moderna da cinque-asso-
asso, conveniva fare le cucchiare un po’ più corte per prendere meno polvere. Ovviamente,
nel curvare la lamiera di rame nel senso della larghezza, bisognava che non venisse più
larga del diametro della relativa palla. Dobbiamo qui precisare che, con riferimento alla norma
che voleva tutte le misure dell’artiglieria prese in rapporto alla bocca della canna, si preferiva
invece misurare le cucchiare in palle per maggior praticità. L’asta della cucchiara doveva
naturalmente essere conficcata nel modulo ed esser tanto lunga da fuoriuscire dalla bocca
quel tanto necessario al suo maneggio. L’Angelucci trovò una prima menzione di questo
strumento in un inventario bolognese del 1397:

… Item unam cazolam de ferro causa carigandi bombardas… (Doc. In. Nota 176, p. 292)

Nel caricare le bocche da fuoco s’ammetteva in tutta Europa che si dovesse tenere conto del
rapporto tra il peso della polvere e quello della palla; le proporzioni date a questo proposito
dal Collado erano, a suo dire, quelle prescritte dai maestri tedeschi, ossia dai migliori del
tempo:

… E che questa regola è generale ed osservata generalmente in tutta Lamagna e per esser,
come in effetto è, ragionevole e vera, doveria da tutti i bombardieri esser osservata ed
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essequita; e […] non deve patire eccezione, se non quando la polvere fosse troppo gagliarda
e fina ‘sì come a Milano ed a Napoli si adopra per uso dell’artiglieria, che allora senza dubbio
alcuno che, a lungo tirare, ne patirà assai più travaglio il pezzo, per esser cosa certa che
faranno maggior effetto in scacciar una palla li ⅔ del peso di essa polvere di sei ed asso,
asso, cioè di polvere di archibugio, che non farà di polvere di cannone con tutto il peso della
palla di ferro. Ed ancora patirà eccezione quando si tirasse con alcuni pezzi di quelli delle
fondizioni vecchie, i quali tutti erano assai più deboli di metallo da (‘di’) questi che si formano
al tempo nostro. (LT. Collado. Cit. P. 37.)

Dovendosi dunque caricare queste bocche da fuoco del primo genere di un peso di polvere
pari, come abbiamo già detto, al peso della loro palla, poiché sarebbe stato troppo inadatto e
lento usare delle stadere in battaglia, si calcolava in precedenza quanta polvere si sarebbe
immessa con una cucchiarata della cucchiara che corredava quella singola canna e quanta
con due o con tre; la misura e quantità della polvere necessaria si diceva dagli artiglieri
spagnoli cachucho. Si potevano pertanto caricare le bocche da fuoco fino a/14 libbre di
calibro con una sola cucchiarata, quelle dalle 10/14 alle 30/35 con due e quelle oltre le 30/35
in tre tratti o volte; ciò perché la carica per le canne più grosse sarebbe stata troppo faticosa
da sollevarsi in un sol tratto e si sarebbe rischiato di far spezzare l’asta della cucchiara. Per le
canne più piccole le cucchiare da un solo tratto dovevano dunque essere
proporzionatamente più lunghe, cioè sette palle e mezza invece di quattro, mantenendo
invece la stessa larghezza d’una palla e tre quarti, e in tal caso la parte di lamina da
inchiodarsi sul modulo di legno s’aumentava a una palla e mezza; per le canne più grosse
invece, quelle cioè da caricarsi in tre tratti, la lunghezza della cucchiare doveva essere di due
palle e ⅔ e la larghezza sempre la stessa d’una palla e tre quarti. In sostanza, per ottenere il
peso-palla di polvere occorreva una lunghezza complessiva di cucchiare di circa otto palle e
la cucchiare stessa andava caricata colma e non rasa; naturalmente con questa prassi
s’arrivavano a dare alle bocche da fuoco cariche solo approssimativamente pari al peso-
palla, ma la perfezione non era pretesa, visto che le norme generalmente accettate e
osservate erano frutto d’osservazione e non di calcolo matematico; inoltre la cucchiarata
poteva ovviamente esser data colma, meno colma o rasa, secondo l’opinione o la
scrupolosità del bombardiero, il che rendeva quindi il peso della carica ancor più
approssimativo e aleatorio:

… nel tempo ch’io praticai in Napoli ed in tutto quel mobilissimo Regno notai che i
bombardieri usavano caricare i pezzi inferiori alle 35 libbre con cucchiare lunghe sì quattro
palle, secondo la norma, ma in tre cucchiarate invece che in due, dando così ai pezzi il 50%
in più della polvere necessaria. Questo errore nasceva dall’usarsi più anticamente per i pezzi
polvere da quattro-asso-asso che si dava in tre tratti; ma, una volta passatisi alla polvere più
forte da cinque-asso-asso, si sarebbero dovuti diminuire i tratti a due ed invece si continuò
per tradizione a caricare con tre cucchiarate (ib.)

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Abbiamo in precedenza detto che alcuni bombardieri non usavano tutto il peso-palla di
polvere per le bocche da fuoco di questo primo genere, ma solo i suoi quattro quinti; in
questo caso, per una canna di medio calibro, si dovevano dare lo stesso due cucchiarate, ma
rase invece di colme. A Napoli, Milano e Venezia s’usava però, come abbiamo già detto,
anche comunemente la polvere fina d’archibugio per caricare la piccola artiglieria, cioè la sei-
asso-asso, anche se con cucchiare più piccole ovviamente, per evitare di far crepare le
canne. Era opinione comune tra i bombardieri del tempo che, usandosi la polvere
d’archibugio per l’artiglieria, se ne dovesse dare un terzo di meno, ma il Collado non era
d’accordo sulla semplicità di questa soluzione, perché, facendosi i calcoli del contenuto di
salnitro delle tre polveri allora in uso, se si toglieva un terzo del peso-polvere il salnitro
risultava in quantità inferiore anche a quella d’un intero peso-palla di polvere antica da
quattro-asso-asso. Pertanto, usandosi polvere fina per le piccole bocche da fuoco del primo
genere, bisognava togliere alla cucchiare un solo ottavo della sua lunghezza rispetto alla
cinque-asso-asso e un quarto rispetto a quella più antica da quattro-asso-asso.
Conveniva inoltre usare questa polvere fina anche per l’artiglieria medio-grande quando
quella più grossa mancasse, perché finita o magari bruciata in una di quelle disgrazie
all’epoca tutt’altro che infrequenti, ma soprattutto alcuni principi la preferivano per il risparmio
che finiva per procurare. La sei-asso-asso infatti, pur costando naturalmente di più della
cinque-asso-asso ed essendo di questa sensibilmente più pesante, riempiva un numero
minore di barili, quindi occupando molto meno spazio, soprattutto nelle strette e
congestionate galere e nelle imbarcazioni in genere, con conseguente notevole risparmio di
tempo nel caricare e scaricare e inoltre di barili, di carri, di cavalli o buoi, di materiali da
fabbricare cucchiare, di uomini, di magazzini e navigli per conservarla e trasportarla; inoltre
un tiro di colubrina caricato con polvere da sei-asso-asso per i soli ⅔ o per i tre quarti del
peso palla, secondo il grado di finezza della polvere da sei-asso-asso, faceva su una
muraglia fortificata quasi lo stesso effetto che s’otteneva con l’intero peso-palla di polvere da
cinque-asso-asso. Insomma, con l’introduzione delle canne rinforzate la polvere da sei-asso-
asso finì per mostrare, oltre alla sua già nota maggior efficacia, anche la sua maggior
economicità di servizio. Già in un consiglio d’artiglieria che si era tenuto a Bruxelles il 9
maggio del 1568, partecipandovi tutti gli esperti spagnoli di Fiandra incluso il capitano
generale, Charles de Brimeu de Humbercourt (c. 1524-1572), come racconta il Lechuga, si
era infatti deciso di fabbricare ed usare per il futuro solo una 6-Asso-Asso ante-litteram e cioè
composta di 75 parti di salnitro ben raffinato, di 15,10 di carbone e di 9,6 di solfo fino
(Discurso de artilleria, p. 147).

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Eppure il predetto nuovo uso non si diffuse né più di tanto né facilmente perché spesso
risultante controproducente per il servizio e pericoloso per gli artiglieri, come spiegava Pico
Fonticolano alla fine del secolo:

… Son di parere alcuni artiglieri che, usandose la polvere gagliarda di archibugio, (si)
sparagnarebbe molta spesa di some per condurla e l’artegliero più sarebbe manigevole
(‘agevolato’) nel caricare.
In questo le (‘loro’) rispondo che la polvere gagliarda, per essere troppo violente (‘violento’) il
suo moto, ancorché se ne metta meno, non solo farebbe crepare il pezzo, per il mover che si
fa della palla con troppo impeto, ma (anche) ho visto che la polvere della monizione del
Regno (di Napoli), per essere molto gagliarda, nel dar foco si accende con tanta velocità che
l’artegliero non ha tempo a ritirarsi e li ha cavati fuor di sé (‘li hanno cerebralmente lesi’ ) il
foco e il rumore e fattoli andar sordi tempo di lor vita (‘resili sordi in permanenza’), massime li
pezzi grossi. (Geronimo Pico Fonticolano, Geometria etc. P. 243. Roma, 1605.)

All’inizio del secolo seguente il Lechuga si batterà invece per l’uso della sola polvere fina
detta 6-Asso-Asso per i numerosi vantaggi d’esercizio che con essa si ottenevano e di cui
abbiamo già detto, uso che si stava affermando ora a Milano dopo anni di resistenze
incontrate negli ambienti dell’arma d’artiglieria dallo stesso predetto tenente-generale, ma
non a Napoli, dove a quei tempi ancora si adoperavano la vecchie polveri grosse; si trattava
insomma, sempre a dire del Lechuga, di diminuire di un quarto le cariche di polvere ai
cannoni e di un terzo alle colubrine. Le cucchiare per l’artiglieria del secondo genere erano
uguali a quelle per il primo, ma naturalmente la loro lunghezza doveva essere calcolata in
relazione alla quantità di polvere della loro carica. Per i cannoni ferrieri seguenti, ossia non
incamerati, da caricarsi per esempio in due tratti, la cucchiare doveva essere lunga due palle
e ⅔, se per polvere fina, e tre palle, se per quella d’artiglieria; con la prima si sarebbe così
introdotta polvere per la metà del peso della palla, con la seconda invece per i ⅔ di quello
stesso peso. Allo stesso modo, nel caso di carica in tre tratti, la cucchiare avrebbe dovuto
essere lunga due bocche per la polvere fina e due bocche e un quarto per quella d’artiglieria.
La larghezza e forma della cazza erano poi le stesse di quelle per il primo genere
dell’artiglieria. Volendosi nel caso caricare con palle di pietra i cannoni da batteria, si dava il
terzo o la metà del peso della palla secondo il tipo di polvere.
I cannoni ferrieri si caricavano dunque generalmente con due cucchiarate, ma facevano
eccezione quelli doppi, i rinforzati e i basilischi, i quali tutti, per la gravezza della loro carica, si
caricavano in tre volte per alleggerire la fatica del servente alla bocca da fuoco, e i quarti
cannoni comuni, i quali invece si potevano, volendo, caricare in un solo tratto. E se il
bombardiero non si fosse trovate cazze a disposizione? Allora si toglieva il cappello, lo
riempiva di polvere, lo pesava e con quello caricava la sua canna, spingendo poi giù la
polvere con lo stivatore.

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Secondo strumento di servizio era la lanata o nettatore o scovolo inastato o spazzatore o
anche scop(p)atore [vn. scovone; sp. limpiador; fr. nettoir o nettoyer, poi e(s)couvillon(er) o
esquevillon, poi torchon o housse; olt. wisser], il quale serviva a pulire, ma soprattutto a
rinfrescare l’anima della canna o anche per ammassarvi dentro la polvere. Era costituito da
un’asta di legno duro con un coccone di legno dolce all’estremità, quale per esempio il legno
di pobbia, come quello dello stivadore, lungo una bocca e un quarto e grosso ⅔ di bocca.
Questo coccone, ossia cilindro, si rivestiva con una pelle di castrato barbaresco o d’altro
animale lanuto, ma di lana lunga. Questa pelle s’inchiodava sul coccone con delle brocche,
ossia con chiodetti d’ottone o di rame a testa larga, metalli che dovevano essere usati anche
per i chiodi necessari a inchiodare le cucchiare e gli stivadori,perché quelli di ferro
caricandosi in fretta la canna, potevano andare a urtare contro qualche sassetto o pezzetto di
fil di ferro che si trovasse accidentalmente nell’anima come residuo di quello usato per legare
le forme d’anima di creta che si adoperavano per fondere le artiglierie, provocare pertanto
una scintilla e accendere inopinatamente la polvere con gran pericolo per il bombardiero che
stava caricando; in mancanza della lanata, il bombardiero poteva ugualmente adoperare la
sua berretta o un panno legato sull’apice di un’asta qualsiasi.
Ovviamente le cucchiare, le lanate e gli stivatori – di questi presto diremo - fatti per le canne
incamerate dovevano essere costruiti nelle stesse proporzioni suddette, ma prendendo come
unità di misura non il diametro della palla bensì quello della bocca della camera della canna
medesima meno il vento, altrimenti non avrebbero potuto entrarvi, e anche più strette si
facevano le cucchiare per le canne incampanate; ma, essendo dunque queste cucchiare più
strette di quelle dei cannoni seguenti, si dovevano fare più lunghe e infatti dovevano, se per
caricare in due tratti, essere di tre diametri di palla per la polvere fina e di tre diametri e un
terzo o di tre e un mezzo per la polvere d’artiglieria; infine, se in tre tratti, poco più di due
bocche per la polvere fina e due e un terzo per quella d’artiglieria. Secondo poi la qualità
della polvere, si poteva scegliere di dare cucchiarate colme o rase di polvere. Anche diversa
era la forma delle lanate fatte per le canne incampanate.
Le bocche da fuoco del terzo genere gettate per il sesto si caricavano con polvere d’artiglieria
per un terzo del peso della palla di pietra e la loro cucchiare doveva essere lunga due bocche
della loro camera e larga quindi anche in relazione alla bocca della camera e non a quella
dell’anima; quelle gettate per la metà si caricavano invece con la metà del peso della loro
palla e con cucchiare lunga due bocche e ⅔. Queste lunghezze di cazza erano per caricare i
petrieri in un sol tratto, cosa che andava benissimo al di sotto del calibro di 30 libbre, ma dalle
30 libbre in su era meglio caricarli in due tratti e allora la cucchiare doveva essere
rispettivamente un diametro e un diametro e mezzo della bocca della camera. La larghezza
di queste cazze, rapportata alla bocca della camera e non a quella dell’intera canna, e anche
416
la loro forme si riconducevano a quelle delle bocche da fuoco incamerate del secondo
genere. Ai mortari, senza mai eccedere le stesse suddette limitate ragioni di polvere, si
poteva dare più o meno carica secondo la distanza del bersaglio, in quanto il tiro di queste
canne, essendo ad arco, non era destinato a esprimere la massima potenza, bensì solo la
massima precisione, dovendosi calcolare la mira con il quadrante di cui abbiamo già detto, e
quella che contava era, oltre alla precisione, la forza di caduta del proiettile, il quale quindi più
grande e pesante era e più effetto distruttivo sui tetti e nelle case nemiche poteva ottenere.
Il bombardiero doveva provvedersi d’una buona quantità di fieno o di paglia o di capecchio o
di stoppa o di straccio o di sfilacci con cui fare i bocconi o foraggi o stoppaioni o piumaccetti o
stramazzetti o stroppagli (a Napoli boccagli) che dir si volesse, per rendere i tiri più potenti, e
sia detto per inciso che il nome di boccone, più tardi spesso corrotto in bottone, era dovuto
alla circostanza d’essere appunto più o meno costituito da tanto foraggio quanto ne servisse
per far un boccone per un cavallo. Il boccone si poneva ben serrato sempre dopo la polvere e
quindi prima della palla per due scopi, cioè per tenere la polvere compressa e per evitare che
la sua violenza sfogasse passando attorno alla palla; a volte però si poneva un secondo
boccone o bottone dopo la palla, questo non molto serrato, allo scopo di trattenere il proiettile
al suo posto contro il primo boccone e ciò nei tiri in orizzontale e, naturalmente, soprattutto in
quelli all’ingiù; e da quest’uso comprimente della stoppa viene evidentemente il verbo inglese
to stop, fermare. Bisognava fare ben attenzione che nella materia che costituiva il boccone
non capitasse per caso nulla di duro, anche minimo, perché nello sparo quest’oggetto duro
avrebbe potuto andare a incugnare la palla, incastrandosi cioè tra questa e la parete
dell’anima, impedendo la fuoruscita del proiettile e facendo così crepare la canna; questo
incidente s’era spesse volte veduto specialmente su navi e galere, dove s’usava fare i
bocconi per lo più di sfilacci di vecchie gomene o di schiavine da forzati stracciate, cioè di
quei già menzionati mantelli di panno pesante destinati a proteggere quei disperati dal freddo
dell’inverno e della notte. Quando ciò avveniva i bombardieri dicevano nel loro gergo che la
palla s’era indrappata.
Il bombardiero che andava al servizio di una bocca da fuoco nuova per lui e che avesse la
cazza già predisposta doveva far attenzione che questo strumento non fosse fatto per
caricare in un sol tratto, come alcuni artiglieri usavano per far presto anche nel servizio delle
canne di media grandezza. Infatti, se egli con quella cazza avesse dato le due cucchiarate di
norma, avrebbe caricato con il doppio della polvere necessaria e quindi rischiato di far
crepare la canna.
La polvere introdotta nell’anima della canna con la cucchiare si calcava nell’estremità di
quella o nella sua camera con un altro strumento di servizio detto stivatore o stivadore o
calcatore o calcatoio o follatore o rifolatore (fr. refoûloir, poi poussoir, poi chargeoir; sp.
417
atacador poi estivador; sic. cafollatore), trattandosi semplicemente d’un asta grossa e forte di
legno duro conficcata a un’estremità in un cilindro anch’esso di legno, ma dolce, affinché
fosse leggero, lungo una bocca nel caso delle canne grosse e una bocca e mezza in quello
delle piccole; la larghezza doveva essere ovviamente d’un diametro di bocca, ma
leggermente ladina, cioè un po’ più stretta affinché lo strumento stesso potesse entrarvi, in
somma all’incirca dello stesso diametro della palla. Spesso cazza e stivatore erano per
comodità entrambi applicati alla stessa asta, ognuno a un’estremità, ma ciò nel servizio delle
canne piccole fino alle 12 libbre, perché in quello per le canne maggiori le aste sarebbero
risultate troppo lunghe e scomode per questo. Il calcatore (fr. fouloir) sarà poi nel Seicento
chiamato anche fottitore, in quanto, a mo’ di organo genitale maschile, entrava in una cavità
oblunga, e per una pari analogia, in questo caso rafforzata dal deposito di materiale nella
canna, è da ritenersi che appunto dalla cazza d’artiglieria sia derivato il nome, una volta solo
napoletano, del predetto organo sessuale (fr. vit); insomma alla stessa stregua con cui gli
antichi romani lo chiamavano anche rutabulum, cioè ‘attizzatore’:

Rutabolo, così chiamato dall’attizzare il fuoco dove si cuociono i pani. Si trova però usato
anche per il membro virile (Rutabulum a proruendo igne vocatum, quo panes coquuntur.
Invenitur tamen positum et pro virili membro. Sesto Pompeo Festo, cit. P. 355).

Ma, per completare questa digressione sui nomi analogici dati all’organo genitale maschile,
ricorderemo anche quello di strutheum (‘uccello’), antichissimo, perché era il corrispondente
latino dello στρουθός (‘passero’) greco, nomignolo che appunto si dava a quell’organo perché
già nell’antica Grecia la vigoria sessuale del passero era proverbiale e spesso ricordata dai
comici a teatro (Strutheum: membrum virile a salacitate passeris, qui Græce στρουθός dicitur,
a mimis præcipue appellatur. Ib. P. 453).
Quarto e ultimo strumento inastato da introdurre nell’anima della canna, quando necessario,
era il cavafieno [fr. tire-foin(g); invece tire-bourre nel caso del moschetto], cioè una spirale di
robusto e indeformabile cavo di ferro con il quale si poteva appunto tirar via i bocconi che
fossero nell’anima quando si voleva scaricar la canna della polvere perché non bisognava più
usarla; serviva pure a cavar fuori calcatori o spazzatori che, staccatisi dalla loro asta, fossero
rimasti nella canna. Il cavafieno poteva anche servire a scugnare una palla e, in mancanza di
questo attrezzo, gli artiglieri usavano servirsi di robusti pezzi di ramo. Le aste dei quattro
strumenti suddetti dovevano essere tre bocche più lunghe della canna per il quale essi si
costruivano.
Esisteva poi un quinto strumento inastato, il quale però non era da introdursi nell’anima della
canna, ed era uno stillo di ferro detto buttafuoco (corr. battifuoco) o lancetta e più tardi anche
serpentino per via della sua forma apicale, strumento per dar fuoco alle artiglierie in

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campagna e per entrar di guardia in maniera ornata, il quale doveva essere alto un palmo più
del suo proprietario; l’asta di questo terminava da un capo appunto con una lancetta, ossia
con un apice di ferro di partigiana (dal td. Barthensaune) che serviva al bombardiero per
difendersi in caso il nemico lo assalisse, e inoltre con due serpentine o teste di serpe
anch’esse di ferro, poste a due lati del detto apice e sulle quali s’avvolgevano i due capi
accesi della corda-miccia per dar fuoco alla carica della canne, uno per quelle grosse e uno
per le piccole; dalla parte invece dello scalzo (‘calcio’) l’asta di questo strumento presentava
un altro apice, ma questo d’acciaio e lungo un palmo, che si poteva configgere in terra, in
modo da poterlo tener così verticale senza esser costretti a sorreggerlo sempre con la mano,
ma con il quale ci si poteva quindi anche difendere da un assalto nemico come si sarebbe
fatto con una semplice mezza picca; insomma questo strumento era in effetti anche un’arma
e infatti era allora perlopiù chiamato non buttafuoco ma sargentino, altro nome questo per
indicare la ginetta o giannetta o corsesca, arma da asta corta che nella prima metà del
Settecento, talvolta sostituita dalla partigiana, prenderà invece il nome di spuntone e sarà
l’ultima arma d’asta distintiva usata dai capitani di fanteria.
Nel caso mancassero gli zolfanelli, il bombardiero poteva accender il fuoco nella seguente
maniera; prendeva una pietra focale o focile alquanto grosso che conservava nella cassetta
di legno posta tra i due assoni della cassa della sua bocca da fuoco, vi versava sopra un po’
di polverino da innesco, v’appoggiava un capo di miccio d’archibugio e poi la percuoteva con
l’apice d’acciaio del buttafuoco; la scintilla che così subito si sprigionava accendeva il
polverino e quindi il capo della corda-miccia. Naturalmente s’usavano anche altri tipi
d’accialino.
Doveva poi avere il bombardiero anche un corto, manevole, cioè solo con il manico e
senz’asta, quindi di non più d’un braccio e mezzo, il quale serviva a dar fuoco alle canne
d’artiglieria in presidio oppure in campagna con maggior prestezza (soglionsi fare con due
teste di serpe, per tenere la corda accesa da due capi. Busca); in mancanza di miccio, si
poteva dar fuoco alle canne con un bastoncino di ferro incandescente, sistema, certo molto
meno pratico, che era stato però molto in uso nel Medioevo. Più tardi in Francia il nome di
boutte-feu verrà dato anche all’ufficiale d’artiglieria incaricato appunto di dar fuoco alle canne
d’artiglieria. Alla metà del Cinquecento vediamo a volte, per le piccole bocche da fuoco,
anche un rastiatoio (‘raschiatoio’) fornito assieme alla bacchetta calcatrice (td. Ladstecken). I
bizantini non dicevano ‘dar fuoco alle artiglierie’ bensì ‘metter fuoco nelle artiglierie’ (… εἰς τὰς
ἑλεβόλεις πάσας τὸ πῦρ ἑνέβαλον… Giorgio Franzes, cit. LT. III, cap. VII).
Era anche utile al bombardiero una spada molto ben forbita, tanto cioè da riflettere la luce del
sole; egli infatti la poneva davanti alla bocca della canna, questo orientato con la culatta

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verso il sole, e, proiettandovi dentro la luce riflessa, poteva guardare e controllare se la canna
era già carica o se era incampanata o incamerata, ben trivellata, se l’anima era pulita, se
presentava dei pericolosi difetti, quali spugnosità, cavernosità, crepe o altri ancora, i quali
avrebbero potuto far crepare la canna durante l’uso o dar troppo agio alla palla di balzare e
intoppare di qua e di là, facendo tremare la bocca da fuoco e rendendone così il tiro fallace.
Questa spada doveva però esser anche ben tagliente e decisamente corta, una daga
insomma (si chiamava infatti anche mez’arma), perché una lunga appendice sarebbe stata
d’impaccio al lavoro dell’artigliero e infatti era anche definita meza spada o cortella larga o
coltellazzo e, tenuta normalmente in un fodero, serviva al bombardiero, oltre che a difendersi,
anche a tagliare rami, fonde e frasche che gli potessero eventualmente dare impaccio o
all’occorrenza servire; inoltre nella sua larga vagina poteva inserire e tenere anche i suddetti
compasso, squadra e stilo di ferro. Naturalmente, per osservare l’interno d’una canna, la
spada predetta poteva esser sostituita da un pezzo di specchio o di candela accesa attaccato
all’estremità di un’asta da infilarvi dentro.
A proposito di armi, aveva poi diritto di tenere uno schioppo, dalla canna lunga dai 3 e mezzo
ai 4 piedi, come i bassi ufficiali di fanteria, a dimostrazione di quanto fosse da considerarsi
ufficialmente importante e onorevole il suo ruolo; quest’arma gli sarebbe servita a esercitarsi
a tirare, a ben presentarsi a mostre e sfilate e anche per cacciare gli uccelli se gli fosse
piaciuto. Poteva portare quest’arma da fuoco non solo in campagna ma anche in tempo di
pace, porto che ai privati era in ogni stato invece proibito. Poteva inoltre portare un morione
brunito in bianco (G. Marzari. Cit.), anche questa arma degna di un ufficiale, per difendersi da
sassate, frecce, archibugiate e schegge originate dall’eventuale creparsi della sua stessa
canna d’artiglieria o di qualche altra che gli fosse vicina, incidente allora del tutto frequente.
Serviva al bombardiero anche un martello con il quale battere la canna di bronzo, perché, se
il suono che così ne ricavavano non era chiaro e sonoro come doveva, bensì rauco e sordo,
allora voleva dire che quella canna era consentita, vale a dire difettosa, ma non tutti i
bombardieri arrivavano a tali raffinatezze professionali. Gli occorreva dunque, per fare la
corda-miccia, anche della corda cotta di bombace, cioè di cotone, il quale era mezzo ritorto,
cotto in lisciva d’acqua di salnitro e poi inrocchettato di filo sottile tanto strettamente da
nascondere completamente il cotone; questa copertura di filo serviva a far durare il miccio più
a lungo, conservandovi meglio il fuoco e difendendolo dall’intemperie; gliene occorreva molta
perché si guastava facilmente. Gli servivano inoltre una lanterna cieca, un corno o fiasco
grande e capace di due o tre libbre di polverino da innesco (per allescare la pezza.
Bartolomeo Pelliciari, Avvertimenti in fattioni di guerra. Modena, 1606), da tener ben protetto
dall’umidità, un azzalino completo come predetto, cioè con esca, pietra focaia e altri suoi
correlativi, una manaretta o segurino, ossia un’accetta (sp. azuela), per piccoli aggiusti delle
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ruote e delle casse, un paio di seghe, due tanaglie (una da punta ed una da morso), una
raspa, scarpelli di vario tipo, un incudine, lime grandi e piccole da ferro e da legno, una mola
da aguzzare, tambucchi (‘crivelli’) e un mortaretto di bronzo per la polvere, forme di vario tipo
da pallottole di piombo, una stadera, una bilancia (lt. trutina) con i pesi, un livello
(probabilmente ad acqua), un secchio di rame per l’acqua, due o tre caratelli, brocche grandi
e piccole, chiodi e cunei d’acciaio di varie misure, pioli e piolini, fil di ferro, un paio di forbici
grandi e uno di piccole, cartoni grossi e sottili e carta reale, colla, una lanterna da candela,
una stazza di misura grande e una piccola, una calderuola stagnata, sforzino di vari spessori
e spago, forme da rocchette (‘gomitoli’; sp. ovillos), molto sego e poi dei piccoli strumenti
personali da portare sempre con sé in uno stizzetto (‘astuccio’) come se fosse stato un
pratico di chirurgia, trattandosi di una squaretta (‘squadretta’; vn. squarra; sp. nivel
quadrante) snodata di lama di ferro o di rame o d’ottone con la sua scala in punti e minuti
corrispondenti ai vari gradi e con il suo perpendicolo (‘filo a piombo’) per dare elevazione alle
canne da fuoco, un bussolo, cioè una bussola calamitata, la quale serviva a orientare di
giorno una bocca da fuoco che poi si sarebbe dovuto sparare di notte senza poter più vedere
il bersaglio, d’un compasso di ferro temperato, quindi rigido, e lungo circa un pie’ di misura
(piede geometrico) per misurare il taglio delle cazze, terziare le canne, scompartirne il vivo,
dare il vento alle palle etc.; d’un compasso lungo di ferro dolce distemperato, in modo da
poter essere curvato alle punte, per la misurazione degli spessori delle canne e delle palle;
d’una tinivella longa tutta di azzale, cioè d’una verinetta o trivelletta d’acciaio, per trivellare
foconi otturati da terra o da immondizie; di un’aduggia o (a)gucchia, ossia d’uno stiletto di
ferro lungo quanto la suddetta trivella e munita d’un piccolo rampino in punta, detta tantola in
qualche parte d’Italia, la quale s’infilava nel focone per vedere se la canna era già carica, per
misurarle il vivo, per controllare s’era incamerata o incampanata, per terziarla in genere e per
altre operazioni ed era in effetti consigliabile averne due, una per le canne grosse e una per
quelle piccole; di un'aguggia semplice, cioè senza rampino, (che quanto più lungo tanto
meglio sarà. G. Marzari. Cit.) da tenere protetta da una vagina e che serviva ad adescare le
canne; d’un colibre, ossia d’una regola o righello misuratore di calibri, di ferro o di ottone [sp.
(a)latón], sul quale fossero indicati diametri e pesi delle palle di piombo, ferro e pietra, del
quale abbiamo già detto a proposito delle palle d’artiglieria, in modo cioè che, prendendo con
il compasso torto il diametro di una palla, si potesse subito ricavare col colibre anche il suo
peso; strumento che poteva comunque risultar utile anche per altre misurazioni. Doveva
anche disporre di attrezzatura da cucina, cioè una stagnatella, una pignatta di rame, qualche
piatto di peltro, boccali e quarti di boccale (bozze e zaine) anch’essi di peltro, un piccolo otre
per conservar il vino, vasetti da olio e da aceto, un sacchetto di sale, tovaglie e tovaglioli;
inoltre carta e inchiostro da scrivere e di uno scatolino contenente refe e diversi aghi da
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cucire. Per quanto riguarda le seghe, se ne usava, oltre al tipo comune, anche uno detto
sega francese e che non sapremmo però descrivere; forse si trattava di quella manovrata da
due uomini posti alle sue estremità e che si utilizzava specie per tagliare i grossi tronchi.
Tante piccole cose erano usate dal bombardiero esperto, ma le sopra ricordate erano le più
necessarie, specie la squadra da elevazione col suo perpendicolo e il sargentino o altro
bastone con intorno uno stoppino ben secco; il Marzari gli dava però anche consigli di
carattere igienico-personale:

… Servendo, tanto in terra quanto in mare, porterà per commodo e bisogno di sua persona
camiscie, faccioli da testa (‘fazzoletti da sudore’) e specialmente uno sottile e lungo da
avogliersi (‘avvolgersi’) d’intorno al collo per schiffar (‘schivare, deviare’) le frezzate nemiche;
faccioletti da naso, qualche intimella (‘federa di cuscino’) ed un paro di lenzuoli almeno con
uno stramazzetto (‘materassino’) di lana ed una coperta per valersene in occasione [Dio (ne)
guardi] d’infermità; buone vestimenta che bastino per far honore a lui e riputatione all’arte e
professione, convenendo(g)li massimamente essere spesso innanti a’ generali e altri capi de
gli esserciti ed armate. (G. Marzari. Cit. P. 67.)

Anche Gabriello Busca aveva dato al bombardiero consigli riguardanti il vestiario:

… Il vestir suo debbe essere succinto, di cosa forte e che poco tema, per così dire, il fuoco e
la pioggia. Usa la più parte vestire di pelle di capri o di buffali, particolarmente il giubbone o
coletto, perché facilmente non vi si appicca il fuoco e non si lograno (‘logorano’) se non in
lunghissimo tempo. (Cit. P. 7.)

E così farà pure il Pelliciari:

Il bombardiero deve essere vestito di cervone (‘pelle di cervo’) forte e buono, perché il fuoco
difficilmente s’attacca a tal materia, e, dovendo attender all’artiglieria, non ha d’haver attorno
se alcuno impedimento d’arma né d’altra cosa che lo intrichi, acciò possa dare fuoco e
ricaricare prestamente… (B. Pelliciari. Cit. P. 225.)

E inoltre il Lechuga:

… I suo abbigliamento deve esser succinto, di cosa forte e che resista, per così dire, al fuoco
e all’acqua. Dal che deriva che i più vestano di pelli di capra o di bufalo, partcolamente il
giubbone o colletto, perché non facilmente si attacca loro il fuoco; questo quando vanno in
campagna. (Cit.)

Nel caricare la sua bocca da fuoco l’artigliero teneva la polvere in un barile o caratello, ma
meglio era in un sacco di cuoio, perché materiale che non s’incendiava, in corrispondenza
della testa della ruota sinistra della canna, intendendosi per tale quella alla sinistra del
bombardiero postosi alla bocca della canna stessa; allo stesso lato, tra la cassa e la ruota,
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teneva poggiati i sopraddetti strumenti inastati di servizio. Prima di sparare il suo aiutante
doveva spostare la polvere 15/20 passi andanti lontano, tenendola ben coperta, per evitare
che qualche favilla andasse ad appiccarle il fuoco; anzi, trovandocisi in batteria, sempre alla
suddetta distanza dalle canne, si faceva una fossa a terra e vi si sotterravano le polveri,
facendosi attenzione a non scoprirla mentre magari si stava sparando un'altra bocca da fuoco
vicina; bisognava infine, in caso di forte vento, mettere il barile o il sacco a sopravvento della
canna a cui serviva, sempre per evitare che vi arrivasse una favilla volante. Il barile di polvere
s’apriva o si sfondava con una mazza di legno e non con martelli o sassi che, a contatto con
qualche altro sassettino o con qualche chiodo che fosse eventualmente presente nel barile
stesso, potessero provocare qualche pericolosa scintilla.
Per caricare la bocca da fuoco l’artigliero doveva prima far calare alquanto la bocca fino al
raso delli metalli o perlomeno fino al primo punto di squadra; in seguito doveva riempire la
sua cucchiare e scuoterne via l’eccesso della polvere per evitare che cadesse poi a terra,
cosa che, scrive il Collado, ti faria una gran vergogna […] percioché tra le persone pratiche si
tiene per cosa troppo vergognosa, maggiormente quando si vede che in terra ed al lungo
della canna del pezzo ti resta alcuna polvere… (cit. P. 139); infatti, come spesso succedeva
prima di questi nostri tempi di consumismo, lo spreco era considerato un qualcosa di molto
vergognoso. Infilava dunque la detta cazza nell’anima fino a toccarne il fondo, mantenendosi
però in tutto questo per prudenza lateralmente alla bocca e non dinanzi e, toccato appunto il
fondo, girando le mani verso la parte opposta alla sua, faceva così ruotare l’asta e la
cucchiare scaricandone la polvere nella culatta; tirata poi fuori la cazza, guardava nell’anima
e, se vedeva, che un po’ di polvere v’era caduta prima di raggiungere la culatta, la spingeva
più indietro con lo stivatore, ma senza calcarla; dava poi la seconda cucchiarata di polvere e
ancora una volta usava lo stivatore, ma stavolta le, dava con questo due o tre botte per
compattarla stando però attento a non ammassarla troppo; naturalmente, se la canna era di
quelle che richiedevano d’esser caricati in tre tratti e non in due, per esempio un cannone
doppio, allora tre o quattro botte gagliarde con lo stivatore si davano ovviamente solo dopo la
terza cucchiarata. In ogni caso la polvere non andava troppo stivata perché, quando era
troppo ammassata e indurita, allo sparo la bocca da fuoco rinculava scompostamente e i tiri
risultavano sbagliati. Il cannoniere doveva star attento a non caricare arborato, cioè tenendo
l’asta dei suoi strumenti alti, perché in tal modo, nonostante i suoi ripari, rischiava di farsi
scoprire dagl’imberciatori e dai bombardieri nemici e di farsi uccidere o disincavalcare la
canna da qualche tiro ben aggiustato e più veloce del suo. Dopo aver così stivato la polvere
nella camera o nella culatta l’artigliero doveva introdurre nell’anima il boccone di fieno o di
sfilacci, calcandolo poi molto bene con lo stivadore; questo boccone aveva, come abbiamo
già detto, la funzione di non far sfiatare in avanti, cioè attorno alla palla, la potenza propulsiva
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del fuoco; bisognava però stare attenti, come abbiamo già detto, che nel boccone non
capitasse nulla di duro. A questo punto il bombardiero prendeva con due mani la palla e,
prima d’introdurla, faceva con quella per devozione il segno della croce davanti alla bocca
dell’anima; poi la faceva scorrere fino al boccone, spingendola con lo stivadore per esser
sicuro che non fosse magari rimasta incastrata a metà canna, cosa pericolosissima perché
avrebbe potuto causare il creparsi della canna all’atto dello sparo, e se la palla tendeva a
incastrarsi, non doveva assolutamente forzarla perché avrebbe potuto solo peggiorare le
cose, magari facendola sì arrivare più giù al suo luogo, ma portandola a incastrarsi allo sparo
nuovamente anche colà provocando così la crepatura; la cosa migliore da fare in tal caso era
dunque estrarla e cambiarla con un’altra che scorresse facilmente fino alla carica di polvere:

… arrivata che sarà al suo luogo la palla, se tu non volessi dar fuoco al pezzo, allora poi
metter altro boccone sopra di essa, accioche la non ti sia robbata, o, per farsi qualcheduno
gabbo di te, te la venga a cavar fuora (Ib.)

Bisognava poi innescare la canna, cioè riempire il focone di polverino finché fosse ben colmo,
ma non bisognava poi dar fuoco alla carica direttamente sopra al focone, perché la furia del
fuoco che dallo stesso focone sarebbe venuta fuori avrebbe fatto saltar di mano il bottafuoco
al bombardiero per quanto forte questi potesse essere. Bisognava dunque creare sopra la
stessa culatta una breve traina o sementella di polvere, lunga solo due o tre dita dal focone, e
a quella dar fuoco; inoltre il bombardiero coscienzioso, per evitare un eccessivo consumo
della corda-miccia, non l’avrebbe posta sul polverino in verticale ma il più possibile in
orizzontale:

… e, quando dai fuoco all’artiglieria, invoca il nome della gloriosa martire Santa Barbara,
avvocata de’ bombardieri, accioche interceda per te al Signore Iddio, che ti voglia guardare
da qualche disgrazia e pericolo (Ib.)

Dopo aver sparato la bocca da fuoco e prima di tornare a caricarla, bisognava pulirla, oltre
che dentro l’anima con la lanata, come abbiamo già detto, anche all’esterno, in
corrispondenza del focone, per togliervi il residuo lasciato dalla traina e dal polverino bruciati.
La pulizia interna prima d’un nuovo sparo era dovuta non solo a ragioni d’efficienza della
bocca da fuoco, ma anche di sicurezza; infatti dopo il precedente sparo poteva esser rimasta
nell’anima qualche scaglia metallica che, in presenza di nuova polvere e urtata dalla nuova
palla, poteva provocare qualche scintilla e accendere così la polvere durante l’operazione di
carica con grave pericolo del bombardiero, oppure poteva essere rimasta all’interno un po’ di
polvere di carbone accesa, specie in qualche difetto cavo del metallo, e quindi
inaspettatamente accendersi la nuova carica di polvere prima del tempo. Se la bocca da
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fuoco doveva per caso restare a lungo caricata senza esser sparata, allora bisognava turare
in alto accuratamente il focone con stoppa e sego ben pestato insieme a carbone, ma era
meglio poi coprire questo stoppaggio anche con qualche lamiera di rame o d’altra materia
impermeabile, soprattutto se la bocca da fuoco era destinata a restare all’aperto, come nel
caso dell’artiglieria di presidio; ciò non era ovviamente necessario quando la canna, ma
soprattutto il suo deteriorabile ceppo di legno, era dotato del mantelletto o coperto di legno
(tlt. reparum, copertura; fr. manteau) che la difendesse dalle intemperie invernali, cioè di una
copertura di legname ferrato, a forma di cassone, ben calafatata ma alta da terra almeno
quattro dita per ventilare l’accumulo interno di umidità; per esempio nel 1467 il carpentiere
Piètre Dyonghe di Malines ne fece tre di quercia per l’artiglieria borgognona, lunghi 42 piedi e
larghi 13 ciascuno, e poi il fabbro Jean Quentin, anch’egli di Malines, fornì il corredo delle
necessarie ferramenta (J. Finot. Cit.). Tale coperto poteva esser anche di bronzo, gittato dal
fonditore apposta per quella singola canna; tutto dipendeva da quanto il principe potesse o
volesse spendere.
Era anche conveniente introdurre nell’anima un secondo foraggio, questo dopo la palla, per
preservare dall’umidità anche l’interno.
Un altro modo di caricare la polvere, anche questo, come abbiamo visto, già usato nel tardo
Medioevo, era quello dei sacchetti, over scartocci o anche cartocci o scartozzi (fr.
cartouches), fatti una volta di tela o fustagno, ma ora di pecorina (‘cartapecora’) o anche di
carta reale, ossia di carta grossa. Si trattava di veri e propri sacchetti cilindrici preconfezionati
che si riempivano prima dell’appropriata carica di polvere e che, quando sufficientemente
robusti come raccomandava il Busca, potevano contenere anche il relativo proiettile in cima;
questi s’introducevano nell’anima fino a depositarli nella culatta e ciò si faceva a ogni tipo
d’artiglieria per caricar con maggior prestezza, eccetto che con le canne minute, perché
queste si potevano caricare presto con una sola cucchiarata; ma soprattutto si caricavano a
scartoccio le artiglierie delle galere e degli altri vascelli armati per un miglior controllo della
pericolosa polvere e inoltre i petrieri e sempre le canne incamerate, perché, caricandosi
invece nel solito modo, succedeva spesso che andasse a urtare la cucchiara contro l’orlo
della camera e lasciasse così la polvere fuori di quella, credendo invece il poco pratico
bombardiero d’esser arrivato debitamente sino al focone. Lo scartoccio doveva esser lungo
all’incirca quanto la cucchiara, cioè quattro palle nelle bocche da fuoco del primo gemere, tre
palle scarse nel secondo genere e invece due diametri scarsi della bocca della camera nel
terzo genere, cioè nei cannoni petrieri, ameno che non fossero seguenti, perché in tal caso il
cartoccio si faceva lungo tre quarti di bocca della canna. Ovviamente il metodo migliore per
calcolare la giusta quantità di polvere per i cartocci era quello di pesarla preventivamente con
una bilancia o libra, come allora si diceva; infatti chi costruiva i cartocci ne aveva il tempo, a
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differenza del bombardiero che, combattendo e in fretta, caricava la bocca da fuoco con la
cucchiara. Il diametro dello scartoccio doveva essere ovviamente dello stesso calibro della
palla nelle canne seguenti e di quello della camera, meno il vento, in quelle incamerate.
Per costruire i sacchetti si potevano usare praticamente dei moduli, ossia modelli, fatti di
legno appositamente tornito per ogni canna, cioè del diametro della palla nelle canne
seguenti e della camera meno il vento in quelle incamerate; si teneva poi conto, nel caso
delle canne incampanate, della forma della campana che doveva riceverli e quindi si faceva
per questi il cartoccio più sottile dalla parte della lumiera (dal fr. lumiére, ‘canale’). S’incollava
sul modello la tela marginale dello scartoccio, poi s’incollava uno dei fondi, mentre si era
preventivamente provveduto a ben ungere di sego il modello stesso per impedire che la colla
s’attaccasse anche a esso; poi si sfilava lo scartoccio dal modello e lo si lasciava asciugare al
sole; infine si riempiva di polvere, gli s’incollava il secondo fondo, lo si metteva di nuovo a
seccare e lo si conservava in luogo ben asciutto, come del resto dove vasi fare con tutte le
polveri da sparo. Il sistema migliore per costruire i sacchetti sia di tessuto che di carta reale
era però quello di cucirli con spago sottile invece d’incollarli, senza perciò la necessità di
modelli di legno; quelli di carta reale andavano poi ovviamente preservati dall’umidità più
attentamente. Mentre le cucchiare si tagliavano, come abbiamo detto, in proporzione al
diametro della palla, gli scartocci si tagliavano in proporzione al diametro della bocca, perché
in tal modo la parte che si perdeva nell’incollaggio o nella cucitura corrispondeva al
necessario vento. Qualcuno aveva poi già allora pensato alla cartuccia più moderna, cioè
quella contenente polvere e palla, però qui da cannone:

… E nota che alcuni bombardieri ancora vogliono metter dentro del scartozzo la palla, il che a
me non piace in maniera alcuna, perché chi leva un buon boccone over foraggio di fieno o di
qualch’altra cosa tra la polvere e la palla non sa quell’effetto che perde qualunque tiro di
artiglieria (LT. Collado. Cit. P. 144).

Aveva ragione il Collado e in effetti dopo un secolo vedremo cartocci riempiti sì di polvere e di
mitraglia sovrastante, cioè palle di moschetto, chiodi, teste di chiodo e tante altre cose del
genere, ma tra polvere e proiettili si porrà un piccolo solaio piatto per raccogliere così tutto il
colpo esplosivo della prima. Anche deponeva per una futura creazione delle cartucce l’uso di
guarda scartozzi, cioè dei contenitori di latta che servivano a mantenere sani questi ultimi
finché non si usassero. Si praticava alla tela del sacchetto un taglio di coltello a croce in
corrispondenza del focone della canna d’artiglieria, in modo che il fuoco di polverino vi
potesse penetrare subito; poi, se la canna era seguente, si spingeva il sacchetto fino al fondo
della culatta con lo stivatore oppure glielo si deponeva dentro con la stessa cazza e poi lo si
calcava; se invece la canna era incamerata, o s’introduceva lo scartozzo nella camera

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portandovelo dentro con la cucchiare e poi calcandolo come appena detto oppure tenendolo
dentro un attrezzo detto scaffetta, il quale era però metodo molto meno facile e rapido,
evidentemente di più antico uso nell’artiglieria italiana, visto che ne parlano autori anteriori
alle guerre di Fiandra, quali appunto il Cataneo e il Tartaglia. Questa scaffetta era di legno
cavo tornito, a forma di coppo, ossia di cucchiare, dello spessore pari a quello della gengiva
della camera, per cui il diametro esterno era quello della palla e quello interno pari a quello
della camera; vi si metteva dentro lo scartozzo e poi la si spingeva con lo stivadore fino a
farla combaciare con la gengiva e, sempre con il calcatore, si spingeva lo scartozzo dentro la
camera sino al focone; ciò fatto, si ritirava la scaffetta tirandola fuori con una cordicella che vi
era stata in precedenza attaccata e lasciata all’uopo con un capo pendente fuori dalla bocca
della canna. Posto lo scartoccio nella bocca da fuoco, gli si aggiungeva un boccone di fieno
un po’ calcato e poi la palla. Usandosi gli scartocci, bisognava però star attenti a innescare
bene, cioè bisognava essere sicuri che il polverino andasse in fondo a mescolarsi con la
polvere fuoriuscente dai tagli sopraddetti all’uopo praticati allo scartozzo e, per esser sicuri
che ciò fosse avvenuto, con l’agugia da bombardiero, cioè con quello stilo d’acciaio che ogni
artigliero doveva tenere nel suo astuccio degli strumenti personali, si forava nuovamente il
sacchetto attraverso il focone e poi si versava giù in questo la lescatura, cioè il polverino da
innesco.
In origine lo scartoccio era stato solo di carta e da ciò il suo nome (… Fogli per fare
schartozzi. In Ricordo delle cose pertinenti all’artiglieria, lettera di Antonio Giacomini del 22
maggio 1504 al commissario di Cascina. Archivio Storico Italiano. Tomo XV, p. 280).
La carta, ai tempi del de Biringuccis, s’avvolgeva sul modulo di legno da una a tre volte e non
doveva essere la predetta carta reale, perché, una volta depositato lo scartoccio in fondo
all’anima con la cazza, lo si faceva crepare premendolo col calcatoio e in tal modo si liberava
la polvere perché potesse entrare in contatto con il polverino da innesco che veniva giù dal
focone. Volendo liberare una canna d’artiglieria da uno scartoccio inutilizzato, si estraeva
questo con la cucchiare stessa.
Altro modo di caricare, praticamente quello delle bombardelle medievali, era la retrocarica e
le bocche da fuoco che così si caricavano si dicevano da braga. Molto usate nel
Rinascimento, soprattutto nelle strette galere dove l’esiguità dello spazio disponibile impediva
ai bombardieri l’avancarica delle lunghe canne, quelle da braga, si usavano ancora
frequentemente alla fine del Cinquecento e non spariranno prima della metà del Seicento:

Rari sono i pezzi di braga da che a’ tempi nostri se ne tiene notizia e, se alcuni vi sono, si
ritrovano su le navi e galere, overo in alcune fortezze antiche… ed al tempo passato, prima
che si avesse notizia dell’artiglieria di bronzo, si faceva di essi non poca stima nel mondo e
gli formavano di ferro lavorato con gran diligenza a martello ed alcuni di loro di ‘sì smisurata
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grossezza che tiravano 200 ed alcuni 300 lire di palla di pietra; e segnalatamente (ne) ho
visto uno nella città di Barcellona di ‘sì terribil grossezza che do la fede mia che nel tempo
dell’estate, quando fa si gran caldo, ci entravano alcuni poveri huomini a dormire dentro di
esso ed aveva per letto un sol tronco di albero, che tre huomini non l’haveriano abbracciato
intorno, ed uno de i suoi mascoli non lo potevano alzar da terra 20 huomini, ma avevano
questi mascoli due anelloni di ferro per banda che con l’instromento dimandato ‘la capria’ si
levano con facilità grandissima (Ib.)

Ma non solo le bocche da braga erano state nel passato, cioè sino alla metà del
Cinquecento, spesso molto grosse, ma anche le petriere incamerate, di cui poi meglio
diremo, e infatti nei Precetti del Ruscelli se ne prendono in considerazione da 250, 200, 100 e
30 libbre di palla di pietra.Erano ricordati anche altri mostri dell’artiglieria da altri autori o da
testimoni oculari medievali come Santo Brasca, il quale, fermatosi a Rodi nel 1480 dopo
l’assedio che quell’isola aveva appena subito in quello stesso anno, così scriveva:

… Ed andai a vedere el fracasso che hano dati queli maladeti turchi e cani a quela povera
cità, facendo capo a la torre de San Nicolò verso el mare, ove primo questi porci temptorno la
espugnazione sua e fracassorno in molti luochi dicta torre e le case e chiesie lì circumstante,
con quele sue bombarde grossissime fuora de modo, como appare per le pietre butate in
dicta cità in grandissimo numero, che sono undeci palmi de li mei intorno e non mancho
niente (‘e dico il vero’). Puoi, vedendo il suo pensiero non reuscire da questo canto, si levorno
ed adorno a piantare el campo da l’altra banda verso terra ferma, videlicet a la torre de li
Lombardi de rimpecto la Giudecha… E poi misseno in ordine quele sue bombardace che
abutariano (‘getterebbero’ a terra) le montagne e tanti colpi treteno in questo muro che ne
fracassorno un gran pezo… (Anna Laura Momigliano Lepschy, Viaggio in Terrasanta di
Santo Brasca (1480) con l’Itinerario di Gabriele Capodilista (1458), Milano, 1966.)

Poi il soccorso mandato dagli aragonesi di Napoli convinse i turchi a levare l’assedio e ad
andarsene battuti:

… quantunque habiano guasti queli muri e case e chiesie con le bombarde tanto che l’è una
compassione da vedere. S’extima che ad dicta terra (‘città’) habiano tracto circa 5000 colpi
tra de bombarde grosse, mezane e picole, tanto che per la terra, quando io gli era, non si
vedeva altro che pietre da bombarde; e lo nostro patrono per maraveglia se portò una de
quele grosse a Venezia, che giravano xj (‘11’) palmi. (Ib.)

Come si è già raccontato, già nel 1453, all’assedio di Costantinopoli, i turchi di Maometto II
avevano presentato un grossissimo mortaro che lanciava pietre dal peso di circa tre talenti,
cioè di circa 80 chili, e che doveva, a quanto fu poi tramandato, esser trainata da non meno
di 70 buoi e duemila uomini (d’Aquino). Il de la Chesnaye menziona alcune bocche da fuoco
medievali o rinascimentali dalle straordinarie dimensioni, delle quali ancora si conservava
notizia ai suoi tempi; una del regno di Carlo VII, talmente pesante che ci volevano 50 cavalli a
trainarne l’affusto; una da ben 500 libbre di calibro, evidentemente un mortaro, fuso a Tours

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al tempo di Luigi XI, portato poi alla Bastiglia di Parigi e infine a Charenton; una serpentina da
80 libbre fusa a Malaga, il cui rombo era talmente forte da far abortire le donne gravide, e poi
altri mostri, tra cui la Pimentelle di Milano, la Diablesse di Bolduc etc.
Il concetto distintivo di queste canne di ferro dette con nome ancora medievale bombarde,
ma che con queste non avevano nulla a che fare sia perché molto più piccole sia e
soprattutto perché ora, nel Cinquecento, caratteristica principale di queste ma anche di altre
bocche da fuoco minori (bombardette di ferro da palla di pietra, smerigli, petriere da braga e
anche alcuni falconetti di bronzo), era la camera asportabile, detta metaforicamente mascolo
oppure servitore, che si caricava di polvere a parte e poi s’inseriva da dietro in quella
particolare culatta aperta in alto e detta, altrettanto metaforicamente, braga. Il bombardiero
sceglieva o teneva preparato un mascolo dalle misure di bocca corrispondenti a quelle della
bocca posteriore della canna da fuoco e lo caricava stando seduto a terra e tenendolo stretto
tra le ginocchia; cioè prima v’introduceva la polvere senza calcarla, poi, calcandolo ben
dentro con una mazza di legno, un coccone di legno dolce, cioè un cilindro di salice o di
pioppo tornito del diametro stesso dell’anima del mascolo stesso; tagliava la parte del
coccone eccedente la bocca del mascolo, poi lasciava il mascolo e inseriva con le mani nella
canna dalla parte della braga, cioè del retro aperto, prima un boccone (vn. bottone) di fieno o
di sfilacci che impedisse alla palla di procedere troppo avanti, poi la palla medesima, poi
alcuni inserivano un altro boccone, altri invece direttamente il servitore carico (facendo
basciar loro bocca con bocca. G. Marzari. Cit.) e stingendoli ben insieme; dietro il mascolo,
cioè tra mascolo e braga, conficcava poi uno o più conii, ossia dei cunei di ferro o di bronzo,
ben calcandoli a colpi di maglio o mazza che dir si voglia, per evitare che, allo sparo, la
bombarda sfiatasse o che il mascolo saltasse fuori e magari anche ammazzasse o storpiasse
qualche bombardiero o inserviente; infine innescava la lumiera del mascolo con polverino. I
veneziani usavano tenere, attaccato con una catena alla canna, un grosso cuneo di ferro
fatto proprio per quella bocca da fuoco, in modo che non si smarrisse e fosse subito
reperibile. Sistema più antico era quello d’usare un cuneo di legno molto forte invece d’uno di
ferro, ma poiché il legno usato da solo, essendo in ogni modo cedevole, avrebbe permesso al
mascolo troppo ribattimento, ossia rinculo, si metteva tra cuneo di legno e mascolo una
piastra di piombo o al limite, non disponendosi di piombo, anche una scarpa vecchia e ciò per
attutire meglio il rinculo. Poiché il caricamento dei servitori era abbastanza laborioso, ne
occorreva tenerne sempre pronti almeno due o tre per ogni bocca da fuoco, in modo che,
mentre se ne usava uno, se ne caricava un altro e non si doveva così dare troppa tregua al
nemico. Quando, attraverso il fogone del mascolo, si dava fuoco a queste canne, bisognava
far attenzione a non mettercisi dietro perché spesse volte si era visto un cuneo saltar fuori e
uccidere o storpiare l’artigliero.
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Queste antiche bocche da fuoco a retrocarica, caratteristiche dell’artiglieria quattrocentesca,
chiamate dai tedeschi Kamerbüchßen, dagli spagnoli pieças de camara e dai portoghesi
pieças de braga, non erano incavalcate in letti e ruote normali, ma s’incassavano in fortissimi
e grossi zocchi di legno, spesso ancorati al terreno con il peso di grosse travi; nonostante si
trattasse di canne considerate ormai superate, si continuò a gittarne ancora, anche se, già
dal Cinquecento, solo di piccolo e medio calibro, non superando ormai le 14 libbre di palla e
caricandosi ora più che con palla di pietra, con mitraglia fatta di pezzetti di ferro, catenette o
scaglie di pietra, la quale, scaricata negli abbordaggi dei vascelli, riusciva di grande mortalità
e danno ai nemici; infatti s’useranno ancora nel Seicento e nel Settecento nella difesa dei
piccoli vascelli mercantili, ma fatte di ferro, perché fossero a miglior mercato, e con polvere
ora più fina. Dovevano questi ultime essere canne di breve vita, visto che il ferro, esposto alla
salsedine, rapidamente s’arrugginiva e che, ‘tormentato’ da cariche di polvere più potente,
rischiava più facilmente e più pericolosamente del bronzo di surriscaldarsi e creparsi. Che si
trattasse d’artiglieria ormai solo di piccolo calibro è confermato già al tempo del Cataneo, cioè
nella prima metà del Cinquecento, perché questo autore, trattando di queste bocche da
fuoco, ne considera un solo tipo, ossia i moschetti da braga, piccole canne di bronzo a palla
di ferro o di piombo; per quanto riguarda invece le petriere o bombardelle da braga, esse, dal
calibro di pietra generalmente 12 o 14, erano per la maggior parte lunghi 10 bocche e, braga
a parte, avevano generalmente il ferro o il metallo (‘bronzo’) di cui erano fatti spesso mezza
bocca ai piedi della canna e un quarto di bocca al collo.
Anche il Sardi - parecchio più tardo del Collado – ricorda d’aver visto alcuni di quegli antichi
mostri da braga:

Si ritrovono alcuni pezzi che si dicono ‘a braga’, quali si caricano con i servitori o vero
mascoli; questi si usavano anticamente di ferro battuto ed in questi nostri tempi si usono di
ferro e di bronzo pure, ma molto differenti da quegli antichi nella grandezza e portata di palla,
perché anticamente si usavono che tiravono cento e più libre di balla di pietra, tutte di ferro
battuto, come ne ho vedute due nella città di Gantes in Fiandra, in una picciola piazzetta
vicina alla gran piazza, distese in terra, scavalcate, con i suoi mascoli, tanto smisurata una di
quelle che ogni grosso huomo saria potuto passar per dentro sua canna, benche l’altra non
fosse tanto smisurata, ma nondimeno ambedue ottimamente lavorate e formate. (P. Sardi.
L’artiglieria etc. Cit. P. 127.)

Anche se il Collado descrive queste bocche da fuoco da braga come armi del passato, quasi
in disuso, esse saranno invece ancora molto apprezzate e usate più tardi, cioè ai tempi
dell’Ufano, il quale le diceva utilissime a bordo dei vascelli per la velocità di caricamento; sì
perché, anche se, come abbiamo detto, il riempimento delle camere o mascoli non era
semplicissimo e il conficcarle nella canna non privo d’impegno, s’usava tenerne a bordo 30 o
40 già pronte da inserire e quindi la ripetizione dello sparo era veloce. Detti mascoli servivano
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anche da comodi mortaletti per festeggiare a salve l’accoglienza di sovrani e monarchi
oppure vittorie e ricorrenze reali o religiose:

... solo è necessario raccomandare, quando si caricano le camere sole per salve o feste, di
non caricarle di polvere fina, perché sono accadute molte disgrazie per quello; però, quando
le dette camere devono servire nelle loro canne, non importa che la polvere sia fina, perché
le si tengono inserite in quell’incastro con cunei (conficcati) a colpi di martello... (D. Ufano.
Cit.)

Tornarono poi in auge al tempo del Sardi, soprattutto di piccolo calibro per la marineria e la
difesa di fortificazioni, anche se però ora si preferivano gitatte in bronzo, pur restando invece
le loro camere generalmente di ferro per una maggior maneggevolezza:

In Ollanda… In Amsterdam ed altre sue città marittime ed in Zelanda se ne fanno di ferro


battuto in numero grande, di varie portare di palle di pietra, come io ne ho vedute battere, ed
in Marseglia ne ho veduto gettare (‘fondere’) un gran numero di bronzo e servono per i
vasselli, come si vede tutto il giorno sopra quelle barche provenzali, e di ferro sopra quelle
navi e vasselli dei Paesi Bassi. E la serenissima e potentissima Republica di Venezia sopra
le sue galere ed altri vasselli, oltre gli altri smisurati pezzi da cinquanta e sessanta libre di
palla di ferro, dispensa per armargli buon numero di questi tali pezzi, ma molto più gagliardi e
rinforzati, ricchi di mettallo e di canna più lunga che i provenzali. (P. Sardi. Il Capo de’
bombardieri etc. Cit. P. 81.)

Nemmeno queste bocche da fuoco da braga di marina s’incavalcavano su casse e ruote, ma


sopra grosse e robuste forcelle di ferro conficcate sul bordo dell’imbarcazione; erano munite
d’un manico o maniccia di ferro, la quale fuoriusciva orizzontalmente dalla parte posteriore a
mo’ di coda e con la quale si girava e orientava la canna facilmente e velocemente. Un
vantaggio che offrivano le bocche da fuoco a caricamento posteriore era che esse, poiché
prendevano aria da ambedue le estremità, non andavano soggette a riscaldarsi tanto quanto
quelle a caricamento anteriore e quindi potevano sopportare un numero molto maggiore di tiri
consecutivi.
L’uso del coccone di legno era raccomandato soprattutto dal Tartaglia e dal Chincherni per
tutte le canne incamerate del terzo genere, cioè anche per i cannoni petrieri e i mortari o
trabucchi, dove però esso, non potendosi conficcare battendolo con la mazza, si faceva
leggermente più stretto da una parte, mentre dall’altra s’infilava sull’apice acuminato d’un
ferro inastato con il quale si portava fino a inserirlo nella bocca della camera; poi, dopo aver
scosso via il ferro, lo s’incastrava fortemente nella camera stessa battendolo con il calcatore.
Ma qual era la funzione del primo foraggio, quella del coccone e quella del secondo foraggio?
Il primo boccone serviva, come già sappiamo, a scopar su tutta la polvere sparsa nella

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canna, a unirla meglio e per evitare che la forza della polvere sfiatasse attorno al proiettile; il
coccone serviva ad aumentare l’effetto occlusivo del primo boccone:

Gli è ben vero che, caricando esso canon periero senza coccone, la palla non avrebbe quella
velocità e non anderebbe così lontana come farebbe essendovi il coccone (Girolamo o
Hieronimo Cataneo, De gli avvertimenti et essamini intorno a quelle cose che richiedono a un
perfetto bombardiero etc. P. 13v. Venezia, 1580.)

Il secondo boccone serviva invece per evitare che il coccone, urtando duramente la palla di
pietra, la frantumasse facendola così uscire dalla bocca a pezzi. Lo stesso modo di caricare e
per le stesse ragioni s’usava nel caso che invece di palla di pietra s’usassero scuffie,
tonelletti o lanterne, ma, se s’usavano palle di fuoco artificiato, allora non si mettevano né
foraggi né il coccone, perché non bisognava ostacolare il fuoco, il quale doveva andare ad
accendere la mistura del fuoco artificiato e in quest’ultimo caso l’effetto occlusivo sulla
polvere doveva essere ottenuto con la stessa palla di fuoco artificiale, posta quindi ben
serrata nella canna e contro la polvere stessa; oppure, volendosi sparare col coccone
proiettili innescati, cioè che dovevano accendersi prima d’uscire dalla bocca della canna,
quali appunto palle di fuoco, granate o bombe, bisognava allora bucare il coccone stesso e
innescarvi il buco con della polvere fina prima di porvi la palla.
Riteniamo che, così come nel Cinquecento s’era rinunziato agli enormi petrieri da braga del
Rinascimento, perché troppo scomodi e poco efficaci, e a quelli piccoli marittimi dello stesso
periodo, anch’essi di ferro battuto, perché pericolosi nelle ristrettezze di bordo in quanto
spesso sfogavano dalla mal chiusa culatta, così poi nel Seicento, a causa della
complicazione e la lentezza di caricamento che comportava l’uso dei cocconi, pur
raccomandato nell’artiglieria del Cinquecento, si siano decisi i più ad abbandonare anche il
nuovo uso delle bocche da fuoco da braga di bronzo, certo più sicure ed efficaci e di molto
minor calibro, che s’usarono poi in quel nuovo secolo; così, mentre all’inizio di esso, il
Lechuga voleva addirittuta l’uso di un secondo coccone da inserirsi nella canna subito dopo
la palla, perché questa, trovando così un po’ di resistenza, uscisse con più violenza (pratica
però delicata e pericolosa all’integrità della canna stessa), a partire dalla metà di esso, cioè
dopo il Sardi, di cocconi e di canne da braga più non si sentirà parlare, eccezion fatta per gli
organi, ossia per certe poco diffuse - e ormai anche obsolete - artiglierie multi-canne leggere
da campagna utili contro la cavalleria.
Per completare comunque l’argomento della retrocarica bisogna dire che nel terzo quarto del
Cinquecento fu sperimentata al Lio (‘Lido di Venezia’) una nuova artiglieria a retrocarica
battezzata allora artigliaria moderna, concepita nel tentativo di semplificare l’uso navale delle
grandi bocche da fuoco; si trattava di non altro che di una variazione moderna del veuglaire

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medioevale e cioè di canne caricabili dalla parte posteriore, con la differenza però che,
mentre i veuglaires si caricavano con camere caricate di polvere e incugnate nell’apertura
posteriore della canna, apertura di diametro però inferiore a quello dell’anima, queste nuove
bocche da fuoco inglesi si caricavano con scartozzi (‘cartucce’), comprensivi di polvere e
palla e inseriti direttamente nella canna da detta apertura posteriore, la quale poi si otturava
incugnandovi non una camera bensì un semplice otturatore cilindrico. Il Gentilini, il quale
partecipò attivamente a dette prove, ce ne ha lasciato un dettagliato ragguaglio; il suo
giudizio fu sostanzialmente negativo, soprattutto perché non si riusciva a evitare lo
sfiatamento posteriore, effetto molto pericoloso specie nelle strette e serrate galere, dove il
fuoco si poteva appiccare molto facilmente e dove gli infortuni agli uomini che vi si affollavano
erano sempre in agguato; inoltre, poiché lo scopo dell’inserimento posteriore dello scartozzo
era il non rendere più necessario il dover andare a calcare polvere e palla dalla bocca e
poiché detto scartozzo molte volte non restava così sufficientemente aderente al fondo della
culatta, la lumiera a tali canne si faceva non proprio all’inizio della culatta medesima bensì un
po’ più avanti verso la bocca, con il secondo risultato negativo di una violento rinculo. Lo
stesso Gentilini, al quale per un lungo periodo fu affidata dal granduca di Toscana la sua
artiglieria navale, negli anni in cui ebbe pertanto a risiedere a Livorno ebbe occasione di
frequentare le navi inglesi e notò a bordo delle stesse artiglierie del suddetto tipo moderno,
ma a palla di pietra; egli non apprezzò molto nemmeno quelle perché, a causa dell’apertura
posteriore, vi vedeva ora, oltre al difetto dell’esalazione, anche quello di un maggior consumo
di polvere, perché l’abbondanza di aria presente nella culatta ne provocava una più rapida
combustione. Certo è che su questa moderna artiglieria, della quale scriverà poi anche il
Capo Bianco, stampandone nel suo trattato anche un disegno e attribuendone l’invenzione
all’architetto militare Giulio Savorgnano, in seguito nessuno più si dilungherà, il che fa capire
che il progetto deluse e fu presto abbandonato e nell’Europa mediterranea si continuò a
preferire e a usare le bombardelle o petriere da braga, cioè quelle corte canne che si
caricavano sì posteriormente ma non con camere bensì con mascoli.
A proposito dell’artiglieria navale inglese, il Gentilini ne criticava anche l’uso del tutto
improtetto di quelle di ferro, per cui essemolto s’arrugginivano al loro interno, con il doppio
svantaggio di restare talvolta i bombardieri colpiti dalla ruggine sparata fuori con la palla e del
restar questa spesso incastrata nell’anima proprio a causa dell’accumularsi della ruggine;
ammirava invece l’invenzione albionica dell’accensione ad accialino e selce focaia (sp.
pedernal), insomma del ‘fucile’, tipo d’arma che, anche se diventerà militarmente comune in
Europa non prima di un secolo dopo, già appunto esisteva da tempo e vi accennerà, dopo il
Gentilini, anche Bomaventura Pistofilo nel 1621 (Oplomachia, p. 182. Siena, 1621.)

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A causa del continuo tirare, i cannoni di batteria si riscaldavano eccessivamente e bisognava
quindi assolutamente rinfrescarli ogni 8 tiri e comunque non più di ogni 10; infatti, più
aumentava la sua temperatura e più il bronzo diventava crudo, fragile, vetroso, tanto da
crepare allo sparo facilmente; ciò accadeva perché il calore, pur non indebolendo il rame,
scioglieva invece lo stagno sino a farlo addirittura gocciolar via. Al contrario le poche canne di
ferro che s’usavano, a causa delle peculiari qualità di questo metallo, più alta diventava la
loro temperatura e più forti e resistenti esse diventavano, perché il ferro con il calore
diventava più dolce e non più fragile, come invece il bronzo. Il bombardiero pratico capiva
quando era arrivato il momento di rinfrescare la sua canna semplicemente toccandola, per
saggiarne il calore, oppure constatando il cambiamento del suo colore dalla metà alla bocca,
cioè laddove il metallo, essendo più sottile, più s’infocava e diventava quindi la canna d’un
color quasi turchino; poteva infine accorgersene dalla costatazione che i tiri erano diventati
più deboli. Ovviamente, più una bocca da fuoco era ricca di bronzo e più resisteva al calore
degli spari; in generale le canne più piccole, più ricche di metallo in rapporto alle loro
dimensioni, erano più resistenti di quelle medie e grosse. L’operazione di rinfrescamento
d’una bocca da fuoco durava quasi quanto il caricarlo e spararlo; infatti nel 1473 il capitano
generale dell’armata di mare veneta Piero Mocenigo, futuro Doge, il quale sarà il primo in
quel ruolo ad avere un incarico lunghissimo (4 anni e 20 giorni), incarico che sarebbe stato
ancora più lungo se egli nel frattempo non si fosse seriamente ammalato, volendo trarre
vantaggio della circostanza che la maggior parte dell’esercito turco era a lontana fronteggiare
la grande avanzata dei nemici persiani, aveva pensato di addentrarsi nei Dardanelli per
andare ad assalire Costantinopoli e, per cercare di passare indenne nonostante le artiglierie
del castello che guardava lo stretto dalla parte della Grecia, stava programmando di mandare
un grosso brulotto ad ancorarsi il più vicino possibile alle mura costiere quella fortezza e di
fargli dar fuoco, nel tentativo di riscaldare tanto le canne delle bombarde turche che su quelle
mura guardavano il mare da farle sparare e poi, immediatamente dopo, approfittando del
lungo tempo che sarebbe occorso ai bombardieri ottomani per prima raffreddare e poi
ricaricare quelle armi, far passare velocemente l’armata; ma, mentre così divisava, giunse
notizia della morte del valoroso re persiano Ussan Kassan e dovette rinunziare a questo suo
audace proposito (Domenico Malipiero, cit. Parte prima, pp. 86-87).
Per raffreddare le canne bisognava dunque avere innanzitutto molt’acqua fresca a
disposizione e infatti durante la stagione calda i bombardieri erano spesso richiesti d’acqua
da bere, soprattutto da ufficiali e personaggi particolari. Nelle tine piene d’acqua s’inzuppava
una lanata o spazzatore e con questa si lavava e rinfrescava più volte l’anima della canna,
poi con altre lanate asciutte s’asciugava accuratamente. Si copriva e si fasciava frattanto la
canna all’esterno, perlomeno dagli orecchini alla bocca, con pelli lanute di castrato inzuppate
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d’acqua o, in mancanza di queste, con coperte di lana o anche, in caso d’artiglieria navale,
con schiavine, ossia con le doppie mante di lana grossa dei forzati, oppure con gli strapuntini
da venturieri, cioè con quegli stretti e sottili materassini sui quali dormivano a bordo dei
vascelli appunto i venturieri, sempre però dopo averli inzuppati d’acqua. Un effetto molto più
rapido di raffreddamento si poteva ottenere usando, invece di sola acqua, due parti d’acqua e
una d’aceto, oppure sciogliendo nell’acqua della lisciva, avendo oltretutto quest’ultima anche
la proprietà d’otturare i pori del metallo, ritardandone così il nuovo riscaldamento.

… E di più, che non solamente l’artiglieria… si scalda per causa del tirare, ma eziandio del
gran caldo della stagione, in tal maniera che molte volte ho veduto diventar per il caldo solo
del sole tanto ardente un pezzo che non si poteva toccar con la mano (LT. Collado. Cit. P.
174.).

Ciò che qui dice il Collado può sembrare ovvio, ma noi riteniamo utile e interessante riportare
tutte quelle osservazioni degli scrittori del tempo che ce ne rendono più viva e presente la vita
e l’esperienza. Una bocca da fuoco usata continuamente senza rinfrescarla di tanto in tanto
non solo avrebbe prodotto dei tiri deboli, ma il suo metallo sarebbe arrivato a diventare rosso
per l’incandescenza, stato pericolosissimo questo perché avrebbe provocato l’automatica
accensione della polvere durante il caricamento e inoltre lo stagno del bronzo, come abbiamo
già detto, si sarebbe liquefatto colando via goccia a goccia, lasciando quindi la canna tanto
frangibile da non potersi più adoperare. Infatti uno dei sistemi per distruggere una bocca da
fuoco, magari per non doverlo lasciare al nemico, era quello di porre su un forno acceso una
parte di esso fino a farne colar via lo stagno e poi picchiare con delle mazze di ferro la parte
arroventata fino a infrangerla.
Per quanto riguarda le canne che avessero eventualmente l’interno dell’anima difettoso, cioè
che presentasse spugnosità, cavernosità o addirittura crepe, se proprio bisognava usarli per
mancanza d’altri buoni, allora bisognava stare molto attenti a rinfrescarli a ogni tiro, perché
spesso in queste cavernosità restavano attaccati pezzi di sfilacci del boccone accesi e,
quando il bombardiero andava poi a ricaricare la bocca da fuoco, accendevano all’improvviso
la nuova polvere introdottavi provocando così spesso dei gravi incidenti.
Se si voleva scaricare una canna carica perché non bisognava più usarla, si traeva con il
cavafieno o tirafieno (sp. sacatrapos; ts. caragolo) il boccone di fieno - o foraggio che dir si
volesse, eventualmente posto davanti alla palla, poi s’abboccava la canna, cioè le si
inchinava la bocca all’ingiù per far rotolare fuori la palla, si proseguiva togliendo con il
suddetto cavafieno il boccone di fieno posto dietro il proiettile e, se la polvere, com’era molto
probabile, si fosse troppo ammassata e indurita, la si rompeva con un’apice di picca e poi la
si toglieva con la cucchiara; in seguito con le lanate si lavava accuratamente l’interno

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dell’anima con aceto puro oppure con aceto e acqua o anche con acqua semplice e, sempre
con le lanate, s’asciugava accuratamente. Infine, se si voleva essere scrupolosi, s’attaccava
una candeletta accesa al capo di un’asta di picca e la s’infilava nell’anima per vedere se
l’interno della canna presentasse delle magagne, come concavità o crepe. Se si voleva
liberare con sveltezza l’anima da un’eventuale resistente umidità che avrebbe potuto
compromettere la riuscita del prossimo tiro, si poteva metterle dentro una mezza cucchiara di
polvere e darle fuoco, così da asciugarla definitivamente, e questo si diceva sventare la
bocca da fuoco; infatti i bombardieri dicevano che una canna tirava innegabilmente alquanto
più lontano al secondo o al terzo tiro che al primo per essere ormai più sventato, cioè più
asciutto. Si badi però che per bocca da fuoco sventata s’intendeva anche –anzi più spesso –
un difetto e cioè un focone ormai molto allargato dalla forza dei ripetuti scoppi e quindi
divenuto via di decompressione della potenza di sparo; in tal caso si doveva riparava e poi
vedremo come. Finitosi di adoperare lanata, stivadore e cucchiara, questi attrezzi si
riponevano al loro posto, cioè appoggiati tra la ruota sinistra e la cassa della canna.
Passiamo ora a esaminare i principali casi incidentali che potevano occorrere a un
bombardiero. Poteva capitare, per esempio, che una palla cornuta o comunque imperfetta
restasse incastrata nella canna; come poteva allora fare il bombardiero per cavarla fuori? E
cavarla era strettamente necessario perché spararla in quelle condizioni avrebbe potuto
facilmente provocare il creparsi della canna. Prima tentava di smuoverla con la cazza, poi di
sbloccarla picchiando con una grossa mazza di ferro nella bocca della canna, infine
abboccava la bocca da fuoco medesima in avanti e vi faceva scorrere dentro dell’acqua
introdotta dal focone, facendola così uscire dalla bocca, fino a portar via tutta la carica di
polvere e fino a che non ne uscisse ormai pulita; il boccone di fieno o di stoppa non ne
avrebbe infatti ostacolato l’uscita. La cosa si poteva ottenere anche con quest’altra simile
procedura, cioè abbassando la culatta e otturando il focone, introducendo l’acqua calda dalla
bocca e, dopo aver atteso un tempo sufficiente a far sciogliere tutta la polvere nell’acqua,
sturando il fogone e facendovi così uscire tutta l’acqua e la polvere insieme, ripetendo infine
tutta l’operazione più volte fino a ottenere dal focone stesso acqua pulita. A questo punto
s’aspettava che l’interno s’asciugasse e poi attraverso lo stesso fogone s’introducevano nella
culatta non più di due o tre libbre di polvere alla quale si dava fuoco; infatti quella poca
quantità di carica avrebbe ora spinto fuori la palla senza aver però la forza sufficiente a far
crepare la canna. Se poi la palla s’era incastrata non perché difettosa, ma perché, essendo
da lungo tempo nella canna, s’era arrugginita a causa della pioggia o dell’umidità entrata
nell’anima, specie quando non si era usata l’accortezza di tenerla all’aperto con la bocca in
basso oppure chiusa da un coccone, allora si poteva usare un differente sistema; si turava
cioè il focone e s’innalzava la bocca, le si versava dentro una secchia d’aceto molto forte e
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così si lasciava per due o tre ore, nel qual tempo l’aceto avrebbe dissolto la ruggine della
palla e quindi dopo, abboccata la canna, il proiettile sarebbe rotolato liberamente fuori; se poi
questo non fosse bastato, si doveva aiutare l’azione dell’aceto battendo la bocca con la
mazza di ferro o smovendo la palla con la cucchiara o cazza che dir si voglia; infine si poteva
ripetere l’operazione con l’aceto. Una volta cavata la palla, l’anima della canna si lavava
accuratamente e s’asciugava per poterlo poi ricaricare. Alcuni invece dell’aceto usavano
l’olio, preferendo quindi allo sciogliere la ruggine la lubrificazione dell’anima. Altro lavoro
incidentale che poteva capitare di dover fare al bombardiero era quello di rettificare il focone;
infatti il fuoco che attraverso quello veniva fuori a ogni sparo ne rodeva via il metallo fino ad
allargarlo tanto da provocare per quella via alle canne molto usate un vero e proprio
sfiatamento della potenza della polvere e un conseguente indebolimento dei tiri; si diceva
allora che la canna era sfogonata o sventata. Un primo sistema di rettificazione consisteva
nell’ugugliare e ripulire la piccola anima del fogone stesso e poi nell’avvitarvi dentro, una in
sostituzione dell’altra, tre viti di ferro sempre più grosse, fino a farvi restare dentro la terza
conficcata a forza per poi trapanarla e farvi così la nuova lumiera. A questo focone nuovo
bisognava poi scavarvi sopra con lo scalpello la cazzoletta, cioè un piccolo vano o
contenitore destinato a raccogliere il polverino da innesco, il quale si spianava e s’assestava
poi a colpi di martello, vano che però non siamo in grado di ben definire perché gli autori del
tempo v’accennano appena. Un altro sistema era quello di riparare la sola parte superiore del
fogone, scavandovi attorno una fossetta, più larga sopra che sotto, e riempiendola di bronzo
colato, mentre il nuovo fogone s’otteneva lasciando infilato nel vecchio uno stilo di ferro,
circondato però di creta affinché non s’attaccasse al nuovo bronzo e si potesse poi sfilare.
Questo secondo sistema si diceva riparare il focone con il grano over dado di bronzo. Un
bombardiero che sapesse eseguire bene una delle predette due operazioni poteva ricavarne
un ottimo guadagno dal suo generale:

... perché non si può rimettere un fuocone nuovo a un pezzo per manco prezio di dodeci scuti
d’oro, per la fatica che ci va a farlo e di spesa de’ danari e tempo (Ib.).

Comunque le canne con fogoni così riparati non duravano molto e si spostavano di solito alla
difesa delle piazze. I francesi usavano costruire canne d’artiglieria già dotate d’un dado
d’acciaio (fr. clavette d’acier) nel fogone e quest’accorgimento era lodato dal già citato
Michele Soriano (1562):

… Un’altra cosa di momento è stata trovata dall’industria de’ francesi nel fatto dell’artiglieria;
che nel luogo dove si da fuoco al pezzo si mette un dado di ferro perché non patisca del
fuoco come fa il bronzo, che si consuma facilmente in pochi tiri e, come il foro è largo, sventa
ed il tiro non ha forza, restando il pezzo inutile; e non si reputa per buono un pezzo se non
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serve per cento o almeno ottanta tiri al giorno. È vero che il dado di ferro non saria al
proposito ne’ pezzi che s’hanno da adoperare in mare, perché si roderia ed arruggineria
presto dal salso, ma in terra è provato utilissimo, perché con pochi pezzi si possono fare
molte faccende, servendo ogni pezzo per molti tiri (E. Albéri. Cit. S. I, v. IV, p. 110).

Nel caso poi che il nemico gli avesse inchiodato la bocca da fuoco, la cosa più spicciativa che
il bombardiero poteva fare era considerare perduto il vecchio focone e trapanarne un altro
nuovo con delle brocche di azzaio temperate benissimo e con quell’arco che accostumano
adoperare li intornidori nel suo mestiero (LT. Collado, cit.). Il nuovo fogone andava fatto due
dita lontano dal vecchio, a destra o a sinistra di questo, o anche avanti, ma non tanto da
rendere così la canna troppo furiosa, ossia eccessivamente rinculante all’atto dello sparo;
oppure si poteva decidere di dar d’allora in poi fuoco alla carica dalla bocca con una traina o
un semplice stoppino; si poteva infine in vari modi anche schiodare il focone, operazione però
molto laboriosa e complessa, anche se apparentemente semplice, essendo il sistema più
usato quello di spezzare la parte di chiodo fuoriuscente nella culatta con uno scalpello
inastato introdotto nell’anima e poi di spingere giù il pezzo di brocca occludente il fogone,
martellandolo con l’aiuto della punta d’un altro chiodo; c’erano poi sistemi chimici e termici
che non staremo però a descrivere, mentre in caso di assoluta difficoltà si poteva in un’ultima
analisi lasciare il focone otturato e trapanarne un secondo nuovo accanto al primo.
Bisognava però, dice il nostro Collado, non arrivare a questo punto di farsi inchiodare
l’artiglieria dal nemico, per esser questa la maggior infamia ed ingiuria che si possa fare
dall’un nemico all’altro in qualunque impresa (), come del resto a quello di lasciare nelle mani
dell’oppositore anche un sola bocca da fuoco, Cosa che, tra tutte le giatture (‘jatture’) della
guerra, questa sola si estima la più ignominiosa e di maggior infamia; l’artiglieria infatti,
costruita allora in maniera artigianale e molto faticosa come del resto tutte le cose, era
costosissima e quindi si camuffava da ignominia qualsiasi viltà o trascuratezza che causasse
la perdita di essa o anche delle sole sue polveri piriche, materie anch’esse molto preziose.
Era necessario quindi che, per impedire che il nemico venisse a inchiodarle, a farle saltare o
a guastarne le polveri, alla guardia delle bocche da fuoco e delle munizioni si dedicasse una
somma vigilanza, dalla quale pertanto anche dipendeva quel non fidarle a tutte le nazioni
ancorche amiche, impedendosi persino ai soldati del proprio campo di passare per il
quartiero dell’artiglieria. Il predisporre tale vigilanza era dunque in guerra una delle cose più
importanti:

... Il che se havesse fatto il Re Francesco di Francia sopra l’assedio di Pavia (1525), non gli
haveriano gl’imperiali inchiodata innanzi a gli occhi suoi l’artiglieria, e, se la medesima
diligenza havesse usata il Dolfino Enrigo suo figliuolo nell’assedio di Perpignano in Spagna,
non si haveria ritrovata inchiodata l’artiglieria da’ soldati spagnuoli del capitano Bezerra. Il

438
medesimo ancora avvenne al Duca di Saxa (‘Sassonia’) in Lamagna, che da dieci soldati
spagnuoli gli fu inchiodata l’artiglieria al tempo che haveva maggior bisogno di essa (LT.
Collado. Cit. P. 65v.).

Un altro accorgimento prudente era porre nelle batterie più vicine alle mura o cinte nemiche
quelle bocche da fuoco che fossero ormai sfococonate, in modo che, in caso di sortite del
nemico, questo non avesse faciltà di inchiodarle perché i chiodi acciò usati erano di una
doppiezza ordinaria, non esorbitante. Come abbiamo già accennato, i tedeschi, i quali
avevano già allora l’artiglieria in altissimo concetto e ne erano infatti ottimi costruttori,
consideravano un privilegio l’esser chiamati a montare la guardia con l’alabarda ai parchi
d’artiglieria e pertanto erano adattissimi a questo scopo; in mancanza di alabardieri tedeschi
si adibivano a questa funzione i picchieri, in ogni caso mai soldati armati di armi da fuoco i cui
micci potevano accidentalmente metter fuoco ai barili di polvere. Riteniamo qui opportuno
chiarire, a proposito della sempre tanto discussa etimologia del nome alabarda, che essa è
ovviamente da ricercarsi nell’originario tedesco Hellenparte (Fronsperger e altri) e non nelle
più tarde corruzioni; pertanto, a dispetto di tutte le fantasiose interpretazioni che nel tempo
sono state presentate anche da qualche ‘immenso’ luminare della filologia, vi si legge
palesemente e semplicemente il significato di ‘ascia dei greci’ (td. Hellene, ‘greco’); infatti,
come leggiamo nel du Fresne du Cange, la guardia palatina degli imperatori romani d’Oriente
fu la prima che la storia ricordi a esser formata appunto di soldati armati d’ascia inastata e
chiamati in lt. barangii; evidentemente nel Medioevo gli onnipresenti mercenari tedeschi
avevano appreso l’uso e il maneggio di quest’arma proprio a Bisanzio.
Bisognava inoltre che la notte il quartiero dell’artiglieria non fosse illuminato da lanterne che
facessero troppa luce per non scoprirsi troppo al nemico. Ma in che cosa consisteva in
sostanza l’inchiodare le canne d’artiglieria al nemico? Era un’impresa che era affidata a un
gruppo di soldati di provato valore; questi s’armavano solo di spada, pugnale, celata e rotella
o scudo rotondo, e portavano però con sé dei martelli ed, in una tasca di pelle, delle brocche,
cioè dei grossi chiodi quadrangolari, lunghi tanto da toccare il fondo dell’anima della pezza o
della canna, che dir si volesse, fatti d’acciaio ben temperato, ma con l’apice di ferro dolce
lunga almeno un palmo. Arrivati di soppiatto all’artiglieria nemica e uccisine le guardie e i
bombardieri nel sonno, martellavano nei foconi delle bocche da fuoco le suddette brocche,
incastrandole strettamente, perché gli angoli taglienti entravano nel metallo del focone e la
punta di ferro andava a piegarsi sul fondo della culatta; pertanto i martelli dovevano essere a
testa grossa, ma molto larga e grossa, perché, a causa della precipitazione del momento, si
poteva rischiare di sbagliare i colpi; poi si dava un colpo finale e trasversale di martello alla
parte di brocca che era rimasta fuori, per spezzarla rasente al metallo ed evitare così che la
brocca stessa potesse poi venir estratta con delle tenaglie. Infine ci si ritirava. Le brocche
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dovevano dunque essere di duro acciaio per due motivi, il primo che non potesse essere
ritrapanato e il secondo che subito se ne potesse spezzare l’eccedenza rimasta fuori del
focone.
C’era però un artificio costruttivo che evitava il rischio dell’inchiodatura e si poteva notare
nell’ottima artiglieria di fonditura tedesca che possedeva l’imperatore Carlo V, come riportava
il residente veneziano in Spagna Bernardo Navagero nella sua relazione del 1546:

… L’artiglieria di Cesare, havendo egli tanti stati quanti (ne) ha e tutti guardati, deve essere
infinita. Quella che ho veduto io nel campo non potrebbe esser migliore né più bella; fu tutta
lavorata in Augusta, era leggiera assai, ritonda tutta e netta. Dalla leggierezza nasceva il
poterla condurre più agevolmente, dalla ritondità il tiro della mira certo. Haveva, tutta quasi,
un manico di metallo col quale, coprendosi il buco dove si da fuoco, si provvede (‘s’ovvia’)
alla chiodatura. Questa artiglieria così buona è accompagnata poi dalla finezza della polvere,
che era tutta da archibugio (cioè da 6-1-1), ed in que’ luoghi e castelli che furono abbattuti
nella Francia ha fatto sempre molto gagliardamente l’officio suo. (E, Albéri. Cit. S. I, v. I, p.
339.)

Oltre che dall’inchiodatura bisognava guardarsi anche dall’incugnatura delle bocche da fuoco
già caricate, sebbene molto più rara in quanto molto meno comoda praticarsi; si trattava cioè
di provocare il creparsi della canna non appena il nemico si fosse provato a spararlo e ciò si
otteneva conficcando fortemente tra la palla e l’anima due o tre cugni di metallo o di legno
duro, lunghi un due palmi e larghi circa tre dita, grossi alla testa quasi quattro dita e per il
resto all’incirca il doppio del vento della palla; se il bombardiero nemico non aveva la
diligenza di controllare l’interno dell’anima prima di sparare, dava fuoco alla bocca da fuoco
e, poiché la polvere non aveva la forza di smuovere la palla incugnata, la canna crepava. Il
Chincherni descrive metodi d’incugnatura e di scugnatura delle palle d’artiglieria che però noi
non riportiamo, trattandosi in effetti d’operazioni poco comuni.

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Capitolo XVI.
Terziare e squadrare.

Quando un bombardiero si vedeva affidato una canna d’artiglieria doveva innanzitutto


classificarlo, sia per riconoscerne il genere sia per misurarne il calibro sia soprattutto per
sapere con quanta polvere si doveva caricare; quest’operazione di riconoscimento si diceva
terziare la bocca da fuoco e consisteva principalmente nel misurarne col compasso dalle
punte curve le dimensioni e gli spessori del metallo al focone, agli orecchioni e al collo, cioè
ai tre punti della canna in cui la canna più pativa la violenza della polvere e della palla che ne
fuoriusciva. Il vocabolo terziare deriva infatti dal latino ter, in quanto non solo tre volte e in tre
posti si misurava la grossezza del metallo e quella degli assoni della cassa, ma anche tre
volte si sparava una bocca da fuoco e a tre punti di squadra d’elevazione per saggiare la
resistenza della sua lega e tre tiri si concedevano al bombardiero sia nell’esercitazioni perché
colpisse un bersaglio sia per esaminarlo all’atto dell’arruolamento:

… Ma si deve notare che in questi modi di terziare sodetti e grossezze ch’io dico che hanno
d’havere i pezzi del primo genere tutti si parla generalmente e secondo le grossezze che si
ritrovano nelle fondizioni reali e di Alemagna, Fiandra e Venezia; però in particolare si
ritrovano alcune colobrine, fatte di parere e capriccio de’ Signori che le fanno fondere a suo
modo, le quali hanno bocche 10 ed alcune 12 alla culatta di circonferenza, le quali noi
escluderemo da questa nostra pratica ‘sì perché in effetto sono rare come per non alterare
l’ordine e regola generale che nelle famose fondizioni sodette si tiene (LT. Collado. Cit. P.
28v.).

Squadrare o partire una bocca da fuoco significava invece controllare – per lo più con la
squadra – che fosse ben stabile e serrata nelle cannoniere, che la sua cassa fosse
perfettamente dritta e che le sue ruote fossero di pari altezza, in modo da poter poi cercare il
giusto mezzo sopra le gioie (sp. fajas), cioè 3 o 4 modanature ossia fasce esterne risaltanti,
cosiddette perché ricordavano i gioielli anulari, le quali guarnivano e rinforzavano la canna, al
centro, alla culatta e un po’ prima della bocca, giusto mezzo al quale porre i punti o mire da
utilizzare appunto per prendere di mira il bersaglio. Variando a ogni occasione la stabilità
della canna e della sua cassa, non era possibile che i predetti punti fossero fissi, magari incisi
con una lima sulle gioie; bisognava quindi invece che fossero mobili perché si potesse
correggerli ogni volta che fosse necessario e perciò s’usavano per lo più due pezzetti di cera
attaccati sul giusto mezzo delle suddette cornici. Una canna mal squadrata avrebbe
sicuramente prodotto tiro costieri, cioè, come sappiamo, spostati da un lato o dall’altro del
bersaglio; eppure l’errato sistema di limare definitivamente i punti di mira sulle gioie era stato
correntemente usato fino alla metà del Cinquecento e il Cataneo infatti addirittura lo

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prescrive, dandoci quindi motivo di credere che le artiglierie italiane siano state fino a quel
tempo - e forse anche oltre – notevolmente imprecise.
Quando un fonditore consegnava una nuova bocca da fuoco al suo committente, la stessa si
provava prima d’essere accettata e ciò si faceva da sempre, come si può già leggere in un
documento comasco del 2 aprile 1419 pubblicato dall’Angelucci (… Praeterea quia dicta
bombarda, huc conducta, probata est et reperta bona et suficiens… Cit. P. 108.)
Alla prova assisteva sia il fonditore sia un ministro del principe acquirente, coadiuvato da
pratici bombardieri, cioè da gente ben avvezza a usare leve, squadre, regoli e archipenzoli;
costoro immancabilmente tendevano a provare la bocca da fuoco con una forte carica di
polvere perché, se doveva crepare, era ovviamente meglio che lo facesse subito, cioè ora
che le si dava fuoco a distanza cautelativa per mezzo d’una sementella di polvere o traina
che dir si volesse, ossia con un sentieruzzo di polvere tracciato su un lungo asse di legno con
un capo a terra e l’altro che venisse a toccare la lumiera o focone, che dir si volesse, oppure
mediante due o tre palmi di stoppino artificiale un cui capo fosse infilato nella predetta
lumiera e il quale, per un più sicuro effetto, si cospargeva di sopra di polverino da innesco.
Infatti, subito dopo aver acceso, all’ordine del generale o d’un suo luogotenente presente, la
traina con il buttafuoco, il bombardiero si metteva in salvo dietro una muraglia o altro riparo
dietro il quale già si riparavano magari gli altri presenti, cosa che poi in guerra non avrebbe
certo potuto fare; se la canna, essendo difettosa, fosse crepata durante una normale fazione
militare, il bombardiero e i suoi aiutanti avrebbero potuto facilmente rimetterci la vita. Il
fonditore invece tentava di far usare una carica moderata, perché, se la canna fosse crepata
alla prova, il danno sarebbe stato a sue spese in quanto considerato effetto di un suo cattivo
lavoro, come abbiamo già visto nelle condizioni della commessa fatta nel 1472 dal Comune
di Siena a mastro Giovanni di Slavonia, e gli sarebbe quindi toccato di fornire al principe
un’altra bocca da fuoco gratis; pertanto non era raro il caso in cui il fonditore corrompeva il
bombardiero perché, alla prova, questi non usasse cariche troppo potenti. In ogni caso il
fonditore aveva diritto che alle prove non gli fossero fatti dei torti e che venisse usata polvere
d’artiglieria e non quella d’archibugio; riprovevole era però a questo proposito l’abitudine
d’alcuni bombardieri di porre durante queste prove dopo la palla un secondo boccone di fieno
ben calcato, perché, usandosi sempre in tali occasioni una carica maggiore dell’ordinario,
così facendo si rischiava di far crepare la canna anche se era di buona fonditura; ciò poteva
succedere anche perché, nell’eventualità che questo secondo boccone contenesse magari
qualcosa di duro, allo sparo la palla avrebbe potuto, come già sappiamo, andarcisi a
incugnare e alla fine si sarebbe ingiustamente data la colpa del crepamento al fonditore; per
lo stesso motivo, cioè per non far poi eventualmente torto al fonditore, non bisognava mettere
troppo calcato nemmeno il primo boccone, cioè quello che seguiva immediatamente la carica
442
di polvere. Altri torti potevano essere il dare a queste prove alla canna tanta elevazione da
farlo patire più del necessario oppure, una volta datagli tale notevole elevazione, il non
consentirgli un adeguato rinculo.
Alla prova il bombardiero doveva verificare non solo se la bocca da fuoco resisteva alla sua
carica, ma anche se la lega del metallo era buona, il getto netto, l’anima dritta nel mezzo
della canna e priva di vermini, cioè di crepe e incavi, gli orecchioni uguali e collocati
parimente al posto giusto, la cornice della bocca abbastanza grossa da non consumarsi
troppo presto e da non rendere la canna troppo soggetta a sboccarsi, il metallo della
grossezza giusta dietro il focone, il calibro corrispondente alla sua palla, la trivellazione
dell’anima completata in fondo fino al focone, etc. Il bombardiero pratico batteva la canna da
provare tutto all’intorno con un martello o una mazza dura e doveva riceverne un suono
chiaro e puro; infatti un suono fesso in qualche punto significava la presenza di qualche
magagna. Doveva inoltre il bombardiero ovviamente controllare che la polvere d’artiglieria da
usare fosse nuova e potente e che le palle fossero ben sferiche e del diametro giusto, meglio
ancora se con parecchio vento, a evitare che s’andassero a incastrare in inattese e occulte
malformazioni dell’anima.
La bocca da fuoco si provava di regola scavalcata, cioè senza cassa, posata a terra su un
ponticello di terra o su forti scanni o anche semplici travoni di legno, con la culatta appoggiata
a un buon muro o riparo in modo che non potesse rinculare; tra il muro e la culatta però, per
preservare soprattutto quest’ultima, si poneva un assone di legno che facesse da
ammortizzatore; la si provava di regola elevata a tre punti di squadra e, come abbiamo già
detto, con tre tiri, per lo più a elevazione fissa di tre punti di squadra, ma si poteva anche
scegliere di provarla al primo o al secondo punto d’elevazione, tenendosi quindi conto del
maggior travaglio che subiva una canna sparata a elevazione rispetto a un’altra sparata
invece per il piano. Alla cassa si rinunciava perché si trattava d’un elemento non costruito dal
fonditore e che poteva fortemente influenzare l’effetto del tiro; inoltre, caricandosi la bocca da
fuoco in prova con cariche più forti del normale, il letto rischiava di fracassarsi; infine, come
c’informa Hieronimo Cataneo, nella prima metà del Cinquecento s’usava provare a elevazioni
che la presenza della cassa non avrebbe permesso di raggiungere (cit.).
Subito dopo lo sparo bisognava poi chiudere ermeticamente la bocca della canna con del
cuoio e otturargli il focone in modo che, nel caso gli si vedesse uscire del fumo da qualche
altra parte, voleva dire che a causa dello sparo s’era creata una fessura nella canna
difettosa. Tra un tiro e l’altro il bombardiero nettava, come di regola, l’interno dell’anima con
una lanata umida, e nelle prove ciò era maggiormente necessario perché i difetti della bocca
da fuoco ancora non si conoscevano e poteva essere rimasto del fuoco acceso in qualche
eventuale cavernosità della canna.
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Insomma provare una nuova bocca d’artiglieria significava sottoporla a maggior prova del
dovuto, impedendogli di rinculare e dandogli più forti cariche di polvere per esser così
tranquilli che poi in fazione bellica non crepasse; ma, usandosi polvere fina, molto più
potente, bisognava ricordarsi di darne in ogni caso non più della metà di quella grossa e
inoltre di assettarla bene nella sua camera a ogni tiro, perché, sparandosi ripetutamente, la
canna si riscaldava, benché la si rinfrescasse il più possibile, e, se la polvere si spargeva
invece in parte lungo di essa, il salnitro col calore si liquefaceva e perdeva forza e allora,
sebbene fosse polvere fina, non ne sarebbe bastati ⅔ del peso palla – senza contare il
pericolo per gli inservienti che la caricavano. Queste cariche di polvere superiori al normale
sono così quantificate dal Collado, il quale le dice essere quelle in uso nelle principali
fondizioni d’Alemagna, Italia, Spagna e Francia:

Canne del primo genere:


Primo tiro: peso palla.
Secondo: 125% del peso palla.
Terzo: 150% del peso palla.

Canne del secondo genere:


Primo tiro: ⅔ del peso palla.
Secondo: cinque sesti del peso palla.
Terzo: peso palla.

I cannoni rinforzati si provavano però con più polvere.

Canne del terzo genere terziate per il sesto:


Primo tiro: un terzo del peso palla.
Secondo: sette diciottesimi del peso palla.
Terzo: quattro noni del peso palla.

Canne del terzo genere terziate per la metà:


Primo tiro: un mezzo del peso palla.
Secondo: cinque ottavi del peso palla.
Terzo: tre quarti del peso palla.

In realtà, per quanto riguarda le bocche da fuoco del terzo genere, queste proporzioni di
polvere erano solo teoriche, in quanto giuste per canne seguenti; ma, essendo in effetti a tal
epoca i petrieri quasi tutti incamerati, non potevano ricevere più polvere di quanta ne potesse
contenere la loro camera e cioè non più della carica usata normalmente in guerra; pertanto si
poteva aumentare il loro sforzo alla prova solo usando polvere più potente ed elevandoli a un
punto di squadra più del solito. A proposito della Francia però, se si legge il Rivault, quasi
contemporaneo del Collado, si nota che le proporzioni di polvere usate per le prove in quel

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paese erano in realtà perlopiù superiori a quelle indicate dallo spagnolo; anzi colà si tendeva
a provare le artiglierie con palle di piombo invece che di ferro e quindi con una carica di
polvere di peso uguale a quello del proiettile di piombo, il che significava dunque all’incirca
raddoppiare la quantità di polvere di fazione, ossia quella che s’usava ordinariamente in
guerra, e vuol anche in sostanza dire che la qualità delle artiglierie francesi doveva di
conseguenza essere superiore e da paragonarsi più a quella delle tedesche che a quella
delle italo-ispaniche.
Mantenendo alla bocca d’artiglieria la stessa carica e la stessa elevazione durante tiri ripetuti,
il terzo tiro risultava generalmente il più efficace e ciò era spiegato dai bombardieri del tempo
in questo modo: al primo tiro, essendo la canna fredda e umida, la polvere tardava ad
accendersi completamente e impiegava quindi più tempo a spingere la palla; il secondo tiro,
trovando l’anima asciutta, arrivava più lontano; ancora più lontano arrivava però il terzo tiro,
perché allora la canna era non solo asciutta, ma anche calda e questo calore toglieva
qualche eventuale umidità dalla polvere; il quarto e il quinto tiro risultavano generalmente
anch’essi buoni come il terzo, ma dal sesto in poi peggioravano gradatamente per esser
ormai la canna troppo calda e il salnitro al caldo - così come del resto all’umido - si disfaceva.
C’erano anche altre spiegazioni che gli esperti del tempo davano a questo graduale
peggioramento balistico, ma tutte poco chiare e ancor meno credibili.
Effettuati i tre tiri di prova, il bombardiero riconosceva, cioè visitava, nuovamente la canna da
dentro e da fuori e la batteva di nuovo col martello tutto all’intorno per vedere se per caso lo
sforzo sostenuto vi aveva prodotto delle fessure.

… però, se voi, o bombardieri, userete delle sodette diligenze circa del provare le artiglierie,
non sarete troppo grandi amici de i fonditori né io resterò di non esser biasimato per haver
dati simili avvertimenti contra di loro; ma con tutto ciò dovete considerare che al fonditore non
importa altro che alcun guadagno o perdita ed a voi altri l’honore, la conscienza e la vita
propria (LT. Collado. Cit. P. 136.).

Molto più benevolo verso i fonditori sarà invece il Sardi:

… Tirati adunque con questo ordine i tre tiri e non avendosi scoperto minimo difetto o fatto
alcuno risentimento (‘guasto’), la pezza deve esser accettata per buona ed al fonditore dare
una buona mancia ed a i bombardieri e periti un lauto banchetto per inanimirgli
maggiormente nel fidel servizio del Principe; avvertendo che, se si scoprisse minimo
risentimento, la pezza si deve rifiutare e rifarsi a spese del fonditore, ma in questo caso il
Principe deve haver compassione al fonditore e sottentrare in qualche parte alla spesa che
deve fare il fonditore in rifonderla, per non lo mettere in disperazione di ben servire. (P. Sardi.
Cit. P. 28.)

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Capitolo XVII.
I fuochi artificiati.

Compito del bombardiero era anche quello di saper preparare i fuochi artificiati, cioè quelle
misture illuminanti o incendiarie o esplodenti o semplicemente festive di cui i primi due tipi
erano in uso sin dall’antichità, ma le cui formule erano ora state potenziate con l’aggiunta
della polvere da sparo. Questi fuochi artificiati furono molto in uso nel Cinquecento, specie
nella guerra marittima, cioè laddove si trattava d’appiccare il fuoco ai vascelli nemici per
aiutare l’opera delle artiglierie, ma nel secolo successivo furono in gran parte dimessi perché
pericolosi da maneggiarsi e accendersi e a volte si finiva per appiccare il fuoco al proprio
vascello invece che a quello del nemico. Uno dei primi esempi storici dell’uso di tali fuochi fu
quello che ne fecero nell’estate del 1474 i veneto-albanesi che, sotto il comando del loro
governatore (‘conte’) Antonio Loredan, difesero con successo Scutari da un assedio turco;
anche in questo caso abbiamo italianizzato l’originario veneziano rinascimentale:

… Scutarini avevano molti coffani (‘ceste’) di vimini impeciati nei quali conservavano il
frumento. Furono riempiti questi coffani di pece, solfo e stoppa e, accesi, li si buttava
addosso ai Turchi; si traboccavano (‘facevano cadere’) anche assai dirupi (‘rovine’) di sassi,
apparecchiati a tal effetto sui ripari; si misero nelle artiglierie quanti cuogoli (‘ciottoli’) vi
poterono stare, per ferir molti in un colpo; si adoperarono anche diverse sorte di fuochi
artificiati, in modo che con tutte queste difese si conservò la città (Domenico Malipiero, cit.
Parte pruima, p. 97).

Un altro fu l’uso che ne fecero nel 1500 i senesi assediati dai francesi di Luigi XII, come
racconta il d’Auton:

… ed avevano questi pisani delle palle di calce inzolfata che gettavano sul viso dei francesi,
impolverandoli ed ustionandoli, in maniera che colui che ne restava colpito non poteva più
combattere. (Jean de Auton, Chroniques. Parigi, 1834.)

L’ultima volta che troviamo menzionato il famoso ‘fuoco liquido’ di cui abbiamo più volte detto
è da Giorgio Franzes a proposito della caduta di Costantinopoli nel 1453; egli narra che tra i
primi attacchi alle mura della città quelli portati a mezzo di mine e macchine d’assedio furono
contrastati specie dall’opera di un valoroso tedesco al soldo di Bisanzio, un certo Johannes,
esperto sia di macchine belliche sia di quel fuoco (… Ίωάννης δέ τις Γερμανὸς ἂϰρον
ἠσϰημένος τὰς τοῦ πολέμου μηχανὰς ϰαὶ τὰς τοῦ ύγροῦ πυρός... Cit. LT. III, cap. III). Ma
anche gli assedianti ottomani lo avevano:

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… Avendo essi anche molte macchine allestite con il fuoco liquido, le quali in un a sola ora
preparavano affinché eruttassero tutte insieme (Ἒχοντες ϰαὶ αὑτοὶ πλείστας μηχανὰς
ϰατασϰευασθείσας μετὰ τοῦ ὑγροῦ πυρός͵ ϰαὶ ἑν μιᾷ ὢρᾳ ἡτοίμασαν ἲνα πάντες τὴν σύρρηξιν
ἃμα ποιήσωσιν͵ Cit. LT. III, par. III).

Chiaramente, lanciando tutte insieme il loro carico acceso nella città, potevano provocare una
pioggia di fuoco molto più difficile da estinguersi di quanto si sarebbe invece ottenuto
tirandone un fuoco alla volta. E la circostanza che ne disponessero sia assediati che
assedianti significa che ormai, arrivatisi a quest’epoca, non si deve più parlare di ‘fuoco
greco’ ma di fuochi artificiati in generale, armi di guerra ormai diffondentesi in tutta l’Europa e
la cui arte proprio da quell’originario ‘fuoco liquido’ aveva preso le mosse. In verità, all’inizio
del Cinquecento Jacopo da Porcia ancora suggerisce l’uso del ‘fuoco che arde nell’acqua’,
ma, da quanto ne scrive, si capisce che si tratta ormai solo di ricordi storici (cit. P. 60 recto).
Tutti gli autori cinquecenteschi di trattati d’artiglieria trascrivono ricette di complicate misture
destinate a ottenere gli effetti suddetti, misture da rinchiudersi in ancora più complicati
involucri; noi cercheremo soprattutto d’individuare le sostanze più usate per la fabbricazione
di questi fuochi e riporteremo quelle ricette che risultavano più efficaci e usate e, a titolo di
curiosità, anche quelle che si presentano come certamente molto più antiche dell’epoca che
stiamo trattando, in quanto appunto prive di polvere da sparo; comunque, a chi ne volesse
sapere di più consigliamo la lettura del de Biringuccis, del Ruscelli, di Giovanbattista della
Valle († 1535), del Collado, del Moretti e del Chincherni. Le sostanze adoperate si dividevano
nelle seguenti quattro categorie:

Minerali: antimonio, vetriolo, allume, solfo vivo, sale comune, salmiaco, vetro pesto,
limatura di ferro, realgar ecc.
Gomme: pece greca, pece navale, terebinto (‘trementina’), cera, canfora, resina di pino,
gomma arabica, vernice granita, vernice liquida, olio di sasso (‘petrolio’), olio di solfo
(‘olio di vetriolo’), olio di ginepro (‘olio di Cadè’) ecc.
Grassi: di porco, d’anatra, di gallina ecc.
Liquori: vino, aceto, tartaro, acquavite ecc.

Le misture si preparavano e si mescolavano a secco, cioè polverizzate, oppure dopo averle


liquefatte e amalgamate col calore del fuoco. Ecco una mistura per fuochi illuminanti, detti
allora anche semplici:

Pece chiara parti 3.


Trementina parte 1.
Solfo parti 2.
Sego di castrone parte 1.
Stoppa.

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Pece, trementina e sego si mettevano a liquefare insieme in una caldaia a fuoco lento,
possibilmente di carboni già usati a evitare che delle faville potessero appiccare il fuoco,
durante la loro stessa lavorazione, a questo tipo d’intrugli, percioché sono pericolosissimi,
non diportandosi come si conviene in essi (Collado). Una volta liquefatti, a essi si mescolava
bene nella caldaia il solfo e poi tanta stoppa di canape fino a indurire il tutto; in seguito si
toglieva la caldaia dal fuoco e, raffreddatasi la mistura, se ne facevano delle palle della
misura che si voleva, cioè piccole se da lanciarsi con le mani o grandi se da tirarsi invece con
i cannoni petrieri. Ma la cosa non finiva qui, perché con questa mistura di base la
preparazione delle palle illuminanti era appena incominciata; noi ci asterremo dall’esporla
compiutamente, così come del resto faremo per la maggior parte dei fuochi artificiati di cui
parleremo, perché troppo complessa e non abbastanza interessante per il lettore medio; basti
dire che generalmente la massa di queste palle si forava da un capo all’altro più volte e in tali
buchi s’introducevano o degli stoppini, i quali dovevano restare però fuoriuscenti almeno tre
dita, oppure del polverino fino, perché potesse più facilmente prender fuoco tutta insieme.
L’esterno delle palle si rivestiva poi di strati d’altre misture più immediatamente incendiarie,
perché a base di solfo e polvere d’artiglieria, alternati a volte a strati di forte tela o anche di
robusta carta. Prima però d’applicarvi lo strato incendiario finale, queste palle
s’ingemmavano, cioè s’avvolgevano strettamente di spago o di filo di ferro, a evitare che si
spezzassero in aria o appena toccato il suolo. Si facevano, oltre alle palle, proiettili illuminanti
d’altra forma o struttura, ma sempre riempite delle predette misture, quali per esempio quelli
di sfilacci di corda chiamati bozolati, quelli di stracci detti ciambelle e altri di fascetti di
sarmenti o d’altro, ai quali accenna il Chincherni.
Le palle illuminanti manuali, fiondate facendole roteare all’estremità d’una cordicella, erano
ottime per illuminare, per esempio, il fossato d’una fortezza assediata, permettendo così agli
assediati stessi di lavorarvi di notte per liberarla dai detriti della breccia aperta o allargata dal
nemico durante il giorno, detriti che, accumulandosi, avrebbero fatto da comoda rampa al
nemico al momento dell’assalto; oppure se ne potevano dotare uomini mandati fuori dalla
fortezza di notte a riconoscere la campagna circostante, cioè a esplorarla. Se invece si
sparavano con i petrieri, questi si caricavano all’incirca con un solo quinto del peso del
proiettile, perché una velocità eccessiva nell’aria ne avrebbe spento il fuoco, fuoco che si
comunicava ai predetti stoppini e allo strato più esterno di mistura dalla stessa carica di
polvere del cannone; per questo motivo, quando si sparavano fuochi artificiati, non si poneva
dopo la polvere e prima della palla il solito boccone di fieno o foraggio o stoppaione che dir si
voleva, perché questo avrebbe ostacolato la propagazione del fuoco alla palla, mentre era
utile metterne uno dopo la palla a evitare la dispersione del fuoco in avanti. Le grosse palle
illuminanti tirate dai petrieri della fortezza servivano a illuminare di notte la campagna
448
circostante per scoprire così i nemici intenti al lavoro d’approcci, trincee, batterie, forti,
cavalieri, ridotti, bastioni etc. Quanto all’efficacia di questi fuochi illuminanti, scrive il Collado:
… in tempo di uno assedio sono di effetto meraviglioso e di bisogno grandissimo; con essi si
poteva per esempio anche illuminare un assalto notturno tentato dal nemico assediante e
poterlo così bersagliare e arrestare.
Invece di palle si potevano lanciare con zebratane, vale a dire con cerbottane o tubi di lancio
di rame, latta o legno, raggi illuminanti, ossia razzi con la punta fatta d’una mistura del tipo
suddetto. Un’altra ricetta di mistura illuminante era la seguente:

Pece greca parti 3.


Solfo parte 1.
Carbone di salice o di nocciuolo parti 2.
Trementina parte 1.

Pece e trementina andavano liquefatte, il solfo e il carbone invece si pestavano; poi tutto si
mescolava con stoppa o sfilacci di canapa o con segatura di lauro o di pino.
Le palle incendiarie, dette composte, perché la loro composizione era particolarmente
complessa, includevano alcuni tipi le cui misture, una volta accese, resistevano al vento, alla
pioggia e alle intemperie in genere ed erano pertanto utilissime anche per la fabbricazione di
torce da illuminazione. Ecco una di tali misture:

Trementina parti 4.
Polvere d’artiglieria parti 2.
Carbone parti 2.
Pece liquida, ossia alquitrano di Spagna, parti 3.

Quest’ultima sostanza non era però sempre reperibile e pertanto si poteva sostituire con una
parte di pece greca, ma aumentando la trementina fino a che bastasse a impastare tutta la
mistura. Più complesse erano quelle misture del cosiddetto fuoco greco, al quale abbiamo già
più sopra accennato e la cui formula chissà perché si dice perduta, mentre in verità ancora gli
autori del Cinquecento ne riportavano a decine. La più antica – e anche la più semplice - è
sicuramente quella lasciataci da già ricordato Marco Gracco, ignoto pirotecnico dell’antichità,
un cui breve manoscritto fu trascritto nel quattordicesimo e nel quindicesimo secolo e
conservato nella Biblioteca Reale di Parigi:

Ignem graecum tali modo facies.


Re. Sulfur vivum, tartarum, sarcocollam et picolam, sal coctum, oleum petroleum et oleum
commune. Facias bullire invicem omnia ista bene. Postea impone stupas et accende. Quod
si volueris extrahere poteris per embotum ut supra diximus. Post illumina et non extinguetur

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nisi cum urina vel aceto vel arena. (Marco Gracco, Liber ignium ad comburendum hostes,
tam in mari quam in terra etc. P. 11. Parigi, 1804.)

Ma torniamo ai tempi oggetto di questo nostro studio citando l’ottimo Collado:

… e di questa sorte di palle io te ne poterei insegnare a farle in mille modi, perché la loro
invenzione è tanto comune ed antica quanto è antica la milizia istessa, e maggiormente nella
Grecia, dove furono tanto frequentati questi fuochi che quasi la maggior importanza delle loro
imprese consistevano in essi, li quali facevano ne i modi seguenti… (LT. Colllado. Cit. P.
276.)

Alcune delle ricette di fuoco greco che il Collado fa seguire a queste parole sono
probabilmente d’origine molto antica e in seguito, inventata che fu la polvere d’artiglieria,
erano state con questa potenziate. Ecco una prescrizione di fuoco inestinguibile per bruciare
vascelli e altre costruzioni in legno:

Polvere d’artiglieria parte 1.


Salnitro non raffinato parte 1.
Solfo parte mezza.
Pece greca parte mezza.
Sale armonico parte mezza.
Vernice in grana parte mezza.

Ecco una dimostrazione che questi si era finito per chiamare questi fuochi greci solo perché
erano perlopiù a base di pece greca. Tutte queste sostanze si pestavano, si setacciavano
sottilmente e si mettevano in una caldaia a sciogliersi sul fuoco; poi s’aggiungeva mezza
oncia di canfora ogni libbra di mistura, canfora in precedenza ben pestata con solfo, perché
la canfora, pestata da sola, diventa pasta; s’aggiungeva infine anche olio petrolio od olio di
linosa, con il quale s’impastava accuratamente tutta la mistura. S’empiva poi per prova del
preparato una canna e le si appiccava il fuoco a un’estremità; se bruciava in modo troppo
furioso, s’aggiungeva un po’ più di solfo e di pece greca, se invece ne risultava un fuoco
troppo lento, dell’altra polvere d’artiglieria. Di tale mistura s’empivano le trombe o soffioni,
ossia i lancia-fiamme d’allora, e poi le pignatte, cioè i recipienti di creta da lancio, armi, sia le
prime che le seconde, di cui diremo diffusamente quando tratteremo dell’armamento delle
galere, o anche se ne facevano palle da tirare manualmente o con l’artiglieria, come quelle di
cui si è già detto, o se ne costruivano proiettili di varia forma, ossia delle sacchette di
fustagno piene di mistura, dette grilande oppure circoli o salsiccie alla francese, al fine non
solo d’incendiare vascelli, ponti e costruzioni di legno in generale [gr. μό(σ)συνες], ma anche
di disordinare gli squadroni nemici sul campo di battaglia.

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Ecco ora un’altra ricetta di fuochi inestinguibili, che arderanno sotto acqua e faranno altri
maravigliosi effetti (ib. P. 84v.):

Polvere d’artiglieria parti 5.


Salnitro raffinato parti 3.
Solfo parti 2.
Rasa pina parte 1.
Vernice in grana parte 1.
Trementina parte mezza.
Canfora parte mezza.
Vetro pesto parte mezza.
Sale comune parte mezza.
Olio di sasso (‘petrolio’) parte mezza.
Olio di linosa parte mezza.
Acquavite di tre cotte parte mezza.

Qui manca la pece greca, ma la ricetta è altra cosa, moderna, in quanto vi è presente polvere
d’artiglieria. Come al solito si pestavano accuratamente e si setacciavano sottilmente le
materie che andavano peste e si liquefacevano in una caldaia quelle atte a sciogliersi,
badandosi sempre che il fuoco acceso sotto la caldaia fosse molto lento e di carboni già
bruciati due volte a evitare pericolose faville. Incorporate poi a caldo nelle predetta caldaia
tutte queste sostanze, alla mistura si mescolava ancora stoppa per indurirla.
Le palle incendiarie si preparavano ora con un centro esplosivo di polvere fina e per il resto di
una delle predette misture ricoperta da altre a base di polvere d’artiglieria, destinate queste a
coadiuvare gli stoppini interni, di cui abbiamo già detto, a conservare il fuoco nella palla
durante il suo tragitto aereo:

… e questa sorte di palle sono efficacissime in qualunque fazione, perché elle ardono con
incredibil furia ed è ‘sì terribile la sua potenzia che causano gran timore a chi le guarda ed
arderanno ogni cosa dove tocca questa materia; resistono alla neve ed all’acqua e, come il
fuoco arriva alla polvere fina, si rompe in molti pezzi quella palla e, se alcuni di quelli nel
tempo di un assalto si attacca a una gamba o a una armatura di un soldato, mai si distacca
fin che non sia consumata tutta la materia… (ib. P. 84r.)

Lo stesso autore riporta poi una ricetta A fare un’altra sorte di fuoco chiamato ‘greco’,
inestinguibile e potentissimo e aggiunge:

… Questa sorte di fuoco si legge che accostumava di adoperare il Magno Alessandro ne gli
assedij delle innumerabili terre che da lui furono conquistate, abbruggiando con esso i ponti e
porte ed altre machine ed ingegni che si usavano a quei tempi; alla qual composizione a’
nostri tempi s’aggiunge la polvere, con la qual essi diventano assai più potenti e terribili. (Ib.
P. 278.)

Eccone la composizione:
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Polvere d’artiglieria parte1.
Carbone di nocciuolo o di salice giovane parte 1.
Salnitro parte 1.
Solfo parte 1.
Pece navale parte 1.
Rasa pina parte 1.
Vernice in grana parte 1.
Incenso parte 1.
Canfora parte mezza.

Anche qui manca la pece greca ma in compenso è presente polvere pirica, mistura che certo
molto improbabilmente Alessandro Magno avrebbe potuto trovare ai suoi tempi! Anche in
questo caso, mentre alcune sostanze si mettevano a liquefare sul fuoco lento di brace già
usata, le altre si pestavano, setacciavano e aggiungevano nella caldaia, ma con la massima
cautela, percioché questa sorte di fuoco è pericolosissimo (). Il tutto s’impastava a puntino
con parti uguali di olio di sasso e olio di linosa, di vernice liquida eletta e di trementina; la
pasta, raffreddatasi, s’appallottolata nella misura che si voleva e poi adoperata come mistura
di base per proiettili da lanciare a mano o col cannone, come nei casi precedenti; magari
anche qui con un nucleo di polvere fina d’artiglieria, perché sul bersaglio essa si spezzasse in
tanti frammenti incendiari in modo da appiccare il fuoco in vari punti del forte di legno (itm.
bastita, poi bastìa) o del vascello nemico. Si poteva per esempio appiccare questo fuoco a un
legno nemico mandando di notte dei nuotatori a conficcarvi nel fasciame un attrezzo a picco
di ferro e pieno della predetta mistura; anche se l’equipaggio nemico avesse tentato di
spegnerlo rovesciandovi sopra mastelli d’acqua non ci sarebbe riuscito.
Un’altra ricetta del Collado per palle incendiarie, che arderanno sotto acqua e sotto la neve e
sono atte ad abbruggiare qualunque materia del mondo che sia combustibile, è la seguente e
qui torna l’antica pece greca:

Salnitro raffinato parti 9.


Solfo parti 3
Pece greca chiara parti 6.
Canfora parti 3.
Mastice parte 1.
Vernice in grana parti 3.
Incenso parti 2.
Polvere grossa d’artiglieria parti 3.

Liquefacendo, pestando e setacciando, come al solito, e ricordando che la canfora va pestata


insieme al solfo, altrimenti si perde, la mistura così ottenuta va impastata con olio di sasso o
di linosa oppure con vernice liquida; poi la riprova e, se risulta troppo furiosa, la si modera

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aggiungendo solfo e pece greca; se invece è troppo lenta, la si potenzia con altra polvere
d’artiglieria:

… e questo sarà un fuoco potentissimo e, adoperato in un assalto, farà effetto maraviglioso


ed arderà sotto dell’acqua e con nessuna cosa del mondo si ammorza, se non coprendolo di
terra (ib. P. 280.)

Una più antica ricetta incendiaria e questa che segue, tratta dall’opera del de Biringuccis, il
quale non usa però dare le dosi delle materie che prescrive:

… Fassi ancho una composizione liquida in un caldaro, nella qual mettesi grasso porcino,
oglio petrolio, oglio di solfo, solfo vivo, salnitro due volte raffinato, acqua vite, pece greca,
trementina ed alquanta di polvere grossa; e, liquefatta la pece, il solfo ed il salnitro,
aggiontovi il grasso, la tremantina e l’oglio e la polvere sopra il fuoco, l’incorporarete
benissimo, rimanendola in un pignatto o altro vaso… (V. de Biringuccis, cit. Ib. 335v.)

A tali vasi si faceva una copertura a base di polvere, acciò facilmente prendessero fuoco a
mezzo del solito stoppino, e poi, una volta accesili, si gettavano sul nemico a mezzo di
frombole o di mazzafrombole, cioè di fionde roteate con aste, o con metodi similari. Di questa
mistura, la quale … è materia incensiva e può facilmente il fuoco penetrargli, che è anco
potente a mantenervelo (ib- P. 163r), potevasi anche fare pallottole, riempiendone cioè delle
borsette di lino apposta preparate, borsette che si circondavano strettamente di corda per
irrobustirle e poi, per lanciarle sul nemico, si ponevano nelle predette trombe o in cerbottane
di ferro insieme ad altre misture espulsive.
Ecco un altro preparato incendiario del de Biringuccis, il quale, a suo dire, risalirebbe agli
antichi romani:

… dicesi che Marco Gracco lo fece per abbrusciar l’armata navale de’ romani […] bruscia
ancho questo fuoco infin nell’acqua; onde, per farlo, c’insegna Marco Gracco che si pigli
canfora, oglio di solfo vivo, oglio di trementina, oglio laterino, oglio di giunipero, oglio di
sasso, oglio di lino, alchitrean, colofonia sottilmente pista, oglio di torli d’ova, pece navale,
cera zagora, grasso d’anitra scolato, salnitro ed il doppio di tutta la composizione d’acqua vite
e l’ottava parte di tutta la dosa d’arsinico e tartaro ed alquanto di sal armonico; e tutte le
predette cose si mettano in una boccia ben turata e mettansi poi al caldo in putrefazione sotto
il letame caldo per il spazio di dua mesi; e tutte le predette cose si mettan dapoi in una storta
e con fuoco lento si distillino; che d’esse cose fra sette o otto hore di fuoco ne uscirà un liquor
sottilissimo, nel mettevisi poi tanto di bovina secca(ta) in forno, pesta e stacciata e fatta
sottilissima, la qual gli daga corpo simile a un sapone o più liquido. (Ib. Cit. Pp. 164r-164v.)

Se ben fatta, questa mistura dovrebbe accendersi anche con i raggi del sole. Il De Biringuccis
da anche una ricetta per comporre una materia che si accende cospargendola d’acqua o
bagnandosi di pioggia ed è, come ci si aspetterebbe, a base di calcina di pietra felice

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(‘calcina viva fresca’), vitriolo, etc. e lo stesso vediamo nei Precetti del Ruscelli (A far polvere
che arde bagnata).Il de Biringuccis scriveva di aver tratto la maggior parte delle sue
prescrizioni incendiarie da una antica operetta anonima e più tardi il Luillier affermerà di aver
potuto anche lui avvalersi di un simile fortunato ritrovamento:

… operetta, qual già molto tempo mi pervenne alle mani, la qual fu antichissimamente scritta
in carta pecora, ove le lettere erano tanto caduche che con difficoltà si leggevano; alla qual,
per la maestà dell’antiqua scrittura, fui e son sforzato d’haverla in reverenzia e dargli fede.
(Ib.)

Queste parole lasciano però capire che il de Biringuccis non sperimentò egli stesso l’efficacia
di queste formule. Era quindi quello ancora un tempo in cui, nonostante i progressi che la
scienza, specie dell’artiglieria, cominciava a dimostrare, ancora s’andavano a cercare i
segreti delle cose nell’antica alchimia e, più antica sembrava la fonte, più la si considerava
autorevole.
Un terzo tipo di fuochi artificiati era quello dei cosiddetti fuochi armati, cioè di preparati
composti non solo di misture esplosive, ma anche di mitraglia, come per esempio piccoli
cubetti di ferro, o di archibugietti, ossia di cilindretti di ferro detti anche cannette di moschetti
(sp. cañoncillos de escopeta), lunghi un mezzo palmo, cavi, pieni di polvere e di una
pallottola di piombo, i quali, accendendosi più o meno sul bersaglio, oltre a devastarlo con la
loro esplosione, anche lo colpivano con una gragnuola di dette pallottole. Questo espediente
non era nuovo e infatti lo troviamo menzionato per la prima volta in una delle già ricordate
lettere dell’ingegnere militare Peregrino Prisciani a Ercole I d’Este in occasione della guerra
che quest’ultimo conduceva contro i veneziani; la missiva in questione, spedita come le altre
dal borgo fortificato di Lendinara, è del 12 luglio 1482:

… Tuta via ricordarò a quella (Signoria Vostra) che forsi in questo mezo non seria mal facto
che se facesse far xxv or xxx bombarde de focho cum li soi schioppiti dentro etiam cum sue
balote, cum le qual senza forsi cum dei mortali (‘mortari’) de quelli che sono in castello vechio
mi bastaria l’animo brusar gran parte de l’armata de’ maledicti inimici cum ruina di loro assai,
standi quella come ho inteso stare… (A. Angelucci. Cit. P. 269.)

Chiamava dunque il Prisciani detti grossi proiettili composti bombarde, cioè con termine
improprio che poi, come sappiamo, diventerà scartozzi o carcasse; ma gli schioppetti
contenenti polvere e pallottola con cui li si armava non erano altro che i suddetti archibugietti
di cui si dice un secolo dopo. Si voleva dunque allora usare questo espediente per tentare di
dar fuoco all’armata di mare veneziana approfittando del suo stare ammassata all’ancora da
qualche parte.

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Diremo meglio delle trombe di galera e delle pignatte quando tratteremo della guerra
marittima, perché in quella molto usate, soprattutto nel Rinascimento, e, per quanto riguarda
quella di terra, fino all’inizio del Cinquecento, cioè fino a quando le battaglie di picche non
erano ancora stabilmente affiancate da formazioni d’archibugieri (td. Schützen) e
comprendevano solo qualche schioppettiero. Allora si ponevano anche pochi soldati armati di
tromba artificiata frammisti ai picchieri della prima fila ed essi, con questi loro rozzi lancia-
fiamme cercavano di scompaginare la battaglia nemica; naturalmente, poiché la gitatta di
questi soffioni era molto limitata, bisognava aspettare che il nemico fosse a contatto prima
d’accenderli e in ogni caso risultavano pericolosi anche per i propri commilitoni. Le pignatte si
lanciavano, o a mano o a mezzo di frombola, nelle turbe e negli squadroni nemici per
scompaginarli, naturalmente dopo averne acceso gli stoppini. In seguito con i progressi
dell’artiglieria nella guerra di terra le trombe furono presto abbandonate e le pignatte furono
sostituite dalle palle da mano, poi dette granate da mano e, molto più tardi, come si sa,
‘bombe a mano’, processo che invece nella guerra marittima sarà più graduale perché,
contro bersagli di legno, i fuochi artificiati erano senza dubbio di una certa efficacia, ma a
terra il loro uso era molto discutibile già ai tempi del de Biringuccis:

Le trombe di fuoco costumansi per spaventare li cavalli e per nuocere a’ soldati, anchor che
non faciano molta offesa perché, ben che gittino fuoco, non si estende però ‘sì che, volendole
adoprar, non sia bisogno con esse appressarsi alli nimici, delli quali, s’alcuno vi n’è che tema,
non vi si accosta infin che non le veda finite di brusciare; tal che, per concluder, l’offesa di
questa è che all’improviso vi si rappresenta, senza spazio di puoter pensar a rimedio. È ben
vero che son belle cose da vedere ed a chi non è previsto, sentendo dir ‘trombe di fuoco’,
prende molto orrore. (V. de Biringuccis. Cit. P. 328v.)

Si ricordava che nel 1513, al tempo della guerra portata alla Francia e a Venezia dalla Lega
Santa, assediando Prospero Colonna, al comando di un potente esercito sforzesco, Crema
difesa dai veneziani di Renzo Orsini da Ceri e dal conte Bartolomeo Martinengo, costoro
avevano organizzato una sortita notturna di cento fanti armati di trombe di fuoco; questi,
entrati di sorpresa nell’accampamento nemico, lo avevano messo in tale scompiglio e timore
che il Colonna era stato costretto ad abbandonare l’assedio (G. Marzari. Cit.)
Di queste trombe, già usate con successo dai veneziani durante l’assedio di Padova del 1509
per difendere dai ripetuti assalti imperiali il bastione della Gatta (ib.), invece di farne solo dei
semplici lanciafiamme, se ne potevano preparare d’armate, riempiendone per esempio la
canna dei seguenti strati successivi:

3 o 4 dita di mistura per trombe.


Un’oncia di polvere fina.
Una palla di stoppa di lino contenente un po’ di mistura e 5 o 6 cubetti di ferro della
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grossezza d’un cece.
Ancora 4 dita di mistura.
Ancora un’oncia di polvere fina.
Ancora una palla di stoppa, ma contenente stavolta un mezzo pugno di vetro mal
pesto.
Mistura.
Polvere fina.
Altra palla di stoppa contenente un mezzo pugno di sale comune non pesto e di grossa
limatura di piombo.

Infine si turava e innescava la bocca della tromba nel modo già descritto; bisognava però fare
attenzione che le predette palle armate di stoppa non entrassero troppo strette, impedendo
così al fuoco di passare più indietro d’esse, agli strati di polvere fina. Si poteva anche
costruire le trombe armate componendole di mistura incendiaria e di pallette artificiate piene
di cubetti di ferro; oppure, invece di queste pallette, dei predetti archibugietti. Scrive il
Chincherni:

Vi sono infinite ricette di fuochi ‘sì composti come armati, che si lasciano dirne altri per
brevità. (Alessandro Chincherni, Lo scolare bombardiere ammaestrato di cento cinquanta
istruzioni, etc. Ferrara 1640. In Fucina di Marte etc. P. 909. Venezia, 1641.)

Le palle armate furono forse l’unico tipo di fuochi artificiati che non solo non fu dimesso nel
corso del Cinquecento, ma addirittura fu incrementato e migliorato nel corso del secolo
successivo; comunque già nella seconda metà del sedicesimo secolo a queste palle si dava
a volte il moderno nome di granate o anche di bombe, se però costituite da un involucro di
ferro - o di bronzo crudo o anche di vetro - pieno di semplice polvere fina o di polvere e
pezzetti di ferro; già allora infatti questo semplice tipo d’arma era considerato efficacissimo,
se ben usato, altrimenti, come spiega il Collado, poteva riuscire pericolosissimo anche per chi
voleva usarlo:

… e la ragion è questa, che queste palle di necessità debbono havere i suoi tempi terminati, i
quali per molti accidenti possono esser impediti ed alterati, cioè che alcune volte, per esser
passato molto tempo che quelle misture furono fatte diventando secche da gli olij, ch’erano
quelli che facevano i fuochi lenti ed impedivano l’arder repentinamente, ed altre volte perché,
volendole buttar via in fretta, casca in terra la mistura deputata a dare il tempo alla palla ed,
arrivando alla polvere che sta dentro il fuoco, ti viene a creppar in mano (il che mille volte si è
veduto); altre volte ti accaderà esser il termine del fuoco troppo lungo e, mandata via la palla
in qualche nave overo galera, prima di far l’effetto la piglia il nemico con qualche arma
d’hasta o forcina di ferro e la torna a ributtar dentro al tuo naviglio, si come molte volte io ho
veduto, ed allora tu potrai dire che t’allevasti in seno il serpente, percioché quella macchina
che preparasti a danno altrui si converte contra te stesso. Adunque sij avvertito, o
bombardiero, di non ti mettere a far questo essercizio se non ti conosci esser sufficiente a
farlo e lascia fare l’ufficio di dar il fuoco alle palle armate al mastro medesimo che le ha
composte, perché ne ho veduti abbruggiati e stroppiati al mio tempo più d’un paio di
bombardieri che si erano messi a questa impresa. (LT. Collado. Cit. P. 287.)
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Il tipo più semplice di palla armata, ossia di granata, era una pignatta di creta piena di polvere
fina d’artiglieria; la creta poteva esser anche molto sottile e ricoperta d’uno strato di pasta di
polvere di marmo molto pesto, ed a modo di quello che si fa lo stucco sottilmente setacciato e
quella polvere impastata con acqua di cola, che sia forte (ib.); oppure l’involucro poteva
essere fatto di leghe di rame, ottone, stagno o meglio di bronzo, o anche spesso di vetro (fr.
bosse), insomma preferibilmente di qualche dura materia frantumatesi allo scoppio e i cui
frammenti divenissero dei pericolosi proiettili. Già all’inizio del Cinquecento il de Biringuccis
descriveva come notorie e diffuse queste palle cave, le quali attraverso lo stesso buchino si
riempivano di polvere fina e s’accendevano a mezzo d’uno stoppino; esse differivano tra di
loro soprattutto per il modo in cui si frangevano sul bersaglio, alcune, per esempio,
rompendosi in piccoli pezzetti appuntiti, altre aprendosi semplicemente in due valve;
comunque, dalle parole di questo autore si capisce come al suo tempo queste palle cave
esplosive fossero spesso fallaci:

… e li loro effetti, quando seguissero come si pensano, sariano grandi, ma spesso vengon
falliti per li varii accidenti che nascono per le cose non cosi a ponto adattate (V. de
Biringuccis. Cit. P. 161r.)

Le granate di creta dovevano avere una bocca a collo alto un paio di dita, pieno di mistura
incendiaria, e innescato di stoppino; dovevano essere ricoperte all’esterno prima della stessa
suddetta mistura, poi di canovaccio e infine fortemente legata con filo di ferro stemperato.
Quelle fatte di creta o di stucco di marmo riuscivano in effetti molto più economiche di quelle
fuse in metallo e altrettanto efficaci; anzi, quelle di bronzo, lanciandosi le palle armate per la
maggior parte con trabucchi, mortari e cannoni petrieri, una volta piene di polvere e con la
mistura esterna ben avvolta di fil di ferro, finivano per pesare più del 50% in più d’una palla
semplice di pietra del loro stesso volume, con la conseguenza di rischiare di far crepare il
petriero; se poi, per evitare questo inconveniente, si fosse fatta la palla armata di metallo più
sottile, avrebbe per questo fatto pochissimo effetto, frangendosi in frammenti poco letali;
bisognava d’altro canto anche tener conto che il peso d’un proiettile doveva esser almeno
proporzionato al suo diametro, altrimenti l’opposizione dell’aria da esso incontrata avrebbe
reso fallace il tiro.
Alcuni mastri di fuochi artificiati inserivano nelle palle armate, oltre alla polvere fina, molti
archibugietti, cioè i cilindretti metallici a cui abbiamo più sopra già accennato e della cui
precisa fattura nessun autore però tratta, i quali, essendo cavi e pieni di polvere essi stessi,
erano espulsi con estrema violenza; altri infilzavano fittamente cubetti di ferro nel filo di ferro
esterno a modo di una corona da dire il Rosario e di quelle filze circondano le palle artificiati
457
d’intorno (Collado); altri ancora costruivano diverse forme di fuochi armati e cioè grilande,
dardi e altre di struttura fantasiosa, ma in sostanza poco efficaci. Le grilande erano delle
salciccie di canovaccio piene di polvere fina e archibugietti, le quali, bagnate nella pece greca
e innescate di stoppino, si legavano avvolte attorno a cerchi di legno del diametro d’un
palmo; queste, una volta accese, si gettavano, per esempio, sul nemico che assaliva la
breccia, e farà gran ruvina, assicura il Chincherni. I dardi erano invece delle grosse frecce
incendiarie o esplosive che si sparavano con i cannoni, utili soprattutto nella guerra marittima,
ed erano alettati come i primi moderni razzi di Peenemünde. Questi tipi di fuochi erano
comunque più teorici che pratici ed erano già obsoleti all’inizio del Seicento.
Le bombe, le quali, come abbiamo detto, erano le semplici palle di ferro cave e riempite di
polvere fina, s’innescavano con un prototipo di spoletta consistente in una cannetta di legno
piena di polvere fina macinata con oglio di sasso, cioè con olio minerale, la quale si
conficcava nella bocca della bomba con un sistema a vite che non siamo però in grado di
descrivere. Questa cannetta dava il tempo alla bomba; se l’innesco risultava troppo veloce,
s’aggiungeva olio, se troppo lento, polvere.
Per quanto riguarda le piccole granate da tirarsi a mano, a evitarsi tutti quegl’inconvenienti di
anticipata o ritardata o anticipata accensione di cui scriveva il Collado, dovuti alla sostanziale
ingovernabilità degl’inneschi a tempo, il Chincherni ne descrive invece un tipo la cui struttura
non dava adito a simili pericoli. Si prendevano quindi due scodellini uguali di creta sottile, si
riempivano parzialmente di polvere fina e si ponevano attorno a una granata ben innescata di
mistura; poi s’attaccavano insieme incollando sulla sconnessura una pezzetta con colla
tedesca, si legavano attorno a croce con spago forte per maggior sicurezza e anche perché
in questi girti di spago s’infilavano quattro micci accesi e infine si lanciava il tutto, facendolo
roteare sopra la testa per un capo dello spago a mo’ di frombola. Quando questa granata
toccava terra, le scodelline si rompevano, la polvere interna veniva a contatto con i micci
accesi e la granata esplodeva.
Già ai tempi del Collado, cioè nell’ultimo quarto del Cinquecento, la pratica dei fuochi
artificiati era affrontata con un più moderno spirito critico e lo stesso predetto autore, il quale,
essendogli stato conferito, come già accennato, dal re di Spagna il carico di generale
dell’artiglieria del ducato di Milano e dei presidi di Lombardia, aveva così raggiunto l’apice
della carriera militare, riferendosi ad altri trattatisti a lui precedenti, così scrive:

Altri promettono certa sorte di palle che’l fumo solamente di quelle dicono che attossicherà e
farà morire molte legioni di soldati; di tutte le quali sorti di palle e di tante ciancie di ciarattani
(‘ciarlatani’) non ne ho fin adesso vedute alcune che facciano l’effetto che fa una lanterna di
legno piena di dadi di ferro overo di scaglia di sasso vivo, che con una minima spesa si
ottiene meraviglioso effetto, come in altri luoghi ho detto; il che manifestamente si è veduto
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su l’armata della lega christiana, dove l’anno 1571 fu l’armata del Gran Turco rotta, che
avendo il signor don Giovanni d’Austria dispensati più di quaranta mila scudi in far fabricar
grossissimo numero di palle armate e molte altre machine di fuochi lavorati da diversi maestri
e particolarmente di mano di uno dimandato Gioseppe Buono, huomo tenuto nella città di
Napoli per valente e molto pratico in questo esercizio; le quali palle armate ed inramate, fatte
con ‘sì grosse spese, in quella ‘sì memoranda battaglia navale furono di pochissima fazione
per le ragioni di sopra dette, anzi molte di esse, crepando e rompendosi nelle galere de’
cristiani, vi ammazzarono e stroppiarono molti ed anco alcuna galera christiana da gl’istessi
fuochi nostri ne restò arsa; e per il contrario molte lanterne e tonelletti carichi di dadi di ferro e
scaglie di sassi vivi e ramali di catene - come in altro luogo ho detto – fecero nelle galere de’
turchi danno grandissimo; ed oltre a questo dico che quelli che vogliono far le palle artificiati
armate da tanti archibugietti ed altri intrichi non mi potranno negare costoro che, finite che
saranno quelle, loro non saperanno poi dove andare a trovar pezzi d’artiglieria ‘s’ grossi che
una tanta machina di palla possano capire. (LT. Collado. Cit. Pp. 289-290.))

Un buon bombardiero doveva anche saper sparare la sua bocca da fuoco a piacevoli salve,
ossia a titolo di saluto o di festeggiamento:

Non ostante che’l modo di far le salve sia per tutto il mondo molto usato e comune, tanto che
ogni minimo bombardiero si presuma esser maestro di questo essercizio, nientedimeno non
si può negare che’l principale intento di coloro che commandano far le salve sia o di salutare
e far honore ad alcun re overo principe amico o per allegrezza di alcuna nuova vittoria avuta
contra qualche nemico e che finalmente le salve sempre si fanno per dar contentezza a gli
ascoltanti; onde seguita che quelle che anderanno ben ordinate piaceranno e saranno più
grate a tutti e, per contrario, in quelle ove nello sparare de’ pezzi non si osserva qualche bel
modo ed ordine gravemente offendono le orecchie de’ circostanti (ib.)

Che il solo fragore delle artiglierie potesse rendere un uomo invalido a vita l’aveva già
avvertito tanto tempo prima il de Marchi, il quale, come del resto necessariamente tutti i buoni
architetti militari del suo tempo, era anche un pratico intenditore dell’artiglieria, e a detto
proposito, scrivendo nell’estate del 1565 proprio mentre Malta pativa il famoso assedio,
ricordava degli episodi dei quali era stato personalmente testimone:

… Dico ancora che la palla non toccando l’huomo, che il vento e fuoco che la porta offenda
l’huomo se vicino (g)li passa, oltra che vi è un altro pericolo: quelli che dinanzi fussero, se per
aventura saranno volti con l’orecchia verso la bocca delli canoni o collobrine mentre
tireranno, dico che quello horrendo tuono assordisse (‘potrebbe assordire’) l’huomo in
perpetuo e lo fa restare ballordo (‘mentalmente offeso’); si come incontrò (‘siccome avvenne’)
al capitanio Јustiniano da Cesena in Roma, che si facevala festa dell’incoronazione di Papa
Paolo Terzo. Passando il portone del Castello S. Angelo tirò un canone, il quale era venti
passi lontano, ed il tuono intrò nell’orecchia del detto capitanio e restò ballordo e sorde anni
quindeci che’l visse.
Dapoi in Parma un mastro Giovanni da Siena restò ancora lui sordo d’una orecchia per una
medesima causa in Monte Chierucole; il vento d’un sagro portò via un canoniero per aria, giù
delle altissime mura della rocca, che pareva un uccello che volasse. Io ho havuto de’ molti
bombardieri sotto del carico mio, del che ve n’erano molti che eran offesi in la udita e questo
solo era stato per li strepiti grandi dell’artegliarie; e di molti altri essempi saprei a(d)durre…
(F. de Marchi. Cit. Pp. 591-592.)
459
Per sparare a salve si caricava la canna anche con più polvere dell’ordinario, non essendovi
la pericolosa resistenza della palla; poi s’introduceva nella canna un boccone di sfilacci o di
fieno (fr. bourrer), tanto grosso da dover esser spinto dentro a forza; infine si dava una certa
elevazione alla canna. L’otturazione dovuta a questo grosso boccone e l’elevazione erano i
due elementi che soprattutto potenziavano l’effetto acustico della salva, uniti ovviamente alla
potenza della bocca da fuoco, la quale doveva essere pertanto di grosso calibro, come per
esempio una colubrina o un cannone da 60/70 libbre. I tiri delle salve dovevano essere
ordinati e cadenzati, in modo da non far passare né troppo né poco tempo tra l’uno e l’altro.
In caso di vento, si cominciavano a sparare le bocche da fuoco sottovento per evitare che le
faville dessero inopinatamente fuoco ad altre canne vicine preparate allo stesso scopo.
Oltre che con bocche da fuoco vere e proprie le salve si facevano anche con mortaletti
chiamati mascoli (sp. camaras), perché, come abbiamo già accennato, s’usavano
comunemente allo scopo mascoli da bombarde e più tardi da canne da braga caricati di
polvere tenuta da un coccone (np. mapharo). Questi mascoli si disponevano tutti in una fila,
collegati da una sola traina di polvere, in maniera che ricevessero il fuoco uno alla volta,
incominciandosi con i più piccoli per finire ai più grossi e quindi più rumorosi. La traina o
sementella di polvere s’adagiava man mano su un’altra via di crusca oppure di semola,
segatura, terra asciutta o anche assi di legno, perché eventualmente non s’inumidisse al
contatto con il terreno e quindi non mantenesse il fuoco. Il Capasso pubblicò un interessante
ordine di pagamento del 4 agosto 1502 emesso a favore del conservatore e governatore
dell’artiglieria napoletana Antonio Mercatante per la fornitura di polvere e cocconi di legno per
i mascoli destinati a festeggiare il primo anniversario dell’ingresso in Napoli fatto esattamente
un anno prima dai generali del re di Francia:

… per rotola cinque de pulvere de bombarda et cento maphari de ligno de chiuppo per
masculi da bombarde- tucti insieme tari tre, grana quindice, quali servero hogie compiesce
uno anno che foro li iv del proximo passato mese de augusto 1501, in quale dì intraro et
fecero lo primo ingresso li iIlustrissimi luogotenenti del re; quali masculi se spararo in le turri
dela porta de Capuana per la quale intraro li prededetti illustrissimi luogotenenti […] ad grana
undice lo rotulo, tarì cinque et grana dece; et per lo portaturo de maschuli dudice de Sancto
Augustino in Sancto Laurenzo grana tre; quali hanno servito lo presente dì per celebrare la
Peste et far le solemnità del dì del primo ingresso deli predettti illustrissimi luogotenenti…. (B.
Capasso. Cit. In Archivio storico per le province napoletane. Anno I, fascicolo I. P. 68. Napoli,
1876)

Questi mascoli, come tutti i fuochi d’artificio d’ogni tempo, potevano naturalmente essere
pericolosi e infatti un anonimo diarista (Nota di quello succede etc.) ne descrive un incidente

460
avvenuto il 26 dicembre 1704 davanti alla Chiesa del Carmine di Napoli in occasione della
festività del SS. Crocefisso:

… con sparo di alcuni maschi, il più grosso se crepò, che alcuni piezzi andorno per l’aera ed
alcuni diedero ad una povera donna che fra un giorno la fece morire e tre huomini malamente
feriro… [Nota di quello succede alla giornata in questa Città di Napoli. (1700-1709). S.N.S.P.
Man. XXI.D.I.]

Compito del bombardiero era anche quello di fabbricare e usare, oltre alle predette salve, il
quarto genere dei fuochi artificiati, appunto quello per i festeggiamenti che ancor oggi
s’usano; comunissimi erano a tal scopo i raggi, oggi ‘razzi’, detti allora anche rocchetti,
perché fatti di solito di mistura avvolta in carta reale avvolta strettamente e fittamente di
spago forte e quindi assomiglianti a dei rocchetti di spago; questi s’attaccavano ognuno alla
sua bacchetta di lancio, come si fa ancor adesso:

… il cui uso per esser tanto commune che insino a i putti gli fanno fare; ed ancora fargli
volare per una corda ed andare innanzi e tornar indietro per essa (LT. Collado. Cit. P. 87v,).

Anche comuni erano i tronadori o troni (da non confondersi con i summenzionati truenos
medievali), detti anche piule (‘tacchine’), perché fatti di carta reale a molte pieghe, in maniera
evidentemente da ricordare quei grossi pennuti, in sostanza non erano altro che i moderni
‘tric-trac’; ancora le ruote o girandole (fr. cercles à feu), le granate, oggi dette ‘botte a muro’;
altri fuochi festivi erano quelli detti soffioni, schioppi (ts. scoppi), pignatelle, perché
evidentemente somiglianti all’omonime armi e con i quali s’armavano quelle grandi
costruzioni di legno, dette figure o macchine e tanto tipiche di quei tempi, le quali decoravano
piazze e quartieri nei giorni festivi, sopravvivendone oggi ancora alcune come gli alti ‘gigli’ a
Nola e a Siena e i carri di Piedigrotta a Napoli e di carnevale a Viareggio.
Ecco la ricetta per fare un fuoco artificiale che sparga all’intorno un piacevole odore:

Storace parte una.


Belzoino parte una.
Incenso parte una.
Canfora parte mezza.

Il tutto da impastarsi con olio di gelsimino. Abbiamo più volte accennato agli stoppini e quindi
crediamo opportuno dire della loro preparazione; essi erano anche chiamati cordemiccie o
cordecotte o bozzoladi da luminare, ossia per innescare, e si facevano o di corda di canape o
di bambagia filata non troppo ritorta; la prima si batteva accuratamente su un sasso duro e
piano, mentre la seconda s’avvolgeva strettamente e completamente in filo bianco; poi l’una

461
e l’altra si mettevano a bollire in liscia di salnitro oppure, in mancanza di questa, in una
soluzione di due libbre di salnitro ogni dieci d’acqua o anche in una soluzione d’aceto, solfo e
salnitro; evaporatosi un terzo della soluzione, si toglieva la caldaia dal fuoco e si metteva lo
stoppino a seccare. Così preparato, lo stoppino si rendeva artificiato in diversi modi; poteva
esser messo in una soluzione bollente di polvere d’archibugio in aceto bianco fortissimo
oppure, ancor meglio, in acquavite, poi si spremeva tra due dita e si metteva a seccare;
quando era ben secco, era pronto. Se però lo si voleva di più rapido effetto, dopo la
spremitura s’intingeva in polverino da sparo pesto minutamente; se invece si volevano
stoppini d’effetto più lento, ma resistenti al vento e all’acqua e soprattutto all’umidità delle
mine, allora s’immergevano in quest’altra soluzione bollente:

Salnitro raffinato parte una.


Solfo parte mezza.
Olio di linosa, quanto basti a far del tutto una pasta dura, la quale, una volta raffreddata, non
imbrattasse le mani.

Il miccio si forniva generalmente arrotolato in gavette (‘rotoli o matasse’) riposte in botti. Era
vecchio privilegio dei bombardieri in servizio attivo ricevere doppia razione giornaliera di
vettovaglie (lt. duplicarii) e bisognava che essi ne approfittassero diligentemente e che la
pretendessero, non perché dovessero mangiare di più degli altri soldati, ma per costituirsi
una scorta di provviste per i giorni successivi; infatti, quando in un esercito mancavano i
viveri, cosa che spesso capitava, si permetteva a fanti e cavalieri d’andare in giro alla busca,
vale a dire a far scorrerie, razzie e bottino ai danni dei contadini della zona, nemici o amici
che questi fossero, cosa che non era invece consentita ai bombardieri che, per motivi di
sicurezza, anzi di vita o di morte, mai potevano abbandonare le loro bocche da fuoco e le
loro polveri né di giorno né di notte. Per conservarsi queste sue provviste il bombardiero
usava farsi costruire una cassa o serraglio di legno con chiusura a chiave, la quale teneva
inchiodata fra i due assoni della cassa della sua canna d’artiglieria:

… Ed oltra della provision sodetta del mangiare lui ne deve fare altra più conveniente e
questa, signori, sarà dell’acqua da bere, per quanto con questa non solo goderà la
commodità di rinfrescarsi nel tempo del gran caldo e della sete, però (‘perché così’) si
acquistarà la grazia di molti signori e gran personaggi, i quali nel tempo delle battaglie e delle
scaramuzze ricorrono a i bombardieri per rinfrescarsi (ib.)

Della suddetta cassa il bombardiero faceva in campagna il proprio letto, ponendovi sopra uno
strapuntino ed evitando così l’umidità della terra; doveva essa inoltre, come aveva
raccomandato il Cataneo, essere abbastanza grande perché all’occorrenza potesse starvi
dentro anche lui stesso:
462
… E questo è avvedimento di molta utilità, perché quivi, appresso alle altre cose che sono
necessarie, potrà collocarsi dentro per salvarsi dalle archibugiate e dall’artigliaria del nemico,
specialmente quando senza ripari in quel luoco si fosse accampato (H. Cataneo. Cit. P. 2v.).

Più tardi il Marzari raccomanderà al bombardiero di ripararsi, in caso di necessità, dietro


quella cassa e non addirittura dentro:

… e dietro dal letto del suo principal pezzo si procurerà una cassettina di buone tavole, così
per ripporvi molte cose al pezzo pertinenti come per salvarsi dietro a quella dalle
archibuggiate nemiche, occorrendo ben spesso d’impiantare l’artigliaria in campagna aperta
senz’altro ripparo per batter d’appresso e d’improvviso qualche luogo… (G. Marzari. Scelti
documenti in dialogo etc. Vicenza, 1596.)

Poiché l’armate di galere andavano spesso alla conquista di piazze marittime, bisognava che
il buon bombardiero avesse anche qualche cognizione della preparazione delle mine, delle
contro-mine, dei forni e di tutta la guerra sotterranea in genere, trattandosi di materia che
implicava l’uso di polveri da sparo e di materie incendiarie, anche se in effetti era questo
ovviamente ufficio più da ingegneri militari che da bombardieri. Si trattava di tecniche molto
antiche, nel senso che nel Medio Evo s’era usato scavare dei cunicoli sotterranei fino a
raggiungere le fondamenta delle mura nemiche, aprirvi un varco sotto, puntellandole e
sostenendole con dei travi di legno unti di materie incendiarie, accumulare in questo varco
fascine, peci, catrami e resine a cui dar fuoco, in modo che, consunte dal fuoco dette travi, le
mura in quel punto crollassero improvvisamente aprendo una breccia agli assalitori; la prima
memoria dell’uso di tale tecnica si trova nel lt. VII delle Storie di Leone Diacono, laddove
questo storico coevo descrive la presa di Creta fatta dai bizantini nel 960 d.C. Le parole che
usa a proposito della incredula sorpresa che provocò negli assediati, quando videro crollare
al’improvviso due torri della cinta muraria e il tratto di cortina che le univa, fanno pensare che
volesse dirla usata allora per la prima volta:

… I cretesi, stupefatti dalla novità di quello spettacolo, dopo poco rinunziarono a combattere,
attoniti per l’immanità di quel prodigio. (οἱ δὲ Κρῆτες, τᾦ ϰαινῷ τοῡ ὁράματος θαμβηθέντες,
ἐπ' ὀλίγον χρόνον τὴν μάχην ἐξέϰλιναν, τῷ τεραστίῳ ϰαταπλαγέντες τοῡ πράγματος.)

Ora però, dopo l’invenzione della polvere da sparo, nella camera della mina, invece
d’ammonticchiarvi fascine e materie incendiarie, si ponevano barili o caratelli appunto di
polvere e poi, a mezzo d’una traina, ossia d’una lunga miccia coperta di sementella di
polvere, cioè cosparsa di polvere fina, che arrivava alle polveri partendo dalla bocca del
cunicolo scavato, si dava fuoco.

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Generalmente i trattatisti del Cinquecento indicano erroneamente in Pedro Navarro, conte del
Olivito, l’inventore della mina a polvere da sparo, laddove prima si erano minate le mura
incendiandone i puntelli all’uopo sistemati con pece, zolfo e vecchii pezzi di lardo; Carlo V lo
onorò, per questo suo ingegno, del titolo di conte e d’una lauta prebenda, ma ovviamente si
tratta d’un ritrovato di molto precedente a questo capitano spagnolo, il quale non ci risulta
fosse ingegnere militare; se avesse inventato o proposto qualcosa di nuovo non avrebbe
certo mancato di lasciarci qualche suo scritto in materia, come del resto facevano tutti gli
ingegneri e architetti militari del suo tempo. In verità il Navarro fu il primo ad adoperare mine
memorabili perché di grande effetto militare e politico, come fu quella che, utilizzando barche
coperte da mantelletti (fr. pavays, pavois) a prova di cannone, fece scavare dal mare nella
viva roccia sotto l’allora ritenuto imprendibile Castel dell’Ovo di Napoli nel 1503, provocando il
crollo delle soprastanti opere murarie e la resa della guarnigione francese al Gran Capitano
Gonzalo Fernández de Córdoba, e come fu quell’altra, il cui scavo fu anch’esso protetto da
martelletti a prova di cannone, con la quale fece poi arrendere agli spagnoli castello di
Milano, anch’esso in precedenza considerato imprendibile. Il de Biringuccis attribuisce sia il
predetto stratagemma del castel dell’Ovo sia, per quanto riguarda l’Italia, la stessa prima
escogitazione delle mine esplodenti al di Giorgio di Martino:

… E il primo inventore di queste, in Italia, fu Francesco di Georgio, cioè quel Georgio


ingegniere senese, eccellentissimo architetto, anchor che tal gloria si desse e diasi, da chi
non sa, al capitano Pietro Navarra, qual fu ben esecutore, ma non inventore di cotal effetto…
conciosia che Francesco, che per le sue virtù stava in Napoli con gran stipendio, fusse tolto
dal re di Spagna al re di Francia; questo (dunque), essendo richiesto dal detto capitano, lo
consigliò nel far l’impresa del castello dell’Ovo, propinquo alla città di Napoli, e mostrandogli
di far tre di queste mine e fecele empire di detta polvere; si che, quando parvegli tempo,
offese sotto la cappella della chiesa del castello e con buonissimo successo hebbe effetto il
suo dissegno, tal che fece rovinar in mare una parte di quel scoglio insieme con la capella e
gran parte delli francesi che, per diffenderlo, dentro stavano; di maniera che, con
puochissimo contrasto li spagnoli saliti per le scale fattegli dalla rovina, vi entrorono dentro.
Fu poi questo modo usato in più altri luochi, ma in nissuno (ch’io sappia) hebbe effetto con
tanta rovina, forsi rispetto alla qualità del sasso o per il miglior adattamento fattovi. (V. de
Biringuccis. Cit. LT. X, capo IV, P. 181.)

Il de Biringuccis, il quale fu coevo del Navarro, certo sapeva come erano andate veramente
le cose; il de Marchi poi, a proposito di quei fatti di Napoli, riprenderà senza alcun dubbio
questo argomento:

… Il primo che rinovasse tali mine tra li moderni fu Francesco di Giorgino ingegniero senese,
il qual fu levato dal servigio del re di Franza da Pietro Navarro, nel medemo tempo che detta
guerra durava… (F. de Marchi. Cit. P. 785.)

464
Dunque il di Giorgio di Martino non morì, come comunemente si pensa, nel biennio 1501-
1502, bensì in quello successivo. Pedro Navarro fu personaggio alquanto controverso,
perché servì alternativamente Spagna e Francia; nel 1494 venne in Italia al seguito del
predetto Gran Capitano e si presume abbia in quei primi anni con lui combattuto contro i
francesi; ma poi, stabilitosi a Napoli e fattosi ricco, si dette alla guerra marittima di corso,
come racconta il Sanudo, armando dapprima un galeone e due fuste, unendosi poi nel 1497
a vascelli di corsari francesi, i quali avevano base alla Roccella in Calabria, per impadronirsi
di naviglio veneziano, cosa che fece più volte, tant’è vero che i veneziani gli mandarono
contro galere e navi armate; non lo catturarono, ma molto probabilmente lo costrinsero a
cessare la sua attività di corsaro-pirata, perché infatti nel 1503 lo rivediamo a Napoli nella
seconda spedizione italiana del Gran Capitano; tornato questo in Spagna nel 1507, dal 1508
al 1510 è a capo pro tempore dell’armata di mare spagnola inviata a portare la guerra ai
saraceni nelle loro stesse basi africane e prende Orano, Bugia (‘Bejaia’), Tripoli e altre
località; si trovò poi nello stesso 1510, ma non più come comandante, nella disastrosa
spedizione inviata contro l’isola di Gerba alle dipendenze del capitano generale, nobilissimo
ma inesperto, Garcia Álvarez de Toledo y Zúñiga; infine, perso il favore reale a causa di
questa sconfitta, passò a militare per i francesi e infatti nel 1516 lo troviamo appunto al
servizio dei franco-veneziani, incaricato della fortificazione delle rive dell’Adda, essendo
questa una delle misure prese dai predetti alleati per contrastare l’imminente, anche se poco
efficace discesa in Italia dell’imperatore Massimiliano alla testa di 30.000 alemanni, svizzeri e
fuorusciti italiani. In sostanza, le predette scelte corsare del Navarro non depongono per un
uomo particolarmente versato in mine ossidionali e in ingegneria militare in generale e
rendono quindi ancora più credibile che la futura resa del Castel dell’Ovo di Napoli sarà in
realtà dovuta all’opera del di Giorgio di Martino e che il Navarro se ne attribuirà indebitamente
il merito.
Come abbiamo già detto, lo scavo della mina, cioè d’un forno o fornello, ossia camera di
scoppio, sotto le mura nemiche e del relativo cunicolo, anch’esso sotterraneo, per arrivarci
era competenza non del bombardiero, ma degli ingegneri militari, di cui in un esercito del
tempo non si ritrovavano però più d’uno o due e pertanto succedeva spesso che non si
ritrovasse a disposizione del capitano generale nemmeno una persona pratica delle mine ed
egli dovesse pertanto in un assedio rinunziare a usarle. Sbagliare nel preparare una mina era
cosa infatti molto facile; innanzitutto si poteva sbagliare la valutazione del terreno e trovarsi la
cava allagata da qualche falda acquifera; per evitare questo inconveniente, bisognava prima
esaminare il sottosuolo scavandovi un pozzo o utilizzandone uno preesistente. Si poteva
inoltre sbagliare la profondità, la direzione o la pendenza del cunicolo e ritrovarsi così in un
posto delle fondamenta nemiche diverso da quello prescelto per la mina, oppure più in alto o
465
più in basso di quello; infatti due erano le tecniche di scavo: o si scendeva nel terreno
perpendicolarmente con una gradinata fino a raggiungere la profondità voluta, per poi
procedere orizzontalmente verso il punto stabilito per il forno, oppure verso tale punto ci si
dirigeva degradando man mano nel terreno. Il primo sistema era ovviamente il più facile da
realizzarsi.
Altro difetto della mina poteva essere una debole o in accurata otturazione della porta della
camera, perché in quel caso la violenza dello scoppio sarebbe sfogata da quella parte e non
verso l’alto, come invece doveva; oppure poteva essere debole una delle pareti della camera
a causa magari della vicina presenza d’una contramina scavata dagli assediati, d’un pozzo o
comunque d’uno scavo fattovi in precedenza da qualcuno per caso e anche in tal evenienza
lo scoppio sarebbe andato a sfogare verso la parte debole del forno. Bisognava dunque che
sfogasse invece all’insù e pertanto il cielo del forno doveva essere alto; per lo stesso motivo,
per evitare cioè che sfogasse attraverso la porta, più alto di questa doveva essere lo scanno
sul quale si sistemavano i barili di polvere. Poteva poi succedere che il fuoco della traina, mal
fatta o inumiditasi sotto terra, si spegnesse durante il suo cammino verso il forno o che il
cunicolo della mina, mal puntellato, crollasse.
L’errore più indecoroso per un ingegnere militare era comunque quello di sbagliare la
profondità dello scavo:

… perché non ti venghi a ritrovare o più alto o più basso del dovere, percioché tra tutte le
iatture della guerra due sono di maggior vergogna ed ignominia; la prima lasciarsi perdere
qualche pezzo d’artiglieria, come altrove fu detto, per negligenza e mala guardia, e la
seconda fallar l’effetto della mina. E che sia il vero, ditemi di grazia che maggior infamia può
intravenire all’artefice della mina che quando, dopo’ l’haver lui con tanto dispendio di tempo,
di gente e di danari fabbricato il cavo e dato speranza al suo Principe di fare uno stupendo
effetto con esso ed essendo già lì apparecchiate le compagnie di soldati per dare l’assalto,
dando egli il fuoco alla mina, non si vedesse riuscire l’effetto e venisse a meno il suo intento;
e quanto peggio saria, si come spesse volte si è veduto, che quella offesa che lui preparava
contra il nemico, per esser egli negligente ed inesperto, si convertisse contra di lui e contra
della gente del suo campo (LT. Collado. Cit. P. 207.)

Dunque il bombardiero non doveva assolutamente farsi magari convincere, durante l’assedio
d’una piazza, fortezza o castello, a guidare il lavoro dei minatori o anche degli scarpellini e
spaccapietre impiegati a demolire le muraglie. Durante le guerre di Fiandra, nelle quali, come
abbiamo già probabilmente detto, s’introdussero tante innovazioni tattiche e tecnologiche da
segnare con esse forse il vero passaggio dalla guerra medioevale a quella moderna,
s’usavano, invece dei barili, casse di legname piene di polvere, lunghe 5/6 palmi, larghe 4 e
alte 1 e mezzo, perché per la loro forma era possibile disporle più strettamente, mettendole a
cortello e, ritrovandosi così la polvere più unita, l’effetto era definito meraviglioso. Nemmeno

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le grosse rocce potevano resistere alla forza della polvere, il cui effetto poteva essere
potenziato di più di quattro volte e diventare così stupendo e spaventoso, se vi si fosse
mescolata una buona quantità di argento vivo e di sale armonico (Ib.)
Un ingegnere poteva proporsi due scopi con l’uso della mina; il primo era quello abbastanza
semplice d’arrivare con il cunicolo a sboccare nella controscarpa del fossato, per poi
scendere in questa a lavorare con il piccone contro la muraglia della fortezza nemica, ma ciò
si poteva ottenere anche e più facilmente con un semplice approccio, cioè con una trincea
d’avvicinamento; il secondo era quello proprio della mina, cioè scavare tanto profondamente
da passare sotto il fossato nemico per arrivare alle fondamenta della muraglia e scavarvi così
il forno o camera di scoppio. Se la fossa era piena d’acqua, questo secondo metodo risultava
però estremamente difficile, se non addirittura impossibile,perché l’infiltrazioni d’acqua
avrebbero allagato il cunicolo; bisognava dunque in tal caso prima fare ciò che gli spagnoli
dicevano sangrar la fosa, salassarla, cioè vuotarla dall’acqua, ma anche ciò non sempre era
possibile, soprattutto quando la fossa era alimentata da forti acque correnti o sorgenti:

… come sono quelle che nel nobilissimo regio castello di Milano si ritrovano nelle fosse, le
quali sono ‘sì abbondanti e gagliarde che humana potenza non basterà à seccarle (ib. P.
206.)

Spesso il terreno che s’andava scavando era abbastanza duro o cretoso da non aver bisogno
di puntellamento, ma l’infiltrazioni d’acque sorgive sotterranee erano frequenti e bisognava
quindi scavare nel cunicolo di quando in quando dei pozzi per ricettarle e poi un canaletto
laterale rivestito di coppi di legno e che, di pozzo in pozzo, portasse l’acque sino a un ultimo
pozzo scavato presso la bocca del cunicolo, dal quale ultimo s’asportava poi manualmente
con dei secchi. La traina o sementella per condurre il fuoco sino ai barili si faceva in due
modi; il mastro minatore dell’esercito assediante formava una via d’assi di legno secco sulla
quale si spargeva prima crusca e poi la polvere da sparo e nel frattempo un altro minatore
seguiva coprendo questa via con coppi di legno sempre secco, affinché la riparassero
dall’umidità; oppure la predetta via si poteva fare di canne o di trombe di legno bucate,
facendovi passare dentro uno stoppino artificiato e badandosi che tali trombe fossero a
intervalli bucate, perché il fuoco dello stoppino non soffocasse, e questo era il sistema
migliore.
Durante lo scavo della mina s’usavano vari strumenti di controllo per evitare di prendere
direzioni sbagliate; il bussolo, ossia la bussola, serviva per non sbagliare la direzione dello
scavo; per eseguire cave ascendenti o discendenti s’usava il quadrante geometrico con filo a
piombo o altri strumenti detti sagome, over livelli; infine l’astrolabio con la sua dioptra; per
misurare le distanze s’adoperavano antichi strumenti, alcuni già da noi più sopra ricordati
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perché servivano principalmente per la navigazione, e cioè la balestriglia, il radio greco di
Claudio Tolomeo, il radio latino, l’olometro, l’annello, il planisferio, il cartabone e soprattutto il
bacolo (o baculo) astronomico o bacolo mensorio o anche bacolo di Iacob, come in vari modi
si nominava, strumento questo molto adatto a calcolare le misure in tutte e tre le dimensioni;
ma la descrizione di questi strumenti esula, fortunatamente per noi, dalla materia
precipuamente militare e pertanto non l’affrontiamo, mentre chi fosse interessato ad
approfondirla potrà leggere quanto ne scrive il nostro Collado:

… ed, a un bisogno, ho veduto i soldati misurare le distanzie con tre picche, accommodate in
tal maniera che per la forza de i lor triangoli ottenevano la ragion delle misure. (Ib. P. 223.)

Le mine potevano inoltre esser ideate e scavate in varie forme, le quali prendevano nomi
pertanto diversi, quali per esempio mina a colibre, mina real, mina biforcata, cioè
rispettivamente con cunicolo a zig-zag, a gomito rettangolare e a due punte, quest’ultima per
ottenere due forni sotto la muraglia. Queste tre forme servivano per evitare che, nel caso la
mina sfogasse dalla porta del forno, la violenza dello scoppio potesse arrivare alla bocca del
cunicolo e investire gli stessi minatori e soldati che l’avevano costruita. La detta bocca
doveva poi esser fatta in un luogo che fosse il più coperto possibile dalle archibugiate degli
assediati, perché questi non ammazzassero comodamente la gente al lavoro dello scavo; si
poteva eventualmente ripararla con la stessa terra che si andava cavando.
Gli assediati, se non s’accorgevano visivamente dello scavo della mina nemica in corso
oppure, seppur accorgendosene, non ne capivano la direzione, ponevano sul terreno della
fossa, nei pressi della muraglia, dei normali tamburi di fanteria, sui quali poggiavano cinque o
sei sonaglini d’ottone, di quelli cioè che si costuma di mettere a i cagnuoli piccioli ne i collari
(), oppure, in mancanza di questi dei dadi o anche delle semplici fave secche; pure si
ponevano sul terreno leggeri e larghi vasi di rame o d’ottone pieni d’acqua, come sono bacili
di barbiero ed altri simili, cioè appunto caldare o paiouli (). Se il nemico stava lavorando sotto
terra in quel luogo, entro una distanza di 40 o 50 passi, i colpi di zappa e di piccone
avrebbero fatto suonare i sonaglini, saltare le fave sulla pelle del tamburo, tremolare l’acqua
nei bacili, segnalando così il pericolo agli assediati, i quali dovevano quindi subito passare
alla controffensiva con lo scavo di contramine. La contramina o tagliata era lo scavo d’un
pozzo o d’un cunicolo fatto dagli assediati fino a raggiungere quello della mina nemica, in
modo da farla sventare (‘sfogare’) da quella stessa parte, perché indebolita dal nuovo scavo,
oppure per allagarla, impedendovi così l’uso delle polveri e del fuoco, o anche per riempirla di
fumo, obbligando così i minatori nemici a uscirne precipitosamente, o ancora per assalire
quest’ultimi con le armi in pugno o infine, non potendosi più resistere all’assedio, per far

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fuggire la guarnigione residua della fortezza attraverso la stessa mina nemica, come non
raramente accadeva: Nam sic ars deluditur arte (). Alcune contramine, in forma di pozzi o di
più ampî locali vuoti, si scavavano preventivamente sotto le muraglie del circuito esterno già
quando queste erano edificate, ma con queste opere bisognava andare cauti, perché
ovviamente indebolivano le stesse fondamenta delle mura. I minatori al lavoro a una mina
potevano accorgersi se i difensori andavano contraminandoli usando gli stessi sistemi
suddetti, cioè ponendo tamburi e bacili d’acqua a terra e contro la parete del cunicolo o del
forno dalla parte dove s’aspettavano la contramina: oppure potevano scavare da quella
stessa parte dei pozzi, ponendovi dentro degli uomini esperti di guardia; in ogni caso la
guerra sotterranea era la più terribile e paurosa, dove era facile il morire soffocati, annegati o
sepolti vivi. Nelle notti buie, per cercare di vedere il lavoro del nemico nelle fosse, gli
assediati vi gettavano talvolta dalle mura manipoli di paglia accesi.
Dopo l’esperienza delle guerre di Fiandra le mine vennero però man mano in disuso, perché
d’incerto risultato:

… dico che quel che circa de i cavamenti delle muraglie e distruzione e rovina de’ terrapieni
si potrà fare con il picco(ne), con la zappa e col badile non si dee mai (af)fidar alla incertezza
e fallacia delle mine, non ostante che per mezzo di esse diverse volte si sono essequite
imprese onoratissime (ib.)

Oltre alle vere e proprie mine per far crollare muraglie, rocce e terrapieni s’usavano i
cosiddetti fornelli, cioè piccole mine superficiali da far scoppiare sotto i piedi degli assalitori,
soprattutto negli scontri per difendere le opere di difesa esterne alla muraglia (cioè quelle che
gli antichi romani chiamarono procastria e più tardi procestria), quali per esempio i rivellini.
S’usavano correntemente anche i petardi, grossi vasi esplosivi che s’attaccavano alle porte
delle città assediate per sfondarle, e sembra che fossero stati usati per la prima volta – come
del resto anche le già ricordate salsiccie alla francese - dagli ugonotti in Francia nel terzo
quarto del Cinquecento durante le guerre di religione che sconvolsero quel regno.
Con una mistura tipo quella che descriveremo per le pignatte, laddove diremo dell’uso dei
fuochi artificiati nella guerra marittima, si poteva preparare il fuoco terminato o fuoco a tempo,
cioè un fuoco a scoppio ritardato; per ottenerlo lo s’accendeva a mezzo d’uno stoppino
d’archibugio preservato nel modo già descritto per le mine, essendosi però calcolato in
precedenza quanta lunghezza di stoppino si bruciava nell’unità di tempo, per esempio e
verosimilmente un palmo all’ora. Ma i soliti ingegneri tedeschi avevano già inventato anche la
bomba a orologeria:

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Un altro più bello ed artificioso modo di dar fuoco a tempo si vede adesso, il quale
nuovamente si è ritrovato in Alemagna; quest’è un istromento fatto a modo d’un orologio le
cui moglie (‘molle’) sono fatte in modo che, arrivato il termine d’un quarto o di due quarti o di
un’hora o di due hore o di quel tempo che piace all’operante, spara una moglia maestra e,
toccando quella a una pietra focaia, ne cava il fuoco infallibilmente e, ritrovandosi quivi del
polverino, subito piglia il fuoco artificiale del sacchetto (ib.)

Il sacchetto suddetto era una bomba di forte tela imbevuta a caldo d’un liquido fatto di pece
comune, cera e trementina e anche questa empita, una volta raffreddatasi, della stessa
mistura usata per le pignatte.

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Capitolo XVIII.
Il trasporto e il posizionamento.

Per il trasporto e il sollevamento delle pesanti canne d’artiglieria s’usavano efficaci macchine
di vario genere e innanzitutto il carrino o berro, cioè il carrello a due ruote piccole e timone,
fatto di legno forte e ben ferrato e tirato da coppie di cavalli; su questo carrello s’attaccava la
coda o calcio della cassa ruotata della bocca da fuoco da trainare, trattenendovi la chiave di
legno della coda stessa a mezzo d’un grosso perno o chiavigione. Un conduttore cavalcava
uno dei due cavalli armato di frusta a più code; ma è interessante leggere il de Biringuccis a
proposito di questo tipo di traino che al suo tempo, cioè all’inizio del Cinquecento, ancora
s’usava tradizionalmente soprattutto a trazione umana:

… si mette sotto (alla coda della cassa) uno caretto con due rotette, acciò che la tenga
suspesa da terra, e s’attacca il funichio alla cathena che metteste da’ piei (cioè una catena
attaccata a un anello di ferro posto sul calastrello estremo della coda) e con una chiavarda si
ferma la coda del carro sopra al carretto e fassi tirare il funichio. (V. de Biringuccis. Cit. P.
117r.)

Per quanto riguarda invece la trazione animale, con il vecchio sistema medioevale pre-
carolino si tirava direttamente la cassa senza alcun carrello aggiuntivo:

… Se con buovi o buffali, si mette un timone solo alla chiavarda del mezzo ed alla punta del
timone s’atacca alli buovi il primo giogo ed al funichio segue d’attaccare il resto; e, se con
cavalli, vi s’adatta due timoni, uno per banda, ed uno cavallo entra in mezzo; da poi s’attacca
il canape a uno oncino del timone e passa per il collar del primo cavallo a uno a uno o a due
a due; con questo ordine ve ne potete attaccare quanti n’havete bisogno, acciò che
facilmente la tirino, con li quali, più che con altro animale, con prestezza e facilità a luoco
dove vuolete si conduce. (Ib.)

Ma c’erano altre macchine da trasporto e da spostamento, quali la liscia, la bancaccia, il


carro matto e il martinetto o martinello; la prima, detta anche lissa, strugia, struggia e in
Fiandra torno, era in effetti una slitta molto robusta, fatta di grossi assoni, sulla quale si
trasportava la bocca da fuoco approfittando d’un terreno piano e pantanoso, quindi scivoloso,
oppure ghiacciato o anche, soprattutto, coperto di neve:

… del che ne ho fatta la esperienza più d’una volta e segnatamente l’anno 1589, ritrovandomi
al castello di Milano con ordine della Maestà Cattolica di haver da cavare di quel luogo
sessanta pezzi di artiglieria grossa, di quella che ordinariamente quivi si getta, e mandarla a
imbarcare a Savona da condor in Spagna; che vedendo io la difficultà che mi rapresentava
l’haver un brazzo di neve per tutta la campagna ed esser il condurla sopra delle casse e
ruote cosa difficilissima e di assai più grossa spesa, me ne risolsi di condor li pezzi dal

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castello per insino al naviglio, dove me aspettavano le barche da imbarcarla, sopra delle
liscie sodette; del che ne cavai una esperienza credo io non mai vista né praticata, perché
posso dir con verità che con soli tre para di bovi ne conduceva, sdrucciolando sopra di quella
neve, li cannoni di batteria da 55 e da 60 lire (‘libbre’) di palla e con una incredibile
prestezza… È finalmente ‘sì importante ed utile questa machina che mi bastaria l’animo di
passar qualunque pezzo di artiglieria per(sino) di sotto de l’acqua (LT. Collado. Cit. P. 238-
239).

Arrivati al naviglio, le summenzionate 60 bocche da fuoco furono imbarcate su normali


barche fluviali, sottili e leggere, ma molto rinforzate per l’occasione. I buoi potevano
ovviamente esser sostituiti da muli o da cavalli in due o tre paia, secondo il peso da
trascinare; con cavalli grossi e possenti, come quelli, famosi, di Frisia si otteneva il trasporto
più veloce e quindi tali animali erano preferibili in tempo di guerra; mancando però d’ogni tipo
d’animale, s’usava la trazione umana. Il numero dei cavalli da impegnare ovviamente variava
secondo il peso della canna d’artiglieria, della razza degli animali, del terreno e della
stagione; in Francia e nell’Europa centrale s’usava comunque impiegare generalmente due
grossi cavalli per ogni mille libbre di peso da far slittare.
Sostituto della liscia sul terreno piano era, ma con svantaggio, il carro matto (‘carro piano’;
fm. blockwagen), cioè un robustissimo carro a 4 ruote e privo di sponde e di fondo, sostituito
quest’ultimo da un paio di robustissime traverse d’appoggio sulle quali adagiare l’artiglieria da
trasportare, inoltre generalmente fornito di ruote d’un sol pezzo e alte appena un braccio,
sebbene forti e ben ferrate, sul quale si trasportavano legati le bocche da fuoco senza casse,
per preservare così le loro ruote quando il viaggio fosse lungo e aspro. Si faceva lungo a
proporzione della più lunga canna d’artiglieria che si prevedesse di dover trasportare:

… però non è ‘sì fermo né sicuro né ‘sì presto come la liscia, perciò che, per la bassezza ed
acutezza delle ruote del carromatto, ogn’hora si cacciano le ruote in terra e nella fanga, di
modo che con gran difficoltà si può cavar fuora… E non solo questa commodità si gode della
liscia, però ancora della molto maggior prestezza, perciò che mi bastaria l’animo di collocar
prima due pezzi d’artiglieria sopra della liscia che non uno solo sopra del carromatto… (ib.)

Ne vediamo un bell’esempio nelle figure delle pagg. 139 e 141 del trattato del Lechuga.
Verso il 1600 però al carromatto s’affiancò il carrettone, macchina da trasporto che differiva
dal primo solo per avere le 4 ruote molto alte e robuste e particolarmente ben ferrate, il che
doveva certamente rendere il trasporto su carro molto più spedito. Altro strumento atto non a
sollevare, bensì ancora a spostare l’artiglieria, anche se ora solo per un brevissimo tratto, era
l’argano a manovelle o a stanghette (fr. ghinda), definito dal solito Collado instromento
notissimo a ogn’uno; in effetti si trattava del tipico argano navale, corredato da funi e pulegge,
con cui si poteva per esempio tirare o trascinare su una salita erta e aspra una canna
d’artiglieria poggiata su una delle lisce sopramenzionate. Le pulegge o carrucole avevano in
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Italia differenti nomi e cioè potevano esser chiamate ruzelle o mazzaprede (‘ammazzapreti’,
per il motivo già più sopra spiegato) o taglie over polige (ib.)
Passando ora alle macchine da sollevamento e cioè alla capria, il martinetto o vite, l’argano,
la leva, la scaletta e la taglia, comunissima era la prima, detta anche cabria o capra o cavra,
in effetti una semplice piramide sollevatrice fatta di robusti pali e che agiva per mezzo d’un
sistema a torni (‘martinelli, arganelli’), pulegge, stanghe e corde, strumento attissimo a
incavalcare e disincavalcare le bocche da fuoco, ossia a incassarle e discassarle (da cui il
np. scassare, nel senso di rompere), così come lo era stato l’altro detto la bancaccia o
bancazza o anche quello detto la scrofa o la porca, ossia una sollevatrice a vite, anch’essa
abbastanza comune; pure comunissima era la cosiddetta scaletta, strumento di sollevamento
che stava tra la capria e la scrofa ed era basato su un sistema a stanghe ferrate e perni di
ferro; infine macchine di sollevamento a più girelle o carrucole, anche a 4, erano le taglie o
menali, anche queste molto adoperate. Il Sardi a questo proposito scriveva:

Gli strumenti per inalzare le artiglierie in poca altezza… ben che possino essere molti e vari,
nondimeno fra tanti solo pare a me che questi due, scaletta e capra, sieno i più facili, più
spediti e comodi; sono facili a farsi e, se per disgrazia si rompessero, sono facilissimi a rifarsi
come composti di semplici legni e pochi… (P. Sardi. Cit. P. 131.)

Ma lo strumento per quei tempi più stupefacente - e pertanto allora anche più prezioso - era il
martinetto, nome al quale è stato poi preferito in Italia il francesismo ‘cricco’ (fr. cric):

… instromento veramente attissimo, artificiosissimo e molto nobile per l’effetto di alzar pesi.
Fu invenzion delli valent’huomini tedeschi, che non solo questa hanno ritrovato, ma molte
altre sottilissime ed artificiose. Formasi il martinetto della (‘dalla’) vite perpetua, che, per
esser cosa difficile, non si mette qui in figura; però (‘perciò’) basta a dire di questa macchina
che non solo è artificiosa ed utilissima, ma si può dir che sia miracolosa, perciò che cosa
meravigliosa appare che un huomo con una sola mano possa levare un cannon de batteria di
otto o nove milla lire sottili di peso ed una colubrina di tredeci o quattordici milla, ‘sì come
ogni dì si vede per esperienzia (LT. Collado. Cit. P.19r).

Particolarmente utile era il martinetto per sollevare la bocca da fuoco da terra in modo da
poter magari inserire dei tavoloni sotto le sue ruote o per disimpegnare queste da qualche
difficile intoppo. A volte bisognava tirarne una su un alto torrione (vn. torrazzo) e allora
s’usava mettere in opera sulla torre stessa un torno oppure un argano, in caso di una canna
piccola, ma, in caso di una grossa, un torno e un argano accoppiati.
Concludiamo l’argomento dei trasporti con la fabbricazione dei ponti fluviali, i quali
interessavano ovviamente tutto l’esercito e non solo l’artiglieria, ma dagli ingegneri di questa
erano progettati. Il ponte più usato era quello fatto di barche affiancate l’una all’altra per tutta
la larghezza del fiume e sulle quali si fabbricava una strada di tavolato; un esercito ben
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preparato doveva quindi portarsi dietro in campagna un buon numero di queste barche,
possibilmente già con il loro pezzo di tavolato inchiodato sopra, e alcuni pratici barcaioli per la
loro manovra. Il tavolato, fatto di spessi assoni, s’inchiodava su grosse travi o alberi a loro
volta già inchiodati sulle barche nel senso della lunghezza di queste; varate le barche nel
fiume, si passavano poi due lunghe e grosse gomene negli anelli posti a prua e a poppa di
ognuna di queste, perché si tenessero più sicuramente insieme, e i capi di esse si legavano a
grosse stacche o pali di rovere o d’altro legno forte piantate profondamente nel suolo delle
due sponde del fiume; la gomena posta a monte del fiume doveva essere più grossa perché
ovviamente da quel lato il ponte era più travagliato dalla corrente ed essa si chiamava la dura
madre, mentre l’altra, posta a valle, la pia madre, termini evidentemente poi adottati
dall’anatomia. In caso di forte corrente le barche si potevano pure ancorare sul fondo del
fiume e su una delle sponde si potevano mettere in opera due forti torni o argani ai capi delle
due gomene per tenderle o allentarle secondo la violenza dei flutti, per evitare così che si
spezzassero. Per evitare poi che uomini, animali o artiglierie potessero cadere nell’acqua
durante il passaggio, si potevano porre per tutta la lunghezza delle alte sbarre laterali, le quali
avrebbero anche rinforzato ulteriormente il ponte. Particolarmente largo e forte fu il ponte-
batteria galleggiante che nel 1453 all’assedio di Costantinopoli l’emiro Maometto (poi
Maometto II) fece costruire da una flottiglia di brigantini (gr. αϰάτια) nell’estuario del Corno
d’Oro e la cui travatura poggiava su una teoria di grandi chiatte (grb. ἀγγεῖα) affiancate; su di
essa i turchi spinsero una grossa bocca da fuoco con la quale, coadiuvati da galee,
cominciarono a battere le mura nemiche da quella parte (Giorgio Franzes, cit. LT. III, par. III).
Un secondo tipo di ponte allora usato, più facile questo da trasportarsi e più maneggevole,
era un forte telaio di legname che andava da una sponda all’altra del fiume e che conteneva
grossi botti da vino ben imbitumate, impeciate e legate in sequenza, il tutto poi ricoperto da
assoni inchiodati su detto telaio e che costituivano quindi il piano del ponte come nel tipo
precedente; anche con questo tipo di ponte si potevano far passare persino le più pesanti
canne d’artiglieria. Un terzo modo di ponte, il quale, secondo il Collado, sarebbe stato usato
in tempi anteriori al suo, era formato da quarti di barca trasportabili anche a spalla dai soldati;
questi quattro pezzi, costituiti da figure solide, ossia chiuse da tutti i lati e ben imbitumati, si
riunivano poi attaccandoli con rampini di ferro a formare un galleggiante chiuso appunto a
forma di barca. Famoso era rimasto l’errore di valutazione fatto dagl’ingegneri di Carlo V
quando, avendo montato un ponte di barche sul fiume Albis in Germania per farvi passare
l’esercito dell’imperatore, ci si accorse che era troppo corto e mancavano delle barche a
completarlo; rimediarono all’errore dieci soldati spagnoli, i quali, con le spade alla bocca e le
rotelle alle spalle, passarono il fiume a nuoto, s’impadronirono d’alcune barche del nemico
attestato sulla riva opposta, dopo averne ucciso le guardie, e tornarono rimorchiandole a
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nuoto, permettendo così a Carlo V di completare il ponte, di far passare il suo esercito, di
battere il nemico in battaglia sull’altra sponda del fiume, prendendo prigioniero il duca di
Sassonia, uno cioè dei massimi capi dei protestanti, e di mettere così fine vittoriosamente
guerra.
Negli alloggiamenti militari di campagna l’artiglieria aveva, per motivi di sicurezza, un suo
particolare quartiero trincerato dentro l’alloggiamento generale e includeva gli alloggiamenti
dei guastatori e di tutte le maestranze con i loro strumenti e attrezzi da lavoro. Se l’esercito
alloggiava per una sola notte, detto quartiero si proteggeva con recinto formato dai carri delle
vettovaglie e dei materiali di provvisione, polveri escluse naturalmente, le quali si ponevano
invece al centro, guardate dai gentiluomini dell’artiglieria, dai bombardieri, dagli alabardieri
etc. Se invece bisognava trattenersi in un luogo di campagna per più tempo, allora si
circondava detto quartiero di fossato e trincea, il primo largo e profondo almeno sette piedi, la
seconda ben costruita, ma ciò dipendeva anche da quanto fosse vicino il nemico e in effetti
queste norme prudenziali valevano in genere per tutto l’alloggiamento dell’esercito e non solo
per il quartiero dell’artiglieria, come il lettore potrebbe leggere in un capitolo che fosse
dedicato appunto agli alloggiamenti militari del tempo. La forma del predetto quartiero poteva
essere quadrangolare o circolare e doveva per esso esser preferito un luogo eminente, se
disponibile; bisognava che attorno gli si lasciasse abbastanza piazza, ossia spazio libero, in
modo da permettere, in caso di necessità, alla fanteria di scaramucciarvi per difenderla. I
carri delle polveri v’andavano tenuti circondati da altri carri lontani l’uno dall’altro solo quel
tanto che fosse sufficiente a far passare un uomo; a essi, come del resto anche alle bocche
da fuoco minori, tenute in posizione già cariche a difesa del quartiero stesso, i soldati
archibugieri di guardia non potevano avvicinarsi a meno di 50 passi per evitare che qualcuna
delle loro micce accese mettesse fuoco alle polveri provocando un disastro. Se il campo era
ossidionale, le canne minori s’impiegavano anche aldilà del recinto dell’artiglieria e cioè a
difesa delle trincee e degli approcci. Perché la pioggia non ne bagnasse le polveri, le bocche
delle canne cariche si tenevano piuttosto basse e per lo stesso motivo se ne tenevano i
foconi molto ben coperti.
Di notte la guardia del quartiero dell’artiglieria non si dava ad armati d’arma da fuoco per ovvi
motivi di sicurezza e s’affidava quindi invece a picchieri e alabardieri, i cui capitani dovevano
essere molto vigilanti che nessun estraneo s’accostasse a quel luogo, perché per un nemico
o anche per una spia o un traditore, tipi d’uomini che anche a quei tempi abbondavano,
sarebbe stato facile dar fuoco alle polveri e compromettere così tutta l’impresa. Poiché, come
abbiamo già detto, gli eserciti dell’epoca, specie quelli della corona di Spagna, erano
multinazionali, le compagnie di guardia all’artiglieria si sceglievano di solito tra quelle
tedesche, perché queste avevano quel servizio in altissima considerazione e lo svolgevano
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con molto impegno e massima attenzione; ciò avveniva sin dai tempi di Carlo V, come narra il
Collado:

È… la guardia dell’artiglieria di tanta qualità ed importanza che nelli esserciti della Maestà
Cesarea di Carlo Quinto imperatore mai si fidava questa guardia di gente di altra nazione che
della spagnuola sola; e li tedeschi che servivano in quel tempo, come gente il cui intento fu
sempre di esser fideli e che giurano fedeltà a i lor principi quando si assoldano al servire, se
riputavano a ingiuria il non esser ammessi a quella guardia. Per il che si risolsero di non
servire, mentre che non fussero accettati a far quella guardia, ‘sì come alla gente spagnuola
si concedeva. Il che inteso dall’imperatore e da’ suoi luogotenenti generali e che l’intento de’
tedeschi era di ben servire e procedeva di (‘da’) un certo punto di fedeltà e di honore, gli fu
concessa a loro quella guardia finalmente, ‘sì come ancora si accostuma il dì d’hoggi… Cosa
(che) fu veramente giusta e correspondente alla fedeltà tedesca ed io ho havuto molto caro
l’intender l’origine di questa usanza. (Ib. P. 313.)

Inoltre i tedeschi, anche quando non erano artiglieri professionisti, generalmente ne capivano
un po’ tutti, come spiegava invece il Lechuga:

... Non disponendosi di artiglieri a sufficienza, si cercano quelli che mancano tra i soldati,
essendo più certo trovarli tra i tedeschi, perché in tutte le città di quelle province è esercitato il
tiro con le artiglierie. Costoro lo fanno per interesse, come del resto anche gli altri (tedeschi);
è gente che ha bisogno di esser pregata, pagata, accarezzata e non castigata... (Cit.)

È probabile però che la guardia all’artiglieria comportasse un particolare soprassoldo e che i


mercenari tedeschi, notoriamente interessati al danaro più che a qualsiasi altra cosa, non
sopportassero di vederselo negare. In Francia per gli stessi motivi s’affidava agli svizzeri e,
ma solo quando questi mancavano, ai tedeschi; era stato Carlo VIII a inaugurare quest’uso in
Italia dopo che, durante il passaggio degli Appennini, gli svizzeri avevano sempre trainato a
forza di braccia le artiglierie nei passi più difficili, cioè laddove i cavalli non potevano esser
utilizzati (A. de la Chesnaye. Cit.). Ma in effetti, aldilà della ipocrita favola che lo
considerassero un incarico particolarmente onorevole e di fiducia, mercenari svizzeri e
tedeschi avevano un chiaro interesse economico a far la guardia alle artiglierie e ciò perché
s’era diffuso l’uso che, nel caso il principe straniero per cui combattevano alla fine, trovandosi
a corto di denari, non li pagasse, essi si prendevano appunto le sue artiglierie a titolo di
risarcimento; così fecero, per esempio, gli svizzeri di Carlo VIII di Francia quando questi, nel
1495, se ne tornò sconfitto dalla campagna d’Italia senza pagarli (D. Malipiero, cit. P. 398). In
effetti anche i francesi ne ricavarono così il vantaggio di non doversi ritrascinare indietro le
pesanti bocche da fuoco nei valichi alpini
In marcia l’artiglieria doveva essere scortata davanti, di dietro e ai fianchi dalla cavalleria
leggera; la strada doveva esserle spianata davanti, indurita con fascine, legni e sassi ricavati
dalla picconatura delle rocce, mentre le depressioni profonde dovevano essere riempite con
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legname tagliato da boschi e selve. Questi lavori di preparazione della strada erano eseguiti
dall’ordinanze di guastatori, cioè di villici manovali che appunto precedevano i traini
d’artiglieria durante la marcia e che dunque erano d’estrema importanza nel procedere d’un
esercito in campagna:

… Guastatori, che non si può negare che questi non siano le mani de gli eserciti, quando
sono ubbidienti e ben pagati (LT. Collado. Cit. P. 314.)

Ecco un’ordinanza delle autorità senesi a doppia firma datata 13 marzo 1552:

Due sottoscritti habbino autorità di ordinare commissari a comandare guastatori per Grosseto
e per le spianate da farsi per l’artigliarie da mandarsi a Grosseto, comandar perciò carri e
bufali e bovi e per decti effetti possino commettar pagamenti fin trenta scudi d’oro.
Claudio Tolomei e messer Bernardino Buoninsegni. (A. Angelucci. Cit.)

Il capo dei guastatori doveva anch’egli esser un uomo molto pratico e esperto soprattutto di
leve, perché era frequente che i suoi uomini dovessero aiutare il traino dell’artiglieria
attraverso passi e sentieri erti e accidentati; doveva esser anche uomo di gran autorità e
ascendente perché guidava una genia di gente perlopiù arruolata a forza e quindi molto mal
disposta e inaffidabile:

… E perché egli è solito servirsi di contadini, la maggior parte de’quali, perché vengano
comandati, faranno (‘arruoleranno’) per forza, oltre a che i più sono insensati e vili e alcuni
maligni e ignoranti, però (‘perciò’) bisogna che sia molto accorto, perché questi tali alle fazioni
(‘ai lavori’) si nascondono e alcuni, nel muovere le fila ritengono (‘trattengono’) le loro bestie;
alle quali cose potrà riparare se i maligni farà gastigare col bastone e con la corda e gli altri
metterà in opera secondo il lor sapere e potere, faccendoli sopratutto rassegnare (‘passare in
rassegna’) spesso e dar loro il pane e l’altre cose necessarie acciò non habbiano lecita scusa
di rammaricarsi. (Antonio Lupicini, Architettura militare etc. P. 81. Firenze, 1582).

Egli doveva esser sempre ben informato del cammino che l’esercito fatto il giorno seguente in
modo da anticiparsi il più possibile il lavoro di fargli aprire le strade necessarie, specie se si
trattava d’un cammino soggetto a possibili incontri con il nemico; doveva far molta attenzione
alle strade con curve a gomito, perché impacciavano molto le fila delle bestie legate,
rischiando di farne voltare un tiro all’indietro in qualche luogo dove risultasse difficoltoso farlo
raddrizzare, impedendo così la strada agli altri traini seguenti. Per evitare questi gomiti,
doveva quindi preferire condurre i suoi traini attraverso i campi, a costo di far lavorare molto
la sua gente a spianare ciglioni, a riempire fossi con fascine o altro, ad assicurare ponti non
molto robusti etc. Doveva poi dare aiuto agli artiglieri magari impegnati a trainare le loro
bocche da fuoco su strade in salita, facendo attaccare due canapetti alle bande all’affusto o
del carro e mettendo a tirare file di guastatori o di soldati, cosa molto preferibile all’attaccare

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altre bestie a tirare, perché per questo ci voleva molto tempo e poi lunghe file di bestie, a
causa della curvosità dei poggi, ossia delle strade in salita, non potevano operare; arrivati poi
alle discese, per evitare che le bestie prendessero improvvisamente la corsa con morte
d’uomini e degli stessi animali, come a volte era avvenuto, doveva far razzare una o tutt’e
due le ruote dei carri, cioè le faceva fiancheggiare da un uomo che teneva un bastone
inserito tra le razze per evitare che si mettessero a girare troppo velocemente; se poi un
traino di bestie si metteva a procedere di sbieco perché magari così portato dalla strada,
allora faceva attaccare un canapetto all’incontro e così, trattenendoli da lì, si evitata che gli
animali si girassero; insomma doveva in questi casi difficili chiedere che si mettessero ai suoi
ordini carreliers o charretiers (‘carrellieri, affustieri, carrozzieri’), char(ret)tons o charrons o
lymonniers o voituriers (‘conducenti’), mastri d’ascia, pungolatori di bestie e simili.
I guastatori marciavano nel seguente ordine; la prima squadra era di tagliaboschi armati di
scuri, la seconda di falciatori armati di falcini e il cui compito era di sminuzzare la legna, di
legarla e farne fascina (corr. di frascina, da frasca o da frassino); la terza di spaccapietre (tlt.
spezalapides) armati di picconi di ferro, mazze, cunei e altri non meglio identificati strumenti
detti dal Collado stanghetti over chiavicchioni da piccar e spezzare con essi i sassi e scogli ();
la quarta di zappatori armati di pale, badili, zappe, zapponi, pistoni da calcare, gerle (zerli),
ceste, sporte, barelle e carriole per il trasporto della terra e del frascame da usare per
terrapienare ossia empire fossi o per eguagliare passi cattivi o paludosi, coprendo questi
infine con tavoloni di rispetto per evitare che le ruote dell’artiglierie vi affondassero dentro.
Dalla seconda metà del Cinquecento troveremo costituite talvolta vere e proprie compagnie
di guastatori, nuclei ai quali s’aggiungevano poi contadini e sterratori reclutati via via in
campagna secondo le esigenze del momento; per esempio nel 1625 il treno d’artiglieria delle
Province Unite dei Paesi Bassi disponeva, oltre a una compagnia di minatori, generalmente
leodiesi, appunto anche di una di 50 guastatori con capitano, luogotenente, due caporali e un
tamburo, prodromo quindi di quello che poi sarà il genio militare, alla quale, marciandosi in
campagna, s’aggiungevano 30 sterratori fissi e talvolta una o due altre compagnie
straordinarie di guastatori. Si riunivano in compagnie regolate anche i conduttori di carri,
invece di assoldarli a diaria, provvedendoli persino di un cavallo personale, di pistole da sella
e di un trombettiere (lt. tubicen; grb. σαλπιγϰτής,βομβαύλιος, poi anche βομβύλιος) quasi
fossero cavalleria, mentre si continuerà per secoli a requisire a diaria i carri da trasporto nel
contado.
I guastatori dovevano essere in numero proporzionato all’impresa che si andava a compiere
ed erano generalmente pagati l’equivalente di un giulio e più il giorno o tre scudi di Spagna il
mese per uno, secondo il tempo in cui s’aveva bisogno d’essi, con un capo che si pagava 10
scudi; se erano molti, pur non essendo dei militari i guastatori si riunivano in compagnie da
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100 uomini formate in modo militare e comandate da un capo o soprastante; nei grandi
eserciti tutti erano soggetti a un capitano maggiore con un vero e proprio suo stato maggiore;
ogni trecento di loro si pagava con 20 scudi mensili un capitano che li governasse e
comandasse e poi ogni cento un soprastante a scudi 6 che li facesse lavorare con diligenza.
Questi lavoratori si desideravano possibilmente boemi, moravi e lusaziani per esser i pedoni
di quei popoli costoro ritenuti adattissimi a quel tipo di lavoro e molto poco a quello di fante,
essendo perlopiù dei poveri villani ingaggiati a forza, anzi erano, com ei chioggiotti nel
Veneto, considerati ottimi soprattutto per questo ruolo, come ricordava nel 1559 Leonardo
Mocenigo nel punto della sua già ricordata relazione in cui trattava appunto del regno di
Boemia:

… È popolatissimo e soleva haver buonissimi fanti, ma ora sono tenuti i peggio soldati di
Germania né vagliono se non per guastatori, e in questo essercizio sono conosciuti eccellenti
e il re Filippo (II di Spagna) nella guerra passata ne ricercò 3.000 a Sua Maestà ed ebbe
licenza di levarli. (E. Albéri. Cit. S. I, v. VI, p. 89.)

Più tardi, nel 1574, il giudizio sarà confermato dal residente veneziano Giovanni Correr nella
sua relazione di Germania del 1574, a proposito appunto del regno di Boemia:

…Da questo regno e stati adherenti Sua Maestà (ora Massimiliano II) potria cavar in un
bisogno prestamente 8.000 cavalli armati di corazza e pistole a uso di Germania; della
fanteria non si tien conto, essendo reputati più tosto buoni per guastatori che per soldati. (Ib.
Pp. 166-167.)

Anche i pedoni tedeschi erano valenti guastatori, come scriveva Federico Badoero nella sua
relazione di Spagna del 1557. Il Lechuga consigliava guastatori volontari perché, scriveva,
quelli arruolati a forza erano sempre pronti a disertare, non appena cioè si fossero ritenuti
vittime di qualche ingiustizia nella suddivisione del loro lavoro, e pertanto la loro sorveglianza
era costosa; bisognava pertanto suddividerli in turni di lavoro, diurni e notturni, e gratificarli
spesso con del cibo aggiuntivo non dovuto, quali pane, vino o birra.
I guastatori dovevano esser dotati d’una propria insegna che li unisse e li guidasse sotto
buona scorta d’archibugieri a spianare il cammino all’artiglieria e a tutti gli altri impedimenti
dell’esercito in marcia; dovevano esser provvisti di pale, zappe, picconi, accette e barelle o
ceste di vimini per trasportare il terreno:

… e (si) farebbe bene di pagarli sera per sera, se però fusse possibile, poiché, non essendo
gente d’honore, come è la gente da guerra, si partono senza licenza ed a piacer loro né
guardano d’incorrere in pena o risico della vita né di sconciare grandemente uno essercito
(Francesco Ferretti, Della osservanza militare etc. Pp. 42-43. Venezia, 1568.)

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Nel 1546 nell’esercito che Carlo V conduceva in Germania c’erano 2.500 guastatori dividi in
due corpi, di cui il maggiore, quello cioè di 1.500 uomini, aveva il seguente stato maggiore:

2 alabardieri del detto capitano maggiore.


Cancelliere o scrivano.
Alfiere.
Tamburo.
Piffero.
Prevosto con 6 birri.
Furiero.
Barbiero o chirurgo.
Cappellano.

I guastatori vi percepivano 4 fiorini mensili ciascuno, mentre un capo di compagnia ne


prendeva 10 e il capitano maggiore 150.
All’ordinanze dei guastatori seguivano i carri che portavano gli strumenti per incavalcare,
sollevare, tirare e spostare l’artiglieria dei quali abbiamo appena detto e completi di tutti i loro
cordoni, pulegge, stanghe, calastre, cavalletti, scalette, etc. A questi carri seguiva l’artiglieria
minuta, detta di campagna in quanto era quella che s’usava in battaglia campale, e cioè
falconi, falconetti, sagri e quarti cannoni, e poi quella grossa, detta di batteria in quanto
serviva a battere e abbattere le mura nemiche, ossia mezze colubrine, colubrine, cannoni,
mezzi cannoni ed eventualmente petrieri; tra queste seconde bocche da fuoco viaggiavano
pure altri dei predetti strumenti da incavalcare e sollevare, pronti a rimettere sulle loro casse
le canne che ne cadessero o a raddrizzare quelle che si rovesciassero durante la marcia.
Ovviamente, data la strettezza dei cammini del tempo, mentre si lavorava per reincavalcare
una bocca da fuoco caduta, tutti gli altri che seguivano erano costretti a fermarsi e ad
aspettare e dietro d’essi il resto dell’esercito; d’altra parte, se tanti aspettavano, l’aiuto alla
canna in difficoltà ne risultava più sollecito.
Accanto a ogni grossa canna marciavano il suo bombardiero e il suo aiutante, pronti a
spingerla, tirarla, sollevarla nei mali passi, muniti di sego per ungerne frequentemente le teste
delle ruote e di secchie di cuoio piene d’acqua per bagnarle prontamente quando da queste,
surriscaldate dal grosso peso in moto, cominciava a uscire del fumo; questo principio di fuoco
era, soprattutto d’estate, incidente comune e giornaliero in un treno d’artiglieria in marcia e
bisognava intervenire subito se non si voleva vedere andar a fuoco l’intera cassa della canna.
In mancanza d’acqua il bombardiero si portava dietro secchie ignifughe di cuoio piene della
sua propria orina, di quella dei compagni e dei cavalli, oppure cercava di spegnere il fuoco
soffocandolo con polvere di terra; se poi non riusciva a spegnerlo così, allora bisognava che
prendesse subito il martinetto – tenuto per questo sempre a portata di mano – e con doveva
togliere subito la ruota dall’assale; ma soprattutto la frequente e accurata unzione dell’assale
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con il sego avrebbe sia preservato questo e le ruote dal fuoco sia alleggerito di molto il peso
del traino a buoi e cavalli.
Seguivano ancora i carri delle polveri e munizioni, delle armi di riserva della fanteria e della
cavalleria e tutte le maestranze, tra cui barcaioli, marinai e calafati con le barche per i ponti e
tutte le altre innumerevoli attrezzature e genti dell’artiglieria. Infine, in caso si sospettasse di
poter essere assaliti dal nemico durante la marcia, s’usava condurre alla vanguardia o alla
retroguardia dell’esercito - o ad ambedue - un paio di canne di campagna cariche e pronte a
sparare.
L’artiglieria di campagna, quella cioè dalle 12 libbre in giù secondo l’uso introdotto da Carlo
V, si poneva in combattimento in genere alla fronte, tra uno squadrone di fanteria e l’altro, e,
nel caso d’un unico squadrone, ai fianchi di questo. Se poi il campo di battaglia era dominato
da un’altura, allora era ovviamente molto conveniente che l’artiglieria fosse posta lassù, da
dove poteva colpire il nemico molte volte senza correre rischio immediato d’esser
conquistata, cosa che invece avveniva in campo; infatti, quando si ponevano alla fronte,
raramente i cannoni riuscivano a sparare un secondo tiro, perché primo compito d’un esercito
in battaglia era proprio quello d’assalire l’artiglieria della fronte nemica per impedirle il
secondo colpo. Quest’artiglieria frontale era sì difesa da archibugieri, ma essi si dovevamo
tener lontani almeno 100 passi per evitare il pericolo di dar fuoco alle polveri con i loro micci
accesi, e poi, ciò che è di più, quando, sparato il primo colpo, il nemico correva ad assalirla,
questi archibugieri, per difenderla, erano costretti a interporsi tra essa e gli assalitori e a
questo punto i cannoni non potevano più sparare, perché altrimenti avrebbero gli amici
quanto i nemici. Quest’uso d’assalire immediatamente l’artiglieria frontale del nemico era
particolarmente osservato dalle soldatesche tedesche, perché questa nazione era infatti
quella che al mondo dava più importanza all’artiglieria, sia nel gittarla sia nel combatterla sia
nel farle la guardia.
Se si giudicava un’altura adatta a piazzarvi su l’artiglieria, subito si mandava cavalleria
leggera a occuparla e poi anche fanteria perché non se ne impadronisse prima il nemico; poi
vi si portava su dell’artiglieria più leggera per tener a bada col suo fuoco il nemico, in modo
da dar tempo di condurvi anche l’artiglieria più grossa e pesante; arrivata quest’ultima,
l’artiglieria più piccola si ritirava subito per poterla utilizzare in altri punti del campo di
battaglia. I luoghi a cavaliere, ossia elevati e dominanti l’esercito o la fortezza del nemico, i
quali erano stati detti anche bastioni (e fu bisogno farvi certi bastioni che soperchiavano detto
castello. Cristoforo da Soldo, Istoria bresciana etc. In LT. A. Muratori. Cit. C. 840, t. 21) prima
che questo termine cominciasse invece a esser usato impropriamente nel senso di baluardi,
erano talmente utili come postazioni d’artiglieria da farci subito pensare che una qualsiasi
città o castello signoreggiato da poggi, colline o montagne debba esser stato costruito prima
481
dell’invenzione dell’artiglierie da sparo, a meno che nell’alto Medioevo non si temessero
altrettanto quelle antiche da getto, allora ancora le uniche esistenti:

Questi luoghi alti e superiori alle fortezze gli spagnoli pratichi domandano ‘padrastros’, che
altro non vuol dire che padregni, e meritatamente, perché li padregni e le madregne, anco di
zuccaro, non sono buone ‘sì come volgarmente il proverbio dice; e che peggior padregno o
più crudel nemico può haver qualunque fortezza che essergli superiore e d’appresso qualche
eminenzia più alta di essa, dove… piantata l’artiglieria nemica, con alcuna industria humana
non se gli può impedire l’offesa. (LT. Collado. Cit. P. 217.)

In mancanza di luoghi elevati naturali, per battere una piazza nemica dall’alto se ne potevano
costruire di artificiali e quindi gl’ingegneri militari dovevano saper edificare argini e cavalieri o
montoni, cioè difese fatte di terra, fascine e travi, sulle quali preparare una piattaforma per
l’artiglieria e dominare così le opere di difesa degli assediati; il profilo di questi cavalieri non
era verticale, bensì a scarpa, come si diceva allora, e l’inclinazione di tale scarpata
comunemente usata era quella d’un braccio ogni cinque d’altezza. Lo strato esterno del
bastione doveva essere più duro perlomeno per 12 braccia, che tanta era al massimo la
profondità di penetrazione che poteva raggiungere nella terra smossa una palla di cannone;
questa durezza s’otteneva alternando uno strato di fascine ogni tre di piote, cioè di zolle
erbose di prato, il tutto retto da una struttura di lunghi travi legati o incatenati tra loro; in
mancanza di teppe di prato si potevano usare lotte, cioè mattoni d’argilla cruda, oppure
semplice creta o terra grassa cribbiata, inumidita, molto ben calcata e pestata con pestoni di
legno. Questa struttura si lasciava così per qualche tempo a fare il callo, cioè ad assumere
compattezza, e poi s’incamiciava di fabbrica, ossia di muratura, se ce n’era il tempo e
l’opportunità, con contrafforti, oppure, se non si voleva sostenere la spesa d’una simile opera
di muratura, si piantava della gramigna su tutta la superficie esterna del bastione e di lì a
pochi mesi si sarebbe ottenuto uno strato esterno durissimo e resistente per molti anni a
tutte le intemperie, anzi più tempo sarebbe passato e più la crosta di gramigna si sarebbe
ispessita e quindi rinforzata; ma naturalmente, ciò significava aver messo in conto un assedio
di lunga durata e, poiché nessun esercito assediante si augurava questo, ma anzi sempre
cercava di costringere la piazza nemica a cadere quanto prima era possibile, quasi sempre si
rinunziava a rivestire i cavalieri di campagna con quest’ultima crosta finale. Notevole poi,
come sappiamo da qualche rarissimo manoscritto di architettura militare,.che i materiali
terrosi ed erbosi arrivassero sul luogo di lavoro raccolti in grosse gerle tenute sul capo da
teorie di donne (lt. sarcinatrices) arruolate nei dintorni e raccolte in compagnie dai cosiddetti
caporali di donne (così nacque infatti quel bifronte fenomeno del caporalato ancor oggi
esistente nelle campagne).

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Le batterie di difesa degli assediati si stabilivano in posti elevati e arretrati rispetto alla
muraglia per poter così sia dominare la campagna sia far passare i loro proiettili al di sopra
della propria moschetteria posta ai parapetti; esse, poiché servivano generalmente di gran
fronte, cioè più ampie di quelle ossidionali da breccia, si facevano di 8, 10 o anche di 12
bocche da fuoco disposte in un fronte alquanto lunato in modo da poter agire anche
lateralmente. Si potevano porre ancora più in alto costruendo cavalieri sull’interno delle
cortine e talvolta anche sui baluardi, ma in tal caso ci sarebbe stato posto per un minor
numero di bocche da fuoco. Nelle piazze basse dei baluardi se ne formavano poi altre più
piccole, sia per numero di bocche da fuoco sia per calibri, e servivano a difendere il fossato e
le brecce e a contrastare gli assalti e le mine del nemico; ma per esser più precisi in questa
materia dovremmo addentrarci inevitabilmente in quella delle fortificazioni, argomento che
non è tra i temi di questa trattazione.
E poiché abbiamo fatto cenno alle piattaforme, parleremo ora di queste e diremo che le
batterie di campagna si formavano appunto su piattaforme di legname per evitare che le
ruote delle pesanti bocche da fuoco sprofondassero nel terreno. Queste piattaforme di
campagna ovvero pagliuoli, da non confondersi con quelle di fabrica, cioè di pietra, che erano
invece un elemento costitutivo delle cinte fortificate o degli assedi di lunga durata, si
potevano costruire di due tipi; il primo, detto appunto anche pagli(u)olo, era un letto d’assoni
o tavoloni spessi tre oncie, tessuto e inchiodato su un altro di travi grossi invece cinque oncie,
il legno da usarsi dovendo essere naturalmente il più forte disponibile e quindi rovere o
castagno oppure olmo nero, ecc. Il secondo era invece fatto di brecciame e cemento. La
lunghezza ideale d’una piattaforma d’artiglieria ottimale era da due volte e mezza a tre volte e
un terzo la lunghezza della canna d’artiglieria più lunga da usarsi, cominciandosi però a
misurarla, come si doveva, dal focone, ma ovviamente bisognava attenersi allo spazio di
volta in volta disponibile, facendola quindi, se del caso, anche più stretta di quanto appena
detto. La larghezza doveva essere, per ogni canna, da una volta e mezza a due volte e un
quarto la lunghezza della bocca da fuoco a cui doveva servire, in modo da dar spazio a
serventi e cannonieri per le operazioni di servizio e per evitare che una canna sparata desse
fuoco a un’altra collaterale.
Varie erano le opinioni riguardo all’inclinazione delle piattaforme e alcuni le volevano inclinate
all’indietro sia per favorire la rinculata della canna sia per coprire maggiormente i bombardieri
e le bocche da fuoco stesse dai tiri del nemico; altri le domandavano invece inclinate in avanti
di circa un piede e mezzo per alleggerire il traino di ritorno della canna in barba, cioè al
fronte, e per farlo rinculare di meno allo sparo in maniera da poter fare il pagliuolo più corto
all’indietro e quindi meno costoso; altri ancora le volevano orizzontali a partire dal fronte sino
all’estremità posteriore della cassa della canna e invece in salita per il rimanente retrostante,
483
cioè per la lunghezza d’una cassa e mezza. I primi sbagliavano perché la pendenza
all’indietro avrebbe reso faticosissimo il riportare la canna sparata al fronte e inoltre il tiro
avrebbe assunto maggior elevazione del voluto; i secondi anche sbagliavano perché la
pendenza in avanti avrebbe provocato il difetto opposto e cioè avrebbe conferito al tiro minor
elevazione del voluto e in aggiunta le ruote avrebbero patito di più per il maggior sforzo; ma
nemmeno consigliabile era la terza soluzione, perché la bocca da fuoco facilmente si sarebbe
fermata all’inizio della salita senza quindi avvantaggiarsi poi d’alcuna naturale trazione in
avanti, e inoltre la maggior altezza della parte posteriore della piattaforma avrebbe costretto
sia le canne sia i cannonieri a lavorare più scoperti ai tiri del nemico, come abbiamo detto
anche a proposito della prima soluzione. In sostanza forse la piattaforma migliore era quella
perfettamente orizzontale, ma comunque ognuno decideva di farla secondo le sue
convinzioni e le esigenze contingenti.
Il fronte delle piattaforme era riparato dalle cannonate nemiche da gabbioni o cestoni, cioè
dal rimedio più comune, utile e spicciativo usato allo scopo nella guerra di terra, così come le
balle e i materassi di lana lo erano in quella di mare. Gli altri tipi di ripari di terra, quali
bastioni, argini o trincere, erano di lenta e laboriosa fabbricazione e i ripari di muratura, quali i
parapetti, anche se intervallati da feritore (tlt. archeriae, arbal(l)isteriae; cstm. saeteras; fr.
embrazures) o troniere erano pericolosissimi a causa delle schegge di pietra che da quelli i
colpi dell’artiglierie nemiche facevano schizzar via addosso a bombardieri e serventi così
ferendoli e ammazzandoli frequentissimamente. Questi gabbioni erano in effetti dei grossi
cesti cilindrici pieni di terra e potevano esser semplici o doppî, ossia più grossi del normale;
quelli semplici misuravano dai cinque agli otto piedi di diametro e dai sette ai dieci d’altezza; i
doppî avevano otto piedi di diametro ed erano alti otto o nove. Per costruirli si cominciava con
delineare per terra una circonferenza, per esempio di 24 piedi, e poi a ogni piede si bucava il
terreno con un palo di ferro acuto; nei 24 buchi si piantavano 24 stacche di legno della
grossezza d’un braccio d’uomo ed erano quelle sulle quali si tesseva poi il gabbione con
fascine intorchiate di rami o vimini verdi di nocella, castagno, rovere o salice; mentre si
tesseva, un uomo batteva di sopra le stacche con una mazza per mantenerle ben assestate.
Volendosi fortificare il gabbione, gli si piantava in mezzo un palo tenuto da traverse di legno
andanti da un lato all’altro del gabbione stesso. Finita la tessitura, il gabbione s’empiva di
terra cretosa o renosa, comunque pesante come quella delle teppe di prato che s’usavano
per costruire i terrapieni fortificati; la terra era però prima accuratamente crivellata per evitare
che, colpita dalle palle di cannone nemiche, da essa potessero partire come proiettili
pericolosi sassolini; poi, inumidendola e pestandola con pistoni di legno per ammassarla,
s’introduceva nel gabbione; invece della terra, si poteva usare la sabbia sottile o anche si
poteva riempire questi gabbioni di sacchetti di tela pieni appunto di terra o di sabbia. Era
484
questo un lavoro delicato da fare con attenzione, evitando dunque i terreni ghiaiosi e sassosi,
perché era molto comune che bombardieri e soldati restassero feriti da sassi schizzati via da
opere di fortificazione fatte senza criterio; proprio così, cioè da un sasso partito da una
trincea colpita dall’artiglieria nemica, restò per esempio ucciso il principe d’Orange, generale
di Carlo V, all’assedio che questi aveva posto alla città di Saint Dizier in Francia:

… Questo medesimo inconveniente si vedette sopra di Novarino, terra del Turco, quando con
l’armata della Lega l’assaltò il serenissimo sig. don Giovanni d’Austria, fratello del re Filippo
di Spagna, che, non avendo commodità di gabbioni né materia di che potergli fabricare, i
bombardieri piantarono di quelle botte da portar vino su le galere e le empirono di giara
(‘ghiara’) grossa, ‘sì come la trovarono in quella marina, dove, percotendo poi le palle
dell’artiglieria della terra (‘città’), ammazzarono e ferirono molti uomini dell’armata nostra (Ib.
P. 184).

I cestoni si ponevano ai due lati della canna d’artiglieria, ma molto stretti, in modo da
proteggerne la cassa e gli uomini e da far spuntare tra di loro solo la bocca della canna; quelli
semplici si mettevano di solito in linea doppia, cioè ponendone per ogni lato due affiancati e
un terzo davanti a questi, nel mezzo, a formare un triangolo. Di quelli maggiori, detti doppî di
materia per distinguerli dai predetti doppî di numero, se ne poteva porre anche uno solo per
fianco, ma a condizione che fossero assai più grandi di quelli semplici. Mentre gli assedianti
usavano palle di ferro per battere la dura e compatta muraglia nemica, per danneggiare la
loro gabbionata e le altre difese ‘morbide’ della batteria agli assediati conveniva usare le più
piccole e penetranti palle di piombo, oltre che bersagliarle con mitraglia di pietra e di ferro e
con fuochi artificiati.
In mancanza di gabbioni s’usavano stuoie di sparto terrapienate, sacchetti pieni di terra o
teppe di prato, sacchi di lana, questi ultimi considerati il migliore di tutti i ripari di fortuna,
graticci, balle, stramazzi o sacchi pieni di fieno macerato, di paglia minuta bagnata, di letame,
di alga, di sgarza o segatura che dir si voglia; e ancora - disponendosi di materiali d’armata
marittima – si potevano utilizzare vele, materassi, strapuntini di passeggeri di navi, schiavine
di forzati, gomene, rotoli di corda sericata (‘filata’) di grosso sparto (…ϰόρδας μεταξωτὰς
παχέας σπαρτίνας εʹ. Costantino VII, De ceremoniis aulae bzyantinae. II. 45) o di canapa.
Che ll miglior modo di ripararsi un po’ dalle palle d’artiglieria, le quali tutto sfasciavano o
penetravano fosse preparare dei ripari di sacchi di lana, bambagia o fustagno pressato era
un espediente già conosciuto nel Quattrocento, come leggiamo nel lt. VII del De rebus
turcicis di Laonikos Kalkokondilos (δοϰεἳ δἐ ϰἀπειδάν τι αὐτᾦ ἀντέχῃ τότε δἠ μάλιστα
ϰαθιϰέσθαι ἐπὶ ϰλέον͵ ἐπεὶ ἒς τε ϐαμβαϰα ϰαὶ ϰρόϰην ϰαὶ τὸ ἒριον οὺϰ ᾂν οὓτω ϰαθίϰοιτʹ ᾂν
ἐπὶ πολύ) e poi anche nel lt. VIII, a proposito delle difese che la guarnigione di Bisanzio
approntava contro il rovinoso battere delle grosse artiglierie messe in campo dall’assediante

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esercito turco (... ἀπὸ τοῦ στρατονέδου στεγάσματα πίλοις λευϰοἵς τε ϰαὶ ἐρυθροἴς
παρασϰενασάμευος), intendendosi qui ‘per ammassi di lana bianchi e rossi’ lana di pecora e
lana di montone.
Si ricordava inoltre l’assedio di Castel Nuovo di Cáttaro in Dalmazia (tr. Nova) del 1539,
dove, gli spagnoli, per ripararsi dalla vera e propria pioggia di palle dell’artiglieria ottomana,
avevano fatto ripari persino con i cadaveri degli stessi turchi.
La batteria era quell’insieme di bocche da fuoco, per lo più cannoni, piazzato di fronte a una
muraglia nemica appunto per ‘batterla’ fino a produrvi una breccia dalla quale si potesse poi
entrarvi all’assalto; il numero delle sue bocche andava generalmente da 4 a 6 e infatti nel
Quattrocento i veneziani la chiamavano quintana, perché allora perlopiù formata da cinque
bocche da fuoco, cioè come saranno poi quelle della prua delle galere; ma grandi batterie
erano divise in più camerate da 4 bocche ognuna, anche tre, sparandosi
contemporaneamente i cannoni di ogni camerata per un maggior effetto d’impatto sulla
muraglia nemica e susseguendosi le camerate al fine di ottenere un fuoco pressoché
incessante; in genere la batteria si piazzava al margine della fossa che circondava la
piazzaforte nemica o anche più indietro, ma comunque molto vicina al bersaglio perché lo
colpisse quando i suoi proiettili avevano ancora traiettoria orizzontale e quindi più violenta;
non bisognava però che stesse tanto vicina da esser a tiro d’archibugio, perché in tal caso
gl’imberciatori nemici n’avrebbero decimato i bombardieri sparando dai parapetti delle cortine
e dei baluardi. La distanza ottimale dalla muraglia da battere era considerata quella che non
superasse i 200 passi geometrici; una distanza inferiore a questa sarebbe risultata troppo
pericolosa per la sicurezza degli artiglieri, perché sarebbero stati troppo facilmente bersagliati
dal nemico e oggetto delle sue sortite. La distanza utile massima andava invece dagli 800 ai
1.000 passi andanti, arrivandosi anche ai 1.200 nel caso si sparasse a due o tre punti di
elevazione, oltre il qual limite il tiro avrebbe cominciato a indebolirsi; nel caso si fossero usate
colubrine invece di cannoni la distanza massima poteva ovviamente essere aumentata a
2.000 e più passi andanti. Naturalmente le bocche che servivano non a battere la muraglia
bensì a mettere fuori uso le soprastanti difese degli assediati dovevano esser poste molto più
indietro della batteria e il più in alto possibile, cioè dove si potessero ben vedere quei
bersagli.
Poiché nelle fortezze moderne generalmente l’argine della strada coperta faceva alla
muraglia da difesa esterna, nel senso che la copriva nascondendola alle artiglierie degli
assedianti, bisognava scavare strada alla batteria nell’argine stesso sino a farla sboccare sul
ciglio della controscarpa; in quella posizione s’aveva così un doppio vantaggio, non solo si
batteva comodamente il nemico e gli s’impediva da quella parte, oltre il coprirsi, anche il

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riceve soccorsi, ma si poteva utilizzare stessa terra scavata dall’argine per coprire e
difendere la propria batteria.
Batteria si chiamava anche il luogo della muraglia battuto dai cannoni e quindi la breccia che
s’andava allargando; questa, a detta degli esperti, doveva essere larga almeno tanto da far
passare nove assalitori di fronte. Il punto da battere era discusso dal consiglio degli ufficiali
generali dell’esercito assediante; in genere, oltre alle motivazioni di carattere occasionale e
incidentale, ossia a eventuali particolari deficienze costruttive o difensive, erano presi in
considerazione i punti deboli del circuito fortificato, i quali erano quelli da poco costruiti, dove
cioè i materiali non avessero avuto ancora il tempo di far presa, quelli con terrapieni troppo
stretti e quindi con debole appoggio, quelli al contrario troppo deboli rispetto alla massa del
terrapieno da contenere, quelli che non offrivano agli assediati lo spazio adatto e sufficiente a
potersi costruire delle ritirate e coperture in caso di bisogno, infine quelli che nei paesi freddi
erano esposti a settentrione, perché il vento gelido faceva macerare e rendeva debolissimi i
tratti di muraglia che batteva. Scelto il punto da battere, il generale dell’artiglieria e i suoi
ingegneri sceglievano il luogo di fronte in cui piazzare la batteria di bocche da fuoco,
ammesso però che nel frattempo l’esercito assediante si fosse tanto avvicinato con gli
approcci alla fortezza nemica da averne raggiunto la fossa. La batteria, secondo le esigenze
particolari, poteva essere costruita allo stesso livello del suolo, oppure interrata oppure
elevata di tre o quattro o più piedi sul suolo, in modo che i suoi tiri passassero sicuramente al
disopra delle trincee e degli approcci che magari gli stessi assedianti stavano scavando più
avanti, e per fare tale elevazione si utilizzava la stessa terra tratta dal fossato da difesa che
nelle batterie d’assedio fisse si scavava loro davanti; naturalmente nelle batterie trasferibili,
cioè quelle che s’avanzavano man mano che avanzavano gli approcci e le trincee, tale
fossato non si scavava né si facevano elevate o infossate e ci si limitava a difenderne bene il
fronte con gabbionate. Le batterie interrate, di solito di un 3 o 4 piedi, servivano generalmente
a sparare a fior di terra
Le parti costitutive principali d’una batteria erano, oltre alle bocche da fuoco, la spianata in
pietra oppure in terra sulla quale, se in terra, sarebbe poi stata posta la piattaforma di
legname già descritta, i parapetti di fabrica, ossia di muratura, o la trincera davanti alle
bocche da fuoco, se c’era stato il tempo di costruire queste opere, altrimenti le sole
gabbionate; se si costruiva il parapetto bisognava che questo, come del resto qualsiasi altro
riparo, non fosse tanto largo da non potersi difendere con la picca in caso di sortita degli
assediati e che fosse alto quanto l’assale della cassa delle canne d’artiglieria retrostanti, cioè
la metà delle ruote. I guastatori, i soldati e i bombardieri costruivano la batteria lavorandovi di
notte per rischiare il meno possibile d’esservi uccisi dall’archibugiate degli assediati; frattanto,
fervendo i lavori, si provvedeva a tenere sotto continuo tiro le difese esterne e interne delle
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mura nemiche con continua moschetteria o anche, da più lontano, con colubrine e mezze
colubrine e ciò sia per proteggere i guastatori che lavoravano alla batteria, togliendo così ai
difensori la comodità di tirare su di loro tranquillamente, sia per smantellare dette difese onde
poi subire in seguito meno perdite durante l’assalto della breccia; di notte l’uso continuo della
moschetteria e magari anche di qualche tamburo potevano inoltre aiutare a coprire il rumore
dei guastatori al lavoro e così impedire che i difensori gli scoprissero. Far lavorare i soldati in
mancanza di un numero sufficiente di guastatori non era difficile quando si trattasse di uomini
che accettassero di essere pagati per farlo, quali erano per esempio, i tedeschi e i valloni; ma
non conveniva adoperarli per lavori d’assedio perché l’inevitabile numero di morti e feriti così
riportato avrebbe ovviamente indebolito l’esercito.
Distruggere le difese degli assediati significava soprattutto mettere fuori uso le loro bocche da
fuoco disincavalcandole, ossia facendole cadere dai loro letti o casse, che dir si voglia, o
imboccandole, vale a dire colpendoli alla bocca e così sboccandole, ossia rovinandole, e
ucciderne i preziosi bombardieri; ma bisognava farlo in maniera significativa, perché
altrimenti non si fermava l’uso della canna, come racconta per esempio il Guicciardini del
grosso passavolante pisano Il bufolo, da noi già menzionato, il quale durante l’assedio di Pisa
del 1499, benché sboccato dai normali passavolanti degli assedianti fiorentini, continuò a
tirare e colpire tanto efficacemente la batteria nemica da costringere Pagolo (‘Paolo’) Vitelli,
capitano generale dei fiorentini, a rinunziarvi (Storia d’Italia). Distruggere le difese significava
inoltre sboccare o abboccare anche le tronere o bombardiere, cioè le cannoniere, il che
voleva dire allargarne l’apertura fino a renderle inservibili, rovinare i parapetti, uccidere i
cannonieri e i loro aiutanti e decimare gli archibugieri e i moschettieri che sparavano dalle
mura; quest’azione doveva essere incessante, non bisognando dare agli assediati tempo e
respiro per riparare dette difese con gabbionate o balle di lana e materassi né per tirare a sé
le rovine della breccia e ripulirne la fossa per evitare la formazione d’una scarpata di detriti
sulla quale gli assedianti sarebbero poi potuti salire agevolmente all’assalto, formazione sulla
quale soprattutto questi appunto contavano e che soprattutto aspettavano; non s’usava infatti
ormai quasi più salire sulle mura nemiche appoggiandovi delle semplici scale o delle torri
d’assedio, tecniche che erano state invece quelle consuete prima dell’invenzione della grossa
artiglieria d’assedio. L’assalto andava dunque rimandato a quando tali rovine non fossero più
tanto erte da salirsi, perché altrimenti l’azione sarebbe risultata ancora più sanguinosa per gli
assalitori.
Naturalmente i bombardieri della batteria dovevano anch’essi preoccuparsi di proteggere
dalle palle nemiche sé stessi e i le loro bocche da fuoco e pertanto, oltre ai gabbioni,
cercavano di chiudere il più possibile le loro bombardiere, cioè gli spazi tenuti aperti tra
gabbioni e gabbioni, utilizzando allo scopo spessi tavoloni e grossi rami d’albero, al fine di
488
lasciare appena lo spazio per far spuntare la bocca della loro canna; si tentava cioè di
ripararsi il più possibile sia dalle palle d’artiglieria lanciate dalla controbatteria organizzata
sulle mura degli assediati con l’intento d’imboccare o di scavalcare le canne della batteria
nemica sia dalla fitta grandine di pallottole sparata dai moschettoni da posta anch’essi istallati
sulle mura.
I cannoni della batteria dovevano essere dalle 12 libbre in su e dovevano sparare a
camerade, vale a dire dovevano sparare contemporaneamente quelli d’un gruppo e poi
immediatamente dopo quelli d’un altro gruppo, perché la forza d’impatto esercitata sulla
muraglia nemica da più palle contemporaneamente era ovviamente molto più efficace di
quella di palle tirate, anche continuamente, ma una alla volta. Alcune palle dovevano
intronare la muraglia, ossia colpirla ad angolo retto per indebolirla e sconquassarla il più
possibile; ma poi altre la dovevano invece colpire a sbiescio, ossia trasversalmente, tagliando
così la materia già indebolita e scollata, dai tiri diretti, facendola così precipitare. A leggere
però il Sardi, sembrerebbe l’inverso e cioè che prima si tagliava la muraglia per indebolirla e
poi la si faceva cadere battendola di fronte; provare per credere! In ogni caso si batteva
orizzontalmente con i cannoni e si facevano invece le tagliate trasversali con quarti e mezzi
cannoni o con mezze colubrine; in generale con le bocche da fuoco medio grosse – cannoni
e colubrine – si facevano da cinque a otto tiri all’ora, rinfrescandole ogni 8/10 tiri, e
s’ottenevano così da 45 a 70 tiri il giorno per canna, mentre con quelle inferiori si poteva
arrivare sino a 120 tiri giornalieri sempre per canna.
Ma da che tipi di bocche da fuoco doveva in effetti essere costituita una batteria d’assedio?
Dipendeva naturalmente dalla robustezza della muraglia che s’aveva di fronte, ma,
generalmente, occorrevano cannoni ferrieri dalle 45 alle 60 libbre di palla per intronare la
muraglia, cioè, come abbiamo già detto, per dissestarla con la forza d’urto dei loro grossi
proiettili; colubrine da 24 a 30 libbre per tagliarla, perché le loro piccole, ma violente palle
facessero gran passata, ossia penetrassero profondamente e trasversalmente nella muraglia
già indebolita facendola, come abbiamo già spiegato, crollare; infine quarti cannoni, sagri e
mezze colubrine per ridurre al silenzio le difese degli assediati. Nonostante queste belle
regole teoriche, per praticità si cercava però generalmente di disporre di canne il più possibile
dello stesso calibro per non aver poi difficoltà a reperire i proiettili per ogni tipo di canna ed
essere costretti a passarli continuamente prima attraverso le filiere; inoltre in una batteria le
canne d’artiglieria finivano per essere in gran parte sboccate dai tiri del nemico e quindi la
difficoltà di capire subito la palla giusta aumentava. Molti poi, per esempio il Lechuga, erano
contrari all’uso di colubrine nelle batterie, anche se da usarsi con cariche più potenti di quelle
adoperate con i cannoni, perché il loro peso le faceva rinculare pochissimo, nemmeno un
paio di piedi, il che significava che, per tornare a caricarle, bisognava o doverle tirare
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ulteriormente all’indietro, abbastanza cioè da poter inserire attrezzi e palle dalla bocca,
oppure dover uscire fuori dalla troniera e andare a fare questo lavoro allo scoperto davanti ai
cestoni, con ciò esponendosi completamente ai colpi degli archibugieri nemici, i quali
soprattutto questo aspettavano per uccidere più artiglieri nemici possibile e così indebolire
l’esercito assediante; d’altra parte usare pezzi troppo leggeri significava un rinculo eccessivo
e quindi un maggior lavoro per riportarli al loro posto. La scelta migliore e più condivisa,
spiegherà più tardi il Porroni, era dunque quella dei cannoni rinforzati:

… conciosiache (rispetto ai cannoni ordinari) questi resistono più al tormento dello sparo,
fanno maggior rovina e minore rinculata; è però (‘perciò’) molto più facile a ritornarli al suo
luogo doppo scaricati… (A. Porroni. Cit. LT. VI, p. 312.)

Naturalmente questi vantaggi che, nell’uso di batteria, si ottenevano dai cannoni rinforzati
rispetto a quelli ordinari erano, a causa del loro maggior peso, pareggiati dal maggior
imbarazzo che ovviamene davano nel trasportarli. Particolare attenzione bisognava dedicare
al luogo in cui porre le polveri della batteria e al modo in cui si dovevano coprire perché
eventuali faville portate dal vento non l’accendessero; la soluzione migliore era interrarle in
buche scavate sopravvento rispetto ai propri cannoni. Il capomastro della batteria doveva
riconoscere, cioè esaminare, le sue bocche da fuoco a ogni alba e a ogni mezzanotte con
una lanterna, doveva cioè soprattutto controllare i foconi delle varie canne uno per uno,
perché il nemico, approfittando dell’oscurità, sarebbe magari potuto venire nascostamente a
inchiodarli, a incugnare le palle o a fare qualche altro danno, come per esempio a guastare le
polveri. Doveva chiedere licenza di cominciare il fuoco prima che facesse giorno e ciò sia per
lavorare delle ore al fresco del primo mattino sia per preservare maggiormente le canne dal
surriscaldamento, il quale era ovviamente peggiorato dal calore del sole e dall’alta
temperatura atmosferica dell’estate. Doveva cercare inoltre di non lasciare mai le ruote delle
bocche da fuoco non in batteria a contatto con il terreno, perché l’umidità le avrebbe fatto
marcire, e bisognava dunque porvi sotto dei tavoloni o almeno girarle ogni tanto per cambiare
il punto di contatto.
Per offendere il nemico dalle mura d’una fortezza l’artiglieria si poteva usare in tre modi e
cioè in barba, il che significava facendone sporgere le bocche al di sopra d’un semplice
parapetto, oppure attraverso apposite aperture praticate nella muraglia e dette cannoniere o
tronere, infine, in mancanza delle predette opere in muratura, riparandola con gabbioni; ma il
discorso dell’artiglieria da fortezza ci porterebbe immancabilmente a quello delle fortificazioni
militari e, come già detto, non è questo certo il luogo per trattare una materia anch’essa tanto
complessa.

490
Capitolo XIX.
Lo stato, il treno e la scuola dell’artiglieria.

Prendendo per esempio quelli della corona di Spagna, certamente la più potente del secolo
decimo sesto, descriveremo ora lo stato dell’artiglieria del tempo, cioè la lista degli uomini
che ne facevano parte e della quale il generale dell’artiglieria, una volta definitasi, doveva
dar copia al capitano generale dell’esercito; inoltre lo stesso generale doveva dare ai
provveditori generali dell’esercito un’altra lista, comprendente questa tutte le munizioni, le
macchine e gli altri materiali in dotazione all’artiglieria e inoltre quelle munizioni e quei
materiali di rispetto che, pur essendo di pertinenza della fanteria e della cavalleria,
s’affidavano all’artiglieria in custodia e per il loro trasporto:

… e questo secondo che la Maestà Cesarea del massimo Imperator Carlo V usava pagare in
tutte le guerre di Africa, Italia, Alemagna, Francia, Gueldre ('Fiandra’) ed Ungheria ed oggidì il
christianissimo e potentissimo Filippo II Re di Spagna paga ne i suoi esserciti a quei che
servono nello Stato dell’Artiglieria; il quale Stato per fino adesso non si ha notizia che si sia
mai con tanto ordine e grandezza amministrato da nessun altro principe cristiano come da
questi due che havemo detti (LT. Collado. Cit. P. 321).

Aggiunge il Collado di descrivere il predetto stato perché gli altri principi cristiani possano
esserne informati appieno e prenderne quindi esempio, anche se ovviamente non tutti
saranno erano poi in grado di sopportarne la spesa; un treno d’artiglieria, se includeva anche
batterie d’assedio, rappresentava generalmente un quarto della spesa necessaria
all’approntamento e mantenimento d’un esercito in campagna. Non riporteremo
compiutamente l’entità degli emolumenti, perché variabile nel tempo e nei luoghi e anche per
non appesantire troppo questo discorso; ci limiteremo pertanto a quelli che meglio possano
far comprendere al nostro lettore la differenza d’importanza dei ruoli.
Il generale dell’artiglieria (td. Arckeleymaster; in. master of artillery; fr. grand maître de
l’artillerie, ma ai suoi inizi nel Medioevo grand maître des arbalêtriers)) andava rispettato e
ubbidito come la propria persona del Principe:

… a lui tocca la provisione delle piazze (‘posti’) e darle e levarle a suo arbitrio, assegnare il
soldo, accrescerlo e sminuirlo secondo il merito di ciascheduno; a essolui ancora tocca il
pigliar la mostra (‘rivista’) a tutti, procurar danari e fare i pagamenti, con intervenzione però
de gli ufficiali del principe che sono il contatore dell’artiglieria, veditore e pagatore di essa (ib.)

Per quanto riguarda il peso politico che il generale dell’artiglieria poteva assumere nell’ambito
d’un esercito in campagna, il Collado è molto esplicito sull’importanza dei natali nella carriera
militare del tempo:
491
La precedenzia del carico del general dell’artiglieria sempre è stata secondo la qualità della
persona, cioè che, essendo egli di progenie nobile nato, si può metter al paragone di
qualunque altro huomo di carico supremo che sia nell’essercito, eccetto però il (Capitano)
Generale, il quale precede di grado a tutti. Però (‘perciò’), se’l general dell’artiglieria sarà
ignobile, ma che per sola sua virtù e valore sia pervenuto al carico di generale, quivi deve
concorrere la sua prudenza e discrezione a non pretendere altra maggior precedenza di
quella che si conviene, acciò che non sia tenuto per huomo prosontuoso e arrogante (ib.)

Erede del praefectus fabrum degli antichi romani, il generale dell’artiglieria doveva essere,
oltre che un buon comandante, anche un tecnico intendente d’opere militari, poiché da lui
dipendevano l’artiglieria propriamente detta, gl’ingegneri militari, i minatori, i guastatori,
marinai e pontonieri, mastri d’ascia e falegnami, legnaiuoli (lt. calones, dal gr. ϰἂλον, ‘legno’),
rotieri (fr. rouiers) carrari, ferrari, ingrassatori (fr. haringers) e altre maestranze; egli cioè
comandava tutte le attività tecniche, incluse quelle per agevolare la marcia dell’esercito e
quelle per fortificarne le posizioni. In guerra Carlo V pagava nel 1546 il suo generale
dell’artiglieria, allora lo stimatissimo milanese Gian Giacomo Medichini (1497-1555)
marchese di Marignano, 200 scudi spagnoli il mese, mentre in tempo di pace la paga si
riduceva di molto e in misura variabile secondo la qualità della persona, in genere a 100
scudi al tempo di Filippo II; nel 1587, come riportava il già citato Bonifazio Antelmi, Georg
Manrich, generale dell’artiglieria dello stato di Milano, prendeva in tempo di guerra 140 scudi
mensili, di cui 100 di piatto, ossia di provvisione fissa, e 40 di servizio bellico, mentre al suo
stesso tempo Karl von Mansfeld, generale di quella di Fiandra, ne percepiva ben 500 mensili
più un extra annuale di 1.200 fiorini di Fiandra. Oltre al suo stipendio il generale
dell’artiglieria, pur non godendo in genere mai di specifici diritti e regalie, nel corso delle
maggiori guerre europee del Cinquecento aveva sempre ricevuto in regalo parte della preda
di guerra, quando si fosse presa una terra, una fortezza o un castello del nemico; gli era cioè
per consuetudine sempre toccata una porzione delle artiglierie, armi e munizioni conquistate
al nemico e particolarmente tutti i moschetti e le altre canne della più piccola artiglieria, oltre a
qualche quantitativo di vettovaglie da distribuire tra i suoi bombardieri. Nelle guerre di
Piemonte e Lombardia, se una terra del nemico era stata presa per assalto, s’era usato dargli
anche tutte le bocche da fuoco grosse che si fossero ritrovate rotte dentro in maniera
irreparabile, affinché ne ricavasse un utile per sé vendendone a peso il metallo di cui erano
fatte e che era sempre riutilizzabile per nuove fusioni; al suo luogotenente generale invece,
sempre nelle suddette guerre, toccavano tutte le campane della terra o della fortezza
conquistata, perché queste erano poi immancabilmente trabaldate (‘riscattate’) dagli stessi
terrazzani (‘cittadini di borghi maggiori detti terre, in quanto protetti da terrazzi, cioè da cinte
terrapienate’) con buone somme di danaro e di queste il luogotenente faceva poi limitata
parte ai suoi bombardieri che s’erano più ritrovati e affaticati nella batteria d’assedio e ciò

492
anche secondo il merito e il grado delle persone. In Francia s’usava che egli si appropriasse
di tutte le artiglierie e le munizioni da guerra di una fortezza o di una città presa con la forza e
che poi di tale roba il suo sovrano gli comprasse a un onesto prezzo tutto quello che avrebbe
potuto servire al suo esercito e ai presidi del suo regno. Ecco dunque a seguire l’elenco degli
uffici, ufficiali e maestri che verso l’anno 1600 e in tempo di guerra il generale dell’artiglieria
poteva stabilire, scegliere ed eleggere di sua provvisione, cioè a suo completo arbitrio -
eccezion fatta per ingenieri, petardieri, fuochisti e per il suo luogotenente, i quali erano invece
nominati dal generale dell’esercito, elenco che abbiamo tratto da vari autori tra cui il Pelliciari
e il Lechuga.
Innanzitutto egli aveva le sue lance spezzate, cioè soldati segnalati nei quali confidare per gli
incarichi più delicati e che fossero, scriveva il Ferretti, modesti e discreti, cioè che ben si
distinguessero dagli altri per sensibilità personale [dovendo quelli continuamente solicitare e
tener ben ordinati e conservati huomini indiscreti e rozi (Ib.)]. In relazione alla vastità del suo
parco di bocche da fuoco, il generale richiedeva a quello dell’esercito che gli assegnasse da
uno a tre luogotenenti (ma in Fiandra si era arrivati fino a 4), i quali, quando egli era assente,
avevano la sua stessa autorità di comando; inoltre due o tre ingegnieri di fortificazioni e di
fuochi artificiati, di quelli che già godevano soldo ordinario, e alcune persone pratiche
appunto di fuochi, le quali, secondo la loro personale esperienza e abilità, potevano essere
dei fochisti generici o degli specializzati come granatieri, petardieri, minieri o anche raggieri.
Di sua scelta era poi tutto il resto del personale e iniziamo dai molti gentilhuomini
dell’artiglieria anche una trentina, a ognuno dei quali erano affidati in guardia continua due
bocche da fuoco con i loro relativi attrezzi di servizio e munizioni; in campagna ognuno di loro
era coadiuvato da un conduttore a cavallo, da uno a piedi e da due facchini (detti in Fiandra
hernicurs o harnicurs), impiegati questi nel carico e scarico del materiale e nell’ingrassaggio e
messa in ordine delle artiglierie. Si pagavano 15 o 20 archibugieri a cavallo comandati da un
capo di squadra, i quali erano addetti al servizio del generale ed erano da lui utilizzati anche
per fare scorte o portare avvisi, a ognuno d’essi si corrispondeva la paga di 8 scudi il mese.
Si teneva, oltre agli ufficiali che seguono, un cancelliero, il quale doveva prendere nota di tutti
i danari, le munizioni e altro che i munizionieri, cioè i magazzinieri, dispensavano agli ufficiali
dell’artiglieria per uso e servizio della stessa; questo ufficio di cancelliero era dunque molto
importante per il generale, perché poteva così farsi una ragione di tutte le spese e di tutti i
consumi del suo ministero - e si leva la occasione a i monizionieri di poter defraudare cosa
alcuna delle munizioni (ib.); ma ciò ovviamente quando non fosse disonesto anche lo stesso
cancelliero. Si tenevano poi 8 alabardieri (in Fiandra 6) per guardia della persona stessa del
generale con paga di 4 scudi il mese (ma 6 soli a tre scudi ciascuno nel 1546) e altri due per
ognuno dei suoi luogotenenti; inoltre:
493
Un commissario detto munizioniero maggiore (sp. mayordomo o tenedor de municiones), il
quale avesse il compito di provvedere e di aver cura di tutte le attrezzature e i materiali
dell’artiglieria e tutta la sua gente, con uno o più aiutanti.
Un commissario contabile (sp. veedor o contador), il quale, coadiuvato da uno o più
scrivani, avesse cura dei ruoli, dei registri delle riviste e dei conti dell’entrate e delle spese e
fungesse eventualmente, con compenso a parte, anche da ufficiale pagatore in
mancanza di un pagatore autonomo.
Uno i più commissari o appaltatori di carri e cavalli, con un aiutante ciascuno.
Un commissario della vettovaglia (td. Proviantmeister), il quale fosse provveditore degli
approvvigionamenti di viveri con un aiutante.
Un commissario delle mostre o riviste.
Un luogotenente per ciascono dei suddetti commissari.
Un ufficiale pagatore con un aiutante.
Uno o due interpreti, quando l’esercito fosse, come per lo più era, composto di gente di
diverse nazionalità.
Un trombetta, ossia un trombettiere, per pubblicare i bandi del generale e comandare il
ritiro dei guastatori dai loro luoghi di lavoro.
Un foriero [o fur(r)®iero] maggiore o quartiermastro, il cui ufficio era di distribuire gli
alloggiamenti, con due aiutanti.
Un altro foriero maggiore con il compito di distribuire le vettovaglie, con aiutanti.
Un cappellano perché dicesse ogni giorno la messa al generale e confessasse tutti gli
uomini.
Un fonditore.
Un phisico (‘medico’).
Un cerusico.
Un farmacista
Un barbiero, il quale fosse anche pratico di chirurgia, cioè capace di medicare i feriti, con
un suo aiutante.
2 o 3 artiglieri con due aiutanti ciascuno per ogni grossa bocca da fuoco, facendo attenzione
ad appaiare persone esperte con meno esperte perché apprendessero senza far guai; quindi
si trattava di un numero notevole di questi specialisti. Il salario base di costoro era di 10 scudi
il mese, ma a molti particolarmente pratici e meritevoli si dava di più, e inoltre ricevevano
doppia
razione di viveri (lt. duplicarii) per vecchia consuetudine di guerra.
Un contestabile (sp. constable) o capo degli artiglieri.
Uno o due polveristi, ossia raffinatori di polvere, perché raffinassero nuove polveri o
ripristinassero partite di polvere bagnatesi o guastatesi.
15 o 20 tra marangoni o maestri d’ascia, vale a dire mastri carpentieri, falegnami da fare
casse
d’artiglieria e maestri da fare e riparare ruote, carrini e carri matti, con due aiutanti ciascuno.
2 barilari.
8 segatori.
Cestari.
2 trombetti.
2 funditori per fare dell’artiglieria nuova.
6 minatori.
10 muratori (tlt. murarii) con il loro capo-mastro.
Scalpellini per cercare, rompere e tagliar sassi.
18 tendai (in Fiandra 4) con il loro capo-mastro.
Sellari.
Garzoni dei predetti.
Un capo-mastro ovvero capitano che comandasse i marinai a cui si è già accennato e di
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cui a breve meglio diremo.
Un mastro-ferraro ogni due o tre canne d’artiglieria e altri per i carri di tutto l’esercito per
ferrare casse, ruote, carri, per riparare i ferramenti guasti e per fabbricare chiodi, etc.
6 o 7 marescalchi o menescalchi (fr. mareschaux) per ferrare e medicare i cavalli di servizio
dell’artiglieria, a 10 scudi (6/10 secondo altri) per i semplici ferrari (fr. forgerons), 12 o 15 per i
maniscalchi (fr. mareschaux).
Un capo di tutti i carri e carrettieri che si sarebbero assunti per il treno con alcuni aiutanti.
Un cuciniero.
Una lavandaia.
Un auditore di giustizia coadiuvato da uno scrivano.
Un bargello o prevosto (‘esecutore di giustizia’) con 2 alabardieri.
Un tenente di prevosto.
Una compagnia di fanteria, preferibilmente di alabardieri e picchieri tedeschi, per la guardia
dell’artiglieria. (Da LT. Collado. Cit.)

A ognuno degli artigiani (artisti) elencati si pagava poi un garzone a scudi 4 mensili. Il
predetto personale rappresentava naturalmente l’optimum teorico, ma nella realtà era spesso
più ristretto e per esempio il Pelliciari vedeva sufficienti un solo artigliere e due aiutanti per
bocca da fuoco medio-grande, a meno che non si trattasse di novizi; al contrario l’Isacchi ne
prescriveva tre con i loro aiutanti.

… e nella cassa di ciascun pezzo deve esser scritto il nome di quel artigliero che lo governa,
affin che ogn’uno sappia qual sia il suo. (G. B. Isacchi. Cit. P. 226.)

Il già citato relatore veneziano Bernardo Navagero (1546) riportava che, oltre ai predetti 200
scudi al generale, si davano cinquanta scudi ad alcuni che aiutano l’officio suo e aggiungeva
anche quattro maestri di casa a 20 scudi ciascuno; il detto diplomatico si sentì un giorno dire
dallo stesso imperatore che l’artiglieria sola gli costava seimila scudi il mese (E. Albéri. Cit. S.
I, v. I, p. 311). Proprio perché un simile personale era necessariamente molto costoso,
spesso i generali dell’artiglieria, per evitare tanti salari, usavano assumere bombardieri che
fossero anche falegnami, ferrari, muratori, picca-pietre, barcaioli, marinai o polveristi;
insomma finiva che dei bombardieri che lavoravano attorno a una grossa bocca da fuoco uno
solo era il vero pratico d’artiglieria, essendo magari degli altri uno un mastro falegname un
altro un mastro ferraro e per il resto aiutanti o semplici garzoni:

… il che in tempo di pace si può ben fare, ma in tempo di guerra a me non piace tanta
avarizia, perché, ‘sì come ogn’hora si vede che nelle batterie ed altre fazioni di artiglieria
sono ammazzati i bombardieri, resta poi l’essercito privo d’huomini dell’un mestiero e
dell’altro (LT. Collado. Cit. P. 4v).

Di tanti diversi maestri artigiani aveva dunque bisogno l’artiglieria:

… E questi ancora, come huomini usati a maneggiare il compasso, la riga, il livello, la


squadra e linea, assai meglio si adattano all’uso dell’artiglieria, trattarla, moverla, assettarla e
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squadrarla… ed oltra di questo meglio che altri sanno armare ed adoperare l’argano, investir
le corde, o doppie o semplici, in una ruzzella over in una mazzapreda, per effetto di tirar
l’artiglieria ed incavalcarla (Ib.)
Questo era dunque il personale ordinario di un parco d’artiglieria, personale tutto scelto dal
generale, eccezion fatta dei due tenenti-generali, del veedor, del pagatore, del maggiordomo,
del commissario delle mostre e degli aiutanti di tutti costoro, tutte persone invece nominate
dal principe. In campagna, quando cioè si doveva formare un treno d’artiglieria, i numeri
erano però ovviamente diversi a seconda del numero di bocche da fuoco che s’intendeva
portare con sé e così li voleva per esempio il Lechuga nel caso di una trentina di bocche tra
cannoni, mezzi cannoni e quarti cannoni:

15 gentiluomini.
1 prevosto con suo luogotenente e alcuni alabardieri.
1 quartiermastro.
1 medico.
2 chirurghi.
2 barbieri, ossia pratici di chirurgia.
1 farmacista.
1 cappellano.
24 conduttori, di cui 12 a cavallo e 12 a piedi.
30 facchini (hernicurs o harnicurs) con il loro capo.
80 artiglieri.
300 guastatori
4 carpentieri ordinari con 8 segatori.
30 carpentieri straordinari con loro mastro ingegniero.
4 contestabili, ossia capi degli artiglieri.
2 mastri marescalchi o ferratori di cavalli.
2 mastri ferrari.
2 mastri carrettieri.
2 barilari.
50 minatori con i loro capi, il loro capitano e un’artificiere.
Una dozzina di 12 muratori e fornai (sp. maestros de muros) con il loro capo.
2 mastri tendari con con loro capo-mastro.
2 trombette.
2 ingegnieri di fortificazioni.
2 ingegnieri di fuochi artificiati.
6 petardieri.
Un numero variabile di barcaioli e calafati, proporzionato cioè alle barche che eventualmente
l’artiglieria si portasse dietro a beneficio di tutto l’esercito per costruirne ponti sui fiumi quando
necessario.
100 marinari con i loro capi e il loro capitano.
Un numero di guastatori ordinari apri-strada ordinati in compagnie con i loro capitani e
soprastanti, calcolati ragionevolmente sulla base di 10 guastatori per ogni cannone,
7 per ogni mezzo cannone e 4 per ogni quarto cannone.
Da mille a 2mila guastatori straordinari, anch’essi ordinati in compagnie, per eventuali
opere d’assedio. (Da C. Lechuga. Cit.)

Ogni mastro o artigiano aveva diritto, come già detto, a un aiutante (tlt. valletus) o un garzone
personale salariato dall’esercito; dei guastatori abbiamo già detto. Ma a che cosa servivano i
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cento marinari? Erano importantissimi e non tanto per la manovra delle predette barche,
quanto per le stesse bocche da fuoco, perché – esperti e usi com’erano a sollevare grossi
pesi nell’imbarco e lo sbarco delle artiglierie di marina e degli altri materiali di bordo -
nessuno meglio di loro sapeva incavalcarli o disincavalcarli, imbarcali e sbarcarli, tirarli fuori
da un pantano con gli argani o con altre macchine, farli salire su un monte o rallentarne la
discesa su un pendio; dovevano quindi essere in numero conforme a quello delle bocche da
fuoco di cui si disponeva.
Tutti i suddetti personaggi e capi-mastri avevano inoltre diritto a carri personali forniti
dall’esercito e l’Ufano riporta quelli che aveva visto assegnare nel treno dell’artiglieria
spagnola: 6 al generale, 2 a ogni tenente-generale, 2 al veedor, 2 al pagatore uno al
maggiordomo, uno al commissario delle mostre, uno a ogni tre gentiluomini, 1 al prevosto, 1
al quartiermastro 2 ai marescalchi e ferrari, 3 ai carpentieri, 1 ai maestri dei carri, 2 agli
ingegnieri, 1 a medico e chirurghi, 1 al farmacista, 1 ai minatori, 1 ai guastatori, 1 a marinari e
calafati, 5 per le tende della cappella e delle provviste del generale e dei tenenti-generali per
un totale di 41 carri (D. Ufano. Cit.). Ma, tra i tanti conducenti di carri da pagare c’erano in
primis quelli dei veicoli adibiti al traino delle canne d’artiglieria e questi potevano essere
trainati da cavalli o – specie in tempo di pace - da buoi; i primi erano, come abbiamo detto,
più usati negli eserciti oltremontani, mentre i secondi erano d’uso tradizionale in Italia, dove si
trovavano particolarmente numerosi perché comunemente usati dagli agricoltori, il che,
essendo essi più forti ma anche molto più lenti dei cavalli ordinari, rendeva dunque
ovviamente gli eserciti nostrani molto più tardi e impacciati di quelli stranieri, dovendosi
calcolare un percorso giornaliero che era circa la metà di quello che ci si poteva invece
aspettare di fare con i cavalli. Inoltre sottrarre i buoi alle coltivazioni significava in Italia
rischiare di mandarle facilmente in rovina, anche perché, proprio perché; non era così invece
in Germania, dove i lavori agricoli pesanti si facevano con i cavalli, quelli stessi cavalli cioè
che poi s’utilizzavano per uso bellico. Inoltre i buoi non erano meno delicati dei cavalli, come
si può forse a torto pensare e, poiché anzi prima di questi si stancavano, capitava di doverli
cambiare più spesso e quindi di doversene portare dietro molti di riserva per i cambi. Ci si
doveva poi preoccupare di tenerli sempre protetti con coperte e moscarole oscillanti applicate
alla loro fronte per evitare che tafani e mosche li tormentassero al punto di pregiudicarne la
resa; infatti, quando lavoravano, essi non potevano pensare a difendersene da sé con l’aiuto
della coda. Inoltre, in tempo piovoso, si dovevano coprire con cuoiami i gioghi perché questi,
quando si bagnavano, ferivano la coppa degli animali; inoltre mangiavano di più, anche se
più di rado, dei cavalli. Il Pelliciari scriveva che indubbiamente con i cavalli si trainava e
viaggiava molto più speditamente, a patto che detti animali fossero grossi, forti e ben
alimentati:
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… e, per haverli di questa qualità, non s’ha da risguardar a spesa alcuna, affin che
prestamente sia condotta una machina, la qual, arrivando in tempo, sarà causa d’una vittoria
e, tardando, farà che si perderà l’occasione. (B. Pelliciari. Cit. P. 225.)

Il Marzari invece preferiva i buoi:

… in ogni caso, potendo haver boi, doverci lasciar sempre i cavalli, tirando e caminando i boi
più fermi e saldi e durando più lungamente nella fatica, oltre che mangiano poche volte al
giorno ed assai meno di quello fanno i cavalli; né accade fermarsi mai per strada a ferrar loro,
come di necessità ed ordinariamente bisogna farlo co’i cavalli. (G. Marzari. Cit.)

Secondo il Busca, tra grossi cavalli e buoi, non c’era poi molta differenza:

… E tanto i buoi come i cavalli, se saranno possenti, tireranno peso equale né altra differenza
vi sarà se non che i buoi sono più lenti e più tardano a fare il medesimo viaggio… (G. Busca.
Cit. P. 13.)

Più forti e meno lenti dei buoi erano i bufali, ma naturalmente erano anche di molto più diffcile
reperimento. Quante paia di buoi occorrevano per trainare in campagna una canna
d’artiglieria? Ai tempi del de Marchi si andava da circa 17 paia per un doppio cannone da 100
libbre di calibro a un solo paio per un moschetto antico da una libbra; il Busca, su un terreno
piano e non molto fangoso né paludoso, calcolava necessaria una coppia di buoi o di cavalli
per ogni mille o 1.200 libbre da trainare. Altri calcolavano che per il traino di una bocca da
fuoco di all’incirca 2.200 libbre (circa 11 quintali di oggi), non usandosi tener conto anche di
quello della cassa e delle ruote, occorrevano tre paia di cavalli oppure due di buoi; insomma
grosso modo si calcolavano teoricamente 500 libbre da trainare per animale. Naturalmente
molto dipendeva appunto dalla conformazione e dalle condizioni della strada, per cui i
predetti calcoli erano solo indicativi e tutto finiva per essere organizzato in base
all’esperienza dei militari più anzianie pratici. Il Lechuga scriveva che ai suoi tempi, cioè
all’inizio del Seicento, lo Stato di Milano era obbligato a fornire al treno d’artiglieria tutti i buoi
necessari a cinque giuli al giorno per coppia d’animanli, incluso il bovaro che li doveva
condurre e governare, restando però il foraggio e il rancio dell’uomo a ulteriore carico
dell’esercito; anche i carri erano esclusi perché forniti da altri, come abbiamo già visto. Si può
quindi fare il paragone con la paga giornaliera di un guastatore dello stesso treno, che era
allora di 14 soldi, essendo un giulio di Milano fatto di 10 soldi.
In Francia dunque il traino dell’artiglieria era molto più agile e veloce perché effettuato
unicamente a mezzo di cavalli e carri leggeri; l’ambasciatore veneziano Matteo Dandolo, il
quale si trovò in quel regno nel 1547, primo anno di regno d’Enrico II, ce ne ha lasciato

498
un’ulteriore testimonianza sulla base di quanto aveva saputo dal governatore generale di
Torino, allora in possesso francese, e da quanto aveva egli stesso visto nell’arsenale
(fondizione) di Lione:

… Mi disse anco sua eccellenza […] che lui havea fatto tagliar legnami per passar trecento
pezzi d’artiglieria a cavallo. Di questi io ne ho veduti nell’ ‘arsenale’ a Lione - che così
chiamano un luogo ove li fanno e li tengono ed ove io andai travestito col mio segretario – da
ottanta pezzi, la metà de’ quali fatti sotto questo re e l’altra metà alla fin del regno dell’altro
(‘Francesco I’), tutta artiglieria grossa ed altra da campo, come mezzi cannoni doppij e
colubrine; e molt’altra ne era in ordine da gettarsi e si facevano anco di molte forme e si
lavorava con diligenza e sollecitudine, massime in metter a cavallo la fatta, che io la giudicai
che fosse per (una campagna d’)Italia, facendosi in quel luogo; e l’Eccellenze Vostre (i
senatori di Venezia) devono sapere che di tutta quella artiglieria che venne mai di Francia in
Italia non ne ritornò mai indietro un solo pezzo, perché la possono ben condurre per il
Monginevra e calarla giù con gli argani e con le corde, ma non la possono più ritornare, salvo
che non la facessero in pezzi e mandarla sopra le schiene de’ muli. (E. Albéri. Cit. S. I, v. II,
pp. 186-187.)

Quanti paia di cavalli occorrevano per trainare una canna d’artiglieria? Non c’era una regola
fissa, dipendendo ciò dalle condizioni e dalla pendenza della strada; comunque, a titolo
esemplificativo, diremo che un cannone da batteria in strada buona e scorrevole servivano
12/14 paia di cavalli e invece, ma nelle stesse condizioni viarie ottimali, per un carro di palle
da cannone, generalmente atto a portare dalle 3.500 alle 4mila libbre da 12 oncie, ne
occorrevano quattro paia, il che significava all’incirca un paio di cavalli ogni 900/1.000 libbre
da trainare. Il Lechuga prescriveva 21 cavalli per ogni carro matto sul quale si trasportasse
un cannone, 15 per ogni mezzo cannone, 9 per ogni quarto di cannone, 9 per ogni carro
matto di rispetto e 9 per ogni cassa (‘affusto ruotato’), tenendosi conto che bisognava portarsi
dietro un numero di affusti di riserva superiore di un quarto al numero delle bocche da fuoco,
perché durante la marcia se ne rompevano molti, e lo stesso dicasi per i carri matti; inoltre 15
cavalli per ogni carro trasportante una barca e materiale da ponte di guado e 21 per ogni
carro da pontone, cioè da barcone piatto per il trasporto a guado dei cannoni, occorrendone
generalmente un paio solamente. In verità per ogni cassa e per ogni carro matto di rispetto
sarebbero bastati 7 cavalli se si fosse trattato di veicoli vuoti, ma in realtà vuoti non erano mai
perché s’usava caricarli di bagagli personali e di ruote di rispetto.
Il Capo Bianco voleva 4 paia di buoi o 5 di cavalli per ogni 5 migliaia di libbre da trainare, ma
sempre in relazione alla qualità degli animali e alle condizioni della strada da percorrere; egli
racconta di avre tratto queste conclusioni dall’osservazione della pratica e non dai libri:

… mi ritrovai una volta di passaggio tra Milano e Pavia e vide che conducevano alquanti
pezzi d’artiglieria, tra grossa e minuta, e molto bene osservai, numerando e riguardando la
quantità degli animali ed anco la grossezza di detta artiglieria; e mi accostai a quelli
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cannonieri spagnuoli e mi feci conoscere per huomo della professione, ed in vero mi fecero
assai cortesie. E tra di me, così cavalcando, feci un calcolo sopra a quanto haveva veduto
nel predetto ordine ed apunto ritrovai l’istesso che ho ancor io osservato, che è questa regola
di pratica, la quale, avanti che io ne fossi capace, la imparai dalli istessi patroni del bestiame,
quali sono li boari o biolchi, che così secondo il paese sono nominati… (A. Capo Bianco. Cit.
P. 21v.)

Il Capo Bianco spesso ricorda nel suo trattato diverse occasioni di confronto d’opinioni avuti
con artiglieri forestieri, le quali egli riteneva essergli stati utilissimi a perfezionarsi nel mestiere
dell’artiglieria:

Mi è venuto in mente che tanti anni fa, mentre ero a ragionamento con alcuni cannonieri
inglesi, li quali erano per servizio delle loro navi, fra di noi molte dispute furono fatte, come
sempre si suole tra bombardieri venire a simili ragionamenti…

Mi sovviene che già non molto tempo, ritrovandomi tra alcuni pratichi cannonieri napoletani,
nacquero tra di noi certe dispute, però (‘dove’) ogn’uno diceva la sua, trattando sopra al
condurre l’artiglieria in campagna…

… Mi ricordo […] ch’una volta ragionavo con alcuni turchi rinegati, tra i quali vi era un giovine
spagnuolo sopra un bellissimo cavallo, i quale raccontava dell’esser suo e come fu preso (dai
turchi) nel forte di Tunis di Barbaria al tempo della espugnazione della Goletta; ed io era
all’hora soldato nella fortezza di Cattaro e […] li dimandai che cognizione egli havesse
dell’artiglieria; egli mi rispose che era stato cannoniero nel detto forte di Tunis…

… un cannoniero alemano, la cui professione è anco di acconciar gli horologi, così


ragionando mi diede il detto disegno…

… E a questo proposito mi ritrovo havere un istrumento, il quale mi fu donato da un mio


compagno bombardiere marsiliese mentre eravamo insieme alloggiati a camera locante da
madonna Mariana a San Giovanni (in) Bragola (oggi ‘Bragora’; dal vn. bragola; ‘fanghiglia’),
nel tempo ch’io ricercavo di tramutarmi da Crema a Verona, che per tanti concorsi di brogli o
che sia stato il mio poco valore, alla fine fui perditore… (ib.)

Detto per inciso, la summenzionata chiesa di S. Giovanni era stata così chiamata perché
sorta in un luogo fangoso del sestiere Castello di Venezia detto Fossa Putrida.
Poiché al treno d’artiglieria s’affidava, come abbiamo già ricordato la custodia e il trasporto,
oltre che delle sue proprie munizioni e dei suoi propri attrezzi e ricambi, anche delle armi di
ricambio e munizioni di tutto l’esercito e inoltre dei materiali per costruire ponti e fortificazioni,
c’era da pagare una gran quantità di carri da trasporto con i loro cavalli, buoi e conducenti,
carri a cui s’aggiungevano quelli a cui avevano diritto i personaggi dell’esercito per il loro
bagaglio personale, uno o due a persona a seconda dell’incarico che avevano; per esempio il
cappellano aveva diritto a un solo carro e così anche il chirurgo e il prevosto, ma i commissari
a due per ciascuno e il capitano generale dell’esercito a ben 30 carri e anche più se ne
avesse fatto richiesta. Per questo il generale dell’artiglieria, alla quale era dunque affidate la

500
cura e la conduzione di tutti i carri dell’esercito, anche di quelli di fanteria e cavalleria, in
totale quindi generalmente un numero di circa 800 e più con i relativi suddetti cavalli o buoi,
doveva stipulare i partiti, ossia i contratti d’appalto, con persone, dette signori dei cavalli e in
seguito, come abbiamo già visto, commissari, i quali già disponevano d’uomini e animali
proprio per appaltare simili forniture agli eserciti e l’impegno che sia esse sia i loro lavoranti
prendevano era per tutto il periodo della guerra. Il generale sceglieva a suo arbitrio il padrone
o i padroni di carri a cui conferire l’appalto, in quanto non s’usava mettere in gara tale
fornitura; era comunque consigliabile cercare padroni facoltosi, in grado di fornire e
sostentare ognuno almeno 1.500/2mila cavalli, affinché l’accordo risultasse duraturo e
garantito per tutta la durata dell’impresa dalla stessa ricchezza del partitario, il quale doveva
presentare al commissario della mostra, ossia al funzionario pagatore che passava in
rassegna l’esercito, carri ben in ordine e ben ferrati, tirati ognuno da otto cavalli sani, robusti
e forniti di tutti i loro guarnimenti, cioè collari, corde, timonetti, capestranti e altri pertinenti alla
condotta dell’artiglieria; il commissario li rassegnava prendendone nota e poi marcava con il
marco rovente affidatogli allo scopo dal suo generale tutti i cavalli, affinché in seguito
potessero essere riconosciuti e non più nascostamente sostituiti, subito dopo la rassegna,
con cavalli di scarto da padroni disonesti. Si pagavano scudi sei mensili per ogni cavallo, ma
in questi erano compresi anche il salario d’un conducente di carri, di due garzoni e un carro a
quattro ruote ogni 4 paia di cavalli, calcolandosi un carro carico di 3 o 4mila libbre a 12 oncie
per libbra, venendo quindi a costare una simile unità di trasporto 48 scudi il mese; inoltre per
ogni sedici carri si pagava al suddetto loro padrone o partitario un carro da trasporto di biade,
fieno e altre cose necessarie ai cavalli. Il partito fatto con un grande partitario o signore dei
cavalli che rifornisse l’esercito d’un gran numero di cavalli e di carri, se non n’avesse
addirittura l’esclusiva, implicava il pagamento, oltre del personale predetto, anche di altri
ufficiali:

Fu sempre usanza… ne gli esserciti cesarei e della Maestà catolica sodetti di pagare al
signore de i cavalli certi ufficiali suoi e ministri, de i quali alcuni di loro servivano in beneficio
ed utilità dell’impresa ed alcuni altri per ornamento del carico ed autorità della sua persona
(LT. Collado. Cit. P. 327).

Negli eserciti asburgici o imperiali o di Spagna che dir vogliamo si pagavano dunque a tale
signore innanzi tutto 30 scudi mensili per suo soldo personale, in quanto, oltre a fornire carri,
uomini e cavalli, metteva a disposizione anche la sua stessa presenza e partecipazione
all’impresa di guerra, e inoltre i seguenti dipendenti, da lui stesso scelti e forniti:

Due alabardieri per sua guardia personale a scudi 4 ciascuno.


Un interprete a scudi 10.
501
Un foriero a scudi 10 con un aiutante a scudi 4.
Un soprastante maggiore (fr. gilmaître; td. Gildemeister) ogni 300 cavalli (ogni 100, secondo
altri), il quale governava e comandava i cavallanti, ossia gli uomini addetti appunto a quelle
bestie, e prendeva 12 scudi il mese.
Un bar(i)gello, vale a dire un poliziotto di campagna, ogni 1.500/2mila cavalli con uno
stipendio che andava dai 12 ai 20 scudi di paga e un suo luogotenente con scudi dai 5 agli 8.
Un carrettiero o marangone, ossia un falegname specializzato nella riparazione di carri, a 8
scudi il mese con due garzoni a 3 scudi ciascuno. (Ib.)

Ma si trattava qui solo del personale di sua scelta, perché ce n’era dell’altro assegnatogli
dall’esercito, come apprendiamo da alcuni documenti originali trascritti dal Lechuga e relativi
alla spedizione militare che qualche decennio prima dei tempi che stiamo narrando, cioè nel
1546, Carlo V aveva portato a combattere in Germania in funzione controriformista. Si era
dunque in quella occasione di guerra fatto accordo con un signore di 4mila cavalli e cioè, in
base a quanto suddetto, di 500 carri; a costui (por su persona) si sarebbero dati 60 fiorini il
mese e tre alabardieri di guardia personale; inoltre:

Un cancelliero per le mostre dei cavalli.


Un alabardiero del suddetto.
Un furiero per i cavalli.
Un gilmastro maggiore (ossia un responsabile) ogni mille cavalli a 30 fiorini mensili.
Un gilmastro minore ogni 200 cavalli a 15 fiorini.
Un prevosto con 4 birri.
2 mastri d’ascia.
2 ferrari.
Un tamburo.
Per ciascun cavallo 7 fiorini mensili.
A ciascun carrettiere 6 fiorini.
A ciascun mozzo aiutante 5 fiorini. (Da C. Lechuga. Cit.)

Tutto il predetto personale, tranne quello portato dal signore dei cavalli, era di provvisione del
generale dell’artiglieria, ossia da lui eletto, essendo quindi in sua potestà sia l’entità del soldo
sia il concederlo o levarlo, ma facevano parte dello stato dell’artiglieria anche alcuni ufficiali
nominati direttamente dal generalissimo o dal principe perché, nell’interesse dello stato,
esercitassero un controllo sui materiali, sulle spese e sulle paghe; si trattava dei munizionieri
o maggiordomi, del contadore, del veditore generale e del pagatore. Nei grossi eserciti i
maggiordomi dell’artiglieria erano generalmente da 2 a 4 e tra essi si suddividevano tutti i
materiali dell’artiglieria perché ne avessero cura e custodia; a uno di dava in carico tutta
l’artiglieria incavalcata, cioè montata sulle sue casse e ruote, con le sue palle e la sua
polvere; a un secondo s’affidava invece la provvista di polvere fina d’archibugio, quella di
corda-miccia, di piombo gittato, di trombe e altri fuochi artificiati, delle armi ingombranti del
resto dell’esercito sia difensive che offensive e cioè picche da fanteria [(td. (langer) Spiess;

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più tardi Picke, infine Pike], Reissspiess (‘spiedo da cavalleria’), lance e altre armi d’asta,
corsaletti (td. Harnisch), morioni (td. Beckelhauben), perché, come abbiamo già detto, al
treno dell’artiglieria era demandata anche la custodia e il trasporto di tutti i materiali
ingombranti o di riserva della fanteria e della cavalleria; al terzo maggiordomo – ed
eventualmente anche a un quarto – s’affidava il rimanente degli infiniti materiali necessari e,
aldilà dei tanti comuni e ben noti attrezzi e ferramenti da fabbro, da marangone, da
ingrassatore di assali, barre, ruote e cordami, da zappatore e guastatore, eccone un generico
elenco dei principali affinché il nostro lettore si faccia un’idea della complessità tecnica d’un
treno d’artiglieria dell’epoca: filiere o calibri, lamiera di rame, cucchiare, rifuladori (‘rifilatori’),
cavafieno, buttafuochi, lanate, stivatori, salnitro, solfo in pani, carbone da ferreria, carbone di
nocciuolo, forme multiple per fare pallottole d’archibugio o moschetto, brocche e chiodaggine
d’ogni tipo, ferro, acciaio, picchi, aguglioni, magli, mazzuole e martelli, gomene, corderia di
canape cruda grossa e minuta, spaghi, ferri e chiodi per ferrare i cavalli, mantici, tinivelle
(‘trivelle’), ancudini (‘incudini’) grandi e piccole, lanterne e lanternini, sego da ungere assali e
altro, cera, stoppa, fieno, colla, candele, torce da vento, cioè che non si spegnessero a
causa del vento, pelli lanose e vecchie tele per coprire le polveri, assoni e travi di legno,
cavicchie e pironi di legno, gerletti o scorbelletti in gran quantità, sacchi, barili, bigonce,
mastelle, barelle, carriole, scale di corda e di legno in quantità, catene, argani con le sue
taglie e cordoni, carri matti, carrini, leve, struggie, caprie, caprette, asinelli, martinelli, scalette,
asinelli ossia banchetti fatti a schiena di asino (che gli artiglieri spagnoli dimandano burro),
bancacce, casse, ruote, carrettoni a 4 ruote, carrelli a due ruote, carrozze chiuse e aperte,
assali di rispetto, cavalli di Frisia, palizzate ferrate ed altri innumerevoli strumenti. A proposito
delle predette scale di corda (grb. μηρινθώδεις ϰλίμαϰες), scale quindi di tipo nautico,
leggiamo per la prima volta di un loro uso terrestre nel Chronicon di Giorgio Franzes, laddove
cioè questo autore narra della presa di Costantinopoli fatta dai turchi nel 1453, evento storico
tanto funesto e gravido di conseguenze per il prosieguio della stortia della Cristianità e del
quale egli fu testimone diretto:

… Avevano (‘i turchi’) poi scale dai gradini di corda che si svolgevano e riavvolgevano
all’indietro in un solo tratto mediante funi (εἷχον δὲ ϰλίμαϰας ἓχουσας τὰς βαθμίδας
μηρινθώδεις ὑποχαλουμένας διὰ ϰάλων͵ ϰαὶ αὖθις ᾗρον μίαν εἰς ὒψος. Cit. LT. III, cap. III).

Si trasportavano inoltre spesso elementi prefabbricati per la costruzione di ponti galleggianti,


cioè barche tutte uguali, ognuna portata con la chiglia in su da un carro matto e ognuna delle
quali aveva un quadrato di tavolame già inchiodatovi sopra, in modo che bastava solo unirle
sul fiume in sequenza, mediante funi che passavano in anelli di ferro attaccati al tavolame
medesimo, per ottenere il ponte desiderato:
503
… e questo è instromento moderno molto usato nelle guerre di hoggi giorno fuori d’Italia e
massimamente nella Germania (F. Ferretti. Cit. P. 42).

Infatti già Carlo V aveva fatto ottimo uso di questi ponti di barche nelle sue imprese contro i
luterani di Germania. La registrazione e il controllo degli esiti fatti, sia di danari dai tesorieri
dell’esercito che di munizioni dai maggiordomi, avveniva tramite polize, vale a dire ordini
scritti firmati dallo stesso generale. I maggiordomi percepivano da 20 a 25 scudi ciascuno di
paga mensile, ma passiamo ora al contadore, al veditore generale e al pagatore:

… Fra i quali ufficiali ed il cancelliero che mette il general dell’artiglieria deve ritrovarsi la
ragione di tutte le spese fatte, ‘sì de’ danari come delle munizioni, e tutte l’altre cose che si
saranno dispensate circa dello stato di essa durante la guerra (LT. Collado. Cit. P. 328).

Ufficio del contadore era di prender nota di tutti gli uomini, ufficiali inclusi, che servivano nello
stato dell’artiglieria, e dei loro relativi salari e soprassoldi, aggiornando scrupolosamente
questo stato generale con l’aggiungervi i nomi e i segni caratteristici dell’eventuali nuove
reclute, inoltre di tutti i carri, cavalli e altri animali anch’essi con i loro segni caratteristici; suo
era anche l’incarico di formulare le polize o liberanze suddette sia per i danari da elargire sia
per le munizioni da distribuire; queste liberanze, firmate, come abbiamo detto, dal generale,
erano poi sottoscritte dal contadore, il quale doveva scrupolosamente conservarle per
poterne poi un giorno render eventualmente conto agli ufficiali supremi e agl’ispettori
dell’esercito; suo altro importantissimo compito era anche quello di controllare che tutte le
provvisioni dispensate andassero a buon fine e uso e per tal motivo era in alcuni stati
chiamato contralore. Prima dell’introduzione negli eserciti della corona di Spagna del veditore
generale il suo incarico principale era stato però quello di pigliar la mostra dell’artiglieria, cioè
di passarla in rivista. Guadagnava 40 scudi di salario per sé e 10 per un suo aiutante, ma in
tempo di pace quello di Lombardia, durante il regno di Filippo II, ne prendeva solo 20.
Molto importante era in tempo di guerra l’ufficio di veditore generale, carica che però non
sempre s’era usata negli eserciti di Spagna anteriori a quelli del predetto Filippo II. Si
chiamava così per il suo compito, il quale era proprio quello della ‘visura oculare’ di tutte le
cose; egli doveva innanzitutto trovarsi presente con gli altri ufficiali alle mostre, ossia alle
riviste, che si passavano all’artiglieria per controllare che effettivamente vi risultassero tanti
uomini, carri e cavalli quanti il re ne pagava in quell’esercito; doveva poi controllare che tali
uomini, carri e cavalli fossero effettivamente atti a servire in quell’impresa; sorvegliava che le
munizioni si dispensassero con buon ordine e senza frode, che non venissero rubate o
sottratte all’esercito in qualsivoglia modo; soprintendeva alla provvisione e acquisto delle

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munizioni e di tutte le cose inerenti all’artiglieria per controllare che la qualità d’esse fosse
conforme all’impresa designata e per intenderne i relativi prezzi; ‘vedeva’ che cavalli e carri
fossero saldi e robusti, altrimenti comandava che se ne provvedessero altri in sostituzione e
che si sospendessero dal soldo ordinario; controllava ancora che tutte le liberanze fatte dal
contadore fossero d’ordine del generale e le sottoscriveva anche lui di suo pugno; controllava
infine che gli ufficiali non defraudassero gli uomini dei loro salari e che ognuno di questi
venisse pagato intieramente in tavola, come s’usava dire, cioè alla banca e nelle sue proprie
mani. Il veditore generale dell’artiglieria era insomma un ispettore interno e il suo salario era
di 40 scudi più 10 per il suo aiutante, cioè come per il contadore.
L’ultimo degli ufficiali d’artiglieria di provvisione reale era il pagatore, i cui compiti erano
sollecitare il danaro occorrente ed, una volta ricevutolo dal principe direttamente o dal suo
tesoriero generale, dispensarlo secondo le liberanze o polize de’ danari inviategli dal
generale, sottoscritte da questo, dal contadore e dal veditore, cioè pagare nel giorno di paga
sia la gente sia tutte le altre spese fattesi per l’artiglieria, e in virtù delle dette liberanze gli
sarebbe stato dato scarico del danaro ricevuto per tali pagamenti. Prendeva lo stesso soldo
dei due ufficiali precedenti e, cessata la guerra, solo 20 scudi il mese.
Quella del traino dell’artiglieria era dunque una materia molto complessa e, secondo il
Tarducci, talmente costosa da rappresentare almeno un quarto di tutta il costo d’un esercito
in campagna (Cit.)
Quali erano i poteri e le incombenze del generale dell’artiglieria in tempo di pace?
Innanzitutto, appena nominato, egli doveva eleggere un suo pratico luogotenente al quale
demandare tutta l’amministrazione minuta dell’artiglieria del regno o dello stato:

… per quanto alla gravità del generale non è cosa lecita né decente, anzi che deroga la sua
riputazione, il maneggiare e trattare minutamente tutte le cose del suo ufficio che in effetto
sono infinite (LT. Collado. Cit. P. 331.)

Egli doveva però incaricarsi personalmente delle cose di maggior importanza e assistervi di
persona, come per esempio l’attribuzione delle piazze di capi-mastri dell’artiglieria della
provincia e dei suoi presidi, di quelle di semplice bombardiero previo esame e approvazione
sua o del luogotenente, piazze che egli poteva suo arbitrio tutte revocare in seguito a
mancanze o a gravi errori commessi; in verità la potestà elettiva del generale non era
assoluta, nel senso che, quando serviva per esempio un bombardiero in un castello, egli non
poteva imporre un suo uomo al castellano o al governatore di fortezza, ma era questi a
inviargli un suo prescelto perché lo sottoponesse a esame e, se costui otteneva dal generale
una polizza scritta d’approvazione, allora il castellano poteva impiegarlo come bombardiero
nel suo castello. Presenziava inoltre alla stipula dei contratti di fornitura con i mercanti e
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fornitori di palle, polveri, salnitro, solfo, carbone, miccio etc. e incaricava il suo luogotenente,
coadiuvato da esperti bombardieri, di provare i materiali offerti e, se risultanti di cattiva
qualità, di rifiutarli. Su ordine del principe o del suo governatore generale in quel regno
doveva il generale dell’artiglieria o il suo luogotenente consegnare ai munizionieri deputati
dallo stesso sovrano o signore le scorte reali di polveri d’artiglieria e d’archibugio affinché
venissero distribuite ai vari castelli e presidi; doveva poi interessarsi delle partite di polvere
che si ritrovassero nella munizione reale guaste per vecchiezza o a causa dell’umidità
sofferta e chiedere al suo principe o al governatore licenza di ripristinarle con i sistemi di
recupero già esposti, affinché lo stesso principe potesse servirsene almeno per salve e fuochi
festivi, riserbandosi invece per uso di guerra le polveri più nuove e forti.
Doveva preoccuparsi di provvedere il legname per la costruzione di casse, ruote e assili per
le bocche da fuoco, mandandolo magari a tagliare anche in boschi di proprietà d’un
monastero o d’altre persone privilegiate, perché nessuno poteva rifiutarsi di concedere,
contro pagamento d’un equo prezzo, legname adatto all’uso dell’artiglieria, arma tanto
importante per la difesa del regno o dello stato. Doveva stabilire un soprastante pratico e di
molta esperienza ai magazzini dove si fabbricavano appunto letti, ruote, macchine varie e
guarnimenti per l’artiglieria perché, esperto soprattutto dell’incavalcarla e ferrarla,
controllasse la qualità e la proporzione di tutti i manufatti e dei loro ferramenti e perché
prendesse nota di tutte le quantità di legno e di ferro consumate. Autorità suprema aveva
pure il generale sulla fondizione dell’artiglieria, dove stava a lui ordinare la qualità e la
proporzione delle canne da gittarsi, in conformità però alla volontà e ordine del suo principe,
dove controllava che le forme d’argilla (sp. almas) da usare fossero ben secche e che nelle
canne così ottenute non vi fossero discordanze dall’ordinato né magagne pregiudizievoli o
pericolose:

… e considerando finalmente altri infiniti difetti ed errori che ogni dì si veggono causati dalla
negligenza over malizia de’ fonditori (ib.)

A intervalli annuali il generale chiedeva licenza al suo principe o governatore di mandare il


suo luogotenente con alcuni esperti mastri falegnami, ferrari e polveristi a visitare tutti i
castelli, fortezze e presidi sottoposti al dominio di quello per vedere in che stato si trovassero
tutte le artiglierie in loro dotazione, per prendere nota dei materiali a quelle occorrenti a
ripararle, sostituirle, a incavalcare canne scavalcate, ripristinare polveri guaste, etc., con
stima e calcolo anche delle più piccole spese da preventivare. Il salario di questa trasferta era
a carico del sovrano ed era pagato a giornate d’impiego; per esempio nel regno di Napoli si
pagavano al luogotenente tre ducati per giorno di missione e ai mastri che lo

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accompagnavano 4 carlini il giorno. Doveva ancora il generale o il suo luogotenente una volta
l’anno, durante la buona stagione, mandare a chiamare una parte dei bombardieri del regno
o dello stato perché venissero a essere riconosciuti, riesaminati e soprattutto perché
s’abituassero all’obbedienza e all’idea che sempre e sollecitamente dovevano venire ogni
volta che fossero chiamati per qualsiasi occorrenza di servizio; era il luogotenente a doversi
interessare che i bombardieri fossero sempre, oltre che regolarmente pagati, in tali occasioni
anche comodamente alloggiati.
Il luogotenente era obbligato a visitare spessissimo il suo generale per riceverne gli ordini di
servizio e sentirne le novità concernenti il loro carico, senza che il generale fosse costretto a
mandargli continuamente dei mesi a casa; doveva inoltre il luogotenente comandare ai
gentiluomini dell’artiglieria od, in mancanza di questi, ai bombardieri ordinari, presenti nella
città dove risiedeva il generale, che una camerata d’essi si presentasse ogni giorno a casa
del generale medesimo sia per visitarlo come per accompagnarlo nei giorni festivi alla messa
e al palazzo del principe o del governatore, ammesso però che il generale vi andasse a piedi,
perché se invece vi andava a cavallo, allora non erano tenuti a fargli seguito. Ciò era
consuetudinario sia in tempo di guerra che di pace e la stessa riverenza si doveva tenere
verso il luogotenente:

… perché, essendo lui – come di ragione debbe essere – huomo sufficientissimo e molto
pratico, deve lui solo sempre portare tutto il peso dell’ufficio (ib.)

Il Collado a tal proposito aggiungeva:

Dico finalmente che quella frequente congregazione de’ bombardieri in casa del generale e
del suo luogotenente non solo è cosa di gentilezza e buona creanza, anzi di necessità ed
importanza grandissima, perché quivi ordinariamente si prattica e si ragiona de gli essercizij
dell’artiglieria e delle fazioni fatte con essa, dal che ogniuno più si habilita e più impara. Quivi
finalmente si da sempre il vanto al più valente e prattico bombardiero, con che ogniuno
procura di imitarlo. Quivi, communicandosi e trattando insieme tutti, si vengono a conoscere
e confermarsi in vera amicizia, cosa che assai importa ne i tempi di guerra e quando si
ritrovano in campagna alle fazioni dell’artiglieria (ib.)

Nel segno della devozione a Santa Barbara, dai bombardieri scelta come loro protettrice sin
dagli inizi dell’artiglieria, forse per l’assonanza del suo nome con quello di bombarda, in tutti i
regni e stati soggetti alla corona di Spagna s’era istituita la compagnia e congregazione de’
bombardieri, i cui componenti, a beneficio della compagnia medesima, giuravano obbedienza
a tutti quegli ordinamenti e statuti religiosi intesi al servizio divino e della predetta santa, quasi
fossero insomma un ordine cavalleresco minore. A Venezia, sulla parete di fondo del piccolo
cortile al quale si accede attraverso il sottoportego detto appunto dei bombardieri, si può

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vedere ancor oggi un’icona rinascimentale di marmo, purtroppo nera di sporcizia e, quel che
è peggio, priva di qualsiasi protezione, che rappresenta appunto Santa Barbara in piedi su
una bombarda, la cui canna (forse lignea) appare rinforzata da cerchioni metallici. Le
artiglierie veneziane erano considerate nel Cinquecento le più eccellenti d’Italia e tra le prime
nel mondo (Romano, Proteo, p. 178.); così cominciava a scriverne, meravigliato, l’aquilano
Pico Fonticolano nel suo trattato di geometria:

… ritrovandomi in Venezia l’anno 1580, andai a vedere lo stupendo arsenale e, desideroso di


vedere il gran numero dell’artellierie ‘si ben lavorate e proporzionate che io credo che in tutta
Italia non si trovino le simili in quantità (quantunque in Ferrara ne habbi visto delle
superbissime in grandezza) e discorrendo alquanto con un maestro artegliero, il quale mi fu
molto cortese in darmi raguaglio di molte cose sopra di quelle, e, parendomi tutte cose degne
di farne memoria, quantunque non sia professione mia, mi parse notarlo… (cit. P. 242.)

Bombarda e quindi bombardiero sono termini italiani, mentre artillero è spagnolo e canon e
quindi canonnier sono francesi, affiancandosi però al secondo in Francia anche quello di
colouvrinier [td. Haackenschütz], a indicare i due principali generi dell’artiglieria.
L’ammissione alla congregazione costava al bombardiero una certa cifra di danaro stabilita
dagli istitutori o dai deputati della stessa; a una penale a favore della congregazione era poi
obbligato il bombardiero che fosse sorpreso a mancare di far la guardia o colpevole d’altra
grave mancanza di servizio; ancora una pena pecuniaria pagava il bombardiero sorpreso a
bestemmiare e di tale ammenda ⅓ andava all’accusatore e ⅔ alla casa della compagnia.
Ogni settimana, nel giorno in cui quell’anno era capitata la festività di Santa Barbara,
s’eleggeva tra tutti i congregati un bombardiero che doveva andar girando per tutta la città a
elemosinare a beneficio della cassa della compagnia. Era obbligo poi che ogni congregato
inserisse nel suo testamento qualche legato, anche minimo, a favore della compagnia per
contribuire alle opere pie da essa promosse, così come il giorno in cui si riceveva la paga
bisognava che ognuno, secondo le sue possibilità, le facesse qualche elemosina. Il danaro
della compagnia dei bombardieri era custodito e amministrato dal suo prete cappellano e dai
suoi due deputati, detti questi anche maggiordomi, a ciascuno dei quali tre personaggi era
affidata una delle tre chiavi della cassa di deposito, ma quest’amministrazione era
sindacabile da tutti i congregati; tutte l’entrate e tutti gli esiti dovevano essere registrati nel
libro della compagnia con consuntivo annuale. Nessuno al di fuori dei congregati poteva
intromettersi in quest’amministrazione, nemmeno il generale dell’artiglieria né tanto meno il
suo luogotenente.
I congregati dovevano però preoccuparsi non solo della loro anima, ma anche della loro
abilità professionale e pertanto dovevano ogni settimana – o perlomeno ogni mese –
ritrovarsi con i loro aiutanti a prove di tiro al bersaglio, cioè, come allora si diceva, a tirare alla
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gioia. Alla fine d’ogni anno a quel bombardiero che risultava aver effettuato i migliori tiri si
dava un premio. Se un bombardiero congregato s’ammalava era obbligato a darne avviso ai
deputati, i quali, se l’infermo si faceva curare a casa sua, dovevano visitarlo ogni giorno e
soddisfare i suoi bisogni nei limiti delle possibilità della compagnia. Se la malattia era molto
grave, due bombardieri erano obbligati a far compagnia al malato ogni notte finché fosse
guarito o morto, a meno che l’infermo non avesse moglie e figli in grado d’accudirlo; ma in
ogni caso la predetta assistenza doveva essergli offerta. Se il malato era uomo bisognoso,
con assai maggior diligenza doveva esser visitato e soccorso a debito della cassa di deposito
della compagnia, dandogli i necessari medicamenti, pagandogli il medico e fornendogli il
necessario per vivere. Se un confratello decedeva, tutti gli altri confratelli dovevano
accompagnarlo all’inumazione, ognuno reggendo una torcia in mano, e dovevano onorarne il
corpo fino a che fosse seppellito. Se il defunto lasciava moglie e figli, i deputati procuravano
che venissero loro pagate le paghe a lui ancora dovute e, se ci fosse qualche figliuola da
maritare, con i danari del deposito comune era aiutata a maritarsi in maniera conforme alla
sua condizione sociale.
Il giorno della vigilia di Santa Barbara si dicevano gli uffici divini nella cappella della
congregazione, cioè il Vespero e la Compieta, con grandissima solennità e, terminato il
primo, tutti i congregati si recavano insieme a casa di uno dei deputati, dove si pranzava e
ciascheduno riceveva un mazzo di fiori; il giorno seguente poi, festa di Santa Barbara, si
cantava la messa e ancora il vespero solenne. Il giorno dopo la festa si faceva celebrare la
messa di Requiem per le anime di tutti i confratelli defunti; dopo di ciò si controllavano
congiuntamente i conti dei deputati dell’anno allora scadente e libri e chiavi del deposito
comune si mettevano in potere dei nuovi deputati che in quel medesimo giorno erano eletti
da tutti i confratelli. In alcuni regni la compagnia dei bombardieri, a titolo di maggior
devozione, aveva chiesto e ottenuto dal Pontefice alcune indulgenze per il godimento dei
perdoni ordinari.
Nella seconda metà del Cinquecento già esistevano scuole d’artiglieria a Napoli, in Sicilia, a
Venezia, mentre Milano ancora non l’aveva e infatti lo Statuto della scuola milanese
pubblicato dall’Angelucci e da lui datato 1488 presenta un linguaggio e una terminologia
chiaramente più tarde di quel tempo, essendo probabilmente quindi invece del 1588. Il
direttore della scuola si chiamava capomastro in alcuni luoghi, in altri maestro della scuola
oppure il capitano ed era nominato dal generale; egli, con polizze del generale stesso, poteva
prelevare dalla munizione reale alcuni moschetti da giuoco e un paio di smerigli da una libbra
di palla completi d’attrezzi di servizio, i relativi proiettili e la polvere d’artiglieria necessaria
all’esercitazioni dei suoi discepoli e affidava il tutto al munizioniero della scuola, all’uopo
anche questo nominato. Ogni discepolo doveva però provvedersi a sue spese d’un corno
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pieno di polverino da innesco, di buona corda-miccia, d’un buttafuoco e del suddetto astuccio
contenete i piccoli strumenti personali pertinenti alla sua ‘arte’.
La scuola doveva essere costituita da locali chiusi, tra cui uno adibito a magazzino delle
polveri e delle palle, d’un porticato esterno sotto il quale potessero trovar riparo le bocche da
fuoco e i discepoli in caso di pioggia e d’uno spiazzo esterno per i tiri d’esercitazione, lungo
quest’ultimo abbastanza per potervi adoperare, oltre ai più piccoli moschetti da giuoco, anche
i più grossi smerigli, la cui gittata di punto in bianco era, come abbiamo già detto, di circa 200
passi andanti; a tale distanza si poneva infatti una montagnola di terra con un palo piantato
davanti alla sua base e su tale palo, doppio e forte, alto circa tre braccia, s’inchiodavano e
attaccavano a mo’ due rotelle d’assi di pobbia (‘pioppo’) o di pino larghe un braccio e mezzo,
inchiodate l’una sull’altra, ma di maniera che le commessure dell’una andassero in senso
contrario a quelle dell’altra; ciò perché una sola rotella si sarebbe subito spezzata, invece,
essendo doppia, il proiettile la bucava solamente. Al centro della rotella si dipingeva un
cerchio nero dal diametro di mezzo palmo, detto brocca, e questo era il bersaglio. La terra
che costituiva la montagnola retrostante doveva essere molto ben cribbiata, per evitare che,
colpita dalle palle, da essa schizzassero via sassi pericolosi per gli scolari che si ponevano
presso il bersaglio per controllare la precisione dei colpi tirati dai loro compagni. Le palle
sparate si recuperavano e l’opera di recupero era, nei posti di mare, affidata a una squadra di
forzati delle galere, i quali zappavano accuratamente tutto il terreno della montagnola e ne
estraevano le palle, le quali si riconsegnavano al munizioniero della scuola; infine il cumulo di
terra era ricostruito. A Mantova verso il 1620 gli scolari bombardieri, dopo essersi impratichiti
dei suddetti moschetti da giuoco, s’esercitavano non con gli smerigli bensì con canne ad
avancarica, cioè con falconetti da una libbra di calibro (A. Angelucci, Notizie ecc.)
Toccava al capomastro tenere il conto e il controllo degli esiti e introiti del magazzino della
scuola, accettare o espellere gli studenti della scuola, istituire un registro in cui, oltre a
segnarsi tutti i quantitativi mensili di polvere e palle dispensati alla scuola, si segnavano i
nomi di tutti gli studenti, le date in cui ciascuno era stato ammesso alla scuola e tutti i tiri che
ognuno di loro aveva effettuato nel mese precedente; tale registro era sottoposto al generale
mese per mese. Il munizioniero era generalmente chiamato il maggiordomo della scuola e
generalmente non percepiva alcun salario, ma il suo incarico era egualmente remunerativo
perché spesso tra gli studenti nascevano delle sfide od organizzavano delle gare di tiro al di
fuori dell’addestramento ordinario e per questo egli, facendosele pagare, forniva loro polvere
e palle dall’armeria della scuola; la polvere, con quel danaro ricevuto, doveva ovviamente
essere ricomprata, mentre il compenso percepito per le palle, poiché queste si ricuperavano,
restava al maggiordomo. Inoltre spesso alla scuola anche si svolgevano gare tra bombardieri
o tra personaggi facoltosi che si dilettavano d’artiglieria:
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… i quali, per la ordinaria commodità che quivi si ritrova di artiglieria, palle e polvere, non si
curano (‘non si fanno un problema’), per scuotersi un appetito, di pagar le palle e polvere al
maggiordomo (LT. Collado. Cit. P. 343.)

In genere nelle prove o gare di mira si concedevano tre tiri a ogni partecipante, perché il
primo serviva a riconoscere la bocca da fuoco, il secondo a correggere la mira e il terzo era
quello che contava:
… Là onde tra bombardieri prattichi si ha per proverbio commune che in tre tiri dicono che si
deve conoscere la sufficienza del bombardiero e che di questi tre tiri il primo è del pezzo, il
secondo della polvere, il terzo del bombardiero; perché al terzo tiro lui ne deve haver havuta
vera cognizione, dell’uno e dell’altra, e fare un honorato tiro o non dimandarsi bombardiero
(ib.)

In alcuni luoghi il maggiordomo percepiva invece un salario, ma non perché gli si


riconoscesse una continuità lavorativa, ma solo perché, non trovandosi la scuola in una
località costiera dove ci fosse la comodità del lavoro quasi gratuito prestato dalla gente di
galera, toccava a lui sostenere la spesa del rifacimento delle rotelle da bersaglio e della
zappatura della montagnola alla ricerca delle palle.
L’insegnamento praticato agli aspiranti bombardieri della scuola s’effettuava mescolando il
dolce del tirar dell’artiglieria con l’amaro dell’estudio della theorica (ib.), il che significava che
un buon bombardiero doveva saper leggere, scrivere e far di conto, in modo da essere in
grado di misurare altezze, profondità e distanze; doveva inoltre imparare a costruire e fare
tutto quello che concerneva l’artiglieria, ma nessuno si sarebbe un giorno aspettato da lui
grosse cognizioni di fonditura delle canne o di fabbricazione e raffinazione delle polveri, arti
queste infatti troppo specializzate per lui che era, per quanto riguardava le arti meccaniche e
piriche, solo un generico. In aggiunta s’imponeva agli studenti l’osservanza delle costituzioni
o statuti della scuola, i quali il capomastro doveva affiggere all’interno della scuola affinché
nessuno potesse allegare di non essere a conoscenza:

… Primieramente, Signore, si fa acommodare un pezzo di asse di legno e quel si fa pianare e


far polito ed in esso si fa dipingere la figura di madonna Santa Barbara, avvocata de’
bombardieri, e sopra di essa tavoleta vi si attaca con la cola una carta pecorina, dove vi sono
scritti i statuti della scola (ib.)

Queste costituzioni od ordinamenti potevano naturalmente variare da luogo a luogo; il


Collado riporta quelli delle migliori scuole da lui visitate:

… Tutte quelle scuole, Signore, ch’io ho visto, tutte si servono di certe leggi ed ordinazioni,
ancorché per la maggior parte le ho viste esser differenti, secondo che i paesi e habitatori

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sono diversi; però delle scuole che io ho praticato quelle (che) sono assai più ben ordinate e
di maggior numero di bombardieri, cioè quella della città di Burgos in Spagna, che fa
amministrare la Maestà Catolica, e quella della Signoria di Venezia, perciò che quivi sono ‘sì
belli statuti e si osserva uno grande ordine (ib.)

Vediamo dunque ora lo statuto dei bombardieri alcuni tra i più interessanti tra questi statuti e
cioè quello reperito dall’Angelini nell’archivio S. Fedele di Milano, documento che lui definisce
inedito, ma che era stato già riportato addirittura dal Collado nella sua Prattica:

- Che nessuno bestemmiasse alcun santo, sotto pena di tre tratti di corda e di altre pene
pecuniarie, di cui un terzo andava all’accusatore, un terzo al capomastro e un terzo alla
compagnia o confraternita di Santa Barbara:

… da comprar della cera per accompagnar i fratelli morti, quando si portano alla sepoltura, e
da celebrare le messe ed altri offizij che si dicono ne i giorni solenni. (Ib. P.345.)

Tre tratti di corda era pure la pena da infliggersi allo studente che ingiuriasse, mentisse o
mettesse mano a spada o pugnale; in quest’ultimo caso gli era anche sequestrata l’arma.

- Che, appena arrivati alla scuola, subito gli scolari si togliessero la cappa e la spada lunga;
se invece portavano, insieme ai loro strumenti del mestiere, la spada corta, questa potevano
tenerla, per esser questa la propria arma de’ bombardieri.

Ed ecco l’Art. 11:

Che al tempo che lui (lo scolaro) mette la palla habbia per buona devozione di segnar del
segno della Santa croce la bocca del pezzo con la palla istessa ed invochi il nome di Santa
Barbara gloriosa.

E l’Art. 16:

Che, venendo in scuola a far la prattica, ogn’uno di loro porti lo stuccio delle sue ferramente
con la sua squadra, colibre, over regola, compasso ed aguglie e due over tre fogli di carta
reale da poter imparare a tagliar le cazze, terziare e squadrare i pezzi…

In caso di contravvenzione a quest’ultima regola, la pena era di quattro libbre di cera lavorata
da riconoscersi alla confraternita di Santa Barbara. L’osservanza degli statuti scolastici, i
quali potevano essere aumentati a discrezione del generale dell’artiglieria o del suo
luogotenente, doveva essere giurata dai candidati in mano del capomastro prima d’esser
ammessi. I bombardieri addestrati alla scuola non percepivano in tempo di pace alcun salario
e prendevano la paga ordinaria solo se destinati per servizio di guerra o di presidio; erano
obbligati, se arruolati per la guerra, a seguire l’esercito per tutto il tempo che al principe
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sembrasse necessario, sotto pena di galera perpetua o addirittura della vita. In tempo di pace
godevano però degli stessi privilegi degli altri militari, eccezion fatta dell’alloggiamento franco,
e cioè della libertà di portare le armi consentite, dell’esenzione da alloggiamenti di soldati e
da tutte le gravezze di pagamenti e gabelle.
Quando si presentava all’esame di fine corso, lo scolaro bombardiero doveva presentarsi,
oltre che con la daga o corta spada tipica dei bombardieri, con l’astuccio (vn. guazina,
‘guaina, vagina’) dei suoi piccoli strumenti professionali personali; la predetta guazina dello
scolaro della scuola veneziana doveva contenere quanto segue:

3 stili o aguggie di differenti misure per sturare (vn. lescare) lumiere.


2 trivelle di differente misura per forare nuove lumiere.
2 compassi, uno grande e uno piccolo.
1 sagoma di latta.
1 cortello (‘coltello’) grande.

Essendo l’artiglieria così greve e pesante da maneggiare, l bombardiero modello doveva


essere molto robusto:

… l’huomo dato a questo offizio, essendo fiacco di vita e debole di natura, con una ‘sì gran
fatica presto si muore o si inferma e si stracca (LT. Collado. Cit. P.338).

I bombardieri del tempo avevano fama d’essere generalmente degli ubriaconi, sempre pronti
a eccedere nel vino, ma quest’intemperanza nel bere non dipendeva tanto dal mestiere
quanto dalla nazionalità, specie da quella tedesca, così come si costatava del resto anche tra
i fanti e tra le milizie montate. Da dove aveva dunque origine una così comune opinione?
Leggiamo ancora il nostro principal autore, cioè il Collado:

… L’origine, Signor, di quella mi pare havere havuto principio e fondamento dalla molta copia
di artiglieri tedeschi che nelle fazioni dell’artiglieria se sono ritrovati a’ tempi nostri; li quali,
come Vostra Signoria sa, sopramodo amano il bevere e stimano a honore l’imbriacarsi, quel
che tra l’altre nazioni – e maggiormente spagnoli ed italiani – l’hanno per infamia e dishonore
(ib. P. 337.)

Il buon bombardiero non doveva dunque eccedere col vino, ma neanche col cibo, come
anche facevano i tedeschi:

… Poi perché il fumo del salnitro e del solfo nuoce al capo, fa di mistieri che, quando ha
d’andar in fazione, non sia né digiuno né troppo pieno (H. Cataneo. Cit. P. 71v).

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Altra convenienza del bombardiero era quella di poter disporre sempre d’un po’ di danaro
risparmiato, perché egli, non potendo partecipare a lucrosi assalti di bagagli e di città o
fortezze del nemico per la suddetta necessità di guardia continua all’artiglieria, avrebbe
potuto invece così comprare a un ottimo prezzo dagli altri soldati le prede che questi avevano
fatto in quell’azioni; a fanti e cavalieri non era infatti concesso viaggiare invaligiati, vale a dire
carichi di bagaglio, ameno che non fossero ufficiali o personaggi che disponevano d’una
propria carretta al seguito:

… e però (‘perciò’) la maggior parte del guadagno resta in potere del bombardiero, che con
pochi danari alle volte compra cose nobili e di valore, le quali lui può condurre
commodamente sopra del carro dell’artiglieria ed altri della munizione (LT. Collado. Cit. P.
381).

Un giovane artigliero doveva dunque essere a quei tempi considerato dai padri di zitelle un
buon partito matrimoniale! Nonostante la loro particolare competenza e importanza, fanti e
cavalieri consideravano in genere e con ignorante sussiego gli artiglieri non dei soldati bensì
né più né meno che delle comuni maestranze e comunque di un livello non superiore a quello
dei musicanti:

… Molti, non contenti di questo, gli hanno riputati per huomini infami e quasi come esecutori
di giustizia, percioché hanno veduto alle volte legare de’ malfattori sopra un cannone e con
esso tirare alle batterie; e vi aggiungono anchora che e’ (‘essi’) sono scommunicati e che,
mentre esercitano tale arte, è loro vietato ricevere il santissimo Sacramento dell’Eucharistia…
(G. Busca. Cit. P. 83.)

E i detrattori degli artiglieri usavano anche portare a esempio gli addetti alle macchine da
guerra (gr. τεχνίται) degli eserciti antichi, i quali non erano mai soldati bensì servi e persone di
nessun conto; ma, come ancora scriveva giustamente il suddetto Busca, tutto ciò si diceva a
torto, perché i bombardieri, oltre a combattere in guerra quanto gli altri militari, erano
anch’essi contraddistinti da tutti e tre gli elementi basilari che facevano di un uomo un soldato
e cioè il soldo, il giuramento e le ordinanze.
Nelle sue raccomandazioni al bombardiero, Il Busca così concludeva:

… Nell’ultimo, per generale riccordo, in tutta la sua professione farà di havere sempre in
memoria, ogni volta che egli tiri di artiglieria od operi cosa alcuna di fuoco, che ha sempre il
suo nimico dinnanzi, cioè la polvere, la quale per la sua gran violenza, non essendo con
molta diligenza e con grandissima cura governata, rompe l’artiglieria, arde i circostanti e fa
più danno, per così dire, a gli amici che a nimici, (il) che ci avertisce sempre a essere
svegliati e molto accurati e sobrij in tutte le operazioni che col mezo di tanta forza si hanno ad
esequire… (Ib.)

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E proprio per questi stessi motivi di sicurezza, il bombardiero doveva stare attento a
mantenere sempre buoni rapporti con tutti e a non offendere nessuno, perché, approfittando
delle polveri e delle altre materie pericolose che continuamente doveva maneggiare, era
facile vendicarsi di lui e fargli proditoriamente del male, come abbiamo già accennato a
proposito del mortale incidente capitato al da noi più volte già ricordato fonditore Annibale
Borgognone a Ferrara nel 1567:

Egli si deve mantenere con gentilezza in rapporto con tutte le genti e specialmente con coloro
con cui ha a che fare tutti i giorni in guerra ed essere attento, premuroso e diligente in tutti gli
aspetti del suo detto mestiere…
… perché tutte le volte che egli tira con qualche pezzo d’artiglieria o che si occupa di polveri
egli ha il suo nemico mortale davanti a lui, cioè le dette polveri, le quali, a causa della loro
gran forza e virtù a volte fanno crepare la bocca da fuoco dal quale il detto mastro
(bombardiero) sta tirando, dal che egli è (sempre) in pericolo; e, anche se quella non si
rompe, c’è che il detto mastro è sempre in pericolo d’essere bruciato dalla detta polvere, se
egli non è abbastanza accorto e prudente da guardarsene; e di quelle polveri il solo vapore è
vero veleno per gli uomini […] E anche i nemici si accaniscono più contro di lui che contro
tutte le altre genti di guerra perché lo vogliono rovinare e uccidere approfittando degli
inconvenienti del suo mestiere; tutte le quali circostanze sono per il detto maestro (molto)
pericolose (N. Luillier. Cit.).

E ancora:
Un mastro cannoniere, quando si occupa di polvere o di qualche altro artificio da fuoco, deve
osservare gli insegnamenti che si seguono per evitare e star attento che le dette polveri non
gli facciano alcun male; poiché le materie di cui i detti artifici e polveri sono fatti, quando
vengono mescolati insieme, nuocciono alla testa e al cuore e fanno imputridire il fegato,
specialmente alcuni artifici in cui si mettono veleno e altre cose molto pericolose; non deve
assolutamente il detto mastro maneggiare le dette materie a cuor leggero. Si deve guardare
dal bere troppo vino e deve mangiare vivande delicate per il pericolo delle coliche gastriche e
dei mal di pancia che sovente vengono a coloro che fanno detto mestiere. Si deve guardare
dal mangiare uova sode, aceto, lardo, bue salato, piselli, né tanto meno frutta, né tutte le altre
vivande calde e secche, ma deve mangiare vivande fredde e umide (ib.)

Il Luillier proponeva due unguenti che egli diceva ottimi per guarire dalle ustioni da polveri
piriche e da fuoco in genere:

Prendete un quarto di libbra di grasso di porco macellato il più recentemente che possiate
trovare, tritatelo minutamente e fatelo fondere in una padella a fuoco lento e, quando sarà
fuso, gettatelo il più pulitamente che potete in acqua fresca e lasciatelo raffreddare, poi
tiratetlo fuori dall’acqua e lasciatelo sgocciolare, dopo prendete il giallo (‘il rosso’) di due uova
e toglietene il germe e tutto ciò che vi è sopra, poi prendete un cucchiao pieno di fior di
frumento e mescolate energicamente tutte queste materie insieme e pestatele forte finché
non si possa più riconoscerle e di quest’unguento fate un impiastro sulla scottatura o ustione
e sarete ben presto guariti senza gran dolore ed è ben sperimentato. (Ib.)

Ed ecco il secondo con il quale lo stesso Luillier era una volta guarito:

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Prendete un’oncia di biacca bianca e due oncie di poluleo (‘estratto di gemme di pioppo’),
mescolate tutto insieme e pestatelo energicamente e di quest’unguento fate impiastri con
carta grigia (‘carta grossolana’). Con tal’unzione io ho guarito in nove giorni una mia mano
ustionata sino all’osso e parecchi altri ustionati o scottati. (Ib.)

La prima delle due suddette ricette è chiaramente d’origine pratica, infatti il grasso animale
era di uso comune nell’artiglieria per l’ingrassaggio delle ruote e delle sale; la seconda invece
ha una provenienza sempliciale, quindi più dotta. Anche nei Precetti del Ruscelli troviamo
una ricetta di strutto di porco raffinato per la cura delle ustioni e poi un’altra, questa piuttosto
complessa, addirittura per la riduzione indolore delle fratture, la quale richiedeva, tra gli altri
ingredienti, vermi che si truovan fra le spazzature, lavandoli e poi facendoli seccare in forno
[...] e quando ancora non potesti avere i detti bruschi o vermi di spazzatura, potrete far senza,
ma, avendone, tanto meglio. (G. Ruscelli. Cit. P. 12v.) Il rimedio consigliato dall’Isacchi era
alquanto più elaborato:

Pigliasi mirra soldi doi, incenso soldi doi, cera netta soldi quattro, oglio d’oliva libra una e poi
metterete ogni cosa in una pignata nuova grande, che vi stia ogni cosa dentro, agiungendovi
però un bichiero di vino bianco e grande, bollito con scorze di sambuco, non della prima
scorza di fuora ma della seconda, e che sia bolllito tanto che sia calato la metà, e poi levate
via le scorze e mettete il predetto vino bianco in la pignata, lasciandola bollire tanto che sia
spesso, e, quando voi vorrete vedere se sarà cotto, pigliatene un poco in s’uno cocchiaro e,
se sarà cotto, s’apprenderà come sia raffreddato e, quando sarà cotto, porrete la pignata a
raffreddare, che si apprenderà come se fusse cera netta e sarà liquido da toccare.
E chi volesse metter in opra tal rimedio fa di mistieri che pigli torli dua d’ova fresche e
sbatterli con oglio rosato tanto che venghi liquido e poi si bagnino pezze sottili vecchie e si
mettano sul male, eccetto su gl’occhi, lasciandole stare fin l’altro giorno alla medesima hora,
rinfrescando però tre o quattro volte il giorno, che detto rimedio levarà via il fuoco, cioè il
dolore, e romperà le vesiche; e, in caso che non fussero rotte in tal hora, le taglierete e subito
sugate (‘asciuigate’) le dette vesiche, li metterete su delle pezze con lo rimedio fatto nella
sudetta pignata e le mudarete tre o quattro volte il giorno e anco la notte, annetando però
sempre il male, non gli tornando però più la pezza levata, ed il simile farete alle pezze
dell’oglio rosato con i torli, (il) che rinfrescherà assai, e nel medicare bisogna haver riguardo
di salvar le palpebre de gl’occhi, tanto di sotto quanto di sopra, perché sarebbe pericolo che’l
detto unto, accompagnato con la marza (‘marcia’), andasse nell’occhio e gli facesse gran
dispiacere, (il) che avvertendo che detta scottatura menarà gran marza, e, asciugato bene la
detta marza con pezze nette, e non bisogna far carestia di pezze, perché ve ne vuol assai.
E, medicando bene la scottatura, non gli rimarrà il segno, facendo avertito che bisogna
cavar bene la marza palpeggiando sopra la scottatura con pezze nette e, sel fosse
abbruggiato sotto gli capeli o sia la barba, fa di mistieri tosarla via e, guarito che sarà,
pigliarete vino bianco che sia bollito con salvia, lavanda, rosmarino e lauro; con tal lavanda
per alcuni giorni vi lavarete, che vi rimanerà la scottatura tanto netta quanto che mai vi fosti
scottati. (Cit.)

Doveva inoltre il buon bombardiero far sempre attenzione che in batteria i buttafuoco fossero
sempre tenuti sotto vento rispetto alle polveri e alle canne già cariche, che in quartiero non si
portasse alcun fuoco nei presi delle polveri se non in sua presenza e che qualche ufficiale, il

516
quale avesse il nuovo vizio americano di fumare il tabacco, lo facesse tenendosi non solo
lontano da polveri e materie incendiarie ma anche mantenendosi sotto vento. Anche nei
Precetti raccolti dal Ruscelli troviamo molte raccomandazioni di sicurezza per il prudente
bombardiero e quindi il tenere le polveri a sopravvento dei fuochi, il vietare a sconosciuti di
avvicinarsi alle munizioni né alle artiglierie, il controllare l’interno della canna prima di
caricarla sia con lo spazzatore dalla bocca sia con lo stiletto di ferro dalla lumiera per esser
certi che non vi fosse qualcosa di estraneo dentro e quindi spazzare e rispazzare l’interno
della canna prima di caricarla, per evitare che qualche rimasuglio di fuoco rimastovi
accendesse all’improvviso la nuova polvere e uccidesse il bombardiero, e non caricare in
eccesso la canna per evitare che crepasse allo sparo:

... e, per ogni volta che ti bisogna caricare, spazza il pezzo, per prescia che habbi, perché
molti sono stroppiati in parte per tal negligenza; e, quando in un fattione, ti venisse manco lo
spazzatore e bisognasse celerità, piglia un’asta ed in cima di quella legale una berretta o
cappello e quello usa e con le mani metti dentro la polvere che basti e con quello spazzatore
che facesti spingila al suo luogo....
... guarda il pezzo che ti è consegnato di farli far nel letto di dietro una cassella coperta tanto
grande che ci possi star colcato ed in questa ci puoi tener palle, come anco, quando si
piantasse l’artiglieria senza ripari, ti puoi locare nella cassella per salvarti dall’archibugiate
degli nemici; e ci puoi anco dormire e tenerti qualche altra cosa da mangiare e per altri infiniti
rispetti... (G. Ruscelli. Cit. P. 15r.)

Alcuni artiglieri, specie gli inglesi, appena dato fuoco alla loro bocca da fuoco, soprattutto se
della qualità o della resa di quella non molto si fidavano, usavano gettarsi immediatamente
proni a terra al fianco di essa, in quanto si era notato che, quando l’artiglieria crepava, i
frammenti, specialmente quelli del legno e del ferro di cui erano fatte le ruote, raramente si
dirigevano verso il basso, ma perlopiù schizzavano di fianco o verso l’alto; si trattava di un
comportamento molto pragmatico, dimostratosi più volte preservante, ma gli artiglieri latini
non l’usavano perché evidentemente non lo ritenevano decoroso.

517
Capitolo XX.
La successiva evoluzione nel Seicento.

Abbiamo premesso a questo capitolo che il discorso che avremmo fatto seguire si sarebbe
riferito soprattutto all’artiglieria dalle sue origini alla fine del Cinquecento, ma vogliamo
comunque adesso dir brevemente qualcosa anche dei cambiamenti che tale arte subirà poi
nel corso del Seicento. Iniziamo con le considerazioni di Jean Errard de Bar-Leduc (?-1610),
ingegnere militare del re Enrico IV di Francia, il quale, nel suo trattato del 1604, La
fortification demonstrée et reduicte an art, scriveva che un esercito assediante doveva di
regola disporre di un cannone da batteria con mille palle per ogni mille fanti, ma, se si voleva
abbreviare i tempi dell’assedio, si doveva arrivare fino a due cannoni ogni mille fanti;
bisognava inoltre calcolare che per il traino di ogni cannone e di tutte le sue pertinenze
occorrevano duecento cavalli. Un inventario del 1625 riportato dal solito insostituibile e
impagabile Angelucci e che riguarda artiglierie estensi di Rubiera, Reggio Emilia, Carpi e
Sassuolo; ci permetterà di capire con quali artiglierie si era entrati nel nuovo secolo, anche se
bisogna tener conto che questi inventari comprendono quasi sempre anche vecchie canne in
disuso; per semplificare ci è parso conveniente sommarne i quantitativi per tipo e descriverli
tralasciandone gli elementi decorativi; iniziamo dunque da quelli del primo genere, come
segue:

- 4 canoni ricchi di metallo, cioè di gran spessori del bronzo, di calibro 50 e di un peso che
variava dalle 8.319 alle 8.500 libbre ciascuno; erano segnati A, cioè o erano stati gittati
durante il ducato di Alfonso II (1559-1597), e quindi, pur essendo di gran spessore di bronzo,
non erano recentissimi; oppure erano ancora più vecchi, perché gittati dal più volte
summenzionato fonditore Annibale Borgognone.
- 5 canoni poveri di metallo, cioè di spessori del bronzo inferiori a quelli dei precedenti e
quindi probabilmente di detti più vecchi, di calibro due da 53, uno da 50 e due da 40, di un
peso che andava da 4.700 a 6.000 libbre. Due erano incamerati, in pratica obsoleti, e
pertanto uno di essi è anche detto antico incamerato. Due erano segnati A, come i precedenti
più moderni, e tre invece B; ora, poiché non ci fu alcun duca estense, almeno nel
Cinquecento, che avesse nome iniziante con quella consonante e probabile che significasse
anche questa ‘Annibale Borgognone’.
- 2 mezzi canoni da 20 con arma Pia (‘con stemma della famiglia dei Pii di Carpi’).
- 1 mezzo canone antico incamerato, canna questa molto anomala in quanto poteva sparare
palle di ferro da 25 o di pietra da 8; inoltre era disegnato a vite dalla metà in avanti. Mostrava
il peso di libbre 3.450 e il segno F.

Canne del secondo genere o delle colubrine:

- 4 colubrine, di cui una da 30, povera di metallo (quindi vecchia), lunga 26 bocche, pesante
libbre 6.725 e segnata B; una da 25 (di onesta groseza), lunga 30 bocche, pesante 6.425 e
segnata C; una da 20 (di mediocre groseza), pesante 4.325 e segnata D; infine una detta la
Julia, da 50, della quale abbiamo già detto a proposito del fonditore Annibale Borgognone.
518
- Un quarto di colombrina; canna assimilabile al sagro, quindi dalle 8 alle 12 libbre di
calibro.
- 5 sagri tra le 10 e le 12 libbre di calibro, pesanti dalle 2.600 libbre alle 3.900, lunghi uno
24 bocche (corto di cana), gli altri dalle 29 alle 31⅔, di cui due segnati E, uno F, uno L e uno
I. Inoltre tre sono definti di onesta groseza e uno di conpetente metallo.
- 8 passavolanti dalle 6 alle 9 libbre di calibro, dalle 32 alle 43 bocche di lunghezza, dalle
3.300 alle 4.100 libbre di peso, di cui 6 richi di metallo e 4 poveri di metallo, segnati con varie
lettere uniche.
- 3 falconi, di cui uno con arma Pia (come più sopra già spiegato), uno ottagolatero con la
pigna
(cioè con il codino) e uno con una Lucerta (la ‘salamandra’ di Francia).
- 36 falconetti da 1½ a 4 libbre di calibro, pesanti dalle 650 alle 1.615 libbre, lunghi
generalmente dalle 31½ alle 35 bocche, segnati con varie lettere uniche, dei quali due rotti
(uno crepato e l’altro scavezzo a traverso) e due acopiati asieme in una cassa sola per fare
due tirri in un colpo solo.
- 3 moscheti da 1 libbra di calibro, di cui due detti di onesta groseza e uno rico di metallo.
- 2 smerigli.
- 2 smeriglieti da ½ libbra di calibro. (A. Angelucci. Cit. P. 392.)

Quasi tutte le bocche da fuoco di quest’inventario appaiono essere state gittate nel secolo
precedente e quindi questo documento contribuisce a dimostrare che sostanzialmente
l’artiglieria non si evolse ulteriormente nel periodo che andò dall’inizio del Seicento alla
Guerra dei Trent’anni; un segno inequivocabile del loro appartenere al Cinquecento era il
presentare le superfici esterne molto spesso non lisce bensì ottagolatere oppure scanalate a
spira; altri avevano la culatta terminante in una codina a forma di pigna. Per quanto concerne
i segni esteriori, una canna mostrava una rosa, due la salamandra di Francesco I di Francia
(una lucerta e un drago), due una testa d’aquila, due una testa di Leone, di cui una
sormontata dallo stemma della famiglia modenese Rangoni, due l’arma della famiglia
Bolognese dei Bentivoglio, una il confalone dello Stato della Chiesa, nove lo stemma della
repubblica di Venezia, tre lo stemma della famiglia dei Pii di Carpi.
Le stesse caratteristiche troviamo in un breve inventario del 1634 che riguarda l’artiglieria
presente alla torre d’avvistamento marittimo Chiaruccia, presso Santa Marinella, documento
citato dalla Bandinelli:

Un falconetto di metallo (‘bronzo’) da 5.


2 mortaletti di ferro.
2 quarti cannoni, di cui uno da 12 e uno da 16.
2 colombrine, una da 25 e una da 27.
1 mezza colombrina da 16. (Angela Carlino Bandinelli, Santa Marinella nel caleidoscopio
del tempo. Roma, 2002.)

Vi erano poi armi da fanteria e cioè 2 moschetti e146 archibusi forniti di tutto punto; ma la
cosa più singolare era l’accumulo di quasi 20mila palle, delle quali più di un terzo erano non
di ferro bensì di marmo, materiale che abbiamo già visto usato per i proiettili della prima
artiglieria, cioè di quella del secolo quattordicesimo, ma che, per quanto riguarda ora il
519
Seicento, rappresenta in verità l’unico caso che ci sia stato dato di trovare che dimostri un
uso balistico e non ornamentale delle palle di marmo, materiale più pesante della pietra ma
altrettanto frangibile, per cui, come quella, era adatto soprattutto a colpire vascelli e bastite,
ossia fortificazioni di legno.
Passiamo ora ad alcuni inventari tedeschi del 1630 pubblicati da Joseph Furttenbach nel suo
Architectura martialis etc. (Saurn, 1630); molte bocche da fuoco ricordano ancora quelle di
quasi un secolo primo che abbiamo descritto a proposito del Fronsperger, anche, se
naturalmente, ora rinforzate, cioè di metallo più spesso, e quindi da adoperarsi con polveri
più potenti:

Metalline (‘bronzee’) Doppelhacken, die haben allein jhre enserne Gabeln und feine Böck
(‘con loro forcola e loro cavalletto’). Calibro: 4½ Loth (‘mezze once’) di piombo.
Scharpffentindel oder zwifache Doppelhacken ( ‘doppie delle Doppelhacken’), auch
Spingarden genant, jhr Rohr ohne den Schafft ist. 6½ Schuch (piccola unità di misura).
Calibro: 6½ Loth (‘mezze-once’) di piombo.
Bockstücklin, (‘moschetti da posta’).
Smeriglie oder halbe Falchoneti (‘smerigli ossia mezzi falconetti’) da ¾ di libbra di piombo.
Falchonet da 2 libbre
Falchonen da 6.
Halbe Schlangen (‘mezze colubrine’) da 10.
Ganze Schlangen (‘colubrine intere’) da 20.
Viertel Carthaunen (‘ quarti di cannone’) da 12.
Halbe Carthaunen (‘mezzi cannoni’) da 25.
Ganze Carthaunen (‘cannoni’) da 50.
Steinstücke (‘bombardelle’) da 3 libbre di pietra.
Pölern (‘mortaletti’) da 80 libbre di palla di pietra (o di granata o di mitraglia) chiamati Leoni,
da 60 chiamati Grifoni, da 40 chiamati Tigri e da 20 chiamati Orsi, da 12 chiamati Dragoni,
da 8 chiamati Aquile, da 6 chiamati Astori e da 4 chiamati Sparvieri (sincope di sparavieri).

Non sappiamo se i fantasiosi nome di animali dati ai suddetti Pölern erano di regola o solo
occasionali; come già sappiamo, questi mortari da fanteria erano stati già molto usati nel
secolo precedente, ma allora con i nomi di (Feür)Böler(n) o Narren e halben Böler(n) o
halben Narren; quasi uguali erano invece rimasti, rispetto a quelli già visti per il
Cinquecento, i nomi Bockstücklin [Bockbüchssen(lin)] e Scharpffentindel

[Scharpffentin(lin)]; queste ultime erano dette, come si vede, anche Spingarden. Ancora
esistenti e adoperate erano dunque anche le Doppelhacken, ora dichiaratamente di bronzo,
mentre non più compaiono negli inventari quelle semplici cinquecentesche (Hacken) descritte
dal Fronsperger. Aggiungiamo che il Loth (‘mezza oncia’) equivaleva all’odierno peso di gr.
16,66.

520
I fanti erano ora armati non più di archibugio o moschetto ma solo di quest’ultimo, quindi
evidentemente, anche se ancora da usarsi con l’ausilio della forchetta, molto alleggerito
rispetto a quello detto di Biscaglia del secolo precedente:

Mussquetten sampt jhren Pandalier, Pulfferflaschen und Gabelin (‘con loro bandoliera,
fiaschi da polvere e forcina d’appoggio’).

Il Chincherni, la cui opera fu pubblicata nel 1640, voleva la lega ottimale del bronzo di sole
otto libbre di stagno ogni cento di rame e preferiva che le bocche da fuoco del primo genere
fossero alla culatta di spessore anche superiore a una bocca e cioè una bocca e 1/8, mentre
s’incominciava in questo periodo a distinguerle in due sottospecie e cioè canne da
campagna, fino alle 12 libbre (fino alle 19, secondo il Busca), i quali si caricavano col peso-
palla di polvere, e colubrine, dalle 12 libbre in su, i quali si caricavano invece con i 4/5 del loro
peso-palla. La norma delle 32 bocche di lunghezza per queste canne non era in realtà più
valida, in quanto, mentre i pezzi più piccoli tendevano ad avere canne più lunghe di quelle
che avevano avuto nel secolo precedente, al contrario le colubrine di più di 30 libbre di palla
si facevano ora alquanto più corte di canna e ciò probabilmente allo scopo di limitarne il
grande peso, motivo questo per cui anche si tendeva a usare soprattutto quelle da 20, visto
che in effetti rendevano quanto quelle molto più pesanti da 30. Il Boillot scriveva che ai tempi
di Francesco I, quindi si riferiva alla prima metà del secolo sedicesimo, nell’arsenale di Parigi
si potevano vedere 5 colubrine, dette ‘i porcospini’ perché segnate dalla figura di questo
animale, le quali erano lunghe ben 22 piedi, e due altre, segnate invece dalle armi di
Bretagna, le quali erano ancora più lunghe; si trattava cioè di quel tempo dell’artiglieria di cui
abbiamo già detto, cioè di quando si credeva che più lunghe fossero le canne e più lontano
tirassero e pertanto si fabbricavano allora i passavolanti. Ciò nonostante ancora all’inizio del
Seicento c’era chi credeva erroneamente che maggior lunghezza significasse maggior gittata
e il detto Boillot era tra questi:

… C’è chi allega che la lunghezza dei detti pezzi non serve a niente, l’esperienza mostra il
contrario in tutte le canne, dalle grandi alle piccole (J. Boillot Langrois, Modelles artifices de
feu etc. Chaumont en Bassigny, 1598).

Per quanto riguarda i cannoni o bocche da fuoco del secondo genere, ora si costruivano i
quarti e i mezzi cannoni tutti rinforzati e più lunghi di canna delle precedenti ordinarie 18-20
bocche, cioè da 22 a 24; si era ormai infatti fatta abbastanza esperienza per apprezzare
molto l’artiglieria rinforzata e molto poco quella incamerata o incampanata tanto in uso nel
secolo precedente, perché quest’ultima si era dimostrata pericolosa in quanto più facilmente
soggetta a creparsi. La circostanza che le canne fossero ora per la maggior parte rinforzate
ne permetteva dunque una maggior lunghezza e quindi una maggior precisione dei tiri; infatti
521
metallo più spesso significava carica di polvere più potente e questa a sua volta significava
capacità del proiettile di sopportare per più tempo l’attrito con le pareti dell’anima.
I cannoni petrieri erano gli unici che si continuavano a usare incamerati, come anche i mortari
spagnoli, ma ora se ne facevano anche di seguenti, lunghi questi 12 bocche e con i seguenti
spessori:

Al focone: 4/8 di bocca.


Agli orecchioni: 3/8 di bocca.
Al collo: 2/8 di bocca.

La lunghezza dei petrieri tradizionali incamerati andava adesso dalle 12 alle 14 bocche della
loro camera e il peso, secondo il Chincherni, dalle 120 alle 150 libbre per ogni libbra della
loro rispettiva palla di pietra. Si costruivano ora anche cannoni petrieri con la camera lunga
tre volte la sua bocca e questa larga 3/5 di quella dell’anima e altri che avevano invece la
camera lunga due volte e 4/5 la loro bocca e questa larga un solo quinto, mentre la camera di
quelli terziati per il sesto bastava ora che fosse lunga solo due volte e ¼ la sua bocca, e tutto
questo fa pensare a un uso di polveri più potenti di quelle adoperate in passato e quindi alla
sufficienza di camere più piccole di quelle del secolo precedente; infatti era regola che,
usandosi ora comunemente la sei-asso-asso anche per l’artiglieria, se ne desse un sesto di
meno di quanto si faceva invece adoperandosi la cinque-asso-asso e ciò non solo per aver
quella più salnitro, ma anche per esser fatta di miglior carbone e per esser meglio battuta e
lavorata. La lunghezza della lamina di rame della cucchiare, indicata dal Collado
semplicemente in una palla e ¾, è invece più tardi (1621) prescritta dal Sardi in due palle, ma
meno 1/6 di palla per lato alla punta, con un garbo che la portava a meno un dodicesimo di
palla per lato all’estremità opposta; ciò sia per non prendere troppa polvere sia per arrivare
meglio con la punta proprio in fondo alla culatta. Ancora il Sardi prescrive la carica dei
cannoni in due tratti o cucchiarate per le canne fino alle 33 libbre; oltre questo calibro in tre
tratti, ma diminuendo la prescritta lunghezza di tre palle della cucchiare a sole due e in tal
caso la parte di lamina di rame da inchiodare sul coccone bastava di soli 4/5 di diametro della
palla. Sempre questo autore vuole le cazze per i cannoni incampanati larghe due diametri di
bocca della camera e lunghe tre diametri e mezzo della bocca medesima oppure due
diametri e un terzo quando però si dovesse caricare in tre tratti; prescrive inoltre ovviamente
la stessa larghezza di due diametri di camera per i petrieri, canne, come sappiamo, quasi
tutte incamerate, con il predetto garbo del sesto mancante per ogni lato della punta.
Per quanto riguarda i proiettili composti, molto usati erano ora i sacchetti di mitraglia,
considerati essenziali e importantissimi non solo nella guerra marittima ma anche nella difesa

522
delle piazze; ecco infatti cosa nel suo trattato del 1640 diceva lo Zonta a proposito dei compiti
del sopraintendente d’artiglieria di una piazza assediata:

Doverà sopra ogn’altra cosa far buona provisione di saccheti fatti di legno di Po’, carichi di
balle di ferro e di piombo conforme il genere d’artegliaria […] essendo essi la principal arma
‘si nel diffendersi come nell’offender; e quanto sarebbe d’avantaggio di cieschedun prencipe
tralasciare di spendere ‘si grande numero di danari nel far fabricare fuochi artificiali da guerra,
li quali molte volte offendono e ammazzano li diffensori, ed applicare quel denaro nel
fabricare saccheti, che tanto nuocono al nemico, essendo che, solamente nel appicciarli il
fuoco, ammazzeranno e stirparanno (‘storpieranno’) più gente che non potranno fare
duecento ò ver trecento moschetieri che tutti in una volta faccino salva; e, mentre che
(quando’) le cannoniere de fianchi sono cariche con detti saccheti, diffendono la fossa,
offendono e rovinano l’inimico e ogni traversa che esso facesse; e al contrario fanno li fuochi
artificiali… (Camillo Zonta, Capitan d’artegliaria etc. Pp. 50-51. Venezia, 1640.)

In caso di mancanza di questi sacchetti, il sopraintendente poteva supplire sequestrando


tutte le ferramenta possibili che si trovassero usate nella piazza per farne fare mitraglia e
riempirne così delle lanterne fatte a misura delle bocche da fuoco a disposizione (ib.)
Le casse delle bocche da fuoco del primo genere si facevano ora un po’ più corte e gli assoni
delle stesse un po’ più leggeri di quanto abbiamo detto per la fine del secolo precedente, cioè
più o meno ora uniformandosi a quelle allo in uso per il secondo genere. L’altezza delle ruote
diminuiva ora in proporzione all’aumento del calibro e si facevano alte 14 bocche, come da
regola in uso nel Cinquecento, fino al calibro 6; da 6 a 12, i raggi si facevano di tre bocche
solamente, per cui l’intera ruota risultava alta 12 bocche; dalle 12 alle 30 libbre di calibro, si
facevano alte 10 bocche e da 30 in su nove bocche. Se però la canna d’artiglieria doveva
servire alla muraglia, si continuava ovviamente a fare le ruote alte in conformità all’altezza del
parapetto.
Parlandosi di balistica, notiamo ora che il Sardi tende a identificare il tiro di punto in bianco
non più con quello per il raso dei metalli, come rigorosamente indicava il Collado, bensì con
qualsiasi tiro che colpisse il bersaglio con una linea di tiro perfettamente retta, qualsiasi
elevazione la cassa avesse, e questo anche chiama tirar di mira.
Nel 1640 il Zonta dava le seguenti gittate teoriche di punto in bianco, misure in passi però
geometrici che, come si può vedere, equivalgono più o meno a quelle che abbiamo già
elencate in passi comuni per la fine del secolo precedente, anche se, come predetto, le
canne sono ora quasi tutte rinforzate e le cariche fatte ormai con polveri più forti della vecchia
quattro-asso-asso:

Colubrina da 14 passi geometrici 600.


“ 20 “ “ 740.
“ 30 “ “ 850.
“ 50 “ “ 1.200.
“ 60 “ “ 1.300.
523
Cannone da 20 “ “ 450.
“ 30 “ “ 500.
“ 50 “ “ 750.
“ 60 “ “ 800.
Sagro da 12 “ “ 500.
Falcone da 6 “ “ 360.
Falconetto da 3 “ “ 330.

Il de Cleirac, nella sua opera pubblicata in Francia nel 1661, poneva l’accento sulle seguenti
bocche da fuoco di bronzo che diceva più in uso al suo tempo:

Cannone o corsiero, lungo da 9 a 10 piedi, dalla bocca di sei pollici di diametro (allora detto
calibre de Roy) per palla di libbre 33 e 1/3.
Colubrina, più lunga del cannone, ma dalla bocca di diametro inferiore, cioè di 4 pollici e 10
linee, per palle di libbre 16 ½
Moiana o mezza colubrina, del calibro appunto all’incirca della metà della precedente.
Bastarda, una canna dal calibro a metà strada tra le ultime predette due.
Falcone, dalla bocca di tre pollici e dalla palla di una libbra e ½.
Falconetto, bocca di due pollici, palla da ¾ e mezzo di libbra.

I due ultimi erano canne da campagna. Dai calibri dichiarati notiamo che, moiana e bastarda
a parte, trattavasi di artiglieria già ben standardizzata. Molto vari restavano invece forme e
calibri dei cannoni di ferro colato o battuto e dei cannoni petrieri, i quali tutti, per la loro
leggerezza, restavano ancora molto in uso in marina; i primi si presentavano perlopiù per
palle di 12 libbre o di sotto le 6, specie di 3 o 4, e i secondi utili a sparare mitraglia prima
dell’abbordaggio, non seguivano più alcuno standard, presentando ognuno misure
proporzionate solo alla sua propria bocca. Nell’artiglieria navale svedesi e francesi
introdurranno comunque i già menzionati cannoni di ghisa, materiale più duro del bronzo e
meno sensibile al surriscaldamento.
La piccola artiglieria da braga a cavalletto [vn. (da braga con) pirone, da perit(t)olo] era ormai
in disuso, sostituita dai falconetti, e, per quanto riguarda la fanteria, il moschetto leggero
aveva generalmente rimpiazzato sia il vecchio archibugio sia il pesante moschetto di
Biscaglia; ma al lettore interessato all’evoluzione dell’artiglieria nella seconda metà del
Seicento rimandiamo a quanto da noi scrittone in Le cronache militari del Regno di Napoli
ecc. Smashwords, 2008.

524
Fonti.
Annales monastici. Vol. III. Londra, 1866.
A profitable and necessarie booke of observations for all those that are burned with the flame
of gun powder etc. and also for curing of wounds made with musket and caliver shot and
other weapons of war commonly used at this day both by sea and land etc. Londra, 1596.
Archivio di Stato di Napoli, Sezione Militare, Fondo Excerpta.
Armamentarium Principale oder Kriegs-munition und Artillerey-Buch, cuts of cannon and
other warlike instruments, fireworks, &c. Francoforte, 1625.
Artillerie und Zeugwartung etc. Heidelberg 1669.
Besatzung: ein kurtzer bericht, wie Stätt, Schlösser, oder Flecken, mit kriegesvolck sollen
besetzt seine cc. Francoforte sul Meno, 1563.
Bollettino Storico della Svizzera Italiana, Anno IV, 1882 e Anno XII, 1890. Bellinzona.
Büchssenmeisteren von Geschoẞ, Büchssenpulvern, Salpeter und Feuerwerk etc.
Strasburgo, 1529.
Büchssenmeisterei.Geschoẞ/Büchssen/Pulver/Kuglen/Salpeter/Feurwerck etc.
Strasburgo, 1529 - Francoforte sul Meno, 1531 (1559) (1564) (1597).
Büchssenmeisteren von Geschoẞ, Büchssenpulvern, Salpeter, Kuglen, Feuerwerk etc.
Francoforte, 1597.
Büchssenmeisteren-Compendium etc. Strasburgo, 1616.
Colección de documentos inéditos para la historia de España etc. Madrid, 1843 e segg.
Corpus scriptorum historiae byzantinae. Vollt. 50. Bonn, 1828-1897.
Costantino VII Porfirogenito, De ceremoniis aulae byzantinae
Leone Diacono, Historiae
Giovanni VI Cantacuzeno, Historiarum libri IV
Anna Comnena, Alexiadis
Leone VI, Тάϰτιϰα
Costantino VII Porfirogenito, De administrando imperio
Paolo Silenziario, Descriptio Sanctae Sophiae
Maurizio, Στρατηγιϰόν
Giorgio Cedreno, Historiarum compendium
Giovanni Lido. Dei magistrati dello stato romaico
Zosimo, Historiae novae
Teofane Isauro, Chronographia
Giovanni Kinnamo, Historia
Procopio da Cesarea, De bello vandalico - De bello gothico
Menandro Protettore, Excerpta ex Historia
Giovanni Zonara, Epitomē historiarum
Genesio, Regum libri
Teofilatto Simocatta, Historiarum libri
Teodosio Diacono, De expugnatione Cretae.
An. Chronicon Paschale
Michele Attaliota, Historiae
Niceforo Bryennio il Giovane, Historiae bizantinae libri XXXVII
Michele Psellos, Chronographia
Ioannes Scylitzes, Synopsis historiarum
Agazia Scolastico, Historiarum libri V
Giovanni Malalas, Chronographia
Niceforo Gregoras, Byzantinae historiae libri
Laonikos Kalkokondulos, De rebus turcicis
Niketas Koniatos, Historiae
Giorgio Franzes, Chronichon
Teofilatto Simocatta, Historiae.
525
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Cronache catalane del secolo XII e XIV, una di Raimondo Muntaner, l’altra di Bernardo
d’Esclot etc. Firenze, 1844.
Chronica o comentaris del gloriosissim e invictissim rey en Jacme primer etc. Any
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Cronaca detta ‘Diario del Graziani’, in Archivio Storico Italiano, Tomo XVI, parte I.
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Cronaca pisana del Marangone, in A.S.I, tomo VI, parte seconda. Firenze, 1845.
-Cronaca pisana di Ranieri sardo, in A.S.I, tomo VI, parte seconda. Firenze, 1845.
Crónica de D. Álvaro de Luna, condestable de los reynos de Castilla y León etc. Madrid,
1784.
Crónica de fr. pere Marsili, dominico, in Historia de la conquista de Mallorca. Crónicas
inéditas. Palma, 1850.
Crónica del rey de Aragón D. Pedro IV el Ceremonioso etc. Barcellona, 1850.
Cronica di Pisa (1089-1389) ib. Colt. 1058.
Constabel, oder Büchssenmeister in Feldzügen wie auch ebenmäsiger Gestalt in
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Zuccolo, Gregorio, I discorsi etc. Venezia, 1575.

539
Indice.

Abbr. P. 3
Prefazione e introduzione. “ 4
Cap. I I congegni anti-ossidionali a tensione. “ 10
“ II I congegni ossidionali a contrappeso. “ 37
“ III Le canne da polvere dette lombarde, pommarde e infine bombarde. “ 69
“ IV I progressi dell’artiglieria al tempo di Carlo VIII di Francia. “ 146
“ V Dalla conclusione del Medioevo alla Controriforma. “ 253
“ VI Unità di misura lineari e di peso. “ 301
“ VII Bocche da fuoco del primo genere o colubrine. “ 311
“ VIII Bocche da fuoco del secondo genere o cannoni ferrieri da batteria. “ 336
“ IX Bocche da fuoco del terzo genere o cannoni petrieri. “ 350
“ X Fondizione dell’artiglieria. “ 368
“ XI Orecchioni, casse e ruote. “ 379
“ XII Palle e calibri. “ 389
“ XIII Pirobalistica e proiettili composti. “ 395
“ XIV Polveri piriche. “ 403
“ XV Strumenti di servizio e modi di caricare. “ 412
“ XVI Terziare e squadrare. “ 441
“ XVII Fuochi artificiati. “ 446
“ XVIII Trasporto e posizionamento delle bocche da fuoco. “ 471
“ XIX Stato, treno e scuola d’artiglieria. “ 491
“ XX La successiva evoluzione nel Seicento. “ 518
“ Fonti. “ 525
“ Bibliografia di architettura militare. “ 536
“ Indice. “ 540.

540

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