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Riuscire a non confondere consulenti attivi nel public affairs con criminali e faccendieri,
rappresenta un prerequisito per un sistema democratico in salute. In tal senso, le
vicende giudiziarie legate al Qatargate potrebbero rappresentare uno spartiacque per
concretizzare una legislazione realmente compiuta
26 Gennaio 2023 alle 11:10
Le indagini sono ancora in corso ed è giusto che i processi li facciano magistrati capaci e
non i media. Una cosa però possiamo già dirla: il Qatargate ha scoperto l’acqua calda.
Dov’è la novità in questo presunto caso di corruzione? Da nessuna parte. Parliamo di un
reato che esiste dall’alba dei tempi, a Bruxelles come a Strasburgo, a Parigi come a
Roma, a Doha come a Chicago. Questo non significa che non sia grave, ma è una piaga
che tutti abbiamo imparato a conoscere a nostre spese.
Un morbo che, in una certa percentuale, investe anche la politica, ça va sans dire. Al
contrario, una riflessione forse più urgente andrebbe sviscerata sull’attività di lobbying in
Italia e in Europa. Per farla occorre partire da un presupposto: i lobbisti sono una
componente fondamentale dei sistemi democratici. Chi afferma il contrario
probabilmente ignora l’attività svolta dagli specialisti delle relazioni istituzionali e
potrebbe non aver mai visto un lobbista all’opera. Rappresentare seriamente gli interessi
delle imprese, dei volontari, delle più eterogenee categorie della società civile di fronte ai
decisori, offrendo a questi ultimi il quadro completo e dettagliato su singole istanze, è
una attività non solo legittima ma anche fortemente auspicabile. I lobbisti seri fanno
questo e lo fanno alla luce del sole. I consulenti specializzati nel public affairs
dispongono di strumenti divulgativi, comunicativi, relazionali e di monitoraggio legislativo
che spesso cittadini, imprese ed altre categorie non possiedono o comunque non con
quegli standard di qualità richiesti per influenzare realmente processi complessi.
In Italia, la diffusa percezione fuorviante delle relazioni Istituzionali è riconducibile non
solo a una parziale mancanza di lucidità cronistica e di qualità analitica che investe
alcuni canali di informazione, ma anche e soprattutto alla mancata regolamentazione dei
gruppi di pressione. Su questo il legislatore ha responsabilità incontrovertibili.
I gruppi di interesse hanno tutt’altro che un’origine recente. Il concetto di lobby deriva dal
mondo anglosassone, termine che indicava l’anticamera della House of Commons in cui
era possibile incontrare i rappresentanti dei cittadini prima o dopo le divisions (votazioni).
I capostipiti della regolamentazione in tal senso sono gli Stati Uniti, universalmente
riconosciuti patria delle lobbies. Come magistralmente illustrato nella Rivista di Scienze
Giuridiche dell'Università di Urbino dai Prof. Polidori e Sestili, a cui si rimanda per
ulteriori approfondimenti, la cultura nazionale sui gruppi di interesse americani è di
origine costituzionale e si fa risalire al Primo Emendamento del 1791 che, con
un’intelaiatura nei fatti chiaramente liberale, garantiva ai cittadini e ai gruppi organizzati il
Riuscire a non confondere consulenti attivi nel public affairs con criminali e faccendieri
rappresenta un prerequisito per un sistema democratico in salute. In tal senso, le
vicende giudiziarie riguardanti Panzeri, Kaili, Giorgi e tutti gli indagati dell’inchiesta
“Qatargate”, se ben interpretate, potrebbero rappresentare uno spartiacque
fondamentale per concretizzare una legislazione realmente compiuta e realizzare quel
cambio di paradigma culturale su cui, rispetto ad altre grandi democrazie, registriamo
tuttora un grave ritardo.