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L'ARCHITETTO

CHRISTIAN JACQ
COPYRIGHT

L’ARCHITETTO

OSCAR MONDADORI
Traduzione di Giuseppe Settanni
© Éditions Robert Laffont, S.A., Paris, 1985, 1997
Titolo originale dell’opera: Le Moine et le Vénérable
© 2000 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione Segretissimo giugno 2000
I edizione Bestsellers Oscar Mondadori luglio 2001
ISBN 88-04-49535-9
NOTE DI COPERTINA

Parigi, una notte buia e piovosa del marzo 1944. In una


strada del XVIII ème arrondissement, bloccata da due
Mercedes nere, gli agenti della Gestapo aspettano la
loro vittima, il Venerabile. François Branier, depositario
dei segreti della Loggia Massonica “Conoscenza”, non
ha scampo. Anche frate Benoît è nel mirino del servizio
segreto più pericoloso d’Europa. E non per la sua atti-
vità a favore della Resistenza: ciò che interessa il
nazismo sono le sue capacità paranormali di guaritore
e ipnotizzatore. I due uomini si ritroveranno nella
stazione di smistamento di Compiègne, anticamera
dell’inferno del lager. Di fronte a loro, due possibilità:
affrontare le indicibili sofferenze della deportazione o
rivelare i segreti dei loro misteriosi poteri, consegnando
al Reich la chiave per la supremazia universale…
PREFAZIONE

L’Architetto è un romanzo, un’opera di fantasia dove


l’immaginario costituisce una parte considerevole. Ma
mi sembra necessario precisare che questa vicenda si
basa su fatti reali, di cui vale la pena di chiarire alcuni
aspetti.
L’Architetto si svolge durante la Seconda guerra
mondiale. L’ideologia nazista intendeva dare vita a una
nuova religione e a una nuova cultura. Ecco perché
cercò di cancellare tutte le credenze che l’avevano
preceduta, derubandole di quello che ai suoi occhi
possedevano di meglio. I nazisti affidarono all’Ane-
herbe, uno speciale servizio di intelligence che dipen-
deva direttamente da Himmler, il compito di occuparsi
delle società segrete e dei loro adepti, e più in generale
di chiunque fosse ritenuto depositario di poteri occulti.
Questo servizio segreto, ancora oggi poco conosciuto e
vi Prefazione

poco studiato, procedette così all’arresto di veggenti,


astrologhi e maghi, con l’obiettivo di carpire loro i
segreti del mestiere e di verificare l’efficacia delle loro
tecniche. L’Aneherbe riteneva infatti che le loro parti-
colari capacità potessero divenire delle armi potenti al
servizio del Reich, utili a consolidare la sua suprema-
zia. Furono incarcerati anche dei religiosi sospettati di
possedere conoscenze in campi ancora inesplorati a
livello scientifico. I malcapitati furono rinchiusi in
campi di concentramento speciali, dove vi erano appo-
site sezioni specializzate nel trattamento di questi
superdotati.
Soprattutto in Germania, dopo che il regime nazista
si fu consolidato, si procedette alla chiusura delle
Logge massoniche e all’arresto di coloro che vi apparte-
nevano. Sembra per altro che alcuni membri delle
Logge tedesche avessero favorito in un primo momento
l’ascesa di Hitler, e che in seguito, come nella storia
dell’apprendista stregone, abbiano scoperto con racca-
priccio di non riuscire più a controllare il mostro che
avevano contribuito a creare.
Il nazismo creò una propria società segreta, deno-
minata Ordine nero. Ovviamente questa nuova società
segreta non poteva tollerare la presenza di nessun’altra
organizzazione esoterica nei territori del Reich.
Himmler ordinò la distruzione della massoneria, non
senza averla prima spogliata di tutte le sue ricchezze
materiali e spirituali. In Francia, l’SD, il servizio di
Prefazione vii

controspionaggio tedesco, fu incaricato di fare irru-


zione in tutte le sedi della massoneria, e di sequestrare
archivi e documenti. A questo scopo l’SD si avvalse
della collaborazione di personaggi sinistri, quali
Bernard Fay, direttore generale della Biblioteca nazio-
nale. Ma i risultati di questa caccia accanita furono
deludenti.
La ragione del fallimento dell’operazione fu l’esi-
stenza di una corrente iniziatica all’interno della
massoneria stessa, del tutto indipendente da essa.
Dietro la facciata affaristica delle organizzazioni masso-
niche sopravvivevano delle Logge spiritualiste, eredi di
conoscenze che venivano trasmesse fin dall’antichità
solo in forma orale e solo da un Venerabile al suo
diretto successore. Una di queste Logge pare che fosse
depositaria della Regola Originaria dei costruttori di
templi e del segreto del Numero, che permetteva,
secondo una leggenda che vive ancora oggi tra gli
adepti della cosiddetta Libera Muratoria, o Arte Reale,
di creare e costruire a regola d’arte anche il più ardito
degli edifici. Nel nostro racconto, abbiamo dato a
questa Loggia di Rito Scozzese Antico e Accettato il
nome di Conoscenza.
La Loggia Conoscenza fu retta per parecchi anni da
uno straordinario Venerabile che mi confidò personal-
mente l’avventura eccezionale vissuta da un massone e
da un monaco benedettino prigionieri nel medesimo
campo di concentramento nazista. Due persone agli
viii Prefazione

antipodi, per convinzioni e temperamento, che avevano


dovuto ingegnarsi a vivere e a sopravvivere insieme in
quell’inferno. Uno riponeva ogni sua speranza nel
Grande Architetto dell’Universo, l’altro nel Dio della
Bibbia. Impararono a conoscersi, ma in nome delle loro
rispettive fedi nacque tra loro anche un aspro
confronto, che al termine di questa storia sfocerà in
una vera e propria sfida a livello fisico, in cui i protago-
nisti si misureranno, per onorare quello che l’uno
considerava una scommessa con se stesso e l’altro un
voto.
Tutto ciò che qui viene rivelato sui riti, i gradi e i
simboli massonici corrisponde a realtà. La stessa orga-
nizzazione di una Loggia fortemente connotata in
senso esoterico, di cui nessun altro ha mai parlato
prima, per quanto io sappia, è descritta nel modo più
realistico possibile.
Lo straordinario incontro del monaco e del Venera-
bile ha avuto effettivamente luogo in uno scenario
analogo a quello descritto in questo racconto; la Loggia
Conoscenza è esistita veramente, con un altro nome;
l’Aneherbe, dalla triste fama, è stato effettivamente il
più orribile dei servizi segreti dell’era moderna.
Il lavoro del romanziere è consistito quindi nel
raccogliere tutti gli elementi a disposizione e nel
raccontare nei dettagli la storia di due uomini gettati
nella più impietosa delle situazioni.
Ho avuto l’immenso privilegio di conoscere perso-
Prefazione ix

nalmente il monaco e il Venerabile che hanno ispirato i


miei personaggi. Entrambi sono oggi scomparsi. È per
questo che mi sono sentito autorizzato a rompere la
consegna del silenzio.

C.J.
1

P
arigi, una viuzza del XVIII ème arrondissement,
una notte di marzo del 1944. Piovigginava. La
luna era coperta a tratti dalle nuvole.
François Branier, dopo essersi accertato che
nessuno lo stesse seguendo, avanzò nell’androne di un
palazzo fatiscente. Il medico cinquantacinquenne,
dalla chioma argentea, aveva conservato il fisico
massiccio e solenne che gli dava un aspetto rassicu-
rante, severo ma al tempo stesso affabile.
Quando il portone si richiuse alle sue spalle attese
qualche istante nell’oscurità. Cautela indispensabile.
Branier si trovava a vivere l’avventura più pericolosa
della sua vita. Per la prima volta dopo molte settimane
aveva convocato i fratelli per un’importante riunione di
lavoro massonico, in gergo iniziatico una tenuta.
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C’erano parecchie decisioni da prendere, e dovevano


essere prese all’unanimità, come stabiliva la Regola.
La Loggia Conoscenza, all’obbedienza (aderente alla
federazione di Logge) del Grande Oriente di Parigi, era
accusata dalla polizia segreta del Reich di attività
sovversive e di collusione con la Resistenza, e i suoi
membri erano stati decimati da una serie di retate.
Erano rimasti solo in sette a lavorare per la gloria del
Grande Architetto dell’Universo, e ogni volta che dove-
vano indire una tenuta erano costretti a nascondersi e
cambiare il luogo di convegno. Quando il nazismo
aveva trionfato in Germania, i massoni di quel paese
erano stati tra i primi a essere perseguitati dal regime.
Ritenute un pericolo per la sicurezza del Reich, le
Logge erano state sciolte d’autorità. Numerosi fratelli
tedeschi erano stati arrestati, condannati senza un
processo pubblico e deportati.
La Conoscenza era una Loggia diversa da tutte le
altre, poiché possedeva una caratteristica unica. Questa
caratteristica era il segreto del Numero, il segreto essen-
ziale dell’ordine, trasmesso di generazione in genera-
zione solo a un manipolo di eletti. Nel mondo c’erano
pochissimi maestri venerabili che erano stati giudicati
degni di ricevere in eredità questo tesoro. Ma molti di
loro erano morti durante la guerra. Sulle spalle di
François Branier, maestro Venerabile della Loggia,
pesava un’enorme responsabilità: quella di essere forse
l’ultimo depositario del segreto del Numero, a partire
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dal quale tutto poteva essere ricostruito. Doveva


riuscire a trasmetterlo a sua volta, se non voleva correre
il rischio di portarlo con sé nella tomba.
C’era un gran silenzio dentro il palazzo. Branier
sbucò dall’androne e si inoltrò in un cortiletto interno
immerso nell’oscurità. Sulla sinistra, una porta di ferro.
Il medico batté con le nocche tre colpi ben scanditi. —
Avanti — rispose una voce.
Branier comprese all’istante che era stato tradito.
Un fratello non avrebbe mai risposto così. Doveva
fuggire, e alla svelta. Tornò a precipizio sui suoi passi, e
aprì il portone.
Ma il suo tentativo di fuga terminò bruscamente in
quel momento. Sul marciapiede all’esterno dell’edificio
c’erano ad attenderlo cinque uomini in impermeabile
verde scuro. La Gestapo. Delle auto nere sbarravano la
strada alle due estremità. Branier serrò i pugni. Una
rabbia fredda si impadronì di lui. Battersi sarebbe stato
inutile, equivaleva a un suicidio. Rimase immobile,
raggelato, sperando in un impossibile soccorso.
— Complimenti, dottor Branier — disse uno dei
poliziotti tedeschi, un uomo dal volto liscio e pallido, su
cui spiccavano gli occhi, piccoli e mobilissimi. — Si
dimostra ragionevole. Mi avevano detto che era una
persona assennata.
La luce della luna, che si affacciò in quel momento
tra le nuvole, permise a Branier di identificare il suo
interlocutore. Aveva solo una domanda da fargli.
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— Dove sono i miei… i miei amici?


— Al sicuro, come lei, dottor Branier. Stia tran-
quillo. Se vuole accomodarsi nella mia auto…
Il poliziotto aveva un modo di fare ossequioso e
parlava in un buon francese, privo di inflessioni
straniere.
François Branier aveva immaginato molto diversa-
mente le circostanze di un suo eventuale arresto da
parte della Gestapo: manette, percosse, ordini impe-
riosi… Perché tutta quella cortesia affettata, quel
rispetto incomprensibile? Un presagio funesto gli
strinse lo stomaco.
Al momento di salire sulla Mercedes nera, il Vene-
rabile alzò istintivamente la testa e guardò in su. Al
terzo piano del palazzo di fronte, una finestra debol-
mente illuminata. Nell’angolo di sinistra un uomo, con
il viso seminascosto dietro una tendina, spiava la scena.
Sorpreso dallo sguardo di Branier, l’uomo tirò brusca-
mente la tendina e spense la luce.
Branier si rivolse al poliziotto tedesco, a cui non era
sfuggito quel particolare.
— È lui che mi ha tradito?
— Esatto.
— Chi è?
— Non lo so — mentì il tedesco, con aria vaga-
mente divertita. — Posso solo dirle che è un massone
come lei, appartenente a un’altra Loggia. La conosceva
di vista e ci ha aiutato a rintracciarla. Salga.
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Quando l’auto si mise in moto, il Venerabile era


ormai certo che avrebbe dovuto bere quell’amaro calice
fino alla feccia.
— Svelti, per Dio!
Frate Benoît, monaco benedettino, aveva ancora
una volta, sbadatamente, nominato il nome di Dio
invano. Ma poteva invocare a sua discolpa le circo-
stanze. Era infatti impegnato ad agevolare la fuga di
due giovani ebrei, facendoli salire su un camion che
trasportava tronchi d’albero. Per due giorni frate Benoît
li aveva tenuti nascosti nel bosco vicino a Morienval,
l’antichissima abbazia dove il religioso svolgeva da un
anno le funzioni di abate vicario.
La popolazione locale apprezzava le doti particolari
di Benoît: guaritore, radioestesista e ipnotizzatore.
Secondo la grande tradizione dell’ordine benedettino,
il frate si occupava attivamente non solo delle anime
ma anche dei corpi affidati al suo ministero. Con la
collaborazione di gente pratica dei luoghi aveva inoltre
aiutato decine di persone a varcare clandestinamente la
frontiera per sfuggire alla polizia tedesca.
Il camion si era avviato lungo un sentiero nella
foresta che si diramava da una stradina di campagna. I
due giovani ebrei scavalcarono la sponda posteriore e
scivolarono dentro un apposito nascondiglio sul fondo
del cassone. Salvo imprevisti, non sarebbero mai finiti
in uno dei tanti centri di smistamento allestiti dai
nazisti della regione di Compiègne. Le ruote del
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camion slittarono nel fango. Frate Benoit temette per


un istante che il veicolo si impantanasse, come era
successo l’ultima volta. Ma il conducente scalò una
marcia, accelerò bruscamente, e le ruote fecero nuova-
mente presa sul terreno cedevole. Il religioso salutò con
un cenno della mano i due fuggitivi che ormai non
potevano più vederlo. Prima di sera sarebbero giunti
nella parte non occupata della Francia e avrebbero
potuto riprendere la lotta contro l’invasore.
Frate Benoit aveva indosso il suo eterno saio di
colore bigio, stretto in vita da un semplice rosario di
legno a grani grossi. Il monaco, con il suo fisico da
colosso, e il mento coperto da una fluente barba rossic-
cia, non soffriva il freddo. Anzi, amava sfidare l’aria
pungente del primo mattino, quando il bosco era
ancora addormentato, e la solitudine era pressoché
assoluta. In quei momenti gli era più facile avvertire la
presenza di Dio. Era un grande conforto camminare sul
tappeto di foglie morte, ammirare le gemme piene di
linfa sui rami degli alberi che annunciavano la prima-
vera ormai imminente. Che bello! Allora tornava a
sperare: presto la Francia sarebbe riuscita a liberarsi, e
il mondo sarebbe emerso dall’abisso più spaventoso in
cui l’umanità fosse mai sprofondata. E dire che c’era
qualcuno che aveva il coraggio di parlare di progresso…
Frate Benoit affrettò il passo. A mezzogiorno doveva
occuparsi di tre nuovi membri della Resistenza braccati
dai tedeschi. Prima di allora doveva trovare dei vestiti,
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un paesano esperto dei luoghi che potesse guidarli


oltre confine e dei soldi. Dio avrebbe provveduto
ancora una volta a quelle necessità.
Il monaco abitava in una vecchia casa di pietra
situata dietro l’abbazia. Varcando la soglia, si ripromise
di bere un bel caffè bollente. Era il solo lusso che si
concedeva.
Il religioso salì la scalinata di pietra, aprì la porta,
percorse a grandi passi il corridoio, ed entrò in cucina.
Ad attenderlo c’erano tre uomini, avvolti in un
impermeabile verde scuro. Frate Benoit reagì immedia-
tamente. Afferrò una sedia e la calò sulla testa del
tedesco più vicino. Ma altri due agenti della Gestapo lo
presero alle spalle e gli bloccarono le braccia. Il robusto
frate stava per ingaggiare battaglia anche con loro, ma
le armi spianate contro di lui lo costrinsero a desistere.
Un uomo di Dio non ha il diritto di suicidarsi.
— Si calmi — disse uno degli agenti, con il viso
pallido e liscio su cui spiccavano un paio di occhi
piccoli dallo sguardo mobile e attento.
— Perché mi arrestate? — disse frate Benoît. —
Non ho fatto niente di male.
— E questo?
Sul tavolo della cucina, il tedesco aveva posato una
bacchetta da rabdomante, un pendolo da radioestesista
e delle raccolte di appunti che trattavano della guari-
gione per mezzo delle piante medicinali.
Frate Benoît era sbalordito. Era per questo che l’ar-
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restavano? Non si era fatto nessun accenno alla sua atti-


vità a favore della Resistenza… Era una storia assurda,
che non aveva né capo né coda.
— Lei possiede degli strani poteri per essere un
religioso qualsiasi… ci hanno detto che è il migliore
guaritore di Francia, che è in contatto con il mondo
dell’occulto. Abbiamo deciso di verificare.
Quella specie di incubo continuava. Frate Benoît
non credeva alle proprie orecchie. Come era possibile
che degli sgherri della terribile Gestapo si interessas-
sero a simili quisquilie?
— E lei crede a queste chiacchiere! — disse
sdegnato il monaco.
— Credo solo a quello che vedo — ribatté il tede-
sco. — Capisco che non ha molta voglia di rispondere
alle mie domande. La porteremo con noi. La affide-
remo a degli specialisti che sapranno indurla alla
ragione.
Frate Benoît non parlò più. Quei bruti che aveva di
fronte non volevano sentire ragioni, evidentemente. A
questo punto, il suo unico pensiero era la fuga. Ma
prima, voleva sapere. Voleva sapere perché l’avevano
arrestato accampando dei motivi così futili.
Quando gli abitanti di Morienval videro gli agenti
della Gestapo portare via frate Benoît sulla loro auto,
pensarono che l’avessero arrestato a causa delle sue
attività a favore della Resistenza. Nessuno di loro
poteva anche solo lontanamente sospettare la verità.
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F
rançois Branier amava Compiègne. Quando
era bambino, vi aveva trascorso spesso le
vacanze, ospite dello zio. Insieme a lui aveva
esplorato la foresta, pescato nei ruscelli, percorso
decine di chilometri in bicicletta per il piacere di
scoprire valli appartate, paesaggi della vecchia Francia
dimenticata dagli abitanti delle grandi città. Ma oggi il
nome di Compiègne evocava cupi scenari. Era da lì che
i convogli pieni di prigionieri, trattati come bestie,
partivano per i campi di sterminio nazisti. Il Venerabile
non dubitava nemmeno per un istante che avrebbe
conosciuto la sorte abominevole riservata a chiunque
osasse sfidare la Germania di Hitler.
Fu pertanto ancora più sorpreso quando la
Mercedes della Gestapo si fermò davanti a un sontuoso
palazzo nel centro della città. Gli agenti fecero scendere
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Branier e lo condussero al primo piano. I saloni e le


stanze erano stati trasformati in uffici, abbattendo
pareti divisorie e piallando stucchi per lasciare spazio
ai classificatori. Nonostante l’ora tarda, alcuni soldati
erano impegnati a scrivere a macchina.
Il Venerabile fu introdotto in un ufficio lussuoso,
senza dubbio lo stesso che una volta apparteneva al
proprietario della dimora. Alle pareti litografie e acque-
forti che ritraevano i principali monumenti di Compiè-
gne. Parquet tirato a lucido, mobili stile Impero. Seduto
su una poltrona rossa con lo schienale alto un ufficiale
sulla quarantina, in uniforme delle SS, con i gradi di
maggiore. I capelli nerissimi, il viso dai tratti squadrati.
— Si sieda, dottor Branier. Ho saputo che lei si è
mostrato molto ragionevole. Eccellente decisione.
Il Venerabile guardò dritto negli occhi il tedesco.
— Dove sono i miei amici?
— Sono già partiti per la loro futura residenza,
dottor Branier. Con un treno speciale, circa un quarto
d’ora fa. Il loro viaggio non sarà dei più confortevoli, lo
riconosco, ma… à la guerre comme à la guerre, come dite
voi francesi.
Il maggiore delle SS si alzò e cominciò a camminare
su e giù per l’ufficio con la tranquilla sicurezza di un
domatore. Il suo collega, l’ispettore della Gestapo,
rimase in piedi in un angolo della stanza.
— Lei è medico, vero, dottor Branier?
François Branier aveva intanto preso posto davanti
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alla scrivania. Sedeva con il busto eretto, i gomiti posati


sui braccioli, quasi come un condannato a morte sulla
sedia elettrica. Era chiaro che il maggiore delle SS stava
giocando con lui come un gatto con il topo. Nelle sue
parole c’era una crudeltà cento volte superiore a quella
della tortura più atroce. Il tedesco aveva tutto il tempo
che voleva. Stava cercando di scoprire i suoi punti
deboli, per colpirlo con il massimo della precisione, e
annientarlo a colpo sicuro. Se voleva tenergli testa,
Branier non poteva permettersi di abbassare la guardia
nemmeno per un istante.
— Su, mi risponda, dottor Branier. Restare in
silenzio non è una buona tattica. Potrei ordinare
qualche rappresaglia ai danni dei suoi fratelli massoni.
Lei è medico, giusto?
— Sì.
— Specialista?
— No. Generico.
— Sposato?
— Vedovo.
— Figli?
— No.
— Lei ha abbandonato il suo studio e il suo domi-
cilio parigino dopo la dichiarazione di guerra.
Sappiamo che è entrato nella massoneria all’età di
venticinque anni, nella Grande Loge de France, e che si
è ben presto messo in luce per le sue qualità eccezio-
nali. Ha rifiutato i riconoscimenti e le cariche della
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gerarchia ufficiale ma si è guadagnato ugualmente il


rispetto di tutte le altre Logge europee, diventando
invece il capo della massoneria segreta. Lei ha fondato
una Loggia denominata Conoscenza che conosce i
segreti più gelosamente custoditi dell’ordine. Siamo
sulle tracce di questa Loggia da molto tempo… Mai lo
stesso luogo di riunione, niente scadenze fisse, trasmis-
sione puramente orale. Negli ultimi tempi lei non ha
quasi mai dormito per due notti di seguito nello stesso
letto, dottor Branier. Il numero dei membri della sua
Loggia non ha mai superato la ventina. Molti di loro
sono morti o scomparsi. Uno di quelli che abbiamo
arrestato si è suicidato durante l’interrogatorio. Senza
la denuncia dell’eminente frammassone che vi aveva
offerto una sede per la vostra riunione di ieri sera, non
saremmo mai riusciti ad acciuffarla. Un colpo di
fortuna che è stato apprezzato come merita in alto loco.
La mia descrizione dei fatti è esatta, dottor Branier? Ha
qualche rettifica da fare?
— Nessuna.
Il maggiore delle SS riprese il suo posto dietro la
scrivania con aria soddisfatta.
— La ringrazio per la sua sincerità. Negare sarebbe
stato puerile. Tutto quello che ho premesso è stato veri-
ficato con molta cura. Ma restano ancora molti punti
oscuri. Non parlo delle sue attività a favore della Resi-
stenza… Questi sono dettagli banali. Serviranno a
stilare dei capi d’accusa ufficiali.
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I nervi del Venerabile erano tesi allo spasimo.


Avrebbe voluto urlare, dare in escandescenze… qual-
siasi cosa pur di mettere fine a quella tortura. La morsa
si serrava di momento in momento. Non solamente su
di lui, François Branier, ma anche sulla sua funzione di
maestro Venerabile, sul segreto che aveva il compito di
custodire. Alla pari di un sacerdote, non aveva il diritto
di suicidarsi. Doveva fare tutto il possibile per tentare
di trasmettere quel segreto, perché la tradizione inizia-
tica dell’ordine potesse continuare, perché la vera luce
non si estinguesse.
— Ogni volta lei riusciva a far perdere le sue tracce,
eludendo la nostra stretta sorveglianza. Non abbiamo
alcuna certezza sulla frequenza e sulla durata delle
riunioni della sua Loggia. Le straordinarie precauzioni
che lei ha preso si sono rivelate particolarmente effi-
caci. A quanto pare, lei ha davvero parecchio da
nascondere alle autorità del Reich.
II Venerabile vagliò rapidamente una decina di
tattiche diverse per tenere testa al suo avversario.
Doveva dargli un po’ di spago, ma senza rivelare niente
di essenziale, per cercare di uscire vivo da quell’ufficio
senza venire meno al proprio giuramento.
— Perché le ha definite straordinarie?
Il maggiore delle SS sorrise.
— Non vorrà farmi credere che la Conoscenza sia
una Loggia Massonica ordinaria, una semplice assem-
blea di umanisti che coltivano vaghe idee di tolleranza
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e di libertà. Voi siete degli eversori, dottor Branier,


volete cambiare il mondo, cambiare l’uomo. Un
progetto folle, utopico, forse… o forse no. Anzi, si
direbbe proprio di no, considerando la sua serietà e
quella dei suoi fratelli, tutti scelti con la massima cura.
Non c’è niente di più difficile che entrare nella sua
Loggia. Cinque anni almeno di preparazione prima
della cerimonia d’iniziazione, sette anni di apprendi-
stato come minimo, un numero indeterminato d’anni
di affiliazione prima di potere essere eletto maestro… E
quanto al maestro Venerabile, il gradino più alto, deve
essere obbligatoriamente dotato di poteri eccezionali…
— Falso. Un fratello uguale a tutti gli altri, desi-
gnato all’unanimità. Niente di più.
Il maggiore delle SS prese un tagliacarte, e lo mise
sopra la lampada della scrivania, riflettendone la luce.
— La sua modestia le fa onore, dottor Branier. Ma
non mi sembra credibile. La sua Loggia ha suscitato
molte gelosie negli ambienti massonici. Nella sua
qualità di Venerabile, lei rifiutava sistematicamente le
visite dei garanti di amicizia, gli ambasciatori che le
altre Logge volevano accreditare presso di voi. Era nel
suo diritto, certamente, anche se si tratta di un diritto
che non viene mai fatto valere. Per assistere alle vostre
tenute bisognava obbligatoriamente essere membri
della Loggia Conoscenza e avere superato delle prove
di cui ignoriamo la natura. Nessuno dei massoni da
noi arrestati è stato in grado di rivelarci alcunché sulla
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vera natura dell’attività della sua Loggia. Lei era in


pratica il capo di uno Stato autonomo all’interno dello
stato ufficiale. Perché tanti misteri, se non per proteg-
gere qualcosa di essenziale? Il Reich vuole essere
messo a parte di tutto quello che c’è di essenziale,
dottor Branier.
Il Venerabile si drizzò squadrando le spalle larghe e
assumendo un atteggiamento fermo e determinato.
— I nostri interessi sono di carattere puramente
spirituale. Vogliamo solo lavorare in pace, lontano dalle
beghe e dagli intrighi.
— Non credo a una sola parola — ribatté il
maggiore delle SS. — Chi si occupa di cose spirituali
non ha niente da nascondere. Sono dei mistici inoffen-
sivi. Il suo caso è diverso. Mi trovi un argomento più
convincente.
Il Venerabile sentì allora dietro di sé il caratteristico
fruscio dell’impermeabile dell’ispettore della Gestapo.
Doveva essersi mosso. Branier si costrinse a restare
calmo, quasi indifferente. Il maggiore delle SS era
sorprendentemente bene informato. Con un paziente
lavoro da certosino, confrontando documenti riservati e
informazioni raccolte casualmente qua e là, era riuscito
a farsi un’idea abbastanza precisa di come era struttu-
rata la massoneria, compresi certi risvolti noti solo agli
iniziati. Sicuramente sapeva anche più di quello che
aveva detto finora.
— Visto che conosce così bene la mia Loggia —
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disse il Venerabile — saprà anche che tutti i segreti


sono condivisi tra i fratelli. Da solo, non sono niente.
Passando l’indice sulla lama del tagliacarte, il
maggiore delle SS aggrottò pensoso le sopracciglia.
— Ecco finalmente un vero problema! È da parec-
chio che mi ci arrovello. Se lei mente, significa che è il
solo depositario dei segreti della Loggia, e che
possiamo dunque mettere tranquillamente a morte i
suoi fratelli. Se invece dice la verità, possiamo sperare
di carpire questi segreti solo riunendovi tutti in un
luogo sicuro. Non voglio correre rischi. Perciò ho scelto
la seconda soluzione. Questa missione mi è stata affi-
data da Heinrich Himmler in persona, e non voglio
deluderlo. Vada dunque a raggiungere i suoi fratelli,
dottor Branier. Il treno speciale partirà tra un quarto
d’ora.
Il Venerabile parve accasciarsi atterrito, a quell’an-
nuncio. Il maggiore delle SS gli lanciò un’occhiata
sprezzante. Forse il prigioniero non era poi quell’uomo
eccezionale di cui aveva sentito favoleggiare. Chissà,
forse era solo un perfetto commediante.
Il maggiore delle SS sollevò la cornetta del telefono
per confermare la partenza del convoglio speciale a cui
doveva aggregarsi anche François Branier. In quel
momento, per la prima volta, distolse lo sguardo dal
prigioniero.
Branier spiccò un balzo degno di una tigre. Strappò
di mano il tagliacarte al maggiore, e lo costrinse,
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torcendogli il braccio, a chinarsi fino a toccare con la


fronte il piano della scrivania. La punta dell’arma
affondò leggermente nella pelle del collo, all’altezza del
cervelletto. Con un’agilità sorprendente, Branier girò
attorno alla scrivania per piazzarsi dietro il maggiore
delle SS. L’ispettore della Gestapo non ebbe il tempo di
intervenire.
— Fatemi uscire di qui, o lo ammazzo.
— Lo ammazzi pure, Branier. Non cambierà niente.
Sarà rimpiazzato da un altro. Lei uscirà di qui solo per
salire sul treno.
— È un bluff. Mettetemi a disposizione un’auto.
Il maggiore delle SS respirava con difficoltà, adesso,
il viso incollato sul sottomano che ricopriva il piano
della scrivania. Si era clamorosamente sbagliato sul
conto del Venerabile, illudendosi che fosse ormai vinto,
senza più risorse.
L’ispettore della Gestapo, restando perfettamente
calmo, chiamò le sentinelle. Accorsero tre soldati,
armati di mitra.
— Lasci quel tagliacarte, dottor Branier. Altrimenti
darò ordine ai miei soldati di sparare. Morirete tutti
e due.
— Faccia pure.
Branier sollevò la testa del maggiore tirandolo per i
capelli. Poi lo obbligò a raddrizzarsi, torcendogli il
braccio sinistro dietro la schiena, e gli appoggiò la
punta del tagliacarte contro la carotide. Il maggiore
18 CHRISTIAN JACQ

ebbe un involontario fremito di paura. Branier


sembrava davvero deciso ad andare fino in fondo. Quel-
l’uomo non avrebbe esitato un istante a ucciderlo.
— La macchina. Svelti.
— E abbandonerebbe i suoi fratelli al loro destino?
— chiese allora l’ispettore della Gestapo.
Il Venerabile si sentì gelare il sangue. Fuggire equi-
valeva a confessare che era il solo custode dei segreti
della Loggia, e dunque condannare a morte i fratelli.
Accettare di essere deportato insieme a loro avrebbe
provato invece che per svelare i misteri iniziatici biso-
gnava radunare in un solo luogo tutti i membri della
Loggia.
Il tagliacarte cadde sul parquet con un rumore
secco. Branier lasciò andare il braccio del maggiore,
arretrando di un passo, e invocò dentro di sé il Grande
Architetto dell’Universo, sicuro che adesso i suoi aguz-
zini gli sarebbero saltati addosso.
3

C
’era un freddo glaciale, quella notte. Alla
stazione di Compiègne, l’uomo della
Gestapo, insieme a due SS, scortò François
Branier verso il convoglio dei deportati, composto da
cinque carri merce. Al Venerabile era stata risparmiata
l’onta delle manette.
Nella stazione silenziosa il treno sembrava un
minaccioso mostro d’acciaio. Quando giunsero all’al-
tezza del primo vagone, la porta scorrevole si aprì di
botto. Apparve un giovanotto, completamente nudo,
che saltò giù sul marciapiede urlando: — Non voglio
partire! —. L’ispettore della Gestapo spinse da parte il
Venerabile e le SS fecero fuoco sul fuggitivo, che si
contorse sul marciapiede della stazione per lunghi
istanti prima di restare immobile. Uno dei due soldati
sparò una raffica di mitra anche all’interno del vagone.
20 CHRISTIAN JACQ

Si udirono delle grida strazianti, seguite dai tonfi di


alcuni corpi che cadevano gli uni sugli altri. Poi il
soldato richiuse con violenza la porta scorrevole e la
bloccò con l’apposito chiavistello.
— Salga — ordinò a Branier l’ispettore della
Gestapo, trascinandolo verso l’ultimo vagone del
convoglio che era suddiviso in una serie di scomparti-
menti per mezzo di pannelli divisori di legno.
Il Venerabile doveva occupare lo scompartimento
di mezzo, molto più angusto rispetto agli altri. In
compenso, aveva il privilegio di viaggiare da solo,
mentre gli altri deportati erano ammassati in condi-
zioni inumane.
François Branier si sedette sul pavimento ricoperto
di paglia umida. Un forte odore colpì le sue narici. La
porta si richiuse, e l’interno del vagone piombò nell’o-
scurità. Il treno si mise in moto. Erano le tre del
mattino.
Il Venerabile constatò che gli avevano lasciato i suoi
abiti: il soprabito, il completo, la cravatta, come se
partisse per un viaggio di piacere. Non aveva paura di
morire. Temeva, come chiunque altro, la sofferenza
fisica, ma aveva imparato a padroneggiarsi. Quello che
più l’angosciava era il timore di essere indotto a tradire.
Per debolezza. O per stanchezza. Perché il suo spirito
poteva smarrirsi nella notte buia in cui stava per spro-
fondare, o a causa di torture fisiche intollerabili che
potevano costringerlo a invocare pietà, prima che la
L'Architetto 21

morte giungesse a sottrarlo ai suoi aguzzini. Ma il


peggiore dei supplizi era la prospettiva di morire senza
avere trasmesso il segreto del Numero.
La sera in cui era stato arrestato François Branier
contava per l’appunto di trasmettere la carica di
maestro Venerabile al suo successore designato e di
confidargli quel segreto. Purtroppo non gliene avevano
lasciato il tempo.
Assalito da una folla di ricordi, non riuscì a pren-
dere sonno. L’infanzia trascorsa in un paesino della
Savoia, la scoperta di Parigi, negli anni in cui studiava
medicina all’università, l’incontro con quella che
sarebbe poi divenuta sua moglie, la passione per la
lettura… una passione che l’aveva spinto a divorare
biblioteche intere, oltre ai libri che doveva consultare
per via dei suoi studi: tomi ponderosi sui misteri
dell’antichità, la scultura del Medioevo, gli addentellati
esoterici della geometria. Un rifugio, forse, per sfuggire
a un mondo che appariva in preda alla follia, ma
soprattutto la scoperta delle leggi eterne senza le quali
l’uomo sarebbe meno che un animale. Fin da allora
François Branier aveva sentito parlare della massone-
ria, ma se ne era fatto una pessima opinione, a causa
della mentalità piccolo borghese di molti suoi membri,
delle loro camarille, dei loro intrighi politici, all’ombra
di una segretezza ormai svincolata da ogni interesse per
un vero percorso iniziatico. Dieci, venti volte l’avevano
sollecitato ad affiliarsi a una delle grandi obbedienze.
22 CHRISTIAN JACQ

Aveva seccamente respinto quegli allettamenti, giudi-


cando che i proponenti non avessero altre mire se non
quella di incassare i mattoni (le quote d’associazione),
soddisfare ambizioni personali, coltivare relazioni utili,
fregiarsi di titoli altisonanti.
Qualche giorno dopo la morte di sua moglie, un
dramma che aveva segnato in modo indelebile la sua
esistenza, Branier aveva prestato le sue cure a un
vecchio professore di lettere. Il suo anziano paziente
non aveva più molto da vivere, e se ne rendeva conto
perfettamente.
Una sera il medico aveva invitato il professore a
cena, e i due erano rimasti a colloquio per oltre tre ore,
parlando di tutto, meno che di massoneria. Ma l’indo-
mani Branier aveva presentato una domanda di ammis-
sione nella Loggia di cui il vecchio professore era il
Venerabile.
La Loggia aveva una natura molto composita, e al
suo interno si confrontavano le tendenze più diverse.
Quando il vecchio professore aveva raggiunto l’Oriente
eterno, Branier era stato elevato al grado di maestro. Da
quel momento in poi aveva consacrato alla Loggia tutto
il suo tempo libero, riscoprendo gli antichi doveri prati-
cati dai massoni prima che gli interessi materiali e affa-
ristici prendessero il sopravvento. Dopo un po’ Branier
costituì una nuova Loggia, denominata Conoscenza,
all’Oriente di Parigi (cioè con sede a Parigi), chiamando
a farne parte un gruppo molto selezionato di fratelli.
L'Architetto 23

La Loggia Conoscenza fu molto criticata dalle


massime autorità della massoneria ufficiale. Il nuovo
organismo fu tacciato di atteggiamento elitario, alimen-
tato da fumisterie intellettualoidi. Ben presto, però, si
cominciò anche a temerlo, per l’influenza che
sembrava in grado di esercitare. Gli sforzi del Venera-
bile Branier per ritrovare l’ispirazione originale furono
infine premiati nel 1943, il giorno della festa di San
Giovanni Battista, patrono dei massoni. Quella sera
ricevette la visita di un fratello venuto dalla Germania
che gli affidò degli archivi e il segreto del Numero. A
quella data le Logge tedesche erano già braccate dal
nazismo trionfante, e i pochissimi fratelli che custodi-
vano gli autentici tesori dell’Oriente erano minacciati
di morte. La Loggia di Branier, che si teneva alla larga
dai dibattiti sterili, era stata giudicata degna di ricevere
il pegno più sacro della massoneria iniziatica. Branier
aveva a tutta prima rifiutato. Non si sentiva pronto. La
sua Loggia era troppo giovane, troppo poco collaudata.
Ma alla fine si era lasciato convincere dal suo inter-
locutore.
In verità, non aveva molta scelta… Un mese più
tardi, l’emissario tedesco era stato messo a morte dal
regime nazista. Catturato nel corso di una retata, era
stato torturato durante gli interrogatori, ma non aveva
parlato.
Da quel giorno, il Venerabile non aveva più avuto
un attimo di requie. Aveva viaggiato attraverso tutta
24 CHRISTIAN JACQ

l’Europa, giovandosi delle reti di solidarietà tra parti-


giani, tra medici, o semplicemente tra amici.
Cambiando di continuo domicilio, aveva organizzato
numerose riunioni per formare dei fratelli che fossero
all’altezza dei compiti che li attendevano.
Lo scoppio della guerra non aveva colto Branier
impreparato. In previsione di un evento del genere,
aveva predisposto ogni cosa perché la Loggia Cono-
scenza potesse proseguire clandestinamente la propria
attività. In questo modo le riunioni della Loggia
avevano potuto continuare a tenersi, eludendo i
controlli degli invasori nazisti, fino a quella fatale notte
di marzo del 1944, quando un alto dignitario della
massoneria, invidioso di Branier, lo aveva tradito, atti-
randolo in una trappola insieme ai suoi fratelli.
All’interno del vagone si levarono dei gemiti.
Branier sentì qualcuno lamentarsi, alla sua sinistra, al
di là del pannello divisorio. Una voce gridò cupamente:
— Zitto! —. Ma i lamenti continuarono, insistenti. —
Piantala, altrimenti ti faccio smettere io! — minacciò la
voce cupa di prima. Qualcuno scoppiò a piangere. I
nervi cominciavano a cedere. Un corpo fu proiettato
contro la parete divisoria. L’eco di una lotta, tanto breve
quanto furibonda. Cominciava ad albeggiare. Attra-
verso una fessura tra due assi di legno, Branier vide una
cinquantina di uomini nudi ammassati in uno spazio
sufficiente appena per una decina. Sulla paglia umida,
due cadaveri.
L'Architetto 25

Il Venerabile si sedette di nuovo per terra, tenen-


dosi la testa tra le mani. Lui almeno aveva ancora un
aspetto umano. Era ancora un privilegiato. Ma fino a
quando?
François Branier sonnecchiava. Lo sferragliare rego-
lare delle ruote sui binari agiva come un sonnifero.
L’arresto improvviso del treno lo proiettò in avanti,
mandandolo a sbattere violentemente con la fronte
contro il pannello divisorio.
Il Venerabile si rialzò lentamente. Consultò l’orolo-
gio. Ma era fermo, aveva dimenticato di ricaricarlo.
Nonostante avesse ancora indosso il soprabito, fu
scosso da un brivido. Degli ordini secchi in tedesco
risuonarono all’esterno. Branier si stese allora bocconi
per spiare quello che succedeva dalla fessura sotto la
porta.
Sul marciapiede, degli uomini delle SS aiutati da
cani lupo facevano allineare decine di uomini. Alcuni
erano nudi, altri aveva indosso dei cenci a righe vistose,
da carcerati. Non un grido di rivolta, non un mormorio
di protesta. Un vecchio si afflosciò a terra. I ritardatari
furono spintonati rudemente e i calci dei fucili si abbat-
terono sulle loro teste. Meno di dieci minuti dopo l’ar-
resto del treno, i prigionieri furono intruppati e avviati
verso dei camion con il piano di carico protetto da un
telone che attendevano con il motore acceso. I camion
partirono, e si fece silenzio. Branier non vide più
nessuno sul marciapiede dello scalo ferroviario. Il
26 CHRISTIAN JACQ

tempo sembrava essersi fermato, come se si fossero


dimenticati della sua presenza, come se non esistesse
più. Una folle speranza si fece strada in lui. Dopotutto,
in qualsiasi esercito si verificano delle negligenze
amministrative che rendono possibili le evasioni più
inverosimili. Branier cercò qualcosa che potesse
permettergli di forzare la porta del vagone. Frugò nella
paglia. Niente. Il pannello divisorio… non era poi così
spesso. Cominciò a sferrare calci contro l’asse di legno
che sembrava più fragile, per vedere se cedeva. Alla
decima pedata, uno scricchiolio. Si aprì una fessura
nella parte inferiore. Se fosse riuscito a passare nello
scompartimento a fianco, avrebbe trovato certamente
un’apertura. I tedeschi magari non avevano richiuso
quella parte del vagone dopo aver fatto scendere i
prigionieri. La parte inferiore dell’asse cedette. Senza
preoccuparsi delle schegge di legno, Branier tirò verso
di sé la parte restante, tendendo i muscoli della
schiena.
Era tutto sudato, con il fiatone. Il legno scricchiolò,
e cominciò a cedere a poco a poco.
— Ci siamo — mormorò.
La porta del vagone si aprì bruscamente. L’aria
diaccia colpì il viso del Venerabile. Lasciò andare l’asse
di legno, che ricadde, spezzata, nello scompartimento
contiguo.
Sul marciapiede dello scalo ferroviario, un uomo
L'Architetto 27

delle SS. Un maggiore. Lo stesso che aveva interrogato


il Venerabile a Compiègne.
— Lei mi delude, dottor Branier. Questo tentativo di
evasione è ridicolo. Mi segua.
Branier scese dal vagone con infinita lentezza, come
se si muovesse al rallentatore. Si avviò verso la Mercedes
nera, scortato da due soldati delle SS che parevano due
automi. Lanciò un’occhiata sul paesaggio intorno. La
minuscola stazione sembrava perduta in mezzo a una
corona di alte montagne coperte di neve. Forse era l’Au-
stria… Branier prese posto sul sedile posteriore dell’auto.
I soldati delle SS lo bloccarono al centro del sedile in
mezzo a loro. Il maggiore si accomodò davanti. Non
proferì nemmeno mezza parola per tutto il tragitto, che
durò all’incirca un’ora. La Mercedes procedeva ad anda-
tura moderata, lungo una stretta strada in salita piena di
tornanti. Sul fianco della montagna si vedevano, a tratti,
delle chiazze verdi di prato che punteggiavano i pendii
coperti di neve. Si annunciava il ritorno della primavera.
L’auto superò un pittoresco paesino composto da
rustiche casette di legno dai colori vivi. Un’abbazia roma-
nica, delle fontane di pietra, delle viuzze dall’aspetto
lindo e ordinato. Poi un campo pieno di alberi da frutto,
alcuni dei quali erano già in fiore. La vita che rinasceva.
Uno spettacolo che inteneriva il cuore. Ma il sentimento
prevalente restava il desiderio di fuggire, di saltare giù da
quell’auto nera e triste come un carro funebre.
28 CHRISTIAN JACQ

Il Venerabile si riempì gli occhi di quel presagio di


primavera. Affiorò alle sue labbra la vecchia massima
massonica: “Non c’è bisogno di sperare per intrapren-
dere, né di riuscire per perseverare”. Là dove stava
andando, la speranza non esisteva. Avrebbe dovuto
sforzarsi di inventarla, di ricrearla. Bisognava che
quella linfa resuscitata penetrasse in lui, che conti-
nuasse ad alimentarlo anche nei momenti peggiori.
Il viso di sua moglie gli danzò davanti agli occhi. Lei
amava moltissimo la primavera. In quella stagione
camminavano per ore nella foresta, notando con trepi-
dazione il fiorire delle gemme, le prime foglioline, i
canti degli uccelli. Lei avrebbe amato anche quella
montagna selvaggia, dove l’inverno si ritirava solo
molto lentamente, con un processo faticoso che richie-
deva molta pazienza. Avrebbe sorriso davanti a quella
primavera che aveva tutta l’aria di essere l’ultima per
lui. Finalmente stavano per ricongiungersi nell’Aldilà.
Il soldato seduto a sinistra di Branier si mosse. La
montagna, il sole, gli alberi scomparvero. Rimasero
solo quelle impeccabili uniforme nere.
All’uscita da un ennesimo villaggio, Branier scorse
il borgo. Una fortezza medievale con torri merlate e
spesse mura di cinta piene di minacciose feritoie. Il
portale d’ingresso, sormontato da un posto di guardia,
era chiuso da un ponte levatoio. L’autista suonò ripetu-
tamente il clacson. Il ponte levatoio si abbassò senza
sferragliare di catene, perché queste erano in perfetto
L'Architetto 29

stato di manutenzione. La Mercedes varcò lentamente


la soglia del portone monumentale.
Il Venerabile chiuse gli occhi. Non per paura, ma
per imprimere dentro di sé un’ultima immagine di
libertà, di natura, di spazio. Un ricordo da conservare
prima di penetrare in un inferno da cui nessuno era
mai tornato.
4

L
a sorpresa di François Branier fu completa.
Aveva immaginato di finire in un campo di
concentramento con le solite baracche grigie
di disperazione, in mezzo al fango, insieme a prigio-
nieri con le catene ai piedi, circondati da torrette di
sorveglianza. Quando riaprì gli occhi, vide invece, al
centro della fortezza, una torre massiccia di pietra
bianca, con un unico ingresso accessibile attraverso
una scala, strette finestre e un tetto piano che ricopriva
un cammino di ronda irto di riflettori e mitragliatrici.
La torre dall’aspetto suggestivo bastava a sorvegliare
tutta la fortezza. All’interno del vasto quadrilatero deli-
mitato dalle mura fortificate erano disposte con simme-
tria rigorosa delle baracche di legno, dipinte di verde,
rosso e giallo. Non fosse stato per le armi puntate sui
L'Architetto 31

prigionieri dall’alto della torre centrale, e per i soldati


delle SS che andavano avanti e indietro nella luce
pallida di quella giornata fredda, si sarebbe potuto
credere che il vecchio castello fosse stato attrezzato per
ospitare una colonia di vacanze per bambini, affinché
potessero respirare l’aria salubre della montagna. Tutto
intorno alle baracche di legno, delle aiuole fiorite
aggiungevano una nota di gaiezza.
La Mercedes avanzò sulla ghiaia del vialetto che
portava alla torre. Poi imboccò una ripida rampa che
scendeva in un garage sotterraneo. Branier, scrutando
intorno attentamente, aveva impresso nella memoria
altri dettagli, stimando che potevano tornargli utili in
seguito. La prima cosa che saltava all’occhio era l’al-
tezza impressionante del muro di cinta, sormontato da
filo spinato, probabilmente attraversato dalla corrente
elettrica. Il secondo elemento degno di nota era la
presenza, dietro la torre, di due edifici squadrati, poco
attraenti, in duralluminio, dove erano acquartierate
le SS.
L’auto si fermò accanto a un camion. Il garage occu-
pava solo una parte del sotterraneo, il resto era adibito
a officina meccanica. Nel campo di prigionia regnava
una strana calma che accentuava l’impressione
complessiva d’irrealtà, come se i nazisti e la loro
fortezza fossero solo un’allucinazione.
— Scenda! — ordinò il maggiore.
32 CHRISTIAN JACQ

L’ordine venne pronunciato con tono secco e


imperioso.
Scortato da presso dai due soldati delle SS, Branier
fu condotto al primo piano della torre centrale. “Ci
siamo” pensò “sono intrappolato in un ingranaggio
infernale. Non mi manifestano odio, non mi brutaliz-
zano, ma cominciano già a fare di me un fantoccio,
privo di volontà propria.”
Il Venerabile inciampò in un gradino; il dolore alle
dita del piede lo strappò bruscamente dai suoi cupi
pensieri, dalla letargica passività che si stava impadro-
nendo di lui. Doveva lottare. Con tutte le sue forze.
Doveva negare quell’universo di follia che minacciava,
istante per istante, di sottrargli ogni energia vitale.
François Branier fu introdotto in un vasto ambiente
con il pavimento di legno lucido di cera, e i muri
imbiancati a calce. In fondo alla stanza, un lungo tavolo
dove uno scrivano delle SS era chino sui suoi registri. A
destra del tavolo, infagottati in divise da carcerati colore
grigio scuro, coloro che il Venerabile non sperava ormai
più di rivedere: i fratelli della Loggia Conoscenza, i sei
che erano sopravvissuti.
Disposti in fila indiana, con il viso rivolto verso la
scrivania del segretario delle SS, non si erano ancora
accorti della sua presenza. Il Venerabile fu tentato di
precipitarsi verso di loro, di abbracciarli, di urlare di
gioia. Ma rimase inchiodato al suo posto, come tratte-
nuto da un peso che lo frenava. Voltando leggermente
L'Architetto 33

il capo di lato, vide che il suo istinto non l’aveva ingan-


nato. Il maggiore delle SS stava spiando le sue reazioni.
Ma Branier non cadde nella trappola. Il tedesco non
aspettava altro che di vederlo perdere il controllo dei
nervi.
Branier fu sospinto bruscamente e costretto a occu-
pare l’ultimo posto nella fila, dietro i suoi compagni. Il
Venerabile si trovò così vicinissimo ai suoi fratelli, ma
continuò a ignorarli. Un silenzio pesante regnava
adesso nell’austero ufficio. Fu rotto infine dall’incedere
di un paio di stivali sul parquet. Il maggiore si pose
accanto allo scrivano, che aprì un nuovo registro ancora
privo di qualsiasi annotazione. Lo scrivano vergò allora
l’intestazione del documento in cima alla pagina:
ERKENNTNISLOGE, Loggia Conoscenza, Parigi. Più
sotto aggiunse: NAME DES BRUDER, nome del
fratello.
— Signori, adesso annoteremo le vostre generalità
sul registro — esclamò il maggiore. — Indicate al mio
segretario nome, età, e professione.
La tensione crebbe. I visi dei fratelli si irrigidirono.
Stavano per diventare tutti dei numeri su un oscuro
registro, forse stavano per essere sterminati e di loro
non sarebbe rimasta altra traccia. Il maggiore parve
compiaciuto alla vista dell’angoscia che trapelava dalle
espressioni dei prigionieri.
Il primo fratello si presentò davanti al segretario.
— Pierre Laniel, cinquantadue anni, industriale.
34 CHRISTIAN JACQ

Laniel era un ometto dai capelli radi, la fronte piut-


tosto bassa. Un uomo apparentemente incolore. Meti-
coloso, preciso, nervoso, faceva parte di quella categoria
di persone che si suole giudicare insignificanti, ma che
sono invece capaci di guidare i propri simili senza
bisogno di alzare la voce o di usare metodi autoritari.
— Che ramo dell’industria?
— Metallurgico.
Un’azienda familiare sull’orlo del fallimento che
Pierre Laniel aveva risollevato e reso efficiente profon-
dendovi impegno e volontà.
— Ho bisogno di informazioni molto più complete
e dettagliate — intervenne il maggiore con un tono che
lasciava trasparire l’eccitazione. — Quali sono il suo
grado e il suo ruolo all’interno della Loggia
Conoscenza?
— Non capisco.
Il maggiore nazista lo fissò con aria severa.
— Non cerchi di fare il furbo, Laniel. Sappiamo
tutto. Se credete di potermi prendere per il naso, ve ne
farò pentire amaramente!
— Avevo il grado di maestro, d’accordo, ma se
sapete tutto, saprete anche che la mia Loggia ha cessato
ogni attività da che è scoppiata la guerra.
— È falso! — insorse il tedesco.
Pierre Laniel restò impassibile. Rivelare che ricopriva
il grado di maestro non era compromettente, perché era
L'Architetto 35

noto che i nazisti erano già riusciti a conoscere nome,


indirizzo e grado di quasi tutti i massoni francesi. I registri
che contenevano questi dati (i cosiddetti piedilista) erano
stati consegnati alla Gestapo da alcuni fratelli timorosi di
possibili rappresaglie. Per contro, la natura delle sue
funzioni iniziatiche faceva parte dei segreti che a nessun
costo avrebbe rivelato a un profano. Rispondendo in quel
modo, Laniel aveva indicato agli altri fratelli come dove-
vano comportarsi per tenere testa ai nazisti.
— È falso! — ripeté il maggiore. — La Loggia
Conoscenza non ha mai cessato di riunirsi! Quando vi
abbiamo arrestato, vi apprestavate per l’appunto a
incontrarvi per una delle vostre tenute.
— Niente affatto — replicò Laniel. — Una semplice
riunione tra amici che si erano persi di vista. La Loggia
Conoscenza si era sciolta. Altrimenti avremmo notifi-
cato la convocazione al segretario della Grande Loge de
France. La notificazione è obbligatoria, quali che siano
le circostanze.
Branier trattenne il fiato. Si augurò che le SS igno-
rassero la particolare posizione amministrativa della
Loggia Conoscenza. Ben prima dell’inizio della guerra,
il Venerabile Branier si era sottratto al controllo della
federazione legata alla Grande Loge de France, per
lavorare in pace con i suoi compagni, lontano dagli
intrallazzi politici, dalla caccia alle onorificenze, dalle
beghe personali.
36 CHRISTIAN JACQ

L’obiezione di carattere tecnico avanzata da Laniel


non impressionò granché il maggiore delle SS.
— La vostra è in pratica una Loggia irregolare, voi
lavorate nell’ombra… Non cercate di imbrogliarmi. So
io come farvi parlare.
Il Venerabile si rese conto che quell’uomo violento,
che celava la propria brutalità dietro un’apparente
cortesia, era un personaggio temibile. Incaricato da
Himmler, era riuscito a catturare i membri della Loggia
Conoscenza dopo molti mesi di sforzi, dimostrando
una tenacia notevole.
Un secondo fratello si presentò davanti al segreta-
rio, mentre un soldato costringeva Pierre Laniel a
mettersi faccia al muro, dall’altro Iato della stanza.
— Dieter Eckart, quarantatré anni, professore di
storia. Ho il grado di maestro.
Il Venerabile sorrise dentro di sé. Eckart aveva alli-
neato il suo comportamento a quello di Laniel. Rispon-
dere solo alle domande dirette, senza superbia, ma
conservando la propria dignità.
— Tedesco… Lei è tedesco — notò il maggiore.
— Solo da parte di madre, mio padre è francese. Il
mio passaporto è francese.
Dieter Eckart, alto e magro, aveva un’aria aristocra-
tica. Distante, freddo, al punto da essere spesso giudi-
cato altezzoso, ispirava più timore che confidenza. La
sua chioma canuta, il viso lungo e angoloso, gli occhi
penetranti facevano pensare a una di quelle figure iera-
L'Architetto 37

tiche ritratte da El Greco quando imperversava l’Inqui-


sizione.
— Il suo ruolo nella Loggia? — gli chiese il
maggiore.
— La Loggia è a riposo, ha sospeso da molto tempo
ogni attività.
Il maggiore nazista non gli diede più retta. Due
soldati afferrarono Eckart e lo fecero mettere accanto a
Pierre Laniel. Furtivamente, i due fratelli si scambia-
rono un’occhiata complice.
Il terzo fratello si presentò ora davanti al segretario,
che continuava ad annotare meticolosamente ogni
risposta.
— Guy Forgeaud, quarantanni, meccanico d’auto.
Ho il grado di maestro.
Forgeaud era un tipo grande e grosso, simpatico,
molto spontaneo. Cresciuto in un istituto per orfanelli,
non era sicuro della propria data di nascita. Vedendolo,
con quella faccia rubizza, dai tratti grossolani, il naso
troppo grosso, le labbra carnose, nessuno avrebbe
potuto sospettare che avesse altri interessi oltre a traffi-
care con i motori, corteggiare le donne, mangiare e
bere a sazietà.
— Forgeaud… lei ha rifiutato il servizio di lavoro
obbligatorio. Non ha mai amato le scartoffie burocrati-
che, a quanto pare… Per esempio, è stato impossibile
sapere in quale momento lei abbia aderito alla Loggia
Conoscenza…
38 CHRISTIAN JACQ

Guy Forgeaud parve infastidito, impacciato.


— In quale momento… non lo so più… Non ho
molta memoria per queste cose… Ho lasciato la scuola
a dieci anni, sa…
Con un cenno del capo, il maggiore ordinò ai suoi
uomini di far mettere anche Forgeaud faccia al muro.
Il segretario rimase con la penna a mezz’aria, aspet-
tando la dichiarazione del quarto fratello che si era
presentato davanti a lui.
— André Spinot, trentacinque anni, fabbricante di
occhiali. Ho il grado di compagno d’arme.
Il maggiore abbozzò un sorriso.
— Compagno… non è ancora riuscito a diventare
maestro?
André Spinot era piccolo e mingherlino. Aveva i
capelli corvini e una calvizie incipiente. Dava sempre
l’impressione di non essersi lavato a dovere e di avere la
barba lunga. I suoi occhi esprimevano una curiosità
inquieta. Con evidente disagio, parve sul punto di
mormorare qualcosa, ma la sua bocca non emise alcun
suono.
— Non ha nient’altro da dire?
Spinot fece cenno di no con la testa. Quindi andò
ad allinearsi faccia al muro insieme agli altri fratelli,
mentre il suo posto davanti al segretario veniva preso
da una specie di colosso.
— Raoul Brissac, venticinque anni, scalpellino,
L'Architetto 39

compagno d’arme e compagnon du devoir iscritto alla


sezione Buona Stella.
— Credevo che i principi religiosi delle antiche
corporazioni di arti e mestieri fossero in contrasto con
quelli dei frammassoni — si meravigliò il maggiore
delle SS.
— Gli imbecilli stanno dappertutto — rispose
Brissac.
Seguì un silenzio pieno di tensione. I soldati di
guardia si
avvicinarono minacciosi. Il segretario rimase con lo
sguardo fisso sul registro. Il Venerabile temette che i
nazisti volessero dare una lezione a Brissac che ancora
una volta non aveva misurato le parole. Quell’uomo era
impulsivo e non aveva paura di niente, né di Dio né del
diavolo, come si usa dire. Era pronto a sfidare il lupo
nella sua stessa tana. Ma quell’imprudenza rischiava di
costare cara anche agli altri fratelli della Loggia.
Invece non accadde nulla. Brissac andò a prendere
posto insieme agli altri contro il muro. Dopo di lui si fece
avanti un sesto fratello, l’ultimo prima del Venerabile.
— Jean Serval, venticinque anni, scrittore.
Apprendista.
Serval era pallidissimo. Di statura piuttosto alta, i
capelli castani, la fronte stempiata, le spalle curve, le
gambe gracili, aveva l’aria di un adolescente troppo
cresciuto e macilento.
40 CHRISTIAN JACQ

— Scrittore… Ha scritto qualche libro?


— Il primo doveva uscire nel novembre del ‘39. Ma
la guerra…
— L’argomento?
— Una storia d’amore.
— Apprendista. Questo significa che lei è entrato a
far parte della Loggia solo da poco?
— Cinque anni fa, giusto prima che la Loggia
cessasse la sua attività.
Il maggiore delle SS giudicò che il giovanotto era
probabilmente l’anello più debole della catena.
Emotivo, ipersensibile, e con un fisico poco resistente.
Jean Serval prese posto anche lui insieme agli altri.
François Branier rimase solo. Il maggiore gli fece segno
di venire avanti e di presentarsi davanti al segretario. Il
Venerabile si sentì molto fuori posto, con il vestito e il
soprabito, mentre i suoi fratelli pollavano la divisa
grigia dei prigionieri della fortezza.
Il suo sguardo incrociò quello del maggiore, e lesse
nei suoi occhi che era condannato.
Non era più di speranza che doveva nutrirsi, ma di
eternità. Sempre che il Grande Architetto gli desse la
forza di reggere a quella prova.
— François Branier, cinquantacinque anni, medico.
Maestro Venerabile.
Sentendolo parlare, tutti i fratelli voltarono la testa
verso di lui. I soldati li obbligarono a riprendere la posi-
L'Architetto 41

zione faccia al muro. Ma intanto avevano avuto il


tempo di guardare il loro Venerabile.
Il segretario finì di scrivere, passò sulla pagina una
carta assorbente, e richiuse il registro.
— Perfetto, signori — concluse il maggiore delle
SS. — Vi siete mostrati pronti a cooperare. Ma mi
aspetto di più da voi. Molto di più.
5

J
ean Serval gridò. Un violento dolore alle reni.
Un colpo con il calcio del fucile, secco, ener-
gico. La prima manifestazione di brutalità. E
un ordine, in tedesco, che il Venerabile non
riuscì a comprendere. I fratelli avevano sperato che il
Venerabile potesse unirsi a loro, ricostituendo così la
Loggia nella sua integrità. Speranza vana. Le SS li
fecero uscire dalla stanza dove erano diventati dei
numeri di matricola. François Branier era rimasto
immobile davanti al segretario e al maggiore.
— I suoi fratelli saranno condotti nel loro blocco,
dottor Branier. Spero che lei riesca a inculcare in loro
un migliore senso della disciplina. Li ho trovati un po’
troppo arroganti. Il comandante del campo non è tipo
da tollerare un atteggiamento del genere.
Il maggiore delle SS, le mani intrecciate dietro la
L'Architetto 43

schiena, uscì deciso dalla stanza, facendo risuonare il


pavimento sotto i passi pesanti degli stivali. Due soldati
obbligarono Branier a seguirlo. Salirono fino all’ultimo
piano della torre. Salire, scendere, scendere ancora,
salire di nuovo, lasciarsi condurre di qua e di là come
una pecora… Era quello d’ora in poi il suo destino? Il
Venerabile avanzò tra i muri grigi. Gli scalini di legno
scricchiolarono sotto i suoi passi. Sempre la stessa
angoscia diffusa, come incollata alla pelle, che
ampliava i rumori e rendeva difficoltoso il respiro. Quei
soldati in uniforme nera avevano perso la loro anima.
Non pensavano più, non provavano più alcun senti-
mento, non sapevano più né amare né odiare. Obbedi-
vano agli ordini e basta. Perché questa era la dottrina.
E tuttavia, come davanti a qualsiasi altro essere
umano che gli capitava di incontrare, il Venerabile si
poneva la domanda: questo soldato, che non esiterebbe
un istante a uccidermi, potrebbe divenire cosciente,
varcare la porta del tempio, accedere anche lui all’ini-
ziazione? Di norma, François Branier captava una sorta
di vibrazione, sia pure negativa. Stavolta però provava
solo una sensazione di gelo, di vuoto. Non c’erano più
né un cuore né uno stomaco, sotto quell’uniforme.
Automi dall’aspetto umano. Quale essere diabolico era
riuscito a crearli? Quale potenza malefica aveva conce-
pito quella fortezza dove anche la vita interiore più
ricca era condannata a dissolversi e a polverizzarsi?
Come medico, François Branier aveva conosciuto la
44 CHRISTIAN JACQ

sofferenza sotto tutte le sue forme, e talvolta aveva


constatato amaramente di non poter fare nulla per
lenirla. Ma quella era la prima volta che si trovava
faccia a faccia con il Male assoluto, senza maschera.
Nessuno aveva ancora alzato le mani contro di lui.
Portava ancora il suo abito da uomo libero. Ma il Male
era là, insidioso e invadente.
Sul pianerottolo dell’ultimo piano, una porta
aperta. Il maggiore fece entrare il Venerabile in un
vasto ufficio. Ai muri, una quantità di foto in cornice.
Ritratti di Hitler, di Himmler, di un battaglione di SS, di
folle sterminate che osannavano il Führer, ma anche
l’interno della fortezza fotografato da tutte le angola-
zioni. Le baracche dove erano rinchiusi i prigionieri, la
caserma delle SS, le docce, i reticolati, il cortile…
Seduto su una poltrona d’antiquariato a schienale
alto, il comandante del lager stava leggendo un
rapporto consegnato poco prima dal suo aiutante di
campo, un giovanotto biondo che era in piedi accanto a
lui sull’attenti. Sul massiccio piano di legno di quercia
della scrivania, dei candelieri d’argento. Il comandante
amava circondarsi di oggetti di valore. Alzò gli occhi dal
rapporto e squadrò il nuovo arrivato.
— Dottor Branier… sono lieto di accoglierla in
questo castello del Reich.
Quella sorta di incubo dai contorni smussati conti-
nuava. Adesso non era più un lager, ma un castello. Il
comandante aveva il modo di fare di un funzionario
L'Architetto 45

modello, con la sua espressione bonaria, la chioma


brizzolata, il tono affabile.
Branier aveva quasi l’impressione di essere stato
invitato a una riunione d’affari.
— Ci lasci un momento soli, Klaus. Voglio fare
qualche domanda al dottor Branier. Il mio aiutante di
campo annoterà le risposte.
Il tono del comandante era diventato di colpo
perentorio. Il maggiore delle SS, di cui il Venerabile
aveva ora appreso il nome di battesimo, salutò battendo
i tacchi e uscì dalla stanza. Branier ebbe la sensazione
che non apprezzasse il fatto di essere stato congedato in
quel modo.
— Prego, dottor Branier, resti in piedi. In questo
ufficio io solo posso stare seduto. Questione di ordine
gerarchico.
Per il solo fatto che gli era stata ricordata la sua
posizione, Branier si sentì all’improvviso i muscoli
delle gambe indolenziti. Ma l’attenzione del Venerabile
fu richiamata allora dall’aiutante di campo, che impu-
gnando una penna placcata d’oro, si era piazzato
davanti a un leggio su cui era posato un registro nero.
“Qui si rasenta la follia” pensò Branier. “Un despota in
mezzo a uno scenario da Medioevo. Un soldato delle SS
che gioca a fare l’amanuense mentre il suo comandante
si atteggia a signore feudale.”
— Chi le ha permesso di tenere addosso i suoi
vestiti?
46 CHRISTIAN JACQ

— Nessuno in particolare — rispose François


Branier.
Il comandante accese una sigaretta accostandola
con studiata lentezza alla fiamma di una candela. Si
muoveva come un serpente che vuole ipnotizzare la sua
preda.
— L’abbiamo cercata a lungo, dottor Branier… Che
ha fatto in questi ultimi mesi?
— Ho curato dei malati. Sono medico.
Il comandante spense di colpo la sigaretta. Il suo
aiutante di campo non osò registrare la risposta. Il
Venerabile trattenne il respiro.
— Che genere di malati? Soldati tedeschi, forse?
Aiutandoli a morire, invece che a vivere? Io credo che
lei non si sia ancora reso conto della sua situazione,
dottor Branier. Non è più tempo di nascondersi dietro
le bugie. Qui sarà ammessa solo la verità. Lei ha vissuto
in clandestinità per coprire le sue malefatte. Lei è
massone, e ricopre addirittura la carica di maestro
Venerabile della sua Loggia. Di una Loggia occulta che
custodisce dei segreti. Gli uomini dell’età moderna non
devono più
avere segreti. Il Reich non tollera chi complotta alle
sue spalle.
L’aiutante di campo annotò febbrilmente quello
che il suo comandante andava dicendo. Il Venerabile si
sentì mancare il respiro. Avrebbe preferito trovarsi in
qualche fetida cella nelle segrete del castello piuttosto
L'Architetto 47

che in quell’ufficio. “Tieni duro” si disse. “Non pensare


a nient’altro.”
— Evidentemente lei non ha ancora afferrato la
grandezza dell’età nuova che è nata con il nostro
Führer — riprese il comandante. — Egli non è un
uomo politico decadente e corrotto come quelli della
vostra viziosa Europa. È il gran sacerdote di una vera
religione nuova. Cristiani ed ebrei sono figli di Satana.
Anche i massoni. Dovranno essere sterminati. Ma non
spetta a me occuparmi di questo. Qui, dottor Branier,
lei è in una situazione privilegiata. In questo castello ho
riunito persone molto particolari, depositarie di poteri
e di segreti non comuni.
— Spiacente di deluderla — replicò il Venerabile
— Nessuno di noi detiene poteri del genere. Il segreto
della mia Loggia è andato perso quando ha cessato la
propria attività, all’inizio della guerra.
Il comandante del campo di prigionia ebbe uno
scatto d’impazienza, e batté il pugno sul tavolo di
quercia.
— La guerra! Non fate che parlare di guerra. È già
tutto finito. Il Reich ha vinto. Perché continuare a
mentire? Crede davvero che il suo paese abbia ancora i
mezzi per ribaltare la situazione? Non ho nessuna
fretta… Finirà per parlare. Mi dirà tutto. Sgraverà la sua
coscienza da questo peso.
Il comandante si girò in direzione del suo aiutante
di campo.
48 CHRISTIAN JACQ

— Faccia accompagnare il Venerabile Branier al


suo alloggio.
Sempre scortato dai due soldati delle SS, il Venera-
bile fu condotto in una baracca dipinta di rosso. Tentò
di chiudersi al mondo demoniaco che lo circondava, di
non lasciarsi suggestionare dai muri grigi, dai gradini
cigolanti, dal cortile in terra battuta, dai reticolati.
Sentiva che rischiava di sentirsi prigioniero dentro di sé
prima ancora che esteriormente.
La baracca rossa somigliava da lontano a una
rustica casetta di legno. Ma a uno sguardo più accurato
rivelava di essere stata costruita in fretta, con molta
approssimazione. Le assi di legno in più punti erano
sconnesse, e dalle fessure entravano spifferi d’aria
gelida. Le cornici delle due finestre affacciate sul cortile
erano sghembe. Insomma, la costruzione era stata
assemblata alla meno peggio.
La porta era priva di maniglia. Uno dei soldati che
lo scortavano l’aprì con un calcio. Il Venerabile entrò.
Uno stanzone spoglio, di una trentina di metri
quadrati. Il pavimento, costituito da una gettata di
cemento, era occupato da sette pagliericci.
Erano tutti là. Pierre Laniel l’industriale, Dieter
Eckart il professore, Guy Forgeaud il meccanico, André
Spinot il fabbricante di occhiali, Raoul Brissac lo scal-
pellino, Jean Serval lo scrittore. Quelli che erano
sopravvissuti all’annientamento.
La porta si richiuse con un tonfo sordo alle spalle
L'Architetto 49

del Venerabile. Finalmente era di nuovo insieme ai suoi


fratelli, senza estranei tra loro. Dieter Eckart, molto
commosso, si alzò per primo e andò incontro a François
Branier.
— Lieto di rivederti, maestro Venerabile.
I due uomini si scambiarono il triplice abbraccio
rituale. Gli altri fratelli fecero lo stesso. André Spinot
piangeva. Di paura e di gioia. Il Venerabile avvertì che
avevano ritrovato la fiducia, che la sua presenza aveva
restituito loro un equilibrio indispensabile, come se
fosse in suo potere risolvere la situazione, spianare il
cammino verso la libertà. Anche se era solo un’illu-
sione. Quali che fossero i suoi dubbi e i suoi tormenti, il
Venerabile non aveva il diritto di confessarli. Il peso
della responsabilità che era sulle sue spalle gli parve
più gravoso che mai.
— Fratelli miei — sollecitò il Venerabile —
formiamo la catena d’unione.
All’interno di quella baracca eretta dentro una
fortezza nazista perduta chissà dove tra i monti, i sette
liberi muratori formarono una catena, rinnovando una
tradizione millenaria. In circolo, con le braccia incro-
ciate, le mani unite, i piedi a contatto con quelli degli
altri, chiusero gli occhi per comunicare, per sentire la
forza vitale della loro comunità di nuovo riunita.
— Possa il Grande Architetto dell’Universo essere
sempre presente in mezzo a noi — invocò il maestro
Venerabile.
50 CHRISTIAN JACQ

François Branier, al pari dei suoi fratelli, avvertì il


formidabile calore che emanava da quel piccolo
gruppo di uomini preso nelle grinfie di un mostro. Da
quell’istante la Loggia Conoscenza prese a esistere in
quel luogo, in quell’Oriente d’esilio; lì essa esercitava la
sua piena e intera sovranità. I sette fratelli prigionieri
erano di nuovo liberi, pronti a perpetuare la tradizione.
Una secca esclamazione risuonò all’esterno, seguita
dall’eco di passi pesanti sulla ghiaia del cortile. I fratelli
sciolsero la catena. La porta della baracca si aprì. La
silhouette del maggiore delle SS si stagliò sulla soglia,
le mani intrecciate dietro la schiena. Il maggiore
squadrò con aria ironica i frammassoni, come se fosse
al corrente del rito che avevano appena celebrato. Il
Venerabile si ripromise di prendere d’ora in poi le
opportune precauzioni. Ma come rammaricarsi di
avere ceduto a un impulso che li aveva uniti di nuovo
come una sola persona?
— Consegnate immediatamente al mio intendente
tutti gli oggetti metallici che portate addosso. Orologi,
fedi, o anelli di qualsiasi tipo…
Il maggiore si fece da parte per lasciar entrare un
soldato munito di un cesto di paglia. Un uomo corpu-
lento con una fronte alta e stempiata sfigurata da una
voglia di vino.
Il Venerabile fu il primo a obbedire. Depose l’oro-
logio nel cesto. Non aveva mai portato la fede. Gli altri
fratelli seguirono il suo esempio. Il cesto fu rapida-
L'Architetto 51

mente riempito. Pierre Laniel, l’industriale, abbandonò


con rincrescimento la fede che portava ormai da venti-
cinque anni. Non avrebbe mai più rivisto la sua sposa,
lo sentiva. Avrebbe voluto almeno custodire quel
ricordo di lei, poter fissare lo sguardo sull’anello di
metallo e trarre conforto da quel caro oggetto nei
momenti più difficili. Doversene privare fu per lui una
sorta di mutilazione.
L’intendente si fermò davanti a Raoul Brissac, lo
scalpellino. Con un gesto improvviso, strappò l’orec-
chino che pendeva dall’orecchio sinistro del massone,
facendo sprizzare il sangue dalla ferita. Poi levò in alto
quel trofeo da cui pendeva ancora un pezzo di pelle e lo
gettò nel cesto.
— Avevo dato un ordine preciso — intervenne il
maggiore.
Brissac, a prezzo di uno sforzo indicibile, soffocò un
urlo di
dolore. Era pronto a gettarsi contro l’intendente
per colpirlo a morte. Ma il suo sguardo aveva incro-
ciato quello del Venerabile, e si era trattenuto. II
volere del capo della Loggia non si discuteva, in
nessun caso. Allora alzò gli occhi verso il soffitto, e si
morse le labbra a sangue per non pensare al dolore
acutissimo che si irradiava dalla ferita all’orecchio.
Così, senza un lamento, Raoul Brissac subì l’oltraggio
della perdita del simbolo della sua affiliazione alla
corporazione dei maestri dell’arte di tagliare le pietre.
52 CHRISTIAN JACQ

L’orecchino gli era stato infatti donato dal suo capo-


mastro quando aveva completato una scala di marmo
a doppia elica. Ciò era accaduto poco prima di incon-
trare François Branier e di essere ammesso nella
Loggia Conoscenza.
Il soldato con il cesto, visibilmente deluso dall’as-
senza di reazioni da parte di Brissac, girò sui tacchi,
seguito da Klaus, il maggiore. La porta della baracca si
richiuse.
Gli aguzzini erano andati via. I fratelli restarono
immobili dov’erano per un lungo istante. Il Venerabile
si riscosse per primo dal torpore stupefatto che si era
impadronito di loro. Esaminò subito la ferita di Raoul
Brissac, che stava lì con lo sguardo fisso davanti a sé,
impassibile.
— Non è troppo grave — commentò il Venerabile,
tamponando il sangue con il proprio fazzoletto, e sacri-
ficando così uno dei pochi lussi da uomo libero che gli
erano rimasti.
Brissac dimostrava una resistenza straordinaria. Ma
François Branier era preoccupato per come avrebbe
potuto reagire in seguito, a freddo. Sapeva che era un
tipo sanguigno, che riteneva cosa da vili tollerare le
offese. Doveva cercare di convincerlo a desistere dal
vendicarsi per il bene dei suoi compagni.
— Cercheranno di separarci, Raoul, di metterci
l’uno contro l’altro. Ci metteranno alla prova uno per
uno. Se tu avessi reagito, le conseguenze si sarebbero
L'Architetto 53

ritorte su tutti noi. Non dobbiamo cadere nella trap-


pola di rispondere alle loro provocazioni.
— Finché sarà possibile — rispose Laniel.
— Anche oltre — insistette il Venerabile. — La
situazione in cui ci troviamo supera ogni immagina-
zione. Dobbiamo adattarci, Pierre. Siamo in grado di
farlo.
Pierre Laniel comprese a cosa alludeva il Venera-
bile. François Branier custodiva il segreto del Numero.
Era essenziale preservare la persona del maestro della
Loggia. E questi, a sua volta, era ansioso di salvare la
vita dei suoi fratelli.
— Siamo spacciati — mormorò André Spinot, l’oc-
chialaio, che se ne stava sconsolato in un angolo della
stanza con la testa tra le mani.
— Può darsi — convenne Dieter Eckart. — Ma
dobbiamo lottare ugualmente.
— Come? — chiese Jean Serval, l’apprendista.
— Potremmo tentare un’evasione.
— Non ti illudere — obiettò Guy Forgeaud, il
meccanico.
—Togliti dalla testa l’idea di poter scalare le mura
del castello.
Forgeaud era un uomo sempre pieno di risorse, e il
suo parere sulla questione era perciò tanto più
autorevole.
— E allora come potremmo fare, secondo te? — gli
chiese il Venerabile.
54 CHRISTIAN JACQ

— Ancora non lo so. Devo prima conoscere meglio


questo posto. So solo che se falliamo non ci concede-
ranno una seconda possibilità.
— Tutto dipende dal momento in cui comince-
ranno a torchiarci veramente — osservò Jean Serval,
dando voce al timore angoscioso che si era impadronito
di tutti.
— Sì e no — intervenne Dieter Eckart, che si era
piazzato nell’angolo di una finestra per osservare
quello che succedeva nel cortile. — La vera questione è
sapere cosa vogliono da noi.
Tutti gli sguardi, allora, si appuntarono sul Venera-
bile. Se c’era qualcuno che poteva rispondere a quella
domanda era lui. Anche se non poteva spiegare tutto, in
ragione del giuramento che aveva prestato, era sicura-
mente in grado di fornire qualche ragguaglio.
François Branier restava a suo modo impenetrabile,
dietro la sua espressione burbera da orso. Rieletto
puntualmente alla carica di maestro Venerabile ogni
anno, ormai da quindici anni, nel giorno di San
Giovanni Battista, aveva sperato di trasmettere final-
mente quell’onere a uno dei maestri della Loggia. Ma
la Gestapo aveva frustrato le sue speranze.
— La nostra Loggia è diversa da tutte le altre —
cominciò a dire il Venerabile. — È depositaria di un
mistero. Se noi morissimo, quel mistero morirebbe
con noi.
— Da quando hai creato questa Loggia — notò
L'Architetto 55

Dieter Eckart — abbiamo modificato i nostri metodi di


lavoro, purificandoli dalle degenerazioni profane e
tornando alle origini dell’arte muratoria. Anche se non
costruiamo più delle cattedrali di pietra, i progetti di
lavoro che abbiamo in corso non sono meno
importanti.
— Sempre che resti vivo qualcuno di noi per
portarli a termine — obiettò Pierre Laniel, in tono
amaro. — Siamo rimasti in sette. Quattro apprendisti,
tre compagni, e quattro maestri sono morti o scom-
parsi. E quanto a noialtri… non c’è da stare allegri.
— Chi ci ha tradito? — chiese allora Raoul Brissac.
La sua ferita aveva smesso di sanguinare. Ma il viso
dello scalpellino era contratto da una smorfia di dolore.
— Un massone — rispose il Venerabile. — Lo
stesso che ci aveva messo a disposizione il locale per la
riunione.
Una trappola. Erano caduti in una trappola prepa-
rata da un fratello. Dieter Eckart si asciugò con il dorso
della mano una lacrima di rabbia e di sconforto. Laniel
sentì venire meno la sua residua fiducia. Forgeaud si
disse che forse sarebbe stato meglio essere già morto.
Brissac scordò per un attimo il suo orecchio mutilato.
Spinot rimase immobile, con gli occhi chiusi. Serval
fissò il vuoto con aria inebetita.
— Siamo soli — disse il Venerabile. — Totalmente
soli. Lo siamo sempre stati.
6

R
estarono più di un’ora senza parlare. Il
Venerabile lasciò che i suoi compagni si
riavessero dal colpo. Seduti per terra con la
schiena contro le pareti della baracca, speravano che
uno di loro potesse suggerire agli altri ancora una
ragione di speranza. Branier li osservò. Pierre Laniel…
un uomo esperto, un vero capo, in grado di resistere a
tutto, ma disarmato a volte di fronte alle manifestazioni
del Male. Un maestro capace, degno di ricevere il
segreto del Numero. Dieter Eckart… dotato di una
profonda sensibilità sotto la maschera aristocratica,
oltre che di un’intelligenza prodigiosa. Un futuro Vene-
rabile. Guy Forgeaud… il più abile di tutti. Capace di
cavarsela in qualsiasi situazione. Un temperamento
geniale, insofferente di qualsiasi disciplina, ma profon-
damente attaccato alla comunità. André Spinot… il più
L'Architetto 57

sensibile e il più fragile. Umiliato dalla vita, colpito


mille volte, ma mai abbattuto. Aveva impiegato lunghi
anni per dominare il suo tumulto interiore. Raoul Bris-
sac… un autentico uomo del popolo, che aveva voluto
conoscere anche la massoneria. Una trasformazione
difficile, un vero voltafaccia, consono al suo carattere
impulsivo; ma aveva anche un cuore d’oro, e una
passione di vivere quasi animalesca. Jean Serval… il più
brillante degli apprendisti, l’allievo capace di andare
fino in fondo se non disperdeva le sue forze lungo
la via.
Non li giudicava. Li amava troppo. Ma proprio per
questo doveva sforzarsi di essere lucido. Erano i suoi
fratelli in spirito, quelli che lui aveva prescelto per
percorrere insieme il sentiero stretto che portava dalle
tenebre alla luce. E ora eccoli lì, invece, atterriti come
bestie condotte al macello.
— Quel porco, lo ammezzerei! — esclamò improv-
visamente Raoul Brissac, rompendo il silenzio. — Un
cazzotto sul cranio. Uno solo. Glielo spaccherei come
un melone marcio.
— Non hai il diritto di parlare così — intervenne
Laniel.—Bisogna dargli la possibilità di spiegarsi,
anche se ci ha tradito. È un fratello.
— No— l’interruppe André Spinot, sempre
prostrato, ma con una voce che risuonò con una chia-
rezza singolare. — La massoneria è morta. I fratelli non
esistono più. Non hanno più niente da dirci, più niente
58 CHRISTIAN JACQ

da provare. Le Logge sono gusci vuoti. Sono state spaz-


zate dal primo colpo di vento. Quanto a noi, dovremo
crepare tutti perché siamo gli ultimi custodi del segreto.
— Questo è poco ma sicuro — confermò Dieter
Eckart.
Il professore non era mai apparso così sicuro di sé,
così tranquillo.
— Strano campo di concentramento e strano
gruppo di tedeschi — osservò Guy Forgeaud, con il suo
solito tono vagamente beffardo.
— Perché strano? — chiese Pierre Laniel.
— Di solito i crucchi adorano sfoggiare i loro titoli.
Sono tutti Oberstamfuhrer o qualcosa del genere.
Adorano la disciplina, scattare sull’attenti, con la punta
delle dita sulla cucitura dei pantaloni. Se cerchi di
protestare sono guai. Qui, invece, abbiamo rapporti
abbastanza educati con gente che parla un buon
francese.
— Hanno paura — disse il Venerabile.
Sei paia di occhi spalancati per la sorpresa lo
fissarono.
— Sono convinti che i prigionieri che hanno
riunito qui abbiano dei poteri particolari. I tedeschi si
sentono onnipotenti, adesso, ma non si sa mai…
— Ed è vero? — chiese Serval, l’apprendista, con
tono semiserio. — Avremmo davvero dei poteri
particolari?
L'Architetto 59

— Non sufficienti a farci uscire di qui… Dovremo


piuttosto essere pronti a cogliere la minima opportu-
nità per tentare di evadere.
— Di quali opportunità parli? Non ce ne sono —
commentò Spinot, l’occhialaio.
— Piantala! — lo zittì Brissac, alzandosi di scatto e
parandosi davanti a lui. — Piantala di fare l’uccello del
malaugurio!
— È la verità — ribatté Spinot, offeso.
— Basta — intervenne il Venerabile. — Non comin-
ciamo a litigare tra di noi. Sarebbe il peggiore degli
sbagli. Non aspettano che questo.
— Quanto a me, non passerò la mia vita ad aspet-
tare. Intanto, mi scappa da pisciare.
Così dicendo, Raoul Brissac aprì la porta della
baracca.
L’aria aperta.
Una sirena si mise a ululare. Si udì un rumore secco
di otturatori che venivano fatti scattare per mettere il
colpo in canna. Con un urlo rauco qualcuno ordinò
dall’alto della torre: — Alt! — Lo scalpellino si arrestò
di botto, come se si fosse ridestato da uno stato di
profonda ubriachezza. Un drappello di SS uscì di corsa
dalla caserma e gli corse incontro. Lo circondarono,
tenendolo sotto la minaccia delle anni. Un furore
incontenibile gonfiò il cuore di Brissac. Era pronto a
battersi, a mani nude, contro quegli spettri.
60 CHRISTIAN JACQ

— Raoul, non fare fesserie! — gli gridò Guy


Forgeaud.
— Qualche problema, Brissac?
Il maggiore delle SS, circondato dai suoi uomini,
squadrò beffardo lo scalpellino come un animale preso
in trappola.
— Un bisogno fisiologico.
Il maggiore diede un ordine in tedesco a due dei
suoi uomini. Uno di loro spinse Brissac da dietro,
mentre l’altro gli indicava la direzione della baracca dei
bagni.
La porta della baracca rossa fu richiusa di scatto.
— E se Raoul non tornasse? — chiese Pierre Laniel,
con voce strozzata dall’angoscia.
— Uniamo i nostri cuori in fraternità — racco-
mandò il Venerabile, come se quella formula rituale
potesse scacciare la paura, come se fosse in loro potere
soccorrere il loro fratello in caso di bisogno. Una scena
drammatica si disegnò nella sua mente: Raoul massa-
crato di botte con il calcio dei fucili, il viso pieno di
sangue, che urlava…
Cinque minuti più tardi, la porta della baracca
rossa si riaprì. Apparve dapprima un’uniforme delle
SS. Poi Raoul Brissac, incolume.
Quando furono di nuovo tutti insieme, lo scalpel-
lino respirò sollevato. Anche lui aveva temuto di non
riuscire a tornare.
— Davvero assurdo! — osservò Guy Forgeaud. —
L'Architetto 61

Abbiamo anche diritto ai servizi igienici. Forse è


davvero un cottage per le vacanze, dopo tutto… manca
solo che ci portino la colazione a letto.
— Hai potuto dare un’occhiata in giro? — chiese
invece il Venerabile, rivolto a Brissac
— Sì… E l’impressione è piuttosto sconfortante.
Togliamoci dalla testa l’idea di poter scalare le mura.
Troppo alte. E in cima ci sono i reticolati. Attraversati
dalla corrente elettrica, potete starne certi. La caserma
delle SS è di fianco alla nostra baracca. Sulla destra,
invece, c’è il pisciatoio, con accanto le docce. Forse c’è
un altro edificio nascosto da qualche rientranza. Ma io
non ho visto nient’altro.
— Non hai visto nemmeno altri prigionieri?
— No. Ma forse sono rinchiusi nelle altre baracche.
Chissà, magari sono dei fratelli anche loro. Forse è un
campo di concentramento riservato solo ai massoni…
Il Venerabile si rese conto che i suoi fratelli erano in
preda a un profondo sconforto. Se perfino Raoul
Brissac confessava la propria impotenza, voleva dire
che non c’era più niente da fare.
— Terremo una riunione riservata ai soli maestri —
annunciò. — Gli altri fratelli sorveglieranno la porta e
le finestre.
La vita riprendeva un corso normale. Perché si trat-
tava di prendere una decisione che riguardava la vita
della comunità, il Venerabile aveva il dovere di convo-
care la camera di mezzo, composta dai maestri della
62 CHRISTIAN JACQ

Loggia. Da sempre, era la sola assemblea sovrana, ed


era caratterizzata da una regola d’oro: ogni decisione
doveva essere presa all’unanimità.
Solo quattro maestri della Loggia erano sfuggiti alla
caccia dei nazisti: il Venerabile Branier, Pierre Laniel,
Guy Forgeaud, Dieter Eckart. Quest’ultimo aveva l’in-
carico di trasmettere gli insegnamenti iniziatici ai
compagni. Guy Forgeaud faceva da tutore nei confronti
degli apprendisti. Laniel vegliava sulla stretta applica-
zione della Regola. Quando la camera di mezzo si
riuniva, i membri di grado inferiore, come i compagni
d’arme e gli apprendisti, uscivano dal tempio. Stavolta,
però, confinati com’erano dentro la baracca rossa, si
limitarono a voltare le spalle ai tre maestri riuniti in
un’assemblea segreta in un angolo della loro prigione.
— Al mio colpo di maglietto — disse il Venerabile
— siamo nella camera di mezzo.
François Branier batté con la mano destra stretta a
pugno sul muro. Non aveva a disposizione né maglietto,
né grembiulino di cuoio, né compasso, né squadra, né
spada fiammeggiante, né altare… era la tenuta più
povera che avesse mai celebrato.
Con il suo vestito ormai tutto sgualcito, si sentiva
quasi indecente davanti ai suoi fratelli, infagottati
nell’uniforme grigiastra.
— Fratelli, dobbiamo prendere una decisione
importante. Secondo la nostra Regola, devo consultare
voi maestri e sottoporre al voto le mie proposte.
L'Architetto 63

Pierre Laniel giudicò sbalorditiva la loro situazione.


Eccoli lì, tutti e quattro, fantasmi di frammassoni preci-
pitati all’inferno. Ma questi fantasmi celebravano un
rito grottesco… Laniel si chiese se non erano diventati
tutti matti. Un nodo in gola gli rendeva difficile inghiot-
tire la saliva. Sentiva acutamente la mancanza dello
scenario abituale di una tenuta massonica, della magia
dei costumi, dei simboli iniziatici. La freddezza
frustrante della baracca gli impediva di concentrarsi.
Il Venerabile avvertì il disagio di Laniel. E non era
affatto sicuro che la calma apparente degli altri maestri
non nascondesse un’angoscia altrettanto profonda. Lui
stesso si sentiva invadere a poco a poco da una paura
sottile.
— La sera in cui siamo stati arrestati dalla Gestapo
— riprese a dire — dovevamo procedere all’elezione
del nuovo Venerabile della Loggia. Conformemente
alla Regola, rimetto la mia carica nelle vostre mani. Noi
maestri siamo rimasti solo in quattro, e siamo i soli
abilitati a votare. La procedura è regolare, a condizione
di rispettare la legge dell’unanimità. Il luogo in cui ci
troviamo è diventato il nostro tempio. Non serve nien-
t’altro. Anche se il rito della trasmissione sarà ridotto al
minimo, avrà ugualmente pieno valore. Chiedo a un
candidato di dichiararsi.
Guy Forgeaud, maestro da troppo poco tempo, non
aveva i titoli per diventare Venerabile. Pierre Laniel
evitò di incontrare lo sguardo di François Branier. Non
64 CHRISTIAN JACQ

avrebbe mai immaginato di poter accedere un giorno a


quel ruolo misterioso che custodiva le chiavi del livello
iniziatico più elevato. La carica di maestro bastava
ampiamente a soddisfare le sue ambizioni. Gli
sembrava di non essere ancora riuscito a impadronirsi
di tutti i segreti propri del ruolo che già ricopriva.
Certo, era un imprenditore, e aveva imparato a guidare
i suoi simili, ingegneri o operai che fossero. Sapeva farsi
amare e rispettare a un tempo dai suoi collaboratori, ed
era diventato il puntello di un edificio sociale dove
ciascuno trovava il suo posto. Quanti conflitti doveva
risolvere ogni giorno nella sua azienda, mostrandosi
inflessibile e al tempo stesso diplomatico! Aveva avuto
anche lui dei momenti di crisi, dei passaggi difficili, ma
era sempre riuscito a venirne fuori. Laniel credeva di
conoscere molto bene gli uomini, le loro passioni, i loro
difetti, le loro ambizioni, i loro momenti, spesso inat-
tesi, di grandezza. Ma dirigere i fratelli, orientarli, fare
da mediatore tra loro e il Grande Architetto dell’Uni-
verso… di questo non si sentiva ancora capace. Il solo
che poteva succedere a François Branier era Dieter
Eckart.
Gli occhi socchiusi, il capo leggermente reclinato in
avanti, Dieter Eckart parve meditare. Il suo spirito era
lontano, molto lontano dalla fortezza nazista. La sua
capacità di concentrazione, la sua forza di carattere, gli
consentivano di astrarsi dalle peggiori situazioni. Alla
pari di Laniel, non aveva dimenticato lo scopo princi-
L'Architetto 65

pale della tenuta che la Loggia doveva celebrare la sera


in cui erano stati arrestati dalla polizia segreta nazista.
Eckart sapeva che i fratelli della Loggia Conoscenza gli
tributavano stima e fiducia. Sapeva anche che lo stesso
Branier contava di affidare a lui l’onere di guidare la
Loggia, anche se il Venerabile in carica non aveva il
diritto di indicare il proprio successore. Certo, aveva
immaginato di affrontare quella questione in circo-
stanze e in un ambiente molto diversi. Anche durante il
periodo di clandestinità, la Loggia aveva potuto conti-
nuare a tenere le sue assemblee in luoghi consoni,
capaci di far rivivere la magia del rito. Ma lì… Eckart
pensò a quegli uomini che, rinati per mezzo dell’inizia-
zione, avevano avuto l’incarico di dirigere una comu-
nità come quella. Quale che fosse la loro razza, la loro
cultura, il loro carattere, erano stati scelti per trasmet-
tere la luce. Per far vivere la vita e morire la morte.
— Maestro Venerabile — disse allora Dieter Eckart
— sappiamo tutti che il Venerabile della Conoscenza
non è il capo di una Loggia come tutte le altre. Non si
tratta solo di un passaggio di poteri. C’è la questione
del segreto del Numero, la chiave di volta della confra-
ternita.
Branier annuì.
— Applichiamo dunque la Regola — propose
Eckart. — Votiamo con conoscenza di causa.
François Branier si sentì sollevato. La prospettiva di
potersi sgravare di un simile peso lo allettava alquanto.
66 CHRISTIAN JACQ

— Dichiaro vacante la carica di maestro Venerabile.


Chiedo a uno dei maestri confermati della Loggia, che
abbia assistito e partecipato a tutti i suoi lavori, ricono-
sciuto come tale dai sui fratelli d’arte, che abbia diretto
i lavori dei compagni e degli apprendisti, di rimettere la
sua candidatura nelle mani del Grande Architetto
dell’Universo.
Pierre Laniel aveva rinunciato. Preferiva restare
nell’ombra e assistere il futuro Venerabile. Branier, che
riteneva di avere già voltato pagina, attese che Dieter
Eckart si esprimesse. Alla fine, Eckart prese la parola.
— Per il prossimo anno di luce, propongo come
maestro Venerabile… François Branier.
Dieter Eckart si era espresso con una gioia calma,
contenuta, con un tono che non ammetteva repliche.
Pierre Laniel, a tutta prima sorpreso, giudicò che il suo
fratello avesse avuto un’intuizione formidabile. Guy
Forgeaud non dissimulò la propria gioia. Un largo
sorriso comparve sul suo viso.
— Approvo questa candidatura — dichiarò a sua
volta. — Fratello François, puoi assicurarci che senti di
avere la forza spirituale e fisica necessaria per assolvere
questo ruolo?
François Branier si era ripiegato su se stesso, il capo
incassato tra le spalle, lo sguardo grave. I suoi fratelli
conoscevano bene il senso di quell’atteggiamento.
Significava che il Venerabile stava riflettendo con
animo inquieto.
L'Architetto 67

— E se vi confessassi che non mi sento più una tale


forza? Che sono un vecchio stanco, logoro, incapace di
dirigere ancora questa Loggia senza commettere una
quantità di stupidaggini?
Pierre Laniel fu sbalordito. Un Venerabile aveva in
effetti la possibilità di rimettere la sua carica nelle
mani dei fratelli, se non si sentiva più all’altezza di
ricoprirla.
— Se tu dicessi una cosa del genere — rispose
Dieter Eckart — noi non ti crederemmo. Non sei mai
stato così in forma. L’età non ha alcun potere su di te.
Non puoi rinunciare al tuo ruolo in un momento
simile. Non starò qui a ricordare la tua saggezza, la tua
esperienza, il tuo prestigio… Noi non abbiamo l’abitu-
dine di perderci in convenevoli. Né Pierre né io siamo
capaci di prendere il tuo posto e lo sappiamo tutti.
Devo fare a mia volta una confessione: anche in circo-
stanze normali, avrei sostenuto la tua candidatura e
non la mia. Hai ancora molto da fare per formare il tuo
successore, maestro Venerabile. Non puoi fermarti a
metà del cammino.
— Piove! — gridò Jean Serval, l’apprendista, di
guardia a una delle finestre della baracca.
In verità non cadeva una sola goccia di pioggia. Ma
alcuni soldati delle SS, seguiti dal loro maggiore, veni-
vano verso la baracca rossa. Serval aveva utilizzato la
formula rituale per avvertire i fratelli che stavano per
arrivare dei profani.
68 CHRISTIAN JACQ

— Al mio colpo di maglietto i nostri lavori sono


sospesi — disse il Venerabile.
Diede un pugno con la mano destra contro il muro
qualche istante prima che la porta della baracca si
aprisse per lasciar entrare il maggiore delle SS.
— Spero che vi siate abituati alla vostra nuova
villeggiatura — disse. — Sono qui per trasmettervi un
invito a cena. Da parte del comandante di questa
fortezza. Vi verremo a chiamare al momento
opportuno.
Non c’era ombra di accento tedesco nel suo fran-
cese. Nessuno di quei titoli altisonanti di cui i militari
tedeschi andavano tanto fieri infarciva il suo eloquio.
Ed ecco ora, per giunta, un invito a cena… Qualcosa
non quadrava. Come se l’orrore avesse mosso un passo
indietro per prendere lo slancio e colpire meglio. Il
maggiore chiuse lui stesso la porta della baracca.
— Al mio colpo di maglietto, la Loggia è aperta
anche al grado di apprendista — disse il Venerabile.
Batté di nuovo un pugno sulla parete.
Tutti gli sguardi si volsero verso di lui.
— Fratello Raoul, tu svolgerai il ruolo di copritore.
Il compagno Raoul Brissac, maestro nell’arte di
tagliare la pietra, si mise di guardia accanto alla fine-
stra, ben deciso a non lasciar profanare il tempio da
estranei.
— Prendete posto, fratelli.
La magia delle vecchie formule fece venire ai parte-
L'Architetto 69

cipanti un nodo in gola per la commozione. Il Venera-


bile rimase in piedi, al centro della parete di fondo.
Sulla sua sinistra, Pierre Laniel, Guy Forgeaud, André
Spinot. Sulla sua destra, Jean Serval e Dieter Eckart. Di
fronte a lui, Raoul Brissac.
— La principale urgenza, fratelli, è di riunire gli
elementi necessari per compiere il nostro rituale.
Dobbiamo fare di tutto per incarnare anche in questo
luogo la nostra iniziazione.
Gli occhi di tutti brillavano di speranza. Il Venera-
bile restituiva ai suoi fratelli il gusto di lottare. L’ansia
di trovare tesori inestimabili come… un po’ di gesso o
qualche candela, indispensabili per i riti massonici
Pierre Laniel alzò la mano per chiedere la parola.
— Il problema sarà quello di uscire da questa
baracca. Forse hanno deciso di lasciarci ammuffire
qui.
— Non credo — obiettò il Venerabile. — C’è questo
invito a cena. Spero che potremo mangiare e bere. Ora
scambiamoci le nostre osservazioni sulle strutture del
lager. Ognuno di noi avrà osservato qualche particolare
diverso. Che ognuno prenda a turno la parola. Guy, tu
farai la sintesi finale.
A turno, ogni fratello espresse le proprie considera-
zioni. Guy Forgeaud registrò mentalmente l’essenziale
delle loro osservazioni. Il meccanico, contrariamente a
quello che aveva dichiarato al maggiore delle SS, aveva
una memoria prodigiosa. Con l’autorizzazione del
70 CHRISTIAN JACQ

Venerabile, prese a sua volta la parola quando tutti i


fratelli ebbero terminato.
— Quanto a me, non ho niente da aggiungere a
quello che già è stato detto… Grazie agli interventi di
ciascuno, e con l’aggiunta delle foto che il nostro Vene-
rabile ha visto nell’ufficio del comandante, sappiamo
che la torre centrale della fortezza ospita i servizi
amministrativi e le stanze per gli interrogatori. In cima
alla torre, un cammino di ronda, dei riflettori e delle
mitragliatrici pesanti. Da lassù si può tenere d’occhio e
sorvegliare tutto il lager. Le baracche sono disposte
lungo il muro di cinta della fortezza, che è molto alto e
sormontato da reticolati attraversati dalla corrente elet-
trica. Ci sono diverse baracche di colore diverso. La
nostra è la sola che possieda due finestre. Andando
verso la baracca dove ci sono i bagni, affiancata da
un’altra che ospita le docce, Raoul ha notato che le
finestre delle altre baracche sono tutte sigillate. Non
sappiamo se ci sono altri prigionieri oltre a noi, nel
campo. Per finire, tra le baracche e i servizi sanitari, c’è
una caserma delle SS. I graduati devono essere alLog-
giati all’interno della torre.
André Spinot alzò la mano.
— Questo campo è anomalo.
— Perché anomalo? — chiese Serval, l’apprendista,
a cui il Venerabile aveva accordato in via eccezionale la
parola. — Siamo chiusi qui dentro, senza nemmeno
L'Architetto 71

qualcosa da bere, strapazzati da questa gentaglia in


uniforme…
— Strapazzati… ci stanno trattando con i guanti,
per il momento. Niente a che fare con quello che si
sente dire sui lager nazisti.
Le parole di André Spinot raggelarono i presenti
come un soffio d’aria ghiacciata. Tutti i fratelli erano
invece certi che, al di là delle apparenze, quello era un
girone d’inferno. Quando sarebbe caduta la maschera?
Per André Spinot, fabbricante di occhiali, vederci
chiaro era una delle principali virtù. Occultare la realtà,
per paura o per disperazione, era la peggiore delle
colpe.
— Ci manca ancora un’informazione di importanza
capitale — osservò allora il Venerabile.
— Quale? — chiese Forgeaud.
— La collocazione dell’infermeria. Deve essercene
una. Io sono medico. Bisognerà che le dia un’occhiata.
E magari che prenda la struttura sotto la mia respon-
sabilità.
Un sogno. Ma Spinot non trovò niente da obiettare.
Il Venerabile aveva indicato un nuovo cammino.
7

R
imasero in attesa che facesse sera. Tutti i
fratelli avevano bisogno di recuperare le
forze. Dormirono. Uno di loro restò sveglio,
di guardia. A turno, andarono ai gabinetti, seguendo
una procedura sempre identica. Aprire la porta della
baracca. Restare immobili sulla soglia, senza muoversi.
Attendere l’arrivo di due soldati delle SS. Lasciarsi
scortare sia all’andata che al ritorno. Niente brutalità.
Bisognava solo sbrigarsi, evitare perdite di tempo lungo
la strada, non voltarsi in giro. Nessun fratello vide la
minima traccia di altri prigionieri. Un pesante silenzio
gravava sulla fortezza, così come sul paesaggio
montano circostante.
— Non stai dormendo, vero? — chiese a voce bassa
Laniel, steso accanto al Venerabile.
— Non ci riesco.
L'Architetto 73

— Credi che riusciremo a uscire di qui, François?


— Dobbiamo riuscirci. È necessario.
Laniel guardò il soffitto. Bisognava credere alle
parole di François Branier, si disse. Perché un maestro
Venerabile non mente mai.
— Roba da pazzi… farci fregare così, senza poterci
battere…
Pierre Laniel si esprimeva spesso in modo crudo.
Una vecchia
abitudine. Con i suoi operai non usava di certo giri
di parole.
— Dipende, Pierre…
Stupito, Laniel si tirò a sedere sostenendosi su un
gomito e guardò in faccia Branier, che se ne stava
immobile come una statua.
— Dipende da che?
— La Loggia si è dissanguata, da quando è comin-
ciata questa guerra. Abbiamo perso dodici fratelli.
Siamo rimasti solo noi. Ma siamo tutti riuniti qui, e
questa è la nostra forza.
Pierre Laniel si chiese se il Venerabile non comin-
ciasse a dare i numeri. E tuttavia, non era nel suo stile…
L’industriale credeva di conoscere molto bene gli
uomini, ma François Branier aveva ancora il potere di
stupirlo. Non aveva mai trovato una persona più serena,
più incrollabile di lui. Emanava da lui un senso di
grande forza, di forza pacifica. Accanto a Branier,
niente sembrava impossibile.
74 CHRISTIAN JACQ

— Dobbiamo uscire di qui, François. Reagire, non


importa come. Prenderli di sorpresa. Se accettiamo di
giocare al loro gioco, ci mangeranno vivi.
— Non precipitiamo le cose, Pierre. Prima di tutto,
dobbiamo celebrare una tenuta. Sacralizzare questa
prigione. Fare in modo che il Grande Architetto dell’U-
niverso sia presente tra noi e che ci suggerisca la
soluzione.
— Non crederai davvero…
— No, non si tratta di credere a qualcosa. Per me è
una certezza.
Pierre Laniel fu quasi spaventato da tanta sicurezza.
Il Venerabile non aveva l’abitudine di impegnarsi in
qualche impresa se non era sicuro di portarla a
termine. Ai suoi occhi, quelli che dicevano con sicu-
rezza “lo so” erano incoscienti o in malafede. Amava
ripetere spesso le parole del filosofo: “So di non
sapere… e non sono molto sicuro nemmeno di questo”.
Tuttavia aveva pronunciato la parola certezza con una
convinzione assoluta, come un cacciatore sicuro di fare
centro prima ancora di avere tirato il grilletto.
— Ricordi, François, quando abbiamo fondato
questa benedetta Loggia… Non ci credeva nessuno.
Non ne volevano sapere. I fratelli, tu dici! Ce l’hanno
messa tutta per mandare all’aria il nostro progetto!
Adesso saranno contenti…
La porta della baracca fu aperta di colpo con un
calcio. Klaus, il maggiore delle SS, apparve sulla soglia.
L'Architetto 75

— In piedi, signori. Siete attesi a cena. Il coman-


dante esige prima di tutto la puntualità.
I sette fratelli della Loggia Conoscenza si alzarono
quasi all’unisono. Uscirono dalla baracca uno alla
volta, con il Venerabile che chiudeva la fila. Fuori era
già buio. Le nuvole oscuravano il cielo. Un vento
glaciale spazzava il cortile. La fortezza faceva pensare a
una belva appostata nelle tenebre. Sempre lo stesso
silenzio inumano, rotto soltanto dai passi pesanti dei
soldati. I sette fratelli si diressero verso la torre centrale,
scortati dalle SS, la cui espressione restava impenetra-
bile al pari delle alte mura del castello.
Nessuna luce filtrava sotto le porte delle altre barac-
che. I fratelli furono fatti entrare, attraverso una porta
al piano terra, in un vasto ambiente che poteva conte-
nere una cinquantina di persone.
Branier e gli altri fratelli si trovarono di fronte a uno
spettacolo sconvolgente.
Una lunga tavola apparecchiata con una tovaglia
candida, immacolata. Piatti di porcellana smaltata.
Candelieri d’argento a tre bracci. Una fantasia di fiori
color malva come centrotavola. A un’estremità del
tavolo, sotto una fotografia di Hitler, il comandante del
campo era assiso su una sorta di trono medievale a
schienale alto. Alla sua sinistra, su un palchetto, un’or-
chestra da camera diretta dall’aiutante di campo.
All’ingresso dei fratelli, intonò l’inno massonico per il
grado di maestro, composto a suo tempo da Mozart,
76 CHRISTIAN JACQ

nella sua qualità di illustre rappresentante della cosid-


detta “Arte Reale”. Il posto di ogni fratello era indicato
da un cartoncino con il suo nome. Si accomodarono
increduli, rapiti dalla bellezza tragica di quella musica
che i maestri della Loggia conoscevano perfettamente,
per averla ascoltata tante volte durante i loro riti inizia-
tici. L’ode funebre durò un po’ più di dieci minuti,
durante i quali, nel più perfetto silenzio, due soldati
delle SS servirono un soufflé ai funghi accompagnato
da ottimo vino rosso châteaulatour.
Il maestro Venerabile si trovò seduto di fronte al
comandante del campo, all’altra estremità del tavolo.
Alla sua sinistra un maestro, Dieter Eckart, e i due
compagni d’arme André Spinot e Raoul Brissac; alla
sua destra due maestri, Pierre Laniel e Guy Forgeaud, e
l’apprendista Jean Serval.
Mozart tacque. Il Venerabile aveva il cuore stretto in
una morsa.
— Mi auguro che abbiate apprezzato la musica e il
mio invito a cena — esordì il comandante del campo,
rivolgendosi a François Branier.
Nessuno aveva ancora toccato cibo. La fame di certo
non mancava. Ma ogni cosa, lì, sembrava avvelenata. Il
Venerabile non rispose. Attese che tutti si fossero siste-
mati. Il maggiore delle SS e un gruppo di suoi soldati si
erano piazzati alle spalle degli invitati, pronti a interve-
nire se uno di essi avesse reagito in modo improprio.
— Vi è stato accordato un trattamento di favore —
L'Architetto 77

proseguì il comandante — ma questo non è ingiusto.


Voi non siete uomini come gli altri. Siete depositari di
un grande sapere. Un sapere che dovrà essere messo a
disposizione del Reich. Altrimenti, a cosa servirebbe?
Mi sono detto che era meglio affrontare questo
problema intorno a una tavola bene imbandita. Non è
d’accordo anche lei, Venerabile?
François Branier borbottò qualcosa che poteva
passare per un sì o per un no. Il comandante impugnò
la forchetta. I fratelli cominciarono a mangiare, veloce-
mente, per il timore di essere interrotti sul più bello,
più ancora che per la fame.
Il comandante li lasciò fare. Lui e il Venerabile non
smisero un momento di studiarsi. Parlandosi solo con
gli sguardi, stabilirono di accordarsi reciprocamente
una tregua. François Branier piluccò il cibo di malavo-
glia. Gli era già passata la fame.
— Il dessert sarà di genere molto particolare —
annunciò il comandante. — Sarà costituito dalle sue
rivelazioni, Venerabile.
I fratelli rimasero con la forchetta sospesa in aria,
attendendo con ansia la risposta di Branier.
— Non ci sarà nessuna rivelazione. La Loggia
Conoscenza non esiste più. La massoneria non esiste
più. Siamo dei semplici prigionieri, uguali a tutti gli
altri.
II Venerabile aveva parlato con voce calma, lenta,
come farebbe un maestro con un allievo un po’ tardo di
78 CHRISTIAN JACQ

comprendonio. Senza dubbio, con quelle parole aveva


dato fuoco alle polveri. I fratelli ebbero l’impressione
che i soldati avessero già la pistola spianata contro la
loro nuca. Un colpo preciso, e tutto sarebbe finito. Forse
era meglio così.
— Ammettiamo che lei abbia detto il vero — fece il
comandante. — Non siete altro che dei bravi e leali
cittadini francesi. Non avete mai complottato contro il
Reich. Ma la Loggia Conoscenza è pure esistita, o no? O
me la sono sognata?
— Sì, la Loggia è esistita.
— Quale rito seguiva?
— Il Rito Scozzese Antico e Accettato.
— Il più turbolento e il più misterioso — sottolineò
il comandante, con espressione famelica.
Gli aderenti al Rito Scozzese Antico e Accettato,
secondo l’espressione arcaica, perpetuavano la tradi-
zione rituale più antica della massoneria. Richiaman-
dosi ai privilegi accordati alle antiche corporazioni di
mestieri edilizi, quelle cioè degli artefici delle grandi
cattedrali europee, avevano spesso contestato da posi-
zioni libertarie il potere costituito, ed erano i più refrat-
tari ai formalismi organizzativi e agli orpelli
esibizionistici che avevano preso piede nelle altre
Logge massoniche.
Il Venerabile ritenne di non aver rivelato un gran
segreto. Era convinto che il comandante volesse solo
verificare un’informazione che era già in suo possesso.
L'Architetto 79

— A quali livelli lavorava la vostra Loggia?


Il Venerabile esitò. Avrebbe preferito tacere un
elemento così essenziale, ma non gli parve prudente
tirare troppo la corda con il comandante, che apparen-
temente aveva studiato a fondo le testimonianze e i
documenti raccolti dalla Gestapo sull’attività delle
Logge. Non era in grado di sapere a quali documenti e a
quali testimonianze avesse attinto, e questo restringeva
ulteriormente il suo spazio di manovra. Doveva conce-
dergli qualcosa, andando un po’ a casaccio, sperando di
non contraddire in modo troppo stridente le prove
documentali che il suo interlocutore aveva raccolto.
— Conoscenza lavorava ai livelli di apprendista,
compagno e maestro.
— … e maestro — ripeté il comandante. — Le
riunioni a questo livello sono molto rare, di norma. Voi,
invece, vi riunivate spesso e con grande segretezza…
— Una semplice esigenza rituale. Quando i maestri
si riuniscono tra di loro, i compagni e gli apprendisti
non sono ammessi.
— Certamente, Venerabile… ma niente obbligava i
maestri della Loggia Conoscenza a riunirsi così spesso
nella camera di mezzo… È così che si dice, vero? Lei
sostiene che era una semplice esigenza rituale. Ma cosa
facevate, veramente? Cosa preparavate, nell’ombra?
Il Venerabile si sentì improvvisamente la gola molto
secca, e tossì. Quasi nello stesso momento, Jean Serval,
l’apprendista, scivolò giù dalla sedia e si afflosciò per
80 CHRISTIAN JACQ

terra, come una marionetta a cui avessero tagliato i fili.


I fratelli seduti accanto a lui cercarono di intervenire,
ma le SS lo impedirono Il Venerabile si alzò in piedi.
— Fermi dove siete! — ordinò il comandante.
— Sono Venerabile e anche medico — ribatté
François Branier, con tono di sfida. — Il fratello Serval
ha avuto un malore. Voglio assisterlo personalmente.
Portatemi in infermeria. Possiamo riprendere questi
discorsi in seguito. Altrimenti, dica pure ai suoi uomini
di spararci addosso.
Il comandante del campo valutò in un attimo la
situazione. L’incidente gli aveva confermato che i
fratelli della Loggia Conoscenza non volevano essere
divisi. Era la loro forza. Isolando il Venerabile nell’in-
fermeria, invece, gli sarebbe stato più facile intaccare la
loro capacità di resistenza.
— La cena è terminata. Portate il Venerabile e il
malato in infermeria. Gli altri rientreranno nella
baracca rossa.
Il comandante si alzò anche lui da tavola, ritto nella
figura, autorevole.
Il Venerabile si sentì stranamente intimidito di
fronte a lui. Di certo non era stato scelto per quel
compito a casaccio. Folle ma non stupido, fanatico ma
lucido, era tagliato perfettamente per il ruolo di carne-
fice. Era riuscito a prendere in trappola i membri della
Loggia Conoscenza e la tagliola che aveva preparato
non si sarebbe più riaperta.
L'Architetto 81

Due soldati presero di peso Serval e lo trascinarono


verso la porta della sala da pranzo. Gli altri fratelli
furono costretti a disporsi in fila indiana. Guy Forgeaud
non resistette alla tentazione, mentre passava accanto
al tavolo, di ingollare al volo un altro pezzo di soufflé.
— Un attimo! Helmut…
L’aiutante di campo portò al comandante un grosso
cesto che conteneva gli orologi, gli anelli, le fedi, e gli
altri oggetti metallici che i fratelli avevano consegnato
in precedenza. Il comandante affondò una mano nel
cesto e rimestò nel mucchio.
— Sono quelli che voi massoni chiamate metalli. Li
depositate alla porta del tempio prima di ogni tenuta. E
vi vengono restituiti alla fine… Stavolta, sarò io a deci-
dere. Cercate di lavorare come si deve, se volete ricon-
quistare la libertà…
Il Venerabile e Jean Serval, ancora privo di sensi,
furono condotti verso una baracca dipinta di verde.
Situata in una rientranza, era incastrata tra la caserma
delle SS e le docce. Un soldato stava permanentemente
di guardia davanti alla porta. I soldati furono molto
sbrigativi, forse perché temevano di contaminarsi
maneggiando un malato. Gettarono Serval sul pavi-
mento di terra battuta, e con uno spintone fecero
entrare nella baracca anche il Venerabile, che rischiò
per un attimo di perdere l’equilibrio. Poi richiusero la
porta alle loro spalle.
L’oscurità piombò intorno al Venerabile, un’oscu-
82 CHRISTIAN JACQ

rità popolata di gemiti, di lamenti. Lì dentro c’erano


degli esseri che soffrivano. Improvvisamente, una luce
fioca rischiarò le tenebre. Una candela schermata da
una scatola di cartone.
Un gigante con la barba rossiccia si parò davanti al
Venerabile. Sembrava alto più di due metri. Era vestito
con un semplice saio, stretto in vita da un rosario. Un
monaco.
— Chi siete? — chiese in tono corrucciato. — Come
siete arrivati qui?
— Mi chiamo François Branier. Sono medico.
Accompagno un malato.
— È malato anche lei?
— No. Voglio assistere il mio amico e occuparmi
dell’infermeria del campo.
Nell’oscurità risuonò una sonora risata, che lasciò
sconcertato il Venerabile. II corpaccione del gigante fu
scosso da uno scoppio di improvvisa ilarità.
Il Venerabile attese che il monaco smettesse di
ridere.
— E io sono frate Benoît — disse infine il gigante —
e mi occupo di questa infermeria da quindici giorni.
Per fortuna, non c’erano medici in questa fortezza.
Altrimenti a quest’ora tutti i poveracci ricoverati qui
dentro sarebbero morti.
— Come li cura?
— Io non curo, guarisco. Con le piante medicinali e
l’ipnosi. Qui ci si ammala a causa del freddo e del cibo.
L'Architetto 83

Ipnotizzo imponendo le mani. E con le piante fermo le


infezioni. Se lei ha qualcosa di meglio da proporre, le
cedo volentieri il posto.
— Piante medicinali? Come se le procura?
— Mi hanno concesso di uscire dalla fortezza una
volta la settimana, scortato da un nutrito drappello di
SS. Impossibile fuggire. Ma la montagna comincia a
rifiorire. Non si trovano ancora tutte le specie di cui
avrei bisogno, ma mi arrangio. E ho curato anche un
soldato delle SS con la dissenteria e un principio di
bronchite… Questo fatto ha accreditato le mie capacità
terapeutiche presso il comandante del lager. E mi sarà
utile in futuro quando avrò trovato qualcuno che abbia
un po’ di coraggio.
— Conosce tutti i prigionieri?
— Non conoscevo lei e il suo amico malato. Siete
arrivati qui con un convoglio speciale?
— Siamo in sette — rispose il Venerabile.
— Ci sono più di trecento disgraziati in questo lager
—precisò il monaco. — Una ventina dei quali sono
ricoverati in infermeria. Prima del mio arrivo, secondo
quello che mi hanno raccontato alcuni prigionieri che
sono qui da sei mesi, un centinaio di uomini ci aveva
lasciato la pelle. Freddo, malnutrizione…
— È lei che ha creato l’infermeria?
— Diciamo che l’ho sviluppata. Prima era solo un
buco. Dato il genere di prigionieri che abbiamo qui, i
responsabili del lager ritenevano che fossero in grado
84 CHRISTIAN JACQ

di cavarsela comunque da soli, quale che fosse il loro


stato di deperimento.
— Che genere di prigionieri?
Il monaco squadrò il suo interlocutore con aria
sospettosa.
— Gente che dovrebbe avere dei poteri speciali…
maghi, astrologhi, veggenti… Le SS credono all’energia
psichica. Sono convinti che questi poveracci siano
depositari di segreti favolosi che il Reich spera di poter
sfruttare per vincere la guerra. Telepatia, sortilegi, e
altre scemenze… Ma di segreti veri qui ce ne sono solo
due: Dio e la Fede.
L’apprendista Jean Serval smise di fingersi svenuto.
Aprì gli occhi e si alzò. Le parole pronunciate dal
monaco l’avevano rassicurato. Ma rimase di stucco
quando un pugno di ferro lo sollevò di peso dal suolo.
— Che significa? — tuonò il monaco.
—Un trucco per accedere all’infermeria — spiegò il
Venerabile.
Il monaco rimise a terra Serval.
— E voi quale dote speciale avete?
— Sembra che ci considerino depositari di un
segreto — rispose il Venerabile.
— Quale?
— Non esiste. È solo un’idea che si sono messi in
testa quelli delle SS.
Il monaco si grattò la barba, incredulo.
— Abbiamo avuto a che fare con il comandante,
L'Architetto 85

con il suo aiutante di campo, e con un maggiore delle


SS che ci ha portato qui da Compiègne. Ignoro i loro
nomi e il loro esatto ruolo gerarchico. Conosco solo i
nomi di battesimo dell’aiutante di campo e del
maggiore: Helmut e Klaus. E so che parlano il francese
come se fosse la loro lingua madre.
— Normale. Le SS che abbiamo qui sono di un tipo
particolare — spiegò il monaco. — Appartengono alla
Aneherbe. È una sezione speciale incaricata di occu-
parsi dei poteri occulti e di quelli che sembrerebbero
esserne in possesso. Hanno una catena gerarchica indi-
pendente dal resto delle forze armate, e conducono una
guerra tutta particolare. Allora, dottor Branier, lei non
può essere un cittadino qualsiasi. Né lei né i suoi
compagni. Tra di noi dobbiamo parlare chiaro, o
saremo tutti spacciati. Allora, ripeto la domanda: qual è
il vostro segreto?
— Si occupi prima del mio amico Jean Serval. Del
resto parleremo dopo. Se i tedeschi vengono a control-
lare la situazione, devono trovare un malato.
Un accesso di collera imporporò le guance del
monaco. Non fosse stato un servo di Dio, avrebbe dato
volentieri una lezione a quello strano tipo di stazza
robusta, che non cedeva di un millimetro e osava
perfino prendersi gioco di lui.
— Per di là — ordinò il monaco a Jean Serval. — Si
stenda e rimanga in attesa.
In fondo all’infermeria, una ventina di letti a
86 CHRISTIAN JACQ

castello, disposti su quattro file. Una sola coperta per


malato, anche se la temperatura interna non superava i
dieci gradi. Jean Serval si allungò su uno dei letti più
bassi.
Il Venerabile fu positivamente impressionato dalla
pulizia del locale. Il monaco si era accollato un compito
titanico mandando avanti da solo quell’ospedale di
fortuna. Il colosso condusse François Branier in un bugi-
gattolo dal soffitto basso, dove aveva sistemato un paglie-
riccio troppo corto perché potesse stendervi le gambe.
Le pareti erano macchiate dall’umidità. L’angolino più
scomodo dell’infermeria. Il monaco si era portato dietro
la candela, lasciando i malati a riposare al buio.
— Ha a disposizione anche qualche farmaco vero e
proprio? — chiese il Venerabile.
— Una piccola riserva. Dell’aspirina e un po’ di
disinfettante. L’infermeria delle SS è equipaggiata
molto meglio. Non dispero di riuscire a svaligiarla, un
giorno o l’altro. Intanto, sono riuscito a fare miracoli
con le piante medicinali. Andrò avanti così, finché mi
sarà possibile. Iddio è misericordioso e non ci
abbandonerà.
— Speriamo che possa esaudire le sue preghiere…
— Come osa dubitarne? — ribatté il monaco, inar-
cando le sopracciglia con espressione severa.
— Io e i miei sei fratelli siamo massoni. Io sono il
maestro Venerabile della nostra Loggia, che si chiama
L'Architetto 87

Conoscenza, e lavora per la gloria del Grande Archi-


tetto dell’Universo.
Un silenzio prolungato seguì quella dichiarazione.
Il monaco era rimasto molto colpito, evidentemente. Il
Venerabile attese con pazienza che dicesse qualcosa.
Conosceva l’ostilità della Chiesa verso la massoneria.
Ma si sentiva in obbligo di dire la verità così com’era,
senza cercare di dissimularla in alcun modo. Ora più
che mai, era necessario identificare con sicurezza
alleati e avversari.
— Quando mi hanno portato qui — disse infine il
monaco — sapevo che avrei incontrato il diavolo. Ma
ignoravo in quale forma.
Il monaco si sedette sul bordo del pagliericcio. Il
Venerabile lo imitò, e i due uomini si ritrovarono fianco
a fianco, lo sguardo fisso nella stessa direzione.
— Il diavolo… Non crede di esagerare?
— Dio non ama le sfumature. E ha in dispetto i
tiepidi.
— Non è certo il caso dei fratelli della mia Loggia.
— Perché sono dei fanatici?
— No. Solo uomini capaci di onorare fino in fondo i
loro ideali e la loro verità.
— Non c’è verità che in Dio.
— Tutto dipende dall’idea che ci si fa di Dio —
replicò il Venerabile. — Ma adesso abbiamo altre
urgenze… Lottiamo insieme o separati?
88 CHRISTIAN JACQ

Il monaco intrecciò le dita, facendo crocchiare le


giunture.
— Non scendo a patti con il nemico.
— Nemico io? Mi permetta di dire, padre, che lei
sbaglia.
— Venerabile o no, credo che dovrò darle una bella
lezione.
— Sarebbe un peccato per tutti e due. L’avverto che
non ho alcuna intenzione di porgere l’altra guancia.
La determinazione del Venerabile lasciò stupefatto
il monaco.
— È un mangiapreti?
— Troppo indigesti, per i miei gusti.
— Ma non è cristiano, tuttavia?
— Non esattamente… Lei si affida a Dio, io al
Grande Architetto dell’Universo. Non siamo obbligati a
fare a botte per questo.
— Esatto. Dio esiste, il Grande Architetto invece no.
Non è che un’immagine.
— Non mi ha ancora detto se possiamo stabilire
qualche forma di collaborazione.
— Ha dimenticato che lei uno è scomunicato?
— Sì, lo so.
— La situazione contingente importa poco. Lei
appartiene a una setta segreta che complotta contro la
Chiesa. Voi massoni, impugnando ipocritamente il
vessillo con il trinomio “libertà, fratellanza, uguaglian-
za”, avete fomentato contro di noi le peggiori persecu-
L'Architetto 89

zioni, avete calunniato i sacerdoti, avete fatto espellere i


monaci dai loro conventi, avete insultato Dio. E lei
vorrebbe che le stringessi la mano?
— La fede non deve accecare. I vertici della gerar-
chia ecclesiastica sono stati sviati. Hanno prestato
l’orecchio alle peggiori calunnie messe in giro dalla
propaganda antimassonica. In questa battaglia insen-
sata, truccata, tra Chiesa e massoneria, gli avversari dei
due campi hanno rivaleggiato in bassezze. E mentre
consumavano le loro energie in questo modo, il mate-
rialismo, il fascismo, la follia hanno potuto prosperare
tranquillamente. Siamo entrambi responsabili di
questa guerra, padre. Sia la Chiesa che la massoneria
hanno tradito i loro ideali.
— Filosofia a buon mercato. La Chiesa non ha mai
deviato dalla sua strada.
—Dimentica le stragi che sono state commesse in
nome di Dio?
— Un ateo come lei non può avere una visione
chiara della storia. I disegni di Dio si realizzano per
mezzo degli uomini ma anche malgrado loro.
— Troppo semplice. La verità iniziatica, quella sì,
non ha mai deviato dalla sua strada. Poco importa
quello che i massoni hanno poi fatto della massoneria.
Essa esiste al di là delle nostre debolezze. E non ha mai
ordinato di massacrare delle persone in nome di un
dogma.
La porta dell’infermeria si aprì all’improvviso in
90 CHRISTIAN JACQ

quel momento, lasciando entrare uno spiffero di aria


gelida. Klaus, il maggiore delle SS, entrò nella baracca.
Lanciò un’occhiata ai malati, poi vide il Venerabile e il
monaco seduti insieme nel bugigattolo dove era alLog-
giato quest’ultimo.
— Il nostro massone malato sta meglio, adesso? —
chiese Klaus, rivolto al monaco.
— Tre giorni di letto e di trattamento con le mie
tisane — borbottò in risposta frate Benoit.
— Ha trovato un terreno d’intesa con il Venerabile?
Chi di voi dirigerà l’infermeria?
Il Venerabile abbassò gli occhi a guardarsi le scarpe,
lasciando che fosse il monaco a parlare.
— C’è abbastanza lavoro per tutti e due. Ci si
ammala facilmente, qui. Il clima è rigido e il cibo è
avariato. Temo che possa scoppiare un’epidemia. E
allora non risparmierà nessuno.
Notoriamente, il monaco non aveva un carattere
accomodante. Klaus aveva avuto altre volte l’occasione
di verificarlo. Il comandante del campo aveva proibito
di sottoporlo a maltrattamenti prima che si potesse
verificare l’estensione dei suoi poteri come guaritore.
Un’epidemia… Ci mancava solo quello. Tra le SS
nessuno aveva una competenza sufficiente in campo
medico per gestire una situazione del genere. I membri
dell’Aneherbe erano stati selezionati in base a ben altri
criteri. Avevano imparato a esasperare gli spiriti e a
torturare i corpi, non a curarli. Impossibile sperare che
L'Architetto 91

le autorità del Reich inviassero al campo anche un


medico.
— Arrangiatevi come meglio potete. Mi farete
rapporto ogni giorno.
Ciò detto, il maggiore delle SS uscì in fretta dalla
baracca, come se fuggisse davanti a degli appestati. La
porta si richiuse con un tonfo secco.
— Sono felice che abbia scelto la strada della colla-
borazione — disse allora il Venerabile al monaco.
— Non si faccia illusioni — rispose il monaco. —
Non ho la minima intenzione di collaborare con lei.
Semplicemente, non voglio lasciarle l’ultima parola.
Quell’imbecille ha interrotto la nostra conversazione
mentre lei stava proferendo delle assurdità.
— E quali sarebbero, se è lecito?
— Ne parleremo domani. Nel frattempo, conviene
dormire. Dormire qualche ora è essenziale, se si vuole
resistere. Lei non è malato, quindi non ha diritto al
posto letto. Questo giaciglio è abbastanza confortevole
anche per un Venerabile.
— E lei? Dove dormirà?
— Davanti alla porta. Se arrivano le SS, voglio
essere il primo a saperlo.
Il Venerabile si stese sul letto, rinunciando a lottare
contro il sonno. Era stanchissimo, al punto da avere
tutti i muscoli indolenziti. Nessuno avrebbe potuto
toglierlo di lì, nemmeno un battaglione intero di SS.
8

I
n piedi!

— Una mano scosse il


Aprendo gli occhi, aveva sperato di
Venerabile.

scoprire una confortevole camera da letto inondata di


luce, di sentire l’odore del caffè fumante. Ma non era
che la lugubre infermeria della fortezza nazista, e il
viso che si trovò davanti era quello severo del monaco.
— È tardi. Si svegli.
— Che ora è?
— Il sole si è già levato da un bel po’, secondo i miei
calcoli. C’è del lavoro da fare. Per i bisogni fisiologici ci
sono dei secchi in quell’angolo. Li vuoteremo quando
le SS ce lo permetteranno.
Il Venerabile si stiracchiò. Il monaco lo guardò
corrucciato, come un maestro guarderebbe un allievo
poco solerte.
L'Architetto 93

— Lei ha bisogno di fare un po’ di esercizio fisico,


Venerabile. Ha battuto troppo la fiacca.
François Branier lo fissò dritto negli occhi.
— Sono due anni che non dormo per due notti di
seguito nello stesso letto. Ho percorso migliaia di chilo-
metri attraverso l’Europa. Ho viaggiato con tutti i mezzi
possibili e immaginabili. E lei dice che ho bisogno
d’esercizio?
Un franco sorriso illuminò il viso del monaco.
— Non se la prenda, Venerabile. Lei mi sembra un
po’ troppo suscettibile. Sono sicuro che un po’ di ginna-
stica non potrebbe farle che bene. Nel nostro convento
abbiamo un metodo semplicissimo per non rammol-
lirci. Guardi.
Il monaco inspirò ed espirò profondamente, poi
mise le
mani sui fianchi, e roteò alternativamente il busto
da una parte e dall’altra. Quindi si toccò una decina di
volte i piedi con la punta delle dita, tenendo le gambe
ben tese.
Il Venerabile reagì con una scrollata di spalle.
— Le consiglio di fare altrettanto tutte le mattine.
Mi raggiunga appena può in fondo alla baracca. C’è un
malato che mi preoccupa.
Il Venerabile attese che il monaco se ne fosse
andato per tentare anche lui di toccarsi i piedi con
le mani. Ma non poté fare a meno di piegare le
ginocchia. Frustrato, rinunciò e si rassegnò all’idea
94 CHRISTIAN JACQ

di diventare un vecchietto malandato con il fiato


corto.
— È un astrologo — spiegò il monaco, quando lo
raggiunse. — Viene dalla Russia. Aveva previsto che
sarebbe scoppiata la guerra, ma non la sorte che gli
sarebbe capitata.
Il Venerabile esaminò l’astrologo. Il poveretto non
aveva più la forza di parlare.
— Ridotto com’è sarà meglio lasciarlo dormire in
pace — mormorò a bassa voce il Venerabile parlando a
tu per tu con il monaco, mentre questo era occupato
nel suo bugigattolo a preparare un infuso di piante che
triturava con un pestello dentro un mortaio.
— Questa è la sua diagnosi?
— Purtroppo…
— Non sono d’accordo. Quel vecchio ha una voglia
di vivere incredibile. È come ibernato. Ma potrebbe
resistere ancora a lungo in quello stato.
— E Serval? Perché continua a dormire? Ho cercato
di svegliarlo prima, quando gli sono passato accanto,
ma non c’è stato niente da fare.
— È normale — rispose il monaco. — Gli ho propi-
nato una droga naturale. Un massone sveglio in meno è
un fastidio in meno, dal mio punto di vista. Del resto, è
meglio che abbia l’aria di un malato vero, e inoltre
dormire gli calmerà i nervi.
Il Venerabile non ebbe il tempo di dire al monaco
L'Architetto 95

cosa pensava dei suoi metodi: Klaus, il maggiore delle


SS, fece irruzione nell’infermeria.
— Allora, come va? — domandò. — L’epidemia?
— Due casi sospetti — rispose il monaco, senza
smettere
di rimestare l’infuso che stava preparando. — Difte-
rite, temo, o qualcosa del genere.
— Il suo parere, dottor Branier?
— La diagnosi mi sembra esatta.
— Voglio sapere al più presto qualcosa di certo —
ordinò il maggiore.
— Mi servono altre erbe — fece notare il monaco.
— Certo — convenne Klaus. — Ma adesso siete in
due a mandare avanti l’infermeria. Lei è uscito due
giorni fa. Dunque, ora tocca al Venerabile.
Il monaco smise di pestare nel mortaio e si girò
verso il maggiore delle SS.
— Lui non ne capisce niente di erbe. Chissà cosa mi
porterebbe.
— Imparerà… Dovrete fare a turno, è un ordine! Lei
esce troppo spesso, frate Benoît. Si potrebbe sospettare
che voglia preparare un piano di fuga…
L’espressione del monaco restò indecifrabile.
— Come volete. Venerabile, allora, prenda tutte le
erbe che riesce a trovare. La selezione la farò io dopo.
François Branier rassicurò il monaco benedettino
con una pacca amichevole sulle spalle.
96 CHRISTIAN JACQ

— Lei non deve stimarmi molto come medico,


padre, a quanto pare, ma ho ancora qualche remini-
scenza in fatto di erboristeria… Lei badi ai nostri malati.
Uscendo dall’infermeria, scortato dalle SS, il Vene-
rabile lanciò un’occhiata verso la baracca rossa. Le due
finestre erano state sbarrate con delle assi di legno. Il
cortile della fortezza era deserto.
— Mi servirebbe del materiale di pronto soccorso
— disse il Venerabile al maggiore.
— Non è di mia competenza.
— A chi bisogna rivolgersi?
— Al comandante del lager.
— Gli riferisca la mia richiesta, allora.
— Gli ordini che ho ricevuto sono molto rigidi,
Venerabile. Se vuole ottenere qualcosa, deve proporre
uno scambio.
L’aria del mattino era frizzante, il cielo era terso,
senza nemmeno una nuvola. Il vento portava i primi
profumi della primavera. La vita stava per rifiorire. Il
Venerabile fu tentato di urlare, per spezzare l’oscuro
incantesimo di cui si sentiva prigioniero e mettere in
fuga quelle uniformi nere, così simili a uccellarci del
malaugurio.
— D’accordo. Sono pronto a trattare.
Il maggiore guardò il Venerabile con aria sprez-
zante, poi lo abbandonò in mezzo al cortile e si diresse
verso la torre centrale.
Le SS che sorvegliavano François Branier restarono
L'Architetto 97

impassibili come esseri inanimati. Il Venerabile pensò


a quello che aveva detto prima il maggiore, espri-
mendo il sospetto che il monaco, quando usciva dalla
fortezza per raccogliere piante medicinali, avesse
apprestato un piano di fuga. Allora perché avevano
permesso anche a lui di uscire? Volevano forse avere
una scusa per sparargli addosso lontano da occhi indi-
screti? E privare così la Loggia Conoscenza del suo
capo?
Poco più tardi, François Branier si trovò faccia a
faccia con il comandante, affiancato come al solito
dall’aiutante di campo. Nell’ufficio del comandante
c’era un piacevole tepore.
— Voleva parlarmi, Venerabile?
— Ho bisogno di sulfamidici, di analgesici…
— Non mi occupo di questioni che riguardano l’in-
tendenza — tagliò corto il comandante. — Veniamo al
sodo, Venerabile. Il resto non mi interessa.
— Può procurarmi questo genere di medicine?
Il comandante guardò il suo aiutante di campo, che
fece un cenno affermativo.
— Le sue esigenze sono esorbitanti, dottor Branier.
— Quello che rifiuta adesso al medico, sarebbe
forse disposto a concederlo al Venerabile?
Il comandante sorrise.
— Non è escluso. Tutto sta a mettersi d’accordo. Lei
che mi propone, Venerabile?
François Branier si fece più curvo.
98 CHRISTIAN JACQ

— Le interessa sapere l’ultimo tracciato, l’ultimo


programma di attività della mia Loggia?
Il comandante drizzò le orecchie, speranzoso. Non
era mai riuscito a ottenere dei documenti attendibili
sulla natura degli argomenti che i membri della Loggia
Conoscenza affrontavano nel corso delle loro riunioni.
— Meglio che niente, Venerabile…
Il Venerabile si sentì la gola secca per l’emozione.
Stava intaccando la risorsa dei suoi mezzi di scambio.
Mormorò qualcosa di incomprensibile, poi riprese il
controllo.
— Noi abbiamo studiato i diritti umani, l’inseri-
mento dell’individuo nella società, e la…
— Lei mi sta prendendo per i fondelli, Venerabile.
Il comandante del campo era pallido per l’ira.
— Niente affatto! — esclamò a sua volta il Venera-
bile. — Mi lasci parlare, in nome di Dio.
François Branier aveva tentato un colpo impossi-
bile. Bisognava riprendere in mano la situazione.
Stavolta, doveva fornire un’informazione di un qualche
valore. Il comandante era troppo bene informato, e non
si sarebbe lasciato abbindolare.
L’aiutante di campo era teso, timoroso di una possi-
bile reazione violenta da parte del comandante.
Nessuno aveva mai osato parlargli con quel tono. Ma il
comandante restò inerte, spiando la sua preda.
— Dicendo noi — riprese François Branier — allu-
devo alla quasi totalità dei massoni che si occupano di
L'Architetto 99

morale, di civismo, di istruzione e di mille altri soggetti


profani. La Loggia Conoscenza è stata creata per uscire
da questo tracciato. Il suo ultimo argomento di studio è
stata la Regola.
Il comandante dissimulò a stento il suo giubilo. La
Regola… la più formidabile macchina da guerra, conce-
pita per unire gli uomini con una forza di coesione a
tutta prova, e di affrontare vittoriosamente qualsiasi
sfida… La Regola, che aveva permesso a pochi iniziati e
a qualche monaco di civilizzare l’Europa, ai Templari di
diventare una formidabile forza finanziaria… La
Regola, oggetto di tante ricerche, finora infruttuose, da
parte della sezione speciale dell’Aneherbe.
— Dovrà scendere nei dettagli, Venerabile…
François Branier notò il tono leggermente ironico
del comandante. Il tedesco aveva dovuto leggere pagine
e pagine di regolamenti stilati dalle varie obbedienze,
volumi interi di archivi amministrativi. Ma alla fine era
riuscito a penetrare quella cortina fumogena. Non si
era lasciato accecare dal teatrino interpretato dagli uffi-
ciali – cioè gli elementi necessari per ritenere completa
una Loggia (il maestro Venerabile, il primo e il secondo
sorvegliante, il segretario, il gran terribile, il tesoriere,
l’oratore, e il copritore) – quando, bardati di decora-
zioni, recitavano formule ormai vuote.
— Abbiamo conservato un documento intitolato La
Regola del maestro. Risale ai primi tempi del cristiane-
simo e proviene dal Vicino Oriente. La parte ufficiale è
100 CHRISTIAN JACQ

alla base della nascita dei primi grandi monasteri. La


parte segreta è stata tramandata dalle Logge iniziatiche
dei costruttori.
L’aiutante di campo annotava intanto ogni parola
con velocità incredibile. La sua penna placcata d’oro
correva sul foglio a una velocità folle. Sapeva che il
comandante non gli avrebbe perdonato la minima
omissione. Il suo capo stava infine per raccogliere il
frutto di tanti sforzi. Riteneva che il Venerabile fosse in
grado di rivelargli il segreto della Libera Muratoria, gli
strumenti del suo potere e della sua influenza nel
mondo. Una leva di comando capace di fare del Reich il
più grande impero mai creato. Himmler era infatti
persuaso che la manipolazione delle anime fosse il
mezzo più efficace non solo per vincere la guerra, ma
anche per instaurare in seguito un potere durevole.
Il comandante del campo aveva messo in gioco la
sua carriera scommettendo sulla massoneria. Gli altri
membri della Aneherbe, l’organismo nazista incaricato
di sfruttare i poteri occulti come armi di alta precisione,
credevano solo alle tradizioni nordiche e alla mistica
tibetana. Si era perfino inviata una missione speciale a
Lasa per raccogliere i segreti dei maghi tibetani. La
massoneria era considerata come un guscio vuoto,
un’associazione internazionale, certo, ma che raggrup-
pava solo specialisti di intrallazzi e di filosofi d’accatto.
Il comandante era invece sicuro che fosse anche il
veicolo di un messaggio fondamentale. Quando l’sd, il
L'Architetto 101

servizio di controspionaggio tedesco, aveva occupato la


sede del Grand Orient de France (con il termine
Grande Oriente si indica una federazione di Logge che
adottano più riti), numerosi documenti erano caduti
nelle sue mani. Nel giugno del 1942 l’unificazione del
servizio informativo sulle società segrete aveva rincru-
dito la repressione, grazie alle delazioni di Bernard Fay,
direttore generale della Biblioteca nazionale. Il tradi-
mento dei dignitari massonici aveva completato questa
vasta tela di ragno, al centro della quale stava il coman-
dante di una fortezza perduta tra i monti.
Oggi il tedesco assaporava quella immensa vittoria.
Il Venerabile della Loggia Conoscenza era davanti a lui,
costretto a parlare.
— Dove si trova questo documento, Venerabile?
— Da nessuna parte. Non è scritto. È un insieme di
raccomandazioni pratiche.
Il comandante provò un senso di ebbrezza, come
capita a chi ha raggiunto lo scopo della sua vita. Quelle
raccomandazioni pratiche dovevano essere degli stru-
menti psichici atti a influenzare il comportamento
umano, a mettere in opera un programma politico, una
rivoluzione pazientemente preparata.
Il Venerabile cominciava a rivelare l’essenziale. Non
gli avrebbe permesso di fermarsi a metà.
— Lei conoscerà la Regola a memoria, immagino.
— Ogni fratello custodisce una particella della
verità. Sarà necessario rimettere insieme tutti i tasselli
102 CHRISTIAN JACQ

sparsi, riunirli in un tutto organico… Ma prima di tutto,


voglio assolvere i miei doveri di medico. Le avranno
detto che abbiamo due casi di sospetta difterite, e del
rischio che scoppi un’epidemia. Ho bisogno di
medicine.
— Nutro grande fiducia nelle virtù del monaco —
ribatté il comandante. — È un autentico guaritore. La
farò accompagnare fuori per consentire di raccogliere
un po’ di piante medicinali. Dovrebbe essere sufficiente
per evitare delle complicazioni. Domani faremo il
punto della situazione. A partire da questo pomeriggio,
il mio aiutante di campo le metterà a disposizione un
ufficio, in modo che possa cominciare a lavorare. Sarà
pronto in poco tempo. Buona raccolta, Venerabile.
Due soldati delle SS scortarono fuori François
Branier.
— Oggi è un gran giorno — confidò il comandante
al suo aiutante di campo. — Un avvenimento eccezio-
nale, Helmut, una data fondamentale nella storia del
Reich… Sto finalmente per mettere le mani sul segreto
più gelosamente custodito dalla massoneria.
Una passeggiata tetra sul fianco della montagna, in
una primavera gelata. Klaus, il maggiore delle SS e una
decina di soldati sorvegliavano il Venerabile. Procedet-
tero fino a una specie di grande aiuola fiorita ai piedi di
un enorme masso che la riparava dal vento e dal
freddo. Il Venerabile si inginocchiò e cominciò la
raccolta. Il monaco aveva ragione. In quel posto si pote-
L'Architetto 103

vano trovare parecchie piante medicinali capaci di


curare una serie di patologie: celidonia, aconito, timo,
dente di leone, calendula. Con un po’ di pratica, se ne
potevano ricavare decotti e tisane con cui curare
piaghe, malattie del fegato, colpi di freddo, stati
depressivi.
La terra era umida. Il sole troppo pallido per
dispensare calore. Circondato dalle SS come un
animale preso in trappola, il Venerabile fu tentato di
rinunciare, di cedere allo sconforto. Sarebbe bastato
tentare di fuggire verso la cima della montagna, correre
a gambe levate finché una raffica di mitra liberatrice
l’avrebbe falciato. Era senza dubbio l’unico modo di
uscire da quell’inferno. Inutile coltivare vane speranze.
Quel che gli uomini avevano fatto di questa terra non
invogliava di certo a restare. Ma c’era la Loggia… la
Loggia che si faceva un baffo dei nazisti, delle prigioni,
del Male… la Loggia, con la sua Regola immutabile che
impediva a un fratello di agire in modo irrazionale.
Il Venerabile raccolse le piante, le infilò in un sacco
di iuta che era stato preventivamente controllato da un
soldato, se lo mise in spalla e discese verso la massa
cupa della fortezza, silenziosa, inerte.
A metà della discesa, vide una casetta dipinta di
verde, posta all’inizio di una stradina in terra battuta
che si addentrava nel folto di un’abetaia. La casa aveva
una sola finestra. Sulla soglia, intenta a spazzare gli
aghi di pini portati dal vento, una ragazza bionda,
104 CHRISTIAN JACQ

vestita con un costume tipico rosso e bianco. La ragazza


alzò per un attimo gli occhi verso di lui. I loro sguardi si
incontrarono. Nacque all’istante una complicità tra di
loro che nessuno poteva sospettare. Un’alleata. Un’al-
leata all’esterno della prigione.
Dirigendosi verso il castello, il Venerabile tentò di
scacciare quell’idea nata solo da un’impressione
fugace. Ma non ci riuscì. Una speranza era fiorita
dentro di lui.
9

B
uongiorno, padre. Mi sembra in

— splendida forma.
— Splendida, sì — rispose il
monaco.
Il comandante della prigione spinse da parte una
pila di documenti che il suo aiutante di campo si
affrettò a rimettere in ordine.
— Come va la sua collaborazione con il dottor
Branier?
— Ci mancano alcuni strumenti terapeutici.
— Ahimè, padre! Questi sono i rigori della guerra.
Li subiamo tutti. Helmut, portami il materiale.
L’aiutante di campo depose sul piano della scri-
vania cinque carte da gioco coperte. Poi porse al
comandante una bacchetta da rabdomante di nocciolo.
106 CHRISTIAN JACQ

— Passiamo alle cose serie — disse lui, concentran-


dosi. Serrò tra il pollice e l’indice la bacchetta, che poi
passò
lentamente sulle carte, una per una. La punta della
bacchetta si sollevò leggermente in corrispondenza
dell’ultima carta.
— Credo di aver trovato l’asso di picche — annun-
ciò. Il comandante girò la carta.
Un fante di cuori.
— Ach! — borbottò, deluso.— Le sue lezioni non
sono state ancora sufficienti, padre. Dovremo
continuare.
Il monaco si guardava bene dall’insegnare corretta-
mente i segreti della radioestesia al comandante.
Insieme a dei buoni consigli gliene aveva dati anche di
sbagliati. Fino a quel momento, la combinazione aveva
prodotto il risultato previsto. Il tedesco non faceva il
minimo progresso.
— Ma prima di cominciare la nostra solita lezione,
padre, devo chiederle un favore. Dovrebbe farmi un
esame grafologico.
L’aiutante di campo tolse le carte che ingombra-
vano il tavolo e allineò al loro posto sette firme rita-
gliate con cura e incollate su fogli di carta bianca.
— Solo le sue doti di radioestesista possono
aiutarmi a sbrogliare questa faccenda, padre. Ecco le
grafie di alcune persone accusate di omicidio. Una di
esse appartiene a un capobanda, un temibile criminale
L'Architetto 107

che tira i fili nell’ombra. Non sono riuscito a identifi-


care la sua grafia. Non ho scelta. 0 li faccio ammazzare
tutti, o lei mi aiuta a smascherare questo delinquente.
Il comandante porse al monaco la bacchetta di
nocciolo. Prendendola in mano, il religioso provò una
sensazione di libertà.
— Ho fretta, padre. Si sbrighi.
— Le sue indicazioni sono troppo vaghe.
Il comandante accese una sigaretta.
— Aggiungo che l’uomo custodisce un segreto mili-
tare e che rifiuta di parlare. Mi indichi qual è.
Il monaco passò la bacchetta sopra gli scritti, e
pensò alla parola crimine. Non successe niente. Allora
provò con la parola segreto. La bacchetta sussultò
quando passò sul terzo scritto. Il monaco avrebbe
voluto continuare, nascondendo quella reazione, ma il
comandante lo interruppe.
— Grazie, padre. Lei ha appena scelto il Venerabile
Branier.
Trascorse una giornata intera. Giudicato guarito,
l’apprendista Jean Serval fu rispedito nella baracca
rossa.
Il monaco e il Venerabile avevano curato i malati,
e dormito un poco a turno, scambiandosi solo
qualche parere di carattere medico sui pazienti.
Secondo i calcoli del monaco, dovevano essere all’in-
circa le otto di sera. Era tempo di darsi il cambio con
il Venerabile, che dormiva nel bugigattolo. Il monaco
108 CHRISTIAN JACQ

lo svegliò e si sedette al suo fianco sul bordo del


giaciglio.
— Ho finito le piante medicinali, Venerabile.
— Volevo giusto chiederle di preparare un decotto
per curare uno dei malati, che ha un’infezione urinaria.
È quello che sta nel secondo letto della prima fila…
— Non c’è rimasto più niente. Bisogna uscire a
raccogliere delle altre piante. O farsi dare le medicine
adatte.
Il monaco si fregò le mani, come per riscaldarle.
— Una primavera glaciale. Ma il freddo a lei non fa
impressione, a quanto pare. Faceva molto freddo, nel
suo convento?
— C’è sicuramente più fuoco interiore nel convento
più scalcinato che in tutte le Logge massoniche riunite.
— Non mi sorprenderebbe, padre. Le Logge non
sono fatte per essere riunite. Ogni tanto qualcuna delle
obbedienze si prova a metterle tutte insieme e ad assog-
gettarle a qualche obbligo amministrativo, ma è fatica
sprecata. E non fa che spegnere ogni entusiasmo. Ogni
Loggia ha le sue caratteristiche.
— Un bel pasticcio… da noi, dai benedettini, c’è la
Regola, la nostra santa madre Regola. Grazie a essa,
abbiamo civilizzato l’Europa.
— Tutto da rifare, purtroppo… Ma lei ha ragione. I
massoni conoscono bene la vostra Regola.
— Che bestemmia!
Il monaco trattenne a stento il suo sdegno. Fissò
L'Architetto 109

torvo il Venerabile, le vene del collo gonfie, i muscoli


contratti.
— Nessuna bestemmia… Che ne avete fatto di
questa famosa Regola? Credete che la Chiesa l’abbia
veramente praticata?
— La Chiesa e l’Ordine di San Benedetto sono due
cose diverse — grugnì il monaco.
— Come la mia Loggia e il resto della massoneria. Il
segreto della nostra Regola, ecco ciò che vuole ottenere
da me il comandante del campo. Per metterla al
servizio del Reich. Erano mesi che cercava di intrappo-
lare me e i miei fratelli. E oggi è certo di poter mettere
le mani su questo tesoro.
— Qui si sopravvive solo in funzione del segreto
che si custodisce — ammise il monaco. — Ma è impos-
sibile che voi possediate una Regola che valga vera-
mente qualcosa.
— Perché?
— Perché siete degli atei, dei miscredenti. Dio rivela
la sua legge solo a chi l’accoglie nel più profondo di se
stesso.
— Miscredenti… non è il termine esatto. Quello in
cui crede ognuno di noi non conta, è vero. Non ne
parliamo mai. Non ha il minimo interesse ai nostri
occhi. Ci sono dei fratelli che conosco da più di quin-
dici anni. Non so ancora in cosa credano né per chi
abbiano votato. Quello che so è che lavoriamo tutti per
la gloria del Grande Architetto dell’Universo.
110 CHRISTIAN JACQ

— Un’immagine, una chimera, un…


— No, padre. Il simbolo del creatore. Presente in
ogni istante. Quando il Cristo traccia il piano del cosmo
con un compasso, riveste il ruolo del Grande Architetto.
Ed è proprio con questo nome che viene indicato nei
primi testi cristiani.
Le sopracciglia del monaco si inarcarono.
— Li avete letti?
— Tutti i testi sacri ci riguardano. Tutte le espe-
rienze spirituali nutrono il nostro spirito.
— Insomma, un grande guazzabuglio dove non ci si
capisce più niente!
— Non c’è nessun guazzabuglio — ribatté il Vene-
rabile. — C’è la Regola. Grazie a essa, noi possiamo
integrare nella nostra ricerca quello che merita di
essere integrato. E soprattutto… creiamo degli uomini.
— L’unico vero creatore è Dio! — tuonò il monaco.
— L’iniziazione è una seconda nascita. È stato così
anche per lei, quando si è fatto monaco, quando ha
deposto le spoglie del suo vecchio sé per rinascere
come uomo nuovo, ed entrare nella comunità dei suoi
confratelli.
— Se dessi retta alle sue eresie, Venerabile, potrei
arrivare a credere che non ci sia nulla che ci distingue.
— C’è invece una differenza… Lei ha scelto di vivere
distaccato dal mondo, io no.
— Distaccato dal mondo? — si indignò di nuovo il
monaco. — Dio mi è testimone che è tutto il contrario!
L'Architetto 111

— Forse mi sono staccato da troppo tempo dalla


religione ufficiale — replicò il Venerabile. — Avrei
giurato che i monaci facevano voto di vivere reclusi nei
loro conventi.
— I monaci… è un’espressione che non vuole dire
niente.
— Lo stesso che dire frammassoni… Smettiamo di
combattere contro i mulini a vento. Lei è monaco
dell’ordine di San Benedetto, io sono Venerabile di una
Loggia di rito Scozzese Antico e Accettato. Essenzial-
mente, qui, non ci resta che questo. Dobbiamo decidere
se voltarci reciprocamente le spalle, o se sia meglio
lottare insieme.
Il monaco rifletté. Il Venerabile attese in silenzio.
Quella pausa gli fece bene. Il dialogo era stato serrato, e
il suo avversario era un tipo rude, intelligente, accanito.
Era la prima volta che parlava con un monaco. Aveva
avuto spesso occasione di scambiare qualche opinione
con dei preti, ma mai con un benedettino. François
Branier ripensò al passato, a quella favolosa stagione
del Medioevo, quando santi monaci e geniali costrut-
tori avevano saputo lavorare fianco a fianco per popo-
lare l’Europa di cattedrali. In quella infermeria sordida,
nel cuore di una fortezza nazista, il monaco e il Venera-
bile potevano forse riannodare la sola vera tradizione.
Ma c’erano tanti di quegli ostacoli…
— Quello che propone è mostruoso, Venerabile —
disse infine il monaco. — Non si scende a patti con uno
112 CHRISTIAN JACQ

come lei. Tutto ciò che posso fare per lei, è cercare di
convertirla.
— Accetto la scommessa.
Il rantolo di un malato interruppe il loro dialogo. Si
alzarono insieme per occuparsi di quel poveretto. Gesti
semplici, precisi. Una tisana. Parole di conforto. Un
meccanismo ormai rodato in cui i due uomini si
completavano a vicenda. Il monaco aveva elaborato dei
decotti che alleviavano le sofferenze facendo sprofon-
dare i malati in uno stato di torpore.
Tornarono infine nel bugigattolo del monaco e si
sedettero.
— Molti dei nostri malati non resisteranno ancora a
lungo — osservò il Venerabile.
— Uno è già morto. Nella prima fila, in basso a
destra. Lo porteremo fuori stanotte, quando gli altri
dormiranno profondamente.
— Le SS ce lo lasceranno fare?
— Bisogna rispettare la procedura. Spingeremo il
cadavere per le spalle, in modo che resti con i piedi
fuori dalla porta. Senza bisogno di affacciarci all’e-
sterno. Altrimenti ci sparerebbero addosso. C’è una
mitragliatrice pesante puntata contro di noi in
permanenza.
Due pentoloni pieni di zuppa di cavoli furono
portati dalle SS nell’infermeria. La dieta non era certo
un granché. Ma bisognava pur mangiare, se si voleva
sperare di resistere. Grazie alle piante, il monaco teneva
L'Architetto 113

a bada i dolori gastrici e intestinali. A lui e al Venera-


bile spettava anche il compito sgradevole di vuotare i
secchi igienici, due volte al giorno, sotto la stretta sorve-
glianza delle SS.
— Non potremo curare più nessuno, Venerabile.
Bisogna agire. Abbiamo bisogno di medicine e lei
dovrà convincere il comandante a non negarci quello
che ci serve.
— Sarebbe a dire?
— Se le dovesse fare qualche domanda… risponda,
cerchi di contrattare.
— Non posso più inventarmi altri trucchi per
eludere le sue domande. Il comandante è al corrente
dell’importanza reale della mia Loggia. Non ho alterna-
tive. Posso solo tentare di fuggire o morire.
— Suicida?
— Certamente no.
— Fuggire da qui è impossibile — osservò il
monaco. — Non si evade da questa fortezza. Morire
combattendo, fomentando una rivolta? Equivarrebbe a
un suicidio. Ci vorrebbero delle armi, qualcosa con cui
battersi…
— E se la guerra finisse domani stesso? Se bastasse
resistere fino alla fine? Il suo Dio non le dà un po’ di
speranza?
— Nessun uomo, nemmeno un monaco, può
comprendere la volontà di Dio. La può solo vivere, né
più né meno. Chieda di vedere il comandante, Venera-
114 CHRISTIAN JACQ

bile. Si faccia offrire una bella cena e non dimentichi di


mangiare a quattro palmenti. Gli riveli qualche piccolo
segreto. Ma torni con le medicine necessarie per
salvare qualche vita. Sarebbe un evento memorabile
nella storia dell’umanità. Finalmente si vedrà un
massone che è servito a qualcosa!
Nella baracca rossa il morale dei fratelli era a terra,
dopo la dipartita del Venerabile.
Le finestre erano state sbarrate. Vivevano in una
notte eterna. Staccando delle schegge di legno, il
maestro e il meccanico Guy Forgeaud erano riusciti a
creare una fessura da cui poteva vedere quello che
succedeva nel grande cortile del castello.
I fratelli si erano organizzati. Si obbligavano a
dormire o semplicemente a riposare. Uno di loro, a
turno, restava sveglio, seduto con la schiena contro la
porta. Quando arrivava da mangiare, non si buttavano
sul cibo. Applicando la Regola, anche in assenza del
Maestro della Comunione Massonica, dividevano tra di
loro quel poco che c’era e mangiavano lentamente.
L’apprendista Jean Serval tornò dall’infermeria
dopo tre giorni di cure. Due SS lo spinsero dentro la
baracca rossa. Di norma, in questi casi, il nuovo arri-
vato viene tempestato di
domande. Ma la Loggia Conoscenza viveva in modo
differente. A tutta prima ci fu silenzio. Poi i fratelli si
disposero intorno all’apprendista. Fu un maestro,
Pierre Laniel, a prendere per primo la parola.
L'Architetto 115

— Felice di rivederti, fratello apprendista. Se vuoi


fornirci la tua testimonianza…
La voce di Laniel era incrinata dall’emozione.
— Il Venerabile è vivo — disse Serval. — L’hanno
messo nell’infermeria insieme a un monaco che usa le
piante medicinali per curare i malati. Mi ha dato qual-
cosa che mi ha tenuto in stato di torpore durante tutto
il tempo che sono rimasto lì. Ho dormito quasi sempre.
Poi mi hanno buttato fuori.
I fratelli sembrarono delusi.
— Può uscire?
— Mi pare che lo abbiano fatto uscire una volta per
raccogliere delle piante che poi ha dato al monaco…
— Come sono i rapporti tra lui e il monaco? —
chiese Dieter Eckart.
— Si occupano insieme dei malati… Parlavano
sempre a voce bassa. Non ho sentito quasi niente di
quello che si dicevano. Il monaco mi sembra un tipo
tosto.
— Amico o nemico?
— Più nemico, direi. Potrebbe essere una spia.
Comunque, non sono venuto a mani vuote. Ho portato
qualcosa.
L’apprendista abbozzò un sorriso e aprì la mano.
Mostrò tre piccole candele. I fratelli contemplarono a
lungo quel tesoro inestimabile.
— Abbiamo i tre pilastri — commentò Dieter
Eckart. — Prima o poi verrà anche il resto.
116 CHRISTIAN JACQ

— Cosa si intende quando si parla dei tre grandi


pilastri, Venerabile?
II comandante, sempre affiancato dal suo aiutante
di campo, non aveva dato tregua al Venerabile. Dal
momento in cui l’aveva fatto entrare nel suo ufficio
aveva cominciato a sparare domande a raffica.
— Sono i simboli della saggezza, della forza e
dell’armonia.
— Esatto, Venerabile. Lei è un ottimo conoscitore
dei riti massonici — disse compiaciuto il comandante,
richiudendo il Manuale dell’apprendista del rito Scozzese
Antico e Accettato, che aveva davanti a sé. Si trattava di
uno scarno fascicolo di fogli dattiloscritti tenuti
insieme con delle graffette. Il documento era stato
scoperto tra le carte personali di un frammassone
ucciso nel corso di una retata mentre tentava di fuggire.
— Ha qualche richiesta da fare, Venerabile?
— Sono più di tre giorni che ci impedisce di uscire,
a frate Benoît e a me. Abbiamo esaurito la scorta di
piante medicinali e non sappiamo più come curare i
malati. Nella mia qualità di medico, elevo una formale
protesta. Ci saranno dei decessi. Anche i malanni più
lievi rischiano di degenerare. Non garantisco più
l’igiene di questo campo di prigionia dal punto di vista
sanitario.
Il tedesco avvampò in preda a uno scatto d’ira.
— Lei non ha titolo a garantire un bel niente! Sono
io che dirigo il campo e prendo le decisioni! Cerchi
L'Architetto 117

piuttosto di rispondere in modo esauriente alle mie


domande, se vuole che i suoi fratelli restino in vita.
Il Venerabile giudicò di aver messo a segno un
punto a suo favore. Era riuscito a fare uscire dai
gangheri il comandante, a fargli perdere sia pure per
un attimo il controllo.
— Le medicine sono riservate ai soldati tedeschi.
— Come vuole. Nel giro di una settimana, ci
saranno almeno tre morti, tra i ricoverati nell’in-
fermeria.
— Non saranno i primi, Venerabile! Il Reich non ha
tempo da perdere con chi è troppo debole per soppor-
tare i disagi. Si arrangi con quello che c’è. Il monaco mi
ha fatto sapere che lei non si mostra molto cooperativo.
Il Venerabile impallidì. Dunque, il monaco era un
traditore. Un essere spregevole. Uno che aveva venduto
l’anima per salvarsi la pelle. Il suo compito era quello
di conquistare la fiducia del Venerabile per farlo
parlare.
— Lei non ha ben compreso la situazione, Venera-
bile. Qui è in causa la sopravvivenza della sua Loggia.
Lei perde tempo a occuparsi di esseri inferiori. Attento
a non fare altri passi falsi, o rischia di precipitare
nell’abisso.
François Branier non diede molto peso a quelle
minacce. Al punto in cui era arrivato, non gli facevano
né caldo né freddo. Soffermò la sua attenzione sull’aiu-
tante di campo, sempre ieratico, silenzioso. Perché il
118 CHRISTIAN JACQ

comandante aveva bisogno di quella specie di


coscienza muta?
— Torniamo alla Regola, Venerabile…
Comincio a perdere la pazienza. Prendi nota,
Helmut.
L’aiutante di campo prese posto davanti al leggio,
con la penna d’oro in mano.
— Chi prende le decisioni, nella sua Loggia?
— La camera di mezzo.
— Da chi è composta?
— Dai maestri.
— Come si diventa maestri?
— Bisogna essere stati apprendisti per almeno sette
anni e compagni per un periodo lasciato alla discre-
zione dei maestri.
— A quali prove sono assoggettati i compagni?
— Devono realizzare un’opera perfetta.
— In che consiste?
— Può essere qualsiasi cosa.
— Qualche esempio?
— Può andare da un capolavoro in miniatura fino
alla Tour Eiffel. L’essenziale è applicare le leggi dell’ar-
monia che ci sono state rivelate.
— E… potete fabbricare qualsiasi cosa? Potreste
anche migliorare la qualità tecnica di un prodotto?
— Probabile.
— Queste famose leggi dell’armonia… quali sono?
— Niente di teorico — rispose il Venerabile. —
L'Architetto 119

Indicarle in una formula non servirebbe. È una


questione di esperienza…
Il comandante del campo rifletté. Era sicuro che il
Venerabile mentiva su quest’ultimo punto, ma aveva
rivelato alcuni elementi essenziali…
— Uno dei fratelli della vostra Loggia sarà trasferito
nell’officina della fortezza. Metterà in pratica i vostri
segreti. Vedremo se continuerà ancora a menare il can
per l’aia, Venerabile.
— E le medicine?
— Helmut vi farà avere un corredo di pronto inter-
vento. Domani sarete autorizzati a uscire per racco-
gliere le piante medicinali.
Il comandante continuava a muovere i suoi pezzi
sulla scacchiera. Ormai era convinto di conoscere quasi
alla perfezione il proprio avversario. Tentare di fargli
confessare tutto in blocco avrebbe costituito un grave
errore. Bisognava usarlo, dandogli qualche speranza,
rassicurandolo anche, di tanto in tanto, ma senza
cessare di incalzarlo; saper attendere, incamerare le
rivelazioni una alla volta, fin quando anche l’ultimo
segreto della Loggia Conoscenza fosse stato rivelato.
— Ci siamo! — esclamò Guy Forgeaud, l’occhio
sempre ala fessura.
— Che succede? — chiese Dieter Eckart, avvici-
nandosi.
— L’occasione che aspettavo. Una jeep carica di
materiale meccanico parcheggiata davanti all’ingresso
120 CHRISTIAN JACQ

del garage. Prete di guerra, senza dubbio. Mi serve un


volontario che chieda di andare a pisciare. Mentre te
SS si occupano di lui, corro fino alla jeep e arraffo tutto
quello che posso.
— Completamente insensato, Guy…
— No, se lo facciamo durante il cambio della guar-
dia, quando comincerà a fare buio. La sorveglianza è
generalmente un po’ allentata, in quei momenti. Devo
solo agire in modo fulmineo.
Tutti i fratelli avevano prestato ascolto a quelle
parole. I maestri si chiesero cosa avrebbe fatto il Vene-
rabile in una simile circostanza.
Intanto si stava facendo buio.
— Funzionerà, ne sono sicuro — affermò Guy
Forgeaud.
Il tono della sua voce non tradiva la minima
incertezza.
— Mi sta già venendo voglia di fare pipì — disse
allora l’industriale Pierre Laniel. — Cercherò di trasci-
nare i piedi, per metterci più tempo. Si consultarono, e
decisero che il Venerabile avrebbe approvato i due
maestri che volevano tentare di scuotersi dall’inerzia.
Guy Forgeaud rimase con l’occhio incollato alla minu-
scola fessura. Distingueva a malapena la parte poste-
riore della jeep. Un rumore pesante di stivali in marcia.
Il cambio della guardia in cima alla torre.
— Vai, Pierre, è il momento buono.
Secondo il rituale specifico della baracca rossa,
L'Architetto 121

Piene Laniel aprì la porta e si affacciò sulla soglia, te


braccia lungo il corpo, offrendo il petto a una possibile
raffica di mitragliatrice. La reazione non tardò. Un
soldato, con la sua arma spianata, venne verso di lui.
Laniel fece un gesto eloquente, indicando con il capo la
baracca dove erano alLoggiati i gabinetti.
Il tedesco esitò. Lanciò un’occhiata dietro di sé,
come per avere l’approvazione dell’intendente che
attraversava in quel momento il cortile. Pierre Laniel
capì che Guy Forgeaud, come sua abitudine, aveva
valutato correttamente la situazione. In quel momento
la vigilanza delle guardie era alquanto allentata. Il
soldato portò Laniel dall’intendente.
Forgeaud trattenne il respiro. Appena il soldato gli
girò le spalle, uscì di corsa dalla baracca rossa, stando
curvo, e si precipitò verso la jeep. I suoi passi non
fecero alcun rumore, perché portava solo le calze,
senza le scarpe. La ghiaia del cortile gli martoriò le
piante dei piedi, ma era troppo concentrato sull’obiet-
tivo per sentire il dolore. In poche, ampie falcate
raggiunse la parte posteriore del veicolo. Era troppo
buio per distinguere il materiale ammassato sulla jeep.
Le sue dita afferrarono un sacco di iuta. Senza
fermarsi, tornò immediatamente verso la baracca
rossa.
L’incidente si produsse a metà del tragitto di
ritorno. Guy Forgeaud urtò con il piede destro contro
una pietra. Non perse l’equilibrio, ma il fondo del sacco
122 CHRISTIAN JACQ

sfiorò il suolo. Un leggero rumore metallico echeggiò


nell’aria ghiacciata.
Pierre Laniel e i due soldati che lo scortavano
stavano giungendo in quel momento alla baracca dei
gabinetti. Il maestro massone avvertì nettamente il
pericolo. Sentì il rumore appena si produsse. La cata-
strofe. L’intendente, che stava sulla sua sinistra, stava
per voltare la testa. Laniel si tuffò e l’afferrò per le
gambe.
Guy Forgeaud si aspettava di essere falciato da un
momento all’altro da una raffica di mitra. Correva
ancora, tutto curvo, sperando di farla franca. La porta
della baracca si socchiuse appena la toccò. Lanciò
dentro il sacco e si gettò a terra. I suoi fratelli lo tirarono
all’interno.
— Sei ferito?
— Niente, niente — rispose Guy Forgeaud, ansi-
mante. — C’è mancato poco che cadessi come un
cretino.
Raoul Brissac, lo scalpellino, e André Spinot, l’oc-
chialaio, aprirono il sacco. Conteneva delle chiavi
inglesi e un regolo di metallo.
— Fantastico — esclamò compiaciuto il compagno
Brissac.
Ebbero tutti lo stesso pensiero. Avrebbero presto
avuto tutto il necessario per celebrare una tenuta.
Sempre che il Venerabile potesse tornare insieme a
loro…
L'Architetto 123

Trascorse un quarto d’ora. La paura e l’eccitazione


si erano ormai sedate. Jean Serval, l’apprendista, i
compagni Spinot e Brissac avevano scavato un buco nel
pavimento per nascondere il loro bottino. L’oscurità
regnava nella baracca. Nessuno osava parlare.
Pierre Laniel non era rientrato.
10

E
ra già notte inoltrata quando le SS spinsero
il Venerabile dentro l’infermeria. Il monaco,
seduto nel suo stanzino, pregava, sgranando
il rosario che gli serviva anche da cintura.
Il Venerabile, immobile in piedi, lo fissò crucciato.
— Si alzi — gli intimò François Branier.
— Perché?
— Non posso colpire un monaco seduto. Nemmeno
se è una spia.
Frate Benoît smise di sgranare il rosario.
— Che vuol dire?
— Si alzi.
— Obbedisco solo a Dio. Se mi vuole colpire, si
accomodi. Ma prima vorrei capire.
— Il comandante della fortezza mi ha spiegato
L'Architetto 125

quali sono i vostri rapporti. Si è divertito alla mie


spalle, ma adesso ho aperto gli occhi.
— Quali rapporti?
— La commedia è finita. In piedi.
Il monaco si alzò lentamente, lisciandosi il saio.
— Spia… è così che mi ha chiamato?
— Questo è il ruolo che lei ha svolto.
La barba del monaco fu percorsa da un fremito.
— E lei è così stupido da credere alle parole di un
ufficiale nazista… Altro che Venerabile! Lei è la persona
più miserabile che abbia mai incontrato. Chi mai
potrebbe venerarla?
Rimasero uno davanti all’altro, fissandosi con aria
torva. Ognuno dei due aspettava che fosse l’altro a fare
la prima mossa.
— Le presento le mie scuse — disse infine François
Branier, senza abbassare lo sguardo.
Il monaco scrollò le spalle e si sedette di nuovo.
— Che altro ci si può aspettare da un miscredente?
Il Venerabile si sedette accanto a lui.
— Ho una fiducia totale nei miei fratelli. Abbiamo
vissuto lo stesso processo di iniziazione. Superato le
stesse prove. Siamo noi, qui, al centro dell’inferno. Non
lei. Questo non scusa il mio errore, ma può contribuire
a spiegarlo.
— Quello che vi manca è la fede. Siete abituati a
dubitare degli altri e non riuscite a vedere chiaro. Così
126 CHRISTIAN JACQ

come il vostro Grande Architetto dubita della sua crea-


zione. Se non fossi una persona tollerante…
— Le ho chiesto scusa. Ancora non le basta?
Il monaco si rabbonì, ma non lo diede a vedere.
— Il passato non mi interessa. Voglio proporle una
scommessa, Venerabile.
François Branier fissò il monaco, perplesso.
— Può anche rifiutare, se vuole. Sarei sicuramente
riuscito a convertirla. Ho l’eternità dalla mia parte. Ma
qui, il tempo a nostra disposizione è limitato. È per
questo che ho pensato a una scommessa. A condizione
che lei abbia il coraggio di rimettere tutto in causa.
Il Venerabile si chiese dove volesse andare a parare
con quel discorso. Ma aveva già deciso che non si
sarebbe tirato indietro, qualunque fosse il rischio che
doveva correre. Un giusto prezzo per l’errore che aveva
commesso.
— Ci crede veramente, a questo vostro Grande
Architetto dell’Universo?
— È molto più che un oggetto di fede. Il Grande
Architetto è il principio stesso della vita.
— Per me, lo è Dio. Credo in lui. So che mi farà
uscire vivo di qui. Per provare che la fede ha un senso.
La mia non è una stupida vanteria, Venerabile. È un
atto d’amore. Quando questo tormento sarà finito,
quando Dio mi concederà di tornare libero, costruirò
una cappella. E lei saprà di aver avuto torto. Che il
Grande Architetto non esiste.
L'Architetto 127

— Accetto la scommessa. Se il Grande Architetto


dell’Universo mi permette di rivedere la luce, costruirò
in suo onore una Loggia. Allora saprà che era lei a
sbagliarsi. Mi porga la mano destra, con il palmo bene
aperto.
Il monaco aderì alla richiesta. Il Venerabile batté il
palmo della sua mano sulla mano del religioso, alla
maniera antica, per siglare il patto.
— Giuro di rispettare i termini del nostro impegno
reciproco.
— Giuro anch’io — disse il monaco, replicando il
gesto di accordo. — Quando la mia cappella sarà termi-
nata, pregherò per lei, sperando che il Signore si degni
di posare lo sguardo su di lei nell’Aldilà.
— Il suo Dio è ben minaccioso… Il Grande Archi-
tetto non distribuisce né ricompense né punizioni. Ma
è presente in mezzo a quelli che lavorano in suo nome.
La ricorderò quando io e i miei fratelli celebreremo la
prima tenuta nella nostra nuova Loggia.
Il monaco non parve impressionato.
— Mi dispiace di essere arrivato a una soluzione
così estrema… ma il vostro Grande Architetto non è che
un’illusione dello spirito. Lo capirà al momento della
sua morte, ne sono sicuro. In quell’istante, si rivolgerà a
Dio. Forse, nella Sua bontà infinita, l’accoglierà.
Il Venerabile parve rattristato quanto il monaco.
— Sarebbe così semplice, in effetti… Un atto di
fede, e non ci sarebbe bisogno di altro. Il Grande Archi-
128 CHRISTIAN JACQ

tetto si rivela solo a quelli che hanno seguito il


cammino dell’iniziazione. Lo capirà quando la sua fede
l’abbandonerà. Ma forse sarà troppo tardi per chiedere
di entrare nel tempio.
— Non ha importanza — ribatté il monaco. —
Quando ho vestito questo saio, sono entrato nel tempio
del Signore. Lo stesso saio sarà anche il mio lenzuolo
funebre. Non mi serve nient’altro.
— Lei ha scelto di lasciare il mondo per ritirarsi in
convento, pregando e lavorando all’interno della sua
comunità… Sono stato tentato anch’io di farlo. Ma ho
scelto un’altra strada. La più difficile. Essere a un tempo
dentro e fuori il tempio. Trasmettere all’esterno quello
che era stato tramandato a me all’interno.
— E crede così di poter cambiare il mondo,
Venerabile?
— Perché no? In tutti i casi, testimoniare ciò che è
possibile… come Giovanni Battista, testimone della
luce.
Il monaco non apprezzò il paragone. Stava per
deprecare di nuovo i blasfemi richiami del Venerabile
al Vangelo, quando si aprì la porta dell’infermeria,
facendo penetrare una corrente d’aria gelida nello stan-
zino. Entrarono diversi soldati, che si rivolsero con fare
brusco al monaco e al Venerabile, ordinando loro di
alzarsi.
— Fuori. Immediatamente.
Un brivido corse per la schiena del Venerabile.
L'Architetto 129

Forse i soldati volevano ammazzarli, lui e il monaco,


con un’esecuzione sommaria appena fosse scesa l’oscu-
rità. In tal caso non avrebbe più rivisto i fratelli.
Furono condotti davanti alla baracca dove erano i
gabinetti. Qui altri soldati stavano disposti in cerchio.
In mezzo a loro, Klaus.
— Guardate — ordinò il maggiore.
Il cerchio di soldati si aprì. Il monaco e il Venerabile
videro un uomo steso per terra, gli occhi sbarrati, un
sottile filo di sangue che gli colava dalla tempia.
— Pierre…
Il nome del fratello affiorò istintivamente alle
labbra del Venerabile. Ancora prima di chinarsi su di
lui, aveva compreso che era morto. Pierre Laniel,
maestro muratore della Loggia Conoscenza, aveva
finito di soffrire. Il Venerabile si inginocchiò accanto a
lui, gli richiuse gli occhi, e tracciò sul suo cuore il segno
della squadra.
— Il detenuto ha aggredito l’intendente — spiegò il
maggiore, irritato. — Ha avuto quello che si meritava.
François Branier si rialzò, trattenendo a stento le
lacrime.
Il Venerabile fu ricondotto nell’infermeria insieme
al monaco. Quel breve tragitto gli parve interminabile.
Quando la porta si richiuse, si nascose il viso tra le
mani, appoggiando la fronte contro una parete. Il
monaco gli andò vicino.
— Non conosco niente di più insopportabile che le
130 CHRISTIAN JACQ

condoglianze, Venerabile… Volevo solo farle sapere…


che ho benedetto il cadavere del suo fratello.
— Pierre Laniel si è comportato come un pazzo
criminale.
Il comandante del lager espresse quel giudizio
senza alzare gli occhi dal rapporto che stava leggendo.
François Branier rimase in piedi davanti alla sua scriva-
nia. Accanto a lui stavano Klaus, il maggiore delle SS, e
Helmut, l’aiutante di campo.
Il Venerabile rimase perfettamente immobile, il
viso come una maschera di pietra.
La morte di un fratello… il momento in cui l’insop-
portabile dolore si insinua sotto la pelle, nel ventre,
togliendo ogni gusto di vivere. Pierre Laniel… il
compagno di tutte le battaglie, l’uomo che aveva scelto
di vivere nell’ombra, soffocando ogni ambizione perso-
nale, per mettersi interamente al servizio della Loggia,
il ricercatore instancabile, preciso, che esigeva sempre
la perfezione, ma che non cercava mai di imporsi a
nessuno.
Come gli altri fratelli della Loggia Conoscenza,
Laniel aveva prestato un giuramento la sera della prima
iniziazione: “Prometto di versare fino all’ultima goccia
del mio sangue per la difesa della comunità iniziatica
che mi dona la vita”. Un giuramento che alcuni
avevano forse considerato come una pura formalità, e
che per lui aveva invece riacquistato tutto il suo valore
L'Architetto 131

in quella notte glaciale, lontano da tutti, lontano dalla


luce.
— Laniel ha provocato il mio intendente —
proseguì il comandante. — Ha perso il controllo dei
nervi, nella maniera più stupida. Sono rimasto molto
deluso, considerando che rivestiva il grado di maestro
della sua Loggia…
Il Venerabile intese a malapena quelle parole d’ac-
cusa, che il comandante espresse con tono noncurante.
La sua mente era altrove, in quel momento. Avrebbe
voluto ricongiungersi a Pierre Laniel, stargli vicino,
stringere ancora quella mano che aveva stretto tante
volte quando formavano la catena d’unione.
— Tengo a ricordarle, Venerabile, che lei e i suoi
fratelli siete dei prigionieri assolutamente privilegiati.
Meritereste di essere trasferiti immediatamente in un
carcere duro e di essere sottoposti a un processo di
rieducazione. Dispersi in lager diversi, ben inteso. Qui
voi potete restare insieme, in un regime di detenzione
blando. Il suo ufficio è pronto, Venerabile. Glielo farò
mostrare. Continui a dare prova di buona volontà, se ci
tiene a salvare la vita dei suoi compagni. Ci siamo
capiti?
Il comandante evitò di incontrare lo sguardo del
Venerabile. Si chiese se il capo della Loggia Conoscenza
non cominciasse a cedere, anche lui, se non fosse già
ridotto solo al fantasma di un uomo. Sembrava vicino
132 CHRISTIAN JACQ

alla fine… Ma forse era solo una reazione momentanea.


Con il tempo, anche François Branier avrebbe dovuto
venire a più miti consigli. Ma era difficile credere che
un Venerabile si lasciasse travolgere dal primo impatto
con l’avversità, fosse pure la morte di un fratello.
Il comandante si sentì sempre più fiducioso di
vincere quella partita.
I sopravvissuti della Loggia Conoscenza contempla-
rono il loro bottino alla luce di un fiammifero prove-
niente da una scatola che l’apprendista Jean Serval
aveva rubato nell’infermeria. Sul pavimento della
baracca, Guy Forgeaud aveva svuotato il sacco di iuta
frutto della sua spedizione: chiavi inglesi, regolo metal-
lico, martello. Uno dopo l’altro, i fratelli toccarono quel
metallo freddo come fosse oro zecchino.
— Non rivedremo mai più il Venerabile — disse
Guy Forgeaud, carezzando una chiave inglese. — Ci
faranno fuori uno per uno. Con questo materiale,
almeno, potremo crepare degnamente.
Dieter Eckart, che occupava il grado più alto nella
Loggia in assenza di François Branier, non replicò. Non
gli riuscì di trovare le parole adatte per placare la
fredda collera del fratello. Conosceva bene Forgeaud.
Sarebbe andato fino in fondo, se non fosse riuscito a
convincerlo a ritornare sulla sua decisione.
— Se vuoi utilizzare questa roba contro le SS —
intervenne André Spinot, l’occhialaio — bisognerebbe
L'Architetto 133

avere almeno un piano di evasione. Altrimenti sarebbe


un suicidio.
— Non ho alcuna intenzione di suicidarmi —
ribatté Guy Forgeaud. — Ma non posso agire da solo.
Raoul Brissac, lo scalpellino, si fece avanti. Come
Guy Forgeaud, era stufo di restare inattivo. Morire per
morire… I loro aguzzini non sarebbero usciti indenni
dall’ultima battaglia della Loggia Conoscenza.
Dieter Eckart restò in silenzio.
L’aiutante di campo fece entrare il Venerabile nel
suo ufficio, al secondo piano della torre. Una stanza
senza finestre, con il soffitto basso. Una sedia e un
tavolo. Su quest’ultimo, dei fogli di carta e una penna
stilografica.
— Si sieda e cominci a scrivere — ordinò l’aiutante
di campo. — Tornerò a prenderla tra un paio d’ore.
La porta si richiuse. La chiave girò nella serratura. Il
Venerabile restò in piedi ancora per un po’. Curiosa-
mente, quella stanzetta gli parve un angolo di pace e di
libertà. Solo con se stesso, con lo spirito della sua
Loggia, poteva finalmente recuperare un po’ di tran-
quillità.
Quell’ambiente gli ricordava il luogo simbolico che i
frammassoni chiamano gabinetto di riflessione, dove il
candidato massone comincia la sua nuova vita iniziatica.
Dopo essere stato sottoposto alle tre inchieste di rito con
cui alcuni fratelli della Loggia lo avevano interrogato
134 CHRISTIAN JACQ

sulla sua vita e sui suoi orientamenti, il neofita Branier


aveva affrontato la prova della benda. Seduto su una
sedia, gli occhi bendati, senza sapere dove si trovava,
aveva dovuto rispondere a molteplici domande. Dopo di
che era tornato a casa, senza sapere se era stato accettato
o respinto. Dopo tre giorni e tre notti in cui aveva
dormito poco e male, François Branier aveva ricevuto
una telefonata. Il processo di iniziazione andava avanti.
Gli si concedeva di sottoporsi alla prova necessaria per
salire il primo gradino, per diventare cioè apprendista.
Pioveva, quella sera. Davanti all’ingresso di un
palazzo del XVIII ème arrondissement di Parigi, aveva
atteso circa un’ora sul marciapiede prima che un uomo
anziano venisse a prenderlo. Senza dire una parola,
l’uomo lo aveva condotto in una cantina e l’aveva
chiuso a chiave in una stanzetta quadrata. Un tavolo su
cui stavano tre ciotole contenenti del sale, dello zolfo e
del mercurio. Sul muro di fondo un gallo dipinto sovra-
stava una scritta misteriosa e un appello al risveglio
interiore dell’uomo. Branier aveva redatto quello che
veniva definito testamento filosofico, esaminando il suo
passato senza indulgenza, e prendendo coscienza che
la sua vita di uomo non era che un’opera incompiuta,
disordinata, incompleta. Quello che si attendeva allora
dall’iniziazione era una luce, un nuovo modo di guar-
dare al mondo.
Non era stato deluso. Nel corso degli anni, molti veli
erano caduti. Aveva effettuato ricerche esaltanti, aveva
L'Architetto 135

condiviso tante emozioni con i fratelli, e assunto rile-


vanti responsabilità sforzandosi sempre di rispettare e
mettere in pratica come meglio poteva la Regola del
Grande Architetto dell’Universo. Fino al momento in
cui i maestri gli avevano affidato la carica di Venerabile.
Aveva scoperto così l’atroce solitudine di chi viene
investito del compito di essere l’espressione di una
comunità d’intenti… Lo stesso doloroso paradosso che
François Branier aveva di fronte a sé anche adesso.
Senza il suo Venerabile, la Comunione Massonica era
condannata a girare a vuoto, non poteva evolversi.
Doveva a ogni costo ricongiungersi con i suoi fratelli
per celebrare un rituale, per evadere simbolicamente
insieme a loro da quella prigione.
Il Venerabile si sedette a quel tavolo di tortura il cui
solo strumento assurdamente era una penna stilo-
grafica.
François Branier non amava scrivere. Redigere
un’ordinanza era già una prova ardua, per i suoi gusti.
Adesso gli si chiedeva addirittura di mettere per iscritto
la Regola, di tradire il suo giuramento, di offrire il più
prezioso dei tesori a una banda di pazzi criminali.
Il suo maggiore tormento era la separazione forzata
dai fratelli. Erano insieme, nella stessa prigione, e
tuttavia così lontani… Il Venerabile era in ansia per
loro. Come li trattavano? Che cosa li costringevano a
fare? Che cosa aveva cercato di fare, veramente, Pierre
Laniel? Conosceva troppo bene gli affiliati della Loggia
136 CHRISTIAN JACQ

Conoscenza per supporre anche per un solo istante che


sarebbero rimasti passivi, a braccia conserte, aspet-
tando docilmente di essere condotti al macello. Verosi-
milmente, disperavano di potersi ricongiungere con il
Venerabile, di preservare l’integrità della Loggia, ed
erano a quel punto pronti anche a morire, ma nel tenta-
tivo di evadere.
Il Venerabile scrisse in alto sul foglio di carta:
“Anno di vera luce 5944” e intitolò il documento Testa-
mento della Loggia Conoscenza, all’Oriente di… A questo
punto si interruppe. Nel linguaggio iniziatico, l’Oriente
era il luogo geografico dove una Loggia di riuniva. Ma
era anche il luogo magico dove, lavorando insieme, i
fratelli facevano rinascere la luce. Il Venerabile dubi-
tava che sarebbe mai riuscito a sapere dove si trovava
esattamente quella fortezza nazista. Scrisse allora:
“All’Oriente di una primavera incipiente tra i monti”.
Poi sgorgarono le prime frasi del testo che si era impe-
gnato a redigere in cambio della vita dei suoi fratelli:
“Questa è senza dubbio l’ultima espressione della
Regola sulla terra d’Occidente, prima che spariscano
gli uomini che hanno consacrato la loro esistenza alla
vita iniziatica. Attraverso il tempo e le generazioni, da
un cantiere all’altro, la Regola è stata trasmessa perché
l’uomo continui a costruire se stesso. Oggi la notte è
scesa sul nostro mondo, inghiottendo avida ogni cosa.
Tutto, tranne questa Regola che è l’unico strumento di
creazione”.
L'Architetto 137

Il Venerabile continuò a scrivere a lungo, strappò


alcune pagine, le riscrisse. Aveva davanti lunghi giorni
di lavoro, per esporre tutti gli aspetti della vita iniziatica
contemplati dalla Regola: i gradi che costruiscono la
base effettiva della massoneria, gli apprendisti, i
compagni, i maestri; le feste di San Giovanni; i diffe-
renti tipi di tenuta e di riunione; il senso di alcuni lavori
iniziatici di cui la maggior parte delle Logge ignorava la
vera natura. E quando tutto ciò fosse stato divulgato,
sarebbe mancata ancora la pietra angolare dell’edificio,
quella che doveva dare un senso a tutto il resto e che
nessun maestro di Loggia aveva mai rivelato, sia pure
per allusione.
Quando fosse arrivato a quel punto, sarebbe giunto
davvero al termine del viaggio. Allora avrebbe dovuto
prendere la più lacerante delle decisioni: tacere e
condannare implicitamente i fratelli, o parlare e tradire
così il suo giuramento.
Il Venerabile si stiracchiò le membra. Si sentiva
adesso meno spossato, meno scoraggiato. Non aveva
più alcuna speranza di sfuggire a quel meccanismo
mostruoso che lo stava stritolando, ma si sentiva
avviato sulla strada giusta. Disponeva di nuovo della
forza necessaria per sfidare la fortezza.
L’ululato sinistro di una sirena echeggiò nella notte.
11

L
’aiutante di campo aprì la porta dell’ufficio.
Era accompagnato da due SS.
— Mi segua — ordinò al Venerabile.
François Branier lasciò a malincuore quel locale
chiuso, fuori dallo spazio e dal tempo.
— Che succede?
L’aiutante di campo sorrise. Il Venerabile non
avrebbe dovuto fare quella domanda. Non aveva niente
da chiedere. Aveva lasciato capire al tedesco che non si
dava ancora per vinto, che la sua voglia di resistere
rimaneva quasi intatta, che non si considerava finito.
Era una colpa grave, François Branier si era messo in
trappola da solo.
— Stia tranquillo, dottor Branier. Si tratta solo di
un’esercitazione. La riporto nell’infermeria, per questa
notte.
L'Architetto 139

Il grande cortile era deserto. Branier lanciò un’oc-


chiata verso la baracca rossa, dove erano rinchiusi i
suoi fratelli. Molti soldati stavano schierati davanti alla
baracca, con le armi in pugno.
François Branier varcò la soglia dell’infermeria. Il
monaco gli si fece incontro.
— Ha portato le medicine?
Ma il Venerabile lo oltrepassò come se non esistesse
nemmeno, dirigendosi verso lo stanzino e mettendosi
pesantemente a sedere.
— Sono ore che attendo, Venerabile — esclamò il
monaco, mettendosi davanti a lui.
— Non ho potuto fare niente.
— Come sarebbe? Non ha parlato con il
comandante?
— Sì.
— E allora? Non si è messo d’accordo con lui?
Il Venerabile alzò lo sguardo verso il monaco.
— D’accordo? Crede che ci si possa mettere d’ac-
cordo su qualcosa, qui? Crede che abbiamo a che lare
con un’opera pia dove si scambiano buoni sentimenti?
Il monaco sgranò il suo rosario, senza fretta.
— Che le hanno fatto?
— Niente… O dico tutto quello che so, o ammaz-
zano i miei fratelli. Mi hanno rinchiuso dentro un
ufficio e ho cominciato a scrivere.
— Allora ha ceduto…
— Non lo so — confessò François Branier.
140 CHRISTIAN JACQ

— Lei è conciato piuttosto male, Venerabile… Spero


che il suo Grande Architetto non l’abbandoni nel
momento peggiore. Per le medicine non c’è stato
proprio niente da fare?
Il Venerabile fece una smorfia crucciata. Quell’acci-
dente di un monaco non gli lasciava alcun margine di
manovra. Avrebbe preferito dormire, sprofondare
dolcemente nel nulla, piuttosto che rispondere a una
serie infinita di domande.
— Dipende… Se il comandante apprezzerà le mie
prime rivelazioni, forse si mostrerà generoso.
— Forse… E lei crede che mi possa accontentare di
questo?
— Non lo credo, padre. Faccio quello che posso.
Un lamento interruppe la loro conversazione. Il
monaco accorse verso il fondo dell’infermeria. Il Vene-
rabile lo seguì.
Il vecchio astrologo aveva aperto gli occhi. Gemeva,
fissando con sguardo vacuo il soffitto. Il monaco deterse
il sudore che gli imperlava la fronte.
— Fuoco… C’è fuoco dappertutto — balbettò il
moribondo.
Il monaco appoggiò una mano sul petto del
vecchio, ipnotizzandolo. Il malato smise rapidamente
di lamentarsi, e richiuse gli occhi, abbandonandosi sul
suo giaciglio e ripiombando nel torpore.
— Finché dura — commentò il monaco. — È il
massimo che posso fare per lui.
L'Architetto 141

— Domani chiederò di parlare di nuovo con il


comandante e gli domanderò di farmi continuare a
scrivere — disse il Venerabile.
— Buona idea — grugnì il monaco. — Ne ho tre,
qui, che deperiscono a vista d’occhio. E sembra che stia
per arrivare una nuova infornata di malati…
— Come l’ha saputo?
— Ho i miei piccoli segreti. Al lavoro, adesso.
Prenda la fila di destra. Io mi occupo di quella di sini-
stra. Ho preparato il decotto e ho riempito due bidoni.
Il suo è quello ai piedi del letto.
François Branier prese il bidone, pieno di un denso
liquido verdastro. Dio solo sapeva quale intruglio aveva
inventato il monaco. Il Venerabile provò ad assaggiarlo,
ma lo sputò immediatamente. Era assolutamente
disgustoso.
— Che ci ha messo?
— Quello che avevamo ancora a disposizione. Si
occupi dei suoi malati.
Il Venerabile fu fortemente tentato di mandare il
monaco a quel paese, ma si controllò. Visitò i malati,
sapendo che non avevano mezzi per curarli, che dove-
vano accontentarsi semplicemente di qualche parola di
conforto. Ma bisognava donare, donare ancora, anche
ciò che non si aveva, a coloro che non possedevano più
niente, perché avevano perso ogni speranza.
Il decotto gli aveva lasciato in bocca un gusto amaro
di piante selvatiche. Era snervante. L’infermeria, i
142 CHRISTIAN JACQ

malati, la morte che imperversava… tutto si sfuocò


intorno a lui. Con la fantasia, vide invece un sentiero in
una foresta, cespugli di felci, tappeti di muschio, alberi
frondosi che lasciavano filtrare la luce del sole, un
intrico di rami che si piegavano fino a terra. François
Branier visse quella sensazione con un’intensità tale
che gli parve reale.
— Ha dimenticato un malato — lo rimproverò in
tono irato il monaco, facendolo ripiombare all’inferno.
— Perché non mi lascia un po’ in pace?
Il monaco restò impassibile.
— Lei ha la testa altrove, Venerabile. Non presta
attenzione a quello che fa. Male. Per lei come per i
malati.
— Tiene lezioni tutto il giorno, nel suo convento?
Noi, nella nostra Loggia, lo evitiamo.
— Logico. Perché voi non sapete niente. I massoni
sono degli incapaci.
— Non le sembra che la sua bella religione abbia
già procurato abbastanza catastrofi?
— Non sono né un missionario né un curato. Sono
un monaco benedettino.
— E io il Venerabile di una Loggia iniziatica.
I due uomini si sfidarono con lo sguardo. Nessuno
dei due era disposto a cedere per primo. Erano stravolti
dalla stanchezza, ma cedere avrebbe significato ricono-
scere la superiorità dell’altro. Peggio ancora, della sua
verità spirituale.
L'Architetto 143

Un malato chiese aiuto. Un grido soffocato.


— Ci penso io — disse il Venerabile.
— Cerchi di fare attenzione, stavolta…
François Branier cascava dal sonno, ma non
dormiva. Non riusciva nemmeno a chiudere gli occhi.
Accanto a lui, steso sullo stesso giaciglio nel senso
opposto, con la testa lì dove lui aveva i piedi, il monaco
sembrava ronfare tranquillo. Il suo Dio lo proteggeva
dall’insonnia. A meno che il benedettino non facesse
solo finta di essere assopito. Il Venerabile non sapeva
che cosa pensare di certi suoi piccoli segreti.
Sarebbe stato semplice alzarsi, uscire da quella
infermeria, respirare l’aria della notte, correre verso la
baracca rossa, rivedere i suoi fratelli, morire insieme a
loro, cancellando la storia, il tempo, gli uomini.
François Branier se ne giudicava capace. Ma era quello
che ci si attendeva da lui? Volevano da lui un’ultima
follia o una nuova battaglia? I fratelli erano di certo
convinti che avrebbe fatto di tutto per farli uscire di lì. E
se stavolta avesse fallito? Se avesse conosciuto il primo
scacco della sua vita iniziatica? Era un gioco truccato, di
cui ignorava le regole, e tuttavia non poteva permettersi
di perdere. Tutto si sarebbe deciso in una sola partita,
senza alcuna possibilità di rivincita.
—Non poteva raccontare una cosa qualsiasi, al
comandante?
La voce del monaco, grave, lenta, bassa, sembrò
provenire dall’oltretomba.
144 CHRISTIAN JACQ

— Lei non può dirmi cosa devo fare. Il diavolo non


può dare ordini a Dio.
— In un posto come questo sembrerebbe il
contrario.
— Più lei bestemmia, meno saranno le sue probabi-
lità di uscire vivo di qui.
— Si riposi, padre. Avremo bisogno di essere in
forze.
— Mi bastano pochissime ore di sonno. Come a lei.
Il monaco fece un profondo sospiro.
— Ha pensato che potrebbero decidere di rinchiu-
derla definitivamente nella torre? Di non consentirle
più di tornare, la prossima volta?
Il Venerabile si aspettava una domanda del genere.
Aveva pensato che prima o poi sarebbe venuto il
momento in cui, svuotato di ogni sostanza, si sarebbe
ridotto a essere un fantoccio nelle mani del coman-
dante. A meno che questi non avesse perso la pazienza
e non avesse fatto ricorso a metodi più brutali, venendo
meno al patto che aveva concluso con la Loggia.
— Ci ho pensato. Non me ne importa niente.
— E il suo famoso segreto, Venerabile? Vuole
rischiare di crepare e di portarselo nella tomba?
— Ha un’altra soluzione?
— La confessione.
Il Venerabile, incuriosito, osservò il monaco, steso
supino, immobile, gli occhi chiusi. A vederlo, si poteva
giurare che dormisse.
L'Architetto 145

— Darebbe sollievo alla sua coscienza. Può fidarsi.


Il segreto della confessione è inviolabile. Niente a che
fare con quello dei frammassoni.
Il Venerabile non poté fare a meno di sorridere.
— Non mi interessa, padre. La confessione mi
sembra una pratica degradante. E sia certo che il
comandante della fortezza ci conta. Se ci lascia
insieme, è perché spera che a furia di parlare io mi lasci
sfuggire qualcosa, che finisca per confessarmi con lei.
Deve essere convinto che lei conosca già una parte del
mio segreto. Se morissi, se morissero i miei fratelli,
prenderebbe di mira lei. Lei non è massone, padre, ma
è divenuto in qualche modo complice della Loggia.
L’alba sorse nella baracca rossa attraverso una
fessura minuscola tra due assi di legno. Guy Forgeaud
era riuscito a schiodare una delle assi per meglio osser-
vare quello che succedeva nel cortile. Poi la rimetteva a
posto. Il camuffamento era perfetto. I cinque fratelli
avevano stabilito dei turni di guardia, in modo che ci
fosse sempre almeno uno che vegliava mentre gli altri
dormivano. Così, avevano l’impressione di combattere,
di non arrendersi. La vigilanza era un’arma efficace. La
morte non li avrebbe sorpresi all’improvviso.
L’apprendista Jean Serval pose l’occhio alla fessura.
Era stato svegliato una decina di minuti prima da
Dieter Eckart. Serval non aveva osato confessargli che
si sentiva male. Aveva un terribile mal di pancia che gli
annodava le budella. La fame e la paura. Ma teneva
146 CHRISTIAN JACQ

troppo alla considerazione dei fratelli. Se l’avesse persa,


se fosse rimasto isolato, non avrebbe retto, ne era
sicuro. Serval non era pronto ad affrontare una tale
prova. Prima di allora, aveva condotto un’esistenza piut-
tosto comoda. Da quando era entrato nella Loggia la
sua vita era stata sconvolta. Pensava di diventare uno
scrittore alla moda, anche a costo di qualche compro-
messo con l’ambiente meschino dei letterati parigini, e
invece aveva scoperto la Regola. Perduto nell’inferno di
quel lager nazista, non rimpiangeva la sua scelta. Non
sarebbe mai diventato famoso, ma era diventato un
iniziato, anche se al gradino più basso, quello di
apprendista. Il suo solo rimorso era di non essersi
impegnato abbastanza per accedere al grado di
compagno.
Delle uniformi. Sagome nere nell’alba rossastra.
Era Klaus, il maggiore delle SS, accompagnato da
quattro soldati. Jean Serval si affrettò a svegliare i
fratelli che dormivano, scuotendoli per le spalle.
— In piedi! Arrivano!
Dieter Eckart, Guy Forgeaud, André Spinot e Raoul
Brissac furono subito in piedi. Erano ancora lì, con tutti
i muscoli indolenziti per il modo brusco in cui erano
stati strappati al sonno, quando la porta della baracca si
aprì.
La luce cruda del primo mattino ferì i loro occhi. Il
maggiore si stagliò in controluce sulla soglia, come una
macchia nera circonfusa dai raggi solari.
L'Architetto 147

— Ordine del comandante — annunciò. — Uno di


voi deve essere trasferito nell’officina della fortezza.
Dieter Eckart, fermo davanti ai fratelli, non tradì
alcuna emozione. Gli parve poco probabile che
scegliessero lui, perché non capiva niente di meccanica.
Se l’avessero fatto, sarebbe stato solo un trucco per
separarlo dagli altri e metterlo a morte. L’apprendista
Jean Serval, sgomento, tremava e batteva i denti, per il
timore di ritrovarsi isolato dalla comunità. Sarebbe
crollato, lo sapeva. André Spinot, l’occhialaio, cercò
riparo dietro la mole confortante di Brissac. Il lavoro
manuale non lo spaventava. Ma come avrebbe reagito,
lontano dagli altri? Brissac si augurò invece che
scegliessero proprio lui. Avrebbe avuto a disposizione
degli utensili, e si riprometteva di usarli per vendicare
la morte di Pierre Laniel. I suoi assassini dovevano
pagare. Guy Forgeaud, il meccanico, temeva solo per i
fratelli. I tedeschi, ne era sicuro, non avrebbero mai
scelto lui. La loro logica contorta avrebbe fatto cadere
la scelta sul meno qualificato, per umiliarlo, portarlo
allo stremo, costringerlo a tradire.
— Andiamo, Forgeaud.
Il tono del maggiore era affabile, quasi caloroso.
Guy Forgeaud si riscosse solo dopo qualche istante
dalla sorpresa. Ignorando la presenza dei tedeschi,
abbracciò uno per uno gli altri membri della Loggia,
senza fretta. Poteva essere l’ultima volta.
— A presto, ragazzi!
148 CHRISTIAN JACQ

Pronunciò quel saluto con voce neutra, chiara. Poi


uscì fuori, scortato dalle SS.
12

L
a baracca dei gabinetti, Venerabile.

— Tutti i prigionieri di tutte le baracche


passano di là. Il personale dell’infer-
meria prima di ogni altro.
Il monaco e il Venerabile erano stati condotti
davanti alla baracca delle docce, all’alba. Qualche
istante prima avevano sentito un insolito rumore di
stivali che marciavano attraverso il grande cortile.
François Branier aveva subito pensato che stessero
portando via uno dei fratelli. Ma gli fu impossibile
sapere che cosa stesse succedendo. Non udì né grida né
spari, fortunatamente. Ben presto tornò il solito
silenzio pesante, come se nessun essere umano vivesse
all’interno della fortezza.
Klaus, il maggiore, era venuto di persona per strap-
parli al mondo chiuso dell’infermeria. Come sua abitu-
150 CHRISTIAN JACQ

dine, il monaco l’aveva sfidato con lo sguardo. Non lo


temeva. Klaus aveva indicato la direzione delle docce. Il
monaco aveva trattenuto il Venerabile per le braccia,
temendo che reagisse in modo inconsulto. Branier lo
aveva lasciato fare.
A passo lento, i due uomini avevano attraversato il
grande cortile. Gli occhi del Venerabile scrutavano in
giro di continuo, registrando tutto quello che entrava
nel suo campo visivo. Senza muovere la testa, con anda-
tura strascicata, controllava i minimi particolari. Il
monaco avanzava a sua volta a testa bassa, osservando
anche lui ogni dettaglio, anche se a vederlo non si
sarebbe detto. Per la centesima volta misurò il peri-
metro del cortile, con la caserma delle SS, la torre
centrale, il muro di cinta… Ormai conosceva ogni centi-
metro quadrato di quello scenario. Con un rigore tipi-
camente benedettino, aveva classificato, inventariato
ogni cosa. Il Venerabile credeva che il monaco si
isolasse dal mondo esterno, perso nelle sue medita-
zioni. Il monaco pensava che il Venerabile avesse in
mente qualche utopico progetto di evasione.
Il freddo era pungente, il cielo di un azzurro limpi-
dissimo. La porta socchiusa della baracca delle docce
lasciava intravedere il pavimento, di cemento grezzo.
Nessun rumore proveniva dall’interno.
Il monaco e il Venerabile attendevano lì davanti da
oltre un quarto d’ora, ormai.
L'Architetto 151

— Non capisco — disse il monaco. — L’ultima volta


mi avevano fatto entrare subito.
— Forse non ci hanno portato qui per farci fare la
doccia — osservò il Venerabile.
— Che cosa vuol dire?
Il Venerabile non rispose. Il monaco sentì un
groppo che gli chiudeva la gola. Non gli piaceva quella
faccenda. I tedeschi avevano delle abitudini immutabili.
Si preparava qualcosa. Probabilmente ai loro danni. Dei
soldati delle SS li sorvegliavano a distanza, con aria
compassata. Da un momento all’altro potevano comin-
ciare a fare il tiro a bersaglio, come fossero conigli…
— E se ce la filassimo attraverso le docce? —
propose il Venerabile.
— Non ci sono uscite, lì dentro. Resteremmo in
trappola.
— In ogni modo…
— Non faccia fesserie, Venerabile. Forse c’è stato
qualche banale intoppo. Né io né lei possiamo permet-
terci di fare sbagli. Aspettiamo.
— Aspettare cosa? Una pallottola nella schiena?
— Non ci ammazzeranno così. Sarebbe una morte
troppo rapida. Il comandante non apprezzerebbe.
— Non si sa mai…
Parlavano senza quasi muovere le labbra, un
mormorio appena percepibile, ma sufficiente a
comprendersi.
152 CHRISTIAN JACQ

— Non faccia pazzie, sarebbe la nostra condanna…


per i suoi fratelli, per lei, per me…
François Branier esitò, contrariamente alla sua
natura. Di norma, quando aveva preso una decisione,
andava fino in fondo. Ma stavolta gravava sul suo
animo un’incertezza che nulla riusciva a dissipare.
— Che suggerisce di fare, allora, padre?
— Niente, Venerabile. Confidi in Dio. Questo
basterà per il momento.
— Se è per farle piacere…
La tensione nervosa del Venerabile si allentò. Il
monaco lo avvertì. Sapeva che aveva vinto. François
Branier si rimproverò quella che considerava come una
dimostrazione di debolezza. Si era lasciato influenzare
da un profano. Ma quel benedettino poteva essere
considerato davvero come tale? Il Venerabile fu preso
da una sorta di vertigine. C’erano gli iniziati e c’erano i
profani. Una barriera invalicabile li separava. Era
sempre stato così, dall’origine dei tempi, e così sarebbe
stato anche nel futuro. Che cosa pretendeva di fare,
quel semplice monaco, rappresentante di un mondo
intermedio, né veramente iniziatico né veramente
profano? Perché cercava di turbare l’ordine immutabile
delle cose? Aveva però una forza e una tranquillità
d’animo che il Venerabile aveva incontrato di rado, solo
in qualche fratello di grandissima levatura. Senza
dubbio aveva acquisito quelle doti attenendosi stretta-
mente a una regola, vivendo in nome di un principio
L'Architetto 153

superiore che lui chiamava Dio. Ma doveva esserci


anche qualche altra spiegazione. Molti religiosi osser-
vavano un modo di vita identico, eppure non gli somi-
gliavano per niente.
Dentro di sé, in realtà, il monaco era meno sicuro di
se stesso di quanto lo fosse mai stato. Continuò a
pregare, restando immobile, senza guardarsi intorno,
obbligandosi a restare concentrato sul proprio mondo
interiore, per conservare un minimo di serenità. Non
avrebbe mai immaginato di doversi preoccupare un
giorno per l’incolumità del Venerabile, per un avver-
sario pericoloso, uno che viveva chiuso nella sua comu-
nità iniziatica, quasi fosse un paradiso inviolabile. Gli
aveva davvero evitato di commettere un errore fatale? O
aveva preso un abbaglio giudicando che l’insolito
comportamento dei tedeschi fosse una trappola? In
ogni caso, c’era almeno un dato positivo: aveva tenuto
lui la situazione sotto controllo. Il Venerabile gli aveva
ceduto il passo. Era davvero uno strano individuo, il più
sorprendente che avesse mai incontrato fuori dal suo
convento. Il monaco non aveva il minimo dubbio sulla
vocazione diabolica dei frammassoni, ma in verità il
Venerabile non somigliava in nulla a un comune
massone. Parlava della Regola con un tono ispirato,
come fosse un monaco benedettino… La considerava
come il principale segreto della sua Loggia! Doveva
esserci sotto un formidabile imbroglio che il monaco
aveva giurato a se stesso di chiarire. Obbligando il
154 CHRISTIAN JACQ

Venerabile ad abbassare la guardia ogni volta un po’ di


più, era convinto di riuscirci.
La luce del giorno aveva invaso il cortile. Passarono
dei soldati. Un veicolo risalì rombando la rampa che
portava nel garage sotterraneo e uscì dalla fortezza
attraverso il portone principale, che fu subito richiuso.
Una giornata come tutte le altre.
— Ho un crampo a una gamba, a furia di stare
fermo — disse il Venerabile.
— Giri il piede in tutti i sensi — gli consigliò il
Venerabile.
— Non ho nessuna voglia di dare spettacolo in
questo modo. Sarò obbligato a muovermi. Non ho
scelta. Entrerò nelle docce. Allora, viene con me?
Il monaco si rimproverò la propria vanità. Credeva
di avere soggiogato il Venerabile, ma si era sbagliato.
Restare lì, senza muoversi, lasciando che si esponesse
da solo al rischio di essere falciato dai mitra delle SS…
No, il monaco sentì che non poteva farlo. Non voleva
lasciare al Venerabile il privilegio di morire combat-
tendo. Dio non l’avrebbe permesso.
— Mi dispiace di avervi fatto attendere — disse
Klaus, il maggiore, interponendosi tra i due uomini e
l’ingresso delle docce. — Un contrattempo tecnico. Era
finito il disinfettante.
Il tedesco aveva un’aria compiaciuta. Il Venerabile
fece un lungo sospiro. Il monaco rimase fermo dov’era,
guardandosi i piedi.
L'Architetto 155

Sfilò rapida davanti a loro una figura esile, agile,


vestita di nero, che entrò nella baracca delle docce
portando un pesante bidone. Il Venerabile la riconobbe
immediatamente, nonostante la divisa. Era la ragazza
bionda che aveva incontrato davanti a una casa di
campagna quando era andato a raccogliere le piante
medicinali. Aveva sperato, vedendola, di potere avere in
lei un’alleata all’esterno della prigione. Ora i suoi
capelli biondi, raccolti in una crocchia, erano quasi
interamente celati sotto un berretto con la visiera.
Evidentemente, o era stata integrata nel personale mili-
tare, o era costretta svolgere i servizi più umili per non
inimicarsi le SS. Il Venerabile non poté accettare l’idea
che condividesse scientemente la loro follia.
La disinfezione fu conclusa nel giro di pochi
minuti. La ragazza tornò fuori, salutò goffamente il
maggiore e sparì di scena. Con un cenno, Klaus ordinò
al monaco e al Venerabile di entrare nella baracca.
Una sala per le docce capace di contenere una
decina di persone. I prigionieri si spogliarono alla
svelta. L’acqua gelata ghiacciò la pelle del Venerabile,
che si fece forza per resistere fino in fondo. Lavarsi,
purificarsi… era una buona cosa. Il monaco aveva scelto
il posto più in fondo. Improvvisamente, si accucciò e
sollevò una piastrella. Apparve un nascondiglio. All’in-
terno, un sacco di tela.
L’acqua smise di scendere. Ancora gocciolante, il
monaco si affrettò a rivestirsi e a nascondere il sacco
156 CHRISTIAN JACQ

sotto il saio, appiattendolo sulla pancia, e quindi lo


bloccò con il rosario che gli faceva da cintura, in modo
che non potesse scivolare in basso. Il Venerabile si
rivestì anche lui.
— Che cosa le ha portato, quella ragazza?
Il monaco ignorò la domanda. Uscì per primo dalla
baracca delle docce, camminando con passo cauto.
Il contenuto del sacco di tela era sparpagliato sul
giaciglio di fortuna, nello stanzino dell’infermeria.
Erano dei minuscoli panini ripieni di formaggio.
— Ecco il mio tesoro — spiegò il monaco. — È per
questo che lei rischia la pelle ogni volta che viene a
disinfettare le docce. I malati ne vanno matti. Li cuoce
lei stessa. L’avverto: anche se muore di fame, non potrà
toccarli. Sono per i malati, come le ho detto.
Il Venerabile scrollò le spalle.
— E non le procura niente di più utile?
— Non le ho mai rivolto la parola. Fa del bene come
può, con quello che ha.
— Come ha scoperto quel nascondiglio?
— L’ha lasciato aperto lei stessa, la prima volta che
mi hanno concesso di fare la doccia da solo.
— Non ha temuto che potesse essere una provo-
cazione?
— Sì… ma ho pensato ai malati. Loro vengono
sempre prima di tutto.
— Si potrebbe tentare di ottenere delle medicine,
grazie a lei…
L'Architetto 157

li monaco cominciò la distribuzione dei panini. I


malati li divorarono avidamente, quasi senza masticare.
Il profumo di formaggio aveva per loro un gusto di
libertà, di un tempo meno infelice.
— Lasci in pace quella poverina — raccomandò il
monaco. — Si è già abbastanza compromessa.
Il Venerabile fece mangiare un panino al vecchio
astrologo, che era deperito ancora. Aveva le labbra
secche, tutte screpolate.
— Brucerà tutto — mormorò, masticando a fatica.
— Il fuoco arriverà dal cielo, e nessuno si salverà…
Nessuno!
L’astrologo si drizzò a sedere, inarcò il busto, ripeté
le stesse parole una decina di volta, poi ricadde, inerte,
fissando con gli occhi sbarrati il soffitto dell’infermeria.
Il monaco e il Venerabile prestarono come ogni
giorno le loro cure ai malati, lavandoli, rassettando i
letti, somministrando qualche tisana, confortandoli
come potevano.
— Perché non vengono a cercarla? — chiese il
monaco al Venerabile. — Le sue rivelazioni sono state
sufficienti?
La porta della baracca si aprì. Apparve Klaus, il
maggiore delle SS. Il Venerabile lo guardò ansioso.
— Non sono venuto a cercare lei. Il comandante
vuole vedere frate Benoit.
13

I
l comandante del lager stava mangiando.
Insalata verde, agnello ai ferri, formaggio di
capra. Cibo speciale che si faceva recapitare ogni
giorno. Una necessità per sostenere il morale di un
uomo a cui il Reich aveva affidato un compito decisivo.
Tutte le notti, nel silenzio quasi assoluto, il comandante
stilava un lungo rapporto, analizzando minuziosa-
mente il comportamento del Venerabile, dei fratelli
della sua Loggia, e del monaco. Era indispensabile
giocare su quei tre registri contemporaneamente.
I primi risultati ottenuti erano stati giudicati inte-
ressanti. Era ancora lontano dall’obiettivo, ma i
progressi erano stati costanti. Le difese del Venerabile
si stavano sgretolando. Sapeva di essere in trappola e
non vedeva alcuna via d’uscita. La sua debolezza era la
Loggia. Non poteva abbandonare i suoi fratelli, e non
L'Architetto 159

aveva il diritto di sacrificare se stesso. Era dunque


obbligato a rivelare i diversi aspetti della Regola. Senza
dubbio avrebbe cercato di tirare in lungo il più possi-
bile, prima di disseppellire i segreti più gelosamente
custoditi, quelli che davano alla Loggia Conoscenza il
suo carattere unico e i suoi poteri eccezionali. I fratelli
rinchiusi nella baracca rossa vivevano ore sempre più
angosciose. Privati del loro capo, non sapevano che
cosa li aspettava, immaginavano il peggio, e presto
avrebbero perso anche la minima speranza che ancora
li teneva in piedi. In quella situazione, non sarebbero
più riusciti a mantenere la loro coesione. La morte di
Pierre Laniel li aveva scossi, ma il comandante sperava
di fare di più e di meglio: dividerli, metterli gli uni
contro gli altri, provare al Venerabile che la sua Loggia
andava in pezzi. Sarebbe stato un colpo decisivo.
Il comandante era dubbioso sulle circostanze della
morte di Pierre Laniel. Un colpo di testa? Un modo
come un altro per suicidarsi? Un incidente? Non
trovava una spiegazione soddisfacente. Una macchina-
zione montata dai fratelli, ma con quale obiettivo? A
che cosa poteva servire la morte di Pierre Laniel? Forse
a sbarazzarsi dell’anello debole della loro catena?
Eppure Pierre Laniel non gli aveva dato l’impressione
di essere una persona fragile. Per giunta, era difficile
credere che i membri di una Loggia come quella potes-
sero comportarsi in modo così brutale con i propri
stessi compagni. Probabilmente, anche separato dai
160 CHRISTIAN JACQ

suoi fratelli, il Venerabile esercitava una forte influenza


su di loro. La sparizione di Laniel rientrava anch’essa in
un piano preordinato?
Quella zona d’ombra preoccupava il comandante.
Aveva il vago sospetto di essersi lasciato sfuggire un
particolare importante. Non di meno, restava padrone
del gioco. Le regole le dettava lui.
L’agnello ai ferri si scioglieva in bocca. Una delizia.
— Il suo visitatore — annunciò l’aiutante di campo,
tutto elegante nella sua uniforme di gala.
— Lo faccia entrare.
Il comandante posò la forchetta e scostò il piatto.
L’aiutante di campo sparecchiò e versò un bicchiere di
vino saint-émilion che il suo superiore gustò avida-
mente mentre la sagoma massiccia del monaco, scor-
tato da due SS, avanzava dentro l’ufficio. La barba folta,
il saio ancora sorprendentemente in ordine, il rosario
dai grossi grani di lucido legno… Frate Benoìt riempì
l’ambiente della sua presenza.
— È da molto che non ho avuto l’occasione di
consultarla, padre. Tutto bene?
— No. Mancano le medicine.
— Ancora problemi che riguardano l’intendenza! Il
dottor Branier me l’ha già fatto presente… Lasciamo
stare. Ci sono degli argomenti più importanti. Helmut!
L’aiutante di campo fece uscire i due soldati, chiuse
la porta dell’ufficio e si mise in un angolo della stanza,
con le mani incrociate dietro la schiena.
L'Architetto 161

— Il solo argomento che mi interessa — tornò


alla carica il monaco — è la possibilità di curare i
miei malati. Mi rifiuto di parlare di qualsiasi altra
cosa.
— Lei non può permettersi di rifiutare niente,
padre. Proprio niente.
Il monaco lo sfidò con lo sguardo. Il comandante
apprezzò quella dimostrazione di orgoglio. Gli piace-
vano le persone che cercavano di resistergli, anche se
avevano perduto in partenza. Spingere il monaco alla
resa era un punto d’onore, per lui. Frate Benoît era un
uomo di grandi risorse, e tra queste c’era anche la tipica
furbizia dei preti. Senza il minimo rimpianto, il coman-
dante aveva firmato l’ordine di condanna a morte di
molti di essi. Ma quelli erano solo dei poveracci che
parlavano a vanvera, che non lo interessavano. I
credenti lo annoiavano. Quel benedettino, invece, aveva
dei poteri fuori dal comune. Praticava delle arti miste-
riose che i tecnici del Reich avrebbero potuto trasfor-
mare in procedimenti scientifici efficaci.
— Come va la sua collaborazione con il dottor
Branier?
Il monaco rimase impassibile, come se non avesse
nemmeno udito la domanda.
— È un medico bravissimo, credo… Che ne dice,
padre?
— Abbiamo dei doveri da assolvere, tutti e due.
Senza medicine, però, non potremo fare niente.
162 CHRISTIAN JACQ

Il comandante si versò da solo un altro bicchiere di


vino.
— Ho l’impressione che lei abbia trascurato un
dettaglio, padre. Comprendo le vostre difficoltà… ma
siete pur sempre obbligati a piegarvi ai regolamenti in
vigore dentro questa fortezza. Il Reich non ama i
malati. È solo uno scrupolo umanitario quello che mi
ha spinto a fare di questa infermeria un modello di effi-
cienza, nei limiti del possibile. Quanto alle medicine…
le otterrò, a condizione che vi mostriate molto più
disposti a collaborare.
Il monaco aggrottò le sue folte sopracciglia.
Avrebbe volentieri annegato l’ufficiale nazista dentro il
suo bicchiere di vino e sbattuto contro il muro quel
vacuo damerino del suo aiutante di campo.
— Il dottor Branier è il più temibile dei terroristi —
riprese il comandante. — Frammassone, anticlericale,
collegato alla Resistenza, ha ucciso e fatto uccidere
decine di innocenti. Grazie alle sue prime dichiara-
zioni, abbiamo potuto smantellare una vasta rete di
sabotatori. Tra di loro c’erano anche dei preti e dei reli-
giosi sviati dalla propaganda. Branier è un uomo corag-
gioso. Ma è deciso a salvare la pelle.
— E che cosa importa a me di tutto questo?
Il monaco fissò con un’espressione severa il
maggiore, ma questi non si scompose minimamente e
fece schioccare la lingua contro il palato, gustando il
saint-émilion.
L'Architetto 163

— François Branier è il Venerabile di una Loggia


unica nel suo genere, che è depositaria di segreti che
interessano il Reich. Non mi aspetto che arrivi a confes-
sare quello che sa, ma lei potrebbe spingerlo a farle
qualche confidenza… se non l’ha già fatto.
Il monaco alzò gli occhi verso il soffitto.
— Dio è il mio solo confidente.
— Se lei vuole delle medicine, padre, mi riferisca
tutto quello che Branier le rivelerà intorno al suo
segreto.
— Insomma, dovrei fare la spia?
La voce del monaco suonò rauca per lo sdegno.
— Le parole importano poco. Attendo da lei delle
informazioni.
— Io e Branier parliamo solo del modo migliore per
curare i nostri malati. Non ho alcuna simpatia per gli
individui del suo stampo, e non ho la minima voglia di
conversare con lui. È massone e ateo. Peggio che
pagano, cioè. Non sono abituato a scambiare confi-
denze con questo genere di persone.
— Dovrà sforzarsi di farlo, se vuole veramente il
bene dei suoi malati… Riprendiamo il nostro corso di
radioestesia?
Il comandante aprì un cassetto della scrivania e tirò
fuori la bacchetta da rabdomante. Si alzò e si mise
accanto al monaco. Serrando le estremità della
bacchetta con il pollice e l’indice, la tese davanti a lui.
— La tengo bene così?
164 CHRISTIAN JACQ

Il monaco corresse la posizione.


— Si rilassi. Metta la bacchetta all’altezza della
pancia. La lasci vibrare.
Il comandante seguì le indicazioni..
— Helmut!
L’aiutante di campo si avvicinò alla scrivania, dove
stavano posate cinque carte coperte.
— Cerco l’asso di picche — dichiarò il comandante.
Passò l’estremità della bacchetta sopra ciascuna
delle cinque carte. La bacchetta si sollevò leggermente
sulla seconda da sinistra. Con mano tremante, girò la
carta.
Un asso di picche.
— Sto facendo dei progressi, che ne dice, padre?
Il monaco si sentì invadere da un’ondata di
pessimismo.
La giornata era trascorsa in un attimo per Guy
Forgeaud. Nell’officina del garage sotterraneo, lo
avevano incaricato di riparare il motore di una jeep e
la torretta della mitragliatrice di un’autoblinda che era
malridotta. I tedeschi erano a corto di tecnici.
Forgeaud chiese una saldatrice per riparare la torretta.
Le SS incaricate di custodire il materiale non fecero
obiezioni. Il massone approfittò della relativa libertà
di azione che gli veniva concessa per sabotare il
veicolo, effettuando delle saldature molto belle a
vedersi, ma che avrebbero ceduto al primo colpo.
Forgeaud era un maestro in questo genere di cose.
L'Architetto 165

Lavorò lentamente, mettendo a frutto la sua


esperienza.
Purtroppo, invece, appariva molto difficile rubare
qualcosa dall’officina, perché le perquisizioni erano
molto minuziose, sia all’entrata che all’uscita. Ma con il
tempo, se l’incarico di meccanico diventava un’incom-
benza regolare, avrebbe di sicuro trovato un modo per
eludere i controlli.
L’officina era fin troppo pulita e ordinata. E gli uten-
sili erano pochi. Ciò nonostante, Forgeaud ebbe l’im-
pressione di sognare: trovarsi nel suo ambiente
preferito, nel cuore di una prigione… La sua sorpresa fu
ancora maggiore quando lo lasciarono lì da solo.
Cercando degli steli filettati dentro uno stretto corri-
doio che fungeva da ripostiglio, scoprì un’iscrizione
tracciata con il gesso su una porticina: WAFFEN-
SCHMIEDSLADEN, armeria. Un semplice catenaccio
bloccava l’accesso. Forgeaud si tenne prudentemente al
largo. Quando tornò nell’officina, con gli steli filettati in
mano, entrò il maggiore delle SS.
— Soddisfatto del suo nuovo incarico, Forgeaud?
— Farò del mio meglio… la vostra autoblinda è
tutta marcia. Ne ho per almeno un mese di lavoro.
Bisogna cambiare tutti gli steli filettati, rifare tutte le
saldature.
— Bene, bene — approvò il maggiore. — Le
daremo tutto quello che le serve. Lavorerà qui dieci ore
al giorno, senza interruzioni.
166 CHRISTIAN JACQ

Seduto al suo tavolo di lavoro, la testa tra le mani, il


Venerabile non si risolveva a prendere la penna in
mano. Erano venuti a prelevarlo all’infermeria prima
del ritorno del monaco. Non sapeva perché, ma un’an-
goscia sorda gli impediva di concentrarsi, di trovare
delle parole che non tradissero nulla di fondamentale e
che potessero al tempo stesso far credere al coman-
dante di avere messo finalmente le mani sulla Regola
segreta della massoneria.
L’apprendistato. L’ingresso dell’iniziato nella comu-
nità. Il primo passo. La penna del Venerabile cominciò
finalmente a correre sul foglio. Fu quasi contento di
avere il tempo di consacrarsi a quella meditazione, di
arrestare la corsa folle del tempo, di tornare alle fonti
della sua avventura spirituale.
A suo tempo, era stato anche lui un apprendista,
anche se ribelle, contestatario. Non accettava gli ordini
che gli sembravano irragionevoli. Esigeva molto da
quelli che si chiamavano maestri e non rispondevano
in modo esauriente alle sue domande. François Branier
aveva già perso la speranza di poter essere iniziato, e
stava anzi per lasciare la Loggia dove il vecchio profes-
sore, il suo padrino spirituale, gli aveva raccomandato
di entrare. Ma un colloquio con il secondo sorvegliante,
colui che aveva l’incarico di seguire gli apprendisti, gli
aveva fatto cambiare idea. Gli aveva rimproverato di
essere troppo se stesso. Troppo se stesso… Ma che
restava di quella comunione spirituale che aveva
L'Architetto 167

sognato? Un profano travestito da iniziato, che accusava


i suoi fratelli di non dargli quello di cui sentiva il biso-
gno. Un mostro di vanità e di egoismo che aveva dimen-
ticato di criticare per primo se stesso. François Branier
aveva capito allora che era divenuto il suo principale
avversario, l’ostacolo maggiore sul cammino dell’inizia-
zione. Da allora in poi si era consacrato all’essenziale: i
simboli e i riti che gli erano stati rivelati. Un velo si era
squarciato. Solo allora era iniziato il suo vero appren-
distato.
Il primo segreto era la padronanza dei quattro
elementi: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco. Tali elementi
erano a loro volta i simboli delle forze vitali che l’ini-
ziato imparava a conoscere. Quante sere, quante ore
per aprirsi a quelle nozioni complesse, per viverle, per
decifrarle. Jean Serval, lo scrittore, era l’ultimo rappre-
sentante di una generazione di apprendisti che avevano
ricevuto una formazione rigorosa al punto che i maestri
delle altre Logge erano a disagio davanti a lui, tanto li
sorpassava per profondità di pensiero e conoscenza
della Regola.
Il Venerabile scrisse lunghe pagine sui rituali che
iniziavano l’apprendista alla conoscenza dei quattro
elementi. Le rilesse, incerto, fu tentato di stracciarle,
ma infine decise che erano sufficientemente ambigue.
Strano ritorno indietro… Il periodo di apprendistato
era stato duro ma esaltante. La scoperta di un mondo,
quello della Loggia, ma anche il sentimento di avere
168 CHRISTIAN JACQ

intrapreso una strada di cui non si scorgeva la fine,


attraverso una terra sconosciuta. L’apprendistato, il
tempo del silenzio, del distacco dall’immagine che si
era fatta di se stesso.
Il viso della ragazza tedesca si affacciò all’improv-
viso alla memoria del Venerabile. Perché correva dei
rischi così grandi, se non perché era ostile ai nazisti?
Quella ragazza incarnava la porta stretta della libera-
zione. Doveva assolutamente stabilire un contatto con
lei. Ma i suoi rapporti con il monaco erano oscuri.
La porta dell’ufficio si aprì. Il maggiore si diresse a
grandi passi verso il tavolo da lavoro e s’impadronì dei
fogli che il Venerabile aveva riempito con la sua scrit-
tura ordinata.
— Il comandante vuole vederla.
Il Venerabile stava in piedi ormai da circa mezz’ora
davanti alla scrivania del comandante, impegnato a
leggere con grande attenzione, senza mai staccare gli
occhi dai fogli, il documento che gli era stato conse-
gnato da Klaus.
— Lei è un uomo meticoloso — commentò quando
ebbe finito. — Meticoloso ma oscuro. Queste pagine
sono quelle di un filosofo. Non quelle di un uomo
d’azione.
Il comandante si alzò e si mise a camminare tra la
scrivania e una finestra affacciata sul grande cortile.
Immobile e silenzioso, in piedi in un angolo della
stanza, l’aiutante di campo osservava la scena.
L'Architetto 169

— La sua dissertazione ha destato il mio interesse,


Venerabile. Ma credo che mi abbia frainteso. Quello
che voglio da lei è una cosa sola: il segreto che chia-
mate la Regola. Il vostro modo di interagire con il
mondo. I discorsi esoterici non mi interessano.
— È lei che mi ha frainteso.
Il comandante si piazzò davanti alla finestra,
voltando le spalle al suo interlocutore.
— Perché allora?
— Perché il nostro modo di interagire con il mondo
comincia con dei discorsi esoterici. Questo è il primo
dei segreti. Formare prima di tutto l’iniziato ai suoi
compiti futuri, lontano da occhi indiscreti. È come
preparare un atleta a battere un record senza il minimo
allenamento fisico. Tutto si basa sull’atteggiamento
interiore.
Il Venerabile cercò di essere convincente. Ma il
comandante si girò di scatto, prese quel fascio di fogli e
li sventolò davanti al naso di François Branier.
— E lei vorrebbe farmi credere che queste scartoffie
contengono il segreto della vostra Loggia?
Il Venerabile sostenne lo sguardo infuriato del
comandante.
— È la verità. Sono incapace di formulare la Regola
altrimenti.
Il tedesco riprese il suo posto dietro la scrivania.
— Perché no? Dopotutto… Voglio crederle. Ma devo
cautelarmi. Ecco perché ho mandato Guy Forgeaud
170 CHRISTIAN JACQ

nell’officina della fortezza. Lui ha il grado di maestro,


non è un uomo come tutti gli altri… E credo che ne
fornirà presto un’involontaria prova.
Il Venerabile rimase raggelato. Che altro aveva
inventato quel demonio? Isolando Forgeaud, sottraeva
alla comunità una parte della sua forza. Senza dubbio
aveva deciso di spezzare la resistenza dei suoi fratelli,
disperdendoli uno per volta in giro per il lager, setti-
mana dopo settimana…
Ma Guy Forgeaud avrebbe avuto la forza di resi-
stere. Aveva sempre dimostrato un gran sangue freddo.
Ed era uno che sapeva trarre profitto dalle circostanze.
— Guy Forgeaud è un meccanico con i fiocchi —
disse ancora il comandante. — Gli abbiamo proposto
di riparare un’autoblinda per verificare la sua buona
volontà. Spero che non commetta l’imprudenza di
cercare di sabotarla.
Guy Forgeaud non aveva altro riferimento per
sapere che ora era se non la propria stanchezza fisica.
Doveva essere andato avanti a lavorare senza pause per
mezza giornata. Davanti a lui, la torretta dell’auto-
blinda che aveva smontato. Sarebbe riuscito a sabotarla
in modo che nemmeno l’occhio più esperto potesse
scoprire il trucco. Se le saldature fossero state effettuate
in modo troppo grossolano, i tedeschi si sarebbero
affrettati a ripararle. Gli riusciva impossibile credere
che non ci fosse un meccanico competente all’interno
della fortezza.
L'Architetto 171

Che si voleva da lui? Volevano intrappolarlo accu-


sandolo di sabotaggio? Forgeaud non era incline a
lasciare correre troppo la fantasia. La realtà forse era
molto più semplice: avevano solo bisogno di un mecca-
nico capace per riparare un veicolo difettoso. Quello
che più gli importava era la Loggia. Doveva impadro-
nirsi del materiale necessario per celebrare una tenuta,
immedesimandosi nell’eternità del simbolo, nel cuore
stesso di quella fortezza nazista. Fece l’inventario del
materiale che aveva a disposizione. Una vera pacchia.
Ma mancava il gesso… un particolare così stupido.
Possibile che non ci fosse un solo pezzo di gesso, in
quell’officina? Cercò dappertutto. Niente. Doveva asso-
lutamente trovarlo. Era indispensabile. La Loggia ne
aveva bisogno.
Dovunque si trovasse, Guy Forgeaud sentiva la
necessità di individuare le vie di comunicazione con
l’esterno. Vedere quello che succedeva fuori era già
assaporare uno scampolo di libertà. Esplorò a palmo a
palmo i muri cercando un eventuale spiraglio non
immediatamente visibile, o anche solo una finestra
murata. I suoi sforzi furono finalmente premiati. Vicino
al soffitto, sopra un’impalcatura arrugginita, una griglia
ostruita da stracci sporchi di grasso, senza dubbio per
impedire l’ingresso dell’aria gelida dall’esterno.
Forgeaud osservò attentamente gli stracci, prima di
toccarli, imprimendosi nella memoria la loro disposi-
zione esatta. Quando li tolse, uno spiffero gelato gli
172 CHRISTIAN JACQ

sferzò il viso. Era ormai notte. Nel cortile non c’era


anima viva.
Un soldato delle SS controllava il lavoro di
Forgeaud più o meno ogni ora. L’istinto gli suggeriva
che il nazista poteva arrivare da un momento all’altro, e
così agì in fretta, sperando che i nazisti non cambias-
sero le loro abitudini. Se l’avessero sorpreso arrampi-
cato sopra l’impalcatura, che spiava il cortile…
Il monaco e il Venerabile erano seduti l’uno accanto
all’altro nello stanzino dell’infermeria.
— Ho dovuto occuparmi dei malati tutto da solo. Il
comandante l’ha trattenuta molto a lungo.
C’era una nota di sospetto nel tono del monaco.
Come se il Venerabile si fosse imboscato di proposito.
— Crede che abbia passato il tempo a spassarmela?
Irritato, il monaco giocherellò con i grani del suo
rosario.
— Che cosa voleva?
— Sempre la stessa cosa. Il segreto della Loggia.
Non ha apprezzato le ultime pagine del mio
documento.
— La mangerà in un boccone solo — dichiarò il
monaco, acido. — Sbaglia di grosso se crede di poter
giocare con lui come il gatto con il topo. È lui che
conduce le danze, non lei. Sa almeno se i suoi fratelli
sono ancora vivi?
— Forgeaud, sì. Gli altri, non so. Ma lei, lei deve
saperlo.
L'Architetto 173

Il monaco si imporporò. Si girò verso il Venerabile


che fissava invece il vuoto davanti a sé.
— Che vuol dire? Ricomincia a trattarmi da
traditore?
— Perché pensa una cosa simile? Volevo solo dire
che per lei sarebbe più facile saperlo.
— Come?
— Chiedendolo a quella ragazza bionda.
— E lei crede che io abbia occasione di conversare
con lei?
— Conversare… forse no. Ma basterebbe che lei le
facesse qualche domanda lasciando un messaggio nel
nascondiglio delle docce. La ragazza può circolare libe-
ramente nel lager. Non mi sorprenderei se avesse già
organizzato qualche altro piccolo traffico con lei. Per le
medicine…
— Oh, basta con queste medicine! — tuonò il
monaco.
Il Venerabile gli lanciò un’occhiata, sorpreso.
— Non le interessano più?
— Il prezzo da pagare è troppo alto.
— Sarebbe a dire?
— Questo non la riguarda.
Il monaco si rabbuiò. Si chiese perché aveva
deciso di non tradire quel frammassone che disprez-
zava Dio e si beffava dei credenti. Il più miserabile dei
suoi malati valeva dieci volte più di lui, e aveva
talmente bisogno di quelle medicine… Ma non
174 CHRISTIAN JACQ

sarebbe mai diventato il peggiore degli infami. Guada-


gnare la
fiducia del Venerabile per riportare le sue confi-
denze al comandante del lager. Guadagnare la fiducia
del Venerabile… Ma era poi possibile? Quell’uomo
tarchiato, robusto, dalla fronte ampia, stempiata, le
spalle larghe, il passo tranquillo, sembrava del tutto
impermeabile a qualsiasi passione o emozione. Non
aveva perduto una sola oncia del suo equilibrio. Per un
attimo, frate Benoît pensò che uno come François
Branier avrebbe potuto diventare un bravo monaco. Ma
si affrettò a scacciare dalla mente quell’idea assurda.
— Chi è questa ragazza? — chiese il Venerabile.
— Non ne ho la più pallida idea. Non ho mai
nemmeno sentito il suono della sua voce. È venuta solo
una volta, qui, come un’ombra.
Il monaco aveva svelato così uno dei suoi piccoli
segreti. Il Venerabile apprezzò la cosa, ma per un altro
verso rimase turbato. Quante altre informazioni di pari
importanza il benedettino aveva omesso di fornirgli?
Che non avesse la minima fiducia verso il suo alleato
frammassone non destava meraviglia, certamente. Ma
questo non era forse la spia di un qualche maneggio
più tortuoso, che in seguito avrebbe potuto procurare
grossi guai? Il monaco, come qualsiasi altro prigioniero
della fortezza, pensava prima di tutto a salvare la
propria pelle. E a far trionfare il suo dio. Se avesse
offerto al comandante il segreto del Venerabile,
L'Architetto 175

avrebbe avuto maggiori possibilità di uscire vivo da


quell’inferno. Un collaborazionista per diritto divino,
per così dire.
Ma dopo un istante il Venerabile si vergognò di
nutrire dei sospetti così maligni. In realtà avrebbe
preferito stabilire con lui un rapporto di piena fiducia.
Quella cupa fortezza cominciava a esercitare su di lui
una malefica influenza. D’altro canto, non poteva
nemmeno permettersi di essere ingenuamente fidu-
cioso. Non era solo la sua sorte a essere in causa, ma
anche quella della sua Loggia. Ognuno faceva il suo
gioco, lì dentro, compreso il monaco. Chissà, forse gli
avrebbe fatto piacere assistere alla dissoluzione della
Loggia. Anzi, dal suo punto di vista, contribuire a un
simile esito sarebbe stato addirittura un titolo di
merito. Il monaco restava sempre il peggiore nemico
della Loggia, più temibile ancora che il comandante
della prigione.
— Si è presentata circa un mese fa — disse ancora
il monaco. — Le SS stavano facendo colazione, e la
sorveglianza era un po’ allentata, in quel momento.
Portava l’uniforme. Appena mi ha visto si è messa un
dito davanti alla bocca. Poi ha lasciato una cassetta
piena di medicine e se ne è andata. È stato un attimo.
Un’apparizione fugace. Oggi quella riserva di medicine
è esaurita. E lei non è più tornata. Forse a causa della
sua presenza, Venerabile.
— Dovrei sacrificarmi?
176 CHRISTIAN JACQ

— Sta a lei rispondere. E poi, se proprio uno si deve


sacrificare, bisogna che lo faccia con un motivo.
— Ha qualche idea?
— Non vorrei influenzarla.
— Grazie per la sua premura, padre. Non mi aspet-
tavo tanto. È avanzata un po’ di zuppa fredda?
Il Venerabile era affamato. Una formidabile energia
era rinata in lui, perché la situazione gli sembrava
infine più chiara. Aveva individuato il suo principale
nemico, il più pericoloso. Il monaco era il vero
epicentro di quell’inferno.
14

I
l Venerabile attese. Klaus, il maggiore delle SS,
era venuto a prelevarlo di prima mattina per
portarlo nell’ufficio che gli era stato assegnato
nella torre, perché mettesse per iscritto i segreti della
Loggia Conoscenza. Ma quella mattina sul tavolo non
c’erano né la carta né la penna. Assolutamente niente
con cui scrivere.
Uno scherzo vagamente sadico? Semplice dimenti-
canza? Una nuova prova escogitata da un cervello
malato? Tutte domande a cui non era in grado di
rispondere. Il Venerabile le accantonò e si rassegnò ad
aspettare ancora. Non c’era altro da fare. Sopportare
l’isolamento, accettare la presenza del male, continuare
a sperare che prima o poi si sarebbe riunito con i suoi
fratelli per celebrare una tenuta a maggior gloria del
Grande Architetto dell’Universo.
178 CHRISTIAN JACQ

Il Venerabile si sedette sull’unica sedia di quella


stanza spoglia, davanti al tavolo di lavoro. Il vuoto.
François Branier si sforzò di essere paziente a dispetto
di tutto. Il tempo non lo spaventava. Aveva imparato a
farlo scorrere attraverso se stesso, senza opporre osta-
coli. Perché, come sapeva ogni iniziato, il tempo non
esisteva veramente. C’erano i giorni e le notti, le
stagioni, la vecchiaia, i cicli… ma era sempre il primo
mattino del mondo, il primo istante in cui i destini
degli esseri formavano una cosa sola, in cui la vita non
aveva ancora cominciato a degradarsi. Come tutti gli
iniziati, François Branier portava dentro di sé una
gioventù che si rigenerava autonomamente. Le persone
care ormai scomparse erano sempre presenti dentro di
lui. Sua moglie, il professore di francese, Pierre Laniel…
Lo incoraggiavano a tenere duro, a dominare le
tenebre.
Durante le tenute della Loggia Conoscenza, si era
spesso discusso della possibilità di essere arrestati dalla
Gestapo, della minaccia di distruzione della loro opera
costituita dalla barbarie dilagante. Il Venerabile non
aveva mai risposto alle ansie espresse dai suoi fratelli.
Non aveva cercato di consolarli camuffando la realtà.
Con una gioia profonda, aveva constatato che i fratelli
erano pronti ad affrontare la prova. Erano spaventati,
ma non si lasciavano prendere dal panico. Il male era
nell’ordine delle cose. Il tradizionale pavimento a
mosaico del tempio massonico era composto da
L'Architetto 179

piastrelle bianche e nere. Nascosta in mezzo al nero,


c’era una particella di bianco. Nascosta dentro il
bianco, c’era una particella di nero. La fortezza nazista
voleva essere il Male assoluto. Ma anche in quell’oscu-
rità era celato un barlume di luce. Spettava al Venera-
bile individuarlo e metterlo a frutto. In fin dei conti, era
il suo mestiere.
La cosa più insopportabile era non poter più cele-
brare una tenuta con i fratelli. Vivere in comunione
spirituale con i compagni, celebrare i riti, lavorare per
la gloria del Grande Architetto, formare la catena
d’unione, avanzare sul cammino della conoscenza
avendo la Regola come guida… erano esperienze
inebrianti. Nessun paradiso poteva essere preferibile. Il
Venerabile comprendeva gli antichi che regolavano
l’anno sulla celebrazione dei riti, passando giorni, a
volte settimane intere, a ricreare la dimensione del
sacro, a porsi in armonia con le leggi dell’Universo.
Quella realtà speciale, di cui pochissimi uomini sospet-
tavano l’esistenza, il Venerabile l’aveva vissuta nel
segreto della sua Loggia. Gli iniziati non lavoravano
solo per se stessi. Come i monaci del Medioevo, lavora-
vano nel silenzio di una comunità che esercitava la sua
influenza senza ostentazione, per mantenere un certo
equilibrio nel mondo. Come i monaci… Quel pensiero
disturbò François Branier.
La chiave girò nella serratura. Klaus, il maggiore
delle SS, aprì la porta.
180 CHRISTIAN JACQ

Il Venerabile trattenne a stento un’esclamazione di


dispetto. Accanto al maggiore, c’era la ragazza bionda,
in uniforme delle SS. Dunque, anche lei l’aveva tradito.
L’aveva consegnato nelle mani dei nazisti per uno
sguardo. Lei e il monaco facevano lo stesso gioco. Il
massone era la vittima sacrificale. Ma pur ferito nel più
profondo del suo essere, il Venerabile mantenne un’e-
spressione impassibile.
— Qualche problema, dottor Branier?
Il Venerabile si riscosse, andando a mettersi vicino
al tavolo di lavoro.
— Manco un po’ di esercizio fisico. Se è necessario
raccogliere ancora delle erbe medicinali, mi offro
volontario.
Mentre diceva così, spiò le reazioni della ragazza.
Ma lei rimase muta, tenendosi un passo più indietro
rispetto all’ufficiale.
— Le passeggiate igieniche non sono di mia compe-
tenza, dottor Branier. Altre richieste?
Il Venerabile fece segno di no con la testa. Klaus si
divertiva alle sue spalle, chiaramente, come un gatto che
si prepari a dare la zampata decisiva. Con il sostegno di
un testimone oculare, avrebbe potuto accusare il Venera-
bile di avere tentato di evadere, o di qualsiasi altra cosa.
— Vada — disse ancora Klaus, rivolto alla ragazza.
L’ordine echeggiò seccamente. La ragazza si diresse
verso
L'Architetto 181

François Branier, che evitò di guardarla in faccia,


per renderle meno arduo il compito. Tradire qualcuno
è sempre antipatico, anche per gli spiriti più induriti.
Inoltre, il Venerabile preferiva conservare di lei un
buon ricordo, quello di un sorriso nella foresta inon-
data dal sole.
— Si dia da fare, dottor Branier — disse Klaus
uscendo dalla stanza insieme alla sua accolita.
Sulla scrivania, la ragazza aveva lasciato dei fogli di
carta e una boccetta di inchiostro nero.
— Dobbiamo scoprire dove tengono prigioniero il
Venerabile — ribadì l’apprendista Jean Serval.
— Non vedo come potremmo farlo — mormorò in
tono mesto Dieter Eckart.
— Starò qui di guardia il più a lungo possibile.
Prima o poi lo vedrò passare nel cortile — si offrì gene-
rosamente Guy Forgeaud.
Le SS avevano ricondotto nella baracca Forgeaud a
tarda sera. Per un’ora e passa, prima di sprofondare in
un sonno pesante, egli aveva descritto la sua prima
giornata di lavoro da meccanico al servizio dei nazisti. I
fratelli si erano trovati d’accordo: la porta dell’armeria
nascondeva senza dubbio una trappola. Ma Forgeaud
non disperava di riuscire a entrarci lo stesso senza farsi
prendere. Per intanto, era soddisfatto per il modo in cui
aveva cominciato a sabotare l’autoblinda, effettuando
delle saldature apparentemente solide ma in realtà
182 CHRISTIAN JACQ

fragilissime. A occhio nudo era impossibile scoprire il


trucco. Non restava che sperare.
— Se Guy riuscirà a portarci delle armi, potremo
passare all’offensiva — disse il compagno Raoul
Brissac.
— Prima di uscire dall’officina viene sottoposto a
un’accurata perquisizione — obiettò Dieter Eckart. —
Sarebbe una follia correre un tale rischio. Abbiamo già
perduto uno dei nostri fratelli.
— Moriremo tutti ugualmente, se restiamo qui
passivi come delle bestie condotte al macello! —
insorse Brissac.
— Non mi sembra opportuno che un compagno usi
questo tono parlando a un maestro — gli rispose
Eckart, in tono gelido.
Un silenzio pieno di tensione cadde all’interno
della baracca rossa. L’apprendista Serval e il compagno
Spinot evitarono di incrociare lo sguardo di Brissac, e
questi fece altrettanto.
— Non volevo essere aggressivo — si giustificò
infine, ancora immusonito. — Ma resto convinto che se
vogliamo sperare di cavarcela dobbiamo passare all’a-
zione. Cominciando a fare pagare a quella gentaglia la
morte di Pierre.
— Non spetta a te decidere, fratello.
E con ciò Dieter Eckart mise fine alla discussione.
Ma non si sentiva affatto tranquillo. L’assenza del Vene-
L'Architetto 183

rabile sarebbe presto diventata una difficoltà insormon-


tabile, una fonte di dissidi laceranti.
“Ho un bisogno disperato di loro” confessò a se
stesso il Venerabile, incapace di scrivere. Solo i visi dei
fratelli della sua Loggia gli avrebbero permesso di sfug-
gire al baratro che minacciava di inghiottirlo. “Ho
bisogno di loro, perché solo loro esistono veramente,
solo loro sono rinati alla vera luce della conoscenza,
alla vera vita.”
Come ogni sera, il Venerabile rammentò la fisio-
nomia di ognuno dei suoi fratelli, uno dopo l’altro. Prese
in esame le loro potenzialità nascoste, le loro debolezze,
i progressi compiuti da ciascuno nel proprio cammino
iniziatico, le cause dei loro successi e dei loro fallimenti.
Il merito dei successi andava solo a loro stessi, agli sforzi
che avevano compiuto. La responsabilità per i falli-
menti, invece, ricadeva su di lui. Non aveva saputo
comprenderli al momento giusto, rimetterli sulla giusta
via. Passava spesso lunghi momenti a meditare sulla
Loggia, trascurando il sonno, dimentico di se stesso.
Si passò la mano destra tra i capelli. Quale pesante
fardello era questa carica di Venerabile che i maestri
della Libera Muratoria trasmettevano da una genera-
zione all’altra fin dalla notte dei tempi. La responsabi-
lità che gravava sulle spalle del Venerabile superava di
gran lunga quella di qualsiasi re, imperatore, o presi-
dente della repubblica. Al termine della vita comunita-
ria, durante la quale era facile per un fratello trovare in
184 CHRISTIAN JACQ

ogni circostanza il sostegno morale di cui aveva biso-


gno, c’era quell’immensa solitudine, quel deserto
rovente che poteva attraversare solo chi aveva costituito
autonomamente un alimento sufficiente per sostentare
lo spirito in un mondo del tutto ignoto e privo di strade
battute. Guardando indietro, gli sembrava meraviglioso
il tempo in cui non era ancora Venerabile, quando
poteva ancora chiedere consiglio ai maestri, ai sorve-
glianti, al maestro della Loggia. Oggi, non c’era più
alcun intermediario tra lui e il Grande Architetto
dell’Universo. “Il Venerabile è il mediatore tra il cielo e
la terra” affermava la Regola. Che restava dell’individuo
François Branier, dei suoi desideri, dei suoi fantasmi,
delle sue ambizioni? Esistevano ancora, senza dubbio,
ma lontano da lui, in una sfera esterna alla sua
persona. Il ruolo di Venerabile aveva preso il soprav-
vento su qualsiasi altra connotazione. Non c’era né da
andarne fieri né da rammaricarsi. Era connaturato
all’impegno che aveva assunto. Un Venerabile non
apparteneva più a se stesso. Si era messo al servizio
della comunione iniziatica. E servire significava donare
tutto se stesso. François Branier non era né un mistico
né un romantico. Non aveva scelta, semplicemente, ed
era proprio in questa mancanza di scelta che risiedeva
la sua libertà. Non si curava più del proprio destino.
L’accettava interamente, ma senza fatalismo. L’avvenire
L'Architetto 185

della Loggia Conoscenza dipendeva, in gran parte,


dalla strada percorsa dal vascello di cui era diventato il
pilota.
A volte gli sarebbe piaciuto abbandonare la barra
del timone, rimettersi al giudizio di qualche fratello più
esperto, più competente. Malediceva le proprie insuffi-
cienze, la propria vanità e mediocrità, tanto più
evidenti a paragone del compito immenso che aveva di
fronte. Finché aveva potuto dedicarsi a proseguire
l’Opera, a sviluppare la sua Loggia, non aveva avuto il
tempo di ripiegarsi sulle proprie angosce. Ora però, in
quella fortezza, dove il tempo sembrava sospeso, le
medesime angosce riemergevano, come ombre
confuse. Che valore aveva la vita di un Venerabile sepa-
rato dai fratelli? Nessuno, senza dubbio. Come indivi-
duare il cammino verso la luce? Degradandosi ai propri
stessi occhi, indeboliva anche la Loggia. Ma non aveva
il diritto di ingannare se stesso, di prendersi per un
superuomo, di inventare delle ragioni per sperare. Solo
il continuo sviluppo della vita iniziatica faceva di lui un
Venerabile.
Più che mai, la Loggia gli chiedeva di esercitare la
sua funzione di Venerabile, anche se al momento gli
era impedito di farlo.
Il monaco aveva terminato il suo giro di visite
mattutino. Aveva lavato i malati troppo indeboliti per
badare a se stessi, sistemato i pagliericci, distribuito
medicamenti. Anzi, medicine vere e proprie. Perché la
186 CHRISTIAN JACQ

ragazza bionda in uniforme nazista era tornata, prima


dell’alba, per lasciargliene una scorta. Il monaco aveva
intravisto la sua sagoma. Aveva aperto trepidante il
pacchetto deposto sul pavimento dell’infermeria. Con
quel regalo avrebbe potuto tirare avanti ancora per
qualche giorno, riportare qualche vittoria sulla
sofferenza.
Da quanto tempo non usciva a raccogliere le piante
medicinali? Non lo sapeva più. Aveva perso il conto.
Brutto segno. Se continuava così, rischiava di abbando-
narsi alla rassegnazione, e sarebbe stata la peggiore
delle sconfitte.
Frate Benoît aveva l’abitudine di affrontare con
coraggio le proprie responsabilità. Nell’ultimo
convento dove aveva vissuto, quello di Saint-Wandrille,
in Normandia, si parlava di lui come prossimo abate,
funzione che esercitava già in maniera ufficiosa in
ragione dell’età avanzata del titolare. Quel ricordo non
lo riguardava più. Riviveva le sue passeggiate nell’im-
menso parco, le ore passate a meditare nella foresta, la
presenza divina, le gioie del lavoro manuale, il piacere
della lettura. Quello che gli mancava di più era il refet-
torio. Una sala romanica dell’XI secolo, dalle propor-
zioni così perfette da santificare già di per sé chi ci
entrava. Le tavole erano disposte a T. In fondo, il posto
riservato all’abate. Erano sempre apparecchiate, come
se degli esseri invisibili partecipassero a un banchetto,
mentre i monaci in carne e ossa si dedicavano alle loro
L'Architetto 187

incombenze quotidiane. Nel momento in cui Benoît


metteva piede nel refettorio, si sentiva trasportare in un
altro mondo, lontano dalle meschinerie e dalle
bassezze di quello reale. Tra quelle mura eterne c’era
qualcosa che valeva ancora di più della felicità: l’armo-
nia. Quando ogni monaco era seduto al suo posto,
provava una beatitudine capace di cancellare stan-
chezza, pensieri, dubbi. Mangiare insieme, bere
insieme, pensare insieme procurava ai monaci una luce
che restava a lungo nel cuore quando tornavano nella
solitudine delle loro celle.
Un segreto che il monaco credeva fosse noto solo ai
benedettini, prima di conoscere il Venerabile. Anche se
restava convinto che una Loggia Massonica non avesse
il minimo punto in comune con una comunità mona-
cale, frate Benoît era sbalordito di fronte alla spiritua-
lità di quell’uomo, a quel suo richiamarsi a una Regola
che sembrava considerare come il suo bene più
prezioso.
Un colpo di tosse squassò il vasto petto del monaco.
L’aria era troppo viziata, lì dentro, senza dubbio.
15

V
enerabile, non sono per nulla

— soddisfatto del suo lavoro.


Le narici dilatate, le labbra esan-
gui, gli occhi inquisitori, il comandante del lager
guardò François Branier come un professore infuriato
per la pessima prova fornita da uno dei suoi allievi.
Teneva tra le mani le pagine che il Venerabile aveva
riempito quel giorno con la sua grafia sottile, serrata,
regolare.
— Quello che ha letto è assolutamente esatto. Le do
la mia parola.
— Non stento a crederle, Venerabile. Lei è imbatti-
bile, quando si tratta di rivelare particolari senza
importanza.
— Le pare senza importanza il tracciato, il
programma di lavoro che l’apprendista presenta alla
L'Architetto 189

sua Loggia? Il significato simbolico del maglietto e


dello scalpello, del pavimento a mosaico? Le ho indi-
cato gli elementi essenziali della nostra vita iniziatica.
Il comandante passò i fogli al suo aiutante di campo
che si affrettò a sistemarli dentro un classificatore.
— Lei non parla che di iniziazione, di simbolismi,
di ricerca spirituale… tutta roba inservibile. Non è
questo che le avevo chiesto.
— Non so fare nient’altro.
In piedi davanti alla scrivania del comandante,
François Branier ostentava una calma assoluta. Il
tedesco mentiva. Non poteva non essere interessato
all’esoterismo e alla ricerca iniziatica. Sapeva che tutto
questo era parte integrante della Regola. Era stato inca-
ricato dai suoi superiori di indagare su questa materia.
Si era infuriato solo perché si era scontrato con un osta-
colo imprevisto: il fattore tempo. Pensava che potesse
giocare a suo vantaggio, e invece aveva verificato il
contrario. Non solo, ma sembrava di giorno in giorno
più impaziente di arrivare all’essenziale, al segreto
della Loggia, alle sue applicazioni pratiche.
Perché tanta fretta? Perché il tempo si rivelava ora
per lui un fattore di debolezza, invece che di forza?
Forse i tedeschi temevano improvvisamente di perdere
la guerra? La fortezza poteva essere espugnata da un
momento all’altro da qualcuno venuto a liberare i
prigionieri? Una nuova speranza si fece strada nel suo
animo. Se quell’ipotesi era esatta, il Venerabile poteva
190 CHRISTIAN JACQ

perfino pensare di vincere la partita. Sempre che non lo


avessero fatto fuori prima, ovviamente… Se il coman-
dante era davvero alle strette, era logico attendersi che
facesse ricorso a metodi più brutali per raggiungere i
suoi scopi.
— La Regola! Non sa parlare d’altro! Comincio a
pensare che sia una maschera per occultare il vostro
vero segreto. I vostri simboli non mi interessano, Vene-
rabile. Sono solo cortine fumogene.
— Sa bene che non è vero.
François Branier aveva risposto con tono vibrante,
autorevole, come quando, durante una tenuta, correg-
geva o contestava un intervento sbagliato. Il coman-
dante sussultò, sorpreso.
Il Venerabile l’aveva provocato di proposito, per
cercare di verificare la fondatezza della sua ipotesi.
Negli occhi del tedesco passò un lampo, ma reagì in
modo misurato. Prese una sigaretta da uno cofanetto di
madreperla. Il suo aiutante di campo si avvicinò per
accendergliela.
— Parleremo di conoscenze esoteriche e di simboli
al momento opportuno, molto più tardi, quando avrò
ottenuto qualche risultato. Questo sarà l’antipasto,
Venerabile. Il piatto forte è l’organizzazione segreta
della sua Loggia e la rete che essa ha intessuto attra-
verso l’Europa. Ripartiamo dal dossier che la riguarda.
Che ne dice di parlare dei suoi viaggi?
Il Venerabile credette di discernere una vaga aria
L'Architetto 191

divertita nell’espressione di norma scialba di Helmut,


l’aiutante di campo.
— Mi sono mosso molto, in effetti, nel quadro delle
mie attività professionali. Quando è scoppiata la guerra
è stata
creata un’organizzazione internazionale di medici
combattenti, e…
— Lasci perdere — tagliò corto il comandante. — E
io dovrei crederci? Lei ha utilizzato l’organizzazione
come copertura per una missione segreta. È di questo
che parleremo, cominciando da Berlino, all’indomani
della dichiarazione di guerra. Lei ha viaggiato sotto il
nome di Hans Brunner, cardiologo. È lei la persona
ritratta su questa foto, vero?
L’aiutante di campo mostrò al Venerabile un
ingrandimento fotografico. Si vedeva l’interno di un
ristorante pieno di fumo con numerosi ufficiali nazisti e
qualche civile. A un tavolo, François Branier e due
uomini anziani dai capelli bianchi.
— Perché negare l’evidenza?
— Eccellente risposta, Venerabile. Chi sono questi
due uomini? Perché lei ha assunto una falsa identità?
Perché si è recato a Berlino proprio in quei giorni?
— Sono due colleghi che volevo aiutare a lasciare la
Germania.
— Certo, certo… — sogghignò il comandante. —
Ma quei suoi colleghi, che erano effettivamente due
medici, erano anche membri di due Logge berlinesi
192 CHRISTIAN JACQ

che erano state smantellate qualche mese prima. Quei


due massoni, venerabili di grande esperienza, erano
riusciti a passare tra le maglie della rete che avevamo
apprestato, nascondendosi addirittura tra i quadri del
partito! Li abbiamo infine arrestati qualche settimana
dopo la sua visita. Sono morti senza rivelare altro che
delle sciocchezze. Qual è stato il tenore delle sue
discussioni con loro, dottor Branier?
Il Venerabile era stato informato della morte di quei
due fratelli. Facevano parte di quelli che conoscevano il
Numero, la Regola segreta della massoneria. Quel
giorno, nel momento in cui il nazismo si apprestava a
invadere l’Europa, gli avevano indicato l’itinerario da
percorrere per ricostituire e preservare l’esistenza di
almeno una Loggia capace di trasmettere nella sua
integralità il senso ultimo dell’iniziazione. Branier
aveva corso rischi enormi per incontrare quei suoi
fratelli tedeschi, che rifiutavano di lasciare il loro paese
e di abbandonare altri massoni che potevano ancora
essere aiutati.
— Abbiamo fatto il punto sulle Logge francesi e
tedesche appartenenti al Rito Scozzese Antico e Accet-
tato. I massoni
si erano infine resi conto della gravità della situa-
zione. Abbiamo considerato…
— La smetta di menare il can per l’aia! — urlò il
comandante, battendo il pugno sul tavolo. — Quegli
uomini erano dei sobillatori. Hanno lottato contro il
L'Architetto 193

Reich, hanno negato la verità insegnata dal Führer. Le


hanno affidato la missione di combattere contro il
pensiero nazista, di trasformare la massoneria in una
rete clandestina di sabotatori e di sovversivi! Questa è
la verità. Lei è il capo occulto di uno dei più agguerriti
movimenti di resistenza contro l’ordine nuovo. Lei
utilizza armi e uomini che noi dobbiamo distruggere.
La sua Loggia è l’ultimo fortilizio dell’oscurantismo.
Il comandante spense la sigaretta schiacciandola
dentro il portacenere. Il Venerabile constatò compia-
ciuto il suo evidente nervosismo. La retorica pomposa
con cui si era espresso indicava che cercava di rassicu-
rarsi e di galvanizzarsi.
— Come potrebbe essere agguerrita una piccola
Loggia come la Conoscenza? — ribatté il Venerabile. —
Anche i suoi ultimi membri sono vostri prigionieri.
Quel poco di potere di cui potevamo disporre è ora
nelle sue mani.
—Analisi superficiale. Un certo numero di fratelli
iniziati da lei sono ancora in libertà in differenti paesi.
Lei ha creato dei nuclei di aderenti al fronte della Resi-
stenza. Devono essere annientati. Oggi, in Germania,
non resta più in piedi una sola Loggia. Non ce ne
saranno mai più. Deve essere lo stesso ovunque.
Il comandante si calmò. Riprese in mano il dossier.
— Dopo Berlino, lei è andato a Roma e a Bologna,
usando un’altra identità di copertura, quella del dottor
Renato Sciuzzi, membro influente del partito fascista.
194 CHRISTIAN JACQ

Ha preso contatto con un ingegnere a Roma, nel corso


di una cerimonia dove venivano distribuite delle deco-
razioni, e con un ebanista a Bologna, durante le feste di
Pasqua. Sempre lo stesso metodo: nascondersi in
mezzo alla folla, nel corso di qualche manifestazione
ufficiale, sfidare il pericolo mostrandosi in pubblico
con dei sovversivi… Una tattica superba, dottor Branier.
Ha trascurato un solo dettaglio: le macchine fotografi-
che. Le tracce che ha lasciato dietro di sé, in una serie
di foto pubblicate da vari giornali, erano tanto evidenti
da rischiare paradossalmente di passare inosservate.
Nessuno le aveva notate, infatti. Nessuno tranne me. È
da un anno che seguo tutte le sue mosse. Ho analizzato
tutte le immagini in cui lei compariva, e ho scoperto
che era ritratto spessissimo accanto a sovversivi. Allora,
che ci faceva in Italia, dottor Branier?
Il Venerabile si rammentò dei momenti drammatici
che aveva trascorso durante quel periodo in un’Italia
solare, calda, radiosa. Roma l’appassionata, Bologna la
segreta, e l’impressione che aveva avuto di un paese
sostanzialmente alla deriva, in preda a un’ubriacatura
di violenza. Una tappa molto frustrante del lungo giro
di ricognizione di François Branier attraverso l’Europa.
Anche lì i massoni erano in ansia, ma non credevano
ancora che si sarebbe arrivati al peggio. Speravano che
il Duce avrebbe permesso a una certa fascia della
massoneria di sopravvivere e non avevano preso alcuna
precauzione particolare per proteggere i loro archivi, se
L'Architetto 195

non quella di trasferirli a Bologna, per l’appunto, dove


François Branier aveva consultato i documenti disponi-
bili sulla Regola. Poco tempo dopo il suo viaggio in
Italia, quei preziosi documenti erano andati distrutti, e
alcuni massoni giudicati pericolosi per la sicurezza
dello stato erano stati messi a morte con procedura
sommaria.
— Ho rivisto dei fratelli che avevo conosciuto in
precedenza a Parigi. Ho tentato di indurli a prendere
coscienza della tragedia che incombeva su di loro. Ma
non c’è stato niente da fare. Le nostre conversazioni
furono del tutto inconcludenti.
— A Roma, può darsi… Ma perché Bologna, se non
per incontrare una cellula clandestina?
L’aiutante di campo trascriveva intanto con mecca-
nica regolarità quello che di essenziale dicevano i due
interlocutori. Più tardi, di notte, il comandante rileg-
geva quelle note per trovare i punti deboli del Venera-
bile, o qualche indicazione utile che si fosse lasciato
sfuggire inavvertitamente.
— Non esistono cellule di questo tipo tra gli iniziati
della massoneria. Esistono solo le Logge. Non abbiamo
niente a che fare con i comunisti. A Bologna, non c’era
nemmeno più una Loggia. Solo il più grande storico
della nostra confraternita.
Il comandante del lager tirò fuori una foto da un
fascicolo posato sulla sua scrivania.
— Era questo?
196 CHRISTIAN JACQ

Il bel viso di un uomo sulla sessantina, con i capelli


e i sottili baffi argentei, e un paio di pesanti occhiali di
tartaruga inforcati sul naso.
— È lui, sì — rispose il Venerabile.
— È morto due giorni dopo la sua visita e poche ore
prima della nostra perquisizione. Curiosa coincidenza.
A casa sua abbiamo trovato tavole rituali, medaglie,
emblemi… ma non un solo documento sulla vostra
organizzazione sovversiva. Il mio sospetto è che sia
stato proprio lei a eliminarlo, prima del nostro arrivo,
perché il professore si era rifiutato di seguirla e minac-
ciava di tradire.
Il Venerabile non si scompose minimamente. Era
costretto a restare in piedi, ma non si sentiva affatto
stanco.
— Lei conosce i nostri riti. Il massone che viene
meno al giuramento ha la gola squarciata. Si condanna
da sé. Non c’è bisogno di metterlo a morte.
— Vuol dire che si è suicidato?
— Non voglio dire niente. È morto e basta.
— Vuole farmi credere che la sua visita a Bologna è
stata inutile?
— Niente affatto. Ho appreso un antichissimo
rituale d’iniziazione al grado di compagno fondato sui
poliedri, i corpi platonici e il pitagorismo. Grazie a esso,
la Loggia Conoscenza spera di potere ritrovare il suo
grado di purezza originaria.
L'Architetto 197

Spazientito, il comandante si accese un’altra


sigaretta.
— Nessun contatto con gli antifascisti?
— Sarebbe stato difficile durante un soggiorno così
breve… e io non ho mai appartenuto all’ala più politi-
cizzata della massoneria. Anche i miei peggiori nemici
glielo potrebbero confermare.
Il tedesco voltò un’altra pagina del suo dossier.
— Durante il ‘40 e il ‘41, ha fatto perdere sovente le
sue tracce. Non ho alcuna prova formale di un viaggio
all’estero. Non ha mai lasciato la Francia?
— Ho girato per tutto il paese, visitando più di
cinquecento cittadine diverse. Non dormivo mai due
notti di seguito nello stesso letto.
Il comandante era meno teso, adesso. Tirò una
lunga boccata dalla sigaretta.
— Lo credo bene… Era impegnato a tessere la sua
rete terroristica a partire dalle Logge massoniche di cui
lei era diventato il capo occulto.
— Non esattamente… Lo facevo per incontrare i
fratelli desiderosi di salvaguardare la loro iniziazione in
questo periodo così difficile. Speravo di trovarne almeno
un centinaio, sparsi per tutta la Francia. Ma i fratelli erano
tutti atterriti e hanno deluso le mie speranze. Temevano
di essere denunciati. Mi hanno preso per un agente
provocatore. Peggio ancora, il termine iniziazione e la loro
vocazione massonica non significavano più nulla per loro.
198 CHRISTIAN JACQ

La guerra aveva fatto piazza pulita del loro umanesimo di


facciata. Allora ho capito che la massoneria era morta.
Solo pochissime Logge meritavano di essere salvate. Solo
attraverso di esse la vita iniziatica poteva rinascere.
Il Venerabile aveva evitato di dire “una sola Loggia”.
Sarebbe stato come confessare che la Loggia Cono-
scenza era stata scelta come depositaria del segreto. Al
momento, nulla era più importante che alimentare il
dubbio nell’animo del comandante. La verità era
talmente semplice, disarmante… che le SS non avreb-
bero mai potuto crederci.
— Lei avrebbe girato disperatamente in lungo e in
largo per non ottenere niente? Vuole darmi a bere che
il suo scopo riguardava solo la vita iniziatica?
— Non si potrebbe dire meglio di così.
— Lei mi sottovaluta, Venerabile. Lei è un agente di
collegamento ideale per la Resistenza. Il suo giro attra-
verso tutta la Francia coincide con una serie di atten-
tati, di sabotaggi, di uccisioni a tradimento di ufficiali
tedeschi… Sarebbe solo un caso, secondo lei?
— Certamente. Non mi intendo di queste cose. Se
mai provassi a maneggiare dell’esplosivo ci lascerei
senz’altro le penne.
Il comandante sogghignò.
— Non mi sorprende… Lei si limita ad animare, a
dirigere… Gli esecutori materiali sono altri. La Resi-
stenza è una faccenda ridicola. È piena di nostri infil-
trati. Per giunta, i francesi hanno davvero un debole per
L'Architetto 199

la delazione! Solo la rete messa in piedi da lei è riuscita


finora a sfuggirci. Non posso accettarlo.
— Non posso offrirle che la mia Loggia.
— Non ha nient’altro da rivelare sull’attività sovver-
siva della massoneria?
— Non avete niente da temere sotto questo aspetto.
Il comandante rimase silenzioso per un pezzo,
impassibile. Voltò un’altra pagina del dossier.
— Da gennaio a marzo del ‘42, in Inghilterra… Non
da solo, stavolta. Insieme a lei c’era Dieter Eckart.
Sempre per motivi… spirituali?
Con la punta del suo tagliacarte, impugnato come
un pugnale, il comandante tracciò delle figure sul
sottomano della scrivania.
— Sicuro. Eravamo stati incaricati di prendere
contatto con la Gran Loggia d’Inghilterra per riferire
sulla situazione. In Francia, ero stato già deluso per l’at-
teggiamento rinunciatario dei fratelli. In Inghilterra, mi
sono cadute completamente le braccia, davanti alla loro
insondabile imbecillità. Ho trovato solo un’infinità di
arredi sfarzosi, di medaglie, di notabili ingolfati nei loro
regolamenti del diciannovesimo secolo, che non hanno
più niente a che vedere con le loro fonti originali. Vere
e proprie mummie. Circoli di mummie. Dieter Eckart
era sbalordito. Non abbiamo avuto più di una decina di
incontri con quella gente che pretende di dirigere la
massoneria e ne ha fatto invece solo un guscio vuoto.
Il comandante fu colpito. Si chiese se il Venerabile
200 CHRISTIAN JACQ

non dicesse per caso la verità, tanto quel discorso era


inatteso, nella sua crudezza. E se invece di essere il
capo occulto di una rete di uomini dotati di poteri temi-
bili, fosse stato davvero una specie di dinosauro, uno
degli ultimi iniziati? No, doveva essere un’astuzia raffi-
nata. Farsi passare per uno che contava meno che
niente, un bravo e leale spiritualista, apolitico, staccato
dai problemi del suo tempo. L’atteggiamento del Vene-
rabile, la sua bonomia velata di autorità, la sua serenità,
avrebbero ingannato chiunque! Ma non uno dei
massimi responsabili dell’Aneherbe, incaricato di
impadronirsi dei poteri occulti delle società segrete e di
metterli al servizio del Reich. Non ricordava nemmeno
più quanto tempo aveva consacrato a quella ricerca, per
arrivare infine al centro della ragnatela. Per arrivare a
François Branier, uomo pericoloso quanto altri mai.
— Il suo soggiorno britannico si sarebbe dunque
risolto in un nuovo scacco? Non è riuscito a organizzare
la minima base terroristica?
— Non ho concluso nulla.
— Ha forse avuto più fortuna in Scozia, dove si è
recato nella primavera del ‘42 e da cui è ripartito solo
alla fine dell’estate?
— Non proprio — rispose il Venerabile. — Non
avevo più alcuna illusione, a quel punto. Ma desideravo
recarmi a Kilwinning, dove è nata la forma medievale
del Rito Scozzese Antico e Accettato. Una specie di
pellegrinaggio. Un modo per recuperare le forze.
L'Architetto 201

François Branier omise di dire che la quasi totalità


dei fratelli della Loggia Conoscenza si era recata a
Kilwinning per celebrare una tenuta eccezionale, per
rigenerarsi alla fonte stessa del loro rito.
Il comandante del lager voltò meccanicamente una
trentina di altre pagine del dossier, che comprendevano
anche delle foto e dei ritagli di giornale.
— Inutile, immagino, chiederle ancora degli altri
suoi viaggi in Spagna, Grecia, Belgio, Olanda, Norve-
gia… La risposta sarebbe sempre la stessa! Nessuna atti-
vità rivoluzionaria, niente manovre sovversive, nessuna
organizzazione terroristica! Stava solo cercando di
radunare i fratelli dispersi e di recuperare i valori
originari!
— Proprio così — confermò il Venerabile. — Voglio
precisare però che non ho mai cercato di convertire
nessuno. Gli iniziati sono dei costruttori e dei testi-
moni, né più né meno.
Il comandante si irrigidì.
— Dottor Branier… non penserà davvero di potermi
convincere? Non sarà così ingenuo da credere che io
possa bere simili fandonie? Come il suo alibi della
professione medica! Lei non ha incontrato solo dei
medici durante i suoi viaggi. Ho studiato molto attenta-
mente i luoghi dove ha soggiornato e le personalità con
cui ha preso contatto. Molti studiosi di fisica, indu-
striali, specialisti di tecnologie avanzate. In ogni paese,
lei ha visitato almeno una fabbrica e un laboratorio di
202 CHRISTIAN JACQ

ricerca. Ora che ho conosciuto i membri della sua


Loggia ne comprendo il motivo.
Il Venerabile fece appello a tutta la sua capacità di
concentrazione per non piegarsi all’attacco decisivo che
il comandante si preparava a sferzare.
— Pierre Laniel — spiegò il tedesco — era un indu-
striale, grande esperto di problemi di metallurgia. Il
professor
Eckart è uno dei primi specialisti mondiali nel
campo della storia della tecnica. Società francesi e
tedesche volevano avvalersi della sua consulenza.
André Spinot non fabbrica solo occhiali. Per diletto, ha
studiato in modo approfondito i sistemi di propulsione.
Ha depositato numerosi brevetti, alcuni dei quali sono
stati acquistati da organismi ufficiali. Quanto a Raoul
Brissac, la sua specialità è la resistenza dei materiali. La
sua esperienza di compagno gli ha insegnato dei
trucchi del mestiere che nessun ingegnere è in grado di
conoscere. Jean Serval è il figlio di uno dei più grandi
fisici francesi. La sua tesi di laurea trattava della propa-
gazione delle onde elettromagnetiche. La letteratura
non è che un alibi. Anche Guy Forgeaud, il vostro
meccanico, cela la sua competenza dietro l’apparenza
di un onesto lavoratore manuale. Insomma, formano
un tutto coerente di cui lei è la guida. Una squadra che
ha ricevuto l’ordine di concepire e fabbricare un’arma
ultramoderna per vincere la guerra contro la Germa-
nia. Che genere di arma, Branier?
L'Architetto 203

Il comandante giudicò a questo punto di avere


incrinato le ultime difese del Venerabile. Ma quest’ul-
timo restò inerte, assente.
— Non so proprio di che cosa stia parlando… A
parte la medicina, la mia cultura scientifica è molto
limitata.
Il tono del tedesco divenne minaccioso.
— Forse non ci siamo capiti bene! La sua astuzia
suprema è quella di occupare il proscenio, lei che non è
un tecnico né uno scienziato, in modo da stornare i
sospetti. In realtà, lei si serve della massoneria per
coprire una squadra di sabotatori. Pensava che nessuno
sarebbe stato capace di smascherarla. Ma il Führer ha
saggiamente ordinato di smantellare le società segrete.
Da loro non possono venire che guai.
Il Venerabile fece un passo verso la scrivania. Il
comandante aprì la bocca, sorpreso. L’aiutante di
campo puntò nervosamente la sua rivoltella contro il
prigioniero.
— Non ho mai sentito tante stupidaggini tutte
insieme — disse il Venerabile, in preda a una collera
fredda.
— Lei finirà per parlare. Lei e i suoi complici.
— Non c’è che la Loggia, la Regola e l’iniziazione.
Nient’altro.
— La sua posizione sarà ben presto insostenibile,
dottor Branier. Come quella del suo compagno
Forgeaud.
204 CHRISTIAN JACQ

— Che cosa gli è successo?


Il Venerabile assunse anche lui un tono minaccioso,
come se potesse davvero fare qualcosa contro il suo
avversario. Il comandante abbozzò un sorriso malevolo.
Come lei sa, l’ho sistemato nel suo elemento natu-
rale. Un’officina meccanica. Sapremo presto se non è
altro che un modesto operaio, come lei sostiene.
16

C
on tutto il rispetto, Venerabile, lei mi

— sembra messo piuttosto male.


Il monaco osservò il Venerabile,
che appariva chiaramente prostrato. Non aveva ancora
pronunciato nemmeno mezza parola dopo che le SS
l’avevano ricondotto nell’infermeria. Il monaco l’aveva
lasciato stare per un po’, senza nemmeno chiedergli di
occuparsi dei malati. Ma quella situazione non poteva
andare avanti in eterno. Il monaco non tollerava di
vedere intorno a sé gente sconfortata.
— Mi piacerebbe sapere perché…
Il tono del monaco era incalzante. Il Venerabile alzò
gli occhi verso di lui.
— Vogliono ammazzare uno dei fratelli.
— Chi?
206 CHRISTIAN JACQ

— Guy Forgeaud, il meccanico. Il comandante l’ha


mandato nell’officina.
— Che cos’ha in mente?
— Gli vuole tendere una trappola. Non so quale sia,
esattamente. Mi aiuti.
Il monaco si lisciò la barba, con aria pensosa e
preoccupata.
— Io? E come?
Il Venerabile fissò il monaco con un’intensità che lo
fece quasi rabbrividire.
— La ragazza bionda… sono convinto che voi due
abbiate organizzato una rete di solidarietà all’interno
del lager. Anche se è rischioso, cerchi di usarla per
mettere in guardia
Forgeaud. Bisogna avvertirlo di restare tranquillo e
di fare la parte del meccanico ignorante.
Il monaco tossì ripetutamente.
— Ha preso freddo?
— No. Una vecchia bronchite che si è risvegliata.
Non capisco. Perché Forgeaud deve fare finta di essere
un meccanico ignorante?
— A suo modo, è un genio della meccanica. Qual-
siasi congegno si trovi davanti, anche se non l’ha mai
visto prima, lui è in grado di smontarlo e rimontarlo a
piacere, e di capire come funziona. Il comandante è
convinto che sia addirittura un ingegnere provetto sotto
mentite spoglie.
— E non lo è?
L'Architetto 207

— Certo che no.


— E lei? Che cosa pensa di lei il comandante?
— Crede che sia a capo di una rete terroristica che
si nasconde dietro le spoglie della massoneria.
— Non sarebbe una cattiva idea, in effetti —
commentò il monaco.
Il Venerabile aveva ritenuto che fosse meglio dire la
verità. Se il monaco fosse andato a riferire quel loro
colloquio al comandante, questi avrebbe dovuto rico-
noscere che Branier era stato sincero, riguardo alle
effettive capacità dei suoi fratelli. Certo, aveva esitato,
prima di parlare. Ma non c’era che un modo per salvare
Forgeaud: servirsi del monaco, sia pure dicendogli solo
il minimo indispensabile. Tentare di risvegliare la sua
curiosità, e spingerlo così a trasmettere un messaggio
per Forgeaud. Un’astuzia forse misera e arrischiata, con
ben poche possibilità di riuscita. Ma che altro poteva
fare?
— Lei ha la statura per organizzare un colpo del
genere — commentò il monaco. — La vostra masso-
neria è solo fumo negli occhi. Per ingannare i gonzi. Ma
lei e la sua squadra, invece… un commando di specia-
listi come quello che lei dirige… mi piacerebbe farne
parte.
— Non c’è nessun commando di specialisti! —
ruggì il Venerabile, esasperato. — C’è solo una Loggia,
caduta nelle mani di una banda di pazzi criminali!
Il monaco si grattò una guancia, crucciato.
208 CHRISTIAN JACQ

— Lei non si fida di me, Venerabile. Forse crede


davvero che abbia stipulato qualche accordo sotto-
banco con i nazisti.
François Branier rimase silenzioso. Il monaco
poteva pensare quello che voleva. Fin tanto che quel
dubbio sussisteva, non sapeva come regolarsi.
— Che messaggio vorrebbe fare arrivare a
Forgeaud?
— Non deve toccare niente, in quell’officina —
rispose il Venerabile.
Guy Forgeaud si era abituato al cerimoniale. Le SS
venivano a prelevarlo ogni mattina all’alba per portarlo
nell’officina. Ogni mattina si separava dai suoi fratelli
con un abbraccio ideale.
Quando la porta dell’officina fu chiusa dall’esterno,
Guy Forgeaud non prestò molta attenzione alla cosa. Il
suo sguardo fu attirato da un oggetto affusolato colore
grigio acciaio appoggiato su dei trespoli. Un cilindro
metallico, una specie di turbina miniaturizzata, prov-
vista di alette stabilizzatrici, simile a un razzo futurista.
La curiosità del meccanico si risvegliò all’istante.
Credeva di avere visto i motori e i propulsori più strava-
ganti, ma quel coso… Girò attorno al congegno con
rispetto, notando che era ammaccato in più punti. Una
voglia incontenibile di smontarlo si impadronì di lui.
Vedere che razza di mostro nascondeva nella pancia
divenne una necessità imperiosa. Forgeaud posò il
L'Architetto 209

palmo della mano destra sul metallo gelido, come per


carezzarlo.
Ebbe un ripensamento. E se quella macchina celava
una trappola? Qualcosa che poteva saltare per aria al
semplice contatto? Forse i nazisti avevano deciso di
beffarlo usando un congegno meccanico per dargli la
morte.
Soffocò la paura. E il desidero si ridestò. Smontare
quell’aggeggio pezzo per pezzo, capire come era fatto.
Se saltava in aria, tanto peggio. Prima di cominciare,
Forgeaud diede un’occhiata nel cortile dalla solita
fessura. Una boccata di libertà. Una evasione virtuale.
Si attardò ancora un po’ a guardare fuori, arrampicato
in cima all’impalcatura.
Un “clic” sommesso, quasi impercettibile. La porta
dell’officina si aprì. Raggelato dalla sorpresa, Forgeaud
non ebbe il tempo di scendere dal suo posto di osserva-
zione. Era in trappola. La prima uniforme nazista entrò.
Il maestro massone era ormai pronto a battersi. Saltò a
terra e si trovò faccia a faccia con una ragazza bionda.
— Non tocchi quel motore — disse lei in un fran-
cese stentato.
Poi gli girò le spalle e uscì dall’officina. La porta si
richiuse dietro di lei. Forgeaud sentì scorrere di nuovo
il chiavistello.
Il monaco dormiva della grossa, spossato dalla sua
giornata di lavoro. Due decessi. Aveva deposto i cada-
210 CHRISTIAN JACQ

veri sulla soglia dell’infermeria, con i piedi in avanti. Le


SS li avevano portati via poco prima che facesse notte.
Quanto al Venerabile, invece, aveva passato quella
stessa giornata nella stanzetta della torre che gli era
stata assegnata come ufficio. Non gli avevano dato né
da bere né da mangiare. Gli avevano tolto carta e
penna. Le sue confessioni non sembravano avere più
alcun interesse per il comandante. François Branier
aveva dormito a tratti come un gatto, sempre sul chi
vive, svegliandosi al minimo rumore. Un sonno agitato,
che non l’aveva ristorato minimamente. La sensazione
di solitudine era assoluta, dolorosa. Fece il vuoto nei
suoi pensieri, riducendosi a una specie di vegetale, uno
stato primitivo da cui erano banditi ricordi e desideri.
Quando i soldati delle SS lo spinsero dentro l’infer-
meria, il sole era tramontato già da parecchio. Mentre
attraversava il cortile, il Venerabile aveva captato
nell’aria un profumo di fiori primaverili. Intorno alla
fortezza, l’inverno stava abbandonando il suo assedio.
Rientrando nella baracca, tuttavia, il suo olfatto fu
subito riassalito dal tanfo di morte, malattia, sofferenza.
Si sforzò di non svegliare il monaco. Stava per stendersi
sul giaciglio quando un richiamo venne dal fondo
dell’infermeria. La voce rauca del vecchio astrologo.
Si era messo a sedere, con il busto eretto. Stringeva
la coperta con rabbia, come se fosse l’ultimo suo
legame con la vita. François Branier lo prese per i polsi.
Sorpreso, il vegliardo rimase a bocca aperta.
L'Architetto 211

— Chi sei? — mormorò, in preda al panico.


— Il dottor Branier. Voglio curarla. Si calmi.
L’astrologo tentò di alzarsi. Il Venerabile lo
trattenne.
— Voglio andarmene. Voglio tornare a casa mia.
— Quando sarà guarito. Adesso è troppo debole per
affrontare un viaggio.
Il malato alzò gli occhi verso il soffitto, come se
avesse sentito una voce che veniva dal cielo.
— È bello a casa mia, a Nizza. C’è il sole, tanto
sole… e i fiori… lo sa, sì, come fanno l’amore, i
fiori? Aspettano che il sole scacci le tenebre, poi si
schiudono, un petalo alla volta, per non perdere
nemmeno un raggio di luce. Lo zodiaco è come un
fiore. Si schiude anch’esso, alla luce della cono-
scenza. Io ho visto l’avvenire. Ho visto un grande
incendio. Moriremo tutti. Bruceremo, finiremo
come dei vecchi tronchi divorati dal fuoco e
mangiati dai vermi. So anche la data e l’ora. Io solo
le conosco.
Mise in quelle sue parole una passione, un’emo-
zione tale, che il Venerabile non poté fare a meno di
restare vivamente suggestionato.
— Perché solo lei?
L’astrologo sorrise. Finalmente gli facevano una
domanda sensata.
— Perché io sono il solo che abbia previsto che
sarebbe scoppiata questa guerra… e anche la sua fine.
212 CHRISTIAN JACQ

Ma nessuno di noi potrà vederla. Solo un gran fuoco,


una palla di fuoco nel cielo.
François Branier prese l’astrologo per le spalle e lo
obbligò a girarsi verso di lui.
— Quando? Quando finirà quest’incubo?
L’astrologo trattenne il fiato.
— Un fuoco, un grande braciere, presto… questo
mondo sarà spazzato via.
— Presto? Che cosa significa presto?
— Secondo gli astri, tra circa un mese… Loro non
hanno la medesima concezione del tempo che
abbiamo noi.
Un pazzo. Un povero pazzo. Per un istante, il Vene-
rabile aveva creduto che il vecchio fosse davvero un
veggente, capace di predire il futuro. Ma non faceva che
divagare, seguire le strade senza sbocco della sua follia.
Improvvisamente, il vecchio stese le mani e gli
strinse il collo. Il Venerabile si mostrò indulgente e lo
lasciò fare.
— Non ne hai il diritto! Non hai il diritto di distrug-
gere questo mondo, anche se è marcio… Giurami che
non appiccherai il fuoco, anche tu!
— Si calmi — disse il Venerabile, sentendo le
unghie del vecchio che gli artigliavano la carne, strin-
gendo sempre di più.
— Allora… Sei tu, l’incendiario? Quello che vuole
mettere a ferro e a fuoco tutto il mondo?
Quel poco di vita che restava nel corpo smunto del
L'Architetto 213

vecchio malato parve concentrarsi nell’estremità delle


sue dita. François Branier comprese che il vecchio
aveva deciso sul serio di ucciderlo. Per eliminare il peri-
colo. Per allontanare come poteva la sventura da lui
stesso annunciata. Il Venerabile faticava ormai a respi-
rare. Le mani dell’astrologo si tesero in un ultimo
sforzo.
Il Venerabile reagì sferrando un pugno in pancia
all’astrologo. Ma quello non mollò la presa. Anzi, il
colpo, non abbastanza deciso, parve aizzarlo maggior-
mente. Un po’ di sangue cominciò a colare sul collo di
François Branier, che respinse infine il suo aggressore
con uno spintone.
L’astrologo ricadde sul suo giaciglio, rantolando
sommessamente. Poi chiuse gli occhi. Il Venerabile
appoggiò l’orecchio destro sul petto del vecchio. Il suo
cuore aveva cessato di battere.
Quando il Venerabile si svegliò, il sole brillava alto
nel cielo. Un raggio di luce filtrava sotto la porta dell’in-
fermeria.
— L’ho lasciata dormire — disse il monaco. — La
fortezza sembra priva di vita, stamattina. C’è qualcosa
di strano. Non hanno nemmeno preso il cadavere che
ho deposto sulla soglia.
— L’astrologo?
— No. Uno più giovane. Un veggente.
— Anche l’astrologo è morto.
Il monaco parve stupito.
214 CHRISTIAN JACQ

— Gli ho dato da mangiare meno di un’ora fa.


Il Venerabile si alzò e si diresse verso il fondo della
baracca. Steso sul suo giaciglio, il vegliardo rantolava in
maniera quasi impercettibile. François Branier rimase
ad ascoltare per un po’ quel soffio d’oltretomba che
sembrava sul punto di interrompersi da un momento
all’altro, ma che invece continuava, incessante.
Tornò allora nello stanzino, dove il monaco stava
preparando un decotto.
— Ieri sera il suo cuore aveva cessato di battere.
— Succedono i miracoli, Venerabile. Anche qui
dentro. A che punto è con il comandante?
— Calma piatta. Le mie rivelazioni non lo interes-
sano più.
— Si sbaglia. È una tattica come un’altra. Le prova
tutte. Vuole il
suo segreto. È la sua ragione di vita. Ha quasi tutti
gli assi in mano.
— Perché quasi?
— Perché ha preso una cantonata… Il segreto è uno
e uno solo. La conoscenza di Dio.
— Troppo mistico, padre. Non dimentichi che
dirigo una cellula terroristica incaricata di mettere a
punto la nuova arma segreta che abbatterà la
Germania.
Frate Benoit scrollò le spalle.
— Magari fosse vero. Ma sarebbe troppo bello se
dei massoni avessero avuto un’idea così geniale. Lei è
L'Architetto 215

un vero frammassone. Crede nel valore della vita


iniziatica. Ma io temo che la sua Loggia non sia altro
che un’adunata di brave persone finite su una cattiva
strada.
Il Venerabile scrollò le spalle e fissò il pavimento.
Aveva sentito mille volte simili discorsi. Il monaco era
troppo intelligente, doveva averlo fatto con uno scopo.
Predicava il falso per conoscere il vero. Voleva spingerlo
a scoprirsi, come un giocatore di scacchi che commetta
un errore apparente.
— E quale sarebbe la strada giusta? — chiese il
Venerabile.
— Il suo Grande Architetto l’ha abbandonata.
Logico. La strada giusta è Dio. È la porta, la verità, la
vita. Tutto quello che non passa attraverso di lui è
condannato a morire.
— Ecco che salta di nuovo fuori la sua intolleranza,
padre. Chi non accetta di convertirsi viene scomuni-
cato. Io non sono altro che un testimone. Testimone
della luce.
— Che può saperne, lei, della luce divina?
— Almeno quanto lei, e anzi certamente di più,
perché lei non è iniziato — rispose il Venerabile. — È
lei che è finito sulla cattiva strada, e non ha il coraggio
di lasciarla.
Un accesso di collera imporporò il viso del monaco,
che gonfiò il petto. Ma riuscì a trattenersi. Il Venerabile
l’aveva spiazzato nell’arco di un istante.
216 CHRISTIAN JACQ

— Abbiamo fatto una scommessa, Venerabile.


— È sempre valida, padre. Io ho una parola sola.
— Farebbe meglio a rinunciare, e a chiedere
perdono a Dio.
— Il Grande Architetto non apprezza i rinunciatari.
Un suono pesante di passi venne dall’esterno.
Sentirono strusciare per terra il cadavere deposto in
precedenza davanti alla soglia dell’infermeria. Lo
stavano tirando per i piedi per portarlo via. Risuona-
rono degli ordini in tedesco.
— La vita riprende il suo corso — osservò il
monaco.
17

C
omplimenti, dottor Branier — disse il

— comandante, in tono cerimonioso.


Il Venerabile era stato condotto
nel suo ufficio poco dopo il tramonto. Dall’alba fino a
sera non aveva mai lasciato l’infermeria. Erano arrivati
altri malati, e c’era molto lavoro. Un’altra infornata di
astrologhi e veggenti deportati dalla Cecoslovacchia, la
maggior parte dei quali in stato pietoso. Quegli uomini
erano stati torturati. Alcuni non sarebbero sopravvis-
suti a lungo. Il monaco aveva dato loro l’estrema
unzione.
— Lei è un vero capo — continuò il comandante. —
Anche separati da lei, i fratelli della sua Loggia conti-
nuano a obbedirle. Sono convinto che lei abbia stabi-
lito qualche contatto… telepatico.
Gli occhi del tedesco brillarono. Le sue dita gioche-
218 CHRISTIAN JACQ

rellavano con una boccia di metallo che gli serviva da


fermacarte. Helmut, l’aiutante di campo, trascriveva
come al solito il colloquio su un grande quaderno
posato sul leggio.
— Non ho doti paranormali — rispose il
Venerabile.
— Davvero?
— Davvero.
— E come spiega allora che Guy Forgeaud abbia
disdegnato la magnifica turbina che gli avevo messo a
mo’ di esca nell’officina? Un modello ultrasegreto sul
quale un tecnico come lui avrebbe dovuto gettarsi?
François Branier sorrise, con indulgenza, come chi
si veda sfidare da qualcuno nettamente più debole.
— Questa è la prova che Guy Forgeaud è un
semplice meccanico senza competenze particolari.
— Lasci perdere questo argomento stupido, dottor
Branier. Mi dica piuttosto che ho usato un trucco
troppo grossolano, una trappola troppo evidente!
— Non saprei.
Un silenzio carico di tensione seguì le parole del
Venerabile. L’aiutante di campo smise di scrivere,
aspettando la reazione del comandante. Questi posò la
boccia di metallo, accese una sigaretta e cominciò a
camminare nervosamente su e giù davanti alla finestra.
Marciava come un robot ben oliato.
— C’è un’altra spiegazione, Venerabile. Non c’entra
la telepatia, e nemmeno la trappola troppo grossolana.
L'Architetto 219

All’interno della fortezza esiste una rete d’informa-


zione clandestina, ne sono sicuro. L’esperienza prova
che anche le condizioni più dure di detenzione non
riescono a impedire ai prigionieri di comunicare. Non
sarà troppo difficile identificare i responsabili. Che ne
pensa?
Il Venerabile si sentì preso in una morsa. Il coman-
dante giocava in casa. Se Forgeaud avesse commesso
l’imprudenza di sabotare la turbina, avrebbe rivelato la
portata delle sue competenze. D’altro canto, il fatto che
si fosse astenuto dal toccarla rivelava l’esistenza di
un’embrionale organizzazione di resistenza tra i prigio-
nieri. Ma il comandante non ne conosceva forse l’esi-
stenza fin da prima? E se avesse lasciato di proposito un
certo margine di manovra al monaco e alla ragazza
tedesca per controllarli meglio? Un’altra possibilità era
che il monaco fosse uno sporco traditore, un collabora-
tore attivo del comandante. In tal caso, la ragazza
tedesca era sua complice. Il Venerabile non poteva dirsi
sicuro di niente. Non sapeva nemmeno se Forgeaud era
davvero sfuggito alla trappola. Il comandante gli aveva
detto di sì, ma la fonte di quell’informazione era
quanto meno poco affidabile.
Una volta ancora, si costrinse a fermare quel
turbine di pensieri e a cercare un ancoraggio più solido.
Alla vigilia della sua iniziazione, il padrino di François
Branier gli aveva detto: “Un giorno, non avrai più
certezze, né speranze, né desideri. Sarai perduto in una
220 CHRISTIAN JACQ

notte buia, senza nessuno che ti possa aiutare, perché


sarai il maestro della Loggia. I fratelli si aspetteranno
tutto da te, e allora sarai l’uomo più solo di
questa terra. In quel momento, o ti darai per vinto,
o comincerai a capire davvero che cos’è l’iniziazione“.
Ecco che era venuto quel momento drammatico
che il vecchio saggio gli aveva presagito.
— Che cosa sa di questa rete d’informazione, dottor
Branier?
— Sono al corrente di tutto — rispose il Venerabile.
Il comandante si arrestò per un istante, poi riprese a
marciare meccanicamente su e giù per la stanza.
— L’ascolto.
La decisione del Venerabile si era prodotta in modo
subitaneo, come una folgorazione, spazzando via tutte
le possibili obiezioni. Forse era un errore fatale, ma non
gli importava. François Branier sapeva che se avesse
esitato a rispondere, il comandante avrebbe interpre-
tato quell’esitazione come un segno di colpevolezza. Il
tedesco non lasciava nulla al caso. Era un concetto
estraneo al suo pensiero. Calcolava sempre ogni parola,
ogni gesto. Il Venerabile conosceva bene quel metodo
per averlo utilizzato talvolta lui stesso. Ma nella sua
attuale condizione sarebbe stato inutile tentare di
rispondere al comandante con le sue stesse armi. La
sua sola arma era la spontaneità. Reagire all’istante,
accettando i rischi connessi. O la va o la spacca, come
diceva spesso Pierre Laniel, quando era ancora in vita.
L'Architetto 221

— Quella rete non esiste.


— Stia attento, dottor Branier. Non sono disposto a
farmi…
— È molto più semplice di quanto lei non imma-
gini. I fratelli della mia Loggia sono abituati a non
prendere alcuna iniziativa senza un ordine formale da
parte mia. Forgeaud come tutti gli altri. Quando si
presenta una difficoltà, restano in attesa di ordini,
semplicemente.
— Lei è un autentico dittatore — osservò il coman-
dante, in tono scettico.
— La Loggia funziona in base a un ordine gerar-
chico che non si discute. Non è difficile da compren-
dere, no?
Il tedesco continuò a fare avanti e indietro.
— Come trasmette questi ordini formali?
— A gesti.
— Quali?
Il Venerabile posò la mano destra sulla spalla sini-
stra, vicino al collo.
L’aiutante di campo si affrettò a schizzare schemati-
camente sul suo quaderno la posizione che il Venera-
bile aveva assunto.
— Non è un segno massonico. È un gesto che non
significa niente.
— Non è un segno abituale, in effetti. È partico-
lare della mia Loggia. Una sana misura di
sicurezza.
222 CHRISTIAN JACQ

— E avete anche dei messaggi in codice per comu-


nicare tra di voi?
— Sì. A condizione di riuscire a farli pervenire.
— Che codice usate?
— Croci e punti su una griglia. Il sistema più clas-
sico, con qualche variante. Era in uso nelle Logge tede-
sche. L’avrà sicuramente già visto in qualcuno dei
documenti che lei ha sequestrato. Ma non ho più visto
Forgeaud, ultimamente, e non ho potuto inviargli
nessun messaggio. Resterà passivo, come gli altri,
finché non avrà ricevuto delle istruzioni che proven-
gano direttamente da me e da me solo.
Il comandante si sedette dietro la sua scrivania e
aprì un fascicolo.
— Helmut, faccia riportare il Venerabile nell’in-
fermeria.
— Come l’hanno conciato — constatò Raoul Bris-
sac, osservando il viso pieno di ecchimosi di Guy
Forgeaud, steso sul pavimento della baracca rossa.
Il meccanico si stava svegliando giusto in quel
momento, dopo una notte agitata. Anche il petto
portava i segni dei colpi.
— Perché non l’hanno ricoverato nell’infermeria?
— chiese l’apprendista Serval.
— Sicuramente per non farlo incontrare con il
Venerabile — intervenne Dieter Eckart.
Guy Forgeaud aveva un occhio nero, il labbro supe-
L'Architetto 223

riore spaccato, gli zigomi violacei, ma abbozzò ugual-


mente un sorriso.
— Fratelli miei, ho fatto una grossa fesseria.
I sopravvissuti della Loggia Conoscenza gli si
misero intorno.
— Prima di tutto, deve rifocillarsi un po’ — stabilì
André Spinot.
Non avevano toccato la loro ultima razione di
cavolo bollito per riservarlo a Forgeaud. Lo aiutarono a
mettersi a sedere e a mangiare, e lui gustò ogni boccone
per la gioia di essere ancora vivo.
— Buonissimo — disse.
Parlava a fatica. Ma i fratelli lo ascoltarono con la
massima attenzione.
— Non l’ho toccato, il loro fottuto congegno. Una
specie di bomba volante fornita di alette. E sì che l’avrei
smontato molto volentieri per darci un’occhiata dentro.
Ma avrei lasciato necessariamente qualche traccia.
Mettermi lì davanti quella macchina come una torta di
compleanno, però, era un trucco troppo scoperto. Ed ecco
che all’improvviso compare una ragazza vestita con l’uni-
forme delle SS, e poi sparisce di nuovo così come era arri-
vata. La cosa più difficile è stato rimanere lì con le mani in
mano. Avevo già finito il lavoretto di sabotaggio. Restava
solo l’armeria. E lì non ho potuto più resistere. L’ho aperta.
Niente armi, c’erano solo delle bottiglie di vino bianco. Ma
non ho avuto il tempo di assaggiarne nemmeno mezza, Le
224 CHRISTIAN JACQ

SS mi sono saltate addosso e mi hanno tartassato per


bene. Sono andato giù come una pera cotta. E poi mi sono
svegliato qui. Quando ho visto i vostri musi, ho pensato di
essere finito nel paradiso dei massoni!
Per la quinta volta in quel giorno, il monaco recitò il
requiem. Evocò il regno celeste che, nel suo spirito,
assumeva la forma dell’abbazia di Saint-Wandrille, del
refettorio dove i monaci celebravano il loro banchetto
rituale, della biblioteca dove decifravano le scritture,
del chiostro dove raccoglievano i loro pensieri, delle
celle dove si trovavano faccia a faccia con la Presenza.
Sovrapposta a tali immagini, quella di un cimitero
nascosto nel folto di un bosco, sull’altura che dominava
l’abbazia. Lì erano seppelliti i suoi fratelli, riposavano
al ritmo delle stagioni, nel silenzio dei giorni e delle
notti che animavano le preghiere rituali. Quel cimitero
dove il monaco avrebbe voluto tanto riposare, insieme
a loro.
Lì vicino, una piccola cappella, nascosta sotto le
querce. Alcuni fratelli venivano lì per meditare lunga-
mente, lo sguardo perso lontano nella vallata. Lui,
Benoît, il più forte della comunità, il più lavoratore, il
più energico, era anche il più contemplativo. Al punto
che gli capitava di dimenticare perfino le ore in cui i
fratelli facevano le loro orazioni. E allora mandavano il
più giovane a cercarlo.
Il monaco non sperava più di ritrovare la felicità
perfetta di quella solitudine luminosa. Si rimproverava
L'Architetto 225

quella rinuncia a sperare in un miracolo sempre possi-


bile, dicendosi che avrebbe dovuto avere più fede. Ma
Dio era misericordioso. Era la sua volontà che doveva
compiersi, non quella di un singolo individuo. Forse il
mondo doveva essere distrutto, e allora perché ribel-
larsi? Forse era suonata l’ora fatale della fine dei tempi.
Essere testimone di un tale avvenimento, al ritorno del
creato al suo Creatore, non doveva dare adito alla
disperazione. L’umanità aveva toccato veramente il
fondo dell’orrore? Si trattava della fine, o dell’inizio di
atroci convulsioni che avrebbero fatto sparire le ultime
tracce d’armonia? Benoit pensò a come, allorché l’Occi-
dente era in preda alla peggiore barbarie, la prima
comunità di monaci aveva riacceso la fiaccola della
civiltà. Tristissimo il giorno in cui i fratelli, ormai
troppo numerosi, avevano dovuto separarsi per dare
vita a una nuova comunità. Che dilemma, nel cuore
dell’abate dell’epoca, dover scegliere i fratelli destinati
ad andare lontano a fondare un nuovo monastero! Il
monaco si sentiva in esilio in un paese ignoto, in un
mondo tenebroso dove era stato incaricato di accen-
dere una scintilla di luce. Era investito di una missione?
Non ne traeva alcun vanto. Ciò non cambiava in nulla
la realtà. Ma Dio non giocava d’azzardo. Se aveva
messo un monaco in quell’inferno, l’aveva fatto di certo
per provare che il male non poteva mai essere assoluto.
Sofferenza, speranza, vita, morte, luce, tenebre…
sulla grande strada del destino, tutto rientrava nel
226 CHRISTIAN JACQ

quadro generale. Tranne una cosa: la presenza di quel


Venerabile. Il monaco doveva ammettere che aveva
immaginato altrimenti il peggiore dei travestimenti di
Satana. Il Venerabile aveva forse anche lui una
missione, ma quale? Quale peso poteva avere il Grande
Architetto davanti a Dio Onnipotente? Sicuro di
vincere la sua scommessa, il monaco si schiarì la gola,
innervosito, ed ebbe un altro accesso di tosse.
I suoi colpi di tosse si confusero con gli ululati sini-
stri delle sirene della fortezza.
18

R
aoul Brissac, lo scalpellino, stava con
l’occhio incollato alla fessura praticata
nella parete della baracca rossa verso il
cortile. Aspettava, instancabile. Avrebbe atteso lì anche
un secolo. La ferita all’orecchio gli causava ancora delle
fitte acute, ma non se ne curava. Quel porco che gli
aveva rubato l’orecchino, segno distintivo di chi aveva
appreso tutti i segreti dell’arte di tagliare la pietra, e che
aveva ucciso Pierre Laniel, doveva pagare con la vita.
Per il momento, l’intendente sembrava irraggiungibile.
Il viso inespressivo di quel macellaio era diventato
un’ossessione per Raoul Brissac. Non poteva più vivere
finché quella carogna continuava a esistere. La morte di
un fratello non poteva restare impunita.
Impossibile agire da solo. E d’altro canto non
poteva mettere in pericolo la vita di altri fratelli. Raoul
228 CHRISTIAN JACQ

Brissac continuava a spiare pazientemente dalla


fessura, per ore e ore, aspettando l’occasione favore-
vole. Il suo nemico sarebbe spuntato, prima o poi. Lo
desiderò con tanta forza che creò magicamente le
condizioni per quell’incontro. Quando era stato iniziato
al grado di compagno della Loggia Conoscenza, gli era
stato rivelato come utilizzare la forza personale, il
modo di manipolare le energie interiori per cambiare il
corso degli eventi, sia pure in maniera infinitesimale,
proiettando la propria volontà verso lo scopo che si
voleva raggiungere. Il Venerabile avrebbe forse rimpro-
verato Brissac per l’uso abusivo di quel potere, per la
pretesa di convogliare una forza spirituale verso la
materialità. Il compagno rifiutava in anticipo quella
critica. La salvaguardia della Loggia passava per la
lotta. Bisognava attaccare, infrangere le regole dell’av-
versario, provargli che il suo sistema non era infallibile.
E soprattutto vendicare Laniel.
Gli eventi si susseguirono così rapidi che Raoul
Brissac non ebbe il tempo di riflettere. Si lasciò guidare
dall’istinto. Vide improvvisamente uscire dalla torre
centrale un uomo con i vestiti in fiamme. Non aveva più
la forza di urlare. Dietro di lui, due SS, con le uniformi
ugualmente in fiamme, portavano un’enorme marmitta
piena d’olio da cui uscivano lingue di fuoco e fumo.
Uno dei due, un colosso, riuscì a percorrere qualche
metro a prezzo di uno sforzo incredibile. Le sue mani
erano incollate al metallo rovente. L’uomo crollò
L'Architetto 229

addosso alla parete di legno di una baracca, e l’in-


cendio si propagò anche a questa.
Le sirene d’allarme della fortezza cominciarono
subito a ululare, mentre i primi deportati uscivano
dalla baracca per evitare di essere arsi vivi. Le SS
sbucarono all’istante dalla loro caserma, armi in
pugno, e si misero a sparare sui prigionieri, che tenta-
rono vanamente di scalare i muri della fortezza per
fuggire. I soldati cominciarono poi a evacuare le altre
baracche, obbligando i prigionieri a riunirsi davanti
alla torre, in corrispondenza dei bagni. I massoni
furono gli ultimi a uscire.
In breve tempo la confusione divenne totale. Il
fuoco che si propagava, le urla degli ustionati, i soccorsi
che si organizzavano troppo lentamente, alcuni prigio-
nieri, impazziti, che tentavano di fuggire in qualsiasi
modo, la bocchetta antincendio che non funzionava a
dovere, i secchi introvabili, le SS che sparavano in aria
per evitare di colpire per sbaglio i loro commilitoni,
altri soldati che mettevano in riga i prigionieri affret-
tandosi subito dopo a porsi fuori tiro.
Intanto, Raoul Brissac aveva avvistato l’intendente.
Con la mano destra il compagno impugnava uno
stiletto di metallo prelevato dalla piccola scorta di
oggetti rituali che la Loggia aveva raccolto. A passi
rapidi, un po’ curvo, Brissac avanzò tra i bagliori dell’in-
cendio, senza che il suo avversario potesse scorgerlo.
Una baracca totalmente distrutta, un’altra mezza
230 CHRISTIAN JACQ

carbonizzata, parecchi cadaveri che furono portati rapi-


damente fuori dalla fortezza: questo il bilancio appros-
simativo che i
fratelli della Loggia Conoscenza poterono fare.
Cessato il panico, i prigionieri erano stati inquadrati
nel grande cortile sotto il controllo delle SS. Il
maggiore Klaus aveva ristabilito l’ordine in meno di un
quarto d’ora. L’incendio era estinto.
I massoni erano stati scortati di nuovo nella loro
baracca da una decina di SS, ancora tesi e nervosi per
l’accaduto. Ognuno dei fratelli avvertiva dentro di sé uno
strano malessere. L’incidente sembrava chiuso, ma
restava in loro un oscuro senso di angoscia, come se l’in-
cendio non fosse altro che il presagio di qualche disgrazia
ancora più grave. Il rancio quella sera non fu distribuito.
— Qualcuno ha visto il Venerabile? — chiese
Dieter Eckart.
Serval e Spinot fecero cenno di no con la testa.
Avevano
aiutato Guy Forgeaud a spostarsi, mentre Dieter
Eckart osservava quello che succedeva intorno per avvi-
sare di eventuali pericoli.
— E tu, Raoul?
II compagno Brissac era crucciato come il giorno in
cui era stato sottoposto alla prima inchiesta che doveva
decidere del suo avvenire iniziatico. La fronte bassa, gli
occhi vicini, appariva distante e introverso.
L'Architetto 231

— Raoul… ti ho fatto una domanda — insistette


Dieter Eckart, meravigliato dal mutismo del fratello.
— No. Non ho visto il Venerabile.
Svaniva così l’ultima speranza. Per la prima volta, i
fratelli della Loggia Conoscenza avevano visto i loro
compagni di sventura, gli altri deportati. Erano almeno
trecento. Molti di loro erano anziani.
— Mio Dio, dove può essere? — esplose Guy
Forgeaud, la cui energia sembrava essere stata intaccata
solo in minima parte dalle ferite riportate.
— Non l’avranno mica… — intervenne André
Spinot, in tono ansioso.
— Forse li hanno fatti fuori tutti e due — disse
cupo Brissac.
— L’infermeria non ha preso fuoco — obiettò
Dieter Eckart. — Non hanno evacuato i malati.
— Un incendio — disse il monaco.
— Sembra che siano in preda al panico.
Il monaco e il Venerabile sentirono uno stridente
concerto
di urla, ordini in tedesco, passi pesanti di stivali
attraverso il cortile, raffiche di mitra.
— Ho l’impressione che vogliano lasciarci andare
arrosto qui, insieme ai malati.
— Ne sarebbero capacissimi — convenne il
monaco. — Vado a benedire i nostri assistiti.
La sagoma massiccia del frate benedettino si mosse
232 CHRISTIAN JACQ

verso i letti dei malati, ma poi si fermò, girandosi di


nuovo verso il Venerabile.
— Non c’è l’uso di prepararsi in qualche modo alla
morte, nella sua Loggia?
— Noi la sperimentiamo simbolicamente al
momento dell’iniziazione al grado di maestro. È il solo
modo di conoscerla dall’interno. Quando un fratello
muore, celebriamo una tenuta funebre. Non è l’indi-
viduo che onoriamo, ma il suo ruolo di iniziato. Per noi,
non muore. Passa all’Oriente eterno. Il suo essere si
trasforma in luce. È una stella che guida i suoi fratelli
rimasti sulla terra.
Il monaco assunse l’espressione severa che ben
conoscevano certi novizi di cui aveva curato personal-
mente la formazione.
— Ma questa è una visione poetica, pagana…
— Perché, padre? Non era una stella quella che
guidò i Re Magi verso Betlemme?
Il monaco borbottò qualcosa di incomprensibile.
— Lei disprezza l’umanità, Venerabile. Le importa
solo dei suoi fratelli.
François Branier si mise a braccia conserte, in un
atteggiamento ben noto ai giovani fratelli che lui aveva
orientato attraverso i misteri dell’iniziazione.
— E lei ammetterebbe chiunque, nel cimitero del
suo convento? È riservato solo ai monaci, se non
sbaglio… Anche voi formate un’élite. Vi ho sempre invi-
diato questo modo di vivere il riposo eterno. Ho visitato
L'Architetto 233

dei cimiteri benedettini, perduti nel folto dei boschi,


isolati sul fianco di una collina, immersi nel silenzio.
Tutti quelli che hanno vissuto, lavorato, pregato
insieme, sono riuniti lì, per l’eternità. Quando un
fratello va a meditare in quei luoghi, rivede con gli
occhi della fantasia i loro volti. Li piange, ma ne
prolunga il ricordo, assicurando loro l’eternità.
— Occupiamoci dei malati, sarà meglio — tagliò
corto frate Benoît.
Klaus e quattro soldati delle SS fecero irruzione
nell’infermeria. Spinsero fuori dalla baracca il monaco
e il Venerabile, fecero alzare i malati e li costrinsero a
muoversi colpendoli nelle reni con il calcio dei loro
fucili. Tre di loro, incapaci di alzarsi, furono messi a
morte con una pallottola alla tempia.
Davanti alla baracca dei bagni, le SS avevano
ammucchiato alla rinfusa i cadaveri di quelli che erano
morti nell’incendio e le assi di legno carbonizzate o
ancora fumanti. Gli sguardi del monaco e del Venera-
bile furono attirati da una pedana su cui era stato
deposto il cadavere di un soldato delle SS. Al suo
fianco, il comandante della fortezza, dritto nella sua
uniforme impeccabile, con le gambe leggermente diva-
ricate, le mani unite dietro la schiena. Accanto a lui, il
suo aiutante di campo.
I prigionieri furono fatti uscire dalle loro baracche e
schierati in una ventina di file parallele, davanti alla
pedana. Il monaco e il Venerabile si trovarono all’estre-
234 CHRISTIAN JACQ

mità sinistra della prima fila. François Branier girò


vanamente lo sguardo intorno per cercare di vedere i
suoi fratelli. Questi, a loro volta, schierati in ultima fila,
non videro il Venerabile. Le SS li misero in riga con un
allineamento perfetto, dopo di che si schierarono
anch’essi intorno ai prigionieri.
Nella fortezza risuonarono le note di una musica
malinconica. L’ouverture del Vascello Fantasma di
Wagner. Due prigionieri parlarono e si mossero.
Furono immediatamente indicati a dito dal maggiore,
fatti uscire dai ranghi e malmenati. Il comandante
rimase immobile fino alla fine dell’ouverture. Il
monaco mormorò una preghiera. Il Venerabile invocò
dentro di sé il Grande Architetto dell’Universo. Né
l’uno né l’altro chiesero una grazia precisa, cercarono
solo di intensificare una presenza.
La musica cessò. Qualcuno tra i prigionieri, soprat-
tutto tra i malati, non ce la fece più a restare in piedi e si
afflosciò a terra. Il comandante attese che il silenzio
fosse totale, prima di parlare.
— Un crimine inqualificabile è stato commesso. Un
soldato del Reich è stato assassinato a tradimento,
pugnalato alla schiena. Che il colpevole si faccia avanti
immediatamente. Altrimenti farò mettere a morte due
prigionieri al minuto. Klaus, cominci il conto alla
rovescia.
Il maggiore delle SS consultò il suo orologio. Il
monaco si chiese chi era stato così folle da commettere
L'Architetto 235

un gesto simile. Il comandante non si sarebbe certo


accontentato di punire il colpevole con la morte. Poteva
anche chiudere l’infermeria, sopprimere le razioni,
mettere tutti i prigionieri ai lavori forzati, moltiplicare
le sevizie. Senza dubbio un piccolo gruppo di deportati
aveva approfittato della confusione per vendicarsi dei
soprusi commessi da una delle guardie, credendo di
compiere un atto eroico. La soluzione era una sola,
giudicò il monaco. Accusarsi del delitto prima che
passasse il minuto che era stato concesso. E mostrarsi
convincente, per spiegare come erano andate le cose.
Peccato solo per la scommessa con il Venerabile, pensò.
Era una scommessa già vinta. Ma bisognava salvare
delle vite umane.
Erano trascorsi intanto una trentina di secondi. Il
Venerabile era certo che il responsabile dell’attentato
fosse uno dei fratelli della Loggia Conoscenza. Senza
dubbio era il preludio di un tentativo di evasione finito
male. L’avevano creduto morto e non volevano crepare
tutti come cani. Se voleva salvare la vita dei suoi
compagni, non c’era nient’altro da fare: doveva accu-
sarsi lui per la morte del soldato.
Gli ultimi venti secondi. Il maggiore cominciò a
scandirli ad alta voce. Diciannove, diciotto, dicias-
sette… Il comandante non aveva alcun dubbio che il
colpevole, o i colpevoli, avrebbero confessato. Che cosa
aveva causato la morte del soldato? Una reazione
incontrollata? O era un delitto premeditato? Tra meno
236 CHRISTIAN JACQ

di quindici secondi, il mistero sarebbe stato chiarito.


Immaginava l’assassino morto di paura, che esitava fino
all’ultimo prima di confessare la propria colpa. Chissà,
forse si sarebbe convinto solo dopo aver visto morire
qualche altro prigioniero al suo posto.
Il monaco era ormai deciso. Si sarebbe fatto avanti
cinque secondi prima del termine del conto alla rove-
scia. Ma un dubbio gli rodeva l’animo. Non era per caso
tutta una messa in scena? E se il comandante avesse
ordinato lui stesso il delitto per mettere i frammassoni
in una situazione inestricabile?
Tredici secondi, dodici, undici…
— Sono stato io!
Una voce possente coprì quella dell’ufficiale. Raoul
Brissac, uscendo dall’ultima fila, si fece largo tra i dete-
nuti, spingendo da parte quelli che non si scostavano
abbastanza in fretta. L’effetto sorpresa fu totale. Le SS,
aspettando un ordine che tardava a venire, non spara-
rono. Brissac si fermò a un metro dal comandante, che
era rimasto immobile al suo posto.
— Sono io che ho tolto di mezzo quell’assassino.
— In che modo? — chiese il comandante.
Raoul Brissac abbassò gli occhi sul cadavere, che
era steso a faccia in giù. Alla base del collo, uno stiletto
metallico conficcato in profondità.
— Così! — urlò il compagno buttandosi sul cada-
vere del soldato che aveva ammazzato Pierre Laniel e
che gli aveva rubato l’orecchino.
L'Architetto 237

Prese lo stiletto e lo affondò a più riprese nella


schiena del cadavere. Mentre colpiva, il suo sguardo
incrociò quello del Venerabile.
Fu l’ultima cosa che vide, prima che le SS gli saltas-
sero addosso.
— Esecuzione immediata — ordinò il comandante.
Raoul Brissac non aveva vacillato. Negli occhi aveva
quella stessa fierezza indomabile che François Branier
aveva visto in lui fin dal loro primo incontro. Brissac era
un uomo d’onore. Un termine ridicolo, che suonava
obsoleto, al giorno d’oggi. Ma il compagno Brissac si
faceva beffe delle mode. L’onore della Loggia e dei suoi
membri veniva prima di ogni altra cosa, nella sua
considerazione. Temperamento troppo indipendente,
non aveva sopportato le ferite inferte alla sua anima e
alla sua carne. Aveva commesso, una volta di più, l’er-
rore che gli sbarrava ancora la strada per accedere al
grado di maestro: agire da solo, di testa propria, senza
consultare la comunità.
— Perché l’ha fatto? — chiese il monaco.
Tutti i detenuti erano stati riportati nelle loro barac-
che. L’infermeria era mezza vuota. François Branier
sembrava ora disponibile a parlare. Era la prima
domanda che il monaco osava fargli da un paio d’ore
buone.
— Pensava che fosse suo dovere.
— Guardate un po’ dove l’ha portato questo suo
senso del dovere…
238 CHRISTIAN JACQ

Il Venerabile lo gelò con un’occhiata. Quel massone


non mancava certo di personalità, pensò il monaco.
Una personalità fuori dal comune, quasi come quella
del primo abate che aveva avuto quando era entrato in
convento.
— L’ha portato all’Oriente eterno, padre. E il suo
esempio si irraggerà da lì come un sole, scaldando il
nostro animo e aiutandoci a vivere.
Il fiero, indomabile Brissac… Era uscito dallo spazio
e dal tempo per fondersi nella luce.
— La ringrazio per quello che stava per fare —
disse poi il Venerabile.
Il monaco fu preso alla sprovvista.
— Di che cosa parla?
— Della decisione che aveva preso. Gliel’ho letta in
viso. Lei era pronto ad accusarsi del delitto per evitare
un massacro. Lei è un uomo coraggioso, padre.
Il monaco tossì.
— E lei non pensava per caso di fare la stessa cosa?
— Sì, ma lei si sarebbe sacrificato per un massone…
— Non sapevo che erano stati i suoi fratelli a fare il
colpo! Altrimenti…
— Altrimenti?
Il petto del monaco fu scosso da un nuovo accesso
di tosse.
— Dovrebbe riguardarsi, padre. Se ha bisogno di
una visita…
— Non ho bisogno di niente. Non ho mai consul-
L'Architetto 239

tato un medico in vita mia. Non vedo perché dovrei


cominciare adesso. Mi curerò da solo. Adesso sarà
meglio andare un po’ a dormire.
Il religioso si distese su un fianco, inquieto. La
morte di Raoul Brissac l’aveva profondamente colpito.
Anche lui aveva incrociato l’ultimo sguardo del compa-
gno, dell’unico, fra tutti i prigionieri, che avesse osato
sfidare i nazisti. In un certo modo, aveva vinto. Per
merito suo si era prodotta una prima breccia nella
fortezza. Il comandante si era reso pienamente conto
del pericolo, sia pure limitato, che ciò aveva creato.
Come avrebbe reagito? Il monaco avrebbe voluto
prevedere la sua prossima mossa, ma non riusciva a
pensare ad
altro che alla figura straordinaria di Raoul Brissac,
quel massone che aveva scelto il suo destino con una
determinazione incrollabile.
La massoneria esercitava un’influenza nociva. Su
questo non c’erano dubbi. Ma i massoni di quella
Loggia… non erano come tutti gli altri. Per certi versi si
comportavano come dei veri monaci… Forse la spiega-
zione stava nel fatto che appartenevano in realtà a un
nucleo di partigiani. E tuttavia, negli occhi di Raoul
Brissac, il monaco aveva intravisto una luce ispirata,
paragonabile solo a quella dei più santi fra i suoi
confratelli benedettini.
Il Venerabile restò prostrato tutta la notte. Pierre
Laniel, Raoul Brissac… due fratelli, un maestro, un
240 CHRISTIAN JACQ

compagno. Un uomo maturo, un altro ancora giovane.


Si conoscevano appena, non avevano mai stretto un’a-
micizia profonda. Il compagno stimava il maestro per
la sua decisione, il suo impegno tanto discreto quanto
efficace, la sua capacità di sintesi. Il maestro apprezzava
il compagno per il suo senso della dignità, per la sua
rettitudine, la caparbietà che metteva nel lavoro. Due
fratelli insostituibili. Francois Branier non poté pren-
dere sonno. A qualche passo da lui penzolava nel vento
della notte il cadavere di Raoul Brissac, appeso a una
forca che era stata issata giusto davanti all’infermeria.
19

P
er tre giorni di seguito ricevettero solo da
bere, un semplice bicchiere d’acqua. Niente
da mangiare. Tre malati morirono. Il monaco
e il Venerabile ebbero meno lavoro, ma la scorta di
medicine era esaurita. Tra le affezioni più gravi, una
crisi uricemica, un’emiplegia, un tumore.
Il vecchio astrologo respirava ancora. I tedeschi
l’avevano dimenticato nel suo letto. Più volte al giorno
faceva degli sproloqui incomprensibili, poi ripiombava
nel torpore. Perché le SS l’avevano risparmiato? Per
conservarlo in vita a causa delle doti particolari che gli
venivano attribuite? Una semplice negligenza?
Il monaco e il Venerabile avevano pulito l’infer-
meria con il poco che avevano a disposizione; quella
sensazione di pulizia li riconfortò. Si erano abituati a
quello stanzino angusto, a quell’orizzonte chiuso.
242 CHRISTIAN JACQ

— Questo digiuno mi ha fatto un gran bene —


dichiarò il monaco, bevendo quello che restava del suo
bicchiere d’acqua. — Dovevo dimagrire un po’.
— I benedettini passano per dei gaudenti.
— Sono i massoni che vanno famosi per le loro
gozzoviglie!
— Termine inesatto, padre. Noi celebriamo dei
banchetti rituali che fanno parte integrante delle nostre
tenute. Nutrimento spirituale e nutrimento materiale
sono inscindibili l’uno dall’altro. Del resto, la comu-
nione non si fa con il corpo e il sangue di Cristo?
— Ecco che ricomincia a fare un gran calderone di
tutto! I vostri pretesi banchetti rituali non sono che una
scusa per tracannare vino e cantare stupidaggini.
Il Venerabile si grattò il mento.
— Nella maggior parte dei casi, è vero. Ma non per
quanto riguarda la mia Loggia. Un massone ubriaco
non è che un poveraccio. Ognuno beve solo la quan-
tità che è in grado di reggere. Sta a lui conoscerla. Non
faccia il puritano, padre. È noto che i suoi confratelli
non hanno mai disdegnato le gioie del mondo
terreno.
— Lei bestemmia. Non ha alcuna idea della vita
ascetica che la nostra Regola ci impone.
Il monaco si era di nuovo imporporato in viso per
l’ira. Il Venerabile aveva la capacità di fargli perdere le
staffe.
— Malgrado le apparenze, la vostra Regola non
L'Architetto 243

deve essere molto diversa dalla nostra. Tutto si basa su


di essa. Se siamo ancora vivi, è grazie a essa.
Il monaco studiò attentamente il Venerabile.
— E da dove viene questa vostra famosa Regola?
Non sarà per caso che l’avete copiata dalla nostra?
Negli occhi del monaco passò un lampo malizioso.
— Lei vorrebbe farmi ammettere che il più grande
segreto della massoneria è di origine cristiana? Lei sa
bene che siamo gli ultimi pagani irriducibili. Se lei
conoscesse la nostra festa di San Giovanni Battista,
dopo l’insediamento del Venerabile e dei suoi ufficiali…
Nel banchetto vengono serviti i piatti più prelibati, i
migliori vini. Passiamo tutta la notte a tavola.
Il monaco fece una smorfia scettica.
— E siete solo voi massoni? Niente donne?
— Quella di San Giovanni Battista è la festa segreta
della Loggia.
— Insomma, la vostra abbuffata avrebbe un carat-
tere sacro? Non si dovrebbe scegliere quello che c’è di
più perfetto per onorare il Grande Architetto? Non
sarebbe meglio passare quella notte in meditazione
comune invece che a cantare canzoni sguaiate?
Il Venerabile abbassò la testa, di modo che il
monaco non potesse vedere le lacrime che gli velavano
gli occhi. L’attacco del benedettino l’aveva sorpreso. Si
attendeva delle critiche, del sarcasmo, non un’intui-
zione della verità.
Il ricordo dell’ultima festa di San Giovanni Battista
244 CHRISTIAN JACQ

gli scaldò il cuore come una giornata di sole. Si erano


riuniti tutti, i venti fratelli della Loggia Conoscenza, nel
loro tempio della banlieu parigina, la cui ubicazione era
ignota alle autorità amministrative della massoneria.
Un’immensa dimora, arredata in modo idoneo da uno
dei fratelli secondo le indicazioni tecniche fornite dal
compagno Raoul Brissac. Dopo la sua nuova nomina a
Venerabile, François Branier aveva fatto entrare nel
tempio compagni e apprendisti per annunciare loro la
composizione del collegio degli ufficiali, cioè dei fratelli
chiamati a svolgere un ruolo rilevante a livello inizia-
tico. Poi, seguendo l’ordine gerarchico, la comunità si
era diretta verso la tavola del banchetto, apparecchiata
dagli apprendisti. Foie gras, salmone, stufato,
formaggio roquefort, gelato, châteaux-latour e champa-
gne… Il maestro dei banchetti aveva vuotato le casse
del fratello tesoriere per quella serata che ognuno di
loro considerava come eccezionale, perché la guerra in
corso era gravida di presagi funesti. Una festa così
esigeva un menu sontuoso. François Branier aveva cele-
brato i rituale dei lavori della tavola, dopo avere pronun-
ziato il triplo omaggio al Grande Architetto, alla Loggia,
e all’iniziazione. I fratelli della Conoscenza si erano
quindi espressi, uno dopo l’altro, sul modo in cui vive-
vano la loro esperienza. Avvertivano acutamente la
portata del dramma che stava per travolgere il mondo,
ma nessuna paura, nessuna angoscia alterò le loro testi-
monianze. Il Venerabile non aveva fatto mistero del
L'Architetto 245

fatto che quella sarebbe stata quasi certamente l’ultima


volta che la Loggia si riuniva. Ben presto sarebbe
cominciata la lotta sotterranea per la sopravvivenza. Le
notizie che venivano dalla Germania erano chiare: la
massoneria stava per essere distrutta ovunque e i suoi
membri condannati a morte senza giudizio. Quanti tra
di loro sarebbero stati ancora presenti intorno a quella
stessa tavola quando la persecuzione fosse cessata?
Ammesso che la persecuzione potesse finire un
giorno…
— Non vuole rispondermi, Venerabile?
François Branier si riscosse da quell’ondata di
ricordi.
— Forse ha visto giusto, padre.
Il monaco assunse un’aria rattristata.
— A volte, lei mi è quasi simpatico. Avete delle
buone intenzioni, lei e i suoi fratelli, ma avete anche il
torto di allontanarvi da Dio per sostituirlo con un’im-
magine senza senso. Non siete lontani dalla verità.
Perché non vi decidete a fare un passo in più?
— La smetta con queste prediche — tagliò corto il
Venerabile. — Abbiamo fatto una scommessa. Aspet-
tiamo il risultato. Mi dica piuttosto…
Due SS entrarono nell’infermeria. Il Venerabile
sussultò, pronto ad alzarsi. Ma i soldati lo ignorarono e
sospinsero invece il monaco fuori dalla baracca.
I prigionieri della baracca rossa erano depressi.
L’apprendista Serval stava di guardia nello stesso posto
246 CHRISTIAN JACQ

d’osservazione di Raoul Brissac, il cui cadavere era


stato lasciato per una giornata intera a penzolare dalla
forca, prima di essere rimosso e bruciato. André Spinot,
l’occhialaio, non parlava più, si alimentava a malapena.
Brissac era stato per lui al tempo stesso un fratello e un
amico. Proprio Brissac lo aveva spinto a chiedere di
essere iniziato, facendogli scoprire una parte di se
stesso che ancora non conosceva. L’aveva aiutato,
stimolato, orientato. Brissac era un fanatico della meti-
colosità. André Spinot aveva imparato, stando a
contatto con lui, a essere esigente con se stesso. Usciti
di scena il Venerabile e Guy Forgeaud, non aveva più
un valido punto d’appoggio.
— Nessuno ha visto il Venerabile? — chiese Dieter
Eckart per la decima volta.
— Mi è sembrato di sì — rispose Guy Forgeaud, che
stentava ancora a rimettersi dalla bastonatura. — Ma
c’era un tale fumo… non so se me lo sono sognato o se
l’ho visto veramente.
Nessuno diede importanza alle parole di Forgeaud.
Eckart, Spinot e Serval ricordavano com’era ridotto
quando l’avevano tirato fuori dalla baracca rossa: era in
stato di choc, e si reggeva a malapena sulle gambe. Gli
occhi gli si chiudevano nonostante i suoi sforzi per
restare sveglio. I fratelli sapevano bene che tentava di
restituire un po’ di speranza alla Loggia nonostante la
situazione.
— E se tentassimo di celebrare una tenuta? —
L'Architetto 247

propose Serval. — Altrimenti, qui creperemo tutti


come bestie!
— Finché non avrò una prova inoppugnabile che il
Venerabile è morto, non faremo niente del genere —
rispose Dieter Eckart.
André Spinot aprì la bocca, ma non gli uscì alcun
suono. A che sarebbe servito mettersi a urlare se non
avrebbero mai più rivisto François Branier?
— Andrò io stesso a cercare il Venerabile — disse
Guy Forgeaud.
Dopo aver dispensato le proprie cure ai malati, il
Venerabile si era seduto nello stanzino. Ancora un paio
di giorni al massimo, e non avrebbero più avuto alcun
medicamento. Il monaco era assente già da diverse ore.
Le SS non l’avevano mai trattenuto così a lungo fuori
dall’infermeria. Una lunga lezione di radioestesia per il
comandante? Un rapporto circostanziato su quello che
aveva detto e fatto il Venerabile della Loggia Cono-
scenza? Un interrogatorio serrato sul suo ruolo reale
durante l’incendio? François Branier non credeva di
avere commesso errori seri, ma il benedettino ragio-
nava a modo suo. Il suo vero ruolo era tuttora poco
chiaro. Il monaco era un mistero insondabile. Ricono-
scere il valore dell’iniziazione massonica equivaleva
per lui minare alle fondamenta la sua intera conce-
zione dell’universo. Il Venerabile ai suoi occhi non
poteva che essere una specie di mercenario dello
spirito o un terrorista belle buono. E poi c’era questa
248 CHRISTIAN JACQ

scommessa in cui Dio aveva in qualche modo messo in


gioco tutta la sua reputazione. Il monaco non si sarebbe
mai rassegnato a perderla.
François Branier sussultò. Una sagoma scura era
entrata furtivamente nell’infermeria. Un’ombra rapida
che si muoveva senza fare rumore. Le SS non si
comportavano così. Si alzò e si diresse verso la porta
della baracca.
Era lei. La ragazza bionda, in uniforme nazista, che
stava lasciando una cassetta sul pavimento. Colta sul
fatto, rimase raggelata. Si lasciò avvicinare. Aprì il
coperchio della cassetta. Dentro c’erano delle
medicine.
— Chi è lei? Perché fa questo?
La ragazza si raddrizzò di scatto, come un animale
braccato. Lui la bloccò, afferrandola per i polsi.
— Abbiamo bisogno di lei. Ci aiuti a uscire di qui.
Ma la ragazza si divincolò, mosse un passo indietro,
e fuggì. François Branier si affrettò a mettere al sicuro il
tesoro che lei gli aveva portato. Sarebbe servito a
prolungare di un po’ la vita di qualche malato.
L’aria crucciata del monaco non lasciava presagire
niente di buono. Il faccia a faccia con il comandante
della fortezza era stato duro, evidentemente. Il Venera-
bile, seduto di fronte a lui, gli aveva messo davanti una
lama di sega e delle cesoie.
— Dove ha scovato questa roba?
— Nella cassa di medicine destinata a lei, padre. Mi
L'Architetto 249

domando dove aveva nascosto le scorte precedenti. Non


ho avuto il tempo di perquisire l’infermeria da cima a
fondo.
Il monaco fece scorrere tra le dita qualche grano del
suo rosario.
— Credo che Dio mi approverebbe se le spaccassi
la testa.
— Il suo lato militante… non sarebbe la prima
volta che la Chiesa sopprime chi interferisce con i suoi
piani.
— Peccato che abbia dimenticato di sterminare tutti
i massoni.
Il monaco strinse i pugni, ribollendo di rabbia. Il
Venerabile era pronto a reagire.
— Non vedo perché la mia scoperta la faccia infu-
riare tanto. Lei ha stabilito un contatto con quella
ragazza e si prepara a evadere.
— Balle. Questa roba serve per curare i malati.
Il Venerabile prese un’espressione scettica.
— Lei vuole evadere solo soletto, padre…
Mancanza di carità cristiana.
— Non parli di cose che non sa. Non cerco niente
per me. Che ci creda oppure no, è così.
— Non ho il potere di confessare e non ne ho
nessuna voglia. Ma, come Venerabile, ricevo le confi-
denze dei miei fratelli. Tento di alleviare i carichi
troppo gravosi.
Il monaco rimase a bocca aperta. Un pagano anti-
250 CHRISTIAN JACQ

clericale gli proponeva di confessarsi con lui per sgra-


varsi la coscienza!
— A chi si rivolge, Venerabile?
— A chi ha voglia di capire, padre. Lei è convinto che
il segreto della mia Loggia sia pericoloso per la nostra
sopravvivenza. Ebbene, ha ragione. Poiché noi lavo-
riamo insieme, è coinvolto anche lei, che lo voglia o no.
Il comandante la sfrutta, raccogliendo le sue confidenze.
Come? Questo è il suo segreto. Deve essere opprimente.
Altrimenti, mi parlerebbe del suo accordo con i nazisti.
Se non parla, è solo perché la disturba dover mentire.
Il monaco continuò a sgranare lentamente il suo
rosario. Una buona tecnica per conservare il suo
sangue freddo. Il Venerabile aveva la calma di un lotta-
tore a riposo, di chi possiede una forza devastante ma la
sa utilizzare solo quando necessario.
— Non ho alcuna confessione da farle, Venerabile.
Quello che il comandante si aspetta da me non la
riguarda.
— Lei è reticente, padre. Lo ammetta, la sua
risposta è ambigua.
Il monaco cominciò a vagliare le medicine portate
dalla ragazza bionda.
— Sbaglia a essere così sospettoso, Venerabile.
Potrei esserlo anch’io. Le tante ore che lei ha passato in
compagnia del comandante, le sue pseudorivelazioni…
E se fosse lei ad avere fatto qualche accordo con lui? Se
L'Architetto 251

avesse chiesto salva la vita in cambio di quella degli


altri detenuti?
François Branier insorse.
— Due miei fratelli sono morti. Pensa forse che
potrei tradire quelli che restano per salvarmi la pelle?
Il monaco voltò le spalle al Venerabile. La sua voce
si fece sorda, impastata.
— Ho detto una fesseria. Ma lei mi ha provocato.
Il Venerabile si alzò.
— D’accordo, padre. Ripartiamo da zero. Siamo
pari, abbiamo detto qualche fesseria di troppo tutti e
due. Torniamo ad avere fiducia l’uno nell’altro. Che il
Grande Architetto dell’Universo ci permetta di lottare
insieme.
— Che Dio ci ispiri un po’ meglio — auspicò il
monaco.
I due uomini si strinsero la mano. Lungamente.
II freddo dell’alba punse la pelle del viso del Vene-
rabile. Le SS l’avevano prelevato dall’infermeria allo
spuntare del sole per portarlo sul pendio erboso dove
aveva effettuato la sua prima raccolta di piante medici-
nali. Timo, celidonia, e aconito erano umidi di rugiada.
François Branier, con le dita tutte intirizzite, penò
parecchio per strappare da terra gli steli. Non gli lascia-
rono più di un quarto d’ora di tempo, e poi lo riporta-
rono verso la fortezza.
Fu allora che comprese perché gli avevano messo
252 CHRISTIAN JACQ

tanta fretta. La casetta dove abitava la ragazza bionda


non esisteva più. Era
ridotta a un piccolo mucchio di assi di legno carbo-
nizzate davanti al quale un soldato delle SS montava la
guardia, senza dubbio per impedire a un fantasma di
testimoniare il crimine che lì si era compiuto. Così,
quella poveretta si era fatta sorprendere. L’unico alleato
che avevano all’esterno se ne era andato.
— C’è un ferito — annunciò Klaus, il maggiore
delle SS. — È intrasportabile.
Accompagnato da due soldati, il maggiore diede
quella notizia senza la minima emozione. Quando i
tedeschi erano entrati nell’infermeria, il monaco e il
Venerabile erano impegnati a somministrare del
chinino ai malati. Reagendo prontamente, celarono le
compresse sotto i vestiti dei loro pazienti.
— Arrivo — disse François Branier.
Il maggiore gli sbarrò la strada.
— No. Lei no. Il monaco.
Il Venerabile fiutò un pericolo. Klaus non agiva mai
a caso. Il monaco prese con sé delle fasce. Anche lui era
inquieto. Di norma, feriti e malati venivano portati
direttamente nell’infermeria. E perché rifiutare il
dottor Branier in modo così brusco?
Il grande cortile era inondato di sole. Un vento
glaciale lo spazzava. L’inverno non mollava ancora la
presa. Lo fecero scendere nell’officina annessa al garage
sotterraneo. Davanti al banco di lavoro stava Guy
L'Architetto 253

Forgeaud, tutto curvo, gemente, la mano sinistra stretta


contro il petto lordo di sangue.
— Che è stato?
— Un incidente…
Il massone mostrò la mano sinistra. Il dito mignolo,
stritolato, era tutto una piaga. La ferita era orribile. Il
monaco prese una cassa di legno, la mise contro una
parete, e vi fece sedere Forgeaud.
— Bisognerebbe portarlo nell’infermeria — disse il
monaco al maggiore.
— Non se ne parla nemmeno — rispose secca-
mente Klaus.
Un gesto di pura crudeltà? Era una dote che non
mancava
certo al tedesco. Ma il monaco intuì che doveva
esserci un altro motivo.
— Allora, lo lascio crepare qui. Non ho qui niente
per curarlo in modo appropriato.
Il tedesco sembrò contrariato.
— Mi dica di che cosa ha bisogno. Glielo farò
portare. Faccia in modo che Forgeaud riprenda il suo
lavoro il più rapidamente possibile.
Il monaco chiese garza, disinfettante, analge-
sico… e Klaus ritrasmise l’ordine a un soldato che
si affrettò verso l’infermeria della caserma per
procurare quanto richiesto. Il maggiore rimase lì,
accanto a Forgeaud, mentre il monaco si occupava
della ferita. Come il religioso immaginava, fu
254 CHRISTIAN JACQ

impossibile scambiare anche solo mezza parola con


il massone.
Il monaco aveva ormai compreso che cosa era acca-
duto, in realtà. Guy Forgeaud si era mutilato volontaria-
mente per essere condotto nell’infermeria, e rivedere
finalmente il Venerabile. O quanto meno per sapere se
era ancora vivo oppure no. Il massone, che serrava i
denti in modo spasmodico, doveva soffrire terri-
bilmente.
— Si faccia un po’ da parte — disse il monaco al
maggiore. — Mi lasci respirare.
Klaus esitò un istante, sorpreso dall’arroganza del
prigioniero. Ma il monaco aveva cominciato a fasciare
la ferita e non avrebbe esitato neanche a pestargli i
piedi se non si spostava in fretta. Il maggiore, tutto
impettito, fece un passo indietro.
Guy Forgeaud approfittò della circostanza per guar-
dare negli occhi il monaco e interrogarlo con lo
sguardo: “Il Venerabile è vivo?”. Ma Klaus si era già di
nuovo interposto e li osservava con una severità che
gelava il sangue. Il monaco non poteva permettersi il
minimo sbaglio, se non voleva condannare a morte il
ferito.
Finì di fasciargli il dito, avvertendo la disperazione
del massone che temeva di essersi inflitto quella soffe-
renza per niente.
— È una brutta ferita, ma vedrà che gliela metto a
posto. Stia tranquillo, non è ancora morto.
20

I
l Venerabile è vivo — annunciò Guy

— Forgeaud ai fratelli.
Gli occhi del maestro massone brilla-
vano, febbricitanti. Il dito gli bruciava come un
vulcano. Se non si fosse sentito in obbligo di essere
all’altezza del ruolo di maestro di fronte ai fratelli della
sua Loggia, avrebbe dato una testata contro il muro;
forse così avrebbe perso i sensi e avrebbe dimenticato
per un po’ quel dolore atroce.
— Come fai a dirlo? — chiese André Spinot,
tentando di dissimulare la sua speranza dietro un tono
acido.
— Il monaco… Mentre mi curava la ferita, mi ha
guardato negli occhi e mi ha detto: “Stia tranquillo.
Non è ancora morto”.
La delusione apparve sul viso di Dieter Eckart, di
256 CHRISTIAN JACQ

André Spinot, e di Jean Serval. Si aspettavano qualcosa


di più concreto.
— Non mi credete? — si meravigliò Guy Forgeaud.
— Sì, sì… — replicò Eckart. — Ma tu capisci, quella
frase… Si riferiva a te.
Guy Forgeaud si morse le labbra a sangue per non
urlare la sua frustrazione.
— No… non parlava di me… Non aveva bisogno di
esprimersi così… Nel suo sguardo c’era un messaggio
preciso che riguardava il Venerabile. È vivo. Vi giuro
che andrò a cercarlo. Non… non fate niente… Aspettate
e vedrete.
Così dicendo, Guy Forgeaud cadde su un fianco,
svenuto.
La baracca rossa era ormai immersa nel buio. Il
compagno André Spinot vegliava su Guy Forgeaud, che
dormiva un sonno agitato. Quanto a lui, non aveva
nessuna voglia di dormire. Avrebbe potuto restare
sveglio un’eternità… per la paura, perché sentiva oscu-
ramente che era prossima la sua fine. Non conosceva né
il giorno né l’ora, sapeva solo che il momento era vicino
e che non voleva morire senza avere visto in faccia il
suo assassino.
Jean Serval, l’apprendista, si avvicinò a Dieter
Eckart, seduto in un angolo della baracca.
— Vorrei parlarti, Dieter — disse Serval, con voce
tremante.
— Dimmi.
L'Architetto 257

Serval esitò. Fortunatamente, era buio ed Eckart


non poteva vederlo in viso.
— Voglio morire, Dieter. Sono allo stremo.
— Siamo tutti disperati come te, fratello.
Jean Serval era scosso dai brividi.
— Voglio morire subito. Non ne posso più.
— Non ha nessuna importanza — rispose Dieter
Eckart.
L’apprendista si sentì beffato, quasi insultato.
— Come puoi dire una cosa del genere…
— Quello che tu pensi e senti, fratello apprendista,
non ha alcun interesse. Il tuo dovere è di obbedire e di
tacere. Di fare tacere in te qualsiasi eccesso o
disarmonia.
Jean Serval serrò i pugni infuriato.
— Queste sono chiacchiere. Ma non ti rendi conto?
Non vedi dove siamo, non lo sai…
— Vedo e so — tagliò corto seccamente Dieter
Eckart. — Non serve cercare di ribellarsi. Perderai solo
energie preziose. E saremo più deboli anche noi altri.
Vuoi farti ammazzare? Fai pure. Non dirlo. E sappi che
priveresti la Loggia di uno dei suoi elementi essenziali.
Se tu lasci questa vita come un qualsiasi profano dispe-
rato, ci avrai tradito. E avrai tradito te stesso.
Jean Serval si prese la testa tra le mani e pianse.
Il monaco e il Venerabile gustarono lentamente una
cucchiaiata di zuppa di cavoli. Da due giorni erano
confinati nell’infermeria, come se il comandante del
258 CHRISTIAN JACQ

campo avesse perso qualsiasi interesse nei loro


riguardi. Cinque prigionieri cecoslovacchi erano dece-
duti in seguito alle torture subite, lì nella fortezza o
subito dopo la cattura.
Il monaco aveva passato una buona ora a pulire il
saio. Il Venerabile l’aveva imitato spazzolando il suo
vestito grigio che gli ricordava la libertà di un tempo. Il
monaco e il Venerabile erano i soli prigionieri della
fortezza che avessero conservato i loro abiti, quasi che il
comandante avesse voluto distinguerli da tutti gli altri,
per isolarli meglio.
Il Venerabile sfregò la stoffa tra il pollice e l’indice.
Non era più un vestito presentabile, tanto era sporco di
sudore e di polvere, ma poteva ancora andare.
I due uomini si squadrarono come se non si fossero
mai visti.
— Perché si è fatto frate? — chiese François
Branier.
II benedettino sgranò il rosario che portava alla
cintura.
— Per avvicinarmi a Dio e per conoscere meglio gli
uomini.
— Ed è rimasto nauseato da loro?
— Non proprio. Ho scoperto i loro limiti. Ho
conosciuto dei tipi abbastanza straordinari, ma si
occupavano solo di loro stessi. Nessuno sapeva
donare.
— Non le sarebbe bastato diventare sacerdote?
L'Architetto 259

Il monaco abbassò la testa come se fosse stato colto


in fallo.
— Ho conosciuto molti sacerdoti… Cercavo altre
cose. Un’esistenza più comunitaria, più fraterna. Ho
abbandonato gli studi di medicina quando ho incon-
trato un vecchio monaco, per caso, in una libreria del
Quartiere Latino. Si è rivolto a me, prendendomi per
un venditore. Mi ha chiesto un’opera sulle erbe medici-
nali. A tutta prima, ho pensato che stesse scherzando.
Gli ho risposto in modo brusco. Lui ha insistito.
Abbiamo discusso. Abbiamo cenato insieme, parlato
per una notte intera. All’alba, lui è ripartito per il suo
convento. L’ho seguito. A più di settantanni, era in una
forma fisica impeccabile. Eppure aveva mangiato e
bevuto per quattro. Non sapeva che cosa fosse la stan-
chezza. Io, al posto suo, sarei schiattato. Quel vecchio
mi affascinava. È a causa sua che ho scelto la vita
monastica. Sono entrato infatti come novizio nel
convento di Saint-Wandrille. In seguito non l’ho più
rivisto per un lungo periodo, finché ho saputo che era
l’abate del convento. Lui mi ha insegnato tutto quello
che so.
François Branier fu molto colpito dal racconto del
monaco. Gli parve che avessero vissuto due esperienze
di vita del tutto parallele.
— E’ ancora vivo?
— È morto cinque anni fa — rispose frate Benoît.
— Ho viaggiato da un convento all’altro, incapace di
260 CHRISTIAN JACQ

sopportare la sua assenza. Ma a un certo punto mi sono


detto che non potevo più andare avanti in quel modo.
Ho chiesto il permesso di tornare a Saint-Wandrille.
Me l’hanno accordato. Lì, ho tentato di riempire il
vuoto che sentivo. Di diventare un uomo e un monaco,
niente di più. Ho servito i miei fratelli. Ho svolto le
funzioni che mi hanno chiesto di svolgere. Quando il
decano mi ha fatto capire che sarei stato prescelto per
diventare anch’io abate, ho creduto a uno scherzo.
Anche se gli scherzi non erano mai stati il suo forte. Poi
è scoppiata la guerra, e i monaci sono stati dispersi. Mi
hanno mandato a dirigere il convento di Morienval,
un’abbazia romanica nella regione dell’Oise. Lì le SS
mi hanno arrestato. Non a causa della mia fede, ma
perché mi avevano accusato di utilizzare dei poteri
sovrannaturali! Pensi un po’… magnetismo e radioeste-
sia! Come se in questo ci fosse qualcosa di sovrannatu-
rale! I benedettini praticano questo tipo di medicina da
secoli. Ma a quanto pare, lei pure, Venerabile, ha dei
poteri…
François Branier sussultò. Stregato dalle parole del
monaco, aveva perduto il senso della realtà.
— Le auguro di divenire un giorno abate… e al
tempo stesso non glielo auguro affatto.
— Perché?
— Dirigere una comunità è il più ingrato dei
compiti. Nessuna esperienza, nessuna competenza è
sufficiente. Nessuno può sapere veramente se chi è
L'Architetto 261

prescelto per guidare i suoi confratelli ne avrà poi la


capacità. Accettare un tale compito equivale ad assu-
mere il più grande rischio che un uomo possa conce-
pire. Io credo senz’altro che lei sia all’altezza del suo
compito, padre.
Il monaco gli lanciò un’occhiata sospettosa. Si
chiese se lo prendeva in giro. Ma il tono del massone
suonava sincero. La sua emozione era percepibile.
— Io ho scommesso su Dio, Venerabile. Non ho
alcun timore. Al contrario di lei.
— E cosa dovrei temere, secondo lei?
— Lei teme di non reggere allo choc. Di non
mostrarsi all’altezza del suo ruolo. Perché in realtà non
ha nessuna fiducia nel Grande Architetto.
— Mi spiace deluderla, padre. Paura di non essere
all’altezza? È possibile. La mia capacità di resistenza ha
dei limiti, come la sua. Paura di non essere un buon
Venerabile? Non sta a me giudicare. Saranno i miei
fratelli a decidere. Mi hanno rieletto fino alla prossima
festa di San Giovanni Battista. Non ho scelta. Devo diri-
gere la Loggia. Il Grande Architetto dell’Universo? Non
è questione di crederci o no. Di avere o meno fede in
lui. Che cosa importa? Crea il mondo a ogni istante. Sta
a noi saperlo riconoscere.
— Una creazione puramente teorica.
— No, padre. Io non sono forse in grado di trasmet-
tergliela, ma le giuro che essa è gioia. La sola vera gioia.
Il benedettino si sentì correre lungo la schiena un
262 CHRISTIAN JACQ

brivido che, stranamente, lo riscaldò. Non voleva


ammetterlo, ma era cosciente di vivere un momento
ineffabile. Chiuso dentro quella baracca, gli parve
ugualmente di respirare una boccata d’aria pura. La
gioia evocata dal Venerabile la conosceva per averla
vissuta nel suo convento, in mezzo ai confratelli. Come
poteva un massone avere accesso a un tale mistero?
Un forte accesso di tosse lo obbligò a piegarsi
leggermente.
— Lei è quasi un medico — osservò il Venerabile.
— Non crede che sia tempo di fare qualcosa per la sua
bronchite?
— A ciascuno la sua croce. Io penso alla mia.
Un raggio di sole penetrò nell’infermeria, illumi-
nando il viso dei due uomini. Klaus, il maggiore delle
SS, aveva aperto la porta piano, senza fare rumore,
contrariamente alle sue abitudini. Mosse qualche passo
all’interno e andò a mettersi davanti al Venerabile.
— Mi segua — ordinò a François Branier. — Ho
una sorpresa per lei.
21

I
l Venerabile si aspettava di essere sottoposto
ancora una volta a un interrogatorio. Un sole
splendido brillava alto nel cielo, riscaldando l’at-
mosfera. Seguendo Klaus, si diresse verso la torre
centrale. François Branier alzò gli occhi verso la sua
sommità, da cui spuntavano le canne delle mitraglia-
trici. Il maggiore sembrava nervoso. Spinse da parte
uno dei soldati che montavano la guardia davanti
all’ingresso della torre e salì al secondo piano, seguito
dal prigioniero. Si arrestò davanti a una porta, che non
era quella dell’ufficio e del comandante, e bussò.
Helmut, l’aiutante di campo, gli aprì. Fece entrare
François Branier e richiuse la porta alle sue spalle,
lasciando fuori il maggiore.
Il Venerabile vide una stanza tutta tappezzata di
velluto rosso e debolmente illuminata da candele. In
264 CHRISTIAN JACQ

fondo, c’era il comandante del lager, steso su un letto


basso.
— Non si sente bene — spiegò l’aiutante di campo.
— L’ho fatto trasportare nella sua stanza. Lo visiti.
D’istinto, François Branier si chinò sul malato, ritro-
vandosi improvvisamente immerso nell’atmosfera
ovattata di una visita a domicilio, in quel genere di
situazioni, cioè, in cui un medico di norma svolge
anche la funzione di confidente del malato. Ma quel
domicilio era in realtà una prigione e il paziente un
criminale.
— Si rivolga a un medico nazista.
— Il comandante era l’unico medico tedesco di
questo campo, dottor Branier.
Un collega… Il Venerabile si chiese se Helmut
mentiva, se il comandante non aveva organizzato di
proposito quella scena un po’ macabra.
— Lei non ha il diritto di rifiutare le sue cure a un
malato — insistette l’aiutante di campo.
Era precisamente lo stesso problema che si poneva
in quel momento il dottor Branier. Il comandante, lo
sguardo fisso nel vuoto, appariva molto pallido, le
labbra secche. Era di certo un attacco cardiaco.
— E le medicine?
L’aiutante di campo aprì un armadietto, i cui scaf-
fali erano pieni di ogni sorta di farmaci, anche per
curare i malanni più gravi. Lasciar morire il coman-
dante, sbarazzarsi dell’aiutante di campo, portare il
L'Architetto 265

contenuto dell’armadietto ai malati dell’infermeria…


Un sogno insensato. Il Venerabile sapeva che lo avreb-
bero abbattuto con una raffica di mitra prima ancora di
mettere piede fuori dalla torre.
— Si decida, dottor Branier. Altrimenti, chiamo il
monaco.
Il benedettino non poteva rifiutarsi di essere cari-
tatevole,
e si sarebbe certamente sostituito al Venerabile se
questi avesse rifiutato di visitare il comandante.
François Branier aprì il colletto dell’uniforme del
malato, e scrutò il fondo dell’occhio.
— Ci lasci soli — disse poi, rivolto a Helmut. —
Non mi piace sentirmi osservato quando lavoro.
— Ma…
— O così, o sospendo la visita.
L’aiutante di campo esitò. Fare ricorso al monaco
era l’ultima soluzione. Ma non si fidava delle capacità
terapeutiche del religioso.
— Le do cinque minuti di tempo.
Il soldato uscì, chiudendo la porta alle sue spalle.
Il monaco pregava. Ma la preghiera non bastava a
restituirgli la serenità. Aveva il cuore attanagliato
dall’angoscia. Forse perché il vecchio astrologo stava
per morire, predicendo una volta di più la venuta
imminente del fuoco distruttore. Forse anche perché il
suo stesso istinto gli annunciava una prova terribile,
tale che dubitava di avere la forza di affrontarla.
266 CHRISTIAN JACQ

Il monaco, squassato di continuo da colpi di tosse,


era molto indebolito. Non solo fisicamente. Il
convento, i suoi confratelli, i riti quotidiani, la vita
comunitaria gli mancavano troppo. Finora aveva
tenuto duro in mezzo alla tempesta. Ma ora le sue
difese cominciavano a cedere. Il Venerabile era in
grado di curare i malati anche da solo. Per il resto, a
che serviva lottare? Dimenticare se stesso in Dio,
perdersi in lui, lasciarsi assorbire dalla sua immen-
sità… che cosa si poteva sperare di meglio? Sarebbe
stata quanto meno la soluzione più rapida per raggiun-
gere la sua vera patria.
Il monaco scacciò la tentazione di abbandonare la
partita. Troppo comodo. Il desiderio di santità non
poteva essere un alibi. Brutto segno se adesso comin-
ciava a cercare delle scuse, a mentire a se stesso. La
verità era che Dio gli si negava. Perché non rispondeva
più alle sue preghiere? A causa del dialogo che aveva
intrecciato con quel massone? O solo perché stava
perdendo la voglia di combattere, rassegnandosi a
diventare un prigioniero come tutti gli altri?
— Non siamo così lontani dall’obiettivo — disse
Guy Forgeaud. — Abbiamo quasi tutto quello che serve
per celebrare una tenuta… Se riuscissimo a trovare quel
cavolo di gesso…
La capacità di resistenza del meccanico era fonte di
meraviglia per i suoi fratelli. Ferite e bastonate non
erano riuscite ad avere ragione di lui. Stava guarendo in
L'Architetto 267

fretta, nonostante le condizioni poco favorevoli di


quella convalescenza.
— A patto che il Venerabile posso tornare in mezzo
a noi — ricordò Dieter Eckart.
Il compagno André Spinot montava la guardia, con
l’occhio incollato alla fessura nella parete esterna della
baracca. Non pensava a nient’altro. Aveva dimenticato
la fortezza, la paura, la morte incombente. Guardava e
basta.
Serval, l’apprendista, lavorava. I due maestri gli
avevano chiesto di meditare su un passaggio essenziale
dell’iniziazione al primo grado, la purificazione con il
fuoco, in relazione all’istante in cui il Venerabile creava
il nuovo iniziato con il maglietto e la spada fiammeg-
giante, ovvero una spada con una lama a due tagli
sottile e ondulata che rievoca la spada di fuoco citata
nella Bibbia.
— Lo so, Dieter — rispose Forgeaud. — Non ci
sono che tre possibilità: o il Venerabile si trova nell’in-
fermeria, o è chiuso nella torre centrale, oppure… è
morto.
— No…
Forgeaud posò la mano sulla spalla del maestro.
— Stai tranquillo, Dieter. Non ci si sbarazza così
facilmente di un Venerabile come lui.
— Vorrei tanto poterti credere, Guy… Lo vorrei
tanto.
— Se anche tu cominci a vacillare, siamo finiti. Tu sei il
268 CHRISTIAN JACQ

nostro polo d’equilibrio in assenza di François. Sappiamo


tutti che sei uno che non si lascia influenzare dalle circo-
stanze. Sarai obbligato a dirigerla tu, questa tenuta.
— Non ne ho il diritto, Guy. Nemmeno qui, in
questa situazione.
Forgeaud abbassò il capo. Dieter Eckart aveva
ragione.
— Lo sai, Guy, François Branier non è un Venera-
bile come gli altri. Ne ho conosciuti a decine, buoni,
cattivi, tiepidi, fanatici. Ma nessuno poteva stargli alla
pari. Il nostro Venerabile è un maestro spirituale,
amico mio. Ha la statura morale dei monaci che fonda-
rono i primi conventi e fecero uscire l’Occidente dalla
barbarie. Lui solo sa dove ci sta conducendo. Quanto a
me, lo seguirò fino alla fine. Come noi tutti. Perché ci
costringe tutti a superare i nostri limiti. A diventare
quello che non eravamo ancora.
Guy Forgeaud assorbì le parole di Dieter Eckart
come un’aria vivificante. Prese coscienza della statura
del Venerabile, come se sentisse parlare di un essere
lontano, quasi inaccessibile e tuttavia così vicino.
— È lui! — urlò in quel momento André Spinot.
—È lui!
Il compagno lasciò il suo posto d’osservazione e si
gettò
tra le braccia di Guy Forgeaud.
— Lì in cortile — singhiozzò Spinot, la voce rotta
L'Architetto 269

dall’emozione. — Il Venerabile… con il maggiore… Il


Venerabile è vivo! Vivo!
François Branier aprì la porta della camera da letto
del comandante. L’aiutante di campo attendeva in
corridoio, camminando nervosamente avanti e indietro.
Guardò ostentatamente l’orologio. La visita medica era
durata in tutto cinque minuti.
— È fuori pericolo — annunciò il Venerabile. —
Riposo assoluto per qualche giorno e cure intensive.
— Grazie, dottor Branier. È una cosa seria?
— Molto seria. Ci vorranno degli esami appro-
fonditi.
Helmut parve imbarazzato. Un suono pesante di
stivali risuonò nel corridoio. Klaus parlò in tedesco,
rivolgendosi all’aiutante di campo: — Ho saputo che il
comandante non sta bene…
François Branier distolse lo sguardo. Il tedesco non
era la sua lingua, e poteva fingersi estraneo alla conver-
sazione.
— Sì — rispose l’aiutante di campo.
— È ancora in grado di assolvere le sue funzioni?
— Ha bisogno di riposo e…
— In tal caso — sentenziò il maggiore delle SS — è
mio dovere assumere il comando del campo fino a
nuovo ordine. Helmut, mi terrà aggiornato costante-
mente sulle condizioni del comandante, con un
rapporto ogni sei ore. Nel frattempo mi installerò nel
270 CHRISTIAN JACQ

suo ufficio. L’attendo per un rapporto immediato sulla


situazione.
L’aiutante di campo fece il saluto delle SS, sten-
dendo il braccio e battendo i tacchi. Il Venerabile
rimase pazientemente in attesa.
— Si tenga disponibile, dottor Branier — ordinò il
maggiore, parlando di nuovo in francese. — Lei sarà
personalmente responsabile per la salute del
comandante.
— Non posso fare miracoli. Forse sarà necessario
operarlo.
— Chiederò che mandino degli specialisti. Per il
momento, la vita del comandante è nelle sue mani.
All’interno della baracca rossa, i fratelli della
Loggia Conoscenza erano ancora storditi. Guardavano
il compagno André Spinot, i cui occhi ridevano e pian-
gevano allo stesso tempo. Non osavano ancora credere
alle sue parole.
— Sei proprio sicuro, André? — chiese Jean Serval.
— Era proprio il Venerabile?
— Senza dubbio! Non posso sbagliarmi, te lo giuro!
Vi rendete conto? Il Venerabile, vivo!
L’occhialaio non era solito mostrarsi così espansivo.
L’apprendista Jean Serval vibrava sulla stessa
lunghezza d’onda. Dieter Eckart, invece, come al solito,
non lasciò trapelare i suoi sentimenti.
— Non è tutto qui — disse Guy Forgeaud. —
L'Architetto 271

Dobbiamo tirarlo fuori di lì. Le SS l’hanno portato


nella torre?
— Sì — rispose Spinot, febbrile. — D’ora in poi
non la perderò più d’occhio un minuto.
Forgeaud era perplesso.
— Se solo potessimo avere un’arma vera…
— Non facciamoci illusioni, Guy. Non possiamo
fare altro che seguire da qui gli sviluppi della
situazione.
Serval si piazzò davanti a Dieter Eckart.
— E se tentassi di uscire, questa notte? Basterebbe
allargare la fessura. Potrei introdurmi nella torre e…
Il maestro interruppe l’apprendista.
— Non possiamo suicidarci, fratello. Restiamo vigili
e invochiamo la presenza del Venerabile unendo i
nostri desideri. Forse servirà a farlo tornare tra noi.
— Benissimo, padre — disse il maggiore delle SS,
ispezionando l’infermeria. — Un modello di pulizia.
I malati stavano ammassati sui letti, con aria spaurita.
Temevano di essere espulsi da quell’inferno per essere
precipitati in un altro ancora peggiore. Il monaco, seduto,
sgranava il suo rosario. Klaus s’arrestò giusto davanti a lui.
— Perché crede a questo genere di superstizioni?
— Ognuno ha il suo metodo per non dimenticare
Dio… Lei, forse, si aggrappa alla divisa.
II viso del soldato si contrasse.
— Lasci perdere, padre. Questa sua arroganza le
272 CHRISTIAN JACQ

costerà cara, l’avverto. Nessuno può permettersi di


insultare il comandante.
Il monaco non si degnò di alzare la testa.
— Il vecchio comandante è morto?
Un gelido sorriso increspò le labbra sottili del
tedesco.
— Siamo stati fin troppo tolleranti con lei. Da
quando è qui non ha fatto altro che mentire.
Impassibile, il monaco fece finta di spazzolarsi le
maniche del saio, sfregandole una sopra l’altra. Un po’
di saliva facilitò l’operazione.
— Io mentire? La mia religione me lo impedisce.
Sarebbe un peccato e qui non avrei nessuno con cui
confessarmi.
Klaus attendeva uno sbaglio da parte del monaco.
Prima o poi l’avrebbe commesso.
— Oh, sì, padre, c’è qualcuno, invece… Lei e il
Venerabile Branier siete confessori uno dell’altro. Sono
convinto che vi siate detti tutto, e che lui le abbia anche
confidato il suo segreto.
Il silenzio era quasi assoluto, nell’infermeria. Il
monaco si alzò, si aggiustò il saio, sistemò per bene
anche il rosario che gli faceva da cintura, e guardò in
faccia il maggiore.
— Solo un uomo di Dio può confessare un uomo di
Dio. Sappia che io e il Venerabile non abbiamo proprio
niente da dirci. Non è che un miscredente destinato alle
fiamme dell’inferno.
L'Architetto 273

Klaus mosse un passo di lato.


— In questa fortezza non c’è posto per il suo Dio.
Lei ha sicuramente trovato un altro terreno d’intesa con
il Venerabile. Vi siete accordati. So bene come si
comportano i detenuti. Non pensano che a ribellarsi, a
evadere, ad architettare i piani più folli per avere
ancora l’illusione di essere degli uomini liberi. Anche i
peggiori nemici finiscono per allearsi.
Il monaco sentì avvicinarsi il momento che temeva
tanto.
— Lei si sbaglia. Il Venerabile e io siamo molto più
che dei nemici. Non è possibile tra di noi alcun genere
di intesa.
Klaus si diresse verso la porta dell’infermeria.
— Voglio accordarle un’ultima possibilità, padre —
disse, restando con le spalle voltate al monaco. — Mi
riveli immediatamente il segreto della Loggia.
La voce del benedettino non tradì la sua emozione.
— Non ci sono segreti. Non mi ha confidato niente.
La porta si chiuse con un tonfo. Il monaco si ingi-
nocchiò e pregò.
22

I
l comandante è morto.

— François Branier, sorpreso, guardò in


faccia l’aiutante di campo.
— Quando?
— Un’ora fa, dottor Branier. Il maggiore Klaus ha
assunto il comando della fortezza. Mi segua.
Il Venerabile uscì dalla stanzetta dove lo tenevano
rinchiuso da due giorni senza dargli nemmeno da
mangiare, e dove aveva passato la maggior parte del
tempo a dormire.
Perché l’avevano isolato a quel modo? Perché gli
avevano impedito di curare il malato, di visitarlo di
nuovo?
Scortato dalle SS, il Venerabile scese la scala della
torre e sbucò nel grande cortile. Lo trovò pieno di
L'Architetto 275

prigionieri in uniforme a righe, divisi in due gruppi,


separati solo da uno spazio limitato. In mezzo al primo
gruppo, i fratelli della Loggia Conoscenza, Dieter
Eckart, Guy Forgeaud, André Spinot, Jean Serval. Due
maestri, un compagno, un apprendista. Erano gli unici
sopravvissuti.
Anche loro lo videro. Non manifestarono alcun
segno di gioia. Le SS li sorvegliavano, con i mitra spia-
nati. Un’atmosfera da fine del mondo. Nessuno si
mosse. I prigionieri e i loro guardiani sembravano
ugualmente immobili come statue.
La porta dell’infermeria si aprì. Due soldati condus-
sero il monaco nello spazio tra i due gruppi di detenuti.
Il tempo era bello, l’aria quasi tiepida.
La voce dell’ufficiale superiore si levò alle spalle del
Venerabile.
— Vada a mettersi vicino al monaco.
Il Venerabile avanzò, seguito dagli sguardi di tutti.
Prese a sinistra girando attorno al gruppo più vicino,
procedendo a passo lento, con un ritmo che gli ricordò
le processioni che la Loggia faceva in occasione della
festa di San Giovanni Battista, con il maestro delle ceri-
monie che marciava alla testa del collegio degli ufficiali
verso il tavolo del banchetto rituale. Dove stava
andando, invece, adesso? In quale labirinto era finito?
Il Venerabile giunse al centro del cortile, ferman-
dosi di fronte al monaco. A quel punto non vedeva più
276 CHRISTIAN JACQ

gli altri detenuti, ridotti a una indistinta e lontana


massa brunastra. Il monaco aveva un’aria severa.
François Branier ebbe paura. Per la prima volta, si sentì
ridotto allo stato di un insetto.
— Questo campo di prigionia deve essere riformato
— annunciò Klaus. — D’ora in poi dovrete farvi carico
dei lavori di manutenzione. L’ordine va rafforzato. L’in-
fermeria sarà ripulita. È una vera porcheria. Due
medici! Uno è sicuramente di troppo…
Il monaco e il Venerabile girarono lentamente la
testa verso il maggiore, che si era piazzato davanti alla
torre centrale per farsi sentire da tutti.
Klaus diede un ordine in tedesco. Le SS gli condus-
sero davanti il monaco e il Venerabile.
— Vi ordino di battervi. Chi vince avrà la responsa-
bilità di gestire l’infermeria. Chi perde sarà messo a
morte. A meno che uno dei due non resti ucciso nel
corso del combattimento.
Il monaco insorse.
— Non mi batto proprio con nessuno. Uccidetemi,
se volete. Sono pronto.
Il benedettino si erse coraggiosamente nella figura,
come un abate dei tempi antichi che dovesse respin-
gere da solo un’orda di barbari che cercava di profanare
il suo convento.
— D’accordo, padre. A condizione che lei mi riveli
immediatamente il segreto della Loggia Conoscenza
che le ha confidato il Venerabile.
L'Architetto 277

— Mai un massone ha confidato a un bigotto qual-


cosa di così prezioso — protestò François Branier.
— Come si può pensare che io abbia ascoltato
anche per un solo istante un pericoloso miscredente
come questo? — ribatté il monaco.
— Ebbene, visto che vi detestate tanto, battetevi!
— Non potrei mai colpire un religioso. Troppo
facile.
Klaus contenne a stento la collera.
— Perfetto, signori. Allora, padre, lei è pronto a
giurare su Dio che ignora il segreto della Loggia
Conoscenza?
Il benedettino alzò gli occhi verso il cielo.
— Lo giuro.
— Lei mente! — urlò il maggiore delle SS. — Voi
due siete complici!
Il monaco e il Venerabile restarono impassibili.
“Resisti” si disse il benedettino. “Resisti fino allo
spasimo, prima o poi sarà costretto ad abbandonare
questa idea folle.”
“Nega, nega sempre” pensò allo stesso modo il
Venerabile. “A dispetto di tutto.”
— So che lei si è confidato con il monaco — tornò
all’assalto il maggiore, rivolgendosi al Venerabile. —
Voi due vi sostenete a vicenda, con i vostri poteri miste-
riosi. Ma adesso è finita. Uno di voi due deve sparire.
L’altro si ritroverà solo. E allora finirà per parlare.
Quale dei due doveva morire? Il monaco pensò alla
278 CHRISTIAN JACQ

sua scommessa. Sarebbe stato Iddio a decidere. Spet-


tava a lui scegliere una soluzione conforme al suo
volere. Il benedettino non aveva paura di niente. Se era
vicino al termine del suo passaggio su questa terra,
significava che stava per tornare verso la patria celeste.
E tuttavia, frate Benoìt era convinto di poter fare ancora
tanto per la gloria del suo Creatore. Ma non si ribellava
al suo destino. Era totalmente pronto ad accoglierlo, ad
accettare la volontà del Signore di tutte le cose, perché
il suo sguardo vedeva molto più lontano di quanto
potesse fare lui.
“O io o il monaco?” si chiese in quello stesso momento
il Venerabile, ripensando alla scommessa che avevano
fatto. Il Grande Architetto dell’Universo avrebbe agito
secondo la Regola. Il caso o il compromesso non potevano
interferire in quel grande disegno complessivo, su scala
cosmica, in cui ogni elemento della costruzione si situava
al posto giusto, ma che l’uomo non era in grado di
comprendere. Al momento prefissato, il Venerabile ne era
certo, avrebbe dovuto affrontare anche lui quel passo
estremo con la necessaria dignità, se ne fosse stato capace.
Era una prova a cui si era preparato fin dal momento in cui
aveva abbandonato la sua vita profana con il rito dell’ini-
ziazione, quando era stato lasciato da solo a meditare nel
gabinetto di riflessione, faccia a faccia con un cranio.
Il maggiore delle SS abbozzò un sorriso, compia-
ciuto con se stesso per l’idea che aveva avuto.
L'Architetto 279

— Ognuno di voi sarà responsabile di una metà dei


detenuti — spiegò. — È per questo che li ho divisi in
due squadre. Ho messo i cattolici nella sua squadra,
padre, e i membri della Loggia Conoscenza nella sua,
Venerabile, insieme agli astrologi. Chi perde condan-
nerà a morte anche la sua squadra. Non era così che si
faceva, nel mondo antico? Il desiderio di salvare delle
vite dovrebbe spingervi a battervi con la massima
energia!
Il monaco chiuse gli occhi. Per non vedere l’orrore
di quella situazione, e per cercare di mettere ordine nei
propri pensieri. Il Venerabile ripeté tra sé le parole che
aveva appena udito, accettando a fatica l’atroce realtà
che esse comportavano.
— Prima o poi tocca morire, padre — disse infine
François Branier, con la gola secca per l’emozione. —
Forza, allora, mettiamocela tutta.
Il monaco intravide una strana luce nello sguardo
del Venerabile. Senza dubbio stava tentando di
trasmettergli un qualche messaggio. Il monaco non
riuscì a decifrarne il significato, ma decise di fidarsi.
— È pronto, padre? — insistette Klaus, con impa-
zienza. — A meno che uno di voi due non si decida a
parlare…
— Questo segreto che dovremmo confidare esiste
solo nella sua fantasia — ribatté François Branier.
— Il Venerabile non mi ha confidato niente —
280 CHRISTIAN JACQ

confermò il monaco. — È una follia. Non otterrà niente


in questo modo.
Klaus arretrò di qualche passo. Salì su una
piccola pedana e si rivolse ai detenuti in tedesco, in
cecoslovacco e in francese, spiegando loro la posta
che era in gioco in quel combattimento. Le sue
parole furono accolte da esclamazioni di sconcerto,
presto soffocate rudemente dai soldati con i calci dei
fucili. Tutti gli sguardi si appuntarono sul monaco e
il Venerabile.
Le dita dei fratelli della Loggia Conoscenza si sfio-
rarono, abbozzando una catena d’unione. André Spinot
si guardò i piedi. Jean Serval lo imitò. Dieter Eckart
afferrò saldamente i polsi di Guy Forgeaud, per tratte-
nerlo prima che potesse lanciarsi verso il recinto dove
stava per svolgersi quell’assurda sfida.
— Metteteli in tenuta da combattimento! — ordinò
Klaus.
Un nucleo di SS presero il monaco e il Venerabile,
strappando al primo la parte superiore del saio, e
all’altro la giacca e la camicia. Rimasti così a torso
nudo, le braccia ciondoloni, i due sfidanti sentirono
sulla pelle il soffio della brezza. Avevano la stessa
muscolatura possente, lo stesso petto ampio, rassi-
curante.
— Combattete! — gridò il maggiore delle SS. —
Altrimenti, farò abbattere ogni dieci secondi dieci dete-
nuti di entrambi i gruppi.
L'Architetto 281

Mormorii angosciati si levarono dai ranghi dei


prigionieri. Un grido risuonò.
— Forza, prete! Fallo a pezzi!
Tutti si aspettavano che quello che aveva gridato
fosse messo a morte. Ma le SS non si mossero. L’agita-
tore ricominciò, ben presto imitato da quelli che gli
stavano accanto.
— Forza, massone! — rispose un membro della
squadra di François Branier, dando il via a sua volta a
una serie di incoraggiamenti.
Si scatenò in breve una battaglia vocale tra i due
opposti schieramenti. Echeggiò uno sparo. Nella prima
fila di uno dei gruppi un uomo cadde a terra, il cranio
fracassato da una pallottola. Un silenzio terrorizzato
scese allora nel cortile.
— Non voglio alcun rumore durante il combatti-
mento — ordinò il maggiore delle SS. — Andiamo,
signori. Dovete combattere fino alla morte.
Il Venerabile fece un passo in direzione del monaco,
fece scattare il braccio destro e colpì il suo avversario
con un pugno in mezzo al petto. Il monaco non risentì
molto del colpo, sferrato dal Venerabile senza usare
tutta la sua forza.
— Colpisci, monaco. Fai come me!
François Branier aveva ora sul viso una smorfia
feroce, come se volesse veramente massacrare il suo
nemico. Colpì di nuovo al fegato. Il frate benedettino
accettò allora la sfida, si piegò in due e replicò con una
282 CHRISTIAN JACQ

gomitata che prese alla sprovvista il Venerabile, facen-


dolo barcollare all’indietro.
— Ti pentirai di questo affronto — avvertì il
monaco, unendo i pugni a martello per calarli sulla
testa dell’altro.
Il Venerabile tentò di schivare il colpo. Troppo tardi.
Fu colpito alla spalla sinistra e non poté trattenere un
grido di dolore. Ma si rifece prontamente sferrando un
calcio al ginocchio del monaco. Si apprestava a incal-
zare l’avversario quando Klaus intervenne.
— Basta! State facendo finta! Combattete sul serio,
avanti!
Le SS erano già pronte a sparare sulle prime file
dei due
gruppi di prigionieri.
La fronte del monaco si increspò di rughe. Il Vene-
rabile, da parte sua, si sentì mancare il fiato.
— Stavolta, padre, sarà Dio o il Grande Architetto.
Mi dispiace, ma devo cercare di salvare i miei fratelli.
Il monaco avrebbe volentieri offerto l’altra guancia,
come insegna il Vangelo, ma non poteva lasciare abbat-
tere decine di poveracci che erano obbligati a riporre in
lui le loro speranze di sopravvivenza. Né Cristo né
Benedetto da Norcia erano rimasti passivi di fronte al
male. Uno era venuto a portare la luce nel mondo,
l’altro aveva lottato contro la barbarie del suo tempo.
Quanto a lui, un semplice monaco, avrebbe dovuto
trionfare sul Venerabile di una Loggia Massonica per
L'Architetto 283

salvare dei cristiani. Anche se era del tutto riluttante a


colpire François Branier.
Il Venerabile, per parte sua, si sentiva investito dalle
speranze dei suoi fratelli. Non poteva vederli, confusi
com’erano con gli altri prigionieri. Ma avvertiva acuta-
mente la loro presenza. Doveva battersi per loro, ferire,
uccidere un uomo per il quale provava solo ammira-
zione. Era una situazione davvero mostruosa, e qual-
siasi morte sarebbe stata preferibile a quella prova
assurda.
I due avversari avanzarono uno verso l’altro.
Ognuno dei due era ansioso di sferrare un colpo riso-
lutivo, nella speranza che quel supplizio potesse finire
al più presto. Sapevano già che ne avrebbero riportato
un trauma indelebile. Si fissarono a lungo, chieden-
dosi reciprocamente perdono con lo sguardo per
quello che dovevano fare. Non erano divenuti improv-
visamente delle bestie sanguinarie, ma il loro vero
essere era stato cancellato dalla funzione che dovevano
svolgere: dovevano uccidere, senza alcuna intenzione
cosciente, come potrebbe fare un fulmine durante una
tempesta.
Caricando a testa bassa, il monaco colpì il Venera-
bile, che cadde a terra, senza fiato. Riuscì ugualmente a
rialzarsi, malgrado il dolore acuto al petto. Infuriato,
sferrò un diretto al volto del monaco, provocandogli un
taglio profondo all’arcata sopraccigliare, da cui sgorgò
subito abbondante il sangue. Con la testa in fiamme, il
284 CHRISTIAN JACQ

benedettino caricò di nuovo, e i due contendenti lotta-


rono avvinghiati l’uno all’altro.
Il monaco riuscì infine a divincolarsi e a colpire per
primo con un gancio al mento. Il Venerabile vacillò. Un
velo nero danzò davanti ai suoi occhi, impedendogli di
distinguere chiaramente l’avversario. Sentì che era
finito. Aveva perduto. I suoi fratelli sarebbero morti
insieme a lui. Ma almeno non avrebbe dato spettacolo
penzolando da una forca come un fantoccio. Si
apprestò ad attendere, in piedi, il colpo fatale.
Ma il monaco, in quello stesso momento, era
piegato in due da un accesso spasmodico di tosse. Si
raddrizzò a fatica. Distingueva solo vagamente la
sagoma del Venerabile, l’essere che doveva distruggere.
Raccolse tutte le sue forze, unì i pugni sopra la testa e sì
preparò ad abbatterli come una scure sulla vittima
sacrificale.
Un grido acuto lo bloccò all’ultimo momento. La
voce di André Spinot.
— Sono ebreo! — urlò il massone. — Sono ebreo e
i crucchi mi fanno schifo! Le SS creperanno tutte,
perderanno la guerra!
I tedeschi, sconcertati, tardarono qualche istante a
reagire. André Spinot, facendosi largo tra i ranghi dei
carcerati che gli stavano davanti, superò di corsa il
monaco e il Venerabile, e si slanciò verso il maggiore
delle SS.
L'Architetto 285

Avvedutosi della minaccia, Klaus si riscosse, e


bloccò Spinot con un calcio al ventre.
Una cinquantina di detenuti, folli di paura, si slan-
ciarono verso le mura perimetrali della fortezza, travol-
gendo il Venerabile e calpestando il monaco nella loro
fuga sfrenata. Altri, in preda al panico, si buttarono a
terra. Altri ancora aggredirono dei soldati.
II maggiore diede l’ordine di sparare.
23

L
a morte aveva il gusto come di un sonno
pesante nel cuore della notte. François
Branier l’assaporò tra i denti, lasciandosi
attrarre dal rumore delle voci che avevano infranto il
silenzio in cui era sprofondato. I contorni di alcuni visi
emersero dalla bruma indistinta. Erano i visi di Raoul
Brissac, Dieter Eckart, Jean Serval. Il Venerabile tese la
mano verso i fratelli, immaginando di incontrare solo il
vuoto. Invece avvenne un miracolo. Brissac sorrise,
Eckart gli prese la mano. Serval si sciolse in lacrime.
— La Loggia… voi, la Loggia?
Il velo davanti agli occhi si squarciò. I suoi fratelli
erano ancora incapaci di parlare. Lasciarono al Venera-
bile il tempo di riprendere contatto con la realtà.
— Dove siamo?
L'Architetto 287

— Nella nostra baracca — rispose Dieter Eckart. —


Sei svenuto nel momento in cui il monaco stava per
massacrarti.
François Branier si mise a sedere, inquieto.
— André? Dov’è André?
— Morto. Si è dichiarato ebreo e ha dato il via a una
rivolta. È stato un massacro. Hanno sparato. Poi hanno
bruciato il corpo di André, al centro del cortile.
La voce di Dieter Eckart non aveva tremato. Aveva
detto la verità, così come l’aveva vista. Non aveva l’abi-
tudine di indorare la pillola, nemmeno nei casi più
gravi.
André… Il Venerabile e i maestri della Loggia si
erano impegnati moltissimo per strapparlo al suo
narcisismo e per aprir
gli la strada che conduceva verso la luce. André
stentava a sbocciare, a placare le sue angosce, a trovare
l’equilibrio che gli era necessario per progredire più
rapidamente. Sensibile com’era, aveva dovuto farsi
violenza per passare dalla dimensione affettiva a quella
della comunione fraterna. Aveva dato prova di un
formidabile coraggio: rivendicando il suo essere ebreo,
aveva offerto il suo sangue al corpo sacro della Loggia,
come si era impegnato a fare con il giuramento che
aveva pronunciato quando era stato iniziato al grado di
apprendista.
André Spinot aveva salvato la comunità, scommet-
288 CHRISTIAN JACQ

tendo sull’eternità, sulla sua incessante metamorfosi


regolata dal Grande Architetto.
Ora che anche lui era partito verso l’Oriente eterno,
restavano solo quattro fratelli.
Eckart non si fece scrupolo di straziare l’anima di
François Branier.
— Non c’è tempo di piangere, adesso, maestro
Venerabile. Abbiamo molto da fare.
Dieter Eckart si era espresso con la sua abituale
autorità. Con il suo atteggiamento, riusciva a far
evadere i fratelli da quella maledetta fortezza nazista. Li
trasportava idealmente sotto la volta e tra le pietre
ancestrali dei luoghi appartati dove avevano celebrato
tante tenute, in quegli edifici virtualmente privi di
pecche dove l’uomo poteva credersi un po’ meno
mortale.
— E il monaco? — chiese François Branier.
Senza rispondere, Eckart e Forgeaud aiutarono il
Venerabile ad alzarsi. Era ancora tutto ammaccato, ma
riuscì a tenersi in piedi. Il dolore era concentrato
soprattutto nella zona del petto. Ma era un dolore
sopportabile.
— Potete lasciarmi… penso di farcela.
Il Venerabile vide allora il monaco. Steso sul pavi-
mento della baracca, ancora privo di sensi. I fratelli
della Loggia Conoscenza lo avevano rivestito con il
saio.
L'Architetto 289

-È…
— No — rispose Dieter Eckart. — Respira. È stato
travolto e calpestato dagli altri prigionieri in mezzo alla
confusione.
— Perché lo hanno portato qui?
— Non ne ho la minima idea.
Il Venerabile credette di comprendere. Il monaco
era stato dato per morto. Ormai il maggiore lo conside-
rava un collaboratore dei massoni. Avrebbe dovuto
condividere il loro destino, a meno che non si fosse
deciso a tradirli. Il benedettino un traditore? François
Branier si ritrovò di nuovo in preda al dubbio. Se il
monaco era una spia, l’aveva fatto per conto del coman-
dante morto. Ora che quest’ultimo non c’era più, Klaus
poteva anche avere deciso di toglierlo di mezzo. Impa-
ziente, violento, privo della finezza del suo coman-
dante, non puntava più a mettere uno contro l’altro il
monaco e il Venerabile. Non si attendeva più nulla da
un conflitto che doveva distruggere la loro capacità di
resistenza, e così li aveva messi tutti e due nello stesso
recinto.
Quell’atteggiamento non lasciava presagire niente
di buono. Il comandante era un mostro di tutt’altro
genere, freddo, calcolatore. Klaus era solo un bruto,
inebriato dal suo nuovo potere.
— Davvero è stato il monaco a conciarmi così? —
chiese il Venerabile.
290 CHRISTIAN JACQ

— Ah, è un tipo tosto, senza dubbio! — commentò


Guy Forgeaud in tono ammirato. — Tu sei andato giù
per primo, ma non sono sicuro che avrebbe avuto la
forza di finirti. Era cotto anche lui.
— Se non fosse intervenuto André, mi avrebbe
ammazzato.
Il Venerabile si chinò sul monaco. Il benedettino
aveva
conservato un’espressione serena.
— E l’infermeria?
— Distrutta — rispose Dieter Eckart. — Gli ultimi
insorti si erano rifugiati proprio lì dentro. Le SS hanno
appiccato il fuoco alla baracca e hanno abbattuto quelli
che cercavano di uscire. Secondo me, più della metà
dei prigionieri è stata sterminata.
— Quanto tempo sono rimasto svenuto?
— Qualche ora.
— Le SS vi hanno lasciato tranquilli?
— Non si è visto più nessuno — disse Guy
Forgeaud. — Il cortile è deserto. Silenzio assoluto.
I quattro fratelli si sedettero in circolo.
— Siamo riusciti a procurarci un po’ di materiale —
disse ancora Forgeaud. — Sarebbe un peccato non
utilizzarlo.
— Hai un piano?
— No, Venerabile. Aspettavamo te per escogitarne
uno.
L'Architetto 291

— Maestro Venerabile — intervenne allora Eckart.


— Io credo che sarebbe tempo…
— Lo so, Dieter. La celebreremo, questa tenuta.
Dopo potremo morire tranquilli.
Jean Serval si angosciò.
— Morire… ma pensate veramente…
— Facciamo presto — tagliò corto il Venerabile. —
Questa notte stessa. Klaus ha senza dubbio deciso
coscientemente di sopprimere il comandante. Probabil-
mente non ha molto tempo per guadagnarsi la stima
dei suoi superiori, e si prepara a ricorrere alle maniere
forti per strapparci il nostro segreto.
— La tortura… — mormorò Serval.
— Non perdiamo un minuto di più — disse
Forgeaud. — Abbiamo delle candele, dei fiammiferi, il
necessario per comporre le figure del regolo, della
squadra e del compasso.
— Mancano solo la Tavola e il gesso — osservò
Dieter Eckart. — Senza questi elementi non si può
celebrare una tenuta.
— Stanotte uscirò per andare a cercare quello che
serve — propose Forgeaud.
— Non se ne parla nemmeno — dissentì il Venera-
bile. — Dobbiamo trovare un’altra soluzione.
Il monaco saliva verso la collina che sovrastava il
convento di Saint-Wandrille. Camminava nel sottobo-
sco, dove filtravano i raggi del primo sole di primavera.
292 CHRISTIAN JACQ

Si sentiva leggero, quasi immateriale. Solo gli alberi


avevano una forma distinta; al di là dei loro tronchi
centenari si stendeva una coltre di bruma. Irritato, il
monaco uscì dal sentiero, deciso ad attraversare quella
bruma che si frapponeva sul suo cammino. Tentò invano
di aggrapparsi a un ramo e cadde all’indietro. Una
caduta interminabile, durante la quale fu abbagliato da
un sole che, a poco a poco, si trasformò in un viso.
Quello del Venerabile.
— Bentornato tra noi, padre.
Il monaco riaprì gli occhi e avvertì subito una fitta
lancinante all’inguine. Non poté trattenere un gemito
di dolore, e si aggrappò al polso destro del Venerabile,
che lo aiutò a mettersi a sedere.
— Sono acciaccato quanto lei, padre. Ce le siamo
suonate di santa ragione.
— Non sono riuscito a sopprimerla, purtroppo…
— Ho la pellaccia dura.
François Branier riferì al benedettino gli ultimi
eventi. Eckart e Forgeaud restarono in disparte, in un
angolo della baracca. Ai loro occhi il religioso era un
intruso. Jean Serval stava di guardia nel solito posto di
osservazione. Nel cortile le SS continuavano ad andare
avanti e indietro, apparentemente in preda a una
grande agitazione.
— Ho bisogno del suo aiuto, padre.
Il monaco sospirò.
L'Architetto 293

— Le sue sofferenze l’hanno convinta infine a


tornare a Dio?
— Io e i miei fratelli abbiamo deciso di celebrare una
tenuta rituale, qui in questa baracca. Sacralizzando questo
luogo, faremo rinascere la luce, il nostro vero nutrimento.
Quello che accadrà poi non avrà alcuna importanza.
— Tanto meglio per voi. Ma non vedo come…
— Avrei bisogno del suo rosario.
La smorfia di dolore del monaco per le fitte che gli
martoriavano la carne si trasformò in un’espressione di
vivissimo sdegno.
— Non permetterò a nessuno di toccarlo.
— Non abbiamo la minima intenzione di prenderlo
con la forza. Glielo chiedo a titolo amichevole. Bene
inteso, appena avremo finito glielo restituiremo.
Gli occhi del monaco lanciarono lampi. Forse
adesso rimpiangeva per davvero di non avere sferrato
quel colpo decisivo che avrebbe spedito il Venerabile
all’altro mondo. Forgeaud si chiese perché il maestro
della Loggia si mostrava così paziente.
— Vorreste utilizzare il mio rosario per le vostre
pratiche sataniche?
Il Venerabile sorrise.
— Non ricominci con questa storia, padre. Noi cele-
briamo solo dei riti, come voi frati. Satana non c’entra
niente. Non ha alcuna cittadinanza nei riti massonici.
Ma il monaco rimase inflessibile.
294 CHRISTIAN JACQ

— Questo rosario è stato consacrato dall’ultimo


abate di Saint-Wandrille. Non ho niente di più prezioso
al mondo.
Il Venerabile scosse il capo.
— La capisco. L’oggetto più prezioso era per me la
Tavola che era stata trasmessa nei secoli dai maestri di
Loggia ai loro successori. Ma possedere in esclusiva
qualcosa, in una situazione come questa… le pare
conforme alla volontà divina?
— Non sta a lei sapere quale sia la volontà di Nostro
Signore! — insorse il monaco.
François Branier abbassò la voce, di modo che
potesse udirlo solo il monaco.
— Le volevo confidare, padre… Mi sono battuto con
pochissima convinzione, per questo è riuscito a sconfig-
germi. Ho cercato di odiarla, di vedere in lei tutte le
sofferenze causate dall’imposizione dei dogmi, dall’In-
quisizione, dal fanatismo religioso. Ma non è servito a
niente. C’era lei, davanti a me, e nessun altro. Quando il
suo viso è svanito, era troppo tardi. Mi sono sentito
vuoto. Incapace di difendermi. Il suo Dio aveva vinto.
— Niente affatto — protestò il monaco. — Eccoci
qui, tutti e due. La nostra scommessa vale sempre. E
sono ancora deciso a vincerla.
Il Venerabile guardò il monaco, cercando di scru-
targli l’animo.
— Avrebbe ancora la forza di battersi? Di arrivare
anche a uccidere?
L'Architetto 295

— Perché? Che cosa vorrebbe fare?


Si sfidarono con gli sguardi, in silenzio.
— Se il suo rosario è una sacra reliquia, padre, non
rischia niente.
L’espressione del monaco si incupì.
— Questo rosario non lascerà la mia cintura.
Dovrete prima passare sul mio cadavere.
— Non insisto. Dovremo rassegnarci.
Lo sguardo del monaco si appannò. Era a pezzi,
aveva solo voglia di dormire.
— Vi porterò io il materiale necessario — inter-
venne Forgeaud.
— No! — protestò Jean Serval. — Io sono apprendi-
sta. Tocca a me correre certi rischi.
Guy Forgeaud aveva la fronte in fiamme. La ferita lo
tormentava ancora. Prese Serval per le spalle. Era più
alto di lui di una buona spanna.
— Stammi bene a sentire, fratello apprendista. Qui
o altrove, siamo tutti obbligati a obbedire alla Regola.
Tu sei apprendista, io secondo sorvegliante. Quindi sei
soggetto alla mia diretta autorità. Resterai qui, e io
andrò fuori. Non c’è nient’altro da dire.
Jean Serval interrogò con gli occhi il Venerabile. Ma
questi non intervenne.
Stava per scendere la sera, e l’aria, molto più mite
del solito, annunciava la primavera. Jean Serval, con
l’occhio incollato alla fessura, osservava instancabil-
mente il cortile. Con cadenza regolare, avveniva il
296 CHRISTIAN JACQ

cambio della guardia davanti alla caserma delle SS. Per


il resto era tutto immobile. Sul pavimento della
baracca, una lima che Forgeaud aveva tirato fuori da un
nascondiglio. Il monaco dormiva ancora. Dieter Eckart
s’era assopito anche lui, dopo due giorni di veglia inin-
terrotta.
— Ti basterà, come arma?
— Dovrà bastare, Venerabile maestro — rispose
Guy Forgeaud.
— E l’officina?
— Mi arrangerò in qualche modo per entrarci.
Riuscirò bene a mettere le mani su un pezzo di spago.
Faremo di necessità virtù. Per il gesso, tenterò il colpo
grosso.
— Non è meglio rinunciare?
Guy Forgeaud aveva paura, in realtà. Le possibilità
di successo del suo piano erano praticamente nulle.
— Sarebbe la cosa più ragionevole, sì. Ma noi non
siamo gente ragionevole. Vogliamo vivere la nostra
iniziazione fino alle estreme conseguenze. Vogliamo
avere un simbolo tangibile che rappresenti la Tavola
della Loggia. Una semplice simulazione mentale non
sarebbe sufficiente. Siamo prima di tutto dei costrut-
tori. Per questo, siamo pronti anche a morire. Io per
primo. Con il tuo permesso, Venerabile maestro.
Il Venerabile e il maestro Guy Forgeaud si scambia-
rono l’abbraccio rituale.
— Via libera — annunciò Serval.
L'Architetto 297

Non c’era più un solo soldato nel cortile. Anche i


riflettori erano spenti.
Guy Forgeaud si avviò verso la porta della baracca.
Avrebbe cercato di raggiungere l’officina. Nel momento
in cui si raccoglieva per scattare come una molla, una
mano si posò sulla sua spalla sinistra.
24

L
a mano possente del monaco trattenne Guy
Forgeaud.
— Il mio rosario vi è proprio indispensa-
bile? — chiese il benedettino al Venerabile.
L’interpellato fece un cenno affermativo con il capo.
— Che cosa ne dovete fare?
— Disporlo sul pavimento della baracca e utiliz-
zarlo come simbolo.
Con grande cautela, come se maneggiasse un mate-
riale fragilissimo, il monaco si tolse il rosario che gli
serviva da cintura. Al momento di porgerlo al Venera-
bile, esitò. Separarsene era come separarsi da se stesso,
come rinnegare la propria fede.
Ma poi si pentì per l’attaccamento quasi feticistico
che lo legava a qualcosa che, in fin dei conti, era sola-
mente un oggetto, e il cui valore era legato esclusiva-
L'Architetto 299

mente all’uso che ne faceva. Fu anzi quasi grato al


Venerabile perché lo liberava di quella parte profana
del suo essere.
Quando vide il rosario tra le mani del Venerabile, il
monaco provò la strana sensazione di essere stato sbal-
zato improvvisamente in un altro mondo. Affidare una
preghiera a un ateo. Quante dita avevano manipolato
quei grani di legno d’ebano, un semplice gesto che
serviva a levare l’animo verso Dio? Il rosario era stato il
testimone attento di innumerevoli ore di solitudine
nelle celle austere illuminate dalla presenza divina. Più
volte il monaco si era domandato a quale dei suoi
confratelli sarebbe stato trasmesso dopo la sua morte.
Ed ecco che era ora finito in mano a un maestro Vene-
rabile della massoneria.
Perché aveva accettato di aiutarlo? Se Guy
Forgeaud avesse effettuato la sortita che aveva in
mente, si sarebbe fatto di certo ammazzare. La Loggia
non sarebbe riuscita a celebrare una tenuta in accordo
con la Regola. La Chiesa non avrebbe perso nulla. Ma a
quale Chiesa apparteneva un monaco benedettino?
Non era forse legato, a dispetto del tanto tempo
trascorso, a quelle prime comunità in cui la mano e lo
spirito non erano ancora separati? Non cercava forse
anch’esso di costruire l’uomo come un capomastro,
con materiali che si chiamavano fede, preghiera e
lavoro?
Il Venerabile parve imbarazzato.
300 CHRISTIAN JACQ

— Serve altro? — chiese il monaco, in tono


burbero. — Il mio saio, per caso?
— È di lei stesso che avrei bisogno, padre. Per parte-
cipare alla nostra tenuta.
Il monaco ebbe il dubbio di non avere capito bene.
— Le ha dato di volta il cervello…
— Mi lasci spiegare. Tutti i fratelli qui presenti desi-
derano celebrare questa tenuta. Dieter Eckart e Guy
Forgeaud sono maestri. Rivestiranno simbolicamente,
da soli, gli uffici principali della Loggia. Jean Serval è
apprendista. Quando saremo usciti di qui, preparerà un
lavoro per passare al grado di compagno.
Il monaco e l’apprendista scambiarono uno
sguardo furtivo. Serval, contentissimo, aveva così
appreso che gli sarebbe stato possibile accedere a dei
nuovi misteri. Niente poteva dargli più gioia. Si sentiva
animato da un’energia nuova. Sì, sarebbero usciti da
quella prigione. Il monaco pensò invece ai dieci offici
monastici che regolavano la vita quotidiana della sua
comunità, nella pace della creazione divina. I massoni
avevano copiato i benedettini, o la stessa organizza-
zione era stata trasmessa e conservata da entrambi a
motivo delle sue virtù insostituibili?
— I vostri segreti non mi riguardano, Venerabile.
Non ho bisogno di nessuna spiegazione.
— Le nostre tenute devono svolgersi in segreto —
proseguì François Branier, ignorando le proteste del
monaco. — In un posto come questo, ci serve quello
L'Architetto 301

che noi chiamiamo un copritore, qualcuno cioè che


resti di guardia, vegliando sulla sicurezza dei nostri
lavori. Il copritore non presenzia ai lavori della Loggia
ma deve avvertire i fratelli di eventuali pericoli. Le chie-
diamo di assolvere questa funzione. Lei non assisterà ai
nostri misteri. Dovrà solo assicurare che si svolgano in
tutta serenità.
Il monaco rimase a bocca aperta per lo sconcerto,
dimenticando momentaneamente i suoi acciacchi. Si
era accorto fin dal primo istante che il Venerabile era
un personaggio pericoloso, ma proporgli addirittura di
diventare massone…
— Penso di avere già fatto il massimo —
rispose il benedettino. — Adesso mi chiedete
troppo.
— Non credo — insistette il Venerabile. — Questa
tenuta è vitale per noi. Il Grande Architetto gliene sarà
grato.
Il monaco mugugnò. Il Venerabile lo metteva a dura
prova. Approfittava della sua debolezza, non gli
lasciava il tempo di riprendere fiato.
— Glielo assicuro, padre, la nostra tenuta non
contiene nulla che possa offendere il suo Dio.
I fratelli attesero ansiosi la risposta del monaco. Se
uno di loro fosse stato obbligato a svolgere il ruolo di
copritore, non avrebbe potuto assistere ai lavori.
Sarebbe stato il più insopportabile dei sacrifici. La
catena d’unione non avrebbe potuto essere completa se
302 CHRISTIAN JACQ

il monaco non avesse accettato la proposta del


Venerabile.
II benedettino si sedette. Gli girava la testa. Aveva
fame, ma cominciavano a tornargli le energie. I colpi
che aveva ricevuto non avevano intaccato la sua forza
vitale. E se, fuori della porta di quella sinistra baracca,
ci fosse stato il parco dell’abbazia di Saint-Wandrille,
con i suoi alberi e i suoi canti d’uccelli? Se gli fosse
stato sufficiente varcare la frontiera simbolica della
prigione per rientrare in quella specie di paradiso
terrestre?
Ora il convento di Saint-Wandrille era deserto. I
monaci non c’erano più. La guerra aveva colpito anche
lì. Le alte mura perimetrali ospitavano solo un’assenza.
L’ultimo scampolo di paradiso era quella baracca piena
di massoni che credevano ancora alla dimensione del
sacro. Anche se si sbagliavano, anche se celebravano
dei riti pagani, annullavano in questo modo l’orrore.
Perpetuavano la speranza.
— Che cosa dovrei fare? — chiese il monaco,
fissando lo sguardo nel vuoto.
I fratelli della Loggia Conoscenza si strinsero
attorno al Venerabile.
— Nient’altro che guardare fuori dalla fessura che
abbiamo praticato nella parete e avvertirci se le SS
vengono verso la nostra baracca. Il suo aiuto ci sarebbe
estremamente prezioso, padre.
L'Architetto 303

— Sbrigatevi, allora — disse il monaco, andando a


mettersi di guardia.
II copritore esterno era al suo posto. Il Venerabile e
gli altri tre sopravvissuti della Loggia ritrovarono i gesti
necessari per costruire il tempio. Il Venerabile si
dispose a Oriente, Dieter Eckart alla sua destra, Guy
Forgeaud alla sua sinistra. Jean Serval si mise in corri-
spondenza della colonna del Nord.
Guy Forgeaud aprì il nascondiglio. Ne tirò fuori un
martello che porse al Venerabile, e questi lo batté sulla
parete di fondo.
— Prendete posto, fratelli.
Con quella semplice frase, il mondo era rimesso in
sesto. Ogni fratello accettava il suo giusto posto in un
universo senza pecche.
— Fratelli — continuò il Venerabile — la nostra
Regola ci chiede di non imparare a memoria i nostri
rituali. Dobbiamo ricrearli in permanenza. Per sacraliz-
zare questo luogo e aprire la Loggia, vi chiedo di unirvi
a me per invocare il Grande Architetto dell’Universo.
Mettiamoci in ordine, fratelli.
Il Venerabile appoggiò sul cuore il martello che
rappresentava il maglietto rituale. Eckart e Forgeaud lo
imitarono. L’apprendista portò la mano destra all’al-
tezza della gola.
Il monaco non vedeva altro che il buio della notte. Il
suo cuore era quasi perso in quell’oscurità. All’interno
304 CHRISTIAN JACQ

della baracca i fratelli si distinguevano appena. Il benedet-


tino era furioso. Furioso contro il Venerabile, perché aveva
omesso di precisargli che, anche se non vedeva niente,
non avrebbe potuto fare a meno di sentire tutto. Furioso
anche contro se stesso per non averlo capito in tempo.
— Fratello primo sorvegliante — chiese il Venera-
bile — che cosa serve perché una Loggia sia perfetta?
— Che sia illuminata — rispose Dieter Eckart.
— Così sia.
Guy Forgeaud posò tre candele sul pavimento.
— Che la Saggezza crei — disse il Venerabile. —
Che si manifesti e che si realizzi.
Guy Forgeaud strofinò un fiammifero e accese gli
stoppini delle candele. Tre stelle brillarono così nel
firmamento della baracca rossa trasformata in tempio.
— Che le tre grandi luci siano rivelate — ordinò il
Venerabile.
Dieter Eckart usò gli utensili procurati da Guy
Forgeaud.
Sopra il regolo metallico posò il compasso e la
squadra, rappresentati dalle chiavi inglesi.
— Che il fratello apprendista tracci la Tavola della
Loggia.
Jean Serval si fece avanti per mettersi in mezzo al
triangolo
formato dal Venerabile e dai due maestri. Solo il
Venerabile poteva compiere l’atto di creazione consi-
stente nel disporre il corredo di simboli che facevano
L'Architetto 305

parte del rito. Eccezionalmente, però, poteva delegare


l’apprendista a farlo. Così anche il più umile dei fratelli
partecipava dell’energia del maestro.
Jean Serval rimase raggelato. Con che cosa avrebbe
effettuato il tracciato? Era convinto che, nella loro ansia
di vivere il loro rituale, i fratelli avessero trascurato quel
dettaglio. Il Venerabile intuì la perplessità del fratello.
Porse allora il rosario del monaco a Dieter Eckart, che
lo passò a sua volta all’apprendista. Serval dispose l’og-
getto sul pavimento, formando un rettangolo. Così era
raffigurata la corda da agrimensore con i suoi nodi di
forza. Essa delimitava lo spazio consacrato all’interno
del quale si disponevano le figure magiche.
Il Venerabile fece un cenno con la testa all’appren-
dista: il suo lavoro era terminato e poteva tornare al suo
posto. Il rosario del monaco avrebbe svolto ora la
funzione di Tavola della Loggia.
Jean Serval ebbe un impulso irresistibile. Per cele-
brare in modo adeguato quella tenuta eccezionale
serviva un gesto ulteriore. Si impadronì della lima che
Guy Forgeaud aveva abbandonato in un angolo, e si
grattò a sangue la pelle dell’avambraccio sinistro. Poi
intinse l’indice della mano destra nella ferita, disto-
gliendo lo sguardo, perché paradossalmente aveva
sempre avuto orrore della vista del sangue. Quindi si
inginocchiò e tracciò con il suo stesso sangue i simboli
rituali sulle consunte assi di legno del pavimento.
Cominciò con il triangolo, la forma geometrica più
306 CHRISTIAN JACQ

elementare. In corrispondenza del Nord, disegnò un


sole con un punto al centro, verso Mezzogiorno una
luna crescente. Di seguito, le tre finestre, il pavimento a
mosaico con le piastrelle bianche e nere, e ancora il
maglietto, lo scalpello, il perpendicolo, la livella, le due
colonne, la pietra grezza e quella squadrata, la porta
del tempio.
Quando ebbe terminato, l’apprendista si rialzò. Il
legno aveva già assorbito il suo sangue.
— Alla gloria del Grande Architetto dell’Universo
— disse allora il Venerabile. — Dichiaro aperti i lavori
della Loggia. Fratelli, formiamo la catena d’unione.
I tre maestri e l’apprendista unirono le mani, rico-
stituendo l’Uomo nella sua unità. Mentre assaporavano
la pienezza di quel momento, la porta della baracca si
aprì bruscamente.
Helmut, l’aiutante di campo del defunto coman-
dante, si stagliò sulla soglia.
25

I
l monaco li aveva traditi. Non li aveva avvertiti
quando aveva visto il soldato venire verso la
baracca. Forse aveva addirittura segnalato al
tedesco l’inizio della tenuta per permettergli di sorpren-
dere i massoni sul fatto.
— Abbandoniamo la catena, fratelli — ordinò il
Venerabile.
Le mani si lasciarono, non gli spiriti. La Tavola della
Loggia era ancora visibile. Il monaco tornò verso di
loro, lasciando il suo posto d’osservazione. Era terreo in
viso. Nei suoi occhi, il Venerabile lesse sofferenza e
rammarico.
Helmut entrò, chiudendo la porta della baracca
dietro di sé. François Branier si sentì umiliato. Per lui, il
monaco era quasi un fratello, ormai. Gli aveva accor-
308 CHRISTIAN JACQ

dato la sua fiducia e aveva avuto torto. La Loggia


avrebbe pagato a carissimo prezzo quello sbaglio.
Si sentì prostrato, non riusciva proprio a capire il
senso di quel gesto. Ma il monaco si rialzò di scatto,
malgrado le ferite, si gettò addosso a Helmut e gli serrò
il collo con l’avambraccio, come in una morsa.
— No! — gridò allora l’aiutante di campo. — Sono
dei vostri! Sono anch’io un fratello!
Il monaco lasciò andare il tedesco, colto dal dubbio.
Eckart, Forgeaud e Serval, sbalorditi, attesero la deci-
sione del Venerabile. La tenuta era ancora in corso,
nonostante tutto. Nessuno poteva prendere la parola di
propria iniziativa.
— Se sei un fratello — replicò François Branier,
parlando in tedesco — dammi la parola d’ordine
dell’apprendista.
L’aiutante di campo fissò il Venerabile. Le sue
labbra si mossero appena, senza proferire alcunché.
Ancora furente per il proprio fallimento nel ruolo
di guardiano, il monaco avrebbe voluto occuparsi
personalmente di spedire l’aiutante di campo
all’inferno.
— Lo lasci andare, padre — ordinò il Venerabile.
Meravigliato, il monaco obbedì. Il tedesco avanzò
di un
passo ben misurato, si arrestò, e fissò lo sguardo
sulla Tavola della Loggia, lì dove l’apprendista aveva
tracciato i simboli con il suo sangue. Fece poi altri due
L'Architetto 309

passi e tracciò a sua volta qualcosa con la mano destra:


era il segno di riconoscimento richiesto.
— Maestro Venerabile — disse allora — sono l’ul-
timo sopravvissuto di una Loggia di Berlino i cui
membri sono stati tutti messi a morte o deportati. Ho
creduto in Hitler, come i miei fratelli. Ho fatto parte del
circolo Ultima Tule, dove c’erano degli altri massoni. È
questo che mi ha salvato. Ma prima o poi finiranno per
smascherarmi. Da un momento all’altro potrei essere
arrestato e incriminato per alto tradimento.
Dieter Eckart si chiedeva ancora se non fosse una
provocazione. Doveva però riconoscere che l’aiutante
di campo aveva corso un rischio mortale, recandosi da
solo nella baracca. Guy Forgeaud, invece, aveva già
accantonato ogni dubbio, ed era felice di avere incon-
trato un nuovo fratello lì dove meno se l’aspettava, in
quel girone d’inferno. Jean Serval rivisse l’emozione
che aveva provato al momento della sua iniziazione. Si
sentiva perduto, abbagliato. La vita non si arrestava più
alla porta della loro prigione.
— La Germania perderà presto la guerra —
dichiarò Helmut. — Domani, dopodomani, tra un
mese… ma sarà sconfitta.
— Vai più lontano, fratello? — chiese il Venerabile,
usando una formula massonica, per conoscere il grado
iniziatico del tedesco.
— I misteri delle stelle mi sono noti.
— Vai più lontano?
310 CHRISTIAN JACQ

— No, maestro Venerabile. Sono compagno e


ignoro il segreto dei maestri.
— Tutti e tre i gradi fondamentali dell’iniziazione
sono presenti in questa Loggia — concluse il Venera-
bile. — Possiamo lavorare in saggezza, forza e armonia.
Il cuore di ciascuno dei fratelli si riempì di una
gioia indicibile. Erano riusciti a evadere idealmente
dalla fortezza, dalla guerra, dalla sventura.
— Padre — disse il Venerabile. — Potrebbe ripren-
dere il suo ruolo di copritore?
Il monaco non era più arrossito dal lontano giorno
in cui sua madre l’aveva sorpreso a rubare della ciocco-
lata. Si era fatto coinvolgere in quel gioco, accettando di
assistere a una tenuta massonica e dimenticando l’abito
che portava. Si era quasi lasciato ipnotizzare dalla
magia del rito. Pieno di vergogna, girò sui tacchi e tornò
al suo posto d’osservazione. Purtroppo non poteva
tapparsi le orecchie.
— Un fratello chiede la parola nell’interesse della
Loggia?
L’aiutante di campo alzò la mano.
— Hai la parola — disse François Branier.
— Il maggiore Klaus è in riunione da due ore con i
suoi collaboratori più stretti. È riuscito a convincerli.
Hanno deciso di sterminare tutti i deportati e di abban-
donare la fortezza. Sanno che è imminente un attacco e
la guarnigione non è abbastanza numerosa per resi-
stere. L’ultimo problema da risolvere è la Loggia Cono-
L'Architetto 311

scenza. È pronto a ricorrere anche alle torture più


brutali per strapparvi il vostro segreto. Lui e i suoi acco-
liti vogliono ottenere a tutti i costi un risultato. Sono
venuto qui per mettervi in guardia, anche a costo di
morire insieme a voi.
I presenti si rimisero a fatica dallo choc. Se l’aspet-
tavano, ma speravano di vedere allontanarsi quello
spettro, di restare ancora per un po’ dei prigionieri
soggetti a un trattamento di riguardo. Fino a quel
momento, li avevano tenuti in isolamento mentre il
solo Venerabile lottava anche per loro. Ma ora tutto
stava per crollare intorno a loro. Quando la porta della
baracca si fosse aperta per l’ultima volta, sarebbero
stati inghiottiti dal nulla.
— Il copritore ci avvertirà di qualsiasi rischio d’in-
trusione — disse il Venerabile. — Sapevamo fin dall’i-
nizio che la vita di un iniziato comporta dei rischi.
Fratelli, vi invito a mettervi all’opera. Fratello Dieter,
tutto è conforme alla Regola?
Dieter Eckart contemplò la Tavola della Loggia.
— Tutto è giusto e perfetto, maestro Venerabile.
Ogni fratello si è spogliato delle proprie imperfezioni e
svolge il ruolo assegnato.
Le parole rituali si ripercossero come una vampata
di calore nel corpo di Jean Serval, un fuoco vivo che gli
bruciava l’anima. In quanto semplice apprendista,
doveva restare in silenzio durante la tenuta solenne.
Quando fosse diventato compagno, sempre che avesse
312 CHRISTIAN JACQ

superato la prova, avrebbe ricevuto anche lui il dono


della parola. Avrebbe restituito così l’energia che aveva
ricevuto.
Ora Jean Serval ne era sicuro: la porta della
baracca rossa non si sarebbe più aperta sulla notte.
Quella tenuta sarebbe durata in eterno. Il viso del
Venerabile era troppo sereno perché potesse essere
altrimenti.
— Da dove veniamo, fratello secondo sorvegliante?
— Da una Loggia di Giovanni, maestro Venerabile.
— A che cosa lavorano gli iniziati?
— A sgrossare la pietra grezza praticando la Regola.
— Gli apprendisti sono soddisfatti?
— L’Armonia è in loro, maestro Venerabile.
— Fratello primo sorvegliante, i compagni hanno
scoperto la pietra grezza?
— La Forza abita in loro, maestro Venerabile.
— Ai maestri trasmettere la Saggezza che fu loro
trasmessa. Così nascerà la luce. Prendete posto, fratelli.
Ognuno cercò d’istinto, vanamente, il banco di
pietra o di legno sul quale sedeva di solito. Si acconten-
tarono di accovacciarsi con le gambe incrociate sul
pavimento della baracca.
— Fratelli — riprese il Venerabile — i nostri ultimi
lavori avevano riguardato i doveri dell’iniziato davanti
al Grande Architetto dell’Universo e più precisamente
il segreto del Numero di cui la nostra Loggia è depo-
sitaria.
L'Architetto 313

Dunque, rifletté il monaco, le SS avevano visto


giusto.
— Contrariamente a ogni usanza — proseguì
François Branier — ho deciso di trasmettervi questo
ultimo segreto dell’iniziazione. Nessuno di voi è Vene-
rabile, ma è al Venerabile che è in voi che mi rivolgerò.
Stanotte diventerete, come me, guardiani del Numero
che rende immortale la nostra confraternita.
Dieter Eckart chiese la parola.
— Maestro Venerabile, questa proposta non mi
sembra conforme alla Regola. Nessuno di noi è abili-
tato a ricevere questo segreto e ancor meno a trasmet-
terlo. Moriremo assolvendo il nostro compito, non
chiediamo di più. Abbiamo l’immensa gioia di cele-
brare quest’ultima tenuta. Se il nostro segreto deve
sparire con noi, vorrà dire che il Grande Architetto ha
voluto così. E ti ricordo che c’è un profano tra noi… o
quasi…
Il monaco non si illudeva certo che il Venerabile
avesse dimenticato la sua presenza. Era già pronto a
girare sui tacchi, salutare i presenti e lasciare la
baracca. Non aveva intenzione di ascoltare altro.
— Il nostro copritore esterno svolge perfettamente
il suo compito — disse invece François Branier. — Può
sentire quello che si dice all’interno del tempio, ma
anche lui, come noi, è tenuto al segreto.
Il monaco girò la testa. Il suo sguardo incrociò
quello del Venerabile, che vi lesse un assenso. Stavolta,
314 CHRISTIAN JACQ

il monaco sentì che il Venerabile si fidava interamente


di lui. L’aveva incastrato. Lo obbligava a restare, e a
custodire anche lui quel segreto di cui non avrebbe
voluto sapere niente.
— Il fratello Dieter non ha tutti i torti — sottolineò
Guy Forgeaud dopo aver chiesto la parola. — Non puoi
trasmettere l’ultimo segreto che al tuo successore,
maestro Venerabile. Un simile argomento non può
essere oggetto di questa tenuta.
Se anche condividevano il parere del maestro, il
compagno e l’apprendista restarono in silenzio.
Il Venerabile non si era mai trovato in disaccordo
con la sua camera di mezzo, composta dai maestri della
Loggia. La Regola dell’unanimità era facilmente rispet-
tata, finché i fratelli vivevano in armonia.
— Forse uno di noi riuscirà a sopravvivere — insi-
stette François Branier. — Se incombe su di noi l’an-
nientamento della nostra Loggia, è necessario che
siamo tutti informati dell’essenziale. Mi rendo conto
che si tratta di una proposta anomala, in contraddi-
zione con la Regola. Ma non possiamo lasciare niente
di intentato per perpetuare i fondamenti della vita
iniziatica.
Dieter Eckart chiese di nuovo la parola.
— Dobbiamo opporci a tutto quello che è contrario
alla Regola. Quante volte ci hai ripetuto che tutte le
risposte alle nostre domande si trovavano lì? Perché
oggi dovrebbe essere diverso?
L'Architetto 315

— Perché oggi è il nostro ultimo giorno, fratello.


Guy Forgeaud alzò la mano.
— Non ha alcuna importanza, maestro Venerabile.
L’iniziazione non può scomparire, anche se noi
moriamo. Se questo mondo è marcio al punto da assas-
sinare un Venerabile, tanto vale crepare. A nessun
costo possiamo violare la nostra Regola.
Il monaco comprese il tentativo del Venerabile.
Prima di tutto, trasmettere la Regola, anche se nella
peggiore delle condizioni. Non chiedersi più se un
fratello era degno oppure no. Bastava che fosse un
fratello, per trasmettergli anche i segreti più inac-
cessibili.
Il Venerabile aveva fallito. Impossibile superare
l’ostacolo del parere contrario dei due maestri. L’ordine
gerarchico non poteva essere infranto, la Regola non
poteva essere trasgredita, e così il segreto avrebbe conti-
nuato a gravare solo sulle sue spalle.
— Devo pertanto considerare respinta la mia
proposta — dichiarò il Venerabile. — Andiamo…
Le parole di François Branier furono coperte da un
fischio acuto che si amplificò con velocità straordinaria
e raggiunse in breve un livello assordante. Istintiva-
mente, i fratelli si tapparono le orecchie con le mani.
Poi tutto saltò per aria.
26

U
na bomba. Il fuoco dal cielo che il vecchio
astrologo aveva preannunciato con tanta
insistenza.
Stavano attaccando la fortezza nazista.
Mille pensieri si erano affollati nella mente del
Venerabile durante i brevi istanti tra il fischio minac-
cioso e l’esplosione della bomba. Era caduta giusto
davanti alla porta della baracca rossa. Poi un altro
fischio, altri due, altri dieci…
La baracca rossa era volata in pezzi. François
Branier era stato scaraventato all’indietro. Il suo unico
riflesso era stato di coprirsi gli occhi con gli avambracci.
Delle assi di legno lo colpirono con violenza alla
schiena, ferendolo. Accecato dal polverone, si rialzò a
fatica.
L'Architetto 317

Un ammasso di rovine. Il monaco, con il viso


macchiato di sangue, ma ancora in piedi.
L’apprendista Jean Serval, con il braccio sinistro
inservibile, stava cercando di estrarre Guy Forgeaud
dalle macerie. Accanto a lui Dieter Eckart, con la testa
fracassata. Il suo cadavere era steso di traverso sopra
quello di Helmut, l’aiutante di campo delle SS, il
fratello sbucato inaspettatamente dalle tenebre di quel-
l’inferno.
Il monaco era ancora stordito. Vacillò come una
statua prossima a cadere dal proprio piedistallo. Il
Venerabile lo prese per un braccio. Serval sollevò da
terra Forgeaud.
— Non ci vedo più — disse il maestro.
Il ritmo delle esplosioni era sempre più frequente.
— Andiamocene di qui! — gridò Guy Forgeaud. —
Abbiamo la possibilità di evadere.
François Branier non aveva alcuna voglia di
muoversi. Avrebbe preferito restare lì, accanto a Dieter
Eckart.
— Venga — gli disse il monaco. — Il suo fratello ha
ragione. Bisogna tentare.
Aiutandosi l’un l’altro, si avviarono tra le macerie. Il
Venerabile era riluttante, voleva parlare un’ultima volta
a Dieter Eckart, ma il monaco lo trascinò via con sé.
— Non serve a niente, ormai — mormorò il bene-
dettino.
318 CHRISTIAN JACQ

Jean Serval e Guy Forgeaud erano già fuori in


cortile.
L’apprendista, malgrado il braccio rotto, guidava il
maestro che non ci vedeva più, tutto coperto di sangue
e di polvere.
Le esplosioni divennero più rade. L’attacco era
diminuito d’intensità. La fortezza agonizzava. Non c’era
più una sola baracca in piedi. La caserma delle SS era
in fiamme, la torre centrale sventrata. Il muro di cinta
era crollato parzialmente in più punti. C’erano dei
prigionieri che correvano, altri che si battevano con i
soldati ancora vivi, tentando di sottrarre loro le armi.
Echeggiarono degli spari, cui fecero seguito delle urla
di dolore. Ci furono numerose vittime. Le lingue di
fuoco degli incendi rischiaravano la notte.
Il Venerabile avanzava a fatica, sempre più dolo-
rante a ogni passo. La ferita alla schiena doveva essere
piuttosto seria. Il monaco sembrava essersi già ripreso
dallo choc del primo momento. Il gusto della libertà gli
aveva restituito le forze.
— Vada pure avanti, padre… io comincio ad arran-
care troppo.
— Un copritore non abbandona il suo Venerabile.
La smetta di dire assurdità. Forza, si muova.
Una bomba esplose non lontano da loro, costrin-
gendoli a buttarsi a terra. Una spessa coltre di fumo li
isolò. Persero così di vista Serval e Forgeaud, che si
stavano dirigendo verso una breccia nel muro di cinta.
L'Architetto 319

— Ci siamo! — gridò Serval. — Ce l’abbiamo


fatta!
L’apprendista distingueva ora il pendio erboso
all’esterno
della fortezza. Non restava che scavalcare dei
blocchi di pietra, infilarsi nella breccia e poi correre,
correre… Serval sollecitò con uno strattone Forgeaud
che si teneva ancora in piedi solo grazie a un supremo
sforzo di volontà. Se doveva morire, voleva morire in
piedi, e fuori da quella dannata prigione.
— Alt! — ordinò la voce di Klaus, il maggiore
delle SS.
Sin dall’inizio dell’attacco non aveva smesso un
istante di
sparare addosso ai prigionieri in fuga e ai soldati
che tentavano di disertare. Aveva già vuotato parecchi
caricatori. La canna del suo fucile mitragliatore era
rovente. Ma il maggiore restava padrone della fortezza.
Nessuno sarebbe riuscito a evadere.
Jean Serval non obbedì all’ordine del tedesco. La
libertà era troppo vicina.
— Buttati a terra! — ordinò Guy Forgeaud.
In preda al panico, gli occhi velati di lacrime, l’ap-
prendista si girò verso il maestro. Una sorta di frustata
bruciante gli dilaniò il fianco, obbligandolo a piegarsi.
Portò la mano sulla ferita, e la guardò coperta di
sangue. Ma continuò ad avanzare verso il maggiore
delle SS, incurante degli spari.
320 CHRISTIAN JACQ

— No, non adesso, voglio diventare compagno,


voglio…
Klaus esplose in una risata crudele. I massoni non
sarebbero riusciti a fuggire. Serval, ormai morente,
avanzò sfidando il fucile mitragliatore che il maggiore
tedesco brandiva ancora contro i due fratelli, anche se il
caricatore era vuoto. Guy Forgeaud mosse un altro
passo in avanti, e si avventò su Klaus, serrandogli il
collo. Ma ormai non aveva più la forza necessaria per
ucciderlo.
Prima di sprofondare nel baratro, il suo sguardo
offuscato di moribondo riuscì a distinguere la scena in
modo più nitido. Un solo istante. Sufficiente però per
vedere che Klaus era stato decapitato da una scheggia
proiettata da un’esplosione.
Il monaco e il Venerabile vagarono intorno, senza
più sapere dove si trovavano. A un certo punto un tratto
del muro di cinta crollò, travolgendo una decina di
prigionieri che stavano tentando di scalarlo. Con la
gola irritata dalla polvere, il monaco ebbe un intermi-
nabile accesso di tosse. Aveva visto lo scontro tra Klaus
e i due fratelli. Il Venerabile invece, avvolto da una
polvere rossastra, distingueva solo delle ombre. Il
rombo di un motore, alle loro spalle. L’autoblinda
puntava dritta verso di loro. Da un momento all’altro
rischiava di travolgerli. Stavolta è davvero finita, pensò
il Venerabile. Non sarebbe mai più riuscito a rivedere i
suoi fratelli, la scommessa con il monaco era persa.
L'Architetto 321

Non era in ansia per la propria sorte, ma per il


segreto di cui era il custode. Un segreto che i suoi
predecessori avevano giudicato vitale per l’umanità.
Grazie a esso erano stati costruiti le piramidi, i templi
dell’età classica e le cattedrali: fari di civiltà, isole di
bellezza e di armonia capaci di influenzare a livello
inconscio anche il più barbaro degli uomini. François
Branier comprese in quell’istante che era l’ultimo di
una stirpe di giganti. Lasciava dietro di sé un mondo
dove non c’era più spazio per quelli come lui. Il
cammino iniziatico doveva sparire perché l’umanità
aveva scelto la luce fredda del nulla. Non c’era più un
solo fratello a cui passare il testimone. E tuttavia, vive-
vano tutti in lui. Erano presenti in ciascuna delle sue
cellule, in ogni goccia del suo sangue. Non rimaneva
che il monaco, che tentava invano di tirarlo da parte, di
strapparlo al mostro che stava per stritolarli.
In quel momento François Branier avvertì tutta la
responsabilità connessa al suo ruolo di Venerabile.
Incarnava la comunità dei fratelli passati all’Oriente
eterno, costituiva l’anello che li collegava al Grande
Architetto e al mondo. Forse c’erano tra gli uomini
degli esseri così saggi e acuti da non avere bisogno di
nessuno per seguire il cammino della verità. Lui invece
aveva bisogno anche del più umile degli iniziati. Erano
tutti insostituibili, ai suoi occhi.
François Branier era stato umanamente arricchito
dalla vita dei suoi fratelli. Questo e solo questo faceva
322 CHRISTIAN JACQ

di lui un Venerabile. Era una ricchezza che avrebbe


potuto trasmettere ad altri, se fosse riuscito a creare
una nuova Loggia degna di ciò che avevano vissuto tutti
insieme.
Ma era già troppo tardi. Fiamme dappertutto. La
fortezza stava crollando. François Branier, ultimo Vene-
rabile della Loggia Conoscenza, lasciò ciondolare la
testa e chiuse gli occhi.
27

I
n quella fine estate dell’anno 1947 il sole era
dolce come una carezza. Il tempo nella zona
dell’ìle-de-France era stato insolitamente soleg-
giato, fin dalla metà della primavera. Meli e peri erano
carichi di frutti pesanti che stavano maturando in anti-
cipo in quei giorni luminosi.
Il villaggio viveva al ritmo lento delle tradizioni,
lontano dall’agitazione della città; alle sette di sera
campi e frutteti erano deserti. Si prendeva l’aperitivo, si
parlava dei raccolti, ci si preparava all’autunno. Nessun
rumore disturbava l’aria leggera di settembre; risuo-
nava solo, come un canto, il ritmico battere dello scal-
pello di un tagliapietre, appollaiato in cima a
un’impalcatura.
Il monaco si interruppe, posò i suoi utensili e si
terse la fronte dal sudore. Cominciava a rinfrescare.
324 CHRISTIAN JACQ

Malgrado la sua robusta costituzione, aveva un certo


timore di prendere un colpo di freddo. I postumi della
polmonite che l’aveva messo in pericolo di vita non
erano ancora del tutto superati.
Il monaco lavorava fin dall’alba. La costruzione
della cappella era a buon punto. Ancora una settimana,
e avrebbe potuto inaugurarla. Aveva preso a modello la
pianta della chiesa superiore dell’abbazia di Saint-
Wandrille. Uno stile romanico puro, austero, spogliato
di qualsiasi orpello.
Quando il monaco aveva aperto il suo cantiere, su
un terreno messo a disposizione dalla comunità, diversi
paesani si erano offerti di dargli una mano. Ma lui
aveva rifiutato il loro aiuto, spiegando che voleva osser-
vare un voto, e che perciò doveva fare tutto da solo. La
nuova cappella sarebbe stata dedicata a San Francesco.
Una volta terminata, l’avrebbe offerta al villaggio a
condizione che fosse tenuta in perfette condizioni. Una
volta l’anno, si sarebbe celebrata una messa per glorifi-
care la fraternità dei giusti. Nessuno era riuscito a
saperne di più. I paesani si erano abituati alla presenza
muta di quello strano frate benedettino. E sapevano
che ne avrebbero sentito la mancanza il giorno in cui,
terminata l’opera, fosse partito per tornare nel suo
convento.
Il monaco passò la mano su un blocco di granito
che aveva appena messo in posizione. Quella pietra
aveva un’anima. Vibrava. Era una preghiera. Avrebbe
L'Architetto 325

volentieri vissuto il resto della sua esistenza terrena


dentro la cappella. Ma la comunità richiedeva la sua
presenza. Elevato alla dignità di abate, non poteva
permettersi il lusso della solitudine. Mille incombenze,
dalla più materiale alla più spirituale, esigevano la sua
presenza e la sua attenzione. Così prescriveva la Regola.
Nessuna deroga era permessa.
Il monaco scese dall’impalcatura, ripulì gli attrezzi
e li sistemò in una cassetta che depose all’interno
dell’edificio, dove era già installato l’altare, ricavato da
una pietra angolare che risaliva al tempo delle grandi
cattedrali. Era una pietra che il convento di Saint-
Wandrille aveva donato alla cappella.
Il terreno intorno era vasto, circondato da querce e
da faggi. A occidente, una fila di pioppi dal fogliame
argenteo. Nessun altro edifico in vista. Il monaco
inforcò una bicicletta e pedalò tranquillamente fino al
villaggio, lungo un sentiero che correva attraverso i
campi. Il sole andava ormai calando dietro la distesa di
messi. Dei corvi volarono gracchiando sopra il bosco.
Le rondini danzavano nel cielo, e alcune di loro parvero
scendere in picchiata incontro al monaco come per
salutarlo con un battito d’ali.
Il benedettino era particolarmente affezionato a
quell’ora del giorno, quando Dio gli sembrava così
vicino da potergli parlare a tu per tu. In quei momenti
il monaco aveva l’impressione di uscire da se stesso e i
suoi pensieri sembravano confondersi con il sole al
326 CHRISTIAN JACQ

tramonto, con la magia fugace di quella luce in cui si


mescolavano il giorno morente e la notte appena nata.
Non aveva più né dubbi né ansie: la vita scorreva da
sola senza che lui dovesse fare niente.
Sulla piazza del villaggio due paesani discutevano
sotto un platano. Salutarono il monaco quando
appoggiò la sua bici contro il muro del municipio, un
bell’edificio di fine Settecento cui si accedeva per una
scalinata. Il monaco ne salì lentamente i gradini. Da
quando era sfuggito all’inferno, dopo che Dio gli aveva
permesso di vincere la sua scommessa, il benedettino
centellinava con gusto ogni istante di vita.
Entrò nel municipio. La sala d’ingresso aveva un
buon odore di cera e di legno vecchio. Appoggiandosi
alla ringhiera, salì la scala dai gradini scricchiolanti.
L’ufficio del sindaco era al secondo piano. La porta era
socchiusa. Il monaco la spinse ed entrò.
— Buonasera, signor sindaco.
— Ha passato una buona giornata, padre?
— Eccellente.
— Una bina fresca?
Il monaco non si fece pregare. Aveva sete. Dalle
finestre dell’ufficio, si vedevano le fronde dei grandi
tigli che spandevano la loro ombra intorno.
— Andiamo, padre?
Il monaco si alzò. Attendeva quel momento da
molto tempo. Il sindaco precedette il benedettino. Usci-
rono dal municipio da una porta posteriore, traversa-
L'Architetto 327

rono un prato ed entrarono in una proprietà delimitata


da un alto muro di cinta. In fondo, una casa a tre piani
in stile tradizionale. In un angolo del terreno, un
tumulo in pietra il cui accesso era sbarrato da una
pesante porta metallica. Il sindaco prese di tasca una
chiave.
— Dunque, è qui, Venerabile, che ha costruito la
sua Loggia.
— Sì, padre. Poiché il Grande Architetto mi ha
concesso di vincere la mia scommessa, ho rispettato la
parola data. Ho costruito tutto con le mie mani. Così
come ha fatto lei.
— Immagino che le visite siano interdette ai
profani. Lei ha potuto vedere la mia cappella, io non
vedrò la sua Loggia. Dio non ha paura di mostrarsi, ma
il suo Grande Architetto si nasconde.
Francois Branier fece girare la chiave nella serratura
e aprì la porta.
— Ho l’impressione, padre, che il suo Dio non sia
poi così manifesto come lei vorrebbe fare credere. E lei
non è più un profano, dopo quella volta in cui ha
svolto il ruolo di copritore. Ricorda che i copritori
erano anticamente anche loro dei venerabili? Qui lei è
a casa sua. Spero che mi possa restituire un giorno il
favore. Mi farebbe molto piacere essere ricevuto da un
abate.
— D’accordo — borbottò il monaco, scendendo la
scala che portava alla Loggia.
328 CHRISTIAN JACQ

Una decina di gradini, un corridoio ad angolo retto,


un’anticamera seguita da una stanzetta.
— È qui che meditano i futuri iniziati in occasione
della loro prima morte — spiegò il Venerabile.
Aprì un’altra porta, che dava accesso alla Loggia
vera e propria. Un soffitto sostenuto da una capriata su
cui era dipinta una volta stellata. Un pavimento a
mosaico con piastrelle bianche e nere. Sul fondo, tre
gradini portavano a una sorta di palco su cui si trova-
vano tre piccole scrivanie. Sopra quella di mezzo era
dipinto il segno Delta. Proseguendo, il monaco scoprì
da una parte e dall’altra della porta due colonne
sormontate da melegrane. Al centro del tempio, altre
tre colonne che inquadravano una tavola bianca. Sulla
sua superficie si scrivevano, a ogni tenuta, i simboli
fondamentali, quelli che il monaco aveva visto tracciati,
con il sangue di un fratello, sul pavimento della
baracca.
— Ha trovato un successore?
— Non ancora — rispose il Venerabile. — Sono
riuscito a radunare qualche fratello per ricreare una
Loggia iniziatica. Vogliono eleggermi Venerabile anche
per il prossimo anno. Poi, spero che mi consentiranno
di mettermi a riposo. Quando sarò in pensione, mi
farebbe molto piacere venire a stare da lei, padre…
— La gente come noi non ha il diritto di mettersi a
riposo, Venerabile. E io non potrei tollerare la presenza
di un eretico nel mio convento. Lei sarà più utile qui.
L'Architetto 329

C’è molto da fare per restituire alla gente il senso della


vita. Quando l’avranno trovato, salveranno a loro volta
degli altri.
Il monaco e il Venerabile si sedettero su uno dei
banchi di legno dove prendevano posto i fratelli
durante le tenute. La serenità della nuda pietra, il suo
rassicurante richiamo all’eternità penetrarono a poco a
poco nel loro animo.
Su un piccolo altare, accanto al monaco, un cesto di
vimini contenente i metalli. Tra di essi, l’orecchino del
compagno Raoul Brissac, che lui stesso aveva ritrovato
tra i resti carbonizzati della fortezza.
— Ha notizie della nostra giovane amica tedesca?
— Sarà presto docente all’università — rispose il
Venerabile.
La ragazza bionda era riuscita a fuggire e a
mettersi in
contatto con le forze alleate.
— Se Guy Forgeaud non avesse sabotato l’auto-
blinda — rammentò il monaco — a quest’ora non
saremmo qui. Ormai ero convinto che ci avrebbe strito-
lati. Ma poi si è bloccata di colpo. Una bomba l’ha
disintegrata. Lei non ha potuto assistere alla scena,
perché era già svenuto.
Guy Forgeaud, Dieter Eckart, Pierre Laniel, André
Spinot, Raoul Brissac, Jean Serval: erano tutti spariti in
quell’inferno.
Il mistero di un Venerabile, pensò François Branier,
330 CHRISTIAN JACQ

è la sua solitudine. Quando ha donato tutto se stesso,


quando si è consacrato totalmente alla sua Loggia,
quando la sua vita è formata dalle vite dei suoi fratelli,
che gli resta? L’abbandono di coloro che erano per lui
un prolungamento del proprio essere, la strana luce di
un mondo dove domande e risposte non hanno più
cittadinanza, dove il Grande Architetto è una presenza
che basta a se stessa… Un Venerabile non ha né confi-
denti né amici. È solo, perché il suo destino personale
non ha più nessun valore, nemmeno ai suoi stessi
occhi. Forse è sgomento di fronte a un compito che
supera le sue forze, forse dubita di tutto. Ma non
importa. Sono emozioni che non può condividere con
nessuno. I fratelli si aspettano che il Venerabile diriga
la Loggia, rischiari il cammino, apporti l’energia
necessaria.
— Perché abbiamo vinto tutti e due? — chiese il
monaco.
— Perché non potevamo perdere — rispose il
Venerabile.
Fuori, intanto, stava calando l’oscurità. Uno strug-
gente crepuscolo come si vedono spesso nell’île-de-
France, ovattato, con il suo corteo di nubi arancioni che
riflettevano gli ultimi sprazzi della luce del sole.
Il monaco e il Venerabile lasciarono la Loggia e
camminarono fianco a fianco, con le mani intrecciate
dietro la schiena, sul sentiero di terra battuta che si
perdeva nella campagna, lontano dalle case del paese.
L'Architetto 331

— I monaci del convento di Saint-Wandrille


avranno dunque la fortuna di averla come abate, padre.
— La smetta di ficcare il naso nei nostri affari —
rispose burbero il monaco. — Pensi piuttosto a formare
dei maestri e a trasmettere il vostro famoso segreto.
Non credo nemmeno per un attimo che abbia davvero
un qualche valore, ma… dal letame nascono i fiori…
Insomma, vale sempre la pena di darsi da fare.
— Per una volta, padre, sono d’accordo con lei.
Né il monaco né il Venerabile avevano voglia di
separarsi, quella sera. Dall’alto del cielo, le rondini
videro le loro sagome, stranamente simili, inoltrarsi
nelle tenebre.

L E N OROIS , nel giorno di San Giovanni Battista, 1984

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