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GAETANO DI PALMA
Il tema della speranza sta ritornando d’attualità nella Chiesa italiana1, non
esclusivamente in vista della missione e della testimonianza su Gesù risorto,
ma probabilmente anche perché si sta prendendo coscienza di una certa
percezione di declino, che fa sempre più breccia ai vari livelli della società. I
tempi nei quali si guardava con speranza verso il futuro erano gli anni
Sessanta, quando sembrarono schiudersi spazi di dialogo tra l’Est, con i suoi
oppressivi regimi comunisti, e l’Ovest, dove trionfava il capitalismo
opulento. Erano i tempi esaltanti della decolonizzazione, dell’utopia, della
contestazione che immaginava un mondo nuovo. In quel contesto, gravido
di attese di carattere ambivalente, anche la Chiesa cattolica volle declinare
la sua speranza, quando Giovanni XXIII indisse il Concilio Ecumenico
Vaticano II. Indimenticabili sono le parole che il papa pronunciò l’11
ottobre 1962, nel discorso di apertura:
«At nobis plane dissentiendum esse videtur ab his rerum adversarum vaticinatoribus,
qui deteriora semper praenuntiant, quasi rerum exitium instet. In presenti humanorum
eventuum cursu, quo hominum societas novum rerum ordinem ingredi videtur, potius
arcana Divinae Providentiae Consilia agnoscenda sunt, quae per tempora succedentia,
hominum opera, ac plerumque praeter eorum expectationem, suum exitum consequuntur,
atque omnia, adversos etiam humanos casus, in Ecclesiae bonum sapienter disponunt»2.
1
Faccio riferimento alla traccia di riflessione in vista del Convegno ecclesiale
nazionale, dal titolo Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, che si terrà a Verona
nell’ottobre del 2006.
2
GIOVANNI XXIII, Allocutio in sollemni Ss. Concilii inauguratione (11-10-1962): EV 1,
41*-42*.
1
del suo rapporto con il mondo, non più caratterizzato in primis da
contrapposizione, sospetto e condanna, bensì dalla consapevolezza di
esservi inserita, al punto da riservare una Costituzione a tale tema, dal titolo
Gaudium et spes.
Abbiamo voluto ricordare brevemente questo, anche perché sono
trascorsi quarant’anni dalla conclusione del Concilio e, nonostante i
tremendi fatti di cronaca, la precarietà del lavoro e dell’economia,
l’insipienza di tanti politici, il timore di essere soppiantati da altri popoli –
che sembrano avere una vitalità a noi mancante – la minaccia del terrorismo
sotto la quale si vive, lo sfaldamento dei valori e il rifugiarsi nel piccolo, nel
locale e nell’individuale contribuiscano a dare l’impressione di una società
che annaspa, occorre ritrovare la speranza per avere il coraggio di affrontare
con energia e creatività la complessità del mondo. È qui e ora, e non altrove,
che siamo chiamati ad ascoltare la Parola di Dio e a collocarne il seme di
novità, affinché si aprano altri varchi alla speranza3, come non mancava di
rammentare Giovanni Paolo II.
Prima di trattare il tema che ci siamo proposti, ossia l’invito alla speranza
che la Prima lettera di Pietro avanza, riteniamo utile proporre un breve
excursus sul modo di vedere la speranza nell’ambiente culturale greco-
romano per due motivi: innanzitutto, perché tale ambiente ci appartiene per
il notevole influsso che ha segnato sulla nostra visione del mondo; in
secondo luogo, perché la concezione della speranza nel mondo biblico, e
nella Prima lettera di Pietro in particolare, è quasi totalmente diversa da
quella greco-romana.
Il nostro vocabolo “speranza” deriva dal latino spes, che a Roma era
anche il nome di una divinità che aveva un tempio che delimitava il Forum
olitorium4. La dea della speranza era, quindi, la personificazione dell’attesa
3
Non possiamo dimenticare i continui inviti alla speranza formulati da papa Giovanni
Paolo II. In particolare, ricordiamo il libro-intervista con V. MESSORI, Varcare le soglie
della speranza, Milano 1994. Emblematico è anche il titolo di uno degli ultimi libri
dedicatogli: G. WEIGEL, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, Milano
2005.
4
Cf. TITO LIVIO, Ab urbe condita XXI, 62. Il Forum olitorium era il mercato delle erbe
e delle verdure di Roma – come c’informa M.T. VARRONE, De lingua latina V, 146 – dove,
oltre a questo tempio vi si trovavano anche quelli dedicati a Pietas, Ianus e Iuno Sospita. I
resti dei templi di Ianus, Iuno Sospita e Spes sono attualmente sotto la chiesa di San Nicola
in carcere (zona del Teatro Marcello): erano tre templi affiancati e orientati verso il Forum
olitorium. Si ritiene che quello centrale – che è il più grande e aveva colonne ioniche –
fosse dedicato a Spes. Di un altro antico tempietto sull’Esquilino dedicato alla Spes Vetus ci
2
fiduciosa di lieti eventi, figurata come una ragazza in piedi con un fiore in
mano5. D’altronde, Spes ultima dea, come recita un motto della tarda
latinità, che ricorda il mito di Pandora, di cui faremo cenno in seguito6. È
possibile che questo termine sia in rapporto con il campo semantico dello
spazio (spes/spatium), come per indicare che la speranza rappresenta un
campo aperto nel quale si realizzano il destino e le potenzialità degli
uomini.
Anche nel mondo greco esisteva un corrispettivo, Elpìs7, un demone
femminile (raffigurata come una giovane donna che porta fiori tra le
braccia) che era stato rinchiuso insieme ad altri demoni da Zeus in un vaso,
che Pandora, la donna creata da Efesto e Atena, aprì per curiosità. Tutti i
demoni, che rappresentavano i mali, scapparono, ma soltanto Elpìs non
fuggì, rimanendo come consolazione per l’umanità8. Giustamente, Bianchi
considera:
«Si è disputato molto sul significato di questo rimanere della Speranza all’interno della
giara. È essa un bene, l’ultimo rimasto ai mortali, oppure un male, dato che essa è in fondo
alla giara ove erano contenuti i mali in persona? La risposta – ci sembra – non può che
tener conto del complesso del pensiero esiodeo, che si rivela in linea con il modo di pensare
generalmente greco: la Speranza è insieme un bene e un male: il segno di una condizione
umana, ormai irrimediabilmente lontana dalla situazione di felicità in cui vivono gli dei,
che non hanno speranza, ma possesso di una vita felice; in quella stessa condizione umana
essa è un bene, perché è necessario sperare per lottare e vivere; l’Elpis non elimina il male:
lo rende sopportabile e aggredibile» 9.
parla TITO LIVIO, Ab urbe condita II, 51,2 (cf. anche D IONIGI DI ALICARNASSO, Antichità
Romane IX, 24,4), nonché l’Historia Augusta: Eliogabalo 13.
5
Essa faceva parte di quel gruppo di astrazioni personificate e divinizzate, come Fides,
Ops, Salus…; cf. D. FEENEY, Letteratura e religione nell’antica Roma, Roma 1999, 128-
133; G. D UMÉZIL, La religione romana arcaica, Milano 2001, 347-354.
6
Anche il poeta italiano Ugo Foscolo ricorda questo detto: «Anche la Speme, ultima
Dea, fugge i sepolcri» (I Sepolcri 15-16). Giacomo Leopardi, da parte sua, sembra
esprimere sfiducia anche in quest’ultima risorsa dell’animo umano: «A te la speme / Nego,
mi disse, anche la speme; e d’altro / Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto» (La sera del
dì di festa 14-16).
7
Il senso etimologico del termine deriva dalla radice vel, la stessa del latino velle,
volere, e voluptas.
8
È il celebre mito di Pandora, narrato in ESIODO, Le opere e i giorni 94-104. Altre
tradizioni raccontano invece che il vaso racchiudeva i beni e non i mali. Aprendolo,
Pandora avrebbe fatto volare via tutti i beni, che tornarono tutti nelle dimore divine, ad
eccezione della speranza: su questo mito e sulla sua interpretazione, cf. P. GRIMAL,
Enciclopedia della mitologia, Milano 1999, 478; U. BIANCHI, La religione greca, Torino
1992, 72-75; J.-P. VERNANT, Mito e pensiero presso i greci. Studi di psicologia storica,
Torino 2001, 37-38; 58-63; ID., L’universo, gli dei, gli uomini, Torino 2001, 61-68.
9
BIANCHI, La religione greca, 73-74.
3
Per l’uomo greco10, la speranza è soltanto l’aspettazione del futuro11,
perché l’uomo non può non sperare: «D’altra parte, noi siamo carichi di
speranze durante tutta la vita» («hJmei~" dè au\ dia; panto;" tou~ bivou ajei;
gevmomen ejlpivdwn»)12. Tali speranze possono essere liete o tristi, da cui
proviene l’ambiguità del termine, che nella lingua greca dev’essere
generalmente specificato con un aggettivo: buona o cattiva. Vi è,
naturalmente, una forte vena pessimistica, che vede nella speranza soltanto
un fatto consolatorio13; al massimo, costituisce un sollievo nel pericolo14, ma
è parimenti pericoloso farvi eccessivo affidamento. Considera la speranza
un elemento positivo qualcuno tra i filosofi, tra cui Platone, il quale sostiene
che essa nasce dal desiderio, cioè da quell’e[rw" che è impulso verso il bene
e il bello. Perciò, la speranza intesa così trascende la vita attuale: infatti, il
vero eu[elpi", colui che sa nutrire buone speranze, è il filosofo, il quale non
teme di affrontare la morte; per tale motivo tanti, saggiamente a suo parere,
per incontrare nell’Ade i propri cari scelgono di andare incontro alla
morte15.
Se per l’uomo greco la speranza s’identifica con ciò che è sperato, per
l’ebreo essa corrisponde principalmente all’azione dello sperare, come
acutamente fa osservare Rudolph Bultmann16. Si tratta, naturalmente, di
modi diversi d’intendere un medesimo vocabolo, il cui significato sembra il
10
Cf. R. BULTMANN, ejlpiv", in Grande Lessico del Nuovo Testamento III, 507ss.
11
Essa ha come sinonimo, non a caso, la prosdokiva: cf. C. MAURER, prosdokavw,
prosdokiva, in Grande Lessico del Nuovo Testamento XI, 294.
12
PLATONE, Filebo 39e: PLATONE, Filebo, in Tutte le opere, Roma 1997, II, 278.
13
ESCHILO, Prometeo incatenato 250-253: «Prometeo: Ho fatto cessare agli uomini di
prevedere il loro destino (qnhtouv" g∆ e[pausa mh; prosdevrkesqai movron). Coro: Di che
tipo era il rimedio che hai trovato per quest’afflizione (to; poi`on euJrw;n th`s de favrmakon
novsou)? Prometeo: Ho fatto abitare cieche speranze tra gli uomini (tufla;" ejn aujtoi`"
ejlpivda" katwv/kisa). Coro: Un grande beneficio era questo che hai dato ai mortali (meg∆
wjfevl hma tou`t∆ ejdwrhvs w brotoi`")».
14
TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso V, 103 la definisce «consolazione al pericolo»
(kinduvnw/ paramuvqion).
15
PLATONE, Fedone 64c, 67c-68b: PLATONE, Filebo, in Tutte le opere, Roma 1997, I,
154, 160-162.
16
Cf. BULTMANN, ejlpiv", 508 e 516. Sulla speranza nell’AT, cf. ancora P.A.H. DE
BOER, Étude sur le sens de la racine QWH, in Old Testament Studies 10 (1954) 225-246;
D.A. HUBBARD, Hope in the Old Testament, in Tyndale Bullettin 34 (1983) 33-59; L. KOPF,
Arabische Etymologien und Parallelen zum Bibelwörterbuch, in Vetus Testamentum 8
(1958) 161-215; J. VAN DER PLOEG, L’espérance dans l’Ancien Testament, in Revue
Biblique 61 (1954) 481-507; C. WESTERMANN, Das Hoffen im AT, in Theologische
Bibelwissenschaft 24 (1964) 219-265; W. ZIMMERLI, Der Mensch und seine Hoffnung im
AT, Göttingen 1968.
4
medesimo, ma che in contesti linguistici diversi esprime delle differenze di
vedute.
Nella lingua ebraica, la più importante radice che indica il concetto di
speranza – presente anche in altre lingue semitiche, come l’accadico, dove
richiama l’idea dell’attendere, dell’aspettare, e il siriaco, in cui c’è anche il
senso di perseverare – è qwh. Da tale radice provengono i vocaboli tiqwāh e
miqwœh, oltre al verbo qwh, il quale da vari studiosi è ritenuto un
denominativo del termine qaw, che significa corda17: da qui, la ragione per
la quale il verbo qwh esprimerebbe il concetto di essere teso18. In quanto
sinonimi di qwh, anche ḥkh, śbr al piel e jḥl hanno il senso di attendere e
sperare19.
Per la lingua ebraica, quindi, la speranza rappresenta un concetto
dinamico, la tensione, che si basa sul concreto fondamento della fiducia
(radice btḥ) in colui in cui si spera. Ciò è dimostrato dal fatto che non poche
volte speranza e fiducia nella Bibbia ebraica sono adoperate come
sinonimi20. Anche senza voler scendere nei dettagli, è utile accennare al
fatto che il verbo qwh ricorre 47 volte, di cui 28 con riferimento a Dio e 19
no; tiqwāh ricorre 32 volte e soltanto in Sal 62,6 e 71,5 si riferisce a Dio;
infine, delle 5 volte che si trova miqwœh 3 riguardano Dio.
Di per sé, sperare indica il mirare a qualcosa di cui si avverte la
mancanza. A tal proposito, possiamo rinvenire un esempio in Gb 6,19-20,
dove Giobbe paragona la propria situazione a quella delle carovane e dei
mercanti che, nel deserto, cercano con speranza un ruscello, ma rimangono
delusi: così egli aveva sperato di avere dagli amici conforto, ma aveva
ricevuto da loro solo parole di condanna. Perciò, affermò in seguito:
«Eppure aspettavo il bene ed è venuto il male, aspettavo la luce ed è venuto
il buio» (30,26)21. Non a caso è nel Libro di Giobbe che ricorre 13 volte il
sostantivo tiqwāh senza riferimento a Dio – tra le 30 di tutto l’AT – con una
forte dose di pessimismo22. Nella Bibbia, però, a sperimentare la delusione
17
Cf. BEYSE, qaw, in Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament VI, 1223-1225.
Occorre, però, ricordare che anche tiqwāh solo in Gs 2,18.21 vuol dire corda.
18
Cf. C. WESTERMANN, qwh, in E. JENNI - C. WESTERMANN, Dizionario Teologico
dell’Antico Testamento, Casale Monferrato (Alessandria) 1982, II, 558-559; G. WASCHKE,
qwh, in Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament VI, 1225-1226.
19
Cf. C. BARTH, ḥākâ, in Grande Lessico dell’Antico Testamento II, 968-974; ID.,
jāḥal, in ivi III, 704-712; B. KNIPPING, śābar, in Theologisches Wörterbuch zum Alten
Testament VII, 1027-1040.
20
Cf. ad esempio 2Re 18,19; Is 36,4; Qo 9,4; Gb 4,6; Mic 7,7; Lam 4,17; Ger 29,11; Pr
23,18; 24,14. Questo emerge in particolare nella poesia biblica: cf. G. RAVASI, I canti di
Israele. Preghiera e vita di un popolo, Bologna 1986, 87-90.
21
Cf. anche Gb 3,9; Sal 69,21; Is 59,9.11; Ger 8,15; 13,19; 14,19.
22
Gb 7,6: «I miei giorni sono stati più veloci di una spola, sono finiti senza speranza»;
14,19: «Ohimé! Come un monte finisce in una frana e come una rupe si stacca dal suo
posto, e le acque consumano le pietre, le alluvioni portano via il terreno: così tu annienti la
5
non è soltanto l’uomo, ma persino Dio, il quale si attendeva dal suo popolo
il frutto buono della giustizia e della rettitudine, mentre ricava il frutto
acerbo dello spargimento di sangue e delle grida di oppressi (Is 5,2.4.7).
Il tema della speranza in Jhwh è particolarmente sviluppato nei Salmi e
nelle Lamentazioni, dove ricorrono 17 delle 33 volte in cui la radice qwh si
riferisce a Dio. Tipica è, infatti, l’espressione di Sal 62,6 e 71,5 «tiqwātī»,
«la mia speranza», oppure le 13 volte nelle quali c’è «qiwwītī», «io spero»,
e l’analogo «qiwtā nafšī», «l’anima mia spera»23. In Sal 27,14 si riscontra
un altro tipo di uso della radice nell’esortazione ad avere speranza: «Spera
in Jhwh, sii forte, si rinfranchi il tuo cuore e spera in Jhwh». In generale,
l’uso che i profeti fanno della radice risente dell’influsso dei Salmi.
L’avere speranza in Dio costituisce certamente qualcosa di nuovo,
rispetto alle altre esperienze religiose contemporanee, che l’Antico
Testamento testimonia circa la concezione di Dio e il rapporto con lui.
Infatti, quando la speranza non si riferisce a Dio ma a un bene di qualsiasi
natura, essa viene delusa, a differenza di quando si spera in Dio, che quei
beni può concedere24.
6
come PsSal 17,4426; si fa sempre più forte, inoltre, nei testi apocalittici,
quella escatologica – per la quale la storia, che è nelle mani di Dio, sarà da
lui giudicata alla fine – e anche quella della risurrezione dei morti, preclusa
agli empi (Sap 3,18) ma apportatrice d’immortalità per i giusti (Sap 3,4;
2Mac 7,11.14.20).
Interessante è la maniera di considerare la speranza da parte di Filone
d’Alessandria. Quest’importante intellettuale giudeo, infatti, usa il termine
ejlpiv" non solo secondo la tipica accezione greca, ma anche secondo il suo
specifico modo di vedere l’essere umano impegnato a perfezionarsi.
Precisando quanto è stato appena detto, in primo luogo Filone considera la
speranza come prosdokiva, ossia l’attesa di ciò che è buono27, una
pregustazione gioiosa che si contrappone alla paura28. Non manca l’idea
della speranza come consolazione nelle necessità. Ma il filosofo dà ben più
risalto alla speranza orientata al perfezionamento dell’uomo:
«Qui la Scrittura [Gen 15,7] paragona a un forno l’anima di chi ama il sapere e spera
nella perfezione (ejlpivda teleiwvsew" e[conto"), perché l’una e l’altro sono recipienti di
cibo cotto, l’uno per il cibo composto di elementi corruttibili, l’altra per il cibo fatto di virtù
incorrutibili» 29.
Inoltre, per Filone chi non spera in Dio non è un vero uomo, perché
l’uomo non può non sperare in lui ed è “connaturale” farlo: egli prende a
esempio Enos (nome che per lui significa “uomo”) figlio di Set, del quale in
Gen 4,26 secondo la LXX si dice: «ou|to" h[lpisen ejpikalei`sqai to;
o[noma kurivou tou` qeou`», e commenta: «Infatti, che cosa potrebbe essere
più appropriato a un uomo, che sia veramente tale, che la speranza e
l’aspettativa di ottenere dei beni dal Solo che è benefico, da Dio? E questo
è, se devo dire la verità, la sola generazione degli uomini in senso proprio,
26
La bibliografia in proposito, inutile dirlo, è sterminata e, inoltre, tale argomento non è
oggetto della nostra trattazione; rimandiamo per i riferimenti essenziali a G. DI PALMA, Sei
tu il Cristo? Tra gesuologia e messianicità, Roma 2005, 25-52. Inoltre, ci piace ricordare ai
lettori il famoso saggio di P. GRELOT, La speranza ebraica al tempo di Gesù, Roma 1981.
27
Cf. FILONE DI ALESSANDRIA, Le allegorie delle leggi II, 43: G. REALE - R. RADICE -
C. KRAUS REGGIANI (curr.), Filone di Alessandria. La filosofia mosaica, Milano 1987, 152-
153.
28
Cf. FILONE DI ALESSANDRIA, Il malvagio tende a sopraffare il buono 140: C.
MAZZARELLI & R. RADICE (curr.), Filone di Alessandria. Le origini del male, Milano 1984,
278; ID., Il mutamento dei nomi 163: G. REALE - C. KRAUS REGGIANI (curr.), Filone di
Alessandria. L’uomo e Dio, Milano 1986, 363.
29
FILONE DI A LESSANDRIA, L’erede delle cose divine 311: G. REALE - R. RADICE
(curr.), Filone. L’erede delle cose divine, Milano 1994, 202 (testo greco) e 203
(traduzione).
7
in quanto gli esseri che non sperano in Dio non partecipano della natura
razionale»30.
Probabilmente, la cosa più significativa che Filone afferma è il far
emergere quelle tre virtù, la fede (pivsti"), la speranza (ejlpiv") e l’amore
(cavri"), che diventeranno successivamente le virtù teologali del pensiero
teologico cristiano31.
4. Il NT e la speranza
30
FILONE DI ALESSANDRIA, Il malvagio tende a sopraffare il buono 138 (cf. anche 139:
MAZZARELLI - RADICE, Le origini del male, 277 (278).
31
La fede e la speranza compaiono insieme in ID., Le allegorie delle leggi III, 164:
REALE - RADICE - K RAUS REGGIANI, La filosofia mosaica, 207-208. Sulle tre virtù in
Filone, cf. A. MADDALENA, Filone Alessandrino, Milano 1970, 381-395.
32
Ciò si verifica in casi come Lc 6,34, 23,8; 24,21, Rm 15,24, 1Cor 9,10, 2Cor 8,5, 2Tm
3,14, 2Gv 12…
33
Per questo, rimandiamo all’esaustivo commento di H.W. ATTRIDGE, La Lettera agli
Ebrei. Commento storico esegetico, Città del Vaticano 1999, 509-512. Per il richiamo
dantesco, cf. ivi 511.
8
Il secondo termine è un apax legomenon nel NT34, il cui senso non può
che essere “prova”. Quindi, Eb 11,1 è una definizione in cui «il punto
principale non sta nel fatto che se uno crede in qualcosa dimostra la realtà di
ciò in cui crede. Come stanno a indicare gli esempi presentati, la Lettera
sostiene piuttosto che un risultato dell’atto o della tenacia della fede è che le
realtà invisibili alle quali essa è correlata ricevono una conferma, in parte
perché le speranze sono realizzate e in parte perché, come sosterrà
esplicitamente il versetto seguente, i credenti stessi ricevono una
attestazione divina»35.
Questo è un tipo di ragionamento che ricorda quanto Paolo, il vero
teologo della speranza tra gli autori del NT, afferma in Rm 8,24-25: «Poiché
nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è
più speranza; infatti, ciò che uno vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma
se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza».
Naturalmente, l’apostolo non sta sviluppando un generico discorso sulla
speranza in quanto tale, ma si riferisce alla speranza «della partecipazione
alla gloria (cf. Rm 5,2) e della figliolanza iniziata con il dono dello
Spirito»36. È indubitabile, però, che Paolo sottolinea il fatto che tale
speranza, pur radicata nella fede, s’identifica con ciò che non si vede,
richiedendo ai credenti perseveranza nell’attendere la gloria37.
Sempre in questa prospettiva si può leggere Rm 4,18, con la celebre
espressione riferita ad Abramo: «Egli ebbe fede sperando contro ogni
speranza ( }O" par∆ ejlpivda ejp∆ ejlpivdi ejpivsteusen)». È un classico
paradosso perché si esprime un concetto che va oltre ogni logica. Tuttavia,
in forza di quest’ossimoro, sembra palese che Paolo voglia far intendere la
reciproca implicazione tra fede e speranza, le quali in Abramo trovano un
paradigma difficilmente eguagliabile, come risulta dimostrabile dalla
fermezza che il patriarca ha avuto nel credere all’adempimento della
promessa di un figlio38.
34
Nel NT, però, troviamo il verbo ejlevgcw (18 volte, tra cui Eb 12,5, nella citazione di
Pr 3,2), il sostantivo e[legxi" (2Pt 2,16) e l’aggettivo ejlegmov" (2Tm 3,16). Cf. F. BÜCHSEL,
ejlevgcw, in Grande Lessico del Nuovo Testamento 389-398.
35
ATTRIDGE, La Lettera agli Ebrei, 512-513.
36
A. PITTA, Lettera ai Romani, Milano 2001, 306. Cf. anche B. ROSSI, Struttura
letteraria e teologia della creazione in Rm 8,18-25, in Liber Annuus 41 (1991) 113-115.
37
Cf. anche J.A. FITZMYER, Lettera ai Romani. Commentario critico-teologico, Casale
Monferrato (1999), 462-463; P. STUHLMACHER, La lettera ai Romani, Brescia 2002, 167;
S. LÉGASSE, L’epistola di Paolo ai Romani, Brescia 2004, 409-410.
38
Cf. PITTA, Lettera ai Romani, 196-197; STUHLMACHER, La lettera ai Romani, 97;
LÉGASSE, L’epistola di Paolo ai Romani, 243; R. PENNA, Lettera ai Romani. I. Rm 1-5,
Bologna 2004, 401-403; M. CRANFORD, Abraham in Romans 4: The Father of All Who
Believe, in New Testament Studies 41 (1995) 1, 71-88; T.H. TOBIN, What Shall We Say
That Abraham Found? The Controversy behind Romans 4, in Harvard Theological Review
88 (1995) 4, 437-452. Circa il rapporto tra fede e speranza, cf. ancora 1Cor 15,19, 2Cor
1,10 e 3,12, Fil 1,20.
9
Il riferimento a Paolo era doveroso e obbligato. Vogliamo ricordare che
anche una semplice statistica giustifica ampiamente l’attenzione che bisogna
riservargli: su 53 ricorrenze del termine ejlpiv" (in 48 contesti), ben 36 (di
cui 13 in Romani) si trovano nel corpus paulinum. Se prendiamo in
considerazione pure le ricorrenze del verbo ejlpivzw, notiamo che 20 su 32
sono nelle lettere paoline.
In sintesi, per Paolo la speranza cristiana consiste nell’adempimento delle
promesse fatte da Dio a Israele, come emerge dalla storia della salvezza.
Perciò, tornando ancora a Rm 4, egli considera determinante la figura di
Abramo, il quale, sulla base di un rapporto personale con Dio, non ha mai
dubitato delle promesse. Allo stesso modo di Abramo, anche il cristiano
ripone la sua speranza in Dio, il quale offre attraverso il Figlio Gesù Cristo
un motivo di sperare molto più valido di quello di Abramo: la
giustificazione per tutti, anche per i pagani.
Paolo, affermando che i pagani come i giudei sono bisognosi della
misericordia di Dio, sostiene che si partecipa alla giustizia di Dio con la
fede in Gesù Cristo. L’esempio offerto da Abramo s’inserisce, dunque, nella
sua argomentazione. Infatti, Dio giustifica tutti, giudei e pagani, per la fede,
come Abramo, il quale, attraverso la fede, ha trovato non tanto l’unico vero
Dio creatore e l’osservanza della legge, bensì il dono gratuito della salvezza
(la grazia). E che la salvezza sia gratuita è dimostrato dall’esempio del
salario in Rm 4,4.
Poi l’apostolo spiega che Abramo è padre sia per i circoncisi (giudei) che
per gli incirconcisi (pagani), poiché «egli ricevette il segno della
circoncisione quale sigillo della giustizia derivante dalla fede che aveva già
ottenuta quando non era ancora circonciso; questo perché fosse padre di tutti
i non circoncisi che credono e perché anche a loro venisse accreditata la
giustizia e fosse padre anche dei circoncisi, di quelli che non solo hanno la
circoncisione, ma camminano anche sulle orme della fede del nostro padre
Abramo prima della circoncisione» (Rm 4,11-12). Dunque, Paolo mette
fuori gioco la legge mosaica nei versetti successivi, perché essa sarebbe un
ostacolo agli adempimenti della promessa, della fede e della grazia. Inoltre,
egli aggiunge, la fede di Abramo consistette nel credere fermamente che
colui che aveva avanzato le promesse era in grado di compierle, nonostante
le evidenze contrarie. Perciò, come egli credette in Dio, il quale gli promise
che gli sarebbe nato un figlio pur essendo lui e sua moglie ormai vecchi, e
ciò gli fu accreditato come giustizia, così noi crediamo nello stesso Dio che
ha risuscitato suo Figlio dai morti per la nostra salvezza.
La speranza cambia la vita dei cristiani, i quali, insieme, formano la
chiesa che è comunità escatologica che si configura in relazione al futuro,
già iniziato con la risurrezione di Cristo e, per questo, non ancora realizzato.
A sostegno di questa speranza c’è lo Spirito, «il quale è caparra della nostra
eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato,
a lode della sua gloria» (Ef 1,14). Il sostegno dello Spirito si rende tanto più
10
necessario dal momento che i cristiani, vivendo nella storia, devono fare i
conti con la sofferenza che proviene dalla fedeltà al Vangelo (cf. Rm 8 e
1Cor 12-13)39. Il futuro per i cristiani è la gloria, di cui la speranza è
pregustazione, che si basa sulla risurrezione di Cristo, la primizia40.
Nei Vangeli, invece, è alquanto sorprendente notare che il verbo ejlpivzw
ricorra solo 4 volte nei vangeli (Mt 12,21; Lc 6,34; Gv 5,45), mentre il
sostantivo ejlpiv" mai. Ciò non vuol dire, però, che gli evangelisti non
conoscano la speranza, ma che essa risulti per lo più inglobata nella fede.
D’altronde, la narrazione evangelica ricorda l’importanza dell’adempimento
delle promesse, che creano speranze, in Gesù Cristo, il Messia, il Figlio
dell’Uomo e Figlio di Dio. Gesù stesso, poi, suscita speranze in coloro che
lo incontrano con disponibilità ad accoglierne la parola, mentre gli apostoli
diventano il primo nucleo di coloro che si riuniscono condividendo la
speranza che si radica nella risurrezione.
Benché le ricorrenze del termine ejlpiv" e del verbo ejlpivzw non siano
numerose, sembra che nella Prima Lettera di Pietro il tema presenti
interessanti spunti di riflessione. Per essere precisi, il termine ejlpiv" si trova
solo 3 volte: 1,3.21; 3,15; il verbo ejlpivzw, invece, 2 volte: 1,13 e 3,5. Ora ci
occuperemo di questi brani, esaminati nel loro contesto.
Subito dopo l’esordio epistolare (cf. 1Pt 1,1-2)41, l’autore eleva una
solenne benedizione rivolta a Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo,
che si prolunga fino dal v. 3 al 12. Non è semplice individuare una struttura
di questa benedizione, ma sembra accettabile suddividere in tre segmenti il
brano, tenendo presente che in 1,6 e 1,10 c’è una preposizione con un
pronome relativo. Per cui, abbiamo questa situazione: primo segmento,
costituito dai vv. 3-5; secondo segmento, dai vv. 6-9 (introdotto al v. 6 da ejn
39
Cf. in proposito B. ROSSI, La vita nello Spirito (Rm 8,1-39), in A. SACCHI e altri,
Lettere paoline e altre lettere, Leumann (Torino) 1995, 480-482; FITZMYER, Lettera ai
Romani, 612-614.
40
Cf. J.M. EVERTS, Speranza, in G.F. HAWTHORNE - R.P. MARTIN - D.G. REID,
Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Cinisello Balsamo (Mi) 1999, 1485-1489.
41
P.L. TITE, The Compositional Function of the Petrine Prescript: A Look at 1 Pet 1:1-
3, in Journal of the Evangelical Theological Society 39 (1996) 1, 47-56. Tale esordio è
strettamente legato ai versetti successivi.
11
w|/); terzo segmento, dai vv. 10-12 (introdotto al v. 10 da peri; h|")42. Il
segmento che c’interessa di più è il primo, dove si trova il termine ejlpiv":
42
Per questa struttura, cf. P.J. ACHTEMEIER, La Prima Lettera di Pietro, Libreria
Editrice Vaticana 2004, 180, con la bibliografia ivi indicata; M. MAZZEO, Lettere di Pietro.
Lettera di Giuda, Cinisello Balsamo (Milano) 2002, 60-61. Cf. anche J.H. ELLIOTT, 1Peter,
New York 2000, 329, per quanto sia poco convincente il fatto che ciascun segmento si
riferisca a una delle persone trinitarie (il primo al Padre, il secondo al Figlio e il terzo allo
Spirito). In realtà, ciò che l’autore vuole dire è altro.
43
Cf. ELLIOTT, 1Peter, 331-333; K.H. SCHELKLE, Le lettere di Pietro. La lettera di
Giuda, Brescia 1981, 73-77 ammette che questo senso risulta molto forte, pur segnalandone
uno generale, che concerne «la rinascita come redenzione ottenuta mediante la risurrezione
di Cristo e la fede» (ivi 74). Per il senso sacramentale si schiera F. MANNS, La théologie de
la nouvelle naissance dans la Premiére Lettre de Pierre, in Les Enfants de Rébecca.
Judaïsme et christianisme aux premiers siècles de notre ère, Saint-Germain-lès-Arpajon
2002, 103-140. Lo studioso francescano, infatti, si dedica a studiare il concetto di nuova
creazione nell’AT e negli apocrifi anticotestamentari, fino ad esaminare il tema della
rinascita per mezzo della Parola di Dio vivente, che s’integra con quello della rinascita
12
metafore e immagini che hanno rapporto con la rinascita: basti ricordare il
classico termine tevkna (figlioli) in 1,14, ajrtigevnnhta (neonati) in 2,2 e la
tematica dell’incorporazione nella famiglia divina in 2,4-1044.
Ci si è chiesti da dove sia derivata quest’idea di rigenerazione, il che ha
fatto sorgere il normale corollario d’ipotesi tra gli studiosi. Quella da
scartare a priori è indubbiamente la correlazione con il linguaggio, d’epoca
successiva, delle religioni misteriche, mentre potrebbe essere più pertinente
un rapporto con il linguaggio che è documentato nella letteratura rabbinica,
per quanto anche questo sia più recente. L’autore potrebbe, però, essere
stato senz’altro a conoscenza di quel tipo di linguaggio, già adoperato nella
tradizione orale. Tuttavia, è da notare che l’immagine della nuova nascita e
della rigenerazione non è affatto ignota al NT, come dimostrano, oltre alla
già ricordata pericope di Gv 3,3-8, anche testi come Rm 6,4, 2Cor 5,17, Tt
3,5-6, Gc 1,18, 1Gv 3,9-10 e 5,1-5, a cui sono da aggiungere Rm 8,9-30, Gal
4,4-7 ed Ef 1,545.
Senza negare la fondatezza del senso sacramentale, è necessario prendere
in considerazione anche la rigenerazione quale frutto della redenzione
attuata dalla risurrezione di Cristo e quella di carattere esistenziale, in
quanto realizzata attraverso la realtà della fede. Siamo del parere, in
compagnia di qualche recente commentatore, che i tre sensi non si
escludono vicendevolmente46. Da un punto di vista logico e teologico,
infatti, non dovrebbe esistere reciproca esclusione, bensì coimplicazione, in
quanto il battesimo è intimamente correlato con la risurrezione di Cristo e
segna un cambiamento esistenziale.
L’autore, poi, individua tre finalità introdotte ciascuna dalla preposizione
eij": per una speranza viva, per un’eredità incorruttibile e per la nostra
salvezza prossima a rivelarsi. Per questo motivo, riteniamo che la traduzione
Cei non faccia bene intendere al lettore l’enumerazione di tali tre finalità
attraverso la risurrezione. Tuttavia, «la nouvelle naissance du baptême doit se traduire par
une vie nouvelle caractérisée par l’amour» (ivi 138). Ciò vuol dire che la rigenerazione, che
affonda nel battesimo le sue radici, deve diventare rinnovamento della vita nell’amore.
44
Cf. tra gli altri J.H. ELLIOTT, The Elect and the Holy: An Exegetical Examination of 1
Peter 2:4-10 and the Phrase basileian hierateuma, Leiden 1966; F. MOSETTO, Sacerdozio
regale (1Pt 2,4-10), in SACCHI, Lettere paoline e altre lettere, 571-582; P. GRELOT, Regole
e tradizioni del cristianesimo primitivo, Casale Monferrato (Alessandria) 1998, 115-155;
S.J. VAN RENSBURG - S. MOYISE, Isaiah in 1 Peter 2:4-10. Applying intertextuality to the
study of the Old Testament in the New, in Ekklesiastikos Pharos 84 (2002) 1, 12-30.
45
Per approfondire il tema di rigenerazione, cf. S. PARSONS, We have been Born Anew:
The New Birth of the Christian in the First Epistle of St. Peter (1Petr. 1,3-23), Roma 1978.
46
Cf. MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 62. Non siamo completamente
d’accordo, quindi, con D.P. SENIOR, 1Peter, Jude and 2Peter, Collegeville 2003, 36, che
sostiene: «Rather, 1 Peter uses the image of “rebirth” to describe both God’s sovereign
power (God alone can give life) and the radical change salvation brings (from non-
existence to existence)».
13
spezzando la sequenza con un segno d’interpunzione forte quale il punto
dopo l’aggettivo ajmavranton.
Per quanto il nostro interesse sia concentrato sulla speranza, è pur vero
che non possiamo ignorare l’eredità e la salvezza, che fanno parte della
triade. Certamente, impressiona l’uso dell’aggettivo zw'san (viva, vivente)
associato al termine speranza. Che cosa vuol dire l’autore? Crediamo che il
primo accostamento da fare sia con la risurrezione di Cristo dai morti, per
cui emerge il contrasto tra il mondo della morte, da cui Cristo, il Vivente, si
è svincolato spezzandone i legami che lo tenevano avvinto in quella che già
l’antica tradizione mesopotamica chiamava «la terra del non ritorno»47, e il
mondo della vita. C’è poi il richiamo obbligato alla rigenerazione, di cui
prima abbiamo parlato, la quale non può che costituire elemento concreto di
speranza perché si giunge a una nuova vita.
La speranza viva, inoltre, “contiene” in sé l’eredità e la salvezza. Infatti,
la speranza ha in vista l’eredità conservata nei cieli perché i credenti non
devono presumere di avere già il possesso di qualcosa, pur iniziando a
pregustare qualcosa dei beni futuri; tuttavia, è necessario che prendano
coscienza che ciò in cui sperano è qualcosa di concreto, di reale, di vivo, in
quanto garantito dalla risurrezione di Cristo: l’eredità dei beni eterni e la
salvezza come raggiungimento della perfezione escatologica del mondo.
Perciò, di fronte a questa prospettiva, l’autore esorta in seguito a non
perdere coraggio se il contesto storico, con le sue contraddizioni e asperità,
non corrisponde ancora alle attese della speranza, in quanto la fede ha
bisogno di purificarsi48.
47
Cf. l’interessante saggio di G. PETTINATO (cur.), I miti degli inferi assiro-babilonesi,
introduzione di Silvia Maria Chiodi, Brescia 2003.
48
Cf. SCHELKLE, Le lettere di Pietro. La lettera di Giuda, 70-95; U. VANNI, Lettere di
Pietro, Giacomo e Giuda, Brescia 1986, 14-15; 23-32.
49
Su questa pericope, cf. J. PRASAD, Foundations of the christian way of life according
to 1Peter 1,13-25. An esegetico-theological study, Roma 2000.
14
un altro indizio che avvalora la divisione, ossia il fatto che al v. 13 e al v. 22
c’è una costruzione sintattica uguale, formata da un participio seguito da un
imperativo50.
Naturalmente, il nostro interesse è concentrato in misura maggiore sul
brano 1,13-21 e specialmente sul versetto iniziale e quello finale. Il v. 13,
come già si era accennato prima, presenta questa costruzione sintattica, un
participio, seguito da un imperativo, che risulta un po’ strana ed è stata
ampiamente discussa dagli studiosi51:
«Perciò (Dio;), dopo aver preparato la vostra mente all’azione (ajnazwsavmenoi ta;"
ojsfuva" th`" dianoiva" uJm w`n), siate vigilanti, fissate ogni speranza (teleivw" ejlpivsate) in
quella grazia che vi sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà».
50
Cf. in particolare A CHTEMEIER, La Prima Lettera di Pietro, 217-219.
51
Per lo status quaestionis al riguardo, cf. ACHTEMEIER, La Prima Lettera di Pietro,
221-223, con i riferimenti bibliografici. Il problema sorge perché alcuni commentatori
hanno sostenuto che spesso i participi della 1Pt, se seguiti da un imperativo, hanno
anch’essi il valore di imperativi, come accadrebbe nella lingua greco-ellenistica. In effetti,
il riferimento al greco ellenistico non è pertinente, mentre potrebbero essere più rispondenti
i confronti con la letteratura tannaitica. Per quanto riguarda il v. 13, è condivisibile questo
giudizio: «I due participi (ajnazwsavmenoi, nhvfonte") ricevono valore di imperativi dalla
loro associazione all’imperativo ejlpivsate, ma la loro forza è minore di quella di un
comando diretto, come lo può essere la descrizione del genere di popolo che può trarre
beneficio da questo comando, ossia coloro che sono pronti ad affrontare uno sforzo di
disciplina» (ivi 223). Di recente ha discusso l’argomento S. SNYDER, Participles and
Imperatives in 1Peter: A Re-examination in the Light of Recent Scholarly Trends, in
Filología Neotestamentaria 8 (1995) 187-198, il quale difende la tesi che il participio,
quando è indipendente, può avere un senso imperativo, come attestato nel greco ellenistico.
In 1Pt i casi sono 2,18; 3,1.7.9. invece, «that a participle which occurs in close proximity to
a main verb and could easily modify that verb, without distorting the sense of the argument,
is probably not best considered a commanding participle» (ivi 197).
52
Abbiamo anche Na 2,1, Gb 38,3, 40,7, Pr 31,17.
15
sull’obiettivo principale. Quindi, come ci si libera della veste lunga,
accorciandola e assicurandola ai fianchi, così bisogna fare con la mente.
Accoppiato all’invito a cingersi la veste ai fianchi della mente c’è quello
a essere svegli e sobri, così da iniziare a sperare in maniera completa
(teleivw" ejlpivsate) nella grazia che sarà data nella rivelazione di Gesù
Cristo. Dunque, l’orientamento della speranza è verso il futuro: oggi si
comincia a sperare, sulla base dell’annuncio del vangelo, in riferimento a
una grazia che si manifesterà in pienezza quando Gesù si rivelerà alla fine
dei tempi, quando ciò che ora si spera diventerà realtà e ci sarà la conferma
di quello che è stato annunciato. Fissare perfettamente la speranza è il primo
di una serie di imperativi, con i quali ai cristiani viene detto di diventare
santi nella condotta (cf. 1Pt 1,15), di comportarsi con timore durante il
pellegrinaggio terreno (cf. 1Pt 1,17), di amarsi vicendevolmente di vero
cuore (cf. 1Pt 1,22) e, infine, di desiderare come bambini appena nati il puro
latte spirituale (cf. 1Pt 2,2)53. È l’invito a prendere in seria considerazione la
vocazione alla santità.
Il secondo riferimento alla speranza si trova, invece, al termine di una
bella confessione su Gesù Cristo (vv. 18-20), il cui sacrificio pasquale non
dev’essere vanificato da condotte immorali, ereditate dagli antenati di
coloro che sono venuti alla fede: «Voi sapete che non a prezzo di cose
corruttibili, come l’argento e l’oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta
ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di
agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della
fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi».
Perciò, si conclude così:
«E voi per opera sua credete in Dio, che l’ha risuscitato dai morti (to;n ejgeivranta
aujto;n ejk nekrw`n) e gli ha dato gloria (dovxan aujtw`/ dovnta) e così la vostra fede e la
vostra speranza sono fisse in Dio (ejlpivda ei\nai eij" qeovn)» (v. 21).
53
Su quest’argomento del latte spirituale, rimandiamo al recente articolo di K.H. JOBES,
Got Milk? Septuagint Psalm 33 and the Interpretation of 1 Peter 2:1-3, in Westminster
Theological Journal 63 (2002) 1-14.
16
altrimenti mai percorribile. Tutti i commentatori hanno riconosciuto che
«l’ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria» è una formula letteraria
unica, benché il dato sia ampiamente comune nella letteratura
neotestamentaria54. La speranza ha comunque un rilievo particolare, perché
si trova in una posizione climatica, cioè al termine di un crescendo.
Gli ultimi due testi che prendiamo in esame si trovano nella seconda
parte della lettera, che va da 2,11 a 4,11. Ci sono almeno due motivi che
supportano questa delimitazione: in primo luogo, l’aggettivo ajgaphtoiv che
ricorre in 2,11 e in 4,12, con il quale si apre la terza parte della lettera; poi,
vi è un’inclusione formata dal ripetersi della glorificazione rivolta a Dio in
2,12 e in 4,1155. Questa parte, dopo un’esortazione generica a comportarsi
bene (2,11-12), si sofferma in 2,13-3,7 su gruppi e su problemi particolari:
in 2,13-17 viene trattato il comportamento nei riguardi delle autorità civili;
in 2,18-25 il comportamento degli schiavi verso i padroni; in 3,1-7 della
condotta delle mogli nei confronti dei mariti e di come costoro devono
rapportarsi con le donne in casa56. Da 3,8 a 4,11 si ritorna a parlare di
indicazioni generali di retto comportamento, presentando come modello
Gesù Cristo.
La sezione che c’interessa è 3,1-7, che a primo acchito sembra un brano
sul rapporto uomo-donna in generale. In realtà, a leggere con attenzione il
testo, emerge un dato peculiare, ossia il fatto che l’autore si rivolge a quelle
donne sposate i cui mariti non sono credenti: «Ugualmente (ojmoivw") voi,
mogli, state sottomesse (uJpotassovmenai) ai vostri mariti perché, anche se
alcuni si rifiutano di credere alla parola (kai; ei[ tine" ajpeiqou`sin tw`/
54
Cf. SENIOR, 1Peter, Jude and 2Peter, 45; ACHTEMEIER, La Prima Lettera di Pietro,
245-246; ELLIOTT, 1Peter, 378-379; MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 79.
55
In 2,12 si legge: «i{na … doxavswsin to;n qeovn», e in 4,11: «i{na … doxavzhtai oJ
qeo;"».
56
Per una bibliografia d’orientamento, cf. D.L. BALCH, Let Wives Be Submissive: The
Domestic Code in 1 Peter, Chico (CA) 1981; G. H ERRICK, The Apostle Peter on Civil
Obedience, in www.bible.org; F. MANNS, La morale domestique de la Premiere lettre de
Pierre, in Les Enfants de Rébecca, 190-215; R. FRASCA, Educazione e formazione a Roma.
Storia, testi, immagini, Bari 1996, 133-169; Y. THÉBERT, Lo schiavo, in A. GIARDINA
(cur.), L’uomo romano, Roma-Bari 2003, 145-185 (con bibliografia); P. GARNSEY - R.
SALLER, Storia sociale dell’impero romano, Roma-Bari 2003, 153-180; J.S. JEFFERS, Il
mondo greco-romano all’epoca del Nuovo Testamento, Cinisello Balsamo (Milano) 2004,
306-331 (schiavi); 332-364 (famiglia). Questo brano è stato definito una Haustafel (codice
di comportamento familiare), come Ef 5,21-6,4 e Col 3,18-4,6. Sulla questione, cf.
MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 28-33; SCHELKLE, Le lettere di Pietro, 168-
172; E. BOSETTI, Codici familiari: storia della ricerca e prospettive, in Ricerca Biblica
Italiana 35 (1987) 129-179.
17
lovgw/`), vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole,
conquistati (kerdhqhvsontai) considerando la vostra condotta casta e
rispettosa» (3,1-2).
Alle donne, quindi, l’autore della lettera consiglia di mostrarsi
sottomesse ai mariti, com’era nella mentalità corrente dell’epoca57, in modo
da non creare problemi e frizioni inutili in famiglia e non dare del
cristianesimo un’immagine apertamente “sovversiva” dei costumi della
società. Piuttosto, con una condotta esemplare si può addirittura conseguire
un fine missionario, guadagnando alla fede il coniuge, come fa intendere il
verbo kerdaivnw58. La questione riguarda principalmente quelli che noi
considereremmo “matrimonia mistae religionis”, che sono stati subito
avvertiti come un problema, a cui fanno cenno in maniera più o meno aperta
anche 1Cor 7,12-16, Mc 10,29 e Lc 12,51-53.
La sottomissione non può valere in alcun modo, però, su quanto riguarda
la fede. A tale proposito è da rammentare quanto scrive Plutarco sulla
“libertà religiosa” della moglie: costei non solo non deve avere amici propri
che non siano quelli del marito, ma poiché gli dei sono i primi e più
significativi amici, deve adorare gli dei del marito e sbarrare la porta ai
superstiziosi e ai culti da loro portati59. Dunque, qualcosa di contrario alla
mentalità sua contemporanea l’autore la dice, se raccomanda alla donna di
non abbandonare la fede, ma anzi di “convertire” il marito.
Il brano prosegue con i consigli riguardanti gli ornamenti (3,3-4), di cui
abbellire non la persona esteriore, bensì quella interiore, cioè «la persona
animata da una fede che è visibile direttamente solo da Dio (cf. Mt
6,4.6.18), e che si rende visibile ad altri esseri umani mediante azioni
esterne»60. Al v. 5a sono presentati i modelli da seguire:
«Così una volta si ornavano le sante donne che speravano in Dio (aiJ a{giai gunai`ke"
aiJ ejlpivz ousai eij" qeovn)».
57
Cf. il lungo ed esauriente confronto con le testimonianze letterarie contemporanee in
ELLIOTT, 1Peter, 553ss.
58
Il senso “missionario” di questo verbo si riscontra anche in qualche altro luogo del
NT, come in 1Cor 9,19ss, mentre in Mt 18,15 indica il recuperare il fratello che sbaglia. Cf.
H. SCHLIER, kevrdo", kerdaivnw, in Grande Lessico del Nuovo Testamento V, 362; ELLIOTT,
1Peter, 558-559; SENIOR, 1Peter, Jude and 2Peter, 81; MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera
di Giuda, 117.
59
Cf. PLUTARCO, Coniugalia praecepta: Moralia 140D. Sulla condizione delle donne
nel mondo antico e in epoca romana, cf. A. OEPKE, gunhv, in Grande Lessico del Nuovo
Testamento II, 691-730; E. CANTERELLA, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a
Sulpicia, Milano 1996.
60
ACHTEMEIER, La Prima Lettera di Pietro, 366.
18
quello che ci aspettiamo: le matriarche sono sante in quanto fanno parte del
popolo che Dio si è scelto e sono modelli in rapporto al loro attaccamento
alla speranza, che corrisponde alla fede, condivisa con i loro consorti. In
realtà, la speranza e la fede delle matriarche non vengono mai messe in
rilievo nell’AT, ma in questo caso l’autore usa un tipo di ragionamento che
ricorda Eb 11, specialmente i vv. 11 e 13. Le donne cristiane, infine,
diventano “figlie” di Sara perché ne emulano il rispetto per il marito61.
5.4. 1Pt 3,8-22: pronti a rispondere a chi domandi ragione della speranza
A vv. 13-14a E chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?
E se anche doveste soffrire (pavscoite) per la giustizia, beati voi!
B v. 14b Non vi sgomentate per paura (fovbon) di loro, né vi turbate,
C v. 15 ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori,
pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione
della SPERANZA che è in voi.
B1 v. 16 Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto (fovbou),
con una retta coscienza, perché nel momento stesso
in cui si parla male di voi rimangano svergognati
quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo.
A1 v. 17 È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire (pavscein)
operando il bene che facendo il male.
61
Sulla figura di Sara nella letteratura tannaitica, cf. F. MANNS, Une approche juive du
Nouveau Testament, Paris 1998, 283-291.
62
Cf. 1,24; 2,3; 2,9-10.
63
Cf. W.J. DALTON, Christ’s Proclamation to the Spirits: A Study of 1 Peter 3:18-4:6,
Rome 21965. W. GRUDEM, Christ Preaching Through Noah: 1Peter 3:19-20 In The Light
Of Dominant Themes In Jewish Literature, in Trinity Journal 7 (1986) 2, 3-31; J.S.
FEINBERG, 1Peter 3:18-20, Ancient Mythology, and the Intermediate State, in Westminster
Theological Journal 48 (1986) 2, 303-336; D.G. H ORRELL, Who Are “The Dead” and
When Was the Gospel Preached to Them?: The Interpretation of 1 Pet 4:6, in New
Testament Studies 49 (2003) 1, 70-89.
19
La sofferenza è tra i temi più importanti, al punto che l’autore della
lettera esorta i cristiani non solo a sopportarla, bensì a ritenersi beati per
averla patita. Non si tratta, però, della sofferenza genericamente intesa64, ma
di quella che proviene dalla testimonianza della fede, dalla rettitudine della
vita, che nel linguaggio della 1Pt corrisponde alla giustizia, alla dikaiosuvnh.
Tale esortazione è molto netta nei vv. 13-14a e 17. Nel v. 14a si trova
addirittura un macarismo, con il quale si dichiara beato colui che soffre per
la giustizia65. Senz’alcuna paura (v. 14b: «to;n de; fovbon aujtw'n mh;
fobhqh'te mhde; taracqh'te»), ma senza mancare di dolcezza e rispetto (v.
16: «ajlla; meta; prau?thto" kai; fovbou») verso chiunque, è necessario
che i cristiani svolgano il proprio compito d’illuminare con le loro opere il
mondo, affinché siano riscontrate non credibili le accuse e le dicerie contro
di loro: sarà il loro stesso retto agire (ajgaqopoiou`nta"), sostenuto da una
retta coscienza (suneivdhsin … ajgaqhvn), a parlare a loro favore.
C’è da chiedersi perché tanta insistenza sulla sofferenza, che
sembrerebbe soltanto supposta se si nota che nel v. 14a si trova l’ottativo
pavscoite. Stando a quanto si legge nel v. 16, sembra di poter arguire che
l’autore pensi a un contesto generico di sospetto verso i cristiani, dovuto
naturalmente all’ignoranza della gente circa il loro tipo di culto. In tale
clima, poteva scoppiare da un momento all’altro una persecuzione o, forse,
l’autore era già a conoscenza di qualche persecuzione in atto66. L’aspetto più
importante, però, è l’adesione dei cristiani al modello, cioè a Gesù Cristo, il
quale ha sofferto, pur essendo giusto, a favore degli ingiusti (cf. 1Pt 3,18).
Dunque, l’appello rivolto ai cristiani è di non aver alcuna paura né
turbarsi, bensì di “santificare” (o di adorare, come si traduce in varie
versioni) il Signore Cristo nei propri cuori (cf. 3,14b-15a). A tal proposito,
non si può che notare un fenomeno importante d’intertestualità: ci riferiamo
al ben noto uso della citazione di Is 8,12b-13 (LXX), rilevato da tutti i
64
Il verbo pavscw ricorre 42 volte nel NT, di cui 12 nella 1Pt, che risulta essere il testo
con più ricorrenze del termine in assoluto.
65
Cf. 1Pt 4,14. Il richiamo più spontaneo è a Mt 5,10, ma c’è anche 1Enoc 58,2: «Beati
voi giusti ed eletti, perché gloriosa sarà la vostra fine». Su questo versetto, cf. E. BOSETTI,
«Beati voi, se soffrite per la giustizia», in Parola Spirito e Vita 34 (1996) 223-238.
L’autore della lettera è convinto del valore educativo della sofferenza: cf. in merito A.
REICHERT, Eine urchristliche praeparatio ad martyrium: Studien zur Komposition,
Traditionsgeschichte und Theologie des 1. Petrusbriefes, Frankfurt 1989; C.H. TALBERT,
The Educational Value of Suffering in 1 Peter, in Learning Through Suffering: The
Educational Value of Suffering in the New Testament and in its Milieu, Collegeville 1991.
66
Cf. A CHTEMEIER, La Prima Lettera di Pietro, 392; SENIOR, 1Peter, Jude and 2Peter,
94; MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, 124.
20
commentatori67. Per parlarne, seppur brevemente, riteniamo utile presentare
uno specchietto sinottico:
67
Cf., ad esempio, ACHTEMEIER, La Prima Lettera di Pietro, 394; SENIOR, 1Peter, Jude
and 2Peter, 94; ELLIOTT, 1Peter, 624-625; MAZZEO, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda,
124.
68
Cf. B.S. CHILDS, Isaia, Brescia 2005, 87-88.
69
Per approfondimenti, cf. F.J. VAN RENSBURG & S. MOYISE, Isaiah in 1 Peter 3:13-17.
Applying Intertestuality to the Study of the Old Testament in the New, in Scriptura 80
(2002) 275-286.
70
Dal punto di vista grammaticale, l’espressione kuvrion de; to;n Cristo;n viene
interpretata da alcuni come predicativa (il Cristo quale Signore) o come appositiva (il
Cristo, ossia il Signore). Benché nel secondo caso ci si sarebbe attesi davanti a entrambi i
termini la presenza o meno dell’articolo, e non davanti a uno di essi soltanto, il senso della
frase è sostanzialmente lo stesso.
21
Se il riconoscimento della santità di Cristo avviene nell’intimo della
persona, è pur vero che la testimonianza dev’essere resa alla luce del sole,
perciò occorre essere sempre pronti (e{toimoi ajei;) a spiegare le ragioni
della propria speranza. Quest’ultima parte del v. 15 non può essere
trascurata, anche per il particolare linguaggio adoperato. In primo luogo, c’è
il vocabolo ajpologiva, usato in senso giudiziario in At 22,1, 25,16, Fil
1,7.16, 2Tm 4,1671, ma che nel nostro caso, pur senza escludere eventuali
procedimenti giudiziari, sembra riferirsi a situazioni di carattere privato, a
rapporti informali, per cui l’autore invita a non essere superficiali, bensì a
rispondere a tutti (panti;) in maniera adeguata, come se si fosse in tribunale.
La serietà nel rendere conto agli altri del proprio agire è rafforzata dal
participio tw/' aijtou'nti, perché si può facilmente immaginare che il
comportamento dei cristiani generasse interrogativi tra la gente.
L’oggetto di questo lovgo" posto da chi interroga riguarda la speranza che
è nei credenti (peri; th'" ejn uJmi'n ejlpivdo"), laddove essa rappresenta
l’elemento peculiare e la sintesi dell’esperienza cristiana della fede. Nel
momento in cui la speranza diventa oggetto di lovgo", vuol dire che la fede
stessa si apre a una testimonianza che è anche di carattere culturale. In altre
parole, l’autore intende additare ai suoi destinatari che la chiusura,
l’isolamento culturale, non giovano alla testimonianza e alla missione e
fanno aumentare il sospetto verso i cristiani. Piuttosto, occorre fare della
fede occasione di dibattito, affinché essa possa attirare coloro che, essendo
senza speranza (cf. 1Ts 4,13 ed Ef 2,12), trovano singolare che i cristiani
vivano proprio in virtù di essa.
6. Conclusione
71
Le altre ricorrenze sono 1Cor 9,3, 2Cor 7,11, in cui l’uso riguarda dispute di carattere
privato. Similmente il verbo ajpologevomai, che in senso giudiziario è impiegato in Lc 12,11
e 21,14, At 19,33, 24,10, 25,8 e 26,1.2.24, mentre in Rm 2,15 e 2Cor 12,19 per le questioni
private.
22
6.1. Testimoni saldi e coscienti della speranza
72
Questa notizia si legge in 1Pt 1,1. La Bitinia e il Ponto si affacciano sul Mar Nero, la
Galazia corrisponde alla pianura dell’Anatolia centrale, la Cappadocia era a nord del Tauro
e, infine, l’Asia s’identificava con il precedente regno di Pergamo.
73
Bisogna anche dire che le persecuzioni contro i cristiani furono periodiche, localizzate
e spesso dovute al fatto che erano avvertiti come oppositori del culto imperiale e soggiogati
da una fanatica superstitio. In genere, però, l’atteggiamento romano verso le religioni non
romane era improntato a una sostanziale tolleranza. Cf. ACHTEMEIER, La Prima Lettera di
Pietro, 77-96; G. FILORAMO, Il confronto col mondo pagano, in G. FILORAMO -
D. MENOZZI (curr.), Storia del cristianesimo. 1. L’antichità, Roma-Bari 1997, 153-180.
23
quanto cambia il rapporto con Dio, con il Figlio Gesù Cristo e con il
prossimo. Egli si sente coinvolto nel dinamismo della redenzione aderendo
a Cristo attraverso la fede e scoprendo che per lui esiste un orizzonte di
felicità insospettabile, quale è la vita eterna e la salvezza che Dio, nella sua
misericordia, ha voluto donarci. Non bisogna trascurare, però, l’effetto del
cambiamento esistenziale, che si traduce nel vivere con amore in questo
mondo. È proprio l’amore a suscitare curiosità e a far interrogare sulla
bellezza, o sulla stranezza, dell’essere cristiano coloro che sono senza
speranza. Infatti, la misura dell’amore richiesta al cristiano “può”
raggiungere l’imitatio Dei, che nella lettera è definita santità. La santità si
vive sulla terra, spendendo la “caparra” dello Spirito Santo e sperimentando
un anticipo dei beni della salvezza, perciò i credenti sono autorizzati a
guardare già verso il magnifico futuro che ci attende.
Se da una testimonianza coerente e vivace nasce l’interrogativo sulla
speranza, la diretta conseguenza non può che essere un serio impegno
culturale, che diventi efficace nel rendere ragionevoli e accessibili a tutti i
motivi di tanta speranza. L’autore della 1Pt vuol far capire ai cristiani della
sua epoca quanto sia pericoloso chiudersi in conventicole autoreferenziali,
nelle quali tutto è bello quando ci si trova insieme, mentre il mondo di fuori
è brutto e pieno di nemici. Nel passato è stata questa la forza che ha
permesso al cristianesimo di vincere nel pur competitivo orizzonte delle
religioni del mondo ellenistico-romano.
24
il cristiano non deve dimenticare la speranza escatologica, ma sapere di
essere “sentinella” dei nuovi cieli e della terra nuova.
Tale sentinella sa bene che deve cominciare a vivere in questo mondo
secondo quei valori e secondo quell’amore che appartengono all’altro, a
quello che si attende: ciò è quanto l’autore di 1Pt chiama “santità”, la
rigenerazione esistenziale che impegna a corrispondere alla chiamata di Dio
per diventare com’è lui (cf. Lv 19,2; 1Pt 1,16). È la dimensione etico-sociale
a essere pure necessaria nella testimonianza: come si è testimoni della
speranza del Risorto quando, ad esempio, la dignità umana viene calpestata,
la vita non è protetta, specialmente nelle sue fasi più critiche dell’inizio e
della fine, l’economia amplia le disparità a livello sociale e mondiale?
L’impegno del cristiano lo porta a non essere mai soddisfatto dei pur
importanti traguardi conseguiti, perché guardandosi attorno nota che ancora
tanti non sono partecipi della benedizione delle ricchezze della terra che Dio
ha elargito.
Il cristiano, però, oggi più che mai, non può accontentarsi di agire e di
fare il buon samaritano del mondo, ma anche di gettare nella cultura i germi
del Vangelo. Abbiamo già notato che l’autore di 1Pt sottolinea l’essenzialità
del rendere ragione della speranza. Questo implica la dimensione socio-
culturale, perché se la speranza diventa cultura, allora si apriranno scenari
nuovi per l’umanità, potrebbe vedere avvicinarsi il giorno in cui finalmente
non ci sarà più oppressione dell’uomo sull’altro uomo e si vivrà nella pace.
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